expand_lessAPRI WIDGET

Dipendenza da Internet: come intervenire?

Anche se parlare di Dipendenza da Internet può sembrare generico perché comprende molte attività che si possono praticare su questa piattaforma (gambling on line, sesso e gioco), l’intenzione è quella di focalizzarsi sull’utilizzo di essa in quanto strumento che le persone usano per immergersi in ciò che più appassiona, cercando di comprendere come l’uso può diventare una patologia, se ci sono dei fattori predisponenti e nel caso, a che punto si trova lo stato dell’arte nella ricerca relativamente alle tipologie possibili di intervento terapeutico.

Giulia Mazzoni – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

 

Dipendenza da Internet: tante definizioni, un po’ di chiarezza

Prima di entrare nel merito del possibile trattamento per quello che definiamo Internet addiction o Dipendenza da Internet è importante riuscire a districarsi tra le definizioni di altri termini simili che tendiamo a sovrapporre e a confondere tra loro, come nomofobia, sindrome di Hikikomori, spesso associata all’uso prolungato di strumenti informatici e cyber dipendenza.

Nomofobia (abbreviazione della frase no-mobile phobia): è la parola che descrive la sofferenza transitoria legata al non avere il telefono cellulare a portata di mano e alla paura di perderlo. Si accompagna a questo la sensazione di panico che coglie all’idea di non essere rintracciabili, la necessità di un costante aggiornamento sulle informazioni condivise dagli altri e la consultazione del telefono in ogni momento e in ogni luogo.

Questo fenomeno si può considerare un lontano parente della Dipendenza da Internet nella misura in cui si può innescare un meccanismo di dipendenza che parte dal circolo vizioso tipico: necessità sempre maggiore di aumentare il “dosaggio” e messa in atto di comportamenti disfunzionali che possono anche seriamente compromettere il funzionamento della persona (es. non spegnere mai il dispositivo, stare sempre più al telefono, vedere cosa accade agli amici sui social network, sollecitare la risposta dell’altro, svegliarsi di notte per controllare che non ci siano stati cambiamenti). In questi casi, soprattutto in termini di compromissione del funzionamento sociale o lavorativo, la differenza con una dipendenza da sostanze è veramente minima, se non nulla. Per questo motivo i ricercatori hanno sperimentato che i soggetti affetti da questo tipo di psicopatologia rispondono meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche (King A.L. at all., 2010).

Sindrome di Hikikomori: si tratta di una particolare condizione psicologica che riguarda soprattutto gli adolescenti e i giovani adulti e che letteralmente significa ritiro sociale. Tale condizione si caratterizza infatti proprio per un rifiuto verso la vita sociale e scolastica o lavorativa per un periodo di tempo prolungato e una mancanza di relazioni intime. I giovani Hikikomori possono mostrare il loro disagio in vario modo: restare chiusi in casa tutto il giorno, uscire solo di notte o di prima mattina quando hanno la certezza di non incontrare conoscenti, oppure ancora fingere di recarsi a scuola o al lavoro e invece girovagare senza meta.

E’ importante non confondere il fenomeno Hikikomori con la Dipendenza da Internet (Secher, 2003): nonostante, infatti, l’elemento comune tra i due fenomeni sia un uso eccessivo del PC e delle nuove tecnologie, il profilo degli Hikikomori può essere definito quasi come uno stile di vita, una sorta di modalità anoressica di vivere le relazioni. I giovani infatti, scelgono deliberatamente una vita di reclusione e la realtà virtuale sembrerebbe diventare il sostituto del mondo reale. Pertanto l’origine della psicopatologia non è in termini di Dipendenza da Internet, poiché questo è solo uno strumento per crearsi un’identità specifica e fittizia. Gli studi mostrano che solo nel 10% dei casi Hikikomori è stata riscontrata anche la Dipendenza da Internet. In realtà al momento è stata trovata solo una correlazione tra i comportamenti di ritiro sociale e alcuni sintomi dell’ Internet addiction (Wong, 2015), ma ancora non è stato condotto uno studio che permetta di stabilire una relazione causale tra i due fattori.

Internet addiction e cyber dipendenza: questi due termini, del tutto sovrapponibili, indicano entrambi la condizione patologica di dipendenza dal web. Nonostante le recenti proposte di discussione, il DSM V non ha inserito questo tipo di patologia tra i Disturbi non correlati a sostanze e disturbi da addiction (in cui è presente solo il disturbo da gioco d’azzardo) ma ne fa cenno nella sezione Condizioni che necessitano di ulteriori studi citando il Disturbo da gioco su Internet e definendolo come l’unica condizione di questo settore con una considerevole letteratura scientifica. Tra i criteri proposti troviamo l’uso persistente e ricorrente di Internet per partecipare ai giochi che porta compromissione o disagio clinicamente significativi per un periodo uguale o superiore ai 12 mesi con sintomi di preoccupazione relativa ai giochi su Internet, astinenza e tolleranza, tentativi fallimentari di limitare la partecipazione ai giochi, perdita di interesse verso precedenti hobby e divertimenti, inganno dei famigliari e/o terapeuta rispetto alla quantità di tempo passata giocando su Internet e consapevolezza dei problemi psicosociali che tutto questo comporta.

Come si vede, quindi, il DSM riconosce l’esistenza di un possibile disturbo diagnosticabile come Dipendenza da Internet (anche se limitatamente all’attività di gioco sulla piattaforma) ma ne impedisce la diagnosi a causa della carenza di ricerche al riguardo. Inoltre l’atteggiamento della persona nei confronti dell’utilizzo di Internet è estremamente simile a quello di chi abusa di una sostanza: troviamo infatti le caratteristiche di astinenza e tolleranza, i ripetuti tentativi infruttuosi di abbandonare o cessare la dipendenza, gli stessi disagi e la stessa pervasività del disturbo nella vita quotidiana. Se ci pensiamo, anche il corpo di chi soffre di Dipendenza da Internet subisce delle conseguenze negative in termini di vista, muscolatura distale o di colonna vertebrale, spesso proprio perché l’urgenza nell’utilizzo è tale che la persona utilizza il pc o gli altri dispositivi negli ambienti e nelle posizioni meno idonee per farlo.

 

Origine, sviluppo e terapie della Dipendenza da Internet: uno sguardo alle ricerche

Anche se parlare di Dipendenza da Internet può sembrare generico perché comprende molte attività che si possono praticare su questa piattaforma (gambling on line, sesso e gioco), l’intenzione è quella di focalizzarsi sull’utilizzo di essa in quanto veicolo e strumento che le persone usano per immergersi in ciò che più appassiona, cercando di comprendere come l’uso può diventare una patologia, se ci sono dei fattori predisponenti e nel caso, a che punto si trova lo stato dell’arte nella ricerca relativamente alle tipologie possibili di intervento terapeutico.

Relativamente a ciò che può predisporre ad una Internet addiction, gruppi di ricercatori hanno portato alla luce il fatto che l’uso eccessivo di Internet è legato a problemi emotivi preesistenti che ne amplificano la gravità come l’ ansia, la rabbia, lo stress o la depressione. Riguardo invece alla condizione di vera e propria Dipendenza da Internet è stato dimostrato che essa è legata ad uno stile di personalità propenso alla dipendenza, all’impulsività, alla ricerca di esperienze e sensazioni nuove e ad alcuni tratti di aggressività (Ko et al., 2010; Park et al., 2012; Ma, 2012).

Con l’obiettivo di comprendere l’impatto che l’utilizzo del web ha su persone con una Dipendenza da Internet rispetto a chi non ha questo problema, Romano ha indagato come il tempo passato su Internet influisce su persone che sono o non sono già consumatori abituali. Dai risultati emerge che l’utilizzo di Internet ha un forte impatto negativo sull’umore soprattutto nel gruppo di chi è già dipendente. Quindi Internet ha effetti più pesantemente negativi su quelle persone che hanno già delle problematiche di dipendenza al riguardo e in misura minore sugli altri.

Lo studioso Davis R.A. (1999) ha utilizzato un modello cognitivo-comportamentale per spiegare lo sviluppo e il mantenimento dell’Internet addiction. Secondo questo approccio, esso deriva da cognizioni disadattive unite a dei comportamenti che intensificano o mantengono la risposta disadattiva. Fattore chiave è il rinforzo che l’individuo riceve dall’evento: se il rinforzo è positivo, la persona sarà condizionata a compiere più frequentemente la medesima attività al fine di raggiungere una reazione fisiologica simile. La letteratura scientifica ci informa infatti che l’utilizzo di Internet si mantiene grazie a rinforzi a carattere di piacevolezza, come ad esempio il divertimento, il passare del tempo o il cercare informazioni.
Come in ogni processo di condizionamento, gli stimoli associati con lo stimolo primario diventano rinforzi secondari e agiscono rinforzando la patologia (Şenormancı at all., 2012).

Una revisione sistematica della letteratura (Kuss, Lopez Fernandez, 2016) ha individuato 46 studi che hanno preso in considerazione questi 4 aspetti nel tentativo di comprendere i fattori utili per un possibile trattamento della Dipendenza da Internet: caratteristiche delle persone che richiedono un trattamento per la Dipendenza da Internet e/o per il gioco su Internet (treatment seeker), psicofarmacoterapia, psicoterapia e terapie combinate.

Treatment seeker: sono così definite le persone che riconoscono di avere un problema di Dipendenza da Internet e che si rivolgono a dei professionisti perché non riescono a trovare una soluzione da soli. Da un punto di vista psicometrico, la maggioranza degli studi li ha selezionati utilizzando uno strumento self report chiamato IAT (Internet Addiction Test, Young, 1998), basato sui criteri della dipendenza da sostanze e del gambling.

Psicofarmacoterapia: è stata usata in 5 studi; i pazienti sono stati trattati con una combinzazione di SSRI (inibitori del reuptake della serotonina) e farmaci antipsicotici.

I trattamenti psicofarmacologici studiati per la Dipendenza da Internet sono stati efficaci nel diminuire sia i sintomi legati alla dipendenza che i sintomi di altre patologie per cui il farmaco è stato impiegato (es. depressione). I miglioramenti sono rimasti fino ad un follow up a 4 mesi.

Psicoterapia: la maggioranza delle psicoterapie ha usato un approccio cognitivo comportamentale individuale applicato su pazienti ambulatoriali, della durata di circa 8-28 sedute.

I risultati del trattamento sono stati misurati attraverso punteggi su un numero di scale psicometriche riguardanti l’uso eccessivo di Internet che hanno compreso Internet Overuse Self-Rating Scale (Cao, Jiang, 2006), Adolescent Pathological Internet Use Scale (Waltberg et al, 2014) e un assessment di sintomi emotivi, cognitivi e comportamentali.

Solo due studi hanno mostrato una chiara efficacia della psicoterapia ed entrambi hanno utilizzato un approccio di gruppo. Kim (2008) ha impostato un disegno quasi sperimentale per un intervento di psicoterapia di gruppo e ha trovato una significativa riduzione dell’Internet addiction e un significativo aumento dell’autostima nel gruppo sperimentale rispetto al controllo.

La Terapia Cognitivo-comportamentale si è mostrata efficace nel ridurre le disfunzioni cognitive associate alla Dipendenza da Internet, tuttavia Winkler et al (2013) hanno esaminato l’efficacia di diversi trattamenti per l’Internet addiction in una metanalisi che includeva 13 studi: i loro risultati hanno mostrato che la terapia cognitivo comportamentale non dà risultati significativamente migliori di altri trattamenti psicoterapuetici, nonostante essa figuri essere l’approccio più popolare per il trattamento della Dipendenza da Internet.

Alcuni studi hanno incluso anche terapie famigliari concomitante a quello individuale, individuabili in: una modalità CBT chiamata “multimodal school-based group” (MSBG, Du et al., 2010), una terapia famigliare tradizionale per giovani adulti dipendenti dall’uso di Internet e un modello di intervento multimodale come quello usualmente applicato per l’abuso di sostanze, che comprendeva un counselling famigliare e un gruppo di auto aiuto.

L’approccio psicoterapeutico MSBG è stato applicato in una scuola coinvolgendo alunni, insegnanti e genitori. Il gruppo di dipendenti da Internet era composto da studenti trattati usando una terapia cognitivo comportamentale classica di gruppo, formato da 6 a 10 partecipanti.

L’MFGT (“multi-family group therapy”, Liu et al, 2015) è un nuovo approccio psicoterapeutico per adolescenti con Dipendenza da Internet. Questo intervento prevede un gruppo di terapia sia per adulti (genitori) che per adolescenti (dipendenti da internet) e lo scopo è quello di fare in modo che si forniscano reicproco supporto seguendo le reazioni transferali che derivano dal coinvolgimento nel trattamento e che promuovano la coesione famgiliare. Il principale obiettivo di questo tipo di terapia è di ridurre la Dipendenza da Internet potenziando la comunicazione e la vicinanza tra gli adolescenti e i loro genitori e di fare in modo che la famiglia adempia ai bisogni psicologici dei suoi membri tramite la comunicazione e la condivisione anzichè l’uso o abuso di Internet.

L’approccio MFGT si è rivelato efficace in tre aspetti: è risultata una significativa riduzione del tempo passato on line (ridotto della metà rispetto ai controlli), un decremento dei parametri testistici relativi all’Internet addiciton e, dalla prospettiva dei genitori, molta più soddisfazione riguardo al comportamento dei loro figli online. Inoltre, il più importante fattore che ha ridotto la Dipendenza da Internet in questo studio è emerso essere la relazione genitoriale.

Terapia combinata: sei studi hanno utilizzato la terapia combinata per trattare l’Internet addiction, composta da un tipo di trattamento psicologico in combinazione con uno dei seguenti: altre terapie psicologiche, farmacoterapia o elettropuntura.

L’uso dell’elettropuntura in associazione a interventi psicologici migliora il successo nel trattamento della Dipendenza da Internet in misura maggiore rispetto ad una sola CBT.

Tutti i tipi di terapie combinate sono state efficaci per il trattamento dei problemi legati all’uso di internet, mentre sono limitati i benefici relativi alle comorbidità (es. depressione). Ciò suggerisce che nei casi in cui c’è comorbidità e viene impostato anche un trattamento farmacologico, clinici e ricercatori dovrebbero tenere monitoriati i progressi del paziente, modulare il dosaggio dei farmaci e/o modificarli per raggiungere il migliore risultato possibile per il paziente.

 

Conclusioni

Secondo il DSM V l’ Internet addiction o cyber dipendenza è attualmente una condizione che necessita di ulteriori studi, perciò ufficialmente non può essere diagnosticata. I criteri proposti hanno la stessa struttura di quelli utilizzati per descrivere la dipendenza da sostanze o il disturbo da gioco d’azzardo patologico (online) perciò ci sono le condizioni per credere che un eventuale trattamento per la Dipendenza da Internet sia molto simile a quelli attualmente utilizzati per questi disturbi clinicamente diagnosticabili.

Relativamente alle psicoterapie, è risaputo che le terapie di gruppo hanno un certo numero di vantaggi rispetto alle terapie individuali per questo tipo di patologie (il paziente è inserito all’interno di una rete di supporto, in un contesto sicuro entro il quale l’argomento della Dipendenza da Internet può essere discusso liberamente, può condividere le proprie esperienze con chi le ha già vissute o le sta vivendo). Anche l’efficacia delle terapie basate sul gruppo per adolescenti con problemi di abuso di sostanze e dipendenza è stata stabilita da tempo.

Quello che ci dicono oggi le ricerche è che inserire la rete famigliare all’interno delle sedute di terapia sembra particolarmente fruttuoso (come messo in evidenza dagli studi su MSBG e MFGT) e da questo si può derivare che l’inquadramento terapeutico di tipo famigliare utilizzate per i disturbi da sostanze possono essere ugualmente efficaci anche per l’Internet addction e/o un uso di Internet problematco.

Ciò in particolare si rivela efficace per i pazienti giovani, in cui le famiglie sono un importante gruppo sociale per il loro sviluppo: insegnano i valori, offrono modelli di comportamento appropriati e scoraggiano dai comportamenti ad alto rischio.

I clinici quindi dovrebbero essere incoraggiati ad inserire le famiglie nel trattamento psicologico di pazienti giovani, compresi adolescenti e giovani adulti.

Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) (2017) di Giorgio Serafini Prosperi – Recensione del libro

Il regista e scrittore Giorgio Serafini Prosperi, autore del volume autobiografico Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti), utilizza la propria esperienza personale per raccontare il disagio emotivo e relazionale di chi soffre di un disturbo da alimentazione incontrollata.

 

È l’unicità della sua storia che fa sì che l’autore arrivi dritto alla pancia di chi lo legge, a quella parte del corpo che diventa una voragine incolmabile e una fonte di inesauribile sofferenza per chi soffre di questa tipologia di disturbo. Ma Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) arriva anche al cuore dei lettori, sia di chi lo legge perché accomunato dalla stessa problematica sia dei professionisti del settore, psicologi ma non solo, che spesso si adoperano nella lotta ai chili di troppo con l’obiettivo di trovare nuove strategie.

Come faccio a dirti che mangio per non sentire tutto il dolore che non penso di poter contenere, anche se poi quel cibo nutre un dolore ancora più grande? Più grande della mia pancia senza fondo, della mia paura del mondo, del mio sentirmi sempre impotente, sempre incapace, sempre fuori posto.

 

Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) – Spunti di Riflessione

È un testo semplice ma ricco di ottimi spunti di riflessione, il primo è quello del riconoscere questo disturbo come una malattia emotiva da non sottovalutare e che non può essere curata solo attraverso una nuova dieta; il secondo spunto è che non esiste metodo che potrà funzionare se non si tiene conto dell’unicità dell’essere umano che si ha di fronte.

Queste sono solo alcune delle riflessioni che l’autore ci offre, anche se in assoluto, la novità di Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) così autobiograficamente travolgente, è quella di portare in scena l’utilizzo della mindfulness come “tecnica” che aiuta a gestire il disturbo alimentare.

Il testo offre anche delle meditazioni guidate che brevi, intuitive e dirette, offrono un valido strumento che anche un neofita della materia può praticare. In più, diversi sono i riferimenti a testi letterari, a film, che suscitano nel lettore la curiosità di approfondire il tema della consapevolezza.

E cosa c’entra il disturbo da alimentazione incontrollata con la consapevolezza? C’entra nella misura in cui l’autore vuole proporla come un’alternativa a diete preconfezionate e piani alimentari millantati. Stuzzicare, in chi soffre di questa problematica, la curiosità di tirare fuori una risorsa che diventa il cuore del cambiamento e della rinascita.

Ho mangiato abbastanza. Come ho perso 60 chili con la meditazione (e altri segreti) ha inoltre un valore aggiunto: il coraggio di parlare di un tema che è molto spesso oggetto di stigma e di pregiudizio, che suscita imbarazzo, frustrazione ma che nonostante questo può essere affrontato e accolto, proprio come ha fatto l’autore raccontando la propria esperienza.

Nella scia di provare ad allentare la pretesa di essere perfetti ad ogni costo, diventa difficile essere onesti con se stessi ancora prima che con gli altri, eppure riconoscere le proprie difficoltà con il cibo significa imparare ad accettarsi e iniziare a far pace con quegli aspetti di sé che da sempre si sono combattuti e rinnegati. Presenza, gentilezza, equanimità e compassione sono solo alcuni degli ingredienti che condiscono un percorso che può essere nuovo e che dovrebbe diventare unico.

Si tratta di mettersi in viaggio, di cercare, e non stiamo parlando di una nuova dieta restrittiva o di un piano alimentare differente, ma di cercare dentro se stessi, dentro la conta sperduta del proprio sentire. La meditazione diventa uno strumento che aiuta a gestire l’ossessione del cibo, e che per l’autore diventa “un’assicurazione sulla vita“. E chissà che la condivisione di questo viaggio che rappresenta l’evoluzione, il cambiamento profondo, la rinascita dell’autore, non sia di spunto per tutti quelli che oltre a perdere i chili di troppo, vorrebbero vivere la propria anima con più leggerezza.

Perché non tutti gli estremisti diventano terroristi?

Terrorismo: Poiché la maggior parte delle persone che possiedono idee radicali ed estreme non diventano terroristi, quali sono i fattori che spingono alcune di loro a commettere atti di estremismo violento? Esiste un legame tra malattia mentale e coinvolgimento in atti terroristici? Perché alcuni interrogatori ricorrono alla tortura quando innumerevoli prove dimostrano che costruire un rapporto con i sospettati è un metodo più efficace?

 

Terrorismo e radicalismo: la rivista American Psychologist fornisce delle risposte

Queste ed altre domande sono affrontate all’interno di un numero speciale di American Psychologist, la rivista di punta della American Psychological Association. Gli articoli raccolti al suo interno riguardano temi come “perché gli individui diventano radicalisti?”; “come si può prevedere chi diventerà un terrorista?”; “come avviene il passaggio progressivo dalla non-violenza alla radicalizzazione del terrorismo?” e, infine, “qual è il ruolo della resilienza della comunità nel prevenire l’avvicinamento dei giovani all’estremismo violento?”.

Il terrorismo è uno dei più complessi problemi sociali del nostro tempo” ha dichiarato J. G. Horgan, guest editor del numero e professore di psicologia presso la Georgia State University. “Gli sforzi per capire il terrorismo abbondano in ogni disciplina accademica, ma molte domande riguardanti le modalità di predizione e prevenzione del terrorismo rimangono senza risposta. Non c’è mai stato un bisogno più urgente di un maggiore impegno da parte della psicologia.”

Ecco una breve carrellata degli articoli del numero speciale:

“Understanding Political Radicalization: The Two-Pyramids Model”
(Comprendere la radicalizzazione politica: Il modello della doppia piramide)
di Clark McCauley e Sophia Moskalenko, (Bryn Mawr College).

In questo articolo, gli autori propongono la distinzione tra radicalizzazione di opinioni estreme e radicalizzazione di azioni estremiste come fenomeni psicologici distinti. Essi descrivono una “piramide delle opinioni” costituita da gradi di condivisione sempre più elevati di idee estremiste ed una “piramide delle azioni” con livelli che vanno dalla passività all’attivismo legale alla violenza politica fino al terrorismo. “La giustificazione del modello a due piramidi è data dall’osservazione che il 99% degli individui che possiedono idee radicali non le agiscono necessariamente” scrivono i due autori. “Al contrario, molte persone si uniscono ad azioni radicali, senza possedere idee radicali.” Programmi per contrastare l’estremismo violento che non distinguano le idee estreme dalle azioni estremiste finiranno con il moltiplicare inutilmente la minaccia terroristica.

“Risk Assessment and the Prevention of Radicalization from Nonviolence Into Terrorism
(Valutazione del Rischio e Prevenzione della Radicalizzazione della Non-violenza nel Terrorismo)
di Kiran M. Sarma (National University of Ireland, Galway).

E’ possibile identificare coloro che verranno da coloro che non verranno coinvolti in attività terroristiche in futuro? Questa domanda è di importanza centrale per tutti quelli che hanno il compito di valutare il rischio rappresentato da individui propensi alla violenza. In questo articolo, Sarma discute la sfida di condurre una valutazione del rischio del terrorismo. Egli descrive alcuni degli strumenti utilizzati per lo screening di persone segnalate alle autorità come potenzialmente a rischio. Sarma sostiene che, sebbene la valutazione del rischio terroristico sia irto di sfide etiche ed empiriche, il vero progresso può essere ottenuto nell’ambito del giudizio umano e del processo decisionale ed, in particolare, nel modo in cui i valutatori accorpano e sintetizzano i dati e prendono decisioni in merito. “I valutatori dovrebbero considerare sia la presenza di fattori di rischio che la loro rilevanza” scrive Sarma.

“Building Community Resilience to Violent Extremism Through Genuine Partnerships”
(Costruire Comunità Resilienti all’Estremismo Violento attraverso Partnership Genuine)
di B. Heidi Ellis (Harvard Medical School) e Saida Abdi (Boston University School of Social Work).

Secondo questo articolo, la connessione sociale è il fulcro delle comunità resilienti e delle strategie volte a prevenire l’avvicinamento dei giovani all’estremismo violento. Riconoscendo l’enorme polemica che circonda le iniziative esistenti, gli autori sostengono che la creazione di partnership sane tra enti governativi e membri della comunità possa, se fatta bene, fornire adeguati e precoci sistemi di allarme per prevenire l’estremismo violento. Ciò potrebbe richiedere un cambiamento dei paradigmi utilizzati da un tradizionale approccio top-down (dall’alto al basso) ad un nuovo approccio bottom-up (dal basso verso l’alto) scrivono i due autori. Se condotti in modo errato, gli sforzi top-down per definire e rispondere al rischio di estremismo violento corrono il rischio di compromettere l’assetto comunitario piuttosto che contribuire al suo recupero. Per esempio, un’enfasi eccessiva su un particolare gruppo come vulnerabile all’ideologia estremista e violenta porterà alla stigmatizzazione e alla discriminazione di quel gruppo, e ciò può minare un senso positivo di identità sociale per i membri di quel gruppo e degradare la resilienza della comunità.

“Toward a Psychology of Humiliation in Asymmetric Conflict”
(Verso una Psicologia dell’Umiliazione nei Conflitti Asimmetrici)
by Clark McCauley (Bryn Mawr College)

Questo articolo esplora come l’umiliazione (definita come combinazione corrosiva di vergogna e di rabbia) sia spesso un fattore chiave per i conflitti terroristici.
Quando gli analisti discutono il ruolo svolto dall’umiliazione nella guerra, nel terrorismo e nel genocidio, spesso parlano come se tutti sapessimo cosa sia umiliazione e come essa agisce” scrive McCauley, “ma il fatto è che l’umiliazione deve essere meglio compresa prima che possa aiutarci a capire la violenza interpersonale. La ricerca sull’umiliazione come costrutto psicologico è soltanto all’inizio”.
La ricerca sull’umiliazione è fondamentale anche per comprendere le reazioni del governo al terrorismo – qualcosa che è stato finora poco studiato dagli interessati al terrorismo. Forse l’implicazione più sorprendente di questa analisi è che non siano solo i deboli a poter essere umiliati, ma che anche i potenti possono essere umiliati dai deboli se – come spesso succede nel caso di attacchi terroristici – il governo preso di mira è incapace di reagire in modo diretto verso i responsabili.

“There and Back Again: The Study of Mental Disorder and Terrorist Involvement,”
(Andata e Ritorno: Lo Studio dei Disturbi Mentali e del Coinvolgimento Terrorista)
di Paul Gill e Emily Corner (University College di Londra).

Riassumendo gli ultimi 40 anni di ricerca sulla connessione tra disturbi mentali e il coinvolgimento terroristico, concludono gli autori, non v’è alcun profilo psicologico comune per i terroristi. Piuttosto, l’evidenza suggerisce che alcuni tipi di terroristi possono possedere più probabilmente alcuni tratti psicologici rispetto alla popolazione generale e che quei sottogruppi con alti tassi di disturbi mentali sono al di sotto del 50%. Nessun disturbo mentale di per sé sembra essere un predittore di coinvolgimento terroristico. Gli autori suggeriscono che esperire un disturbo mentale può essere solo uno dei tanti fattori di rischio che spingono e attirano un individuo in attività terroristiche.

“Revenge Versus Rapport: Interrogation, Terrorism, and Torture”
(Vendetta versus Relazione: Interrogatori, Terrorismo e Tortura)
di Laurence Alison e Emily Alison (Università di Liverpool).

L’idea che generare impotenza, paura e terrore nel sospettato sia una strategia affidabile per ottenere informazioni è contraria alla ricerca, secondo questo articolo. Tattiche come privazione del sonno, esposizione al caldo o al freddo e stress compromettono il richiamo, danneggiando il valore delle informazioni generate. Perché, dunque, la tortura viene ancora usata? “Il motivo, almeno in parte, potrebbe risiedere nella nostra natura umana di accettare che venga utilizzata solo quando non vi è alternativa e quando sembra essere utile per il bene superiore”. Gli autori hanno sviluppato una tecnica per l’analisi audio-video degli interrogatori filmati per misurare l’efficacia delle tecniche di interrogatorio e lo hanno applicato ad un ampio insieme di dati. Essi hanno scoperto che, tra le molte altre competenze interpersonali, un approccio autoritario adattivo da parte dell’intervistatore consente di ottenere maggiori informazioni di un approccio patologico (caratterizzato dall’essere esigente, dogmatico, saccente e rigido).

Psicopatologia e terapia della psicosi affettuosa – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Ho scelto questo bizzarro nome da non confondere con “psicosi affettiva” che si riferisce più propriamente ai disturbi dell’umore per non usare gli abusati nomi comuni che si usano per questo disturbo e che sono “ innamoramento” per la forma acuta e “amore” per l’evoluzione cronica. Già immagino le prime obiezioni sollevarsi contro l’idea di trattare tale esperienza propria dell’essere umano come una patologia rispetto al quale ipotizzerò comorbilità, dimensioni psicopatologiche e trattamento psicoterapeutico e farmacologico.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Psicopatologia e terapia della psicosi affettuosa (Nr 21)

 

 

Fisiologia evoluzionistica e sistemi motivazionali

Certamente la spinta che genera tali vissuti è stata evolutivamente selezionata e si è dimostrata talmente potente e inarrestabile che ad essa si sono associate, per salvaguardarle da dimenticanze e trascuratezze, le stesse procedure per la riproduzione.

In accordo con Freud mi sembra, però, che essa non sia riducibile al solo ambito della sessualità e, intesa giustamente come “libido”, sia sovraordinata a tutti gli altri sistemi motivazionali interpersonali potendo in generale definirsi come energia psichica che spinge allo sviluppo l’essere umano, alla sua espansione e all’unificazione con gli altri e l’universo tutto.

La seconda obiezione potrebbe collocarsi a questo punto perché così descritta sembrerebbe una spinta vitale esclusivamente positiva. Ma è proprio la sua inarrestabile potenza che la rende potenzialmente pericolosa quando è ostacolata. Infatti, quando una forza enorme destinata ad unire incontra barriere, può travolgere tutto ciò che ne ostacola il cammino (dighe e terremoti insegnano).

Ricordandomi di essere un clinico e non un filosofo riporto immediatamente il discorso sulle problematiche che ci vengono proposte dalle persone sofferenti di tale disturbo.

 

Diagnosi e Teorie Psicologiche Naive (TPN)

In primo luogo ci chiedono cosa di inspiegabile, grandioso e incontrollabile gli stia capitando con uno stupore preoccupato che ricorda il wanhstimmung o umore predelirante o, per descriverlo meglio con una esperienza drammaticamente attuale, lo stato d’animo che segue una forte scossa di terremoto e lascia sospesi in attesa della replica. Conoscere la diagnosi pare rassicurante e così, avvezzi a classificazioni categoriali, a mio avviso insufficienti, si interrogano se si tratti di “ interesse”, “ amicizia”, “ infatuazione”, “ passione”, “ desiderio sessuale”, “ amicizia”, “ amicizia affettuosa”, “ trombamicizia nel linguaggio dei giovani”, “innamoramento“, “ voler bene”, “ amore”.

Interessante può essere indagare le TPN che il soggetto ha rispetto all’esperienza che sta vivendo e che, in sintonia con la sua più generale welthashaung, possono spiegarlo come: l’incontro di due anime gemelle, il destino, la chimica e il sesso, il volere del Signore, ecc. Personalmente non ritengo euristico tale modo di approcciare il problema e mi sembra più utile, anche rispetto all’intervento, provare a descrivere il funzionamento della persona colpita dalla psicosi affettuosa.

 

Il trivio dimensionale

Più utile semmai una classificazione dimensionale che, a mio parere la porrebbe all’incrocio tra tre dimensioni. Una dimensione ossessiva per la pervasività e l’intrusività dei pensieri riguardanti l’altro rispetto ai quali si è contemporaneamente egodistonici (ci si sente soffocati e impotenti) ed egosintonici (si richiamano alla mente con nostalgia).

La seconda dimensione costitutiva è quella bipolare dell’umore che si esprime sia nella totale euforia, felicità e iperattività associata alla presenza dell’altro, e nel suo opposto, la tristezza, l’anedonia e la mancanza di senso in sua assenza, sia nell’aspetto amnesico. Infatti come il maniacale ad ogni episodio non ricorda i precedenti e del resto come potrebbe ad esempio credersi l’imperatore del mondo se ricordasse che l’ultima volta che ne era convinto erano venuti a prenderlo non con una limousine dorata ma con un furgoncino bianco con un lampeggiante sopra. Oppure il depresso come potrebbe pensarsi veramente indegno, colpevole e senza speranza se ricordasse che si tratta solo di una fase come quella che lo vide ad un passo dal cappio in quella lontana vigilia di Natale poi lasciata alla spalle tra trenini e spumanti la notte di San Silvestro?

Così l’innamoramento non ha memoria di sé. Come potremmo essere ogni volta certi di aver trovato l’amore perfetto ed eterno se ci ricordassimo tutte le altre volte che lo abbiamo sinceramente creduto per poi ritrovarci di fronte ad un avvocato divorzista ed esserci disprezzati per aver preso lucciole per lanterne?

Certo possiamo ricordare di essere stati innamorati, la nostra storia ce lo rammenta ma lo stato d’animo non possiamo sperimentarlo se non siamo innamorati nel qui ed ora. E’ per questo che le stesse canzoni che quando non siamo innamorati ci sembrano un prodigio di stupidità e banalità su cui ironizzare, ci colmano gli occhi di lacrime e ci stringono la gola quando innamorati.

Infine la terza dimensione che concorre al quadro clinico è la dimensione delirante vera e propria congrua con il tono dell’umore e che riguarda tre oggetti specifici. L’altro che visto come perfetto, meraviglioso e soprattutto onnipotente, può essere il dispensatore di ogni bene o, al contrario, motivo di ogni propria sofferenza. Se stesso che in presenza dell’altro è sperimentato come grandioso e in sua assenza impotente e privo di ogni valore. La relazione stessa che è immaginata come unica diversa da tutte le altre che si sono sperimentate in precedenza e diversissima da tutte quelle che vivono ogni giorno tutti gli altri esseri umani nonostante ne ripercorra tutti i clichè più consunti e ripetuti da millenni più o meno nelle stesse forme.

 

Ingredienti cognitivi caratteristici

A costo di essere ripetitivo voglio tornare su quest’aspetto cognitivo che già in precedenti lavori ho messo al centro del mio interesse. In particolare nell’idealizzazione dell’oggetto amato avviene qualcosa di più che una semplice sua sopravvalutazione per cui esso appare più bello o più intelligente, gentile e onesto (per citare Dante) di quanto appaia agli altri e si assiste piuttosto a quella che potremmo definire una rivoluzione Khuniana per cui esso diventa il canone matriciale della bellezza, della gentilezza, della bontà e dell’intelligenza.

Sono dunque i parametri stessi a cambiare. L’oggetto diventa il prototipo stesso della perfezione assoluta con cui da quel momento in poi ogni altro individuo sarà confrontato e il cui valore sarà esprimibile in percentuale di approssimazione al prototipo stesso.

Un’altra caratteristica che assimila l’innamoramento alla dimensione delirante è l’impressione che nessuno possa effettivamente capire ciò che il soggetto sta vivendo e che è per lui totale e assolutamente evidente. Gli altri sono fatalmente esclusi, stanno in un altro mondo ragionevole che il soggetto stesso comprende perché sperimentato in passato, ma che è una dimensione che non lo comprende più, e si direbbe le stesse cose che ora gli altri gli dicono. Questo comporta un progressivo isolamento ed un circolo di rinforzo per cui l’altro finisce per costituire l’intero mondo relazionale del soggetto mentre da già tempo ne costituisce l’unico interlocutore nel dialogo interno per cui tutto ciò che si vive è vissuto con lui e per lui.

 

Eziopatogenesi e scompenso

Per quanto riguarda la ricerca delle cause, se si rinuncia ad assumere la saggia prospettiva di De Andrè secondo cui “ l’amore ha l’amore come solo argomento” e ci rivolge al classico modello stress/ vulnerabilità, sono da annoverare tra i fattori di vulnerabilità oltre agli innegabili fattori genetici, una personalità dipendente, qualche eventuale importante bisogno inevaso in uno dei sistemi motivazionali interpersonali che l’oggetto d’amore va a colmare utilizzandolo come porta d’accesso all’animo del protagonista. Particolari momenti di passaggio esistenziale in cui un nuovo assetto identitario va trovato e di cui l’oggetto d’amore diventa testimone. Mentre nell’amore (ovvero nella forma cronicizzata) l’altro è il testimone di una vita, nell’acuzie dell’innamoramento l’altro è il validatore assoluto del presente. E’ in questo aspetto che si può ritrovare quella reciproca ricarica narcisistica che tuttavia considero più un fattore di mantenimento e rinforzo piuttosto che un evento scatenante. Così come funzionano da rinforzo positivo le emozioni positive che si sperimentano nello stare insieme e di rinforzo negativo le pene indicibili dell’assenza.

 

Prognosi

Prima di accennare ad alcuni possibili interventi terapeutici sui quali comunque c’è ancora tutto da fare solo due parole sull’evoluzione naturale del disturbo. L’innamoramento che è esclusivo nel doppio significato che non lo si può essere di due oggetti contemporaneamente né si può tollerare che l’altro (gelosia) lo sia di qualcun’altro se vissuto pienamente con una full immersion senza limiti di tempo e di altro genere può attenuarsi progressivamente fino a cessare del tutto o a trasformarsi nella forma cronica normalmente chiamata “amore” che perde quasi del tutto la caratteristica dell’esclusività e smussa molti degli aspetti deliranti soprascritti.

L’evoluzione negativa dell’innamoramento il cosiddetto “innamoramento interruptus”, a somiglianza del lutto non elaborato, fissa l’immagine dell’oggetto in una teca intoccabile e paralizza l’esistenza del soggetto in un presente che non ha futuro e non riesce a diventare passato (i terribili incorruttibili amori eterni che sottraggono libido all’esistenza): la sintomatologia più evidente sono i ricordi intrusivi e la perdita di interesse per l’esistenza, in sintesi una depressione cronica.

 

La terapia

Per la forma acuta non esiste terapia e, come l’influenza deve fare il suo corso. La terapia farmacologica dell’innamoramento interruptus si avvale delle benzodiazepine al bisogno, degli stabilizzatori dell’umore , meglio se utilizzati a tal scopo i neurolettici atipici piuttosto che gli antiepilettici, e degli SSRI a forti dosaggi usati come antiossessivi essendo quella la sofferenza maggiore lamentata dal soggetto.

La Psicoterapia da utilizzare con cautela per gli evidenti rischi di iatrogenicità che presenta comportando il parlare e il ricordare l’oggetto d’amore e la relazione stessa deve avere come obiettivo il ridimensionamento dell’altro e della relazione stessa dimostrandone la frequenza e meglio ancora la banalità. Operazione da condurre con estrema cautela in quanto a rischio di suscitare violenti resistenze da parte del paziente come nel caso di un attacco frontale ai temi deliranti

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il trattamento dell’ansia nei disturbi dello spettro autistico: nuove frontiere per la terapia cognitivo-comportamentale

Le persone con Disturbi dello Spettro Autistico sembrerebbero essere più vulnerabili e maggiormente esposte rispetto alla popolazione normale a sviluppare disturbi d’ansia, probabilmente proprio a causa dei deficit legati alla patologia, come le difficoltà sociali e di comunicazione, l’aumentata sensibilità sensoriale e le difficoltà di regolazione emotiva.

Elisa Grandi – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

La relazione tra ansia e autismo

Quando nel 1943 lo psichiatra infantile Leo Kanner descrisse per la prima volta “l’ autismo infantile”, accanto alle caratteristiche distintive presentate da questi bambini, considerate ancora oggi essenziali per diagnosticare i Disturbi dello Spettro Autistico (DSA; deficit nell’interazione e comunicazione sociale e pattern di comportamenti ristretti e ripetitivi, APA 2013), egli osservò che molti di loro presentavano comportamenti di tipo ansioso. Recenti ricerche sperimentali e indagini epidemiologiche hanno confermato l’iniziale intuizione dello psichiatra austriaco, evidenziando come nei Disturbi dello Spettro Autistico siano frequentemente associati più o meno gravi Disturbi d’Ansia (Ung et al., 2013; Joshi et al., 2013; Gjevik et al., 2011; White et al., 2009; Simonoff et al, 2008) con una comorbilità stimata attorno al 40% (van Steensel et al., 2011) e una distribuzione analoga a quella riscontrata nella popolazione normale (dove la Fobia Specifica è la patologia maggiormente rappresentata, seguita dal Disturbo Ossessivo Compulsivo e dalla Fobia Sociale; van Steensel et al., 2011).

Sebbene la relazione tra Disturbi dello Spettro Autistico e ansia sia complessa condividendo i due disturbi alcune caratteristiche nosologiche (ad esempio ritiro sociale e comportamenti ritualizzati), numerosi studi evidenziano come le problematiche ansiose vadano al di là dei sintomi legati all’ autismo (Kerns et al., 2014; Renno & Wood, 2013; Storch et al., 2012; Ung et al., 2014): le persone con Disturbi dello Spettro Autistico sembrerebbero essere più vulnerabili e maggiormente esposte rispetto alla popolazione normale a sviluppare disturbi d’ ansia, probabilmente proprio a causa dei deficit legati alla patologia, come le difficoltà sociali e di comunicazione (Bellini, 2004), l’aumentata sensibilità sensoriale (Mazurek et al., 2013) e le difficoltà di regolazione emotiva (Kleinhans et al., 2010; Loveland, 2005). La problematica ansiosa inoltre, provocando, ad esempio, irritabilità, disturbi del sonno, disattenzione e comportamenti dirompenti, esacerberebbe i sintomi connessi all’ autismo, già di per sé invalidanti, compromettendo ulteriormente il funzionamento sociale e cognitivo delle persone con Disturbi dello Spettro Autistico (Kerns & Kendall, 2012; Wood & Gadow, 2010).

Considerare nei Disturbi dello Spettro Autistico la possibile e frequente compresenza di altre patologie psichiatriche, in primis l’ ansia, è dunque fondamentale al fine di implementare trattamenti il più possibile adeguati, in cui possano essere integrate tecniche d’intervento già validate e rivelatesi efficaci, con il duplice scopo di migliorare la qualità di vita delle persone con Disturbo dello Spettro Autistico e di prevenire l’insorgere di ulteriori patologie, quali i disturbi dell’umore, frequentemente associati ai disturbi d’ ansia cronici (Brady & Kendall, 1992).

 

Disturbi dello Spettro Autistico e Ansia: la terapia cognitivo-comportamentale

La terapia Cognitivo-Comportamentale (CBT) è attualmente considerata a livello internazionale come il più affidabile ed efficace modello per la comprensione e il trattamento dei disturbi d’ ansia (Nathan & Gorman, 2015). Tale approccio postula una complessa relazione tra pensieri, comportamenti ed emozioni, assumendo che l’ ansia patologica derivi dall’interazione tra credenze disfunzionali, eccessivo arousal fisiologico e comportamenti di evitamento, e che essa si cronicizzi a causa di meccanismi di mantenimento.

Obiettivo centrale del trattamento cognitivo-comportamentale è dunque quello di modificare le cognizioni e i comportamenti alla base del mantenimento dei sintomi ansiosi; le sue componenti centrali includono, sinteticamente, l’apprendimento di tecniche atte a ridurre l’arousal fisiologico e permettere una più efficace regolazione emotiva, la messa in discussione delle credenze disfunzionali e, infine, l’esposizione graduale e sistematica agli stimoli ansiogeni per ridurre i comportamenti di evitamento.

Data la sua comprovata efficacia nel trattamento dei disturbi d’ ansia nella popolazione tipica (Stewart & Chambless, 2009), negli ultimi anni diversi studiosi hanno sperimentato l’utilizzo di protocolli CBT con bambini e adolescenti con Disturbi dello Spettro Autistico che presentavano disturbi d’ ansia in comorbilità, ottenendo risultati promettenti e riscontrando una riduzione dei sintomi pari a quella ottenuta nella popolazione tipica (Chalfant et al. 2007; Reaven et al. 2012; Sofronoff et al. 2005; Wood et al. 2009).

 

CBT e autismo: variazione dei protocolli per la gestione dell’ansia

La maggior parte degli studi ha previsto la modifica dei protocolli d’intervento standardizzati considerate le note difficoltà di comunicazione e d’identificazione e comprensione dei propri e altrui stati mentali delle persone con autismo (Baron-Cohen, 1997, 2001). Le variazioni più rilevanti sono consistite:

  • Nell’introduzione di storie sociali (Gray, 1998);
  • Nell’utilizzo di supporti visivi;
  • Nella maggiore enfasi posta sull’insegnamento di strategie di coping che non richiedono l’uso di linguaggio astratto;
  • Nell’inclusione nelle sessioni CBT degli interessi speciali spesso presentati dalle persone con Disturbo dello Spettro Autistico;
  • Attribuendo maggiore spazio all’insegnamento si semplici abilità sociali (Attwood, 2004; Anderson & Morris, 2006; Woods et al., 2013).

Ad esempio, Chalfant e collaboratori (2007), nel primo studio controllato che ha indagato l’efficacia di un trattamento cognitivo-comportamentale in bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico in comorbilità con un disturbo d’ ansia, hanno utilizzato il Cool Kids Program (Lyneham et al., 2003) adattandolo alle peculiari caratteristiche cognitive e d’apprendimento delle persone con Disturbi dello Spettro Autistico (con l’introduzione di materiale visivo e semplificato, la predilezione per attività concrete piuttosto che basate sulle competenze linguistiche, la maggiore enfasi posta sulle strategie di rilassamento e l’estensione del programma stesso a più sessioni di quelle previste nel programma originale).

Analogamente, Ekman e Hiltunen (2015) hanno modificato un protocollo cognitivo-comportamentale indicato per i disturbi d’ ansia e i comportamenti di evitamento (Roth & Fonagy, 2005) visualizzando sistematicamente tutto ciò che nella conversazione terapeutica è solitamente implicito, rendendolo esplicito e quindi maggiormente comprensibile alle persone con autismo e ottenendo buoni risultati nella riduzione dei livelli d’ ansia e dei comportamenti di evitamento.

 

I recenti protocolli di intervento sull’ansia sviluppati per bambini con Disturbi dello Spettro Autistico

Recentemente, alcuni gruppi di ricerca hanno sviluppato protocolli d’intervento sui disturbi d’ ansia specifici per i Disturbi dello Spettro Autistico, protocolli quindi innovativi e costruiti ad hoc in base alle peculiarità cognitive ed emotive delle persone con autismo.

Il Facing Your Fears (Reaven et al., 2011, 2012, 2015), ad esempio, è un trattamento cognitivo-comportamentale originale e manualizzato che prevede sessioni di gruppo e il coinvolgimento costante dei famigliari; esso comprende l’implementazione delle tecniche tipiche d’intervento della CBT (rilassamento, tecnica del respiro lento, regolazione emotiva, esposizione graduale e uso di strategie cognitive), e include inoltre l’utilizzo prevalente di materiale visivo, l’impiego di video-modeling e l’inserimento nelle attività degli specifici interessi speciali dei partecipanti.

Similmente, il BIACA (Behavioral Interventions for Anxiety in Children with Autism; Wood et al., 2009, 2015) prevede sia sessioni individuali che di gruppo con i famigliari; esso è strutturato in moduli d’intervento che vengono implementati in base alle esigenze dello specifico paziente e include, oltre alle tipiche strategie d’intervento della terapia cognitivo-comportamentale, l’utilizzo di schemi strutturati di rinforzo per la promozione di strategie di coping più funzionali e l’apprendimento di specifiche abilità sociali sia a supporto dei compiti di esposizione graduale che idonee al fronteggiamento delle situazioni alla base dell’ ansia (es. interazione con i coetanei).

 

La CBT per l’ansia in pazienti con autismo: prove d’efficacia e difficoltà

Complessivamente considerati, gli studi sperimentali sinora condotti hanno dimostrato l’applicabilità, in primis, e l’efficacia dei trattamenti CBT per i disturbi d’ansia nelle persone con Disturbo dello Spettro Autistico, evidenziando risultati promettenti (Danial & Wood, 2013; Ung et al., 2014). Da una meta-analisi condotta su un totale di 8 studi (Storch et al., 2013; Chalfant et al., 2007; Sofronott et al., 2005; Wood et al., 2009; Reaven et al., 2012; McNally et al, 2013; White et al., 2013; Sung et al. 2011), selezionati in quanto randomizzati ed effettuati con adeguate condizioni di controllo (costituite da lista d’attesa e/o intervento non CBT), Sukhodolsky e collaboratori (2013) hanno rilevato un’efficacia pari a quella riscontrata nella popolazione tipica (Reynolds et al., 2012; James et al., 2005).

Nonostante queste considerazioni, che sottolineano la validità dei protocolli CBT per l’ansia anche nei Disturbi dello Spettro Autistico, è comunque opportuno rilevare i limiti e le difficoltà che attualmente caratterizzano questo tipo di interventi. Al momento, la quasi totalità gli studi effettuati hanno incluso nel campione solo individui con “autismo ad alto funzionamento”, ossia persone con Disturbi dello Spettro Autistico che non presentavano disabilità intellettiva (un solo studio ha incluso soggetti con ritardo lieve, ottenendo comunque buoni risultati (Unwin et al., 2016). A limitare l’applicabilità dei trattamenti CBT nei disturbi dello spettro autistico incidono, inoltre, le difficoltà di assessment dei disturbi d’ ansia in comorbilità con Disturbi dello Spettro Autistico data la parziale sovrapposizione sintomatologica dei due disturbi, oltre che a causa delle difficoltà di comunicazione delle persone affette dai Disturbi dello Spettro Autistico.

E’ importante che l’accertamento diagnostico si avvalga di molteplici fonti per la raccolta delle informazioni (la persona con Disturbo dello Spettro Autistico, i famigliari, gli insegnanti, medici di base), oltre che di diversi strumenti d’indagine (questionari, colloqui clinici, osservazione comportamentale). Rispetto ai questionari per la rilevazione dei sintomi ansiosi, non è possibile dar per scontata la validità di quelli in uso nella popolazione tipica; sebbene sia auspicabile la costruzione di uno strumento specifico per l’indagine dei disturbi d’ansia nei Disturbi dello Spettro Autistico, i dati preliminari di uno studio condotto nel 2014 (Magiati et al.) evidenziano l’affidabilità dello Spence Children’s Anxiety Scale (SCAS; Spence, 1998) quale strumento di screening. Lo sviluppo di uno strumento d’assessment specifico per i disturbi d’ ansia in comorbilità con i Disturbi dello Spettro Autistico si rileva particolarmente importante anche per la valutazione dell’efficacia degli interventi, in quanto la possibilità di poter rilevare una diminuzione significativa della sintomatologia ansiosa post-trattamento è parametro essenziale per poter affermare l’utilità e validità del trattamento stesso.

In conclusione, l’applicabilità ed efficacia della terapia cognitivo-comportamentale per l’ ansia nei disturbi dello spettro autistico sta gradualmente ricevendo supporto e conferme sperimentali, ottenendo risultati promettenti. Sono però necessarie ulteriori indagini e ricerche, soprattutto nella direzione di sviluppare sia protocolli d’intervento che strumenti d’assessment specifici per questa popolazione di pazienti, che tenga conto delle loro caratteristiche cognitive e socio-emotive, al fine ulteriore di ampliare l’utilizzo della terapia cognitivo-comportamentale ed esplorarne possibili ulteriori e non scontate applicazioni.

Processi valoriali nella psicoterapia cognitivo-comportamentale di terza ondata

Oggi la psicoterapia cognitivo-comportamentale sta vivendo quella che comunemente viene definita “third wave”; una terza ondata, dopo quelle del comportamentismo e del cognitivismo, che non si presenta come  punto di rottura con il passato, non scaturisce da una crisi vera e propria, ma si mescola con naturalezza con quello che già esiste portando frutti di novità e ampliando le tecniche di intervento al disagio psicologico.

Matteo Guidotti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La terza ondata: dalla mindfulness alla Relational Frame Theory

Questa rivoluzione pacifica ben si sposa con la novità principale della terza ondata: la mindfulness, ossia una posizione osservativa che si colloca all’opposto dei tentativi logico-razionalisti di modificare comportamenti e pensieri attraverso il dialogo socratico, bensì promuove l’accettazione e la flessibilità psicologica. Come scrive Ruggiero, oggigiorno:

La terapia cognitiva sembra volgere le spalle alla maieutica di Socrate e alla sua irritante ironia per sostituirle con la saggezza sorridente del Buddha. L’India al posto della Grecia. E’ una rivoluzione culturale” (Ruggiero, 2011, p. 44)

La terza ondata della psicoterapia cognitivo-comportamentale ha fornito molti altri contributi originali, come il concetto di metacognizione, la riflessione sui sistemi motivazionali, la schema therapy, il progressivo superamento del dualismo cartesiano mente-corpo, attraverso una rinnovata attenzione al corpo, ecc.

Tuttavia il modello che a mio avviso meglio racchiude l’essenza di questa “rivoluzione culturale” è la Relational Frame Theory (RFT), sulla quale si fonda per esempio l’ACT (Acceptance and Commitment Theory). Questa teoria sostiene, in breve, che “non sia tanto il contenuto dei nostri pensieri, credenze o convinzioni a influenzare il disagio e la sofferenza, quanto l’atteggiamento che abbiamo nei confronti di essi” (Ruggiero e Sassaroli,  2013, p. 289). Invece di considerare come scopo principale del trattamento la riduzione dei sintomi, le terapie introdotte dalla terza ondata si concentrano sullo sviluppo di una più vasta e flessibile gamma di alternative cui il cliente può attingere per raggiungere uno stato di benessere. Gli interventi di questo tipo mirano direttamente all’accettazione, all’apertura all’esperienza, ad una vita degna di essere vissuta e non si pongono come obiettivo principale quello di diminuire la sintomatologia.

Sebbene l’apertura all’esperienza abbia sempre costituito uno scopo dei trattamenti di terza generazione, recentemente il concetto di “vita degna di essere vissuta” è l’obiettivo che ottiene un crescente grado di considerazione. In un certo senso, i valori sono sempre stati il nocciolo della questione di questi trattamenti, mentre la disponibilità all’esperienza era, di fatto, la disponibilità  stessa a una vita degna di essere vissuta (Hayes et al., 2013, p. 109).

 

I processi valoriali nella Relational Frame Theory

Per comprendere a fondo la rilevanza dei processi valoriali nei nuovi approcci di terza ondata alla psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, bisogna però soffermarsi sui presupposti del modello Relational Frame Theory. Esso nasce come tentativo di estensione dell’analisi comportamentale tradizionale e si definisce una “scienza contestuale comportamentale”. Il fondamento filosofico di questo modello mira a superare il concetto di verità classico, intesa come adequatio rei et intellectus – verità come corrispondenza – per approdare ad una forma di pragmatismo dove è vero solo ciò che funziona in un determinato contesto.

La Relational Frame Theory presuppone infatti una sorta di “contestualismo funzionale” (idem, p. 35), in cui la verità è definita in senso pragmatico dal fatto che una determinata attività contribuisce a raggiungere un obiettivo specifico. In termini più generali, l’obiettivo primario di questo tipo di analisi contestuale del comportamento diventa quello di interpretare, prevedere e influenzare gli eventi psicologici in modo preciso e finalizzato ad un sentimento soggettivo di benessere. Ora, è chiaro come una tale visione pragmatica della conoscenza debba porre una grande enfasi sulla definizione dei valori a livello individuale:

Quando la verità è definita da ciò che funziona, l’insieme di valori e obiettivi del cliente assume un’importanza fondamentale. Tutte le interazioni terapeutiche sono valutate secondo le modalità con cui entrano in relazione con i valori e gli obiettivi scelti dal cliente e il metro di misura è sempre la loro praticabilità [workability] – cioè se funzionano nella pratica – non la loro verità oggettiva (idem, p. 40).

In queste parole si cela una critica, nemmeno tanto velata, al modello di intervento psicoterapico della psicoterapia cognitivo-comportamentale standard, che, secondo questi autori, è colpevole di soffermarsi su problemi “fuorvianti”, come cercare di dimostrare che i pensieri dei pazienti sono inesatti o non veritieri. Invece di entrare subito nel contenuto di pensieri, affermazioni e idee del cliente, il “contestualista funzionale” esamina il comportamento – inteso come azione-nel-contesto – e quindi sfrutta l’analisi funzionale per gli obiettivi pratici concordati tra clinico e paziente. Considerando le tradizionali terapie cognitivo-comportamentali a partire da quest’ottica, esse risultano addirittura nocive, in quanto, concentrandosi sullo studio dei componenti di un determinato comportamento appreso – la cosiddetta “cornice relazionale”, che può consistere, per es., in una determinata autoistruzione che il paziente ripete mentalmente a se stesso in modo indiscriminato e rigido – l’intervento clinico elabora, amplia collegamenti, ma non è in grado di eliminare le relazioni cognitive apprese in precedenza.

L’ ACT contiene elementi di contesto relazionale, ma sottolinea l’importanza di interventi mirati sul contesto funzionale piuttosto che puramente relazionale (idem, p. 60).

In altre parole, secondo Hayes e colleghi, una volta appresa una specifica credenza irrazionale, essa rimane irrimediabilmente fissata nel contesto relazionale del paziente e i collegamenti cognitivi che la caratterizzano sono estremamente difficili da spezzare anche con un diretto addestramento in senso opposto. Ogni terapeuta cognitivo-comportamentale ne fa quotidiana esperienza con i pazienti. Alla fine della seduta accompagna il cliente alla porta recitando mestamente tra sé e sé le disincantate parole di Camus: “Lascio Sisifo ai piedi della montagna! Si ritrova ogni volta con il proprio fardello” (Camus, 2003, p. 318). Inoltre, è dimostrato che quando il comportamento è controllato da regole verbali, tende ad essere relativamente insensibile ai cambiamenti ambientali che non sono descritti nella regola stessa (cfr. Hayes, 1989). Pertanto, un intervento efficace deve poter operare per aggiunta, non per sottrazione, poiché è impossibile eliminare un evento cognitivo clinicamente rilevante.

Secondo il modello della flessibilità psicologica è il contesto dell’attività verbale – piuttosto che il contenuto delle esperienze interiori di per sé – l’elemento chiave nel produrre sofferenza. Non è che le persone pensino cose sbagliate, anzi, il problema sono il pensiero stesso e il modo in cui la comunità supporta l’eccessivo uso letterale di parole e simboli come modalità di regolazione del comportamento (Hayes et al., 2013, p. 76).

Questo modello di terza ondata della psicoterapia cognitivo-comportamentale basato sull’operare “per aggiunta” comporta inevitabilmente uno sguardo centrato sui processi valoriali del paziente. Infatti, defusione dai pensieri e accettazione e flessibilità psicologica non avrebbero senso se il cliente fosse scollegato dai propri valori.

E’ solo nel contesto valoriale che azione, accettazione e defusione si fondono in un tutto sensato. Nel linguaggio del governo delle regole, i valori sono incentivi formativi e motivanti (idem, p. 110).

Il senso di flusso e impegno compare solo quando una persona entra in contatto con eventi presenti che rinforzano aspetti strettamente connessi ad azioni profondamente significative per la vita.  I valori, negli approcci di terza ondata, non riguardano tanto il futuro quanto piuttosto il vivere nel presente e lo scegliere di compiere azioni che incarnano valori personali. In questo senso, i valori diventano veri e propri rinforzi intrinseci. Infatti, il massimo dell’incentivo è intrinsecamente contenuto nello stesso impegnarsi nel modello comportamentale ritenuto importante (cfr. Wilson e DuFrene, 2009).

L’individuazione di valori concentra il cliente su finalità e significati psicologici, allontanandolo dalla modalità mentale di risoluzione di problemi. (…) I valori forniscono i criteri di selezione che consentono di variare e scegliere selettivamente i processi causali attivi nell’evoluzione del comportamento. I valori nobilitano il lavoro di defusione e l’accettazione di specifici pensieri e sentimenti dolorosi quando tali esperienze angoscianti costituiscono una barriera all’agire in modo valido. Ciò non significa un infinito sguazzare emotivo, anzi, consiste nel prendere ciò che la propria storia ha da offrire nell’ottica di una vita degna di essere vissuta (Hayes et al., 2013, p. 112).

 

L’importanza dell’ analisi valoriale nella psicoterapia cognitivo-comportamentale

A mio avviso, l’introduzione dell’analisi valoriale nell’ambito della psicoterapia cognitivo-comportamentale è una delle caratteristiche più importanti della “terza ondata” dei trattamenti cognitivi e comportamentali. E’ stato dimostrato che interventi a breve termine sui valori determinano un significativo cambiamento comportamentale (cfr. Cohen et al., 2006). Questo perché pensieri ed emozioni portano spesso verso direzioni contraddittorie e invitano a concentrarsi su obiettivi di processo irrilevanti (per es., eliminare una certa sensazione, controllare certi pensieri, ridurre gli impulsi). I valori scelti, invece, rendono il percorso terapeutico più stabile e centrato. La connessione consapevole con obiettivi di vita significativi motiva il comportamento anche di fronte ad avversità personali enormi, dirimendo l’illusione che si possa vivere bene solo dopo che se si arriva a dominare il disagio psicologico.

Nel trattamento del dolore con interventi di terza ondata, per esempio, l’ Acceptance and Commitment Therapy propone il raggiungimento di una consapevolezza ragionata, riducendo l’attenzione alla diminuzione del dolore o ai contenuti dei pensieri e impiegando energie per mettere in atto dei comportamenti funzionali e soddisfacenti.

L’ Acceptance and Commitment Therapy condivide molti concetti teorici della MBSR (Mindfulness Based Stress Reduction) di Kabat-Zinn, poiché entrambe hanno l’obiettivo di promuovere una mentalità mindful di accettazione del dolore, ma la prima tecnica non utilizza meditazioni quotidiane: si focalizza piuttosto sull’identificazione dei valori e degli scopi della persona, che devono servire per guidare il suo comportamento. Alcuni studi di interventi ACT per il dolore cronico hanno riportato un effetto da moderato a grande nel migliorare l’ansia e lo stress legati al dolore e la performance fisica e nel ridurre la disabilità e il numero di visite mediche (cfr. Palermo, 2009;  Dahl e Lundgren, 2014).

L’attenzione ai processi valoriali nella psicoterapia cognitivo-comportamentale contribuisce a rendere sempre più efficace e completo il tipo di intervento proposto al paziente. Inoltre, a ben vedere, lo stretto collegamento tra valori ed impegno al cambiamento bilancia l’enfasi tipica della “terza ondata” sull’accettazione e sulla validazione delle emozioni. Come ha notato Ruggiero, con l’impegno a cambiare, e non solo a capire e ad accettare, ritorna il tema tipicamente cognitivo che le emozioni si possono non solo padroneggiare, ma anche cambiare a fondo e persino manipolare.

Se ci si chiede, ma con tutto questo capire ed accettare di terza ondata, la terapia cognitiva non rischia di perdere la sua specificità? La risposta la troviamo proprio (…) nel commitment: in questo impegno così ellisiano a cambiare. La terapia cognitiva (…) rimane un trattamento che sottolinea il momento del cambiamento attivo alla Ellis, della modificazione volontaria della sofferenza, dell’impegno (Ruggiero, 2011, p. 49).

“Cosa è importante per me?”, “Quale voglio che sia lo scopo della mia vita?” sono domande che possono aiutare i clienti ad avvertire una direzione di vita che probabilmente hanno perso nella lotta per porre fine alle loro sofferenze quotidiane. Risvegliare il paziente dal torpore e dallo scollegamento con i propri nuclei più vitali può rappresentare un primo passo sulla via della guarigione, con uno sguardo più attento alle risorse che ai deficit. Un lavoro “per aggiunta” e non per semplice riduzione degli ostacoli.

Infanticidio: il profilo neuropsicologico di chi compie infanticidi

Il profilo neuropsicologico di chi compie un infanticidio si differenzia significativamente da quello di chi uccide anche persone adulte.

 

Il profilo neuropsicologico di chi compie l’ infanticidio

Recentemente, i ricercatori della Northwestern University Feinberg School of Medicine di Chicago hanno indagato l’esistenza di differenze all’interno dei profili neuropsicologici degli assassini. Ciò che è emerso è che effettivamente sembrerebbe esistere una differenza per quanto riguarda le caratteristiche neuropsicologiche di chi uccide solamente bambini, rispetto a chi uccide anche persone adulte. L’ infanticidio sembra essere caratterizzato da maggiore impulsività, da minore quoziente intellettivo e, spesso, da patologie mentali. L’identificazione di queste differenze potrebbe aiutare nell’identificazione di quei bambini potenzialmente a rischio per la propria vita.

L’ infanticidio, ad oggi, risulta essere una delle categorie di omicidio sì tra le più rare, ma anche tra le meno comprese ed indagate. Inoltre, nonostante negli anni i tassi di omicidi siano generalmente calati, i tassi di omicidi perpetrati a danno di bambini non sembrano essersi modificati. Si stima che solo nel 2014 negli Stati Uniti siano stati uccisi 1,546 bambini, sia per atti di violenza sia per negligenza nella loro cura (Child Welfare Information Gateway, 2016). A tal proposito, riuscire ad identificare cosa differenzia a livello di funzionamento neuropsicologico questa tipologia di assassini da coloro i quali uccidono persone di età maggiore potrebbe notevolmente apportare benefici alla letteratura molto limitata sul tema e aiutare anche a prevedere e prevenire future tragedie.

In precedenza, gli studi sul tema si sono largamente occupati dello studio di variabili quali le caratteristiche sociodemografiche e psicologiche dei criminali, ma mai del funzionamento neurocognitivo. Oltre a ciò, anche a livello mediatico, è stata spesso riscontrata la tendenza a focalizzarsi esclusivamente su casi di donne con patologie mentali di tipo psicotico che commettono infanticidio (Laursen et al., 2011), ma, in realtà, l’uccisione di bambini avviene in contesti molto più variegati, non solo nell’ambito della patologia mentale.

Azores-Gococo e collaboratori, autori di una recente indagine sui profili neuropsicologici degli assassini, hanno messo in evidenza, in linea anche con studi precedenti (Hanlon et al., 2015; Hanlon et al., 2013), come gli uccisori di soli bambini, uno o più, abbiano la tendenza ad avere minori livelli di intelligenza, minori abilità di comunicazione e di problem solving e, generalmente, un maggior grado di patologia mentale. Inoltre, chi compie l’ infanticidio sembrerebbe essere caratterizzato da maggiore impulsività e dalla tendenza ad utilizzare metodi più manuali (ad es. percosse, annegamento) per perpetrare il crimine, anche se confrontati con quegli assassini che oltre ad un bambino hanno ucciso anche uno o più adulti nello stesso atto omicida.

Al contrario, gli uccisori sia di bambini sia di adulti sembrerebbero avere la tendenza a commettere delitti maggiormente premeditati, utilizzando soprattutto armi. Spesso, inoltre, nonostante mostrino un quoziente intellettivo nella norma, risultano essere caratterizzati dalla presenza di tratti antisociali, con anche abuso di sostanze.

In tal senso, questo studio suggerisce l’esistenza di molteplici ragioni per cui un bambino potrebbe trovarsi estremamente a rischio di subire gravi abusi a livello fisico o anche di venire uccisi, aprendo la possibilità di utilizzare quanto emerso a fini preventivi.

Più nello specifico, lo studio di Azores-Gococo e collaboratori è stato svolto con lo scopo di indagare i profili demografici, criminologici, psichiatrici, cognitivi e neuropsicologici di un gruppo di 33 soggetti (27 maschi, 6 femmine) accusati e condannati in primo grado per l’omicidio di uno o più bambini. Inoltre, la scelta del campione, piuttosto ampio rispetto alla precedente letteratura sul tema, è stata effettuata cercando di renderlo il più eterogeneo e variegato possibile, al contrario di altri studi che si sono principalmente focalizzati su una sola tipologia di criminali (ad es. donne che commettono figlicidi e neonaticidi), in modo da poter indagare in modo più approfondito il tipo di disfunzioni cognitive che caratterizzano questi criminali, rendendo anche i risultati maggiormente generalizzabili.

Tra i soggetti vi erano infatti criminali accusati sia di omicidi preterintenzionali e impulsivi sia premeditati, sia domestici sia non, alcuni dei quali includevano anche l’assassinio di persone adulte, non solo bambini. Il campione, poi, presentava un ampio spettro di diagnosi psichiatriche e deficit nel funzionamento neuropsicologico. In questo modo il campione risulta essere aderente a quanto riscontrabile nella realtà forense contemporanea.

Nel complesso, i partecipanti erano stati accusati dell’omicidio di 51 bambini di età compresa tra 1 mese e 17 anni, di cui il 50 % intorno ai 6 anni; 14 casi includevano anche l’omicidio di vittime adulte (da 1 a 7 vittime per caso).

Per quanto riguarda le analisi del funzionamento neurocognitivo, gli autori hanno valutato domini quali il funzionamento intellettivo, la memoria, l’attenzione e la velocità di elaborazione, il ragionamento e le funzioni esecutive e il linguaggio.

Dalle analisi è emerso come nel complesso il semplice uccidere un bambino all’interno di un atto omicida non sia sufficiente per distinguere questo gruppo di criminali da altri. Infatti, per quanto riguarda la prevalenza di diagnosi psichiatriche, di problemi del neurosviluppo e di abuso di sostanze e per quanto riguarda il funzionamento cognitivo, questo gruppo è emerso essere in linea con quanto presente in generale in letteratura per i criminali violenti.

Nonostante questo, però, sono emerse differenze significative a livello di gruppo. Infatti, in base ai punteggi alle diverse valutazioni, sembra che gli omicidi di soli bambini vengano perpetrati principalmente in modo non premeditato e impulsivo da persone che potrebbero non avere sufficienti abilità comunicative e di gestione emotiva per mediare in modo adattivo e funzionale i conflitti. Al contrario, gli assassini pluriomicidi sia di bambini sia di adulti presentano caratteristiche demografiche, psichiatriche e cognitive sovrapponibili a quelle di omicidi premeditati (Hanlon et al., 2013). Al contrario, nessuna differenza è emersa a livello di genere per quanto riguarda la premeditazione, l’essere sotto l’effetto di stupefacenti al momento del crimine o le caratteristiche criminologiche.

Sorprendentemente, ben pochi infanticidi sono risultati in linea con l’idea stereotipica che siano le madri psicotiche ad uccidere i propri figli. I criminali colpevoli di aver ucciso dei bambini risultano essere tutt’altro che un gruppo omogeneo con livelli analoghi di psicopatologia, tratti antisociali e funzionamento cognitivo. In questo senso, i risultati di questa ricerca invitano a prestare molta attenzione rispetto al fare conclusioni affrettate, mettendo in discussione la generalizzazione di assunzioni circoscritte e valide solo per una limitata quota di infanticidi, cercando, al contrario, di focalizzarsi maggiormente su quei deficit, caratteristiche personologiche e situazioni specifiche che potrebbero mettere in pericolo la vita dei bambini.

Inoltre, dal momento che la maggior parte dei bambini era stata uccisa dai compagni delle madri in un atto impulsivo di violenza non premeditata, gli autori suggeriscono che un lavoro psicoeducativo basato sulla gestione della rabbia e sulla presa di decisione su base non violenta potrebbe aiutare nella prevenzione del rischio di far del male ai bambini. Una valutazione appropriata ed un approccio votato alla prevenzione focalizzato su coloro i quali presentano una storia di violenza (domestica e non), soprattutto se a stretto contatto con bambini, potrebbe portare a drastiche riduzioni nei tassi di atti di violenza fatale, aiutando le persone a gestire in modo adattivo e funzionale i propri impulsi e le proprie emozioni, in particolar modo la rabbia.

 

Deep Brain Stimulation e Sindrome di Tourette: un nuovo metodo di cura?

Alcuni ricercatori del NYU Langone, hanno scoperto che la Deep Brain Stimulation potrebbe contribuire ad attenuare alcuni sintomi invalidanti della Sindrome di Tourette.

La deep brain stimulation: una tecnica chirurgica per la sindrome di Tourette

La Deep Brain Stimulation (DBS) è una tecnica chirurgica che consiste nell’impianto di alcuni elettrodi a livello cerebrale, in particolare nel subtalamo, grazie alla collocazione di un pacemaker che invia degli impulsi al cervello. Uno studio condotto alla New York University ha dimostrato che questi impulsi elettrici, somministrati nella zona del talamo mediale, possono ridurre i tic, i movimenti involontari o gli scoppi verbali, in casi gravi di Sindrome di Tourette.

La Deep Brain Stimulation è stata utilizzata per trattare anche altre condizioni neurologiche che non possono essere sufficientemente controllate attraverso i medicinali, come il morbo di Parkinson, il tremore essenziale, la distonia e l’epilessia.

I risultati, pubblicati nella rivista Journal of Neurosurgery si aggiungono al crescente numero di prove che supportano la Deep Brain Stimulation come un trattamento sicuro ed efficace per i casi severi di Sindrome di Tourette e potrebbero essere definitivamente approvati dalla U.S. Food and Drug Administration.

[blockquote style=”1″]Il nostro studio mostra che la deep brain stimulation è un trattamento sicuro ed efficace per giovani adulti con forme severe di sindrome di Tourette che non possono essere controllate con le terapie vigenti[/blockquote] sostiene Alon Mogilner, medico, dottore di ricerca, professore associato al dipartimento di neurochirurgia e anestesiologia e direttore del Centro per la Neuromodulazione al NYU Langone. [blockquote style=”1″]Questo trattamento ha il potenziale di migliorare la qualità di vita dei pazienti che sono debilitati dalla malattia negli anni adolescenziali e nella giovane età adulta.[/blockquote]

La Sindrome di Tourette è un disordine che ha inizio, tipicamente, durante l’infanzia e, anche se alcuni pazienti migliorano quando diventano più grandi, i sintomi di altri pazienti diventano così gravi da portarli a diventare socialmente isolati e compromettere la partecipazione a scuola o alle attività lavorative.

Mogilner e un suo collega, Michael H.Pourfar, medico, professore al dipartimento di neurochirurgia e neurologia e co-direttore del Centro per la Neuromodulazione, ha aperto la strada alla più grande serie di casi di Deep Brain Stimulation talamiche per trattare la sindrome di Tourette nei giovani adulti.

In una procedura a più stadi, un chirurgo ha inserito due elettrodi in una regione cerebrale chiamata “Talamo Mediale”, una parte del circuito cerebrale che funziona in maniera anormale nei soggetti con Sindrome di Tourette. In seguito, in una seconda operazione chirurgica avvenuta il giorno seguente o pochi giorni dopo, un dispositivo simile ad un pacemaker chiamato “neurostimolatore”, è stato connesso agli elettrodi per emettere impulsi elettrici nella zona del talamo mediale. Gli impulsi sono stati tarati durante una serie di visite di follow-up su pazienti ambulatoriali per trovare la combinazione di impostazioni che favorivano un controllo migliore dei sintomi.

I risultati dello studio confermano l’efficacia della Deep Brain Stimulation

Nello studio, il team del NYU Langone ha seguito 13 pazienti con almeno sei mesi di visite di follow-up. I partecipanti allo studio avevano un’età compresa tra i 16 e i 33 anni. Per determinare l’efficacia della procedura, i ricercatori hanno misurato la gravità dei tic prima e dopo l’innesto chirurgico, utilizzando la Yale Global Severity Scale (YGTSS).

E’ stato scoperto che la gravità dei tic diminuiva del 37%, in un periodo compreso tra l’esecuzione della procedura chirurgica e la prima visita di follow-up. Nella loro ultima visita, la gravità dei tic diminuiva, in media, del 50%.

Inoltre, tutti i pazienti riportavano, in un sondaggio fatto sei mesi dopo l’intervento chirurgico, che i loro sintomi erano migliorati “molto” o “moltissimo” e sostenevano tutti che avrebbero voluto un altro intervento; anche coloro i quali avevano avuto complicazioni o avevano percepito dei risultati relativamente peggiori.

Il sondaggio rappresenta un aspetto importante dello studio, sostiene Purfar, poiché il YGTSS, attraverso una scala validata, potrebbe non cogliere pienamente l’impatto della Deep Brain Stimulation sulla qualità di vita delle persone con Sindrome di Tourette.

Caro diario ti scrivo… Il legame tra intelligenza emotiva e auto narrazione

Intelligenza emotiva e auto narrazione: Il bisogno di raccontarsi e di raccontare è centrale nella vita di ogni individuo e il metodo dell’ auto narrazione rappresenta uno strumento utile per l’interpretazione della realtà, per sollecitare il recupero di senso esistenziale, spirituale, relazionale, cognitivo e affettivo della propria storia di vita. È proprio all’interno della psicologia cognitiva che Bruner (1991) s’interroga se le vite siano interessanti o se sia il racconto che costruiamo che le rende tali perché assumono nell’interlocutore un significato pregnante; è proprio sulla ricerca di significato che Bruner ha posto l’accento.

Grazia Migliuolo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Le teorie psicologiche sull’intelligenza

È passato poco più di un secolo da quando Binet (1905) valutava l’intelligenza dei giovani francesi discriminando l’uno dall’altro in base ad un punteggio che indicava l’età mentale del soggetto; siamo lontani anni luce da quando Spearman (1904) ipotizzava la teoria dei due fattori dell’intelligenza individuando il fattore G (generale) e S (specifico).

Ne ha fatta di strada la Psicologia fino ad arrivare ad un quadro molto più complesso che definisce l’intelligenza come un costrutto multifattoriale che arriva a comprendere 120 differenti abilità mentali, una indipendente dall’altra (Giulford, 1967). Nell’ambito della teorizzazione delle intelligenze multiple è Gardner (1987) a definire il concetto d’intelligenza comprendendo due aspetti che seppur presi in considerazione in precedenza (Thorndike, 1920) non avevano riscosso il successo degli ultimi 20 anni, l’aspetto emotivo e sociale. La parola chiave in questa concezione dell’intelligenza è “multipla”: il modello di Gardner si spinge ben oltre il concetto standard di QI come singolo fattore immutabile. Secondo la teoria delle intelligenze multiple, i test che ci hanno assillato quando andavamo a scuola, discriminando chi poteva frequentare il liceo piuttosto che un istituto professionale, sono basati su un concetto d’intelligenza che non trova riscontro nell’autentica varietà di competenze ben più importante di quanto non sia il QI.

Il costrutto di intelligenza emotiva

Sono Salovey e Mayer (1990) a formulare una prima definizione del costrutto di intelligenza emotiva come capacità di monitorare le emozioni e i sentimenti propri e altrui, di discriminare tra sentimenti ed emozioni e di utilizzare le informazioni ricavate per guidare comportamenti e pensieri in modo adeguato alle diverse situazioni. Mayer (1995) considera il costrutto di personalità, inteso come sistema di strutture e di processi che determinano il modo con cui ciascuno reagisce all’ambiente fisico e sociale, insomma, il personale modo di percepire, esperire le emozioni e pensare.

Questo fornisce all’individuo un senso di identità personale. Il concetto di Intelligenza emotiva è stato ripreso da Daniel Goleman (1996) come l’insieme delle capacità di autocontrollo, di entusiasmo, di perseveranza e di automotivazione, saper leggere i sentimenti più intimi di un altro individuo e saperli gestire tranquillamente. Intelligenza emotiva: capacità di motivare se stessi e di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni; di controllare gli impulsi e rimandare la gratificazione; di modulare i propri stati d’animo evitando che la sofferenza ci impedisca di pensare; e la capacità di essere empatici e di sperare.

Nella sua fondamentale definizione d’ intelligenza emotiva Goleman (1996) include le intelligenze personali di Gardner estendendo queste abilità a 5 ambiti principali:
1) Padronanza di Sé, che richiede la capacità di saper dominare i propri stati interiori, saper guidare gli impulsi e sapersi adattare e sentirsi a proprio agio in nuove situazioni;
2) Motivazione, caratteristica che spinge l’individuo a realizzare i propri obiettivi sapendo cogliere le occasioni che gli si presentano, impegnandosi e restando costante nonostante le possibili avversità.
3) Empatia, intesa come la capacità di riconoscere le prospettive ed i sentimenti altrui, mostrandosi pronti a soddisfare le esigenze dell’Altro, ed aiutarlo cercando di mettere in risalto quelle che sono le sue risorse. Ma anche la capacità di individuare e coltivare le opportunità che vengono offerte dall’incontro con persone, il saper interagire all’interno di un gruppo sulla base dell’interpretazione delle correnti emotive e dei rapporti di potere esistenti nel gruppo stesso;
4) Competenza Sociale: ossia la modalità con cui gestiamo le relazioni con l’Altro; a questa fanno rifermento: abilità sociali, ossia tutte quelle abilità che ci consentono di indurre nell’Altro risposte desiderabili. Si va dall’utilizzo di tattiche di persuasione efficienti, al saper comunicare in maniera chiara e convincente, così da saper guidare il gruppo sia in un eventuale cambiamento, sia nel risolvere eventuali disaccordi. Rientra inoltre nell’abilità sociale il cercare di favorire l’instaurarsi di legami fra i membri di un gruppo creando un ambiente positivo che consenta di lavorare per obiettivi comuni;
5) Competenza Personale, ossia il modo in cui controlliamo noi stessi; racchiude al suo interno: consapevolezza di Sé, da intendersi come capacità di riconoscere le proprie emozioni, sapere quali sono i propri limiti e le proprie risorse ed avere sicurezza nelle proprie capacità.

Quest’ultima caratteristica, la consapevolezza emozionale è una componente fondamentale, i soggetti consapevoli dei propri stati d’animo sono autonomi, sicuri e sono in grado di raccontarsi e raccontare i propri vissuti, non tendono al rimuginio, insomma godono di una buona salute psicologica.

Da queste definizioni si evince come l’ intelligenza emotiva sia un costrutto complesso che prevede la presenza di gestione delle proprie e altrui emozioni, motivazione, capacità di adattamento, autocontrollo e capacità di esprimere e raccontare i propri stati così da trovare significati alle esperienze presenti e passate.

Insomma l’ Intelligenza Emotiva racchiude al suo interno quelle capacità di consapevolezza e padronanza di se, motivazione, empatia e abilità nella gestione delle relazioni sociali, che qualunque persona può sviluppare e che si rivelano fondamentali per ogni essere umano.

Il nesso tra intelligenza emotiva e auto narrazione

In quest’ottica, comprendere noi stessi e gli altri consiste nel comprendere i processi che vengono messi in atto nell’attribuzione di significato ai diversi eventi della nostra vita. La struttura narrativa è insita nella prassi dell’interazione sociale ma soprattutto rappresenta lo strumento per la costruzione del sé. Ma qual è la connessione tra quest’aspetto dell’intelligenza e l’ auto narrazione?

Il bisogno di raccontarsi e di raccontare è centrale nella vita di ogni individuo e il metodo dell’ auto narrazione rappresenta uno strumento utile per l’interpretazione della realtà, per sollecitare il recupero di senso esistenziale, spirituale, relazionale, cognitivo e affettivo della propria storia di vita. È proprio all’interno della psicologia cognitiva che Bruner (1991) s’interroga se le vite siano interessanti o se sia il racconto che costruiamo che le rende tali perché assumono nell’interlocutore un significato pregnante; è proprio sulla ricerca di significato che Bruner ha posto l’accento.

Per l’autore l’essenza stessa della comunicazione è il significato che gli esseri umani creano in base ai loro contatti con il mondo (…) per costruire e attribuire un senso non solo al mondo, ma anche a se stessi. È proprio Bruner ad aver teorizzato il concetto per l’essenza della comunicazione e il significato che gli esseri umani creano a partire dal contatto con il mondo. Il bambino possiede un’attitudine innata che gli garantisce la capacità di entrare nel significato ma affida al genitore la capacità d’interazione per far in modo che avvenga uno scambio reciproco indispensabile per l’evoluzione linguistica e dei suoi significati. Sono i significati che costruiamo e che guidano il pensiero e l’azione ad essere parte integrante della trama delle nostre narrazioni; queste sono, a loro volta, il collante che unisce i significati e ne consente la comunicazione. La struttura narrativa è insita nella prassi della interazione sociale, la forma narrativa è lo strumento per la costruzione del senso della vita. Le strutture narrative assumono universalmente forme attraverso cui le persone comprendono la realtà e comunicano su di essa. Il racconto permette di costruire significati che permettono di interagire con il sistema all’interno del quale vivono. I valori culturali pongono degli obiettivi alle persone anche per garantire il loro riconoscimento all’interno di quella cultura.

L’ auto narrazione, parlare di sé e delle proprie emozioni rimanda a fattori specifici come il tipo, l’intensità, le cause scatenanti, il contesto e il ruolo sociale, nonché differenze individuali come credenze, valori, scopi, la percezione e l’espressione emotiva; risulta evidente quanto acquisire una competenza emotiva è il risultato di un lavoro complesso proprio perché tante sono le variabili. Ci si può avvalere di metodologie e tecniche vicine a quelle della psicoterapia, a seconda delle dimensioni si possono suggerire tecniche diverse: per la relazione con se stessi e con il proprio corpo la più utilizzata è la tecnica del diario e dell’ autobiografia. Elaborare, ripercorrere quello che abbiamo vissuto ci dà la possibilità di riflettere e dare significati che prima non erano stati presi in considerazione, spesso questo lavoro non è semplice da dare da soli, la psicoterapia ci fornisce gli strumenti.

La pratica della scrittura e dell’ auto narrazione  attivano o riattivano percorsi di crescita individuali o di gruppo, risultando utile sia in contesti educativi, terapeutici e lavorativi. Lo strumento dell’ auto narrazione per eccellenza è il diario che ha lo scopo di registrare il flusso degli eventi quotidiani della nostra esperienza interna, una caratteristica è quella della brevità che permette di registrare una maggiore quantità di materiale e di avere una maggiore varietà di argomenti, l’altra caratteristica è la centralità della propria prospettiva (emozioni, pensieri, comportamenti); registrare gli eventi, essere capace di riflettere su questi riportandoli ad un’altra persona è alla base della logica degli homeworks tanto cari alla psicoterapia cognitiva. Probabilmente è per questo che un percorso terapeutico ci rende più intelligenti, almeno emotivamente.

L’afasia: le cause e le diverse tipologie – Introduzione alla Psicologia

L’ afasia è una patologia che si manifesta con la perdita o l’alterazione del linguaggio ed è dovuta alla presenza di un danno cerebrale a carico di particolari aree. Si tratta di un disturbo specifico del linguaggio e può palesarsi con problematiche linguistiche che variano in base alla sede della lesione cerebrale.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il termine afasia deriva dal greco ed è una parola formata da ἀ privativo e da ϕάσις ovvero parola, e può essere tradotta con perdita della parola o mutismo. L’afasia consiste nella mancanza parziale o totale della capacità di esprimere o comprendere il linguaggio e le parole. L’afasia non è determinata da nessun deficit intellettivo, da nessuna lesione degli organi imputati alla riproduzione del linguaggio o da disturbi psichici, ma deriva da lesioni registrate a carico di aree cerebrali in cui avviene l’elaborazione del linguaggio.

L’afasia e le aree coinvolte

La classificazione delle varie forme di afasia e la loro interpretazione anatomo-clinica è ancora oggi soggetta a discussione. In generale, è possibile distinguere due grandi tipi di afasia a seconda dell’area cerebrale coinvolta: la afasia sensoriale o di Wernicke e la afasia motoria o di Broca. Inoltre, in alcuni casi, si rileva la presenza di tipi misti o intermedi di afasia. Le aree del linguaggio si trovano sempre nell’emisfero dominante, quindi nell’emisfero sinistro per i destrimani, mentre nei mancini si trovano, tendenzialmente, nell’emisfero destro. Oltre alle aree cerebrali riguardanti il linguaggio negli afasici possono essere compromessi i fascicoli che collegano queste aree ad altri centri cerebrali.

L’afasia può riguardare diversi aspetti del linguaggio, come la comprensione, la produzione, la ripetizione e la strutturazione. Di conseguenza, l’afasia si può manifestare con l’incapacità di riconoscere una parola o di scegliere la parola adatta, oppure è possibile sostituire una parola con un’altra di significato diverso ma della stessa famiglia, ad esempio si dice ora ma si vuole parlare dell’orologio, oppure può essere usata una parola sbagliata ma dal suono simile a quella giusta, come zampone anziché giaccone. Tale deficit, inoltre, potrebbe riguardare solo il parlato, inteso come capacità di pronunciare e ripetere frasi o anche lo scrivere.

Tutti coloro che mostrano afasia cominciano col dimenticare i nomi propri, poi i nomi comuni, seguono gli aggettivi e infine i verbi e le preposizioni.

Insorgenza e cause

L’afasia è determinata da lesioni a carico delle aree del cervello deputate all’elaborazione del linguaggio: l’area di Broca e area di Wernicke. Tali lesioni possono essere dovuti a: infarti cerebrali, attacco ischemico transitorio (in cui il disturbo regredisce nel corso di alcune ore), emorragie cerebrali, processi tumorali, processi degenerativi, ascesso cerebrale o encefalite, crisi epilettica o attacco di emicrania con aura.

Classificazione

Esistono diverse forme di afasia:
– fluente in cui l’eloquio è abbastanza produttivo e il linguaggio è caratterizzato da parole appropriate e da parole prive di nesso. Le afasie fluenti sono causate da lesioni parietali temporali dell’emisfero sinistro;
– non-fluente si presenta una scarsa produzione verbale spontanea, riescono a produrre soltanto parole isolate o frasi molto brevi composte e causate da lesioni frontali dell’emisfero sinistro;
– globale è un grave deficit della produzione, comprensione ed elaborazione di messaggi linguistici in cui l’eloquio è limitato e frammentato e la lettura a voce alta e scrittura sono praticamente assenti. Essa è causata da lesioni dell’emisfero sinistro che coinvolgono la corteccia perisilviana pre e post-rolandica e le strutture profonde sottostanti.

L’afasia di Broca

L’afasia di Broca è causata da lesioni corticali dell’area di Broca e del lobulo prefrontale che si può estendere fino alla parte posteriore della terza circonvoluzione frontale e nei casi più difficili possono essere danneggiate anche le regioni circostanti pre-motorie e pre-frontali e aree sottocorticali che interessano il putamen o la capsula interna.

Nell’afasia di Broca si preserva la comprensione del linguaggio mentre la produzione è compromessa, fino a ottenere mutismo nei casi più gravi. Il linguaggio è lento, riflessivo, e si fa uso di parole e frasi molto semplici; i sostantivi sono usati al singolare, i verbi all’infinito o participio, gli articoli, gli aggettivi, gli avverbi sono eliminati. Inoltre, i pazienti affetti da tale patologia faticano nel leggere a voce alta e la scrittura può essere anomala.

L’area di Broca è coinvolta, anche, nella produzione del linguaggio scritto, quindi un danno in questa parte inferiore del lobulo frontale, in particolare il terzo posteriore della circonvoluzione frontale inferiore, compromette l’espressione del linguaggio scritto.
Coloro che ne sono affetti sono coscienti degli errori grammaticali del deficit che hanno e di conseguenza cercano di usare sempre le regole grammaticali basilari.

L’Afasia di Wernicke

L’afasia di Wernicke è in genere causata da una lesione corticale dell’area di Wernicke, che si trova nella circonvoluzione temporale superiore, e può estendersi, in alcuni casi, alle aree 37 e 40 di Brodmann.

E’ caratterizzata da un evidente deficit di comprensione del linguaggio, quindi il linguaggio parlato è abbastanza fluido anche se si può avere difficoltà nell’individuare la parola giusta da dire, e può capitare di fallire nel comunicare l’idea che si ha in mente (linguaggio vuoto). Coloro che ne soffrono non sono coscienti di questo loro problema.

L’afasia di Wernicke comporta problemi sia nella comprensione del linguaggio sia nella produzione. La capacità di elaborare un discorso fluentemente è mantenuta; l’eloquio è parafasico e ricco di circonlocuzioni con neologismi. Il paziente non si rende conto che il suo linguaggio è incomprensibile.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Nu Relax: l’app per rilassarsi ed essere mindful

Nu Relax ® è un’applicazione che favorisce il rilassamento e parte da una concezione di benessere basata sull’equilibrio tra corpo e mente, e che può rappresentare un valido supporto per tutte quelle persone che desiderino intraprendere un percorso utile per apprendere un diverso approccio per percepire le proprie esperienze. Potrebbe rappresentare uno strumento da affiancare alla psicoterapia, specialmente quando questa si basa su un paradigma di terza ondata.

 

La mindfulness: uno degli approcci della terza ondata della terapia cognitiva

I paradigmi di terza ondata, introdotti nella terapia cognitiva, hanno rivoluzionato il concetto di trattamento, spostando il focus degli interventi dai contenuti ai processi mentali. Tra gli effetti di questo cambio di prospettiva c’è senz’altro la diffusione di interventi di tipo esperienziale, come la mindfulness, che pongono l’attenzione maggiormente sulla modalità adottata dalle persone nel relazionarsi alle proprie esperienze mentali e sui processi di cambiamento relativi a questa modalità.

Si tratta di un approccio che mira a collocare l’individuo nel momento presente, aiutandolo a distaccarsi da un’elaborazione concettuale troppo astratta e spesso disfunzionale, inducendo così emozioni piacevoli (Brown & Cordon, 2009; Varela & Depraz, 2003).
In questo contesto, terapeutico, ma non solo, si va diffondendo sempre più anche l’utilizzo di applicazioni e software per accompagnare le persone nell’esercizio costante di queste pratiche legate all’esperienza.

 

Nu Relax: una app che favorisce il rilassamento

Tra queste app c’è Nu Relax ®, che già dal nome lascia intuire l’intento di introdurre un modo nuovo per vivere esperienze relative al proprio rilassamento, obiettivo che prova a raggiungere attraverso diversi percorsi meditativi, tutti basati su recenti studi neurologici e sulle tecniche di rilassamento più diffuse come lo yoga, il training autogeno, il rilassamento progressivo e il biofeedback.

L’app funziona su smartphone, disponibile sia per Android sia per iOS, e permette di avere sempre a portata di mano una voce guida per vivere al meglio le esperienze di meditazione, secondo un approccio mindful. Tutti gli esercizi aiutano ad allenare la propria consapevolezza e a dirigere volontariamente la propria attenzione al momento presente, a quello che accade intorno a sé e nel proprio corpo, osservando la propria esperienza sempre in modalità non giudicante.

In questo modo l’utente è libero di scegliere, quando meglio crede, il percorso da completare (relax, stabilità, creatività, calma, brillantezza oppure lucidità) e la sua durata (10, 20 o 30 minuti). Il resto lo fa il nostro cervello, che grazie alla sua plasticità riesce, con un allenamento adeguato, ad apprendere modalità differenti per rapportarsi alle proprie esperienze.

Nu Relax ® è un’applicazione che parte da una concezione di benessere basata sull’equilibrio tra corpo e mente, e che può rappresentare un valido supporto per tutte quelle persone che desiderino intraprendere un percorso utile per apprendere un diverso approccio per percepire le proprie esperienze. Potrebbe rappresentare uno strumento da affiancare alla psicoterapia, specialmente quando questa si basa su un paradigma di terza ondata.

Non solo però: l’applicazione non richiede alcuna ‘diagnosi’ per essere utilizzata anzi, il suo utilizzatore tipico potrebbe essere proprio la persona che si sente pressato dallo stress quotidiano e decide di provare a cambiare qualcosa nella sua vita.

L’applicazione molto valida rispetto ai fondamenti scientifici, potrebbe tuttavia essere migliorata rispetto all’esperienza dell’utente, ad esempio inserendo delle meccaniche motivazionali, che incentivino l’utente ad utilizzare Nu Relax ® con regolarità, in modo da allenare in maniera più efficace il proprio approccio. Ad esempio, l’uso di alert che ricordino all’utente di iniziare un nuovo percorso oppure la presentazione di elementi grafici che mostrino il progresso dell’utente, potrebbero aumentare l’engagement dell’utente, come d’altra parte ci dimostrano la maggior parte delle applicazioni che oggi si propongono di indurre un cambiamento comportamentale nei propri utenti (King et al., 2013; Lister et al., 2014).

La doppia Vita di Veronica (1991) – Recensione del film

La doppia vita di Veronica da un punto di vista analitico mette in risalto la concezione freudiana della predisposizione narcisistica alla paranoia, ed indicano nel proprio io, il principale persecutore contro cui si rivolge il meccanismo di difesa; la scissione psichica crea il doppio il quale a sua volta costituisce  una proiezione del conflitto interiore.

 

La doppia vita di Veronica: la trama

La doppia vita di Veronica è un film di Krzysztof Kieślowski del 1991, sceneggiato dal regista insieme a Krzysztof Piesiewicz ed interpretato da I. Jacob e P. Volter. Weronika e Véronique.

Due vite che scorrono parallele ma su binari contrapposti delineati da analogie esistenziali. Vite simili ma segnate da un destino diverso. Sia Weronika, ragazza polacca, che Véronique, francese, condividono la stessa identica passione per il canto lirico, entrambe sono orfane di madre e cardiopatiche dalla nascita. Weronika disinteressandosi della sua malformazione continuerà a cantare, perseguendo così il suo ambizioso obiettivo e questo la porterà ad abbandonare il ragazzo e a superare tutti gli ostacoli possibili.

Assecondando questo cammino un giorno durante uno spettacolo si accascerà esanime al suolo, morendo. Nel preciso istante in cui la bara di Weronica viene coperta di terra dalle persone riunite tutt’attorno ad essa nel giorno del suo funerale, si avrà come l’impressione che gli occhi della ragazza stiano fissi a scrutare quello che accade: una metafora che Kieslowski sintetizza grazie all’utilizzo di una ripresa soggettiva, la quale, come magicamente, si distacca dall’azione in corso per approdare in una nuova dimensione quella di Veronica (parigina).

Una soggettività narrativa che culmina nel parossismo e che per tutta la seconda parte dell’opera si concentrerà sulla francese Véronique osservata nella sua intimità. La morte di una influirà irrimediabilmente sulla vita dell’altra, come rimasta orfana di una gemella o ancor più di una parte di se stessa.

Kieslowski gioca tutto sulla dualità e l’ambiguità, sulle conseguenze relative alla perdita di qualcosa di caro.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

I film precedenti di Kieslowski e il collegamento con La doppia vita di Veronica

Nel film La doppia vita di Veronica le due Veronica rimandano molto ai due Kieslowski, il primo tutto polacco che si approccia alla regia come documentarista: nel 1971 realizza Operai ’71, testimonianza di uno sciopero soppresso a Danzica da parte delle autorità polacche. Nel 1979 gira il lungometraggio di finzione Il cineamatore, storia di un giovane padre e della sua passione per il cinema.

Il film vince il primo premio al Festival di Mosca. Ma è nei due film successivi: Destino cieco e Senza fine, che il regista polacco fissa i temi che caratterizzeranno tutta la sua poetica. Entrambi i lavori parlano dei misteri che governano il caso e del persistere della memoria, da questo punto di svolta, da questa nuova sensibilità, nasce uno stile registico diverso che porterà il regista a trasferirsi a Parigi facendo subentrare il secondo Kieslowski che nel 1989 realizzerà il suo capolavoro: Il decalogo che lo porterà ad un’ascesa artistica che lo farà diventare uno dei registi più importanti dello scorso secolo.

Osservando lo stile registico e di montaggio ne La doppia vita di Veronica sembra di osservare un’operazione di scavo interiore, il richiamo di una vita intera, di qualcosa di più profondo, di inattingibile con la vita del regista, quasi un Kieslowski che osserva e parla di se stesso.

Volti e sguardi sono l’ epifania più eloquente e proprio perché il tutto è girato in modo estremamente delicato e silenzioso sembra sprofondare nel più profondo stato dell’animo umano. Quest’opera è interpretabile anche come descensus ad inferos e logos endiàthetos dell’autore: un discorso interiore tra sé e sé, per immagini e musica più che per parole, in linea con la funzione e l’essenza del cinema e con l’ineffabilità radicale della materia.

Interpretazione psicoanalitica del film La doppia vita di Veronica

L’analisi filmica, da un punto di vista psicoanalitico persegue due filoni: 1) Approccio contenutistico che ha lo scopo di interpretare i film come prodotti dell’inconscio dell’autore, mettendo in rilievo temi e figure ricorrenti nell’opera di un regista e facendoli risalire a traumi dello stesso. 2) Analisi della scrittura del film, che va a sottolineare l’analogia tra il linguaggio cinematografico e il linguaggio dell’inconscio.

In questo film, l’approccio contenutistico è chiaro. Credo che un’ opera d’arte, filmica o che dir si voglia nasca sicuramente per il pubblico che ne godrà la magnificenza, ma, sicuramente, l’autoterapia o il parlare di sé dell’autore giocano un ruolo chiave, si canalizzano, infatti, nell’opera quegli stati emotivi che affliggono l’anima. La doppia vita di Veronica da un punto di vista analitico mette in risalto la concezione freudiana della predisposizione narcisistica alla paranoia, ed indicano nel proprio io, il principale persecutore contro cui si rivolge il meccanismo di difesa; la scissione psichica crea il doppio il quale a sua volta costituisce  una proiezione del conflitto interiore e la cui creazione porta con sè una liberazione interiore, seppur a prezzo della paura dell’incontro con il doppio. Cosi la paura derivante dal complesso dell’io crea lo spettro pauroso del doppio che rappresenta i desideri segreti e sempre repressi della psiche.

Questo film è una sorta di chiarificazione e presa di coscienza per Kieslowski che ad un certo punto, cambia registro, cambia vita, saluta l’attivista e parla con se stesso e con la sua nuova sensibilità, uccide la Weronika/ Kieslowski polacca e dà modo, quasi giustificandosi con questo film alla Veronica/ Kieslowski parigina di godere appieno di questa sua seconda vita.

 

Social Withdrawal e Hikikomori: definizione e ipotesi d’intervento

Con il termine Social withdrawal si intende una condizione sociale caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Nelle società nipponiche questo fenomeno si configura con l’espressione Hikikomori che deriva dal verbo Hiku (tirare indietro) e Komoru (ritirarsi) ed indica una sindrome sociale che va diffondendosi ormai in maniera critica (S. Moretti, 2010) e capillare.

Daniela Grimaudo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Hikikomori e social withdrawal: in cosa consistono

Il giovane Jun ha diciotto anni, fa il test di ammissione in un’ università ma non lo supera. Cerca di non scoraggiarsi, continua a studiare da solo, ma lentamente va alla deriva, fino a quando si chiude nella sua stanza, dorme durante il giorno e di notte legge testi di filosofia e guarda la televisione.

Occasionalmente prende la sua mountain-bike e di notte scorrazza per le strade della  città che dorme. Quando incontra qualcuno dei suoi vicini- racconta Jun- si sente guardato con diffidenza e a volte con ostilità: è troppo diverso dagli altri ragazzi”.

La storia emblematica dell’ Hikikomori Jun è raccontata dal giornalista americano Michael Zielenziger in un importante testo dal titolo “ Non voglio più vivere alla luce del sole” ( M. Ammaniti, 2009).

Con il termine “Social withdrawal” si intende una condizione sociale caratterizzata prevalentemente da sentimenti di solitudine, isolamento, ritiro dalla società e dalle relazioni interpersonali. Nelle società nipponiche questo fenomeno si configura con l’espressione “Hikikomori” che deriva dal verbo Hiku (tirare indietro) e Komoru (ritirarsi) ed indica una sindrome sociale che va diffondendosi ormai in maniera critica (S. Moretti, 2010) e capillare.

Questa sindrome si manifesta in modi differenti: permanenza in ambiente domestico per lunghi periodi di tempo, mancanza di rapporti amicali, assenza di comunicazione con la famiglia, evitamento di qualsiasi forma di contatto visivo, assenza quindi di relazioni significative e/o intimità emotiva e fisica.

Il termine hikikomori è stato formulato dallo psichiatra Saito Tamaki, direttore del dipartimento psichiatrico dell’Ospedale Sofukai Sasaki di Chiba, non lontano da Tokyo, negli anni Novanta del secolo scorso, per riferirsi al fenomeno di persone che hanno scelto una condizione di autoreclusione (se–clusione) permanente al fine di ritirarsi dalla vita sociale. Il ministero giapponese della salute definisce hikikomori gli individui che rifiutano di uscire dalla casa dei genitori, isolandosi nella propria stanza per periodi superiori ai sei mesi, con la possibilità che la permanenza in autoreclusione si prolunghi per un numero non breve di anni, in una condizione di stabile dipendenza economica dalla famiglia. Essi sono soliti pranzare e cenare nella propria stanza con un vassoio passato dal genitore attraverso la porta appena socchiusa e si recano in bagno con percorsi che, per tacita intesa familiare, vengono lasciati il più possibile non frequentati. Si interrompe ogni rapporto con il mondo della scuola, dell’università o del lavoro (U.  Mazzone, 2009).

L’identikit del giovane Hikiikomori si esprime attraverso determinate caratteristiche comportamentali e strutturali che delineano una nuova forma di categoria psicopatologica: giovane tra i 14-30 anni, di estrazione sociale medio-alta, nel 90% dei casi di sesso maschile per lo più figlio unico di genitori entrambi laureati (S. Moretti, 2010). Di solito, giovani maschi, anche se la presenza femminile pare in aumento e comunque tendono ad invertire il ritmo giorno-notte, trascorrono parte del tempo a chattare, leggere, giocare al computer o guardare la televisione, determinati a non rientrare nel grande flusso sociale.

Le cause dell’ Hikikomori, un fenomento in crescita

Nella prefazione di un libro dal titolo molto eloquente “ Hikikomori. Narrazione da una porta chiusa”, di C. Ricci, Mazzoni sostiene che le cause più frequentemente addotte, come spiegazione di tale comportamento, siano di diverso tipo: quelle sociali, come debolezza nella capacità di stringere relazioni, insicurezza, perdita dell’impiego, vergogna, scarsità di motivazioni; quelle scolastiche, come bullismo, sollecitazioni competitive, fallimento negli esami, rifiuto della scuola; quelle famigliari, come pressioni per il raggiungimento di più elevati livelli di istruzione, difficoltà di relazioni, padre assente, madre iperprotettiva, e, infine, ma molto distanziate, quelle individuali, legate soprattutto a problemi psicologici (U. Mazzone, 2009).

I dati reperiti dai centri di supporto No-Profit e sovvenzionati dal ministero della salute giapponese parlano di una cifra ufficiale che quantifica in oltre il milione quegli adolescenti che praticano hikikomori in Giappone; si tratta di un fenomeno in via di espansione non soltanto in Corea e in Cina ma si riscontrano alcune particolarità simili perfino nella cultura occidentale tanto da poter segnalare già una tipica presenza anche negli Stati Unite e nel nord Europa (Block. J.J. 2008) .

Attualmente in Italia si registrano circa cinquanta casi, ufficialmente dichiarati, di giovani adolescenti, presi in carico come Hikikomori (L. T. Pedata, M. Interlandi, 2012)

Il social withdrawal: il ritiro dalla società

Come abbiamo precedentemente affermato il Social Withdrawal indica proprio l’isolamento, il mettersi in disparte, il ritiro dalla società e nonostante i i giovanissimi trascorrano il loro tempo su internet, con fumetti o video giochi, attenzione! il fenomeno va distinto dall’ abuso tecnologico o da altre forme patologiche, anche se, presentano un elemento comune: si sceglie una vita virtuale che sostituisce in pieno il reale ( L.T. Pedata, M. Interlandi 2012).

Il Social Withdrawal è un ritiro dalla società, è un rifugiarsi nella solitudine ma paradossalmente questi giovani interagiscono virtualmente con il mondo; quel senso di vergogna sperimentato nel contatto con l’altro, in rete viene placato, anche se non completamente.

La dimensione del gruppo sulla piattaforma virtuale crea un senso di appartenenza e di accettazione immediata che non sembra essere caratterizzato dai tempi e dalle regole più severe a cui sottostanno i gruppi nella realtà quotidiana ( Lavenia 2012).

Piotti, nel testo “Il banco vuoto. Diario di un adolescente in estrema reclusione” si è dedicato al tentativo di capire quale sia la motivazione dei nuovi eremiti domestici, dei ragazzi in reclusione volontaria, ritirati per mesi o anni nella loro cameretta immersi nella realtà virtuale, apparentemente dimentichi dei doveri, dei piaceri della loro età e delle aspettative nei loro confronti da parte delle famiglie, della scuola o dagli amici disertati.

Anni di lavoro clinico, sostiene Pietropolli Charmet, hanno mostrato quanto sia difficile per i genitori entrare in contatto con quel che accade nella mente di un figlio in piena crisi evolutiva e quanto questo sia per loro fonte di una terribile sofferenza.

Reazioni interne ad eventi esterni avvengono secondo uno schema particolare e secondo uno stile di pensiero preciso.

Come mai un ragazzo decide di recludersi nella sua stanza, connesso al pc, immerso in un’ esistenza virtuale e rifiutando la scuola? Perchè cosi tanta paura nell’ interagire con l’altro? Nella società del Sol Levante questo fenomeno potrebbe assumere le sembianze di una ribellione contro un paese schiacciato dal conformismo e omogeneità, dove non vi è spazio per la differenza e diversità, in cui i giovani non trovano una loro collocazione. Probabilmente in una situazione del genere, nasce il dilemma: scappare o sopravvivere

Perchè non tentare quindi la strada virtuale in cui non vi è nessuna pressione, nessuna demarcazione biologica, dove tempo e spazio hanno un personale significato, al riparo da quella vergogna struggente, lontano  dallo sguardo dell’altro sesso, dal gruppo, dai coetanei.

Teo e Gaw in una rassegna del 2010 concludono sostenendo che il ritiro sociale grave o acuto potrebbe in futuro essere incluso nel DSM come una nuova psicopatologia a sé stante (Teo e Gaw, 2010).

Secondo il punto di vista di Piotti e Lupi quel che è certo è che l’apparenza e il successo sono valori di riferimento in un modello educativo sempre più diffuso. Molti adolescenti si sono trovati a fare i conti con idee grandiose rispetto al proprio Sè, con aspettative imponenti, con l’idea di essere dei bambini speciali e hanno avuto grandi difficoltà ad accettare le loro caratteristiche reali, umane e in quanto tali limitate.

Di fronte agli ideali di perfezione che vengono ulteriormente sottolineati dai mass-media il ragazzo fragile, che scarseggia di autostima si sente terribilmente inadeguato. Se l’idealizzazione è troppo elevata infatti non basta più essere carini o un pò sopra le righe, occorre essere perfetti e ogni valutazione che non corrisponde alla perfezione si traduce in bruttezza (Spiniello, Piotti, Comazzi).

Il senso di inadeguatezza spesso porta ad una sorta di ansia sociale e quindi quale strada migliore per nascondere il proprio corpo dallo sguardo degli altri percepiti come criticanti se non quello di rinchiuderlo in un angusto spazio, considerato ormai l’unica ancora di salvataggio? Il pensiero disfunzionale che si cela dietro, considera l’aspetto esteriore perennemente inadeguato e porta così a stati di ansia sociale che a loro volta si traducano in ritiro sociale e auto-esclusione.

La presa in carico in terapia di adolescenti ritirati socialmente

La presa in carico terapeutica di un adolescente che decide di sparire dal palcoscenico sociale e di rinchiudersi nella propria cameretta è un lavoro complesso e delicato (R.Spiniello, A.Quintavalle, 2015). Non è il ragazzo che si precipita dallo psicologo. Lui è  li dentro la stanza, impegnato a trovare strategie per rendere invisibile il proprio corpo alla società dei coetanei. A detta sua sta anche bene fra le mura domestiche avendo eliminato con la sua condizione da eremita proprio ciò che più teme: lo sguardo dell’altro. Sono i genitori ad essere allarmati. Ovviamente se il ragazzo non esce da casa sua, sarà lo psicologo a farlo: si allontanerà dalla sua scrivania, si metterà in gioco con il suo corpo, con le sue attitudini e competenze professionali e andrà a scovare il ragazzo lì dove si trova e inizierà a intessere con lui una relazione terapeutica costituita all’inizio da silenzi e rifiuti e successivamente da sguardi, parole e donazione di senso (R.Spiniello, A.Quintavalle, 2015).

Condurre il ragazzo fuori casa non è l’obiettivo principale di questo intervento domiciliare, quanto piuttosto quello di avere il permesso di stare insieme a lui nella stanza, entrare nel suo mondo, nell’immaginario, negli interessi carichi di significato (R.Spiniello, A.Quintavalle, 2015).

L’accompagnamento verso l’esterno avverrà successivamente quando il giovane sarà in grado di eseguire alcuni esercizi di esposizione: inizialmente facendo semplicemente una camminata, successivamente raggiungendo i negozi vicino casa e infine costruendo piccole relazioni sociali per poi lentamente reintegrarsi nella società. E’ necessaria anche una ristrutturazione cognitiva; si potrebbe lavorare sulla tendenza a denigrarsi o a valutarsi continuamente come inutile, inadeguato, indegno o sfortunato. Purtroppo questa tendenza all’ evitamento contribuisce a mantenere l’umore depresso, a rinchiudersi e non permette alla persona di sperimentare brevi stati mentali positivi, nè di constatare che in realtà non è così incapace come crede di essere. I pensieri, le convinzioni negative su di sè, sul mondo, sul futuro hanno un ruolo chiave nell’esordio e nel mantenimento di questo fenomeno.

La coppia scoppiata può tornare insieme?

La forza della terapia di coppia può risiedere proprio nella sua possibilità di accedere alle modalità in cui, un tempo, si sono intrecciate due personalità separate. Quando le coppie entrano nello studio del terapeuta, questi ha l’impressione di stare assistendo alla scena di un dramma, con un suo ritmo ed un suo contenuto, che viene rappresentato davanti ai suoi occhi.

 

I bisogni individuali prima della famiglia nella società odierna

Quando un amore va in acido e poi finisce, la domanda ricorre, soprattutto nei figli. Torneranno mai insieme mamma e papà? La risposta non è semplice. Non esistono statistiche ufficiali. Vi sono quelle delle separazioni e dei divorzi, ma non quelle delle riconciliazioni, che, probabilmente, sono ben più rare dei primi.

La psicoterapia di coppia, che potrebbe avere come obiettivo la riconciliazione coniugale, pur essendo praticata in tempi più lontani, è diventata oggetto specifico di interesse soltanto a partire dagli anni ’70, quando esplode il dramma della riuscita o del fallimento degli individui che fanno coppia e della coppia in quanto tale.

Fino a tempi relativamente recenti, la realizzazione di una persona, sia essa maschio o femmina, era legata al fare famiglia e all’avere una famiglia. Oggi le cose sono chiaramente cambiate e se di realizzazione si può parlare, è quella individuale ad essere principalmente perseguita. In primo piano vi sono ora le persone, con i propri sogni e bisogni e non più i ruoli da esse tradizionalmente ricoperti nella famiglia. A furia di perseguire gli interessi individuali e di concettualizzare il divorzio come “male minore” rispetto a una relazione falsa e conflittuale, nella quale i figli “soffrono di più”, si è giunti da più parti alla conclusione che la fine di un rapporto coniugale non è altro che una fase del ciclo di vita, da annoverare fra gli eventi normativi, un fatto-accadimento normale (Andolfi, M., Cigoli, V., 2003).

Il divorzio non è prerogativa della nostra civiltà, ma siamo solo noi ad averne fatto uno stile di vita, ad avanzare idee come “l’accordo prematrimoniale”, il divorzio “breve” o, per dirla con Lemaire (2002), il divorzio “all’acqua di rose”. Tuttavia la realtà è che il divorzio libera “forze aggressive drammatiche” (Andolfi, M., Cigoli, V., 2003) auto ed etero dirette e costituisce invariabilmente una transizione di vita assai complessa.

 

La terapia di coppia: una rappresentazione in vivo del conflitto coniugale

La forza della terapia di coppia può risiedere proprio nella sua possibilità di accedere alle modalità in cui, un tempo, si sono intrecciate due personalità separate. Piuttosto che cercare di sbrogliare la matassa motivazionale di ciascun partner, occorre creare un nuovo tessuto condiviso. Quando le coppie entrano nello studio del terapeuta, questi ha l’impressione di stare assistendo alla scena di un dramma, con un suo ritmo ed un suo contenuto, che viene rappresentato davanti ai suoi occhi.

Il dramma è di un genere specifico, comico o romantico, e la rappresentazione della coppia è resa possibile dalla presenza terapeutica. Considerare le coppie come attori di un dramma è un’utile metafora per riflettere sull’esperienza condivisa che una coppia, o una famiglia, porta al terapeuta. Le coppie e le famiglie arrivano dunque con un dramma in corso, con una storia che si sta svolgendo. Una caratteristica unica della terapia di coppia è che, a differenza del “parco giochi transferale” della terapia individuale di cui parla Freud, in cui l’analista rappresenta l’effige dell’oggetto assente, la coppia porta al terapeuta la relazione reale: i membri sono costretti dalla reciproca presenza a mettere in atto le loro interazioni consuete.

Le coppie che iniziano a descrivere un loro recente conflitto, spesso lo reinterpretano in favore del terapeuta/spettatore. Ciò che la terapia di coppia/familiare e il dramma hanno in comune non è soltanto la “finzione”, ma anche lo straordinario, infinito e ricorrente gioco fra ciò che è reale e ciò che è immaginario. Proprio come il teatro, anche le relazioni familiari e di coppia sono un misto di realtà e finzione. In qualità di regista, come notato anche da Andolfi (1981), il terapeuta porta avanti il dramma e spesso un lieve cambiamento nella storia o nella narrativa può comportare molti spostamenti della vita relazionale.

È qui che diviene evidente la creatività dell’intervento. I partner vengono incoraggiati a “recitare” con nuove possibilità in qualsiasi ambito: comportamentale, affettivo, ideativo. La coppia fa un’esperienza simile a quella degli attori in quanto, pur restando chi si è, ci si trasforma in qualcuno in parte sconosciuto, che si rifà però al sé familiare.

Così, mentre i partner si percepiscono come i personaggi di una storia, che sovrasta i loro sé individuali, il terapeuta fa da testimone o da spettatore di questa espansione. Nel presentare le interazioni e i pattern ridondanti a un testimone coinvolto, ma neutrale, la coppia avverte la possibilità di una nuova prospettiva, così come gli attori che, pur recitando lo stesso ruolo ogni sera, rispondono alle sottili reazioni del pubblico.

 

La psicoeducazione nella terapia di coppia

Seguendo un approccio psicoeducativo, si può affermare che le coppie più disfunzionali si mostrano fondamentalmente disinformate su quali siano gli ingredienti di una relazione sana (Chambers, 2012). La psicoeducazione di coppia deve essere dunque mirata a fornire ai partner, ove ne fossero sprovvisti, informazioni basilari, come nella tradizione psicoeducativa, sulle caratteristiche, individuali e duali, di una relazione di coppia funzionale; ma non può limitarsi a questo, pena un’assoluta inefficacia, bensì deve focalizzarsi anche sull’hic et nunc della coppia, sugli ostacoli di ordine pratico che ne impediscono la funzionalità, sulla comunicazione coniugale ma anche parentale e familiare, sulle cognizioni e/o emozioni disfunzionali di ciascun partner, sugli altri sistemi e sotto-sistemi familiari, organizzativi e sociali che influiscono sulla coppia.

Vi è poi la psicoeducazione alla comunicazione, il cui scopo è quello di aiutare la coppia ad accrescere l’empatia reciproca e la “connessione”, vale a dire la capacità di sentirsi in sintonia con il coniuge. Secondo Lukas (1987), «la famiglia è tanto più sana e stabile quanto più i singoli familiari sono in grado di accordare le funzioni che adempiono in seno alla famiglia alle condizioni degli altri membri».

 

La coppia armonica e l’importanza di gestire il conflitto

Per un sano sviluppo dei membri è molto importante che sia presente in famiglia una coppia armonica, capace di fronteggiare le situazioni in una maniera unitaria e funzionale. Una coppia sta bene quando «riesce ad adattarsi alle esigenze connesse con il processo evolutivo dei due individui che la compongono; non solo adattarsi, ma favorirne lo sviluppo. Ciò avviene quando ciascuno è in grado di utilizzare lo scambio con l’altro in una prospettiva evolutiva che li riguardi entrambi» (Andolfi, 1999). Il momento di grande maturazione è legato alla capacità di guardare l’altro al di là di se stesso. In tal senso, imparare a guardare l’altro nella coppia significa imparare a vedere se stessi (Altomonte, 2016). In tale prospettiva, «ogni familiare è risorsa per la crescita personale di sé e dell’altro e, d’altra parte, la crescita personale di ciascuno è obiettivo per sé e per l’altro» (Bellantoni, 2010).

La coppia armonica, di conseguenza, non è quella che non vive mai la dimensione del conflitto, ma è quella che sa gestirlo, quella che sa plasmarsi a seconda delle situazioni e degli eventi, senza mai perdere di vista la crescita propria e della propria famiglia. Per fare ciò non bisogna mai dimenticare il pensiero di Frankl (2001): «La porta della felicità si apre solo verso l’esterno; chi tenta di forzarla in senso contrario, finisce per chiuderla ancora di più. Chi insegue la felicità non fa che allontanarla di più, chi dà la caccia al piacere non ottiene che di farlo fuggire più lontano». L’armonia non è qualcosa che va ricercato all’interno di sé, ma va colto nell’altro. Con queste premesse il “noi” ne trarrà beneficio. Una coppia armonica sarà predittiva e propedeutica ad una maggiore possibilità di un “essere educante” coeso, unitario, in favore della prole (Altomonte, 2016).

Ciò che impariamo oggi influenza i nostri apprendimenti futuri

Lo studio, condotto da Matthew Shapiro, Professore di Neuroscienze presso la Scuola di Medicina Icahn, ha indagato la flessibilità ed interferenza della memoria, approfondendo i meccanismi attraverso i quali il cervello interpreta gli eventi ed anticipa i loro possibili risvolti.

 

I ricordi depositati in memoria influenzano l’apprendimento di nuove informazioni

La nostra corteccia prefrontale influenza la formazione dei ricordi modulando l’attività dell’ippocampo, una struttura cruciale per la memoria. I neuroni della corteccia prefrontale “insegnano” ai neuroni dell’ippocampo ad identificare informazioni nuove lasciandosi guidare da predizioni che si basano su informazioni analoghe depositate in memoria. In poche parole, ciò che si impara nel presente guiderà i futuri apprendimenti, secondo quanto emerso nella ricerca condotta presso la Scuola di Medicina Icahn sita all’Ospedale di Mount Sinai (New York City) e pubblicata sulla rivista Neuron.

 

Le aree cerebrali coinvolte nei processi di memorizzazione

Lo studio, condotto da Matthew Shapiro, Professore di Neuroscienze presso la Scuola di Medicina Icahn, ha indagato la flessibilità ed interferenza della memoria, approfondendo i meccanismi attraverso i quali il cervello interpreta gli eventi ed anticipa i loro possibili risvolti.

L’ippocampo è una struttura del lobo temporale necessaria per ricordare eventi recenti: ad esempio, il luogo dell’ultimo pasto. La corteccia prefrontale è, invece, la sede dove il cervello utilizza il contesto per scegliere tra più alternative sulla base di regole apprese, come ad esempio sapere che prima di attraversare la strada di norma bisogna guardare prima a sinistra e poi a destra, ma che, al contrario, bisogna guardare prima a destra e poi a sinistra se ci si trova in Gran Bretagna. Senza queste regole, i ricordi interferirebbero gli uni con gli altri e le predizioni basate sulla memoria risulterebbero inaccurate.

In condizioni non patologiche, gli individui confrontano rapidamente i loro ricordi con gli obiettivi presenti nell’ambiente per scegliere, in modo coerente, il susseguirsi delle azioni da mettere in pratica. Questa flessibilità cognitiva richiede un’interazione tra la corteccia prefrontale e l’ippocampo.

Ricerche precedenti hanno indicato che le interazioni tra queste due regioni cerebrali sono danneggiate in molte patologie neuropsichiatriche, quali schizofreniadepressione e disturbo da deficit dell’attenzione, senza però chiarire i meccanismi che le regolano.

[blockquote style=”1″]Volevamo capire come il nostro cervello impari a pensare prima e quali siano i meccanismi che utilizzano il contesto per richiamare eventi, predire possibili risultati e prendere delle decisioni. Ad esempio, come può il cervello sapere che si risponde ad un telefono che squilla se si è a casa propria, ma non lo si fa a casa di altri?[/blockquote] ha affermato il Dr. Shapiro.

Noi abbiamo scoperto che le regole segnalate dalla corteccia prefontale mediale insegnano all’ippocampo a distinguere gli obiettivi. Sapevamo già che le cellule dell’ippocampo predicono quale memoria utilizzare attraverso una codifica della situazione, mandando impulsi a varie frequenze. Abbiamo però imparato che rendere inattiva la corteccia prefrontale riduce la codifica della situazione da parte dell’ippocampo. Inoltre, più la corteccia prefrontale altera l’attività ippocampale, più velocemente si passa alla regola successiva.”

Il nuovo meccanismo scoperto da questo studio potrebbe migliorare la comprensione di determinate condizioni psichiatriche concernenti le interazioni tra la corteccia prefrontale e l’ippocampo e contribuire alla creazione di nuovi trattamenti ad hoc. Un’altra ricerca sta investigando se gli stessi meccanismi descritti in questo studio esistono anche tra l’ippocampo e altre strutture prefrontali.

L’uso delle tecniche di neuroimmagine nella scelta del trattamento della depressione

L’utilizzo di tecniche di neuroimmagine volte alla misurazione del livello di connettività funzionale tra diverse aree sarebbero utili per l’identificazione della migliore linea di intervento nel trattamento della Depressione.

 

 

In un recente studio, Dunlop e collaboratori della Emory University School of Medicine di Atlanta hanno evidenziato, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), come la presenza di un’attivazione cerebrale ben specifica a livello della corteccia cingolata subcallosale (SCC) possa aiutare i clinici ad identificare la tipologia di intervento migliore, tra psicoterapia e antidepressivi, per persone affette da depressione.

La corteccia cingolata subcallosale è una porzione della corteccia cingolata anteriore (ACC), area da tempo nota per le vaste interconnessioni con aree quali insula, corteccia prefrontale, amigdala, ipotalamo e tronco encefalico, che la rendono un’area estremamente importante per quanto riguarda la funzionalità del sistema simpatico e parasimpatico, in quanto deputata, tra le altre cose, alla connotazione emotiva degli stimoli in entrata, all’elaborazione delle emozioni e all’integrazione di aspetti cognitivi, emotivi e comportamentali.

 

Tecniche di neuroimmagine per la scelta del trattamento della depressione: lo studio PReDICT

Inizialmente lo studio, denominato PReDICT (Predictors of remission in depression to individual and combined treatments; Dunlop et al., 2012), aveva coinvolto un campione di 400 persone tra i 18 e i 65 anni che, nonostante soddisfacessero i criteri per un Disturbo Depressivo Maggiore (DDM), non erano mai stati curati per un disturbo dell’umore. I soggetti partecipanti erano quindi stati assegnati in modo randomico ad un trattamento di 12 settimane di tipo farmacologico con antidepressivi (Duloxetina o Escitalopram) o ad una psicoterapia di orientamento cognitivo-comportamentale (CBT, 16 sessioni).

All’inizio dello studio, prima dell’assegnazione ad uno dei due trattamenti, i partecipanti erano stati sottoposti ad una valutazione di tipo biologico comprensiva, tra i vari testi, anche di una scansione cerebrale di tipo funzionale (fMRI). La valutazione è stata poi ripetuta alla fine delle 12 settimane.

Una volta trascorso il periodo iniziale di trattamento, i soggetti in via di remissione hanno preso parte ad una seconda fase di follow-up, costituita da 7 incontri a cadenza trimestrale, per tenere sotto controllo eventuali ricadute. Diversamente, ai soggetti che non mostravano miglioramenti apprezzabili, veniva proposto, indipendentemente dal gruppo di appartenenza iniziale, di prendere parte ad un trattamento incrementale, dato dalla combinazione di CBT e antidepressivi, per ulteriori 12 settimane.

Le tecniche di neuroimmagine utilizzate, scansioni fMRI, sono così state utilizzate come punto di partenza per poter valutare la presenza o meno di differenze nell’attivazione cerebrale sulla base del tipo di trattamento ricevuto e dell’esito (remissione sintomatologica vs. mancanza di remissione).

Dalle analisi è così stato possibile notare come il grado di connettività funzionale della SCC con altre tre aree cerebrali (corteccia prefrontale ventrolaterale anteriore sinistra/insula, corteccia prefrontale ventromediale sinistra e mesencefalo dorsale) sembri essere associato all’esito del trattamento. Nel complesso, una connettività funzionale positiva (il segno della connettività complessiva è dato dalla somma delle connettività funzionali tra la SCC e le altre tre aree prese singolarmente) tra la SCC e le altre aree sembra essere associata ad una remissione sintomatologica in caso di psicoterapia, ma ad una mancanza di efficacia del trattamento farmacologico. D’altro canto, una connettività funzionale negativa sembra associarsi ad una remissione in seguito all’assunzione di antidepressivi e ad una mancanza di efficacia della CBT.

Gli autori affermano quindi che, così come esistono diverse tipologie di cancro, esistono anche diversi tipi di depressione che richiedono cure altrettanto differenziate e specifiche. Sulla base di quanto emerso recentemente, sembra che le tecniche di neuroimmagine, nella fattispecie la risonanza magnetica funzionale, possano essere utilizzate proprio per operare questa differenziazione.

Sulla base della scansione cerebrale sarebbe così possibile abbinare in modo efficace le diverse tipologie di pazienti affetti da depressione con i trattamenti per loro più efficaci, evitando al contempo quei trattamenti che difficilmente potrebbero apportare qualche beneficio.

Attualmente, le linee guida per il trattamento della depressione in adulti dai 18 anni in su affermano che la scelta della modalità di cura dovrebbe tenere in considerazione i bisogni e anche le preferenze dei pazienti. In questo senso, i pazienti affetti da depressione dovrebbero avere l’opportunità di prendere decisioni consapevoli circa il proprio trattamento (NICE, 2009). Nonostante questo, però, Dunlop e collaboratori hanno potuto notare come le preferenze di trattamento dei pazienti, così come l’età, il genere o la provenienza culturale (ad es. ispanica, afroamericana, …), siano solo debolmente associate all’esito; più che il livello di miglioramento sintomatologico, le preferenze sembrerebbero essere in grado di predire in modo statisticamente significativo il drop-out al trattamento.

In conclusione, più che fare affidamento sugli specifici sintomi o sulle preferenze dei pazienti, sembra essere estremamente rilevante, nella scelta di un trattamento che sia il più possibile personalizzato e tailored, l’identificazione di caratteristiche biologiche e neurofunzionali ben specifiche.

Quanto messo in evidenza da Dunlop e collaboratori risulta essere in linea con quanto già ottenuto precedentemente da Kozel e collaboratori dell’Università del Texas.

 

Il reminiscing nella diade genitore-bambino: condividere esperienze vissute assieme

Discutere di esperienze passate, che hanno visto coinvolta la diade, è un’attività frequente che ha inizio durante l’età prescolare e risulta essere un’attività comune all’interno dei contesti familiari (Nelson, 1996). A tal proposito, tra i diversi tipi di conversazioni diadiche assume particolare rilievo il reminiscing, conversazione tra bambino e caregiver riguardante eventi del passato vissuti insieme (Reese & Brown, 2000).

Laura Guidotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Lo sviluppo del bambino nei primi anni di vita

I primi anni di vita del bambino hanno un’importanza fondamentale per l’acquisizione e il consolidamento di abilità fisiche, cognitive e socio-emotive (Wareham & Solmon, 2006). In particolare, durante l’età prescolare, emergono importanti capacità nel bambino, quali: consapevolezza di sé, capacità narrativa e competenza emotiva. Lo sviluppo di tali abilità consente al bambino di instaurare relazioni significative nel contesto di appartenenza e di collocare la propria persona in relazione agli altri.

Proprio durante questo periodo di vita genitori e bambini cominciano, in maniera sempre più frequente, ad intavolare conversazioni tra di loro su vari aspetti della vita quotidiana vissuti insieme. A tal proposito, un assunto fondamentale della psicologia dello sviluppo riguarda il fatto che le interazioni genitore-bambino, in generale, e le conversazioni diadiche tra essi, in modo più specifico, costituiscono un importante contesto di sviluppo (Fivush, 2007; Laible & Song, 2006). Questa idea è radicata in diverse formulazioni teoriche, ma soprattutto nella teoria socio-culturale di Vygotskji (1978), il quale sosteneva che tutte le abilità si sviluppano innanzitutto sul piano interpersonale nelle interazioni tra genitori e bambini piccoli. Tale assunto è stato ripreso da Bruner (1990), il quale  ha analizzato le relazioni sociali che il bambino stabilisce precocemente con chi si prende cura di lui, sottolineando come i processi mentali del bambino abbiano un fondamento sociale.

In linea con tali prospettive teoriche le conversazioni riguardanti gli stati interni come, ad esempio, emozioni, desideri e valutazioni rivestono un ruolo importante nello sviluppo di competenze socio-cognitive, tra cui la teoria della mente (Adrián, Clemente, & Villanueva, 2007; Reese & Cleveland, 2006), la competenza emotiva (Taumoepeau & Ruffman, 2006), i comportamenti pro-sociali e le relazioni positive (Laible, 2004), oltre ad una maggior comprensione di sé (Reese, Bird, & Tripp, 2007; Welch-Ross, Fasig, & Farrar, 1999).

Le conversazioni sono favorite dallo sviluppo della competenza linguistica e narrativa del bambino che gli consentono di narrare e organizzare le proprie memorie, imparando forme adeguate per raccontare la propria esperienza e per rappresentarla a se stesso (Bruner, 1990; Fivush, 1993).  Inoltre, è importante sottolineare come durante le conversazioni il bambino non sia passivo, bensì attivo nella costruzione di una narrazione condivisa.

Il reminiscing: discutere di esperienze passate vissute dal bambino e il caregiver

Discutere di esperienze passate, che hanno visto coinvolta la diade, è un’attività frequente che ha inizio durante l’età prescolare e risulta essere un’attività comune all’interno dei contesti familiari (Nelson, 1996). A tal proposito, tra i diversi tipi di conversazioni diadiche assume particolare rilievo il reminiscing, conversazione tra bambino e caregiver riguardante eventi del passato vissuti insieme (Reese & Brown, 2000).

A partire dagli anni ’90 del XX secolo lo studio del reminiscing è stato affrontato da molti studiosi, i quali si sono focalizzati prevalentemente sulle conversazioni tra bambini di età prescolare e le loro madri. Nonostante ciò, seppur siano numericamente inferiori, sono presenti anche lavori che analizzano lo stile di reminiscing paterno, evidenziando differenze e analogie rispetto a quello materno, soprattutto relativamente ad aspetti emotivi contenuti nelle conversazioni sul passato (Fivush, Brotman, Buckner, & Goodman, 2000; Fivush & Buckner, 2003; Reese, Haden, & Fivush, 1996).

Per quanto riguarda il reminiscing è presente una ricca letteratura, che evidenzia come esso sia un contesto importante per lo sviluppo di diverse competenze nel bambino, tra cui memoria autobiografica, competenza emotiva e conoscenza di sé (Fivush, Haden, & Reese, 2006). Esso permette al bambino di affrontare esperienze emotive, anche con valenza negativa (Fivush, 2011; Laible, 2004; Reese & Cleveland, 2006; Sales & Fivush, 2005), favorendo una condizione di benessere emotivo e psicologico.

Stili materni di reminiscing

Le conversazioni riguardanti eventi vissuti insieme dalla diade madre-bambino possono diventare attività di routine, tuttavia vi sono sostanziali differenze individuali nel modo in cui le madri guidano e strutturano l’interazione con il proprio bambino. A tal proposito, gli studi presenti in letteratura hanno approfondito l’analisi dei diversi stili di reminiscing che le madri adottano nelle conversazioni con i loro figli. Attualmente in letteratura gli autori tendono a collocare le modalità di conduzione del reminiscing lungo un continuum che permette di differenziare tra stili più o meno elaborativi (Fivush et al., 2006; Nelson & Fivush, 2004). Nello specifico, madri solite utilizzare uno stile di reminiscing definito scarsamente elaborativo tendono ad attuare con i loro bambini conversazioni ripetitive, corte, caratterizzate da poche domande che risultano essere ridondanti. Il bambino coinvolto in tale tipo di conversazione viene scarsamente incoraggiato a fornire il proprio contributo allo scambio conversazionale.

Al contrario, la letteratura evidenzia come risulti maggiormente funzionale e adattivo per lo sviluppo di diverse competenze nel bambino l’impiego di interazioni linguistiche caratterizzate da uno stile di reminiscing altamente elaborativo ed emotivo. Tale stile risulta caratterizzato da un uso elevato di domande, descrizioni dettagliate degli eventi, presenza di informazioni contestuali, focalizzazione su aspetti emotivi e di valutazione di eventi passati, oltre ad un ampliamento e approfondimento dei contenuti. Tutto ciò risulta favorevole ad espandere il contributo apportato dal bambino nella conversazione diadica. Inoltre, l’impiego di uno stile di reminiscing maggiormente elaborativo favorisce nel bambino lo sviluppo di alcune competenze tra cui: memoria autobiografica, capacità linguistico-narrativa, comprensione del Sé e competenza socio-emotiva.

Memoria autobiografica

Gli studi iniziali sul reminiscing hanno incentrato l’attenzione sul legame tra tale costrutto e  la memoria autobiografica (Nelson & Fivush, 2004), la quale consiste nell’insieme di ricordi attribuiti a sé che identificano la storia personale dell’individuo (Fivush et al., 2006). Essa possiede un valore adattivo poiché permette di conservare conoscenze relative alle esperienze passate che guidano il modo di agire nel mondo (Pillemer, 1998; Conway & Pleydell-Pearce, 2000). Bambini di 3-4 anni mostrano differenze individuali nel modo in cui riportano le loro memorie autobiografiche e uno dei fattori che contribuisce maggiormente nel caratterizzare la variabilità individuale è la qualità del supporto che essi ricevono nelle conversazioni con i genitori, in modo particolare la madre (Nelson & Fivush, 2004). A tal proposito, un’ampia letteratura evidenzia come le conversazioni madre-bambino su eventi passati, se condotte con stile elaborativo, facilitino la memoria autobiografica di quest’ultimo (Fivush, 2011; Fivush et al., 2006). In particolare, vengono favoriti il ricordo autonomo degli eventi e la capacità di organizzarli in sequenze più complesse (Fivush, 2007), la capacità di immagazzinare i ricordi personali (Wareham & Salmon, 2006) ricordando in modo più ricco e specifico gli eventi stessi (Valentino et al., 2014).

Inoltre, i bambini hanno maggiori probabilità di ricordare successivamente un evento se sono stati coinvolti attivamente nell’elaborazione di tale ricordo (McGuigan & Salmon, 2004; Ornstein, Haden, & Hedrick, 2004). McGuigan e Salmon (2004)  hanno rilevato come una conversazione elaborativa successivamente ad un evento si riveli maggiormente efficace nell’aumentare l’ampiezza della memoria verbale dei bambini rispetto ad una conversazione elaborativa intrattenuta prima e durante l’evento. Essa aiuta il bambino ad effettuare una ricca codifica dell’evento, permettendogli di porre maggior attenzione sui dettagli (Boland, Haden, & Ornstein, 2003) e sulle conseguenze di un avvenimento (McGuigan & Salmon, 2004). Infatti, solo successivamente il genitore dispone del tempo necessario per creare un racconto elaborativo ed emotivo su ciò che è successo, influenzando la memoria del bambino anche a livello di rappresentazioni.  Pertanto l’interazione madre-bambino durante la pratica di reminiscing, riveste un ruolo importante nello sviluppo di abilità necessarie a creare la propria storia di vita (Fivush et al., 2006).

Capacità linguistico-narrativa

La tendenza da parte delle madri ad adottare uno stile di reminiscing più elaborativo e basato su affermazioni che stabiliscono nessi tra eventi narrati facilita nei bambini lo sviluppo di abilità linguistiche più complesse, tra cui la conoscenza semantica, sintattica e di vocabolario (Beals, 2001) ed una maggiore consapevolezza fonologica (Leyva, Sparks, & Reese, 2012). Inoltre, i bambini coinvolti nel reminiscing elaborativo contribuiscono attivamente a fornire un  numero maggiore di informazioni nelle conversazioni (Cleveland & Reese, 2005; Fivush et al., 2006; Leichtman, Pillemer, Wang, Koreishi, & Han 2000), e mostrano, nel corso dello sviluppo, migliori capacità narrative (Fivush & Fromhoff, 1988; Peterson & McCabe 2004; Peterson, Jesso, & McCabe, 1999; Reese, Yan, Jack, & Hayne, 2010) e più alti livelli di comprensione e utilizzo del linguaggio emotivo (Bird & Reese, 2006; Sales & Fivush, 2005).

Conoscenza di Sè

La letteratura sul reminiscing evidenzia come tale pratica sia un importante contesto di sviluppo per la comprensione e definizione del sè nel bambino (Fivush, Berlin, Sales, Mennuti- Washburn, & Cassidy, 2003; Fivush, 2008). Egli, attraverso le conversazioni su eventi del proprio passato e l’attenzione posta ai propri stati interni ed emotivi (Eder & Mangelsdorf, 1997; Shiner, 2010), acquisisce una maggior consapevolezza di sé. È nel ricordo condiviso che il bambino è supportato dal genitore ad organizzare gli eventi e ad attribuirvi un significato rispetto al sé e alla cultura di appartenenza e a collocarsi nel tempo e nella relazione con gli altri. Fivush e Haden (2005) sottolineano come siano i riferimenti elaborativi che i genitori fanno agli stati mentali e alle emozioni, che permettono al bambino di inserire gli accadimenti all’interno della propria storia personale favorendo un senso soggettivo del sé più complesso e coerente (Bird, Reese, & Tripp, 2006; Fivush et al., 2006). Inoltre, viene favorita la capacità di pensare a sé e agli altri in un’ottica temporalmente estesa (Fivush & Nelson, 2006).

Competenza emotiva

L’area della competenza emotiva costituisce un ambito particolarmente saliente rispetto a cui è stato studiato il reminiscing (Fivush, 2007; van Bergen, & Salmon, 2010).

Complessivamente, la letteratura evidenzia come lo stile di reminiscing materno sia un forte predittore dello sviluppo socio-emotivo del bambino (Bohanek, Marin, & Fivush, 2008; Laible, 2004; Laible & Song, 2006; Reese & Cleveland, 2006). Infatti, un aspetto importante del ricordo condiviso tra mamma e bambino riguarda il fatto che tale interazione si rivela ricca di contenuti emotivi (Fivush & Buckner, 2003). Queste conversazioni influiscono sul linguaggio emotivo adottato dal bambino, sulla comprensione che esso ha del significato delle emozioni e, complessivamente, migliorano la sua capacità di regolazione emotiva (Fivush, 1993; Laible, 2011; Laible & Panfile, 2009; van Bergen, Salmon, Dadds, & Allen, 2009). I bambini possono imparare come discutere sulle emozioni proprio in queste prime conversazioni con i genitori (Dunn, Bretherton, & Munn, 1987). Essi, infatti, possono fornire un valido aiuto nel chiarire le cause delle emozioni e il ruolo che esse giocano all’interno delle relazioni, oltre a fornire informazioni sul modo di fronteggiarle in maniera adeguata (Denham, Zoller, & Couchoud, 1994; Laible & Panfile, 2009).

Alcuni studi hanno incentrato l’attenzione sul significato emotivo del ricordo condiviso, distinguendo tra eventi positivi ed eventi negativi. Laible (2011) evidenzia come sia soprattutto nel ricordo congiunto di eventi emotivamente negativi o spiacevoli che la conversazione diadica madre-bambino si arricchisce di contenuti emotivi, riferimenti agli stati interni, cause che hanno portato a sperimentare una determinata emozione e conseguenze (Nolivos & Levya, 2013) favorendo lo sviluppo socio-emotivo nel suo complesso. Tali evidenze mostrano come l’adulto, utilizzando uno stile di reminiscing emotivo, oltre che elaborativo, può aiutare il bambino ad affrontare meglio eventi emotivamente spiacevoli, o addirittura stressanti favorendo nel bambino abilità di coping adattive (Sales & Fivush, 2005) .

Conclusioni

L’obiettivo del presente elaborato è stato quello di approfondire le principali abilità che vengono favorite e potenziate dall’utilizzo da parte del caregiver di un reminiscing elaborativo.

La letteratura sottolinea come lo stile materno di reminiscing presenti differenze individuali dal momento che esso si dipana lungo un continuum che vede agli estremi uno stile altamente elaborativo, da un lato, e scarsamente elaborativo dall’altro, risultando anche influenzato dalla cultura di appartenenza del genitore. I risultati emersi evidenziano l’importanza dell’utilizzo da parte della madre, di uno stile elaborativo di reminiscing nel favorire lo sviluppo di diverse abilità tra cui memoria autobiografica, competenze narrative, linguistiche e socio-emotive dei bambini, soprattutto di età prescolare. Le conversazioni a contenuto emotivo rivestono importanti funzioni psicosociali. Esse intensificano la consapevolezza di sé da parte del bambino, rafforzano il suo legame sociale con gli altri significativi, insegnano modi efficaci di affrontare esperienze emotive, oltre a rafforzare ulteriormente il legame tra memoria autobiografica e concetto di sé (Ackil, Van Abbema, & Bauer, 2003; Farrar, Fasig, & Welch-Ross, 1997; Fivush, 1993; Fivush et al., 2003). Pertanto, l’adozione da parte del caregiver di uno stile di reminiscing elaborativo ed emotivo si rivela una pratica utile nel favorire diverse abilità nel bambino apportando importanti benefici. Infine, è utile sottolineare come tale pratica rafforzi anche l’interazione e la relazione tra caregiver e bambino.

Madre schizofrenogena e stato assistenziale: quali i punti in comune?

Il doppio legame indica l’incongruenza tra il livello verbale e non verbale nella comunicazione tra due persone coinvolte in una relazione emotivamente significativa, facendo un ragionamento in senso lato è possibile parlare dell’esistenza di un doppio legame nel rapporto dello Stato assistenziale con i cittadini?

 

Il doppio legame e la madre schizofrenogena in psicologia

Il doppio legame, concetto elaborato dall’antropologo, sociologo e psicologo britannico Gregory Bateson (1904-1980) indica l’incongruenza tra il livello verbale e non verbale nella comunicazione che avviene tra due persone coinvolte in una relazione emotivamente significativa.

Segue un esempio riportato dallo stesso Bateson, che rende meglio comprensibile la teoria sopra esposta: un ragazzo con disturbi mentali torna a casa dopo un periodo di ricovero e in uno slancio d’affetto tenta di abbracciare la madre; quest’ultima si irrigidisce facendo ritrarre il figlio. Ciò che la madre dice al figlio è: “Non devi aver paura ad esprimere i tuoi sentimenti”.

Risulta evidente l’incoerenza della modalità comunicativa della madre che se al livello non verbale esprime rifiuto attraverso l’irrigidimento fisico, a livello verbale nega di essere la responsabile della reazione di allontanamento del figlio, attribuendone a lui la responsabilità. La comunicazione disfunzionale della madre non lascia spazio di risposta al figlio che trovandosi esposto continuamente a messaggi contraddittori di questo tipo diviene incapace di comprendere correttamente i legami esistenti tra i due livelli della comunicazione.

Una madre di questo tipo viene definita “madre schizofrenogena”, in quanto il suo schema comunicativo disfunzionale associato ad un’eventuale vulnerabilità biologica del figlio, possono predisporre quest’ultimo a sviluppare la schizofrenia.

 

Il doppio legame nel rapporto tra Stato assistenziale e cittadini: tra Gioco d’Azzardo Patologico e tabacco

Alla luce del concetto sopra esposto, e facendo un ragionamento in senso lato è possibile parlare dell’esistenza di un doppio legame nel rapporto dello Stato assistenziale con i cittadini?

L’art. 32, comma 1, della Costituzione stabilisce che “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti”. Va osservato che “il diritto alla salute comporta anche il diritto alla salubrità dell’ambiente poiché la prevenzione di varie patologie impone di eliminare le cause dell’inquinamento ambientale”.

Nel 1946 l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha definito la salute come “lo stato di benessere fisico, psichico e sociale, e non semplice assenza di malattia”. La salute così intesa è oggetto di specifica tutela da parte dello Stato.

Tutelare la salute quindi, non significa solamente curare le malattie manifeste ma prevenirne l’insorgenza. Oggi infatti si sente sempre più spesso parlare di promozione e prevenzione della salute al fine di ridurre la spesa sanitaria nazionale attraverso un minor ricorso alle prestazioni sanitarie.

Per le patologie legate all’abuso e alla dipendenza di droghe o di comportamenti compulsivi, per esempio, sono stati istituiti dalla legge 162/90, dei servizi pubblici afferenti al Sistema Sanitario Nazionale italiano; questi servizi dedicati alla cura, alla prevenzione e alla riabilitazione delle patologie da dipendenza, sono nominati SerT (Servizi per le Tossicodipendenze) o, dicitura più recente, SerD (Servizi per le Dipendenze).

In alcune regioni i SerT hanno istituito specifiche équipe composte da medici, psicologi, assistenti sociali, educatori e infermieri che si occupano nello specifico di diagnosi e cura del gioco d’azzardo patologico.

Il gioco d’azzardo patologico definito anche “Gambling patologico” è un disturbo molto vicino alla tossicodipendenza, tanto da essere stato inserito nel DSM-5 all’interno del capitolo delle Dipendenze (Substance-Related and Addictive Disorders). Per questo motivo in Italia, il 13 gennaio 2017 sono stati aggiornati i Livelli essenziali di assistenza (LEA), che hanno incluso anche i trattamenti per il gioco d’azzardo.

Il giocatore d’azzardo patologico mostra una crescente dipendenza nei confronti del gioco d’azzardo; egli aumenta di volta in volta la frequenza delle giocate e i soldi investiti, nell’illusoria speranza di recuperare i soldi persi nelle giocate precedenti.

Basta fare un giro per la città per rendersi conto di quanto i Centri Scommesse abbiano reso questo fenomeno dilagante, diventando luoghi fertili allo sviluppo dei disturbi da dipendenza. Tra una giocata e l’altra, uomini e donne di ogni età con i segni del fumo sul viso ingiallito, stanno all’entrata ad aspirare compulsivamente sigarette di tabacco, per poi rientrare e continuare a riempire di monete le macchinette mangiasoldi.

Questi centri, che sono anche Tabaccherie, elogiano con frasi “achiappa-clienti” le varie tipologie di tabacco disponibili, diverse per fragranza e taglio, ma è quando si legge subito sotto l’avviso della nocività del prodotto che si resta interdetti e ingabbiati in una sensazione di assoluta illogicità. Frasi minacciose e immagini shock anti-fumo tentano di scoraggiare l’acquisto del prodotto, al quale viene dato comunque libero accesso alla fruizione; inoltre tra le diverse sostanze tossiche contenute nelle sigarette è presente la nicotina, sostanza stupefacente che provoca dipendenza.

Ma per tornare alla domanda iniziale, quali sono gli anelli di congiunzione che rendono possibile applicare la teoria del doppio legame al rapporto intercorrente tra lo Stato assistenziale e i cittadini?

In primo luogo è importante osservare il paradosso, che se nel caso della comunicazione madre-figlio si traduce con l’incoerenza dei livelli verbale e non verbale, nel rapporto tra Stato assistenziale e cittadini si rileva nella sconnessione dell’ideologia costituzionale dalla prassi statale; in secondo luogo è invece evidente la deresponsabilizzazione, che se nel primo caso ha a che fare con l’atteggiamento della madre di attribuire al figlio la responsabilità di un comportamento che è da lei stessa provocato, nel secondo ha a che fare con la scelta dello Stato di avvisare i cittadini sulla pericolosità di certe abitudini che però è lui stesso a favorire, lasciando libero accesso a prodotti e situazioni che provocano dipendenza, soprattutto nelle persone prediposte geneticamente a svilupparla.

cancel