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Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione – Report dalla seconda giornata

I workshop mattutini, del secondo giorno, presentano argomenti che spaziano all’interno delle  nuove applicazioni cliniche e vanno dalla presentazione del gruppo di Studi Cognitivi , guidato dalla Prof.ssa Sassaroli, sulla presentazione del modello Libet, alla presentazione del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo, Mindfulness Based Cognitive Oriented, tenuto dal Dott. Didonna.

Dal Congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

 

L’analisi del comportamento fa una radiografia alla black box e scandaglia l’inconscio

Tra questa offerta di altissimo livello, abbiamo scelto di seguire il workshop in apparenza più criptico ed ostico, ma dal titolo estremamente interessante: “L’analisi del comportamento fa una radiografia alla black box e scandaglia l’inconscio”. Il workshop è tenuto da giovani ricercatori con la supervisione del Prof.Presti e della Dott.ssa Oppo. Il filo conduttore degli interventi è stata l’esplicazione del modello IRAP.

L’ Implicit Relational Assessment Procedure (IRAP) è un modello che nasce nel 1991 da dei ricercatori (Watt, Keenan, Barnes, & Cairns) che decisero di implementare il paradigma dell’equivalenza dello stimolo (Sidman, 1982) per studiare specifici processi di categorizzazione culturalmente condizionanti, definiti dalla psicologia sociale come Stereotipi.

Il dott. Carnevali, uno dei relatori, prescrive che in una prospettiva di BA (Behavior Analysis), lo scopo dell’IRAP è quello di misurare il grado di sensibilità psicologica (fusione cognitiva) degli individui verbalmente competenti a relazioni verbali apprese e consolidate all’interno della propria comunità di riferimento. L’Irap dovrebbe servire a studiare le risposte derivate o implicite che connotano l’equivalenza di una classe di risposte per un individuo, ossia, le sue regole. La creazione del rapporto tra lo stimolo e il significato racchiude, dunque, le tematiche dell’ IRAP.

Le domande che si pone l’Irap sono molto affascinanti , perché cercano di rispondere a quelli interrogativi a cui la psicologia da sempre si rivolge, ossia, perché scegliamo qualcosa?, quali sono le nostre regole verbali che guidano il nostro comportamento? E’ però interessante osservare come questo approccio cerca di dare le risposte attraverso il laboratorio e l’analisi della costruzione delle cornici relazionali.

Dopo una fase di apprendimento al compito inizia la vera e propria fase sperimentale di raccolta delle risposte derivarte del soggetto. L’IRAP, come molti test che misurano le risposte  implicite, come  lo IAT, l’Estrinsic Affective Simon Test (EAST; De Houwer, 2003), utilizza i ritardi nelle risposte dei partecipanti per suggerire bias; per esempio ai partecipanti potrebbe essere chiesto di affermare relazioni verbali come magro-positivo-vero e grasso-positivo-vero attraverso blocchi di prova alternati.

Le prime relazioni si pensa siano “coerenti” con le relazioni verbali nella più ampia comunità sociale, e le ultime si pensa siano “incoerenti” con quei percorsi relazionali. La risposta più veloce (minori ritardi nella risposta) per il primo caso sarebbero interpretate come bias implicito.

Il termine “implicito”, usato nella ricerca IRAP non è inteso come una descrizione mentalistica; il termine  usato per il tipo di risposta automatica o impulsiva catturata attraverso misure implicite è appunto “breve risposta relazionale immediata”. (BIRRS; Barnes-Homes, Barnes-Holmes, Stewart & Boles, 2010). Il workshop si è concluso con la discussione con i partecipanti che hanno posto diverse domande che spaziavano dai bias percettivi alla difficoltà di trovare gli stimoli giusti atti ad elicitare le risposte implicite.

 

Sessione Plenaria

La Plenaria della mattina è stata condotta da Carmen Luciano, ricercatrice spagnola di matrice contestualista funzionale e post-comportamentista. Il focus dell’ intervento è stato il tentativo di  operazionallizzare il processo della mindfulness. Il suo intervento si è focalizzato sulle funzioni svolte dalle varie componenti della mindfulness.

La Luciano ritiene che la consapevolezza può essere operazionalizzata, in base alla capacità del soggetto, che pratica la mindfulness, di notare e discriminare gli stimoli presenti nel contesto su una cornice relazionale gerarchica. Fare meditazione è una classe di comportamento che contiene vari fattori (diverse reazioni con diverse funzioni). L’aspetto più importante della mindfulness da una prospettiva RFT/ACT , secondo la Luciano, è legata ai processi di defusione e di perspective taking.

Il Perspective taking  viene operazionalizzato in base a cornici relazionali di tipo deittico e ieratico. La prospettiva contestuale funzionale vede nella mindfulness una capacità di discriminazione degli stimoli in base a differenti prospettive.

 

Workshop – Relational Frame Theory nella pratica clinica.

Nel pomeriggio abbiamo partecipato al Workshop RFT nella pratica clinica tenuto da Giovanni Miselli e Matthieu Villatte e giovani clinici che si occupano di applicare i principi della Relational Frame Theory nella pratica clinica. Villatte  ha chiarito da subito che  La clinica della Relational Frame Theory usa direttamente i principi nella RFT nell’ intervento clinico, e quindi non è una applicazione clinica come l’ACT, ma il processo stesso applicato all’uso del linguaggio in psicoterapia. Egli sostiene che:

1) Quando pensi in principi di Relational Frame Theory di base puoi essere più efficace e più pratico nell’ intervento perché si lavora allo stesso livello del modello.

2) Puoi usare il linguaggio in maniera più precisa e funzionale come ad esempio chiedersi che cosa si possa dire al proprio paziente perché si possa evocare una determinata funzione.

 

La ricerca sulla Relational Frame Theory

La Relational Frame Theory è un modello che cerca di spiegare la generatività del linguaggio e della cognizione, è molto complesso e allo stesso tempo molto florido in termini di ricerca. Attualmente ci sono più di 200 studi che ne dimostrano l’efficacia e l’esistenza ed è uno dei processi più studiati con 3 linee di ricerche:

a)   La prima riguarda come si costruiscono le reti simboliche: solitamente questi studi vengono svolti in laboratorio e riguardano l’apprendimento implicito e contestuale. Si occupano in particolare del processo di trasformazione di funzione dello stimolo che è un effetto indiretto e alla base dell’apprendimento di risposte derivate. Con questo metodo è stato ad esempio dimostrata la fobia dei ragni su base indiretta. (Dymond , Schlund , Roche , De Houwer e Freegard 2012).

b)   Il secondo Filone riguarda la formazione di frame gerarchico e frame deittico. Queste linee di ricerca sono studi clinici, ma condotti nei laboratori e riguardano sopratutto lo studio del perspective taking e della metacognizione. Riguardano gli studi, per esempio, condotti da Carmen Luciano, la relatrice della mattina.

c)    Il terzo filone di ricerca è basato , invece,  sugli interventi nel setting clinico: riguardo lo studio dei processi nei vari modelli operativi.

 

Dopo l’intervento introduttivo di Miselli e Villatte, il workshop ha ospitato giovani clinici che applicano la Relational Frame Theory tra cui Nicola Lo Savio che ha fatto una miscellanea di interventi, rendendo visibili i processi della RFT nei vari casi  e il valore delle terapie esperenziale. Per Losapio è essenziale in terapia ridurre gli sproloqui, coinvolgere e far vedere i processi. Di particolare interesse inoltre,  l’intervento di Simone Napolitano che  si è occupato dell’uso della RFT  da parte del terapeuta. Per Napolitano, nel trattamento del paziente difficile l’uso applicato dei principi della Relational Frame Theory è essenziale per discriminare  i processi linguistici che si elicitano nel terapeuta di fronte alle difficoltà del trattamento complesso. Il terapeuta può così essere in grado di rispondere alle sollecitudini del paziente, aiutandolo con l’utilizzo contestuale del linguaggio a fare Traking ed  Aumenting dei valori, incrementando, così  la flessibilità cognitiva.

Il ruolo dell’intelligenza emotiva nella professione medica: l’abilità di comprendere le emozioni cambia nel corso degli anni?

L’ intelligenza emotiva sembra ricoprire un ruolo preponderante nel determinare come un medico si approccerà al suo paziente: un medico emotivamente capace, rende il paziente più fiducioso anche verso il trattamento somministrato.

 

L’ intelligenza emotiva viene definita come quell’abilità di riconoscimento e comprensione delle emozioni sia in se stessi che negli altri e di utilizzo di tale consapevolezza nella gestione e nel miglioramento del proprio comportamento e delle relazioni con gli altri.

Salovey & Mayer (1997) affermano che “l’ intelligenza emotiva coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione, l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri, l’abilità di capire l’emozione e la conoscenza emotiva, l’abilità di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva ed intellettuale”. In tal senso, l’ intelligenza emotiva si compone di una parte di valutazione ed espressione delle emozioni, una parte di regolazione ed una parte di vero e proprio utilizzo delle stesse.

 

L’ intelligenza emotiva nella professione medica

Questo aspetto dell’intelligenza ricopre così un ruolo preponderante nel determinare, ad esempio, come un medico starà al capezzale di un suo paziente.

Di fronte ad un medico emotivamente disponibile e capace, il paziente si sentirà più fiducioso nei suoi confronti, migliorando così in generale la relazione medico-paziente e anche il grado di aderenza al trattamento somministrato. Sembra, inoltre, che l’ intelligenza emotiva sia in grado di influire anche sulle capacità del medico di far fronte allo stress e di mettere in atto abilità inerenti la resilienza, rendendolo così meno propenso ad esperienze negative quali il burnout, o la sindrome da stress (Weng, 2008).

Attualmente, presso il Centro Medico dell’Università di Loyola (Loyola University Medical Center), sono in corso una serie di studi che hanno lo scopo di capire come sfruttare le abilità di intelligenza emotiva dei medici per poter migliorare in parallelo sia il loro livello di benessere personale sia le modalità di cura dei pazienti.

 

L’ intelligenza emotiva nei pediatri

Ad esempio, in un recente studio pubblicato dal Journal of Contemporary Medical Education, Shahid e collaboratori hanno valutato i livelli di intelligenza emotiva di medici pediatri ancora in formazione, ponendo particolare attenzione a come i diversi punteggi variassero con il progredire degli anni di formazione.

Ciò che è emerso è che, al contrario di quanto rilevato da Chan e collaboratori (2014) con un campione di internisti di ortopedia, i medici, anche se ancora in formazione, sembrerebbero presentare in media livelli di intelligenza emotiva maggiori rispetto a quelli della popolazione generale, per quanto la differenza non sia risultata statisticamente significativa. Più nello specifico, i medici hanno totalizzato in media un punteggio di 110 ad un questionario sull’ intelligenza emotiva (il punteggio medio della popolazione generale è di 100), con valori più alti per quanto riguarda le sottoscale riguardanti il controllo degli impulsi, l’empatia e la responsabilità sociale e valori minori nelle sottoscale sull’assertività, la flessibilità e l’indipendenza.

Nonostante siano già presenti in letteratura numerosi studi riguardanti l’ intelligenza emotiva in ambito medico, la ricerca di Shahid e collaboratori, per la prima volta, ha coinvolto un campione composto dai cosiddetti residents, ovvero quei medici specializzandi ancora in formazione che stanno svolgendo attività di tirocinio all’interno di un ospedale sotto la supervisione di un medico di ruolo. Questo tipo di internato in medicina generalmente ha una durata che va tra i tre e i quattro anni (tre per quello in pediatria, quattro per med-peds, un internato che combina sia pediatria sia medicina interna). Il campione di tale ricerca era così composto da 31 pediatri in formazione e 16 internisti med-peds.

Per quanto riguarda la valutazione quantitativa dell’ intelligenza emotiva, ai partecipanti è stato chiesto di completare il Bar-On Emotional Quotient Inventory, un questionario self-report ben validato e composto da 133 item focalizzati sulla misurazione delle diverse abilità inerenti tale tipologia di intelligenza.

Dalle analisi, confrontando i punteggi in base all’anno di formazione, è emerso come gli internisti al terzo e quarto anno ottenessero punteggi maggiori alle sottoscale relative all’assertività rispetto a quanto non totalizzassero gli studenti al primo e secondo anno. Questo, secondo gli autori, potrebbe essere comprensibile alla luce dell’acquisizione di maggiore conoscenza, di maggiori abilità e di un affinamento della conoscenza di sé che caratterizzerebbe il progredire degli anni di formazione.

D’altra parte, in linea anche con studi precedenti (Neumann et al., 2011), gli autori hanno evidenziato come i punteggi degli internisti al primo e secondo anno per quanto riguarda l’empatia fossero significativamente maggiori rispetto a quelli degli studenti degli anni successivi. Ci si potrebbe quindi chiedere se il grado di assertività di ognuno possa aumentare solo a fronte di una diminuzione dei livelli di empatia.

Al contrario del fattore generale dell’ intelligenza (QI), però, l’ intelligenza emotiva può essere insegnata ed appresa, quindi, secondo quanto affermato da Shahid e collaboratori, la messa in atto di interventi volti al miglioramento della stessa dovrebbe focalizzarsi principalmente sulle aree riguardanti l’indipendenza, l’assertività e l’empatia, con lo scopo di aiutare i medici a divenire sì più assertivi, ma senza che questo infici l’empatia.

A tal proposito, recentemente, i pediatri e gli internisti dell’Università di Loyola sono stati coinvolti in un programma educazionale riguardante il miglioramento delle abilità di intelligenza emotiva e l’analisi dei dati, per quanto ancora provvisoria, sembrerebbe mostrare un miglioramento generale nei livelli di intelligenza emotiva posseduta dai partecipanti, anche a livello del benessere personale e della gestione dello stress.

Errori da non ripetere (2016) di D. J. Siegel e M. Hartzell – Recensione del libro

In Errori da non ripetere sin da subito si sottolinea il bisogno di fornire esempi e applicazioni concrete, di fungere da guida pratica, con l’obiettivo ultimo di tutelare l’interazione relazionale nel rispetto delle esperienze emozionali del bambino.

 

L’incontro in questo libro di due professionisti come Daniel J. Siegel, psichiatra infantile e Mary Hartzell, psicologa infantile ed educatrice, fa sì, soprattutto attraverso il loro essere prima di tutto genitori/insegnanti, che il libro Errori da non ripetere contenga tutti gli ingredienti necessari per la comprensione di alcuni meccanismi relazionali tra genitori e figli (ma anche tra educatori e allievi, tra adulto e bambino in genere) la cui conoscenza potrebbe consentire una sana e migliore relazione, di qualsiasi tipo.

Trattasi di una nuova edizione (ndr la prima edizione risale al 2003) e sin da subito si sottolinea il bisogno di fornire esempi e applicazioni concrete, di fungere da guida pratica, per genitori, insegnanti, adulti di riferimento per i bambini, attraverso la narrazione delle loro esperienze personali e professionali, con l’obiettivo ultimo di tutelare l’interazione relazionale nel rispetto delle esperienze emozionali del bambino e della creatività di bambini, insegnanti e genitori.

 

Errori da non ripetere: peculiarità del ruolo genitoriale

In ogni capitolo di Errori da non ripetere si affrontano i principi fondamentali alla costruzione del ruolo genitoriale, dalla comprensione interna e la relazione interpersonale, dal modo in cui ricordiamo e percepiamo la realtà, come ci sentiamo, come comunichiamo, come si sviluppa l’attaccamento e come questo ci influenza in età adulta, come prendiamo le distanze e come invece ci sentiamo coinvolti emotivamente in alcune circostanze, come cerchiamo di comprendere la mente dei nostri figli per entrare in empatia, attraverso la riflessività.

Elementi di questo approccio alla relazione genitori-figlio sono la consapevolezza, continua disponibilità ad apprendere, flessibilità di risposta, capacità di percepire le menti e gioia di vivere…. Troppe cose si potrebbe pensare, certo in apparenza, ma con impegno e dedizione che quasi sempre caratterizzano l’essere genitori è una sfida possibile, la cui vittoria non può che regalare soddisfazioni immense.

In Errori da non ripetere si parte dall’importanza del ricordo delle nostre esperienze, ma soprattutto dai significati ad esse attribuite, in particolare a quelle esperienze non risolte o lasciate in sospeso, che si riattivano nella relazione genitore-figlio, attraverso la forma di risposte emotive, comportamenti e sensazioni fisiche che non lasciano spazio alla lucidità, alla consapevolezza e alla flessibilità di cui sopra, influenzando in modo diretto e spesso imprevedibile  la relazione con i nostri figli nel qui e ora.

Per questioni non risolte si intendono quelle situazioni in cui non si è avuta la possibilità, di comprendere e accogliere quanto emotivamente stesse accadendo, situazioni che possono comportare sentimenti di impotenza, disperazione, perdita, terrore e a volte la sensazione di essere stati traditi.

 

Errori da non ripetere: il racconto delle esperienze

Partendo dal racconto delle loro esperienze, alcuni genitori in situazioni di difficoltà con i loro figli, raccontano il ruolo di queste esperienze vissute in passato da figli e non risolte, e l’impatto che queste hanno adesso.

E’ Mary Hartzell ad iniziare, in Errori da non ripetere, col racconto di un’esperienza personale, partendo da una situazione di fatica, apparentemente banale, come quella di acquistare delle scarpe nuove ai propri figli: quanti genitori potranno ritrovarsi in questo esempio? Quanti hanno memoria di un pomeriggio soleggiato di inizio stagione il cui intento di acquistare un paio di scarpe nuove, si trasforma gradualmente nel risultato di un pomeriggio nero, in cui si ha la sensazione di uscire stravolti da un impresa biblica?

Questo è ciò che avviene, o rischia di avvenire, quando carichiamo il ruolo di genitori del nostro bagaglio emotivo.

Mia madre era troppo indaffarata e preoccupata dall’impresa di farci risalire tutti in auto, noi e le nostre scarpe, per ascoltarmi e anche solo per accorgersi del mio disagio. E fu grazie alla domanda di mio figlio, che portò a galla questo mio disagio, che sono stata in grado di richiamare alla mente l’ansia e i ricordi legate alle mie esperienze infantili, che ancora dopo tanto tempo intervenivano impedendomi di vivere in modo sereno l’acquisto delle scarpe per i miei figli. Erano le esperienze del passato, e non quelle del presente, che influenzavano i miei comportamenti: stavo rispondendo a questioni lasciate in sospeso.

Continua Daniel Siegel, con un esempio in cui l’intolleranza emotiva dei genitori verso l’impotenza (anche qui, quanti ci si possono ritrovare?), possa tradursi in comportamenti diretti contro questa stessa impotenza e vulnerabilità nei propri figli, ovvero situazioni in cui seppur animati dall’amore e dal desiderio di fare bene con i figli, rischiamo di essere pervasi da difese create nel passato che rendono per noi intollerabili alcune esperienze dei nostri bambini. Se ciò dovesse accadere, si sottolinea in Errori da non ripetere, il rischio è di andare incontro ad “ambivalenza parentale”, quando le esperienze dei nostri figli inducono in noi emozioni intollerabili, non riusciamo a riconoscerle e rischiamo di ignorare le emozioni provate dai nostri figli , ai quali trasmettiamo un senso di lontananza e irrealtà, che chiaramente non capiscono.

Dovevo ricordare a me stesso che non ero io la causa dei pianti di mio figlio e che la vulnerabilità e la dipendenza erano normali componenti della vita di un bambino. La comprensione del mio passato mi rendeva libero di accettare i sentimenti di vulnerabilità e il pianto di mio figlio, fino ad imparare a consolarlo e ad essere un padre.

Attraverso l’esempio della piccola Annika, della spiacevole esperienza che vive a scuola, si analizza nel libro Errori da non ripetere l’importanza non solo del modo in cui percepiamo la realtà, ma della sua narrazione, che  assumono un ruolo fondamentale nel processo di integrazione tra ciò che ci accade e il contenuto emozionale ad esso associato, al fine di comprendere il senso di ciò che succede e fornire gli strumenti che permettono di sviluppare capacità di riflessione e comprensione.

Nell’esempio si esplicita come il racconto, la ricostruzione narrativa da parte dell’insegnante di Annika attraverso l’utilizzo delle bambole (in assenza del linguaggio, non condividendo la stessa lingua), si permetta alla bimba, non solo di comprendere l’evento ma anche e soprattutto di prevedere ciò che sarebbe accaduto, consentendo l’aumento delle capacità previsionali che a sua volta aumenta il senso di sicurezza, alleviando infine la sofferenza.

 

La neurobiologia e le emozioni in Errori da non ripetere

Ogni capitolo di Errori da non ripetere contiene spiegazioni di neurobiologia e come queste si manifestano nel nostro funzionamento, per esempio è presente una chiara illustrazione del funzionamento della mente attraverso il cervello, alle sue modalità destra e sinistra di elaborazione delle informazioni: un corretto processo narrativo e di integrazione infatti, è possibile solo se bene si fondono l’esigenza di trovare spiegazioni logiche della modalità sinistra di elaborazione e l’immagazzinamento di informazioni autobiografiche, sociali ed emozionali operato invece dalla modalità destra.

In mancanza di questa integrazione flessibile si impedisce il raccontarsi di una storia coerente e questa impossibilità può essere generata dalla presenza di questioni non risolte, in quanto mancano di complessi contenuti emozionali e autobiografici o in quanto non si riesce a dare un significato, una spiegazione, a questi contenuti.

Una parte importante è dedicata alle nostre emozioni, al loro ruolo nel nostro mondo interno e interpersonale.

Ancora, quante volte per esempio di fronte all’entusiasmo dei nostri figli rispetto ad uno specifico episodio, corredato da comportamenti che riteniamo non corretti, l’istinto primo è quello di correggere questi comportamenti, dando loro una risposta emotiva contraria all’entusiasmo?

Reagendo in questo modo non riconosciamo e non comprendiamo le emozioni dei nostri figli, ciò non vuol dire dovere avvallare i comportamenti scorretti dei nostri figli, ma è importante prima di tutto entrare in sintonia, in risonanza con le esperienze emozionali dei nostri figli prima di cercare di modificarne i comportamenti.

Se posti di fronte a sensazioni di gioia, così come di dolore, i genitori riescono a rispondere e condividere questi stati, per esempio amplificando i primi e accogliendo, confortando i secondi. Si creano così situazioni in cui il bambino si “sente sentito”, ovvero sente di esistere nella mente del genitore, le sue emozioni sono state riconosciute e condivise in uno stato di risonanza.

Per riuscire in questo, secondo gli autori di Errori da non ripetere, i genitori dovrebbero essere consapevoli del proprio stato interno e di comprendere quello dei loro bambini, la consapevolezza genera infatti la possibilità di scegliere, e in questo caso si tratta di scegliere la risposta più adeguata al momento e non lasciarsi guidare in maniera automatica istintiva, ciò che avviene invece quando sono presenti delle questioni non risolte.

La possibilità di prestare attenzione alle nostre esperienze interne quando i comportamenti dei nostri figli ci creano irritazione, disagio, fatica, ci consentirà di imparare a riconoscere come le nostre reazioni interferiscono con la relazione di amore che vorremmo stabilire con loro, motivo per cui ogni capitolo di Errori da non ripetere è corredato da una parte dedicata agli esercizi, indicazioni  pratiche da seguire su come rendersi conto nelle esperienze quotidiane di ciò che avviene.

Una parte invece è dedicata alle ricerche scientifiche recenti, elementi di neurobiologia, studi sulla memoria e sul suo ruolo, così come sulle esperienze traumatiche,  sull’attaccamento, a sostegno ed esempio di quanto viene riportato.

Uno scorrere di contenuti ed esempi continuo, quello in Errori da non ripetere, che a mio parere fanno riflettere, per tutte quelle circostanze, in cui come professionisti, ma anche genitori (e anche figli), ci si trova di fronte a “Non c’è tempo per spiegare, per elaborare, meglio non parlarne…”, e questo libro invece invita a trovarlo questo tempo, soprattutto per riflettere sulle risposte emozionali che diamo ai nostri figli, sui meccanismi relazionali che inneschiamo nell’interazione con essi e come professionista, mi viene da pensare, anche con i nostri pazienti.

Il potere trasformativo dell’emozione (2016) di D. Fosha – Recensione del libro

Il potere trasformativo dell’emozione è un testo unico, che offre una sintesi creativa di Teoria delle emozioni, ricerca madre-bambino e Teoria e ricerca sull’attaccamento, con i principi e le strategie derivati dalle tradizioni psicoanalitica ed esperienziale.

 

L’autrice del libro Il potere trasformativo dell’emozione è Diana Fosha, psicologa e psicoterapeuta fondatrice dell’approccio noto come Psicoterapia Dinamico-Esperenziale Accelerata (AEDP), del quale abbiamo avuto un primo assaggio nel testo di alcuni anni fa presentato in due volumi dal titolo Attraversare le Emozioni.

Con disinvoltura il discorso sembra riprendere proprio laddove si era interrotto, ritrovando nuovi stimoli e arricchendosi di interessanti spunti clinici che ci guidano in una più profonda comprensione del modello affettivo del cambiamento su cui si basa l’AEDP e dei fattori terapeutici in esso implicati.

Scopo del libro Il potere trasformativo dell’emozione è quello di rispondere all’esigenza sempre più impellente di dare un fondamento teorico a tale approccio, che trova la sua origine nella pratica clinica ed in particolare nell’esperienza della Psicoterapia Dinamica Breve di Davanloo.

Accanto a questo, una seconda missione guida l’autrice, ovvero il desiderio di mettere in evidenza con chiarezza quali siano i fenomeni in cui sono radicati i processi trasformativi e di cambiamento di questo processo terapeutico basato sull’emozione.

 

Il potere trasformativo dell’emozione: cos’è l’emozione

Punto di partenza sono dunque proprio le emozioni. Con forza viene innanzitutto ribadito il loro primato come causa potenziale di patologia, come vero agente di cambiamento (rapido ed intenso, contrapposto ad uno più lento e graduale) e come strumento attraverso il quale è possibile l’incontro, la connessione e la costruzione di una nuova esperienza di sé e di sé con l’altro.

L’emozione è concettualizzata, nel testo Il potere trasformativo dell’emozione, come un aspetto innato, adattivo, espressivo e comunicativo, che media l’interazione tra l’individuo e l’ambiente. È chiaro pertanto l’enorme valore che essa acquista nella possibilità di guidare l’individuo nel raggiungimento dei propri scopi e nella regolazione del proprio comportamento nel mondo.

Perché ciò sia possibile, secondo i sostenitori di questo approccio, è però fondamentale che l’individuo abbia accesso al proprio nucleo centrale delle emozioni, ovvero alle proprie emozioni più profonde e autentiche, pena la psicopatologia. Afferma Fosha “per vivere una vita piena nonostante le difficoltà, persino dinnanzi a una tragedia, è necessario saper “sentire” e utilizzare la propria esperienza emozionale”.

L’acquisizione di tale capacità non è tuttavia così scontata.

 

Il ruolo dell’attaccamento nella modulazione degli stati affettivi

Nella comprensione di ciò, ci vengono in aiuto le più recenti teorie che rileggono la relazione di attaccamento primaria come quella dimensione che consente di acquisire gli strumenti necessari per riconoscere e regolare i propri stati affettivi interni. È grazie all’esperienza di una madre sufficientemente buona, capace di rispecchiare ciò che il bambino prova in maniera ancora confusa nei primi mesi di vita, che questi impara a dare un nome a ciò che sta vivendo. Non solo, in questo modo sviluppa anche un senso di sé caratterizzato da continuità e coerenza, che lo renderà progressivamente capace di entrare in contatto con i propri stati affettivi più profondi, di utilizzarli senza restarne soverchiato e progressivamente di autoregolarsi in maniera autonoma.

Di contro, l’indisponibilità del caregiver nelle relazioni di attaccamento insicuro porterà il bambino a sviluppare una serie di strategie difensive necessarie per gestire tutte quelle sensazioni a cui non è riuscito a dare un nome e per questo terrorizzanti e causa di ansia.

Se l’acquisizione della capacità di autoregolazione affettiva è fondamentale nello sviluppo di ciò che Winnicott ha definito il vero Sé, appare chiaro il perché l’AEDP rivolga i propri sforzi proprio all’abbattimento di queste difese. Nel lavoro con un terapeuta AEDP, il bambino, ormai divenuto adulto, ha la possibilità di avviare un processo di guarigione che parta dalla consapevolezza corporea degli stati emotivi bloccati o negati, di riconoscerli, comprenderne il significato e ricostruirli, integrando il nucleo centrale degli affetti.

 

Il potere trasformativo dell’emozione: i correlati fisiologici delle emozioni e la relazione terapeutica

Fondamentale è l’attenzione posta in terapia a tutti i correlati fisiologici e corporei delle emozioni, nel qui ed ora della seduta. È questo un importante intervento di psicoeducazione sulle emozioni che, grazie al fatto di essere messo in atto attraverso la loro dimensione corporea e viscerale, risulta estremamente rapido ed intenso. Perché abbia successo, è però necessario costituire un ambiente sicuro che, come nella relazione madre-bambino, permetta all’individuo di sentirsi libero di esplorare il proprio mondo emotivo interno e, soprattutto, gli consenta di non sentirsi solo nel farlo.

Per raggiungere questo scopo, secondo quanto sostiene Fosha ne Il potere trasformativo dell’emozione, è importante lavorare sulla creazione di una relazione terapeutica orientata ad “una accettazione radicale del paziente” e caratterizzata da empatia e da un forte impegno emotivo da parte del terapeuta nel garantire sintonizzazione, risonanza, condivisione affettiva, affermazione e autorivelazione.

Analogamente alla madre sufficientemente buona, il terapeuta AEDP deve: avere accesso all’intensità dei propri sentimenti ma non esserne travolto, essere in grado di badare alla propria esperienza mentre si concentra su quella del paziente, essere capace di passare fluidamente da uno all’altro. Oltre a ciò, può fungere da modello relativamente a come gestire i sentimenti.

È questo un notevole cambiamento rispetto all’impostazione psicodinamica classica, che vede il terapeuta AEDP rivendicare con forza un ruolo sempre più attivo all’interno del processo di cura.

Al contempo, anche il paziente viene sollecitato a dare il proprio contributo personale alla relazione terapeutica attraverso un continuo esercizio della propria capacità riflessiva, che è chiamato ad esercitare nel qui ed ora della seduta rispetto alle esperienze emotive che nascono nell’interazione con il terapeuta, ma dalle quali allo stesso tempo si sviluppa.

Per riassumere, due sono i temi centrali nell’AEDP illustrati ne Il potere trasformativo dell’Emozione: il potenziale per la trasformazione posseduto dalla relazione con il terapeuta e l’enfasi posta sulle risorse e le capacità del paziente.

In un’alternanza equilibrata di interventi esperenziali e riflessivi, il cui scopo è quello di promuovere nuove esperienze generatrici di sicurezza, viene dunque a stabilirsi la forza di un approccio dall’enorme potere trasformativo. Il risultato è un ricco mosaico costruito ad arte di idee e principi terapeutici che siamo certi stimoleranno e premieranno i clinici di ogni orientamento.

Terapia Multisistemica in Acqua (TMA): gestire le emozioni e modificare gli schemi cognitivo-comportamentali dei bambini con autismo

E’ la Terapia Multisistemica in Acqua, la cosiddetta “TMA”, che oramai da tempo viene praticata con i bambini affetti da disturbi dello spettro autistico. Si avvale di tecniche cognitive, comportamentali, relazionali e senso-motorie e produce risultati davvero ammirevoli.

Aufiero Daiana – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Nata anni fa, nel 1990, nel cuore e nella mente di alcuni giovani psicoterapeuti (P. Maietta, G. Caputo e G. Ippolito) che, ancora studenti, si trovarono a fare gli istruttori di nuoto per persone diversamente abili. Notarono per la prima volta i cambiamenti comportamentali messi in atto da bambini con diagnosi di disturbi generalizzati dello sviluppo e autismo.

Gli stessi bambini che incontrati negli spogliatoi o all’interno della struttura, nei corridoi o nelle stanze, li ignoravano completamente, in acqua assumevano atteggiamenti meno oppositivi e meno evitanti: già dai primi incontri cominciavano a relazionarsi, sia pure con modalità anomale. Da qui cominciarono a raccogliere i primi dati per creare le basi teoriche e le tecniche pratiche di quella che è diventata la Terapia Multisistemica in Acqua, una vera e propria terapia praticata in molte piscine d’Italia.

 

Terapia Multisistemica in Acqua: perché multisistemica? E perché in acqua?

La Terapia Multisistemica in Acqua è multisistemica perché valuta e interviene sui diversi sistemi funzionali del bambino, ossia sul sistema relazionale, cognitivo, comportamentale, emotivo, senso-motorio e motivazionale. Il sistema relazionale è quello attivato prioritariamente dalla terapia in acqua. I miglioramenti degli altri sistemi sono una conseguenza degli interventi che si fanno su questo.

Il terapeuta valuta le modalità di approccio e di interazione del bambino osservando posture corporee, evitamento oculare, interazione con l’ambiente e con gli altri; interviene offrendo un’opportunità di cambiamento del sistema relazionale attraverso tecniche mediate dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby e derivanti da modelli teorici di riferimento come la teoria dell’aggrappamento primario di Balint (1991). Secondo tale modello teorico, il bambino avrebbe una tendenza innata ad entrare in contatto con l’altro e ad attaccarsi ad un essere umano. Per l’autore si tratterebbe di un bisogno indipendente dal cibo ed essenziale quanto il cibo.

Per i bambini che presentano un disturbo autistico, sembra che questa tendenza ad aggrapparsi sia poco presente, o meglio, poco attivata: sono soliti stare da soli evitando il contatto con l’altro. Con la terapia multisistemica in acqua, attivandosi la paura per la sopravvivenza, il bambino mostra un innato bisogno di aggrapparsi al terapeuta, bisogno chiaramente non manifestato fuori da questo ambiente.

Ecco perché la terapia si svolge in acqua, in quanto questa risulta essere un forte attivatore emozionale che diventa anche attivatore relazionale (le emozioni vanno dalla felicità, eccitazione o gioia, alla paura, frustrazione e rabbia ed il terapeuta, riconoscendole, aiuta il bambino a contenerle ed esprimerle in modo congruo).

 

La Terapia Multisistemica in Acqua e la teoria dell’attaccamento

Se da un lato, l’aggrappamento primario spiega il comportamento del bambino, che istintivamente si aggrappa al terapeuta, dall’altro, poco ci dice sulla relazione che successivamente si creerà tra terapeuta e bambino. La teoria centrale che permette di spiegare e interpretare tale comportamento è la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969-1973), secondo la quale l’attaccamento sarebbe un sistema motivazionale primario. Nella Terapia Multisistemica in Acqua il bambino ha la possibilità di sperimentare un attaccamento sicuro con il terapeuta e di immagazzinare un modello operativo interno di una persona sensibile ed affidabile, capace di contenerlo; questo lo condizionerà in tutte le altre relazioni.

Obiettivo fondamentale della Terapia Multisistemica in Acqua è quello di stabilire con il bambino una relazione significativa che modifichi le modalità comunicative disfunzionali. L’ingresso del terapeuta nel sistema relazionale del bambino crea fin da subito una rottura delle modalità relazionali pregresse e degli schemi sottostanti, incrementando in modo congruo interscambi più funzionali. Il terapeuta diventa per il bambino una figura di riferimento e successivamente una base sicura, dalla quale partire per poi esplorare il mondo, ampliando le proprie conoscenze e alla quale ritornare nei momenti avvertiti come difficili e/o pericolosi.

 

La Terapia Multisistemica in Acqua: come interviene sulle capacità cognitive?

Le capacità di adattamento all’ambiente stimolate dall’intervento presumono l’attivazione di capacità cognitive. Il bambino in piscina evidenzia aumentate capacità mnemoniche e attentive, mostrando interesse e propensione verso alcune attività e oggetti, prestando attenzione alle richieste dell’operatore, riuscendo ad eseguire i compiti anche attraverso richieste verbali. Inoltre, in acqua è possibile e necessario ai fini terapeutici, produrre situazioni imprevedibili e non già vissute per promuovere le capacità di problem solving.

La Terapia Multisistemica in Acqua interviene positivamente anche sul sistema comportamentale, in quanto attiva una serie di condotte che, con l’intervento del terapeuta, diventeranno man mano adeguate al contesto, permettendo l’estinzione o l’attenuazione di eventuali “comportamenti problema”. Il sistema senso-motorio viene attivato dall’acqua e dagli stimoli che il terapeuta può offrire al soggetto: imparare a muoversi nel nuovo ambiente in relazione continua con il terapeuta facilita le capacità di coordinazione; I giochi motori-relazionali e la temperatura dell’acqua creano, inoltre, delle sollecitazioni che in nessun altro ambiente possono essere offerte. Secondo Piaget le attività cognitive risultano dall’interiorizzazione degli schemi senso-motori: in acqua è possibile operare su quella che Piaget definiva “l’intelligenza senso-motoria”, caratterizzata dall’azione diretta che il bambino compie sugli oggetti, i quali vengono manipolati e conosciuti come realtà limitata nel tempo e nello spazio.

Particolarmente interessante, in tutto ciò, è notare come l’attività del bambino autistico in acqua possa cambiare le dinamiche interne familiari: i genitori cominciano a osservare in piscina un figlio “diverso” da come sono abituati a vedere in tutti gli altri contesti (il ragazzo aggressivo, poco capace di instaurare relazioni significative, poco attento e oppositivo); un po’ alla volta, riacquistano fiducia nelle potenzialità del figlio e ciò porta ad un loro maggiore equilibrio relazionale con il bambino.

 

Applicazione della Terapia Multisistemica in Acqua

Ma vediamo meglio come si applica la Terapia Multisistemica in Acqua. La terapia segue una metodologia specifica che presuppone: l’utilizzo di una piscina aperta al pubblico che costituisce il setting privilegiato in quanto ha il vantaggio di una possibilità costante di piena integrazione sociale del bambino con disturbi di questo tipo; il rapporto individualizzato tra terapista e utente, almeno nelle prime fasi della terapia; la suddivisione della terapia in fasi;  i colloqui anamnestici diagnostici e valutativi con le famiglie; la valutazione funzionale del bambino in acqua; la progettazione individualizzata dell’intervento con obiettivi a medio e lungo termine; la supervisione in acqua e in setting tradizionale; la verifica dei risultati attraverso checklist e scale di valutazione; le figure professionali specializzate.

Le fasi della terapia permettono di immaginare la Terapia Multisistemica in Acqua come un “macroprocesso” suddivisibile in “microprocessi”; queste sono:

  • Fase valutativa
  • Fase emotivo-relazionale
  • Fase senso-natatoria
  • Fase dell’integrazione sociale

Ogni fase ha finalità specifiche, senza aver raggiunto le quali non è possibile passare alla fase successiva. Le fasi si susseguono e si sommano nel senso che: gli obiettivi raggiunti nella fase precedente si sommano con gli obiettivi della fase successiva.

La Terapia Multisistemica in Acqua, pur nascendo come terapia per il disturbo autistico, può essere generalizzata ad altri tipi di disturbi: disturbo iperansioso dell’infanzia, ritardo mentale, disturbo da attenzione e iperattività, disturbo reattivo dell’attaccamento, fobie, disturbo della condotta, disturbo oppositivo-provocatorio, schizofrenia ed altri disturbi psicotici, sindrome di Down, disturbi motori ed altri ancora.

E’ necessario sottolineare che la Terapia Multisistemica in Acqua non deve essere utilizzata da sola, ma deve essere affiancata ad altri interventi terapeutici e se necessario da cure farmacologiche. Non presenta nessuna controindicazione, soprattutto se si condividono gli obiettivi con altre figure professionali per il raggiungimento del benessere del soggetto beneficiario. La riuscita dell’intervento terapeutico pare sia maggiore quanto minore risulta essere l’età del paziente che intraprende la terapia e quanto più precoce sia l’inizio delle attività specifiche.

Mindfulness, Acceptance, Compassion: il primo giorno del congresso di Milano

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

I lavori si aprono molto presto la mattina del 22 e la proposta dei workshop precongressuali è ricca di eventi . I workshop della mattina sono condotti dal Prof. Gianbattista Presti sul modello di base dell’ACT come trappola del Linguaggio; dal dott. Giovanni Miselli e da un ospite internazionale Shinji Tani, della Ritsumeikan University di Kyoto sui valori; da Nicola Petrocchi sulla Compassion Focused Therapy e da Matthieu Villatte e Jennifer Villatte sull’approccio contestuale. L’impronta è dunque chiara ed incentrata sui cambiamenti della psicologia cognitiva comportamentale ed il livello di approfondimento del workshop ben definito nell’ introduzione di questi.

 

Workshop ACT avanzato: dare valore alle persone attraverso i processi del sé

Shinji Tani Professore presso la Ritsumeikan University KyotoIn mattinata abbiamo partecipato al workshop del Dott. Miselli e del Prof. Shinji Tani. E’ stato un evento molto particolare, dove il Prof. Tani ha cercato di alternare esercizi esperienziali a finestre teoriche della RFT (Relational Frame Theory) atte a descrivere e a maneggiare le proposte esperenziali su una base processuale e funzionale.

Il dott. Miselli ha poi incentrato il suo intervento sul suo “cavallo di battaglia”:  l’augmenting dei valori e il rapporto tra il Sè come contesto ed il Perspective Taking. Il relatore ha focalizzato l’attenzione sulle fonti di informazione come variabile preminente nella discriminazione ed organizzazione degli stimoli presenti nel contesto.

Questo passaggio didattico è stato supportato ed arricchito da esempi e dalla proposta di esercizi sul perspective taking. Il riferimento sociale è stato presentato come un apprendimento discriminativo di stimoli ed Il Perspective Taking come processo e risorsa preminente, del terapeuta ACT, per la promozione  della flessibilità cognitiva e della defusione  nel paziente.

 

Functional Analytic Psychoherapy (FAP): il comportamentismo al “servizio” della relazione terapeutica

La proposta pomeridiana è stata ancora più ricca di eventi, i partecipanti potevano scegliere tra ben 8 workshop differenti che andavano dal trattamento degli adolescenti attraverso il modello DNA-V (Hayes, Ciarrochi), al trattamento di coppia attraverso il modello ACT (vedi anche: Parent Training e ACT: genitorialità come valore in situazioni difficili NdR).

Tra le varie proposte, siamo andati a seguire il workshop FAP: il comportamentismo al “servizio“ della relazione terapeutica condotta dalla Dott.ssa K. Manduchi ed il Dott. Allegri.

La Functional Analytic Psichotherpy (FAP) vede ufficialmente la luce nel 1991, con l’uscita dell’omonimo manuale scritto da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai, entrando così a far parte delle terapie del comportamento di terza generazione (Hayes et al. 2004).

La dott.ssa Manduchi attraverso numerosi esempi clinici ha accompagnato l’uditorio a far conoscenza della FAP , portando alla luce  gli strumenti per  riconoscere e usare il rinforzo nella terapia. L’obiettivo della FAP è dunque, secondo i relatori del workshop, riconoscere i comportamenti clinicamente rilevanti (CRB) in termini funzionali.

E’ determinante, per il terapeuta FAP, dirigere l’azione rinforzante distinguendo i CRB1 (i comportamenti problematici del paziente) dai CRB2 (quelli che per lui sono funzionali). Nella relazione terapeutica è importante la “consapevolezza”che deve essere una capacità al servizio del rinforzo. Il rinforzo deve basarsi sul contesto relazionale che il terapeuta  via via osserva  e deve essere  contestuale e non casuale.

Al fine di lavorare a pieno con la relazione contestuale è importante individuare i CRB 1 e CRB 2 nel paziente ed i T1 ed i T2 nel terapeuta.

I T1 sono i comportamenti che il terapeuta mette in atto nei confronti del paziente e che possono essere di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

I T2 sono, invece,  una lista di comportamenti che il terapeuta può rinforzare e che facilitino il paziente nell’apprendimento dei propri comportamenti obiettivo. L’ individuazione dei CRB e dei T devono prevedere un’attenta analisi funzionale.

La sensazione che si ha nel sentire questi relatori è che la FAP sia un invito a prestare, in maniera funzionale e consapevole, la maggior attenzione possibile al paziente, momento per momento.

 

La sessione plenaria

L’intensa giornata di lavori si conclude con la plenaria tenuta dal Prof. Moderato, il Dott. Massimo Ronchei, attuale Presidente di ACT Italia, ed il Prof. Nanni Presti attuale presidente  dell’ ACBS (Association for Contextual Behavioral Science). I tre hanno ripercorso la storia del pensiero inter-comportamentista e contestualista in Italia e all’Estero e sono stati il prodromo al collegamento via streaming con il padre fondatore della RFT/ACT, Steve Hayes.

L’intervento di Hayes si è focalizzato sulla crescita dell’ ACT, ma anche sui cambiamenti della nostra società e su come un approccio contestuale e funzionale, possa essere un arricchimento per l’efficacia delle terapie ed il progresso della società. Il progresso prodotto dall’ACT è secondo Hayes dovuto al focus che la prospettiva contestualista ha sul processo, piuttosto che sul sintomo o sulla diagnosi.

Hayes sostiene di essere arrivato al suo modello perché si è posto il problema sul perché è così complesso essere un essere umano. La risposta che si è dato è legata alla peculiarità dell’utilizzo del comportamento verbale da parte degli esseri umani. Il rapporto tra comportamento verbale, comportamento governato da regole e comportamento legato alle contingenze o alla fisiologia della specie è al centro dell’analisi del prof. Hayes.

La sofferenza umana non solo viene spiegata come una generalizzazione di un comportamento appreso di evitamento, ma viene sostanziata l’avvincente teoria dello spostamento della cooperazione al servizio del problem solving. Per Hayes la capacità di denominare gli oggetti del mondo, di per Sè, non svolge alcun ruolo, ma è al servizio del principio di cooperazione che si attua a partire dalla capacità, del naming(denominazione), di mettere in relazione l’oggetto denominato con gli stimoli e le funzioni presenti nel contesto di emissione, dove, partecipano parlante e ascoltatore. A partire da questi assunti, i processi sono più importanti degli stimoli ed il contesto della somma di questi.

La forza dell’RFT/ACT  è dunque la capacità di questa terapia di promuovere la flessibilità psicologica attraverso tre processi:  apertura, perspective taking (contestualizzazione del Sè) e azioni impegnate.

L’ACT funziona perché permette al paziente di ricontestualizzare funzionalmente gli stimoli verbali presenti in un campo percettivo, promuovendo processi di defusione cognitiva, attraverso il perspective taking, la defusione cognitiva e le azioni impegnate. Tale funzione è importante quando l’essere umano promuove l’evitamento degli stimoli verbali che gli inducono sofferenza, depauperando la sua esistenza nei contesti verbali e percettivi, ove questi si presentano. L’evitamento esperenziale stabilizza così la rigidità cognitiva e la sofferenza del paziente, bloccandone, coseguentemente, la crescita personale.

In conclusione Hayes ha presentato i successi scientifici dell’ ACT nei diversi ambiti che vanno dal trattamento delle psicosi alla psicologia dello sport. La mediazione in tutti gli studi sembra essere legata all’ aumento, da parte dei pazienti che si sottopongono all’ACT, della flessibilità cognitiva.

Parent Training e ACT: genitorialità come valore in situazioni difficili – Report dal Congresso

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

 

MILANO, 22 marzo 2017 ore 17:30

Tra qualche istante la partenza ufficiale del congresso,  inaugurazione che avviene in collegamento con un ospite internazionale di eccezione Steven Hayes.  Ha sviluppato la Relational Frame Theory , ed esteso i suoi principi all’Acceptance and Commitment Therapy. Introducono i lavori il professor P. Moderato (presidente IESCUM) Massimo Ronchei, presidente ACT Italia, e Giovanbattista Presti, incoming president ACBS.

L’inaugurazione del congresso avviene al termine di una giornata di workshop pre-congressuali: 12 opportunità di spunti teorici clinici ma soprattutto di pratica esperenziale. Vi racconto qualcosa di ciò che ho ascoltato e apprezzato durante il workshop del pomeriggio:

 

Parent Training e ACT:  genitorialità come valore in situazioni difficili

a cura di Pergolizzi Francesca & Miselli Giovanni

Nel titolo ci sono tutti gli ingredienti base dello stesso simposio: genitori-valore-ACT. I relatori sono esperti clinici nell’area dei disturbi dello spettro autistico e della disabilita in età evolutiva. Con delicatezza per la tematica i relatori ci conducono in un viaggio presente tra passato e verso il futuro nel mondo dei bambini con disabilità e dei loro genitori.

La ricerca e la clinica ci mostrano quanto per un genitore di un bambino con disabilità, e in questa sede si è posto l’accento sui disturbi dello spettro autistico, sia complesso gestire le emozioni, i pensieri e le sensazioni fisiche che ne derivano. I bambini con disturbi dello spettro autistico hanno difficoltà di comunicazione sociale; ristrettezza di interessi, comportamenti e movimenti ripetitivi che rendono anche la relazione genitore e figlio complessa e spesso dolorosa.

Essere in relazione con questi bambini implica il dare il meglio di sé , spiega il Dr. Miselli:

“essere il meglio di se è bello e gratificante, esserlo per 4 ore al giorno è faticoso…. esserlo e dover esserlo 24 ore al giorno è durissimo… e come ci sentiremo… ad un certo punto potremo sentirci tristi e frustrati poiché non è umanamente possibile essere al meglio di sé stessi 24 ore su 24!”

Vi sono dati di letteratura che indicano come genitori di bambini con lo spettro siano ad alto rischio di patologia ( S.Tani, 2014; Osborne, 2008). Il nostro compito di clinici è arricchire la funzione e il ruolo del genitore, il vero esperto del proprio bambino.

Il nostro compito di clinici, prosegue la professoressa Pergolizzi, è prenderci cura di queste difficoltà dei bambini e costruire contesti in cui sia possibile la crescita e l’apprendimento.

Quale potrebbe essere un modello ideale di Parent Training che tenga conto dello stress emotivo dei genitori tanto quanto dei comportamenti problematici dei loro bambini? Secondo Pergolizzi e Miselli è importante allargare il focus del Parent Training cognitivo-comportamentale tradizionale dedicandosi anche all’accoglienza dei bisogni psicologici e dei valori dei genitori.

Nello specifico un percorso di Parent Training dovrebbe includere i seguenti elementi chiave:

  • analisi dei tentativi per risolvere il problema;
  • verifica della disponibilità alla collaborazione;
  • descrizione e attuazione delle tecniche di osservazione per conoscere il bambino non solo nelle sue dimensioni problematiche ma anche notando gli aspetti di risorsa.
  • analisi funzionale per l’ individuazione degli stimoli rinforzanti e avversivi;
  • condivisione di un programma di intervento;
  • concettualizzare gli stili genitoriali disfunzionali in termini di processi ACT;
  • esercitare alla flessibilità psicologica in piccolo gruppo;
  • esercizi di Mindfulness in piccolo gruppo;

Un Parent Training integrato con i principi dell’ACT persegue lo scopo di aumentare nei genitori e nelle famiglie l’accettazione delle esperienze personali correlate alla disabilità del figlio e di proseguire il lavoro circa i comportamenti problematici in un contesto di accoglienza e accettazione dell’altro come persona. Questo modello può favorire la compliance del genitore nel seguire le indicazioni educative fornite.

I primi dati delle esperienze cliniche dei relatori presentano miglioramenti significativi , a tre mesi, misurate con self report rilevanti sintomatologia depressiva e flessibilità psicologica. Le interazione genitori e figli è come una danza che ha continuamente necessità di mantenere sintonia e sincronia, anche nel mondo dello sviluppo tipico e nel mondo dello sviluppo atipico. Come indica Pergolizzi:

“essere consapevoli comporta tenere presente ciò che è davvero importante e ha valore mentre compiamo le attività quotidiane della vita dei figli”.

Qual è la tua prima memoria? Il fenomeno dell’amnesia infantile in una prospettiva socioculturale

Il fenomeno dell’ amnesia infantile, ovvero la comune incapacità da parte degli adulti di avere accesso consapevole alle prime memorie autobiografiche infantili, sembrerebbe non essere attribuile ad un semplice processo di decadimento del ricordo dovuto all’età, quanto piuttosto a fattori socio-culturali.

Federica Artiol

 

Da quando inizia il nostro passato? Nonostante l’apparente ovvia riposta, ovvero dal momento della nostra nascita, la realtà, da un punto di vista psicologico, cognitivo ed evolutivo non lo è affatto.

Infatti, già Freud (1905/1949) pose in essere il dilemma della così detta amnesia infantile, ovvero quel fenomeno descritto dalla comune incapacità da parte degli adulti di avere accesso consapevole a memorie autobiografiche, ovvero relative a sé stessi, ricordate da “sé”, senza l’assistenza di altri o perché si vedono foto o altri supporti mnemonici, relative ai primissimi anni di vita.

 

L’assenza di ricordi relativi alla nostra infanzia: amnesia hard e amnesia soft

Il fatto di non riuscire a ricordare, in quanto adulti, i primi eventi della nostra vita è tutt’oggi considerato un dilemma scientifico. Infatti, a differenza degli adulti, i bambini di 2 o 3 anni di età sono capaci di ricordare eventi personali o informazioni su dì sé per considerevoli periodi di tempo (Fivush, Gray, & Fromhoff, 1987), mentre gli adulti generalmente mostrano un impoverimento dei propri ricordi presenti nel periodo di età dai 0-3 anni, così detto periodo di amnesia hard.

I ricordi divengono più frequenti invece nel periodo 3-6 anni, anche detto periodo dell’ amnesia soft, per poi divenire accessibili quasi a chiunque dall’età dei 6 anni  (Davis, Gross, & Hayne, 2008). L’età dei 6 anni è universalmente considerata la childhood amensia boundary, ovvero il momento di cut-off del nostro passato, la fine pressoché universale, per quasi chiunque, della linea d’ombra che secreta l’assenza quasi totale dei ricordi a favore dei primi episodi che ricordiamo di noi stessi, quali ad es. il primo giorno di scuola, un gioco fatto da soli in cortile, una festa di compleanno, ecc.

E’ interessante notare come tali ricordi, pur essendo così importanti da decretare di fatto l’inizio ufficiale del nostro passato, siano spesso eventi banali o apparentemente insignificanti se giudicati dai nostri occhi di adulti, anche se alcuni ricercatori hanno ipotizzato non lo fossero al momento in cui  furono vissuti da bambini (Davis et al., 2008).

 

Amnesia infantile: l’influenza di fattori individuali e culturali

Tale fenomeno di discontinuità nella presenza dei nostri ricordi autobiografici in differenti epoche della nostra infanzia (0-3 e 3-6) non è affatto attribuile ad un semplice processo di decadimento del ricordo dovuto all’età (Howe, 2012). Tornando quindi alla domanda iniziale, dobbiamo pensare che in effetti capire quando e dove inizia la nostra memoria autobiografica, in quanto esseri umani, è di fondamentale importanza, si pensi infatti che la memoria autobiografica è psicologicamente legata al nostro senso di sé e quindi alla nostra identità.

E’ di fatto la quintessenza del chi sono io, domanda a cui per rispondere ci rifacciamo ai ricordi del nostro passato, a chi erano i nostri genitori, a come è stato il nostro periodo scolastico, chi erano i compagni dell’asilo e cosa facevamo con loro, agli eventi significativi che hanno segnato, nel bene e nel male, la nostra vita fino all’oggi. Quindi riflettere sul fatto che il nostro passato non inizia con la nostra nascita biologica apre in realtà molte domande, soprattutto poi riflettendo su come persone diverse iniziano ad avere primi ricordi autobiografici ad età differenti e, non solo, che addirittura persone appartenenti a diverse culture hanno un cut-off di amnesia infantile a differenti età.

Quando viene chiesto a persone appartenenti a diverse culture di datare la loro prima memoria autobiografica (“qual è la prima memoria che hai di te?”), culture diverse riportano per l’appunto età differenti di prima memoria infantile e, dal momento che la comparsa del nostro primo ricordo nonché quanti ricordi riusciamo ad avere (densità delle memorie) decretano la durata del periodo di amnesia infantile, ciò significa che il fenomeno dell’ amnesia infantile decade ad età diverse in base a fattori sia individuali (una certa persona all’interno della stessa cultura può avere la prima memoria ad es. a 2 o a 6 anni), sia collettivi, quali l’appartenenza a diversi gruppi culturali. La seguente tabella, riadattata da Wang (Wang, 2008), ci mostra l’età media del primo ricordo infantile nei diversi studi culturali:

 

Qual è la tua prima memoria? Il fenomeno dell' amnesia infantile in una prospettiva socioculturale

Età del Primo Ricordo Autobiografico (in mesi) nei Diversi Studi Cross-Culturali

 

Tali studi, ci fanno riflettere su una questione cruciale, ovvero che se l’ amnesia infantile, e quindi la dimenticanza dei primi anni di vita, fosse un fatto attribuibile a sole motivazioni neurobiologiche, quali il non avere ancora un apparato neurocognitivo e funzioni mnemoniche complete da un punto di vista evolutivo, non si spiegherebbe perché invece i bambini anche a pochi mesi di vita sono in grado di formulare dei ricordi (pur basici) e perché culture diverse hanno età diverse di fine del periodo di amnesia infantile.

 

Possibili spiegazioni del fenomeno dell’ amnesia infantile

Perché allora tale varietà nell’inizio del nostro passato? Freud ipotizzava che l’ amnesia dei primi anni fosse dovuta all’impossibilità di ricordare, in quanto adulti, pensieri e pulsioni sessuali infantili, ovvero pose in essere la classica ipotesi della rimozione dei contenuti inaccettabili (Freud, 1899). Teorie più recenti hanno enfatizzato invece fattori socio-culturali e linguistici (e.g. (Fivush & Nelson, 2004) e cognitivi e del Sé (e.g. (Conway, 2005) i quali danno maggiore acconto di ciò che rende tali memorie autobiografiche infantili accessibili dal così detto periodo dell’ amnesia infantile, dove molti hanno quindi scarsi o nessun ricordo.

In particolare, Howe e Courage (Courage & Howe, 2004) propongono che lo sviluppo di un sé cognitivo, strutturato attorno alla distinzione tra Io e me che avviene attorno ai 2- 3 anni di età, sia un punto critico nel provvedere un’organizzazione strutturale attorno cui le memorie possano poi essere rappresentate successivamente e quindi ricordate.

L’età dei 2-3 anni, ovvero l’età in cui mediamente è possibile ricordare un primo episodio da adulti, è anche l’età di cui di norma il linguaggio diviene pienamente sviluppato, il che ha un profondo impatto sull’accessibilità di un ricordo, rendendo l’evento verbalmente accessibile. Inoltre, l’emergere del linguaggio apre ad una nuova serie di possibilità di interazione con gli altri, specialmente l’attività di condivisione di memorie e storie famigliari con genitori e parenti, con importanti conseguenze per la successiva accessibilità di tali eventi più tardi nella vita (Fivush & Nelson 2004).

L’interazione complessa tra lo sviluppo del sé, l’emergere delle abilità linguistiche e le interazioni sociali con gli altri significativi per il bambino possono essere tutti fattori influenzati dai costrutti culturali e pratiche socialmente condivise in un dato contesto socio-culturale, i quali, a loro volta, finiscono con l’avere un peso nel facilitare o attenuare l’accesso delle memorie una volta adulti.

La prospettiva socioculturale suggerisce che la cultura ponga enfasi in maniera differente sull’importanza del passato personale dei membri che appartengano ad un determinato gruppo culturale e che quindi ciò abbia un peso nell’emergere del ricordo e nell’accessibilità delle memorie infantili una volta adulti.

In accordo con la tradizione Occidentale, per esempio, una funzione critica della nostra memoria sarebbe definire chi siamo e sviluppare una identità unica. Già Hume (“Opere filosofiche. Vol. 1,” 1739/1882) nel suo Trattato sulla Natura Umana, proclamava l’importanza della memoria a tal fine: “Se non avessimo nessuna memoria, non avremmo nessuna nozione… o catena di cause ed effetti la quale costituisce il nostro senso di sé come persone”.

Le memorie autobiografiche, costituiscono una esperienza distintiva e personale, che permette agli individui di differenziarsi gli uni dagli altri, servendo quindi quali importanti costituenti della creazione di un sé autonomo ed unico. In altre culture invece, quali quelle dell’Est-Asia, la memoria autobiografica non è tradizionalmente centrale al senso della propria identità: si parla in tal caso di culture collettivistiche vs. individualistiche (quali quelle Occidentali), ovvero maggiormente definite da un senso di identità collettiva, che si fonda sull’armonia delle azioni gruppali verso gli altri, e non sull’emergere di uno spiccato senso di individualità del sé (Markus & Kitayama, 1991).

Tale differente visione del sé nelle diverse culture, potrebbe influenzare l’importanza che le persone danno ai loro ricordi autobiografici e riflettere quindi le differenti età di affioramento del proprio ricordo infantile una volta adulti, come mostrato dalla Tabella 1.

L’età di insorgenza delle prime memorie autobiografiche si attesta infatti anche molto dopo i 6 anni in culture Asiatiche, per abbassarsi invece attorno ai 3 anni e mezzo anni nelle culture Nord-occidentali. Ovvero, laddove un senso di sé che privilegia l’autonomia, l’unicità, l’individualità può motivare gli individui a porre attenzione ed enfasi sui propri ricordi passati per definire chi sono ora. Culture che privilegiano il senso dell’armonia collettiva ed il ruolo sociale nel gruppo, per contro, porrebbero invece più enfasi alle regole sociali e comunitarie, alla solidarietà collettiva e meno a ciò che rende ogni individuo unico. Ciò potrebbe contribuire a spiegare il periodo maggiormente lungo di amnesia infantile delle culture Asiatiche

Una interessante eccezione può però essere notata esaminando la tabella: in uno studio Neozelandese, MacDonald, Uesiliana ed Hayne, (2000) trovarono che i Maori della Nuova Zelanda ricordavano memorie datate attorno ai 2 anni e mezzo di età, quindi profilandosi come la popolazione attualmente studiata con la memoria più precoce tra quelle globalmente indagate scientificamente. La cultura Māori, hanno argomentato le ricercatrici, si denota come una cultura che pone estrema importanza sul passato, come si evince da narrazioni orali tramandate dagli anziani e dalla forte importanza posta al tramandare le tradizioni dei propri antenati e ai legami famigliari. Tale attività di racconto delle origini e del proprio passato è anche fortemente incoraggiata dalla intera comunità Māori contemporanea, attraverso celebrazioni rituali collettive e codificate culturalmente (vedi l’Aka, famosa perché danzata dai leggendari rugbisti All Blacks, oppure dalla presenza ancora in auge dei Marae e delle loro funzioni politico-sociali e religiose per la comunità).

Ciò faciliterebbe il ricordo di memorie infantili più precoci rispetto ad altri gruppi culturali, pur notando che nella cultura Māori l’enfasi viene posta sull’appartenenza d un gruppo famigliare anche in senso esteso fino agli antenati e non sull’individuo in senso propriamente occidentale. L’altra interessante eccezione concerne lo studio con partecipanti Giapponesi, i quali ripropongono un’età media del primo ricordo simile alla loro controparte Europea.

 

Amnesia infantile: l’influenza delle pratiche narrative familiari

Secondo la prospettiva socioculturale dello sviluppo della memoria autobiografica, l’influenza sul ricordo inerente la visione culturale del proprio senso di sé ha inizio con le pratiche familiari narrative precoci (Mullen & Yi, 1995). Quando condividono i propri racconti e memorie con i loro bambini, madri Americano-Europee spesso si è visto utilizzano uno stile di conversazione definito elaborativo, ovvero provvedono a dare informazioni aggiuntive al linguaggio utilizzato dal bambino per ricordare, creando una specie di struttura basilare portante che struttura il ricordo del piccolo. Spesso inoltre aggiungono considerazioni sui gusti, emozioni e le preferenze che attribuiscono ai loro figli che essendo piccoli non esprimono ancora compiutamente da sé.

Le madri di origine Asiatica tenderebbero invece all’opposto a utilizzare un tipo di dialogo più pragmatico, orientato alla prova inerente l’oggetto della conversazione, dove assumono un ruolo direttivo nel ricordo, ponendo domande chiuse al bambino (mentre nello stile elaborativo la madre poneva più domande aperte, volte al maggiore insight mnemonico). Negli studi effettuati (Mullen & Yi, 1995), le madri Asiatiche discutevano inoltre maggiormente ruoli e norme sociali attese o disattese dal bambino (es. Sei stato bravo a scuola o Non hai rispettato l’ insegnante), laddove le madri Americane-Europee ponevano maggiori enfasi su giochi e preferenze del bambino (es. Sei un bravo giocatore di pallone! Ti è piaciuto vedere lo zio).

Gli studiosi socioculturali hanno trovato come l’incoraggiare il senso di apparenza al gruppo e alle norme sociali desse minor risalto al ruolo della memoria a favore dello sviluppo di senso di appartenenza collettivo, che sarebbe sfavorito dall’emergere e dal porre accento sulle proprie unicità ed individualità. Mentre l’uso di uno stile convenzionale maggiormente elaborativo delle madri predisponeva il figlio a maggiore enfasi allo sviluppo di un sé interdipendente ed autonomo, così come auspicato dai valori propri dell’Occidente. Dato il differente valore e pratiche nelle precoci forme di socializzazione famigliare poste in essere dalle diverse culture a partire da bambini di meno di 3 anni, i bambini Americani-Europei spesso riportavano ricordi più ricchi dei loro coetanei Asiatici.

Pertanto, precoci pratiche narrative famigliari influenzerebbero il perché persone di culture diverse ricordano in modo differente i primi ricordi una volta adulti, giocando un ruolo nel delimitare quando decade quell’interessante linea d’ombra che decreta il personale inizio del nostro senso di sé, ovvero la questione del fenomeno dell’ amnesia infantile.

Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica (2016) – Recensione del libro

Il testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica raccoglie un pensiero sistemico complesso e integrato sintetizzando procedure utili nelle prime fasi di una presa in carico, attivando un confronto costruttivo anche con altre scuole di psicoterpia, sistemiche e non.

 

Esiste un percorso guidato per avviare terapie familiari o individuali o di coppia?

La risposta è sì o per lo meno ci hanno provato Cirillo, Selvini e Sorrentino con il testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica, che raccoglie un pensiero sistemico complesso e integrato sintetizzando procedure utili nelle prime fasi di una presa in carico, attivando un confronto costruttivo anche con altre scuole di psicoterpia, sistemiche e non.

Il tema iniziale è quello dell’analisi della domanda e di come rispondervi nel modo migliore. Per farlo la ricerca sulle procedure è ritenuta molto importante nel cercare quindi modi di valutare, convocare, intervenire che siano i più efficaci possibili.

 

Entrare in terapia: quali solo le sette porte della terapia sistemica?

Gli autori suggeriscono quindi delle mappe, ad ognuna corrisponde un certo modo di procedere, sette porte che ci guidano partendo dall’analisi della domanda, il primo contatto e il primo colloquio. È compito del terapeuta scegliere le modalità più opportune per un primo colloquio.

Secondo gli autori del testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica ogni convocazione è un messaggio sulla visione del problema da parte del terapeuta. I più classici tipi di domanda sono: la domanda di un familiare per un altro familiare, non motivato a chiedere aiuto o non in grado di farlo autonomamente (se si tratta di un bambino fino alla preadolescenza, potrebbe essere indicato un incontro con i soli genitori); la domanda per una relazione definita dal richiedente difficile/problematica/conflittuale; l’assenza di domanda che induce ad un invio coatto (il caso classico è quello del giudice che interviene a tutela di minori maltrattati); la domanda individuale di una persona per se stessa. L’obiettivo della consultazione è quindi ottenere una collaborazione da parte di tutti, una ricostruzione condivisa della storia e delle difficoltà.

Quando questo processo è concluso ha inizio la terapia vera e propria: l’accompagnamento al processo di cambiamento. La seconda porta è la diagnosi sistemica: la connessione tra il funzionamento della famiglia e la sofferenza di un suo membro, in forza dell’interdipendenza tra i membri del sistema familiare (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchn et al., 1980b). La diagnosi sistemica è basata sull’individuare la difficoltà/scomodità della posizione del paziente sia nel qui ed ora sia nella sua storia.

La terza porta illustrata nel testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica è quella della sintomatologia: in una prima fase si definisce il problema presentato dal paziente in un’ottica descrittiva, successivamente si illustra alla famiglia il tipo di sofferenza espressa dal sintomo o da più sintomi (Asse I del DSM-IV), facendo scoprire a ciascuno risorse, fatiche e responsabilità.

La quarta porta è quella dell’attaccamento: la teoria dell’attaccamento è utilizzata per dare una spiegazione del disagio di un paziente e permettere un percorso autocritico dei genitori. L’obiettivo della terapia familiare è quello di riattivare un legame di fiducia, appartenenza e attaccamento del paziente ai genitori e alla sua famiglia.

La quinta porta è la diagnosi di personalità: un funzionamento ripetitivo e rigido dell’individuo per lo più non funzionale, che si esprime in un impoverimento del funzionamento cognitivo, affettivo, interpersonale e del controllo degli impulsi, che deve essere integrato con le altre “mappe”.

La sesta porta presentata in Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica è quella della diagnosi trigenerazionale. A differenza della diagnosi sistemica che valuta il qui ed ora della famiglia, il modello diagnostico trigenerazionale si concentra sulla storia e sui processi di trasmissione di tratti e comportamenti attraverso le generazioni, radice della terapia familiare. Si parte dalla riflessione su quale bambino/figlio è stato il genitore e quindi quali modelli avrà interiorizzato.

La settima porta, infine, è quella della diagnosi basata sulle emozioni del terapeuta: il terapeuta entra in un’alleanza intensa, creativa, autentica con l’individuo, la coppia o la famiglia. Il terapeuta deve essere in grado di alternare momenti più fusionali e momenti di distacco necessario, con una corretta integrazione sugli aspetti metacognitivi. Le porte, così come vengono presentate, hanno un ordine legato al loro utilizzo nel processo terapeutico e servono insieme ad altri due strumenti essenziali: il lavoro d’équipe e la formazione personale.

 

Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica: quando la famiglia in terapia è una risorsa

Bisogna infine considerare che nella consultazione familiare per pazienti adolescenti e adulti non richiedenti la famiglia è una risorsa. I pazienti tipici sono psicotici, tossicodipendenti, soggetti con un grave disturbo di personalità, o con un disturbo del comportamento alimentare, giovani adulti non motivati alla cura, adolescenti ritirati in casa che non riconoscono il proprio malessere o ribelli, accusatori che non vanno più a scuola. Esistono però situazioni in cui le sedute familiari sono controindicate: è il caso in cui siano presenti violenze, maltrattamenti, abusi sessuali intrafamiliari che vengono negati o banalizzati. Sono controindicate inoltre in caso di un elevato livello di aggressività e ostilità tra i familiari.

Nella consultazione familiare per il bambino, che dipende in tutto dalla famiglia cui è affidato alla quale è rivolta la domanda di aiuto, genitori e bambino non vanno separati all’interno del contesto terapeutico. Quando il bambino è un membro sofferente del nucleo familiare, ma non è l’oggetto della richiesta terapeutica, è opportuno prevedere una seduta in cui tutti i membri del nucleo siano presenti per valutare il livello di disagio dei figli in particolare in caso di crisi coniugale per tranquillizzare i bambini dell’impegno degli adulti ad assumersi la responsabilità di una soluzione.

La consultazione per la famiglia propone un focus sulle relazioni, le risorse familiari vanno stimolate, successivamente si stipula un contratto al quale segue un programma terapeutico basato su una cooperazione generale o su quella di chi è disponibile.

In conclusione Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica permette ai terapeuti che non hanno una formazione sistemica di poter conoscere strumenti utili per andare incontro non solo ad un cambiamento del paziente ma anche della famiglia dove ce ne sia la possibilità. Introduce inoltre un dialogo tra modelli diversi di terapia così che si possa migliorare la comunicazione e l’integrazione tra esperienze cliniche.

Un castello di sabbia. Storie della mia vita e della mia schizofrenia (2013) – Recensione

E’ un libro appassionato e coinvolgente, carico di dolore, coraggio e speranza, che racconta in maniera splendidamente lucida e positiva la vita di Elyn Saks, affetta da schizofrenia.

 

La storia di Elyn Saks e la schizofrenia

Oggi Elyn Saks è un’insegnante alla University of Southern California Gould School of Law ed è adjunct professor di psichiatria alla University of California, San Diego, School of Medicine. Una paziente eccellente e di grande successo, che racconta in prima persona la propria biografia attraverso un racconto intenso e commovente, che riesce a trasformare il dolore della malattia in ironia e intelligenza.

Elyn Saks è la prima figlia di una famiglia normale, premurosa e benestante, che si stabilisce a Miami negli anni ’50. Purtroppo intorno agli 8 anni, in un giorno qualunque, Elyn Saks inizia ad avvertire la sensazione che la sua consapevolezza di colpo diventa confusa: sente la sua mente “come un castello di sabbia che si sta sgretolando sotto le onde”. Inizia così il lento processo di disorganizzazione, che porterà il suo “me” verso la dissoluzione, come se diventasse nebbia il centro dal quale l’individuo percepisce la realtà. Visioni, suoni, pensieri e sentimenti si disgregano, non vanno più insieme. Si dissolve in tanti granelli di sabbia il principio organizzativo che permette ai momenti che si succedono nel tempo di assumere una forma coerente da cui trarre un senso.

La schizofrenia lentamente si manifesta in maniera sempre più evidente, peggiorando durante l’adolescenza. Inizia così un lunga e difficile lotta per tenere a bada i terrori, i demoni e gli incubi che iniziano a popolare la vita di Elyn Saks. L’autobiografia ci racconta le sue rotture psicotiche, i ricoveri, le regressioni, i suoi rapporti di amore e di amicizia, le sue conquiste come donna e come accademica, i pregiudizi, l’arduo percorso di accettazione della malattia, durante questa incessante lotta contro la schizofrenia.

Ma Elyn Saks è determinata a vincere: la studentessa di filosofia, psicologia e legge, si laurea prima a Oxford e poi a Yale; grazie alla sua determinazione e alla sua smisurata forza di volontà, la sua schizofrenia diventa un’occasione, uno stimolo alla realizzazione e all’apertura verso il mondo.

La storia di Elyn Saks è la storia di quanti soffrono come ha sofferto lei, e il suo successo una concreta speranza per quanti in futuro dovranno fronteggiare questa malattia: con le giuste risorse e l’opportuno aiuto, un numero infinitamente maggiore di persone potrebbe aspirare al potenziale che aveva prima della malattia. Elyn Saks, che oggi vive con suo marito a Los Angeles, ha dichiarato: “La mia fortuna non è stata guarire dalla malattia mentale. Non sono guarita, né guarirò mai. La mia fortuna è stata trovare una mia vita”.

Rapporto tra attività sportive e miglioramento delle abilità cognitive

L’ attività fisica ha degli effetti positivi sulle abilità cognitive: abbiamo dati che parlano di miglioramenti nelle funzioni esecutive, nel controllo inibitorio, nella memoria e nell’attenzione; abbiamo fin qui riportato diverse prove a favore dell’ipotesi che l’attività sportiva aumenti la produzione di neurotrofine che migliorano la vascolarizzazione cerebrale e promuovono sia la neurogenesi che la plasticità cerebrale.

Laura Casnaghi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Lo sport e gli effetti sulle abilità cognitive

I bambini amano i giochi di movimento: correre, saltare, rincorrersi e utilizzare palle e palloni di varie dimensioni. Se vi è mai capitato di chiedere a studenti delle elementari e delle medie le loro materie preferite a scuola, spesso vi sarete sentiti rispondere “ginnastica” o “educazione fisica”. Inoltre, chi di voi ha figli o fratelli più piccoli sa come spesso i compiti scolastici vengano da loro tralasciati per partecipare agli allenamenti sportivi o per uscire a giocare con gli amici. Durante la mia esperienza di animatrice in oratorio ho spesso incontrato genitori che venivano a recuperare i figli, molto occupati a concludere una partita di pallone per aver avuto tempo di finire di studiare storia o di esercitarsi in matematica.

Ma il gioco e le attività sportive sono davvero gli antagonisti della preparazione scolastica? Oppure possono essere visti come un valido supporto allo sviluppo di quelle abilità cognitive, come ad esempio l’attenzione, la memoria e la capacità di pianificazione, che sono indispensabili per ottenere successi in ambito didattico?

I primi dati sugli effetti che l’attività motoria ha sulle abilità cognitive provengono dagli studi che, soprattutto negli anni ’90, molti ricercatori hanno condotto su roditori di diverso tipo. Da questi studi è emerso come l’architettura cerebrale di topi “sportivi” sia differente da quella di altri roditori meno attivi (Tong et al., 2001).

Ad esempio, uno studio di Black e collaboratori (1990) confrontava i cervelli di ratti che erano stati allevati in condizioni di minimo stimolo motorio, con ratti che invece avevano avuto libero accesso a una ruota per correre, con altri che erano stati sottoposti ad esercizi obbligatori su tapis roulant (con difficoltà progressivamente aumentata) e infine con un gruppo sottoposto ad allenamenti acrobatici con percorsi fatti di travi, altalene e corde a difficoltà crescente. I topi dell’ultimo gruppo mostravano un aumento del numero delle sinapsi cerebrali e, insieme a quelli sottoposti all’allenamento con tapis roulant, avevano sviluppato una migliore irrorazione sanguigna del cervello: entrambi dati a favore di un miglioramento dell’attività cerebrale dei topini atletici!

Fordyce e Farrar nel 1991 dimostrarono, sempre grazie ad un esperimento su ratti diversamente allenati, come l’ attività fisica costantemente praticata avesse migliorato le funzioni dell’ippocampo e, di conseguenza, i risultati dei roditori in compiti che richiedevano l’utilizzo della memoria spaziale.
Pochi anni dopo, Neeper (1996) con i suoi collaboratori mostrò come l’ attività fisica nei topi producesse una maggior espressione di un gene regolatore della produzione della neurotrofina BDNF (brain-derived neurotrophic factor), responsabile della crescita del sistema nervoso, del buon funzionamento dei neuroni e della difesa di questi dai danni causati dai radicali liberi. Insomma, più un topo aveva corso durante la sua vita, maggiore era stata la produzione di neurotrofina.

Nel 2002, Cotman and Engessar-Cesar pubblicarono uno studio che indicava come la neurotrofina BDNF fosse coinvolta nei processi di apprendimento e di immagazzinamento di informazioni nella memoria a lungo termine. Inoltre è stato riconosciuto l’importante ruolo che questa neurotrofina ha nella prevenzione dello stress cronico (Duman et al., 2006) e della depressione (Martinowich et al., 2007), e nell’aumentare la plasticità cerebrale così da migliorare la resilienza a eventuali danni (Cotman e Berchtold, 2003). L’esercizio fisico genera quindi a cascata una serie di vantaggi al corpo umano dovuti alla produzione di BDNF: maggiore vascolarizzazione cerebrale, neurogenesi, modifiche dell’architettura neuronale e protezione dai danni cerebrali, soprattutto nell’ ippocampo, area centrale per la memoria e l’apprendimento (Cotman e Berchtold, 2003).
Gli studi sugli animali e sugli adulti hanno quindi fatto emergere un ruolo importante dell’esercizio fisico nella preservazione e nel miglioramento delle abilità cognitive.

 

Gli studi sui bambini

Cosa succede invece nei bambini? Nel 2003, Sibley e Etnier pubblicarono una meta analisi su 44 studi che indagavano la correlazione tra attività fisica e abilità cognitive nei bambini; dal loro lavoro emerse non solo una correlazione positiva tra attività motoria e cognizione, ma che l’effetto di miglioramento nella cognizione dovuto all’esercizio fisico era presente anche in soggetti con ritardo mentale o con disabilità fisiche. Questo dato inoltre faceva nuova luce su review precedenti che non avevano trovato associazioni tra l’esercizio fisico e il miglioramento cognitivo di bambini con difficoltà d’apprendimento: Bluechardt,  Wiener e Shephard (1995) scrissero un articolo in cui dichiararono che programmi di attività motoria integrati con training per le abilità sociali in bambini con difficoltà di apprendimento non avevano un effetto migliore di altre forme di attenzione rivolte agli stessi nel miglioramento delle loro abilità intellettive; Shephard (1997) dimostrò come un programma di educazione fisica giornaliera migliorasse lo sviluppo psicomotorio, la rapidità della capacità di apprendere e i risultati accademici dei giovani studenti coinvolti, ma questo effetto non era ugualmente evidente nel caso di bambini con difficoltà di apprendimento.

Nel 2006 Nelson e Gordon-Larsen pubblicarono i dati di uno studio che coinvolgeva più di undicimila adolescenti (età media 15.8 anni) e che si proponeva di studiare le relazioni tra stili di vita sedentari, attività fisica e comportamenti a rischio in età adolescenziale; trovarono che gli adolescenti più attivi negli sport non solo avevano meno possibilità di incorrere in comportamenti rischiosi (assenteismo scolastico, fumare sigarette, usare droghe,…) ma inoltre avevano maggiori possibilità di avere alti profitti scolastici.

Similmente Sigfusdottir, Kristjansson e Allegrante (2006), in uno studio svolto in Islanda su più di cinquemila ragazzi tra i 14 e i 15 anni, trovarono che il rendimento scolastico dipendeva molto dal tipo di dieta seguita dai ragazzi, dal loro Indice di Massa Corporea (BMI) e dal tempo che dedicavano all’ attività fisica. Infatti gli adolescenti più attivi, magri e che si nutrivano in modo sano ottenevano un maggior successo scolastico. I ricercatori tenevano conto anche del sesso dei soggetti, della loro struttura familiare, del tipo di educazione a cui erano sottoposti in famiglia e la frequenza di assenze scolastiche.

Sempre in seguito alle preoccupazioni riguardo all’aumento dell’obesità infantile, uno studio americano del 2007 (Castelli et al., 2007) su bambini tra il terzo e il quinto anno di scuola ( età media di 9,5 anni) indicava che esercizio aerobico e IBM correlavano col successo scolastico, soprattutto nella lettura e nella matematica; dallo stesso studio risultava che l’esercizio fisico per aumentare la forza muscolare e la flessibilità non influiva sul miglioramento scolastico.

Davis (2007) in un primo esperimento su 94 bambini americani tra i 7 e gli 11 anni, in sovrappeso ma per il resto in buona salute, decise di dividere il target in tre gruppi, uno di controllo, uno sottoposto a venti minuti di esercizio al giorno (cinque volte a settimana per quindici settimane), e l’ultimo sottoposto a quaranta minuti di esercizio con la stessa frequenza. Prima e dopo le quindici settimane di allenamento fu somministrato a tutti i bambini una batteria di test per la valutazione dei processi cognitivi (Cognitive Assessment System, CAS): il gruppo sottoposto a un allenamento intenso (quello dei quaranta minuti al giorno) ottenne un notevole incremento dei punteggi al test alla fine delle quindici settimane dando prova del fatto che l’esercizio fisico fosse un buon metodo per migliorare le abilità cognitive e sociali nei bambini.

La stessa Davis nel 2011 diede una ulteriore conferma ai risultati dei suoi studi pubblicando una ricerca che aveva lo stesso disegno sperimentale ( 171 bambini sovrappeso tra i 7 e gli 11 anni divisi in tre gruppi: uno di controllo, uno con sessioni di esercizio di venti minuti, uno con sessioni di quaranta, per circa tredici settimane) ma che aumentava i test pre e post esercitazione e che introduceva anche una valutazione con risonanza magnetica funzionale; l’esercizio fisico migliorava i risultati ai test matematici e ai test valutanti le funzioni esecutive, dato supportato da un aumento dell’attività corticale prefrontale bilaterale riscontrata durante la risonanza magnetica funzionale.

Nel 2008 uno studio di Budde e altri svolto in Germania su ragazzi tra i 13 e i 15 anni riscontrò che anche attraverso una serie di sessioni intense di esercizi di coordinazione (quindi non solo con l’esercizio aerobico descritto negli studi precedenti) si possono ottenere miglioramenti significativi a test che valutano le capacità attentive.

L’esercizio fisico inoltre influisce sulla memoria di lavoro, cioè la facoltà di tenere a mente le informazioni utili ai compiti che si stanno svolgendo, e sul controllo inibitorio delle risposte inadeguate al compito, importanti aspetti delle abilità cognitive coinvolte nei processi di apprendimento (Scudder et al, 2015). Di recente uno studio svolto in Israele (Zach et Shalom, 2016) su venti adulti ha mostrato grandi effetti sulla memoria di lavoro dopo delle sessioni di due ore di pallavolo.

Gli effetti di anche solo cinque minuti di intensa attività fisica provoca un miglioramento delle funzioni esecutive anche in bambini con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD) (Gawrilow et al., 2016).

Abbiamo quindi ricavato dagli studi fin qui riportati come l’ attività fisica abbia degli effetti positivi sulle abilità cognitive: abbiamo dati che parlano di miglioramenti nelle funzioni esecutive, nel controllo inibitorio, nella memoria e nell’attenzione; abbiamo fin qui riportato diverse prove a favore dell’ipotesi che l’attività sportiva aumenti la produzione di neurotrofine che migliorano la vascolarizzazione cerebrale e promuovono sia la neurogenesi che la plasticità cerebrale. Si è visto che tutto ciò corrisponde, spesso in modo significativo, a un miglioramento delle prestazioni scolastiche nei soggetti giovani che praticano attività fisica.

Sfruttando questi miglioramenti dovuti allo sport, Benso (2004) ha istituito un protocollo di riabilitazione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e del disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività basato su esercizi atti a rafforzare le abilità cognitive di base (memoria lavoro, percezione visiva, attenzione divisa, attenzione sostenuta, …) e il funzionamento del Sistema Attentivo Supervisore (SAS; Shallice, 1989) affiancato a una costante attività sportiva. Infatti secondo l’autore il deficit delle prestazioni nei soggetti DSA è dovuto a debolezze del SAS e dei moduli da questo controllati, in particolare l’attenzione (Benso; 2005); i soggetti DSA vengono quindi considerati bambini con debolezza attentiva, similmente al disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Rafforzando i moduli, viene rafforzato anche il SAS e si ottengono miglioramenti nelle prestazioni deficitarie. L’attività motoria prevista nello sport, nelle arti e nel gioco, oltre ad essere utile al fine riabilitativo, è anche piacevole per i bambini e tale piacevolezza aumenta la motivazione al trattamento. Si richiede però che l’allenatore o istruttore sportivo sia un professionista, adeguatamente preparato e formato, che sappia quali funzioni sta andando ad allenare nel bambino con debolezza attentiva; l’istruttore deve essere in grado di allenare i moduli del bambino stimolandolo al limite delle risorse, senza però eccedere rendendo il compito frustrante: infatti un esercizio eccessivamente difficile avrebbe ricadute gravi sulla motivazione e sull’autostima.

L’istruttore deve anche essere a conoscenza che lavorare al limite delle risorse genera irritabilità; è di grande efficacia la scelta di un programma tarato sull’età e sulle capacità del bambino, che non preveda sedute passive di allenamento ma dedichi molta attenzione all’apprendimento dei movimenti fondamentali: questi infatti, se imparati, scomposti, velocizzati e automatizzati, renderanno possibile la flessibilità di composizione di atti motori complessi efficaci. Questo è valido sia che l’attività sia sportiva o artistica: l’importante è evitare ambienti eccessivamente agonistici e gli sport di squadra; nello sport di squadra infatti la pressione dei compagni a giocare bene può incidere sull’autostima del bambino: meglio scegliere attività da svolgere in gruppo o in solitaria come il tennis o le arti marziali. Questo porterà a un aumento dell’attenzione sostenuta, della concentrazione e del controllo, capacità che potranno essere trasferite anche al di fuori dell’ambito artistico/sportivo.

 

Conclusioni: gli effetti benefici dell’ attività fisica sulle abilità cognitive

Abbiamo quindi trovato una risposta supportata dai dati della letteratura alla nostra domanda iniziale: le attività sportive e ludiche caratterizzate da attività fisica non sono antagoniste della preparazione scolastica; sostenendo lo sviluppo delle funzioni esecutive, possono essere considerate un aiuto al miglioramento delle prestazioni didattiche, pure in soggetti con difficoltà di apprendimento. Anche se è ancora da approfondire quanto rilevante sia il contributo dell’ attività fisica al successo scolastico, essendo diversi i risultati delle ricerche riportate, si può comunque concludere che il fatto che i nostri ragazzi passino delle ore a giocare a pallone con gli amici o in palestra ad allenarsi in altri sport non sarà la causa principale dei loro brutti voti!

Suicidio e Tempo, tra la vita e la morte: una riflessione filosofica

Se la vita e il tempo si dispiegano assieme per formare ciò che chiamiamo esistenza, ed il suicidio si compie in questo tempo, allora il suicidio è un gesto della vita, un’espressione in comunione con il fluire del tempo. 

Roberto Minotti e Paulina Szczepanczyk

 

«Vi è solamente un problema filosofico
veramente serio: quello del suicidio.
Giudicare se la vita valga o non valga la
pena di essere vissuta, è rispondere al
quesito fondamentale della filosofia.»

 

Il suicidio è davvero un atto disperato contro la vita? Ma cos’è “vita” e cosa è “morte” per l’individuo, un essere costituito non solo di corporeità e finitudine organica, ma soprattutto di sogni, spirito e trascendenza?
Se osservassimo con maggior cura le ferite invisibili dell’anima, comprenderemmo che il suicidio reale non avviene con la morte del corpo, ma con la sconfitta dello spirito.
Se la vita e il tempo si dispiegano assieme per formare ciò che chiamiamo esistenza, ed il suicidio si compie in questo tempo, allora il suicidio è un gesto della vita, un’espressione in comunione con il fluire del tempo.

La vita ha in sé un’ostinazione così grande a realizzarsi che oltrepassa qualsiasi ragione e qualsiasi ostacolo. Esiste la vita e non il nulla, poiché la volontà che tutto muove non può far altro che generare esistenza. Ma se la vita è così determinata ad esprimere una volontà assoluta ad esistere, perché c’è il suicidio?
In questo lavoro, oltre a tentare di rispondere a tali domande, si cercherà di approcciarsi in modo olistico alla problematica del suicidio.

Per tale ragione, approcciarsi ad una problematica come il suicidio, reputando questo comportamento un errore o un oltraggio alla verità della vita, significherebbe banalizzare la complessità di tematica riducendola a una condotta da correggere o da eliminare. Ma possiamo mai immaginare l’esistenza dell’essere umano senza più il suicidio? Nonostante questo atto sia così tragico ed estremo, possiamo intuire quanto sia profondamente legato alla volontà e al libero arbitrio, caratteristiche fondamentali del genere umano. Un approccio complesso e rigoroso deve poter intuire che alla verità della vita si contrappone la verità della morte, e tra questi due momenti esiste la verità della libertà del volere umano.

 

Il suicidio nella società post-moderna

In questi ultimi decenni si sono scritti molti articoli e si sono fatte moltissime ricerche sul problema del suicidio. Su tale argomento si sono sviluppate teorie, approcci, metodi d’intervento e di prevenzione anche attraverso centri specializzati.

Come mai proprio in questi ultimi anni si sono intensificati gli studi sul suicidio? Cosa rappresenta il suicidio in una società fondata sull’individualismo e sul consumismo? Per tentare di rispondere a tali domande proviamo ad osservare statisticamente questo problema.
Se si analizza il trend storico degli indici relativi al fenomeno del suicidio, scopriamo che le oscillazioni che si sono registrate negli ultimi anni non hanno risentito delle fasi di espansione o contrazione dell’economia. Tale risultato potrà sorprendere, tenuto conto della pressione mediatica che si occupa, molto spesso, in modo anche morboso di tale problematica. Secondo le statistiche, in Italia, ad esempio, l’indice dei suicidi annuali è circa di 1 ogni 20 mila abitanti, con differenze sensibili sulla distribuzione geografica tra il Nord e il Sud. Il Nord, infatti, ha un tasso di suicidi quattro volte superiore a quello del Sud. A riguardo, se consideriamo tra i paesi europei la Germania, che rappresenta uno degli stati più ricchi, rispetto all’Italia tale tasso è esattamente il doppio per giungere addirittura a quattro volte nei paesi scandinavi. La correlazione tra indice economico e suicidi sembrerebbe essere, paradossalmente, molto più alta rispetto a quello legato alla depressione economica e all’insicurezza di non disporre di beni materiali.

Siamo nella società dei paradossi, in cui è radicata la convinzione che il benessere si possa raggiungere attraverso il fare e la produzione “artificiale” di felicità, senza comprendere che tale attività produce invece ulteriore malessere.

Pensando a tutte le potenzialità costituite dalla tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in una società iperstimolante, e in perenne trasformazione, l’individuo dovrebbe trovarsi nell’oceano di percezioni, e invece, paradossalmente, il sentire e le passioni si sono cristallizzate: si parla di passioni tristi, di esperienze anestetizzate e anestetizzanti, vissute in assoluto solipsismo, ma esperite in contesti socialmente confluenti. Lo scopo della relazione non sembra più la condivisione di interessi, ma quello di non sentire l’angoscia della solitudine; per non provare il dolore per la perdita dell’altro, di non raggiungerlo o di non essere accettati, non si è più disposti a rischiare il contatto con l’altro, alienando dal nostro campo esistenziale la relazione, ritrovandosi in una vita di solitudine. La relazione è sempre più esperita virtualmente, dove il grande assente è proprio il corpo.

L’isolamento affettivo e il misconoscimento dei livelli emotivi e corporei costituiscono fattori di rischio assai superiori rispetto alle tanto paventate cause economiche. Probabilmente più delle terapie e delle farmacoterapie, la vera prevenzione nasce dall’inclusione del singolo in gruppi e alla rieducazione dell’individuo dei valori relazionali.

La sovraesposizione mediatica delle masse determina un’ulteriore elemento di desensibilizzazione emotiva di fronte a tali eventi. La profonda sofferenza vissuta dalle persone che si sono suicidate, non è mai scandagliata fino in fondo, non costituisce un’occasione di introspezione seria e rigorosa da parte di tutti gli agenti educativi e politici, ma è ridotta a icona o a stereotipo culturale.

Il comportamento suicida, infatti, pone una serie di interrogativi che coinvolgono soprattutto i familiari e la società. Come clinici, pensando soprattutto alla prevenzione del suicidio, dovremmo focalizzare sempre di più la nostra attenzione su tutto il campo relazionale della persona a rischio di suicidio. La sofferenza non è soltanto dell’individuo che minaccia o ha già tentato il suicidio, ma appartiene in modo ancor più radicale al suo campo esistenziale. Se è il lavoro di rete, che in qualche modo può arginare tale fenomeno prevenendolo, allo stesso modo, la famiglia, gli amici, la scuola, il lavoro ecc. possono essere la principale causa di frammentazione della persona che si è progressivamente disancorata dall’esistenza. È la relazione con gli altri a costruire quei legami che permettono alla persona di sentirsi parte di un tutto. Il suicidio prima di essere un atto, è un’idea, un’intenzionalità. Paradossalmente chi si suicida si pone di fronte alla vita in modo così determinato da oltrepassare la tenacia estrema che la vita stessa incarna. Alla verità della vita non si oppone l’errore del suicidio, ma un’altra verità, un’altra espressione dell’essere umano.

Chi ha deciso di uccidersi, oltre a ideare e a pianificare tale atto, sta formulando un messaggio, sta provando a comunicare qualcosa a qualcuno. In quest’ottica il suicidio assume una connotazione di svelamento, di apertura, può essere interpretata come una dinamica relazionale. Infatti, la comunicazione, come sappiamo, ha sempre un’intenzionalità relazionale. Per una vita che è giunta, attraverso la sofferenza e la disperazione, all’isolamento estremo, il suicidio può rappresentare l’ultimo atto relazionale.

 

«A che scopo soffrire?»

L’interrogativo posto da Nietzsche sembra non aver trovato ancora una risposta, ed è proprio questo problema irrisolto, ovvero il nostro senso come esseri viventi, a renderci inquieti e spesso angosciati di fronte all’esistenza. Possiamo allora comprendere la disperazione di chi con un’ intensità diversa e con un dolore più profondo, non avendo più risposte decide di darsi la morte.

Chiederci se la stessa vita abbia un senso, o come afferma Albert Camus, se sia degna di essere vissuta, ci pone di fronte ad un dubbio che mette in discussione il nostro essere nella sua globalità. Classificare i comportamenti suicidari esclusivamente come “non normali”, assurdi o addirittura patologici, significherebbe togliere all’uomo quella parte fondamentale dello suo spirito che lo rende così ostinato e tenace nella ricerca di se stesso. In questa ricerca infinita, in questo viaggio affascinante e tragico, esiste anche la possibilità del suicidio, darsi la morte diviene ammissibile.

Siamo consapevoli che il tema della sofferenza è un tema sempre attuale e al contempo inattuale: è inattuale poiché nella società del benessere, il dolore rappresenta il controsenso più grande. Il dolore e la sofferenza per la società sembrano avere significato se trattati mediaticamente in modo superficiale o virtuale. La sofferenza offerta dai network diviene un grande schermo su cui proiettare tutti i malesseri del mondo come fosse un immenso magnete verso cui ogni disagio scivola, e nello stesso tempo la distanza tra la sofferenza e chi realmente la percepisce aumenta sempre di più.

Ci possiamo chiedere, quindi, se togliere ad ogni costo la sofferenza dal mondo abbia un senso, e se questo procedere verso un illusorio benessere non conduca l’uomo a sofferenze ancora maggiori. Per il clinico che inevitabilmente si avvicina al dolore psichico e alla disperazione, un atteggiamento etico, che possa rispettare sia la persona che soffre che se stesso, è quello di dare dignità, memoria e tempo a questi sentimenti.

L’assurdo è la malattia di cui soffre la nostra mente determinata dall’incapacità di colmare le conoscenze fondamentali attraverso il vivere.
Søren Kierkegaard, nella malattia mortale, ci mostra come la consapevolezza e l’angoscia siano inequivocabilmente uniti; l’uno non può esistere senza l’altro, ed entrambi contribuiscono a creare le nostre strutture e il nostro modo di essere, anche se il risultato di tale consapevolezza è ulteriore angoscia.

La vita è sia libero arbitrio che ineludibilità, sia intrinseca bellezza che incomprensibile dolore, e il suo scorrere è irreversibile; queste grandi separazioni dilaniano l’uomo che di fronte ad una scelta deve necessariamente scindersi per un istante. Per coloro i quali utilizzano il pensiero dicotomico, tali scelte divengono estreme e per tali coscienze, che superano il consueto sentire giungendo alla più profonda consapevolezza, questo dolore diviene metafisico. La scelta ammissibile che l’individuo può compiere, svelati questi massimi orizzonti, può anche essere il suicidio.

In questa prospettiva, la ricerca dell’io non si arresta al suo sentire emotivo, ma prosegue verso l’indicibile, trasformando i segni archetipici, che costituiscono la nostra dimensione ontologica, in visioni improvvise di verità senza nome: l’angoscia è la vertigine che accompagna l’inevitabilità dell’esistenza, in cui la disperazione di non poter uscire dalla vita, se non attraverso un atto consapevole e definitivo, prende forma e sostanza.

Ma a che serve l’uomo? Il suo solo scopo sembra essere quello di evolversi, una voglia indefinibile di divenire, oltrepassandosi continuamente per realizzare il suo Essere. Era dopo era, cellula dopo cellula, strato dopo strato, di struttura in struttura, il cervello «creatore» ha compiuto la metamorfosi, d’improvviso non è più sostanza, ma una mente che non desidera altro che farsi spirito.

Il suicidio non interrompe tale cammino, al contrario ci mostra come l’essere nel mondo trovi un’altra possibilità nell’autenticità del vivere. Molto probabilmente è l’emozione del tempo, ad aprire la ferita più profonda nell’animo e a depositare l’angoscia più grande, un terrore senza confini: il limite del nulla.

Il disagio intimo e la mancanza di senso probabilmente hanno questa origine: nascono dalla dilaniante lotta tra due rapaci insaziabili, ciò che potremmo conoscere e ciò che non potremmo svelare mai. Siamo nati per essere e allo stesso tempo per morire. In quella rima di frattura c’è l’uomo, che gettato nell’esistenza sembra un perenne Lazzaro, un trastullo dell’assurdo. Come uomini di scienza e studiosi del comportamento umano, il nostro compito, o meglio la nostra missione, può essere quella di accogliere questo mare di sofferenza e provare a farlo divenire altro attraverso la relazione e la condivisione. La nostra volontà, che è la medesima che orienta il tutto verso uno scopo, e la nostra ragione che ci guida, sono sufficienti a comprendere ed accettare la disperazione per cambiarla in possibilità?

La paura delle malattie: affrontare e superare l’ansia per la salute e l’ipocondria (2016) – Recensione

Attraverso il libro “La paura delle malattie”, Gordon Asmundson (professore e ricercatore in Psicologia e in Chinesiologia al Canadian Institutes of Health Research) e Steven Taylor (professore al Dipartimento di Psichiatria dell’Università della British Columbia) cercano di spiegare quando l’ ansia per la salute diventa eccessiva e in che modo, attraverso un manuale di auto-aiuto, è possibile venir fuori dai circoli viziosi che caratterizzano tale disturbo.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

[blockquote style=”1″]Ognuno di noi, di tanto in tanto, si preoccupa per la propria salute, spesso anche solo per capire le ragioni delle sensazioni che avverte; e ognuno di noi si è almeno una volta chiesto se il proprio mal di stomaco dipendesse da ciò che aveva mangiato o non fosse piuttosto il sintomo di un’ulcera, se il proprio mal di testa e i propri occhi infiammati fossero conseguenza di una giornataccia o di un tumore al cervello […].[/blockquote]

Ma quando questi pensieri diventano pervasivi tanto da ostacolare le attività quotidiane? E quando l’ansia correlata a tali pensieri diventa disturbante e patologica?

Attraverso il libro “La paura delle malattie”, Gordon Asmundson (professore e ricercatore in Psicologia e in Chinesiologia al Canadian Institutes of Health Research) e Steven Taylor (professore al Dipartimento di Psichiatria dell’Università della British Columbia) cercano di spiegare quando l’ansia per la propria salute diventa eccessiva e in che modo, attraverso un manuale di auto-aiuto, è possibile venir fuori dai circoli viziosi che caratterizzano tale disturbo.

Il testo è suddiviso in 3 parti: nella prima parte si cerca di guidare i lettori nella scoperta delle origini della propria ansia per la salute e nell’individuazione della presenza di altri possibili disturbi d’ansia o depressivi; nella seconda parte si descrivono le modalità per interrompere i circoli viziosi correlati all’ansia per la salute e per eliminare sia i pensieri che i comportamenti ansiogeni associati; nell’ultima parte si discute, invece, della prevenzione delle ricadute e di come si possano modificare i rapporti con i medici e coi familiari che si mostrano spesso esasperati o iperprotettivi nei confronti della persona ansiosa.

 

Ansia per la salute: la diagnosi clinica e quelle differenziali

L’ansia in generale è un’emozione che si esperisce quando si teme che possa accadere qualcosa di pericoloso; l’incertezza del futuro e l’impossibilità di controllare tutto ciò che possa accadere genera uno stato di tensione intenso. Per questo, l’ansia genera delle reazioni fisiologiche e comportamentali che preparano il nostro corpo a reagire nel caso in cui si verificasse davvero l’evento temuto: aumenta la frequenza cardiaca, il respiro è affannoso, i muscoli sono in tensione e si possono provare altre reazioni, quali nausea, sudorazione o sensazione di ovattamento.

L’ansia per la salute, nello specifico, viene esperita nelle situazioni in cui si teme che il benessere fisico possa essere compromesso da qualcosa di molto grave. Essendo una forma d’ansia, è anch’essa caratterizzata dalla presenza di una serie di modificazioni fisiologiche, comportamentali e cognitive e la sua intensità può collocarsi su un continuum che varia da un livello basso ad uno alto e completamente invalidante. La persona che soffre di ansia per la salute, di fatto, avverte davvero dei sintomi fisici che non sono il frutto della sua immaginazione. Tali sintomi possono derivare da molteplici fattori; i più comuni sono lo stress, il sovraccarico lavorativo, cambiamenti nelle abitudini quotidiane. Chi soffre di ansia per la salute, tuttavia, tende ad amplificare tali sintomi e a interpretarli erroneamente come la causa di una grave malattia.

Nel DSM 5 (2014) compare la dicitura di Disturbo d’Ansia di malattia (noto anche come ipocondria), che prevede i seguenti criteri diagnostici:
– Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.
– I sintomi somatici non sono presenti, o se presenti solo di lieve entità. Se è presente un’altra condizione medica, la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.
– È presente un elevato livello di ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo al proprio stato di salute.
– L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute o presenta un evitamento disadattivo.
– La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi.
– La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale come il disturbo da sintomi somatici, il disturbo di panico, il disturbo d’ansia generalizzata, il disturbo di dismorfismo corporeo, il disturbo ossessivo compulsivo o il disturbo delirante.

L’ansia per la salute va distinta dalla fobia delle malattie, che invece consiste in una fobia specifica e in questo caso la persona non crede di essere già ammalata ma teme di potersi ammalare in futuro. Le manifestazioni dell’ansia e le sensazioni corporee risultano tuttavia le stesse.
Se, invece, la convinzione di avere una grave malattia è così marcata, può insorgere un vero e proprio delirio somatico (ad esempio si può pensare di emettere cattivi odori o di essere infestati da insetti..).

 

Lo stress: la principale causa dei sintomi

La persona che soffre di ansia per la salute tende a pensare che i sintomi che prova siano la manifestazione di una grave malattia. Secondo gli autori, invece, il primo passo per superare questo disturbo è quello di riconsiderare tali sintomi come il frutto di stress e stanchezza. Diventa quindi prioritario individuare i principali fattori stressanti che potrebbero generare tali reazioni corporee e successivamente si possono apprendere delle strategie di gestione dello stress, tra cui le tecniche di rilassamento, i training di respirazione, il problem solving e la gestione del tempo.

Il libro fornisce una lista di potenziali fattori stressanti per poter accedere più facilmente agli eventi che di fatto possono generare alterazioni a livello fisiologico. Tra i più comuni si rintracciano le difficoltà nel contesto familiare, i rapporti sociali, il lavoro, le finanze o i problemi interiori.
In seguito, vengono proposte le tecniche di gestione dello stress e come dovrebbero essere praticate settimana per settimana.

 

Gli errori cognitivi alla base dell’ansia per la salute: riconoscerli per liberarsene

Secondo gli autori, alla base dell’ansia per la salute vi sono delle errate interpretazioni delle sensazioni corporee esperite e dei falsi allarmi: sintomi di per sé innocui e abbastanza comuni vengono considerati espressione di una grave malattia.

Chi soffre di ansia per la salute, inoltre, tende a focalizzare costantemente la sua attenzione sul corpo e sulle sensazioni avvertite e ha la sensazione di percepire più sintomi o più dolore degli altri, proprio a causa di questo meccanismo cognitivo (attenzione selettiva). Tali sintomi tendono, inoltre, ad essere amplificati.

Prendere consapevolezza dei meccanismi cognitivi messi in atto è il primo passaggio per poter sostituire i propri pensieri disfunzionali e generanti ansia con altri più funzionali e adattivi. Tra gli errori cognitivi più frequenti si riscontrano: la generalizzazione (un sintomo viene considerato la prova di una grave malattia), il ragionamento emotivo (avvertire un sintomo equivale ad avere un grave problema di salute), il pensiero dicotomico tutto/nulla, lo sminuire il positivo, la catastrofizzazione e il pensiero magico.

Anche secondo Salkovskis e Warwick (1990) le caratteristiche principali dell’ansia per la salute sono le seguenti: preoccupazione eccessiva per la salute; patologia organica insufficiente per giustificare la preoccupazione; attenzione selettiva nei confronti dei cambiamenti corporei; interpretazione negativa dei sintomi; ricerca continua di rassicurazioni e continuo monitoraggio del proprio corpo.

Secondo Ruggiero e Sassaroli (2006), i costrutti cognitivi principali associati all’ansia per la salute consistono nel timore sproporzionato del danno (catastrofizzazione), intolleranza all’incertezza, timore legato alla valutazione di sé (il paziente ipocondriaco si percepisce come debole e incapace di affrontare i pericoli), il bisogno di controllo.

Una volta individuati tali meccanismi, è possibile liberarsene e sostituirli con pensieri più adattivi utilizzando delle strategie cognitive: ricercare le prove a favore e contro i propri pensieri disfunzionali; assumere il punto di vista di un’altra persona e chiedersi che cosa ci direbbe in tale situazione; valutare i costi dei propri pensieri e rinunciare al bisogno assoluto di controllo e di avere certezze.

 

I comportamenti tipici dell’ansia per la salute

Per gestire la propria ansia per la salute spesso si mettono in atto dei comportamenti che non fanno altro che aumentare il proprio stato ansiogeno. Tra i più frequenti vi sono: il controllare costantemente il proprio corpo per valutare la presenza di eventuali anomalie, il cercare informazioni su internet o libri, il richiedere continuamente visite mediche che, nonostante diano un esito negativo continuano ad essere programmate, il chiedere consigli e rassicurazioni ad amici e familiari, l’evitare situazioni che potrebbero generare una malattia.

Una volta individuati i comportamenti abitualmente messi in atto, è opportuno che essi vengano interrotti e sostituiti con altri più funzionali: innanzitutto, è opportuno limitare i continui monitoraggi del proprio corpo, non richiedere continuamente pareri ai familiari che potrebbero esasperarsi, interrompere il ciclo delle visite mediche, non cercare info su internet o libri in quanto questo potrebbe generare maggiore confusione a causa delle info talvolta contraddittorie o confuse, esporsi alle situazioni temute.

Rispetto a quest’ultimo punto gli autori evidenziano come in particolare gli ansiosi tendano ad evitare le situazioni che aumentano lo stato di ansia. Ad esempio chi soffre di ansia per la salute potrebbe non andare a trovare un amico in ospedale per il timore di contrarre una malattia o potrebbe non svolgere nessuna attività fisica per il timore di un infarto. Potrebbe essere, invece, molto utile aiutare gli ansiosi ad esporsi alle situazioni temute e nel caso dell’ansia per la salute si potrebbero proporre esercizi di esposizione enterocettiva (procurarsi le sensazioni corporee con degli esercizi) e situazionale (esporsi a situazioni in cui si teme di poter contrarre delle malattie).

 

Relazionarsi diversamente con i medici e i familiari

Chi soffre di ansia per la salute tende a recarsi frequentemente dal medico e a non essere soddisfatto del responso ricevuto. Queste continue visite possono rendere difficile il rapporto col proprio medico e potrebbe essere invece utile mettere in atto dei comportamenti differenti per non deteriorare il rapporto col medico e per non mettere in atto il comportamento ansiogeno di continua ricerca di rassicurazioni. Sarebbe ad esempio importante chiedersi se si ha davvero necessità di recarsi dal medico e se la risposta è affermativa è opportuno esporre in maniera chiara ciò che ci spinge a richiedere una visita, esplicitare che si hanno dei problemi di ansia per la salute e per questo si ringrazia il medico per l’attenzione e il tempo dedicati.

Per quanto riguarda il rapporto con i familiari, anch’esso può essere messo a dura prova dalla presenza di un familiare affetto da ansia per la salute. Generalmente le modalità con cui i familiari si rapportano con la persona in difficoltà sono di due tipi: o ci si mostra ipercoinvolti e si forniscono continuamente rassicurazioni oppure si è alquanto stressati e giudicanti. Entrambe le modalità risultano inadeguate, in quanto la prima aumenta la richiesta di rassicurazioni da parte dell’ansioso e l’altra aumenta il senso di colpa della persona con ansia per la salute.

 

Conclusioni

Il testo risulta di facile lettura e presenta numerosi esempi, trascritti e schede con esercizi da svolgere. È consigliato a chi soffre di ansia per la salute ma anche a chi svolge la professione di psicoterapeuta e intende utilizzare il libro come guida per la risoluzione del disturbo del paziente.

Il benessere psicologico di chi si sottopone ad un trapianto di cuore

Sopravvivere ad eventi cardiaci gravi, quale può essere considerato un trapianto di cuore, influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute della persona che ne è vittima (Razzini, C., et al. 2008; Kubzansky, L.D., et al. 2006; Shemesh, E., et al. 2004); generalmente la grave patologia cronica porta con sè vissuti di tipo ansioso-depressivo (Davidson, K.W., et al. 2010), ma anche una sintomatologia tipica del disturbo post traumatico da stress ( Mavros, N., et al. 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew, M. A., et al. 1996,1999, 2000, 2001).

Laura Grigis, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Trapianto di cuore: le fasi da percorrere e l’importanza del supporto psicologico

Il trapianto di organi è un intervento chirurgico che consiste nella sostituzione di un organo malato e quindi non più funzionante, con uno sano dello stesso tipo proveniente da un altro individuo che viene chiamato donatore. Si tratta di un intervento invasivo e molto delicato, non solo a livello medico ma anche per gli importanti risvolti psicologici.

Quanto più l’organo è investito di un significato simbolico, tante più fantasie psicologicamente rilevanti esso porta con sé, con ricadute sulla prognosi. Il cuore, fin dall’antichità, è stato così descritto: «il battito che da esso proviene, che ciascuno può percepire, segna l’inizio e la fine della vita, ne ha fatto il centro vitale dell’essere umano, ancora prima che al cuore venisse riconosciuto il ruolo di assicurare la circolazione del sangue» (Politi, P.L. 2002).

In Italia dal 2010 al 2015 sono stati eseguiti 1474 trapianti di cuore. Di tutti i pazienti in lista d’attesa, quelli per trapianto di cuore sono il 7.8% : il tempo medio in lista è di 2.8 anni, con una mortalità in lista del 7.2.

Perché un paziente cardiopatico venga inserito in lista d’attesa serve un’accurata valutazione della gravità della patologia, del rischio di vita e della non funzionalità di un diverso trattamento (farmacologico e/o chirurgico): la cardiomiopatia ischemica e la cardiomiopatia dilatativa costituiscono, attualmente, le più comuni indicazioni al trapianto. Il protocollo di inserimento in lista d’attesa prevede anche una valutazione psichiatrica con l’obiettivo di escludere l’esistenza di patologie psichiatriche che possano in qualche modo pregiudicare la collaborazione del paziente alle complesse e impegnative procedure post operatorie (Barale, F., Magnani, G., Politi, P.L. 1988).

Generalmente, vengono considerate controindicazioni assolute al trapianto: attuale dipendenza/abuso di droghe e alcol, schizofrenia in fase attiva, storia di numerosi tentativi di suicidio, attuale ideazione suicidaria e demenze (Skotzko, C.E., Stowe, J.A., Wright, C., et al. 2001). In queste situazioni emerge la complessità di aspetti psicologici, relazionali e sociali, aspetti tutti che nella condizione di vulnerabilità di malattia si evidenziano essenzialmente come bisogni (Lovera, G., et al. 2000). La sola considerazione dei bisogni fisiologici fondamentali e la salvaguardia della sopravvivenza biologica non sono più sufficienti: è questa, tipicamente, la condizione dei pazienti giunti ad una insufficienza terminale di organi vitali e sottoposti a trapianto d’organo, che vanno ad aumentare la categoria di quelli che la medicina ha definito survivors (Burke, C.M., et al. 1986) cioè dei pazienti che hanno ricevuto un intervento “salvifico” per la sopravvivenza organica e si trovano così a dover affrontare lo stress di insolite condizioni di vita.

Sopravvivere ad eventi cardiaci gravi, quale può essere considerato un trapianto di cuore, influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute della persona che ne è vittima (Razzini, C., et al. 2008; Kubzansky, L.D., et al. 2006; Shemesh, E., et al. 2004); generalmente la grave patologia cronica porta con sè vissuti di tipo ansioso-depressivo (Davidson, K.W., et al. 2010), ma anche una sintomatologia tipica del disturbo post traumatico da stress ( Mavros, N., et al. 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew, M. A., et al. 1996,1999, 2000, 2001).

Non intervenire adeguatamente su questi aspetti psicologici ed emotivi può compromettere le possibilità di recupero sia psicologico che fisico del paziente (Shemesh, E. et al. 2004; Frasure-Smith, N., Lespérance. F. 2008).
E’ possibile suddividere in più fasi il percorso che porta al trapianto di cuore: la prima fase è quella “pre-trapianto”, cioè il momento in cui viene comunicata la diagnosi al paziente e inizia l’attesa dell’organo; la seconda fase è quella “post-trapianto” a breve termine; la terza fase è relativa all’adattamento nel lungo periodo alle nuove condizioni di vita.

 

La fase pre – trapianto di cuore

Nel periodo pre-trapianto le difficoltà maggiori sono legate ai disturbi fisici della malattia cardiologica ingravescente, oltre al senso di incertezza e di minaccia per la vita, cambiamenti forzati nel lavoro e nell’ambito familiare e sociale. Questa condizione è complicata dalla permanenza in lista di attesa, con la duplice prospettiva di morte e di vita, e con l’ansia che l’organo non arrivi in tempo: questo viene descritto da molti pazienti come il periodo più stressante mai sperimentato (Christopherson, L.K. 1987). Inoltre l’attesa di un organo ed il desiderio di sopravvivenza causano spesso sentimenti di colpa, vissuti con sofferenza morale (Rupolo, G., Poznanski, C. 1999). Nei pazienti candidati al trapianto cardiaco il 53% presenta disturbi di ansia e il 34% sintomi depressivi (Jones, B.M., et al. 1988): l’ansia si manifesta con insonnia, preoccupazioni ipocondriache, manifestazioni di tipo fobico-ossessivo; la presenza, invece, di depressione, si traduce spesso con difficoltà cognitivo-affettive e generale restrizione dell’attività e/o con l’abbandono dei progetti da parte della persona, nei casi limite si arriva anche a manifestazioni deliranti e sindromi psicotiche (Ciurluini, P., Di Fonzo, C., Rongoni, S., Amicarelli, M. 2010).

In questa fase si sviluppano nel paziente sentimenti di sfiducia e sospetto, disperazione e rassegnazione; la prospettiva del trapianto viene vissuta con grande ambivalenza: se da un lato può suscitare sentimenti di speranza, dall’altro suscita sentimenti di profondo sconforto, se non di terrore, e tali momenti vengono spesso affrontati all’inizio con incredulità e con tentativi di negare la gravità della situazione. La precarietà e la fragilità delle condizioni cliniche impongono un notevole sforzo di adattamento e minano l’autostima e l’autonomia; il vissuto predominante è “la paura di non farcela in tempo” da cui scaturiscono ansia e paura. Non raramente inoltre in questa fase compaiono i primi sentimenti di colpa nei confronti del possibile donatore, cioè la consapevolezza che il reperimento di un organo compatibile richiede la morte di un’altra persona.

In un’ottica di prevenzione, considerato che numerosi studi hanno riconosciuto significative correlazioni tra aspetti psichici e psicosociali ed esiti post-trapianto (ansia, depressione, fattori psicosociali di rischio sono correlati con il numero di rigetti, di infezioni e di ricoveri e con una peggior qualità di vita nel post- trapianto di cuore) (Paris, W., et al. 1994) è necessaria in fase iniziale una valutazione psichiatrica (Chacko, R.C., et al. 1996) e un accurato assessment psicologico, ai quali seguirà uno specifico percorso di sostegno psicologico. Gli obiettivi di una assistenza psicologica nella fase pre-trapianto di cuore si fondano sul comune principio che una buona riabilitazione inizia prima dell’intervento chirurgico, non dopo.

E’ proprio per fronteggiare emozioni così forti in modo funzionale che si pone come necessario un intervento di sostegno psicologico e/o di psicoterapia in fase pre- trapianto: quando, dai colloqui e dall’esame psichiatrico, appaiono evidenti sintomi di ansia o depressione o turbe psicopatologiche, l’assistenza si orienta verso più decisi interventi terapeutici, di ordine sia psicoterapico (a livello individuale e/o familiare) sia psicofarmacologico.

Affiancano questo lavoro di preparazione psicologica gli interventi che hanno lo scopo di aumentare il grado di informazione e di consapevolezza del paziente (e dei familiari) sulla realtà clinica del trapianto di cuore, sulla sua portata e sul programma terapeutico successivo, e di accertarne le motivazioni, sia a livello cognitivo che emotivo.

 

La fase post-trapianto di cuore a breve termine

Nella fase post – trapianto di cuore a breve termine il paziente si trova ancora ricoverato in terapia intensiva, in condizione di precarietà fisica: la facile incidenza di momenti critici di scompenso psichico in questa fase richiede una pronta disponibilità di interventi di valutazione psichiatrica e di terapia psicofarmacologica, che sono di molto agevolati da una precedente conoscenza con il paziente.

La degenza in unità di terapia intensiva (UTI) con i postumi dello shock biologico e dello stress dell’intervento, il dolore, le condizioni di regressione e fragilità psichica, la perdita dei ritmi fisiologici, l’isolamento e la deprivazione sensoriale, rappresenta un periodo di forte sofferenza.

Dal 2°-3° giorno post-operatorio con notevole frequenza i pazienti soffrono di fenomeni psicopatologici, che possono esprimersi in quadri di ansia, irrequietezza, disorientamento, o più conclamati di delirium: stato confusionale, agitazione psicomotoria, allucinazioni, confabulazioni deliranti, affettività alterata. La frequenza di queste psicosi confusionali è indicata in percentuali molto variabili, che mediamente si collocano intorno al 20-40% (Mai, F.M. 1993; Speidel, H., Dahme, B., Flemming, B., et al. 1983; Craven, J.L., et al. 1990): vi contribuiscono non solo cause biologiche (metaboliche, chirurgiche, farmacologiche) ma anche aspetti psichici di fragilità personologica dei pazienti.

Generalmente, se non si presentano complicazioni post-operatorie, dopo circa una settimana il paziente trapiantato esce dall’UTI per essere seguito nel reparto di cardiologia; in questa fase l’assistenza psicologica assume una più incisiva azione psicoterapeutica:
– favorire la ripresa dell’autonomia e delle funzioni vitali (per esempio del sonno notturno)
– concedere spazio all’espressione delle emozioni e dei vissuti post-trapianto
– sostenere il paziente a livello emotivo e cognitivo durante le possibili complicazioni
– favorire comportamenti di accettazione e di compliance e più in generale stili di coping di tipo adattivo da parte del paziente, operando anche con interventi di mediazione tra medici e paziente (o familiari) per sostenere la comprensione reciproca e individuando strategie relazionali da concordare con i curanti (Lovera, G., et al. 2000).

In ogni caso, anche nelle degenze di più felice e rapido decorso, si considera importante un colloquio psicologico prima della dimissione con il paziente per valutarne l’equilibrio psichico e le capacità di riadattamento all’ambiente esterno e con i familiari perché siano sufficientemente preparati ad accoglierlo.

Nella fase immediatamente successiva all’intervento in alcuni pazienti si ha quella che alcuni autori definiscono “luna di miele” (Barale, F., Magnani, G., Politi, P.L. 1988), una sensazione transitoria di rinascita che può assumere le caratteristiche di uno stato di ipomaniacalità reattiva alla condizione di grave angoscia provata prima dell’intervento (Livi, U., Thiene, G., Casarotto, D. 1988); sentimenti di liberazione, di emotività intensa, talora di vera euforia, per essere sopravvissuti, fanno percepire l’evento del trapianto come una rinascita.

La fase della “luna di miele” non è però libera da cognizioni negative e sintomi disfunzionali al benessere psicologico del paziente: la paura del rigetto, delle complicazioni, del futuro, creano una condizione di incertezza esistenziale. Inoltre in questa fase sono particolarmente attivi pensieri e fantasie sulla persona del donatore, con sentimenti compositi di gratitudine e di colpa. Sono inoltre diffusamente presenti, nelle prime settimane del post-intervento, sintomi organici cerebrali, con deterioramento cognitivo (attenzione, concentrazione, memoria) che possono permanere, sfumati, anche a lungo (Mai, F.M. 1993; Craven, J.L., et al. 1990).

A distanza di un anno dal trapianto i dati rivelano un aumento significativo delle funzioni fisiche: l’83% dei sopravvissuti non ha alcuna limitazione funzionale, mentre il 10% dei pazienti afferma di aver bisogno di assistenza nelle attività quotidiane (Catania, C.G., et al. 2013).

La diagnosi di disturbi ansiosi e depressivi è più frequente durante il primo anno dopo il trapianto rispetto agli anni successivi, ed è più frequente rispetto al resto della popolazione e rispetto a un campione di soggetti affetti da altre patologie croniche; inoltre ansia e depressione (associate a fattori psicosociali di rischio) sono correlati con il numero di rigetti, di infezioni e di ricoveri e con una peggior qualità di vita nel post-trapianto (Paris, W., et al. 1994); il disturbo post-traumatico da stress correlato al trapianto, sebbene meno comune, è stato osservato nel 15% dei pazienti (Coffman, K.L., Crone, C. 2002); disturbi psichici e psicosociali risultano essere predittivi di scompensi psichici, di non compliance e di cattivo adattamento nel post-trapianto (Phip, L. 1997); la valutazione psichiatrica e la misura delle modalità di coping e del sostegno sociale sono fattori predittivi della mortalità nel post-trapianto (Chacko, R.C., et al. 1996) perciò diventa importante una assistenza psicologica in questa fase, non solo per l’aiuto attuale ai pazienti, ma anche per riconoscere fattori di rischio su cui operare preventivamente.

 

La fase post dimissioni dopo il trapianto di cuore

Nella fase che segue la dimissione, inizia la vera e propria riabilitazione del paziente alla vita familiare, sociale e lavorativa. L’assistenza psicologica può essere di diverse tipologie: interventi nelle situazioni di crisi, su richiesta dei medici curanti, o del paziente e dei familiari; terapia di gruppo (Hyler, B.I., Corley, M.C., MC Mahon, D. 1985)

La crescente consapevolezza della durata e complessità dei processi di adattamento che seguono al trapianto di cuore e delle difficoltà di reinserimento familiare e sociale, insieme con la necessità di capire meglio le conseguenze a lunga distanza del trapianto sulla qualità della vita dei pazienti, consigliano di preferire valutazioni dello stato di salute psicologica programmati, in genere a distanza di 3-6 mesi e poi di un anno (Lovera, G., et al. 2000), a cui far seguire se necessario interventi di sostegno e/o psicoterapia; la valutazione riguarderà la compliance alle cure, il funzionamento dal punto di vista emotivo, familiare, sociale e la percezione della qualità della vita.

Un importante studio tedesco del 1999 (Schlitt, H.J., et al. 1999) ha dimostrato che, diversamente dalle aspettative comuni, il trapianto d’organo sembra essere ben accettato psicologicamente dai pazienti: il 99% di loro consideravano infatti il nuovo organo come parte integrante del loro corpo, anche se con un’eterogeneità di atteggiamenti che oscillavano dalla totale alla parziale ma possibile integrazione. La completa integrazione del trapianto era associata ad un miglior stato di salute e un buon equilibrio mentale: difficile capire se l’atteggiamento mentale positivo abbia favorito le condizioni mediche, oppure se al contrario la gravità non eccessiva della patologia e dei sintomi organici abbia permesso l’utilizzo di strategie di “coping” efficaci nell’affrontare il trapianto; da questo studio (Schlitt, H.J., et al. 1999) emerge però una differenza significativa di migliore integrazione dell’organo tra le pazienti donne; inoltre, si è visto che la maggior parte dei pazienti si poneva domande riguardo l’organo estraneo soprattutto nella fase immediatamente postoperatoria, mentre pochissimi facevano riflessioni sul trapianto a lungo termine.

Con la dimissione i pazienti affrontano il ritorno al loro contesto familiare e sociale ed un periodo di adattamento alla vita di “trapiantato”, che generalmente si svolge nell’arco di sei mesi-un anno. Nonostante il miglioramento delle condizioni fisiche, rimane in letteratura la fondata evidenza di un malessere psicopatologico e psicosociale (Grady, K.L., Jalowiec, A., White-Williams, C. 1996). Con la dimissione i pazienti si sentono privati della protezione dell’ospedale e sperimentano sentimenti di abbandono e di insicurezza, mentre sono esposti all’ansia di un riadattamento al mondo esterno. Inoltre i pazienti trapiantati, dopo la dimissione e nell’incontro con la realtà successiva, sperimentano delusioni nelle aspettative di “guarigione”, che trasformano l’euforia del periodo post-operatorio in crisi emotive di ansia e di depressione, con la progressiva consapevolezza della propria incertezza esistenziale e della permanenza nella condizione “di malato”.

L’esperienza del trapianto costituisce una crisi psicosomatica (Chiesa, S. 1989) che impegna le risorse bio-psico-sociali dei pazienti, e dei familiari, nel processo di adattamento all’organo trapiantato. Ciononostante medici e familiari sollecitano, ed i pazienti fantasticano, il ritorno alla normalità. Per i medici l’obiettivo finale è l’immagine di un paziente in discreto equilibrio fisico-psichico e con buona compliance a terapie e controlli; per i familiari è spesso il desiderio di un ritorno alla vita “di prima”, cioè senza la presenza della malattia.

I pazienti invece incontrano numerosi fattori di ostacolo ad una normalizzazione dell’esistenza Lovera, G., et al. (2000) ad esempio:
– i postumi dello stress chirurgico (6 mesi-1 anno) che possono lasciare disturbi cognitivi e della cenestesi, insonnia e turbe emotive quali ansia e depressione, fino allo strutturarsi in un vero e proprio Disturbo post-traumatico;
– gli effetti collaterali delle terapie antirigetto (ciclosporine e cortisone);
– modificazioni dell’immagine corporea;
– ansia per i controlli periodici;
– paura, rabbia, angoscia e depressione legate alle possibili complicanze e agli episodi di rigetto;
– modificazioni nella quotidianità legate alle attenzioni specifiche che la persona trapiantata deve prestare a se stessa e al suo ambiente (nutrizione, infezioni, protocolli terapeutici).

A risentire della nuova condizione di vita, per quanto spesso migliore della precedente, sono anche la relazione di coppia (Bunzel, B., Laederach-Hofmann, K., Schubert, M.T. 1999) e la definizione dei ruoli all’interno della famiglia; la letteratura segnala un ritorno al lavoro a tempo pieno in percentuali medie intorno al 45% (Mai, F.M. 1993; Craven, J.L., et al. 1990; Notova, P., et al. 1997) che sono ben inferiori ai valori medi di recupero delle funzioni fisiche.

Un importante studio condotto, Padova (con la collaborazione di Dipartimento Trapianti e Clinica Psichiatrica Universitaria) tra il 1997 e il 1999 ha studiato la qualità della vita di 467 pazienti trapiantati (Lovera, G., et al. 2000). Con la definizione di qualità della vita (quality of life: QoL) si intende, secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità “la percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nei quali egli vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative, preoccupazioni”.

Questo studio conferma che il trapianto migliora la qualità della vita dei pazienti, ma con le seguenti precisazioni: nell’immediato post-trapianto il giudizio espresso è entusiastico non solo per il benessere riacquistato, ma soprattutto per il superamento del rischio di morte che, nell’esperienza del paziente, si traduce in un vissuto di “rinascita” e “liberazione”. La consapevolezza realistica del trapianto si verifica una volta trascorso il primo anno, all’emergere di complicanze e di difficoltà di adattamento alla vita quotidiana. Se il primo anno corrisponde dunque alla fase più critica da un punto di vista organico, il periodo successivo è il tempo della elaborazione psicologica e della crisi psico-somatica.

Nel post- trapianto di cuore, l’insorgenza di disturbi ansioso-depressivi potrebbe giocare un ruolo importante. È stata infatti dimostrata una correlazione tra sintomatologia depressiva e bassa percezione della QoL (Buendia, F., Almenar, L., Martinez- Dolz, L., et al. 2011). Il tasso di prevalenza dei disturbi depressivi nelle malattie cardiovascolari va da un 15% a un 25%. In più, il 30-45% dei pazienti affetti da patologie cardiovascolari soffre di sintomatologia depressiva che però non rientra nei criteri diagnostici del disturbo depressivo maggiore. Tali sintomi possono essere difficili da diagnosticare e si presentano con caratteristiche atipiche, come irritabilità, presenza di disturbi cognitivi, sentimenti di frustrazione, mal di testa, disturbi gastrointestinali, astenia, disturbi del sonno, riduzione dell’appetito e vaghi sintomi somatici (Catania, C.G., et al. 2013).

La depressione è un fattore di rischio per la morbilità e la mortalità in pazienti con malattie cardiovascolari. Poichè un umore depresso predice la QoL, e QoL e benessere psicologico sono correlati alla morbidità e mortalità dopo un trapianto, un trattamento effettivo della depressione potrebbe potenzialmente migliorare la QoL e prolungare la sopravvivenza dei pazienti sottoposti al trapianto di cuore.

L’intervento psicologico sui pazienti che sono stati sottoposti al trapianto si sviluppa quindi su due direzioni, seguendo un po’ quella che è la divisione delle fasi “di vita” pre e post intervento: in ottica preventiva, è importante l’assessment psicologico e l’intervento psicoterapeutico precedente all’intervento; in ottica di miglioramento della qualità della vita e di prevenzione di complicazioni post-trapianto sono importanti interventi di sostegno psicologico (anche alla famiglia) e di psicoterapia, volti alla risoluzione di sintomi e disturbi ansiosi, depressivi e alla gestione della reazione allo stress traumatico.

La sintomatologia ansiosa, depressiva e post-traumatica possono essere efficacemente gestite attraverso l’utilizzo della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale; in particolare la metodologia EMDR si è rivelata di successo sui pazienti sopravvissuti ad eventi cardiaci gravi (Arabia, E., Manca, M. L., Solomon, R. M. 2011) come il trapianto; inoltre i pazienti possono essere guidati in un processo di consapevolezza degli stati interni attraverso il biofeedback e l’analisi delle variabili fisiologiche fino all’acquisizione della capacità di autoregolazione delle stesse.

Un nuovo modello per prevedere attentati terroristici con un accuratezza del 90%

I ricercatori della Binghamton University (State University of New York) sostengono di avere sviluppato un nuovo modello esplicativo che sarebbe in grado di prevedere attentati terroristici futuri con elevate percentuali di accuratezza, riconoscendo schemi d’azione attuati in attacchi passati.

 

Le agenzie governative non possono sempre utilizzare social media e mezzi di comunicazione per scoprire le intenzioni dei terroristi dal momento che oggigiorno i terroristi sono molto più prudenti nell’utilizzo di queste tecnologie per pianificare e prepararsi per un attacco.

I ricercatori della Binghamton University (State University of New York) sostengono di avere sviluppato un nuovo modello esplicativo che sarebbe in grado di prevedere attentati terroristici futuri con elevate percentuali di accuratezza, riconoscendo schemi d’azione attuati in attacchi passati.

I ricercatori hanno proposto questo nuovo modello di comprensione che potrebbe placare anche l’ansia e la paura delle masse verso il possibile verificarsi di attacchi terroristici: il Networked Pattern Recognition (NEPAR) Framework, un modello finalizzato a comprendere comportamenti, analizzare schemi d’azione e connessioni nell’ attività terroristica, predire future mosse terroristiche ed eventualmente prevedere attentati terroristici futuri.

 

Prevedere attentati terroristici: come è stato sviluppato il NEPAR Framework

Utilizzando dati ricavati da più di 150mila attacchi terroristici avvenuti tra il 1970 e il 2015, Salih Tutun, dottorando alla Binghamton University, ha sviluppato questo modello in grado di calcolare le connessioni tra determinate caratteristiche degli attacchi terroristici (ad esempio: ora dell’attacco, tipologia dell’arma, etc.) e specifiche azioni terroristiche.

Mohammad Khasawneh, professore e direttore del dipartimento di Scienze Sistemiche e Ingegneria Industriale alla Binghamton, ha assistito la ricerca. Il metodo proposto era in grado di prevedere attentati terroristici con successo,: esso infatti, nel corso dello studio, ha predetto la maggior parte delle caratteristiche degli attacchi terroristici già avvenuti con un accuratezza superiore al 90%.

In seguito, dopo aver costruito il network di connessioni, i ricercatori propongono un approccio in grado di prevedere attentati terroristici con maggior accuratezza e identificare l’estensione degli attacchi (90% di accuratezza), gli attacchi multipli (96% di accuratezza) e gli obiettivi dei terroristi (92% di accuratezza). Pertanto, i governi potranno controllare i comportamenti terroristici per ridurre il rischio di attacchi futuri.

 

Le novità introdotte dal NEPAR Framework per prevedere attentati terroristici

Studi precedenti si erano focalizzati sul comprendere il comportamento individuale dei terroristi (come singole persone) piuttosto che studiare i differenti attacchi terroristici creando un modello sistemico e più complesso; l’attività di individuazione terroristica si è sempre focalizzata su un incidente specifico, in modo individuale, non tenendo in considerazione così le dinamiche di interazione tra i diversi attacchi.

Tutun ritiene che i policy-maker possano usare questi approcci per tentare di comprendere e individuare con un buon margine di tempo l’ attività terroristica, rendendosi così capaci di prendere precauzioni contro attacchi futuri.

Quando risolvi il problema a Baghdad, tu risolvi il problema in Iraq. Quando risolvi il problema in Iraq, risolvi il problema in Medio Oriente. E quando risolvi il problema in Medio Oriente, risolvi il problema nel mondo – ha detto Tutun – Perchè quando guardi a ciò che succede in Irag, gli stessi schemi stanno verificandosi negli USA.

 

Intervista a Matthieu Villatte: Relational Frame Theory e terapie di terza generazione

In attesa di Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione, I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, abbiamo incontrato Matthieu Villatte uno dei professionisti internazionali esperti in materia di Relational Frame Theory.

Michele Pennelli

 

Dal 22 al 24 Marzo saremo a Milano per seguire il convegno Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione. Sarà il I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione. Il convegno è organizzato da ACT Italia e IESCUM con il patrocinio della IULM, ospiterà diversi professionisti Internazionali, molti afferenti all’ ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

In anteprima, abbiamo incontrato uno di loro: Matthieu Villatte, che ha tenuto un interessantissimo workshop ad Ancona dal 16 al 18 Marzo ed organizzato dall’ SPC (Scuola di Psicologia Cognitiva).

Matthieu Villatte è psicologo, trainer e autore, ha lavorato presso l’University of Louisiana e l’Evidence-Based Practice Institute of Seattle; si occupa di RFT (Relational Frame Theory) ed ha pubblicato, nel 2015, Mastering the Clinical Conversation Language as Intervention, un importantissimo libro sulle possibili applicazioni cliniche di una delle teorie più complesse e apprezzate degli ultimi anni, la Relational Frame Theory per l’appunto, un approccio post skinneriano allo studio della cognizione e del linguaggio.

 

Alla scoperta della Relational Frame Theory: intervista a Matthieu Villatte

 

Intervistatore: Ci puoi dire come dalla Francia e dal tessuto culturale della psicoanalisi francese tu sei arrivato alla Relational Frame Theory?

Matthieu Villatte: Beh, in effetti, è veramente sorprendente, so bene che in Francia, nel tessuto culturale francese, c’è una dominanza della psicoanalisi, ma sono stato fortunato, perché nell’ Università che ho frequentato c’era anche una buona parte di analisi comportamentale e pur essendo la maggior parte dei corsi di psicoanalisi, c’era anche molto comportamentismo.

La mia mente razionale era più interessata ad un approccio scientifico e mi attraeva il comportamentismo. Sono arrivato, poi, alla Relational Frame Theory perché ho iniziato a studiare la teoria della mente, ma da una prospettiva comportamentista. E’, comunque, da rilevare che allora pochi comportamentisti conoscevano la Relational Frame Theory.

 

Intervistatore: Il modello della Relational Frame Theory è un approccio post skinneriano allo studio della cognizione e del linguaggio ed è un modello molto complesso, tu, con il tuo libro, hai cercato di restituire a questo modello di laboratorio, un approccio clinico, ci puoi spiegare come ci sei riuscito? E da dove è nato questo bisogno?

Matthieu Villatte: All’inizio, per me, la Relational Frame Theory e l’ACT erano collegate perché così venivano presentate nei libri, ma il collegamento tra le due non mi era chiaro, perché da un lato vedevo la teoria e dall’ altro l’applicazione pratica. In realtà il mio vero interesse per l’ACT è nato perché essa era incorporata nella Relational Frame Theory. Molti terapeuti arrivano alla Relational Frame Theory perché praticano l’ACT, ma io ho fatto il percorso inverso, infatti, nella prima formazione che ho fatto volevo che il collegamento tra la Relational Frame Theory e l’ACT fosse ben chiaro, soprattutto perché volevo che la Relational Frame Theory fosse più facilmente riferibile al suo modello applicativo, ossia, l’ ACT.

Il percorso di chiarificazione del passaggio dalla Relational Frame Theory ad ACT è stato ed è molto complesso, perché si tratta di capire cosa nella pratica clinica è veramente essenziale trasportare dalla Relational Frame Theory. In questo passaggio ho ritrovato due tipi di rischi: da una parte, individuare le cose importanti per l’applicazione clinica di un modello teorico ampio e complesso, dall’ altra non semplificare troppo, correndo il rischio di perdere la ricchezza della Relational Frame Theory come modello esplicativo della cognizione e del linguaggio. Il libro Mastering the Clinical Conversation: Language as Intervention è stato il risultato di un confronto continuo con i clinici, incontrati nelle diverse formazioni tenute. Infatti, abbiamo costruito il libro parallelamente alle formazioni, tanto è vero che, la prima stesura del libro è stata molto differente rispetto alla seconda che è stata adattata rispetto a ciò che ritenevamo, via via, utile.

 

Intervistatore: Mi è capitato di confrontarmi con diversi BCBA (Board Certified Behavior Analyst) ed ho notato che c’è molta difficoltà a parlare di Relational Frame Theory, come ho notato molta difficoltà in alcuni terapeuti della seconda onda ad accettare i cambiamenti teorici che le terapie di terza onda stanno portando in questo periodo nel panorama della psicoterapia cognitiva comportamentale, tu cosa ne pensi di questo dibattito?

Matthieu Villatte: Io penso che la Relational Frame Theory possa essere un buon ponte tra la psicologia cognitiva e la psicologia comportamentale, però, si può correre il rischio che entrambi gli approcci possano creare delle resistenze a questo incontro. E’ molto importante capire come e su quali basi possa essere costruito questo ponte, da un lato la psicologia cognitva può sostenere che alcuni aspetti siano troppo comportamentali, viceversa, la psicologia Skinneriana può sostenere che la Relational Frame Theory sia troppo cognitiva.

Il ponte potrebbe essere il contesto, dove è possibile inserire le cognizioni ed il comportamento, ma il dibattito rimane aperto ed è importante non chiudersi alle nuove scoperte, ma sempre dialogare per un accrescimento comune.

 

Intervistatore: L’anno scorso, sempre ad Ancona, abbiamo incontrato Niklas Törneke (autore del libro Learning RFT: An Introduction to Relational Frame Theory and Its Clinical Application) e ci disse che il regalo che la Relational Frame Theory /ACT aveva fatto alla comunità psicologica era il concetto di fusione e defusione, sei d’accordo con lui e qual è secondo tela peculiarità della Relational Frame Theory?

Matthieu Villatte: Sono pienamente d’accordo con Niklas, perché ritengo che probabilmente il concetto defusione cognitiva sia il concetto chiave nell’ ACT, insieme a quello di augmenting sui valori, se si mettono insieme questi concetti si ha veramente tutto. Il concetto di fusione e defusione cognitiva e il lavoro funzionale sui valori può essere forse la chiave per costruire il ponte di cui parlavamo prima, tra la psicologia cognitiva e quella comportamentale.

Fusione e defusione, infatti, permettono di riconoscere come il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento e come l’approccio contestuale possa alterare il comportamento. Se dovessi definire la peculiarità della Relational Frame Theory, direi che essa ritiene che il linguaggio sia un comportamento come gli altri, ma allo stesso tempo non sia un comportamento come gli altri: può essere studiato come un prodotto del contesto, ma è un comportamento con delle caratteristiche diverse da altri comportamenti.

 

Intervistatore: La settimana prossima sarai a Milano al primo congresso 3 G in Italia, cosa ti aspetti?

Matthieu Villatte: Sono molto entusiasta di partecipare al convegno 3 G, perché la comunità italiana è una delle comunità più attive e più prominenti nella ACBS (Association for Contextual Behavioral Science), il nostro attuale presidente è Nanni Presti, primo presidente eletto non di lingua anglosassone. Quindi, ritengo che la comunità italiana abbia molto contribuito alla ricerca radicata in quella che è l’analisi comportamentale. E’ stato fatto in Italia un grosso lavoro anche di traduzione dei contributi internazionali sull’ ACT e la Relational Frame Theory.

Moltissimi formatori dell’ ACBS sono venuti negli anni in Italia, come per esempio Niklas Törneke, ed hanno fatto sì che l’Italia sia diventata un luogo importante per la nostra società.

 

Intervistatore: Grazie per la tua disponibilità Matthieu!

Matthieu Villatte: Prego, ci vediamo a Milano!!

 

Si ringrazia la Dott.ssa Laura Coverlizza per la traduzione, il Dott.Emanuele Rossi e la Scuola di Ancona dell’Spc per la disponibilità dimostrata.

 

Forse non sarà domani – Luigi Tenco e il suicidio di protesta

Da quanto ho potuto intuire dalle interviste e dalle canzoni, Luigi Tenco aveva un carattere idealista e coerente e per certi aspetti molto rigido sulle proprie posizioni, qualità che sicuramente non erano molto adattative all’ambiente dello spettacolo. 

 

Quest’anno decorre il cinquantesimo anniversario dalla morte del cantautore Luigi Tenco, morto suicida il 27 gennaio 1967 nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di San Remo, dove si trovava per partecipare al celeberrimo Festival musicale. Negli ultimi mesi sono stato coinvolto dal giornalista e sociologo Mario Campanella nella realizzazione di un libro su questo importante personaggio della musica e della cultura italiana, uscito proprio il 27 gennaio scorso per l’editore Arcana.

Nel libro, mentre Mario ha dato voce ad un Io narrante immaginario, che in qualche modo ha tentato di “rivitalizzare” Luigi Tenco, il mio compito è stato quello di tracciarne un profilo psicologico, partendo dalla sua biografia e dalle sue canzoni.

E’ stato un viaggio molto interessante nell’universo di un uomo complesso, a tratti controverso e contraddittorio, la cui opera artistica continua ad essere ricordata e reinterpretata, generazione dopo generazione. La sua uscita di scena così clamorosa, che una parte del mondo dello spettacolo tentò allora di ignorare o sminuire, ha continuato a rivivere e ad essere ricordata dal Club Tenco, una organizzazione di artisti e giornalisti che ha avuto in questi anni la finalità di valorizzare e tutelare la canzone d’autore italiana.

 

Luigi Tenco, il suicidio di protesta contro la giuria del Festival

Alcuni studiosi hanno addirittura visto nel suo suicidio una sorta “trauma sociale” che avrebbe contribuito alla nascita della stessa canzone d’autore in Italia. Nel congedarsi dal mondo terreno, Luigi Tenco ha lasciato infatti un famoso biglietto (chiamato in termini tecnici “nota suicidiaria”), in cui lanciò un pesante j’accuse contro la giuria del Festival, colpevole di aver escluso il suo brano Ciao amore, ciao  e di avere premiato brani ben più frivoli e meno impegnati, facendo rientrare così il suo gesto nei cosiddetti “suicidi di protesta”, che non hanno solitamente alle spalle una problematica psichiatrica come la depressione o altri disturbi, ma rappresentano il sacrificio estremo per un’idea o un’ingiustizia subita.

 

Analisi psicologica di Luigi Tenco: cosa raccontano di lui le sue canzoni?

Nonostante il titolo non particolarmente pregnante, Ciao amore, ciao è una canzone di Luigi Tenco impegnata sull’immigrazione, forse non una delle più memorabili del cantautore, ma sicuramente più innovativa di tante altre. A differenza di quello che alcuni hanno cercato di sottolineare per tentare di discolpare il modo della musica, Luigi Tenco non pareva affatto una persona che stesse vivendo un periodo di depressione, ma era anzi pieno di interessi e di progetti, con una fervida vita sociale, con tanti amici ed amori.

Molti testi di Luigi Tenco sono sicuramente venati da una certa malinconia, che a tratti diventa lucida disillusione (“Un giorno dopo l’altro…qualcuno anche questa sera, torna deluso a casa piano piano”), che ricorda per certi versi l’organizzazione di significato personale depressiva di guidaniana memoria.

Da quanto ho potuto intuire dalle interviste e dalle canzoni, Luigi Tenco aveva un carattere idealista, coerente e per certi aspetti molto rigido sulle proprie posizioni, qualità che sicuramente non erano molto adattative all’ambiente dello spettacolo. Quando diceva “la canzone è un fatto troppo importante nella vita di un uomo” ci credeva davvero e mostrava un rispetto quasi religioso per il prodotto artistico e per il pubblico. E’ probabile dunque che la fisiologica ferita narcisistica per l’eliminazione del proprio brano dalla competizione sia stata vissuta in modo molto amplificato dal cantautore.

Nelle dichiarazioni e nelle canzoni di Luigi Tenco si trovano inoltre diversi esempi di quel pensiero dicotomico, tutto o nulla, che non lascia spazio alla mediazione e che è spesso uno dei target della psicoterapia cognitiva. Diceva l’artista in un ‘intervista “Io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza, cioè con certe mie convinzioni…è una protesta che nasce al di fuori della propria volontà”. Anche nei testi di alcuni brani, come la splendida canzone Cara Maestra, troviamo tracce di questa attitudine alla coerenza estrema (in questo caso anche di preoccupante presagio), che letta con gli occhi del nostro mondo liquido fa quasi sorridere “Egregio sindaco, m’hanno detto che un giorno tu gridavi alla gente: Vincere o morire! Ora vorrei sapere come mai vinto non hai eppure non sei morto, e al posto tuo è morta tanta gente che non voleva né vincere né morire…”.

Il tragico evento della morte del cantautore può essere stato dunque favorito da un particolare assetto caratteriale, su cui ha inciso un forte evento stressante, con il fattore precipitante della polintossicazione, che rappresenta come è noto un importante fattore di rischio negli eventi suicidari (pare accertato che quella notte Luigi Tenco abusò di alcolici e del barbiturico Pronox).

Come riporta il suicidologo Maurizio Pompili intervistato per il libro:

Il caso di Luigi Tenco ci insegna che il rischio di suicidio era intriso nella sua personalità. Le emozioni negative lacerenti che provocano una sofferenza che supera la soglia di sopportazione specifica per ogni individuo, possono esporre l’individuo al suicidio. Essere privati di qualcosa ritenuto vitale ossia come scopo di vita, e come motivo di realizzazione, può, in certi casi dove sussiste una vulnerabilità condurre l’individuo al desiderio di morire.

Di seguito è riportata l’introduzione alla mia parte del libro, con una sorta di lettera al cantautore.

Caro Luigi,

ci sono ricascato, ma questa volta non è stata del tutto colpa mia. E’ stato un giornalista appassionato di musica e psichiatria (un po’ come me) a chiedermi una specie di consulenza sul tuo caso. Mario Campanella è riuscito a convincermi (non c’è voluto poi così tanto in realtà) a ficcare il mio naso di psichiatra nella tua storia, alla ricerca di riflessioni psicodinamiche, forse qualche diagnosi, un profilo psicologico, insomma qualcosa di psichiatricamente rilevante. Chi considera solo il modo in cui ci hai lasciato, in effetti sarebbe portato a pensare che verosimilmente eri depresso, forse disperato, magari impazzito, come altro si potrebbe giudicare un bellissimo uomo di ventinove anni, che fa il cantante e partecipa alla manifestazione musicale più nota in Italia, quindi sulla strada della consacrazione, pieno di amici, di interessi e di talenti, che decide di spararsi dopo una piccola-grande delusione? Molti dicono che noi psichiatri siamo interessati solo a cercare quello che non va, il difetto mentale, il deficit, l’anomalia, il conflitto. Un po’ è vero, ma nel tuo caso, a differenza di altri tuoi colleghi, mica ho trovato un gran che nella tua breve storia! D’accordo non ti ho conosciuto di persona, ma in questi cinquant’anni la tua vita e la tua opera è stata davvero passata al microscopio dagli studiosi e dagli appassionati.

Il gesto del suicidio non può essere confinato nel recinto del dibattito psichiatrico, perché può avere note implicazioni filosofiche, esistenziali, religiose (per chi ci crede) e ideologiche. Uno psichiatra può essere interpellato per tentare di capire se dietro al gesto estremo possa celarsi un disturbo psichiatrico, un dolore silenzioso magari non riconosciuto che abbia come conseguenza il gesto anticonservativo, o se il movente vada cercato altrove. Quello che ho cercato di fare, usando come nell’altro libro scritto per Arcana (Psicorock, storie di menti fuori controllo del 2016) uno stile e un atteggiamento più scientifico possibile, è stato allora di ripercorrere la tua vita, interrotta in modo così brusco dal tuo suicidio, per cercare di capire come il tuo carattere e le tue esperienze di vita, al di fuori della patologia, possano averti portato a compiere una scelta così clamorosa.

Mi sono così imbattuto nella tua spiazzante disillusione, nella tua tristezza apparentemente consapevole, nel tuo dipingere la noia del vivere quotidiano, nel tuo raccontare l’amore in modo non idealizzato, nel tuo carattere intransigente, nella tua fragilità. Sei stato sicuramente più di un cantante, per certi aspetti forse anche un filosofo, con la tua poetica a tratti così vicina al nichilismo, che colpisce davvero in un ragazzo poco più che ventenne. La tua profondità di sguardo e il tuo atteggiamento disincantato mi portano ad associare la tua figura ad altri grandissimi personaggi che hanno dato un contributo fondamentale al pensiero occidentale come Giacomo Leopardi o Arthur Schopenhauer.

Avere trascorso alcuni mesi insieme alle tue canzoni, alle tue parole, alle testimonianze dei tuoi amici è stata per me un’esperienza emozionante e interessantissima, direi unica e ti ringrazio per questo privilegio. Come cantautore poi non potevo non amare alcune tue canzoni-faro come “Vedrai, vedrai”, “Cara maestra”, “Mi sono innamorato di te” e tante altre. Aver avuto l’occasione di approfondire la tua discografia mi ha portato a scoprire molte altre perle, ma soprattutto mi ha aiutato a comprendere meglio la tua dedizione alla causa della canzone (che forse portata all’accesso è stato anche quello che ha contribuito a portarti via), facendomi capire la tua importanza nella storia della cultura italiana.  Mi metto dunque in fila dietro l’esercito di studiosi, musicisti, scrittori, semplici appassionati che ti hanno ricordato in questi anni, con il mio modesto contributo.

Grazie per tutto,

Gaspare.

Luigi Tenco: Vedrai Vedrai (1965)

 

Attenzione, bias attentivi e disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità 

Pazienti con disturbo borderline di personalità sono caratterizzati da ipervigilanza e bias attentivi per stimoli negativi, le teorie cognitive assumono che tali bias dell’ attenzione non siano un semplice prodotto del disturbo ma che abbiano un ruolo chiave nel mantenimento e nel concorrere a causare questi problemi, innescando un circolo vizioso che fa precipitare in uno stato di ansia intensa che appare fuori controllo e senza fine.

Luana Lazzerini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Processi cognitivi e disregolazione emotiva nel Disturbo borderline di personalità

La disregolazione emotiva è spesso descritta come la caratteristica centrale del disturbo borderline di personalità (BPD) e viene concettualizzata come una combinazione di vulnerabilità emotiva ed incapacità a modulare le risposte emotive.

Persone con disturbo borderline di personalità hanno una tendenza biologicamente determinata a sperimentare emozioni negative che possono essere facilmente attivate, intense e di lunga durata. Questo temperamento emotivamente vulnerabile interagisce con un ambiente invalidante e/o traumatico che favorisce lo sviluppo di adulti con intenso dolore emotivo e con poche competenze per la gestione dello stesso (Linehan, 1993; Zanarini & Frankenburg, 2007). La vulnerabilità emotiva è caratterizzata da un’elevata sensibilità a stimoli emotivi e da reazioni insolitamente forti che sono rallentate nel ritorno allo stato basale.

Gran parte dei comportamenti disfunzionali e impulsivi caratteristici del disturbo borderline di personalità sono tentativi disadattivi volti a ridurre o evitare stati negativi intensi (Chapman et al.,  2006). Rabbia, ansia, vergogna e depressione sono emozioni comunemente elevate nel disturbo borderline di personalità (Rush et al., 2007).

Una vasta letteratura teorica ed empirica mette in evidenza come i problemi emozionali siano fortemente associati ad una serie di processi cognitivi disadattivi che favoriscono l’elaborazione di informazioni con significato e valenza emozionale negativa (Wilson et al., 2007).

Ad oggi ci sono numerosi studi che dimostrano come i processi cognitivi disadattivi spesso possano anche precedere l’insorgenza dello stress emotivo e possono svolgere un ruolo rilevante sia nel mantenimento che nello sviluppo di disturbi emotivi (Alloy L.B. & Riskind, 2006; Mathews & MacLeod, 2005).

La maggior parte degli studi che indagano la relazione tra processi cognitivi e problemi emozionali si sono focalizzati su singoli disturbi e perlopiù in asse I. Tuttavia, le importanti analogie nei processi cognitivi tra i vari disturbi hanno portato ad un aumento di riconoscimento del valore di una prospettiva transdiagnostica. Molti processi cognitivi, tra cui l’attenzione selettiva e la memoria, o stili di ragionamento disadattivo quali la ruminazione e la soppressione di pensiero, sono legati in modo trasversale a numerosi disturbi emotivi contribuendo alla loro insorgenza ed al loro mantenimento (Harvey et al., 2004; Baer R.A. et al., 2012).

La centralità del disturbo emotivo nel disturbo borderline di personalità suggerisce che tali processi possano contribuire in modo rilevante alle disfunzioni caratteristiche del disturbo borderline di personalità e quindi al suo sviluppo e mantenimento (Arntz et al., 2005).

In generale, il modello cognitivo ipotizza che i pazienti con disturbo borderline di personalità elaborino le informazioni attraverso uno specifico insieme di tre credenze fondamentali (schemi di stessi e degli altri): “Io sono impotente e vulnerabile”, “Io sono indegno, inaccettabile”, “Gli Altri sono pericolosi e cattivi”. Avendo bisogno di sostegno in un mondo pericoloso ma non fidandosi degli altri, chi soffre di disturbo borderline di personalità mostra un costante stato di ipervigilanza. In condizione di ipervigilanza informazioni specifiche relative allo schema sono altamente prioritarie e difficili da inibire; questo porta a dei bias nelle fasi iniziali di elaborazione delle informazioni, come l’attenzione selettiva.

 

L’ attenzione selettiva nel disturbo borderline di personalità

L’attenzione selettiva è stata ampiamente studiata in vari disturbi, e si è dimostrata avere un ruolo cruciale nell’eziologia e nel mantenimento in particolare dell’ansia patologica (Mathews, 1997). Nel disturbo borderline di personalità, tuttavia, i bias attentivi non sono stati presi adeguatamente in considerazione da parte dei ricercatori.

La scarsità di studi sull’ attenzione selettiva è in contrasto con il riconoscimento dell’ansia come un aspetto significativo del disturbo borderline di personalità, con la relazione tra disturbo borderline di personalità e traumi infantili e con la relativa alta comorbilità del disturbo borderline di personalità sia con disturbi d’ansia che con disturbi di personalità del cluster ansioso (Zanarini et al., 1998). Pazienti con disturbo borderline di personalità hanno difficoltà a controllare la loro attenzione che può essere focalizzata sul passato, sul futuro, o sul dolore attuale piuttosto che sul compito corrente (Linehan 1993).

 

Bias attentivi nel disturbo borderline di personalità: i paradigmi sperimentali e le ricerche

Negli studi empirici il bias attentivo viene valutato considerando le prestazioni al Test di Stroop o su compiti di sonda visivi (Visual Dot Probe Task). Entrambi i metodi richiedono ai partecipanti di svolgere un compito attentivo centralizzato il più rapidamente possibile, ignorando distrattori emotivi.

Nel compito emotivo Stroop gli intervistati vedono parole neutre ed emotivamente rilevanti in scritte con inchiostro di diversi colori e viene chiesto di nominare il colore dell’inchiostro il più rapidamente possibile. Persone con problemi emotivi in ​​genere sono più lente a nominare il colore di parole emotive rispetto a parole neutre (Mathews & MacLeod, 1985), presumibilmente a causa di  una polarizzazione dell’ attenzione sul significato delle parole emotivamente rilevanti che interferisce con l’esecuzione del compito.

Alcuni studi utilizzano una procedura subliminale, in cui ogni parola è presentata molto brevemente ed è seguita immediatamente da altre lettere dello stesso colore. Anche quando i partecipanti non possono identificare la parola, il tempo di latenza per citare il colore è più lungo per parole legate a contenuto emotivo piuttosto che per le parole neutre (MacLeod & Hagan, 1992). La procedura subliminale cattura meglio il processo attentivo automatico, mentre i tempi di presentazione più lungo possono valutare un processo più controllato (Mathews, 1997).

Nelle attività con sonda visiva, i partecipanti vedono brevemente due parole (una emotiva e una neutra) sullo schermo del computer. Le parole poi scompaiono e appare un punto nello spazio che prima era occupato da una delle due parole. Il partecipante deve premere un tasto il più velocemente possibile dopo aver rilevato il punto.

Persone con bias attentivo dovrebbero essere più veloci ad individuare i punti che appaiono nello spazio appena occupato dalla parola emotiva mentre, quando il bias non c’è i tempi di risposta dovrebbero essere equivalenti per i punti che compaiono nelle due posizioni (Harvey et al., 2004).

In entrambi questi test si possono utilizzare immagini al posto delle parole.

Alcuni studi sperimentali hanno mostrato una polarizzazione dell’attenzione per stimoli negativi nei pazienti con disturbo borderline di personalità  (Arntz et al., 2000). Questi si sono dimostrati più lenti rispetto ai controlli sani e ad altri gruppi clinici nel nominare il colore di parole connotate emotivamente in senso negativo in modo specifico per parole legate ai temi tipici del disturbo borderline di personalità  (indegno, vulnerabile, inaccettabile), suggerendo una polarizzazione dell’attenzione coerente con i temi cognitivi caratteristici del disturbo (Sieswerda et al., 2006).

Tale effetto è stato riscontrato anche quando il Test di Stroop veniva modificato includendo parole individualizzate per ogni partecipante che rappresentavano eventi negativi personali. I pazienti con disturbo borderline di personalità hanno mostrato tempi di risposta significativamente più lenti rispetto ai controlli sani per le parole che rappresentano quest’ultima categoria (Wingenfeld et al. 2009).

Uno studio con pazienti adolescenti ha riscontrato un’interazione tra stato d’animo corrente e ipervigilanza a stimoli emotivi negativi. Il bias attenzionale verso stimoli emotivi negativi è stato riscontrato quando i pazienti con disturbo borderline di personalità  si trovavano in uno stato d’animo negativo. Quando i pazienti erano in uno stato d’animo positivo, tendevano invece all’evitamento di stimoli emotivi negativi. I gruppi di controllo hanno mostrato un modello inverso. Questo può indicare che i risultati non rappresentano un comune, effetto non specifico che dipende dall’umore corrente, ma piuttosto una specificità del disturbo borderline di personalità. (Ceumern-Lindenstjerna I.-A. et al. 2010).

Uno studio in un campione non clinico che ha utilizzato un Visual Dot Probe con immagini di volti minacciosi, piacevoli o neutre ha evidenziato come i partecipanti con caratteristiche di personalità più simili al disturbo borderline di personalità hanno una tendenza a rilevare stimoli minacciosi velocemente per poi spostare l’ attenzione lontano da essi. (Berenson et al. 2009). Studi prospettici indicano che l’ attenzione selettiva legata a stimoli di minaccia predice una maggiore difficoltà di fronteggiamento di eventi stressanti (MacLeod & Hagan, 1992). Inoltre, è stato dimostrato che i partecipanti possono essere addestrati a sviluppare un bias attentivo verso stimoli negativi determinando così una maggiore difficoltà durante lo svolgimento successivo di attività stressanti come risolvere anagrammi difficili (MacLeod et al., 2002).

 

Attenzione, bias attentivi e disturbo borderline di personalità: conclusioni

Pazienti con disturbo borderline di personalità sono caratterizzati da ipervigilanza e bias attentivi per stimoli negativi. Le teorie cognitive assumono che tali bias non siano un semplice prodotto del disturbo ma che abbiano un ruolo chiave nel mantenimento e nel concorrere a causare questi problemi, innescando un circolo vizioso che fa precipitare in uno stato di ansia intensa che appare fuori controllo e senza fine.

Il legame tra attenzione selettiva e disturbo borderline di personalità è stato dimostrato in diversi studi, che indicano un substrato comune tra la patologia borderline, disturbi affettivi, disturbi d’ansia, disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e anche da prove di deficit neuropsicologici in pazienti con disturbo borderline di personalità (Portella et al., 2011; Domes et al., 2006; Arntz et al., 2000).

Non è stata segnalata nessuna evidenza di bias attentivi per stimoli presentati in forma subliminale, il che suggerisce che la polarizzazione dell’ attenzione in questi pazienti può essere un processo controllato, piuttosto che automatico.

La capacità di controllare l’ attenzione in corrispondenza di stimoli emotivi è fondamentale per facilitare la regolazione emotiva. Sono stati delineati 5 passaggi fondamentali nel processo di regolazione emotiva: la selezione della situazione, la modifica della situazione, la  distribuzione dell’ attenzione, il cambiamento cognitivo, e la modulazione della risposta (Ceumern-Lindenstjerna I.-A. et al., 2010). Imparare a distribuire l’ attenzione implica la capacità di adattarla al fine di modificare le emozioni in una data situazione.

Linehan (1993) sostiene che i pazienti con disturbo borderline di personalità mostrano problemi di disingaggio dell’ attenzione da stimoli emotivi a causa del loro deficit nella regolazione emotiva e che ogni persona molto attivata emotivamente mostra un deficit nel controllo dell’ attenzione, sottolineando quindi l’impatto delle oscillazioni marcate dello stato emotivo sul controllo attentivo.

Alcuni studi hanno però dimostrato la presenza di un’associazione causale tra i bias attentivi e la vulnerabilità emotiva che può influire in modo importante nella capacità di regolazione emotiva (MacLeod et al., 2002). La presenza di una difficoltà nella capacità di discriminare rapidamente tra espressioni facciali negative e neutre sotto pressione temporale dimostra una polarizzazione dell’ attenzione verso stimoli negativi che aiuta a comprendere le difficoltà e le incomprensioni dei pazienti con disturbo borderline di personalità nelle interazioni sociali, in cui sono richieste risposte particolarmente veloci ai fini della capacità adattiva (Dyck et al., 2009).

Inoltre, alcuni autori (Ceumern-Lindenstjerna I.-A. et al., 2010) sostengono che la modalità con cui vengono elaborate le informazioni negative nei pazienti con disturbo borderline di personalità possa variare a seconda dello stato d’animo del momento, ovvero che quando l’umore è negativo ci sia un bias verso stimoli negativi, mentre quando lo stato d’animo è positivo si verifichi il processo inverso. Il bias attentivo verso stimoli negativi può aggravare l’umore già negativo facilitando la disregolazione e causando deficit di inibizione. Invece, l’evitamento di espressioni facciali negative in uno stato d’animo positivo può favorire interazioni sociali disfunzionali alterando il riconoscimento di importanti stimoli emozionali e favorendo in modo indiretto una successiva disregolazione. Studi condotti su adolescenti mettono in evidenza che il deficit di elaborazione delle informazioni esiste già nelle prime fasi di sviluppo del disturbo borderline di personalità.

Per incrementare le capacità terapeutiche può essere rilevante prendere in considerazione sia gli effetti dell’umore corrente nel bias attentivi sia approfondire la conoscenza circa le relazioni tra bias attentivi, disturbo borderline di personalità, e le disfunzioni sottostanti nei sistemi neurali coinvolti nell’elaborazione di stimoli emotivi negativi.

In generale anomalie nei processi attentivi aiutano a mantenere la patologia borderline. Questo offre spunti per nuove possibilità terapeutiche. Interventi che hanno lo scopo di influenzare i processi attentivi potrebbero rappresentare un utile complemento alle terapie già stabilite nei pazienti con disturbo borderline di personalità. Una possibilità sarebbe quella di utilizzare tecniche per modificare o controllare i processi attentivi, come ad esempio training per la riqualificazione dell’ attenzione che insegnano ai pazienti a contrastare l’ attenzione verso stimoli negativi adottando uno stile attentivo evitante verso gli stessi.

Se venisse confermata l’associazione tra stato d’animo attuale e bias attentivo dovrebbero essere svolti addestramenti diversi da praticare in situazioni di umore positivo o negativo. In particolare si dovrebbe stimolare l’evitamento in condizioni di umore negativo mentre, quando lo stato d’animo è positivo, i pazienti dovrebbero essere istruiti a prestare attenzione a spunti emotivi negativi nell’ambiente sociale (Ceumenrn-Lindenstjerna I.-A. et al., 2010). Attraverso questi interventi diversificati i pazienti potrebbero migliorare la loro capacità di regolazione emotiva in contesti sociali.

Nel complesso interventi terapeutici che si focalizzano sulle anomalie dei processi attentivi potrebbero essere utilizzati in modo complementare ad altri approcci terapeutici (DBT-cognitivo-trauma) contribuendo a migliorare il funzionamento sociale e la capacità di regolazione emotiva in pazienti con disturbo borderline di personalità (Ceumenrn-Lindenstjerna I.-A. et al., 2002).

Risulta necessario estendere le competenze teoriche relative alla comprensione del ruolo dei bias attentivi nello sviluppo della sintomatologia clinica e valutare la concreta efficacia di training attentivi in vista della possibile apertura a nuove prospettive terapeutiche.

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