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Quando il paziente si innamora dell’analista: osservazioni sull’ amore di transfert

La generica definizione di amore di transfert rimanda a una lunga serie di questioni che da sempre hanno riguardato la tradizione psicoanalitica.

 

Etchegoyen (1986) al riguardo afferma che:

In ogni analisi devono esistere momenti d’amore, di innamoramento, poiché la cura riproduce le relazioni d’oggetto della triade edipica, ed è pertanto inevitabile (e salutare) che ciò avvenga (p. 184).

Anche se questo è ben presente e in un certo modo atteso dall’analista, perché appunto la cognizione che l’evento accada è fortissima, tuttavia c’è una particolare sfumatura che desta nel terapeuta problematiche complesse.

L’ amore di transfert che maggiormente preoccupa ogni analista è quello che, per la sua improvvisa apparizione, per la sua tenacia, per la sua intenzione distruttiva e per l’intolleranza alla frustrazione che lo accompagna, sembra capace di portare l’analisi a un punto di rottura.

 

L’ amore di transfert tra veicolo di guarigione e pericolo per la terapia

Precocemente nella pratica analitica Freud si trovò alle prese con le potenti forze dell’ amore che si attivano tra paziente e analista. In una celebre lettera del 1906 indirizzata a Jung, Freud colloca inequivocabilmente l’amore al centro della riflessione sull’azione terapeutica:

Si tratta propriamente di una guarigione mediante l’amore (Citazione in McQuire 1974, p. 3).

Il fondatore della psicoanalisi non intendeva, ovviamente, che fosse l’ amore dell’analista a guarire la paziente, mentre appariva chiaro che per lui il veicolo della guarigione stava nell’ amore di transfert. Nella stessa lettera confidava all’illustre interlocutore:

A Lei non sarà sfuggito che le nostre guarigioni avvengono mediante la fissazione di una libido che domina nell’inconscio (traslazione), che s’incontra con la maggior probabilità nell’isteria. È questa che fornisce la forza motrice per afferrare e tradurre l’inconscio; quando essa si rifiuta, il paziente non si sottomette a tale fatica o non dà ascolto se noi gli presentiamo la traduzione che abbiamo trovato (Citazione in McQuire 1974 p. 14-15).

Tuttavia Freud scorgeva nell’ amore di transfert anche un lato oscuro in grado di opporre al trattamento un ostacolo formidabile. Già anni prima aveva sottolineato come la paziente potesse essere presa “dal timore di abituarsi troppo alla figura del medico, di perdere la propria indipendenza nei suoi confronti, e persino di poterne dipendere sessualmente” (Freud 1892-1895, p. 437) collegando questo particolare ostacolo alla “natura della sollecitudine terapeutica” (ibidem).

Per sollecitudine terapeutica Freud intendeva l’ascolto attento e interessato da parte dell’analista verso i contenuti mentali della paziente e questo avrebbe potuto sollecitare in lei una sorta di innamoramento.

Alcuni anni dopo, quando apparvero gli scritti sulla tecnica, Freud sembrava aver modificato la propria posizione sull’attrazione erotica come veicolo di cura: soltanto il transfert cosciente, il transfert positivo ineccepibile, è alleato del trattamento. Il transfert erotico veniva relegato, insieme al transfert negativo, tra i due tipi di transfert inconsci che rappresentano una resistenza al trattamento (Freud 1912).

L’incertezza di Freud sul tema dava adito a molte domande pertinenti: l’ amore di transfert era una resistenza o un veicolo di guarigione? Era un sentimento reale o irreale? E, soprattutto, era simile o diverso rispetto all’amore che si prova al di fuori del contesto analitico?

Nel saggio “Osservazioni sull’amore di traslazione” (1914) Freud tenta di dare una risposta a queste domande, ma rimane ambiguo e descrive sostanzialmente una situazione paradossale in cui l’analista dovrebbe utilizzare l’amore che l’analizzando nutre per lui per far cessare definitivamente quegli stessi desideri transferali.

 

Differenze tra amore di transfert e amore fuori dall’analisi

Secondo molti autori quali Coen (1994), Friedman (1991), Gabbard (1993) e Schafer (1993), tale ambiguità viene resa da Freud particolarmente evidente nella differenziazione tra amore di transfert e amore fuori dall’analisi:

È bensì vero che questo innamoramento costituisce una riedizione di antichi processi e riproduce reazioni infantili. Ma questo è il carattere tipico di qualsiasi innamoramento. […] Forse l’amore di traslazione offre un grado di libertà minore che non l’amore quale si verifica nella vita e che chiamiamo normale, e lascia scorgere di più la sua dipendenza dai modelli infantili, rivelandosi meno duttile e malleabile. Ma questo è tutto, e non è l’essenziale (Freud 1914b, p. 371).

Quindi secondo Freud anche se non c’è dubbio che residui di vecchie relazioni oggettuali vengano portati nel transfert non possiamo basarci su tali indizi per distinguerlo da ogni altro tipo di amore. L’astinenza dell’analista e lo stesso setting potrebbero renderlo un po’ più infantile, ma si tratta, probabilmente, di una differenza irrilevante.

Pur avendo scoperto solo differenze insignificanti tra l’ amore di transfert e quello reale, Freud avverte tuttavia l’analista di procedere come se l’amore non fosse reale:

Si tenga in pugno la traslazione amorosa, ma la si tratti come qualcosa di irreale, come una situazione che deve verificarsi durante la cura e va fatta risalire alle sue cause inconsce (1914, p. 369).

Questo consiglio nasce probabilmente dalle preoccupazioni che Freud aveva riguardo a quel fenomeno non ancora ben definito e chiamato controtransfert. Il timore principale era che i suoi colleghi si innamorassero delle pazienti anziché astenersi e che cedessero alla seduzione come accadrebbe al di fuori della situazione analitica. Freud era consapevole dell’intensa attrazione che l’analista può provare per la paziente e imparò ben presto la bidirezionalità della seduzione quando vide i suoi discepoli soccombere, uno dopo l’altro, al canto delle sirene dell’ amore di transfert.

Gabbard (1996), revisionando attentamente gli scritti sulla differenza tra amore reale e amore transferale negli autori  successivi a Freud ha evidenziato che:

l’amore nella situazione analitica ha molte più somiglianze che differenze rispetto all’amore in situazioni non analitiche: usa le stesse metafore, indossa le stesse maschere e provoca la stessa varietà di risposte negli altri […]. La differenza fondamentale sta nell’atteggiamento dell’analista, volto alla riflessione, alla contemplazione e all’analisi, piuttosto che all’azione (pp. 38-39).

Le supposizioni teoriche che nel suo fondamentale lavoro Gabbard mette al vaglio, riguardano molti autori alcuni dei quali però meritano di essere citati dettagliatamente per la maggior peculiarità  del loro dettato.

Schafer (1977) ritiene che l’ amore di transfert abbai una duplice natura. Da un lato, si tratta di una nuova edizione di una precedente relazione oggettuale regressiva, dall’altro è una nuova relazione oggettuale reale e adattata alla situazione di trattamento, ossia: “uno stato transizionale di carattere provvisorio in vista di un esito razionale, genuino quanto l’amore normale” (p. 340). Il problema principale che si presenta all’analista è come integrare i due aspetti dell’ amore di transfert in un approccio interpretativo efficace.

Modell (1991) mette in evidenza una differenza fondamentale tra l’amore in analisi e l’amore extra-analitico. I due membri della diade analitica sanno che alla fine si separeranno, a prescindere da quanto siano tra loro compatibili e dalla reciprocità dei loro sentimenti. Questa dimensione del rapporto analitico rispecchia un paradosso fondamentale: le risposte affettive di analista e paziente sono reali ma avvengono nel contesto di una relazione irreale, considerando i termini dei comuni rapporti sociali.

Hoffer (1993) sottolinea quanto sia fuorviante, per il paziente come per l’analista, considerare irreale l’amore nel rapporto analitico. L’amore di per sé è praticamente identico a quello che si prova nel trattamento e gli aspetti distintivi vanno cercati altrove:

La differenza non va cercata nella realtà, ma nella sua specifica unilateralità. Da parte dell’analista, la relazione d’amore è unilaterale a causa del suo scopo, in altri termini la raison d’être del rapporto è che esiste a vantaggio del paziente. Inoltre, il setting analitico stesso, il suo contesto e la sua struttura sono naturalmente definiti e subordinati a quello scopo (p. 349).

Anche Kernberg (1994) avvisa che la mancanza di reciprocità deve essere posta alla base dei criteri  di differenziazione tra l’ amore di transfert e quello extra-analitico. Inoltre, l’ amore di transfert permette al paziente di esplorare a fondo le determinanti inconsce della situazione edipica, possibilità che non è data in altre forme d’amore.

Per concludere questa breve panoramica sulle attuali posizioni definitorie di transfert erotico intendo nuovamente citare Gabbard (1996)  e segnatamente sulla possibilità di commettere un errore metodologico nel quale possono incorrere gli analisti:

Possiamo affermare che l’amore è reale nel senso che implica una specifica relazione in atto, e al tempo stesso è irreale nel senso che contiene elementi di relazioni oggettuali passate, che sono state interiorizzate e poi riattivate nella diade analitica […]. Oggi gli analisti spesso provano lo stesso disagio di Freud di fronte a intensi sentimenti tansferali d’amore e, un’attenzione eccessiva alle distinzioni tra l’ amore nel transfert e al di fuori di esso, può essere una difesa ossessiva contro il disagio che si prova all’insorgere di sentimenti d’amore nel trattamento (p.36).

Occuparsi delle difficoltà degli adolescenti è possibile: un esempio di percorso di cura dei disagi dell’età evolutiva

L’ adolescenza è sicuramente un periodo di vita caratterizzato da numerosi e profondi cambiamenti sia dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista emozionale e comportamentale.

 

Tali cambiamenti, che iniziano intorno ai 12 anni, determinano il processo di transizione verso lo stato di adulto e sottendono fattori di natura biologica, psicologica e sociale.

Il cambiamento più evidente agli occhi di chiunque è il cambiamento fisico, al quale però ogni adolescente associa esperienze emozionali intense e personali. Data la velocità con cui questi mutamenti si verificano, è infatti frequente un certo livello di ansia da parte dei ragazzi nei confronti del loro aspetto fisico e della loro capacità di relazionarsi con i pari, i quali cambiano rapidamente tanto quanto loro.

Così come ogni altra fase dello sviluppo di un individuo, anche l’ adolescenza è contraddistinta da peculiari atteggiamenti e comportamenti, prima su tutti la tendenza all’autonomia.

Il bisogno di indipendenza permette infatti ai ragazzi di sperimentare vari ruoli e nuove responsabilità, i loro interessi cambiano e iniziano porsi domande di natura esistenziale, tuttavia la carica emotiva che accompagna loro nella stragrande maggioranza delle attività, può condurli a conquiste e gioie, ma anche a delusioni e sconfitte di difficile gestione per loro.

Tali esperienze vengono vissute spesso con sbalzi di umore, iper-reattività al comportamento di amici, parenti e insegnanti, conflitti con i genitori e sentimenti di inadeguatezza, i quali nei casi più estremi possono sfociare in ansia, depressione, uso di sostanze stupefacenti e comportamenti devianti.

Le caratteristiche comportamentali ed emotive associate a particolari situazioni problematiche possono dare vita a determinati sintomi che se intensi e duraturi possono causare a loro volta, un disagio nella vita del ragazzo. I disturbi in età evolutiva, vengono spesso classificati e suddivisi in “problemi internalizzanti” e “problemi esternalizzanti”.

Con il termine esternalizzanti si intende una serie di disturbi e comportamenti ad essi associati caratterizzati da aggressività, scarsa concentrazione, impulsività e iperattività. Come si può facilmente immaginare, in adolescenza questi problemi si contraddistinguono per il fatto che il disagio che l’adolescente prova viene riversato all’esterno, dando luogo a situazioni e circostanze spesso spiacevoli o di difficile gestione. I più frequenti tra questi sono il Disturbo della Condotta e il Disturbo Oppositivo Provocatorio.

Il termine internalizzante invece, descrive una serie di disagi che i ragazzi sviluppano e mantengono dentro loro stessi, in altri termini, di fronte a sofferenze e stati emotivi intollerabili, alcune persone cercano di controllare e regolare le proprie emozioni e i propri pensieri in autonomia e in maniera inappropriata. I disturbi più frequenti tra questi sono i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore.

 

Problematiche dell’ adolescenza: il lavoro del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, si avvale di esperti e qualificati psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

Il percorso terapeutico con gli adolescenti, è in genere un intervento altamente strutturato e di breve durata. Il principio su cui si basa la terapia cognitivo comportamentale è che i pensieri, le emozioni e i comportamenti, siano tre aspetti capaci di influenzarsi reciprocamente; l’obiettivo di cura del centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, è dunque quello di aiutare i ragazzi a modificare proprio quei modi di pensare che spesso li portano a vivere determinate emozioni e di conseguenza a mettere in atto determinati comportamenti, spesso disfunzionali.

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova offre a ragazzi e genitori la possibilità di riconoscere le criticità che spesso portano a conflitti familiari e malessere individuale e ad individuare insieme il percorso più adatto al fine di ridurre gli stati di sofferenza.

Il percorso diagnostico e terapeutico offerto dal centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova prevede:

  • Assessment psicodiagnostico – valutazione psicologica delle difficoltà e delle risorse dell’adolescente attraverso l’utilizzo di strumenti standardizzati, allo scopo di descrivere la problematicità dell’individuo e individuare un obiettivo terapeutico condiviso.
  • Psicoterapia individuale – spesso ciò che pensiamo di noi stessi e della realtà che ci circonda può essere poco funzionale e causare un certo livello di sofferenza soggettiva. L’intervento terapeutico è volto a ridurre la sofferenza soggettiva e ad aiutare il ragazzo ad individuare nuove e più funzionali strategie relazionali e comportamentali.
  • Colloqui con i genitori – regolari incontri informativi e psicoeducativi con i genitori e/o con le figure di riferimento del ragazzo.

La Comunicazione Mediata da Computer e la Self-Disclosure, costrutto importante nella psicoterapia faccia a faccia e on-line

Considerando la rilevanza della Self-Disclosure nella comunicazione Face to Face come elemento fondamentale per iniziare, sviluppare e mantenere le relazioni e, considerando la repentina diffusione della Comunicazione Mediata da Computer, alcuni ricercatori hanno indagato la variazione della Self-Disclosure anche nella comunicazione online.

Tommaso Ciulli – OPEN SCHOOL Scuola Psicoterapia Cognitiva di Firenze

 

Dalla loro nascita ad oggi, le tecnologie di comunicazione via Internet hanno registrato un’espansione senza precedenti. Per le nuove generazioni la comunicazione mediata dal computer rappresenta una modalità comune e consueta di comunicare. Come rilevato da Erich e Rhonda (2000), Internet ha determinato un forte impatto nei modelli di comunicazione interpersonale, facilitando inoltre le amicizie e le relazioni romantiche. La diffusione della Comunicazione Mediata dal Computer (CMC) come modalità abituale di comunicare pone numerosi interrogativi su come queste tecnologie siano in grado di modificare la comunicazione (Corlianò, 2010).

La comunicazione mediata dal computer viene definita come un processo attraverso il quale le persone creano, scambiano e ricevono le informazioni utilizzando i sistemi di telecomunicazione che facilitano la codifica, la trasmissione e la decodifica dei messaggi (December, 1996).

Dal momento che Internet è divenuto un luogo importante per l’interazione sociale (D’Amico, 1998), diversi ricercatori in ambito psicologico hanno studiato le diverse applicazioni e possibilità legate alla comunicazione mediata dal computer via Internet, suddividendole in due principali categorie; in base alla capacità del mezzo utilizzato di permettere lo scambio comunicativo in tempi diversi (comunicazione asincrona) oppure nello stesso tempo (comunicazione sincrona). La comunicazione asincrona comprende: E-Mail, mailing-list e newsgroup; quella sincrona racchiude gli Istant Messaging (IM), le Internet Relay Chat (IRC) o le web-conference (la comunicazione via webcam).

 

Comunicazione mediata dal computer: le tecnologie al servizio della psicologia

Come affermato da Skitka e Sargis (2006), le tecnologie introdotte con Internet possono essere usate come un laboratorio di psicologia, possono essere manipolate molte variabili e molti indizi visivi e uditivi, possiamo scomporre l’interazione sociale nelle sue componenti base.

Nei primi anni ‘90 le ricerche scientifiche hanno analizzato diversi aspetti: la diversità tra le interazioni online nei differenti ambienti digitali, le differenze nelle interazioni faccia a faccia (FtF) e quelle online, gli effetti sulla vita quotidiana prodotti dall’uso prolungato della comunicazione mediata dal computer o le differenze etnografiche nell’uso della comunicazione mediata dal computer.

Le prime ricerche si sono concentrate sull’influenza che queste tecnologie hanno portato negli ambienti lavorativi\aziendali, primi veri luoghi di crescita della comunicazione mediata dal computer, definite task-oriented (Tosoni, 2004). Queste prime indagini si focalizzavano sulle conseguenze sociologiche dell’introduzione della comunicazione mediata dal computer in strutture organizzative preesistenti. Questi modelli si concentravano sulle caratteristiche fisiche del mezzo e della sua capacità\ricchezza di trasmettere più o meno informazioni. Alcuni ricercatori hanno direzionato la loro attenzione sulle varie componenti della comunicazione offline e sulle possibili differenze tra la comunicazione mediata dal computer e quella faccia a faccia (FtF). Come affermano Derlega, Winstead, Wong e Greenspam (1987), due fenomeni presenti nella comunicazione risultano essere molto importanti e rilevabili all’interno di ogni relazione, ovvero, la Self-Disclosure e la Self-Presentation.

 

La Self-Disclosure

La Self-Disclosure e la Self-Presentation sono componenti importanti della comunicazione, sono costrutti molto legati fra di loro ma non intercambiabili (Schlenker, 1986; Johnson, 1981). Goffman (1959) descrive la Self-Presentation come il processo di gestione delle informazioni personali, la selezione di ciò che riportiamo di noi all’esterno, mentre Wheeless e Grotz (1976), definiscono la Self-Disclosure come “ogni messaggio riguardo se stessi che una persona comunica ad un’altra”; Archer (1980) fornisce una definizione della Self- Disclosure molto simile e la identifica come l’azione di rivelare informazioni personali, pensieri e sentimenti ad altri soggetti. Pertanto, la Self-Presentation implicherebbe una selezione delle informazioni riguardanti se stessi divulgate all’esterno, mentre, stando alle definizioni di Self-Disclosure, non vi sarebbe in essa alcuna selezione delle informazioni.

Tra i due fenomeni quello più facilmente identificabile e osservabile è la Self- Disclosure, infatti, Jourard (1971) afferma come per identificare tale aspetto sia necessario solamente rilevare la quantità di informazioni personali espressa nella relazione.

Nella vita di tutti i giorni la Self-Disclosure risulta essere molto importante per le sue implicazioni all’interno di ogni relazione sia essa con un individuo o un gruppo di persone. È importante all’interno di semplici interazioni con gli amici, con i famigliari o con gli estranei, e, soprattutto, all’interno di quelle relazioni dove l’esprimere sé stesso è determinante come nel percorso psicoterapeutico.

Permette la nascita e lo sviluppo delle relazioni (Gibbs, Ellison, & Heino, 2006), ne influenza il percorso e può trasformarne il significato (Derlega, Metts, Petronio, & Margulis, 1993). Alcune ricerche, che hanno studiato le relazioni intime tra le persone, hanno riportato come una maggiore Self-Disclosure da parte di entrambi i partner accresca l’esperienza di intimità ed essi riportino una maggiore soddisfazione nel rapporto (Laurenceau, Barrett, & Pietromonaco, 1998; Reis & Shaver, 1988). È stata considerata come una componente rilevante all’interno delle relazioni genitori-figli (Papini & Farmer, 1990). La Self-Disclosure è stata anche associata ad una maggiore autostima, ad un maggiore benessere generale e psicologico (Kernis, 2003; Kernis & Goldman, 2006), inoltre, le persone sane tendono a riportare una Self-Disclosure con più dettagli di tipo positivo che negativo (Wheeless & Grotz, 1976).

Il passaggio dallo studio della Self-Disclosure nella vita di tutti i giorni, allo studio di essa nella Comunicazione Mediata da Computer è stato breve; considerando la rilevanza della Self- Disclosure nella comunicazione Face to Face come elemento fondamentale per iniziare, sviluppare e mantenere le relazioni e, considerando la repentina diffusione della Comunicazione Mediata da Computer, alcuni ricercatori hanno indagato la variazione della Self-Disclosure anche nella comunicazione online.

 

La Self-Disclosure online: i modelli

I dati raccolti dalle ricerche hanno portato alla formulazione di modelli interpretativi volti a spiegare le variazioni tra la Self-Disclosure nella comunicazione Face to Face e nella Comunicazione Mediata da Computer.

Sproull e Kiesler (1985) hanno proposto la teoria RSC, Reduced Social Cues, secondo i quali la Comunicazione Mediata da Computer impedirebbe alle persone impegnate nell’interazione di includere tutte quelle informazioni che si agganciano alla comunicazione verbale (quali il tono di voce, gli indizi visivi, il linguaggio del corpo, l’aspetto,  la mimica, la prossemica) presenti invece nella comunicazione Faccia a Faccia (FtF), con la conseguenza, secondo tale teoria, di un generale appiattimento sociale e di una minore Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer rispetto alla FtF.

Altri autori come Lea e Spears (1992) hanno sviluppato un modello diverso da quello proposto da Sproull e Kiesler (1985). Secondo il modello SIDE (Social Identity DE-individuation di Lea e Spears), tutti gli indizi che riguardano l’identità sociale non vengono filtrati dalla comunicazione mediata, ma passano attraverso le conoscenze pregresse delle persone che hanno un’interazione al computer, oppure, tramite indicatori inclusi nei messaggi come le intestazioni e le firme elettroniche. Proprio perché la Comunicazione Mediata da Computer, al contrario di quanto postulato dalla RSC, permette il passaggio di certi indicatori sociali nonostante la scarsa larghezza di banda che è comunque intrinseca al mezzo, la Comunicazione Mediata da Computer non equalizza gli attori, non avverrebbe un appiattimento sociale della comunicazione ed una minore Self-Disclosure. Inoltre, Lea e Spears (1992) hanno rilevato che tutte le informazioni che fanno parte della comunicazione non verbale e che non possono essere direttamente trasmesse tramite E-Mail, vengono in realtà “tradotte” e inserite nel testo tramite l’impiego di emoticon o di un particolare stile di scrittura permettendo così la Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer.

Walther (1992) propone un altro modello in grado, secondo l’autore, di spiegare quali siano le dinamiche che permettono o limitano la Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer. Il suo approccio denominato SIP (Social Information Processing) al contrario del modello SIDE (Lea & Spears, 1992) si distanzia molto dagli approcci basati sugli indizi filtrati, introducendo due variabili indipendenti fondamentali, ovvero, le aspettative di future interazioni e il fattore temporale. Per quanto riguarda la prima variabile, le aspettative di futura interazione, che in genere non venivano considerate negli esperimenti di laboratorio delle precedenti ricerche sulla Comunicazione Mediata da Computer, risulterebbero, secondo invece il modello SIP, determinanti nella disponibilità dei soggetti ad aprirsi maggiormente, a ricercare maggiori informazioni l’uno dell’altro, a comportarsi a in maniera più amichevole e a cooperare nelle negoziazioni. In riferimento alla seconda variabile, l’ipotesi dei ricercatori è che, comunicando al computer, i tempi per l’espressione di comportamenti relazionali e per poter rivelare la propria identità, sono ovviamente più lunghi, ecco perché nel modello SIP viene presa in considerazione la variabile temporale.

Secondo tale approccio la Comunicazione Mediata da Computer non sarebbe meno efficace della comunicazione faccia a faccia dal punto di vista dell’interazione sociale (come teorizzato e rilevato dal modello RSC), ma solo meno efficiente a causa delle caratteristiche tecniche del computer, tra le quali: la riduzione di canali simbolici (che secondo il modello SIP, tende all’irrilevanza via via che i soggetti prendono confidenza con i nuovi strumenti) e la lentezza della digitazione che amplia il tempo degli scambi comunicativi rispetto all’interazione faccia a faccia.

Tale approccio critica direttamente i dati ottenuti dalle ricerche utilizzano il modello RSC sulla impersonalità della comunicazione, ritenendo che esse non tengono conto in modo adeguato dei tempi necessari per la Self-Disclosure. Le ipotesi dei ricercatori è stata supportata da ricerche condotte su persone geograficamente distanti, le quali cooperavano in gruppi di lavoro per diverse settimane e con molto tempo a disposizione per entrare in contatto con la tecnologia impiegata e per potersi aprire (Tosoni, 2004).

Non solo, come riportato da Walther (1992), le persone sono motivate ad adattarsi ai pochi indizi che la Comunicazione Mediata da Computer consente di trasmettere al fine di favorire la  formazione di buone impressioni nel desiderio di sviluppare rapporti interpersonali, come ad esempio rilevato nelle ricerche condotte da Cummings, Butler, e Kraut, (2002) e Wellman, Haase, Witte, e Hampton (2001), in cui le persone coinvolte potevano manipolare i due tipi di comunicazione mediata da computer (sincrona e asincrona) per soddisfare obiettivi differenti.

Successivamente alla volontà dei ricercatori di strutturare un modello univoco in grado di spiegare le variazioni rilevate nella Comunicazione Mediata da Computer rispetto alla FtF della Self- Disclosure ed alla difficoltà riscontrata nel raggiungere tale obiettivo, alcuni di essi hanno cercato di rilevare le differenze della Self-Disclosure tra Comunicazione Mediata da Computer e FtF considerando altre variabili.

In una serie di esperimenti, Bargh, McKenna e Fitzsimmons (2002) hanno trovato che gli studenti erano più facilitati nella loro Self-Disclosure in Internet che di persona (FtF). Alcuni ricercatori hanno trovato che la Comunicazione Mediata da Computer faciliterebbe lo scambio emotivo, empatico e favorirebbe una maggiore Self-Disclosure tra persone con problemi di salute, disabilità o persone con un basso livello di sostegno reale (Braithwaite, Waldron, & Finn, 1999; Maloney-Krichmar & Preece, 2005; Rice & Love, 1987; Turner, Grube, & Meyers, 2001). Altri autori Wellman et. al. (2001) rilevano che coloro che sono classificati come utenti regolari di internet non usano l’E-Mail come sostituto dell’interazione FtF, ma piuttosto come mezzo per mantenere e sviluppare le relazioni con persone distanti o per aiutare le persone che hanno già una relazione a sentirsi vicine tra di loro (Vetere et al., 2005). Parks e Floyd (1996), hanno rilevato come il processo di Self-Disclosure delle persone fosse in qualche modo accelerato all’interno della Comunicazione Mediata da Computer, e di come le persone arrivassero a parlare di dettagli molto intimi solo dopo aver scambiato due E-Mail. Bonebrake (2002), Cooper e Sportolari (1997) riportano che le persone forniscono volontariamente online informazioni su se stesse che in una simile interazione FtF non avrebbero mai fornito.

Joinson (2004) nella sua ricerca su tre gruppi di discussione diversi, ovvero, FtF, Comunicazione Mediata da Computer con indizi visivi (registrazione video) e Comunicazione Mediata da Computer in completo anonimato visivo, riportò gli stessi risultati, una maggiore Self-Disclosure nelle condizioni Comunicazione Mediata da Computer rispetto a FtF e una maggiore apertura nella condizione di completo anonimato visivo rispetto a quella registrata con video.

Bargh et. al. (2002), Tidwell e Walther (2002), riportano che la Comunicazione Mediata da Computer stimolerebbe una maggiore Self-Disclosure rispetto alla FtF. Quello che emerge dalle ricerche, sembra ripercorrere quanto ipotizzato da Rubin (1975) e Derlega e Chaikin (1977), secondo i quali le persone siano più facilitate ad aprirsi agli estranei su Internet, come nel fenomeno “dell’estraneo sul treno”, cioè, come gli individui rivelano informazioni ad uno sconosciuto sul treno che non rivelerebbero ad amici, colleghi o parenti, poiché in tal caso potrebbero intercorrere nei rischi sopra elencati. Così in rete, nella Comunicazione Mediata da Computer, l’anonimato presente potrebbe garantire ai loro utilizzatori una qualche sorta di difesa dalle loro preoccupazioni e paure di critiche sociali (McKenna, Green, & Gleason, 2002).

Secondo un’altra ipotesi, livelli più alti di Self-Disclosure online rispetto alla FtF, dipenderebbero da una maggiore esperienza nell’uso della Comunicazione Mediata da Computer: infatti le persone che utilizzano maggiormente tali mezzi di comunicazione, benché siano a conoscenza delle varie problematiche legate alla privacy, per una forte convinzione che la loro comunicazione non possa essere intercettata, non permetterebbero a tali preoccupazioni di alterare la loro Self-Disclosure (Frye & Dornisch, 2010). Secondo lo studio di Lai-yee Ma e Leung (2006), un uso frequente del programma ICQ (software di instant messaging) sarebbe, per esempio, correlato positivamente a livelli più alti di Self-Disclosure, in termini di ore per giorno e giorni alla settimana. Suggerendo che chi usa maggiormente un software di IM, in questo caso ICQ, è portato ad aprirsi e rivelare più dettagli intimi di chi lo usa meno frequentemente. Inoltre, nello stesso studio emerge come persone con un livello di educazione più alto abbiano una maggiore Self- Disclosure online.

Nel caso dei SNS (Social Network Site, ad esempio Facebook) è stato rilevato che tali ambienti rafforzano la Self-Disclosure attraverso la gratificazione sociale, come un alto numero di amici e stretti legami (Park, Kee, & Valenzuela, 2009); cosi potrebbe essere anche per la Comunicazione Mediata da Computer, dove una maggiore apertura personale potrebbe dipendere dai possibili benefici ad essa connessi (Laurenceau et al., 1998; Reis & Shaver, 1988). Alcuni studi come ad esempio quello di Taddei, Contena e Grana (2010), evidenziano l’assenza di differenze significative nella Self-Disclosure tra la Comunicazione Mediata da Computer e FtF, sottolineando invece un effetto di “riscaldamento” per cui una prima esposizione ad un interazione via Comunicazione Mediata da Computer, comporta un aumento della Self-Disclosure in una successiva interazione via FtF. Come espresso da Moghaddam (2002) ci sono altri fattori oltre la Self-Disclosure rintracciabili all’interno di una relazione che ne permettono la sua formazione ed il suo mantenimento. Secondo il ricercatore, la Simpatia sarebbe un fattore molto importante nello studio dei fenomeni sociali.

 

Le caratteristiche personali dell’individuo nella Comunicazione Mediata da Computer

Studi recenti hanno indagato come certe caratteristiche dei soggetti possono condizionare la comunicazione stessa o se l’esistenza di relazioni tra l’uso di Internet e tali caratteristiche (Qin, Yusen, Zao, & Ruogu, 2010). Emerge che con  il passare del tempo le persone siano entrate sempre più in confidenza con le nuove tecnologie, diventando così sempre più d’uso comune, non solo negli ambienti lavorativi ma anche nella propria cerchia familiare e amicale (Leung, 2002) tanto da portare le persone ad adattarsi ad esse (Walther, 1992), e che a loro volta abbiano adattato queste tecnologie (Cummings et al., 2002; Wellman et al., 2001; Lea & Spears, 1992), le quali sono usate più in base a caratteristiche personali, che in base ad effettive differenze dei mezzi di comunicazione (Leung, 2002).

Ad esempio, Joinson (2004) riporta che quando le possibilità di rifiuto sono più elevate le persone scelgono di usare l’E-Mail per comunicare rispetto alla FtF e che questo comportamento sembra legato all’autostima delle persone; tanto più è bassa l’autostima, tanto più le persone useranno la Comunicazione Mediata da Computer; al contrario, tanto più è alta la loro autostima, tanto più preferiranno una conversazione FtF. Aspetti interessanti e da considerare all’interno di in una relazione psicoterapeutica soprattutto per quei soggetti per i quali il rifiuto o il giudizio possono essere temi rilevanti a tal punto da condizionare la scelta nel richiedere o usufruire di un percorso psicoterapeutico tradizionale in caso di bisogno.

Per quanto concerne la Timidezza, emerge come offline le persone timide mettono in atto comportamenti di ritiro sociale (Cheek & Buss, 1981; Jones et al., 1986) e quindi, potrebbero esprimere livelli di Self-Disclosure più bassi di coloro che non sono timidi; secondo Mckenna et al. (2002) la Comunicazione Mediata da Computer potrebbe facilitare comportamenti sociali nelle persone che riportano alti livelli di ansia sociale.

Come indicato da Guadagno, Okdie e Eno (2008), molte sono state le ricerche presenti nella letteratura scientifica che hanno indagato gli aspetti psicologici delle persone che utilizzano Internet, come ad esempio la personalità dei soggetti (Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2003; Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2000; Leung, 2002; Scealy, Philips, & Stevenson, 2002). Come spiegano Pervin e John (1997) e Shaffer (2000), i tratti di personalità rientrano tra quelle caratteristiche di una persona che perdurano in maniera relativamente stabile durante tutta la vita, in un gran numero di situazioni e contesti diversi. Dato che Internet è diventato di largo uso e coinvolge tutti i ceti sociali, è divenuto logico studiarlo dalla prospettiva della personalità, tanto più che è un’attività generalmente libera, non obbligatoria e che quindi può riflettere motivazioni personali, valori, preferenze e altre caratteristiche dell’individuo (Landers e Lounsbury, 2006).

Inoltre, da un punto di vista di sviluppo individuale, la personalità ha una rilevanza maggiore rispetto ad altre variabili che sono state messe in relazione con l’uso di Internet, tra cui gli atteggiamenti nei confronti di internet (Lavin, Marvin, McLarney, Nola, & Scott, 1999),  l’esperienza nell’uso del PC (Blair, O’Neil, & Price, 1999), il supporto sociale (Shaw & Gant, 2002), gli stili di vita (Ho & Lee, 2001), il supporto nelle informazioni (Scull, 1999), l’ansietà nell’uso del PC (Chua, Chen, &  Wong, 1999), l’autostima (Armstrong, Philips, & Saling, 2000) e altri stati affettivi correlati all’uso del computer (Coffin & MacIntyre, 1999; Landers & Lounsbury, 2006).

Riferendosi al modello dei Big-Five di McCrae e Costa (1992), nel caso delle dimensioni di personalità sembrerebbe che alti livelli di Amicalità siano correlati con la comunicazione all’interno di Facebook e quindi una possibile maggiore Self-Disclosure (Seidman, 2013). Per la dimensione Coscienziosità emerge come essa sembrerebbe correlata negativamente con la Self-Disclosure online (Seidman, 2013; Landers & Lounsbury, 2006). L’Apertura Mentale risulta essere correlata con una maggiore Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer (Guadagno et. al., 2008; Amichai-Hamburger & Vinitzky, 2010), mentre Seidman (2013) non rileva nessuna associazione. Il Nevroticismo risulta essere correlato positivamente con alti livelli di Self-Disclosure (Seidman, 2013; Correa et al., 2010; Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2000; Ehrenberg et al., 2008). Persone con alti livelli di Estroversione riportano tendenzialmente una maggiore Self- Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer (Muscanell & Guadagno, 2012).

 

Conclusioni: Comunicazione Mediata da Computer e psicoterapia

Come esposto da alcuni autori, internet ha creato e crea un’alternativa alla psicoterapia faccia a faccia e molti psicoterapeuti utilizzano le opportunità offerte da questi strumenti nel loro lavoro (Amichai-Hamburger et. al, 2014).

Specialmente la CBT (Terapia Cognitiva-Comportamentale) sta puntando molto nella ricerca sulle terapie online (Barak, Hen, Boniel-Nissim, & Shapira 2008; Speck et al., 2007). In una review di Amichai-Hamburger e colleghi del 2014, vengono elencati tutti gli studi a favore e contro la possibilità di integrare, alternare o sostituire la terapia FtF con quella Mediata da Computer e altri tipi di e-therapy.

Diversi sono i punti discussi, uno tra questi la capacità della Comunicazione Mediata da Computer di far passare quei segnali verbali e non verbali molto importanti nella relazione terapeutica, per questo è stato dato molto spazio in questo articolo a quei modelli che hanno cercato di determinare se effettivamente la Comunicazione Mediata da Computer favorisca o meno la trasmissione di questi segnali.

Molte sono le ricerche che hanno verificato l’efficacia delle psicoterapie online (Amichai-Hamburger et al., 2014). Alla luce di ciò, dei risultati raggiunti, dalle opportunità che Internet e la Comunicazione Mediata da Computer offrono e potrebbero offrire per la psicoterapia e considerando che in Italia rispetto ad altri paesi, le linee guida tracciate dall’Ordine nazionale degli psicologi tendono a essere comprensibilmente e in maniera precauzionale più restrittive nell’adozione della Comunicazione Mediata da Computer nella psicoterapia, risulta di primaria importanza continuare la ricerca in tal senso considerando anche gli aspetti strutturali e tecnologici della rete ed anche culturali specifici del nostro paese.

L’insight di malattia nei pazienti schizofrenici: un test per incrementarlo

Un nuovo studio del “Centre for Addiction and Mental Health”, ha dimostrato che un test dell’equilibrio che stimola una parte del sistema nervoso utilizzando dell’acqua fredda all’interno dell’orecchio sinistro, potrebbe alleviare temporaneamente la mancanza d’insight nei pazienti schizofrenici.

 

Il test che aumenta l’insight nei pazienti schizofrenici

Più della metà dei pazienti con schizofrenia hanno una ridotta capacità d’insight riguardo alla propria condizione; non credono, cioé, di essere affetti da patologia. Questa mancanza d’ insight è la principale ragione del perché molti pazienti rifiutino di seguire dei trattamenti medici o prendere regolarmente dei medicinali. Le conseguenze possono essere una cattiva condizione di salute, un rischio più alto di essere ospedalizzati o di esperire instabilità all’interno delle mura domestiche.

Un nuovo studio del “Centre for Addiction and Mental Health”, ha dimostrato che un test dell’equilibrio che stimola una parte del sistema nervoso utilizzando dell’acqua fredda all’interno dell’orecchio sinistro, potrebbe alleviare temporaneamente la mancanza d’insight.

Il Dr.Philip Gerresten, uno scienziato clinico del Campbell Familiy Mental Health Research Institute, ha concepito l’idea di utilizzare questo test sui soggetti schizofrenici, basandosi sui risultati promettenti ottenuti con i pazienti paralizzati con danno da stroke, che avevano perso la consapevolezza della propria paralisi.

Il test, chiamato “Stimolazione vestibolare calorica”, consiste nell’irrigare il canale uditivo con dell’acqua di varie temperature. Il test è comunemente usato per valutare il sistema vestibolare corporeo o l’equilibrio. La procedura può stimolare diverse aree del cervello, incluse le regioni specifiche associate con la mancanza d’insight, una connessione che è stata confermata da studi di neuroimmagine.

Nei pazienti affetti da stroke con l’emisfero destro danneggiato, l’acqua fredda conduce ad una temporanea consapevolezza della propria paralisi. I nuovi risultati ottenuti utilizzando la procedura tra i pazienti schizofrenici, sono stati promettenti.

L’acqua fredda nell’orecchio sinistro ha aumentato significativamente l’insight e la consapevolezza dei pazienti riguardo alla schizofrenia, che abbiamo misurato 30 minuti dopo il test, confrontandolo con un falso trattamento o placebo di acqua a temperatura ambiente“, sostiene Gerresten. Poco dopo il trattamento, tuttavia, l’insight è diminuito.

Nell’orecchio destro, il trattamento è sembrato avere l’effetto opposto, diminuendo la consapevolezza nei soggetti schizofrenici.

I ricercatori hanno utilizzato la procedura su 16 pazienti schizofrenici, che avevano un grado medio/grave di mancanza d’insight di malattia. Ai soggetti era assegnata, in ordine casuale, una sola di tre condizioni: acqua fredda a 39.2° F (4°C) nell’orecchio sinistro; acqua fredda nell’orecchio destro ed un finto trattamento in cui la temperatura dell’acqua corrispondeva a quella corporea.

L’insight di malattia dei pazienti era poi valutato 30 minuti dopo il test, utilizzando la scala “VAGUS Insight into Psychosis”, una misura creata per rilevare cambiamenti dell’insight in un lasso di tempo breve.

Con questi promettenti risultati, potremo intraprendere una nuova ricerca per rendere più lungo il periodo di consapevolezza, utilizzando una nuova tecnica che renderà la procedura più comoda“, sostiene il Dr. Gerresten.

Il ricercatore sta testando una nuova tecnica, un casco per la stimolazione vestibolare, con degli auricolari la cui temperatura è controllata. Al contrario del test dell’acqua, questa tecnica è stata progettata per uso domestico e non richiede acqua o uno specialista formato per applicarla. I partecipanti dello studio utilizzeranno la procedura per diversi giorni consecutivi, per vedere se condurrà ad un miglioramento prolungato nell’insight di malattia.

Il neurocostruttivismo in ricordo di Annette Karmiloff-Smith

Il 19 dicembre 2016 è venuta a mancare la fondatrice ed esponente del neurocostruttivismo odierno, Annette Karmiloff-Smith . Il suo lavoro ha ispirato e continua a ispirare tanta ricerca psicologica soprattutto nel campo dello sviluppo.

 

Tantissimi sono i suoi contributi e sarebbe impensabile e riduttivo cercare di ricordarli tutti. Con questo articolo, a pochi mesi dalla morte di Annette Karmiloff-Smith, si cerca di cogliere la portata innovativa del suo pensiero attraverso un piccolo scorcio della sua prospettiva teorica.

Partiamo da una domanda: come è organizzata la mente umana?

 

Annette Karmiloff-Smith: verso la mente modulare e oltre

Siamo comodamente seduti ad ascoltare la nona sinfonia di Beethoven, che costituisce uno “stimolo-input” per il nostro cervello. Il nostro sistema uditivo è il primo a codificare la melodia in un segnale “comprensibile” e manipolabile dal sistema cognitivo, segnale che viene inviato a delle determinate aree del nostro cervello. Queste elaborano lo stimolo selezionato in maniera specifica ed automatica e inviano a loro volta il segnale al sistema centrale, deputato ai processi decisionali, alle attività di monitoraggio, controllo e pianificazione dell’azione. Qui le informazioni vengono integrate e viene emesso un output comportamentale: ci godiamo l’ascolto di quella che viene riconosciuta come una melodia musicale.

Questo esempio rappresenta l’ipotesi modulare della mente umana, che Jerry Fodor ha ben descritto nel libro “La mente modulare”. L’autore ipotizza che la mente si caratterizzi per la presenza di tre componenti: trasduttori (sistema uditivo, in questo caso); moduli (aree specifiche come ad esempio l’area di Broca e di Wernicke); sistemi centrali (corteccia frontale e cingolata).

A tal proposito Annette Karmiloff-Smith, nel libro “Oltre la mente modulare” si chiede: può questa architettura della mente essere estesa ad una mente in via di sviluppo, ovvero ad una mente estremamente plastica? E quali implicazioni ha questa visione per la clinica dei disordini dello sviluppo?

La piccola rivoluzione operata da questa autrice prevede, in primis, un radicale cambio di prospettiva: è chiaro che questa visione statica a “compartimenti stagni” della mente umana può essere adatta alla descrizione di un cervello maturo, adulto, ma non si addice al cervello del bambino che subisce numerosi cambiamenti architettonici, strutturali e funzionali nel corso del tempo e in maniera continua. È necessario andare oltre questa prospettiva modulare: il cervello del bambino ha bisogno di una spiegazione non statica ma dinamica, in grado di cogliere il suo essere in divenire.

A tal proposito è importante inquadrare il concetto di “vincolo” che Annette Karmiloff-Smith propone in sostituzione a quello di modulo.

 

Il vincolo: definizione e sfaccettature

Secondo Annette Karmiloff-Smith il vincolo è una predisposizione biologicamente innata, “dominio rilevante” che conduce lo sviluppo verso una traiettoria tipica, per intenderci nella zona a norma della curva gaussiana, ma che può essere deviato da tantissime piccole alterazioni. Cosa vuol dire “dominio rilevante”? In un suo lavoro del 1998, Annette Karmiloff-Smith descrive come un vincolo dominio-rilevante abbia effetti a tre livelli: cerebrale, comportamentale e mentale.

Nel neonato a livello cerebrale si osserva, grazie alle tecniche di neuroimaging, un’attivazione molto diffusa interemisferica e intraemisferica, che si localizza e si specializza col passare del tempo.

A livello comportamentale osserviamo delle predisposizioni innate ad apprendere in maniera dominio-generale e dominio specifica.

A livello cognitivo si osserva una predisposizione innata all’elaborazione di taluni stimoli, prevalentemente di natura sociale (ad esempio i volti umani, cfr. esperimenti di Goren, Sarty & Wu,1975; Morthon & Johnson, 1991; Valenza, Simion, Macchi-Cassia & Umiltà, 1996). Un esempio di tipo cognitivo lo possiamo trarre dal modello evolutivo dell’HIP, nei meccanismi per estrarre invarianti: la categorizzazione, lo “statistical learning” (sistema per cogliere co-occorrenze statisticamente più frequenti) e il “rule learning” (sistema di apprendimento di regole), sono meccanismi “dominio-generali” che permettono al bambino come all’adulto di dare un senso al mondo circostante.

Senza addentrarci troppo in aspetti tecnici, ecco un esempio di come agisce un vincolo, attraverso processi di localizzazione e specializzazione e di come si passa da un “momento dominio-rilevante” ad uno “dominio-specifico”: a 3 giorni di vita il bambino mostra una preferenza per un volto rispetto a un non volto (ovvero ad uno stimolo non sociale), ma l’attivazione neurale riscontrata è molto diffusa in entrambi gli emisferi. A sei mesi di vita si nota che l’attivazione neurale è localizzata unicamente all’emisfero destro ed è scomparsa nel sinistro. A un anno di vita l’attivazione corrisponde ad una zona molto più ristretta dell’emisfero destro nel suo lobo temporale. Alla fine dell’età scolare l’attivazione è ristretta ad una specifica zona: l’area fusiforme per il riconoscimento dei volti, la stessa che si attiva in un cervello maturo.

Dunque, riformuliamo la domanda: può l’ipotesi modulare della mente descrivere in maniera esaustiva la plasticità di una mente in via di sviluppo? Appare chiaro che una visione modulare non possa essere applicata alla mente del bambino, molto più interconnessa e  “neurodiversa” sotto tanti aspetti! Ci vuole una prospettiva “prospettica” per analizzare il bambino, che non prenda come punto di partenza dell’analisi il modulo maturo dell’adulto (nel nostro esempio: l’area fusiforme), ma piuttosto che parta, come dice Annette Karmiloff-Smith, dallo sviluppo stesso per spiegare lo sviluppo.

 

Ripercussioni sulla clinica

Mettiamo il caso che un bambino, all’età di sei anni, mostri scarse abilità comunicative e linguistiche, in particolar modo un lessico molto povero rispetto ai coetanei e problemi a livello fonologico e sintattico. Non risulta avere problemi a livello uditivo a possiede un QI nella norma. Con questo quadro sintomatologico è molto probabile che al bambino venga diagnosticato un disturbo specifico del linguaggio. Ci si chiede: può un disturbo dello sviluppo linguistico essere ricondotto ad una disfunzione del modulo del linguaggio così come prevede l’ipotesi modulare della mente?

La neuropsicologia classica interverrebbe solo dopo una diagnosi attivando una riabilitazione del modulo disfunzionale senza prevedere nessun intervento sui moduli preservati. La prospettiva neurocostruttivista invece è totalmente differente: ricerca delle atipie nella traiettoria evolutiva in fase molto precoce. Si va a cercare la “deviazione” dal percorso tipico in un momento maggiormente plastico nel quale è possibile fornire dei supporti che possano limitare un decorso atipico.

Con ciò non si vuole dire che si può cambiare il corso della genetica: un bambino affetto da sindrome di Williams, ad esempio, possiede una microdelezione del cromosoma 7 e questo è un fatto immodificabile che provoca necessariamente degli effetti a cascata sul successivo sviluppo, però agire in un momento nel quale un cervello ha una fortissima interconnessione è sicuramente più fruttuoso che agire quando il cervello è modularizzato. Agire precocemente quando sono ancora presenti vincoli “dominio-rilevanti” significa agire su predisposizioni cognitive più generali che solo in seguito si specializzeranno e localizzeranno.

Dove è possibile osservare queste atipie? Ad esempio, in alcuni meccanismi cognitivi di base quale il focus attentivo (si veda lo studio di A. Karmiloff-Smith “Development itself is the key to understanding developmental disorders”, 1998), oppure nella postura (si veda lo studio di Lindsay e collaboratori “Posture Development in Infants at Heightened versus Low Risk for Autism Spectrum Disorders”, 2013 ), e in altri possibili “marcatori” o, come dice E. Valenza, “campanelli d’allarme” che possano segnalare la presenza di una piccola deviazione dalla traiettoria tipica dello sviluppo.

 

La metafora del paesaggio epigenetico

Il neurocostruttivismo in ricordo di Annette Karmiloff-Smith - Paesaggio epigenetico

C.H. Waddington (1940) – La metafora del paesaggio epigenetico

 

L’ immagine sovrimpressa è la copertina di un’opera di C.H. Waddington del 1940 e rappresenta la metafora del paesaggio epigenetico, che risulta particolarmente adatta a descrivere la prospettiva neurocostruttivista. La pallina (ovvero lo sviluppo) può percorrere infinite traiettorie e subire diverse deviazioni all’interno del suo percorso. Quando la pallina giunge in fondo alla sua traiettoria si ha l’esito fenotipico, prodotto dall’interazione tra geni e ambiente.

In termini squisitamente neurocostruttivisti, i vincoli, dunque alcune predisposizioni innate, innescati dall’ambiente filogenetico e ontogenetico determinano una traiettoria unica che è sempre bidirezionale e probabilistica.

L’originalità del neurocostruttivismo di Annette Karmiloff-Smith è stata quella di sottolineare come sia estremamente più interessante e produttivo studiare la “pallina” mentre scende a valle, guardarne le piccole deviazioni e fornire dei supporti educativi in itinere, piuttosto che analizzare la pallina quando è già in fondo, a percorso concluso.

Le intuizioni di Annette Karmiloff-Smith hanno aperto un varco enorme di possibilità per la ricerca sullo sviluppo e il cambiamento cognitivo.

La scoperta del transfert: Freud e la rivoluzione psicoanalitica

All’inizio per Freud il transfert si caratterizza come un caso particolare di spostamento dell’affetto da una rappresentazione all’altra e diviene preferibile quella dell’analista per l’intrinseca disponibilità. Affiora inoltre l’idea, non ancora concettualizzata, del transfert come elemento che favorisce la resistenza: confessare un desiderio rimosso diviene decisamente difficile se fatto alla persona direttamente interessata.

 

Freud e la nascita del concetto di transfert

È ben noto come già prima di Freud certi fenomeni che mettevano in rapporto terapeuta e paziente, che oggi possiamo rubricare con i termini di transfert e controtransfert, fossero ritenuti di un’importanza rilevante: basti pensare che già nella pratica dell’ipnotismo nel settecento e nell’ottocento si sapeva che la relazione tra l’ipnotizzatore e l’ipnotizzato era una forma di rapporto con caratteristiche regressive e di dipendenza tali da ricreare aspetti genitore-figlio. Ma il contributo di Freud nella creazione a livello teorico del concetto di transfert e a livello clinico dell’idea di analizzarlo rimane a fondamento di ogni possibile sviluppo (Silvestroni 2009).

Possiamo ancora dire che la teoria del transfert è il pilastro su cui poggia il trattamento psicoanalitico e viene considerata uno dei maggiori apporti di Freud alla scienza (Etchegoyen 1986).
Ma come arrivò Freud a intuire questo processo?

Bisogna richiamare il trattamento catartico di Anna O. da parte di Breuer sul quale Freud agì come supervisore e poi, nel 1883, interpretò in tutta la sua complessità. Il trattamento della celebre paziente Anna O. durò dal 1880 al 1882 e terminò con un intenso amore di transfert e di controtransfert. I protagonisti di questa ben nota vicenda la considerarono un episodio umano come tanti altri e sul momento neppure Freud stabilì una connessione tra l’innamoramento e la terapia. Ma negli anni successivi Freud convinse Breuer a pubblicare le loro scoperte sull’isteria e osservò che la reticenza del collega era dovuta all’episodio sentimentale con Anna O: la convinzione arrivò solo quando Freud gli raccontò che anche a lui era successo qualcosa di simile e che perciò riteneva il fenomeno pertinente, inerente all’isteria.

Nei casi clinici degli “Studi sull’isteria” (1892-95) Freud fa numerosi commenti sulle singolari sfumature affettive che caratterizzano la relazione tra paziente e psicoterapeuta arrivando a definire con precisione il transfert (Übertragung) come una singolare relazione umana che si instaura tra medico e paziente attraverso un falso nesso in cui il paziente stesso assegna al terapeuta rappresentazioni spiacevoli che emergono a vari livelli durante il lavoro comune.

Il ragionamento di Freud parte dalle considerazioni sulla validità del metodo delle libere associazioni e su come, in alcuni momenti, esso si blocchi. Queste circostanze che lui definisce resistenze sono attribuibili a una spiacevole ed erronea rappresentazione del medico da parte del paziente. Ne dà un esempio chiaro che riportiamo testualmente: “Un certo sintomo isterico in una delle mie pazienti era stato il desiderio, concepito molti anni prima e subito ricacciato nell’ inconscio, che l’uomo col quale stava conversando si fosse fatto coraggio e afferrandola l’avesse baciata. Una volta, alla fine di una seduta, sorge nella paziente un desiderio analogo nei riguardi della mia persona; essa ne è terrorizzata, passa una notte insonne e la volta dopo, pur non rifiutando il trattamento, si dimostra del tutto inutilizzabile per il lavoro” (1892-95, p. 437). E poi aggiunge :”Da che ho appreso questo, posso presumere che in ogni caso in cui la mia persona si trovi coinvolta in modo simile si verifichino nuovamente un transfert e un falso nesso” (p. 438).

Freud osserva che il desiderio che tanto aveva spaventato la paziente non si presenta sotto forma di ricordo ma viene riferito direttamente a lui. Già qui i falsi nessi del transfert costituiscono un fenomeno regolare e costante della terapia, vengono inseriti nella dialettica del presente e del passato, nel contesto delle ripetizioni e della resistenza ma non comportano un nuovo tipo di impegno.

All’inizio quindi per Freud il transfert si caratterizza come un caso particolare di spostamento dell’affetto da una rappresentazione all’altra e diviene preferibile quella dell’analista per l’intrinseca disponibilità.

Affiora inoltre l’idea, non ancora concettualizzata, del transfert come elemento che favorisce la resistenza: confessare un desiderio rimosso diviene decisamente difficile se fatto alla persona direttamente interessata.
Questo materiale e queste intuizioni iniziali nel breve si coagulano concettualizzandosi con pienezza.

Nel poscritto dell’analisi del “Caso Dora” (1901) Freud espone la teoria del transfert in forma completa, declinandone i due versanti: come ostacolo e come agente della cura. L’idea principale è che, nel corso del trattamento analitico, la nevrosi cessi di produrre i suoi sintomi e se ne formino altri che coinvolgono direttamente la figura dell’analista: “Si può affermare che, in tutti i casi, la formazione di nuovi sintomi cessa durante la cura psicoanalitica. Ma la capacità produttiva della nevrosi non è per questo affatto spenta; si esercita creando un particolare tipo di formazioni mentali, per lo più inconsce, che possono denominarsi transfert” (1901, p. 396).

Così vengono rivissute una serie di esperienze psicologiche come se appartenessero non al passato ma al presente e fossero in relazione con lo psicoanalista: alcune di esse sono delle ristampe pressoché identiche a quelle pregresse, altre sono rifacimenti che subiscono l’influenza di qualche fatto reale. Ma il processo terapeutico, anche se gravemente ostacolato da tali distorsioni, può procedere normalmente poiché non c’è differenza se l’impulso da dominare è diretto alla persona dell’analista o a un’altra qualsiasi, infatti la psicoanalisi non genera il transfert ma lo scopre. Questa idea, che Freud non cambierà, declina il transfert come la malattia in sé che può essere curata attraverso il metodo interpretativo: “Il transfert, destinato a divenire il più grave ostacolo per la psicoanalisi, diviene il suo migliore alleato se si riesce ogni volta a intuirlo e a tradurne il senso al malato” (1901, p. 398).

Nell’articolo “Dinamica della traslazione” (1912), contenuto nei lavori sulla tecnica, Freud riprende la teoria del transfert, mette in evidenza il carattere essenzialmente erotico del fenomeno e si propone di risolvere due problemi: l’origine e la funzione del transfert nel trattamento psicoanalitico.

La radice del transfert va ricercata in certi modelli di comportamento o stereotipi che caratterizzano la vita amorosa di ognuno e sono la risultante di disposizioni innate e di esperienze vissute nei primi anni di vita. Freud pensa che solo una parte della libido promossa dalle esperienze del passato raggiunga il pieno sviluppo psichico e si metta al servizio della coscienza mentre l’altra componente viene rimossa e subisce l’attrazione dei complessi inconsci. È proprio questa parte di libido, sottratta alla realtà, che provoca il fenomeno del transfert.

Cioè, se il bisogno d’amore di un individuo non arriva a completo soddisfacimento nella vita reale, per Freud, nella pressante e continua ricerca, questo individuo applicherà la propria libido a qualsiasi oggetto che possa prestarsi a consentire la scarica in piena conformità con la logica del processo primario vigente nell’inconscio.

Riguardo alla funzione del transfert, Freud non ha dubbi nell’ attribuirgli il compito di resistenza: poiché lo scopo del trattamento psicoanalitico è seguire il processo regressivo della libido per renderla nuovamente accessibile alla coscienza e porla al servizio della realtà, l’analista diventa il nemico delle forze regressive e della rimozione: così il processo patologico si volge contro il fattore di cambiamento che vuole invertirne lo sviluppo.

Il transfert comincia a operare nel momento in cui si arresta il processo di richiamo alla memoria, così il paziente comincia a trasferire invece che ricordare e perciò sceglie da tutto il complesso l’elemento che può meglio inserirsi nella situazione presente: “Quando ci si avvicina ad un complesso patogeno, la parte del complesso idonea alla traslazione viene sempre spinta avanti per prima nella coscienza, e difesa con il più grande accanimento” (1912a, p. 527).

La successiva evoluzione nella teoria del transfert si ritrova nella nuova serie di scritti dedicati alla tecnica, specificamente nel saggio “Ricordare, ripetere e rielaborare” (1914). Qui Freud osserva che nella prima parte dell’analisi si produce una calma nel paziente accompagnata da una diminuzione e perfino una scomparsa dei sintomi, ma ciò non equivale alla guarigione. Si sviluppa piuttosto una nevrosi di transfert, cioè la trasposizione del fenomeno patologico a livello del trattamento stesso: quel che prima era nevrosi nella vita quotidiana dell’individuo si trasforma in nevrosi che ha come punto di partenza l’analisi e l’analista. Questo processo, che si manifesta spontaneamente all’inizio della cura, Freud lo ascrive a un meccanismo già menzionato nel 1901 e soprattutto nel 1912, la ripetizione. A questo punto viene delineata l’idea di ripetizione come implicita in quella di transfert in quanto qualcosa torna dal passato e opera nel presente. La ripetizione quindi viene contrapposta al ricordo, stabilendo una differenza concettuale chiara e ben definita: la dinamica del transfert è intesa come resistenza al ricordo, in altre parole il ricordo rimosso si ripete nel transfert.

 

La ridefinizione del concetto di transfert

Nel 1920 abbiamo una svolta radicale nella concettualizzazione del transfert e della ripetizione e questo avviene con il saggio “Al di là del principio di piacere”.

La ripetizione finora considerata un elemento descrittivo del tutto subordinato al principio di piacere diviene elemento esplicativo genetico, mentre il transfert non è più considerato come motivato dalla resistenza ma dalla coazione a ripetere a sua volta a servizio della pulsione di morte.
Trova consolidamento l’idea di ripetizione come principio esplicativo del transfert e si afferma inoltre che l’Io, agendo in nome del principio di piacere, tende a rimuovere tale transfert (che diviene quindi il rimosso e non la resistenza) dal momento che la funzione dell’Io è di opporsi alla ripetizione, vista come fonte di distruzione e di minaccia.

La ripetizione, in quanto principio esplicativo, testimonia l’esistenza di un impulso “demoniaco” che tende a ripetere la situazione del passato e così ridefinisce il transfert come bisogno di ripetere. Ma l’individuo, dice Freud, si oppone alla ripetizione attraverso una resistenza al transfert mobilitata dal principio di piacere e quindi dalla libido.
Vi è quindi un’inversione di rotta rispetto ai lavori precedenti in cui era la libido a spiegare il transfert come ripetizione dei desideri erotici infantili e non la resistenza al transfert.
Questo momento speculativo rimane comunque caratterizzato da una certa astrattezza come del resto il concetto di pulsione di morte.

Da questa analisi diacronica del concetto freudiano di transfert possiamo dire in conclusione che in lui il transfert fu percepito come un fenomeno di scarica aderente al principio del piacere e consistente nello spostamento della pulsione agente in quel preciso momento da immagini infantili e inconsce alla persona dell’analista.
Cioè il transfert è solo un modo di ripetizione del passato, segnatamente del conflitto edipico infantile, e la situazione del momento non vi apporta niente di nuovo poiché ai fini della scarica libidica un oggetto vale l’altro.

Nel processo analitico il transfert non è di ostacolo ma attiva l’impegno del paziente nel suo lavoro col medico e diventa strumento di comprensione e appropriazione dell’interpretazione dell’analista stesso.

Si tratta cioè da parte dell’analista di “permettere al paziente di arrivare a comprendere la differenza tra vecchi e nuovi oggetti, di eliminare le distorsioni di cui consta il fenomeno transferale, di comprendere l’irrealtà e l’inappropriatezza degli affetti sperimentati nei confronti del neutrale analista” (Silvestroni 2009).

 

La propensione al rischio nella scelta farmacologica

Fino a non molto tempo fa i processi decisionali venivano spiegati, soprattutto in ambito economico, dalla nota Teoria dell’utilità dell’attesa, in base alla quale la scelta veniva considerata come l’esito naturale di un calcolo delle probabilità del verificarsi degli eventi da parte dell’agente decisionale. E’ stato solamente grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Kahneman e Tversky che si è dimostrato poi come i processi decisionali siano di fatto guidati da euristiche e bias. 

Eleonora Minacapelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La funzione del farmaco e le origini della terapia farmacologica

Non mi riferisco all’uso del paracetamolo o di chissà quale semplice farmaco da banco, anche se, pure in questi casi, ciò che andrò a trattare c’entra pienamente. Qui voglio riferirmi nello specifico a tutti quei farmaci che in un dato momento della nostra vita è possibile che ci vengano proposti come soluzione a un problema organico di natura severa e su cui potremmo essere chiamati a decidere il da farsi.

Partiamo dalle premesse. La parola ‘farmaco’ deriva dal greco pharmakon, un termine semanticamente ambiguo, che, fin dagli albori del suo utilizzo, portava in sé il significato di rimedio benefico, ma nello stesso tempo anche quello di veleno. Se si guarda alla storia, infatti, fino al XVIII secolo non sarebbe stato del tutto errato pensare al farmaco come a un rimedio funzionalmente dicotomico. Le capacità di indurre modificazioni funzionali benefiche all’interno dell’organismo vivente non potevano, di fatti, disgiungersi completamente da effetti potenzialmente dannosi. Con l’introduzione dei farmaci di sintesi e con l’avvento della farmacodinamica e della farmacologia clinica, poi, il concetto di farmaco ha cominciato a mutare, divenendo semanticamente inscindibile da dimostrabili ed efficaci azioni terapeutiche. Il rapporto rischio-beneficio è diventato, così, metro della convenienza di utilizzare alcune sostanze in circostanze specifiche, allo scopo di ottenere alterazioni terapeutiche in presenza di patologia. Anche al giorno d’oggi, tuttavia, in alcune circostanze tale rapporto può risultare non del tutto vantaggioso, ponendo paziente e medico di fronte a scelte terapeutiche di non facile attuazione.

Voltaire sosteneva che la medicina consistesse nell’introdurre medicamenti che non si conoscono in un corpo che si conosce ancor meno per guarire da malattie di cui non sa niente. Pur nel suo estremismo, di fatto dipingeva con semplicità le incertezze cui talvolta siamo sottoposti, quando ci approcciamo a un farmaco importante per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere.

 

Nonostante i rischi si sceglie di effettuare una terapia farmacologica

Potenti azioni terapeutiche, infatti, possono esporre il paziente anche al rischio di eventi avversi gravi e talvolta mortali, in un rapporto rischio-beneficio di difficile valutazione. Soprattutto nell’ambito di patologie croniche invalidanti e degenerative, non sono rari, infatti, i ricorsi a terapie farmacologiche  che possono presentare importanti effetti collaterali, quali danni al fegato, problemi cardiovascolari, infezioni, encefalopatie e chi più ne abbia più ne metta.

Un’ambiguità funzionale che richiede spiegazioni esaustive da parte degli specialisti, ma anche e soprattutto la disponibilità di un paziente capace di comprendere e di vagliare, nell’ottica di una scelta farmacologica condivisa, la strada più adatta per sé e per la sua malattia. A tale ambiguità funzionale, si associa poi un’ambiguità derivante dalla dimensione economica e commerciale dei farmaci disponibili sul mercato. Basti pensare alle vicende relative al Daraprim, il farmaco anti-HIV, il cui brevetto è stato acquistato da quello che poi è stato definito “l’uomo più cattivo d’America”, che ne ha alzato il prezzo del ben 5000%. Ora, chi di voi comprerebbe ugualmente un farmaco del genere se ne avesse bisogno? Chi di voi vi rinuncerebbe? Chi di voi accetterebbe il rischio di una leucemia pur di non “finire” su una sedia a rotelle? Chi di voi preferirebbe un maggior profilo di sicurezza, anche se questo dovesse comportare una maggiore probabilità di perdere l’uso delle gambe? Sicuramente ognuno di noi risponderebbe in maniera differente. Ognuno per le sue ragioni, per il suo istinto e per le condizioni che sta vivendo nel momento in cui si trova a rispondere a queste domande. Bene, quello che voglio fare qui, è analizzare cosa può influire su una tale presa di decisioni, considerando come focus fondamentale il concetto di propensione al rischio.

 

I fattori che guidano i processi decisionali nella scelta dei farmaci

Fino a non molto tempo fa i processi decisionali venivano spiegati, soprattutto in ambito economico, dalla nota Teoria dell’utilità dell’attesa (Von Neumann & Morgenstern, 1947), in base alla quale la scelta veniva considerata come l’esito naturale di un calcolo delle probabilità del verificarsi degli eventi da parte dell’agente decisionale. E’ stato solamente grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Kahneman e Tversky che si è dimostrato poi come i processi decisionali siano di fatto guidati da euristiche e bias. Grazie a queste ricerche nel 1979 veniva formulata dagli stessi autori la Teoria del prospetto, in base alla quale la scelta dell’agente decisionale veniva considerata come fortemente dipendente dal contesto di valutazione. L’effetto di riflessione, un particolare tipo di violazione dell’utilità dell’attesa, è risultato poi essere rivoluzionario nell’indagine dei processi decisionali umani.

In base a quanto emerso, Kahneman e Tversky potevano, infatti, affermare che gli agenti decisionali tendono: 1) a preferire eventi positivi di valore minore con probabilità maggiore, rispetto a eventi positivi di valore maggiore con probabilità minore e, in maniera speculare, a preferire eventi negativi di valore maggiore con probabilità minore, rispetto a eventi negativi di valore minore di probabilità maggiore; 2) a preferire eventi positivi certi a quelli incerti e, specularmente, eventi negativi incerti a eventi negativi certi. Emergeva, quindi, come l’avversione al rischio venisse di fatto favorita dall’eventualità di ottenere dei guadagni, mentre la messa in gioco di possibili perdite, derivanti da condizioni di malattia ad esempio, attivava di fatto una ricerca del rischio. Lo sviluppo di tali evidenze assicurò almeno a Kahneman il premio Nobel per l’Economia nel 2002.

Qui, tuttavia, parliamo di salute e non di conto in banca, e, in effetti, le nostre scelte non funzionano sempre allo stesso modo indipendentemente dall’ambito in cui ci troviamo a prender decisioni. In un interessante studio inglese del 2005 condotto su 2041 soggetti, si è dimostrato, ad esempio, come la propensione al rischio non sia unitaria, ma altresì variabile di persona in persona, anche in base al dominio oggetto di analisi (sia esso il tempo libero, la salute, gli aspetti economico/finanziari, la carriera, la sicurezza o la società). Un trader finanziario ad esempio, potrebbe preferire scelte sanitarie più sicure e meno rischiose, pur effettuando compravendite di strumenti finanziari ogni giorno. Allo stesso modo, veniva dimostrato come il genere e l’età dell’agente decisionale assumessero un ruolo fondamentale nella presa di decisioni, per cui i maschi e i giovani risultavano essere i soggetti con maggior propensione al rischio rispetto al resto della popolazione.

 

Come la personalità influenza l’inclinazione al rischio

Da dove, tuttavia, tali differenze? Sicuramente l’inclinazione al rischio affonda le sue radici nella personalità. Nello studio inglese già citato, ad esempio, veniva dimostrato, come la generale propensione al rischio correlasse con un chiaro pattern del Big Five, costituito da un’alta estroversione e apertura all’esperienza, e da bassi livelli di nevroticismo, amicalità e coscienziosità. Fu il dottor Marvin Zuckerman, tuttavia, a parlare per la prima volta di sensation seeking e cioè di quel particolare tratto di personalità, secondo lui disgiunto da altri fattori di personalità, che può portare alla ricerca di esperienze e sensazioni varie, nuove, complesse e intense, per il cui risultato si è disposti ad accettare rischi fisici, sociali, legali e finanziari.

Attraverso studi di deprivazione sensoriale, Zuckerman aveva, infatti, notato che alcuni individui sopportavano situazioni monotone meglio di altri, i quali divenivano invece fin da subito molto inquieti. Non è mai stata chiarita la causa di tali diversità di base tra gli individui, né le motivazioni che portassero un individuo a una maggiore propensione alla ricerca del brivido e dell’avventura, piuttosto che alla semplice ricerca di esperienze o a una disinibizione generale o a una suscettibilità alla noia. L’ipotesi dell’indipendenza da altri fattori di personalità, tuttavia, è stata spesso screditata, a sostegno dell’ipotesi secondo la quale il substrato personologico generale della persona determini di fatto la soggettiva propensione al rischio.

Propendere per situazioni o scelte rischiose, tuttavia, non dipende unicamente da questo. Chi ha qualche base di neuropsicologia, sa bene quanto i lobi frontali, posti nella parte anteriore del cervello, siano ciò che abbiamo di più importante per la pianificazione, l’organizzazione e il controllo del nostro comportamento. Essi si qualificano come le aree filogeneticamente più recenti del nostro cervello e ci caratterizzano per la nostra peculiare dimensione di esseri umani, in un netto salto evoluzionistico rispetto agli altri animali. Richiedono, tuttavia, un lento processo di maturazione che subisce un picco di criticità in età adolescenziale fino alla finale e più importante maturazione delle aree prefrontali, necessarie per lo sviluppo delle capacità di giudizio sociale e di presa di decisioni. In uno studio di Eshel e colleghi, ad esempio, si dimostrava come gli adolescenti di fatto ingaggiassero strutture regolatrici prefrontali con un’estensione minore rispetto agli adulti di fronte a scelte economiche rischiose.

E’ per tali motivi che nei teenager spesso osserviamo comportamenti rischiosi e alti livelli d’impulsività, in realtà destinati a un naturale declino con il completamento della maturazione cerebrale. Alle fasi normali di sviluppo, si aggiungono poi l’abuso di sostanze e le patologie neurologiche, che in un dato momento della vita possono affacciarsi alla nostra esistenza. In tali situazioni, le aree frontali possono risultare purtroppo coinvolte, provocando alterazioni del comportamento e delle capacità di flessibilità mentale, d’inibizione delle risposte automatiche e di problem-solving, con un’inevitabile influenza sulle capacità di prendere decisioni secondo criteri di ragionamento interni. Risulta chiaro, quindi, come persone di giovane età o con un profilo attentivo-esecutivo deficitario possano risultare svantaggiate nella presa di decisioni in ambito sanitario, per l’indisponibilità di un completo assetto cognitivo, utile a una ragionata valutazione degli scenari possibili. Si pensi ad esempio a una giovane paziente con sclerosi multipla con lesioni frontali attive, posta di fronte alla scelta di un ventaglio di farmaci immunosoppressori con minori o maggiori effetti collaterali e con minori o maggiori profili di efficacia per rallentare il decorso della malattia. Quanta parte la sua età e i suoi deficit cognitivi giocheranno nella sua scelta? Quanta parte giocherà il suo tono dell’umore e quanto la sua personalità? Quanto interferirà poi la sua precedente esperienza farmacologica, il suo livello di disabilità e ciò che ha sentito da un paziente con la sua stessa malattia in sala d’attesa? Chissà se vorrà fare un Erasmus a breve, chissà che progetti avrà per il suo futuro e quante montagne vorrà scalare, … e tali progetti influiranno sulla sua scelta?

Per questo tipo di esempi e per le domande a essi correlate, è stato introdotto il concetto di percezione del rischio, un costrutto fondamentale per predire l’ingaggiamento del paziente in comportamenti connessi alla salute. Da letteratura si sa come esso si costituisca in parte di un processo deliberativo, in base al quale i pericoli connessi alla salute vengono analizzati in termini razionali, e in parte di un processo emotivo, attraverso cui gli stessi rischi vengono valutati mediante la valenza percepita dell’evento (positiva o negativa) in associazione con il livello di arousal (basso o alto) esperito. Questo modello bi-dimensionale, tuttavia, si è dimostrato non essere sufficiente a spiegare il nostro comportamento quando ci troviamo a prender decisioni in ambito sanitario.

Per questo motivo, Ferrer e colleghi hanno di recente proposto un modello tripartito di percezione del rischio, il TRIRISK model, aggiungendo alle due componenti sopra descritte, una terza, chiamata esperienziale. Essa qualifica il paziente come un soggetto che valuta i rischi connessi alla salute in maniera né razionale, né emotiva, ma sostanzialmente olistica, basata su associazioni acquisite nel corso del tempo, esplicantisi in immagini concrete, metafore e narrative personali. In particolare, nello stesso studio emergeva come, a mediare il rapporto tra la percezione del rischio e i comportamenti connessi alla salute, fosse il rapporto che le persone solitamente instaurano con le proprie emozioni. La componente esperienziale della percezione del rischio, ad esempio, prediceva meglio le intenzioni dei pazienti che tendevano ad accettare i propri sentimenti, quella deliberativa prediceva meglio le intenzioni di quelli che tendevano a evitare i propri sentimenti, mentre quella emotiva prediceva le intenzioni di tutti i soggetti indipendentemente dalla loro tendenza ad accettare o evitare le emozioni. Come suggerito dagli autori, un obiettivo futuro sarà quello di comprendere la direzione e l’ampiezza dei cambiamenti di comportamento connessi alla salute per ognuno dei costrutti discussi, in modo da massimizzare gli impatti positivi sulle condotte sanitarie.

D’altra parte, per come si evince da quanto appena discusso, la propensione e la percezione del rischio connesse alla salute costituiscono una tematica assai complessa, in cui psicologia e neuropsicologia si intersecano concertando insieme i tempi e le scelte del paziente. Non va dimenticato, tuttavia, come anche il medico, di fatto, sia probabilmente soggetto alle stesse disquisizioni di cui abbiamo trattato finora. La personalità, l’età, il sesso, i fattori concomitanti (esperienze professionali di eventi avversi, personale familiarità con la malattia, il tono dell’umore…), la soggettiva inclinazione ad accogliere o evitare le emozioni potrebbero di fatto giocare un ruolo decisivo, non solo nella scelta, ma anche nella proposta del trattamento.

Incrementare le nostre conoscenze rispetto alla presa di decisioni in ambito sanitario consentirebbe, quindi, di rendere la scelta terapeutica un momento realmente condiviso con la possibilità di aumentare l’aderenza ai trattamenti e di migliorare, in potenza, gli outcome clinici.

Abilità sociali nelle donne anziane: questione di “naso”

Un nuovo studio condotto su anziane statunitensi dai ricercatori del Monell Center e alcune istituzioni collaboranti hanno riportato che la vita sociale delle donne è associata con l’efficienza del funzionamento del proprio senso dell’olfatto. Lo studio ha scoperto che le donne più anziane che svolgono in maniera meno efficiente compiti di identificazione olfattiva, tenderebbero anche ad avere una rete sociale meno ricca.

 

Un buon olfatto nelle donne anziane correla con una buona vita sociale

I nostri risultati confermano che il senso dell’olfatto è un aspetto chiave della salute complessiva nella popolazione anziana“, sostiene Johan Lundström, dottore di ricerca, neuroscienziato cognitivo e autore dello studio al Monell Center. “Più del 20% della popolazione Statunitense al di sopra dei 50 anni presenta un senso ridotto dell’olfatto. Abbiamo bisogno di comprendere meglio come l’olfatto sia collegato al comportamento sociale in modo da poter migliorare la qualità della vita di chi invecchia“.

Nello studio, pubblicato online sulla rivista “Scientific Reports”, i ricercatori hanno analizzato dati dal “National Social Life, Health and Aging Project” (NSLHP), uno studio condotto sulla popolazione riguardo il rapporto tra salute e fattori sociali negli Stati Uniti. I dati NSHAP, raccolti tra il 2005 e il 2006 da un campione di 3.005 Americani adulti tra i 57 e gli 85 anni, includevano test di identificazione dell’odore e informazioni sulla vita sociale dei partecipanti.

I ricercatori hanno confrontato i punteggi di ogni soggetto del NSHAP ai test di identificazione dell’odore, una misura scientificamente accettata della funzione olfattiva, con un indice aggregato di “vita sociale complessiva”, che includeva rilevazioni di dati come il numero di amici e parenti stretti dei partecipanti, e di quanto spesso essi socializzassero con gli altri. I dati sono stati adattati per potere controllare possibili variabili confondenti, come il livello di educazione, la tendenza a fumare e lo stato mentale e fisico dei soggetti.

I risultati hanno rivelato un chiaro collegamento tra l’abilità olfattiva delle donne più anziane e il loro punteggio complessivo riguardante la vita sociale: le donne con buone abilità olfattive tendevano ad avere vite socialmente più attive, mentre, al contrario, funzioni olfattive ridotte erano associate a punteggi minori nella vita sociale.

Sappiamo che le interazioni sociali sono strettamente legate allo stato di salute, quindi donne anziane che presentano un senso minore dell’olfatto potrebbero volersi focalizzare sul mantenimento si una vita sociale attiva per migliorare la loro salute fisica e mentale complessiva“, sostiene l’autrice Sanne Boesveldet, PhD e neuroscienziata.
I ricercatori non hanno rilevato la stessa associazione tra funzione olfattiva e vita sociale negli uomini anziani.

Queste differenze di genere potrebbero suggerire che un training sulle abilità olfattive, che è stato dimostrato aiuti a migliorare un senso dell’olfatto ridotto sia in uomini che donne, potrebbe avere benefici aggiuntivi in donne anziane aiutandole a migliorare sia il senso dell’olfatto che il benessere sociale“, sostiene Lundström.

Mentre lo studio stabilisce un collegamento tra il senso dell’olfatto e la vita sociale, ancora non è chiara la modalità con cui le due variabili sarebbero connesse o se la stessa relazione esista anche nelle donne più giovani. Futuri studi longitudinali sugli stessi soggetti potrebbero aiutare a chiarire se la perdita del senso dell’olfatto possa influenzare la vita sociale e potrebbero permettere ai ricercatori di identificare i meccanismi coinvolti.

Ciò nonostante, sapere che lo stato del senso dell’olfatto è collegato alle attività sociali, potrebbe già essere prezioso per i soggetti affetti da disordini olfattivi.

E’ possibile incorrere in racconti aneddotici da parte di donne che hanno perso il proprio senso dell’olfatto, sul fatto di avere meno amici rispetto ad una condizione di salute precedente“, sostiene Lundström. “Speriamo che i nostri risultati possano rassicurarle sul fatto di non essere le sole a sentirsi così“.

 

Cos’è il dèjà vù? Un viaggio fra gli studi e le interpretazioni più recenti

Il dejà vù è infatti descritto come quella esperienza nella quale si percepisce un intenso e inspiegato senso di familiarità verso quello che si sta vivendo, come se fosse già accaduto, ma totalmente inappropriato in quanto, in realtà, sta avvenendo per la prima volta.

Anna Beatrice Concilli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI FIRENZE

 

Il dejà vù: che cos’è e le possibili spiegazioni

Mi sembra di aver già vissuto questa situazione…” è una delle frasi che molti di noi hanno almeno una volta pensato nel corso della propria vita. Secondo Adachi et al. (2003) sono circa il 60-80% delle persone sane che hanno sperimentato questa sensazione, ovvero il cosiddetto dejà vù. Il dejà vù è infatti descritto come quella esperienza nella quale si percepisce un intenso e inspiegato senso di familiarità verso quello che si sta vivendo, come se fosse già accaduto, ma totalmente inappropriato in quanto, in realtà, sta avvenendo per la prima volta (Bràzdil et al., 2012). Nei giovani adulti, questo fenomeno si verificherebbe addirittura più volte nello stesso anno (Urquhart&O’Connor, 2014).

Questo tipo di esperienza è stato oggetto di interesse non soltanto per neurologi e psicologi, ma ha interessato molto anche il mondo del cinema, essendo un fenomeno tanto affascinante, per alcuni paranormale, quanto inspiegato. Infatti si sono scatenate le più bizzarre interpretazioni, fra le quali una possibile “altra vita” che irromperebbe, in questa, con il Dejà Vù proprio per ricordarci che in realtà ne abbiamo già vissuta una in precedenza. In realtà, ci sarebbe una spiegazione più scientifica e comprovata rispetto alle più disparate congetture che si muovono su questo argomento.

I primi studi sono stati effettuati su singoli casi clinici (Moulin et al, 2005) affetti da un particolare tipo di epilessia: quello del lobo temporale. Infatti il Dejà Vù risultava essere uno dei sintomi maggiormente presenti in questo tipo di patologia e quindi più facilmente studiabile. Successivamente le procedure sperimentali sono state applicate a campioni più ampi che permettessero dei risultati più generalizzabili e significativi. Tuttavia studiare il Dejà Vù sperimentalmente ha presentato molti ostacoli. La difficoltà maggiore che gli studiosi hanno incontrato nel fatto di studiare in laboratorio un fenomeno come questo, era che le osservazioni e i test venivano effettuati settimane o addirittura mesi dopo tale esperienza, e questo avrebbe potuto comportare ristrutturazioni o bias cognitivi. (Urquhart&O’Connor, 2014). Nonostante queste difficoltà la ricerca in questo ambito ha portato negli ultimi anni a grandi scoperte e ha permesso di far maggiore chiarezza sopratutto sulle basi neuronali e sul network implicato in questo processo.

Inizialmente il Dejà Vù sembrava fosse dovuto ad un’alterazione mnemonica: al soggetto sembrava quindi di aver già vissuto una determinata situazione perché, in un angolo della mente, per sbaglio, un falso ricordo si attivava.

Studi successivi hanno cercato di dare un profilo ancora più delineato a questo fenomeno, partendo dall’evidenza che la sensazione del Dejà Vù fosse anche uno dei sintomi degli individui che soffrono di epilessia temporale (Akgul et al., 2013; Adachi et al., 2010). Così, dagli studi su soggetti patologici, gli esperti si sono chiesti se fosse possibile sovrapporre il network neuronale implicato in quel tipo di Dejà Vù, con quello coinvolto nel Dejà Vù che viene sperimentato dai soggetti sani. Infatti l’esperienza del Dejà Vù in soggetti non patologici è un fenomeno che porta ancora con sé molti punti interrogativi, alcuni dei quali risolti dalle ultime evidenze sperimentali.

 

Gli studi sulla morfologia cerebrale di chi ha esperienze di dejà vù

Uno degli studi più rilevanti degli ultimi anni risulta essere quello di Bràzdil e colleghi del 2012 che hanno studiato le differenze nella morfologia cerebrale fra 113 soggetti sani che hanno sperimentato almeno una volta nella vita il Dejà Vù, e soggetti sani che invece non hanno mai provato tale esperienza. L’obiettivo dello studio è stato quello di individuale le strutture anatomiche implicate in questo processo. I risultati ottenuti sono molto interessanti: emerge, infatti, una significativa riduzione della materia grigia nell’area paraippocampale nei soggetti con Dejà Vù rispetto a quelli senza.

L’insieme delle regioni cerebrali che distinguono i soggetti Dejà Vù e quelli non Dejà Vù rispecchia proprio la riduzione del volume della materia grigia, recentemente identificata, in soggetti con epilessia del lobo temporale, che coinvolge, infatti, l’ippocampo e le regioni paraippocampali. Il Dejà Vù, quindi, si configurerebbe come una piccola epilessia temporale che creerebbe la sensazione di familiarità e, di fatto, una sorta di falso ricordo. I risultati hanno dimostrato come, in entrambi i gruppi con Dejà Vù epilettico e non patologico, sembra esserci un’alterazione diffusa delle stesse strutture e reti neurali. Questa somiglianza qualitativa dell’esperienza del Dejà Vu in casi patologici e non patologici suggerisce allora un processo comune sottostante (Adachi et al., 2010) e quindi indica la presenza di una similarità nelle strutture anatomiche coinvolte.

Partendo da questo studio, l’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare (Ibfm) del Cnr di Catanzaro e della clinica neurologica dell’università di Catanzaro, ha sottolineato come in realtà non si possa realmente parlare di falsi ricordi nelle persone sane.
Labate e colleghi (2015), infatti, stimano che in realtà, nei soggetti che non soffrono di epilessia temporale, il fenomeno del Dejà Vù sia riconducibile ad un’origine diversa, benchè caratterizzata dalle stesse sensazioni di familiarità. Sarebbe dovuto, cioè, ad una sorta di inganno emotivo. Ma vediamo più nello specifico quest’interessante studio.

I ricercatori hanno confrontato le aree di attivazione cerebrale di 32 soggetti con epilessia temporale con esperienza di Dejà Vù, 31 soggetti con epilessia temporale senza Dejà Vù, 22 soggetti sani che avevano sperimentato almeno una volta nella vita il Dejà Vù e 17 soggetti sani che invece non lo avevano mai sperimentato. Tutti i gruppi sono stati sottoposti ad uno screening per il Dejà Vù, ad un elettroencefalogramma sia in veglia che in sonno, e ad una risonanza magnetica cerebrale tradizionale e morfologica avanzata. Da questi test sono state evidenziate le aree cerebrali coinvolte nel Dejà Vù ed è emerso che l’espressione cerebrale di questo fenomeno, in soggetti sani e affetti da epilessia, è completamente diverso.

Lo studio, infatti, evidenzia come nei soggetti affetti da epilessia temporale sarebbero coinvolti principalmente le aree temporali e in particolar modo l’ippocampo, aree deputate al riconoscimento visivo e implicate nella memoria a lungo termine. I soggetti non patologici, invece, evidenziavano attivazioni nella corteccia insulare, che convoglia tutte le informazioni provenienti dal mondo sensoriale all’interno del sistema limbico, deputato alla regolazione dello stato emotivo. Questa evidenza mostrerebbe quindi come le basi anatomiche del Dejà Vù sarebbero completamene diverse. Come spiegare allora questi risultati?

 

Deja Vù: Possibili interpretazioni dei risultati degli studi

Gli autori ipotizzano come nei soggetti epilettici il fenomeno del Dejà Vù sia un sintomo organico correlato, ovviamente, alla patologia in corso. Si creerebbero quindi dei veri e propri errori di memoria, percepiti in realtà dal soggetto come ricordi corretti. Chi soffre di epilessia avrebbe una reale alterazione della memoria in quanto l’area che si attiva durante il Dejà Vù è proprio quella implicata nella memorizzazione. I falsi ricordi sarebbero delle manifestazioni ictali causate dalle scariche epilettiche che creerebbero un malfunzionamento di queste aree.

Nei soggetti sani, invece, si potrebbe parlare, come detto in precedenza, di “inganno emotivo”: sostanzialmente la situazione che si sta vivendo, con tutti i suoi correlati emotivi, richiamerebbe un’altra situazione simile vissuta precedentemente. In realtà, quindi, sarebbero le emozioni di quella determinata esperienza che sarebbero state già vissute, non propriamente l’esperienza in sé. Labate identifica il Dejà Vù come un richiamo di un ricordo che ha determinato quella sensazione, immagazzinata grazie ad un’altra esperienza vissuta in passato. Questo spiegherebbe anche perchè è un fenomeno così frequente nella popolazione sana.

Nonostante gli studi abbiano condotto ad una spiegazione più prettamente scientifica, qualcuno ritiene ancora che il Dejà Vù sia una sensazione che viene provata quando ci si trova esattamente dove si dovrebbe essere. Come se fosse un punto di congiunzione fra il percorso tracciato dal destino, e quello che realmente si sta percorrendo. Forse dopo queste evidenze, anche i più romantici si ricrederanno. O no?

L’interpretazione psicoanalitica di un caso di frigidità in Musica: il libro di Yukio Mishima

Nel libro, ispirato ad una storia vera, l’affascinante ragazza, Reiko, che il medico assiste, sostiene di non riuscire a sentire la “musica”. I suoni e la melodia, non appena uditi, si trasformano in silenzi, metafora del suo non riuscire a percepire e raggiungere il piacere nel rapporto amoroso. La musica diventa allora simbolismo e allusione dell’orgasmo, un problema sessuale femminile che il dottor Shiomi si trova ad affrontare.

Francesco Roselli 

 

[blockquote style=”1″]Nel nostro lavoro si trattano solo cose che non si possono né vedere né toccare, ma ciò non toglie che qualsiasi psicoanalista abbia il nascosto desiderio di avere davanti ai propri occhi una chiara verifica[/blockquote] è quanto ammette con amarezza, a se stesso, il dottor Shiomi Kazunori, psicoanalista, tra i principali protagonisti di Musica (libro scritto da Yukio Mishima), che ha in cura una giovane donna, un caso non semplice che lo mette a dura prova.

Nel libro, ispirato ad una storia vera, l’affascinante ragazza, Reiko, che il medico assiste, sostiene di non riuscire a sentire la “musica”. I suoni e la melodia, non appena uditi, si trasformano in silenzi, metafora del suo non riuscire a percepire e raggiungere il piacere nel rapporto amoroso. La musica diventa allora simbolismo e allusione dell’orgasmo, un problema sessuale femminile che il dottor Shiomi si trova ad affrontare.

Nel libro si indagano gli aspetti dell’animo umano, non solo del paziente ma anche dello psicoanalista, del suo debole per l’attraente giovane. Tra le pagine, si può toccare con mano quel controtransfert che mette in risalto le debolezze dell’animo umano, rapporto tra terapeuta e paziente di cui già C.G. Jung e Sabina Spielrein ci avevano messo al corrente.

Ma Reiko non è costante nelle sedute, le salta, si allontana per un po’, poi ritorna, prova giovamento al rientro nella “sala terapia”, le brillano gli occhi, il dottor Shiomi l‘ha sempre aspettata e desiderata. Reiko forse guarisce ma non grazie al suo terapeuta. Perché mente. Utilizza la bugia come protezione del suo essere. Guarirà, forse no. Il finale è da scoprire.

Poi c’è il pagamento delle sedute, anche se saltate. Il tutto fa parte della terapia e il lettore, curioso, può finalmente, attraverso queste pagine, entrare nella stanza della terapia, assistere agli incontri e osservarne gli sviluppi, seguire il rapporto che s’instaura tra psicoanalista e paziente e comprenderne le evoluzioni.

Mishima ci regala pagine ordinate, soddisfa la curiosità del lettore che ha voglia di conoscere e capire, pensieri brevi ma strutturati, una scrittura cadenzata, con una metodica tipica della precisione giapponese, Mishima è un samurai della letteratura.

L’attualità del controtransfert nella psicoanalisi contemporanea

Diversamente dallo studio del transfert, più ancorato al retaggio freudiano, quello sul controtransfert ha avuto un ruolo determinante e innovativo nella teoria e nella prassi terapeutica contemporanea.

 

Hirsch (1994), nel ripercorrere sinteticamente la storia dell’uso terapeutico del controtransfert, ci ricorda che i primi a dare un contributo innovativo come Cohen (1952), Fromm-Reichmann (1950), Tauber (1954) e Thompson (1950), ebbero un ruolo di transizione tra i momenti psicoanalitici in cui il controtransfert era visto come un problema nevrotico che interferiva con il lavoro analitico a quelli in cui la consapevolezza controtransferale è considerata una significativa fonte terapeutica, per arrivare poi a una comprensione di “campo” dei fenomeni psicoanalitici.

Questi autori hanno tutti enfatizzato i problemi e le trappole del controtransfert almeno quanto il suo valore potenziale. Al riguardo, ci sembra interessante accennare  brevemente al pensiero di fondo di una delle autrici più influenti e innovative di quegli anni, cioè Clara Thompson.

 

Il controtransfert secondo la visione di Clara Thompson

Nella visione di Clara Thompson (1950, 1964), si possono distinguere nel controtransfert sentimenti sia razionali che irrazionali. Questi ultimi possono essere attribuiti alla personalità e ai valori dell’analista e portare a gravi punti ciechi nella visione analitica o a potenziali agiti. L’obiettivo dell’analista è quindi diventare consapevole di tutti i sentimenti e capire se sono aspetti della propria personalità (cioè reazioni nevrotiche, basate sull’ansia verso il paziente) o dati utili sul paziente stesso.

Come Clara Thompson (1964) indica, tutti gli analisti, nonostante analisi personali adeguate, hanno valori e caratteristiche di personalità che continuano ad avere un significativo impatto analitico che non può mai essere del tutto neutralizzato. L’antidoto è la consapevolezza vigile di tali caratteristiche invece del loro diniego.

Come Thompson anche Cohen (1952) suggerisce che gli analisti dovrebbero accogliere un’ampia gamma di sentimenti controtransferali evocati nel processo analitico. L’autore, ispirato dalle tesi sullivaniane sulla centralità dell’angoscia nelle relazioni interpersonali, considera il controtransfert come un problema legato all’ansia che può, grazie alla consapevolezza della sua inevitabilità, essere usato per controllare l’agito da parte dell’analista, così come per informare l’analista stesso su certe caratteristiche del paziente.

 

Transfert e controtransfert

Nell’attuale prospettiva interpersonale il controtransfert non può essere isolato dal transfert. La maggior parte degli analisti contemporanei della scuola interpersonale parlano del controtransfert come parte di un campo interpersonale dinamico o matrice transfert-controtransfert. Per esempio: Searles (1979);  Stern (1985);  Greenberg (1991); Mitchell (1993); Fiscalini (1994); Ogden (1994).

Il cambiamento di paradigma avvenuto nel pensiero psicoanalitico si deve all’introduzione del concetto sullivaniano di “osservatore partecipe” che presuppone nell’analista l’abilità di occuparsi e di valutare attentamente la propria partecipazione rispetto al paziente. Gli autori interpersonalisti hanno esteso questa preziosa intuizione fino a rivoluzionare l’uso terapeutico del controtransfert in modi che Sullivan (1954) stesso non aveva clinicamente portato avanti. Nel campo psicoanalitico il transfert e il controtransfert sono esperienze formate reciprocamente e create congiuntamente da entrambi i partecipanti analitici, piuttosto che come espressioni esclusivamente endogene del mondo intrapsichico chiuso dell’uno o dell’altro partecipante.

Sfumature più sottili dell’impostazione di fondo appena vista si rilevano in Wolstein (1959) e Searles (1979) per i quali transfert e controtransfert sono reciprocamente agiti, poi osservati da una delle due parti e infine analizzati. Questa radicale concezione dell’analisi controtransferale deve molto agli iniziali contributi di Tauber e Green (1959).

Questi due autori furono i primi a fornire la ormai ampiamente accetta ma storicamente originale idea che sia l’analista che il paziente rispondono inconsciamente l’uno all’altro. Ogni manifestazione controtransferale come sogni, lapsus e così via, non riguardano solo l’analista che li sperimenta ma anche il paziente.

Coerentemente con questa visione della situazione analitica, le esperienze controtransferali vengono trattate allo stesso modo di quelle transferali e cioè accettate, esaminate ed esplorate. Il controtransfert rappresenta sempre un indizio che informa su importanti dati analitici che potrebbero stare al di fuori della consapevolezza sia del paziente che dell’analista.

Da analoghe rilevazioni parte il citato lavoro di Wolstein del 1959 che definisce i modelli di interazione generati da paziente e analista come “interconnessioni transfert-controtransfert”:

Tali interconnessioni paratassiche o collusioni inconscie si verificano quando analista e paziente si relazionano e comunicano in modo tale che il movimento in avanti del processo inconscio di un partecipante è automaticamente intercettato da un processo inconscio dell’altro. In questa circostanza nessuno dei due processi emerge senza l’emergere correlativo dell’altro (Wolstein, 1959, p.133).

Secondo l’autore la reciproca elaborazione di queste interconnessioni è l’evento interpersonale più illuminante e terapeuticamente valido sia per il paziente che per l’analista.

Dello stesso avviso è anche Searles (1979) che sviluppa l’idea del “paziente come terapeuta dell’analista” (Searles, 1979, p.203) inserendola nella sua visione profondamente co-creativa del processo analitico. L’autore descrive una forma di reciprocità in cui può avvenire un’identificazione dell’analista con gli aspetti più sani della personalità del paziente “secondo una modalità che comporta crescite stabili e costruttive della nostra personalità” (Searles, 1979, p.57).

Per concludere questa breve panoramica sull’attuale concezione “co-creativa” (Silvestroni, 2009) dei fenomeni analitici, vorrei citare un autore, Ogden, che ben interpreta lo spirito fortemente interattivo e co-partecipativo tipico della comprensione contemporanea dei fenomeni controtransferali.

Ogden considera la matrice entro cui si generano i significati della situazione analitica come una: “terza soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica” (Ogden, 1997, p.10). In questo contesto il transfert- controtransfert non sono più ritenuti entità separabili, nate ciascuna in risposta dell’altra, ma costituiscono piuttosto: “un’unica dimensione, sono aspetti di una singola totalità intersoggettiva che viene vissuta separatamente (e individualmente) da analista e analizzando” (op.cit., p.180).

Ogden considera il “terzo analitico intersoggettivo” come un terzo soggetto creato dallo scambio inconscio tra analista e paziente. Ne consegue la necessità per l’analista di rimanere aperto, disponibile e sensibile verso “una recettività inconscia che implica la (parziale) consegna della propria individualità separata a […] una terza soggettività” (op.cit., p.10). Tuttavia le soggettività individuali non vengono annullate e anzi si trovano in una tensione dialettica con il terzo analitico che permette a entrambi i partecipanti di vivere l’esperienza generatasi in modo diverso. Secondo Ogden la creazione del terzo analitico riflette l’asimmetria della situazione analitica che implica il privilegiare l’esperienza inconscia dell’analizzando quale tema principale (anche se non esclusivo) del dialogo analitico.

Mi pare della massima suggestività il modo in cui Ogden (1997) sottolinea la naturale e spontanea capacità di “sovrapposizione” degli inconsci all’interno della situazione analitica e ci ricorda, citando Winnicott, che “la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta” (Winnicott, 1971, p.79, cit. in Ogden, 1997, p.38).

Essere John Malkovich (1999) e la ricerca dell’identità – Recensione del film

Essere John Malkovich (1999) raggruppa quattro personaggi infelici e insoddisfatti: un burattinaio appassionato e disoccupato, la moglie trasandata e ingenua, la collega bella e sfuggente, il datore di lavoro centenario e bizzarro; quattro persone diverse che grazie alla celebrità realizzano un sogno recondito proibito.

 

Essere John Malkovich: la trama e la rappresentazione psicologica dei personaggi

Craig è costretto ad accettare un impiego redditizio ma terribilmente noioso, si isola con i suoi “giocattoli” che strumentalizza per rappresentare la solitudine e i sogni, in un’esistenza condotta per inerzia, misera e scialba come il rapporto di coppia che riflette l’unico probabile punto in comune tra i protagonisti: la mancanza di vitalità e di consapevolezza di sé. Allo stesso modo Lotte si fidanza e sposa un uomo senza comprendere quanto si allontani dai suoi desideri: dalla scarsa cura di sé e il look maschile trasuda un modo di essere che di femminile non ha nulla, totalmente inconsapevole dei suoi interessi sessuali, appare spaesata quando si trova di fronte ad una donna di bell’aspetto.

Dal principio non sembra nutrire alcuna invidia nei confronti di Maxine, ma un desiderio di unirsi a lei che si concretizza solo nell’ingresso nel corpo di John Malkovich. È curioso notare il momento di presa di coscienza sulla vera identità di genere e sessuale, ovvero nel primo viaggio nella mente dell’attore, un’esperienza perfetta in cui tutto ha un senso e non manca nulla. Da questo dettaglio tutt’altro che insignificante si deduce una conoscenza di sé silente che si risveglia prepotentemente attraverso l’incontro con Maxine e l’ingresso in John. In altre parole, è significativo scoprire di essere omosessuale e di indossare un corpo egodistonico in un’età ormai lontana dall’adolescenza, un dato che suggerirebbe, pertanto, una scarsa inclinazione alla riflessione su di sé.

Si arriva così alla sprezzante, snob e cinica Maxine, l’approfittatrice che riscopre una sensibilità nella relazione con un Malkovich che ha poco di sé e molto degli altri. Non appena apprende la notorietà dell’attore cerca di accoppiarsi con lui per tornaconti economici e presumibilmente narcisistici, e quando riesce a conquistarlo definitivamente, accedendo così allo status di celebrità internazionale, qualcosa si rompe. Non a caso accadono due avvenimenti essenziali: la metamorfosi di John in Craig e l’attesa di un bambino che organicamente appartiene all’attore ma è “mentalmente” legato a Lotte. La notorietà perseguita anche a costo di ferire l’unica persona che sembra averla amata in quanto tale, perde di significato quando il marito assomiglia più al burattinaio fallito che al grande attore e la gravidanza innesca il senso di colpa: in termini kleiniani, Maxine slitta nella posizione depressiva nella quale comprende una responsabilità personale e si protende verso la persona amata per riparare al danno effettuato. Più che l’orientamento sessuale, appare centrale il tema della popolarità come mezzo di espressione del sé: stare con personaggio celebre a livello internazionale è quindi la sola scappatoia da una vita mediocre nella quale non può essere notata e quindi amata, però qualcosa manca, ed è il riconoscimento, la sintonizzazione affettiva che si concretizza nel legame con Lotte.

 

Essere John Malkovich: riflessioni psicologiche sul film

L’interesse di Craig si sofferma presumibilmente su due elementi: essere un burattinaio di successo e stare con una donna di successo. La carriera ardua e sfuggente, una relazione con la collega ambita e distante suggeriscono il tema dell’irraggiungibilità e della disposizione allo sforzo per creare un contesto perfetto ma poco congruente con la realtà, un’ossessione che macchia la serenità e impedisce di venire a patti con i propri limiti. Non accetta il fallimento professionale, né tanto meno il palese rifiuto di Maxine riluttante ad approfondire la sua conoscenza fin dall’inizio, eppure tenta qualsiasi carta pur di rincorrere i sogni che, una volta realizzati si sbiadiscono e perdono la lucentezza di un tempo.

Essere “un altro” gli ha permesso di ottenere la carriera, non l’amore, e per essere ricambiato Craig è disposto a trasferirsi per sempre in un’altra mente che curiosamente appartiene a qualcuno di molto prezioso per la bella collega: la figlia. Mentre all’inizio l’assunzione di un’identità ideale si pone al centro, adesso è via via più marginale. Essere John Malkovich è l’unico in grado di ottenere l’attenzione delle donne difficili, permettersi di rivestire i panni di chi desidera, anche quelli di un burattinaio: il successo è assicurato poiché la stella del cinema è ammirata e acclamata dal mondo intero e riceverà comunque apprezzamenti.

Il potere, quindi, sta nel pilotare un simbolo, impersonare un’identità dal prestigio conquistato e stabile che ammalia il mondo intero, monitora l’affetto e l’attenzione delle persone ambite e soddisfa, di conseguenza, i desideri inesaudibili. La stessa Maxine suscita nei coniugi una forte attrazione: bella, curata, a tratti perfida e autoritaria, trasmette sicurezza e diventa, in tal senso, il simbolo del potere che non si piega di fronte a nessuno, ad eccezione di Malkovich con il quale perde in confronto. Attraverso la mente dell’attore, Lotte e Craig possono accedere all’oggetto del desiderio, controllarne il piacere e quindi in un certo senso soggiogarla: peccato, però, che questo costituisca una pericolosa illusione, un trampolino di lancio per un abisso incolmabile, in cui il vero sé viene condannato ad un’esistenza inautentica e fittizia per ricevere in cambio la completa accettazione. E se non è possibile essere John Malkovich si trova una soluzione alternativa: entrare nel corpo della piccola figlia, amata e accudita per sempre. Il soggetto cambia, ma il risultato resta immutato e il legame è sorretto precariamente, appunto perché si esce letteralmente e figuratamente da se stessi.

 

Essere John Malkovich: la costruzione dell’identità e del vero sè

Il film è sostanzialmente una metafora dell’aberrante, spasmodica ricerca del contatto con l’altro, dell’accettazione e ammirazione assoluta nelle vesti estranee, sacrificando la vera natura interna, il vero sé di cui parla Winnicott (1965), il daimon di Hillman (1996), la forza creatrice, la personalità autentica e costruttiva. In un certo senso Craig non riesce ad essere diverso, non compiace pienamente neppure con uno sforzo sovrumano: è lui a monitorare il corpo di John fino a riappropriarsi della sua identità, che piaccia o no, alla fine decide di essere quello che voleva essere fin dal principio.

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Dopo una gran fatica il protagonista è destinato a ritornare a se stesso, una scelta che si palesa nella realizzazione della carriera da burattinaio, nella trasformazione estetica che si riappropria dei tratti distintivi: i capelli, i vestiti, l’abbandono della recitazione e il debutto con le marionette profumano del protagonista che sembra aggrapparsi ai suoi interessi con impegno e devozione. Tuttavia tra la carriera e Maxine, Craig sceglie la seconda, ristabilendo le priorità: ricevere il suo amore, la sua attenzione è più importante di un futuro professionale promettente.

E per finire c’è il Dr. Lester la cui scelta desta una riflessione su un altro tema connesso al falso sé. Da tempi remoti progetta il proseguimento infinito della vita, scovando passaggi su passaggi, per restare vivo, permettersi di ricominciare dall’inizio, pagando il prezzo di Craig, restando intrappolato in un essere diverso da sé: diversamente dagli altri che mirano all’attore per una scelta intrapsichica ed interpersonale, in questo personaggio è cruciale la paura di morire fronteggiata attivamente attraverso la crescita di John e successivamente della figlia nata dall’unione con Maxine. Il fine ultimo non è essere una celebrità o un altro per compiacere o ottenere una gratificazione, ma continuare a vivere per sempre sconfiggendo la morte, con il risultato di sperimentare multiple identità, di essere tutto e nulla. Il vero sé è soppresso per un bene supremo: la sopravvivenza, non importa come e nei panni di chi, basta che la vita continui in eterno. La fragilità umana, l’inarrestabile forza del tempo, l’accettazione della morte come fine dell’esistenza sono evitate energicamente con un progetto interminabile in cui la personalità si disperde e confonde con le altre.

 

La restrizione dietetica cognitiva: il problema della sua misurazione

Herman e Polivy, per spiegare il comportamento dei mangiatori restrittivi secondo una prospettiva più cognitiva, iniziano a definire la restrizione dietetica cognitiva come il tentativo prolungato di sopprimere il peso indipendentemente dal successo o meno di riuscire a creare un bilancio calorico negativo.

Simona Calugi e Riccardo Dalle Grave – Unità Funzionale di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda 

 

 

Oltre 40 anni fa inizia, e cresce rapidamente, l’interesse della ricerca scientifica riguardo gli effetti della restrizione dietetica sul comportamento alimentare. Nisbett è il primo a teorizzare nel 1972 che molte delle caratteristiche psicologiche e comportamentali di soggetti con obesità sono attribuibili alla soppressione del loro peso al di sotto del “set point” biologicamente determinato.

 

La restrizione dietetica cognitiva e il rischio di abbuffate

Questo lavoro contribuisce ampiamente allo sviluppo della “Restraint theory”, per la prima volta descritta da Herman e Polivy nel 1975. Con questa teoria si cerca di spiegare perché le persone che stanno a dieta non perdono peso, e si ipotizza che possano avere episodi di abbuffata in risposta alla deprivazione calorica (bilancio energetico in negativo) dovuta alla dieta.

Già qualche anno dopo, Herman e Polivy de-enfatizzano il concetto di set-point per spiegare il comportamento dei mangiatori restrittivi, a favore di una spiegazione più cognitiva. Iniziano così a definire la restrizione dietetica cognitiva come il tentativo prolungato di sopprimere il peso indipendentemente dal successo o meno di riuscire a creare un bilancio calorico negativo (Herman & Polivy, 1980, p. 223) (vedi Tabella 1).

Questo passaggio spinge, negli anni successivi, alcuni autori a sostenere che il rischio dell’abbuffata possa aumentare quando un individuo esperisce una temporanea caduta nel controllo cognitivo sull’alimentazione.

I meccanismi proposti per spiegare questa associazione includono: (a) l’effetto della violazione del controllo, che si verifica quando l’individuo rompe le proprie regole dietetiche e (b) l’esaurimento di limitate risorse cognitive di auto-regolazione.

La restrizione dietetica cognitiva il problema della sua misurazione - TAB 1

Il modo patologico di condurre la dieta diventa poi parte integrante nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione nella teoria transdiagnostica proposta da Fairburn e colleghi (2003). Secondo tale teoria, l’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del loro controllo incentiva gli sforzi per perdere peso con l’adozione di una dieta ferrea. Quando questi sforzi non hanno successo – a causa della deprivazione fisiologica, dell’effetto di violazione del controllo o per esaurimento delle risorse di auto-regolazione – la rottura delle regole dietetiche si associa a un episodio di abbuffata. Gli individui allora raddoppiano gli sforzi per restringere l’introito calorico ed entrano in un circolo vizioso caratterizzato da episodi di abbuffata e restrizione dietetica che contribuisce a mantenere il disturbo dell’alimentazione.

 

Restrizione dietetica cognitiva: predittore di disturbi dell’alimentazione?

Coerentemente con questi modelli teorici, numerose ricerche hanno dimostrato che la restrizione dietetica cognitiva predice l’esordio e il mantenimento di alcune espressioni caratteristiche della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, come gli episodi di abbuffata e gli associati comportamenti di compenso. Tuttavia un altro filone di ricerca, ha trovato che un aumento del controllo sull’alimentazione riduce la frequenza degli episodi di abbuffata, sia nei pazienti che seguono trattamenti per la perdita di peso sia nelle donne e nelle adolescenti con bulimia nervosa o a rischio di svilupparla, quando sono confrontate con controlli sani.

Una delle possibili ragioni in grado di spiegare queste contraddizioni della ricerca sull’associazione tra restrizione dietetica cognitiva ed episodi di abbuffata, è il fatto che le misure disponibili della restrizione dietetica valutano più di una dimensione latente del costrutto stesso. A conferma di questa ipotesi, vari studi, che hanno utilizzato l’analisi fattoriale sui questionari che valutano la restrizione dietetica cognitiva, hanno trovato più fattori che si associano a caratteristiche cliniche differenti.

Sullo stesso filone, un recente studio ha valutato se la restrizione dietetica cognitiva fosse un costrutto unitario o multidimensionale, somministrando a un ampio campione non clinico di studenti e adulti, maschi e femmine, una batteria di questionari che includevano la misura della restrizione dietetica (Hagan et al. 2016). L’analisi fattoriale esplorativa, i modelli di equazione strutturale e l’analisi fattoriale confermativa hanno prodotto un modello finale che include 43 item con i seguenti 3 fattori latenti:

  1. Conteggio delle calorie (per es. monitorare le calorie assunte; aderire a limiti calorici; selezionare consapevolmente cibi a basso contenuto calorico; prendere intenzionalmente piccole quantità di cibo).
  2. Preoccupazione per la dieta (per es. paura di aumentare di peso; preoccupazioni sulla dieta; ansia riguardo al consumo di cibi “proibiti”).
  3. Restrizione focalizzata sul peso (per es. cercare di mangiare meno per influenzare il peso o la forma del corpo).

Successive analisi di regressione hanno dimostrato che più alti livelli di indice di massa corporea e una maggiore frequenza di episodi di abbuffata erano associati a più alti punteggi di “Preoccupazione per la dieta” e “Restrizione focalizzata sul peso” ma non al “Conteggio delle calorie”. Tutti e tre i costrutti latenti erano, inoltre, positivamente associati al rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione e ai sintomi depressivi.

Questo studio sembra far luce sulle incongruenze della letteratura, individuando come la restrizione dietetica cognitiva sia un costrutto multidimensionale e dimostrando che, in accordo con i trial clinici di perdita di peso, il conteggio delle calorie non sia associato agli episodi di abbuffata, mentre i fattori legati con l’eccessiva valutazione del peso e la forma del corpo (cioè la preoccupazione per l’alimentazione e il cercare di mangiare meno per influenzare il peso e la forma del corpo) siano associati con maggiore frequenza agli episodi di abbuffata.

Un altro problema che sembra affliggere le misure della restrizione dietetica cognitiva riguarda il fatto che le più utilizzate (vedi Tabella 2) sono state costruite con l’obiettivo di spiegare perché coloro che stanno a dieta non perdono peso e sono state studiate e validate in popolazioni di soggetti non clinici o con sovrappeso e obesità inseriti in programmi di perdita di peso. La loro applicazione a popolazioni di soggetti con disturbo dell’alimentazione risulta perciò di dubbia efficacia, tenendo conto che la restrizione dietetica cognitiva in tali soggetti si caratterizza per l’adozione persistente di un numero elevato di regole dietetiche estreme e rigide – che richiedono una continua vigilanza e un impegno costante e devono essere seguite perfettamente – non comuni alle persone che non hanno un disturbo dell’alimentazione.

La restrizione dietetica cognitiva il problema della sua misurazione - TAB 2

In conclusione appare evidente la necessità di sviluppare nuovi strumenti specificatamente pensati per misurare la restrizione dietetica cognitiva adottata dai pazienti con disturbo dell’alimentazione per meglio comprendere il meccanismo, comunemente osservato dai clinici, che associa la dieta ferrea e gli episodi di abbuffata in questi soggetti.

 

Perchè impariamo a comprendere le altre persone solo dopo i quattro anni?

All’età di circa quattro anni, i bambini cominciano improvvisamente a capire che gli altri, bambini o adulti, sono esseri pensanti e che la visione che hanno del mondo è spesso diversa dalla loro.  I ricercatori di Leiden e di Lipsia hanno esplorato come funziona questo meccanismo, pubblicando il loro studio su Nature Communications. 

 

 

All’età di circa quattro anni, improvvisamente, i bambini fanno quello che i coetanei di tre anni non sono in grado di fare: mettersi nei panni degli altri. I ricercatori del Max Planck Institute per le Scienze Umane Cognitive e Nervose di Lipsia e dell’Università di Leiden hanno spiegato come si verifica questo enorme passo evolutivo: una connessione cruciale di fibre cerebrali giunge a maturazione.

Nikolaus Steinbeis, ricercatore senior e psicologo dello sviluppo a Leiden, ha partecipato alla ricerca come co-autore dell’articolo, supervisionando la dottoranda Charlotte Grosse-Wiesmann, autrice principale dello studio.

 

Il “piccolo Maxi”

Se raccontate a un bambino di 3 anni la seguente storia del piccolo Maxi è molto probabile che lui non sia in grado di capirla.  “Maxi mette la sua tavoletta di cioccolato sul tavolo della cucina e poi va fuori a giocare. Mentre lui non c’è, sua mamma sposta il cioccolato nella credenza. Dove andrà Maxi a cercare il suo cioccolato una volta tornato in cucina?

Un bambino di 3 anni non riesce a prevedere che Maxi cercherà il suo cioccolato sul tavolo (e non nella credenza come tendenzialmente rispondono i bambini a questa età) e non riesce a capire perché Maxi sarebbe sorpreso di non trovare il cioccolato sul tavolo dove lo aveva lasciato. È solo a partire dall’età di 4 anni che un bambino, in modo corretto, è in grado di prevedere che Maxi cercherà il cioccolato dove lui lo ha lasciato e non nella credenza, dove in realtà è, ma dove lui non può sapere che si trova.

 

Teoria della Mente

I ricercatori hanno osservato qualcosa di simile mostrando ad un bambino di 3 anni una scatola di cioccolato contenente matite invece di cioccolatini. Quando al bambino è stato chiesto secondo lui che cosa un altro bambino si sarebbe aspettato di trovare nella scatola, egli ha risposto “matite”, nonostante l’altro bambino non poteva affatto saperlo. Solo un anno più tardi, intorno all’età di 4 anni, però, i bambini interpellati capiranno che l’altro bambino pensa e si aspetta che nella scatola ci siano i cioccolatini. Quindi, tra i 3 e i 4 anni avviene una svolta evolutiva fondamentale: dal punto di vista sperimentale, i bambini cominciano a superare i test della falsa credenza, test in cui viene chiesto di prevedere il comportamento di un agente verso un oggetto sul quale però l’agente possiede una falsa credenza, riguardante tipicamente posizione, contenuto o natura.

Dal punto di vista cognitivo, i bambini cominciano ad attribuire pensieri e credenze agli altri esseri umani e cominciano a capire che le loro convinzioni possono essere diverse da quelle degli altri. Prima di questa età cruciale, i pensieri non sembrano esistere indipendentemente da ciò che vediamo e sappiamo del mondo. Questo finché il bambino non sviluppa una teoria della mente (ToM/Theory of Mind), la capacità appunto di rappresentazione dei propri e altrui stati mentali, in termini di pensieri e credenze, ma anche di desideri e sentimenti, al fine di spiegare e prevedere il comportamento.

 

Sviluppo indipendente

I ricercatori hanno ora scoperto cosa si celi dietro questa svolta. La maturazione delle fibre di una connessione neurale nota come fascicolo arcuato, tra i tre e i quattro anni, stabilisce una connessione tra due regioni cerebrali critiche. Una regione nella parte posteriore del lobo temporale, che supporta l’adulto nel pensare agli altri e ai loro pensieri; e una regione nel lobo frontale, che è coinvolta nel mantenere le cose a diversi livelli di astrazione e, di conseguenza, aiuta a capire ciò che il mondo reale è e cosa sono i pensieri degli altri.

Solo quando queste due regioni del cervello sono collegate tra loro attraverso il fascicolo arcuato, i bambini possono iniziare a capire che cosa pensano gli altri. Questo è ciò che consente di prevedere dove Maxi cercherà il suo cioccolato e cosa un bambino qualsiasi si aspetta di trovare all’interno di una scatola di cioccolatini.  È interessante notare che questa nuova connessione nel cervello supporta questa capacità indipendentemente dalle altre abilità cognitive, come l’intelligenza, il linguaggio o il controllo degli impulsi.

Gerald Roy Patterson: un breve, dovuto ricordo

Gerald Roy Patterson è mancato alla fine dell’estate scorsa, anche se pochi se ne sono accorti. Nato nel North Dakota e cresciuto in Minnesota, dove ha conseguito il dottorato di ricerca, Gerald Roy Patterson ha lavorato prevalentemente in Oregon. È stato uno scienziato al servizio della comunità, descritto dai colleghi come una persona carismatica e idealista, che non ha mai ricercato ricchezza o notorietà, ma si è sempre adoperato per rendere il mondo un posto migliore dove vivere.

Francesca Pergolizzi, IESCUM, ASCCO

 

Gerald Roy Patterson: i suoi contributi alla psicologia comportamentista

Guidato fin dai primi studi dalla passione e dalla missione di aiutare le famiglie con figli difficili, è stato uno dei primi scienziati comportamentali a sviluppare misure empiriche per la valutazione delle interazioni parentali e a utilizzare questi dati per proporre e testare trattamenti innovativi basati su evidenze a favore di famiglie disfunzionali.

Per questo suo intenso e significativo lavoro ha ricevuto numerosi riconoscimenti pubblici internazionali. Kazdin, past president APA lo ricorda così: “I contributi di Gerald Roy Patterson alla psicologia comprendono il modello teorico delle interazioni coercitive, ampiamente citato da numerosi studiosi, la sua leadership nel movimento della terapia del comportamento, i suoi studi innovativi e paradigmatici sull’aggressività e le condotte antisociali, lo sviluppo e la valutazione empirica del Parent Management Training (PMT).”

I suoi libri più famosi, Families Living with Children e Parents and adolescents, hanno venduto milioni di copie: infatti, è uno degli autori più citati nella letteratura comportamentale.

Io ho avuto la fortuna di avere in regalo Families Living with children nel 1978 da colui che sarebbe poi diventato mio marito, che lo aveva avuto tra le mani nei primi workshop che si svolgevano a St. Pierre, che hanno consolidato il primo nucleo di analisti e terapeuti del comportamento (Meazzini, Soresi, Anchisi, Galeazzi, Moderato). La lettura di questo piccolo libro ha avuto un impatto fortissimo sulla direzione della mia ricerca e professione, rafforzando la decisione di occuparmi della psicologia della famiglia e aiutandomi a comprendere come fosse possibile aiutare i genitori a divenire più competenti ed efficaci, soprattutto quando si trovano a gestire maternità e paternità complesse.

Il Parent Management Training: il contributo di Gerald Roy Patterson alla psicologia della famiglia

Gerald Roy Patterson rimarrà una presenza fondamentale nella ricerca futura, come colui che ha messo la scienza del comportamento al servizio della funzione e della dignità genitoriali. I suoi studi pionieristici hanno favorito la proliferazione di ricerche sperimentali e la messa a punto di programmi e protocolli di intervento a favore dei genitori che vivono situazioni di sofferenza e di difficoltà. Anche in Italia ormai da tempo sono stati sviluppati parent training che contribuiscono alla promozione della qualità di vita di moltissime famiglie (Prevedini e Pergolizzi, 2016; Prevedini et al. 2015), ispirati al modello di Patterson e ai contenuti del suo protocollo di intervento PMT.

Va anche ricordato che Gerald Patterson, insieme ad altri colleghi, ha sviluppato alcuni modelli matematici strutturali, le cui equazioni descrivono nel tempo la relazione fra variabili ambientali familiari e soggettivi e direzione della loro influenza, in particolare per spiegare lo sviluppo delle condotte aggressive in bambini e ragazzi. Con l’ausilio di dati tratti da una serie di studi descrittivi ha analizzato le transizioni particolari che si sviluppano fra genitori e figli aggressivi come processo di evoluzione della famiglia coercitiva. In queste famiglie, i genitori tendono a essere estremamente incoerenti e non hanno una padronanza nella gestione educativa dei figli. Per queste difficoltà ricorrono spesso a comandi e minacce fino a punire fisicamente i figli che non riescono a controllare.

Il PMT e stato inizialmente sperimentato negli anni ‘60 da Patterson e Reid presso l’Oregon Social Learning Centre. Il programma che ha coinvolto più di duemila famiglie (Patterson 1976; 1989; 1992) ha dimostrato che l’interazione genitore-figlio è una variabile centrale nell’eziologia del comportamento antisociale, in particolare quando queste relazioni sono connotate da interazioni coercitive. L’autore dimostra che interventi di parent training che modificano e migliorano le pratiche di gestione globale della famiglia, ottengono risultati significativi e a lungo termine in famiglie di preadolescenti. Molti autori hanno ripreso gli studi di Patterson, fra questi quello che attualmente ha ampliato ed esteso l’analisi dell’influenza dei contesti coercitivi è Biglan. In Nurturing enviroments for society change, Biglan (2013) afferma che contesti che promuovono la prosocialità diminuiscono la possibilità che siano attivate manifestazioni aggressive e disadattive, e aiutano a promuovere la flessibilità psicologica, cioè l’abilità di agire seguendo i propri valori, anche quando si è stressati da pensieri ed emozioni spiacevoli.

Tali contesti “nurturing” (vitali, generanti) garantiscono un maggior accesso ai rinforzi: a sua volta, il rinforzo positivo di condotte desiderabili rappresenta la migliore strategia per promuovere comportamenti adeguati e adattivi, non solo nel sistema famiglia ma anche nel contesto scolastico e sociale (Biglan, 2013). Infatti, è stato dimostrato empiricamente che lo sviluppo della prosocialità implica un minor numero di comportamenti problema (Caprara et al, 2000;. Kasser & Ryan, 1993; Sheldon & Kasser, 1998; Wilson & Csikszentmihalyi, 2008), un maggiore benessere psicofisico (Biglan e Hinds 2009), maggiori capacità di adattamento, relazioni sociali positive, livelli inferiori di rifiuto dai pari (Clark & Ladd, 2000), e maggiore successo lavorativo (Channer e Hoppe, 2001).

Da questi studi derivano i più attuali efficaci programmi di intervento per la prevenzione dei comportamenti antisociali in cui viene proposto un ribaltamento di focus nella gestione genitoriale di questi comportamenti: si passa dalla somministrazione di punizioni e penalizzazioni come strumenti di controllo e cambiamento dei comportamenti antisociali, a un saggio, cospicuo, contingente e coerente uso di rinforzi positivi dei comportamenti prosociali.

 

Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità – Report dal workshop

Si è svolto a Grosseto il workshop “Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità ” interamente dedicato alla descrizione e al trattamento di quei pazienti che presentano aspetti psicopatologici multiformi.

 

Si è svolto a Grosseto il workshop “Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità  organizzato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva (SPC) e tenuto dal dott. Antonio Semerari e dalla dott.ssa Livia Colle.

Il titolo dell’evento è stato tratto dal volume Curare i casi complessi – La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità, pubblicato di recente da Laterza e curato da tre dei fondatori del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva, Antonino Carcione, Giuseppe Nicolò e Antonio Semerari. Il volume ha il pregio di riassumere, per il lettore che desideri accostarsi alle conoscenze sulla terapia dei disturbi di personalità, molte delle evoluzioni più recenti riguardanti la teoria, la ricerca di base e la pratica clinica. Scopo principale degli autori è quello di offrire delle linee guida per il trattamento e la terapia dei disturbi di personalità, secondo un modello di intervento integrato, in modo da fornire al professionista un utile strumento per coglierne per tempo le tracce e prepararsi alle difficoltà che questi pongono in psicoterapia.

L’intensa giornata di workshop è stata dedicata alla comprensione della sintomatologia che accomuna i casi complessi e in particolare alle linee guida della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) proposta dai clinici del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva per questa tipologia di pazienti.

 

La terapia dei disturbi di personalità: il problema della nosografia categoriale

Il seminario sulla terapia dei disturbi di personalità si è aperto ponendo l’attenzione al problema dell’attuale nosografia categoriale che presenta profondi limiti nella comprensione della complessità dei casi che si incontrano nella pratica clinica quotidiana.

Come spiegato dal dott. Antonio Semerari durante la prima parte del workshop è raro trovarsi di fronte a un quadro psicopatologico “puro” ovvero che risponda unicamente alle caratteristiche di uno specifico disturbo. Oltre il 60% dei pazienti con diagnosi di disturbo di personalità presenta almeno un altro disturbo di personalità e una varietà di sintomi e di manifestazioni psicopatologiche che caratterizzano altri disturbi psichiatrici.

L’autore inoltre, riprendendo una proposta formulata da Livesley (2003), spiega come la patologia della personalità è caratterizzata dall’alterazione delle “funzioni del Sé”, relative all’identità e all’autodirezionalità, e delle relazioni interpersonali, relative all’empatia e alla capacità di stabilire relazioni intime.

Semerari si sofferma sulle funzioni del Sé, specificando che l’identità riguarda il senso soggettivo di sé, l’autostima e la regolazione emotiva, mentre l’autodirezionalità riguarda gli scopi a lungo termine che gli individui riescono a posizionare su una gerarchia di rilevanza.

La personalità disturbata presenta dunque una rappresentazione di sé alterata – spiega Semerari – perché instabile e frammentata o perché rigida e ridotta, priva di quella flessibilità che permette di avere una coerenza soggettiva di noi stessi pur adattandoci alle richieste della vita, dell’ambiente e della nostra stessa maturazione personale, evolvendo con un senso di continuità. Con la patologia si perde tale continuità, a causa della frammentazione, o si perde l’evoluzione, a causa della rigidità

 

Terapia dei disturbi di personalità: i fattori alla base della psicopatologia

Secondo il modello proposto dai colleghi del Terzo Centro, nella terapia dei disturbi di personalità, l’intervento clinico dovrebbe indirizzarsi sui fattori generali alla base della psicopatologia della personalità, ovvero i fattori comuni a molti disturbi di personalità, quali:

L’attenzione è focalizzata suelle diverse funzioni metacognitive che risultano danneggiate in questi pazienti:

  • Il Monitoraggio ovvero la capacità di riconoscere le emozioni e i pensieri che costituiscono uno stato mentale, le motivazioni e gli scopi che sottendono il comportamento e la capacità di cogliere le relazioni immediate tra pensieri ed emozioni.
  • L’Integrazione ovvero la capacità di riflettere sui diversi stati e processi mentali in modo da poter ordinarli secondo una gerarchia di rilevanza e di rendere coerente il comportamento rispetto ai propri scopi a breve e a lungo termine.
  • La Differenziazione ovvero la capacità di differenziare tra mondo interno delle rappresentazioni e mondo della realtà esterna, che permette di compiere due operazioni fondamentali: distinguere tra fantasia e realtà e sviluppare una distanza critica dalle proprie credenze, ammettendo la possibilità che possano rivelarsi false.
  • Il Decentramento ovvero la capacità di riuscire a descrivere gli stati mentali e le azioni altrui, a prescindere dal proprio punto di vista o coinvolgimento nella relazione, in modo plausibile e chiaro, senza ricorrere a stereotipi o luoghi comuni.

Quando tali abilità risultano danneggiate il paziente presenta narrazioni opache, confuse e frammentate o caratterizzate da un alto livello di egocetrismo tale da esprimersi in forme primitive di pensiero che Bateman e Fonagy (2004) hanno chiamato “pensiero teleologico” (dove all’altro viene attribuita un’intenzione esclusivamente sulla base dell’effetto che il suo comportamento ha provocato sul soggetto).

Come è ampiamente spiegato nel volume Curare i casi complessi, la metacognizione è conoscenza della mente e noi siamo costantemente impegnati a usare tale conoscenza per regolare e influenzare i nostri e altrui stati mentali (come nei casi di malessere soggettivo e di problemi interpersonali). La capacità di regolazione degli stati problematici è un’altra fondamentale funzione metacognitiva, definita Padroneggiamento (mastery), che si riferisce alla capacità dell’individuo di affrontare i propri stati interni come problemi da risolvere, pianificando strategie di coping flessibili e adeguate.

Le strategie di mastery possono essere distinte in tre livelli che vanno dal più semplice, che richiede un ridotto senso di agentività da parte dell’individuo, a quelle più complesse, che richiedono operazioni di rielaborazione metacognitiva:

  1. Agire sullo stato problematico modificando lo stato corporeo (ad esempio assumere dosi congrue di psicofarmaci o effettuare sport) o utilizzando il contesto interpersonale come supporto (ad esempio chiamare un amico per gestire la solitudine o il senso di abbandono).
  2. Affrontare il problema imponendosi o inibendo un comportamento (ad esempio decidere di andare al cinema invece di continuare a rimuginare sul problema), regolando volontariamente l’assetto mentale (distrazione o evitamento).
  3. Affrontare il problema operando sulle valutazioni e le credenze che ne sono alla base (ad esempio cercando di formulare interpretazioni alternative) o tollerando i momenti di sofferenza ai quali non è possibile porre rimedio (ad esempio nel caso di un lutto).

Le capacità di regolazione degli stati interni, cruciali per il benessere psicologico, sono da considerarsi distinte dalle capacità di conoscenza degli stati mentali. Difatti, nella pratica clinica, è frequente incontrare pazienti abili nel descrivere e analizzare i propri stati mentali fonte di sofferenza, ma del tutto incapaci di rispondere a tale sofferenza con strategie efficaci e non controproducenti.

Durante questa prima parte del workshop, il dott. Semerari, attraverso la descrizione di due casi clinici, caratterizzati da una sovrapposizione di diagnosi categoriali differenti, ha illustrato il problema della complessità clinica di questi pazienti, sottolineando l’impossibilità di effettuare una diagnosi differenziale e invitando i clinici a chiedersi come si stabilisce una gerarchia di rilevanza all’interno di questi diversi aspetti psicopatologici.

 

La terapia dei disturbi di personalità proposta dal Dott. Semerari

L’ intervento terapeutico proposto dal dott. Semerari si svolge su un doppio setting (individuale e di gruppo) che necessita di un efficace lavoro di équipe e di una stretta collaborazione tra i terapeuti.

La prima parte della terapia dei disturbi di personalità prevede una fase di pre-trattamento, in cui viene effettuato l’assessment psichiatrico-diagnostico del paziente (primo colloquio clinico, test autosomministrati e interviste semi-strutturate). Durante la fase di trattamento, si procede prima di tutto con la terapia individuale proprio allo scopo di preparare il paziente alla successiva terapia di gruppo.

Curare i casi complessi la terapia dei disturbi di personalita – Report del workshop - semerari

Il Dott. Semerari durante il Workshop Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità

 

Nella fase iniziale, Semerari spiega che le prime domande di tipo terapeutico che il clinico deve porsi di fronte a casi complessi possono ad esempio essere:

  • Sono presenti sintomi gravi che minacciano l’incolumità fisica del paziente?
  • Sono presenti sintomi che ostacolano il lavoro terapeutico?
  • Quale degli aspetti psicopatologici contribuisce di più alla patologia?

Rispondendo a tali domande il clinico può prospettarsi un’idea precisa dei diversi obiettivi terapeutici da perseguire.

All’interno del setting individuale, è importante comprendere inoltre quali sono i fattori che ostacolano un atteggiamento metacognitivo in questi pazienti. Oltre alle difficoltà metacognitive di base proprie dei disturbi di personalità, alcuni esempi possono essere:

  • La presenza di un problema relazionale con il terapeuta,
  • Un’attivazione emotiva troppo intensa per permettere al paziente di riflettere,
  • Una condizione di disorientamento e confusione sui propri stati interni.

Il dott. Semerari sottolinea l’importanza di vedere la rottura dell’alleanza terapeutica, che può avvenire quando si attiva un ciclo interpersonale disfunzionale tra paziente e terapeuta, come una preziosa occasione per il clinico di conoscere e sperimentare in prima persona cosa prova e come funziona il paziente nelle relazioni interpersonali. “Si tratta di un’idea esperienziale oltre che cognitiva che il paziente ci offre di sé all’interno della relazione terapeutica”.

Quando invece ci si trova di fronte a un’intensa attivazione emotiva del paziente lo scopo del clinico sarà quello di stabilizzare il tono emotivo della seduta ad esempio attraverso un atteggiamento calmo e rassicurante. “È attraverso un inconscio processo di elaborazione in cui si tiene conto della conoscenza del paziente, della storia della relazione terapeutica e dei segnali espressivi nel qui e ora che il terapeuta sceglie quale tono, postura, comunicazione non verbale è utile a regolare l’emotività in seduta

Infine, quando il paziente appare molto confuso e disorientato è importante guidare il paziente a riflettere proprio su tale disorientamento, percepito anche dal terapeuta (ad esempio facendogli notare il sovraffollamento di temi importanti all’interno della sua narrazione). “Ciò aiuterà il paziente a riorganizzare le informazioni e porsi in un atteggiamento maggiormente riflessivo”.

 

L’intervento di gruppo: la proposta della Dott.ssa Colle

Nella seconda parte del workshop, la dott.ssa Livia Colle ha illustrato in dettaglio due moduli di intervento di gruppo, dedicati in particolare a due aree sintomatiche: i pazienti che presentano ritiro sociale e i pazienti con difficoltà di regolazione emotiva.

La dott.ssa Colle ribadisce il concetto che:

l’idea alla base di questo modello di trattamento è che siano i deficit metacognitivi a causare in questi pazienti le difficoltà interpersonali e di identificazione e perseguimento dei propri obiettivi”.

Sono dunque sempre le funzioni metacognitive il focus dell’intervento di gruppo e di conseguenza lo sono anche le abilità interpersonali. I moduli di intervento di gruppo sono infatti organizzati in modo simile allo skills training proposto dal trattamento DBT per i pazienti borderline e hanno l’obiettivo di potenziare le abilità metacognitive e le abilità interpersonali dei pazienti.

I moduli previsti sono di due tipi: Il modulo metacognitivo e Il modulo di competenze interpersonali, all’interno dei quali le capacità metacognitive e le competenze sociali vengono sviluppate attraverso:

  • La psicoeducazione
  • Le esercitazioni e il role play in gruppo
  • I compiti a casa su specifici argomenti ogni settimana

Oltre all’utilità di apprendere nuove abilità – spiega infine la dott.ssa Colle – il gruppo ha l’enorme vantaggio di poterle sperimentare in un contesto interpersonale protetto. L’aspetto innovativo di questo intervento è proprio la condivisione graduale delle proprie esperienze personali. La condivisione diviene così un tema di discussione e contemporaneamente un’esperienza concreta più facilmente affrontabile e piacevole.

L’apprendimento nell’ autismo (2016) – Intervista a Giacomo Vivanti

Giacomo Vivanti ed Erica Salomone hanno scritto il libro L’apprendimento nell’autismo, con l’obiettivo di descrivere come alcuni aspetti del funzionamento autistico abbiano importanti ricadute sullo stile di apprendimento dei bambini con autismo. Nell’articolo è riportata l’intervista a Giacomo Vivanti.

 

 

Giacomo Vivanti è Assistant Professor al Drexel Autism Institute di Philadelphia dove prosegue la sua carriera di clinico e ricercatore nell’ambito dei disturbi dello spettro autistico (DSA).

Erica Salomone è Research Fellow presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino e Visiting Researcher presso l’Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience del King’s College London ed anche lei si occupa di diagnosi e intervento per i disturbi dello spettro autistico.

Insieme hanno scritto il libro L’apprendimento nell’autismo per Erickson che ha l’obiettivo di descrivere come alcuni aspetti cognitivi e comportamentali, caratterizzanti il funzionamento autistico, abbiano importanti ricadute sullo stile di apprendimento dei bambini autistici che dovrebbero quindi confrontarsi con proposte educative diverse da quelle pensate per la popolazione neurotipica. È un libro che ho letto con molto piacere e ho avuto la fortuna di poter parlare direttamente con uno degli autori.

 

L’intervista a Giacomo Vivanti, autore del libro L’apprendimento nell’ autismo

Intervistatrice: Grazie Giacomo per avermi concesso il tuo tempo per questa intervista. Questo libro mi pare avere un grande pregio: descrivere l’autismo in termini di differenze piuttosto che di deficit rispetto al funzionamento neurotipico. Che ricadute ha in termini di intervento rivolto all’insegnamento di abilità questo punto di partenza?

L apprendimento nell autismo 2016 - Intervista all’autore Giacomo VivantiGiacomo Vivanti: Pensare al bambino con autismo come ad un bambino che impara in modo diverso, anziché ad un bambino che impara “di meno”, crea un cambiamento di prospettiva che spinge all’azione. Per esempio, quando il bambino sembra non imparare, pensare in questo modo può spingere il terapista o l’insegnante a passare da una prospettiva del tipo “il bambino non impara perché essendo autistico ha meno capacità di apprendimento e non ci posso fare niente”, ad una prospettiva del tipo “se il bambino non sta imparando, sono io che sto insegnando con delle modalità che non sono quelle giuste per questo bambino, quindi devo sforzarmi per trovare quelle giuste”.

 

Intervistatrice: nel libro descrivete le caratteristiche che accomunano molti autistici, pur sottolineando la necessità di aver ben presente che tipo di realtà “vede” quel bambino e di conseguenza quale stile di apprendimento lo caratterizza, prima di pensare di potergli insegnare qualcosa. Ho l’impressione che i professionisti, almeno qui in Italia, non dedichino a questa fase preliminare il giusto interesse. Perché secondo te?

Giacomo Vivanti: Credo che ci sia una difficoltà ad assimilare i dati che vengono dalla ricerca scientifica nella pratica dei professionisti e dei centri di riabilitazione, che spesso seguono dei protocolli rigidi e legati all’orientamento teorico della loro disciplina o scuola di provenienza. Questo avviene ovunque, c’è una distanza di almeno un decennio tra ciò che viene documentato nella ricerca scientifica e ciò che entra a far parte della pratica clinica ed educative nei servizi.

 

Intervistatrice: Lavorare con bambini molto piccoli dà la possibilità di indirizzare la loro attenzione verso stimoli che altrimenti tenderebbero ad ignorare. È ragionevole pensare che ciò li possa rendere in seguito più “autonomi” nell’apprendimento?

Giacomo Vivanti: E’ plausibile che un bambino la cui attenzione e’ catturata spontaneamente dalle azioni, emozioni e le parole degli altri, diventi sempre più autonomo nella capacità di incorporare nuove conoscenze relative al mondo sociale. Per questo l’attenzione sociale, l’attenzione condivisa e altri “pilastri” dell’apprendimento sociale come l’imitazione sono un target fondamentale per l’intervento precoce – il bambino, facendo attenzione a quello che fanno e che dicono le persone intorno a lui, può acquisire autonomamente nuovi comportamenti che lo aiuteranno a creare nuove opportunità di apprendimento e a navigare la complessità del mondo sociale in modo sempre più autonomo.

 

Intervistatrice: Parallelamente allo sviluppo di competenze che possano favorire l’apprendimento sociale, esiste la possibilità di permettere al bambino di sfruttare alcune sue caratteristiche cognitive e comportamentali autistiche (penso per esempio agli interessi assorbenti e alla ripetitività) affinché impari qualcosa di utile per il suo sviluppo o sono da considerarsi sempre da ostacolo?

Giacomo Vivanti: L’obiettivo dell’intervento non è quello di curare la diversità ma di facilitare l’apprendimento di abilità che aiuteranno il bambino a godere delle stesse opportunità dei suoi coetanei. A seconda dei casi, alcune caratteristiche dell’ autismo  possono essere di ostacolo o di aiuto per questo processo. Per esempio, nel caso un bambino che passa la giornata a guardare un ventilatore, questo comportamento ripetitivo avrà probabilmente un impatto negativo sul suo sviluppo. Invece se un bambino ha un interesse ripetitivo per i dinosauri, questo interesse può essere una chiave per creare opportunità di socializzazione (visite al museo con i coetanei, attenzione condivisa verso libri e cartoni, scambio di figurine etc.) e magari può diventare una carriera professionale, come nel caso di Temple Grandin, una persona con autismo il cui interesse ripetitivo per gli animali ha aperto la strada ad una brillante carriera accademica. Quindi clinici ed educatori devono valutare di volta in volta quando una specifica caratteristica dell’ autismo è di aiuto o di ostacolo alla piena realizzazione del potenziale del bambino, considerando la gravità e l’impatto sulle opportunità di apprendimento e socializzazione.

 

Ancora grazie al dott. Vivanti per le sue risposte.

Il fenomeno overgeneral memory correlato al disturbo depressivo e al disturbo da stress post traumatico

Mentre si ha più facilità nel richiamare ricordi a livello più astratto, non sempre si è in grado di recuperare una determinata memoria specifica, tale fenomeno è detto overgeneral memory (OGM) e fa riferimento al fallimento nel recupero dei ricordi autobiografici specifici. 

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Se dovessimo riflettere sui nostri ricordi, potremmo chiederci: i nostri ricordi sono realmente specifici come sembrano? Realmente ricordiamo tutto nel modo in cui vorremmo ricordarlo? E come lo ricordiamo?

A tal proposito la memoria autobiografica gioca un ruolo di fondamentale importanza. Essa è importante  per il funzionamento umano, contribuisce alla strutturazione del Sé, all’azione del Sé nel mondo e a far si che l’individuo possa perseguire con efficacia i propri obiettivi alla luce delle esperienze passate (Williams, Barnhofer, Crame et al. 2007).

 

Memoria autobiografica: tre livelli di specificità

Conway e Pleydell – Pearce (2000) hanno descritto le memorie autobiografiche come costruzioni mentali dinamiche generate da sottostanti informazioni di base che si intrecciano sia con le conoscenze semantiche che il soggetto ha di sé, sia con il sistema motivazionale dello stesso. La conoscenza di base della memoria autobiografica è composta da conoscenze relative al Sé organizzate in un magazzino di memorie autobiografiche secondo tre livelli di specificità.

Il livello più alto si riferisce a periodi di vita, a periodi prolungati di tempo con punti di inizio e di fine associati ad un tema prevalente come gli episodi nell’infanzia o nelle relazioni familiari.

A un livello intermedio si trovano gli eventi generali ovvero sia gli eventi ripetuti che gli eventi singoli, ancora una volta in forma di esperienze relativamente astratte, di sintesi concettuali. Da qui si evince che la gerarchia si colloca in modo tale che le rappresentazioni di eventi generali siano associate a periodi prolungati in cui si sono verificati per esempio l’evento generale di “portare il mio bambino all’asilo” associato con il periodo di vita in cui “mio figlio era piccolo”.

A loro volta questi due livelli sono associati con le informazioni codificate al livello più basso denominato conoscenza specifica dell’evento (ESK) il quale consiste di aspetti sensoriali concreti – percettivi di eventi unici, che spesso include immagini visive piuttosto che esperienze passate e sintesi astratte, concettuali e verbali.

 

Il fenomeno Overgeneral Memory

Il recupero di una determinata memoria autobiografica si verifica quando quindi la conoscenza di base si deposita in uno stato stabile, con simultanea e coordinata attività nella rappresentazione archiviata di un evento nella conoscenza di base, eventi generali e periodi di vita prolungati. Ma questo non succede sempre. È come se il processo si interrompesse al  livello più astratto della gerarchia dei ricordi. È come se la ricerca di informazioni autobiografiche si fermasse ad un primo livello della gerarchia o ad un livello intermedio invece di proseguire oltre.

Tale fenomeno è detto overgeneral memory (OGM) e fa riferimento al fallimento nel recupero dei ricordi autobiografici specifici. Questa mancanza di specificità della memoria caratterizza soprattutto i pazienti con disturbi depressivi (Williams, 1996), e pazienti con disturbo da stress post – traumatico e contribuisce all’insorgenza di tali disturbi e a loro mantenimento.

Alcuni studi considerano il fenomeno overgeneral memory come un aspetto funzionale, e quindi potrebbe essere definito come protettivo o adattivo (Raes et al. 2003). Ma non dobbiamo tralasciare il fatto che a lungo termine, la ridotta specificità della memoria potrebbe avere effetti nocivi.

 

Overgeneral model e depressione

Williams (1996), teorizza che una ridotta specificità della memoria possa essere un modo per regolare le emozioni. Un modo quindi, per proteggerci dal ricordare eventi che potrebbero evocare in noi emozioni spiacevoli, dolorose e negative. Questa ridotta specificità potrebbe essere considerata come una strategia cognitiva di evitamento. Probabilmente, questa strategia sarebbe messa in atto spesso non intenzionalmente. Peraltro, come risultato di eventi traumatici subiti nella vita, questa strategia perde il suo carattere di flessibilità e proprio questa perdita può essere importante nel mantenimento della depressione.

Il fenomeno overgeneral memory sarebbe importante per molteplici ragioni. Una di queste si riferisce all’ipergeneralizzazione nei soggetti che nel passato hanno avuto un disturbo depressivo, anche se attualmente non più presente (Machinger et al. 2000, b; Williams e Dritschel, 1988). Da tale prospettiva, potremmo osservare il fenomeno come un predittore di successivi disturbi dell’umore. Si potrebbe ipotizzare che l’insorgenza della depressione possa dipendere dal fallito recupero o fallita codifica degli aspetti sensoriali, di eventi caratterizzati da rilevanti esperienze dolorose.

Inoltre, uno studio condotto da Raes et al. (2006) ha mostrato come l’ipergeneralizzazione della memoria e la scarsa capacità di ricordare dove e come è stata acquisita l’informazione sono associate alla ruminazione, anche dopo la remissione dei sintomi depressivi.

Il fenomeno overgeneral memory sarebbe importante in quanto correlato alla performance nel problem solving (Pollock e Williams 2001; Evans et al. 1992); alla rappresentazione di eventi futuri (Williams et al. 1996) e predice la persistenza della depressione (Dalglaish et al. 2001). In uno studio di Brittlebank et al. (1993) pazienti depressi furono seguiti per sette mesi e valutati in tre tempi diversi. I punteggi dell’AMT (Autobiographical Memory Test) nella prima valutazione spiegarono una variazione del 33% nei punteggi della depressione 7 mesi più tardi. Da questi risultati, gli autori dedussero che il fenomeno overgeneral memory è un indicatore di “tratto” anziché di stato, che rende vulnerabili alla depressione. Ne consegue che, i risultati di Brittlebanck et al. (1993) dovrebbero essere considerati in termini di correlazione anziché considerati in termini causali e considerare il fenomeno come uno stile cognitivo a lungo termine.

 

Overgeneral memory e trauma

Come illustrato precedentemente, alcuni studiosi hanno ipotizzato che la ridotta specificità della memoria possa essere una conseguenza del trauma o della depressione. Al contrario, altri suggeriscono che possa essere un fenomeno già presente prima che possa aumentare la vulnerabilità alla depressione. Kuyken e Brewin (1995) in uno studio hanno confrontato le donne con disturbo depressivo con e senza una storia di abuso sessuale infantile. I risultati mostrarono che coloro che hanno riportato una storia di abuso recuperavano significativamente memorie più ipergeneralizzate rispetto a pazienti con un disturbo di depressione che però non hanno riportato tali storie.

Tali dati indicano che il livello dell’ overgeneral memory  potrebbe essere correlato all’esperienza del trauma in aggiunta ad una diagnosi di depressione. Altre  prove a favore dell’ipotesi che una ridotta specificità della memoria sia una conseguenza del trauma vengono da Stokes e collaboratori (2004) i quali constatarono che negli adolescenti vittime di ustioni vi era la presenza di una memoria meno specifica rispetto al gruppo di controllo.

Mentre Willebrand et al. (2002) hanno scoperto che la memoria specifica degli adulti vittime di ustioni non differiva dal gruppo di controllo. Ciò suggerisce che le reazioni al trauma possono variare in funzione all’età. La scoperta relativa alla rilevanza della natura del trauma è importante perché la ricerca ha trovato che di solito, col passare del tempo, gli eventi negativi tendono a perdere la loro capacità di suscitare un effetto negativo, un fenomeno denominato come Fading Affect bias ovvero lo sbiadimento dei ricordi spiacevoli. E così, oltre ad essere più probabile che le persone con depressione e disturbo da stress post-traumatico abbiano sperimentato eventi negativi, probabilmente continueranno a sperimentare elevati livelli di effetto negativo in risposta al ricordo dell’evento. Anche se la maggior parte degli studi hanno trovato prove di un’associazione tra la memoria specifica e il trauma, ci sono alcuni che non sono riusciti a replicare questo effetto (Arntz, Meeren, & Wessel, 2002; Kremers, Spinhoven, e Van der Does, 2004; Peeters, Wessel, Merckelbach, & Boon-Vermeeren, 2002; Wessel Meeren, Peeters, Arntz, & Merckelbach, 2001; Wilhelm, McNally, Baer, & Florin, 1997).

Tuttavia, questi studi possono intervenire nei più profondi livelli di trauma o focalizzarsi sui disturbi di depressione o di personalità piuttosto che sul trauma come obiettivo iniziale della ricerca in quanto, recenti investigazioni che hanno misurato il disturbo da stress post-traumatico hanno suggerito che questo fenomeno potrebbe essere collegato direttamente ai sintomi del disturbo da stress post-traumatico piuttosto che al trauma in sé (Goodman, Quas e Ogle, 2010). In sintesi, il fenomeno overgeneral memory è una variabile che si è mostrata particolarmente influenzata dal trauma ed è relativamente specifica nei disturbi emotivi che coinvolgono la depressione, il disturbo da stress post-traumatico, o entrambi.

In conclusione, dal quadro appena descritto emerge che il modo in cui si ricorda il proprio passato è importante tanto quanto quello che viene ricordato e che la specificità della memoria può essere influenzata e può essere colpita da diverse variabili psicologiche andando a compromettere in maniera significativa alcuni aspetti del funzionamento cognitivo come la capacità di problem solving e l’abilità di immaginare eventi futuri. Ma con trattamenti adeguati ad esempio attraverso l’utilizzo del protocollo MBCT (Mindfulness – Based Cognitive Therapy) sarebbe possibile modificare e modulare la overgeneral memory per ridurre la depressione.

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