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Disturbo ossessivo compulsivo: la psicoterapia cognitivo-comportamentale tra i trattamenti di prima linea

Un gruppo di ricercatori statunitensi ha condotto una revisione della letteratura scientifica per valutare i progressi diagnostici e terapeutici nel disturbo ossessivo compulsivo. Sempre maggiori sono le evidenze dell’efficacia della psicoterapia cognitivo-comportamentale.

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (cognitive behavioral therapy, CBT), nel corso degli anni, sta accumulando evidenze sempre più importanti per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo (obsessive compulsive disorder, OCD), tanto da giustificarne la diffusione attraverso piattaforme online e in contesti di gruppo.

Un team di psichiatri americani ha recentemente pubblicato uno studio su JAMA (Hirschtritt et al. 2017) che ha esaminato i lavori scientifici, pubblicati negli ultimi cinque anni, riguardanti il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo.

Gli autori hanno condotto una revisione degli articoli pubblicati su PubMed, EMBASE e PsycINFO per identificare studi controllati randomizzati (RCTs), meta-analisi e review sistematiche che trattavano il disturbo ossessivo compulsivo (tra soggetti con età superiore a 18 anni) e pubblicati tra il 1 gennaio 2011 e il 30 settembre 2016.

Tra i 792 articoli identificati ne sono stati selezionati 27 (11 RCT, 11 recensioni sistematiche o meta-analisi, e 5 recensioni-linee guida). Le meta-analisi e le revisioni sistematiche hanno avuto la priorità mentre case series e reports sono stati inclusi solo per gli interventi per i quali non erano disponibili RCTs.

La diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo, nei vari studi, era stata eseguita sulla base dei criteri pubblicati nel Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders Fifth Edition, che ha separato questo disturbo dal capitolo sui disturbi d’ansia in cui era presente nella precedente versione del DSM Fourth Edition.

I dati evidenziati mostrano come la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), con o senza inibitori della ricaptazione della serotonina (SSRI), rimanga una strategia di trattamento iniziale elettiva e come la letteratura a riguardo ne evidenzi sempre più l’efficacia. Le attuali evidenze sostengono inoltre che, tra i vari farmaci, gli SSRI sono da ritenersi una terapia farmacologica di prima linea, efficace e in generale ben tollerata.

Per i pazienti che non rispondono ai trattamenti di prima linea per il disturbo ossessivo-compulsivo, le prove emergenti suggeriscono, come approccio efficace, l’aumento di dosaggio di un SSRI e, per le forme più gravi e refrattarie ai trattamenti farmacologici, la neurochirurgia e la stimolazione cerebrale profonda. I risultati pubblicati da questo team di ricercatori statunitensi si allineano alle linee guida correnti per il disturbo ossessivo-compulsivo redatte dalla American Psychiatric Association e dall’Anxiety and Depression Association dell’American Clinical Practice Review for OCD.

I progressi del trattamento comprendono sempre più prove a sostegno dell’efficacia della diffusione on-line basata sulla psicoterapia cognitivo-comportamentale, che hanno dimostrato una diminuzione clinicamente significativa dei sintomi OCD quando condotta da terapeuti formati. L’uso degli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina rappresenta, tra i vari farmaci in commercio, la prima linea tra gli interventi farmacologici per il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo; tuttavia, i dati più recenti supportano l’uso aggiuntivo di neurolettici, la stimolazione cerebrale profonda, e l’ablazione neurochirurgica nei casi resistenti al trattamento.

Dati preliminari suggeriscono la sicurezza di altri agenti (ad esempio: riluzolo, ketamina, memantina, N-acetilcisteina, lamotrigina, celecoxib, ondansetron) sia in combinazione con gli inibitori della ricaptazione della serotonina o come monoterapia nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo, anche se la loro efficacia non è ancora stata stabilita.

Infine, gli autori concludono che la diffusione della terapia cognitivo-comportamentale basata sul computer ha prove a sostegno che rappresenta un importante progresso nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo. Anche se la terapia cognitivo-comportamentale con o senza inibitori della ricaptazione della serotonina rimane una strategia di trattamento iniziale preferita, una crescente evidenza supporta la sicurezza e l’efficacia dei neurolettici e anche di approcci neuromodulatori nei casi resistenti al trattamento.

Dal trauma precoce alle psicosi: il Traumagenic 
Neurodevelopmental Model

Sebbene il ruolo degli eventi di vita precoci nell’eziologia delle psicosi sia ben noto, i meccanismi eziopatologici sottostanti in grado in di spiegare la relazione “avversità precoce à psicosi” non sono ancora ben chiari.

Giovanni Mansueto – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

La relazione tra eventi di vita precoci e psicosi è un dato ben consolidato in letteratura. Negli ultimi anni un crescente numero di review ha esteso tale filone di ricerca (Read, Roar, Moskowitz & Perry 2014; van Os, Kenis & Rutten, 2010; Varese et al., 2012;). Una recente meta-analisi (Varese et al., 2012) conferma che persone esposte ad avversità durante l’infanzia e/o adolescenza hanno una maggiore probabilità di insorgenza di psicosi rispetto a chi non è stato esposto ad eventi traumatici precoci. In particolare sembrano rilevanti eventi di abuso (fisico e/o sessuale e/o emotivo), neglect, bullismo, ecc. mentre risultati contrastanti emergono in merito agli eventi precoci di perdita. Inoltre è stato accertato l’esistenza di una reazione “dose-risposta” (Read et al., 2014; Varese et al., 2012;), ovvero l’esposizione a molteplici eventi di vita precoci incrementa significativamente il rischio di insorgenza psicosi in età adulta.

Inoltre gli eventi di vita precoci sembrano esercitare un importante azione patoplastica. Infatti pazienti con storia di eventi traumatici tendono presentare un decorso più sfavorevole, minore funzionamento premorboso, deficit cognitivi, scarso funzionamento sociale, maggiori livelli di rabbia, alti tassi di comorbilità psichiatrica, suicidio, basso funzionamento cognitivo, abuso di sostanze (Read et al., 2014; Varese et al., 2012).

Sebbene il ruolo degli eventi di vita precoci nell’eziologia delle psicosi sia ben noto, i meccanismi eziopatologici sottostanti in grado in di spiegare la relazione “avversità precoce à  psicosi” non sono ancora ben chiari.

Si possono individuare due maggiori filoni di ricerca:

  • studi di matrice psicologica, nell’ambito dei quali è stato indagato il possibile ruolo della dissociazione, attaccamento, schemi cognitivi, sistemi di difesa, coping, ri-vittimizzazione, supporto sociale (Bebbington, 2009; Morrison, 2009; Read et al., 2014);
  • studi di matrice neuro-biologica focalizzati per maggiormente sulla valutazione dell’iterazione gene-ambiente, ruolo asse HPA, funzioni cognitive (Heim, Shugart, Craighead & Nemeroff, 2010; Read et al., 2014).

Nel contesto degli studi di matrice neuro-biologica un primo tentativo di integrazione dei vari filoni di ricerca è stato proposto da Read et al. (2014) nell’ambito del “Traumagenic 
Neurodevelopmental Model (TNM) (Read et al., 2014)”. In particolare il TNM focalizza l’attenzione sui meccanismi che possano spiegare l’elevata sensibilità allo stress tipica dei pazienti psicotici.

Secondo il TMN alta sensibilità allo stress riscontrata in pazienti psicotici potrebbe essere dovuta ad alterazioni nel neuro-sviluppo, in termini di modificazioni celebrali, a seguito di esposizione a traumi precoci. Inoltre il TMN ipotizza un legame tra eventi di abuso e abbandono e deficit psicologici come la riduzione del funzionamento intellettuale e cognitivo.

La prima proposta teorica del TMN è stata introdotta nel 2001 (Read, Perry, Moskowitz & Connolly, 2001) in linea con evidenze scientifiche che mostravano come le differenze tra il cervello di individui con diagnosi di schizofrenia e il cervello degli adulti di popolazione generale erano le stesse differenze riscontrate tra i bambini con e senza trauma (Heim et al., 2010; Pechtel & Pizzagagli, 2011; Read et al., 2014;). Tali differenze includono l’iperattività dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA), della dopamina, serotonina e anomalie epinefrina nonché differenze strutturali come danni dell’ippocampo, atrofia cerebrale, ingrandimenti ventricolari e invertita asimmetria cerebrale (Read et al., 2014).

Al fine di fornire una validazione teorica del TMN, nel 2014 Read et al. realizzano una revisione degli studi rilevanti per il TMN in cui sono stati indagati i diversi meccanismi di regolazione dello stress in risposta a traumi precoci.

  • Aumentata sensibilità allo stress nelle psicosi

Studi sperimentali, sia in uomini che animali, mostrano che l’esposizione a eventi di vita traumatici, durante l’infanzia o adolescenza, sembra associata a una iper-attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA) e del sistema dopaminergico in età adulta (Heim et al., 2010). Inoltre, come riportato da Lardinois, Lataster, Mengelers, van Os & Myin-Germeys  (2011) i soggetti con trauma infantile mostrano un’elevata reattività emozionale e maggiori reazioni psicotiche (nel pensiero e percezione) verso episodi stress quotidiano di lieve entità. Inoltre sulla base degli studi di Lataster, Myin-Germeys, Lieb, Wittchen &van Os (2012) sembra sussistere un effetto di interazione tra le avversità precoci e eventi  recenti: l’associazione tra sintomi psicotici ed eventi recenti sembra molto più forte negli individui che sono stati esposti alle avversità precoci rispetto a coloro che non riportano storia di eventi traumatici.

  • Asse ipotalamo-ipofisi-surrene (HPA)

Un’ampia letteratura supporta l’esistenza di una relazione tra la disregolazione dell’asse HPA e sistema dopaminergico e psicosi, mostrando un’associazione tra livelli di cortisolo e gravità dei sintomi psicotici (Read et al., 2014).

Inoltre primi studi mostrano tra i pazienti con schizofrenia  una maggiore disregolazione dell’asse HPA in coloro con esperienze traumatiche di abuso durante l’adolescenza rispetto a pazienti senza traumi (Braehler et al., 2005; Mondelli et al., 2010), così come un associazione tra livelli di cortisolo al mattino e inadeguato parenting, abuso sessuale in pazienti con primo episodio di psicosi (Mondelli et al., 2010; Pruessner, Vracotas, Joober, Pruessner & Malla, 2005).

  • Lobi Frontali e Ippocampo e BNF

Studi volti a indagare la relazione trauma precoce e lobi frontali nelle psicosi suggeriscono che le alterazioni del volume della corteccia prefrontale potrebbero essere legate a episodi di abuso sessuale durante infanzia o adolescenza piuttosto che altre forme di abuso (fisico o emotivo) o altre avversità come il neglect o eventi di separazione (Read et al., 2014). Similmente una riduzione del volume della materia grigia è stata riscontrata in pazienti con storia di abuso sessuale rispetto ai pazienti non abusati (Read et al., 2014).

Le alterazioni del volume dell’ippocampo sono tra le forme più frequenti riscontrante in pazienti con schizofrenia. Sebbene una diminuzione del volume dell’ippocampo è stata riscontrata in soggetti con traumi precoci (Pechtel & Pizzagalli, 2011), ancora pochi studi hanno valutato tale aspetto in pazienti psicotici esposti a avversità precoci.

Infine i BDNF ha un ruolo chiave nello sviluppo celebrale e relativa plasticità (Heim, et al., 2010). Forme acute di stress possono ridurre l’espressione del BDNF. L’associazione tra traumi precoci e alterati livelli di BDNF è stata evidenziata in un campione di pazienti al primo esordio psicotico (Read et al., 2014)

  • Stress, alterazioni celebrali e funzioni cognitive

Condizioni di stress prolungato possono portare a una iper-vattivazione dell’asse HPA, che sua volta può favorire una maggiore secrezione di elevati livelli di cortisolo e iper-attivazione dei recettori per i glucorticodi responsabili di una inibizione della produzione di BDNF (essenziali per la sintesi di nuovi neuroni). Tale processo può determinare un’alterazione del volume dell’ippocampo e della corteccia pre-frontale (Heim et al., 2010; Pechtel & Pizzagalli, 2011). A sua volta l‘ippocampo è strettamente legato a funzioni cognitive tra quali le memoria di lavoro (Pechtel & Pizzagalli, 2011).

Quindi, l’esposizione a traumi precoci potrebbe indurre un iper-attivazione dell’asse HPA che a sua volata, tramite processi di neurodegenrazione, può indurre una riduzione del volume dell’ippocampo favorendo una deterioramento delle funzioni cognitive.

In conclusione, la letteratura sembra fornire prove a favore della del TMN (Read et al., 2014) sebbene ulteriori studi sono necessari per confermare tali risultati.

La maggior-parte degli studi volti a identificare possibili meccanismi e processi alla base della relazione eventi precoci-psicosi sono indagini retrospettive. Ulteriori sviluppi di tali linee di ricerca dovrebbero considerare l’implementazione di disegni longitudinali. Inoltre dal momento in cui non tutti i pazienti psicotici riportano una storia di traumi precoci e non tutti coloro con traumi precoci vanno incontro a disturbo psicotico nell’età adulta, potrebbe essere utile l’identificazione di variabili in grado di mitigare l’impatto dei traumi precoci nel corso dello sviluppo.

Intelligenza, capacità in ambito scientifico e differenze di genere

Secondo un recente studio le ragazze si valutano meno dotate dei ragazzi in ambito matematico, anche in assenza di reali differenze nelle prestazioni

Differenze di genere nelle credenze sulle proprie abilità matematiche: l’influenza sulle scelte accademiche

 



Alcuni studi sull’intelligenza nei bambini hanno dimostrato come esistano degli stereotipi che tendono a considerare i maschi più intelligenti delle femmine

La percezione d’intelligenza nei bambini: questione di genere?

 



Secondo diversi studi, le credenze sull’intelligenza sono diverse per maschi e femmine e influenzano il processo di apprendimento e i risultati ottenuti

Come funziona l’intelligenza: può il genere influenzare lo sviluppo di credenze sulle abilità intellettive?

 


 

Al di là delle differenze intellettive individuali, la giusta sollecitazione può spingere le persone ad ottenere risultati migliori

L’intelligenza è innata o appresa? Non importa, se si ha il giusto incoraggiamento

Differenze di genere nelle credenze sulle proprie abilità matematiche: l’influenza sulle scelte accademiche

Le ragazze hanno la tendenza a valutare le proprie abilità matematiche come inferiori rispetto a quelle dei ragazzi, influenzando il successivo percorso scolastico.

 

Le ragazze valutano se stesse come notevolmente meno dotate dei ragazzi per quanto riguarda le competenze di tipo matematico, anche in assenza di reali differenze a livello delle prestazioni e dei punteggi ottenuti ai test.

Questo è quanto emerso da un recente studio svolto da Perez-Felkner e collaboratori della Florida State University, che si sono chiesti se le differenze nelle credenze possedute da maschi e femmine circa le proprie abilità matematiche potessero essere alla base delle discrepanze di genere rilevate per quanto riguarda la scelta di carriere accademiche di tipo scientifico (ad es. scienze fisiche, ingegneria, matematica, informatica).

Per quanto negli ultimi anni le donne abbiano generalmente oltrepassato gli uomini sia per quanto riguarda il numero di iscrizioni universitarie sia per quanto riguarda il conseguimento effettivo della laurea, questo non risulta essere valido per un ristretto gruppo di facoltà scientifiche, ancora fortemente, e quasi esclusivamente, a prevalenza maschile (DiPrete & Buchmann, 2013).

L’idea generale, tuttora in auge, è che questa discrepanza sia data da un’effettiva minore abilità femminile nel campo delle scienze fisiche o naturali, ma Perez-Felkner e collaboratori hanno notato che, anche mantenendo costanti le variabili inerenti i punteggi ai test sulle abilità matematiche, i ragazzi continuavano a valutare se stessi come più abili, mentre le ragazze come meno abili di quanto non fossero in realtà. Sembrerebbe, quindi, che in generale i ragazzi siano più sicuri di sé quando si tratta di avere a che fare con ambiti matematici impegnativi e stimolanti di quanto non lo siano le ragazze parimenti abili. Più nello specifico, sembra che i ragazzi valutino se stessi il 27% più abili delle ragazze.

In aggiunta, dalle analisi dei dati raccolti, è stato possibile notare come solo il 4.7% delle femmine sembri essere intenzionata ad intraprendere una carriera accademica di tipo scientifico, a fronte del 14.9% della popolazione maschile. Il tasso di intenzionalità femminile, inoltre, è risultato essere correlato alla valutazione delle proprie abilità data dalle ragazze all’inizio delle superiori: a valutazione negativa corrisponderebbe una percentuale di probabilità di intraprendere carriere scientifiche molto bassa (4.7%), mentre, al contrario, a valutazione positiva corrisponderebbe una percentuale più alta, per quanto però questa resti in ogni caso inferiore a quella dei maschi, anche di quelli che si percepiscono come poco portati per la matematica (5.6% per le femmine con percezione positiva vs. 6.7% per i maschi con percezione negativa; 19.1% per i maschi con percezione positiva).

Gli autori hanno potuto valutare il livello di abilità percepita utilizzando i dati provenienti da un precedente studio longitudinale che aveva coinvolto un totale di 16,200 ragazzi provenienti da 750 diversi licei americani a partire dal secondo anno di scuola superiore fino a due anni dopo il diploma, per una durata totale di sei anni di indagine empirica. Tra il secondo e l’ultimo anno di liceo, ai ragazzi partecipanti era stato chiesto di valutare il proprio grado di accordo con affermazioni inerenti la possibilità che tutti possano divenire abili in matematica (definita come growth mindset, ovvero la convinzione che non sia un’abilità innata, ma che si possa imparare) e la certezza di poter capire anche gli argomenti matematici più complessi (Education Longitudinal Study, ELS, Ingels et al., 2014). Perez-Felkner e collaboratori, per la propria ricerca, hanno in seguito selezionato, a partire dai dati dell’ELS, un campione di 4,450 ragazzi che, nei due anni successivi a quello del diploma, si erano iscritti ad un corso di laurea postsecondario.

All’interno della letteratura scientifica sono da tempo presenti evidenze circa le implicazioni a lungo termine che le credenze sulle proprie abilità, ed in particolar modo su quelle matematiche, possono avere sugli studenti e sul tipo di scelte da loro intraprese. Già uno studio degli anni ’90 aveva messo in evidenza come le ragazze avessero la tendenza a valutare le proprie abilità matematiche in modo più negativo di quanto non facessero i ragazzi e come questo avesse delle ricadute sulle successive scelte accademiche (Correll, 2001). Secondo questa ricerca questo sarebbe causato da un meccanismo di tipo culturale per il quale le credenze stereotipiche su ipotetiche differenze di genere influenzerebbero la percezione delle singole persone circa le proprie abilità, indipendentemente dal reale livello di tali abilità.

A proposito della propensione per i domini più scientifici, infatti, la matematica viene comunemente vista come un ambito prettamente maschile (ad es. Hyde et al., 1990a) e questo scoraggerebbe la maggior parte della popolazione femminile dall’intraprendere carriere accademiche quali matematica, scienze o ingegneria, perché non sufficientemente portate, per quanto le evidenze circa una reale differenza di genere in tali abilità siano pressoché nulle (Hyde et al., 1990b). Inoltre, Perez-Felkner e collaboratori hanno anche notato che se da un lato i maschi verrebbero generalmente incoraggiati fin dalla più tenera età a ricercare e perseguire le sfide, contemplando anche il rischio di un potenziale fallimento, dall’altro le femmine verrebbero sollecitate a ricercare la perfezione e ad adeguarsi a standard culturali molto più ristretti, scoraggiando ulteriormente la possibilità di intraprendere percorsi per i quali la società non le giudica abbastanza abili e, di riflesso, per i quali non giudicano se stesse abbastanza abili.

In generale, quindi, questo tipo di credenze di genere circa le proprie abilità risulta essere sufficientemente forte e pervasivo da influenzare la scelta di quali corsi di matematica e scienze intraprendere al liceo, la scelta di quale università sulla base della difficoltà delle facoltà scientifiche e anche il grado con cui gli studenti dichiarano di voler intraprendere e perseguire tali facoltà scientifiche, anche in ottica di future carriere. È così possibile che anche le ragazze tra le più dotate scelgano di non intraprendere un certo tipo di percorso scolastico e professionale solo perché considerato “maschile”.

Secondo gli autori, per poter ovviare a questo tipo di credenze e riequilibrare, così, le differenze di genere a livello di scelte accademiche, si potrebbe incrementare l’accesso a corsi scientifici avanzati nelle scuole superiori, organizzando, ad esempio, camp o attività di tipo informativo che possano sostenere e favorire anche gli interessi scientifici della popolazione femminile, scoraggiando l’adesione a stereotipi culturalmente diffusi non solo da parte delle studentesse, ma anche, e soprattutto, da parte di genitori ed insegnanti.

Perez-Felkner e collaboratori, infatti, hanno anche messo in luce come tra i risultati emerga sì una correlazione tra la valutazione di sé e delle proprie abilità matematiche al secondo anno di liceo e la tendenza a voler scegliere o meno un corso di laurea in ambito scientifico, ma anche la possibilità di modificare la propria inclinazione circa la formazione postsecondaria sulla base di nuove credenze sulle proprie abilità sviluppatesi verso l’ultimo anno di scuola superiore. In questo senso, agire nell’ottica di favorire l’interesse per l’ambito scientifico, fornendo anche maggiori opportunità ed esperienze formative durante gli anni di formazione secondaria potrebbe portare ad un miglioramento nelle differenze di genere per quanto concerne la scelta di future carriere accademiche e professionali.

A tal proposito, però, Hubner e collaboratori dell’università di Tubinga hanno indagato come una recente riforma scolastica tedesca, in vigore dal 2002, possa aver influito sulle differenze di genere per quanto riguarda le credenze sulle abilità matematiche e gli interessi professionali. Tale riforma ha, tra le altre cose, decretato a livello statale che tutti gli studenti delle scuole superiori dovessero necessariamente inserire nel proprio piano di studi corsi di matematica avanzata, proprio nel tentativo di incoraggiare i giovani, e soprattutto le ragazze, ad intraprendere carriere accademiche di tipo scientifico.

Dalle analisi dei dati, effettuate su più di 4,000 studenti sia prima sia dopo la riforma, è però emersa, confrontando i dati post-riforma con quelli pre, la presenza di un divario di genere sempre più grande per quanto riguarda la percezione delle proprie abilità ed inclinazioni in ambito scientifico (le femmine percepirebbero se stesse come ulteriormente meno abili dei maschi), facendo sì che non fosse riscontrabile alcuna modifica a livello delle differenze di genere nei tassi di iscrizione alle diverse facoltà universitarie. La riduzione delle possibilità di scelta del proprio piano di studi tramite obblighi imposti dall’alto non sembrerebbe quindi essere una soluzione efficace al fine di ridurre le discrepanze nelle scelte delle future carriere accademiche incoraggiando anche le donne ad intraprendere percorsi di tipo scientifico.

Infine, potrebbe risultare parimenti interessante indagare l’esistenza o meno di un analogo divario per quanto riguarda la scelta di carriere stereotipicamente considerate come femminili da parte della popolazione maschile (ad es. scienze infermieristiche, ostetricia e psicologia) e, in caso, mettere a punto modalità di intervento per riequilibrare anche tali bias di genere.

I bambini notano ciò che gli adulti non vedono: come l’attenzione selettiva cambia durante lo sviluppo cognitivo

A volte l’immaturità e le limitazioni che caratterizzano i bambini possono divenire un loro punto di forza: i costi dell’attenzione selettiva. 

 

Per quanto gli adulti possano avere prestazioni migliori dei bambini nella maggior parte dei compiti cognitivi, a volte i limiti, dati dall’immaturità delle connessioni cerebrali, che caratterizzano i bambini possono rappresentare un vero e proprio punto di forza.

Generalmente, all’interno delle scienze psicologiche, ed in particolar modo per quanto riguarda i processi cognitivi e sociali, si parla di progressione evolutiva, facendo in tal senso riferimento ad un miglioramento progressivo nel funzionamento sensomotorio, cognitivo e sociale nel corso dello sviluppo ontologico. Tale miglioramento procede di pari passo con una sempre maggiore complessificazione e differenziazione delle strutture a livello biologico. Esiste però una violazione di tale legge evolutiva, una sorta di inversione evolutiva per quanto riguarda lo sviluppo attentivo.

Una recente ricerca composta da due diversi studi condotti da Plebanek & Sloutsky, ricercatori del dipartimento di psicologia della Ohio State University, ha mostrato come gli adulti siano veramente bravi nella selezione e nel ricordo di informazioni a cui era stato detto loro di prestare attenzione, ignorando tutto il resto. Di contro, bambini di 4/5 anni sembrerebbero avere la tendenza ad selezionare tutto ciò che viene loro mostrato, indipendentemente dal grado di rilevanza dello stimolo ai fini del compito.

Questo meccanismo permetterebbe ai bambini di notare anche ciò che gli adulti non sono in grado di vedere a causa della cosiddetta attenzione selettiva, meccanismo attentivo che emerge e si sviluppa solo dopo i 7 anni di età, in seguito cioè alla maturazione dei lobi frontali, che permette la messa in atto di un’efficace attività di selezione percettiva delle informazioni (Hanania & Smith, 2010; Plude et al., 1994).

L’attenzione selettiva consiste nella capacità di selezionare e, per l’appunto, prestare attenzione ad un solo stimolo presente nel proprio ambiente. Questo processo di tipo top-down può quindi essere considerata come un “filtro” in grado di selezionare le informazioni in entrata, decidendo quali debbano essere elaborate, perché rilevanti ai fini di un compito, e quali, al contrario, ignorate perché irrilevanti. Generalmente, l’attenzione selettiva viene studiata tramite paradigmi di tipo visivo, come ad esempio il compito di ricerca visiva (visual search), nel quale si richiede di valutare il più rapidamente possibile la presenza o meno di uno stimolo target all’interno di un pattern più o meno variegato di stimoli (Pashler et al., 2001; Johnston & Dark, 1986).

Si tende spesso a considerare i bambini come carenti in molte abilità, soprattutto se paragonati al livello di efficienza cognitiva degli adulti, ma, a volte, quello che superficialmente può apparire come una mancanza può invero rappresentare un vantaggio.

I bambini, con la loro estrema curiosità e la tendenza ad esplorare tutto ciò che li circonda, presentano un meccanismo attentivo notevolmente distribuito e diviso, anche quando viene chiesto loro di focalizzarsi su un solo aspetto ben specifico dell’ambiente. Questo meccanismo, a volte, può però risultare utile e vantaggioso. Infatti, per quanto l’attenzione selettiva porti con sé numerosi benefici, tra i quali la capacità di elaborare le informazioni selezionate in modo veloce ed efficiente, essa comporta anche una serie di costi estremamente rilevanti, come la non elaborazione di ciò che non viene ritenuto rilevante ai fini di un compito. Al contrario, l’attenzione distribuita permette di far caso a tutto ciò che ci circonda, elaborando contemporaneamente le informazioni provenienti da più fonti, per quanto in modo meno rapido, efficiente e strettamente connesso alla quantità di risorse che ciascuno stimolo richiede.

A tal proposito, lo scopo della ricerca di Plebanek & Sloutsky era proprio quello di confrontare, attraverso l’uso di due diversi compiti attentivi, le abilità di elaborazione delle informazioni di adulti e bambini, al fine di testare l’ipotesi secondo cui i bambini sarebbero più abili nell’elaborazione di informazioni non rilevanti per il compito, ovvero nell’uso dell’attenzione distribuita. Al contrario, gli adulti dovrebbero essere più abili nell’elaborazione esclusiva dei soli stimoli utili all’esecuzione del compito.

Più nello specifico, all’interno del primo studio è stato coinvolto un campione di 35 adulti (età media = 19.59 anni) e 34 bambini tra i 4 e i 5 anni, ai quali è stato chiesto di svolgere un change-detection task, costituito dalla presentazione del contorno di due figure sovrapposte (target), seguita poi da quella di altre due figure sovrapposte (test), che potevano essere uguali o diverse dalle prime. I partecipanti, ai quali veniva detto di prestare attenzione ad una sola delle due figure sovrapposte, dovevano quindi riconoscere se una delle due figure test fosse uguale o diversa da quella target e poi se l’intera coppia di figure test fosse o meno la stessa di quella target.

Come previsto, gli adulti si sono dimostrati più abili nell’identificazione dei cambiamenti della sola figura target, quella a cui dovevano prestare attenzione (94% di accuratezza per gli adulti vs. 86% per i bambini), mentre, al contrario, i bambini si sono dimostrati in grado di riconoscere anche i cambiamenti nella figura che avrebbero dovuto ignorare (77% di accuratezza per i bambini vs. 63% per gli adulti). In sostanza, i bambini prestavano attenzione in modo distribuito a tutti gli stimoli presenti, indipendentemente da quale fosse la consegna e quindi da quale fosse il grado di rilevanza dei diversi elementi; al contrario, gli adulti si sforzavano di elaborare al meglio lo stimolo adeguandosi alla richiesta del compito.

Il secondo studio, svolto per indagare ulteriormente quanto emerso dal primo, era invece costituito da un compito di visual search, in cui veniva presentata ai partecipanti, gli stessi del primo studio, una serie di stimoli costituiti diverse caratteristiche attenzionabili, alcune rilevanti ai fini del compito mentre altre “distraenti”. Il compito consisteva nell’identificare una caratteristica target. Anche in questo caso veniva misurata l’abilità dei partecipanti nel rilevare i cambiamenti sia delle dimensioni rilevanti sia di quelle irrilevanti.

In generale, sia gli adulti sia i bambini si sono dimostrati in grado di identificare la caratteristica target, per quanto gli adulti fossero leggermente più accurati (89.2% di accuratezza per gli adulti vs. 74.5% per i bambini). I bambini, però, in modo analogo al primo esperimento, si sono dimostrati in grado di riconoscere anche i cambiamenti occorsi a livello delle caratteristiche irrilevanti (72% di accuratezza per i bambini vs 59% per gli adulti).

Gli adulti, quindi, in entrambi gli esperimenti hanno mostrato sia i benefici derivanti dall’utilizzo dell’attenzione selettiva (ad es. maggiore accuratezza nella ricerca visiva) sia i costi di questo meccanismo attentivo (ad es. minore accuratezza nella codifica di stimoli irrilevanti). I bambini, invece, in un raro esempio di inversione evolutiva, hanno esibito un sorprendente vantaggio nell’identificazione e nell’elaborazione di informazioni non rilevanti per il compito. Riassumendo, per quanto la selettività dei sistemi attentivi più maturi sia vantaggiosa per l’elaborazione di stimoli rilevanti, al contempo essa risulta essere di ostacolo per quanto concerne l’elaborazione di informazioni irrilevanti. Al contrario, l’attenzione distribuita, che caratterizza i sistemi più immaturi, è quella che permette di imparare il maggior numero di informazioni possibili, soprattutto in ambienti nuovi e non familiari.

Nel complesso, quanto emerso porta con sé implicazioni notevoli per quanto riguarda la comprensione di come l’ambiente educativo possa incidere sull’apprendimento dei bambini. Infatti, il fatto che i bambini non riescano a mantenere focalizzata la propria attenzione su un aspetto specifico mostra anche l’importanza di concepire ambienti scolastici appositi. I bambini, infatti, non riuscendo a gestire elevati numeri di stimoli distraenti, sono sempre orientati alla raccolta di informazioni, ma potrebbero non essere quelle che si sta cercando di insegnare loro. Forse un’aula noiosa o libri di testo in bianco e nero potrebbero risultare meno distraenti e quindi portare ad un apprendimento migliore (ad es. Fisher et al., 2014).

Dipendenza da Internet: come intervenire?

Anche se parlare di Dipendenza da Internet può sembrare generico perché comprende molte attività che si possono praticare su questa piattaforma (gambling on line, sesso e gioco), l’intenzione è quella di focalizzarsi sull’utilizzo di essa in quanto strumento che le persone usano per immergersi in ciò che più appassiona, cercando di comprendere come l’uso può diventare una patologia, se ci sono dei fattori predisponenti e nel caso, a che punto si trova lo stato dell’arte nella ricerca relativamente alle tipologie possibili di intervento terapeutico.

Giulia Mazzoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

 

Dipendenza da Internet: tante definizioni, un po’ di chiarezza

Prima di entrare nel merito del possibile trattamento per quello che definiamo Internet addiction o Dipendenza da Internet è importante riuscire a districarsi tra le definizioni di altri termini simili che tendiamo a sovrapporre e a confondere tra loro, come nomofobia, sindrome di Hikikomori, spesso associata all’uso prolungato di strumenti informatici e cyber dipendenza.

Nomofobia (abbreviazione della frase no-mobile phobia): è la parola che descrive la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo. Si accompagna a questo la sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili, la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo.

Questo fenomeno si può considerare un lontano parente della Dipendenza da Internet nella misura in cui si può innescare un meccanismo di dipendenza che parte dal circolo vizioso tipico: necessità sempre maggiore di aumentare il “dosaggio” e messa in atto di comportamenti disfunzionali che possono anche seriamente compromettere il funzionamento della persona (es. non spegnere mai il dispositivo, stare sempre più al telefono, vedere cosa accade agli amici sui social network, sollecitare la risposta dell’altro, svegliarsi di notte per controllare che non ci siano stati cambiamenti). In questi casi, soprattutto in termini di compromissione del funzionamento sociale o lavorativo, la differenza con una dipendenza da sostanze è veramente minima, se non nulla. Per questo motivo i ricercatori hanno sperimentato che i soggetti affetti da questo tipo di psicopatologia rispondono meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche (King A.L. at all., 2010).

Sindrome di Hikikomori: si tratta di una particolare condizione psicologica che riguarda soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti e che letteralmente significa ritiro sociale. Tale condizione si caratterizza infatti proprio per un rifiuto verso la vita sociale e scolastica o lavorativa per un periodo di tempo prolungato e una mancanza di relazioni intime. I giovani Hikikomori possono mostrare il loro disagio in vario modo: restare chiusi in casa tutto il giorno, uscire solo di notte o di prima mattina quando hanno la certezza di non incontrare conoscenti, oppure ancora fingere di recarsi a scuola o al lavoro e invece girovagare senza meta.

E’ importante non confondere il fenomeno Hikikomori con la Dipendenza da Internet (Secher, 2003): nonostante, infatti, l’elemento comune tra i due fenomeni sia un uso eccessivo del PC e delle nuove tecnologie, il profilo degli Hikikomori può essere definito quasi come uno stile di vita, una sorta di modalità anoressica di vivere le relazioni. I giovani infatti, scelgono deliberatamente una vita di reclusione e la realtà virtuale sembrerebbe diventare il sostituto del mondo reale. Pertanto l’origine della psicopatologia non è in termini di Dipendenza da Internet, poiché questo è solo uno strumento per crearsi un’identità specifica e fittizia. Gli studi mostrano che solo nel 10% dei casi Hikikomori è stata riscontrata anche la Dipendenza da Internet. In realtà al momento è stata trovata solo una correlazione tra i comportamenti di ritiro sociale e alcuni sintomi dell’ Internet addiction (Wong, 2015), ma ancora non è stato condotto uno studio che permetta di stabilire una relazione causale tra i due fattori.

Internet addiction e cyber dipendenza: questi due termini, del tutto sovrapponibili, indicano entrambi la condizione patologica di dipendenza dal web. Nonostante le recenti proposte di discussione, il DSM V non ha inserito questo tipo di patologia tra i Disturbi non correlati a sostanze e disturbi da addiction (in cui è presente solo il disturbo da gioco d’azzardo) ma ne fa cenno nella sezione Condizioni che necessitano di ulteriori studi citando il Disturbo da gioco su Internet e definendolo come l’unica condizione di questo settore con una considerevole letteratura scientifica. Tra i criteri proposti troviamo l’uso persistente e ricorrente di Internet per partecipare ai giochi che porta compromissione o disagio clinicamente significativi per un periodo uguale o superiore ai 12 mesi con sintomi di preoccupazione relativa ai giochi su Internet, astinenza e tolleranza, tentativi fallimentari di limitare la partecipazione ai giochi, perdita di interesse verso precedenti hobby e divertimenti, inganno dei famigliari e/o terapeuta rispetto alla quantità di tempo passata giocando su Internet e consapevolezza dei problemi psicosociali che tutto questo comporta.

Come si vede, quindi, il DSM riconosce l’esistenza di un possibile disturbo diagnosticabile come Dipendenza da Internet (anche se limitatamente all’attività di gioco sulla piattaforma) ma ne impedisce la diagnosi a causa della carenza di ricerche al riguardo. Inoltre l’atteggiamento della persona nei confronti dell’utilizzo di Internet è estremamente simile a quello di chi abusa di una sostanza: troviamo infatti le caratteristiche di astinenza e tolleranza, i ripetuti tentativi infruttuosi di abbandonare o cessare la dipendenza, gli stessi disagi e la stessa pervasività del disturbo nella vita quotidiana. Se ci pensiamo, anche il corpo di chi soffre di Dipendenza da Internet subisce delle conseguenze negative in termini di vista, muscolatura distale o di colonna vertebrale, spesso proprio perché l’urgenza nell’utilizzo è tale che la persona utilizza il pc o gli altri dispositivi negli ambienti e nelle posizioni meno idonee per farlo.

 

Origine, sviluppo e terapie della Dipendenza da Internet: uno sguardo alle ricerche

Anche se parlare di Dipendenza da Internet può sembrare generico perché comprende molte attività che si possono praticare su questa piattaforma (gambling on line, sesso e gioco), l’intenzione è quella di focalizzarsi sull’utilizzo di essa in quanto veicolo e strumento che le persone usano per immergersi in ciò che più appassiona, cercando di comprendere come l’uso può diventare una patologia, se ci sono dei fattori predisponenti e nel caso, a che punto si trova lo stato dell’arte nella ricerca relativamente alle tipologie possibili di intervento terapeutico.

Relativamente a ciò che può predisporre ad una Internet addiction, gruppi di ricercatori hanno portato alla luce il fatto che l’uso eccessivo di Internet è legato a problemi emotivi preesistenti che ne amplificano la gravità come l’ ansia, la rabbia, lo stress o la depressione. Riguardo invece alla condizione di vera e propria Dipendenza da Internet è stato dimostrato che essa è legata ad uno stile di personalità propenso alla dipendenza, all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e ad alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).

Con l’obiettivo di comprendere l’impatto che l’utilizzo del web ha su persone con una Dipendenza da Internet rispetto a chi non ha questo problema, Romano ha indagato come il tempo passato su Internet influisce su persone che sono o non sono già consumatori abituali. Dai risultati emerge che l’utilizzo di Internet ha un forte impatto negativo sull’umore soprattutto nel gruppo di chi è già dipendente. Quindi Internet ha effetti più pesantemente negativi su quelle persone che hanno già delle problematiche di dipendenza al riguardo e in misura minore sugli altri.

Lo studioso Davis R.A. (1999) ha utilizzato un modello cognitivo-comportamentale per spiegare lo sviluppo e il mantenimento dell’Internet addiction. Secondo questo approccio, esso deriva da cognizioni disadattive unite a dei comportamenti che intensificano o mantengono la risposta disadattiva. Fattore chiave è il rinforzo che l’individuo riceve dall’evento: se il rinforzo è positivo, la persona sarà condizionata a compiere più frequentemente la medesima attività al fine di raggiungere una reazione fisiologica simile. La letteratura scientifica ci informa infatti che l’utilizzo di Internet si mantiene grazie a rinforzi a carattere di piacevolezza, come ad esempio il divertimento, il passare del tempo o il cercare informazioni.
Come in ogni processo di condizionamento, gli stimoli associati con lo stimolo primario diventano rinforzi secondari e agiscono rinforzando la patologia (Şenormancı at all., 2012).

Una revisione sistematica della letteratura (Kuss, Lopez Fernandez, 2016) ha individuato 46 studi che hanno preso in considerazione questi 4 aspetti nel tentativo di comprendere i fattori utili per un possibile trattamento della Dipendenza da Internet: caratteristiche delle persone che richiedono un trattamento per la Dipendenza da Internet e/o per il gioco su Internet (treatment seeker), psicofarmacoterapia, psicoterapia e terapie combinate.

Treatment seeker: sono così definite le persone che riconoscono di avere un problema di Dipendenza da Internet e che si rivolgono a dei professionisti perché non riescono a trovare una soluzione da soli. Da un punto di vista psicometrico, la maggioranza degli studi li ha selezionati utilizzando uno strumento self report chiamato IAT (Internet Addiction Test, Young, 1998), basato sui criteri della dipendenza da sostanze e del gambling.

Psicofarmacoterapia: è stata usata in 5 studi; i pazienti sono stati trattati con una combinzazione di SSRI (inibitori del reuptake della serotonina) e farmaci antipsicotici.

I trattamenti psicofarmacologici studiati per la Dipendenza da Internet sono stati efficaci nel diminuire sia i sintomi legati alla dipendenza che i sintomi di altre patologie per cui il farmaco è stato impiegato (es. depressione). I miglioramenti sono rimasti fino ad un follow up a 4 mesi.

Psicoterapia: la maggioranza delle psicoterapie ha usato un approccio cognitivo comportamentale individuale applicato su pazienti ambulatoriali, della durata di circa 8-28 sedute.

I risultati del trattamento sono stati misurati attraverso punteggi su un numero di scale psicometriche riguardanti l’uso eccessivo di Internet che hanno compreso Internet Overuse Self-Rating Scale (Cao, Jiang, 2006), Adolescent Pathological Internet Use Scale (Waltberg et al, 2014) e un assessment di sintomi emotivi, cognitivi e comportamentali.

Solo due studi hanno mostrato una chiara efficacia della psicoterapia ed entrambi hanno utilizzato un approccio di gruppo. Kim (2008) ha impostato un disegno quasi sperimentale per un intervento di psicoterapia di gruppo e ha trovato una significativa riduzione dell’Internet addiction e un significativo aumento dell’autostima nel gruppo sperimentale rispetto al controllo.

La Terapia Cognitivo-comportamentale si è mostrata efficace nel ridurre le disfunzioni cognitive associate alla Dipendenza da Internet, tuttavia Winkler et al (2013) hanno esaminato l’efficacia di diversi trattamenti per l’Internet addiction in una metanalisi che includeva 13 studi: i loro risultati hanno mostrato che la terapia cognitivo comportamentale non dà risultati significativamente migliori di altri trattamenti psicoterapuetici, nonostante essa figuri essere l’approccio più popolare per il trattamento della Dipendenza da Internet.

Alcuni studi hanno incluso anche terapie famigliari concomitante a quello individuale, individuabili in: una modalità CBT chiamata “multimodal school-based group” (MSBG, Du et al., 2010), una terapia famigliare tradizionale per giovani adulti dipendenti dall’uso di Internet e un modello di intervento multimodale come quello usualmente applicato per l’abuso di sostanze, che comprendeva un counselling famigliare e un gruppo di auto aiuto.

L’approccio psicoterapeutico MSBG è stato applicato in una scuola coinvolgendo alunni, insegnanti e genitori. Il gruppo di dipendenti da Internet era composto da studenti trattati usando una terapia cognitivo comportamentale classica di gruppo, formato da 6 a 10 partecipanti.

L’MFGT (“multi-family group therapy”, Liu et al, 2015) è un nuovo approccio psicoterapeutico per adolescenti con Dipendenza da Internet. Questo intervento prevede un gruppo di terapia sia per adulti (genitori) che per adolescenti (dipendenti da internet) e lo scopo è quello di fare in modo che si forniscano reicproco supporto seguendo le reazioni transferali che derivano dal coinvolgimento nel trattamento e che promuovano la coesione famgiliare. Il principale obiettivo di questo tipo di terapia è di ridurre la Dipendenza da Internet potenziando la comunicazione e la vicinanza tra gli adolescenti e i loro genitori e di fare in modo che la famiglia adempia ai bisogni psicologici dei suoi membri tramite la comunicazione e la condivisione anzichè l’uso o abuso di Internet.

L’approccio MFGT si è rivelato efficace in tre aspetti: è risultata una significativa riduzione del tempo passato on line (ridotto della metà rispetto ai controlli), un decremento dei parametri testistici relativi all’Internet addiciton e, dalla prospettiva dei genitori, molta più soddisfazione riguardo al comportamento dei loro figli online. Inoltre, il più importante fattore che ha ridotto la Dipendenza da Internet in questo studio è emerso essere la relazione genitoriale.

Terapia combinata: sei studi hanno utilizzato la terapia combinata per trattare l’Internet addiction, composta da un tipo di trattamento psicologico in combinazione con uno dei seguenti: altre terapie psicologiche, farmacoterapia o elettropuntura.

L’uso dell’elettropuntura in associazione a interventi psicologici migliora il successo nel trattamento della Dipendenza da Internet in misura maggiore rispetto ad una sola CBT.

Tutti i tipi di terapie combinate sono state efficaci per il trattamento dei problemi legati all’uso di internet, mentre sono limitati i benefici relativi alle comorbidità (es. depressione). Ciò suggerisce che nei casi in cui c’è comorbidità e viene impostato anche un trattamento farmacologico, clinici e ricercatori dovrebbero tenere monitoriati i progressi del paziente, modulare il dosaggio dei farmaci e/o modificarli per raggiungere il migliore risultato possibile per il paziente.

 

Conclusioni

Secondo il DSM V l’ Internet addiction o cyber dipendenza è attualmente una condizione che necessita di ulteriori studi, perciò ufficialmente non può essere diagnosticata. I criteri proposti hanno la stessa struttura di quelli utilizzati per descrivere la dipendenza da sostanze o il disturbo da gioco d’azzardo patologico (online) perciò ci sono le condizioni per credere che un eventuale trattamento per la Dipendenza da Internet sia molto simile a quelli attualmente utilizzati per questi disturbi clinicamente diagnosticabili.

Relativamente alle psicoterapie, è risaputo che le terapie di gruppo hanno un certo numero di vantaggi rispetto alle terapie individuali per questo tipo di patologie (il paziente è inserito all’interno di una rete di supporto, in un contesto sicuro entro il quale l’argomento della Dipendenza da Internet può essere discusso liberamente, può condividere le proprie esperienze con chi le ha già vissute o le sta vivendo). Anche l’efficacia delle terapie basate sul gruppo per adolescenti con problemi di abuso di sostanze e dipendenza è stata stabilita da tempo.

Quello che ci dicono oggi le ricerche è che inserire la rete famigliare all’interno delle sedute di terapia sembra particolarmente fruttuoso (come messo in evidenza dagli studi su MSBG e MFGT) e da questo si può derivare che l’inquadramento terapeutico di tipo famigliare utilizzate per i disturbi da sostanze possono essere ugualmente efficaci anche per l’Internet addction e/o un uso di Internet problematco.

Ciò in particolare si rivela efficace per i pazienti giovani, in cui le famiglie sono un importante gruppo sociale per il loro sviluppo: insegnano i valori, offrono modelli di comportamento appropriati e scoraggiano dai comportamenti ad alto rischio.

I clinici quindi dovrebbero essere incoraggiati ad inserire le famiglie nel trattamento psicologico di pazienti giovani, compresi adolescenti e giovani adulti.

Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) (2017) di Giorgio Serafini Prosperi – Recensione del libro

Il regista e scrittore Giorgio Serafini Prosperi, autore del volume autobiografico Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti), utilizza la propria esperienza personale per raccontare il disagio emotivo e relazionale di chi soffre di un disturbo da alimentazione incontrollata.

 

È l’unicità della sua storia che fa sì che l’autore arrivi dritto alla pancia di chi lo legge, a quella parte del corpo che diventa una voragine incolmabile e una fonte di inesauribile sofferenza per chi soffre di questa tipologia di disturbo. Ma Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) arriva anche al cuore dei lettori, sia di chi lo legge perché accomunato dalla stessa problematica sia dei professionisti del settore, psicologi ma non solo, che spesso si adoperano nella lotta ai chili di troppo con l’obiettivo di trovare nuove strategie.

Come faccio a dirti che mangio per non sentire tutto il dolore che non penso di poter contenere, anche se poi quel cibo nutre un dolore ancora più grande? Più grande della mia pancia senza fondo, della mia paura del mondo, del mio sentirmi sempre impotente, sempre incapace, sempre fuori posto.

 

Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) – Spunti di Riflessione

È un testo semplice ma ricco di ottimi spunti di riflessione, il primo è quello del riconoscere questo disturbo come una malattia emotiva da non sottovalutare e che non può essere curata solo attraverso una nuova dieta; il secondo spunto è che non esiste metodo che potrà funzionare se non si tiene conto dell’unicità dell’essere umano che si ha di fronte.

Queste sono solo alcune delle riflessioni che l’autore ci offre, anche se in assoluto, la novità di Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) così autobiograficamente travolgente, è quella di portare in scena l’utilizzo della mindfulness come “tecnica” che aiuta a gestire il disturbo alimentare.

Il testo offre anche delle meditazioni guidate che brevi, intuitive e dirette, offrono un valido strumento che anche un neofita della materia può praticare. In più, diversi sono i riferimenti a testi letterari, a film, che suscitano nel lettore la curiosità di approfondire il tema della consapevolezza.

E cosa c’entra il disturbo da alimentazione incontrollata con la consapevolezza? C’entra nella misura in cui l’autore vuole proporla come un’alternativa a diete preconfezionate e piani alimentari millantati. Stuzzicare, in chi soffre di questa problematica, la curiosità di tirare fuori una risorsa che diventa il cuore del cambiamento e della rinascita.

Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) ha inoltre un valore aggiunto: il coraggio di parlare di un tema che è molto spesso oggetto di stigma e di pregiudizio, che suscita imbarazzo, frustrazione ma che nonostante questo può essere affrontato e accolto, proprio come ha fatto l’autore raccontando la propria esperienza.

Nella scia di provare ad allentare la pretesa di essere perfetti ad ogni costo, diventa difficile essere onesti con se stessi ancora prima che con gli altri, eppure riconoscere le proprie difficoltà con il cibo significa imparare ad accettarsi e iniziare a far pace con quegli aspetti di sé che da sempre si sono combattuti e rinnegati. Presenza, gentilezza, equanimità e compassione sono solo alcuni degli ingredienti che condiscono un percorso che può essere nuovo e che dovrebbe diventare unico.

Si tratta di mettersi in viaggio, di cercare, e non stiamo parlando di una nuova dieta restrittiva o di un piano alimentare differente, ma di cercare dentro se stessi, dentro la conta sperduta del proprio sentire. La meditazione diventa uno strumento che aiuta a gestire l’ossessione del cibo, e che per l’autore diventa “un’assicurazione sulla vita“. E chissà che la condivisione di questo viaggio che rappresenta l’evoluzione, il cambiamento profondo, la rinascita dell’autore, non sia di spunto per tutti quelli che oltre a perdere i chili di troppo, vorrebbero vivere la propria anima con più leggerezza.

Perché non tutti gli estremisti diventano terroristi?

Terrorismo: Poiché la maggior parte delle persone che possiedono idee radicali ed estreme non diventano terroristi, quali sono i fattori che spingono alcune di loro a commettere atti di estremismo violento? Esiste un legame tra malattia mentale e coinvolgimento in atti terroristici? Perché alcuni interrogatori ricorrono alla tortura quando innumerevoli prove dimostrano che costruire un rapporto con i sospettati è un metodo più efficace?

 

Terrorismo e radicalismo: la rivista American Psychologist fornisce delle risposte

Queste ed altre domande sono affrontate all’interno di un numero speciale di American Psychologist, la rivista di punta della American Psychological Association. Gli articoli raccolti al suo interno riguardano temi come “perché gli individui diventano radicalisti?”; “come si può prevedere chi diventerà un terrorista?”; “come avviene il passaggio progressivo dalla non-violenza alla radicalizzazione del terrorismo?” e, infine, “qual è il ruolo della resilienza della comunità nel prevenire l’avvicinamento dei giovani all’estremismo violento?”.

Il terrorismo è uno dei più complessi problemi sociali del nostro tempo” ha dichiarato J. G. Horgan, guest editor del numero e professore di psicologia presso la Georgia State University. “Gli sforzi per capire il terrorismo abbondano in ogni disciplina accademica, ma molte domande riguardanti le modalità di predizione e prevenzione del terrorismo rimangono senza risposta. Non c’è mai stato un bisogno più urgente di un maggiore impegno da parte della psicologia.”

Ecco una breve carrellata degli articoli del numero speciale:

“Understanding Political Radicalization: The Two-Pyramids Model”
(Comprendere la radicalizzazione politica: Il modello della doppia piramide)
di Clark McCauley e Sophia Moskalenko, (Bryn Mawr College).

In questo articolo, gli autori propongono la distinzione tra radicalizzazione di opinioni estreme e radicalizzazione di azioni estremiste come fenomeni psicologici distinti. Essi descrivono una “piramide delle opinioni” costituita da gradi di condivisione sempre più elevati di idee estremiste ed una “piramide delle azioni” con livelli che vanno dalla passività all’attivismo legale alla violenza politica fino al terrorismo. “La giustificazione del modello a due piramidi è data dall’osservazione che il 99% degli individui che possiedono idee radicali non le agiscono necessariamente” scrivono i due autori. “Al contrario, molte persone si uniscono ad azioni radicali, senza possedere idee radicali.” Programmi per contrastare l’estremismo violento che non distinguano le idee estreme dalle azioni estremiste finiranno con il moltiplicare inutilmente la minaccia terroristica.

“Risk Assessment and the Prevention of Radicalization from Nonviolence Into Terrorism
(Valutazione del Rischio e Prevenzione della Radicalizzazione della Non-violenza nel Terrorismo)
di Kiran M. Sarma (National University of Ireland, Galway).

E’ possibile identificare coloro che verranno da coloro che non verranno coinvolti in attività terroristiche in futuro? Questa domanda è di importanza centrale per tutti quelli che hanno il compito di valutare il rischio rappresentato da individui propensi alla violenza. In questo articolo, Sarma discute la sfida di condurre una valutazione del rischio del terrorismo. Egli descrive alcuni degli strumenti utilizzati per lo screening di persone segnalate alle autorità come potenzialmente a rischio. Sarma sostiene che, sebbene la valutazione del rischio terroristico sia irto di sfide etiche ed empiriche, il vero progresso può essere ottenuto nell’ambito del giudizio umano e del processo decisionale ed, in particolare, nel modo in cui i valutatori accorpano e sintetizzano i dati e prendono decisioni in merito. “I valutatori dovrebbero considerare sia la presenza di fattori di rischio che la loro rilevanza” scrive Sarma.

“Building Community Resilience to Violent Extremism Through Genuine Partnerships”
(Costruire Comunità Resilienti all’Estremismo Violento attraverso Partnership Genuine)
di B. Heidi Ellis (Harvard Medical School) e Saida Abdi (Boston University School of Social Work).

Secondo questo articolo, la connessione sociale è il fulcro delle comunità resilienti e delle strategie volte a prevenire l’avvicinamento dei giovani all’estremismo violento. Riconoscendo l’enorme polemica che circonda le iniziative esistenti, gli autori sostengono che la creazione di partnership sane tra enti governativi e membri della comunità possa, se fatta bene, fornire adeguati e precoci sistemi di allarme per prevenire l’estremismo violento. Ciò potrebbe richiedere un cambiamento dei paradigmi utilizzati da un tradizionale approccio top-down (dall’alto al basso) ad un nuovo approccio bottom-up (dal basso verso l’alto) scrivono i due autori. Se condotti in modo errato, gli sforzi top-down per definire e rispondere al rischio di estremismo violento corrono il rischio di compromettere l’assetto comunitario piuttosto che contribuire al suo recupero. Per esempio, un’enfasi eccessiva su un particolare gruppo come vulnerabile all’ideologia estremista e violenta porterà alla stigmatizzazione e alla discriminazione di quel gruppo, e ciò può minare un senso positivo di identità sociale per i membri di quel gruppo e degradare la resilienza della comunità.

“Toward a Psychology of Humiliation in Asymmetric Conflict”
(Verso una Psicologia dell’Umiliazione nei Conflitti Asimmetrici)
by Clark McCauley (Bryn Mawr College)

Questo articolo esplora come l’umiliazione (definita come combinazione corrosiva di vergogna e di rabbia) sia spesso un fattore chiave per i conflitti terroristici.
Quando gli analisti discutono il ruolo svolto dall’umiliazione nella guerra, nel terrorismo e nel genocidio, spesso parlano come se tutti sapessimo cosa sia umiliazione e come essa agisce” scrive McCauley, “ma il fatto è che l’umiliazione deve essere meglio compresa prima che possa aiutarci a capire la violenza interpersonale. La ricerca sull’umiliazione come costrutto psicologico è soltanto all’inizio”.
La ricerca sull’umiliazione è fondamentale anche per comprendere le reazioni del governo al terrorismo – qualcosa che è stato finora poco studiato dagli interessati al terrorismo. Forse l’implicazione più sorprendente di questa analisi è che non siano solo i deboli a poter essere umiliati, ma che anche i potenti possono essere umiliati dai deboli se – come spesso succede nel caso di attacchi terroristici – il governo preso di mira è incapace di reagire in modo diretto verso i responsabili.

“There and Back Again: The Study of Mental Disorder and Terrorist Involvement,”
(Andata e Ritorno: Lo Studio dei Disturbi Mentali e del Coinvolgimento Terrorista)
di Paul Gill e Emily Corner (University College di Londra).

Riassumendo gli ultimi 40 anni di ricerca sulla connessione tra disturbi mentali e il coinvolgimento terroristico, concludono gli autori, non v’è alcun profilo psicologico comune per i terroristi. Piuttosto, l’evidenza suggerisce che alcuni tipi di terroristi possono possedere più probabilmente alcuni tratti psicologici rispetto alla popolazione generale e che quei sottogruppi con alti tassi di disturbi mentali sono al di sotto del 50%. Nessun disturbo mentale di per sé sembra essere un predittore di coinvolgimento terroristico. Gli autori suggeriscono che esperire un disturbo mentale può essere solo uno dei tanti fattori di rischio che spingono e attirano un individuo in attività terroristiche.

“Revenge Versus Rapport: Interrogation, Terrorism, and Torture”
(Vendetta versus Relazione: Interrogatori, Terrorismo e Tortura)
di Laurence Alison e Emily Alison (Università di Liverpool).

L’idea che generare impotenza, paura e terrore nel sospettato sia una strategia affidabile per ottenere informazioni è contraria alla ricerca, secondo questo articolo. Tattiche come privazione del sonno, esposizione al caldo o al freddo e stress compromettono il richiamo, danneggiando il valore delle informazioni generate. Perché, dunque, la tortura viene ancora usata? “Il motivo, almeno in parte, potrebbe risiedere nella nostra natura umana di accettare che venga utilizzata solo quando non vi è alternativa e quando sembra essere utile per il bene superiore”. Gli autori hanno sviluppato una tecnica per l’analisi audio-video degli interrogatori filmati per misurare l’efficacia delle tecniche di interrogatorio e lo hanno applicato ad un ampio insieme di dati. Essi hanno scoperto che, tra le molte altre competenze interpersonali, un approccio autoritario adattivo da parte dell’intervistatore consente di ottenere maggiori informazioni di un approccio patologico (caratterizzato dall’essere esigente, dogmatico, saccente e rigido).

Psicopatologia e terapia della psicosi affettuosa – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Ho scelto questo bizzarro nome da non confondere con “psicosi affettiva” che si riferisce più propriamente ai disturbi dell’umore per non usare gli abusati nomi comuni che si usano per questo disturbo e che sono “ innamoramento” per la forma acuta e “amore” per l’evoluzione cronica. Già immagino le prime obiezioni sollevarsi contro l’idea di trattare tale esperienza propria dell’essere umano come una patologia rispetto al quale ipotizzerò comorbilità, dimensioni psicopatologiche e trattamento psicoterapeutico e farmacologico.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Psicopatologia e terapia della psicosi affettuosa (Nr 21)

 

 

Fisiologia evoluzionistica e sistemi motivazionali

Certamente la spinta che genera tali vissuti è stata evolutivamente selezionata e si è dimostrata talmente potente e inarrestabile che ad essa si sono associate, per salvaguardarle da dimenticanze e trascuratezze, le stesse procedure per la riproduzione.

In accordo con Freud mi sembra, però, che essa non sia riducibile al solo ambito della sessualità e, intesa giustamente come “libido”, sia sovraordinata a tutti gli altri sistemi motivazionali interpersonali potendo in generale definirsi come energia psichica che spinge allo sviluppo l’essere umano, alla sua espansione e all’unificazione con gli altri e l’universo tutto.

La seconda obiezione potrebbe collocarsi a questo punto perché così descritta sembrerebbe una spinta vitale esclusivamente positiva. Ma è proprio la sua inarrestabile potenza che la rende potenzialmente pericolosa quando è ostacolata. Infatti, quando una forza enorme destinata ad unire incontra barriere, può travolgere tutto ciò che ne ostacola il cammino (dighe e terremoti insegnano).

Ricordandomi di essere un clinico e non un filosofo riporto immediatamente il discorso sulle problematiche che ci vengono proposte dalle persone sofferenti di tale disturbo.

 

Diagnosi e Teorie Psicologiche Naive (TPN)

In primo luogo ci chiedono cosa di inspiegabile, grandioso e incontrollabile gli stia capitando con uno stupore preoccupato che ricorda il wanhstimmung o umore predelirante o, per descriverlo meglio con una esperienza drammaticamente attuale, lo stato d’animo che segue una forte scossa di terremoto e lascia sospesi in attesa della replica. Conoscere la diagnosi pare rassicurante e così, avvezzi a classificazioni categoriali, a mio avviso insufficienti, si interrogano se si tratti di “ interesse”, “ amicizia”, “ infatuazione”, “ passione”, “ desiderio sessuale”, “ amicizia”, “ amicizia affettuosa”, “ trombamicizia nel linguaggio dei giovani”, “innamoramento“, “ voler bene”, “ amore”.

Interessante può essere indagare le TPN che il soggetto ha rispetto all’esperienza che sta vivendo e che, in sintonia con la sua più generale welthashaung, possono spiegarlo come: l’incontro di due anime gemelle, il destino, la chimica e il sesso, il volere del Signore, ecc. Personalmente non ritengo euristico tale modo di approcciare il problema e mi sembra più utile, anche rispetto all’intervento, provare a descrivere il funzionamento della persona colpita dalla psicosi affettuosa.

 

Il trivio dimensionale

Più utile semmai una classificazione dimensionale che, a mio parere la porrebbe all’incrocio tra tre dimensioni. Una dimensione ossessiva per la pervasività e l’intrusività dei pensieri riguardanti l’altro rispetto ai quali si è contemporaneamente egodistonici (ci si sente soffocati e impotenti) ed egosintonici (si richiamano alla mente con nostalgia).

La seconda dimensione costitutiva è quella bipolare dell’umore che si esprime sia nella totale euforia, felicità e iperattività associata alla presenza dell’altro, e nel suo opposto, la tristezza, l’anedonia e la mancanza di senso in sua assenza, sia nell’aspetto amnesico. Infatti come il maniacale ad ogni episodio non ricorda i precedenti e del resto come potrebbe ad esempio credersi l’imperatore del mondo se ricordasse che l’ultima volta che ne era convinto erano venuti a prenderlo non con una limousine dorata ma con un furgoncino bianco con un lampeggiante sopra. Oppure il depresso come potrebbe pensarsi veramente indegno, colpevole e senza speranza se ricordasse che si tratta solo di una fase come quella che lo vide ad un passo dal cappio in quella lontana vigilia di Natale poi lasciata alla spalle tra trenini e spumanti la notte di San Silvestro?

Così l’innamoramento non ha memoria di sé. Come potremmo essere ogni volta certi di aver trovato l’amore perfetto ed eterno se ci ricordassimo tutte le altre volte che lo abbiamo sinceramente creduto per poi ritrovarci di fronte ad un avvocato divorzista ed esserci disprezzati per aver preso lucciole per lanterne?

Certo possiamo ricordare di essere stati innamorati, la nostra storia ce lo rammenta ma lo stato d’animo non possiamo sperimentarlo se non siamo innamorati nel qui ed ora. E’ per questo che le stesse canzoni che quando non siamo innamorati ci sembrano un prodigio di stupidità e banalità su cui ironizzare, ci colmano gli occhi di lacrime e ci stringono la gola quando innamorati.

Infine la terza dimensione che concorre al quadro clinico è la dimensione delirante vera e propria congrua con il tono dell’umore e che riguarda tre oggetti specifici. L’altro che visto come perfetto, meraviglioso e soprattutto onnipotente, può essere il dispensatore di ogni bene o, al contrario, motivo di ogni propria sofferenza. Se stesso che in presenza dell’altro è sperimentato come grandioso e in sua assenza impotente e privo di ogni valore. La relazione stessa che è immaginata come unica diversa da tutte le altre che si sono sperimentate in precedenza e diversissima da tutte quelle che vivono ogni giorno tutti gli altri esseri umani nonostante ne ripercorra tutti i clichè più consunti e ripetuti da millenni più o meno nelle stesse forme.

 

Ingredienti cognitivi caratteristici

A costo di essere ripetitivo voglio tornare su quest’aspetto cognitivo che già in precedenti lavori ho messo al centro del mio interesse. In particolare nell’idealizzazione dell’oggetto amato avviene qualcosa di più che una semplice sua sopravvalutazione per cui esso appare più bello o più intelligente, gentile e onesto (per citare Dante) di quanto appaia agli altri e si assiste piuttosto a quella che potremmo definire una rivoluzione Khuniana per cui esso diventa il canone matriciale della bellezza, della gentilezza, della bontà e dell’intelligenza.

Sono dunque i parametri stessi a cambiare. L’oggetto diventa il prototipo stesso della perfezione assoluta con cui da quel momento in poi ogni altro individuo sarà confrontato e il cui valore sarà esprimibile in percentuale di approssimazione al prototipo stesso.

Un’altra caratteristica che assimila l’innamoramento alla dimensione delirante è l’impressione che nessuno possa effettivamente capire ciò che il soggetto sta vivendo e che è per lui totale e assolutamente evidente. Gli altri sono fatalmente esclusi, stanno in un altro mondo ragionevole che il soggetto stesso comprende perché sperimentato in passato, ma che è una dimensione che non lo comprende più, e si direbbe le stesse cose che ora gli altri gli dicono. Questo comporta un progressivo isolamento ed un circolo di rinforzo per cui l’altro finisce per costituire l’intero mondo relazionale del soggetto mentre da già tempo ne costituisce l’unico interlocutore nel dialogo interno per cui tutto ciò che si vive è vissuto con lui e per lui.

 

Eziopatogenesi e scompenso

Per quanto riguarda la ricerca delle cause, se si rinuncia ad assumere la saggia prospettiva di De Andrè secondo cui “ l’amore ha l’amore come solo argomento” e ci rivolge al classico modello stress/ vulnerabilità, sono da annoverare tra i fattori di vulnerabilità oltre agli innegabili fattori genetici, una personalità dipendente, qualche eventuale importante bisogno inevaso in uno dei sistemi motivazionali interpersonali che l’oggetto d’amore va a colmare utilizzandolo come porta d’accesso all’animo del protagonista. Particolari momenti di passaggio esistenziale in cui un nuovo assetto identitario va trovato e di cui l’oggetto d’amore diventa testimone. Mentre nell’amore (ovvero nella forma cronicizzata) l’altro è il testimone di una vita, nell’acuzie dell’innamoramento l’altro è il validatore assoluto del presente. E’ in questo aspetto che si può ritrovare quella reciproca ricarica narcisistica che tuttavia considero più un fattore di mantenimento e rinforzo piuttosto che un evento scatenante. Così come funzionano da rinforzo positivo le emozioni positive che si sperimentano nello stare insieme e di rinforzo negativo le pene indicibili dell’assenza.

 

Prognosi

Prima di accennare ad alcuni possibili interventi terapeutici sui quali comunque c’è ancora tutto da fare solo due parole sull’evoluzione naturale del disturbo. L’innamoramento che è esclusivo nel doppio significato che non lo si può essere di due oggetti contemporaneamente né si può tollerare che l’altro (gelosia) lo sia di qualcun’altro se vissuto pienamente con una full immersion senza limiti di tempo e di altro genere può attenuarsi progressivamente fino a cessare del tutto o a trasformarsi nella forma cronica normalmente chiamata “amore” che perde quasi del tutto la caratteristica dell’esclusività e smussa molti degli aspetti deliranti soprascritti.

L’evoluzione negativa dell’innamoramento il cosiddetto “innamoramento interruptus”, a somiglianza del lutto non elaborato, fissa l’immagine dell’oggetto in una teca intoccabile e paralizza l’esistenza del soggetto in un presente che non ha futuro e non riesce a diventare passato (i terribili incorruttibili amori eterni che sottraggono libido all’esistenza): la sintomatologia più evidente sono i ricordi intrusivi e la perdita di interesse per l’esistenza, in sintesi una depressione cronica.

 

La terapia

Per la forma acuta non esiste terapia e, come l’influenza deve fare il suo corso. La terapia farmacologica dell’innamoramento interruptus si avvale delle benzodiazepine al bisogno, degli stabilizzatori dell’umore , meglio se utilizzati a tal scopo i neurolettici atipici piuttosto che gli antiepilettici, e degli SSRI a forti dosaggi usati come antiossessivi essendo quella la sofferenza maggiore lamentata dal soggetto.

La Psicoterapia da utilizzare con cautela per gli evidenti rischi di iatrogenicità che presenta comportando il parlare e il ricordare l’oggetto d’amore e la relazione stessa deve avere come obiettivo il ridimensionamento dell’altro e della relazione stessa dimostrandone la frequenza e meglio ancora la banalità. Operazione da condurre con estrema cautela in quanto a rischio di suscitare violenti resistenze da parte del paziente come nel caso di un attacco frontale ai temi deliranti

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il trattamento dell’ansia nei disturbi dello spettro autistico: nuove frontiere per la terapia cognitivo-comportamentale

Le persone con Disturbi dello Spettro Autistico sembrerebbero essere più vulnerabili e maggiormente esposte rispetto alla popolazione normale a sviluppare disturbi d’ansia, probabilmente proprio a causa dei deficit legati alla patologia, come le difficoltà sociali e di comunicazione, l’aumentata sensibilità sensoriale e le difficoltà di regolazione emotiva.

Elisa Grandi – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

La relazione tra ansia e autismo

Quando nel 1943 lo psichiatra infantile Leo Kanner descrisse per la prima volta “l’ autismo infantile”, accanto alle caratteristiche distintive presentate da questi bambini, considerate ancora oggi essenziali per diagnosticare i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA; deficit nell’interazione e comunicazione sociale e pattern di comportamenti ristretti e ripetitivi, APA 2013), egli osservò che molti di loro presentavano comportamenti di tipo ansioso. Recenti ricerche sperimentali e indagini epidemiologiche hanno confermato l’iniziale intuizione dello psichiatra austriaco, evidenziando come nei Disturbi dello Spettro Autistico siano frequentemente associati più o meno gravi Disturbi d’Ansia (Ung et al., 2013; Joshi et al., 2013; Gjevik et al., 2011; White et al., 2009; Simonoff et al, 2008) con una comorbilità stimata attorno al 40% (van Steensel et al., 2011) e una distribuzione analoga a quella riscontrata nella popolazione normale (dove la Fobia Specifica è la patologia maggiormente rappresentata, seguita dal Disturbo Ossessivo Compulsivo e dalla Fobia Sociale; van Steensel et al., 2011).

Sebbene la relazione tra Disturbi dello Spettro Autistico e ansia sia complessa condividendo i due disturbi alcune caratteristiche nosologiche (ad esempio ritiro sociale e comportamenti ritualizzati), numerosi studi evidenziano come le problematiche ansiose vadano al di là dei sintomi legati all’ autismo (Kerns et al., 2014; Renno & Wood, 2013; Storch et al., 2012; Ung et al., 2014): le persone con Disturbi dello Spettro Autistico sembrerebbero essere più vulnerabili e maggiormente esposte rispetto alla popolazione normale a sviluppare disturbi d’ ansia, probabilmente proprio a causa dei deficit legati alla patologia, come le difficoltà sociali e di comunicazione (Bellini, 2004), l’aumentata sensibilità sensoriale (Mazurek et al., 2013) e le difficoltà di regolazione emotiva (Kleinhans et al., 2010; Loveland, 2005). La problematica ansiosa inoltre, provocando, ad esempio, irritabilità, disturbi del sonno, disattenzione e comportamenti dirompenti, esacerberebbe i sintomi connessi all’ autismo, già di per sé invalidanti, compromettendo ulteriormente il funzionamento sociale e cognitivo delle persone con Disturbi dello Spettro Autistico (Kerns & Kendall, 2012; Wood & Gadow, 2010).

Considerare nei Disturbi dello Spettro Autistico la possibile e frequente compresenza di altre patologie psichiatriche, in primis l’ ansia, è dunque fondamentale al fine di implementare trattamenti il più possibile adeguati, in cui possano essere integrate tecniche d’intervento già validate e rivelatesi efficaci, con il duplice scopo di migliorare la qualità di vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico e di prevenire l’insorgere di ulteriori patologie, quali i disturbi dell’umore, frequentemente associati ai disturbi d’ ansia cronici (Brady & Kendall, 1992).

 

Disturbi dello Spettro Autistico e Ansia: la terapia cognitivo-comportamentale

La terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è attualmente considerata a livello internazionale come il più affidabile ed efficace modello per la comprensione e il trattamento dei disturbi d’ ansia (Nathan & Gorman, 2015). Tale approccio postula una complessa relazione tra pensieri, comportamenti ed emozioni, assumendo che l’ ansia patologica derivi dall’interazione tra credenze disfunzionali, eccessivo arousal fisiologico e comportamenti di evitamento, e che essa si cronicizzi a causa di meccanismi di mantenimento.

Obiettivo centrale del trattamento cognitivo-comportamentale è dunque quello di modificare le cognizioni e i comportamenti alla base del mantenimento dei sintomi ansiosi; le sue componenti centrali includono, sinteticamente, l’apprendimento di tecniche atte a ridurre l’arousal fisiologico e permettere una più efficace regolazione emotiva, la messa in discussione delle credenze disfunzionali e, infine, l’esposizione graduale e sistematica agli stimoli ansiogeni per ridurre i comportamenti di evitamento.

Data la sua comprovata efficacia nel trattamento dei disturbi d’ ansia nella popolazione tipica (Stewart & Chambless, 2009), negli ultimi anni diversi studiosi hanno sperimentato l’utilizzo di protocolli CBT con bambini e adolescenti con Disturbi dello Spettro Autistico che presentavano disturbi d’ ansia in comorbilità, ottenendo risultati promettenti e riscontrando una riduzione dei sintomi pari a quella ottenuta nella popolazione tipica (Chalfant et al. 2007; Reaven et al. 2012; Sofronoff et al. 2005; Wood et al. 2009).

 

CBT e autismo: variazione dei protocolli per la gestione dell’ansia

La maggior parte degli studi ha previsto la modifica dei protocolli d’intervento standardizzati considerate le note difficoltà di comunicazione e d’identificazione e comprensione dei propri e altrui stati mentali delle persone con autismo (Baron-Cohen, 1997, 2001). Le variazioni più rilevanti sono consistite:

  • Nell’introduzione di storie sociali (Gray, 1998);
  • Nell’utilizzo di supporti visivi;
  • Nella maggiore enfasi posta sull’insegnamento di strategie di coping che non richiedono l’uso di linguaggio astratto;
  • Nell’inclusione nelle sessioni CBT degli interessi speciali spesso presentati dalle persone con Disturbo dello Spettro Autistico;
  • Attribuendo maggiore spazio all’insegnamento si semplici abilità sociali (Attwood, 2004; Anderson & Morris, 2006; Woods et al., 2013).

Ad esempio, Chalfant e collaboratori (2007), nel primo studio controllato che ha indagato l’efficacia di un trattamento cognitivo-comportamentale in bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico in comorbilità con un disturbo d’ ansia, hanno utilizzato il Cool Kids Program (Lyneham et al., 2003) adattandolo alle peculiari caratteristiche cognitive e d’apprendimento delle persone con Disturbi dello Spettro Autistico (con l’introduzione di materiale visivo e semplificato, la predilezione per attività concrete piuttosto che basate sulle competenze linguistiche, la maggiore enfasi posta sulle strategie di rilassamento e l’estensione del programma stesso a più sessioni di quelle previste nel programma originale).

Analogamente, Ekman e Hiltunen (2015) hanno modificato un protocollo cognitivo-comportamentale indicato per i disturbi d’ ansia e i comportamenti di evitamento (Roth & Fonagy, 2005) visualizzando sistematicamente tutto ciò che nella conversazione terapeutica è solitamente implicito, rendendolo esplicito e quindi maggiormente comprensibile alle persone con autismo e ottenendo buoni risultati nella riduzione dei livelli d’ ansia e dei comportamenti di evitamento.

 

I recenti protocolli di intervento sull’ansia sviluppati per bambini con Disturbi dello Spettro Autistico

Recentemente, alcuni gruppi di ricerca hanno sviluppato protocolli d’intervento sui disturbi d’ ansia specifici per i Disturbi dello Spettro Autistico, protocolli quindi innovativi e costruiti ad hoc in base alle peculiarità cognitive ed emotive delle persone con autismo.

Il Facing Your Fears (Reaven et al., 2011, 2012, 2015), ad esempio, è un trattamento cognitivo-comportamentale originale e manualizzato che prevede sessioni di gruppo e il coinvolgimento costante dei famigliari; esso comprende l’implementazione delle tecniche tipiche d’intervento della CBT (rilassamento, tecnica del respiro lento, regolazione emotiva, esposizione graduale e uso di strategie cognitive), e include inoltre l’utilizzo prevalente di materiale visivo, l’impiego di video-modeling e l’inserimento nelle attività degli specifici interessi speciali dei partecipanti.

Similmente, il BIACA (Behavioral Interventions for Anxiety in Children with Autism; Wood et al., 2009, 2015) prevede sia sessioni individuali che di gruppo con i famigliari; esso è strutturato in moduli d’intervento che vengono implementati in base alle esigenze dello specifico paziente e include, oltre alle tipiche strategie d’intervento della terapia cognitivo-comportamentale, l’utilizzo di schemi strutturati di rinforzo per la promozione di strategie di coping più funzionali e l’apprendimento di specifiche abilità sociali sia a supporto dei compiti di esposizione graduale che idonee al fronteggiamento delle situazioni alla base dell’ ansia (es. interazione con i coetanei).

 

La CBT per l’ansia in pazienti con autismo: prove d’efficacia e difficoltà

Complessivamente considerati, gli studi sperimentali sinora condotti hanno dimostrato l’applicabilità, in primis, e l’efficacia dei trattamenti CBT per i disturbi d’ansia nelle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, evidenziando risultati promettenti (Danial & Wood, 2013; Ung et al., 2014). Da una meta-analisi condotta su un totale di 8 studi (Storch et al., 2013; Chalfant et al., 2007; Sofronott et al., 2005; Wood et al., 2009; Reaven et al., 2012; McNally et al, 2013; White et al., 2013; Sung et al. 2011), selezionati in quanto randomizzati ed effettuati con adeguate condizioni di controllo (costituite da lista d’attesa e/o intervento non CBT), Sukhodolsky e collaboratori (2013) hanno rilevato un’efficacia pari a quella riscontrata nella popolazione tipica (Reynolds et al., 2012; James et al., 2005).

Nonostante queste considerazioni, che sottolineano la validità dei protocolli CBT per l’ansia anche nei Disturbi dello Spettro Autistico, è comunque opportuno rilevare i limiti e le difficoltà che attualmente caratterizzano questo tipo di interventi. Al momento, la quasi totalità gli studi effettuati hanno incluso nel campione solo individui con “autismo ad alto funzionamento”, ossia persone con Disturbi dello Spettro Autistico che non presentavano disabilità intellettiva (un solo studio ha incluso soggetti con ritardo lieve, ottenendo comunque buoni risultati (Unwin et al., 2016). A limitare l’applicabilità dei trattamenti CBT nei disturbi dello spettro autistico incidono, inoltre, le difficoltà di assessment dei disturbi d’ ansia in comorbilità con Disturbi dello Spettro Autistico data la parziale sovrapposizione sintomatologica dei due disturbi, oltre che a causa delle difficoltà di comunicazione delle persone affette dai Disturbi dello Spettro Autistico.

E’ importante che l’accertamento diagnostico si avvalga di molteplici fonti per la raccolta delle informazioni (la persona con Disturbo dello Spettro Autistico, i famigliari, gli insegnanti, medici di base), oltre che di diversi strumenti d’indagine (questionari, colloqui clinici, osservazione comportamentale). Rispetto ai questionari per la rilevazione dei sintomi ansiosi, non è possibile dar per scontata la validità di quelli in uso nella popolazione tipica; sebbene sia auspicabile la costruzione di uno strumento specifico per l’indagine dei disturbi d’ansia nei Disturbi dello Spettro Autistico, i dati preliminari di uno studio condotto nel 2014 (Magiati et al.) evidenziano l’affidabilità dello Spence Children’s Anxiety Scale (SCAS; Spence, 1998) quale strumento di screening. Lo sviluppo di uno strumento d’assessment specifico per i disturbi d’ ansia in comorbilità con i Disturbi dello Spettro Autistico si rileva particolarmente importante anche per la valutazione dell’efficacia degli interventi, in quanto la possibilità di poter rilevare una diminuzione significativa della sintomatologia ansiosa post-trattamento è parametro essenziale per poter affermare l’utilità e validità del trattamento stesso.

In conclusione, l’applicabilità ed efficacia della terapia cognitivo-comportamentale per l’ ansia nei disturbi dello spettro autistico sta gradualmente ricevendo supporto e conferme sperimentali, ottenendo risultati promettenti. Sono però necessarie ulteriori indagini e ricerche, soprattutto nella direzione di sviluppare sia protocolli d’intervento che strumenti d’assessment specifici per questa popolazione di pazienti, che tenga conto delle loro caratteristiche cognitive e socio-emotive, al fine ulteriore di ampliare l’utilizzo della terapia cognitivo-comportamentale ed esplorarne possibili ulteriori e non scontate applicazioni.

Processi valoriali nella psicoterapia cognitivo-comportamentale di terza ondata

Oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale sta vivendo quella che comunemente viene definita “third wave”; una terza ondata, dopo quelle del comportamentismo e del cognitivismo, che non si presenta come  punto di rottura con il passato, non scaturisce da una crisi vera e propria, ma si mescola con naturalezza con quello che già esiste portando frutti di novità e ampliando le tecniche di intervento al disagio psicologico.

Matteo Guidotti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La terza ondata: dalla mindfulness alla Relational Frame Theory

Questa rivoluzione pacifica ben si sposa con la novità principale della terza ondata: la mindfulness, ossia una posizione osservativa che si colloca all’opposto dei tentativi logico-razionalisti di modificare comportamenti e pensieri attraverso il dialogo socratico, bensì promuove l’accettazione e la flessibilità psicologica. Come scrive Ruggiero, oggigiorno:

La terapia cognitiva sembra volgere le spalle alla maieutica di Socrate e alla sua irritante ironia per sostituirle con la saggezza sorridente del Buddha. L’India al posto della Grecia. E’ una rivoluzione culturale” (Ruggiero, 2011, p. 44)

La terza ondata della psicoterapia cognitivo-comportamentale ha fornito molti altri contributi originali, come il concetto di metacognizione, la riflessione sui sistemi motivazionali, la schema therapy, il progressivo superamento del dualismo cartesiano mente-corpo, attraverso una rinnovata attenzione al corpo, ecc.

Tuttavia il modello che a mio avviso meglio racchiude l’essenza di questa “rivoluzione culturale” è la Relational Frame Theory (RFT), sulla quale si fonda per esempio l’ACT (Acceptance and Commitment Theory). Questa teoria sostiene, in breve, che “non sia tanto il contenuto dei nostri pensieri, credenze o convinzioni a influenzare il disagio e la sofferenza, quanto l’atteggiamento che abbiamo nei confronti di essi” (Ruggiero e Sassaroli,  2013, p. 289). Invece di considerare come scopo principale del trattamento la riduzione dei sintomi, le terapie introdotte dalla terza ondata si concentrano sullo sviluppo di una più vasta e flessibile gamma di alternative cui il cliente può attingere per raggiungere uno stato di benessere. Gli interventi di questo tipo mirano direttamente all’accettazione, all’apertura all’esperienza, ad una vita degna di essere vissuta e non si pongono come obiettivo principale quello di diminuire la sintomatologia.

Sebbene l’apertura all’esperienza abbia sempre costituito uno scopo dei trattamenti di terza generazione, recentemente il concetto di “vita degna di essere vissuta” è l’obiettivo che ottiene un crescente grado di considerazione. In un certo senso, i valori sono sempre stati il nocciolo della questione di questi trattamenti, mentre la disponibilità all’esperienza era, di fatto, la disponibilità  stessa a una vita degna di essere vissuta (Hayes et al., 2013, p. 109).

 

I processi valoriali nella Relational Frame Theory

Per comprendere a fondo la rilevanza dei processi valoriali nei nuovi approcci di terza ondata alla psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, bisogna però soffermarsi sui presupposti del modello Relational Frame Theory. Esso nasce come tentativo di estensione dell’analisi comportamentale tradizionale e si definisce una “scienza contestuale comportamentale”. Il fondamento filosofico di questo modello mira a superare il concetto di verità classico, intesa come adequatio rei et intellectus – verità come corrispondenza – per approdare ad una forma di pragmatismo dove è vero solo ciò che funziona in un determinato contesto.

La Relational Frame Theory presuppone infatti una sorta di “contestualismo funzionale” (idem, p. 35), in cui la verità è definita in senso pragmatico dal fatto che una determinata attività contribuisce a raggiungere un obiettivo specifico. In termini più generali, l’obiettivo primario di questo tipo di analisi contestuale del comportamento diventa quello di interpretare, prevedere e influenzare gli eventi psicologici in modo preciso e finalizzato ad un sentimento soggettivo di benessere. Ora, è chiaro come una tale visione pragmatica della conoscenza debba porre una grande enfasi sulla definizione dei valori a livello individuale:

Quando la verità è definita da ciò che funziona, l’insieme di valori e obiettivi del cliente assume un’importanza fondamentale. Tutte le interazioni terapeutiche sono valutate secondo le modalità con cui entrano in relazione con i valori e gli obiettivi scelti dal cliente e il metro di misura è sempre la loro praticabilità [workability] – cioè se funzionano nella pratica – non la loro verità oggettiva (idem, p. 40).

In queste parole si cela una critica, nemmeno tanto velata, al modello di intervento psicoterapico della psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, che, secondo questi autori, è colpevole di soffermarsi su problemi “fuorvianti”, come cercare di dimostrare che i pensieri dei pazienti sono inesatti o non veritieri. Invece di entrare subito nel contenuto di pensieri, affermazioni e idee del cliente, il “contestualista funzionale” esamina il comportamento – inteso come azione-nel-contesto – e quindi sfrutta l’analisi funzionale per gli obiettivi pratici concordati tra clinico e paziente. Considerando le tradizionali terapie cognitivo-comportamentali a partire da quest’ottica, esse risultano addirittura nocive, in quanto, concentrandosi sullo studio dei componenti di un determinato comportamento appreso – la cosiddetta “cornice relazionale”, che può consistere, per es., in una determinata autoistruzione che il paziente ripete mentalmente a se stesso in modo indiscriminato e rigido – l’intervento clinico elabora, amplia collegamenti, ma non è in grado di eliminare le relazioni cognitive apprese in precedenza.

L’ ACT contiene elementi di contesto relazionale, ma sottolinea l’importanza di interventi mirati sul contesto funzionale piuttosto che puramente relazionale (idem, p. 60).

In altre parole, secondo Hayes e colleghi, una volta appresa una specifica credenza irrazionale, essa rimane irrimediabilmente fissata nel contesto relazionale del paziente e i collegamenti cognitivi che la caratterizzano sono estremamente difficili da spezzare anche con un diretto addestramento in senso opposto. Ogni terapeuta cognitivo-comportamentale ne fa quotidiana esperienza con i pazienti. Alla fine della seduta accompagna il cliente alla porta recitando mestamente tra sé e sé le disincantate parole di Camus: “Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova ogni volta con il proprio fardello” (Camus, 2003, p. 318). Inoltre, è dimostrato che quando il comportamento è controllato da regole verbali, tende ad essere relativamente insensibile ai cambiamenti ambientali che non sono descritti nella regola stessa (cfr. Hayes, 1989). Pertanto, un intervento efficace deve poter operare per aggiunta, non per sottrazione, poiché è impossibile eliminare un evento cognitivo clinicamente rilevante.

Secondo il modello della flessibilità psicologica è il contesto dell’attività verbale – piuttosto che il contenuto delle esperienze interiori di per sé – l’elemento chiave nel produrre sofferenza. Non è che le persone pensino cose sbagliate, anzi, il problema sono il pensiero stesso e il modo in cui la comunità supporta l’eccessivo uso letterale di parole e simboli come modalità di regolazione del comportamento (Hayes et al., 2013, p. 76).

Questo modello di terza ondata della psicoterapia cognitivo-comportamentale basato sull’operare “per aggiunta” comporta inevitabilmente uno sguardo centrato sui processi valoriali del paziente. Infatti, defusione dai pensieri e accettazione e flessibilità psicologica non avrebbero senso se il cliente fosse scollegato dai propri valori.

E’ solo nel contesto valoriale che azione, accettazione e defusione si fondono in un tutto sensato. Nel linguaggio del governo delle regole, i valori sono incentivi formativi e motivanti (idem, p. 110).

Il senso di flusso e impegno compare solo quando una persona entra in contatto con eventi presenti che rinforzano aspetti strettamente connessi ad azioni profondamente significative per la vita.  I valori, negli approcci di terza ondata, non riguardano tanto il futuro quanto piuttosto il vivere nel presente e lo scegliere di compiere azioni che incarnano valori personali. In questo senso, i valori diventano veri e propri rinforzi intrinseci. Infatti, il massimo dell’incentivo è intrinsecamente contenuto nello stesso impegnarsi nel modello comportamentale ritenuto importante (cfr. Wilson e DuFrene, 2009).

L’individuazione di valori concentra il cliente su finalità e significati psicologici, allontanandolo dalla modalità mentale di risoluzione di problemi. (…) I valori forniscono i criteri di selezione che consentono di variare e scegliere selettivamente i processi causali attivi nell’evoluzione del comportamento. I valori nobilitano il lavoro di defusione e l’accettazione di specifici pensieri e sentimenti dolorosi quando tali esperienze angoscianti costituiscono una barriera all’agire in modo valido. Ciò non significa un infinito sguazzare emotivo, anzi, consiste nel prendere ciò che la propria storia ha da offrire nell’ottica di una vita degna di essere vissuta (Hayes et al., 2013, p. 112).

 

L’importanza dell’ analisi valoriale nella psicoterapia cognitivo-comportamentale

A mio avviso, l’introduzione dell’analisi valoriale nell’ambito della psicoterapia cognitivo-comportamentale è una delle caratteristiche più importanti della “terza ondata” dei trattamenti cognitivi e comportamentali. E’ stato dimostrato che interventi a breve termine sui valori determinano un significativo cambiamento comportamentale (cfr. Cohen et al., 2006). Questo perché pensieri ed emozioni portano spesso verso direzioni contraddittorie e invitano a concentrarsi su obiettivi di processo irrilevanti (per es., eliminare una certa sensazione, controllare certi pensieri, ridurre gli impulsi). I valori scelti, invece, rendono il percorso terapeutico più stabile e centrato. La connessione consapevole con obiettivi di vita significativi motiva il comportamento anche di fronte ad avversità personali enormi, dirimendo l’illusione che si possa vivere bene solo dopo che se si arriva a dominare il disagio psicologico.

Nel trattamento del dolore con interventi di terza ondata, per esempio, l’ Acceptance and Commitment Therapy propone il raggiungimento di una consapevolezza ragionata, riducendo l’attenzione alla diminuzione del dolore o ai contenuti dei pensieri e impiegando energie per mettere in atto dei comportamenti funzionali e soddisfacenti.

L’ Acceptance and Commitment Therapy condivide molti concetti teorici della MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) di Kabat-Zinn, poiché entrambe hanno l’obiettivo di promuovere una mentalità mindful di accettazione del dolore, ma la prima tecnica non utilizza meditazioni quotidiane: si focalizza piuttosto sull’identificazione dei valori e degli scopi della persona, che devono servire per guidare il suo comportamento. Alcuni studi di interventi ACT per il dolore cronico hanno riportato un effetto da moderato a grande nel migliorare l’ansia e lo stress legati al dolore e la performance fisica e nel ridurre la disabilità e il numero di visite mediche (cfr. Palermo, 2009;  Dahl e Lundgren, 2014).

L’attenzione ai processi valoriali nella psicoterapia cognitivo-comportamentale contribuisce a rendere sempre più efficace e completo il tipo di intervento proposto al paziente. Inoltre, a ben vedere, lo stretto collegamento tra valori ed impegno al cambiamento bilancia l’enfasi tipica della “terza ondata” sull’accettazione e sulla validazione delle emozioni. Come ha notato Ruggiero, con l’impegno a cambiare, e non solo a capire e ad accettare, ritorna il tema tipicamente cognitivo che le emozioni si possono non solo padroneggiare, ma anche cambiare a fondo e persino manipolare.

Se ci si chiede, ma con tutto questo capire ed accettare di terza ondata, la terapia cognitiva non rischia di perdere la sua specificità? La risposta la troviamo proprio (…) nel commitment: in questo impegno così ellisiano a cambiare. La terapia cognitiva (…) rimane un trattamento che sottolinea il momento del cambiamento attivo alla Ellis, della modificazione volontaria della sofferenza, dell’impegno (Ruggiero, 2011, p. 49).

“Cosa è importante per me?”, “Quale voglio che sia lo scopo della mia vita?” sono domande che possono aiutare i clienti ad avvertire una direzione di vita che probabilmente hanno perso nella lotta per porre fine alle loro sofferenze quotidiane. Risvegliare il paziente dal torpore e dallo scollegamento con i propri nuclei più vitali può rappresentare un primo passo sulla via della guarigione, con uno sguardo più attento alle risorse che ai deficit. Un lavoro “per aggiunta” e non per semplice riduzione degli ostacoli.

Infanticidio: il profilo neuropsicologico di chi compie infanticidi

Il profilo neuropsicologico di chi compie un infanticidio si differenzia significativamente da quello di chi uccide anche persone adulte.

 

Il profilo neuropsicologico di chi compie l’ infanticidio

Recentemente, i ricercatori della Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago hanno indagato l’esistenza di differenze all’interno dei profili neuropsicologici degli assassini. Ciò che è emerso è che effettivamente sembrerebbe esistere una differenza per quanto riguarda le caratteristiche neuropsicologiche di chi uccide solamente bambini, rispetto a chi uccide anche persone adulte. L’ infanticidio sembra essere caratterizzato da maggiore impulsività, da minore quoziente intellettivo e, spesso, da patologie mentali. L’identificazione di queste differenze potrebbe aiutare nell’identificazione di quei bambini potenzialmente a rischio per la propria vita.

L’ infanticidio, ad oggi, risulta essere una delle categorie di omicidio sì tra le più rare, ma anche tra le meno comprese ed indagate. Inoltre, nonostante negli anni i tassi di omicidi siano generalmente calati, i tassi di omicidi perpetrati a danno di bambini non sembrano essersi modificati. Si stima che solo nel 2014 negli Stati Uniti siano stati uccisi 1,546 bambini, sia per atti di violenza sia per negligenza nella loro cura (Child Welfare Information Gateway, 2016). A tal proposito, riuscire ad identificare cosa differenzia a livello di funzionamento neuropsicologico questa tipologia di assassini da coloro i quali uccidono persone di età maggiore potrebbe notevolmente apportare benefici alla letteratura molto limitata sul tema e aiutare anche a prevedere e prevenire future tragedie.

In precedenza, gli studi sul tema si sono largamente occupati dello studio di variabili quali le caratteristiche sociodemografiche e psicologiche dei criminali, ma mai del funzionamento neurocognitivo. Oltre a ciò, anche a livello mediatico, è stata spesso riscontrata la tendenza a focalizzarsi esclusivamente su casi di donne con patologie mentali di tipo psicotico che commettono infanticidio (Laursen et al., 2011), ma, in realtà, l’uccisione di bambini avviene in contesti molto più variegati, non solo nell’ambito della patologia mentale.

Azores-Gococo e collaboratori, autori di una recente indagine sui profili neuropsicologici degli assassini, hanno messo in evidenza, in linea anche con studi precedenti (Hanlon et al., 2015; Hanlon et al., 2013), come gli uccisori di soli bambini, uno o più, abbiano la tendenza ad avere minori livelli di intelligenza, minori abilità di comunicazione e di problem solving e, generalmente, un maggior grado di patologia mentale. Inoltre, chi compie l’ infanticidio sembrerebbe essere caratterizzato da maggiore impulsività e dalla tendenza ad utilizzare metodi più manuali (ad es. percosse, annegamento) per perpetrare il crimine, anche se confrontati con quegli assassini che oltre ad un bambino hanno ucciso anche uno o più adulti nello stesso atto omicida.

Al contrario, gli uccisori sia di bambini sia di adulti sembrerebbero avere la tendenza a commettere delitti maggiormente premeditati, utilizzando soprattutto armi. Spesso, inoltre, nonostante mostrino un quoziente intellettivo nella norma, risultano essere caratterizzati dalla presenza di tratti antisociali, con anche abuso di sostanze.

In tal senso, questo studio suggerisce l’esistenza di molteplici ragioni per cui un bambino potrebbe trovarsi estremamente a rischio di subire gravi abusi a livello fisico o anche di venire uccisi, aprendo la possibilità di utilizzare quanto emerso a fini preventivi.

Più nello specifico, lo studio di Azores-Gococo e collaboratori è stato svolto con lo scopo di indagare i profili demografici, criminologici, psichiatrici, cognitivi e neuropsicologici di un gruppo di 33 soggetti (27 maschi, 6 femmine) accusati e condannati in primo grado per l’omicidio di uno o più bambini. Inoltre, la scelta del campione, piuttosto ampio rispetto alla precedente letteratura sul tema, è stata effettuata cercando di renderlo il più eterogeneo e variegato possibile, al contrario di altri studi che si sono principalmente focalizzati su una sola tipologia di criminali (ad es. donne che commettono figlicidi e neonaticidi), in modo da poter indagare in modo più approfondito il tipo di disfunzioni cognitive che caratterizzano questi criminali, rendendo anche i risultati maggiormente generalizzabili.

Tra i soggetti vi erano infatti criminali accusati sia di omicidi preterintenzionali e impulsivi sia premeditati, sia domestici sia non, alcuni dei quali includevano anche l’assassinio di persone adulte, non solo bambini. Il campione, poi, presentava un ampio spettro di diagnosi psichiatriche e deficit nel funzionamento neuropsicologico. In questo modo il campione risulta essere aderente a quanto riscontrabile nella realtà forense contemporanea.

Nel complesso, i partecipanti erano stati accusati dell’omicidio di 51 bambini di età compresa tra 1 mese e 17 anni, di cui il 50 % intorno ai 6 anni; 14 casi includevano anche l’omicidio di vittime adulte (da 1 a 7 vittime per caso).

Per quanto riguarda le analisi del funzionamento neurocognitivo, gli autori hanno valutato domini quali il funzionamento intellettivo, la memoria, l’attenzione e la velocità di elaborazione, il ragionamento e le funzioni esecutive e il linguaggio.

Dalle analisi è emerso come nel complesso il semplice uccidere un bambino all’interno di un atto omicida non sia sufficiente per distinguere questo gruppo di criminali da altri. Infatti, per quanto riguarda la prevalenza di diagnosi psichiatriche, di problemi del neurosviluppo e di abuso di sostanze e per quanto riguarda il funzionamento cognitivo, questo gruppo è emerso essere in linea con quanto presente in generale in letteratura per i criminali violenti.

Nonostante questo, però, sono emerse differenze significative a livello di gruppo. Infatti, in base ai punteggi alle diverse valutazioni, sembra che gli omicidi di soli bambini vengano perpetrati principalmente in modo non premeditato e impulsivo da persone che potrebbero non avere sufficienti abilità comunicative e di gestione emotiva per mediare in modo adattivo e funzionale i conflitti. Al contrario, gli assassini pluriomicidi sia di bambini sia di adulti presentano caratteristiche demografiche, psichiatriche e cognitive sovrapponibili a quelle di omicidi premeditati (Hanlon et al., 2013). Al contrario, nessuna differenza è emersa a livello di genere per quanto riguarda la premeditazione, l’essere sotto l’effetto di stupefacenti al momento del crimine o le caratteristiche criminologiche.

Sorprendentemente, ben pochi infanticidi sono risultati in linea con l’idea stereotipica che siano le madri psicotiche ad uccidere i propri figli. I criminali colpevoli di aver ucciso dei bambini risultano essere tutt’altro che un gruppo omogeneo con livelli analoghi di psicopatologia, tratti antisociali e funzionamento cognitivo. In questo senso, i risultati di questa ricerca invitano a prestare molta attenzione rispetto al fare conclusioni affrettate, mettendo in discussione la generalizzazione di assunzioni circoscritte e valide solo per una limitata quota di infanticidi, cercando, al contrario, di focalizzarsi maggiormente su quei deficit, caratteristiche personologiche e situazioni specifiche che potrebbero mettere in pericolo la vita dei bambini.

Inoltre, dal momento che la maggior parte dei bambini era stata uccisa dai compagni delle madri in un atto impulsivo di violenza non premeditata, gli autori suggeriscono che un lavoro psicoeducativo basato sulla gestione della rabbia e sulla presa di decisione su base non violenta potrebbe aiutare nella prevenzione del rischio di far del male ai bambini. Una valutazione appropriata ed un approccio votato alla prevenzione focalizzato su coloro i quali presentano una storia di violenza (domestica e non), soprattutto se a stretto contatto con bambini, potrebbe portare a drastiche riduzioni nei tassi di atti di violenza fatale, aiutando le persone a gestire in modo adattivo e funzionale i propri impulsi e le proprie emozioni, in particolar modo la rabbia.

 

Deep Brain Stimulation e Sindrome di Tourette: un nuovo metodo di cura?

Alcuni ricercatori del NYU Langone, hanno scoperto che la Deep Brain Stimulation potrebbe contribuire ad attenuare alcuni sintomi invalidanti della Sindrome di Tourette.

La deep brain stimulation: una tecnica chirurgica per la sindrome di Tourette

La Deep Brain Stimulation (DBS) è una tecnica chirurgica che consiste nell’impianto di alcuni elettrodi a livello cerebrale, in particolare nel subtalamo, grazie alla collocazione di un pacemaker che invia degli impulsi al cervello. Uno studio condotto alla New York University ha dimostrato che questi impulsi elettrici, somministrati nella zona del talamo mediale, possono ridurre i tic, i movimenti involontari o gli scoppi verbali, in casi gravi di Sindrome di Tourette.

La Deep Brain Stimulation è stata utilizzata per trattare anche altre condizioni neurologiche che non possono essere sufficientemente controllate attraverso i medicinali, come il morbo di Parkinson, il tremore essenziale, la distonia e l’epilessia.

I risultati, pubblicati nella rivista Journal of Neurosurgery si aggiungono al crescente numero di prove che supportano la Deep Brain Stimulation come un trattamento sicuro ed efficace per i casi severi di Sindrome di Tourette e potrebbero essere definitivamente approvati dalla U.S. Food and Drug Administration.

[blockquote style=”1″]Il nostro studio mostra che la deep brain stimulation è un trattamento sicuro ed efficace per giovani adulti con forme severe di sindrome di Tourette che non possono essere controllate con le terapie vigenti[/blockquote] sostiene Alon Mogilner, medico, dottore di ricerca, professore associato al dipartimento di neurochirurgia e anestesiologia e direttore del Centro per la Neuromodulazione al NYU Langone. [blockquote style=”1″]Questo trattamento ha il potenziale di migliorare la qualità di vita dei pazienti che sono debilitati dalla malattia negli anni adolescenziali e nella giovane età adulta.[/blockquote]

La Sindrome di Tourette è un disordine che ha inizio, tipicamente, durante l’infanzia e, anche se alcuni pazienti migliorano quando diventano più grandi, i sintomi di altri pazienti diventano così gravi da portarli a diventare socialmente isolati e compromettere la partecipazione a scuola o alle attività lavorative.

Mogilner e un suo collega, Michael H.Pourfar, medico, professore al dipartimento di neurochirurgia e neurologia e co-direttore del Centro per la Neuromodulazione, ha aperto la strada alla più grande serie di casi di Deep Brain Stimulation talamiche per trattare la sindrome di Tourette nei giovani adulti.

In una procedura a più stadi, un chirurgo ha inserito due elettrodi in una regione cerebrale chiamata “Talamo Mediale”, una parte del circuito cerebrale che funziona in maniera anormale nei soggetti con Sindrome di Tourette. In seguito, in una seconda operazione chirurgica avvenuta il giorno seguente o pochi giorni dopo, un dispositivo simile ad un pacemaker chiamato “neurostimolatore”, è stato connesso agli elettrodi per emettere impulsi elettrici nella zona del talamo mediale. Gli impulsi sono stati tarati durante una serie di visite di follow-up su pazienti ambulatoriali per trovare la combinazione di impostazioni che favorivano un controllo migliore dei sintomi.

I risultati dello studio confermano l’efficacia della Deep Brain Stimulation

Nello studio, il team del NYU Langone ha seguito 13 pazienti con almeno sei mesi di visite di follow-up. I partecipanti allo studio avevano un’età compresa tra i 16 e i 33 anni. Per determinare l’efficacia della procedura, i ricercatori hanno misurato la gravità dei tic prima e dopo l’innesto chirurgico, utilizzando la Yale Global Severity Scale (YGTSS).

E’ stato scoperto che la gravità dei tic diminuiva del 37%, in un periodo compreso tra l’esecuzione della procedura chirurgica e la prima visita di follow-up. Nella loro ultima visita, la gravità dei tic diminuiva, in media, del 50%.

Inoltre, tutti i pazienti riportavano, in un sondaggio fatto sei mesi dopo l’intervento chirurgico, che i loro sintomi erano migliorati “molto” o “moltissimo” e sostenevano tutti che avrebbero voluto un altro intervento; anche coloro i quali avevano avuto complicazioni o avevano percepito dei risultati relativamente peggiori.

Il sondaggio rappresenta un aspetto importante dello studio, sostiene Purfar, poiché il YGTSS, attraverso una scala validata, potrebbe non cogliere pienamente l’impatto della Deep Brain Stimulation sulla qualità di vita delle persone con Sindrome di Tourette.

Caro diario ti scrivo… Il legame tra intelligenza emotiva e auto narrazione

Intelligenza emotiva e auto narrazione: Il bisogno di raccontarsi e di raccontare è centrale nella vita di ogni individuo e il metodo dell’ auto narrazione rappresenta uno strumento utile per l’interpretazione della realtà, per sollecitare il recupero di senso esistenziale, spirituale, relazionale, cognitivo e affettivo della propria storia di vita. È proprio all’interno della psicologia cognitiva che Bruner (1991) s’interroga se le vite siano interessanti o se sia il racconto che costruiamo che le rende tali perché assumono nell’interlocutore un significato pregnante; è proprio sulla ricerca di significato che Bruner ha posto l’accento.

Grazia Migliuolo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Le teorie psicologiche sull’intelligenza

È passato poco più di un secolo da quando Binet (1905) valutava l’intelligenza dei giovani francesi discriminando l’uno dall’altro in base ad un punteggio che indicava l’età mentale del soggetto; siamo lontani anni luce da quando Spearman (1904) ipotizzava la teoria dei due fattori dell’intelligenza individuando il fattore G (generale) e S (specifico).

Ne ha fatta di strada la Psicologia fino ad arrivare ad un quadro molto più complesso che definisce l’intelligenza come un costrutto multifattoriale che arriva a comprendere 120 differenti abilità mentali, una indipendente dall’altra (Giulford, 1967). Nell’ambito della teorizzazione delle intelligenze multiple è Gardner (1987) a definire il concetto d’intelligenza comprendendo due aspetti che seppur presi in considerazione in precedenza (Thorndike, 1920) non avevano riscosso il successo degli ultimi 20 anni, l’aspetto emotivo e sociale. La parola chiave in questa concezione dell’intelligenza è “multipla”: il modello di Gardner si spinge ben oltre il concetto standard di QI come singolo fattore immutabile. Secondo la teoria delle intelligenze multiple, i test che ci hanno assillato quando andavamo a scuola, discriminando chi poteva frequentare il liceo piuttosto che un istituto professionale, sono basati su un concetto d’intelligenza che non trova riscontro nell’autentica varietà di competenze ben più importante di quanto non sia il QI.

Il costrutto di intelligenza emotiva

Sono Salovey e Mayer (1990) a formulare una prima definizione del costrutto di intelligenza emotiva come capacità di monitorare le emozioni e i sentimenti propri e altrui, di discriminare tra sentimenti ed emozioni e di utilizzare le informazioni ricavate per guidare comportamenti e pensieri in modo adeguato alle diverse situazioni. Mayer (1995) considera il costrutto di personalità, inteso come sistema di strutture e di processi che determinano il modo con cui ciascuno reagisce all’ambiente fisico e sociale, insomma, il personale modo di percepire, esperire le emozioni e pensare.

Questo fornisce all’individuo un senso di identità personale. Il concetto di Intelligenza emotiva è stato ripreso da Daniel Goleman (1996) come l’insieme delle capacità di autocontrollo, di entusiasmo, di perseveranza e di automotivazione, saper leggere i sentimenti più intimi di un altro individuo e saperli gestire tranquillamente. Intelligenza emotiva: capacità di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e la capacità di essere empatici e di sperare.

Nella sua fondamentale definizione d’ intelligenza emotiva Goleman (1996) include le intelligenze personali di Gardner estendendo queste abilità a 5 ambiti principali:
1) Padronanza di Sé, che richiede la capacità di saper dominare i propri stati interiori, saper guidare gli impulsi e sapersi adattare e sentirsi a proprio agio in nuove situazioni;
2) Motivazione, caratteristica che spinge l’individuo a realizzare i propri obiettivi sapendo cogliere le occasioni che gli si presentano, impegnandosi e restando costante nonostante le possibili avversità.
3) Empatia, intesa come la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, mostrandosi pronti a soddisfare le esigenze dell’Altro, ed aiutarlo cercando di mettere in risalto quelle che sono le sue risorse. Ma anche la capacità di individuare e coltivare le opportunità che vengono offerte dall’incontro con persone, il saper interagire all’interno di un gruppo sulla base dell’interpretazione delle correnti emotive e dei rapporti di potere esistenti nel gruppo stesso;
4) Competenza Sociale: ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro; a questa fanno rifermento: abilità sociali, ossia tutte quelle abilità che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili. Si va dall’utilizzo di tattiche di persuasione efficienti, al saper comunicare in maniera chiara e convincente, così da saper guidare il gruppo sia in un eventuale cambiamento, sia nel risolvere eventuali disaccordi. Rientra inoltre nell’abilità sociale il cercare di favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni;
5) Competenza Personale, ossia il modo in cui controlliamo noi stessi; racchiude al suo interno: consapevolezza di Sé, da intendersi come capacità di riconoscere le proprie emozioni, sapere quali sono i propri limiti e le proprie risorse ed avere sicurezza nelle proprie capacità.

Quest’ultima caratteristica, la consapevolezza emozionale è una componente fondamentale, i soggetti consapevoli dei propri stati d’animo sono autonomi, sicuri e sono in grado di raccontarsi e raccontare i propri vissuti, non tendono al rimuginio, insomma godono di una buona salute psicologica.

Da queste definizioni si evince come l’ intelligenza emotiva sia un costrutto complesso che prevede la presenza di gestione delle proprie e altrui emozioni, motivazione, capacità di adattamento, autocontrollo e capacità di esprimere e raccontare i propri stati così da trovare significati alle esperienze presenti e passate.

Insomma l’ Intelligenza Emotiva racchiude al suo interno quelle capacità di consapevolezza e padronanza di se, motivazione, empatia e abilità nella gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano.

Il nesso tra intelligenza emotiva e auto narrazione

In quest’ottica, comprendere noi stessi e gli altri consiste nel comprendere i processi che vengono messi in atto nell’attribuzione di significato ai diversi eventi della nostra vita. La struttura narrativa è insita nella prassi dell’interazione sociale ma soprattutto rappresenta lo strumento per la costruzione del sé. Ma qual è la connessione tra quest’aspetto dell’intelligenza e l’ auto narrazione?

Il bisogno di raccontarsi e di raccontare è centrale nella vita di ogni individuo e il metodo dell’ auto narrazione rappresenta uno strumento utile per l’interpretazione della realtà, per sollecitare il recupero di senso esistenziale, spirituale, relazionale, cognitivo e affettivo della propria storia di vita. È proprio all’interno della psicologia cognitiva che Bruner (1991) s’interroga se le vite siano interessanti o se sia il racconto che costruiamo che le rende tali perché assumono nell’interlocutore un significato pregnante; è proprio sulla ricerca di significato che Bruner ha posto l’accento.

Per l’autore l’essenza stessa della comunicazione è il significato che gli esseri umani creano in base ai loro contatti con il mondo (…) per costruire e attribuire un senso non solo al mondo, ma anche a se stessi. È proprio Bruner ad aver teorizzato il concetto per l’essenza della comunicazione e il significato che gli esseri umani creano a partire dal contatto con il mondo. Il bambino possiede un’attitudine innata che gli garantisce la capacità di entrare nel significato ma affida al genitore la capacità d’interazione per far in modo che avvenga uno scambio reciproco indispensabile per l’evoluzione linguistica e dei suoi significati. Sono i significati che costruiamo e che guidano il pensiero e l’azione ad essere parte integrante della trama delle nostre narrazioni; queste sono, a loro volta, il collante che unisce i significati e ne consente la comunicazione. La struttura narrativa è insita nella prassi della interazione sociale, la forma narrativa è lo strumento per la costruzione del senso della vita. Le strutture narrative assumono universalmente forme attraverso cui le persone comprendono la realtà e comunicano su di essa. Il racconto permette di costruire significati che permettono di interagire con il sistema all’interno del quale vivono. I valori culturali pongono degli obiettivi alle persone anche per garantire il loro riconoscimento all’interno di quella cultura.

L’ auto narrazione, parlare di sé e delle proprie emozioni rimanda a fattori specifici come il tipo, l’intensità, le cause scatenanti, il contesto e il ruolo sociale, nonché differenze individuali come credenze, valori, scopi, la percezione e l’espressione emotiva; risulta evidente quanto acquisire una competenza emotiva è il risultato di un lavoro complesso proprio perché tante sono le variabili. Ci si può avvalere di metodologie e tecniche vicine a quelle della psicoterapia, a seconda delle dimensioni si possono suggerire tecniche diverse: per la relazione con se stessi e con il proprio corpo la più utilizzata è la tecnica del diario e dell’ autobiografia. Elaborare, ripercorrere quello che abbiamo vissuto ci dà la possibilità di riflettere e dare significati che prima non erano stati presi in considerazione, spesso questo lavoro non è semplice da dare da soli, la psicoterapia ci fornisce gli strumenti.

La pratica della scrittura e dell’ auto narrazione  attivano o riattivano percorsi di crescita individuali o di gruppo, risultando utile sia in contesti educativi, terapeutici e lavorativi. Lo strumento dell’ auto narrazione per eccellenza è il diario che ha lo scopo di registrare il flusso degli eventi quotidiani della nostra esperienza interna, una caratteristica è quella della brevità che permette di registrare una maggiore quantità di materiale e di avere una maggiore varietà di argomenti, l’altra caratteristica è la centralità della propria prospettiva (emozioni, pensieri, comportamenti); registrare gli eventi, essere capace di riflettere su questi riportandoli ad un’altra persona è alla base della logica degli homeworks tanto cari alla psicoterapia cognitiva. Probabilmente è per questo che un percorso terapeutico ci rende più intelligenti, almeno emotivamente.

L’afasia: le cause e le diverse tipologie – Introduzione alla Psicologia

L’ afasia è una patologia che si manifesta con la perdita o l’alterazione del linguaggio ed è dovuta alla presenza di un danno cerebrale a carico di particolari aree. Si tratta di un disturbo specifico del linguaggio e può palesarsi con problematiche linguistiche che variano in base alla sede della lesione cerebrale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il termine afasia deriva dal greco ed è una parola formata da ἀ privativo e da ϕάσις ovvero parola, e può essere tradotta con perdita della parola o mutismo. L’afasia consiste nella mancanza parziale o totale della capacità di esprimere o comprendere il linguaggio e le parole. L’afasia non è determinata da nessun deficit intellettivo, da nessuna lesione degli organi imputati alla riproduzione del linguaggio o da disturbi psichici, ma deriva da lesioni registrate a carico di aree cerebrali in cui avviene l’elaborazione del linguaggio.

L’afasia e le aree coinvolte

La classificazione delle varie forme di afasia e la loro interpretazione anatomo-clinica è ancora oggi soggetta a discussione. In generale, è possibile distinguere due grandi tipi di afasia a seconda dell’area cerebrale coinvolta: la afasia sensoriale o di Wernicke e la afasia motoria o di Broca. Inoltre, in alcuni casi, si rileva la presenza di tipi misti o intermedi di afasia. Le aree del linguaggio si trovano sempre nell’emisfero dominante, quindi nell’emisfero sinistro per i destrimani, mentre nei mancini si trovano, tendenzialmente, nell’emisfero destro. Oltre alle aree cerebrali riguardanti il linguaggio negli afasici possono essere compromessi i fascicoli che collegano queste aree ad altri centri cerebrali.

L’afasia può riguardare diversi aspetti del linguaggio, come la comprensione, la produzione, la ripetizione e la strutturazione. Di conseguenza, l’afasia si può manifestare con l’incapacità di riconoscere una parola o di scegliere la parola adatta, oppure è possibile sostituire una parola con un’altra di significato diverso ma della stessa famiglia, ad esempio si dice ora ma si vuole parlare dell’orologio, oppure può essere usata una parola sbagliata ma dal suono simile a quella giusta, come zampone anziché giaccone. Tale deficit, inoltre, potrebbe riguardare solo il parlato, inteso come capacità di pronunciare e ripetere frasi o anche lo scrivere.

Tutti coloro che mostrano afasia cominciano col dimenticare i nomi propri, poi i nomi comuni, seguono gli aggettivi e infine i verbi e le preposizioni.

Insorgenza e cause

L’afasia è determinata da lesioni a carico delle aree del cervello deputate all’elaborazione del linguaggio: l’area di Broca e area di Wernicke. Tali lesioni possono essere dovuti a: infarti cerebrali, attacco ischemico transitorio (in cui il disturbo regredisce nel corso di alcune ore), emorragie cerebrali, processi tumorali, processi degenerativi, ascesso cerebrale o encefalite, crisi epilettica o attacco di emicrania con aura.

Classificazione

Esistono diverse forme di afasia:
– fluente in cui l’eloquio è abbastanza produttivo e il linguaggio è caratterizzato da parole appropriate e da parole prive di nesso. Le afasie fluenti sono causate da lesioni parietali temporali dell’emisfero sinistro;
– non-fluente si presenta una scarsa produzione verbale spontanea, riescono a produrre soltanto parole isolate o frasi molto brevi composte e causate da lesioni frontali dell’emisfero sinistro;
– globale è un grave deficit della produzione, comprensione ed elaborazione di messaggi linguistici in cui l’eloquio è limitato e frammentato e la lettura a voce alta e scrittura sono praticamente assenti. Essa è causata da lesioni dell’emisfero sinistro che coinvolgono la corteccia perisilviana pre e post-rolandica e le strutture profonde sottostanti.

L’afasia di Broca

L’afasia di Broca è causata da lesioni corticali dell’area di Broca e del lobulo prefrontale che si può estendere fino alla parte posteriore della terza circonvoluzione frontale e nei casi più difficili possono essere danneggiate anche le regioni circostanti pre-motorie e pre-frontali e aree sottocorticali che interessano il putamen o la capsula interna.

Nell’afasia di Broca si preserva la comprensione del linguaggio mentre la produzione è compromessa, fino a ottenere mutismo nei casi più gravi. Il linguaggio è lento, riflessivo, e si fa uso di parole e frasi molto semplici; i sostantivi sono usati al singolare, i verbi all’infinito o participio, gli articoli, gli aggettivi, gli avverbi sono eliminati. Inoltre, i pazienti affetti da tale patologia faticano nel leggere a voce alta e la scrittura può essere anomala.

L’area di Broca è coinvolta, anche, nella produzione del linguaggio scritto, quindi un danno in questa parte inferiore del lobulo frontale, in particolare il terzo posteriore della circonvoluzione frontale inferiore, compromette l’espressione del linguaggio scritto.
Coloro che ne sono affetti sono coscienti degli errori grammaticali del deficit che hanno e di conseguenza cercano di usare sempre le regole grammaticali basilari.

L’Afasia di Wernicke

L’afasia di Wernicke è in genere causata da una lesione corticale dell’area di Wernicke, che si trova nella circonvoluzione temporale superiore, e può estendersi, in alcuni casi, alle aree 37 e 40 di Brodmann.

E’ caratterizzata da un evidente deficit di comprensione del linguaggio, quindi il linguaggio parlato è abbastanza fluido anche se si può avere difficoltà nell’individuare la parola giusta da dire, e può capitare di fallire nel comunicare l’idea che si ha in mente (linguaggio vuoto). Coloro che ne soffrono non sono coscienti di questo loro problema.

L’afasia di Wernicke comporta problemi sia nella comprensione del linguaggio sia nella produzione. La capacità di elaborare un discorso fluentemente è mantenuta; l’eloquio è parafasico e ricco di circonlocuzioni con neologismi. Il paziente non si rende conto che il suo linguaggio è incomprensibile.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Nu Relax: l’app per rilassarsi ed essere mindful

Nu Relax ® è un’applicazione che favorisce il rilassamento e parte da una concezione di benessere basata sull’equilibrio tra corpo e mente, e che può rappresentare un valido supporto per tutte quelle persone che desiderino intraprendere un percorso utile per apprendere un diverso approccio per percepire le proprie esperienze. Potrebbe rappresentare uno strumento da affiancare alla psicoterapia, specialmente quando questa si basa su un paradigma di terza ondata.

 

La mindfulness: uno degli approcci della terza ondata della terapia cognitiva

I paradigmi di terza ondata, introdotti nella terapia cognitiva, hanno rivoluzionato il concetto di trattamento, spostando il focus degli interventi dai contenuti ai processi mentali. Tra gli effetti di questo cambio di prospettiva c’è senz’altro la diffusione di interventi di tipo esperienziale, come la mindfulness, che pongono l’attenzione maggiormente sulla modalità adottata dalle persone nel relazionarsi alle proprie esperienze mentali e sui processi di cambiamento relativi a questa modalità.

Si tratta di un approccio che mira a collocare l’individuo nel momento presente, aiutandolo a distaccarsi da un’elaborazione concettuale troppo astratta e spesso disfunzionale, inducendo così emozioni piacevoli (Brown & Cordon, 2009; Varela & Depraz, 2003).
In questo contesto, terapeutico, ma non solo, si va diffondendo sempre più anche l’utilizzo di applicazioni e software per accompagnare le persone nell’esercizio costante di queste pratiche legate all’esperienza.

 

Nu Relax: una app che favorisce il rilassamento

Tra queste app c’è Nu Relax ®, che già dal nome lascia intuire l’intento di introdurre un modo nuovo per vivere esperienze relative al proprio rilassamento, obiettivo che prova a raggiungere attraverso diversi percorsi meditativi, tutti basati su recenti studi neurologici e sulle tecniche di rilassamento più diffuse come lo yoga, il training autogeno, il rilassamento progressivo e il biofeedback.

L’app funziona su smartphone, disponibile sia per Android sia per iOS, e permette di avere sempre a portata di mano una voce guida per vivere al meglio le esperienze di meditazione, secondo un approccio mindful. Tutti gli esercizi aiutano ad allenare la propria consapevolezza e a dirigere volontariamente la propria attenzione al momento presente, a quello che accade intorno a sé e nel proprio corpo, osservando la propria esperienza sempre in modalità non giudicante.

In questo modo l’utente è libero di scegliere, quando meglio crede, il percorso da completare (relax, stabilità, creatività, calma, brillantezza oppure lucidità) e la sua durata (10, 20 o 30 minuti). Il resto lo fa il nostro cervello, che grazie alla sua plasticità riesce, con un allenamento adeguato, ad apprendere modalità differenti per rapportarsi alle proprie esperienze.

Nu Relax ® è un’applicazione che parte da una concezione di benessere basata sull’equilibrio tra corpo e mente, e che può rappresentare un valido supporto per tutte quelle persone che desiderino intraprendere un percorso utile per apprendere un diverso approccio per percepire le proprie esperienze. Potrebbe rappresentare uno strumento da affiancare alla psicoterapia, specialmente quando questa si basa su un paradigma di terza ondata.

Non solo però: l’applicazione non richiede alcuna ‘diagnosi’ per essere utilizzata anzi, il suo utilizzatore tipico potrebbe essere proprio la persona che si sente pressato dallo stress quotidiano e decide di provare a cambiare qualcosa nella sua vita.

L’applicazione molto valida rispetto ai fondamenti scientifici, potrebbe tuttavia essere migliorata rispetto all’esperienza dell’utente, ad esempio inserendo delle meccaniche motivazionali, che incentivino l’utente ad utilizzare Nu Relax ® con regolarità, in modo da allenare in maniera più efficace il proprio approccio. Ad esempio, l’uso di alert che ricordino all’utente di iniziare un nuovo percorso oppure la presentazione di elementi grafici che mostrino il progresso dell’utente, potrebbero aumentare l’engagement dell’utente, come d’altra parte ci dimostrano la maggior parte delle applicazioni che oggi si propongono di indurre un cambiamento comportamentale nei propri utenti (King et al., 2013; Lister et al., 2014).

La doppia Vita di Veronica (1991) – Recensione del film

La doppia vita di Veronica da un punto di vista analitico mette in risalto la concezione freudiana della predisposizione narcisistica alla paranoia, ed indicano nel proprio io, il principale persecutore contro cui si rivolge il meccanismo di difesa; la scissione psichica crea il doppio il quale a sua volta costituisce  una proiezione del conflitto interiore.

 

La doppia vita di Veronica: la trama

La doppia vita di Veronica è un film di Krzysztof Kieślowski del 1991, sceneggiato dal regista insieme a Krzysztof Piesiewicz ed interpretato da I. Jacob e P. Volter. Weronika e Véronique.

Due vite che scorrono parallele ma su binari contrapposti delineati da analogie esistenziali. Vite simili ma segnate da un destino diverso. Sia Weronika, ragazza polacca, che Véronique, francese, condividono la stessa identica passione per il canto lirico, entrambe sono orfane di madre e cardiopatiche dalla nascita. Weronika disinteressandosi della sua malformazione continuerà a cantare, perseguendo così il suo ambizioso obiettivo e questo la porterà ad abbandonare il ragazzo e a superare tutti gli ostacoli possibili.

Assecondando questo cammino un giorno durante uno spettacolo si accascerà esanime al suolo, morendo. Nel preciso istante in cui la bara di Weronica viene coperta di terra dalle persone riunite tutt’attorno ad essa nel giorno del suo funerale, si avrà come l’impressione che gli occhi della ragazza stiano fissi a scrutare quello che accade: una metafora che Kieslowski sintetizza grazie all’utilizzo di una ripresa soggettiva, la quale, come magicamente, si distacca dall’azione in corso per approdare in una nuova dimensione quella di Veronica (parigina).

Una soggettività narrativa che culmina nel parossismo e che per tutta la seconda parte dell’opera si concentrerà sulla francese Véronique osservata nella sua intimità. La morte di una influirà irrimediabilmente sulla vita dell’altra, come rimasta orfana di una gemella o ancor più di una parte di se stessa.

Kieslowski gioca tutto sulla dualità e l’ambiguità, sulle conseguenze relative alla perdita di qualcosa di caro.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

I film precedenti di Kieslowski e il collegamento con La doppia vita di Veronica

Nel film La doppia vita di Veronica le due Veronica rimandano molto ai due Kieslowski, il primo tutto polacco che si approccia alla regia come documentarista: nel 1971 realizza Operai ’71, testimonianza di uno sciopero soppresso a Danzica da parte delle autorità polacche. Nel 1979 gira il lungometraggio di finzione Il cineamatore, storia di un giovane padre e della sua passione per il cinema.

Il film vince il primo premio al Festival di Mosca. Ma è nei due film successivi: Destino cieco e Senza fine, che il regista polacco fissa i temi che caratterizzeranno tutta la sua poetica. Entrambi i lavori parlano dei misteri che governano il caso e del persistere della memoria, da questo punto di svolta, da questa nuova sensibilità, nasce uno stile registico diverso che porterà il regista a trasferirsi a Parigi facendo subentrare il secondo Kieslowski che nel 1989 realizzerà il suo capolavoro: Il decalogo che lo porterà ad un’ascesa artistica che lo farà diventare uno dei registi più importanti dello scorso secolo.

Osservando lo stile registico e di montaggio ne La doppia vita di Veronica sembra di osservare un’operazione di scavo interiore, il richiamo di una vita intera, di qualcosa di più profondo, di inattingibile con la vita del regista, quasi un Kieslowski che osserva e parla di se stesso.

Volti e sguardi sono l’ epifania più eloquente e proprio perché il tutto è girato in modo estremamente delicato e silenzioso sembra sprofondare nel più profondo stato dell’animo umano. Quest’opera è interpretabile anche come descensus ad inferos e logos endiàthetos dell’autore: un discorso interiore tra sé e sé, per immagini e musica più che per parole, in linea con la funzione e l’essenza del cinema e con l’ineffabilità radicale della materia.

Interpretazione psicoanalitica del film La doppia vita di Veronica

L’analisi filmica, da un punto di vista psicoanalitico persegue due filoni: 1) Approccio contenutistico che ha lo scopo di interpretare i film come prodotti dell’inconscio dell’autore, mettendo in rilievo temi e figure ricorrenti nell’opera di un regista e facendoli risalire a traumi dello stesso. 2) Analisi della scrittura del film, che va a sottolineare l’analogia tra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell’inconscio.

In questo film, l’approccio contenutistico è chiaro. Credo che un’ opera d’arte, filmica o che dir si voglia nasca sicuramente per il pubblico che ne godrà la magnificenza, ma, sicuramente, l’autoterapia o il parlare di sé dell’autore giocano un ruolo chiave, si canalizzano, infatti, nell’opera quegli stati emotivi che affliggono l’anima. La doppia vita di Veronica da un punto di vista analitico mette in risalto la concezione freudiana della predisposizione narcisistica alla paranoia, ed indicano nel proprio io, il principale persecutore contro cui si rivolge il meccanismo di difesa; la scissione psichica crea il doppio il quale a sua volta costituisce  una proiezione del conflitto interiore e la cui creazione porta con sè una liberazione interiore, seppur a prezzo della paura dell’incontro con il doppio. Cosi la paura derivante dal complesso dell’io crea lo spettro pauroso del doppio che rappresenta i desideri segreti e sempre repressi della psiche.

Questo film è una sorta di chiarificazione e presa di coscienza per Kieslowski che ad un certo punto, cambia registro, cambia vita, saluta l’attivista e parla con se stesso e con la sua nuova sensibilità, uccide la Weronika/ Kieslowski polacca e dà modo, quasi giustificandosi con questo film alla Veronica/ Kieslowski parigina di godere appieno di questa sua seconda vita.

 

Social Withdrawal e Hikikomori: definizione e ipotesi d’intervento

Con il termine Social withdrawal si intende una condizione sociale caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Nelle società nipponiche questo fenomeno si configura con l’espressione Hikikomori che deriva dal verbo Hiku (tirare indietro) e Komoru (ritirarsi) ed indica una sindrome sociale che va diffondendosi ormai in maniera critica (S. Moretti, 2010) e capillare.

Daniela Grimaudo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Hikikomori e social withdrawal: in cosa consistono

Il giovane Jun ha diciotto anni, fa il test di ammissione in un’ università ma non lo supera. Cerca di non scoraggiarsi, continua a studiare da solo, ma lentamente va alla deriva, fino a quando si chiude nella sua stanza, dorme durante il giorno e di notte legge testi di filosofia e guarda la televisione.

Occasionalmente prende la sua mountain-bike e di notte scorrazza per le strade della  città che dorme. Quando incontra qualcuno dei suoi vicini- racconta Jun- si sente guardato con diffidenza e a volte con ostilità: è troppo diverso dagli altri ragazzi”.

La storia emblematica dell’ Hikikomori Jun è raccontata dal giornalista americano Michael Zielenziger in un importante testo dal titolo “ Non voglio più vivere alla luce del sole” ( M. Ammaniti, 2009).

Con il termine “Social withdrawal” si intende una condizione sociale caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Nelle società nipponiche questo fenomeno si configura con l’espressione “Hikikomori” che deriva dal verbo Hiku (tirare indietro) e Komoru (ritirarsi) ed indica una sindrome sociale che va diffondendosi ormai in maniera critica (S. Moretti, 2010) e capillare.

Questa sindrome si manifesta in modi differenti: permanenza in ambiente domestico per lunghi periodi di tempo, mancanza di rapporti amicali, assenza di comunicazione con la famiglia, evitamento di qualsiasi forma di contatto visivo, assenza quindi di relazioni significative e/o intimità emotiva e fisica.

Il termine hikikomori è stato formulato dallo psichiatra Saito Tamaki, direttore del dipartimento psichiatrico dell’Ospedale Sofukai Sasaki di Chiba, non lontano da Tokyo, negli anni Novanta del secolo scorso, per riferirsi al fenomeno di persone che hanno scelto una condizione di autoreclusione (se–clusione) permanente al fine di ritirarsi dalla vita sociale. Il ministero giapponese della salute definisce hikikomori gli individui che rifiutano di uscire dalla casa dei genitori, isolandosi nella propria stanza per periodi superiori ai sei mesi, con la possibilità che la permanenza in autoreclusione si prolunghi per un numero non breve di anni, in una condizione di stabile dipendenza economica dalla famiglia. Essi sono soliti pranzare e cenare nella propria stanza con un vassoio passato dal genitore attraverso la porta appena socchiusa e si recano in bagno con percorsi che, per tacita intesa familiare, vengono lasciati il più possibile non frequentati. Si interrompe ogni rapporto con il mondo della scuola, dell’università o del lavoro (U.  Mazzone, 2009).

L’identikit del giovane Hikiikomori si esprime attraverso determinate caratteristiche comportamentali e strutturali che delineano una nuova forma di categoria psicopatologica: giovane tra i 14-30 anni, di estrazione sociale medio-alta, nel 90% dei casi di sesso maschile per lo più figlio unico di genitori entrambi laureati (S. Moretti, 2010). Di solito, giovani maschi, anche se la presenza femminile pare in aumento e comunque tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, trascorrono parte del tempo a chattare, leggere, giocare al computer o guardare la televisione, determinati a non rientrare nel grande flusso sociale.

Le cause dell’ Hikikomori, un fenomento in crescita

Nella prefazione di un libro dal titolo molto eloquente “ Hikikomori. Narrazione da una porta chiusa”, di C. Ricci, Mazzoni sostiene che le cause più frequentemente addotte, come spiegazione di tale comportamento, siano di diverso tipo: quelle sociali, come debolezza nella capacità di stringere relazioni, insicurezza, perdita dell’impiego, vergogna, scarsità di motivazioni; quelle scolastiche, come bullismo, sollecitazioni competitive, fallimento negli esami, rifiuto della scuola; quelle famigliari, come pressioni per il raggiungimento di più elevati livelli di istruzione, difficoltà di relazioni, padre assente, madre iperprotettiva, e, infine, ma molto distanziate, quelle individuali, legate soprattutto a problemi psicologici (U. Mazzone, 2009).

I dati reperiti dai centri di supporto No-Profit e sovvenzionati dal ministero della salute giapponese parlano di una cifra ufficiale che quantifica in oltre il milione quegli adolescenti che praticano hikikomori in Giappone; si tratta di un fenomeno in via di espansione non soltanto in Corea e in Cina ma si riscontrano alcune particolarità simili perfino nella cultura occidentale tanto da poter segnalare già una tipica presenza anche negli Stati Unite e nel nord Europa (Block. J.J. 2008) .

Attualmente in Italia si registrano circa cinquanta casi, ufficialmente dichiarati, di giovani adolescenti, presi in carico come Hikikomori (L. T. Pedata, M. Interlandi, 2012)

Il social withdrawal: il ritiro dalla società

Come abbiamo precedentemente affermato il Social Withdrawal indica proprio l’isolamento, il mettersi in disparte, il ritiro dalla società e nonostante i i giovanissimi trascorrano il loro tempo su internet, con fumetti o video giochi, attenzione! il fenomeno va distinto dall’ abuso tecnologico o da altre forme patologiche, anche se, presentano un elemento comune: si sceglie una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale ( L.T. Pedata, M. Interlandi 2012).

Il Social Withdrawal è un ritiro dalla società, è un rifugiarsi nella solitudine ma paradossalmente questi giovani interagiscono virtualmente con il mondo; quel senso di vergogna sperimentato nel contatto con l’altro, in rete viene placato, anche se non completamente.

La dimensione del gruppo sulla piattaforma virtuale crea un senso di appartenenza e di accettazione immediata che non sembra essere caratterizzato dai tempi e dalle regole più severe a cui sottostanno i gruppi nella realtà quotidiana ( Lavenia 2012).

Piotti, nel testo “Il banco vuoto. Diario di un adolescente in estrema reclusione” si è dedicato al tentativo di capire quale sia la motivazione dei nuovi eremiti domestici, dei ragazzi in reclusione volontaria, ritirati per mesi o anni nella loro cameretta immersi nella realtà virtuale, apparentemente dimentichi dei doveri, dei piaceri della loro età e delle aspettative nei loro confronti da parte delle famiglie, della scuola o dagli amici disertati.

Anni di lavoro clinico, sostiene Pietropolli Charmet, hanno mostrato quanto sia difficile per i genitori entrare in contatto con quel che accade nella mente di un figlio in piena crisi evolutiva e quanto questo sia per loro fonte di una terribile sofferenza.

Reazioni interne ad eventi esterni avvengono secondo uno schema particolare e secondo uno stile di pensiero preciso.

Come mai un ragazzo decide di recludersi nella sua stanza, connesso al pc, immerso in un’ esistenza virtuale e rifiutando la scuola? Perchè cosi tanta paura nell’ interagire con l’altro? Nella società del Sol Levante questo fenomeno potrebbe assumere le sembianze di una ribellione contro un paese schiacciato dal conformismo e omogeneità, dove non vi è spazio per la differenza e diversità, in cui i giovani non trovano una loro collocazione. Probabilmente in una situazione del genere, nasce il dilemma: scappare o sopravvivere

Perchè non tentare quindi la strada virtuale in cui non vi è nessuna pressione, nessuna demarcazione biologica, dove tempo e spazio hanno un personale significato, al riparo da quella vergogna struggente, lontano  dallo sguardo dell’altro sesso, dal gruppo, dai coetanei.

Teo e Gaw in una rassegna del 2010 concludono sostenendo che il ritiro sociale grave o acuto potrebbe in futuro essere incluso nel DSM come una nuova psicopatologia a sé stante (Teo e Gaw, 2010).

Secondo il punto di vista di Piotti e Lupi quel che è certo è che l’apparenza e il successo sono valori di riferimento in un modello educativo sempre più diffuso. Molti adolescenti si sono trovati a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio Sè, con aspettative imponenti, con l’idea di essere dei bambini speciali e hanno avuto grandi difficoltà ad accettare le loro caratteristiche reali, umane e in quanto tali limitate.

Di fronte agli ideali di perfezione che vengono ulteriormente sottolineati dai mass-media il ragazzo fragile, che scarseggia di autostima si sente terribilmente inadeguato. Se l’idealizzazione è troppo elevata infatti non basta più essere carini o un pò sopra le righe, occorre essere perfetti e ogni valutazione che non corrisponde alla perfezione si traduce in bruttezza (Spiniello, Piotti, Comazzi).

Il senso di inadeguatezza spesso porta ad una sorta di ansia sociale e quindi quale strada migliore per nascondere il proprio corpo dallo sguardo degli altri percepiti come criticanti se non quello di rinchiuderlo in un angusto spazio, considerato ormai l’unica ancora di salvataggio? Il pensiero disfunzionale che si cela dietro, considera l’aspetto esteriore perennemente inadeguato e porta così a stati di ansia sociale che a loro volta si traducano in ritiro sociale e auto-esclusione.

La presa in carico in terapia di adolescenti ritirati socialmente

La presa in carico terapeutica di un adolescente che decide di sparire dal palcoscenico sociale e di rinchiudersi nella propria cameretta è un lavoro complesso e delicato (R.Spiniello, A.Quintavalle, 2015). Non è il ragazzo che si precipita dallo psicologo. Lui è  li dentro la stanza, impegnato a trovare strategie per rendere invisibile il proprio corpo alla società dei coetanei. A detta sua sta anche bene fra le mura domestiche avendo eliminato con la sua condizione da eremita proprio ciò che più teme: lo sguardo dell’altro. Sono i genitori ad essere allarmati. Ovviamente se il ragazzo non esce da casa sua, sarà lo psicologo a farlo: si allontanerà dalla sua scrivania, si metterà in gioco con il suo corpo, con le sue attitudini e competenze professionali e andrà a scovare il ragazzo lì dove si trova e inizierà a intessere con lui una relazione terapeutica costituita all’inizio da silenzi e rifiuti e successivamente da sguardi, parole e donazione di senso (R.Spiniello, A.Quintavalle, 2015).

Condurre il ragazzo fuori casa non è l’obiettivo principale di questo intervento domiciliare, quanto piuttosto quello di avere il permesso di stare insieme a lui nella stanza, entrare nel suo mondo, nell’immaginario, negli interessi carichi di significato (R.Spiniello, A.Quintavalle, 2015).

L’accompagnamento verso l’esterno avverrà successivamente quando il giovane sarà in grado di eseguire alcuni esercizi di esposizione: inizialmente facendo semplicemente una camminata, successivamente raggiungendo i negozi vicino casa e infine costruendo piccole relazioni sociali per poi lentamente reintegrarsi nella società. E’ necessaria anche una ristrutturazione cognitiva; si potrebbe lavorare sulla tendenza a denigrarsi o a valutarsi continuamente come inutile, inadeguato, indegno o sfortunato. Purtroppo questa tendenza all’ evitamento contribuisce a mantenere l’umore depresso, a rinchiudersi e non permette alla persona di sperimentare brevi stati mentali positivi, nè di constatare che in realtà non è così incapace come crede di essere. I pensieri, le convinzioni negative su di sè, sul mondo, sul futuro hanno un ruolo chiave nell’esordio e nel mantenimento di questo fenomeno.

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