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Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici (2015) – Recensione del libro

Essenziale nel libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici è la voce di coloro che stanno introducendo la mindfulness nella propria vita durante il viaggio personale nel cancro e, l’aspirazione affinché questo libro supporti ulteriori studi relativi all’impatto psicologico degli interventi basati sulla mindfulness in persone affette da tumore.

Teresa Lamanna – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Tra le malattie a minaccia per la vita, il cancro si pone come evento tra i più traumatici e stressanti col quale chi ne è colpito deve confrontarsi. Nonostante i progressi tecnologici in ambito oncologico, il vissuto soggettivo del cancro e l’interpretazione individuale e sociale di questa malattia restano quelli di un processo insidioso e incontrollabile che invade, trasforma e, lentamente, porta alla morte (Saccomani R., Raffaello Cortina, 1998).

 

L’assistenza psicologica al malato di cancro: la psico-oncologia

La psico-oncologia costituisce in ambito sanitario un riferimento per tutti coloro – oncologi, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti – che nel trattamento della malattia neoplastica hanno una visione olistica del malato, tesa a tutelare e favorire una migliore qualità della vita del paziente considerandolo nella sua complessità, vista la inscindibilità negli esseri umani della componente biologica da quella emozionale (Società italiana di psico-oncologia, Sipo, 1998).

Il rispetto della vita e della persona umana, della famiglia e dei nuclei di convivenza, il diritto alla tutela delle relazioni e degli effetti, la considerazione e la cura del dolore, il sostegno psicologico nelle diverse fasi della malattia costituiscono gli obiettivi principale della disciplina. La psico- oncologia può essere considerata un approccio multidisciplinare. Esistono due grandi linee di indirizzo teorico (Guarino 1996):

  1. La prima si occupa delle ricerca. Essa indaga sulle componenti psicosomatiche del cancro con studi sulla influenza delle variabile psicologiche nella con-causa delle neoplasie, cerca cioè, di confermare l’ipotesi per cui certe caratteristiche psicologiche in forza del legame mente-corpo, sarebbero dei fattori predisponenti l’insorgenza della malattia neoplastica. Sempre all’interno della ricerca in psicologia oncologica, ma in un altro ambito, vi è un’intensa attività per determinare le reazioni psicologiche del paziente in ogni fase della malattia. Si cerca di giungere all’approfondita conoscenza dei bisogni del malato neoplastico e delle dinamiche messe in atto, sia dal paziente, sia dall’ambiente sociale, in cui vive o viene a trovarsi per necessità imposte dalla malattia.
  2. La seconda si occupa dell’aspetto assistenziale. Essa studia le varie modalità di approccio neoplastico psicoterapeutico, psicometrico e di assistenza, per aiutare il paziente neoplastico ad affrontare al meglio la malattia e per prevenire le sequele psicologiche quali la depressione e l’ansia.

L’assistenza psicologica è importante sia per affrontare e gestire i numerosi eventi stressanti, a cui il paziente è sottoposto durante l’arco della malattia, sei per il possibile ruolo che fattori, di natura emozionale, possono avere sul decorso della malattia (Spiegel, 1994). Il malessere psicologico quindi, sia che si esprima sotto forma di ansia aperta e di aggressività, o forma depressiva, con il rinchiudersi in se stessa della persona, esiste ed in più la sofferenza psicologica si può esprimere anche nel dolore fisico.

Chiunque lavori in ambito oncologico, abbia un tumore oppure si occupi di una persona vicina che ne è affetta, saprà troppo bene che il cancro e il suo trattamento possono offrire continue opportunità di sperimentare dolore, disagio, rabbia, paura e disperazione. Può apparire del tutto normale e comprensibile che, in seguito a queste esperienze, ci si possa sentire molto angosciati, al punto in cui l’approccio a qualsiasi suggerimento di “potrebbe esserci un altro modo per rapportarsi a queste esperienze” deve essere fatto con grande sensibilità. È qui che la personale esperienza diretta di Trish di essere tanto paziente oncologica quanto un’insegnante di centinaia di malati di cancro, è così utile nella descrizione del suo libro “Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness per pazienti oncologici” .

 

Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness per pazienti oncologici: la premura verso la sofferenza propria e altrui

In Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici Trish Bartley descrive e sviluppa in modo originale il modello della MBCT (Mindfulness based cognitive therapy) dedicandosi ai pazienti oncologici.

Lo stimolo per il programma di Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici (MBTC-Ca) deriva dal primo incontro personale di Trish con il cancro (ne ebbe un secondo proprio mentre scriveva questo libro). Questa esperienza, insieme al suo coinvolgimento con l’insegnamento e la sua formazione nella Mindfulness based cognitive therapy, rende Trish straordinariamente adatta al compito che si è assunta. La Mindfulness based cognitive therapy per pazienti oncologici si fonda nell’idea la nostra sofferenza emerge in realtà da come ci relazioniamo alle esperienze di dolore, disagio e difficoltà che alle esperienze stesse. Tale prospettiva indica la possibilità di poter ridurre l’angoscia apprendendo un nuovo modo di rapportarsi con le esperienze spiacevoli e indesiderate, anche se si può fare poco per cambiare l’esperienza in sé.

Uno degli aspetti più belli e potenti della terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici è l’enfasi posta sull’apertura e la premura verso la sofferenza altrui, così come la propria, sul connettersi con la condizione umana condivisa con tutti coloro che sono toccati dal cancro e, sull’estendersi oltre l’isolamento che dolore e angoscia possono così spesso rafforzare. L’importanza della gentilezza e della compassione nelle pratiche mindfulness non è sempre stata riconosciuta esplicitamente. Ora la situazione sta cambiando: ad esempio, disponiamo di evidenze empiriche per cui una maggiore compassione nelle pratiche e una maggiore compassione verso se stessi costituisce una delle vie principali che rendono vantaggiosa la Mindfulness based cognitive therapy nel trattamento della depressione.

Il libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici descrive inoltre diversi e creativi adattamenti della struttura base della Mindfulness based cognitive therapy per le esigenze specifiche dei pazienti oncologici: sono stati sviluppati una varietà di nuove pratiche brevi, metodi per aumentare la propria sensibilità ai messaggi, e altri le esperienze di sofferenza negli elementi di cui si compongono. In tutto il testo, la descrizione dettagliata delle pratiche è ospitata in un ampio recipiente di calore, con passione e grande sensibilità alle dinamiche del processo di gruppo.

Essenziale nel libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici è la voce di coloro che stanno introducendo la mindfulness nella propria vita durante il viaggio personale nel cancro e, l’aspirazione affinché questo libro supporti ulteriori studi relativi all’impatto psicologico degli interventi basati sulla mindfulness in persone affette da tumore.

Il programma di otto settimane descritto in v è un’elaborazione della terapia cognitiva basata sulla mindfulness per la prevenzione delle ricadute depressive e la riduzione dello stress. Nel libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici si condivide quanto appreso dall’insegnamento della MBCT-Ca  a oltre 30 gruppi di pazienti oncologici. È tratta da più di dieci anni di esperienza di valutazione, sviluppo e ridefinizione del programma.

Il libro è suddiviso in tre parti e inizia descrivendo in modo generale la mindfulness. In seguito viene descritto un incontro di tre persone affette da tumore che hanno partecipato a un corso basato sulla mindfulness e, attraverso la loro esperienza, si costruisce un quadro di ciò che può offrire la mindfulness a persone con storia analoga. L’ultimo capitolo della sessione delinea un modello dei pattern psicologici del disagio (distress) derivante dal cancro.

La seconda parte di Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici si accosta alle otto settimane della MBCT-Ca, da prima dell’inizio del corso sino a dopo la sua conclusione . Il primo capitolo delinea il metodo di reclutamento dei malati di cancro e descrive come li si prepara al corso. I capitoli successivi analizzano il programma in dettaglio, settimana per settimana, includendo vari aneddoti dei partecipanti.

Successivamente, vengono esaminate le pratiche di mindfulness contenute nel programma: il loro adattamento per i pazienti oncologici e la descrizione delle pratiche brevi impiegate e si descrivono i metodi per sostenere i partecipanti dopo il corso e il lavoro individuale per chi non sta bene. Un intero capitolo, invece è dedicato all’ intervento basato sulla mindfulness per coloro che stanno ricevendo cure palliative.

Nella terza parte di Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici si passa all’esplorazione del ruolo dell’insegnante di un corso mindfulness – based impegnata per pazienti oncologici. Si trattano alcune difficoltà che incontra nel suo ruolo e le qualità di cui potrebbe necessitare. Si analizzano questioni relative a pratiche e intenzioni nell’insegnamento della mindfulness e si spiega l’importanza del processo di gruppo nella MBCT-Ca.

 

Ma cos’è la mindfulness ?

La parola mindfulness, traduzione inglese della parola in lingua Pali (la lingua dell’antico Canone buddista) “Sati”, significa letteralmente presenza mentale o consapevolezza. E’ una forma particolare di consapevolezza, non cognitiva, non discorsiva, un modo di essere in contatto (un contatto non filtrato da immagini mentali piene di emozioni dolorose che trasformano e appesantiscono la realtà) con ciò che accade nel momento presente, nello stesso momento in cui accade.

È la chiara e decisa consapevolezza di ciò che realmente accade a noi e in noi nei momenti successivi alla percezione. È chiamata nuda poiché riguarda solo i puri e semplici fatti della percezione, presentandosi attraverso i cinque sensi o attraverso la mente senza reagire ad essi.

Lo stato mentale della consapevolezza così intesa è lo stato naturale della mente intrinseca a noi esseri umani quando essa non è agitata dai movimenti di avversione e attaccamento, dalla proliferazione mentale, dalla confusione, dal torpore che la allontanano dalla chiara visione dell’esperienza del momento; “qualifica la mente nella sua funzione di pura conoscenza/esperienza, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com’è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente” (Teasdale); implica il riuscire a diventare più intimi con la propria esperienza momento per momento attraverso l’esercizio sistematico dell‘osservazione (attenzione intenzionale non giudicante) di ciò che sorge fuori e dentro di sé, con una sospensione intenzionale dell’impulso a definire, valutare e giudicare l’esperienza. La mindfulness non agisce sui contenuti dolorosi, interni o esterni che siano, ma sulla relazione che con essi abbiamo.

Porta cioè a non essere più in relazione con la realtà a partire dalle nostre sensazioni, emozioni, pensieri, ma assieme a questi che diventano non tanto abiti della nostra identità, lenti che deformano il mondo con cui entriamo in contatto, ma viceversa oggetti essi stessi facenti parti di quella realtà di osservazione e di consapevolezza di una mente calma e chiara la cui funzione non è tanto quella di giudicare, opporsi, reagire, negare, deformare ma di conoscere, e dunque prima di tutto accettare, la realtà per come essa si presenta e di rispondere ad essa in modo utile e salutare per il proprio benessere.

La proposta della mindfulness dunque è di iniziare a spostare l’attenzione dall’evento percepito come doloroso allo strumento che questo evento percepisce, cioè la mente. Dalla malattia a come la mente accoglie l’esperienza della malattia, la percepisce a livello sensoriale e la interpreta a livello cognitivo e reagisce ad essa a livello emotivo.

Le pratiche mindfulness aiutano a coltivare alcune qualità mentali – pazienza, attenzione non giudicante, accettazione, curiosità, chiarezza mentale, serenità, decentramento, compassione, gioia – utili a liberare la mente stessa dalla morsa dell’avversione (che si trasforma in rabbia persecutoria o in depressione); della paura (da cui la negazione e la confusione); dell’auto-referenza (perché proprio a me…); dell’attaccamento ad una identità cristallizzata (che porta all’impossibilità di rispondere efficacemente alle richieste di cambiamento psicologico, fisico e sociale che la malattia impone).

Per chi convive con una malattia oncologica e con il suo carico di dolore, ansia e paura, mente mindful significa per esempio poter notare le sensazioni, le emozioni, i pensieri via via che sorgono senza correre in avanti saltando a piè pari in conclusioni a priori; poter fare attenzione alla qualità della sensazione dolorosa, a come pulsa, alla sua temperatura, a come si modifica, osservandola attentamente e in profondità attimo per attimo nel suo manifestarsi cosicché forse è possibile sperimentare che non è un qualcosa di enorme, fisso e spaventoso, ma un processo in continua trasformazione; significa notare la rabbia, la paura che sorge e fare esperienza di queste, di come esse si manifestano nella mente e nel corpo, non come la “mia rabbia”, “la mia paura” che porterebbe automaticamente a giudicarsi, a negarla, reprimerla o agirla contro sé o gli altri, ma come fenomeni che sorgono, occupano uno spazio temporale conoscibile attraverso le impressioni sensoriali e svaniscono.

Il legame tra musica e “pelle d’oca”: l’importanza dei fattori cognitivi

Sentendo un bel brano musicale, ad alcuni soggetti capita di sentire un brivido lungo la schiena, o la pelle d’oca lungo braccia e spalle.
Il fenomeno è chiamato “frisson“, un termine francese indicante una sensazione di “freddo artistico”, che può essere percepito come un’onda di piacere che percorre la pelle. Alcuni ricercatori lo hanno tradotto come “orgasmo della pelle”.

 

La musica che trasmette emozioni: il fenomeno del “frisson”

Sentire musica che veicola emozioni è la causa più comune del frisson, ma qualcuno sperimenta la sensazione anche osservando meravigliose opere artistiche, guardando particolari scene di film o avendo contatti fisici con un’altra persona. Gli studi hanno dimostrato che circa i due terzi della popolazione sperimenta il frisson, ed esiste addirittura una pagina web, creata dagli utenti di Reddit ( un sito di social news e intrattenimento), per condividere materiale che genera frisson.

Perché alcune persone sperimentano questa sensazione ed altre no?

Mentre alcuni scienziati stanno ancora cercando di comprendere i segreti del fenomeno, una grande parte di ricercatori, negli ultimi 50 anni, ha attribuito l’origine del frisson alla modalità con cui le persone reagiscono a livello emozionale a stimoli inaspettati nell’ambiente circostante, particolarmente alla musica.

Passaggi musicali che hanno al loro interno armonie inaspettate, cambiamenti improvvisi nel volume o un’entrata commovente di un solista, sono trigger molto comuni per la generazione del frisson, perché sconvolgono positivamente le aspettative degli ascoltatori.

Se un violino solista sta suonando un passaggio particolarmente toccante che culmina in una nota elevata, l’ascoltatore potrebbe trovare questo picco molto carico emozionalmente e sentirsi eccitato al pensiero di assistere alla riuscita esecuzione di un pezzo così difficile.

Ma la scienza sta ancora cercando di comprendere perché questa eccitazione dia vita al fenomeno della “pelle d’oca“.
Alcuni scienziati hanno suggerito che la cosiddetta “pelle d’oca” sia, in un’ottica evoluzionista, un’eredità dei nostri primi antenati, che si riscaldavano attraverso uno strato endotermico collocato subito al di sotto dei peli della pelle. L’esperienza di brividi a seguito di un cambiamento rapido della temperatura (mentre, ad esempio, erano esposti ad una brezza di freddo improvvisa in un giorno soleggiato), faceva temporaneamente “rizzare” e poi riabbassare i peli, per riportare al calore lo strato sottostante.

Quando sono stati inventati i vestiti, gli esseri umani non hanno più avuto bisogno di questo strato endotermico di calore. Tuttavia, la struttura fisiologica è ancora al suo posto e potrebbe essere stata “risintonizzata” per produrre sensazioni di brivido come reazione a stimoli che generano emozioni, come la bellezza dell’arte o della natura.

La ricerca riguardante la prevalenza del frisson ha prodotto dati molto variabili, con vari studi che indicano che una percentuale di popolazione compresa tra il 55% e l’86% sperimenta questo fenomeno.

Nello studio è stato ipotizzato che quanto più un soggetto sia immerso, a livello cognitivo, in un brano musicale, tanto più sarà probabile che egli esperisca il frisson, come risultato della maggiore attenzione allo stimolo scatenante. La seconda ipotesi è stata che il fatto che qualcuno possa farsi trasportare a livello cognitivo ed essere immerso in un brano musicale, sia un risultato della tipologia di personalità da cui è caratterizzato.

Per testare queste ipotesi, i partecipanti sono stati condotti in un laboratorio di ricerca e sono stati collegati ad uno strumento misurante la cosiddetta “galvanic skin response”, che indica quanto cambia la resistenza elettrica della pelle quando le persone vengono stimolate a livello fisiologico.
I soggetti, allora, sono stati invitati ad ascoltare diversi brani musicali, mentre gli assistenti di laboratorio monitoravano le loro risposte alla musica in tempo reale.

Alcuni esempi di brani musicali utilizzati nello studio:
– I primi 2 min. e 11 sec. di “St. John’s Passion: Parte 1 – Herr, unser Herrscher”;
– I primi 2 min. e 18 sec. del “Piano concerto n.1:II” di Chopin;
– I primi 52 sec. di “Making Love Out of Nothing at All” degli Air Supply;
.- I primi 3min. e 21 sec. di “Mythodea: Movimento 6” di Vangelis;
– I primi 2 min. di “Oogway Ascends” di Hans Zimmer.

Ciascuno di questi brani contiene almeno un momento eccitante che è conosciuto come causa di frisson negli ascoltatori (alcuni di questi sono stati utilizzati in studi precedenti). Per esempio, nel brano di Bach, nei primi 80 sec., l’orchestra genera un crescendo di tensione che è rotto dall’entrata del coro, un momento di particolare carico emotivo che generalmente elicita frisson.
Quando i partecipanti ascoltavano questi brani, gli assistenti di laboratorio chiedevano loro di riportare le loro esperienze di frisson premendo un piccolo bottone, che creava una registrazione temporale di ogni sessione di ascolto.

 

I fattori che favoriscono il fenomeno del frisson

Confrontando questi dati con le misure fisiologiche e con i test di personalità che i partecipanti avevano completato, si è potuti pervenire ad un risultato sorprendente sul fatto che il frisson potrebbe coinvolgere più spesso alcuni ascoltatori rispetto ad altri.

I risultati dei test di personalità hanno dimostrato che gli ascoltatori che esperivano il frisson, avevano anche punteggi più alti in un tratto di personalità chiamato “apertura all’esperienza”.

Alcuni studi hanno mostrato che i soggetti caratterizzati da questo tratto avrebbero spesso un’immaginazione particolarmente fervida, apprezzerebbero la bellezza e la natura, ricercherebbero nuove esperienze, rifletterebbero spesso profondamente riguardo ai propri sentimenti, e amerebbero la varietà negli eventi della vita.
Alcuni aspetti di questi tratti sarebbero inerenti alle emozioni (amare la varietà, apprezzare la bellezza, ed altri sarebbero più strettamente cognitivi (immaginazione, curiosità intellettuale).

Se alcune ricerche precedenti avevano connesso l’apertura all’esperienza col frisson, molti ricercatori avevano concluso che gli ascoltatori sperimentavano il frisson come risultato di una profonda reazione emozionale alla musica.

Al contrario, i risultati dello studio hanno mostrato che sarebbero le componenti cognitive dell’apertura all’esperienza, come fare previsioni mentali sull’andamento della musica o associare l’immaginazione alla musica (combinare, cioé, l’ascolto con i “sogni ad occhi aperti”), ad essere associate col frisson, più delle componenti emozionali.

Questi risultati, pubblicati sulla rivista “Psychology of Music“, indicano che le persone che s’immergono nella musica a livello intellettuale, potrebbero esperire il frisson più frequentemente e in maniera più intensa rispetto alle altre persone.

Il rimuginio: cura e ruolo nella sofferenza psicologica – Webinar dell’Ordine Psicologi Lombardia

Milano 20 Aprile 2017 – 20:45

Relatore: Dott. Gabriele Caselli

webinar caselli 20 aprileIl rimuginio è una forma di pensiero negativo e ripetitivo che negli ultimi decenni ha assunto un ruolo fondamentale tra i fattori psicologici, identificati come perno della sofferenza emotiva nella maggior parte dei disturbi psicologici. Rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che possono accadere ma anche riflettere continuamente sui propri errori, sulle cause, sulle implicazioni, su ciò che desideriamo e non abbiamo, sulle ingiustizie subite. Il rimuginio prolunga e intensifica la sofferenza psicologica, ostacola una naturale regolazione delle emozioni, specie quando i pazienti fanno fatica ad ad abbandonarlo . o quando viene ritenuto necessario e utile. La presentazione ha lo scopo di descrivere in breve definizione, meccanismi patologici e interventi che si focalizzano sul rimuginio.

Gabriele Caselli è psicologo, psicoterapeuta cognitivo comportamentale, dottore di ricerca in Psicologia Clinica. Docente e vice-direttore del corso di laurea triennale in psicologia presso la Sigmund Freud University e didatta della scuola di specializzazione post-laurea in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi”. Attualmente è research fellow presso London South Bank University. È socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). È autore del libro ‘Rimuginio’ e di pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali su metacognizione, psicopatologia e psicoterapia dei disturbi d’ansia, depressione e dipendenze patologiche.

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COME PARTECIPARE?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo il 20 APRILE alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/1317089967218088707 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

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Un altro me (2016) di Claudio Casazza – Recensione del film

Un altro me di Claudio Casazza ci conduce all’interno del carcere di Bollate nel percorso rieducativo di un gruppo di detenuti condannati per reati sessuali.

IN SALA da giovedì 13 aprile 2017

 

Un altro me (2016) di Claudio Casazza - Recensione del filmI gruppi terapeutici, le attività artistiche, i film, lo sport, il rilassamento corporeo. Un’equipe di operatori della salute mentale e di educatori. Il confronto tra le diverse figure impegnate nel progetto.

Il tema, complesso, viene trattato in modo asciutto, tondo. Cercando di conciliare tutte le istanze coinvolte.

Da un lato infatti vi è il tentativo, riuscito, di scandagliare l’umanità dei detenuti. L’umanità di soggetti nati come persone e diventati detenuti. Dall’altro, il film Un altro me non nasconde la verità.

 

Un altro me: la riabilitazione nei reati sessuali

I reati sessuali, gravissimi per la profondità degli sconvolgimenti generati nelle vite delle vittime, ricevono uno stigma sociale per molti aspetti inevitabile. Giustificato, pure.

Nessuno vuole avere a che fare con individui così pericolosi, colpevoli di azioni lecitamente associabili all’idea di un’intrinseca malvagità. E’ qui che il progetto di recupero, e il film Un altro me nel mostrarlo, colgono nel segno. La riabilitazione terapeutica dei detenuti deve passare da una riabilitazione morale che può avvenire solo attraverso l’espiazione emotiva.

Gli operatori lavorano con loro sulla necessità di far emergere una consapevolezza del male compiuto, superando le resistenze che il carnefice frappone tra sé e la constatazione empatica del dramma. Il carcere non emette giudizi universali ma applica sentenze. Le sentenze cercano di tradurre in linguaggi universali il bisogno di giustizia.

Molto interessante, non solo per gli addetti ai lavori, l’onestà con cui i terapeuti si rapportano ai detenuti, senza temere l’impatto della verità e anzi ricercandolo, nella convinzione che il carcere, contenendo fisicamente le pulsioni devianti, sia un contesto adatto a tale scivolosa operazione.

Lo sguardo del film Un altro me è davvero senza giudizio e lucido al contempo nel chiarire cos’è la devianza, per quanto grave. Impossibile perdonare se il perdono è revisionismo ideologico, proviamo invece a promuovere un diverso incontro di questi uomini con se stessi, plasmati nella mentalità che li porta a trasformare l’irresponsabilità di una “puttanella da discoteca” nel diritto maschile di imporre sesso. Se questo è il presupposto tutto il resto scorre naturale.

La fatica dei detenuti nel trovare respiri più ampi ai loro pensieri e ancor più nel contattare l’emozione che anche dentro di loro procede ferita, i dubbi dei terapeuti sull’esistenza di reali margini di cambiamento, lo spettro che una volta fuori di lì potrebbe ripresentarsi con la stessa fame.

La verità è che uno stupro cambia la vita per sempre. La vita di chi lo subisce. Nessun dubbio, nessuna ambiguità, la lettera di una vittima che confluisce come un rivolo implacabile nell’immagine sfuocata dei detenuti senza parole, uno incrocia le gambe, l’altro inizia a grattarsi la testa, nessuno mantiene la spocchia del carnefice. La verità. Iniziando a guardarla per la prima volta ciascuno di loro reagisce con le proprie corde. Il cambiamento non può essere per finta e non può essere così grande, non stiamo dentro un film.

Nel carcere le persone hanno strumenti di sopravvivenza, gli stessi che utilizzati fuori li hanno condotti dentro. Molestare donne era l’unica valvola di sfogo, forse l’unica competenza relazionale e pensarlo è tanto mostruoso quanto vitale per poter costruire una speranza futuribile.

Cambiare significa accorgersi che l’assoluzione data dalla propria famiglia è una bestialità, che tua moglie ti vuole in carcere perché ti ama e almeno ti fermano, che la vittima portata al gruppo a raccontare l’esperienza che l’ha rovinata è un plotone di esecuzione, e davanti a lei sei nudo come un verme. Stavolta per davvero. E può anche accadere che la psicologa non ne possa più, quando fissi le tirocinanti con gli occhi della belva. Non ne possiamo più. Un giorno forse uniti, vittime ed ex carnefici. Ma senza ambiguità.

 

UN ALTRO ME – IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO:

 

Ageing in place: invecchiare bene a casa propria

Si diffonde sempre più in Europa il concetto di “ageing in place” definita come la possibilità per una persona di vivere nel luogo che ha scelto – casa propria, nella sua comunità – in modo sicuro, indipendente e confortevole indipendentemente dall’età, dal reddito o dalle proprie capacità (Hooyman & Kiyak, 2011). Questa scelta di vita è molto apprezzata dalle persone anziane in quanto consente loro di mantenere la propria indipendenza e la possibilità di vivere circondati da famigliari e amici. Preservare la propria autonomia vuol dire possedere il controllo decisionale e di scelta nel determinare la propria vita.

 

Ageing in place: i vantaggi dell’assistenza in casa dell’anziano

Dalla prospettiva dei responsabili politici, l’assistenza istituzionale è molto più costosa rispetto all’assistenza in comunità e in casa della persona anziana (Chappell et al 2004). Le elevate spese pubbliche relative all’assistenza residenziale hanno quindi spinto gli agenti politici e i professionisti a pensare ad alternative che consentano di aiutare gli anziani fragili nelle loro abitazioni e nelle loro comunità.

Il termine “place”, infatti, non si riferisce soltanto all’abitazione fisica dell’anziano ma anche alla sua comunità, che si concretizza nei membri della famiglia, i vicini, la chiesa e i diversi servizi disponibili sul territorio. Non sorprende che molte società abbiano approvato politiche per dare priorità ai servizi community- based, fornendo così nuove opzioni per quelle persone anziane che abbiano bisogno di assistenza ma non si sentano pronte a trasferirsi in una residenza assistenziale.

Secondo diversi studi, si possono generare effetti positivi sulla persona attraverso piccole modifiche ambientali (Lawton, 1998), ciò consente un miglioramento nell’adattamento persona- ambiente e un conseguente miglioramento delle condizioni generali di vita. Lawton sottolinea l’importanza dell’interazione tra le abilità personali e l’ambiente fisico domestico sul benessere delle persone anziane, mostrando come piccoli cambiamenti realizzabili nella propria abitazione (come rimuovere gli ostacoli e introdurre degli aiuti per la mobilità) possano migliorare i livelli di autonomia.

Gli studi sul tema dell’ageing in place spesso si riferiscono alla possibilità di rendere la propria casa più funzionale e meno rischiosa, fornendo aiuti per facilitare lo svolgimento dei compiti della vita quotidiana. L’idea alla base è che la persona anziana possa vivere nella propria abitazione in sicurezza finchè i diversi servizi e supporti lo consentano.

Lau e colleghi (2007) hanno individuato una serie di caratteristiche importanti per vivere e invecchiare nel luogo scelto in sicurezza, tra queste: le caratteristiche biologiche e psicologiche, la rete di supporto sociale, i servizi formali, i servizi assistenziali, la struttura dell’abitazione e del vicinato.

Questo ed altri contributi teorici riconoscono chiaramente che le varie strategie di ageing in place dovrebbero tenere in considerazione non solo l’ambiente personale (micro) della persona, ma anche la comunità e le diverse componenti strutturali (Oswald et al., 2011).

Le allucinazioni: le cause, le tipologie e il trattamento – Introduzione alla Psicologia

Le allucinazioni consistono in un fenomeno psichico in cui si percepisce come reale qualcosa che in realtà è solo immaginato. L’allucinazione in psicopatologia spesso è definita come “percezione senza l’oggetto”. Chiaramente, malgrado manchi la stimolazione sensoriale, in realtà il cervello produce una risposta a uno stimolo sensoriale esternamente inesistente. Nel caso di un’allucinazione visiva, ad esempio, si riscontra la presenza di un’immagine sovrapposta allo sfondo reale esistente, e poiché questo meccanismo è inconsapevole, il soggetto non ha motivo di non credere che sia reale, quindi la percezione è considerata vera.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

 

Le allucinazioni si possono manifestare secondo ognuna delle modalità sensoriali, in particolare si hanno allucinazioni visive, uditive, gustative, olfattive e tattili e fenomeni allucinatori cenestesici, enterocettivi e protopatici.

 

Allucinazione: etimologia

Il termine allucinazione deriva dal latino hallucinere o allucinere, che significa “vagare nella mente”. Essa potrebbe essere ricondotta anche al greco ἁλύσκειν (haluskein), che significa “scappare”, “evitare”, riferendosi alla diffusa definizione di allucinazione come fuga dalla realtà.

In psicopatologia le allucinazioni sono annoverate tra i disturbi della percezione e sono diverse dalle allucinosi, percezione allucinatoria di cui è riconosciuta la natura patologica, e dalle illusioni, distorsione di una percezione sensoriale, causata dal modo in cui il cervello organizza e interpreta le informazioni ricevute.
Nell’allucinazione, dunque, si rileva uno stimolo esterno che non esiste, per esempio una persona vede qualcuno, senza che vi sia uno stimolo visivo in atto.

Le allucinazioni derivano solitamente da una condizione medica generale o da assunzione di sostanza come l’alcool o particolari droghe.

 

Storia degli studi sulle allucinazioni

I Disturbi allucinatori furono studiati e descritti fin dall’età classica, ma solo nel 1574 Fernel usò, per la prima volta, il termine allucinazione, per definire delle affezioni oculari. Successivamente, nel 1817, Esquirol definì l’allucinazione come la convinzione intima di una sensazione attualmente percepita mentre nessun oggetto esteriore adeguato a eccitare questa sensazione è alla portata dei suoi sensi. Caratteristica peculiare dell’allucinazione è la certezza, da parte del soggetto, della veridicità della percezione.

Un contributo decisivo allo studio dell’allucinazione è stato fornito dall’impiego di droghe come la mescalina, l’LSD o il dietilammide dell’acido lisergico e la psilocibina, che sono capaci di generare disturbi psicosensoriali soprattutto legati alla sfera visiva.

L’allucinazione, dunque, deriverebbe da un’intensificazione dell’immagine in aggiunta a un’eccitazione degli organi sensoriali imputati alla ricezione della stessa, ma l’esatto meccanismo fisiologico sottostante rimane ancora non chiaro.
Spesso, l’allucinazione è accompagnata dal delirio che è fondamentale nel determinare forma e tipo di allucinazione, ad esempio il paranoide tende ad avere allucinazioni visive nelle quali sente di essere minacciato, il mistico crede di udire voci da parte di santi o ha visioni del paradiso e dell’inferno o di Gesù Cristo.

 

Prevalenza e cause delle allucinazioni

Le allucinazioni si manifestano nel 10-27% della popolazione generale in assenza di una condizione medica generale o di assunzione di sostanze stupefacenti.

Le allucinazioni possono verificarsi anche in presenza di una condizione medica generale, con malattie psichiatriche e neurologiche. Inoltre possono essere causate dall’assunzione di sostanze stupefacenti o da farmaci. Si riconoscono anche fenomeni allucinatori non patologici in presenza di deprivazione da sonno o di disturbo post traumatico da stress.

 

Come si formano le allucinazioni

Le teorie sulla genesi delle allucinazioni sono numerose e derivano dall’osservazione di quanto avviene nel corso di patologie neurologiche.

Quindi, da un punto di vista biologico si ha un’ irritazione che si traduce in iper-funzionamento di alcune zone del cervello che provocherebbero una interpretazione non veritiera di una serie di stimoli sensoriali.

Invece, le allucinazioni presenti in soggetti in stato confusionale, per esempio da astinenza acuta da alcol o droghe, sono causate da un’alterazione diffusa dell’attività elettrica dell’intero encefalo.

Esiste, anche, una ipotesi dopaminergica nella schizofrenia, in cui le allucinazioni deriverebbero da un iperfunzionamento delle vie mesolimbiche.

In condizioni di deprivazione sensoriale, al contrario, le allucinazioni costituiscono una difesa dell’organismo in carenza di stimoli, poiché il cervello lavora sempre e, non potendo spegnersi, genera false percezioni.

Secondo la psicoanalisi le allucinazioni sono manifestazioni dell’inconscio, i cui contenuti arrivano alla coscienza distorti.

Nell’Interpretazione dei sogni (1900) S. Freud sostiene che le allucinazioni rappresentino delle regressioni, al punto che i pensieri sono trasformati in immagini, in suoni e sono collegate a un ricordo della prima infanzia represso e rimasto inconscio. Freud lega, inoltre, l’allucinazione ai sogni, analogia resa evidente dall’uso di meccanismi analoghi durante i due processi.

Secondo Bion, l’allucinazione è un sintomo caratteristico dei processi psicotici, e consiste nella manifestazione all’esterno di elementi scissi della personalità, che si verificano attraverso gli organi di senso. Questi elementi scissi o frammenti provengono da un livello mentale primitivo ed è come se cercassero una loro collocazione nella realtà esterna all’interno di un oggetto che possa accoglierli e proteggerli.

 

I diversi tipi di allucinazioni

Le allucinazioni possono essere distinte in semplici e complesse. Si definisce allucinazione semplice quella in cui è presente una singola modalità sensoriale e la percezione non richiede un’elaborazione cognitiva per essere decodificata; nell’allucinazione complessa si attivano, invece, diverse modalità sensoriali e, a loro volta, sono codificate in aree cerebrali differenti.

Esistono, inoltre, allucinazioni:

– ipnagogiche ed ipnopompiche, sono le allucinazioni che si verificano quando la persona è sul punto di addormentarsi o di risvegliarsi.

– negativa, si verifica nel momento in cui un oggetto reale non è percepito dal soggetto allucinato in assenza di lesioni a carico dell’apparato visivo o uditivo.

– visive, si presentano sotto forma di fenomeni elementari, fotopsie o fosfeni, o complessi, con caratteristiche di spazialità e di chiarezza, identiche a quelle che si riscontrano nelle normali percezioni visive. Rientrano in questa area le micropsie, le macropsie, le zoopsie del delirium tremens, le allucinazioni extracampali, che si realizzano al di fuori del campo visivo, e di fenomeni autoscopici.

– uditive o acustiche, sono le più frequenti, e si distinguono in elementari, ronzii, rumori, ecc., e complesse, voci, queste ultime, rappresentano il più frequente disturbo psicosensoriale e possono essere presenti in disturbi psichici come la schizofrenia.

– olfattive e gustative, si presentano associate ad altre forme di allucinazioni e hanno contenuto generalmente sgradevole.

– cenestesiche, si tratta della percezione della alterazione della normale consistenza dei visceri, della loro funzione o della loro invasione da parte di corpi estranei o animali.

 

Diagnosi differenziale dei sintomi delle allucinazioni

Le allucinazioni si riscontrano tipicamente in presenza di patologia mentale causata da malattie neurologiche e psichiatriche, come demenze (senili e precoci), schizofrenia e delirium tremens (in caso di alcolismo cronico).
Inoltre, è possibile possano verificarsi allucinazioni in casi di assunzione di sostanze allucinogene o alcool.
I sintomi e i segni di accompagnamento alle allucinazioni informano e sono importanti per determinare l’origine di tali manifestazioni.

 

Terapia delle allucinazioni

Il trattamento principale per la cura delle allucinazioni è la farmacoterapia con farmaci antipsicotici adatti al tipo di problema psichico specifico presentato dal paziente.

L’efficacia della farmacoterapia aumenta se ad essa vengono affiancati altri tipi di trattamento, tipo la psicoterapia di sostegno, che aiuta il paziente ad accettare e tollerare il disturbo e a gestire la vita quotidiana.

Se si fosse verificato un danno a carico delle funzioni cognitive sarebbe possibile utilizzare la cognitive remediation, programma finalizzato all’allenamento di specifiche funzioni cognitive.

Inoltre, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta nella riduzione e gestione del sintomo, ovvero riconoscimento dell’allucinazione, distanziamento critico e padroneggiamento da parte del paziente. Si ottiene in questo modo una maggiore consapevolezza del disturbo che favorisce l’attuazione della terapia farmacologica. Inoltre, è utile anche potenziare le abilità metacognitive del paziente e incrementare le abilità sociali, mediante i social skill training.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Scadenze più lunghe, fanno donare alle persone più soldi!

In questo studio, i ricercatori hanno osservato come le differenti scadenze non avessero effetti sul numero delle donazioni. Non importava il termine, la maggior parte delle donazioni sono sopraggiunte entro i primi due o tre giorni dall’invio della mail e dell’sms.

 

Fare pressioni per le donazioni non convince la gente a donare

Se fai una donazione entro tre giorni, un contributore anonimo donerà ulteriori 10 DKK!” (10 corone danesi = 1.35 euro). Questo è stato il messaggio che i ricercatori del Dipartimento di Economia e Commercio presso l’Università di Aarhus (Danimarca) hanno inviato tramite email e sms a circa 53mila Danesi già donatori a nome dell’associazione benefica contro la povertà nel mondo “DanChurchAid”.

La scadenza fornita per attivare la donazione supplementare da parte del contributore anonimo variava. Per un gruppo di destinatari di mail la scadenza era di 3 giorni. Per un secondo gruppo era di 10 giorni e ad un terzo gruppo è stato dato tempo fino al primo giorno del mese successivo. Per i destinatari degli sms la scadenza fornita era leggermente più ravvicinata.

I risultati hanno evidenziato che le donazioni aumentavano quando la scadenza fornita era più in là nel tempo.

Le persone non amano pressioni quando devono fare delle donazioni benefiche!

Sappiamo da altri studi che le persone non amano avvertire pressioni quando donano soldi, pertanto abbiamo interpretato i risultati con il fatto che pressare qualcuno con una scadenza breve, crea una sorta di mentalità dare-avere nel destinatario: “Va bene, sono d’accordo nel donare in fretta, ma non stai ricevendo tanto!”. Così ha spiegato Mette Trier Damgaard del Dipartimento di Economia e Commercio alla Aarhus University, co-autore dello studio in collaborazione con Christina Gravert dell’Università di Gothenburg (Svezia). La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Behavioral and Experimental Economics.

 

Le scadenze non hanno un effetto in sé e per sé

Secondo la teoria delle scadenze e la tendenza delle persone a posporre le azioni ad un momento successivo (procrastinazione), il numero di donazioni dovrebbe aumentare in modo significativo appena prima della scadenza fornita. Tuttavia, in questo studio, i ricercatori hanno osservato come le differenti scadenze non avessero effetti sul numero delle donazioni. Non importava il termine, la maggior parte delle donazioni sono sopraggiunte entro i primi due o tre giorni dall’invio della mail e dell’sms. Mette Trier Damgaard ha definito questo fenomeno “effetto ora o mai più” e ha indicato due possibili spiegazioni: “I destinatari potrebbero essere stati consapevoli del fatto che se non avessero donato subito, si sarebbero dimenticati di farlo. Oppure potrebbero aver donato prontamente per evitare di ricevere ulteriori richieste di donazione”.

 

Mettere delle scadenze ha senso?

Questo studio contiene interessanti spunti per le associazioni benefiche di tutto il mondo. Solo in Danimarca, vengono donati 2 bilioni di corone danesi ogni anno (circa 270 miliardi di euro). Tuttavia, i ricercatori sono riluttanti nel trarre qualsiasi conclusione nel rispetto delle altre industrie, poiché in molte altre situazioni, le scadenze possono avere un effetto positivo nel prevenire la procrastinazione delle persone. “Con il nostro studio, possiamo fornire un’immagine più sfaccettata e migliore nella comprensione di dove, quando e come le scadenze funzionano” ha affermato Mette Trier Damgaard.

Born Risky: capire chi siamo, fregandosene del resto

Born Risky è un mini progetto diretto ad esplorare le vite di alcune persone che hanno sfidato gli stereotipi tradizionali riguardanti genere e identità e, attraverso i loro vissuti, hanno aperto la strada alle nuove generazioni.

 

A dispetto dell’Italia dove si sente ancora spesso parlare di una presunta “teoria gender”, in altri paesi si è aperto già da tempo il dibattito sui rapidi cambiamenti e l’evoluzione, sia in campo sociologico che biologico, delle nozioni riguardanti genere, sesso e identità.

Oggi abbiamo deciso di introdurvi la nuova serie dell’artista britannico Grayson Perry il quale, dagli anni 2000, ha iniziato a collaborare con il canale televisivo Channel 4 per la realizzazione di documentari che focalizzano l’attenzione sul concetto di mascolinità nel 21esimo secolo.

Born Risky è un mini progetto diretto ad esplorare le vite di alcune persone che hanno sfidato gli stereotipi tradizionali riguardanti genere e identità e, attraverso i loro vissuti, hanno aperto la strada alle nuove generazioni.

Protagonista del primo episodio è proprio l’artista Grayson Perry – famoso per le sue ceramiche ma anche per il suo crossdressing (v. nota a fine articolo) – il quale ci introduce all’interno del suo personale percorso nello sviluppo della sua identità di “uomo cui piace indossare vestiti da donna”.

 

Born Risky capire chi siamo fregandosene del resto 1

Perry Grayson: protagonista del primo episodio, nonché creatore della serie Born Risky

 

Perry non ha mai avuto alcun dubbio riguardo la sua identità di uomo cisgender (v. nota a fine articolo) ed ha sempre trovato offensivo quando ingenuamente la gente intorno a lui diceva “tu sì che capisci cosa vuol dire essere donna!”; piuttosto, come lo stesso afferma: “se ho imparato qualcosa dall’essere un travestito è la consapevolezza di cosa vuol dire essere un uomo”. Nonostante l’artista ammetta di aver provato in giovane età ansia e paura riguardo alla possibilità che una parte di lui volesse essere una donna, questi dubbi si sono chiariti quando i media hanno iniziato a riportare le prime storie di transessuali, capendo che quello che amava era “il suo corpo in un vestito”. L’idea che il cross-dressing sia legato al mondo omosessuale e al mondo trans è molto diffusa; tuttavia erronea. Infatti, sebbene alcune persone transessuali possano attraversare un iniziale periodo di cross-dressing, essa è soltanto una fase di sperimentazione cui seguirà il desiderio di un cambiamento anche nel fisico.

Nel secondo episodio Perry ci introduce EJ, uomo trans esperto in storia della moda; insieme essi discutono di come il modo di mostrarsi esteriormente al mondo si riallacci alla costruzione della nostra identità.

 

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EJ: protagonista del secondo episodio di Born Risky

 

Parlando della sua vita e di come ha capito che il suo rifiuto per certi abiti femminili fosse qualcosa di più profondo e interconnesso alla costruzione della sua identità di genere, EJ esprime i suoi dubbi al riguardo: “il solo pensiero di indossare vestiti femminili mi pietrifica […], mi chiedo se non sia io stesso a perpetuare stereotipi maschili?”.

In realtà, le paure di EJ sono da ricollegare alla percezione che gli altri hanno di noi e della nostra identità; la nostra società ha regole ben precise quando si tratta del genere e della sua esteriorizzazione, chi le infrange molto spesso viene considerato “anormale” e questo è particolarmente vero se si tratta di un uomo. Basti pensare come anche elementi marginali, quali gioielli o un trucco leggero, possano suscitare reazioni ,a volte anche violente.

Ed è Tina l’alter ego di Geoff, protagonista della terza puntata, che ci racconta quanto un uomo con i tacchi sia a rischio di abuso e violenze; ecco perché ha deciso di aprire il Tina’s Hotel che, a suo dire, è “un luogo di ritrovo per chi ancora non ha il coraggio di uscire in pubblico; qui possono incontrare altri crossdresser e vestirsi in privato”.

 

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Geoff: protagonista del terzo episodio di Born Risky

 

Infatti, molte delle persone che frequentano l’hotel sono state respinte e rifiutate dalla famiglia e dagli amici e, anche per questo, si sentono in grado di “travestirsi” solo nella sicurezza della loro camera da letto.

Ma l’hotel di Tina non è soltanto un rifugio; ritrovarsi insieme nell’affrontare lo stesso stigma e le stesse difficoltà è un modo per guadagnare fiducia in se stessi all’interno di un ambiente non giudicante. Secondo Geoff, che solo dopo il divorzio ha trovato il coraggio di sviluppare il suo alter ego, le persone “hanno bisogno di qualcuno che le prenda per mano, qualcuno che sia abbastanza sicuro da trasmettere questa sicurezza […] Tina è il mio lascito”.

Infine, nel quarto ed ultimo episodio incontriamo Tschan, una giovane modella trans che ritorna nel suo quartiere d’origine, Brixton.

 

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Tschan: protagonista del quarto episodio di Born Risky

 

La giovane racconta di come veniva bullizzata: “Ogni giorno cercavo di trovare strade diverse per andare a scuola, cercavo di evitare quei gruppi che mi avrebbero potuto aspettare alla fermata del bus”. Tschan ricorda come all’interno della sua comunità d’origine, qualsiasi cosa al di fuori della norma non venisse accettata, “anche essere gay”; allo stesso tempo, il suo aspetto femminile la esponeva allo sguardo predatore di uomini adulti. Adesso Tschan è una donna adulta e realizzata; le attenzioni che riceve tramite il suo lavoro da modella sono ben accette e non ha più paura di camminare per quelle stesse strade: il suo motto, infatti, è “sono Tschan, ed è necessario che tu lo rispetta”.

A cura di Lorena Lo Bianco

 

Per guardare le puntate seguire il link Grayson Perry: Born Risky

 

  • Il termine crossdressing denota l’atto o l’abitudine di indossare alternativamente vestiti comunemente associati in un determinato ambito socio-culturale al ruolo di genere opposto al proprio, pubblicamente e/o in privato, per molteplici motivi, non esclusi quelli ludici. La persona che fa uso di crossdressing è chiamata crossdresser. Il termine è corrispondente all’italiano travestitismo, e chi ne fa uso travestito, e non denota necessariamente l’identità di genere o l’orientamento sessuale, e quindi non è sinonimo di omosessuale, transessuale, transgender, né dà indicazioni di sorta sulle preferenze sessuali.
  • Cisgender è un neologismo che significa “qualcuno a proprio agio con il genere che gli è stato assegnato alla nascita”

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Interazione geni-ambiente ed esordio psicotico, un focus sull’esperienza migratoria

Uno dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (e.g. Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005; McGrath et al. 2004). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011), risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana (Morgan, 2006; Cantor-Grae, 2005).

Ornella Lastrina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Interazione geni-ambiente nell’esordio della psicosi

Negli ultimi anni, diversi studi hanno messo in evidenza come, non solo i fattori genetici, ma anche i fattori socio-ambientali, abbiano un ruolo fondamentale nel determinare l’insorgenza delle psicosi (e.g. Bredy, 2007; Akdeniz & Meyer-Lindenberg, 2014). Una spiegazione di tipo solo biologico-genetico sembra, infatti, essere riduttiva per comprendere l’insorgenza del disturbo psicotico (Van Os et al., 2008).  Sempre maggior importanza acquisiscono gli studi di tipo epigenetico che hanno l’obiettivo di far luce sulle interazioni geni-ambiente coinvolte nell’eziopatogenesi delle psicosi.

Per epigenetica si intende, secondo la prima definizione di Waddington (1942): “le interazioni dei geni con il loro ambiente che danno vita al fenotipo.” E’ proprio attraverso i meccanismi di tipo epigenetico che si esplica, dunque, il ruolo dei fattori di tipo socio-ambientale coinvolti nella comparsa dei disturbi psicotici (Rutten et al., 2009; Pishva, 2014). Un cambio di direzione si è verificato, inoltre, nel considerare i disturbi dello spettro psicotico attraverso un approccio dimensionale piuttosto che categoriale. Alla luce delle ultime evidenze scientifiche, Jim Van Os ha introdotto, infatti, il concetto di “sindrome psicotica multidimensionale complessa” sostenendo l’esistenza di un continuum sintomatologico tra soggetti della popolazione generale e casi clinici di psicosi. In quest’ottica, diventa fondamentale considerare i fattori di rischio che in interazione con la predisposizione genetica possono trasformare le esperienze psicotiche sottosoglia, in psicosi conclamata (Van Os, 2008). Un’attenzione specifica ai fattori di rischio e alle prime manifestazioni psicotiche consentono, infatti, oltre che di comprendere meglio l’eziopatogenesi delle psicosi, anche di poter intervenire precocemente e di favorire una migliore prognosi.

Come messo in luce da McGrath (2006), per molti anni si è consolidata nella comunità scientifica la credenza che l’incidenza della schizofrenia avesse una scarsa variabilità e che il disturbo potesse interessare tutti, a prescindere da sesso, etnia e altre condizioni socio-ambientali. Queste credenze sono state smentite, negli ultimi anni, da un sempre più corposo numero di evidenze scientifiche che mostrano invece come la comparsa del disturbo sia correlata ad alcuni specifici fattori di rischio. Alcuni dei fattori evidenziati dalle ricerche scientifiche sono: l’appartenenza ad una minoranza etnica, l’esperienza di abuso in età infantile, l’essere di sesso maschile, essere disoccupati, fare uso di cannabis e vivere in un’area urbana (Driessen et al.1998; Verdoux et al. 1998; Agerbo et al. 2004; McGrath et al. 2004; Di Forti et al., 2009).

 

La migrazione come fattore di rischio della psicosi

Un altro dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (e.g. Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005; McGrath et al. 2004). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011), risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana (Morgan, 2006; Cantor-Grae, 2005).

Anche in Olanda una maggiore incidenza di disturbi psicotici è stata evidenziata tra persone immigrate, di origine surinamese, danese e marocchina (Selten et al., 2001). Un maggior rischio di sviluppare psicosi è stato anche rilevato nelle popolazioni migranti presenti in Danimarca, in particolare tra i migranti provenienti da Australia, Africa e Groenlandia (Cantor-Grae et al.; 2003). Lo studio di Zolkowska e colleghi (2001) riporta che i migranti in Svezia presentano un maggior rischio di sviluppare disturbi dello spettro psicotico rispetto alla popolazione nativa. Questi dati epidemiologici hanno sollecitato l’interesse e l’attenzione della comunità scientifica. I dati di maggiore incidenza di psicosi in popolazioni migranti hanno aperto, inoltre, una nuova strada di comprensione dell’eziologia della psicosi, offrendo l’opportunità di indagare fattori di rischio propriamente socio-ambientali e come questi interagiscono con la vulnerabilità genetica.

Il fenomeno migratorio si configura come un fenomeno complesso ed eterogeneo, le motivazioni che sottendono, infatti, la scelta di migrare verso un altro Paese sono molteplici e anche molto diverse tra loro: si può emigrare per motivazioni economiche, per motivazioni di tipo religioso e/o politico, perché perseguitati nel Paese di origine o perché si scappa da situazioni di conflitto. La migrazione può avvenire in condizioni spesso precarie e di pericolo, il viaggio può essere intrapreso in modo individuale o con altri familiari. I motivi che inducono alla partenza, le aspettative rispetto alla nuova condizione nel Paese di destinazione e la modalità con cui avviene il viaggio, influiscono sul modo in cui viene percepita l’intera esperienza migratoria e dunque sul livello di stress esperito, rendendo l’individuo più o meno predisposto a sviluppare disturbi psicologici (Bhugra, 2000).

Sia la fase della migrazione, che quella post-migrazione sono caratterizzate da molteplici avversità e spesso anche da esperienze di tipo traumatico (Fearon et al., 2006). La migrazione si configura, infatti, come un evento particolarmente stressante nella vita di un individuo: essa implica il distacco da amici, familiari e da tutto il contesto in cui si è vissuto per anni, per approdare, poi, in un ambiente completamente nuovo che pone il soggetto di fronte a continue sfide e sollecitazioni. La migrazione verso un nuovo paese implica la ridefinizione del proprio progetto di vita (Cimino, 2015). Di uguale importanza e complessità sono, infatti, le difficoltà che presenta la fase post- migrazione: il migrante si trova a dover affrontare diversità linguistiche, religiose, diversi usi e costumi della comunità ospitante e la necessità di ricostruire una solida rete di relazioni sociali. In questa fase così complessa, l’accettazione da parte della comunità ospitante e il processo di integrazione sono, inoltre, fondamentali, e se vengono a mancare, contribuiscono a creare ulteriori difficoltà (Bhugra, 2000). La discrepanza tra aspettative e realizzazione, le difficoltà economiche, le condizioni abitative spesso precarie e la mancanza di opportunità lavorative sono alcuni dei fattori che rendono la fase successiva alla migrazione particolarmente stressante e difficoltosa (e.g., Bhugra, 2005).

In questa fase di ridefinizione e adattamento alcuni fattori sono protettivi e funzionali a facilitare il benessere dell’individuo nel paese ospitante. Tra questi, il supporto sociale è stato evidenziato come una buona risorsa di coping per affrontare le difficoltà della migrazione. Coloro che hanno, infatti, una buona rete di relazioni e supporto sociale presentano una migliore condizione psico-fisica e vivono più a lungo (Holt-Lunstad et al. 2008). Come riportato dalla revisione sistematica di Anderson e Morgan (2013), molti studi hanno indagato la riduzione delle relazioni sociali e del supporto sociale, di pazienti con psicosi, ma poche ricerche hanno, analizzato il supporto sociale e la quantità di relazioni sociali, nella fase precedente l’esordio psicotico.

Alcuni studi hanno mostrato, invece, un impoverimento delle relazioni sociali precedentemente al primo contatto con i servizi clinici, nello stesso periodo corrispondente al periodo di psicosi non trattata (Thorup et al. 2006; Jeppesen at al. 2008). Il supporto sociale è stato inoltre indagato in soggetti appartenenti a diverse etnie e a gruppi di minoranza etnica. Das Munshi e colleghi (2012) hanno registrato che, su un campione di 4281 soggetti, considerando i soggetti appartenenti a minoranze etniche, coloro che percepivano un maggior supporto sociale avevano anche minore probabilità di riportare esperienze psicotiche. Il modo di percepire il supporto sociale sembra, inoltre, essere influenzato dai valori culturali propri dell’ etnia di appartenenza. In uno studio di Lee e colleghi (2012), si è registrato che in un campione di soggetti immigrati a New York, di origine cinese, coloro che avevano mantenuto i valori propri della cultura cinese, riportavano di percepire un maggior supporto sociale e mostravano, inoltre, migliori capacità di coping dello stress.

In linea con queste evidenze, l’ipotesi della densità etnica sostiene che nelle aree in cui la densità di persone appartenenti ad una stessa etnia è più alta, vi è una minore probabilità di sviluppare disturbi psicologici (Boydell et al. 2001, Kirkbride et al. 2008 e Veiling et al., 2009). La possibilità, infatti, di vivere a contatto con persone che condividono uno stesso background culturale e dunque la stessa lingua, stessi usi e costumi, consente di poter avere una buona rete di supporto e di aiuto e permette dunque di ridurre le difficoltà che il migrante deve affrontare nella fase di adattamento.

Spesso, questa rete sociale è fondamentale per ottenere informazioni sugli iter burocratici da effettuare per ottenere i documenti, come trovare un alloggio, come iscrivere a scuola i bambini, oltre che fornire un supporto e sostegno morale che facilita notevolmente un buon inserimento della persona nella comunità. A conferma di quanto teorizzato dall’ipotesi di densità etnica, anche i dati relativi ai tassi di suicidio hanno una correlazione con la densità etnica dell’area in cui si vive. Un esempio è dato dalla comunità marocchina presente in Belgio che registra un’alta densità etnica nell’area metropolitana e una buona coesione sociale, riportando un tasso di suicidi più basso, rispetto ad aree con densità etnica inferiore (Fossion, 2004).

Le evidenze scientifiche sopra elencate rendono ben chiaro come la migrazione sia un’esperienza complessa che comporta un notevole carico di difficoltà per chi la vive; le teorie che hanno tentato di far luce su come essa possa essere un fattore di rischio per l’insorgenza di psicosi sono molteplici e a volte contrastanti.

Una delle teorie proposte è quella di Selten e Cantor-Grae (2005): i ricercatori hanno ipotizzato che l’esperienza di svantaggio sociale sia uno dei fattori esplicativi degli alti tassi di psicosi presso le popolazioni migranti. Lo svantaggio sociale viene inteso come una posizione di subordinazione e di emarginazione rispetto al contesto sociale in cui l’individuo è inserito. E’ fondamentale considerare, però, il modo in cui l’individuo percepisce la sua condizione di emarginazione e isolamento (Selten et al., 2013) perché è infatti, il modo in cui egli considera e percepisce questa condizione, uno dei fattori che andrà poi a influire sul suo benessere e potrà elicitare la comparsa di psicosi.

L’ipotesi dello svantaggio sociale si contrappone all’ipotesi della migrazione selettiva dello psichiatra norvegese Odegard, (1932), questa è una delle prime teorie che ha tentato di dare una spiegazione dei più alti tassi di psicosi presso le popolazioni migranti, in particolare negli Stati Uniti. La teoria della migrazione selettiva, nell’ottica di un modello di “selezione negativa” postulava che: coloro che intraprendevano un percorso migratorio erano accomunati da alcune caratteristiche quali, scarsa integrazione sociale nel paese di origine, debolezza psico-fisica e problematiche familiari, queste caratteristiche favorivano disturbi latenti che si sarebbero poi rivelati nel paese d’accoglienza.

Tale teoria è stata però ampiamente smentita (e.g. Rosenthal et al. 1974; Selten et al. 2002; Lundberg et al. 2007; van der Ven, 2014), e contrapposta ad un modello di “selezione positiva” che indica come la migrazione sia intrapresa, invece, da soggetti particolarmente sani e in grado di affrontare con successo, il difficile percorso della migrazione. Le ricerche più recenti evidenziano, tuttavia, che i fattori motivanti la scelta migratoria, sono fattori contingenti, piuttosto che fattori individuali, quali guerre, violenze, persecuzioni, crisi sociali ed economiche. Il cosiddetto “effetto migrante sano”, ovvero una preselezione di individui particolarmente dotati di risorse, rimane valido solo per alcuni percorsi di migrazione: quando questa è cioè una scelta ponderata e autonoma che implica una valutazione dei costi che l’esperienza migratoria comporta (Geraci et al., 2005). Ulteriori studi sono stati condotti per indagare la presenza di disturbi psicotici anche nei migranti di seconda generazione. Alcune evidenze scientifiche presentano un uguale elevato tasso di incidenza di psicosi anche in questo gruppo rispetto a quello dei nativi, con alcune differenze di questo dato fra le diverse etnie prese in considerazione nel campione di studio (Selten et al., 2001). Una meta analisi condotta da Bourque et al. (2011) riporta, invece, un rischio di psicosi per i migranti di seconda generazione più alto, rispetto a quelli di prima. Tale dato suggerisce che la situazione di avversità sociali vissute spesso anche dai migranti di seconda generazione possa influire sul loro benessere.

Le teorie si sono succedute nel corso degli anni, producendo risultati utili per comprendere meglio i meccanismi sottostanti l’insorgenza delle psicosi e hanno permesso inoltre di individuare i gruppi ad alto rischio, sui quali gli stressors di tipo socio-ambientale, quali la migrazione, possono avere maggiore influenza. Una delle ricerche scientifiche, più recenti, sul tema e di notevole importanza per la quantità di dati raccolti e di centri coinvolti è il progetto EUGEI: European Network of National Schizophrenia Networks studying Gene-Environment Interactions. Questo progetto è iniziato nel 2010 e ha permesso, per un periodo di 5 anni, di raccogliere dati su fattori ambientali, socio-psicologici e genetici e di comprendere come questi intervengono nell’insorgenza delle psicosi. La ricerca è stata condotta in più di 15 centri in Europa permettendo così di effettuare anche confronti trans-culturali sui dati raccolti. Questo progetto testimonia perciò l’interesse della comunità scientifica nazionale e internazionale a far luce sull’interazione di fattori socio-ambientali con quelli genetici per meglio comprendere l’origine delle psicosi e per orientare in modo efficace la prevenzione e i trattamenti del disturbo.

 

Conclusioni: l’interazione di fattori genetici e ambientali dell’esordio della psicosi e il rischio derivante dalla migrazione

L’attenzione che negli ultimi anni si è posta sui fattori socio ambientali ha, infatti, avuto numerose ricadute dal punto di vista clinico poiché in tal modo si è aperta la possibilità di intervenire e di avere un margine di azione molto più ampio, rispetto ad un approccio che considera le psicosi derivanti solo da vulnerabilità genetica (Kirkbride et al., 2010).

I gruppi maggiormente a rischio sono quelli verso cui orientare le strategie di prevenzione e che permettono inoltre di indagare come le interazioni geni-ambiente si esplicano a livello clinico. Coloro che hanno una storia migratoria in anamnesi e presentano esordio psicotico diventano perciò un’occasione per comprendere i meccanismi di interazione tra fattori di vulnerabilità individuale e fattori di rischio ambientale che sono coinvolti nell’eziopatogenesi delle psicosi (Tarricone et al., 2013). La comprensione, per esempio, di come gli aspetti sociali di esclusione e isolamento siano causali nell’insorgenza delle psicosi, può avere delle ricadute pratiche molto utili per strutturare interventi di prevenzione (Kirkbride e Jones, 2011).

Trattamenti di tipo cognitivo comportamentale possono, inoltre, intervenire sulla percezione di svantaggio sociale e sul potenziamento delle abilità sociali (Burnett et al., 1999). Numerosi studi confermano l’efficacia di interventi di CBT per la prevenzione degli esordi psicotici in pazienti giovani, come confermato dalla recente revisione sistematica di Hutton e Taylor (2014). Si auspica perciò che ulteriori ricerche scientifiche permettano di indagare in modo più completo le interazioni e i meccanismi sottostanti i disturbi dello spettro psicotico, favorendo l’elaborazione di ulteriori protocolli clinici per il trattamento.

Salute e carcere: le condizioni di salute dei carcerati – Un convegno di studi a Palermo

Con lo scopo di inquadrare le “condizioni di salute” delle carceri italiane, operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo “Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?” che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento.

 

Privazione della libertà e autonomia limitata: quali effetti hanno sui carcerati?

La privazione della libertà personale è una condizione costrittiva che genera una vasta gamma di sintomi di natura fisica (problemi cardiovascolari e metabolici, fino a malattie contagiose come la tubercolosi) e psicologica, che probabilmente rappresentano gli esiti più subdoli e devastanti della carcerazione.

Sintomi che la letteratura sull’argomento ascrive al rapporto con un’identità in cambiamento, con un “prima” sempre più lontano, paragonato a un “adesso” cristallizzato, spesso caratterizzato dal drastico scemare dell’autonomia, in un rapporto di dipendenza quasi totale dall’istituzione carceraria.

Un’autonomia limitata certamente da spazi angusti e dalle molteplici restrizioni dovute a chiare esigenze di sicurezza sociale, e resa ancora più problematica dalla mancata attivazione di esperienze produttive/professionali che contrastino sensazioni di inutilità, vuoto e disimpegno. Da qui l’invasione del male di vivere e delle patologie tipiche collegate (depressione, irritabilità, apatia, deterioramento della personalità, distacco dalla realtà, suicidio). Una cornice teorica che sembra lasciare poco spazio all’ottimismo, e che risulta utile confrontare con la concretezza della realtà carceraria, così da rilevare l’attuale livello di salute detentiva e tutela dei diritti inviolabili della persona, in particolare sotto gli aspetti della vivibilità degli spazi e del senso di autoefficacia, quest’ultimo esito primario di fattive occasioni di recupero sociale.

 

Il convegno a Palermo sulla salute dei carcerati

Con lo scopo di inquadrare le “condizioni di salute” delle carceri italiane operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo “Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?” che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento.

Lo Stato deve garantire il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro, finalizzati al recupero e alla risocializzazione poiché solo in questa maniera il detenuto potrà mettersi in pari con la societàapre i lavori l’avvocato Antonietta Cocchiara – Tuttavia bisogna tristemente constatare che tali diritti basilari non sono garantiti dalle attuali istituzioni carcerarie. Parlando di sovraffollamento i numeri sono chiari: a fronte di una capienza regolamentare di 49.000 posti, nel 2016 le carceri italiane contavano più di 54.000 unità e tale fatto, unito alla carenza di esperienze costruttive, porta il 90% dei detenuti alla recidiva”.

Questo seminario nasce dall’esigenza di mantenere sempre attuale il problema del sovraffollamento. Un problema che viola apertamente l’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che ha costretto l’Italia a pagare ingenti somme alla Corte europea per il limite minimo non rispettato di 3 metri quadrati di spazio vitale che spetta a ogni detenuto. Consideriamo che già la privazione della libertà, la segregazione in una cella, è la pena in se stessa: non è pertanto ammissibile fare scontare tale pena ai limiti della sopravvivenza, con le strutture che mancano delle cose essenziali – commenta Silvano Bartolomei, responsabile dell’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze di Palermo e organizzatore del convegno – Il problema è allarmante: stiamo parlando di quattro o cinque detenuti in tre metri quadrati con il rischio non trascurabile di arrivare ad atti di autolesionismo o al suicidio vero e proprio”.

Un problema scottante quello degli spazi di vivibilità e del sovraffollamento da contrastare con precise misure giuridiche. “Un elemento di criticità è sicuramente il fatto che le carceri sono strutture di sfiducia, già a livello architettonico. Esistono pochi spazi fruibili, con una sorveglianza talmente serrata da limitare le possibilità di libertà all’aperto – denuncia il Prof. Fiandaca, Garante dei diritti dei detenuti della regione Sicilia – Ecco che quando la delimitazione degli spazi vitali si traduce in condizioni di vita irrispettose dei detenuti e del diritto alla salute (mancanza di acqua calda, docce, bagni ubicati negli stessi spazi in cui il detenuto vive) la sensazione di disperazione e annullamento del sé è immediata; peraltro le stesse proposte rieducative, a compensazione talvolta di tali difficoltà, risultano di difficile attuazione per tutti i detenuti, a fronte del loro numero elevato. Parliamo di condizioni di sopravvivenza durissime, che significa essere costretti a vivere, per ciascun detenuto, in non più di 3 metri quadri di spazio, situazione che è valsa all’Italia la condanna per la violazione dei diritti umani e che sempre più si contrasterebbe riducendo il ricorso al carcere almeno per i reati meno gravi. In alcuni casi il carcere non è davvero necessario e ritengo che si debba aumentare il ricorso alle misure alternative, organizzate in attività lavorative in favore della comunità”.

Rispetto per la salute e per la dignità umana, un nervo scoperto nel sistema delle carceri italiane, anche se non l’unico: il destino delle misure rieducative, in direzione della garanzia dei basilari diritti di istruzione e lavoro, sembra infatti non essere differente. “È da rilevare che in carcere non ci sono molte possibilità rieducative, ciò vale per il lavoro, da considerarsi un deterrente rispetto alla delinquenza perché se insegni un mestiere è più difficile diventare manodopera della delinquenza, come spesso avviene per gli immigrati – riprende Bartolomei – Ecco perché ritengo necessario incentivare il volontariato nelle carceri e aumentare il personale, innanzitutto psicologi e psichiatri. In più i detenuti meno pericolosi potrebbero essere stimolati a seguire corsi, ad esempio come cuoco ed elettricista. Eppure il lavoro non basta nell’ottica di garantire quella salute utile al corretto reinserimento sociale: dobbiamo altresì garantire ai detenuti la continuità affettiva. Esemplificando non puoi inviare un detenuto a Brescia se la famiglia vive a Palermo perché esistono esigenze sanitarie ed esigenze lavorative, ma non meno importanti risultano le esigenze familiari per una corretta risocializzazione”.

Parere amaro, crudo, infine quello proveniente dall’esperienza più che trentennale della dottoressa Rita Barbera, direttore dell’istituto di rieducazione Ucciardone di Palermo, il cui intervento illustra la realtà del penitenziario palermitano. “La realtà carceraria porta inevitabilmente alla frustrazione del detenuto. Frustrazione significa non veder considerati l’autonomia e le esigenze basilari. Frustrazione significa dover chiamare per ogni necessità o vedersi negato un colloquio familiare. Ecco perché secondo me il carcere, per come è stato finora, non può essere un luogo di rieducazione, al punto che potrei definire la risocializzazione una menzogna istituzionale. Non ha senso peraltro trattenere in carcere persone per reati minori quali contraffazione o alimenti non versati, fenomeno che aumenta solo il sovraffollamento e la disperazione di chi è recluso. Per tale organizzazione e le inadeguatezze di tipo sanitario e territoriale gli esiti della carcerazione spesso si sostanziano in disturbi a carattere psichiatrico a lungo termine non sempre risolvibili”.

E se, da ciò che emerge, non sembrano totalmente tramontati gli anni della pena afflittiva, di quel carcere che “sanziona e punisce”, la speranza è che l’umanità alberghi pienamente in chi dovrebbe riabilitare chi l’umanità l’ha persa (o non l’ha mai acquisita nel processo di sviluppo). E insieme a questo aspetto quasi scontato va un ulteriore monito, affinché l’occhio saggio della giustizia non abbandoni le vittime, troppo spesso lasciate a se stesse, con il rischio di fomentare una rabbia collettiva e un accanimento punitivo verso il carnefice che, da una parte, non restituiscono alla vittima ciò che a questa è stato tolto con crudeltà e che, dall’altro deumanizzano il soggetto che si intende rieducare, vanificando gli sforzi di una pena non afflittiva e pienamente umanizzante.

Cognitivismo Clinico, editoriale del nuovo numero. Le variabili latenti che incidono sulla psicopatologia e il fanatismo

Questo numero di Cognitivismo clinico si compone di due parti; nella prima presentiamo la traduzione di due articoli già pubblicati su prestigiose riviste internazionali, che ci sono stati proposti per una diffusione maggiore in Italia, ritenendo che possano essere di interesse per i nostri lettori.

Editoriale di Roberto Lorenzini e Antonino Carcione

 

Il possibile ritorno della sintomatologia ansiosa dopo una terapia con esposizione

Nel primo, pubblicato da Craske et al. su Behaviour Research and Therapy e tradotto da Emiliano Toso, viene esposta un’accurata riflessione, con relative applicazioni cliniche, sui limiti dell’esposizione nel trattamento di alcuni disturbi e, in particolare, dei disturbi d’ansia. Le ricerche evidenziano, infatti, una parziale efficacia o, addirittura, una ricaduta sintomatologica con ritorno della paura dopo una terapia comportamentale basata sull’esposizione.

Secondo gli autori, che corredano le loro affermazioni con ampia letteratura e argomentazioni, ciò potrebbe essere attribuito a un deficit nell’apprendimento inibitorio e nella regolazione neurale inibitoria durante l’estinzione che caratterizza gli individui con disturbi d’ansia o elevati tratti d’ansia. Le persone con ansia, quindi, presenterebbero un deficit proprio di quei meccanismi centrali per l’apprendimento di estinzione, e ciò determinerebbe a volte, paradossalmente, anche un incremento della sintomatologia ansiosa.

Gli autori ritengono dunque essenziale, per aumentare l’efficacia dell’intervento, migliorare l’apprendimento inibitorio durante l’esposizione e propongono in questo lavoro, in modo accurato, come intervenire sul paziente ansioso.

 

Le variabili latenti che incidono sulla psicopatologia

Anche il secondo lavoro è una traduzione di un articolo di Nuijten et al. già pubblicato sulla rivista olandese De Psycholoog e tradotto da Giulio Costantini. Si inserisce all’interno del dibattito sullo studio delle variabili latenti per comprendere la psicopatologia.

Ricordiamo che una variabile latente è una variabile che non si può osservare direttamente, come per esempio un disturbo psicologico (Depressione Maggiore, Ansia, Disturbi di Personalità, ecc.), ma che può essere inferita a partire da indicatori osservabili come lo sono i sintomi o i criteri diagnostici del disturbo (ad esempio del DSM). Secondo gli autori, se si adotta un modello a variabili latenti si assume che il complesso intreccio di sintomi che si osserva empiricamente si può poi tradurre in una struttura matematica semplice ed elegante. In particolare, però, gli autori evidenziano il limite delle diagnosi categoriali, soprattutto nel momento in cui si imposta un trattamento avendo proprio come riferimento la diagnosi, come ad esempio la Depressione Maggiore, piuttosto che il quadro specifico che presenta il soggetto, che può essere composto da un insieme di sintomi combinati in modo diverso in persone diverse, e che può – peraltro – essere complicato dalla presenza di diagnosi co-occorrenti.

Per queste ragioni i modelli a variabili latenti, secondo gli autori, non sono sufficienti e incontrano difficoltà anche nel dare una spiegazione all’eterogeneità che si riscontra empiricamente in psicopatologia, proprio perché le diagnosi si basano spesso su sommatorie di sintomi e, di conseguenza, non tutti coloro che hanno la stessa diagnosi hanno gli stessi sintomi. Sulla base di questa idea propongono un modello di lettura dei quadri psicopatologici che si può avvalere anche di procedure tecnologiche innovative, che permette la simulazione di modelli in cui un disturbo si ricostruisce nella forma di un network di sintomi, che si rinforzano vicendevolmente, a circolo vizioso.

Da una prospettiva network, la co-occorrenza può essere spiegata dai cosiddetti sintomi ponte (bridge symptoms), che sono sintomi che caratterizzano due o più disturbi. Ciò avrebbe ricadute cliniche in quanto un’accurata ricostruzione del network, in cui sono stabilite anche le gerarchie di rilevanza, permette di interrompere i circuiti patologici intervenendo o sui nodi cruciali o su altri punti di mantenimento dei circoli viziosi.

 

Il fanatismo e le ricadute nella psicoterapia

La seconda parte di questo numero è costituito da una sezione speciale dedicata ad un argomento quanto mai attuale e di sicuro interesse per la psicologia e con potenziali ricadute per la psicoterapia: il fanatismo.

È il frutto del lavoro di gruppo di un terzo anno della Scuola di Terapia Cognitivo- Comportamentale denominato JAM che ha coinvolto allievi di training delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Roma APC e SPC i cui didatti sono Barbara Barcaccia, Roberto Lorenzini e Stefania Fadda. Al di là di chi ha scritto e firmato i singoli articoli e dell’impegno particolare delle curatrici, Ariano, Barucca e Brindisino, esso nasce da riflessioni comuni, dibattiti partiti dai casi clinici che venivano esaminati e confronti sulle personali esperienze fanatiche. Questi articoli intendono aprire un confronto su un modo di vivere che se da un lato può impoverire l’esistenza stessa, coartandola in uno spazio monotematico e autoreferenziale, dall’altro è alla base delle più grandi imprese del genere umano.

Infatti cosa erano se non fanatici assoluti coloro che hanno raggiunto le vette più elevate nell’arte, nelle scienze e nella spiritualità? Non erano forse fanatici gli eroi che hanno dato la vita per una causa (anche quelli che oggi essendo di parte avversa chiamiamo terroristi kamikaze) e molti santi e martiri? Ma lo erano altrettanto Hitler, Stalin e Jim Jones che si suicidò con tutta la sua setta in Guyana. Ci muoviamo, dunque, in una delicata terra di mezzo tra le forme più sublimi e più abiette dell’esperienza umana, entrambe potenzialmente presenti in ognuno di noi grazie a questa capacità per così dire di “fanaticizzarci” o, potremmo dire con termine più familiare, “innamorarci perdutamente e acriticamente”.

Chissà che proprio l’innamoramento non sia il modello più comune ed evidente del fanatismo. Sarebbe meraviglioso se alcune di queste riflessioni potessero essere utili a spiegarne, almeno in parte, la fenomenologia e la dinamica. Chissà poi se qualcuno vorrà dedicarsi ad elaborare un protocollo di intervento per l’emergenza dell’innamoramento. Purtroppo, sia in quest’ultimo che in generale nel fanatismo, non c’è egodistonia; l’intervento semmai è richiesto dalle persone vicine all’interessato che invece si meraviglia che gli altri non condividano il suo stato.

Il fanatismo originariamente nasce come fenomeno squisitamente religioso, concepito per contenere l’angoscia che travolge l’uomo quando, nel corso del suo stesso processo evolutivo, affiora nella sua psiche la coscienza e, con essa, la coscienza del proprio destino di morte e la partecipazione disperata alla morte e all’agonia dei propri cuccioli e dei propri simili più amati. Nasce dunque per risolvere il problema del senso della vita e l’insensatezza della morte e inizialmente religioso diviene poi politico.

Nel primo articolo di questa sezione speciale, di Barucca e Lorenzini, verranno descritte le origini e gli sviluppi storico-filosofici del concetto di fanatismo, mentre nel secondo, di Ariano e Brindisino, verrà presentato il fenomeno del fanatismo nei culti, delineandone le caratteristiche e le dinamiche individuali e gruppali, nonché alcuni modelli teorici esplicativi.

Oltre al fanatismo religioso e politico, si pensi al fenomeno degli ultras sportivi ed ora anche a due situazioni che si sono affacciate di recente nel DSM 5, la ortoressia (fanatismo per una specifica alimentazione) e la vigoressia (l’ossessione per il fitness a tutti i costi). Il terzo articolo, di Garano, Dettori e Barucca, descrive proprio queste ultime due condizioni, le quali potrebbero essere assimilate a delle nuove forme di fanatismo, celate da tendenze virtuose.

Il fanatismo appare, dunque, come uno spettro che si aggira nel mondo assumendo mutevoli sembianze, con manifestazioni talvolta semplicemente grottesche e ridicole, talaltra allarmanti e pericolose. Sempre, comunque, con implicazioni sociali ed economiche rilevanti. In prima battuta potremmo dire che mentre normalmente sono le idee al servizio dell’uomo e anzi ne sono lo strumento adattivo più sofisticato con la loro capacità di anticipare la realtà e dunque consentire di indirizzarla secondo i propri scopi, nel fanatismo avviene il contrario: è l’uomo ad essere al servizio permanente effettivo, e spesso definitivo, di un’idea, realizzando l’ideale romantico di essere pronti a “morire per un’idea”.

Nel fanatismo l’uomo da fine diventa strumento, mentre il fine reale è l’idea stessa. Quando si parla di fanatismo non si può certamente escludere quello che spesso è meno considerato dal punto di vista psicopatologico, riconducendolo più che altro ad analisi sociologiche (certamente altrettanto importanti) fino a quando non si verificano fenomeni eclatanti – e spesso tragici – che assurgono all’onore delle cronache: il fanatismo nello sport.

Il lavoro di Lorenzini, Ariano e Barucca, considerando la realtà italiana, si focalizza in particolare sul calcio che in Italia è lo sport dove emerge in modo particolare, anche se può, naturalmente, essere presente in tutti gli sport, soprattutto di squadra. L’articolo evidenzia come i comportamenti degli ultras siano particolarmente orientati allo scopo esplicito di riconoscere una propria supremazia sull’altro, dominando gli avversari attraverso segnali chiari e inequivocabili di superiorità che devono essere poi oggettivamente riconosciuti da tutti. Anche qui, quindi, si individuano, poi, elementi comuni alle altre forme di fanatismo. Ragionando, quindi, sul tema trattato in modo più trasversale, si evidenzia come la tendenza a considerare assolute e indiscutibili le proprie credenze la vediamo all’opera nel normale confermazionismo che genera i circoli di mantenimento nei disturbi nevrotici e trova la sua massima espressione lungo lo spettro delirante. Al di là della psicopatologia, questa dimensione è presente costantemente, spesso in modo drammatico nella vita quotidiana e sulle prime pagine dei giornali.

È per questo motivo che, nell’ultimo articolo di questa sezione speciale, Lorenzini, Ariano e Brindisino, forniscono elementi utili ai fini clinici individuando e descrivendo in modo accurato i possibili meccanismi intrapsichici e interpersonali trasversali a tutte le forme di fanatismo trattate, formulando, poi, alcune proposte di prevenzione e intervento da attuare nei casi in cui vi fosse una richiesta di terapia.

Cognitivismo clinico (2016) 13, 2, 99-101

Perché è così difficile ricordare i nomi delle persone?

Ci sono diversi fattori che determinano quali parole vengono ricordate più facilmente, ad esempio la fonemica delle parole o l’associazione a volti o altro di noto, che rendono più accessibile l’informazione alla nostra memoria.

 

Ricordare i nomi delle persone: come funziona la memoria e quali strategie si possono utilizzare

E’ importante ricordare il nome delle persone che incontriamo durante la nostra vita” – ha affermato l’attrice Joan Crawford nella sua biografia, scritta da Charlotte Chandler- “Sono orgogliosa di farlo- aggiunge- Mi ricordo centinaia di nomi, o forse anche più, ma non perché mi viene naturale farlo anzi, tutto il contrario. Semplicemente mi sembra giusto fare lo sforzo”.

Se avete difficoltà a ricordare i nomi delle persone a una festa o una conferenza, ricordate: non siete i soli. La Sg.ra Crawford sapeva che era fondamentale ricordare il nome di qualcuno, perché utile per costruire relazioni anche durature se pur solo professionali. Lei stessa ha affermato che questa è un’abilità unica e difficile da padroneggiare.

Secondo alcuni ricercatori dell’Università della Florida, la capacità di ricordare i nomi delle persone, è notoriamente più difficile rispetto ad altri tipi di parole. Il fatto che i nomi propri siano più difficili da ricordare ci dice molto circa il funzionamento della memoria umana.

Abrams e Davis spiegano che, a differenza di altri tipi di parole, i nomi sono etichette senza senso che non ci rivelano nessuna informazione circa la persona ed è per questo che a volte facciamo fatica a ricordarli. Ad esempio, il nome Charlie Brown contiene un descrittore, che è la parola marrone, anche se non ci dà reali informazioni circa la persona stessa. La ricerca ha anche dimostrato che risulta più difficile ricordare il nome di una persona rispetto alla storia della sua vita. Quindi se per caso dovessimo mai incontrare qualcuno di nome Mr. Baker che lavora come panettiere, sarà più facile per noi ricordare il suo mestiere e non il suo nome.

Ci sono diversi fattori che determinano quali parole vengono ricordate più facilmente, ad esempio la fonemica delle parole o l’associazione a volti o altro di noto, che rendono più accessibile l’informazione alla nostra memoria.

Escludendo i nomi di alcuni personaggi famosi, come Beyoncè, i nomi sono costituiti da almeno due componenti, un nome ed un cognome, a differenza di molti oggetti che vengono descritti utilizzando una sola parola. Secondo Abrams e Davis, i nomi possiedono dei suoni, e più questi suoni sono familiari più è semplice recuperare con successo il ricordo di tali nomi e associarli alla persona giusta.

Una classica dimostrazione di associazione nomi-suoni illusoria è la seguente: “Quanti animali Mosè portò con sè sull’Arca?”. La maggior parte delle persone risponde, erroneamente, “due”. La risposta corretta in realtà è “nessuno”, perché fu Noè che navigò con l’arca, non Mosè. Ma entrambi i nomi si riferiscono a figure bibliche maschili associate, e queste caratteristiche condivise creano concorrenza nel richiamo del nome corretto.

Ma la sovrapposizione semantica non è l’unico distrattore; infatti anche la sovrapposizione visiva può anche ostacolare le nostre capacità.
Nel corso della ricerca, gli sperimentatori hanno chiesto ai partecipanti il nome dell’attrice che recita nel film “Black Swan”. La risposta corretta è Natalie Portman, ma i ricercatori hanno inserito tra le risposte anche il nome di Keira Knightley (attrice con un aspetto molto simile alla Portman), e il nome di Maria Sharapova (giocatrice di tennis professionista).

I risultati dimostrano che nel momento in cui il nome della Portman veniva sovrapposto visivamente a quello della Knightley, i partecipanti avevano maggiori margini di errore. Invece, se prima della domanda ai partecipanti veniva mostrata una loro foto, sia della persona “giusta” che della persona “distrattore”, notavano una notevole diminuzione degli errori.

Sembra, dunque, che le informazioni visive giochino un ruolo importante nelle comprensione e nel ricordo delle parole.
Il più delle volte questi distrattori vengono utilizzati per aiutare i partecipanti ai vari studi a lavorare in modo interattivo, e ciò suggerisce che l’informazione visiva gioca un ruolo davvero importante.

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso: Il modello LIBET – Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

a cura di Alessia Incerti & Giovanni Mansueto

 

Nuovi processi e vecchi contenuti per la concetualizzazione cognitivo-comportamentale del caso: Il modello Libet

(life teme and plans implications of biased beliefs: elicitation and a treatment)

Sandra Sassaroli – Giovanni Maria Ruggiero – Gabriele Caselli

 

Milano, 23 Marzo 2017

In apertura l’intervento di Giovanni Ruggiero presenta una dettagliata e attenta analisi critica dell’evoluzione storica della psicoterapia cognitiva e comportamentale mettendo in evidenza il graduale spostamento di focus dai contenuti, ai processi e alle metacognizioni.

Si parte dalla descrizione del modello cognitivo clinico standard proposto da Beck (1962) il quale sembra rappresentare una frattura strutturalista rispetto al funzionalismo comportamentista favorendo una semplificazione teorica in cui le credenze sono considerate come strutture gerarchicamente organizzate relative all’area del sé: self-belief. Ruggiero sottolinea alcuni aspetti che possono aver favorito il successo del modello di Beck:

  • Una maggiore livello di comprensibilità per la mentalità “strutturalista” del clinico medio;
  • Modello più fruibile dai clinici in quanto consente di individuare semplici self-belief facilmente operazionalizzabili;
  • L’adozione da parte di Beck del sistema diagnostico della psichiatria (DSM), rendendo testabile l’efficacia del modello.

Negli anni ’80 si riscontra una netta affermazione del modello CBT: creazione di protocolli di terapia cognitiva modellati sul lavoro di Beck per il trattamento dei disturbi d’ansia (disturbo di panico, fobia sociale, il disturbo post-traumatico da stress, disturbo ossessivo-compulsivo) e disturbi alimentari. Nel 2004 la CBT standard entra nelle linee guida NICE del sistema sanitario inglese come trattamento di elezione per ansia e depressione. In tale direzione nel 2007 sempre in Inghilterra il programma IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) rafforza ulteriormente il rilievo della CBT.

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 1

Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli

 

Dalla modificazione delle self-beliefs alle disfunzioni di processo

La svolta processualista porta a uno spostamento del focus in cui  il cambiamento terapeutico non è legato alla modificazione diretta delle self-beliefs, come teorizzato da Beck, ma sembra essere per lo più legato all’azione centrata sulle disfunzioni di processo (funzione).

In tale contesto i modelli processualisti possono distinguersi in modelli che agiscono sulle funzioni di pensiero attraverso approccio Bottom-up e Top-down.

Nell’approccio Bottom-up sembra essere accentuata prevalentemente la componente esperienziale. In tale approccio possiamo ritrovare i contributi teorici dell’ Acceptance and Commitement Therapy, Schema Therapy, Metacognitive and Intepersonal Therapy, Sensorimotor Psychotherapy, Eye Movement Desensitization and Reprocessing.

Diversamente nell’approccio top-down appare evidente il ruolo attivo delle rappresentazioni metacognitive. Nella Metacognitive Therapy la funzione metacognitiva è definita come gestione della funzione attentiva: attenzione e metacognizione sono ritenute il “collo di bottiglia” (bottleneck) strategico sul quale agire in terapia. Tale svolta metacognitiva porta a considerare lo stato di malessere legato per lo più all’uso errato di una funzione, l’attenzione.

Tale prospettiva, quindi, orienta il lavoro del clinico verso azioni terapeutiche volte a incrementare il livello di consapevolezza del funzionamento delle funzioni volontarie di controllo cognitivo e di selezione attentiva dell’informazione.

In chiusura Ruggiero invita a riflettere su sui seguenti punti:

  • la svolta processualista potrebbe ostacolare la comunicazione tra i clinici dal momento in cui sembra evidente una propensione a concettualizzare e raccontare il caso in termini narrativi della storia più che in termini di funzioni;
  • riflettere sulla necessità di considerare modelli di concettualizzazione funzionalista del caso, compatibili con la mentalità narrativa dei clinici che contengano sia le basi evolutive delle esperienze dolorose (che hanno reso gli individui emotivamente vulnerabili) sia i  processi mentali in cui i pazienti tendono a ingaggiarsi considerandole, sulla base di credenze metacognitive disfunzionali, funzionali o incontrollabili.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DAL CONVEGNO

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 2

 

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 3

 

Il ruolo della storia evolutiva del paziente

Sandra Sassaroli, nel suo intervento, racconta attraverso la propria storia di clinico e ricercatore i modelli che hanno costruito la storia del cognitivismo clinico e come siamo giunti alla terza generazione.

Nella tradizione cognitivista italiana c’è sempre stata una grande attenzione a come alcune esperienze di vita importanti orientano i comportamenti tardivi, la dottoressa Sassaroli ricorda come il suo incontro con J. Bowlby ha stimolato la sua attenzione allo studio della relazione tra pattern di attaccamento e psicopatologia.

Tuttavia non è sempre il momento di trattare la storia evolutiva del paziente ma non è neanche sempre il momento di trattare i processi di funzionamento del paziente stesso o il contenuto dei suoi processi stessi.

Quale potrebbe essere un modello ideale che spieghi il funzionamento di un paziente ? Quale modello per concettualizzare il caso, per formulare il piano terapeutico, per orientare la supervisione e la formazione personale degli stessi terapeuti?

Il valore euristico dei modelli psicopatologici centrati sui contenuti di pensiero è indispensabile per la condivisione tra specialisti e per creare un linguaggio scientifico comune per capire il paziente stesso. “Ma possiamo riferirci ad un modello più completo?

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DAL CONVEGNO

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 5

 

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 4

 

Il modello Libet

LIBET (life theme and plans implications of biased beliefs: elicitation and a treatment) è l’acronimo del modello concettualizzato dal gruppo di Studi Cognitivi coordinato dalla dottoressa Sassaroli. Il modello Libet è un modello attenzionale, metacognitivo ed evolutivo, spiegano gli autori.

Il modello descrive la sofferenza secondo due coordinate: i temi e i piani.

 

Il tema nel modello Libet

E’ uno stato mentale doloroso emotivamente intenso, evolutivamente appreso nella storia di vita personale, rigido, inflessibile e giudicato intollerabile.

Come ha spiegato Gabriele Caselli dall’analisi del campione di interviste cliniche, fino ad oggi condotte, sono stati individuati tre temi dolorosi distinti.

Il primo tema è detto della “minaccia terrifica”. Deriva da esperienze traumatiche, in un clima in cui il soggetto ha vissuto i genitori come pericolosi ed ha provato spesso un senso di minaccia al senso di sicurezza.

Un altro tema, individuato dagli autori, è denominato del disamore/ inadeguatezza. Deriva da Esperienza di genitori “freddi”, distanti che non ascoltano e emotivamente distanzianti; o dalla relazione con genitori presenti ma che non hanno fornito modelli per affrontare il mondo, perché inadeguati o iperprotettivi.

Infine vi è il tema d’indegnità personale. Esso deriva dall’esperienza di relazione con genitori frustranti e critici: direttamente criticisti o indirettamente attraverso l’obbligo a regole rigide di prestazione.

E’ interessante comprendere, spiega Sandra Sassaroli, come una persona gestisce il proprio tema doloroso.

Attraverso piani semi-funzionali, ovvero strategie che hanno funzionato e che hanno in parte permesso ad un ritorno alla dimensione di sicurezza.

 

I piani nel modello Libet

Vi sono tre piani teorizzati dal modello Libet:

  • Prudenziale “non penso ai temi dolorosi, li evito e non esploro”.
  • Prescrittivo : “monitoro la minaccia, mi sforzo di prevenirla con comportamenti rigidi e di ipercontrollo”.
  • Immunizzante: “ignoro la minaccia e mi sforzo di tenere una stato desiderato , la ricerca di un’ alternativa estrema”.

Ad oggi non abbiamo ipotizzato, spiega Sandra Sassaroli rapporti univoci tra piani e temi, non c’è un tema che è gestito da un unico piano. E’ importante porre attenzione ai processi mediante i quali i piani si rompono, ovvero: come mai ad un certo punto non funzionano?

Gli autori individuano due modalità secondo le quali un piano si può rompere:

  • Per esaurimento: a causa degli alti costi di mantenere il piano attivo (es. “a forza di stare solo, la mia vita perde senso”)
  • Per invalidazione: ad esempio un piano prudenziale può essere invalidato quando la realtà pone delle imposizioni inevitabili che impediscono ritiro o fuga; o ancora il piano prescrittivo può essere invalidato dalla frustrazione del piano ideale imposta dalla realtà;

Mentre il piano immunizzante è invalidato dall’insight: “è la quarta volta che questa settimana ho picchiato mia moglie perché ho sentito la minaccia di essere abbandonato”.

Caselli illustra, gli effetti dell’irrigidimento del piano a cui consegue l’ irrigidirsi di tutto il funzionamento della persona stessa producendo una nuova sofferenza psicologica: “la mia paranoia mi lascia da solo”.

Vi possono essere dei casi in cui il piano semi adattivo funziona: un piano di dipendenza affettiva da una persona che protegge sempre. Può poi esserci una cristallizzazione su un piano, non è detto che questo non abbia svantaggi e costi: “sono protetta, al sicuro ma non esploro”.

Tutti noi abbiamo temi dolorosi e siamo più sensibili a certi stati emotivi e tendiamo a rispondervi con determinate strategie e comportamenti (piani).

Il modello Libet aiuta a comprendere come dalla propria storia evolutiva e dalla sensibilità personale si giunge alla psicopatologia.

L’intervento sul piano mira all’aumento della flessibilità psicologica ed alla costruzione di alternative;  l’intervento sul tema è in linea con l’accettaptance and committment.

L’intervento degli autori si conclude con le direzioni future del gruppo di lavoro Libet.

Il tema doloroso è davvero l’unico libro che ciascuno di noi può scrivere.”

Sandra Sassaroli

 

ACT e trauma: l’uso dell’ACT nei disturbi associati ai traumi e il ruolo centrale della relazione terapeutica – Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

 

Milano, 24 marzo 2017 – ore 9:00

E’ tutto pronto per aprire il collegamento con Russ Harris in diretta dall’Australia. E’ ospite autorevole della prima tavola plenaria dell’ultimo giorno di congresso.

Un congresso che ha visto 450 partecipanti impegnati ad ascoltare le relazioni di 22 esperti.

R. Harris è tra i principali esponenti dell’ Acceptance and Commitment Therapy modello di terapia cognitivo comportamentale di terza ondata, a lui il anche il merito di aver reso semplici i concetti chiave dell’ ACT, permettendone la diffusione in Europa. Tra le  sue numerose pubblicazioni anche testi fruibili anche dai non addetti ai lavori.

Harris dichiara che lo scopo del suo intervento è far riflettere su come, per comprendere i processi coinvolti in questo modello di psicoterapia, sia necessario sperimentare su di sé ciò che viene proposto ai propri clienti. Questo facilita al terapeuta la comprensione della complessità del paziente stesso.

 

ACT: le metafore di Russ Harris

La prima domanda che Harris invita a porci è: “come vediamo noi i nostri pazienti? Sono degli arcobaleni o dei muri sull’autostrada?

Può non essere sempre facile per noi terapeuti riuscire a vedere oltre l’etichetta con la quale il paziente si presenta a noi (“sono un depresso sono sempre stato così”) ma è fondamentale osservare il paziente e guardarlo come una persona da apprezzare e scoprire.

Quando la terapia diviene complessa, è importante prestare attenzione alla trappola “fusione” con il nostro giudizio e non perdere l’atteggiamento compassionevole.

Harris propone una metafora per comprendere gli aspetti della relazione terapeutica nell’ACT.

La metafora delle due montagne:

“Sai che molte persone arrivano in terapia credendo che il terapeuta sia una sorta di essere illuminato, che ha risolto tutti i suoi problemi, e ha messo tutto a posto, ma in realtà non è così. È più come se tu stessi scalando la tua montagna là in fondo e io stessi scalando la mia montagna quaggiù. E da dove sono io, sulla mia montagna, posso vedere cose sulla tua montagna che tu non puoi vedere, come una valanga che sta per cadere, o un sentiero alternativo che puoi imboccare o che non stai utilizzando la tua piccozza in modo efficace. Ma ti prego di non credere che io abbia raggiunto la cima della mia montagna e mi sia seduto e rilassato, a prendermela con calma. Il fatto è che io sto ancora scalando, sto ancora facendo errori e sto ancora imparando da questi. E alla fine, siamo tutti uguali. Siamo tutti scalando la nostra montagna fino al giorno in cui moriremo. Ma il bello è che tu puoi migliorare sempre più nello scalare e imparare sempre più ad apprezzare il viaggio. E questo è il lavoro che faremo qui, si lavora insieme siamo una squadra!”

Harris sottolinea, in questo modo il valore dell’esperienza di condivisione che caratterizza la condizione umana. Tutti, pazienti e terapeuti, possiamo sentirci imprigionati dagli stessi pensieri.

L’ACT è un modello che è a favore della self-disclousure ovvero considera lo svelamento degli stati interni del terapeuta al paziente come una possibilità non una tecnica obbligatoria ma una possibilità per convalidare l’esperienza del paziente: “le cose che succedono nella mia mente di terapeuta succedono anche a te, anche a me che sono il tuo terapeuta può succedere di pensare che non sono bravo a fare le cose. E quando mi svelo in questo modo, il mio paziente mi dice: come ma tu sei un dottore, anche tu hai dei pensieri negativi?”.

Nell’ACT l’accento non è posto pertanto su cosa pensiamo ma su come lo facciamo, con quale sguardo ci rivolgiamo alla nostra esperienza. Vorrei invitare il lettore a seguire questo esercizio proposto da Russ Harris ai partecipanti:

Vorrei tu immaginassi che questo libro rappresenti tutti i tuoi pensieri, sentimenti e ricordi difficili con cui hai lottato per tanto tempo. E mi piacerebbe che tu lo afferrassi forte in modo che io non possa togliertelo. Adesso mi piacerebbe che lo mettessi davanti in modo da non riuscire più a vedermi e che lo avvicinassi così tanto al viso da toccarti quasi il naso. Adesso com’è cercare di avere una conversazione con me, mentre sei completamente dentro nei tuoi pensieri e sentimenti?” (Harris R. 2011).

Questa semplice metafora sintetizza come l’ACT spiega l’emergere della psicopatologia dall’ “evitamento esperenziale”: ossia nelle insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), siano esse positive o negative, anche mediante comportamenti disfunzionali.

Se osserviamo i comportamenti, le azioni che compiamo nella nostra giornata, notiamo che possiamo classificarle secondo due categorie:

  • Towards ovvero mosse che ci dirigono verso i nostri valori, verso ciò che riteniamo importante per noi;
  • Away ovvero comportamenti che portano lontano da quello che vorremmo essere e avere.

Immagino un bersaglio verso cui scaglio le frecce del mio arco, l’evitamento esperenziale non è una buona risposta alla sofferenza, ci porta a lanciare la freccia fuori dal paglione. Lanciare fuori dal bersaglio, evitare, cercare di controllare i pensieri è parimenti faticoso, come prendere un bel respiro e mirare al bersaglio.

ACT e trauma l uso dell ACT nei disturbi associati ai traumi e il ruolo centrale della relazione terapeutica - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 1

Russ Harris paragona la Mindfulness a un coltellino svizzero utile al processo di Accettazione

Sul versante opposto dell’evitamento vi è l’accettazione, guardando le esperienze della nostra vita con occhi benevoli senza giudicarle, senza lo sguardo dell’inquisitore. Ci permetterà di accettare noi stessi con i nostri pensieri e le nostre emozioni e di cogliere il loro valore informativo. Andremo nella direzione dei nostri valori e mireremo al bersaglio!

Ecco alcune domande che Harris ci suggerisce di porre ai nostri pazienti per aiutarli a individuare i propri valori:

  • In quale direzione vuoi andare?
  • Cos’ è importante per te? Quali valori?
  • Quali azioni vuoi fare?
  • Da quale punto vuoi iniziare?
  • Cosa t’ impedisce di andarci ?
  • Quali sono i blocchi?

A noi terapeuti spetta il compito di mostrare al paziente le cose positive che già sta compiendo per dirigersi verso i valori, e di insegnare abilità per sganciarsi dai blocchi.

La Mindfulness è paragonata ad un coltellino svizzero ricco di tanti piccoli strumenti per favorire consapevolezza ed accettazione.

Harris nel suo intervento odierno ci ha fornito riflessioni ed esercizi pratici per relazionarci anche con un paziente maldisposto, con chi è dubbioso circa la terapia e il cambiamento, ci ha indicato come interrompere il dialogo rimuginante, e favorire nei nostri pazienti il  proseguire lungo la rotta delle cose per loro importanti (i valori).

Harris termina il suo intervento, applaudissimo dalla sala, citando Winston Churchill:

 “Il successo è l’abilità di passare di fallimento in fallimento, senza perdere l’entusiasmo”.

Ed io non trovo modo migliore per concludere, volgendo al lettore il medesimo augurio.

 

Costruire città Age-Friendly per favorire l’ invecchiamento attivo

Secondo l’OMS per favorire l’ invecchiamento attivo e l’inclusione sociale delle persone anziane bisognerebbe puntare alla trasformazione delle città in città age-friendly: ciò consentirebbe alle persone di ogni età di partecipare attivamente alla vita della propria comunità e a rimanere attive durante l’ invecchiamento.

 

Invecchiamento attivo: non più spettatori della vita che passa

L’allungamento dell’aspettativa di vita ha determinato un cambiamento nel modo in cui l’anziano viene considerato all’interno della società: non più passivo spettatore della vita che passa ma protagonista attivo.

Per definire questa nuova categoria l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2002) ha coniato il termine: invecchiamento attivo, cioè “il processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza” per migliorare la qualità di vita delle persone che invecchiano. Il termine “attivo” non si riferisce esclusivamente all’importanza di mantenersi fisicamente attivi, ma riflette la rilevanza del coinvolgimento in attività produttive, al mantenimento di un impegno sociale, culturale e civico.

In ambito gerontologico vi è la profonda convinzione che l’ambiente in cui l’anziano vive possa fortemente impattare sulla sua vita (Lawton & Nahemow, 1973). Le ricerche in tal senso si sono focalizzate primariamente sullo studio dei contesti istituzionali e domestici. Recentemente l’interesse si è rivolto anche ai macro contesti, come i quartieri, le comunità, le regioni o le località urbane-rurali.

 

Ambienti e città age-friendly: migliorare la vita delle persone più fragili

Secondo l’OMS per favorire l’ invecchiamento attivo e l’inclusione sociale delle persone anziane bisognerebbe rendere il mondo in cui viviamo più età-solidale e creare città age- friendly. Ciò consentirebbe alle persone di ogni età di partecipare attivamente alla vita della propria comunità, favorendo i rapporti sociali; aiuterebbe le persone a rimanere attive e in salute durante il loro invecchiamento e fornirebbe un sostegno adeguato alle persone che non possono più prendersi cura di sé.

Una città age- friendly, inoltre, non risponde soltanto alle esigenze della popolazione anziana ma di tutte le persone più fragili. Costruire edifici e strade senza barriere architettoniche consente e migliora gli spostamenti e l’indipendenza delle persone disabili, giovani e anziane. Un vicinato sicuro consente ai bambini, alle giovani donne e alle persone anziane di muoversi con sicurezza e di partecipare così alle attività sociali. Per di più, le famiglie delle persone anziane vivono uno stress minore nel momento in cui sanno di poter contare sui servizi sanitari di cui hanno bisogno e sul supporto della propria comunità.

 

Città age-friendly per favorire l’ invecchiamento attivo

Nel 2006 l’OMS lancia l’iniziativa Città Age-friendly (Age-Friendly Cities), per rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia. L’iniziativa, che ha avuto inizio con un’analisi preliminare di varie città del mondo, ha valutato le strutture e i servizi che rendono una città adatta per la popolazione anziana.

All’interno di tale programma sono stati individuati gli elementi chiave dell’ambiente urbano che supportano l’ invecchiamento attivo e in salute. La ricerca, condotta in 33 città usando un approccio partecipativo, ha confermato l’importanza per le persone anziane dell’accessibilità ai trasporti pubblici, agli spazi esterni e agli edifici, nonché la necessità di un alloggio adeguato, il sostegno della comunità e dei servizi sanitari. Ma ha anche evidenziato la necessità di promuovere quei rapporti che permettono alle persone anziane di essere membri attivi della società, per superare i pregiudizi sull’ invecchiamento e per fornire maggiori opportunità di partecipazione civica e di occupazione.

In seguito alla raccolta e all’analisi dei dati, l’OMS ha costituito un network di città age-friendly con un duplice obiettivo: da un lato, permettere lo scambio di informazioni tra le città, accelerando la loro trasformazione in comunità a misura di anziano, e dall’altro, fornire indicazioni per sviluppare politiche su questo tema anche a livello regionale e nazionale.

L’affidamento familiare: l’esperienza dei soci dell’associazione Afap onlus

Al fine di promuovere la cultura dell’ affidamento familiare, tutelando i diritti dei bambini affidati e di chi se ne prende carico, nasce a Palermo l’Associazione Famiglie Affidatarie Palermo (AFAP): attraverso la voce dei soci è possibile acquisire una testimonianza diretta di ciò che significa diventare genitore affidatario.

 

Affidamento familiare: tra legislatura e legami affettivi

L’ affidamento familiare, regolato dalla legge 184/93 e dalla legge 194/2001, è un provvedimento temporaneo che prevede la possibilità, per un bambino proveniente da un ambiente familiare ritenuto non idoneo al suo sano sviluppo, del collocamento presso una famiglia, preferibilmente con figli minori, al fine di soddisfare le esigenze di mantenimento, educazione e crescita emotiva. Caratteristica peculiare di ogni progetto di affidamento familiare è la strutturazione di interventi rivolti alla famiglia di origine per favorire il superamento delle proprie difficoltà e quindi il recupero delle funzioni genitoriali e del rapporto con il figlio, con la famiglia affidataria nel ruolo di “ponte” tra il bambino e la famiglia naturale.

In questo contesto gli affidatari, pur supplendo alle funzioni genitoriali carenti, non possono sostituirsi alla famiglia naturale, benché l’affido dia sempre luogo, sia negli affidatari che negli affidati, a legami affettivi a lungo termine.

Un incontro a termine, almeno da un punto di vista strettamente temporale, un incontro di una famiglia intenzionata a dare amore, e di un bambino bisognoso di cure, eppure non di rado portatore di problematiche personali, come disturbi del comportamento, nonché di un rapporto affettivo preesistente, motivo possibile di conflitto con il nuovo legame che si instaura man mano con gli affidatari. Dinamiche complesse che necessitano di un sostegno psicologico attuato dai Servizi, chiamati in causa nel favorire la gestione delle dinamiche interne alla nuova famiglia e la concreta attuazione di quella funzione “ponte” propria delle famiglie affidatarie.

Dinamiche da manuale che interessano quotidianamente le famiglie affidatarie, imperniano il loro vissuto, segnano il non semplice compito di cementare un rapporto affettivo non scevro da difficoltà, seppur ricco di benefici e gratificazioni affettive.

 

AFAP: la voce delle Famiglie Affidatarie di Palermo

Al fine di promuovere la cultura dell’ affidamento familare, tutelando i diritti dei bambini affidati e di chi se ne prende carico, nasce a Palermo l’Associazione Famiglie Affidatarie Palermo (AFAP): attraverso la voce dei soci e delle loro esperienze dirette è possibile acquisire una testimonianza diretta della concreta attuazione delle dinamiche prima descritte, sottolineando la necessità di interventi di supporto psicologico e di una rete dei servizi coordinata nella presa in carico della situazione del bambino, della sua famiglia di origine e degli affidatari stessi.

E’ necessario distinguere innanzitutto tra affidamento familiare e adozione – sottolinea Valentina Pizzino, avvocato e socia AFAPInfatti nel caso dell’adozione il bambino, la cui famiglia di origine ha perso la potestà genitoriale, viene inserito nello stato di famiglia ed è un figlio a tutti gli effetti, parificato ai figli naturali. Per l’affido non è cosi: l’idea di base è il collegamento con una famiglia di origine in difficoltà, ma che non ha perso la potestà genitoriale. L’ affidamento familiare ha in tal senso lo scopo di creare una famiglia d’appoggio che fornisca una stabilità economico-affettiva. In realtà di recente, per favorire la continuità affettiva si ricorre sempre di più all’ affidamento sine die, allora il bambino permarrà nella famiglia affidataria fino alla maggiore età. Sono del parere che l’ affidamento familiare dovrebbe essere incentivato, anche a fronte di altre soluzioni come l’inseminazione artificiale, perché l’affido è una forma d’amore, nobile e gratuita, è accoglienza del bambino e della sua famiglia in toto.

L affidamento familiare l esperienza dei soci dell associazione Afap onlus - valentina Pizzino

Valentina Pizzino – Avvocato e Socia Afap

Proprio sulla natura gratuita, e non egoistica, dell’ affidamento familiare sembrano sollevarsi le maggiori difficoltà, allorché l’amore si scontra con il tema del possesso.

Le più grandi barriere all’affido sono secondo noi racchiuse nella paura che il figlio venga tolto, un giorno o l’altro. Il possesso è una forte barriera culturale – sostiene Jenny Campanella, consigliera AFAP e mamma affidataria – Altre realtà del Nord Italia hanno nei confronti dell’affido un atteggiamento diverso dal possesso. Voglio ricordare l’associazione Dalla Parte dei Bambini Onlus che si occupa di affidi difficili, ovvero di bambini con patologie conclamate, senza alcuna difficoltà e che possiede una nutrita banca dati di famiglie disposte all’ affidamento.

L affidamento familiare l esperienza dei soci dell associazione Afap onlus - Adriana De Trovato e Jenny Campanella

Adriana De Trovato  e Jenny Campanella – Consigliere e Socie Afap

L’ affidamento familiare come puro atto altruistico, quindi, per il bene del bambino, pur nella miriade di difficoltà quotidiane, innanzitutto determinate dai non sempre facili rapporti con la famiglia di origine e le sue intrinseche carenze educative.

Nella mia esperienza di madre con una figlia in affidamento e una figlia adottata notiamo la differenza, soprattutto nel rapporto con la famiglia naturale – racconta Marinella Governale, consigliera AFAP – Nel caso della mia figlia adottiva sappiamo che nessuno può contestarci, in quanto nostra figlia a tutti gli effetti. Sento emotivamente J. come mia figlia, ma non posso dimenticare che ha una famiglia, ed è difficile gestire una situazione in cui i genitori naturali la fanno sentire in colpa perché si trovano in difficoltà economiche. Per non parlare delle gelosie che scattano nel momento in cui un bambino viene affidato e del disagio provato allorché non possa chiamare Mamma la madre affidataria quando è presente la madre naturale, per non ferirla o farla ingelosire. Nel caso della mia J. abbiamo inoltrato domanda per continuare a tenerla con noi fino a ventuno anni e garantirle una continuità di vita, un rapporto costante con la scuola, gli amici, i suoi spazi, fatto possibile grazie alle linee guida del 2012.

Il carico della famiglia di origine è una costante nell’ affidamento familiare, e assume connotazioni specifiche nel caso di affidamento di minori stranieri.

Il mio affidamento si può definire speciale, perché mio figlio è un minore straniero orfano di entrambi i genitori, ma benché non si ponga la questione del rapporto con la famiglia di origine, la presenza della famiglia è in ogni modo una costante. Posso infatti dire che insieme a lui abbiamo in effetti accolto anche i suoi fratellini e il suo progetto di sostenerli economicamente – conferma Sonia Lo Cascio, socia AFAP.

Difficoltà che rientrano nell’ambito affettivo, a cui si sommano quelle di carattere economico e relative al sostegno dei servizi sociali preposti alla gestione del percorso di affidamento.

Sotto l’aspetto economico, a ciascuna famiglia affidataria spetta un ammontare di 250 euro mensili per i fabbisogni del figlio, di solito erogati a fine anno, e l’onere delle spese sanitarie, da cui attualmente sono esenti le Comunità; dal punto di vista della rete dei servizi di sostegno la situazione non può peraltro definirsi rosea.

Con la legge sulla trasparenza c’è stato uno snellimento degli operatori del centro Affidi per cui la gestione degli affidi passa ai Servizi Sociali territoriali, oberati di lavoro, per cui chiedere un appuntamento è difficile, con incontri sporadici – spiega ancora Governale. E continua – Per ovviare a questa carenza l’AFAP organizza gruppi di sostegno alle famiglie nell’ottica di fornire un servizio psicologico agli affidatari, rispondente alle esigenze concrete della convivenza quotidiana in famiglia.

E se di fronte a queste difficoltà qualcuno potrebbe pensare di mollare, ecco che un beneficio supera ogni difficoltà e attende i genitori affidatari.

Il sorriso di mio figlio mi ripaga di tutto, un suo sorriso a fine giornata basta a cancellare ogni difficoltà, esattamente come accade con un figlio naturale – conclude Adriana De Trovato, consigliera AFAP.

Il ruolo dell’immagine corporea nella disfunzione erettile

Disfunzione erettile e immagine corporea: Molti teorici sostengono che le preoccupazioni riguardo l’ immagine corporea possano minare il raggiungimento del piacere sessuale (Frederickson, Roberts, 1997; Masters, Johnson, 1970). Nonostante il collegamento teorico tra preoccupazioni riguardo il corpo e soddisfazione sessuale, pochi studi hanno studiato questa relazione empiricamente o i particolari meccanismi che ne sono alla base.

Andrea Goldoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Disfunzione erettile: i criteri diagnostici

La Disfunzione Erettile (ED) consiste nell’ incapacità persistente o ricorrente di ottenere o mantenere l’erezione nel corso di un rapporto sessuale. Questo tipo di disagio può essere originato da patologie di vario genere (vascolari, endocrine, neurologiche, ecc.), ma può anche avere cause psicogene, in cui l’alterazione è di tipo psicologico, e quindi a carico dei processi cognitivi ed emozionali che guidano l’erezione.

Una di queste alterazioni può essere legata a una percezione negativa del proprio corpo, che può generare un forte sentimento di vergogna dato dalla tendenza a sentirsi privi di valore e inadeguati, in risposta alla sensazione di fallimento nel soddisfare gli standard culturali ormai imperanti.
Tale sentimento può generare un’eccessiva attenzione ansiosa verso il proprio corpo, che può incidere sui processi di arousal fisiologico, sfociando in un deficit erettile cronico.

L’erezione è un fenomeno complesso che risponde ad una regolazione multifattoriale, ormonale, psichica, endocrina, neurogena e vascolare; tutti questi fattori agiscono in sinergia sul sistema vascolare del tessuto erettile contenuto nei corpi cavernosi. Alterazioni dei fattori psicologici possono quindi provocare una disfunzione erettile. Secondo il DSM 5 per poter diagnosticare la Disfunzione Erettile devono essere soddisfatti i seguenti criteri (American Psychiatric Association, 2013):

A. Almeno uno dei tre seguenti sintomi deve essere sperimentato in quasi tutte o tutte (circa il 75% – 100%) le occasioni di attività sessuale (in contesti situazionali identificati o, se generalizzato, in tutti i contesti):
1. Marcata difficoltà ad ottenere un’erezione durante l’attività sessuale.
2. Marcata difficoltà a mantenere l’erezione fino al completamento dell’attività sessuale.
3. Marcata diminuzione della rigidità dell’erezione.

B. I sintomi del Criterio A sono protratti per un periodo minimo di circa 6 mesi.

C. I sintomi del Criterio A della disfunzione erettile causano disagio clinicamente significativo nei singoli.

D. La disfunzione erettile non è dovuta ad un disturbo mentale non sessuale o alle conseguenze di un grave distress (sofferenza) nelle relazioni o ad altri rilevanti fattori di stress e non è attribuibile agli effetti di una sostanza/farmaco o di un’altra condizione medica.

Specificare se:
Lifelong: Il disturbo della disfunzione erettile è presente da quando l’individuo diventa sessualmente attivo.
Acquisito: Il disturbo inizia dopo un periodo di funzione sessuale relativamente normale.

Specificare se:
Generalizzata. Non si limita a determinati tipi di stimolazione, situazioni o partner.
Situazionale: Si verifica solo con certi tipi di stimolazione, situazioni o partner.

Specificare la gravità attuale della disfunzione erettile:
Lieve: lieve distress nei sintomi del Criterio A.
Moderato: Moderato distress nei sintomi del Criterio A.
Grave: Grave o massimo distress nei sintomi del Criterio A.

 

L’ immagine corporea, l’insoddisfazione per il corpo e i sentimenti di vergogna

Per meglio comprendere la relazione che sussiste tra la vergogna e la Disfunzione Erettile, è indispensabile fare riferimento al costrutto di immagine corporea.
L’ immagine corporea si riferisce alle percezioni, ai sentimenti e ai pensieri di una persona nei confronti del proprio corpo, solitamente generati dalle sue dimensioni e della sua attrattività, e delle emozioni a esso associate (Grogan, 1999; Muth e Cash, 1997). Anche se l’ immagine corporea è generalmente concettualizzata come un costrutto ampio e molto sfaccettato, la maggior parte delle ricerche in quest’area si è concentrata in maniera focale sull’insoddisfazione riguardo il peso, particolarmente verso il desiderio di essere più magri (Grogan, 1999), e anche se i lavori recenti si stanno concentrando in misura maggiore su ragazzi e uomini, la maggior parte delle ricerche sull’ immagine corporea negli ultimi 30 anni sono state condotte su giovani donne. Questo bias nella popolazione in esame è avvenuto in quanto la ricerca sull’ immagine corporea affonda le sue radici nel lavoro psichiatrico e psicologico riguardante i disturbi dell’alimentazione femminili. Ciò ha rinforzato l’idea che la psicologia dell’ immagine corporea sia rilevante solo per le donne, e che il costrutto riguardi esclusivamente la preoccupazione per forma e dimensione corporea. In realtà, l’immagine corporea e le sue conseguenze psicologiche sono rilevanti anche per gli uomini e per i ragazzi.

L’ immagine corporea è implicata in una serie di comportamenti non salutari. Per esempio, essa può influenzare l’impegno nell’esercizio fisico, prevenendo la partecipazione ad attività sportive organizzate come ad esempio l’iscrizione ad una palestra o l’esercizio in un centro sportivo, a causa delle preoccupazioni legate al mostrare il proprio corpo in ambiti sportivi. Tali preoccupazioni sono spesso legate al dubbio di possedere il tipo di corpo accettato da una cultura che promuove costantemente un’ideale di perfezione fisica. Fattori legati all’ immagine corporea possono anche influenzare il corretto modo di alimentarsi o l’autoimposizione di restrizioni legate al cibo.

L’insoddisfazione corporea e l’eccessivo investimento nel corpo sono infatti stati collegati all’intera gamma dei comportamenti alimentari disfunzionali, come le abbuffate, le diete eccessivamente restrittive e il vomito autoindotto (Levine e Piran, 2004). L’insoddisfazione corporea e l’eccessiva importanza attribuita al proprio corpo possono influenzare la decisione di smettere di fumare, laddove sia presente la paura di un aumento ponderale a seguito di ciò. Inoltre, tali percezioni possono condurre a sottoporsi ad una chirurgia cosmetica non necessaria, mettendo così a rischio la salute. Chiaramente l’insoddisfazione corporea e la preoccupazione riguardo il proprio corpo sono collegate con molti comportamenti salutari, perciò rivestono un’importanza vitale per chiunque si occupi di interventi di promozione della salute. I fattori legati all’ immagine corporea devono essere presi in considerazione nel momento in cui si metta a punto qualunque intervento legato all’aspetto fisico, inclusi esercizio, alimentazione bilanciata, controllo del peso e cessazione della dipendenza dal fumo. Capire l’impatto dei fattori alla base dell’ immagine corporea può aiutare ad assicurarsi che variabili come influenze socioculturali, sesso, peso e fattori percettivi siano prese in considerazione nel pianificare programmi ben strutturati.

I modelli socioculturali dei fattori di rischio hanno enfatizzato l’importanza dei media, della famiglia e del gruppo dei pari sulla soddisfazione corporea (Thompson et al., 1999), in particolare concentrandosi sugli effetti che le immagini televisive hanno sull’ immagine corporea. Esse infatti possono causare cambiamenti nel modo in cui il corpo è percepito e valutato, a seconda dell’importanza che questi stimoli rivestono su chi li osserva.

Anche se le preoccupazioni riguardo il proprio corpo sono prevalenti tra le donne, gli studi recenti suggeriscono che gli uomini hanno cominciato a concentrarsi di più sul loro aspetto fisico. Negli ultimi anni infatti, essi sono stati oggetto di pressioni crescenti ad uniformarsi ad un ideale di corpo snello e muscoloso (Frith, Gleeson, 2004). Questi cambiamenti hanno portato alcuni teorici a sostenere che, in maniera simile agli ideali irrealistici riguardanti il corpo femminile, i media hanno creato standard fisici per l’uomo impossibili da ottenere. Infatti, la ricerca suggerisce che gli uomini stanno diventando progressivamente insoddisfatti del loro aspetto fisico.

Anche se gli standard sociali per i corpi maschili e femminili sono diversi (gli uomini desiderano essere snelli e muscolosi, le donne magre), il desiderio di ottenere un corpo ideale può portare sia gli uomini che le donne a sperimentare un aumento della vergogna nei confronti del proprio aspetto fisico. Il concetto di vergogna si riferisce alla tendenza a sentirsi privi di valore o persone cattive in risposta a un fallimento percepito nel vivere specifici ideali culturali (Tangney, Miller, Flicker, Barlow, 1996). Anche se gli attuali ideali femminili e maschili non sono realisticamente ottenibili per la maggior parte delle persone, gli uomini e le donne possono sentirsi costretti a raggiungerli. La loro percezione di fallimento verso questo compito può generare sia sentimenti cronici di vergogna nei confronti dei limiti fisici percepiti, sia ansia e preoccupazione che gli altri possano valutare negativamente il proprio corpo.

Gli studi condotti sul ruolo centrale che l’aspetto fisico può avere nella vita sono stati condotti principalmente su donne. Secondo la teoria dell’oggettivazione (Fredrickson, Roberts, 1997), l’enfasi socioculturale sulla bellezza delle donne presente nella società occidentale porta all’auto-oggettivazione, la self-objectification, ovvero la tendenza a considerare il proprio sé primariamente in termini di aspetto fisico e ad adottare la prospettiva di un osservatore esterno nei confronti di esso. Tale costrutto è stato collegato a numerose conseguenze negative nelle donne, che quando sono indotte ad auto-oggettivarsi in contesti di laboratorio (ad esempio quando si chiede loro di indossare un costume da bagno o quando sono esposte a media che inducono all’auto-oggettivazione), riportano un incremento nei sentimenti di vergogna e nell’ansia.

L’esposizione a immagini mediatiche che mostrano un ideale corporeo ultra-magro aumenta il riportare da parte delle donne sentimenti di vergogna del corpo e self-consciousness. Queste conseguenze negative della self-objectification possono impedire l’eccitazione sessuale.
Data la crescente enfasi socioculturale sull’aspetto fisico dell’uomo, anche essi possono provare la vergogna cronica del corpo che risulta dalla self-objectification. Anche se Fredrickson fallì nel trovare gli effetti di essa negli uomini, studi recenti suggeriscono che l’esposizione a immagini idealizzate del corpo maschile aumenta negli uomini l’insoddisfazione verso il proprio corpo. Inoltre, la self-objectification maschile, così come quella femminile, predispone ad una percentuale maggiore di sintomi come disturbi dell’alimentazione, vergogna del corpo, esercizio fisico compulsivo, così come un’autostima generale più bassa e una scarsa stima del proprio corpo. Perciò, allo stesso modo delle donne, la tendenza degli uomini ad auto-oggettivarsi può avere conseguenze per il benessere psicologico e per una valutazione affettiva del proprio corpo.

 

L’ immagine corporea, la soddisfazione sessuale e la disfunzione erettile

Molti teorici sostengono che le preoccupazioni riguardo l’ immagine corporea possano minare il raggiungimento del piacere sessuale (Frederickson, Roberts, 1997; Masters, Johnson, 1970). Nonostante il collegamento teorico tra preoccupazioni riguardo il corpo e soddisfazione sessuale, pochi studi hanno studiato questa relazione empiricamente o i particolari meccanismi che ne sono alla base. Un lavoro interessante in questo senso è quello svolto da Sanchez e Kiefer, che si propone di esaminare la relazione tra la vergogna per il proprio corpo e le esperienze sessuali soggettive, e se questa relazione sia mediata dalla self-consciousness sessuale. Con il concetto di self-consciousness si fa riferimento a un’attenzione eccessiva rivolta su di sé, causata dalla preoccupazione riguardo ciò che potrebbero pensare gli altri.

Un focus secondario dello studio è stato quello di esplorare le differenze di genere nella relazione tra vergogna del corpo ed esperienze sessuali. Anche se diverse teorie si sono concentrate su come le preoccupazioni per l’ immagine corporea colpiscano le donne, secondo le due ricercatrici la vergogna per il corpo influenza anche le esperienze sessuali degli uomini.

Secondo Sanchez e Kiefer (2007), lo stato affettivo negativo di vergogna del corpo può minare il soddisfacimento sessuale aumentando a livello cognitivo la preoccupazione verso il corpo nei contesti sessuali, aumentando quindi la self-consciousness sessuale. Masters e Johnson (1970) asseriscono che la self-consciousness sessuale, chiamata da loro spectatoring, impedisce le risposte sessuali maschili e femminili, e quindi la soddisfazione. Lo spectatoring, spostando l’attenzione dal piacere sessuale al proprio aspetto fisico, genera problemi di Disfunzione Erettile negli uomini. (Barlow, 1986; Faith, Schare, 1993; Masters, Johnson, 1970). Quando le persone sono distratte dalle preoccupazioni riguardo il loro corpo, possono essere incapaci di rilassarsi e di focalizzarsi sul proprio piacere sessuale, influenzando così la prestazione. Meana e Nunnik (2006) asseriscono che l’essere distratti dal proprio aspetto fisico può avere un effetto maggiore sulla sessualità maschile rispetto a quella femminile, poiché le preoccupazioni riguardo al corpo sono diventate così diffuse nelle donne che esse sono abituate agli stati di self-objectification.

Nel loro studio Sanchez e Kiefer esplorano il collegamento, precedentemente ignorato, tra vergogna del corpo e disturbi sessuali, così come i meccanismi attraverso i quali i due fenomeni potrebbero essere collegati. Poiché l’eccitazione sessuale, la capacità di raggiungere l’orgasmo e il piacere sessuale richiedono attenzione e concentrazione, in questo studio le due ricercatrici si sono concentrate su questi disturbi sessuali e sulla loro connessione con le preoccupazioni riguardo il corpo, negli uomini e nelle donne. Anche se sostengono che la relazione tra preoccupazioni concernenti il corpo ed esperienze sessuali soggettive sia reciproca, esse hanno messo alla prova la direzione di causalità discussa in maniera più consistente nella letteratura scientifica, ovvero che le preoccupazioni verso il corpo conducono a disturbi sessuali. Questa direzione è favorita dal fatto che le preoccupazioni verso il corpo emergono già in adolescenza o addirittura nell’infanzia, prima dell’età media in cui avvengono le prime esperienze sessuali, stimata intorno ai 16 anni (Dickson, Paul, Herbison, Silva, 1998). Poiché le preoccupazioni verso il corpo tendono a precedere le esperienze sessuali, le ricercatrici sostengono che le fonti primarie di vergogna del corpo sono collocate fuori dalla camera da letto.

Il modello strutturale dello studio è costituito dalle seguenti ipotesi:
1) la vergogna per il corpo dovrebbe essere legata a una minore eccitazione sessuale, a minor piacere, a maggiori difficoltà nel raggiungere l’orgasmo, relazioni mediate dalla self-consciousness sessuale;
2) le donne dovrebbero riportare maggiori preoccupazioni riguardo il corpo e disturbi sessuali rispetto agli uomini (come difficoltà ad eccitarsi sessualmente e inabilità a raggiungere l’orgasmo), dal momento che tipicamente le donne riportano maggiori preoccupazioni riguardo il corpo, maggiore insoddisfazione sessuale, minore abilità a raggiungere l’orgasmo e minore raggiungimento dell’eccitazione sessuale rispetto agli uomini;
3) tuttavia, ci si aspetta che le preoccupazioni verso il corpo siano legate a disturbi sessuali e interferiscano con il piacere sessuale sia nelle donne che negli uomini;
4) infine, si ipotizza che il minore raggiungimento dell’eccitazione e la minore abilità di raggiungere l’orgasmo predicano un minore piacere sessuale generale, poiché è stato dimostrato che l’abilità di eccitarsi e di raggiungere l’orgasmo sia una componente importante della soddisfazione sessuale, sia per le donne che per gli uomini.

Lo studio ha fornito supporto alle ipotesi su come le preoccupazioni verso l’ immagine corporea siano correlate alle esperienze sessuali maschili e femminili. La vergogna per il corpo ha predetto in maniera forte una maggiore self-consciousness durante l’intimità fisica. In più, la relazione significativa tra vergogna del corpo e minore possibilità di raggiungere l’eccitazione sessuale è stata mediata dalla self-consciousness sessuale. Inoltre il loro modello si è adattato bene ai dati corrispondenti sia alle donne sia agli uomini, dimostrando che i processi di base (vergogna e self-consciousness) relativi all’eccitazione e al piacere sessuale sono gli stessi per entrambi i generi.

Lo studio ha dimostrato che sia gli uomini che le donne sono soggetti alla vergogna del corpo. Con alcune eccezioni minori, il modello teorico proposto riguardante la relazione tra vergogna del corpo e problemi sessuali si adatta ad entrambi i sessi. Queste scoperte forniscono un supporto preliminare all’idea che gli uomini nel corso degli anni siano diventati più suscettibili nei confronti della vergogna del corpo e dei suoi effetti deleteri. In più, le preoccupazioni riguardo l’aspetto fisico possono avere un effetto maggiore per gli uomini in contesti sessuali piuttosto che non sessuali. Molto probabilmente, i contesti sessuali espongono gli uomini allo stesso tipo di problematiche riguardanti l’aspetto fisico che le donne incontrano in una varietà di contesti non sessuali, come le classi scolastiche e i luoghi di lavoro. Nelle ricerche precedenti, probabilmente gli uomini non sono stati influenzati dalle preoccupazioni per l’ immagine corporea perché sono stati osservati in contesti in cui esse non erano percepite come importanti ai fini della propria autostima.

Tali lavori sono in linea con la ricerca recente, che ha dimostrato le conseguenze negative dell’introiezione di immagini fisiche idealizzate e delle preoccupazioni verso l’aspetto sia per le donne che per gli uomini. Nel momento in cui l’auto-oggettivazione cresce anche per gli uomini, diventa sempre più importante identificare le conseguenze potenziali di queste crescenti preoccupazioni riguardo il corpo.

I risultati dello studio quindi dimostrano che una delle conseguenze dell’aumento della vergogna per il corpo è la ridotta eccitazione sessuale, che negli uomini si traduce in Disfunzione Erettile. Poiché l’eccitazione è fortemente correlata con l’abilità di raggiungere l’orgasmo e con il piacere sessuale, queste scoperte possono spiegare perché le preoccupazioni riguardo l’ immagine corporea precedano l’evitamento delle attività sessuali. Gli uomini e le donne con alti livelli di vergogna del corpo possono evitare le attività sessuali perché trovano il sesso meno piacevole e soddisfacente.
Tali risultati sono importanti al fine di migliorare il benessere generale della persona, poiché esperienze sessuali positive e soddisfacenti sono alla base della salute fisica e mentale.

Essere vittime di bullismo in età infantile aumenta il rischio di sviluppare disturbi cronici in età adulta

Le vittime di bullismo, sottoposte a stress di tipo cronico, risultano essere a rischio di sviluppare diversi disturbi sia psichiatrici sia fisiologici. Essere vittime di bullismo durante l’infanzia comporta effetti a lungo termine, correlati all’esposizione a fattori di stress di tipo cronico, a livello della salute sia fisica sia mentale. In particolare, secondo quanto evidenziato da un recente articolo pubblicato dalla rivista Harvard Review of Psychiatry, vi sarebbe un maggior rischio di sviluppare, nel corso dell’età adulta, malattie cardiache e diabete.

 

Essere vittime di bullismo: gli effetti sulla salute fisica e psicologica

I recenti passi avanti, fatti all’interno della comunità scientifica, inerenti la comprensione degli effetti negativi che l’esposizione cronica a fattori di stress ha sulla salute di ognuno, mostrano come ci sia un sempre più incalzante bisogno di chiarire le implicazioni a lungo termine dell’aver subito atti di bullismo in età infantile. Il bullismo, infatti, viene considerato come una forma di stress di tipo sociale cronico (Olweus, 1994) e, in quanto tale, potrebbe portare, al pari di altri fattori di stress continuativi e cumulativi nel tempo, a significative conseguenze a lungo termine a livello della salute, non solo psicologica, ma anche fisica. Per quanto le prime vengano indagate già da tempo (Kumpulainen, 2008), ancora poco si sa circa le seconde, ovvero circa le ricadute sulla salute fisica, sia immediata sia a lungo termine.

Il bullismo viene definito come una tipologia sistematica di abuso di potere, con la messa in atto in modo ripetuto nel tempo di comportamenti aggressivi che intenzionalmente recano danni ai propri pari (Olweus, 1994). Un tempo liquidato come innocua esperienza infantile, questa modalità comportamentale disfunzionale viene ora riconosciuta come un significativo fattore di rischio per la salute psicologica, soprattutto se messa in atto in modo prolungato nel tempo. Per quanto sussistano ancora delle questioni aperte soprattutto circa la direzione dell’associazione, esso è stato spesso correlato a maggiori rischi di sviluppare disturbi psichiatrici quali, ad esempio, ansia, depressione, ideazione e comportamento suicidario (Lereya et al., 2015).

Inoltre, i bambini che sono stati vittime di bullismo mostrano anche maggiori probabilità di presentare nell’immediato sintomi a livello fisico, a tal punto che la presenza di sintomi ricorrenti e apparentemente inspiegabili vengono spesso considerati dei campanelli d’allarme circa la presenza di possibili fenomeni di bullismo (Gini & Pozzoli, 2009). Secondo Zarate-Garza e collaboratori, autori di un recente articolo sul tema, sarebbe quindi estremamente importante riuscire a comprendere i processi biologici sottostanti la correlazione tra questi fenomeni psicologici e fisiologici, soprattutto riguardo il loro potenziale impatto sulla salute sul lungo periodo.

In linea con questo, studi riguardanti differenti tipologie di esposizione a fattori di stress cronico hanno sollevato la questione circa il fatto che l’ essere vittime di bullismo, “una classica forma di stress cronico sociale”, potesse portare ad effetti persistenti anche per quanto riguarda la salute fisica. Infatti, qualsiasi modalità di stress cronico, sia esso di tipo fisico o mentale, può creare notevole tensione a livello corporeo, portando nel tempo ad un logorio continuo, fino a creare dei veri e propri “danni da usura”.

Questo processo, definito Carico Allostatico (Allostatic Load), risulta quindi essere l’esito delle risposte biologiche a modalità di stress continuative o ripetute (ad es. risposte del tipo fight or flight), il prezzo che il nostro organismo paga per adattarsi alle condizioni mutevoli che affronta e adeguarsi alle situazioni di vita vissute modificando alcuni parametri interni allo scopo di mantenere le funzioni di singoli organi e apparati. Sebbene questi meccanismi siano protettivi nel breve periodo, si parla di “prezzo da pagare” in quanto a lungo termine possono insorgere dei problemi, soprattutto se divengono cronici nel tempo, andando a logorare cellule, tessuti e organi e compromettendone così il funzionamento ottimale, come riflesso dell’impatto cumulativo dello stress sull’organismo stesso. A tal proposito, diversi studi empirici hanno dimostrato come lo stress cronico porti ad alterazioni a livello neuroendocrino, infiammatorio e metabolico (ad es. Naninck et al., 2015).

Quando una persona viene esposta ad alti livelli di stress per brevi periodi, l’organismo nella maggior parte dei casi riesce efficacemente a far fronte alla sfida e a tornare allo stato di benessere iniziale. D’altro canto, con tipologie di stress cronico e prolungato nel tempo, un simile processo di recupero potrebbe non aver modo di essere messo in atto, portando così al suddetto Carico Allostatico per sovraccarico, con conseguente impatto negativo su quei processi fisiologici critici per la salute e il benessere dell’organismo.

A causa dell’aumento del Carico Allostatico, lo stress cronico può portare a cambiamenti a livello ormonale, infiammatorio e anche metabolico. Sul lungo periodo, queste alterazioni fisiologiche possono contribuire allo sviluppo di disturbi quali, ad esempio, depressione, diabete, patologie cardiache e anche al progredire di patologie psichiatriche.

Inoltre, l’esposizione precoce a significativi fattori di stress può influenzare il modo in cui l’organismo si sviluppa e organizza per rispondere ad ulteriori fattori di stress futuri. Questo è possibile in parte grazie ai cosiddetti cambiamenti epigenetici, ovvero alterazioni a livello della funzionalità dei geni in seguito ad esposizione ambientale, che modificano la risposta ad eventi stressanti. In parte, è anche possibile che lo stress cronico alteri direttamente l’abilità del bambino di sviluppare quelle abilità psicologiche legate alla resilienza, andando così a ridurre la sua futura capacità di far fronte allo stress in modo adattivo e costruttivo.

Per quanto attualmente non sia ancora stato dimostrato un legame di tipo causa-effetto tra lo stress cronico, bullismo compreso, e lo sviluppo di patologie sul lungo termine, future indagini, che coniughino l’osservazione clinica con la ricerca scientifica di base, potrebbero assumere un ruolo determinante nella comprensione, anche in ottica di interventi preventivi, della relazione tra queste due variabili.

La review di Zarate-Garza e collaboratori, mettendo in luce le recenti scoperte in merito alla relazione sussistente tra bullismo, infiammazione e disfunzioni metaboliche, esplicita la possibilità che effettivamente il bullismo possa aumentare il rischio di sviluppare una serie di disturbi, che implicano processi quali l’infiammazione e la difesa immunitaria. La ricerca mostra così quanto possa essere importante tenere in considerazione il bullismo e le sue conseguenze già all’interno delle cure cliniche standard per l’infanzia. In tal senso, il bullismo non può più quindi essere solamente considerato come un mero processo sociologico o biologico, ma sarebbe da leggersi come un vero e proprio problema biopsicosociale che richiederebbe ricerche ed interventi integrati. Chiedere ed interessarsi del bullismo e delle sue vittime risulta così essere un concreto passo avanti nell’intervento a favore della prevenzione dell’esposizione traumatica a fattori stressanti potenzialmente cronicizzabili e della riduzione del rischio di sviluppare future comorbilità psichiatriche correlate (ad es. Walker et al., 2014).

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