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Ansia Scolastica: sintomatologia, manifestazioni e trattamento

L’ ansia scolastica nasce dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati e ridicolizzati. Essa racchiude la paura dell’insuccesso, del giudizio negativo, il timore di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

 

 

Agire sull’ Ansia Scolastica è possibile. Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva a Genova propone un percorso di intervento psicoterapeutico per i disturbi d’ansia in età evolutiva ed adolescenza partendo dal modello cognitivo dell’ansia, in cui il disagio emotivo che accompagna l’ansia, dipende dal contenuto dei pensieri negativi e catastrofici sulle sensazioni fisiche, a cui i bambini reagiscono con strategie e condotte disfunzionali, più avanti verranno descritte le principali tecniche cognitivo-comportamentali utilizzate per il trattamento dei disturbi d’ansia presso il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva a Genova.

 

Che cos’è l’ ansia scolastica: una breve introduzione

Molti bambini e adolescenti giungono in terapia perché hanno la paura o l’ansia di andare a scuola, questo fenomeno riguarda un numero sempre maggiore di bambini e ragazzi in età scolare e raggiunge dei picchi in alcuni momenti cruciali del percorso scolastico:
– Tra i 5 e i 7 anni, all’inizio della scuola primaria.
– Tra i 10 e gli 11 anni con l’inizio della scuola secondaria di I°grado.
– Tra i 13 e i 14 anni con l’inizio della scuola secondaria di II° grado.

L’ ansia scolastica nasce dal normale desiderio di essere amati e ammirati e dalla paura di essere rifiutati e ridicolizzati. Essa racchiude la paura dell’insuccesso, del giudizio negativo, il timore di non essere capaci di superare la prova che si deve affrontare.

Parlando di disturbi d’ansia in età evolutiva, è necessario fare una premessa, i bambini hanno molte paure fisiologiche che sono “normali”, ne cito alcuni:
– L’ansia da separazione;
– La paura del buio;
– La paura degli animali;
– L’ansia da prestazione.

La paura si differenzia dall’ansia e dalle fobie sulla base dell’obiettività: se c’è un motivo condiviso per avere timore (esempio una macchina che sta sbandando o un animale pericoloso che attacca) siamo nel dominio della paura, invece se la condivisione non c’è, stiamo parlando di ansia o di fobia.
Nei bambini però questa distinzione diventa problematica in quanto il loro livello di sviluppo cognitivo non permette di differenziare facilmente il reale dall’immaginario.

La distinzione tra ansia patologica e paura “normale” dell’infanzia si deve basare sui criteri di intensità, frequenza e durata (Lambruschi 2004): quando la reazione d’ansia del bambino è molto intensa, appare frequentemente e dura a lungo, possiamo parlare di ansia patologica.

Il DSM 5 descrive i disturbi d’ansia in una categoria specifica e lungo il continuum del ciclo di vita: le medesime categorie sono riferite all’infanzia, all’adolescenza, e all’età adulta. I disturbi d’ansia rappresentano la patologia psichiatrica più comune in età evolutiva (Merikangas et al., 2010; Kessler, Avenevoli, Costello 2012) e si stima che un terzo degli adolescenti soddisferà i criteri per un disturbo d’ansia all’età di 18 anni (Merikangas et al. 2010). Molte ricerche dimostrano che i disturbi d’ansia nell’infanzia sono associati a disturbi d’ansia nell’età adulta, disturbi depressivi e uso di sostanze psicoattive (Langley, BerGman, McCracken & Piacentini 2004).

 

Come si manifesta l’ ansia scolastica?

Come nell’adulto l’ansia è associata a manifestazioni somatiche, i segnali più diffusi sono:
– Mal di testa;
– Pianti, tremori, mente offuscata;
– Male allo stomaco o tensione muscolare, che spesso portano i bambini a chiedere di non andare a scuola o di uscire prima;
– Difficoltà ad addormentarsi, in questo caso a volte il lettone di mamma e papà è spesso la soluzione a cui si ricorre per trovare la serenità e potersi addormentare tranquilli;
– Talvolta vomito e febbre;
– Crisi di panico prima di varcare l’ingresso della classe, ma a volte si manifesta già a casa prima di partire per andare a scuola.

Spesso vengono considerati capricci, una sorta di ribellione, ma in realtà possono nascondere un disagio più profondo che colpisce bambini e ragazzi, dalle prime classi fino al liceo.
Le cause principali dell’ ansia scolastica sono:
– L’ansia da separazione nei più piccoli
– Paura di episodi di bullismo
– Timore del’insegnante
– Timore di avere brutti voti
– Timore di non essere all’altezza delle aspettative dei genitori.

L’ ansia scolastica, a volte una vera e propria angoscia caratterizzata da un forte senso di preoccupazione, aspettativa del peggio, apprensione, si manifesta anche in situazioni di per sé aspecifiche e neutrali.
Il bambino ha come la sensazione che qualcosa di terribile stia per accadere, sia essa una disgrazia o una malattia, che possa colpire lui o le persone a lui più care (quasi sempre i genitori). Il bambino ha difficoltà a descrivere ciò che realmente pensa o prova e per questo avverte sempre più angoscia andando così a creare un circolo vizioso dell’ansia (Fig.1) che in alcuni casi può portare anche ad una sofferenza intensa.

Il circolo vizioso dell’ansia

ciclo-ansia

Fig. 1 “Il Circolo vizioso dell’ansia”.

Il bambino si sente perciò irritabile, insicuro, sempre alla ricerca di rassicurazioni, di gratificazioni oppure proverà a gestire questa sua angoscia tendendo alla perfezione in ogni cosa che fa o ad evitare situazioni o luoghi. L’elemento attivante è la paura dell’evento che porta con sé pensieri negativi quali la paura del Giudizio, la paura di deludere gli altri, il timore di essere ridicolizzato in classe ecc…

Agendo su questi pensieri negativi e riducendoli, si interrompe il circolo dell’ansia.
Ad esempio,una prestazione imperfetta non solo allontana dall’obiettivo che si voleva raggiungere ma espone alla critica, alla svalutazione e alla eccessiva preoccupazione per le conseguenze di quell’evento e quindi aumento dell’ansia.

Le preoccupazioni non sono altro che pensieri riguardanti il possibile verificarsi di eventi futuri negativi. Solitamente si manifestano sotto forma di domande che iniziano con la formula “E se…”.

Ecco di seguito alcuni esempi:
– E se il compito di Italiano andasse male? Potrei non riuscire mai a imparare queste cose. Tutti i miei amici si prenderanno gioco di me. Potrei non voler più andare a scuola. Se non andrò più a scuola sarò bocciato. Dovrò ripetere l’anno. Non avrò più i miei compagni di classe, dovrei trovare nuovi amici. E se nella nuova classe non mi accettassero? Sarò un fallimento!
– E se sbagliassi un esercizio? Il professore potrebbe dirmi che ho fatto un cattivo lavoro. E se lo dicesse davanti a tutta a classe? Gli altri riderebbero di me

Come si manifesta l’ ansia scolastica a scuola?

  • Eccessiva preoccupazione e ansia per le verifiche.
  • Abbassamento del rendimento scolastico.
  • Perdita di interesse verso materie che prima piacevano.
  • Ripetuta ricerca di approvazione dell’insegnante.
  • Difficoltà a parlare di fronte alla classe.
  • Difficoltà a entrare in classe la mattina.
  • Ritardi nell’ingresso a scuola.
  • Bassa autostima.
  • Difficoltà di concentrazione a causa di preoccupazioni persistenti.
  • Irritabilità.
  • A volte aggressivo verso i suoi compagni di classe.
  • Intolleranza alla frustrazione.
  • Tendenza a evitare le difficoltà.
  • Difficoltà a terminare i compiti assegnati.

Come si manifesta l’ ansia scolastica a casa?

  • Preoccupazioni riguardanti le prestazioni scolastiche.
  • Preoccupazioni riguardo la puntualità.
  • Perfezionismo e paura di sbagliare.
  • Impiegare troppo tempo nel fare i compiti.
  • Mancanza di fiducia in se stessi.
  • Continue richieste di approvazione.
  • Richieste di rassicurazione.
  • Presenza di sintomi fisici come mal di testa, mal di stomaco, stanchezza e dolori muscolari.
  • Disturbi del sonno.
  • Riferita sensazione d’ irrequietezza.
  • Irritabilità
  • Paura delle critiche e dei giudizi negativi riguardo le loro capacità.

 

Il trattamento dell’ansia

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova propone la terapia cognitivo-comportamentale come trattamento d’elezione per i disturbi d’ansia in età evolutiva.

Durante la terapia è di fondamentale importanza il supporto e la collaborazione attiva dei genitori, ovviamente il grado di coinvolgimento dei genitori varia in base all’età del bambino o dei ragazzi.

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova utilizza con i bambini, strumenti terapeutici che una volta appresi e utilizzati con regolarità, favoriscono il superamento del disturbo/disagio ed evitano che si ripresenti in futuro.

L’idea di base sulla quale il Centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova si avvale è che il lavoro con i bambini o ragazzi, non consiste unicamente nell’eliminare i loro pensieri irrazionali, ma anche nel rafforzare le credenze razionali, che difficilmente nascono in maniera spontanea specialmente nel caso di bambini, che sono inseriti in un sistema in cui altri adulti significativi, con i loro pensieri disfunzionali, hanno molta influenza.

Le principali tecniche utilizzate dai professionisti che operano nel centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova, sono:

La Psicoeducazione, con l’obiettivo di aumentare il vocabolario emotivo del bambino, condividendo con il paziente un numero più ampio di termini per definire le emozioni e introducendo il concetto di intensità e durata di un’ emozione. Prerogativa fondamentale della terapia è imparare a saper riconoscere le emozioni e poi riprodurle. L’intensità dell’emozione può essere misurata attraverso uno strumento chiamato “Il Termometro delle Emozioni” (Lambruschi 2004; Di Pietro, Dacomo 2007, Fig.1), in cui viene chiesto al bambini di raccontare qualche episodio in cui ha sperimentato emozioni con diversa intensità e insieme decidono dove posizionarle nel termometro.

il termometro delle emozioni

Altro strumento utilizzato è il “Fiore delle Emozioni di Plutchik” (Fig.2) in cui è ben visibile come emozioni diverse facciano parte della stessa categoria, al bambino viene così mostrato come le emozioni che prova si possono collocare lungo un continuum coerente in cui ad esempio , il fastidio fa parte della stessa famiglia della rabbia e la preoccupazione di quella della paura. Il fiore di Plutchik, utilizzato assieme al termometro delle emozioni, permette al terapeuta di rendere evidente al bambino come un’emozione che vive come intensa molte volte non compare dal nulla, ma sia preceduta da altri stati emotivi “consoni”. Questo passaggio è cruciale per la terapia in quanto, spesso il bambino, o la famiglia, fa riferimento a una grande rabbia o a una forte ansia, come se questa fosse comparsa dal nulla.

il fiore di pluthcik

Fig.1 “Il Termometro delle Emozioni” Fig.2 “Il Fiore delle Emozioni di Plutchik”

L’individuazione e la modificazione dei pensieri disfunzionali attraverso il modello ABC (Fig.3).
Ai bambini o ai ragazzi viene insegnato a individuare i pensieri disfunzionali legati agli eventi temuti. Successivamente si insegnerà a valutare le situazioni con maggiore oggettività, in modo da poterle affrontare con pensieri più funzionali e realistici. Al paziente viene spiegato che, così come per le malattie fisiche ci sono i virus che causano i vari sintomi, si può pensare che ci siano alcuni “virus mentali” che causano emozioni o comportamenti inadeguati. Non sono le emozioni negative il problema, ma l’intensità delle stesse, e che queste estremizzazioni sono causate dai pensieri disfunzionali. (Di Pietro, Dacomo, 2007).

Modello-ABC

Fig. 3 “Il modello ABC”

L’esposizione. Questa tecnica consiste nel provare gradualmente ad affrontare le situazioni temute. L’esposizione alle situazioni temute permetterà al bambino o all’adolescente di verificare che queste non comportano un reale pericolo, imparando inoltre che è possibile gestire l’ansia.

Il rinforzo. Ogni comportamento avuto dal bambino, a casa, a scuola o in terapia e che si avvicina all’obiettivo prefissato, verrà premiato al fine di renderne più probabile la ricompensa.

Il modellamento. Si basa sull’utilizzo dell’adulto come modello funzionale di comportamento nell’affrontare le situazioni temute.

Le tecniche di rilassamento e di Mindfulness. Queste tecniche vengono utilizzate per ridurre lo stress del bambino e di conseguenza per abbassare i suoi livelli di ansia. Secondo le preferenze e le caratteristiche dei singoli bambini o adolescenti, possono essere utilizzate diverse tecniche di rilassamento tra cui il rilassamento progressivo muscolare, la respirazione diaframmatica, la tecnica del respiro lento, e il rilassamento per immagini.

La costruzione della resilienza. Viene insegnato ai bambini e ai ragazzi che, pur non potendo controllare gli eventi, è possibile modificare l’impatto che essi hanno su di loro. L’utilizzo delle tecniche apprese durante la terapia permetterà di affrontare i momenti di difficoltà, superarli e di trarre degli insegnamenti utili per il futuro.

Il parent training. Il coinvolgimento dei genitori durante la terapia è di fondamentale importanza. Il terapeuta insegnerà loro come rispondere alle richieste e ai comportamenti dei bambini o dei ragazzi, in modo da non rinforzare le loro paure e di conseguenza il loro disturbo.

Empowerment nello sport e disabilità: come favorire lo sviluppo e la crescita personale

In uno studio di ricerca di Pensgaard e Sorensen si esaminano alcuni aspetti dello sport, nell’ottica di potenziamento del contesto per chi partecipa, con una speciale enfasi sugli atleti con disabilità. Vi è una tendenza nel mondo occidentale a promuovere l’integrazione delle persone con disabilità fisica, anche nello sport. Lo sport, dunque, è stato considerato un insegnamento di valori positivi, come la costruzione di un carattere e di un fisico più forte e più maturo.

Federica Liso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Il concetto di empowerment

Chiamano disabili, atleti che fanno i 50 all’ora in bici, i 100 metri in 11”, saltano in alto 2 metri, corrono la maratona da non vedenti in 2h35’, lascio a voi valutare chi è il disabile nella vita comune.” Fabrizio Tacchino (Allenatore)

Tra le parole straniere ormai di uso corrente, “empowerment” è una delle poche a non avere ancora un preciso corrispettivo nella lingua italiana. Il termine deriva dal verbo inglese “to empower” che in italiano viene comunemente tradotto con “conferire poteri”, “mettere in grado di”. Letteralmente questo termine significa “potenziamento”, “responsabilizzazione”, “aumentare il proprio potere interno”, anche se empowerment è un concetto talmente complesso di cui è difficile dare una definizione unica ed esaustiva, perché, più che una categoria chiusa, esso è una costellazione di elementi collegati tra loro. Anche se la definizione è ancora un po’ troppo vaga, il termine trova una sua specificazione se applicato in alcuni degli ambiti in cui, sin dagli anni Sessanta, il concetto di empowerment è presente, come la politica, la psicologia, la medicina, l’organizzazione aziendale, la formazione.

Per l’essere umano, avere potere su se stesso, sentirsi ed essere efficace, avere la consapevolezza di poter incidere sugli eventi, godere di una buona autostima, considerare gli insuccessi come momento di apprendimento, sono parte di una condizione psicologica ben specifica. Tale condizione, però, non è data una volta per tutte, ma rappresenta un cammino che favorisce la speranza nel futuro e che permette di percepirsi come persone capaci di cimentarsi e riuscirci. E’ una persona capace di affrontare la vita e le sue sfide, capace di attraversare successi e insuccessi mantenendo saldo il potere su se stesso e arricchendo quotidianamente il suo “potere con l’altro”.

Un’ottica basata sull’empowerment prevede interventi di sostegno e di proposta di nuove opportunità sociali, secondo tre direzioni:
– generare alternative in modo immediato;
– far conoscere come e dove avere accesso alle risorse;
– incrementare l’autostima e la motivazione.

Un filone importante di studi è stato sviluppato nell’area della psicologia della comunità, ben rappresentata dalle ricerche di Zimmermann, che definisce il concetto di empowerment come il passaggio, per un individuo, dalla condizione di “learned helplessness” (impotenza appresa) a quella di “learned hopefulness” (percezione appresa di essere capaci), acquisito mediante la partecipazione attiva all’interno della comunità in cui è inserito.

Si evidenziano due principali differenti prospettive: una psico – sociologica ed una socio – organizzativa. Nel primo approccio, il principio guida è che, per produrre empowerment organizzativo, è necessario operare contestualmente sulle dimensioni individuali ed organizzative, dove le persone dipendenti e senza “potere” nell’organizzazione, possano sviluppare contemporaneamente un sentimento del proprio valore ed un maggior controllo sulla situazione lavorativa. Il secondo approccio (socio – organizzativo), considera due livelli, uno micro – organizzativo e uno macro – organizzativo, rilevando la determinante funzione ed interazione tra valori ed etica che concorrono a formare e rendere visibile la cultura di un’organizzazione.

L’empowerment nello sport e la disabilità

L’empowerment è visto, dunque, come un processo progressivo di adattamento, che non implica necessariamente una situazione iniziale di disagio o svantaggio. In altri termini, l’empowerment aumenta la qualità organizzativa nella misura in cui aumenta l’interazione sociale, intesa come il processo di apprendimento e di negoziazione di significati che intercorre tra gli attori sociali, tramite le loro reciproche azioni.

In particolare, il Comitato Paralimpico Internazionale dello Sport, ha definito l’empowerment come un tema di ricerca prioritario all’interno del settore della disabilità sportiva: “il processo attraverso il quale gli individui sviluppano le competenze e le capacità di ottenere il controllo sulla propria vita e di intervenire per migliorare la loro situazione di vita”.

In uno studio di ricerca di Pensgaard e Sorensen si esaminano alcuni aspetti dello sport, nell’ottica di potenziamento del contesto per chi partecipa, con una speciale enfasi sugli atleti con disabilità. Vi è una tendenza nel mondo occidentale a promuovere l’integrazione delle persone con disabilità fisica, anche nello sport. Lo sport, dunque, è stato considerato un insegnamento di valori positivi, come la costruzione di un carattere e di un fisico più forte e più maturo. D’altra parte, lo sport è stato, anche, criticato per essere troppo concentrato sul miglioramento delle prestazioni e di essere indifferente, sia al ruolo dello sport come cultura pratica, fisica e psicosociale, sia alle conseguenze degli atleti con disabilità. La questione è definire quali aspetti siano positivi o negativi e quali siano in grado di influenzare l’esperienza sportiva per le persone con disabilità fisica o psicologica.

Il disabile convive con pesanti modificazioni della propriocezione, della esterocezione, delle sensazioni relative al dolore/piacere; alcuni piaceri gli sono preclusi, alcuni dolori diventano abituali o comunque più frequenti della norma e alcune sensazioni muscolari sono assenti dalla nascita o sono improvvisamente sparite. Il quadro affettivo legato alla propria immagine psichica risente sia dei connotati negativi risultanti dalla propria figura riflessa nello specchio, che del giudizio degli altri. Nell’affrontare un contesto sociale c’è dunque una inibizione determinata dalla coscienza di disporre di un corpo imperfetto. Queste sono le premesse fondamentali dinnanzi alle quali si trovano sia il disabile che vuole intraprendere l’attività sportiva, sia il tecnico che insieme a lui deve affrontare un percorso complesso e a volte difficile.

Si fonda tutto sull’integrazione di questi atleti e come ciò potrebbe modificare il proprio livello di empowerment. Si tratta, dunque, di capire se gli atleti con disabilità perdono il loro “potere” oppure riescono, attraverso l’integrazione, a diventare atleti qualificati. Un aspetto importante consiste nel saper fronteggiare sia gli aspetti tecnici della disciplina, sia le dinamiche che si sviluppano nella relazione.

In base a quanto espresso finora si può comprendere come il disabile rappresenti una sfida ancor più ardua per il tecnico che si trova a lavorare con lui. Infatti, nel caso della disabilità fisica si assiste ad una compromissione del piano corporeo/motorio e, conseguentemente, di quello emotivo, invece nel caso della disabilità mentale la compromissione investe anche il piano cognitivo. Ciò comporta una grande difficoltà, a seconda del grado di disabilità, rispetto alla capacità di percepire e pensare di se stessi e degli altri; elaborare i propri ed altrui stati emotivi; saper contenere i propri stati emotivi; comunicare con il mondo esterno; essere attenti; saper apprendere e memorizzare; essere motivati.

Per un disabile la pratica regolare dell’attività sportiva riveste i seguenti vantaggi:
– rispetto ad un piano cognitivo migliora la conoscenza del proprio corpo, dello spazio, del tempo e della velocità;
– rispetto ad un piano fisico, incrementa la forza muscolare, la capacità di equilibrio, la cinestesia e la coordinazione motoria, grazie alle ripetizioni consapevoli e finalizzate degli atti motori;
– rispetto ad un piano sportivo, acquisisce le conoscenze tecniche delle varie discipline sportive.

La pratica sportiva produce uno stato di soddisfazione generale, favorisce la disciplina e l’allenamento che, di conseguenza, portano al contenimento degli stati emotivi incrementando la capacità di autocontrollo, in modo da avere la possibilità di aumentare la propria autonomia.

Nella metodologia d’insegnamento proposta, il tecnico deve tener conto delle tappe dello sviluppo psicofisico dell’allievo, in quanto la sua capacità di ricezione ed assimilazione di contenuti e proposte pratiche è strettamente correlata alla sua maturazione psicofisica. Secondo il principio dell’individualizzazione, si considerano le differenze individuali nei ritmi cinetici, nell’efficienza e nell’efficacia causate dal deficit motorio. Il tecnico deve saper apprendere e riconoscere questi diversi aspetti, poiché in base a questi sarà possibile una buona programmazione didattica. La funzione socio – educativa dell’attività motoria aiuta l’individuo a sviluppare al massimo le sue potenzialità, evidenziando ciò che egli è già in grado di fare.

L’individuo disabile, dunque, prima conoscerà se stesso, il suo corpo, in seguito sperimenterà la motricità altrui, imparando ad osservarla, interpretarla e riconoscendone il suo valore espressivo.

Lo sport capovolge la situazione in cui si trova il disabile, egli infatti si trova ad aumentare le proprie attività, ampliando il proprio volume di azione e allargando gli orizzonti fisici. L’allenamento rappresenta la chiave del successo e per la sua programmazione, la relazione tra l’allenatore e l’atleta gioca un ruolo decisivo.

Concludendo, si può constatare come il disabile, spesso per i suoi deficit cognitivi, presenti una difficoltà nell’elaborazione mentale dell’azione da compiere che a volte risulta rigida e poco adattiva. Sarà premura del tecnico fare in modo di riuscire ad evidenziare le potenzialità dell’atleta, mettendolo nelle condizioni più favorevoli per “vincere”.

La Competenza a Curare di Emilio Fava e del Gruppo Zoe (2016) – Recensione

Emilio Fava e il gruppo Zoe nel libro “La Competenza a Curare” riesaminano il campo della ricerca empirica in psicoterapia e poi mettono a disposizione un loro modello di psicoterapia empiricamente fondata.

Il contributo della ricerca secondo l’orientamento psicodinamico

L’orientamento di Fava è psicodinamico e fondato sulla  ricerca empirica, quella ricerca che ha dimostrato l’importanza soprattutto dei fattori comuni di tipo relazionale e che Fava e il suo gruppo declinano in termini psicodinamici, ovvero di transfert e controtransfert. Nel modello di Fava sono importanti poi le resistenze e al cosiddetta diagnosi psicodinamica dimensionale.

I capitoli iniziali del libro sono una rassegna completa dello stato della ricerca sui fattori terapeutici. Seguono i capitoli dedicati agli elementi del modello di Fava e del gruppo Zoe: resistenze, relazione, diagnosi psicodinamica.

Una parte molto ricca del libro è quella dedicata agli strumenti di ricerca messi a punto da Fava e coerenti con il suo modello: il metodo per la diagnosi psicodinamica operazionalizzata, detto OPD, e uno strumento di valutazione dell’indicazione alla psicoterapia, strumento chiamato APP.

L’esposizione del metodo di somministrazione e dei dati psicometrici di validità degli strumenti proposti è chiara ed esaustiva e questa è sicuramente la parte più interessante per chi volesse incrementare il proprio repertorio tecnico e strumentale. I capitoli finali sono dedicati alla formazione, alla supervisione e al rapporto tra psichiatria e psicoterapia.

Una buona lettura.

Effetti del trauma su regolazione emotiva e metacognizione – Riccione, 2017

Effetti del trauma su regolazione emotiva e metacognizione

Martina Torresi, Valentina Carloni, Federica Di Francesco, Marika Di Egidio, Fiammetta Monte, Michela Grandori, Tiziana Ciccioli, Chiara Caruso, Clarice Mezzaluna

Studi Cognitivi, Scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e cognitivo-comportamentale, Milano, sede di San Benedetto del Tronto (AP)

Introduzione

Il trauma psicologico può produrre reazioni emotive e corporee importanti che non sempre il cervello riesce a elaborare.

La letteratura evidenzia un ruolo centrale della regolazione emotiva nello sviluppo del trauma: deficit in tal senso determinano maggior monitoraggio della minaccia, ridotte capacità di coping e risposte emotive più intense agli stressor traumatici (Bardeen et al., 2013).

Nel modello metacognitivo di Wells (Wells, 2012) la regolazione emotiva è una delle componenti principali del CAS, una serie di processi cognitivi disfunzionali che interferiscono con la reazione di adattamento e con il ripristino dei normali processi di elaborazione cognitiva (Mazloom et al., 2015).

L’obiettivo dello studio è quello di analizzare la relazione tra esposizione a eventi traumatici, disregolazione emotiva e funzionamento metacognitivo.

Ipotesi:

1) L’esposizione a eventi traumatici determina minori capacità di regolazione emotiva.

2) L’esposizione a eventi traumatici determina un peggior funzionamento delle funzioni metacognitive.

3) La disregolazione emotiva media la relazione tra esposizione a eventi traumatici e funzionamento metacognitivo.

Il dilemma del trolley: il rango elevato rende più liberi dal Not Play God?

Sembra che se ci si riconosce un rango elevato, allora ci si sente più liberi di decidere, cioè meno vincolati dal rispetto per la autorità morale.

Daniela Pulsinelli e Francesco Mancini (1)
Università Marconi, Roma.

 

Il dilemma del trolley: Not play God o scelta umanitaria?

Il rango elevato rende più liberi dal Not Play God?

Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato il Dilemma del Trolley (Edmond, 2014).

Il Dilemma del Trolley è un paradigma sperimentale utile per studiare come le differenze tra individui e tra condizioni influenzino le scelte morali. Ne esistono diverse versioni. In quella basica si chiede ai soggetti di immaginare un vagone che procede completamente fuori controllo lungo un binario sul quale sono bloccate cinque persone che, inevitabilmente, saranno travolte e uccise. Ai soggetti, poi, è chiesto se muoverebbero la leva di uno scambio, deviando così il treno su un binario dove, però, si trova una persona che sicuramente non avrà scampo.

Questo dilemma è particolarmente interessante ai nostri fini perché contrappone un principio umanitario/altruistico al principio deontologico basico che è il Not Play God, o per i laici Not Tamper with Nature. Per il primo una scelta è moralmente buona se implica conseguenze buone per la maggior parte delle altre persone. Il Not Play God è una norma intuitiva secondo la quale, invece, nessuno ha il diritto di mettersi nei panni di Dio e nessuno, dunque, ha l’autorevolezza per modificare quello che appare il corso naturale degli eventi, vale a dire ciò che Dio, la Natura o il Destino hanno deciso.

La decisione di muovere lo scambio, e dunque di salvare cinque vite al costo della perdita di una sola persona, è dettata dal rispetto del principio umanitario mentre la scelta opposta è dettata dal principio Not Play God. Questa scelta, contrariamente alla prima, comporta non prendersi la responsabilità di un’azione che interferisca con l’ordine naturale, lasciando dunque al destino la decisione di lasciar morire cinque persone piuttosto che una sola.

 

Appartenenza al rango elevato: rende liberi dal Not play God?

Il peso morale del Not Play God influenza l’omission bias, vale a dire la tendenza a giudicare le omissioni moralmente meno gravi delle azioni, a condizione, ovviamente, che azioni e omissioni siano equivalenti per valore dell’esito, per la consapevolezza delle conseguenze e per l’intenzionalità dell’agente. Le omissioni, al contrario delle azioni, non interferiscono con l’ordine naturale e dunque non violano il principio Not Play God e di conseguenza sono moralmente meno reprensibili.

Tuttavia da alcune ricerche (Haidt & Baron, 1996) risulta che il peso morale del Not Play God diminuisce, se si giudica un individuo al quale si riconosce autorità e autorevolezza. Il comandante di una nave risponde tanto delle omissioni quanto delle azioni. Essendo “secondo solo a Dio”, gli si riconosce il diritto-dovere di utilizzare margini decisionali più ampi di quelli riservati alle persone comuni e dunque le sue omissioni sono meno scusate. Ma chi ricopre il ruolo di comandante è influenzato anche nelle proprie scelte e nei giudizi su di sè? Cioè si sente lui stesso meno legato dal rispetto del Not Play God? Per rispondere a questa domanda abbiamo utilizzato la versione basica del dilemma del trolley. L’ipotesi era che chi si identificava in un ruolo di autorità sarebbe stato meno condizionato dal rispetto del Not Play God e dunque avrebbe mosso lo scambio, più di quanto avrebbe fatto chi si identificava in un ruolo non di autorità ma di persona qualunque. Con l’aumentare del rango, e dunque del grado di autorità auto-attribuita, l’individuo si sente meno vincolato dal principio Not Play God, e pertanto, meno propenso alle omissioni.

Per mettere alla prova la nostra ipotesi abbiamo realizzato tre varianti del dilemma del trolley, in cui i soggetti si immaginavano in una emergenza, dove dovevano decidere se lasciare tre persone al loro tragico destino o se, invece, cambiare gli eventi in corso, direzionando il pericolo mortale verso altre due persone. La questione, in sintesi, era: è giusto prendersi la responsabilità di interferire con il destino per salvare tre persone e farne morire due (2)? Al campione di controllo era chiesto di immaginarsi come dei passanti che si trovavano casualmente nella situazione di emergenza. Al campione sperimentale era chiesto di immaginarsi in un ruolo di autorità rilevante nel contesto in cui si stava svolgendo la tragedia. Il capostazione nel contesto ferroviario in cui occorreva scegliere se deviare o meno un treno da tre verso due persone, il comandante dei vigili del fuoco nella condizione in cui era divampato un incendio, o ancora il direttore di un ospedale nel caso di una fuga di gas in una struttura sanitaria. Al campione sperimentale era sottolineato che erano gli unici responsabili in grado di poter decidere come agire in tale condizione.

In sostanziale accordo con l’ipotesi, il gruppo sperimentale (ruolo di autorità) sceglieva le omissioni meno del gruppo di controllo (passanti). Nel gruppo autorità si riscontravano inoltre meno omissioni nel dilemma 2 rispetto ai dilemmi 1 e 3. Tale risultato è spiegabile dal diverso ruolo di autorità percepita nei tre dilemmi. In altre parole, al comandante dei vigili del fuoco potrebbe essere riconosciuta una autorità maggiore del capostazione e del dirigente di un ospedale, per lo meno rispetto alla gestione della emergenza descritta nelle vignette sperimentali.

Per questo motivo, probabilmente, si osservano maggiori scelte d’azione nelle vesti del comandante dei vigili del fuoco. In conclusione, sembra che se ci si riconosce un rango elevato, allora ci si sente più liberi di decidere, cioè meno vincolati dal rispetto per la autorità morale.

Note:

  1. La ricerca alla quale si fa riferimento è nella tesi triennale in Scienza della Formazione e Tecniche Psicologiche che Daniela Pulsinelli ha svolto presso la Università Marconi, relatore prof. Francesco Mancini: “La responsabilità di ruolo nei dilemmi morali”.
  2. Abbiamo utilizzato la proporzione tre verso due e non quella tradizionale, cinque verso uno, per evitare un effetto soglia.

I sogni e la psicoterapia cognitivo comportamentale

Inizialmente la psicoterapia cognitivo-comportamentale prediligeva la strada neuropsicologica secondo la quale i sogni erano solo un rumore di fondo prodotto dal cervello. Oggi invece la ha sviluppato diversi modelli di lavoro sul materiale onirico.

Cristina Ferrari – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Nella storia della psicologia si è molto parlato di sogni e del loro significato, e questo non solo nell’ambito psicoanalitico. Ovviamente colui che diede particolare interesse al tema fu chiaramente Freud: chi non ha mai sentito parlare dell’Interpretazione dei sogni?!

Infatti è noto come per la psicoanalisi il sogno fosse la via che portava alla lettura dell’inconscio dei pazienti, oltre alla convinzione che i sogni son desideri (come cantava anche Cenerentola… ma questa è un’altra storia).

Freud infatti parla di una doppia funzione dei sogni (Freud, 1953): da una parte è espressione di desideri inconsci del paziente, che vengono repressi perché spesso dal contenuto sessuale e amorale, dall’altra il sogno ha una funzione protettiva per il sognatore. Infatti, visto il contenuto poco morale dei desideri inconsci, il sogno rende accettabile il significato, mostrando solo parzialmente la sua espressione.

Ma non solo la psicoanalisi si è occupata dello studio e dell’analisi dei contenuti onirici: infatti, dall’altra parte, troviamo studi della neuropsicologia che cercano di dare una risposta scientifica al fenomeno onirico. Infatti le prime teorie neuropsicologiche parlano dei sogni come prodotti fisiologici, senza significati intrinsechi: si parla di scariche casuali di alcune aree del tronco encefalico che attivano a loro volta aree della corteccia producendo così immagini o emozioni (Bear et al., 2007).

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale e i sogni: seguire la psicoanalisi o la tesi neuropsicologica?

Ovviamente qui ho esposto brevemente quelle che sono le due teorie psicologiche più estreme che troviamo su un continuum di teorie e studi che sono stati elaborati sul tema. Proprio grazie a questi studi l’utilizzo dei sogni in psicoterapia è cambiato nel corso degli anni: sopratutto per quanto riguarda la psicoterapia cognitivo-comportamentale. Infatti inizialmente la psicoterapia cognitivo comportamentale era molto condizionata dalla poca scientificità dell’utilizzo dei sogni come ne parlava Freud, una grossa parte dei terapeuti cognitivo-comportamentali prediligeva la strada neuropsicologica secondo la quale i sogni erano solo un rumore di fondo prodotto dal cervello, dovuto alla sua costante attività (Hill, 1996).

Con il tempo parte del mondo cognitivo sentiva però la necessità di studiare maggiormente il fenomeno, nonostante la difficoltà di dover studiare un oggetto che non potesse essere replicato nel tempo: infatti il significato che si attribuisce al sogno ha proprio la caratteristica di essere strettamente personale. Negli anni però, l’importanza che le persone danno ai propri sogni e all’impatto emotivo che spesso hanno sulla veglia, ha portato i cognitivisti a buttarsi nello studio più specifico di questo fenomeno. Già Beck propose diversi studi per poter valutare il legame tra lo stato depressivo dei pazienti e il contenuto dei loro sogni (Beck, 1971): difatti Beck ipotizzò come il sogno potesse essere un indicatore del cambiamento emotivo del paziente durante un episodio depressivo (Beck e Hurvich, 1959; Beck e Ward, 1961), ricollegandosi così a come i sogni potessero riflettere l’idea che il paziente ha di sé, del mondo e del suo futuro. Nonostante le teorie elaborate da Beck tra gli anni ’60/’70, la psicoterapia cognitivo-comportamentale non fa grande uso del materiale onirico nei trattamenti fino agli anni 2000.

 

I sogni nella psicoterapia costruttivista

I primi, negli anni 2000, a interessarsi al campo onirico sono stati i costruttivisti, infatti molto importante è nel mondo costruttivista la narrativa del paziente, quindi la capacità di narrarsi per poter trovare la costruzione di significato: per questo uno strumento come il sogno potrebbe essere utilizzabile come materiale narrativo di tipo emozionale (Rezzonico & Liccione, 2004).

Come esposto dal dottor Bara durante il congresso SITCC 2014 il mondo costruttivista propone una modalità di lavoro sul materiale onirico basandosi sull’ipotesi che i sogni siano determinati da emozioni attive. Infatti lo scopo delle nuove tecniche costruttiviste in questo campo sarebbero rivolte non alla narrazione della trama del sogno, ma al recupero consapevole dello stato onirico, cioè alla conoscenza del vissuto emozionale nel presente.

L’approccio costruttivista al lavoro onirico segue alcune linee guida introdotte da Rezzonico, con l’obiettivo generale di utilizzare i sogni per poter far emergere alcuni significati personali al fine di raggiungere una maggiore consapevolezza da parte del paziente. Per poter giungere a questo obiettivo il sogno può essere utilizzato in qualsiasi momento della terapia, senza uno schema o un input preciso: i sogni potranno essere introdotti dal paziente come dal terapeuta. Nella prospettiva costruttivista il significato del sogno consiste in un lavoro di co-costruzione tra paziente e terapeuta: sarà il paziente a scegliere il livello di analisi del sogno, il terapeuta cercherà di porre attenzione alle emozioni riportate e alle possibili discrepanze emotive tra ciò che il paziente ha sognato e l’emozione provata durante l’attività onirica. Infine sarà il paziente a riconoscere la validità del significato di quel sogno.

 

I sogni in psicoterapia secondo la prospettiva razionalista

Nel mondo cognitivista troviamo però anche un altro approccio all’utilizzo dei sogni in terapia che si distingue dall’approccio costruttivista: la prospettiva razionalista.

Nonostante alcune caratteristiche comuni dei due approcci, come l’utilizzo di tecniche cognitivo-comportamentali alla base della scoperta del sogno, ci sono molti punti di lavoro differenti tra loro.

L’obiettivo del lavoro onirico nella prospettiva razionalista è quello di trovare distorsioni cognitive che ci possono essere in comune tra il sogno e la veglia, al fine di poter agevolare una ristrutturazione cognitiva. In questo caso però i sogni vengono utilizzati solo se portati dal paziente, quindi non viene proposto direttamente dal terapeuta a meno che la terapia si trovi in un momento di stallo. Nel momento in cui si fa riferimento a contenuti onirici durante il lavoro terapeutico sarà il terapeuta a guidare il paziente per poter costruire il significato del sogno.

É importante quindi notare come le due prospettive, nonostante una base comune, abbiano obiettivi e strategie molto diverse nell’utilizzo del materiale onirico in terapia.

 

Psicoterapia cognitivo-comportamentale e analisi dei sogni: il modello DMR

Oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha sviluppato diversi modelli di lavoro sul materiale onirico, tra i più noti citiamo il modello di Freeman e White, il modello di Clara Hill e infine il modello DMR di Jacques Montangero.

In particolare illustreremo quest’ultimo modello, che è anche il più recente. Il modello DMR (Description, Memory sources and Reformulation), secondo l’autore, è particolarmente sistematico al fine di produrre diverso materiale onirico per portare il paziente alla sua interpretazione del sogno. Il processo è diviso in tre differenti fasi (Montangero, 2009):

  • Description

Durante la prima fase viene chiesto al paziente di immergersi nel racconto del sogno, al fine di ritrovare fonti e significati. Questo è possibile farlo anche attraverso tecniche della psicoterapia cognitivo-comportamentale come l’ABC. Il racconto del sogno permette al paziente la condivisione con il terapeuta dell’esperienza. Quest’ultimo prende nota della descrizione assegnando un numero ad ogni evento o cambiamento presente nel sogno. È importante che il paziente riesca a descrivere ciò che è stato visto, sentito o provato in ogni evento numerato.

  • Memory Sources

Nella seconda fase il terapeuta accompagna il paziente alla ricerca di memorie autobiografiche che possono essere collegate agli eventi avvenuti nel sogno. Quindi il terapeuta chiederà: quali memorie può associare a questo elemento del sogno? Cercando di seguire sempre lo schema numerato degli eventi fatto in fase uno. È importante inoltre chiedere al paziente che valore attribuisce al ricordo e il grado di piacevolezza legato ad esso.

  • Reformulation

L’obiettivo dell’ultima fase sarà quello di far ridescrivere il contenuto del sogno al paziente, non come un evento specifico e concreto, ma ricollegando i significati più ampi e generali, trovati in fase II. Questo passaggio permette di far emergere le preoccupazioni e gli obiettivi del paziente.

I terapisti che vogliono usare questo metodo possono già riferire al paziente a inizio terapia che potrebbe essere utile riportare in terapia contenuti dei sogni così come episodi di vita come materiale per le sedute. Infatti la ricostruzione dei significati dei sogni non deve essere l’obiettivo terapeutico, ma può essere uno strumento per poter aiutare il paziente a ricostruire i propri schemi, non solo attraverso eventi reali.

Quindi in psicoterapia cognitivo-comportamentale l’utilizzo dei sogni è possibile all’interno di alcune modalità guidate, al fine di far riconoscere al paziente la propria modalità di funzionamento, utilizzando diversi materiali, e infine può aiutare il terapeuta nel processo di riconoscimento delle distorsioni cognitive e quindi per la loro ristrutturazione cognitiva.

Gli aspetti psicologici connessi all’attività sportiva

Nello sport vi possono essere diversi tipi di stressor: ad esempio, la prestazione, il rapporto con l’allenatore e i compagni, i segnali del proprio corpo. Tuttavia essi possono essere interpretati come stimoli positivi e non come fonti di disagio. Per affrontarli nel modo giusto, la persona deve ricorrere alle proprie capacità, in termini sia di fattori interni come la motivazione che lo ha spinto ad intraprendere l’attività e l’autoefficacia, sia a fattori esterni come le tecniche di gestione efficace dello stress e dell’ansia.

Elena Fiabane, Gloria Tosi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Lo stress e l’approccio cognitivo

Nella quotidianità e nella società attuale si parla molto di stress, generalmente con un’accezione negativa, in termini di senso di tensione, ansia, preoccupazione, senso di malessere diffuso, associati a conseguenze negative per l’organismo e per lo stato emotivo e mentale dell’individuo. Lo stress, quindi, sarebbe visto come qualcosa di negativo da eliminare totalmente. In realtà, già negli anni ’40, uno dei massimi studiosi del fenomeno, Hans Selye, diceva che senza stress c’è la morte. Cosa intendeva dire l’esperto con quella frase?

Lo stress è una sollecitazione che ci proviene dall’ambiente esterno, una richiesta da parte dell’ambiente volta all’attivazione delle risorse del nostro organismo. Non tutte le sollecitazioni esterne sono nocive e vanno eliminate. Pensiamo ad un esame universitario da affrontare: si tratta di una richiesta da parte dell’ambiente che implica una percezione di stress e di attivazione dell’organismo; tale sollecitazione risulta però molto utile perché permette all’individuo di mobilitare le risorse e le capacità individuali, di impegnarsi al fine di raggiungere un obiettivo importante per la crescita individuale e di aumentare il senso di autoefficacia.

Probabilmente, se non si percepisse alcun tipo di stress, non ci si impegnerebbe allo stesso modo e anche la sensazione di benessere correlata al raggiungimento dei propri obiettivi non sarebbe significativa e gratificante. Dunque, lo stress “buono”, definito “eustress”, è importante per la vita di ciascun individuo e non deve essere eliminato in quanto favorisce lo sviluppo e la crescita personali. I risultati delle ricerche mostrano, infatti, che le persone che hanno sperimentato precocemente situazioni di stress, da adulti si adattano meglio e più facilmente a contesti e situazioni nuove e stressanti. Affrontare situazioni di stress sembra favorire la costruzione di maggiori risorse psicologiche, permettendo di affrontare lo stress in maniera più efficace.

Quindi, quando lo stress non è più utile ma diventa nocivo per la salute, l’individuo ritiene di non possedere le risorse e/o capacità sufficienti per fronteggiare l’evento stressante; in altri termini, la persona percepisce una discrepanza tra le richieste dell’ambiente e le risorse individuali.

I primi approcci teorici consideravano lo stress come la risposta biologica aspecifica del corpo a qualsiasi richiesta ambientale e gli stressor erano i vari tipi di stimoli agenti che suscitavano tale reazione. La risposta biologica del corpo, aspecifica, detta anche sindrome generale di adattamento, si compone di tre fasi distinte: fase di allarme (attivazione del sistema nervoso simpatico con mobilitazione delle energie difensive, innalzamento della frequenza, della pressione cardiaca, della tensione muscolare, diminuzione della secrezione salivare, aumento liberazione di cortisolo); fase di resistenza (l’organismo tenta di adattarsi alla situazione e gli indici fisiologici tendono a normalizzarsi, anche se lo sforzo per raggiungere l’equilibrio è intenso); fase di esaurimento (se la condizione stressante si prolunga, oppure risulta troppo intensa, si entra in una fase di esaurimento in cui l’organismo non riesce più a difendersi e la naturale capacità di adattarsi viene a mancare).

Gli studi più recenti hanno invece riconosciuto il ruolo chiave dell’interpretazione cognitiva e della percezione soggettiva quali fattori in grado di influenzare l’esperienza e la conseguente gestione dello stress.

Nell’approccio cognitivo, Lazarus e Folkman (1987) descrivono invece lo stress come frutto degli stimoli dell’ambiente sulla persona, in cui la percezione che il soggetto ha della richiesta ambientale e delle proprie risorse per farvi fronte è la variabile di mediazione critica.
In effetti, ciò è quanto solitamente accade a tutte le persone nella vita di tutti i giorni, e la risposta di ogni individuo è singolare e specifica, in base alle caratteristiche dello stressor e, soprattutto, del soggetto stesso.

Nello sport vi possono essere diversi tipi di stressor: ad esempio, la prestazione, il rapporto con l’allenatore e i compagni, i segnali del proprio corpo.
Tuttavia essi possono essere interpretati come stimoli positivi e non come fonti di disagio.
Per affrontarli nel modo giusto, la persona deve ricorrere alle proprie capacità, in termini sia di fattori interni come la motivazione che lo ha spinto ad intraprendere l’attività e l’autoefficacia, sia a fattori esterni come le tecniche di gestione efficace dello stress e dell’ansia.

Le fonti di stress nello sport

Janke (1976) individua 5 categorie di stressor relativi all’ambito sportivo:
1. Stressor esterni: legati all’ambiente (es. sport acquatici; sport in ambienti estremi); alla deprivazione sensoriale (es. cuffie nel tiro a volo); al rischio di infortuni (nella ginnastica artistica ad esempio, nell’esecuzione corretta degli esercizi);
2. Stressor dovuti alla deprivazione dei bisogni primari (es. fuso orario può disturbare il sonno; condizioni climatiche non ottimali);
3. Stressor da prestazione: eccessiva pressione fisica e psichica; eccessiva monotonia e ripetitività degli allenamenti; gli insuccessi;
4. Stressor sociali: i conflitti (es con gli allenatori, i compagni, i genitori, altre figure di riferimento o con la scuola); l’isolamento sociale (es. continui viaggi, molti impegni possono portare a trascurare gli affetti);
5. Altri stressor: processi decisionali difficili; incertezze sul proprio futuro agonistico, etc.

Una delle risposte psicologiche suscitata dalla maggior parte degli stressor è l’ansia.
Molte delle modalità di fronteggiamento dello stress sono mirate proprio a ridurre l’ansia che può essere tanto intensa da divenire a sua volta una fonte di stress.
L’ansia non è altro che la reazione psicologica di paura verso eventi percepiti come stressanti e minacciosi. Tale meccanismo fa parte di una particolare risposta automatica ai pericoli fisici, la cosiddetta risposta di “attacco o fuga”, presente in tutti gli animali.
Questa risposta determina modificazioni fisiologiche in modo da preparare l’animale a poter fuggire dal pericolo o a lottare contro di esso.

Ecco le principali modificazioni fisiologiche scatenate dalla risposta di attacco o fuga:
– La mente diventa vigile
– La frequenta cardiaca aumenta
– Il ritmo del respiro aumenta per fornire più ossigeno al sangue
– Aumenta la sudorazione per evitare il surriscaldamento del corpo
– I muscoli si tendono, pronti all’azione
– La digestione si “ferma” e può dar luogo ad una sensazione di nausea o di “nodo allo stomaco”
– La salivazione diminuisce e la bocca si secca
– Il fegato libera lo zucchero per fornire velocemente più energia.

Queste modificazioni sono causate dal rilascio nel sangue di diversi ormoni, il più importante dei quali è l’adrenalina.
Di per sé, la risposta di attacco o fuga si sviluppa immediatamente dopo che si è recepito un pericolo ed è di breve durata, perché non appena il pericolo cessa gli ormoni rilasciati sono rapidamente metabolizzati (distrutti).
Pensiamo, ad esempio, a che cosa succede quando ci si salva in una situazione di grave pericolo, ad esempio in un incidente di macchina. Che cosa è successo quando si realizza che si è salvi? Probabilmente si continua a tremare per qualche minuto, ma poi tutto torna normale.

La risposta di attacco fuga può essere istintiva, ad esempio negli esseri umani sono istintive le paure per i serpenti e per i luoghi alti. Ma gli animali, compreso ovviamente l’uomo, possono anche imparare ad avere paura di altre situazioni che vengono collegate alla percezione di una minaccia e al sentirsi ansiosi. Per gli uomini non tutti i pericoli sono di tipo fisico.
Possiamo sentirci in ansia anche se temiamo di subire una perdita grave, o meglio grave per noi.

Non ha importanza quanto il pericolo sia obiettivamente reale e grave, conta la percezione soggettiva della probabilità dell’evento temuto e della gravità delle sue conseguenze.
Si parla di disturbo d’ansia quando la risposta di attacco o fuga viene scatenata regolarmente da stimoli o situazioni poco pericolose e che non rappresentano certo una minaccia per la sopravvivenza. La risposta di attacco o fuga è una risposta automatica alla percezione di una grave minaccia e non può essere modificata. Si può invece modificare il modo di interpretare situazioni ed eventi.

L’allenamento della mente

L’Aspetto psicologico è determinante per un atleta, perché chi si mette in gioco è prima di tutto la persona. Giocano un ruolo fondamentale diversi elementi, quali motivazione, autostima, emozioni come ansia da prestazione, stress e tecniche di gestione (mental training, controllo arousal, self talk, goal setting, imagery…).

Gli obiettivi principali del mental training possono essere sintetizzati nei seguenti punti:
– il potenziamento delle proprie competenze
– la conoscenza ed il superamento dei propri limiti
– un’ottimale gestione dell’ansia e dello stress legati alla gara
– un approccio positivo agli allenamenti
– una efficace comunicazione con l’allenatore, con se stessi e con il proprio corpo.

Nelle attività sportive e motorie l’allenamento è il fulcro per il raggiungimento di ogni target che ci si prefigga, e spesso all’allenamento si associa solo l’attività fisica ripetuta con regolarità, costanza e metodo. Ma lo sport non è solo il rendimento del corpo, anzi, si raggiunge la prestazione massimale solo quando mente e corpo sono coordinati, sono tutt’uno. È necessario che essi vadano di pari passo in un percorso di miglioramento della performance. Se, infatti, è vero che ogni sport ed attività fisica richiedono un corpo che funzioni al meglio e che sia abituato (allenato) a rispondere in maniera adeguata agli stimoli, è anche vero che ogni sport e ogni attività motoria richiedono spiccate capacità di concentrarsi, di gestire le proprie emozioni, di evitare le distrazioni, di tollerare la frustrazione e l’ansia, di riprendersi da una sconfitta e di saper gestire il momento decisivo.

Attraverso lo sport, lo sportivo riesce a potenziare alcune aree fondamentali che hanno un impatto positivo e migliorativo sulla performance. Alcune di esse riguardano:
– Fattori cognitivi:
Capacità di concentrazione e attenzione;
Autoconsapevolezza del proprio corpo e dei pensieri.
– Fattori fisiologici:
Livello di attivazione fisiologica;
Coping;
Gestione dell’ansia e dello stress attraverso tecniche di rilassamento;
Recupero dell’infortunio;
– Fattori personali interni:
Autostima;
Autoefficacia;
Motivazione.

Tecniche di gestione dello stress e dell’ansia

Gli strumenti principali utilizzati per gestire lo stress e le emozioni in maniera più funzionale sono riconducibili principalmente alle strategie cognitivo-comportamentali, tra le quali le più usate sono il goal setting, le tecniche di imagery e self-talk, le metodiche di autoregolazione dell’arousal, l’allenamento della concentrazione e gestione dello stress.

Queste tecniche impostano un vero e proprio programma di allenamento della mente dell’atleta, che impara progressivamente a conoscere se stesso, a gestire ed ottimizzare le proprie abilità e caratteristiche. In questo senso si definiscono il mental training e lo sport coaching, che rappresentano un vero e proprio allenamento mentale che aiuta l’atleta a potenziare le proprie capacità, nell’assoluto rispetto dell’integrità fisica. È importante tuttavia lavorare non solo per sfruttare al meglio i punti di forza, ma soprattutto per individuare i propri limiti.

Le strategie cognitivo comportamentali sviluppate negli anni ’70 e tuttora pienamente utilizzate, mirano a far acquisire all’atleta le abilità di controllare e comprendere i propri processi mentali ed emotivi, partendo dal presupposto che la gestione o modifica dei processi cognitivi e degli stati emotivi negativi può contribuire al miglioramento della performance. Per realizzare i suoi obiettivi il Mental Training interviene sulle funzioni psicologiche determinanti la pratica motoria basandosi sull’elenco delle abilità mentali di base individuate da Martens, nel 1988:

  • Goal setting (formulazione degli obiettivi): molte volte gli insuccessi degli atleti sono dovuti ad una inadeguata scala degli obiettivi da perseguire durante il periodo di allenamento, e questa scarsa capacità di pianificare specifici standard di abilità da raggiungere in un compito può compromettere l’esito della stagione agonistica. Il Mental training aiuta lo sportivo a scomporre i grandi obiettivi in sub-obiettivi a breve, medio e lungo termine, sufficientemente difficili (e quindi allenanti) ma raggiungibili, mirati al miglioramento graduale della prestazione più che al risultato (spesso imprevedibile).
  • Imagery (capacità di creare e controllare immagini mentali): gli atleti vengono progressivamente allenati alla rappresentazione mentale della propria performance, aiutandosi con stimoli immaginativi che coinvolgono tutti i sensi e favorendo in questo modo un coinvolgimento emotivo e cognitivo. La tecnica dell’imagery preceduta sempre da una breve seduta di rilassamento viene anche utilizzata prima della gara come momento di concentrazione e di visualizzazione del percorso.
  • Self-talk (monologo interiore): formulare obiettivi e inserirli in un dialogo con se stessi che escluda l’intervento di pensieri intrusivi e distraenti.
  • Controllo dell’Arousal (controllo dell’attivazione): con il termine arousal in psicofisiologia è indicata l‘intensità dell’attivazione fisiologica e comportamentale dell’organismo. Quando il nostro corpo deve effettuare una prestazione deve attivarsi, cioè mettere in moto una serie di processi caratteristici dello stato di arousal quali l’aumento della vigilanza e dell’attenzione, l’attività dei muscoli che si preparano allo sforzo ed il cuore e i polmoni che si preparano al dispendio di energia. È di fondamentale importanza per un atleta saper raggiungere e mantenere il livello ottimale di attivazione psicofisiologica richiesto dalla performance, allenandosi con delle semplici tecniche di attivazione o disattivazione secondo le esigenze.
  • Abilità attentive (anticipazione e concentrazione): con il termine attenzione si fa riferimento a diverse componenti del funzionamento cognitivo. Tra queste alcune maggiormente coinvolte e determinanti per la performance dell’atleta sono: capacità di anticipazione, capacità di elaborazione dei dati da parte del sistema nervoso, capacità di filtrare le informazioni per trattenere solo quelle rilevanti, capacità di gestire le emozioni, capacità di dirigere l’attenzione all’interno ed all’esterno di sé. In sintesi la concentrazione è la capacità di focalizzare l’attenzione su un compito per un determinato periodo di tempo, senza che essa venga distolta da fattori distraenti interni (ad esempio pensieri negativi) o esterni (il rumore della folla). In questo caso si parla di Focusing. Parlando di attenzione non può essere tralasciato il concetto di “preparazione all’azione” (Holender, 1980) ben distinto dalla concentrazione. Il concetto di anticipazione e gli studi che lo hanno riguardato sostengono che lo scopo di un’azione determina la struttura dell’atto motorio. Qualunque azione motoria è anticipata dalla preparazione cognitiva. Questa competenza anticipatoria è una delle tante capacità che fanno parte dello stile attentivo di una persona.
  • Gestione dello stress (gestione delle emozioni sotto stress): lo stato di stress si verifica quando l’atleta percepisce una discrepanza tra la richiesta ambientale (sfida) e le risorse che egli percepisce di avere a disposizione per affrontare la sfida (livello di abilità) ovvero, quanto la persona si ritiene capace di…; quando le risorse non sembrano bastare l’atleta metterà in gioco strategie di coping non adeguate che non gli permetteranno di superare la sfida. Anche l’allenatore può essere sottoposto a stress ed essere ipo o iper attivato come i suoi atleti; si renderà quindi necessario adottare strategie per abbassare o incrementare il livello di attivazione (o arousal) per permettere un’analisi coerente e veritiera delle richieste stressanti e delle competenze in possesso degli sportivi.
  • Fra le tecniche di gestione dello stress annoveriamo lo Stress Inoculation Training, la desensibilizzazione sistematica e la ristrutturazione cognitiva che si occupa di individuare e correggere le distorsioni del pensiero che sono la causa di emozioni disfunzionali.
  • Rilassamento: le tecniche di rilassamento come il Training Autogeno o il Rilassamento Progressivo di Jacobson, vengono utilizzate per prendere consapevolezza della tensione muscolare a riposo e in attività, per gestire situazioni ansiogene o stressanti, sono preparatorie a qualsiasi attività immaginativa e rappresentano già esse stesse un primo passaggio di allenamento delle competenze attentive. Inoltre nello specifico la tecnica del training autogeno ha il potenziale di funzionare come metafora che permette di sperimentare quanto una giusta focalizzazione sulla performance aiuti ad ottenere il risultato che ci si prefigge.

Quando usare il mental training?

L’allenamento mentale di un atleta è quindi una componente essenziale dell’allenamento sportivo. Senza dubbio si può affermare che un atleta che alleni solo la parte fisica delle sue competenze di performance raggiungerà risultati parziali.
Questo il presupposto che fa del mental training un pilastro irrinunciabile dell’allenamento motorio dell’atleta che vuole realmente migliorare la sua performance.
Esiste una casistica che evidenzia come al mental training si rivolgano di solito allenatori di un club o di una squadra, lo staff dirigenziale o il singolo atleta.

Le motivazioni più frequenti per cui è richiesto sono relative ad una posizione in classifica non soddisfacente, difficoltà di attenzione e concentrazione, alla riabilitazione psicofisica del disabile, a rilevanti e controproducenti sintomi riconducibili ad ansia e stress, a problemi di relazione con l’allenatore, o di burn out, di depressione o sintomi psicosomatici dell’atleta, alla vigilia di un importante avvenimento sportivo o ad un semplice desiderio di completare l’allenamento fisico con l’allenamento mentale.

Il compito del mental training in tutti questi casi è sostenere l’individuo e il gruppo nella gestione delle richieste situazionali dello sport, aiutandolo a fronteggiare i problemi sfruttando il proprio bagaglio di conoscenze che possono contribuire al miglioramento della performance e della promozione del benessere della persona, in una visione integrata di essa.

La gestione dell’ansia pre-agonistica

La prevenzione ed il trattamento dell’ansia costituiscono uno dei principali problemi e dei maggiori obiettivi della psicologia dello sport. L’ansia preagonistica è legata all’imminenza di una competizione particolarmente impegnativa e temuta.

Un pensiero negativo e quindi disfunzionale alla prestazione è dato dal seguente rapporto:

Probabilità percepita della minaccia x Gravità e costi percepiti della minaccia
___________________________________________________________
Capacità percepita di fronteggiare il pericolo x Capacità percepita di tollerare

(Equazione dell’ansia, Beck Emery & Greenberg, 1985).

Le tecniche di gestione dell’ansia pre-agonistica maggiormente usate sono, ad esempio, il rilassamento e la desensibilizzazione sistematica, da apprendere sotto la guida dello psicologo e poi da esercitare autonomamente e regolarmente.

Il senso di autoefficacia e lo sport

Per senso di autoefficacia si intende “la percezione e l’insieme delle convinzioni e aspettative riferite alle proprie capacità di organizzare e realizzare azioni necessarie alla gestione delle situazioni in un particolare contesto” (Bandura, 1977).

Le aspettative di auto-efficacia determinano in quale misura e per quanto tempo gli sforzi saranno mantenuti indipendentemente dagli ostacoli e dalle esperienze negative.

In generale un individuo mantiene il suo impegno in una attività nuova (e difficile) se ha fiducia nella sua capacità di condurla a termine in modo positivo e se è motivato a raggiungere un determinato obiettivo. Quindi in termini operativi essa è la fiducia che una persona ripone nelle proprie capacità di affrontare un compito specifico (Bandura, 1986). È il giudizio che ogni persona possiede circa le proprie capacità personali di agire.

Essa rappresenta una dimensione della personalità davvero fondamentale. Tant’è vero che vengono utilizzate scale cliniche, questionari e interviste qualitative che mirano ad indagare questo item, per poi mettere in atto training di potenziamento veri e propri tarati sulla persona, ad hoc, tenendo conto dei limiti e delle potenzialità.

Lo studio dell’auto-efficacia nello sport è centrale poiché consente di:
– Comprendere alcuni processi cognitivi legati allo sviluppo di attività sportive e atletiche
– Conoscere e migliorare metodi di apprendimento motorio
– Comprendere il contributo del senso di auto-efficacia sull’acquisizione di abilità motorie
– Analizzare alcuni processi cognitivi che regolano la prestazione atletica
– Importanza dell’auto efficacia nella scelta degli obiettivi (goal setting)
– Ruolo nella gestione dello stress e dell’ansia connessi alle competizioni.

Conclusioni

Il mental training viene utilizzato come percorso che favorisce, a tutte quelle persone che ne sentano il bisogno, il raggiungimento di benessere fisico, psichico ed emotivo riscoprendo un contatto nuovo con se stessi. La figura dello psicologo interviene con le proprie metodologie, i propri strumenti, aiutando l’atleta ad allenare le diverse funzioni, i processi, ed opera sulle conseguenze mentali dello sport svolto in contesti competitivi, educativi, ricreativi, preventivi o riabilitativi. Con l’obiettivo di migliorare la strada verso il conseguimento del benessere e della salute, e favorire così l’incremento della prestazione sportiva.

“..prendere coscienza dei meccanismi mentali che ci tengono prigionieri facendoci ostinare a seguire chimere impossibili – essenzialmente, avere sempre pensieri ed emozioni positive e mai negativi – e a recuperare la nostra libertà di scegliere e di agire come riteniamo meglio per noi! Sviluppando cosi la flessibilità psicologica che consente di superare i momenti critici e di vivere pienamente il presente muovendosi nella direzione tracciata dai propri valori” (tratto da Trappola della felicità, di Russ Harris).

 

Effetti negativi, a lungo termine, in bambini esposti a violenza domestica psicologica

L’esposizione dei minori alla dimensione psicologica degli abusi domestici è quella che ha un impatto negativo più rilevante sul loro benessere psicologico. Invece, l’esposizione alla dimensione fisica non ha avuto alcun effetto negativo aggiuntivo su tale benessere.

 

Recentemente è stata pubblicata su Journal of Interpersonal Violence una ricerca scientifica dell’Università di Limerick (UL), in Irlanda, svolta da Catherine Naughton, Aisling O’Donnell e Orla Muldoon.

Per lo studio sono state prese in considerazione due ipotesi di ricerca: la prima atta ad indagare se l’esposizione alle dinamiche di violenza domestica e abuso (DVA) includano due distinti fattori; la seconda per verificare se l’esposizione alla violenza domestica fisica (DF) e l’esposizione all’ abuso domestico psicologico siano correlati con:

a) il benessere psicologico

b) con la soddisfazione del sostegno sociale (soddisfazione percepita con il supporto emotivo).

Hanno preso parte allo studio studenti tra i 17-25 anni (N = 465) di cui il 70% femmine. I ragazzi hanno riportato le loro esperienze di DVA come perpetrate dai loro genitori o tutori ed è stato valutato il benessere psicologico e la soddisfazione del sostegno sociale mediante un sondaggio online.

La ricerca di Naughton ha esaminato come l’esposizione dei bambini alla violenza domestica e agli abusi possa provocare effetti a lungo termine. L’abuso psicologico può includere: intimidazione, insulti, isolamento, manipolazione e controllo; mentre l’abuso fisico può comprendere: colpi, pugni, calci e uso di un’arma.

Esposizione alla violenza psicologica: i risultati della ricerca

I risultati hanno evidenziato come crescere in un ambiente caratterizzato dalla costante presenza di violenza domestica e abuso, abbia degli effetti dannosi a lungo termine sul benessere dei bambini. Sono state segnalate due diverse esperienze dai ragazzi rispetto alla loro esposizione alle dinamiche di violenza domestica e abuso. Questi due fattori distinti, tuttavia correlati, possono essere considerati come dimensioni fisiche e psicologiche della DVA.

Utilizzando l’analisi fattoriale confermativa (CFA), è stata verificata la presenza di un modello a due fattori (DVA fisico e psicologico). L’analisi della regressione gerarchica ha dimostrato l’impatto differente tra questi due fattori: in particolare, l’esposizione alla DVA psicologica (abuso domestico) era correlato con una riduzione del benessere psicologico mentre non si è evidenziato nessun effetto significativo con l’esposizione alla DVA fisica. Dunque, uno degli aspetti interessanti di questa ricerca è la dimostrazione che l’esposizione dei ragazzi alla dimensione psicologica degli abusi domestici è quella che ha un impatto negativo più rilevante sul loro benessere psicologico. Invece, l’esposizione alla dimensione fisica non ha avuto alcun effetto negativo aggiuntivo su tale benessere.

Naughton afferma:

“Sappiamo che il sostegno sociale è importante per il recupero dei traumi infantili, ma i nostri risultati dimostrano che l’esposizione ad alti livelli di abuso domestico psicologico è associato ad una diminuzione della soddisfazione dei ragazzi per il loro supporto sociale. D’altro canto, abbiamo anche scoperto che l’esposizione ad elevati livelli di violenza domestica fisica ha un effetto protettivo, in termini di soddisfazione per il sostegno sociale, per coloro che sono altresì esposti a elevati livelli di abuso psicologico intra-parentale. Quando i bambini sono esposti alla violenza fisica in casa, così come all’abuso domestico psicologico, hanno maggiori probabilità di essere in qualche modo più felici per il sostegno sociale a cui possono accedere. L’abuso domestico psicologico quando si verifica da solo sembra essere più dannoso, forse perché le persone non sono in grado di riconoscerlo e di parlare di esso “.

Questa ricerca esamina l’impatto degli abusi psicologici domestici sulla crescita dei bambini irlandesi, ma mostra anche la necessità di svolgere ulteriori ricerche per valutare gli impatti dell’esposizione a tutti i vari tipi di violenza domestica e degli abusi sui ragazzi.

Competenze genitoriali: la Funzione Riflessiva nei casi di separazione

La Funzione Riflessiva spesso risulta essere fortemente compromessa nelle situazioni familiari altamente conflittuali, ad esempio nelle situazioni di separazione e divorzio, in cui spesso la rabbia e il rancore dei coniugi si riversano sul rapporto con i figli.

Giorgia Zecchino

 

Statistiche recenti evidenziano un numero crescente di casi di separazione e divorzio nella nostra società. Ciò ha portato alla conseguente necessità di occuparsi di questi eventi avvalendosi di approcci multidisciplinari: sociali, giuridici e psicologici.

Spesso la separazione è caratterizzata da alti livelli di conflittualità, così da inserire il minore in processi familiari disfunzionali e di triangolazione che potrebbero mettere a rischio il suo sviluppo psicofisico e sociale.

Spesso i coniugi essendo invischiati in dinamiche di rabbia, astio e rancore non riescono a giungere ad un accordo in merito alla divisione dei beni e all’ affidamento dei figli. Si parla quindi in questi casi di separazione giudiziale, in cui il giudice, con l’ausilio della consulenza tecnica, si trova a fare una valutazione dei fattori di rischio e di protezione connessi alle competenze genitoriali per decidere sulle migliori condizioni di affidamento dei figli.

La Consulenza Tecnica in casi di separazione si pone l’obiettivo di verificare l’idoneità genitoriale attraverso alcuni criteri scientifici tra cui il Criterio della Riflessività: ovvero la capacità, in entrambi i genitori, di attivare riflessioni ed elaborazioni di significati relative agli stati mentali dei loro figli, alle loro esigenze evolutive e alle relazioni familiari che li coinvolgono, in rapporto ai reciproci pattern di attaccamento. (Camerini, Volpini, Lopez, 2011)

Lo studio della Funzione Riflessiva nei casi di separazione

La valutazione di questo criterio avviene attraverso lo studio della c.d. Funzione Riflessiva, concetto proposto da Fonagy, il quale fa riferimento a quell’insieme di processi psicologici sottostanti la capacità di mentalizzare (Fonagy, Steele, Steele, Target, 1998), intesa anche come capacità di astrazione e di consapevolezza riflessiva, la quale si pone al centro di molte formulazioni psicoanalitiche e della psicologia cognitiva e dello sviluppo.

La Funzione Riflessiva è descritta da Fonagy come:

La funzione mentale che organizza il nostro e altrui comportamento in termini di costrutti dello stato mentale. […] Riguarda la conoscenza della natura di quelle esperienze che danno origine a certe credenze ed emozioni, dei possibili comportamenti che permettono di conoscere credenze e desideri, delle relazioni prevedibili tra credenze ed emozioni e dei sentimenti caratteristici di particolare fasi dello sviluppo o relazioni. (Fonagy, Target, 2001, p. 103)

La Funzione Riflessiva è dunque definibile come quella funzione mentale che organizza il nostro comportamento e di quello altrui. Si tratta di un’acquisizione evolutiva che permette al bambino di rispondere non solo al comportamento degli altri, ma anche alla sua concezione dei loro sentimenti, credenze e aspettative. Attribuendo stati mentali, il bambino rende in questo modo significativo e prevedibile il comportamento degli altri e sarà in grado di mettere in atto, in modo flessibile, il comportamento più appropriato, tale da poter rispondere in modo adattivo ai vari scambi interpersonali. Questo, grazie anche ai vari modelli rappresentazionali sé-altro, costruiti in base alle precedenti esperienze relazionali.

La Funzione Riflessiva e la solidità di questa capacità determina non solo la natura della realtà psichica dell’individuo, ma anche la qualità e la coerenza della parte riflessiva del Sé, che si ritiene ne costituisca il nucleo strutturale. Genitori che non riescono a riflettere in maniera comprensiva sull’esperienza interna dei figli e non sanno rispondere adeguatamente, negano al bambino una struttura psicologica centrale indispensabile per costruire un vitale senso di Sé. Per Fonagy, il fattore determinante è la capacita della madre di contenere mentalmente il bambino e di rispondergli (Ammaniti, Dazzi, 1999).

Secondo Fonagy (2001) infatti, il primo ambiente relazionale è fondamentale; egli sostiene che la sicurezza dell’attaccamento alla madre è un buon indice predittivo concorrente della capacità riflessiva del bambino.

La carenza della Funzione Riflessiva sembra essere quindi fortemente legata al fallimento della Funzione Riflessiva genitoriale e alla disfunzione del sistema relazionale familiare (Boldoni, 2008) e in questi casi al bambino non viene permesso di crearsi un Sé riflessivo e per questo potrebbe mettere in atto comportamenti di evitamento e aggressività (Concato, 2006).

Dalle suddette osservazioni è evidente quindi come lo sviluppo di una mente mentalizzante può risentire in modo negativo dell’influenza esercitata da un ambiente familiare ostile e/o carente.

In questo modo i soggetti traumatizzati dall’ambiente familiare sono vulnerabili sia in termini di effetti maladattivi a lungo termine, sia in termini di ridotta capacità di recupero di fronte a questi fatti. Tale atteggiamento “non mentalizzante”, messo in atto in queste circostanze, crea serie difficoltà al soggetto con il conseguente rischio di compromettere anche le relazioni interpersonali. Nello specifico, l’idea di trattare la Funzione Riflessiva in questa sede nasce dal fatto che essa spesso risulta essere fortemente compromessa nelle situazioni familiari altamente conflittuali, ad esempio nelle situazioni di separazione e divorzio.

In queste situazioni le competenze genitoriali subiscono un duro attacco creando conseguentemente delle ripercussioni sullo sviluppo del Sé del bambino se non affrontate in modo adeguato. Si tratta di casi caratterizzati da altissimi livelli di rabbia, tali da far mettere in atto tra i coniugi uno stile comunicativo con conseguenze prettamente distruttive che portano ad una chiusura emotiva della persona. Ciò amplifica le difficoltà nella coppia a mettere in atto strategie risolutive costruttive (Ardone, Chiarolanza, 2007).

La separazione, infatti, se non affrontata in modo adeguato, è un evento che mina fortemente la percezione della propria identità; per questo motivo, quindi, il conflitto tra le due parti, nei contesti giudiziari, tende a trasformarsi come momento di rivalsa verso l’ex coniuge, mettendo in secondo piano il benessere psicologico dei figli e affrontando purtroppo la separazione in un modo assolutamente non riflessivo.

Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia)

Uno spettro si aggira per il mondo della psicoterapia, ed è lo spettro del trauma. Lo diciamo scherzosamente, ma anche seriamente. Il ruolo del trauma nella sofferenza emotiva ha una storia lunga e complessa. Questo concetto entra ed esce dai vari modelli teorici e terapeutici, ora rifiutato e definito ininfluente, ora posto al centro del processo patologico. E questo accade in tutti gli orientamenti. È accaduto nella psicoanalisi e ora sta accadendo nel cognitivismo clinico, in particolare italiano.

Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli e Giovanni M. Ruggiero

 

Il trauma: dal primo Freud alla teoria degli stati dissociativi

Tutti sappiamo che il primo modello freudiano era traumatico. Un’esperienza traumatica reale e sessuale era, per Freud, alla base della sofferenza delle isteriche che arrivavano nel suo studio viennese.

Poi Freud cambiò idea e tutto diventò pulsione e fantasia. La pulsione sessuale mal governata diventò la base della sofferenza mentale e i traumi non furono più reali ma frutto di fantasie, sostanzialmente falsi ricordi. Insomma il ricordo del trauma era la conseguenza e non più la causa di impulsi sessuali non controllati dalla coscienza.

Il trauma finì per rifugiarsi nella psicologia francese, quella che da Pierre Janet in poi ha generato la teoria degli stati dissociativi su base traumatica. È una storia interessante. La teoria della dissociazione fu messa da parte ma in qualche modo continuò a operare e a crescere grazie a autori sottovalutati, non solo Janet ma ancor prima il neurologo John Hughlings Jackson alla fine dell’ottocento, per proseguire con Henry Ey nel secolo scorso e più recentemente con Stephen Porges, Dan Siegel e, in Italia, Gianni Liotti e Benedetto Farina.

Tutti questi modelli sottolineano la complessità del sistema nervoso, la difficoltà che ha la mente nel compiere operazioni integrative di livello sempre più alto, dai semplici archi riflessi percettivi motori fino alle funzioni autoriflessive e metacognitive più sofisticate, in cui la mente rappresenta se stessa nell’atto stesso di pensare e di integrare le informazioni. Per tutti questi autori queste operazioni integrative complesse sono sempre ad alto rischio di rottura, di disintegrazione ed è questa disintegrazione che poi porta alla sofferenza emotiva.

E da cosa dipende questa rottura, questa disintegrazione? Dagli eventi traumatici, da quegli eventi in cui la persona affronta una situazione di pericolo estremo nella quale il suo senso di integrità, sicurezza e identità sono messe seriamente in discussione. Un evento del genere ferma il processo di crescita mentale e impedisce la possibilità che le funzioni integrative superiori maturino.

Questi modelli sono indubbiamente utili e spiegano gli stati di sofferenza che conseguono a situazioni estreme. Il caso migliore è il disturbo post-traumatico da stress (PTSD).

 

Trauma cumulativo, trauma piccolo… quando un modello specifico è posto a chiave di lettura universale

Il problema è, come al solito, quando un modello smette di limitarsi a spiegare solo alcuni disturbi e aspira a una spiegazione universale dell’intera sofferenza emotiva.

Ecco quindi che il significato di trauma tende a estendersi sempre di più. Si passa dal trauma incontrovertibile, quello in cui la stessa sopravvivenza fisica è stata messa in pericolo, al trauma cumulativo, il susseguirsi di eventi dolorosi, nessuno di loro in sé traumatico ma che lo diventano appunto per accumulo. Oppure il neglect, la trascuratezza, la freddezza e la deprivazione emotiva. Insomma, una serie di circostanze che vanno sotto il nome di “trauma piccolo”.

Non che non esistano anche queste condizioni di trauma piccolo e ripetuto, potenzialmente altrettanto devastanti di un unico episodio estremo. Solo che questo tipo di trauma è comunque meno facilmente definibile e distinguibile da una più comune esperienza di sofferenza umana ed esistenziale. Esplorare questo tipo di trauma minore è un ottimo obiettivo scientifico, ma può anche prestarsi a scorrettezze cliniche e anche pratiche.

 

Il ritorno del trauma nella riflessione clinica

Insomma, per varie ragioni stiamo assistendo a un ritorno del trauma nella riflessione clinica. L’intera sofferenza emotiva è sempre più esplorata sotto questa etichetta e tutti i disturbi stanno diventando varianti del disturbo post-traumatico da stress.

Esageriamo? Noi non crediamo. La credenza, che si sta diffondendo, che per il trauma la terapia cognitiva non sia più il trattamento di elezione è quanto meno prematura. L’esaustiva rassegna di Nathan e Gorman (“A Guide to Treatments that Work”) riporta che mentre nessun trattamento si è ancora affermato come chiaramente efficace, molti però hanno ottenuto delle conferme parziali e tutte da verificare. E tra questi c’è ancora una volta la terapia cognitivo-comportamentale, e anche la principale terapia focalizzata su trauma e dissociazione, ovvero l’EMDR, (Eye Movement Desensitization and Reprocessing). L’EMDR, tuttavia, nell’aura del trauma non risulta essere superiore alla terapia cognitivo-comportamentale. E al di fuori del trauma è meno efficace.

 

Il successo delle terapie per il trauma

E allora perché questi crescente successo? A nostro parere per varie ragioni, alcune culturali e altre pratiche.

Le ragioni culturali risiedono nella visione naif che abbiamo tutti noi della psicologia. Al cinema e in letteratura trauma e psicologia vanno a braccetto. Anche nella nozione popolare molti sono convinti che la psicoanalisi sia ancora una teoria del trauma mentre l’enfasi sulle fantasie soggettive è sempre stata poco capita dal grande pubblico. Il termine “rimozione” tende a far pensare al profano che si tratti di un qualche trauma rimosso, mentre a essere precisi per Freud ciò che era rimosso era il desiderio sessuale.

La terapia cognitiva nasce lasciando poco spazio al trauma, forse davvero troppo poco. Questo difetto iniziale forse spiega anche la recente ondata di interesse per il trauma negli ambienti della terapia cognitiva. In Beck e in Ellis l’eccesso di disinteresse per la storia personale con o senza trauma del paziente ha finito per pesare. Prima in Italia con Guidano e Liotti e poi all’estero con Jeffrey Young si è cercato di rimediare a questa trascuratezza. Tuttavia, soprattutto in Liotti e in Young, ci sembra che l’interesse per la storia personale del paziente abbia generato uno scompenso nella direzione del trauma.

La storia personale è finita per diventare una storia per definizione traumatica. E la terapia è diventata sempre più emotiva, relazionale e difficile da definire e replicare in procedure protocollari.

 

EMDR e Sensorimotor: tecniche fisiche, corporee, riproducibili

Questa fumosità dell’intervento relazionale ed emotivo stava già per causare la crisi del modello dissociativo, quando sono emerse nuove terapie che sono riuscite a superare il vicolo cieco del relazionalismo, movimento in cui le procedure sono troppo poco riducili in protocolli. Le nuove terapie, come ad esempio la Sensorimotor Psychotherapy (Ogden & Fisher, 2015) o la Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Shapiro, 2001) hanno puntato su procedure di tipo fisico, corporeo ed esperienziale riproducibili.

In questo modo ci si è tirati fuori dalla palude della relazione, argomento affascinate ma in fondo poco promettente come strumento terapeutico. Intendiamoci: non neghiamo che la relazione possa essere davvero la variabile che incide di più sull’esito positivo, ma è anche la variabile meno gestibile. Una buona relazione è un fatto, non un metodo da seguire o una strategia da costruire. Possiamo imparare a non rovinare una relazione (si chiama: buona educazione) ma non possiamo far diventare buona una relazione appena passabile. Oppure un metodo c’è: lavorare bene. Ma per fare questo non abbiamo bisogno di mille teorie sulla relazione.

Non è così per le tecniche senso-motorie o EMDR. Questa potrebbe essere la ragione definitiva che sta dando forza e popolarità al trauma come concetto centrale di un nuovo paesaggio psicopatologico. In fondo i protocolli cognitivi sono sempre stati difficili da eseguire, con la loro enfasi sull’intervento verbale. Parlando, è sempre facile perdersi dietro ai racconti del paziente.

Un intervento di tipo fisico, invece, lascia molto più controllo nelle mani del clinico. Un esercizio sensorimotor o EMDR non può essere modificato  a piacimento dal paziente o sottilmente boicottato menando il can per l’aia e tantomeno interrotto. Le interruzioni e le digressioni operate dal paziente che ci fanno uscire dai protocolli cognitivi spesso sono invece date per scontate, sottovalutate e temute. Abbiamo paura di rovinare la relazione terapeutica (sempre lei!) se le bloccassimo. Invece nel non verbale comandiamo noi terapisti con maggiore naturalezza.

Benvenuta quindi questa nuova attenzione alle procedure di tipo esperienziale e corporeo che ci portano queste nuove terapie per il trauma. Benvenute se ci insegnano più attenzione ai protocolli. Attenzione però a non perdere definitivamente un patrimonio di tecniche verbali non sempre ben padroneggiate e ora a rischio definitivo di deterioramento, fino all’oblio.

 


Il dibattito su Trauma e Relazione Terapeutica:

  1. Lo spettro del trauma che si aggira per il mondo (della psicoterapia) – 25 Maggio 2017
  2. Come non avere paura dello spettro del trauma – di Benedetto Farina – 04 Luglio 2017
  3. Il paradigma psicotraumatologico, in risposta a Benedetto Farina – 06 Luglio 2017
  4. Trauma e Relazione Terapeutica: in risposta a Benedetto Farina – Pt. 2 – 13 Luglio 2017
  5. L’Alleanza terapeutica: intervento di Fabio Monticelli nel dibattito su trauma e relazione – 14 Luglio 2017
  6. La relazione terapeutica è traumatica o il trauma è la vera relazione? – Roberto Lorenzini – 17 Luglio 2017
  7. Cosa faccio in terapia: il ragionamento prima delle tecniche – Roberto Lorenzini Pt. 2 – 19 Luglio 2017
  8. Monsignor Della Casa e la relazione terapeutica – Roberto Lorenzini Pt. 3 – 20 Luglio 2017
  9. Una relazione è un fatto, ma anche un fatto è una relazione – di Angelo Inverso – 21 Luglio 2017
  10. Dibattito su Trauma e Relazione: intervento di Giancarlo Dimaggio – 24 Luglio 2017

Gravità dei disturbi di personalità e funzionamento metacognitivo e interpersonale – Riccione, 2017

Gravità dei disturbi di personalità e funzionamento metacognitivo e interpersonale

Biagiolini M., Cataldi S., Fabbri C., Miraglia Raineri A., Guerra R., Taddei S., La Mela C.

 

Il presente lavoro nasce con l’obiettivo di indagare la relazione fra gravità dei disturbi di personalità (DP) e funzionamento metacognitivo e interpersonale.

La gravità dei disturbi di personalità è stata concettualizzata da alcuni autori secondo un criterio quantitativo, ovvero in base al numero di tratti presenti (Dimaggio et al. 2013 ; Yang et al 2010), mentre da altri autori è stata definita in relazione alla co-occorrenza di tratti di personalità appartenenti a cluster diversi (Tyrer,2005).

Poiché, in letteratura, non vi sono chiare evidenze circa il rapporto tra gravità del disturbo di personalità (intesa come co-occorenza di tratti) e funzionamento metacognitivo, così come non è ancora stato messo in luce il rapporto esistente tra co-occorenza di tratti appartenenti a cluster diversi e funzionamento metacognitivo ed interpersonale, l’obiettivo della nostra ricerca è indagare la relazione tra gravità del disturbo di personalità definita dalla co-occorrenza di tratti appartenenti a cluster diversi e il funzionamento metacognitivo ed interpersonale.

La variabile gravità è stata operativizzata considerando il grado di co-occorrenza di tratti afferenti a cluster diversi. Il grado di co-occorrenza è stato distinto in tre livelli: “assente” quando erano presenti tratti afferenti ad un solo cluster; “moderata” quando erano presenti tratti afferenti a due cluster e “alta” quando erano presenti tratti afferenti a tre cluster.

Lo studio è stato condotto su un gruppo di 32 soggetti, afferenti al Centro Clinico della Scuola Cognitiva di Firenze (SCF), affetti da Disturbo di Personalità ai quali è stata somministrata una batteria di strumenti per la valutazione dei disturbi di personalità, del funzionamento metacognitivo ed interpersonale.

Dai risultati del presente lavoro emerge che i pazienti che presentano una più alta co-occorenza di tratti di personalità su cluster diversi, hanno un peggior funzionamento metacognitivo nella comprensione della mente altrui, presentando una maggiore difficoltà ad identificare le emozioni e i pensieri dell’altro. Questo studio esplorativo ha evidenziato, inoltre, un trend della relazione tra alto grado di co-occorrenza e peggior funzionamento interpersonale, pur non riportando con quest’ultimo, una relazione statisticamente significativa.

Da questo studio pilota emerge l’importanza di approfondire e valutare se il grado di co-occorrenza possa essere considerato un indicatore di gravità dei disturbi di personalità: esso potrebbe rappresentare un importante fattore prognostico per quanto riguarda la risposta al trattamento e il tasso di drop-out e permettere dunque al clinico, di elaborare piani di trattamento maggiormente specifici e adeguati, tenendo in considerazione il possibile scadimento delle funzioni meta cognitive e del funzionamento interpersonale all’aumentare della gravità del disturbo di personalità.

To do list: do a list! – Dare un ordine ai compiti da svolgere ci rende più produttivi?

Diversi studi hanno dimostrato che scrivere una lista delle cose da fare aumenta le probabilità di eseguirle, incidendo positivamente sulla produttività. Ma perché la lista si rivela uno strumento efficace?

 

Come ha notato Louise Chunn, la maggior parte di noi combatte ogni giorno una piccola battaglia con le innumerevoli cose da fare, lasciandosi spesso sopraffare dal solo pensiero di ciò che ci aspetta. Soluzione migliore sarebbe la cosiddetta “to do list”, una lista scritta delle cose da fare. Si tratta di un sistema che consente di organizzare il tempo a disposizione e che prevede diversi step funzionali: scrivere i compiti, eseguirli e, volta per volta, eliminarli dalla lista.

Un principale sostenitore di questa idea è lo psicologo David Cohen, il quale afferma in un suo articolo che la “to do list” lo ha aiutato a dare un senso al caos della vita quotidiana. Le ragioni per le quali la lista funzionerebbe sono tre: riduce l’ansia originata dal pensiero di ciò che bisogna fare, fornisce uno schema organizzativo da seguire e si configura come una prova inconfutabile di quanto realizzato quel giorno, mese o anno.

E’ stata la psicologa russa Bluma Zeigarnik ad interessarsi circa l’ossessione del cervello per le cose da fare. Dai suoi studi sull’argomento deriva il famoso “effetto Zeigarnik”, ovvero la tendenza a ricordare maggiormente le cose che sappiamo di dover fare rispetto a quelle che abbiamo già svolto. La psicologa ha notato la presenza di tale effetto in camerieri che ricordavano un ordine soltanto fin quando servivano i piatti, spazzandone via il ricordo subito dopo: il cervello era pronto per ricevere un altro ordine!

Per quanto riguarda le ricerche più recenti, uno studio di Baumeister e Masicampo, professori dell’università Wake Forest, ha dimostrato che elaborare un piano dei compiti da svolgere ci rende meno preoccupati rispetto a quando non abbiamo un programma definito da seguire. Infatti, i partecipanti all’esperimento riuscivano a svolgere adeguatamente la loro performance soltanto se avevano pianificato concretamente come portare a termine l’attività preparatoria precedente.

Il semplice fatto di scrivere una lista ci renderebbe più efficienti; tuttavia alcune persone ritengono che questo sistema ostacoli le proprie creatività e flessibilità. Ciò è in contrasto con quanto ritiene David Allen, esperto di management e famoso per il suo libro sulla produttività priva di stress. Non basta scarabocchiare parole-chiave su un post-it, c’è bisogno di informazioni dettagliate, chiare e precise. Oltre ai dettagli, è importante considerare il tempo necessario a svolgere ogni attività e quanto si è suscettibili alle distrazioni, in modo tale da ideare una lista realistica. Un errore commesso da molti è quello di evitare di svolgere i compiti più impegnativi e consistenti; errore evitabile suddividendo il compito in blocchi più piccoli. Per esempio, prefiggersi di scrivere in un giorno il primo capitolo di un romanzo piuttosto che il romanzo intero aumenta le probabilità di raggiungere l’obiettivo.

Nonostante l’importanza della “to do list” sostenuta fermamente da Cohen, l’autore non ha sempre tenuto fede al patto di pianificare ed eseguire ogni attività giorno per giorno. Il solo fatto di aver scritto 35 libri sui temi più svariati, però, ci suggerisce che scrivere liste dà sicuramente ottimi risultati!

 

 

 

La tomografia a emissione di positroni (PET) – Introduzione alla Psicologia

La tomografia a emissione di positroni, nota con l’acronimo PET, dall’inglese “Positron Emission Tomography“, è uno degli strumenti di neuroimaging più innovativi, e può essere applicato in diversi ambiti diagnostici e di ricerca. 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La PET e SPECT (tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli, single photon emission computed tomography), sono largamente impiegate nella pratica clinica specialmente in neurologia, poiché consentono una dettagliata analisi a livello dell’attività metabolica del sistema nervoso centrale, e di conseguenza una accurata diagnosi precoce di molte importanti patologie.

A differenza della radiografia, della TAC e della risonanza magnetica strutturale, strumenti che restituiscono immagini prettamente anatomiche di alterazioni morfologiche sul distretto cellulare analizzato, la PET fornisce informazioni di tipo funzionale, ovvero determina quali zone del corpo metabolizzano maggiormente un tracciante, sostanza che permette di rilevare con maggiore precisione un’area che funziona di più rispetto ad altre. Per alcuni aspetti la PET è simile alla Risonanza Magnetica funzionale, ma le informazioni fornite sono più dettagliate e accurate.

 

Le procedure della PET

La procedura inizia con l’iniezione di un radiofarmaco al paziente a cui è chiesto di attendere il verificarsi dell’effetto dello stesso. Durante l’attesa, si raccomanda al paziente di stare fermo e di non parlare, per evitare fattori confondenti dovuti alla intercettazione del tracciante da parte degli organi corporei. Al paziente è chiesto, successivamente, di bere molta acqua e di urinare, al fine di eliminare il tracciante iniettato.

Successivamente, si procede al posizionamento del paziente sul lettino all’interno dello scanner PET. Da questo momento in poi la procedura è simile a quella di un esame TAC o RM: il paziente è sdraiato supino, con le braccia sopra il capo, per permettere una migliore visualizzazione di fegato e polmoni.

Nella PET, solitamente, l’acquisizione avviene dalla testa ai piedi, ma nella pratica clinica tutte queste modalità possono essere modificate a seconda del tipo di indagine da realizzare.

Le immagini acquisite sono successivamente ricostruite tramite un software che consente l’ottenimento della tridimensionalità.
Il tempo necessario all’espletamento delle acquisizioni delle immagini varia dai 20 ai 40 minuti.

 

Il Meccanismo di funzionamento della Pet

Durante la PET al paziente è somministrato per via endovenosa un radio-isotopo emettente positroni (radiofarmaci e/o traccianti, ovvero sostanze radioattive) che rilasciano, dunque, particelle chiamate positroni.

Lo scopo è indagare le caratteristiche funzionali degli organi e degli apparati nei quali il radiofarmaco si localizza. Quindi, dopo essere stato somministrato, il radiofarmaco si distribuisce nel corpo del paziente permettendo di ottenere delle immagini dettagliate della regione di interesse.
I radiofarmaci sono molecole che contengono al loro interno un atomo radioattivo e possono essere utilizzati sia a scopo diagnostico sia terapeutico. Un radiofarmaco è formato da due componenti: il carrier, ossia una molecola con funzioni biologiche di trasporto, ed il nuclide radioattivo: il primo consente di condurre il radionuclide fino all’organo o all’apparato di interesse, mentre il secondo permette la distribuzione nell’organismo del radiofarmaco.

Il radiofarmaco ha un’emivita breve e si lega chimicamente a una molecola che si mostra più attiva a livello metabolico (vettore). Uno dei radiofarmaci più utilizzato è il fluorodesossiglucosio (glucosio radioattivo o marcato), che, dopo essere stato introdotto nell’organismo, ha la caratteristica di essere assunto dalle cellule allo stesso modo del glucosio. La maggior parte dei processi biologici che richiedono energia utilizzano il glucosio e per questo tale sostanza è considerata un ottimo marcatore di tutti i processi cellulari in attiva proliferazione, in particolar modo nel cervello.

Dopo un tempo di attesa, durante il quale la molecola del fluorodesossiglucosio raggiunge una determinata concentrazione all’interno dei tessuti organici da analizzare, il soggetto viene posizionato nello scanner. Di conseguenza, la sostanza iniettata dopo pochi secondi decade, emettendo un positrone. Dopo un percorso, che può raggiungere al massimo pochi millimetri, il positrone si annichila con un elettrone, producendo una coppia di fotoni gamma  emessi in direzioni opposte tra loro (fotoni “back to back”).

Questi fotoni sono rilevati dalla macchina nel momento in cui raggiungono uno scintillatore, presente nel dispositivo di scansione della PET, dove creano un campo luminoso, rilevato attraverso dei tubi fotomoltiplicatori.
Il fulcro della PET è la rilevazione simultanea di fotoni in una determinata area ovvero quella più attiva a livello metabolico.
Lo scanner rileva attraverso delle immagini di sezioni, generalmente trasverse, separate fra loro e grandi 5 mm circa, l’area oggetto di studio. Si ottiene, in questo modo una mappa che rappresenta i tessuti in cui la molecola radioattiva si è maggiormente concentrata.

 

Limiti e rischi della PET

Il limite principale della PET è l’incapacità di intercettare aree in cui si ha una scarsa attività metabolica, quindi lesioni molto piccole non possono essere rilevate.
Un altro limite è la scarsa risoluzione spaziale, problema superato di recente con l’introduzione delle PET-CT, cioè l’associazione di alcune scansioni TAC all’esame PET, al fine di migliorare l’accuratezza delle immagini.
La PET, chiaramente, è un esame che espone a delle radiazioni ionizzanti, emesse dal tracciante e per questo, è un esame che dovrebbe essere eseguito solo in caso di un fondato sospetto clinico, visto l’elevato costo biologico, in termini di radiazioni ionizzanti. Inoltri, i costi del macchinario e dell’esame stesso sono molto elevati.

 

Applicazioni cliniche e di ricerca della PET

La PET consente di distinguere, in maniera estremamente precisa, la presenza di evidenti lesioni in tutto il corpo e in particolare nell’encefalo.
In ambito di patologia cerebrovascolare la PET consente di eseguire il monitoraggio in vivo dei fenomeni che dall’ischemia portano all’infarto cerebrale con necrosi tessutale, di individuare schemi dell’attività metabolica correlabili alla malattia di Alzheimer, alla depressione, alla malattia di Parkinson, e ai deficit cognitivi.

Inoltre, la PET è utilizzata anche nella ricerca poiché permette di ottenere misure fisiopatologiche in vivo. La possibilità di studiare aspetti funzionali quali il flusso ematico cerebrale, il consumo di ossigeno, ha consentito notevoli progressi nel campo delle neuroscienze.
Con l’impiego di traccianti a breve emivita è anche possibile studiare l’attivazione di specifiche aree cerebrali durante l’esecuzione di precisi compiti cognitivi. Si identifica, in questo modo, l’anatomia funzionale dei processi a carico di aree imputate al linguaggio, all’attenzione, alla visione, alla memoria e alla programmazione del movimento.

Tutto questo, consente di acquisire nuove conoscenze in termini operativi e funzionali rispetto alle modalità attuate dal cervello su come avviene il processamento e l’elaborazione dell’informazione in entrata e in uscita.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Processi metacognitivi nel narcisismo overt e covert – Riccione, 2017

Processi metacognitivi nel narcisismo overt e covert

A.L. Bitonti, C. Corbelli, D. Damiani, F. Fiorilli, S.H. Garzo, L. Salvadori

 

Introduzione

Negli ultimi anni sono state studiate dettagliatamente le caratteristiche personologiche alla base del narcisismo, ponendo attenzione agli aspetti metacognitivi e alle dinamiche interpersonali.

Wink nel 1991 ha identificato due forme di narcisismo definite “narcisismo overt” (NO) e “narcisismo covert” (NC). Quando è manifesta, la grandiosità narcisistica porta a un’espressione diretta di esibizionismo e di autoesaltazione e ad una forte preoccupazione per l’attenzione e l’ammirazione da parte degli altri. La seconda forma di narcisismo, il narcisismo covert, è caratterizzato da sentimenti celati di grandezza che però si manifestano come mancanza di fiducia in se stessi e d’iniziativa e sentimenti di depressione. Il narcisista covert sembra essere ipersensibile, ansioso, timido e insicuro, ma se osservato da vicino sorprende con le sue fantasie grandiose.

Studi recenti (Given-Wilson e coll., 2011), analizzando le dimensioni metacognitive e interpersonali che caratterizzano il quadro narcisistico, hanno confermato l’esistenza di queste due forme di narcisismo statisticamente indipendenti, le quali si differenziano per quanto riguarda i pattern di disregolazione emotiva, empatia e difficoltà interpersonali.

E’ di notevole rilevanza, sia psicodiagnostica sia clinica e dunque di intervento, esaminare i profili del Narcisismo Overt  e del Narcisismo Covert, approfondendone gli aspetti metacognitivi che li caratterizzano.

Pertanto, gli obiettivi del presente studio sono:
– Studiare i profili metacognitivi delle due forme di narcisismo.
– Analizzare le differenze tra Narcisismo Overt e Narcisismo Covert per quanto riguarda i processi metacognitivi; in particolare metacredenze, efficienza metacognitiva, bisogno di controllo dei propri pensieri, autoconsapevolezza cognitiva e ruminazione rabbiosa.

 

Biglietto a/r destinazione: mamma – Alla scoperta dell’attaccamento e del comportamento materno tra le diverse specie animali

In questo articolo verranno illustrati gli aspetti neurochimici del comportamento materno: saranno analizzate le variazioni che la risposta materna ha subito nel corso dell’evoluzione, a partire dai mammiferi small-brained, nei quali il controllo neuroendocrino esercita un ruolo quasi esclusivo sul comportamento materno, fino ad arrivare ai mammiferi large-brained, nei quali si riscontra un coinvolgimento sempre maggiore della neocorteccia.

Valeria Fiocco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Inoltre, il comportamento affiliativo fa parte di un elaborato sistema che prevede l’interazione tra diversi neuropeptidi, come dopamina, ossitocina e oppiacei endogeni. In particolare, il circuito del reward, mediato dalla dopamina, costituisce un sistema motivazionale aspecifico particolarmente importante che interagisce con un sistema motivazionale specifico per il comportamento materno, il quale a sua volta coinvolge regioni cerebrali e neurotrasmettitori specifici.

 

Il sistema di attaccamento materno

Nei mammiferi, la sopravvivenza della specie dipende dall’esteso repertorio di comportamenti sociali e parentali che inizialmente assicurano il soddisfacimento dei bisogni primari del neonato e successivamente ne plasmano il comportamento fornendo le prime esperienze sociali.

Per quanto riguarda nello specifico il genere umano, l’attuale psicologia dello sviluppo pone le sue radici nella teoria dell’ attaccamento di Bowlby (1969-1973), formulata a partire dallo studio delle associazioni tra la deprivazione materna e la delinquenza giovanile. Bowlby postula l’esistenza di un bisogno umano universale che consiste nella formazione di legami sociali, a partire dalla relazione con la madre o, in generale, con una figura di attaccamento. La sua prospettiva evoluzionistica ed etologica (che deriva, in un primo momento, dall’analisi degli studi di Darwin e dalla lettura degli scritti di Lorenz, oltre che dalla forte collaborazione con Hinde e, successivamente, dall’accesso all’opera di Tinbergen e ai costrutti neodarwiniani, che costituiscono la cornice entro cui interpretare la teoria di Bowlby) lo porta a sostenere che l’ attaccamento sia un sistema biologico innato che promuove la ricerca della prossimità con una figura di attaccamento specifica e che aumenta le probabilità del piccolo di sopravvivere e di riprodursi.

Le caratteristiche del legame di attaccamento con il caregiver determinano lo stile di attaccamento futuro del bambino: lo stile “sicuro” deriva da un caregiver disponibile, sensibile e responsivo rispetto ai bisogni fisici ed emotivi del bambino; al contrario, se gli interventi del caregiver sono caotici, imprevedibili o inadeguati, si sviluppa un attaccamento insicuro, che si declina in modo diverso a seconda del tipo di relazione tra la figura di attaccamento e il bambino (attaccamento insicuro/evitante, ansioso, disorganizzato).

 

Evoluzione del rapporto madre-figlio nei mammiferi non umani

Ruolo del sistema neuroendocrino nel comportamento materno dei mammiferi “small-brained”

Con l’evoluzione dei mammiferi, in particolare dei vivipari, tre processi acquisiscono un’importanza fondamentale: la formazione della placenta, lo sviluppo del feto all’interno dell’organismo materno e le cure fornite dopo il parto per assicurare la sopravvivenza del neonato fino al raggiungimento dell’età riproduttiva. Il genitore presente alla nascita, che investe tempo ed energia durante lo sviluppo in utero del feto e che è in grado di provvedere immediatamente dopo il parto al nutrimento attraverso la lattazione, è la madre: per questo motivo, tra il piccolo e il caregiver si instaura un legame sociale molto forte. In molte specie, le femmine non mostrano un comportamento materno spontaneo in assenza degli ormoni prodotti durante la gravidanza e il parto. Le cellule della placenta producono steroidi e altri ormoni che promuovono non solo lo sviluppo stesso della placenta, ma anche l’adattamento fisico, metabolico e comportamentale della futura madre. La risposta neuroendocrina ha il compito di sincronizzare la nascita con la produzione di latte e con il manifestarsi delle prime cure materne, che promuovono lo sviluppo di un legame sociale fondamentale per la sopravvivenza .

Tutte le relazioni sociali hanno tre aspetti in comune, anche se in percentuali diverse: la regolazione ormonale, il coinvolgimento dei meccanismi di reward e il riconoscimento sensoriale (Broad et al., 2006).

Il comportamento sociale di maschi e femmine riflette le diverse strategie che entrambi i sessi adottano per assicurarsi il successo riproduttivo: la coalizzazione tra soggetti di sesso maschile è tipicamente gerarchica e basata sull’aggressività piuttosto che sull’affiliazione. Le strategie riproduttive femminili sono completamente diverse: la maggior parte dei mammiferi “large-brained” è in grado di mettere al mondo un numero relativamente esiguo di piccoli, pertanto le madri investono molto su ognuno di loro e la loro sopravvivenza dipende dalla qualità delle cure fornite.

Le femmine instaurano, quindi, forti legami sociali con i propri piccoli e con altre femmine , che si basano sull’affiliazione e sulla collaborazione nell’assistenza verso la prole. Solo in una piccola minoranza di mammiferi (5%), l’ambiente rende svantaggiose le strategie maschili basate sulla promiscuità, pertanto il maschio è portato a legarsi in modo preferenziale ad una sola femmina, a difenderla dagli altri maschi e a partecipare alla cura dei piccoli (Broad et al., 2006).

La maggior parte dei mammiferi sono “small-brained”, avendo un maggior numero di strutture limbiche sottocorticali rispetto alle strutture corticali. La regolazione delle relazioni sociali richiede il riconoscimento degli stimoli olfattivi tra individui, soprattutto in corrispondenza di eventi di vita biologicamente rilevanti come l’accoppiamento e il parto. I cambiamenti ormonali che accompagnano questi stadi inducono variazioni nell’espressione di diversi neuropeptidi: fattori rilascianti la corticotropina (CRF), ossitocina (OT) e vasopressina (VP); questi sono importanti nella modulazione delle interazioni sociali, in particolare del comportamento materno.

L’ossitocina è un neuropeptide fondamentale che agisce a livello centrale promuovendo il maternal care e a livello periferico stimolando le contrazioni uterine durante il parto e la produzione di latte (Kendrick, 2000). Durante la tarda gravidanza, i recettori per OT sono regolati sia a livello cerebrale che in utero dagli elevati livelli di estrogeni presenti nel sangue. L’OT viene rilasciata nel cervello al momento del parto per facilitare il riconoscimento olfattivo del piccolo e il manifestarsi del comportamento materno, che si mantiene durante il periodo dell’allattamento attraverso l’azione coordinata di OT, prolattina e dopamina (Broad et al., 2006).

L’OT prodotta durante altri eventi di vita biologicamente rilevanti (ad esempio, durante il periodo dell’accoppiamento) mantiene la funzione di facilitare le interazioni sociali e di creare delle memorie olfattive che permettono il riconoscimento dei conspecifici (Dluzen et al., 2000; Ferguson et al., 2000-2001; Winslow and Insel, 2002). L’ossitocina ha un ruolo importante anche nel superamento della paura nei confronti degli stimoli nuovi e nel controllo dei livelli di ansia (Mantella et al., 2003; Amico et al., 2004).

Sia la gravidanza che l’estro promuovono, attraverso le variazioni ormonali che le caratterizzano, la sintesi di OT e degli stessi recettori OT. Gli estrogeni hanno due tipi di recettori, ERalfa e ERbeta. I recettori ERbeta sono presenti nei neuroni ipotalamici che sintetizzano OT, mentre i recettori ERalfa sono richiesti per la sintesi dei recettori OT nell’amigdala (Patisaul et al., 2003). I topi knockout per entrambi i recettori ER mostrano gravi difficoltà nei test di riconoscimento sociale, come i topi knockout per il gene che codifica per OT (Choleris et al., 2003, 2004). Quindi, durante la gravidanza, il cervello materno subisce una radicale riorganizzazione rispetto alla sintesi di ossitocina e all’attivazione dei recettori ossitonergici; le aree cerebrali coinvolte in questa riorganizzazione sono quelle associate al riconoscimento sociale: il bulbo olfattivo, ricco di recettori OT è coinvolto nella formazione di memorie olfattive, l’amigdala (AMY) e il nucleo accumbes (NA) (Choleris et al., 2004; Kavalieris et al., 2004; Young and Wang, 2004). AMY e NA sono reciprocamente interconnesse; nel ratto entrambe mostrano un’attivazione significativa durante l’esposizione a stimoli olfattivi biologicamente rilevanti (Moncho-Bogani et al., 2005); il rilascio di OT e vasopressina (VP) nell’amigdala centrale provoca la risposta automatica di paura nei confronti di stimoli nuovi (Huber et al, 2005). Anche NA è ricco di recettori per OT: lesioni in quest’area compromettono il comportamento di retrieval e l’esperienza gratificante che normalmente deriva dall’interazione madre-figlio (Numan et al., 2005).

L’olfatto è, nei mammiferi small-brained, la più importante modalità sensoriale che coordina il comportamento sociale; gli stimoli olfattivi vengono processati da due sistemi: il sistema olfattivo accessorio e il sistema olfattivo principale. Il sistema accessorio contiene l’organo vomeronasale VNO, che riceve e invia i segnali olfattivi non volativi (ferormoni) direttamente verso l’ipotalamo e il sistema limbico. I ferormoni sono in grado di modificare l’assetto ormonale (ad esempio, inducendo l’estro) e di regolare il comportamento sessuale e il comportamento materno -genitoriale (Keverne, 2004).

Il sistema principale risponde ad un ampio range di odori, molti dei quali non hanno un intrinseco significato sociale: tuttavia, attraverso questo sistema, gli odori possono acquisire un significato sociale specifico se percepiti in contesti biologicamente rilevanti o legati al reward (Kippin et al., 2003). Ad esempio, durante il parto, gli stimoli olfattivi percepiti per mezzo del sistema principale diventano importanti segnali di riconoscimento della prole e quindi acquisiscono valore sociale (Broad et al., 2006). Il cervello conferisce significato agli stimoli olfattivi associandoli ad altre informazioni sensoriali che hanno un significato biologico intrinseco, in genere in contesti legati alla motivazione e al reward. Infatti, il circuito neuronale che traduce i ferormoni ha accesso al circuito mesolimbico, in particolare al NA, attraverso l’amigdala. Anche le proiezioni del sistema principale raggiungono l’amigdala passando dal bulbo olfattivo e dalla corteccia piriforme, che si connette alla corteccia frontale attraverso i nuclei medio-dorsali del talamo. Dalla corteccia frontale le proiezioni del sistema principale raggiungono, infine, il NA.

 

Ruolo della neocorteccia nel comportamento materno dei mammiferi “large brained”

Con l’espansione della corteccia, a partire dai primati non umani, si verifica un aumento della complessità delle relazioni sociali e una minore dipendenza dagli stimoli olfattivi nella comunicazione interpersonale. Si ha, inoltre, una parziale emancipazione del comportamento materno dall’influenza ormonale: il comportamento materno, infatti, si manifesta anche in assenza degli ormoni legati alla gravidanza e l’attività sessuale si presenta anche al di fuori del periodo fertile in quanto non ha più uno scopo unicamente riproduttivo. Gli imput olfattivi alle aree coinvolte nel reward vengono in parte sostituiti dagli imput alla neocorteccia, soprattutto per quanto riguarda gli stimoli sensoriali multimodali, la programmazione di azioni complesse e la regolazione delle emozioni (Schultz et al.,2000; Chiba et al., 2001). Lo sviluppo di nuove strategie comportamentali ha avuto un impatto significativo sull’evoluzione dell’organizzazione sociale.

Nei primati, gli ormoni della gravidanza, del parto e dell’allattamento non sono necessari per il manifestarsi del comportamento materno : risulta maggiormente importante, a questo scopo, il sistema degli oppiacei endogeni.

L’attivazione di questo sistema promuove l’emergere di sensazioni piacevoli durante l’allattamento e sopprime il dolore durante il parto. Il trattamento con Naloxone (oppiaceo-antagonista) nel periodo postpartum riduce il comportamento materno di caregiving: le madri sono maggiormente predisposte al neglect infantile, mostrano minori comportamenti di retrieval e di pup-grooming e, pur non rifiutandosi di allattare, lasciano che sia il piccolo a prendere l’iniziativa in ogni situazione; inoltre, la protezione e la possessività nei confronti del proprio piccolo vengono meno. Lo stesso si verifica nelle madri che fanno regolarmente uso di eroina, la quale agisce sugli stessi recettori oppiacei determinando gravi conseguenze sullo sviluppo dell’attaccamento materno. Il sistema oppiaceo endogeno nei primati large brained agisce anche sui recettori localizzati nello striato ventrale (Broad et al., 2006).

Il sistema olfattivo nei primati non ha più un ruolo esclusivo nella regolazione del comportamento sociale, soprattutto il sistema vomeronasale. Lo stile di vita prevalentemente diurno, al contrario di molte specie small-brained notturne, porta ad attribuire maggiore importanza agli stimoli visivi piuttosto che a quelli olfattivi; inoltre, i primati accudiscono la propria prole per molto più tempo rispetto alle altre specie, pertanto devono essere in grado, per riconoscere il proprio figlio, di registrare ogni cambiamento fisico e comportamentale nel corso del suo sviluppo.

Questo updating degli stimoli visivi coinvolge il circuito prefrontale-striato ventrale che è connesso all’amigdala, la quale media la risposta emozionale. In questo modo la corteccia visiva subisce una rapida espansione e le aree visive associative diventano più complesse; inoltre, emergono aree specializzate nella processazione di stimoli visivi particolari, come le espressioni facciali. Il circuito corteccia prefrontale-striato ventrale è parzialmente indipendente dalle modificazioni ormonali che intervengono durante la gravidanza: l’evoluzione ha fatto in modo che il controllo endocrino lasciasse spazio all’azione di importanti sistemi neuronali (OT , DA, oppiacei endogeni) nella determinazione del comportamento umano (Broad et al., 2006).

Questi sistemi spesso rendono l’individuo vulnerabile a varie forme psicopatologiche, come l’abuso di sostanze e il disturbo ossessivo compulsivo (DOC), nel quale sono coinvolte aree cerebrali come la corteccia orbitofrontale, il nucleo caudato, lo striato ventrale e il cingolo anteriore. Sappiamo, infatti, che il DOC è più comune nelle donne e che il periodo postpartum è un momento critico per l’insorgenza dei sintomi; lo stesso decorso della malattia è notevolmente influenzato dall’assetto ormonale (Broad et al., 2006).

Nei mammiferi large brained, la mPFC ha acquisito un’importanza fondamentale nella regolazione del comportamento sociale (Broad et al., 2006): le cortecce associative polimodali mandano informazioni alla mPFC, la quale proietta al cingolo anteriore, che è connesso allo striato ventrale. Se lo stimolo è rilevante dal punto di vista emotivo (ad esempio, il pianto del proprio figlio), si ha il rilascio di dopamina nello striato ventrale, mediato dall’interazione con i neuroni ossitonergici, il sistema oppiaceo endogeno e l’assetto ormonale. Winslow e colleghi nel 2003 hanno dimostrato che lo sviluppo della corteccia prefrontale risente degli stimoli sociali ricevuti durante i primi anni di vita: la deprivazione materna nelle scimmie riduce la secrezione di OT , aumenta l’aggressività e porta alla comparsa di comportamenti stereotipati: la compromissione delle funzioni della corteccia frontale risultano nell’incapacità di inibire risposte emotivo-comportamentali inadeguate.

 

Il controllo neurochimico sul comportamento materno umano

Ruolo dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene nel comportamento materno

Il periodo intorno alla nascita è accompagnato da adattamenti fisiologici e comportamentali del cervello materno che assicurano le funzioni riproduttive, le cure materne e la sopravvivenza del bambino. Inoltre, profondi cambiamenti neurobiologici sono stati descritti rispetto alla risposta allo stress dal punto di vista neuroendocrino e comportamentale nei roditori e nelle madri umane: la risposta ormonale dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e la risposta del sistema nervoso simpatico agli agenti stressanti fisici ed emozionali risultano notevolmente attenuate. In questo modo, il comportamento materno ansioso e la risposta emozionale agli stimoli stressanti sono ridotti e ne deriva uno stato generale di calma (Slattery and Neumann, 2008).

Questi complessi adattamenti del cervello materno sembrano essere la conseguenza di una aumentata attività dei sistemi neurali che hanno effetti inibitori sull’asse HPA, come il sistema ossitonergico e il sistema della prolattina, e di una minore attività dei circuiti eccitatori mediati dalla noradrenalina, dai fattori rilascianti la corticotropina (CRH) e dagli oppiacei endogeni. La manipolazione sperimentale di questi sistemi usando approcci complementari dimostra la loro importanza per quanto riguarda gli adattamenti del cervello materno che si osservano durante la gravidanza. Tali adattamenti non solo sono importanti per uno sviluppo prenatale sano del bambino prevenendo un eccessivo rilascio di glucocorticoidi e nel promuovere il comportamento materno dopo il parto, ma sono anche fondamentali per il benessere materno e per la sua salute psicofisica (Slattery and Neumann, 2008).

Tutti i mammiferi mostrano cambiamenti fisiologici e comportamentali durante la gravidanza allo scopo di preparare la madre al parto. In particolare, si osservano profonde alterazioni durante la gravidanza e l’allattamento rispetto allo stile di coping nei confronti degli eventi stressanti, con una riduzione significativa dell’attività dell’asse HPA (Stern et al., 1973; Neumann et al., 1998b; Russel et al., 1999; Lightman et al., 2001; Kammerer et al., 2002; de Weerth and Buitelaar, 2005).

L’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) è primariamente coinvolto nella risposta dell’organismo allo stress. Attraverso l’azione coordinata di ipotalamo, ipofisi e ghiandola surrenale, l’asse HPA attiva e organizza la risposta agli stimoli stressanti ricevendo e interpretando informazioni che provengono da altre aree cerebrali, come amigdala e ippocampo, e dal SNA (Holsboer, 2001). La cascata ormonale ha inizio in risposta allo stimolo stressante con il rilascio di CRH da parte dell’ipotalamo, che stimola il rilascio di ACTH (ormone adrenocorticotropo) da parte dell’ipofisi. ACTH, a sua volta, stimola la produzione dei glucocorticoidi, i quali, una volta immessi nel circolo sanguigno, agiscono attraverso un feedback retroattivo a livello dell’ipotalamo, dell’ipofisi e dell’ippocampo, bloccando la risposta nei confronti dello stimolo stressante.

L’asse HPA è quindi responsabile di un meccanismo adattivo che mira a mantenere l’omeostasi dell’organismo anche a fronte di eventi stressanti (Shea et al., 2004). Nonostante queste risposte abbiano un’importante funzione protettiva nelle situazioni stressanti acute, vedremo come possano risultare dannose se gli ormoni vengono prodotti in quantità troppo elevate o per un periodo di tempo eccessivamente lungo (McEwen, 2002). Negli umani il cortisolo è il principale glucocorticoide che regola l’attività dell’asse HPA; esso agisce attraverso un feedback negativo inibendo il rilascio di CRH e ACTH.

Diversi sistemi neurali giocano un ruolo importante nel modulare l’attività dell’asse HPA attraverso input inibitori o eccitatori:

  • I neuroni ossitonergici rispondono agli agenti stressanti con un elevato rilascio di OT da parte della neuroipofisi nel circolo sanguigno (Neumann et al., 1993a, 1995, 1998a; Douglas et al., 1998; Wotjak et al., 1998; Neumann, 2002; Landgraf and Neumann, 2004) e, localmente, a livello dell’ipotalamo (Wigger and Neumann, 2002; Bosch et al., 2004) e dell’amigdala (Bosch et al., 2004, 2005); Gli effetti di OT dipendono dalla regione cerebrale in cui OT agisce (PVN, amigdala o regione del setto) e in base alla condizione sperimentale (Numann et al., 2001). L’infusione di OT nel cervello di femmine di ratto vergini attenua la risposta neuroendocrina allo stress (Windle et al., 2004); tuttavia, è stato osservato che il blocco dei recettori OT nelle femmine in gravidanza non determina una disinibizione dell’asse HPA come accade nelle femmine vergini (Neumann et al., 2000b,c): probabilmente, esistono altri fattori inibitori , tra cui il sistema degli oppiacei endogeni e la prolattina, che insieme ad OT attenuano la risposta dell’asse HPA allo stress nel periodo intorno al parto.
  • Si verifica un incremento dei livelli plasmatici di prolattina verso la fine della gravidanza (Grattan, 2001) e durante l’allattamento (Torner et al., 2004). PRL viene rilasciata localmente dai neuroni ipotalamici nelle femmine di ratto in lattazione in risposta alla suzione. La somministrazione continua di PRL attenua la risposta nei confronti di stimoli stressanti (Donner et al., 2007): PRL è quindi un fattore inibitorio importante dell’asse HPA durante l’allattamento (Torner et al., 2001).
  • L’aumento della produzione di vasopressina (VP) a livello dei neuroni parvocellulari (Walker et al., 2001), accompagnata da un aumento della sensibilità degli stessi neuroni parvocellulari alla VP (Toufexis et al., 1999b) contribuisce a modificare l’attività basale dell’asse HPA durante l’allattamento: infatti, si osserva un aumento cronico del livello di corticosteroidi nel plasma durante la lattazione (Stern et al., 1973; Walker et al., 1995; Windle et al., 1997b). È stato dimostrato in diverse specie che la responsività dell’asse HPA ad un ampio range di stimoli fisici o psicologici risulta attenuata a partire dalla seconda metà della gravidanza fino alla fine del periodo dell’allattamento (Stern et al., 1973; Walker et al., 1995; Windle et al., 1997b; Neumann et al., 1998b; Shanks et al., 1999; Johnstone et al., 2000; Lightman et al., 2001; Neumann, 2001; Brunton and Russell, 2003).
  • L’espressione dei fattori rilascianti la corticotropina (CRH) nel nucleo parvocellulare dell’ipotalamo è ridotta durante la gravidanza e l’allattamento, forse a causa degli elevati livelli di glucocorticoidi nel plasma che hanno un effetto inibitorio sull’espressione di CRH (Douglas and Russell, 1994; Johnstone et al., 2000; da Costa et al., 2001). La riduzione nell’espressione di CRH durante l’allattamento è stata descritta anche a livello dei nuclei centrali dell’amigdala, importanti non solo per la regolazione dell’asse HPA, ma anche per la processazione delle emozioni (Davis and Whalen, 2001). Se il sistema CRH è il maggior sistema eccitatorio dell’asse HPA, una sua minore attività contribuisce ad attenuare la produzione di ACTH e corticosterone, come avviene durante la gravidanza e l’allattamento. Quindi, una riduzione dell’attività del sistema CRH è associata a determinate modificazioni comportamentali che includono una riduzione dell’ansia (Hard and Hansen, 1985; Windle et al., 1997b; Toufexis et al., 1998; Neumann, 2003) e un aumento dei comportamenti tipicamente materni, come l’aggressività volta a proteggere la prole (Pedersen et al., 1991; Gammie et al., 2004).
  • L’azione eccitatoria sull’asse HPA risulta notevolmente ridotta: la noradrenalina a livello centrale agisce come neurotrasmettitore e durante la gravidanza i nuclei PVN dell’ipotalamo risultano meno sensibili alla sua azione (Toufexis et al., 1998; Douglas et al., 2005). È stata rilevata una minore espressione dei recettori adrenergici e noradrenergici nei nuclei magno e parvocellulari dell’ipotalamo del ratto durante la gravidanza (Douglas et al., 2005).
  • Un altro input eccitatorio sull’asse HPA attenuato in gravidanza è il sistema degli oppiacei endogeni (Douglas et al., 1998; Kammerer et al., 2002; Kofman, 2002). Al contrario, gli effetti degli oppiacei endogeni appaiono ribaltati durante il parto, quando inibiscono, invece che stimolare, l’asse HPA (Wigger et al., 1999). Inoltre, l’azione degli oppiacei endogeni sui neuroni OT a livello dei nuclei PVN ipotalamici è diversa nelle femmine di ratto vergini e nelle femmine gravide (Douglas et al., 1995; Wigger and Neumann, 2002). Gli effetti inibitori degli oppiacei endogeni sul rilascio intra-PVN di OT nelle femmine vergini e gli effetti eccitatori che invece si osservano nelle femmine gravide sono interessanti nel contesto dei meccanismi che regolano l’adattamento della risposta allo stress durante la gravidanza e l’allattamento.

Negli umani, in accordo con i risultati ottenuti dagli studi animali, si osserva un’attenuazione della risposta allo stress da parte dell’asse HPA nelle donne in gravidanza e durante il periodo dell’allattamento (Nisell et al., 1985; Sculte et al., 1990; Altemus et al., 1995; Kammerer et al., 2002); di conseguenza, si verifica un aumento dello stato di calma e del tono dell’umore positivo e una riduzione della risposta emotiva agli eventi di vita stressanti (Carter et al., 2002; Heinrichs et al., 2001; Glynn et al., 2004). Questi cambiamenti, che avranno un notevole impatto sul comportamento materno, possono essere ricondotti ad una minore attività del sistema CRH; inoltre, Heinrichs e collaboratori nel 2001 hanno dimostrato che l’attivazione del sistema OT e PRL contribuisce alla riduzione della risposta dell’asse HPA allo stress e al mantenimento del tono dell’umore positivo.

Riassumendo, la riduzione della risposta allo stress osservata durante la gravidanza e l’allattamento può essere in parte spiegata dall’aumentata attività del sistema OT e dalla maggiore produzione di PRL (Slattery and Neumann, 2008). Avendo un ruolo neuromodulatorio a livello centrale, OT e PRL esercitano un effetto significativo sul comportamento materno (Pedersen and Prange, 1979; Neumann and Landgraf, 1989; Neumann et al., 1993b, 1994 a,b; Bridges et al., 2001; Torner et al., 2002); ad esempio, è stato dimostrato che OT e PRL hanno importanti proprietà ansiolitiche, soprattutto durante la gravidanza e il periodo postpartum (Neumann et al., 2000b; Torner et al., 2002). È possibile osservare gli effetti ansiolitici di OT attraverso l’infusione diretta a livello di amigdala (Bale et al., 2001) e PVN: il rilascio di OT a livello di queste aree risulta inversamente correlato al livello di aggressività materna che si osserva nelle femmine in lattazione (Bosch et al., 2005).

 

Implicazioni dei sistemi ossitonergico, serotoninergico e dopaminergico nell’attaccamento materno umano

Abbiamo visto che il comportamento affiliativo fa parte di un elaborato sistema che prevede l’interazione tra i meccanismi implicati nel reward, i sistemi motivazionali, i sistemi emozionali e la reattività dell’organismo allo stress. Questo sistema complesso implica l’interazione tra diversi neurotrasmettitori, come dopamina (DA), ossitocina (OT) e oppiacei endogeni, oltre ad un notevole controllo ormonale.

Il paragrafo precedente ha messo in luce il ruolo fondamentale che il sistema ossitonergico riveste nel comportamento materno umano: il rilascio di OT periferica aumenta durante e dopo il parto e anche durante l’esposizione a stimoli uditivi e visivi legati al proprio figlio; infatti, il sistema ossitonergico è importante nella formazione delle memorie sociali, nel comportamento affiliativo e nella regolazione delle emozioni (Ferguson, Young and Insel, 2002). Le aree cerebrali coinvolte nel comportamento materno e sociale, come i nuclei ipotalamici paraventricolari, l’amigdala, VTA, BNST e la regione del setto sono ricche di recettori per l’ossitocina.

A sua volta, il sistema serotoninergico è importante in quanto modula il tono dell’umore e il rilascio stesso di ossitocina. Nello studio di Bakermans e collaboratori del 2008 si valuta il ruolo dei geni che regolano i recettori ossitonergici (OXTR) e serotoninergici (5-HTT) in madri di bambini a rischio di esternalizzare problemi comportamentali, tenendo conto del livello scolastico materno, di eventuali episodi depressivi e della qualità della relazione con il partner. I risultati indicano che i genitori con una variante meno efficiente di questi geni mostrano bassi livelli di responsività e di sensibilità nei confronti dei propri figli.

La dopamina modula direttamente il sistema ossitonergico e ha un ruolo importante nella formazione dei legami sociali (Young, Murphy and Hammock, 2005). È il neurotrasmettitore principale coinvolto nei circuiti del reward e una sua regolazione disfunzionale può interferire in modo significativo con il comportamento materno e la formazione del legame madre-figlio. Pensiamo alle madri che fanno regolarmente uso di cocaina: il sistema ossitonergico risente particolarmente dell’esposizione a questa sostanza (Johns et al., 2005) in quanto essa agisce negativamente sul sistema mesocorticolimbico.

A fronte dell’importanza che i sistemi ossitonergico e dopaminergico rivestono nella formazione e nel mantenimento del legame di attaccamento umano, Strathearn e collaboratori nel 2009 hanno condotto uno studio particolarmente interessante che mette in relazione lo stile di attaccamento adulto con l’attivazione di determinate aree cerebrali in risposta ai cues infantili. Lo studio esamina trenta donne primipare, sottoposte durante la gravidanza all’Adult Attachment Interview, un questionario creato da Mary Main per determinare differenze negli stili di attaccamento adulto; circa sette mesi dopo il parto le madri osservano in fMRI alcuni videoclips che riproducono il volto triste o sorridente dei loro figli; inoltre, viene rilevata la produzione di ossitocina periferica in risposta al volto infantile mentre le madri interagiscono fisicamente con il proprio figlio.

I risultati mostrano che le madri con un attaccamento di tipo sicuro hanno un’attivazione maggiore della via mesocorticolimbica nel vedere il viso sorridente del proprio figlio; in particolare, si attivano lo striato ventrale e la corteccia prefrontale mediale. Anche in risposta al volto triste del proprio figlio si attiva lo striato ventrale destro.

Questi dati suggeriscono che qualsiasi cues infantile, sia positivo che negativo, ha una funzione di rinforzo e di motivazione per il comportamento materno di care-taking e quindi attivano il circuito responsabile del reward in modo specifico per l’attaccamento materno. Inoltre, le stesse madri mostrano un aumento della produzione di ossitocina a livello periferico mentre interagiscono con il proprio figlio, che implica l’attivazione a livello centrale del sistema ossitonergico (ipotalamo-ipofisi/striato ventrale) e dopaminergico. Le madri con uno stile di attaccamento insicuro/evitante mostrano, invece, una minore attivazione dello striato ventrale in risposta al volto sorridente; inoltre, si rileva l’attivazione dell’insula anteriore, associata alle emozioni negative, e della corteccia prefrontale dorsolaterale, che indica un controllo cognitivo sugli stimoli emozionali, in risposta al volto triste del proprio figlio. Questi dati concordano con il “modello dell’organizzazione corticale del sistema di attaccamento” di Strathearn (2006) e Crittenden (2008), in base al quale gli individui con un attaccamento insicuro/evitante tendono a inibire le risposte affettive negative a causa di un bias a livello della processazione delle informazioni cognitive dello stimolo.

Abbiamo visto che l’attivazione dello striato è inversamente correlata ai punteggi elevati di attaccamento insicuro; anche la produzione di ossitocina periferica è minore rispetto alle madri con attaccamento sicuro. Studi recenti mostrano una riduzione della risposta ossitonergica periferica nelle madri esposte al consumo di cocaina e nelle donne gravide con bassi livelli di attaccamento nei confronti del feto. L’aumento della produzione di ossitocina nelle madri sicure si associa all’esperienza gratificante che deriva dagli stimoli infantili e contribuisce ad incrementare l’abilità materna nel prendersi cura del proprio figlio. Le differenze individuali nello stile di attaccamento adulto possono quindi essere ricondotte al funzionamento dei sistemi ossitonergico e dopaminergico: questa correlazione può essere utile per comprendere meglio come lo stile di attaccamento materno, sicuro o insicuro, influisce sullo sviluppo del bambino e sul suo stile di attaccamento adulto, mettendo in luce i meccanismi che regolano la trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento.

 

Una fondamentale componente emotiva del comportamento materno: l’empatia

La sensibilità e la responsività sono caratteristiche materne universali che garantiscono la sicurezza del bambino e il suo sviluppo socio-emotivo. La motivazione a prendersi cura del proprio figlio ha una forte base biologica: la prontezza a fornire cure, infatti, trova corrispondenza nell’anatomia e nella fisiologia della madre; il cervello femminile è programmato in modo tale da subire grandi cambiamenti durante la gravidanza: ad esempio, si rileva una maggiore attivazione a livello di specifiche aree cerebrali, come quelle appartenenti al sistema dei neuroni specchio, e ciò consente una migliore comprensione degli stati emotivi del figlio (Ellison, 2006).

Per studiare le basi biologiche dell’ attaccamento umano, l’attività cerebrale può essere misurata durante compiti che attivano il sistema dell’ attaccamento in soggetti adulti: questo è un approccio innovativo che valuta gli aspetti dell’attaccamento adulto in fMRI. Un esempio è lo studio pilota di Buchheim et al. (2006), in cui ad undici donne vengono presentati degli stimoli particolari (prevalentemente a valenza emotiva negativa) allo scopo di attivare il sistema dell’ attaccamento, dopo essere state classificate in base al loro stile di attaccamento adulto. I soggetti con un attaccamento sicuro mostrano una maggiore attività a livello dell’amigdala destra, dell’ippocampo sinistro e del giro frontale inferiore destro, aree che si ipotizza siano importanti nel sistema dell’ attaccamento. Recentemente alcuni ricercatori (Pelphrey, Morris, Michelich, Allison and McCarthy, 2005; Saxe, 2006b) stanno indagando le basi cerebrali del processo di “mentalization” (capacità di rappresentarsi lo stato mentale degli altri): queste ricerche innovative suggeriscono che regioni specifiche a livello della corteccia prefrontale mediale e della corteccia temporale mediano gli aspetti emotivi del comportamento, compreso il comportamento materno, come l’empatia.

 

Le basi neurobiologiche dell’empatia

L’empatia, definita come la capacità di percepire e rispondere in modo adeguato alle emozioni di un’altra persona, oltre alla capacità di comprenderle e di immedesimarsi con esse, è un aspetto fondamentale della relazione tra il bambino e il caregiver, soprattutto quando la comunicazione è totalmente o prevalentemente non verbale (Swain et al., 2007). Il network cerebrale che media le risposte empatiche si sovrappone al sistema dei neuroni mirror (Gallese, Keysers and Rizzolatti, 2004). Diversi studi condotti in ambito neuroscientifico mostrano che nel confronto con le emozioni espresse dai loro figli si attivano, nelle madri, i neuroni specchio in aree del cervello simili a quelle in cui si attivano i neuroni delle persone innamorate. Tale attivazione porta la madre a provare empatia per ciò che prova il figlio e le permette di intervenire con prontezza per proteggerlo (Leckmann and Mayes, 1999; Bartles and Zeki, 2004).

Due regioni primariamente coinvolte nella risposta empatica sono il cingolo e l’insula. In uno studio che si occupa di indagare la neuroanatomia dell’empatia usando la fMRI, Singer e collaboratori (2004) hanno misurato l’attività cerebrale in soggetti sottoposti a stimoli dolorosi ai quali viene successivamente detto che anche la persona amata sta vivendo la stessa esperienza; in questo modo hanno scoperto che regioni come il cingolo anteriore rostrale e l’insula anteriore si attivano in modo specifico se il soggetto immagina che sia la persona amata a provare dolore.

Il cingolo anteriore è coinvolto nella processazione dei cues emotivi che caratterizzano le proprie esperienze e quelle degli altri, nello spostamento dell’attenzione, nel decision making, nella rievocazione mnestica, nella regolazione del tono dell’umore e nell’organizzazione del comportamento volontario (Swain et al., 2007). Il cingolo anteriore, nell’esperimento di Singer e colleghi, sembra influenzare la dimensione affettiva del processo del dolore e gli aspetti motivazionali che orientano la selezione della risposta (C. Trentini, 2008).

Lo studio di L. Carr e collaboratori (2003) ha dimostrato che quando ai soggetti viene chiesto di osservare o imitare espressioni facciali corrispondenti a diverse categorie emozionali si rileva una maggiore attività a livello del solco temporale superiore (STS), nelle aree della corteccia premotoria in cui sono rappresentate le diverse configurazioni facciali e, soprattutto durante il compito imitativo, a livello dell’insula e dell’amigdala.

L’insula è un sito di integrazione delle informazioni emozionali ed è connessa alle aree che fanno parte del sistema mirror (corteccia parietale posteriore, frontale inferiore e temporale superiore). L’imitazione delle espressioni facciali delle emozioni produce una forte attivazione delle aree fronto-temporali che fanno parte del “mirror network” e che includono la “premotor face area”, la corteccia frontale inferiore e il solco temporale superiore. L’insula mette quindi in connessione la corteccia frontale e la corteccia temporale (aree deputate alla rappresentazione dell’azione, una componente cognitiva fondamentale per l’empatia) e le strutture profonde appartenenti al sistema limbico (coinvolte nella processazione emotiva). L’insula interviene nel tradurre le espressioni facciali nel loro significato affettivo, dando “colore emotivo” al processo cognitivo che permette la discriminazione delle emozioni altrui (C. Trentini, 2008).

Adolphs e collaboratori nel 2000 hanno dimostrato che un danno a livello della corteccia somatosensoriale destra, che include le aree somatosensoriali primarie e secondarie e l’insula, limita la capacità degli individui di identificare lo stato emotivo degli altri, a partire dall’osservazione della loro mimica facciale. Tali risultati avvalorano l’ipotesi in base alla quale il riconoscimento delle emozioni altrui richiede all’osservatore di ricostruire o simulare le immagini delle componenti somatiche e motorie normalmente associate all’esperienza soggettiva di quelle stesse emozioni.

Recentemente il gruppo di ricerca guidato da C. Trentini ha esplorato gli aspetti neurobiologici coinvolti nei processi empatici del comportamento materno durante il primo anno di vita del bambino. Sedici madri sono state sottoposte a fMRI durante la presentazione di immagini dei propri figli e di bambini sconosciuti della stessa età e dello stesso sesso, ritratti con diverse espressioni facciali (gioia, distress, neutralità, ambiguità). I compiti sperimentali prevedevano o l’imitazione delle espressioni facciali o l’ “osservazione/empatia”.

Durante la sessione di fMRI di “imitazione” sono state rilevate attivazioni significative nel circuito neuroni specchio – insula – sistema limbico, localizzate soprattutto a destra (corteccia premotoria ventrale destra, STS e amigdala bilaterale); in questo compito non sono state evidenziate differenze significative tra le attivazioni indotte dall’imitazione delle espressioni del proprio bambino e le attivazioni rilevate durante l’imitazione del bambino sconosciuto. Anche durante il compito “osservazione/empatia” sono state evidenziate attivazioni significative del circuito neuroni specchio – insula – sistema limbico, in particolare a livello del STS e, bilateralmente, nel lobo parietale inferiore e nell’amigdala. In particolare, quando alle madri è stato richiesto di empatizzare con le espressioni emotive dei propri bambini, sono state osservate attivazioni maggiori nel sistema dei neuroni specchio, bilateralmente, e nel giro frontale inferiore, nel lobo parietale inferiore, in STS e nell’insula anteriore prevalentemente a destra.

Le attivazioni evidenziate in questo studio riflettono il possibile substrato neurobiologico della capacità materna di recepire i segnali affettivi provenienti dal comportamento dei propri figli al fine di rispondervi in modo congruo. Queste competenze dipendono dalla capacità delle madri di riflettere sulle intenzioni, pensieri e stati affettivi del proprio figlio e queste abilità costitutive dell’empatia materna giocano un ruolo fondamentale soprattutto nel corso del primo anno di vita del bambino, quando non si sono ancora instaurate modalità comunicative più sofisticate, come il linguaggio (C. Trentini, 2008).

Second Life, L’Avatar Therapy e l’effetto Proteus

L’ avatar therapy si basa sull’utilizzo della personalità traslata del paziente attraverso una realtà virtuale; i pazienti, infatti, vengono accolti in studi virtuali dagli alterego dei loro terapeuti.

Second Life

Second Life è un mondo virtuale tridimensionale creato nel 2003 dalla società californiana Linden Lab con l’obiettivo di creare un modo innovativo di condividere esperienze. Benchè oggi sia passato un po’ di moda e con un numero di utenti inferiori rispetto al suo lancio avvenuto nel 2003, in Second Life si combinano insieme sia gli elementi di una chat (che rappresenta la modalità di comunicazione base con la quale si interagisce), sia gli elementi di un gioco di ruolo, ossia la capacità di muoversi in questo determinato cyberspazio tramite un personaggio che ci rappresenta. Ognuno può far entrare in gioco la propria immaginazione e costruire il proprio business, la propria abitazione e la propria immagine ed entrare in veri e propri ambienti tridimensionali. La struttura di questo mondo virtuale è quella di un vasto arcipelago di isole di proprietà dei residenti, plasmabili secondo le proprie esigenze.

A loro disposizione trovano strumenti indispensabili quali la possibilità di condividere video anche in streaming, musica e programmi radiofonici, parlare tra di loro attraverso non solo la chat, ma anche la voce.

L’opportunità alternativa concessa da questo nuovo strumento capace di fare evadere dalla realtà, parte dall’idea di dare all’individuo la possibilità di potersi creare il proprio aspetto esteriore, quello che può essere più adatto alla propria “seconda vita”. Gli utenti infatti possono decidere come apparirà il loro Io digitale (avatar). Il sistema mette a disposizione dell’utente un’ampia gamma di caratteristiche somatiche e di abiti. L’identità reale è celata dietro un Nickname, che può essere fantasioso oppure essere attinto da una lista fornita dai programmatori, prima di effettuare il primo accesso in Second Life. L’immersione in questo mondo comporta quindi l’assunzione di un’identità diversa e quindi anche il comportarsi di conseguenza. Significa lasciarsi alle spalle la propria immagine, appartenente alla vita reale, per diventare chi si desidera essere, o per essere semplicemente se stessi. Ma ciò che distingue Second Life dai comuni giochi 3D sta nel fatto che questo mondo virtuale non solo è popolato, ma è anche costruito dagli utenti stessi che lo modificano secondo le loro preferenze, progettando case o addirittura, interi quartieri. Ad oggi Second Life è ancora attivo, nonostante il calo vistoso degli utenti. E, secondo quanto dichiarato da Linden Lab, Second Life non chiuderà ancora. Inoltre, per chi non lo sapesse, la società californiana ha annunciato che aprirà un nuovo mondo virtuale il cui nome sarà “Sansar”, che significa “universo”. Sansar, la cui apertura pare sia stata fissata a metà del 2017, sarà appositamente pensato per la realtà virtuale e molte delle sue caratteristiche saranno simili a quelle di Second Life.

Avatar Therapy

La e-therapy, conosciuta anche come cybertherapy o net-therapy è la consulenza psicologica che si avvale della Rete come strumento di interazione tra paziente e professionista. Si usano a questo fine le e-mail, i programmi di instant messaging, le chat testuali, skype e così via. ll cliente si rivolge ad un professionista qualificato per ricevere aiuto nel risolvere i suoi problemi psicologici, per porre domande o dubbi, restando  comodamente nella propria casa e, qualora lo volesse, nel più completo anonimato. Nonostante la e-therapy si presenti come espediente senz’altro “innovativo”, esiste però uno strumento di consulenza psicologica e psicoterapico forse ancora più inedito. Il suo nome? L’ avatar therapy. L’ avatar therapy si basa sull’utilizzo della personalità traslata del paziente attraverso una VR, i pazienti infatti vengono accolti in studi virtuali dagli alterego dei loro terapeuti.Il dottor D. Craig Kerley (D. Craig Kerley, Psy.D. Georgia Licensed Psychologist), è uno psicologo che, con il nickname di Craig Kamenev, ha aperto in Second Life il Center for Positive Mental Health. Questo centro, primo caso di avatar therapy in America, è composto da uno studio professionale, un’ampia camera con i cuscini in terra per gli incontri di gruppo e una confortevole sala d’attesa. Il Dottor Kerley, impersonato mirabilmente dal suo avatar, tiene in Second Life sessioni di terapia di 50 minuti, regolarmente prenotate e pagate. Al posto del dialogo in prima persona c’è il dialogo in chat, mentre al posto del lettino reale compare invece quello virtuale. Per meglio comprendere l’attività del collega americano tenuta in Second Life, ho deciso di riportare l’intero contenuto della sua intervista comparsa sul quotidiano La Stampa del 30/08/2006:

Dottor Kerley, come funziona una seduta di terapia psicologica in Second Life?

«Si svolge più o meno come una sessione di chat terapeutica, ma in questo caso l’ambiente in realtà virtuale di Second Life offre indicazioni aggiuntive che non sarebbero disponibili in chat. Il paziente, e il terapista, forniscono indirettamente un gran numero di informazioni sulla loro personalità, in base al design del loro avatar, al nome scelto e agli abiti. Inoltre, l’uso di gesti introduce la possibilità di ricevere piccole informazioni non-verbali aggiuntive durante la terapia».

Quali sono i vantaggi di questo tipo di terapia?

«Il vantaggio primario della avatar therapy è la possibilità, per chiunque abbia un accesso limitato ai servizi psicologici, di usufruirne ugualmente. Nello specifico, chi ha gravi problemi fisici o soffre di fobia sociale debilitante o, ancora, di agorafobia spesso non è in grado di rivolgersi a un servizio specializzato. Ho scoperto che moltissime persone in queste condizioni usano Second Life come forma primaria di interazione sociale. Un altro vantaggio è proprio la natura virtuale: quando il problema è la fobia sociale, il paziente può sfruttare il gioco per svolgere un’interazione in un ambiente più “sicuro” rispetto alla vita reale. Queste sessioni di pratica possono poi essere gradualmente trasferite nella vita reale, quando il paziente prende fiducia nei propri mezzi. Gli stessi principi si applicano al trattamento della depressione, degli stati di collera e di problemi relativi all’ansia, come il disordine ossessivo-compulsivo e i deficit sociali collegati alla sindrome di Asperger».

Come nasce l’ avatar therapy? Ci sono altri psicologi che la praticano?

«Non conosco altri terapisti che conducono l’ avatar therapy in questo momento. Nei mondi virtuali, tuttavia, ci sono spesso gruppi di mutuo supporto, nei quali persone con problemi simili si riuniscono per discuterli. L’unico riferimento riguardo l’ avatar therapy è il libro online di John Suler “The Psychology of Cyberspace”».

Come hanno reagito gli abitanti di Second Life all’esperimento?

«Inizialmente con diffidenza. Molti degli abitanti di vecchia data non erano sicuri se il Center for Positive Mental Health fosse una simulazione o qualcosa di reale. Quando le persone hanno cominciato a capire che i nostri gruppi di discussione erano veri, hanno partecipato in numero sempre maggiore. Ora il gruppo di Second Life conta su 120 partecipanti e fino a 30 persone partecipano alle singole sessioni”».

Nonostante l’intervista sia affascinante e curiosa, lo scetticismo su queste forme di interazione terapeutica è largamente condiviso da molti professionisti della salute mentale. Non c’è dubbio che un’interazione via avatar, piuttosto che via chat, renda più pregnante e realistica la comunicazione fra due individui, ma resta la grande incognita della corporeità assente. In altre parole si possono eliminare gli elementi di fisicità senza snaturare il rapporto umano, vero agente terapeutico? A questa domanda risponderà la ricerca clinica e nel caso che la risposta sia confortante l’ avatar therapy ha dei vantaggi assolutamente indiscutibili, primi fra tutti il superamento di barriere geografiche e spaziali e la più semplice accessibilità per coloro che trovano troppo impegnativo un approccio tradizionale.

 

L’effetto Proteus

Nick Yee e Jeremy Bailenson, entrambi ricercatori della Stanford University, hanno condotto diversi studi sulla possibilità che gli avatar virtuali possano avere qualche effetto sul comportamento che l’utente adotterà nell’ambiente virtuale nel quale agisce. Essi hanno ad esempio assegnato a due gruppi di studenti un avatar per ciascuno. E’ stato dato loro meno di un minuto per esaminare le loro nuove “anime”(in una sorta di specchio virtuale) e poi sono stati “sospinti” in una stanza virtuale in compagnia di un altro avatar, controllato da un aiutante all’oscuro delle finalità dell’esperimento. Indipendentemente dalla loro altezza nella vita reale alcuni soggetti del primo gruppo hanno avuto in sorte avatar più alti dell’altro personaggio nella stanza, altri si son dovuti accontentare di avatar più bassi.

Nel secondo gruppo di studenti metà degli avatar assegnati rappresentavano volti più attraenti di quelli della controparte, l’altra metà erano invece meno attraenti. Il compito affidato a tutti era quello di accordarsi con l’altro personaggio nella stanza per dividere una somma di denaro. Hanno così riscontrato che le persone a cui era stato dato un avatar virtuale più alto erano negoziatori più aggressivi, mentre quelli con l’avatar più basso erano più inclini a scendere a compromessi anche quando questo non era proprio nel loro interesse. Coloro che avevano un avatar meno attraente inoltre, mentre parlavano con l’altro personaggio, si fermavano mediamente un metro più lontano da lui di quanto facessero quelli a cui era stato assegnato un avatar attraente. Queste influenze dell’avatar sui comportamenti degli utenti sono state chiamate effetto Proteus dal nome del dio greco del mare Proteo che, restio a raccontare ciò che vedeva con i suoi poteri di divinazione, sfuggiva alle domande assumendo forme sempre diverse.

In un altro studio, gli stessi ricercatori hanno potuto verificare che gli atteggiamenti stereotipici e i pregiudizi possono essere minimizzati se un individuo viene inserito nel corpo virtuale di un altro. Per esempio quando i partecipanti erano rappresentati in ambiente virtuale con l’avatar di persone anziane, gli stereotipi negativi verso gli anziani diminuivano sensibilmente.

In un altro studio, condotto da Sophia Grundnig e colleghi, ci si poneva questa domanda: che succede se un uomo entra e agisce in un ambiente virtuale con un avatar da donna e viceversa?

In questo nuovo studio non si è trattato soltanto di fingersi una donna per chattare con le donne, ma si è trattato di assumerne le sembianze, di muoversi col suo corpo, di indossare i suoi abiti, di avere le sue caratteristiche.

La stessa cosa naturalmente è accaduta per utenti femminili che hanno vissuto la loro esperienza virtuale sperimentale con un avatar maschile. Un altro gruppo di soggetti ha invece giocato con un avatar congruente col proprio sesso biologico. Entrati nell’ambiente virtuale di World of Warcraft (WoW) tutti i partecipanti allo studio sono stati coinvolti in due situazioni comunicative. Nella prima situazione gli uomini – donna sono stati contattati da un avatar donna per parlare di vestiti e di moda, mentre le donne – uomini sono state contattate da avatar uomini per parlare di “cose da maschi” (lotte e armi). Nella seconda situazione un avatar di sesso opposto a quello dell’avatar del partecipante cominciava a flirtare con lui, realizzando, negli utenti con gender-switching, un approccio omosessuale. Dopo l’interazione on line, i partecipanti hanno compilato un questionario sul concetto di sé.

I risultati hanno evidenziato che gli uomini –> donna giudicavano più criticamente il proprio aspetto fisico, rispetto agli uomini con avatar congruente con il loro sesso, mentre le donne–>uomini giudicavano meglio le loro abilità verbali rispetto alle donne rappresentate con avatar congruenti con il loro sesso. Questo suggerisce che il fatto stesso di aver messo piede in ambiente virtuale con un avatar del sesso opposto al proprio ha effetti misurabili sul concetto di sé, anche se, probabilmente, temporanei. In particolare il gender switching sembra avere un effetto negativo negli uomini sul giudizio che essi danno sulla propria gradevolezza estetica e un effetto positivo nelle donne sul giudizio che esse danno sulle proprie abilità verbali. L’effetto Proteus sembra quindi realizzarsi non solo con riferimento a comportamenti e attitudini, ma anche rispetto al concetto di sé. In generale tutti questi studi ci informano di un’intensa plasmabilità psicologica delle persone quando “diventano” avatar in ambienti virtuali, e danno conto anche del successo di ambientazioni come World of Warcraft. Se le persone tendono ad adattare il proprio concetto di sè in accordo con l’aspetto del proprio avatar, giochi di tale calibro sono capaci di trasformare letteralmente persone ordinarie in eroi, elfi, folletti o maghi. Quanto detto finora ci porta a una profonda conclusione: non si possono più ridurre i cybermondi a meri spazi ludici e sociali, ma bisogna tenere conto delle partite “psicologiche” profonde che vi prendono piede, senza però demonizzarli.

ADHD: strategie didattiche e consigli per gli insegnanti

Non di rado accade che di fronte una diagnosi di ADHD a scuola gli insegnanti si trovino spaesati e immersi in un mondo che non capiscono e non sanno gestire. I comportamenti dei bambini con ADHD, d’altra parte, non sono facili da comprendere se non si ha un’opportuna formazione ed adeguare la didattica alla sintomatologia spesso non è agevole. La premessa per una buona didattica con questi bambini è la conoscenza.

 

Bisogna comprendere che il bambino non è volontariamente “disattento” o “distratto”, ma non ha capacità di autoregolazione per cui non riesce a gestire i propri comportamenti e le emozioni, non colpevolizzarlo e cercare di attrarre la sua attenzione con metodologie adatte. Non accettare il bambino ed il suo problema equivale ad alimentare i vissuti di impotenza e incapacità con conseguente frustrazione che verrà sfogata, inevitabilmente, sul bambino.

 

Cos’è l’ADHD?

ADHD è l’acronimo di Attention Deficit Hyperactivity Disorder, tradotto in italiano come Disturbo di Deficit d’attenzione e/o iperattività e si configura come uno dei disturbi con una maggiore diffusione negli ultimi anni. Si tratta di un quadro patologico di difficile identificazione, in quanto il quadro si presenta sempre come molto eterogeneo con sintomi di disattenzione, iperattività o una commistione dei due. Tuttavia rilevarne la presenza è di estrema rilevanza per l’individuo in quanto tale disturbo si protrae fino all’età adulta e compromette significativamente le aree di vita più importanti. In questi soggetti spesso di verificano fenomeni di abbandono scolastico; le relazioni sociali non sono adeguate e le prestazioni scolastiche sono compromesse.

Si parla di ADHD con disattenzione predominante quando il problema centrale del bambino è proprio il deficit attentivo. L’attenzione selettiva e l’attenzione sostenuta risultano essere le più compromesse in questa tipologia di ADHD, ma anche le funzioni esecutive, in particolar modo la pianificazione e la memoria di lavoro, sono deficitarie. Questa discontinuità dell’attenzione compromette l’apprendimento, non permette lo sviluppo di abilità cognitive come il problem solving e di strategie comportamentali adeguate ad instaurare relazioni soddisfacenti con gli adulti ed i compagni.

Si parla di ADHD con impulsività e iperattività predominante, invece, quando la funzionalità attentiva risulta lievemente compromessa, mentre il focus del disturbo risiede nel comportamento ipercinetico e nella mancanza di autoregolazione. Questi deficit si traducono in un’attivazione motoria spropositata ed inappropriata, eloquio eccessivo, difficoltà di inibizione delle risposte e difficoltà nel rispettare regole e turni. Infine il tipo ADHD combinato presenta entrambe le classi di sintomi.

 

Come si comporta un alunno con ADHD a scuola?

E’ probabile che l’alunno con ADHD metta in atto alcuni comportamenti in conseguenza del suo quadro diagnostico. In base alla sintomatologia prevalente potrebbe, ad esempio, essere molto lento nell’iniziare le attività (prevalenza disattentiva) o, al contrario, essere impulsivo e precipitoso (prevalenza iperattiva) per cui ogni caso dev’essere valutato individualmente.

E’ inoltre doveroso specificare che molti bambini presentano comportamenti simili, ma nel caso di alunni con ADHD si tratta di una disfunzione regolativa a base neurobiologica per cui non assimilabile per frequenza e intensità ad alunni svogliati o demotivati. Se avete dubbi in merito potrete segnalare la questione ai genitori che potranno rivolgersi ad uno specialista di competenza (Neuropsichiatra Infantile e Psicologo) per una valutazione.

Dopo queste doverose premesse adesso proveremo a fare alcuni esempi di situazioni che potrebbero verificarsi a scuola con un bambino con ADHD:
– Tendenza a dimenticare a casa i materiali per la scuola;
– Comportamenti da “buffone della classe”;
– Tendenza a dimenticare di fare i compiti per casa;
– Richiede continui richiami per svolgere anche attività semplici;
– Spesso “spara” le risposte a caso;
– Infrange le regole dei giochi;
– Non è in grado di spiegare come ha svolto un’attività e se ha trovato difficoltà;
– Spesso il suo banco è un caos di oggetti non inerenti all’attività che sta svolgendo;
– Non riesce a pensare a soluzioni alternative alla propria nei problemi di matematica;
– Consegna i compiti senza averli riletti e commette errori di distrazione;
– Ha difficoltà nel ricordare nessi causa-effetto in una narrazione;
– Risponde prima che la domanda sia stata completata;
– Dimostra povertà lessicale nella produzione di testi scritti;
– Procede per prove ed errori.

Questi sono solo alcune delle situazioni che potrebbe dover affrontare un insegnante a scuola con un alunno ADHD in classe. Punizioni e rimproveri, come ben saprà chi ha dovuto affrontare questi momenti, non sono deterrenti e non hanno alcun tipo di effetto. Ciò accade perchè, come abbiamo detto precedentemente, il bambino non attua queste condotte volontariamente, ma esse sono frutto di una disfunzione regolativa. Dunque come affrontare questa situazione?

 

Consigli pratici per insegnanti

Prima di entrare nel vivo della didattica speciale per ADHD è utile sapere che secondo la normativa scolastica italiana i casi di ADHD rientrano nella recente normativa sui BES (Bisogni Educativi Speciali) per cui, in caso di diagnosi certificata, se il Consiglio di Classe lo ritiene opportuno (non è quindi obbligatorio), è possibile redigere un Piano Didattico Personalizzato. Riporto di seguito la nota n. 2563/2013 p.2: “Non è compito della scuola certificare gli alunni con bisogni educativi speciali, ma individuare quelli per i quali è opportuna e necessaria l’adozione di particolari strategie didattiche”.

Segnalo, inoltre, la possibilità di avvalersi di specifici teacher training, condotti da specialisti, per i casi di più difficile gestione.
Dopo queste doverose precisazioni ecco alcuni utili suggerimenti per la didattica con bambini con ADHD:

  • Strategie per il mantenimento dell’attenzione:
    Assicurarsi che non ci siano fonti di rumore che possano distrarre il bambino;
    Dare consegne brevi e di facile comprensione;
    Cambiare spesso il tono della voce;
    Utilizzare immagini, storie e video durante la spiegazione;
    Evitare i rimproveri e/o i richiami generici, prediligere modalità alternative per generare curiosità nei bambini e dunque attrarne l’attenzione;
    Utilizzare i gessi colorati alla lavagna;
    Utilizzare esempi pratici dell’attività che si andrà a svolgere evitando le astrazioni;
    Fare ripetere le consegne per assicurarsi la corretta comprensione del compito;
    Usare il contatto oculare durante le spiegazioni;
    Programmare la lezione in modo tale da non richiedere lo stesso livello d’attenzione per tutto il tempo.

 

  • Strategie per gestire l’iperattività:
    Evitare lavori ripetitivi e particolarmente lunghi, anche se semplici;
    Concordare preventivamente con il bambino le fasi del lavoro che si andranno a svolgere (compreso il controllo finale);
    Assicurarsi che il bambino abbia compreso con chiarezza cosa deve fare;
    Dare delle piccole ricompense che permettano lo sfogo fisico dell’energia (ad esempio: se ricontrolli quello che hai scritto puoi andare a prendere una merendina al distributore);
    Dargli modo di uscire dalla classe in modo strutturato così da evitare “evasioni” (ad esempio: tu sei l’addetto alle fotocopie, quando serviranno andrai a farle tu);
    Evitare di spiegare le consegne degli esercizi tutte insieme;
    Creare delle routines di classe.

Chiaramente essere l’insegnante di un bambino con ADHD non è un’impresa facile, ma imparare a capire il loro funzionamento è la chiave per instaurare con loro un rapporto costruttivo che non sia fonte di stress per entrambi.

Tecnologia organoide: un nuovo metodo per il rilevamento di malfunzionamenti cerebrali. Lo studio degli organoidi cerebrali

In una recente pubblicazione della rivista Nature Methods i ricercatori hanno introdotto un metodo per controllare sistematicamente lo sviluppo e le differenze tra gli organoidi cerebrali.

 

Lo studio sui malfunzionamenti cerebrali e il metodo per rilevarli

Nel 2013 alcuni ricercatori, guidati dallo scienziato Jürgen Knoblich dell’Institute of Molecular Biotechnology (IMBA), hanno sottoposto all’attenzione della comunità scientifica un’idea innovativa che può far luce sul funzionamento e la crescita neuronale.

Partendo da cellule staminali umane, i ricercatori sono stati in grado di riprodurre, in laboratorio, dei modelli tridimensionali viventi di piccole unità di cervello umano. Questi vengono chiamati organoidi cerebrali, possiedono alcune caratteristiche del cervello umano nel suo primo trimestre di sviluppo, lobi e corteccia inclusi. Questo tipo di coltura cellulare permette la crescita delle cellule staminali in 3D. Si presentano, dunque, come un modello ad alto potenziale di impiego all’interno della medicina. Infatti, grazie a questa scoperta, gli scienziati possono esaminare come le connessioni cerebrali, in vivo, si sviluppano e funzionano e, inoltre, come diversi farmaci o modifiche genetiche influiscono su di esse. Per diversi anni, Knoblich e colleghi, hanno lavorato intensamente per mettere insieme la complessa organizzazione delle diverse regioni cerebrali al fine di utilizzare questa tecnologia per indagare altresì cellule biologiche più sofisticate che potrebbero essere alla base dei disturbi neurologici.

In una recente pubblicazione della rivista Nature Methods i ricercatori hanno introdotto un metodo per controllare sistematicamente lo sviluppo e le differenze tra gli organoidi cerebrali. L’autore principale, Joshua Bagley, ricercatore post-doc dell’IMBA, spiega: “Nella nostra pubblicazione descriviamo un metodo per combinare i differenti tessuti cerebrali, a scelta. A tale scopo, lasciamo crescere insieme due diversi blocchi costitutivi della regione anteriore del cervello, ovvero, la parte dorsale e la parte ventrale. Questa cosiddetta tecnica di fusione di organoidi, ci permette di osservare interazioni complesse come, ad esempio, la migrazione cellulare e la crescita assonale tra le diverse regioni del cervello in via di sviluppo”. Gli scienziati potrebbero rendere visibile e analizzare la migrazione degli interneuroni GABAergici inibitori.

Questi interneuroni svolgono un ruolo essenziale al fine di una corretta elaborazione dell’attività cerebrale. I malfunzionamenti di queste unità regolatrici sono associate all’epilessia, alla schizofrenia e all’autismo. Ad esempio, gli interneuroni inibitori controllano il livello di attività nei circuiti locali del cervello e assicurano che non avvenga un’eccessiva emissione di segnali elettrici. Una perdita di tale inibizione, probabilmente a causa di una migrazione cellulare difettosa, può portare ad un’attività eccitatoria anormale che provoca crisi epilettiche.

Nel corso dello sviluppo cerebrale, gli interneuroni che vengono generati nella zona ventrale del cervello umano, migrano a lunga distanza per raggiungere le regioni corticali dorsali mediante effetto di segnali chimici. Daniel Reumann, dottorando dell’IMBA e co-autore dello studio dice: “È affascinante come si possa osservare il vagare degli interneuroni dalle regioni ventrali a quelle dorsali. Questi tipi di cellule si orientano mediante un processo chiamato chemotaxis, utile per il raggiungimento della loro regione target. Se questi segnali chimici vengono disturbati, gli interneuroni si confondono, perdono la traccia e potrebbero non arrivare nella giusta regione per controllare gli altri neuroni vicini comportando, come diretta conseguenza, l’insorgere di crisi epilettiche”.

Una proteina chiamata CXCR4 svolge un ruolo fondamentale nella migrazione degli interneuroni. I ricercatori sono riusciti a rendere inattivo questo segnale molecolare mediante un farmaco chiamato AMD3100, che inibisce CXCR4 evidenziando così la compromissione della migrazione degli interneuroni. Questo malfunzionamento potrebbe giocare un ruolo fondamentale nelle crisi epilettiche ma, probabilmente, anche in altri disturbi neurologici come ad esempio la schizofrenia.

Jürgen Knoblich afferma: “Fino a pochi anni fa gli scienziati non avevano la possibilità di comprendere in maniera sufficiente le varie cause della malattia neurologica. Le fusioni organoidi potrebbero rappresentare un cambiamento di paradigma, poiché questo nuovo metodo ci fornisce un ambiente controllato che permette l’esplorazione dei meccanismi sottostanti all’epilessia e ad altre malattie del sistema nervoso. Speriamo che il nostro lavoro contribuisca a una migliore comprensione dei malfunzionamenti che si verificano durante il complesso sviluppo del nostro cervello e di aprire la strada per potenziali trattamenti”.

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