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L’uso del gioco nella lotta contro la depressione 

I videogiochi risultano essere una modalità facilmente implementabile ed efficace nel trattamento dei disturbi mentali, depressione compresa. È possibile incrementare ulteriormente tale efficacia? L’utilizzo di videogiochi e di applicazioni di “brain training” viene sempre più promosso e pubblicizzato come modalità di trattamento efficace nella cura della depressione.

 

I videogiochi contro la depressione

Recentemente, un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’Università della California ha anche messo in luce come l’esposizione a specifici messaggi prima dell’accesso a videogiochi appositamente sviluppati per il trattamento dei sintomi depressivi possa favorirne l’utilizzo e promuoverne ulteriormente l’efficacia.

Per quanto fin dagli anni ’80 si sia parlato, all’interno della comunità scientifica, della possibilità di sfruttare l’utilizzo dei computer come piattaforma ludica a fini terapeutici (ad es. Larose et al., 1989), spesso i videogiochi sono stati studiati in ottica sia di rischio per la salute fisica e psicologica sia di minaccia per lo sviluppo di dipendenze.

Da qualche anno, però, mettendo in luce gli aspetti positivi di una terapia “tecnologica”, sta diventando via via più frequente l’utilizzo dei videogiochi come possibilità di trattamento per patologie sia fisiche sia psicologiche (Griffiths, 2004; Griffiths, 2003). I videogiochi, infatti, possono essere visti come un allenamento intensivo di diverse abilità, che può portare anche a miglioramenti strutturali a livello cerebrale. Sembrerebbe, ad esempio, che giocare per almeno 30 minuti al giorno per un paio di mesi possa portare ad un incremento neuronale in aree quali ippocampo, corteccia prefrontale dorsolaterale e cervelletto, coinvolte in diversi processi cognitivi (ad es. memoria, pianificazione strategica, controllo motorio) e danneggiate in caso di disturbi mentali quali schizofrenia, disturbo post-traumatico da stress, patologie neurodegenerative e anche disturbi dell’umore (Kühn et al., 2014).

Diversi sono infatti gli studi attualmente presenti in letteratura che attestano l’efficacia di interventi tramite videogiochi per diverse patologie (ad es. per la depressione si veda la metanalisi di Li et al., 2014).

 

Come prevenire il drop-out e motivare all’utilizzo dei videogiochi con finalità terapeutiche

Nonostante le evidenze sull’efficacia, però, ancora poco si è detto su come poter incrementare il coinvolgimento delle persone nell’utilizzo di queste applicazioni ludico-terapeutiche. Molto alti sono infatti i tassi di drop-out e di non aderenza al trattamento (Doherty et al., 2012)

Secondo Khan & Peña, autori della recente ricerca, grazie all’utilizzo di messaggi di avviso persuasivi ed accuratamente progettati, è possibile far sì che i videogiochi per la salute mentale vengano percepiti ed utilizzati come una modalità di cura valida e sostenibile, aumentando così la compliance al trattamento e mettendo da parte possibili riserve circa la sua efficacia.

Per poter dimostrare ciò, gli autori hanno coinvolto un totale di 160 studenti universitari americani, con un’età media di 21 anni, ai quali hanno chiesto di completare un breve questionario sulla depressione (PHQ-9; Kroenke & Spitzer, 2002) per poter stabilire il livello di patologia prima del trattamento. Più della metà dei partecipanti si è posizionata nelle categorie “depressione minima” e “depressione lieve”.

I messaggi di avviso, così come i successivi videogiochi, sono stati messi a punto in modo da riguardare la depressione. I messaggi, invece che limitarsi ad essere dei meri reminder per invitare a svolgere il compito, si differenziavano tra loro per il grado di attenzione posta sui fattori di rischio e il livello di agency. Poteva, ad esempio, venir data maggiore enfasi ai fattori interni, considerando il disturbo come causato, ad esempio, da squilibri chimici o fattori ereditari, o, al contrario, ai fattori esterni, evidenziando il ruolo di variabili situazionali quali il lavoro o le relazioni. Nonostante le differenze di approccio iniziale, tutti i messaggi, in ogni caso, si concludevano con una frase volta a motivare i partecipanti ad usufruire del videogioco: “Così come accade per l’allenamento fisico, la maggior parte dei benefici che è possibile ottenere grazie a questi compiti deriva dall’utilizzarli in modo continuativo e senza interruzioni e ponendo in essi il massimo impegno possibile”.

All’interno dello studio, gli autori hanno utilizzato sei diversi videogiochi, da tre minuti ciascuno, implementati a partire da altrettanti compiti neurofisiologici (Simon task, go/no go emotivo, face Stroop emotivo e flanker task), che erano già stati efficacemente utilizzati per migliorare il controllo cognitivo in persone affette da depressione (Millner et al., 2012). Per controllo cognitivo si intende quell’abilità di esercitare un certo grado di controllo sui propri pensieri e comportamenti e su dove dirigere l’attenzione al fine di riuscire ad ottenere un obiettivo ed effettivamente anche Khan & Peña hanno potuto rilevare come l’utilizzo di tali videogiochi, specificatamente adattati per la depressione e calibrati in modo da andare a lavorare su diverse componenti del controllo cognitivo (ad es. gestione del conflitto e risoluzione dell’interferenza), riuscisse ad aiutare la maggior parte dei partecipanti a sentire di poter in qualche modo controllare la malattia.

Inoltre, il descrivere la depressione come un qualcosa causato internamente da fattori geneticamente predeterminati, ma evidenziando anche l’esistenza di applicazioni e videogiochi per allenare, e in qualche modo modificare, il cervello, aiutava i partecipanti a sentirsi in grado di poter fare qualcosa per assumere il controllo della propria depressione, facendo sì che percepissero il gioco come altamente fruibile e che riportassero di volerlo utilizzare maggiormente.

D’altra parte, il descrivere, per mezzo di messaggi più esternalizzanti, la depressione come causata da fattori altri da sé, portava i partecipanti ad utilizzare il videogioco per più tempo, ottenendo anche punteggi migliori, forse sempre per una questione di maggiore percezione di controllo della situazione. È infatti possibile che, percependo se stessi come impotenti, i partecipanti avessero la tendenza a reagire d’impulso e passare più tempo giocando, forse nella speranza di ottenere un qualche aiuto dall’esterno. Questo tipo di reazione, però, in quanto nata dall’urgenza di sentimenti di incapacità ed inettitudine, è improbabile che possa apportare dei benefici anche sul lungo termine; al contrario, facendo leva sulla causalità interna, è possibile aumentare la percezione di fruibilità ed utilità dell’applicazione e, di conseguenza, l’intenzione di utilizzarla, andando a modificare la frequenza di utilizzo non immediatamente, ma sul lungo periodo e, idealmente, anche in modo più stabile.

Nonostante i risultati promettenti circa l’utilizzo di messaggi di avviso prima del training vero e proprio, al fine di incrementare l’uso di tali applicazioni, all’interno dello studio non è stato effettivamente valutato se ad un maggior utilizzo dei videogiochi possa corrispondere anche una più ingente diminuzione dei sintomi depressivi (gli autori affermano di voler valutare ciò in studi successivi). Inoltre, come anche affermato dagli autori, dal momento che la maggior parte dei soggetti partecipanti presentava punteggi di depressione molto bassi, sarebbe interessante valutare se tale incremento di utilizzo delle applicazioni, qualora si dimostrasse efficace nel ridurre gli indici di depressione, possa essere significativamente rilevabile anche in caso di patologia clinicamente significativa.

Continuando la presente linea di indagine, gli autori stanno testando la fruibilità a livello terapeutico di un’applicazione per telefono cellulare che ne permetta l’utilizzo in modo ancora più significativo e senza dover necessariamente disporre di un computer.

In conclusione, è possibile affermare che applicazioni e videogiochi di questo genere rappresentano il futuro dei trattamenti nell’ambito della salute mentale, da affiancare, ad esempio, ad una psicoterapia per massimizzarne l’efficacia o, magari, in ottica preventiva, riuscendo sperabilmente a coinvolgere in modo più consistente anche quella fascia di popolazione composta da adolescenti e giovani adulti che, per quanto risulti essere più a rischio di altre per lo sviluppo di patologie mentali, è restia a ricercare un aiuto di tipo professionale (Hunt & Eisenberg, 2010), ma si trova estremamente a proprio agio con tutto ciò che riguarda la tecnologia.

La psicoterapia della Gestalt nel postmodernismo

Dal punto di vista clinico la consapevolezza per la psicoterapia della Gestalt è il principale strumento terapeutico. La consapevolezza è l’abilità di concentrarsi su ciò che esiste ed è attuale nel presente, ovvero l’essere in contatto con la propria esistenza.

Roberto Minotti, Iolanda Gaudiosi

 

La Psicoterapia della Gestalt e l’importanza di esprimere le emozioni represse

La Psicoterapia della Gestalt, come ogni altro modello teorico, è la risposta ad un’ urgenza che emerge da un contesto socio-culturale ben determinato.

Nel 1951, in un periodo in cui il modernismo, come atteggiamento di progressivo affrancamento dal passato e dai valori ritenuti obsoleti, rappresenta il pensiero dominante, la Psicoterapia della Gestalt con la “Teoria e pratica della Terapia della Gestalt” pubblica il suo testo fondamentale.

È un periodo in cui la creatività e il desiderio di ritrovare la propria soggettività, per troppi anni eclissata, riemerge prepotentemente dallo sfondo, e il paradigma gestaltico sembra poter dare voce ad emozioni come la rabbia e l’aggressività. Rimangono storici i seminari a Big Sur, in California, presso l’Esalen Institute; in cui l’esperienza, l’espressione delle emozioni più represse, la presa di consapevolezza e l’autoaffermazione divennero i nuovi imperativi categorici.

Il cittadino della seconda metà del XX secolo riscopre la propria autonomia, la responsabilità verso la propria libertà, comprendendo che per accrescere la propria personalità, sia necessario un rapporto dinamico con l’ambiente. L’individuo e i suoi desideri trovano un pieno soddisfacimento in un contesto storico che sembra finalmente in grado di esaudire tale volontà. Alla fine degli anni ’60 le nuove generazioni si liberano dai legami culturali, mettendo in crisi tutto il sistema normativo e politico. È l’alba dell’era della comunicazione in tempo reale e dell’interconnessione tra popoli e, al contempo, il tramonto del modernismo. Sono i personal computer, i mass-media e l’avvento di Internet, a trasformare la persona in soggetto individuale, rivoluzionando completamente tutto: i confini fisici, lo spazio e il tempo, e poi quelli psicologici si riducono sempre di più, fino a fondersi, sancendo l’epoca della percezione globale. Si parla di prossimità a distanza, di passioni tristi e, paradossalmente, in un periodo in cui tutto confluisce verso un’unica forma amalgamandosi e omologandosi, il ground si sgretola.

I centri di gravità permanente attorno ai quali i valori e i saperi convergevano realizzando la cultura e la storia, lentamente svaniscono; ogni sito, ogni portale o social network diviene un possibile palco da cui affacciarsi per osservare αγορά individuali, da cui esprimere valori e pensieri in solitudine.

Nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; che caratterizzano questa società non come una società più “trasparente”, più consapevole di sé, più “illuminata”, ma come una società più complessa, persino caotica e, infine, che proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione”. Gianni Vattimo confermando la visione multipolare dell’individuo post moderno in una società complessificata, ci dà nuove coordinate per comprendere l’evoluzione culturale per i prossimi decenni. Se la frammentazione dello sfondo collettivo determina uno spaesamento e nuovi malesseri, lo stesso caos può certamente rappresentare una risorsa, se letto con una diversa consapevolezza. Resta da chiederci se un modello teorico come quello gestaltico possa calarsi completamente in una realtà che in qualche modo contraddice la sua stessa definizione, la buona forma, o se tale paradosso non costituisca già un elemento di auto e di meta analisi.

Già porsi la domanda se effettivamente l’instabilità si debba considerare una difficoltà e la frammentazione un disagio, vuol dire situarsi in un’ottica che tenga conto della complessità del contesto dell’individuo attuale, accettando di poggiarsi su di un ground mutevole, sbaragliando il campo da ogni euristica o introietto, per giungere ad una comprensione più autentica dei vissuti che ci riferiscono i nostri pazienti. La relazione terapeutica è un viaggio che si fa in due, ed è impensabile credere che sulla stessa barca in cui l’uno soffre il rollio, l’altro si senta stabile come sulla terra ferma.

La Psicoterapia della Gestalt, attraverso i concetti come: adattamento creativo, multipolarità del sé, continuum di consapevolezza e ascolto empatico, è certamente in grado di accogliere concretamente la dimensione fluida dell’uomo post-moderno e delle sue forme di contatto istantanee e apparentemente disconnesse.

 

Psicoterapia della Gestalt: la fenomenologia dell’intenzionalità e la relazione dialogica

Dal punto di vista clinico la consapevolezza per la psicoterapia della Gestalt è il principale strumento terapeutico. La consapevolezza è l’abilità di concentrarsi su ciò che esiste ed è attuale nel presente, ovvero l’essere in contatto con la propria esistenza. Ai nostri pazienti chiediamo di esprimere ciò di cui sono consapevoli in quel momento. Hedmund Husserl ha definito tale “momento” di contatto come la “datità” del mondo, in cui lasciamo che il fenomeno riempia il nostro orizzonte di conoscenza. In questo modo, il paziente impara in modo graduale che ciò di cui è consapevole, rappresenta ciò che realmente esiste per lui. Non c’è una realtà giusta o sbagliata. Ciò che è, è.

Fritz Perls propone il concetto di consapevolezza universale come ipotesi utile che si oppone al trattare noi stessi come oggetti o cose. Noi siamo consapevolezza piuttosto che avere consapevolezza. La consapevolezza, la coscienza e l’eccitazione sono esperienze sicchè hanno tra loro un legame molto forte e rappresentano le dimensioni che vorremmo evidenziare in questo lavoro. Con l’ipotesi di una consapevolezza universale, una coscienza unificatrice, ci disponiamo a considerare noi stessi in modo vitale in una presentificazione sempre aggiornata, nell’hic et nunc, e non a teorizzare intorno ad una mente, su concetti astratti come un Io, un Super-Io e così via (Perls, 1976). Alla luce di questi assunti metodologici, al terapeuta della Gestalt è richiesto uno “sforzo” in più da compiere nel processo terapeutico, quello di essere presente principalmente a se stessi, in un dasein riflessivo e descrittivo, partendo sempre dalle proprie sensazioni e propriocezioni.

Senza dubbio esiste fra terapeuta e paziente una relazione asimmetrica e che il potere trasformativo della psicoterapia si fonda proprio sulle caratteristiche specifiche di questa asimmetria, ma ciò non deve impedire alla relazione di costituirsi autenticamente senza pregiudicare il processo di co-creazione dell’ altra. E’ grazie ad esso, che la persona che chiede aiuto si trova di fronte un professionista in grado di regolare il proprio modo di entrare in relazione, sapendo indietreggiare con la propria persona e avanzare con la propria presenza, modulandosi con i bisogni del paziente, al fine di creare le condizioni più utili per elaborare le modalità e i contenuti condivisi.

La dinamica figura-sfondo, l’autoregolarsi organismico in un’omeostasi costante, costituisce il campo psicologico e la gestalt in cui l’esperienza terapeutica si realizza. È il criterio estetico della relazione ad orientare sia il terapeuta, che il paziente verso un medesimo sentire ed un ascolto comune. La questione delicata è, quindi, definire questa asimmetria nel modello gestaltico. Solo negli ultimi decenni si è affermata, in ambito psicologico, una concezione del setting come di un campo bipersonale e si è prodotta una descrizione del dialogo clinico che identifica un andamento a spirale. Si è arrivati a considerare i due componenti la coppia terapeutica, come contemporaneamente coinvolti nell’attualità dello stesso processo.

Ciò significa che il comportamento dei due protagonisti non può essere compreso senza prendere, contemporaneamente, in considerazione quello dell’altro. In questo bifrontismo, il campo psicologico si energizza, regolando i livelli di eccitazione di entrambi, in un rapporto dinamico. Si è progressivamente affermata la concezione secondo la quale il dialogo clinico può essere descritto da un andamento a spirale, costituito da sequenze di interazioni comunicative fra loro concatenate, che si susseguono nel tempo e che, progressivamente, ampliano e approfondiscono i contenuti sui quali paziente e psicoterapeuta dialogano.

E’ la singola interazione a orientare quanto accade successivamente, divenendo, quindi, l’unità di analisi dell’intero processo. In questa prospettiva, le comunicazioni del paziente non sono più considerate soltanto espressione di un mondo interno di significati, e le attribuzioni sullo psicoterapeuta come esito di una dinamica transferale, ma degli adattamenti creativi prodotti dall’incontro tra due persone in relazione.

La fenomenologia che ne emerge non è più una datità individuale, ma qualcosa che si crea con la responsabilità di entrambi. Potremmo parlare di polifenomenologia; sia il malessere che l’adattamento creativo (concetto caro alla gestalt classica) non può più essere considerato come espressione individuale, ma sempre e costantemente come universo relazionale. Ciò che accade nel colloquio è qualcosa che prende forma soltanto nel presente, dai significati soggettivamente attribuiti all’andamento delle diverse sequenze, spontaneamente e in modo imprevedibile.

Sequenze che avvengono, naturalmente, all’interno di un contesto specifico. La fenomenologia della relazione secondo la psicoterapia della Gestalt ci testimonia che, nonostante l’asimmetria dei ruoli, un’influenza si verifica in entrambe le direzioni e accompagna l’intervento di entrambi. Questa diversa concezione dello scambio comunicativo porta necessariamente a ripensare le funzioni dello psicoterapeuta. Egli, ora, è dentro la relazione in modo più pieno e consapevole, gli viene riconosciuta un’assertività e un’influenza che non possono più permettergli processi di deresponsabilizzazione rispetto a quanto accade, sia rispetto alle caratteristiche del materiale che emerge, che alla qualità del rapporto, fino ai possibili momenti di regressione e peggioramento sintomatologico del paziente. Il primo strumento terapeutico è, perciò, egli stesso. Nella ricerca di contatto con l’altro, nel continuum di consapevolezza, l’osservazione fenomenologica e l’intenzionalità del terapeuta devono partire, necessariamente, da un auto processo di esplorazione, se si vuole sbaragliare il campo da possibili confluenze e introietti iniziali. Osservando l’altro, consapevolmente o inconsapevolmente, qualcosa ci accade, qualcosa ci cade addosso (Waldenfels B. , 2011).

È il pathos “sentito”, che ci svela che qualcosa, in quell’hic et nunc, è accaduto. Sarà poi la consapevolezza del terapeuta, frutto dell’intenso lavoro fatto principalmente su se stesso, a tradurre, in un tempo sempre più breve, quella sensazione che emerge da uno sfondo indistinto, in una figura emotiva (Borgna E.,2015). Senza una tale “coscienza”, lo iato tra pathos e risposta, creerebbe una frattura incolmabile nella relazione terapeutica. Nella psicoterapia della Gestalt la discriminazione da parte del terapeuta tra gli “introietti” evidenti che impediscono un sentire autentico, da quelli che esprimono un vissuto chiaro, sono parte nucleare e fondante della reazione con il paziente; tale momento ci introduce il concetto di neutralità, costruito dall’intendere un’obiettività certa e garantita, con l’idea di creare un posto al paziente dentro di sé, non confondendosi con lui.

Tale distanza ci riconduce al concetto di estraneo introdotto dalla fenomenologia contemporanea. Infatti, “fino a quando ci ostiniamo a trattare l’estraneo come un “qualcosa” o un “qualcuno” d’ordine direttamente accessibile e definibile, che ci sta là di fronte senza troppi problemi, lo mancheremo fin dall’inizio. Il mantenere questa separatezza, implica la capacità da parte del terapeuta di conservare la lucidità di fronte alle intuizioni che suscita il mondo interno del paziente, attraverso meccanismi, quali per esempio la proiezione; nella stessa misura, non si dovrebbe misconoscere la possibilità d’influenzare con il proprio modo di sentire ed essere, e con i propri comportamenti, l’altro che è davanti a noi. Questa modalità di considerare il processo comunicativo porta ad una maggiore umiltà da parte del terapeuta, che non assume più una posizione di privilegio, con una pseudo inviolabilità nell’interazione con il paziente, ma che convalida eticamente le sue precise competenze, tra cui, la capacità di imparare dalle risposte del paziente. Questa consapevolezza è l’humus su cui trarranno sostegno e nutrimento le radici di entrambi, il campo psicologico ed esistenziale in grado di far sviluppare, ogni volta e in una gestalt sempre rinnovata, la relazione terapeutica.

La psicoterapia ha basi solide: lo dice la Scienza

Ad oggi, ancora per molti, la Psicologia e la Psicoterapia sono un tabù e di frequente riecheggia un interrogativo:“Cosa farà mai uno strizzacervelli più di un caffè con un buon amico? Ma la psicoterapia è utile?

 

La Psicoterapia risulta indicata per i trattamenti di stati ansiosi, stati depressivi, disturbi di personalità, difficoltà relazionali, forme di disagio emotivo e psicologico di differente gravità. Studi scientifici evidenziano miglioramenti sui sintomi, sulle capacità psicologiche e di auto-rappresentazione, sulla regolazione emotiva, sul funzionamento dell’individuo (Buchheim et al., 2012; Beutel et al., 2010).

 

La psicoterapia ri-attiva

All’interno del setting terapeutico un atteggiamento autentico, flessibile ed accogliente del terapeuta favorisce la costituzione dell’ Alleanza Terapeutica rendendo possibile il lavoro di ricostruzione e risignificazione della storia di vita del soggetto:

La psicoterapia, in tutte le sue incarnazioni, riguarda la riattivazione della mentalizzazione.(…) La mentalizzazione può solamente essere acquisita nel contesto di una relazione d’attaccamento. E questo significa che la terapia deve incorporare una base sicura. Non ci può essere legame senza comprensione, anche se la comprensione non è possibile senza un legame (Fonagy et al., 2005).

Il terapeuta non riflette in modo esatto gli stati mentali del paziente ma fornisce risposte empatiche congruenti che gli permettono di trovare se stesso e nel contempo favoriscono l’attività riflessiva (Gallese et al., 2006).

Accolta e compresa nella sua soggettività, la persona riattiva dunque il processo delle esperienze emotivo-affettive, partecipando in modo attivo al processo di cura per poter sperimentare e assimilare comportamenti più maturi e funzionali.

L’ampliamento e l’integrazione della narrazione di sé all’interno di un percorso terapeutico, consente di operare sulle memorie implicite affinché non intralcino costantemente nella vita quotidiana. In tal modo il soggetto comincia a pensare che l’esperienza attuale potrebbe concludersi in modo diverso rispetto a quella passata.

I clienti sono parte attiva ed integrale di un processo collaborativo in cui l’obiettivo è osservare, capire e ripensare insieme i loro problemi, tanto più profondi erano gli effetti su di loro (Finn, 2009).

 

Siamo ciò che pensiamo e facciamo

Il cervello è un organo sorprendente in rigenerazione continua, proprio come un muscolo se poco utilizzato, si può ridurre la sua energia ed adattabilità.

Allenare quotidianamente la mente, consente di mantenere un certa flessibilità emotiva, sviluppare la creatività ed organizzarsi più adeguatamente ad affrontare nuove sfide. A qualsiasi età, ugualmente in età adulta, imparare una nuova lingua o uno strumento musicale può potenziare la capacità di fronteggiare il cambiamento e le avversità (Li et al., 2014).

Tale condizione è sostenuta dalla Neurogenesi, dalla possibilità del cervello di formare nuove cellule cerebrali. I neuroni sono continuamente generati da cellule staminali in alcune regioni del cervello per tutto l’arco di vita nella maggior parte dei mammiferi. La trasmissione di segnali elettrochimici nell’intero cervello, permette la formazione di percorsi neurali necessari per la trasmissione delle informazioni. Una volta creatisi tali percorsi, i neuroni utilizzeranno le medesime vie, assimilando informazioni ed abitudini sempre più profondi nel cervello.

Tra i fattori neurotrofici, particolare interesse è stato rivolto al Brain Derived Neurotrophic Factor (BDNF) una proteina cruciale per la sopravvivenza dei neuroni già esistenti, la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni e sinapsi, operando su precisi neuroni del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico. Si riscontra in alcune aree cerebrali (Corteccia Prefrontale, Ippocampo) collegate ai processi di apprendimento e della memoria (Adlaf et al., 2017; Temprana et al., 2015; Ernst et al., 2014).

 

Allenare il cervello: la Psicoterapia

La Neurogenesi è il risultato del fare esperienza, qualsiasi variazione nei processi psicologici e cognitivi apporta modificazioni nelle funzioni e nelle strutture del cervello stesso. Le condizioni favorevoli allo sviluppo di nuove cellule cerebrali nel cervello dell’adulto possono essere molteplici: l’apprendimento, l’ arricchimento ambientale, il movimento aerobico, la psicoterapia, il trattamento cronico con antidepressivi, l’esplorazione di nuovi oggetti, le interazioni sociali. Un terzo dei neuroni nell’ Ippocampo si rinnovano per tutta la vita di un individuo favorendo la possibilità di acquisire nuovi abitudini e modi di pensare ( Sahay  et al., 2011).

La Psicoterapia in quanto forma di apprendimento, promuove gli effetti neuroplastici, stimola la crescita neurale fornendo le basi per  un cambiamento durevole. Precisamente, in seguito ad un trattamento psicoterapeutico viene stimolata la neurogenesi ippocampale, la regolazione epigenetica dell’espressione genica ed un  maggiore controllo corticale prefrontale di attività del sistema limbico (Gorman, 2016; Yasuhisa Tamura et al., 2016; Malberg  & Duman,  2003).

È scientificamente dimostrato, inoltre, che in seguito ad un percorso di cambiamento mediante un percorso di psicoterapia possano essere riparati a livello molecolare i danni a carico del DNA derivanti da stress traumatico (Morath et al., 2014). Un ulteriore studio condotto dai ricercatori dell’Università di Zurigo mostra, mediante l’utilizzo della risonanza magnetica, la correlazione fra il successo del trattamento del disturbo d’ansia e le alterazioni cerebrali anatomiche coinvolte nella regolazione emotiva (Steiger et al., 2016).

Le scelte quotidiane possono essere influenzate dall’esperienze vissute o dallo stato emotivo del momento, inducendo a modalità familiari e confortevoli ma spesso fin troppo rigide e inflessibili. Mettere in connessione diverse aree del cervello favorisce un certo grado di flessibilità emotiva e di consapevolezza di sé, per affrontare al meglio le vicissitudini della vita. In fondo anche Einstein affermava:

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.

GUARDA IL VIDEO SUL POTERE DELL’EMPATIA:

https://www.youtube.com/watch?v=e5Mt9FlThAY

Il Personality Assessment Inventory (PAI): una valida alternativa all’MMPI-2

Il Personality Assessment Inventory (PAI) valuta la personalità e la psicopatologia della persona. La logica dietro il suo sviluppo era quella di creare uno strumento di valutazione che misurava aree rilevanti per la diagnosi e la pianificazione del trattamento.

 

Il Personality Assessment Inventory (PAI), pubblicato in Italia nel 2016, valuta la personalità e la psicopatologia della persona. Il Personality Assessment Inventory (PAI) è un questionario self report pubblicato da Leslie Morey (1991, 2007).

La logica dietro lo sviluppo del Personality Assessment Inventory era quello di creare uno strumento di valutazione che permettesse di misurare alcuni concetti psicologici, mantenendo la forza statistica, sviluppando così, uno strumento di valutazione per misurare aree rilevanti per la diagnosi e la pianificazione del trattamento.

Gli autori, hanno esaminato cinque area valutate dal Personality Assessment Inventory:

  1. Validità delle risposte;
  2. Sintomi clinici;
  3. Stili interpersonali;
  4. Complicanze per il trattamento;
  5. Ulteriori indici supplementari per valutare aspetti dell’attendibilità e validità del test

Su queste cinque aree, è stato costruito il Personality Assessment Inventory, utilizzando due tipi di validità, quella di contenuto, che ha permesso che ogni scala avesse un campione equilibrato di elementi che rappresentavano quel costrutto (es. la scala di depressione ha elementi di contenuto emozionale, cognitivo e fisico) e che ogni scala valutasse anche la gravità del contenuto: per esempio la scala ideazione suicidaria ha elementi che vanno da idee vaghe di suicidio ai piani distinti per autolesionismo.

La validità discriminante, ha consentito che ogni scala fosse distinta dall’altra.

 

La struttura del Personality Assessment Inventory

Il Personality Assessment Inventory è un efficace questionario di personalità  ateorico, pensato per l’età adulta (dai 18 anni in poi) e può essere agevolmente somministrato e compreso, per la sua brevità (45′ per la somministrazione) ed esaustività diagnostica, anche da soggetti con basso livello di scolarità; non richiede per lo scoring l’uso di complesse griglie di correzione, ma offre un sistema di calcolo dei punteggi automatizzato.

Il Personality Assessment Inventory è composto da 344 item, che prevedono una scala di risposta Likert a 4 valori, e sono organizzati Scale Cliniche, Scale di Trattamento e  Scale Interpersonali fra loro non sovrapponibili.

Le Scale Cliniche comprendono 11 scale e rivelano costrutti clinici e comprendono tre grandi categorie di disturbi: relativi all’area nevrotica, relativi all’area psicotica e quelli associati a disturbi del comportamento e alle dipendenze. Due scale sono specifiche per le caratteristiche antisociali e per le caratteristiche borderline.

Le 5 Scale di Trattamento permettono di formulare ipotesi sulla compliance e sulle complicazioni nel trattamento. Esse rilevano il rischio potenziale per sé e per gli altri, l’impatto di eventuali fattori stressanti recenti sulle aree di vita, il livello e la qualità del supporto sociale e un indice di motivazione a intraprendere un eventuale trattamento.

Le 2 Scale Interpersonali forniscono informazioni importanti relativamente alle relazioni e alle interazioni della persona. Lo stile interpersonale viene valutato lungo due poli: caldo e socievole – freddo e riluttante; gli aspetti relativi alla dominanza – sottomissione vengono valutati con una scala che è centrata su questi poli.

Completano il test 4 Scale di Validità:

  1. Inconsistenza (INC/10 paia di item): indica il grado di coerenza con cui il soggetto ha risposto all’intero inventario. Ciascun coppia è costituita da item altamente correlati (positivamente o negativamente).
  2. Infrequenza (INF/8): Indica se il soggetto ha risposto distrattamente, in modo casuale o idiosincratico. Gli item sono neutrali rispetto alla psicopatologia e ricevono un livello di approvazione o estremamente alto o estremamente basso.
  3. Impressione Negativa (NIM/9): suggerisce un’eccessiva impressione sfavorevole o simulazione di disturbo.
  4. Impressione Positiva (PIM/9): suggerisce la presentazione di un’impressione molto favorevole o una riluttanza ad ammettere piccoli difetti.

 

Item critici e indici del Personality Assessment Inventory

Il questionario presenta 27 item critici, che valutano comportamenti patologici che possono richiedere attenzione immediata (ad es., rischio suicidario) e sono stati identificati come critici in base a due criteri: hanno un contenuto specifico su crisi potenzialmente in atto e sono item che generalmente ricevono una percentuale bassa di consenso tra i soggetti. L’esame degli item critici può aiutare a chiarire il significato delle elevazioni osservate in determinate scale o sotto scale.

Inoltre, vengono misurati i seguenti indici:

  • Indice difensivo: si riferisce a configurazioni di 9 scale che si osservano più frequentemente nei soggetti istruiti a fornire un’immagine di Sé positiva, rispetto alla popolazione normativa o clinica;
  • Funzione discriminante Caschel: permette di distinguere i soggetti che si pongono in maniera difensiva rispetto a chi risponde onestamente;
  • Indice di simulazione di malattia: si tratta di configurazioni di 8 scale che si osservano più frequentemente nelle persone che simulano, che nei pazienti reali;
  • Funzione discriminante Rogers: permette di distinguere i protocolli di pazienti onesti dai simulatori;
  • Indice di potenziale suicidio: potenziale rischio suicidario;
  • Indice di potenziale violenza: indice di violenza potenziale;
  • Indice di processo di trattamento: indice di propensione al trattamento.

 

Vantaggi del Personality Assessment Inventory

Campione clinico e campione non clinico: il Personality Assessment Inventory è stato standardizzato sia su popolazione generale che su popolazione clinica. Questa duplice taratura è fondamentale per un confronto molto più preciso nella rilevazione degli aspetti psicopatologici. Pochi sono i test che possono vantare tale doppia taratura.

Dal globale al molto particolare: il Personality Assessment Inventory è stato costruito prendendo in esame i costrutti clinici sia in termini di rilevanza all’interno della nosologia dei disturbi mentali sia di significatività nella pratica diagnostica contemporanea. Ciascun aspetto psicopatologico può essere esaminato a livello macro (grazie ai domini e alle scale) e a un livello di profondo dettaglio (grazie alle sottodimensioni). Inoltre, essendo strutturato su una scala Likert a 4 punti, consente di approfondire ulteriormente le dimensioni indagate (anche grazie alla presenza di item critici).

Dalla diagnosi al trattamento: il Personality Assessment Inventory non solo traccia un profilo che dà informazioni sulla presenza di caratteristiche psicopatologiche, ma fornisce anche, grazie a numerosi indici, indicazioni relative al possibile trattamento e alla potenziale compliance.

 

Svantaggio del Personality Assessment Inventory

Poiché il Personality Assessment Inventory non misura alcuni costrutti che potrebbero essere di preoccupazione clinica (ad esempio, disturbi alimentari), è spesso utile per integrare il Personality Assessment Inventory con altri test.

Sussiste, anche una versione per Adolescenti, Adolescent Personality Assessment (PAI-A), dai 12 ai 18 anni. È composto da 264 item.

 

Gli ambiti di impiego

Ambito clinico:  screening diagnostico; psicodiagnosi; valutazione della personalità, anche non clinica; identificazione del rischio suicidario; valutazione di caratteristiche comportamentali di tipo violento; pianificazione del trattamento. In particolare, appare particolarmente utile nel contesto psicodiagnostico più ampio in ragione del bilancio costo-efficacia, inteso come rapporto fra la mole di informazioni che è possibile raccogliere rispetto al tempo impiegato per l’autosomministrazione.

Ambito forense: particolarmente utili ai fini di perizie o altri usi giuridici, vi sono le scale cliniche indispensabili per l’inquadramento diagnostico e le scale di controllo: Inconsistenza, Infrequenza, Impressione Negativa, Impressione Positiva e altri indicatori di simulazione e malingering utili per questo tipo di valutazioni. Proprio per queste specifiche caratteristiche il test ha trovato negli Stati Uniti e in altri paesi ampie applicazioni in ambito giuridico.

La connessione tra stati religiosi e consumo di materiale pornografico

Religione e consumo di pornografia: Un’indagine condotta a livello nazionale, negli USA, ha scoperto che l’essere religiosi è connesso all’ effettuazione maggiore di ricerche sul web di materiale pornografico.

 

Lo studio sulla connessione tra religione e consumo di pornografia su internet

Lo studio, pubblicato sul Journal of Sex Research, ha evidenziato che gli stati con le più alte percentuali di Evangelici, teisti o letteralisti biblici possiedono anche la più alta proporzione di ricerche condotte su Google per il termine “porno” dal 1° Gennaio 2011 al 31 Luglio 2016. E la stessa cosa vale per gli stati con tassi più alti di frequenza dei servizi religiosi.
Di contro, gli stati composti da più individui che non si identificano con nessuna religione tendono a fare in proporzione meno ricerche di materiale pornografico su Google.

La ricerca si è basata su dati ottenuti dal motore di ricerca Google, dallo Studio sulle Congregazioni Religiose del 2010 e dall’Indagine del Panorama Religioso Statunitense del 2007. I dati sono stati aggiustati per potenziali effetti determinati da ideologie politiche, reddito, istruzione, età e stato civile.

L’interesse dell’autore, Andrew L. Whitehead della Clemson University (Clemson, Carolina del Sud), per tale ricerca è nato a partire dai lavori che il suo co-autore Sam Perry ha pubblicato di recente sulla relazione tra religione e consumo di pornografia. Dopo aver letto le sue pubblicazioni, che analizzavano la questione a livello dell’individuo, Whitehead ha ipotizzato se vi fossero differenze, compiendo le analisi a livello della collettività, nella relazione tra religione e consumo di pornografia e ha iniziato le sue ricerche. Esiste un ampio e affascinante corpo di conoscenze che porta avanti l’idea secondo cui la religione è una componente importante della struttura di una società e serve a creare le comunità morali.

In breve, se più persone intorno a te sono religiose, le tue azioni finiranno con l’essere influenzate dal contesto e questo indipendentemente dal fatto che tu come individuo sia o meno religioso. Le comunità morali esercitano la loro influenza su ciascuno di noi.
Data la natura pressoché nascosta e privata del consumo di materiale pornografico, gli autori erano curiosi di scoprire se vi fosse un’associazione significativa tra le comunità morali e questo tipo di comportamento.

I risultati: chi è religioso compie maggiori ricerche di materiale pornografico

Ciò che hanno scoperto è che gli stati con un numero più alto di Evangelici, teisti (persone che credono in un Dio o in una entità superiore) e litteralisti biblici (coloro che sostengono di interpretare alla lettera la Bibbia come parola di Dio) hanno anche tassi più alti di ricerca online di materiale pornografico. E lo stesso vale per gli stati dove gli abitanti visitano più frequentemente i servizi religiosi. Infine, gli autori hanno anche osservato che gli stati con le più alte percentuali di abitanti non appartenenti a gruppi religiosi mostravano tassi più bassi di ricerca su internet di materiale pornografico. Questi dati sono rimasti tali anche dopo averli aggiustati per età media della popolazione, reddito medio, percentuale di conservazionismo politico, percentuale di abitanti sposati e percentuale di laureati.

Queste scoperte sono molto interessanti dal momento che le analisi a livello dell’individuo mostrano come le persone appartenenti a gruppi religiosi Evangelici, che frequentano la chiesa, che interpretano la Bibbia alla lettera o in genere credono in Dio riferiscono livelli molto più bassi di consumo di materiale pornografico. E’ impressionante vedere come la relazione si ribalta quando le analisi vengono condotte a livello collettivo. Questo sottolinea l’importanza di considerare la religione come un fenomeno di gruppo e non solamente come un tratto individuale. I risultati di questo studio suggeriscono che la religione conta veramente a livello collettivo.

E’ importante però segnalare, come suggeriscono gli autori all’interno dello studio, che se la ricerca di materiale pornografico è maggiormente diffusa negli stati più religiosi, non è possibile tuttavia concludere che le persone religiose effettuano più ricerche. Questo è definito in linguaggio tecnico “fallacia ecologica” – trarre inferenze sul comportamento individuale basandosi su dati raccolti a livello gruppale. Dal momento che la ricerca di informazioni su Google è anonima, non è possibile scoprire nulla sul conto di chi sta effettuando ricerche pornografiche.

La discussione dei risultati

Per qualcuno può essere allettante proporre spiegazioni più sensibili alla fallacia ecologica. Per esempio, uno studio analizzato dall’autore sulla relazione tra religione e consumo di pornografia condotto a livello di stato spiega l’associazione con l’ipotesi della preoccupazione. L’ipotesi della preoccupazione predice che gli individui religiosamente conservatori, mentre esteriormente si oppongono alla pornografia, sono in realtà segretamente attratti da essa. Sebbene questa è certamente una spiegazione plausibile per l’associazione positiva a livello di stato, non v’è alcun modo per confermare che in realtà le persone religiose cerchino materiale pornografico su internet.

Gli autori propongono una serie di possibili spiegazioni per l’associazione positiva tra religione e consumo di pornografia. Potrebbe essere che le persone religiose effettivamente cerchino più materiale pornografico come suggerisce la ricerca precedente. Potrebbe anche essere che le persone non religiose e religiose che vivono all’interno di comunità morali molto forti abbiano un minor numero di vie attraverso le quali la loro sessualità possa esprimersi e così si rivolgono a una forma privata di espressione sessuale. Una terza possibile spiegazione è che siano i giovani nelle case Evangeliche ad effettuare ricerche di materiale pornografico, infatti, esiste un ampio corpo di conoscenze che mostra come gli Evangelici tendano a fornire meno educazione sessuale ai loro figli.

Nel complesso, la scoperta chiave è che nel bel mezzo di una forte comunità morale la ricerca di pornografia sia più diffusa. La ricerca, in futuro, dovrebbe continuare ad esplorare come il comportamento umano si modelli sulla base dell’ambiente sociale circostante. La religione, come evidenziato, è una parte essenziale della struttura sociale.

Depressione: Parliamone. La Giornata Mondiale della Salute è dedicata alla depressione

Come ogni anno, il 7 aprile si celebra la giornata Mondiale della Salute. Quest’anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di dedicare l’intera campagna a un disturbo psicologico sempre più diffuso in tutti i paesi del mondo, che può colpire le persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali: la depressione.

Il video riassume in brevi immagini gli obiettivi dell’intera campagna, ovvero diffondere una conoscenza adeguata della malattia e dei suoi sintomi (tristezza costante, perdita di energia e di interessi, diminuzione dell’appetito, ideazione suicidaria), fornire maggiori informazioni circa le cause, le conseguenze e le possibilità di trattamento, ma soprattutto stimolare le persone con questo disturbo a chiedere aiuto ad amici, conoscenti o famigliari per avere il supporto necessario.

Se non curata, la depressione può portare a conseguenze negative come isolamento, ritiro sociale, perdita di interessi e scopi; il senso di fallimento e la mancanza di speranza possono degenerare in atti estremi come il suicidio, la seconda causa di morte nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni.

In questa giornata di sensibilizzazione l’Organizzazione Mondiale della Sanità vuole ricordare che la depressione è una malattia seria ma che può essere trattata e curata attraverso cure farmacologiche e psicoterapeutiche adeguate. Dalla depressione si può guarire.

 

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Black Dog – Ho un cane che si chiama Depressione

Il neurone: l’anatomia e i diversi tipi della cellula nervosa – Introduzione alla psicologia

Il neurone è una cellula del sistema nervoso centrale e costituisce la più piccola unità funzionale. Esso consente la messa in atto di una serie di funzioni cognitive e comportamentali, come pensare, camminare, parlare, etc. Chiaramente, tutto questo è possibile nel momento in cui il neurone funziona unitamente ad altri neuroni facenti parte della stessa regione cerebrale.

 Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il neurone è l’unità cellulare  di base che caratterizza il tessuto nervoso, e grazie alle sue caratteristiche fisiologiche e chimiche permette di ricevere, integrare e trasmettere impulsi nervosi, nonché di produrre sostanze denominate neurotrasmettitori.

 

Neuroscienze: L’anatomia del neurone

Il neurone è costituito da una parte centrale chiamata soma, che a sua volta è formata  dal pirenoforo, sede del nucleo, e dagli altri organelli deputati alle principali funzioni cellulari: apparato di Golgi, neurofilamenti, neurotubuli, granuli di pigmento, sostanza tigroide, mitocondri, nucleo, reticolo endoplasmatico liscio e rugoso.

Dal corpo cellulare nascono due prolungamenti citoplasmatici chiamati neuriti, che prendono il nome di dendriti, e l’assone. I dendriti consentono la ricezione dei segnali elettrici da parte dei neuroni confinanti o afferenti e sono in grado di trasmettere tale segnale in direzione centripeta, ovvero verso il pirenoforo.

L’assone, invece, propaga il segnale nervoso in direzione centrifuga, verso altre cellule. Esso riesce a condurre il segnale nervoso grazie alla presenza sulla superficie di una membrana che prende il nome di mielina. La parte finale dell’assone si chiama bottone sinaptico e si collega con i dendriti o il corpo cellulare di altri neuroni affinché l’impulso nervoso si propaghi con una reazione detta a catena, ovvero saltare da una cellula all’altra fino a raggiungere il bersaglio.

Gli assoni delle cellule del sistema nervoso sono ricoperti da due membrane protettive, che proteggono l’assone impedendo la dispersione degli impulsi elettrici. La membrana più esterna prende il nome di neurolemma o guaina di Schwann, quella più interna di guaina mielinica. Lungo il neurolemma sono presenti delle interruzioni, in corrispondenza delle quali la guaina mielinica termina e sono definite nodi di Ranvier (in questo punto in cui non si trova la mielina si ha una piccola dispersione di carica).

 

I diversi tipi di neuroni

I neuroni possono essere classificati in base al numero e alle ramificazione dei prolungamenti, ottenendo in questo modo:

  • Neuroni unipolari, presentano un solo assone e il pirenoforo ha valore di sito recettore.
  • Neuroni bipolari, hanno un assone e un solo dendrite che si articola agli antipodi del soma.
  • Neuroni multipolari, mostrano un assone e molteplici dendriti.

Inoltre, è possibile classificare i neuroni in base all’aspetto presentato:

  • piramidale, i cui dendriti alla base si distribuiscono in senso orizzontale, mentre il dendrite apicale si sviluppa in altezza. L’assone si estende nelle zone corticali della corteccia.
  • stellato, definite anche granuli, in cui i dendriti si ramificano nelle immediate vicinanze del soma e l’assone comunica con le cellule adiacenti.
  • fusiforme, aventi alle estremità due terminazioni dendritiche e l’assone si dirige verso strati più superficiali.

Ogni neurone è imputato allo svolgimento di una serie di funzioni, per questo è anche possibile distinguerli in:

  • Neuroni sensitivi o afferenti,  ricevono stimoli e trasportano l’informazione dagli organi sensoriali al sistema nervoso centrale.
  • Interneuroni o neuroni intercalari, integrano i dati forniti dai neuroni sensoriali e li trasmettono ai neuroni motori.

Neuroni motori o efferenti motoneuroni,  diffondono impulsi di tipo motorio agli organi della periferia corporea. A loro volta si dividono in neuroni somatomotori, i cui assoni formano fibre chiamate efferenti che innervano la muscolatura striata volontaria dell’organismo. Si differenziano ulteriormente in motoneuroni α , ossia responsabili dell’effettiva contrazione delle fibre muscolari striate, e motoneuroni γ , che innervano gli organi sensoriali propriocettivi detti fusi neuromuscolari intercalati nella stessa struttura muscolare.  I visceroeffettori, invece, danno origine a fibre dette pregangliari, che si collegano sempre a un secondo neurone localizzato in un ganglio simpatico o parasimpatico, da cui origina la fibra postgangliare. Tali neuroni agiscono nell’ambito delle risposte involontarie o viscerali.

I neuroni si classificano anche in base al tipo di neurotrasmettitore e si hanno i neuroni:

  • colinergici, che usano l’acetilcolina
  • monoaminergici che utilizzano come neurotrasmettitore la serotonina e le catecolamine.
  • aminoacidergiciche utilizzano il  GABA con funzione inibitoria e i neuroni glutammatergici con funzione eccitatoria.

 

Comunicazione tra neuroni

I neuroni comunicano tra loro tramite i collegamenti intercellulari definiti sinapsi. La comunicazione sinaptica avviene attraverso sostanze chimiche dette neurotrasmettitori, che stimolano, tramite il passaggio dell’impulso nervoso, la cellula successiva.

L’impulso nervoso o potenziale d’azione, si propaga lungo la fibra nervosa e determina delle modificazioni sia chimiche sia elettriche.

I neuroni sono polarizzati, poiché presentano fuori dalla membrana cellulare una carica elettrica diversa da quella presente all’interno. La differenza di carica è determinata dagli ioni sodio e potassio presenti in percentuali diversi all’interno e all’esterno del neurone e permettono, grazie all’ausilio di una pompa detta sodio-potassio, di trasmettere l’informazione dall’interno all’esterno.

Il potenziale d’azione, dunque, si verifica nel momento in cui si ha il passaggio dell’informazione da una cellula all’altra. Quando il potenziale d’azione raggiunge la sinapsi le vescicole presenti sulla sua superficie liberano un neurotrasmettitore che si diffonde rapidamente tramite la fibra postsinaptica e si lega ad alcune molecole specifiche della sua membrana post sinaptica della cellula recettrice. La reazione con il neurotrasmettitore altera la permeabilità della membrana della fibra postsinaptica, dando origine ad un potenziale d’azione che consentirà la propagazione ulteriore dell’impulso nervoso.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicologia della moda e fashion therapy: cosa si nasconde dietro la scelta degli abiti

Psicologia della moda: Il presente articolo vuole essere una riflessione sul significato psicologico individuale, sociale dell’abbigliamento. Molto spesso ciò che si cela dietro l’abbigliamento, nelle sue forme e colori, rivela aspetti della personalità e del rapporto con gli altri, molto prima di qualsiasi altra forma di espressione; i vestiti “parlano” di noi al nostro posto.

Anna Colleluori

 

La psicologia della moda: l’espressione di sè attraverso gli abiti

La psicologia della moda studia il rapporto versatile e poliedrico che ognuno di noi ha con gli abiti e gli accessori, riconducendo questa varietà ad alcuni processi sociali e cognitivi che mettono in relazione gli individui con l’ambiente, mostrandone gli obiettivi, l’identità, le motivazioni, l’influenza sociale, la conoscenza e la comunicazione (Pizza, 2010). Abiti e accessori dialogano di noi con gli altri, sono come una seconda pelle, un io-pelle (pelle mentale) che contiene tutte le nostre parti buone, un’interfaccia con gli altri e una barriera di difesa (Pizza, 2010).

Secondo la psicologia della moda i vari sé sono il frutto degli aspetti di noi che sviluppiamo nelle diverse situazioni di vita, nei diversi ruoli sociali che ricopriamo, nelle diverse relazioni interpersonali che ci interessano. Per ricomporre questa complessità in un insieme coerente si può considerare l’abbigliamento come un mezzo per dare espressione dei vari sé, e quindi il guardaroba può darci un grande aiuto come contenitore e ordinatore. Si può affermare che l’armadio ci permette di costruire un quadro d’insieme e di salvaguardare la coerenza nella conoscenza di noi stessi. Inoltre, abiti e accessori possono essere considerati come un’estensione del sé che ci permette di portare all’esterno ciò che sentiamo dentro, e anche di comunicare alcuni aspetti e coprirne altri, manipolando la nostra immagine per avvicinarla al nostro ideale.

Secondo la psicologia della moda gli abiti sono un manifesto che contiene le iscrizioni della nostra identità e parlano per noi. Flaccus (1906) ha dato un valido contributo alla psicologia dell’abbigliamento in merito all’estensione di sé affermando che “Quando portiamo un corpo estraneo in contatto con la superficie del nostro corpo (questo fenomeno non è limitato solo al tatto) la consapevolezza della nostra esistenza personale si prolunga nell’estremità e nella superficie di questo corpo estraneo, e di conseguenza nascono delle sensazioni di estensione del proprio io o di acquisizione di un tipo o di una quantità di energia estranea o di un grado inconsueto di vigore, di resistenza fisica, di sicurezza”. Secondo questa formula, ripresa dal libro di John Carl Flugel (1974), l’abbigliamento ci permette di estendere il nostro io corporeo. Un chiaro esempio di questo principio è la gonna, essa aggiunge alla forma umana pregi che la natura non le ha dato.

Secondo la psicologia della moda attraverso la forma di un abito, i suoi colori, le dimensioni di un cappello, l’altezza di un tacco, il disegno di un tessuto o i suoi movimenti, possiamo trovare una chiave di lettura alla conoscenza di noi stessi e degli altri, utilizzando le leggi della percezione sensoriale. Tali leggi spiegano come i nostri organi di senso siano colpiti da molte sensazioni, ma tendono ad elaborarne alcune più evidenti, creando una figura e lasciando il resto sullo sfondo, oppure organizzando le informazioni rilevanti in una struttura che unifica i vari elementi.

immagine 1Paola Pizza (2010), riflettendo sulle forme, attraverso la figura di Rubin (fig. 1), mostra come le sensazioni visive facciano mettere a fuoco alcune caratteristiche di un’ immagine e non altre. Secondo Rubin vediamo i profili e la coppa separatamente, ma non possiamo vederli contemporaneamente perché se una forma è figura, l’altra è sfondo. Così un particolare tipo di abbigliamento o un accessorio, possono trovarsi a fuoco ed essere oggetto della nostra attenzione o perché lo stimolo è nuovo e inaspettato, o all’inverso perché è abituale, ma soprattutto perché attiva interessi o motivazioni, pensieri o emozioni. Ad esempio, le gonne corte, i corpetti aderenti, i tacchi alti.

Secondo la tendenza alla chiusura, invece, cerchiamo di dare ai singoli dati sensoriali un significato unitario, come ad esempio nella figura che ritrae un cane e non un semplice insieme di macchie (fig. 2). Nello stesso modo quando osserviamo una persona non vediamo tanto i singoli elementi dell’abbigliamento, ma diamo un significato all’insieme, considerando la persona di buon gusto, alla moda, originale, vincente oppure antiquata, perdente, volgare o scontata. É chiaro come le illusioni ottiche riescono a modificare l’immagine delle persone che indossano determinati abiti o accessori. Come la piega dei pantaloni renda più slanciati, contribuendo ad avvicinare la forma fisica al concetto di corpo ideale condiviso socialmente.

immagine 2

Psicologia della moda: la percezione dei colori e le emozioni di simpatia o antipatia

Anche la percezione dei colori è importante secondo la psicologia della moda; come scrive Max Luscher, ci sono due diversi approcci verso i colori: la sensazione percettiva determinata dalla percezione cromatica, e l’emozione legata alla simpatia o all’antipatia che genera in noi un colore. La preferenza per un colore o il rifiuto di un altro potrebbe essere determinato dallo stato emotivo.

Dietro alla scelta dei colori non c’è quindi solo l’influenza del sistema moda o di fonti autorevoli, ma ci sono anche le caratteristiche di personalità, i conflitti intrapsichici e le motivazioni. L’origine del significato dei colori viene fatto risalire al giorno e alla notte “il blu scuro del cielo notturno e il giallo lucente della luce del giorno. Il blu scuro è il colore della quiete e della passività, il giallo lucente il colore della speranza e dell’attività. L’azione dell’attacco e della conquista è rappresentata dal colore rosso, la difesa dal suo complementare: il verde”(Luscher, 1976).

Per capire la fisiologia dei colori sono stati condotti esperimenti che hanno mostrato, ad esempio come fissare il colore rosso produca “un effetto decisamente stimolante del sistema nervoso, aumenti la pressione arteriosa, la frequenza respiratoria e cardiaca. Il rosso è dunque un eccitante del sistema nervoso, soprattutto della funzione simpatica del sistema nervoso autonomo”, provoca un aumento delle attività vitali, quali, pressione arteriosa, frequenza respiratoria e cardiaca. Il colore blu scuro ha un effetto contrario “la pressione arteriosa diminuisce, come pure la frequenza cardiaca e respiratoria, è dunque calmante e agisce attraverso la funzione parasimpatica.”

Mi soffermerò in particolare, sulle vibrazioni emotive espresse dal colore Rosso, riprese dal libro di Paola Pizza (2016). Il rosso, firma inconfondibile di Valentino che iniziò a proporlo nelle sue collezioni dagli anni ’60, rosso scarlatto anche per le mitiche suole che rendono unica la griffe Lauboutin. É un colore estroverso e attivo che simboleggia l’eros, il fuoco, il sangue e comunica vitalità, dinamismo, energia, potenza, sentimenti intensi e calore.

Insieme al nero è tra i primi colori ad essere stato usato dall’uomo ed è “simbolo dell’essenza della vita”. Per la psicologia dinamica esprime “l’archetipo dello spirito” ed ha la capacità energetica di elaborare i contenuti psichici. É il colore di divinità protettive, ma è anche il colore del diavolo e del diabolico. Colore regale ma anche istintuale, manifesta gli aspetti più alti dell’energia psichica, ma anche quelli più bassi; è infatti il colore della rabbia e dell’aggressività, della competitività e della sfida. Per Luscher rivela “l’appetito in tutte le sue manifestazioni, dall’amore più appassionato alla conquista più avida” è un atteggiamento provocatorio. Le sue forme positive sono “calore, passione, entusiasmo, vita, fertilità e amore”, e quelle negative “potenza, distruttività, aggressività, odio, spargimento di sangue”.

 

La psicologia della moda e la fashion therapy

Attraverso l’osservazione degli abiti che la persona indossa e i relativi significati, unitamente all’analisi del consumo di prodotti moda, è possibile, per alcuni studiosi, dedurre i tratti di personalità. Il termine fashion therapy o anche moda terapia potrebbe essere utilizzato quando gli acquisti anziché colmare un vuoto, creano valore: acquistiamo per comunicare la nostra identità e il nostro cambiamento. La moda terapia non è una terapia convenzionale, non si basa su regole prestabilite ed è ancora in via di sviluppo (Sacchi e Balconi, 2013). Potremmo concepirla come uno degli strumenti all’interno di percorsi psicoterapeutici consolidati.

Dalle prime esperienze in tal senso, secondo Sacchi e Balconi sembrerebbero emergere quattro tipologie di persone sulla base del loro rapporto “patologico” con la moda. “Modadepressi”, di questa categoria, fanno parte quegli individui con personalità problematica nei confronti dell’apparenza. Si tratta di quegli individui che non vorrebbero incontrare nessuno e neppure essere giudicati per il proprio comportamento, tanto meno per l’aspetto che oramai è diventato assolutamente irrilevante.

I “modainsensibili”, ovvero gli indifferenti nei confronti del vestire. Individui con delle potenzialità non completamente espresse. Spesso oppongono una vera e propria resistenza al concetto di moda, fino a trasformare il loro abbigliamento in un’anonima uniforme. I “modanevrotici”, ovvero le persone fantasiose, troppo fantasiose. Appartengono a questa categoria gli individui che non hanno un confine ben chiaro in merito alle scelte nell’abbigliamento o hanno troppe sovrastrutture estetiche. Si tratta spesso di persone dinamiche che non hanno difficoltà ad esprimersi liberamente, che vivono la propria immagine con naturalezza e divertimento ma anche con troppa sofisticazione o che prendono troppo sul serio l’aspetto esteriore. Infine i “modaschizzati” ovvero gli incoerenti incalliti, così definiti dagli autori del libro. Alcuni di questi individui, non sentono di avere uno stile ben definito, o ne possiedono troppi, spesso la linea di demarcazione tra le due cose, non è chiara, non hanno un’immagine di loro stessi in sintonia con quello che sono davvero.

Dall’intervista che ho personalmente effettuato (Anna Colleluori, “Dalla psicologia del consumo alla psicologia della moda e alla fashion therapy”, tesi magistrale in “Psicologia clinica e della salute”, discussa il 17 febbraio 2017 all’università “G. D’annunzio” di Chieti-Pescara) al noto stilista abruzzese Filippo Flocco, direttore creativo della maison teramana “Ferretti”, la quale ha creato le cravatte del presidente Trump per tutta la durata della campagna elettorale, è emerso che gli studi sui vari significati psicologici individuali e sociali dell’abbigliamento, dovrebbero essere conosciuti da coloro che si occupano delle creazioni moda ma che non sempre vengono presi in considerazione quando l’obiettivo che predomina è la vendita. Si evidenzia, inoltre, come, ad esempio, le cravatte rosse del presidente Americano Trump sono state commissionate dal medesimo sia per quanto riguarda i colori che per quanto riguarda la lunghezza e la larghezza. Difatti, è più lunga di 20 cm rispetto allo standard ed è più larga di quasi 4 cm. Chissà se in questa sua scelta, avrà preso in considerazione i significati psicologici delle forme e dei colori dell’abbigliamento!

Una recente ricerca sugli uomini di potere ripresa dal libro di Paola Pizza, che mostra come questi ultimi tendono a mantenere con costanza un look che li contraddistingue, come una sorta di divisa autoimposta che esprime la loro identità e la coerenza del loro sé, come ad esempio le camicie bianche dell’ex premier Matteo Renzi, un elemento essenziale della sua identità.

Secondo Paola Pizza (2016), le camicie bianche possono essere ricondotte a due grandi presidenti Americani, Obama e J.F. Kennedy, simboli dell’ottimismo americano. È possibile che Renzi abbia pensato a questo quando ha scelto la camicia bianca come segno distintivo del suo look presidenziale? É possibile che ci sia dietro un processo di identificazione con i valori e i miti di una coppia di presidenti che hanno simbolizzato il cambiamento? O solo l’imitazione dello stile di grandi leader? Oppure pensava alla frase di Oscar Wilde “l’eleganza si concentra nella camicia”? La camicia bianca nella sua origine ci richiama la camiciola usata come veste dei bambini, fa apparire aperti, disponibili, schietti e leggeri, trasmettendo spontaneità, immediatezza e semplicità.

A differenza della giacca, che simbolizza la corazza, con la maglia di ferro, per difendersi dagli attacchi, la camicia fa apparire informali, raggiungibili e non difesi dagli altri. Potente e teatrale il gesto di Obama che a Berlino, alla Porta di Brandeburgo, si è tolto la giacca ed è rimasto in maniche di camicia comunicando vicinanza, apertura e energia. Il bianco, il cui archetipo secondo Jung è la luce, comunica disponibilità al cambiamento, a differenza del colore scuro spesso scelto per le giacche, il cui archetipo è l’ombra. Se poi le maniche sono arrotolate, si aggiunge un contenuto di giovinezza, fattività, velocità, proattività ed energia che rende ancora più scattante il messaggio (Pizza 2016).

 

Conclusioni: individuare la personalità dalla moda

In conclusione, attraverso le molteplici proposte che il sistema moda offre è stato riscontrato che è possibile esprimere la propria personalità, individuando così anche i tratti “più patologici” che si creano nella relazione con la moda. L’ obiettivo infatti è quello di rendere consapevoli gli individui di cosa si comunica attraverso abiti e accessori e come attraverso l’acquisto dei prodotti di moda, si dia all’individuo l’opportunità di crearsi un proprio stile e di effettuare un cambiamento. Cambiare non solo gli abiti in base alle mode attuali, all’umore, ai sentimenti, alla situazione storico sociale ma avviare l’individuo verso un ipotetico cambiamento, che gli permetta di aumentare l’autostima, di avere una visione più positiva di sé, partendo proprio dall’esterno, ovvero dagli abiti, per poi giungere attraverso il significato di quest’ultimi agli aspetti più profondi del sé.

 

Il Sé e l’uso di un oggetto per entrare in rapporto attraverso le identificazioni secondo Winnicott

Winnicott (1971), nel suo articolo “L’uso di un oggetto” in Esplorazioni psicoanalitiche, spiega la differenza tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto.
Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel avvengano dei cambiamenti e che essi siano accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico.

 

La costruzione del vero Sè o del falso Sè secondo Winnicott

Winnicott (1960) pensa che vi sia un Sé “potenziale o nucleare”, espressione di “una potenzialità ereditaria di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio e con un proprio ritmo una realtà psichica e una schema corporeo personali” (1).
Proprio lo stretto legame che vi è fra mente e corpo fa si che il compaia “non appena c’è un accenno di organizzazione mentale e significhi poco più della formazione di dati sensoriali-motori” (2).

È da questa concezione del Sé che si origina la proposta dell’autore di distinguere tra un vero Sé e un falso Sé. Il vero Sé sarebbe il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo. Il falso Sé, invece non farebbe “altro che raccogliere insieme gli elementi dell’esperienza del vivere” (3). La sua funzione sarebbe, dunque, quella di costruire una protezione di fronte ad un ambiente che si è rilevato molte volte inadeguato ad anticipare il bisogno del bambino, costringendolo a subire una realtà esterna frustante.

La madre non “sufficientemente buona” non ha colto e valorizzato il gesto del figlio ma ha sostituito “il proprio gesto chiedendo al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscenda. Questa condiscenda è lo stadio più precoce del falso Sé, e dipende dall’incapacità della madre di capire i bisogni del figlio” (4).

Il bambino pertanto, è costretto a dare senso da solo al proprio gesto, ma per farlo userà la condiscenda imitativa ma che è lontana dal vero Sé.
Tuttavia, il bambino può esprimere la propria protesta per questa sua condizione tramite “un’irrequietezza generale e/o disturbi dell’alimentazione”. Queste manifestazioni possono scomparire o ripetersi in modo diverso o presentarsi, in forma più acuta, in altre fasi dello sviluppo.
Il falso Sé nasce, dunque, come difesa del bambino di fronte ad un ambiente primario che non si adatta sufficientemente bene ai suoi bisogni.

Mediante il falso Sé il bambino si crea un sistema di rapporti falsi che sembrano reali, egli “diventa proprio come la madre, la balia, la zia, il fratello e qualsiasi persona che in quel momento domini la scena” (5). L’esistenza del vero Sé è così nascosta, poiché ci sono richieste ambientali impensabili e la realtà diviene non tollerabile.
Naturalmente ognuno di noi ha, in misura variabile, un falso Sé, poiché, senza di esso, saremmo persone “con il cuore in mano”, troppo vulnerabili di fronte agli altri.

 

L’uso di un oggetto e le identificazioni per entrare in rapporto con l’oggetto stesso

Nell’osservazione dei bambini piccoli in una situazione prefissata” (6), Winnicott descrive la reazione di bambini lattanti ad una spatula, un “abbassa lingua di metallo luccicante”, posta sul tavolo davanti a loro in un ambulatorio pediatrico. La risposta del bambino si svolge in tre stadi: il primo è di avvicinamento interessato ma sospettoso; il secondo, in cui la spatula è in suo possesso e la sente come parte di sé, come mezzo per appagare i desideri; nel terzo stadio l’esercizio è di liberarsi dalla spatula.
L’assunto di base di questo lavoro è “l’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” (7).

Winnicott (1971), nel suo articolo “L’uso di un oggetto” in Esplorazioni psicoanalitiche, spiega la differenza tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto.
Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel avvengano dei cambiamenti e che essi siano accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico.
Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare oggetti e ciò fa parte del passaggio al principio di realtà.
Questa capacità, secondo l’autore, non è innata, né si può dare per scontata in quanto lo sviluppo della capacità di usare un oggetto fa parte del processo maturativo che dipende da un ambiente facilitante e supportivo.

Winnicott (1971) sostiene che tra il mettersi in relazione e l’uso dell’oggetto, ci deve essere la capacità del soggetto di collocare l’oggetto fuori dell’area del controllo onnipotente, percependo l’oggetto come qualcosa esterna da sé e non come un’entità proiettiva.

Questo passaggio è dato da precisi momenti che l’autore sintetizza schematicamente:
1. il soggetto entra in relazione con l’oggetto;
2. l’oggetto è in processo di venire trovato invece che posto dal soggetto nel mondo;
3. il soggetto distrugge l’oggetto (quando l’oggetto diventa esterno);
4. l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto;
5. il soggetto può usare l’oggetto.

Questa distruzione, spiega il maestro, diventa il corollario inconscio dell’amore per un oggetto reale, ovvero, un oggetto al di fuori dell’area di controllo del soggetto.

Pertanto, Winnicott mette un accenno importante all’aggressività intesa come fattore positivo della crescita, poiché nel momento in cui il soggetto capisce che l’oggetto sopravvive ai suoi attacchi, ha la capacità di porlo al di fuori dei suoi meccanismi proiettivi. Infatti, adesso il soggetto ha potuto creare una realtà condivisa, in cui il soggetto può usare e può riportare una “sostanza diversa-da-me”.

Questi concetti si verificano anche nel transfert e ci aiutano a sperimentare ed esaminare il comportamento del paziente nella situazione analitica; attraverso la realizzazione affettiva ed immaginativa del soggetto, infatti, l’analista funziona come oggetto transizionale e oggetto oggettivo.

Più umano di te…o solo migliore: come funziona il processo di auto-umanizzazione?

Auto-umanizzazione: secondo un recente studio la nostra motivazione a pensare di essere persone buone surclassa il nostro desiderio di sentirci umani. 

 

Un recente studio mette in discussione l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe così motivato a credere nel suo essere essenzialmente umano da sostenere ed approvare con piacere anche le parti più riprovevoli della condizione umana.

La maggior parte di noi possiede un’idea, seppur vaga, di cosa voglia dire essere umani. La ricerca mostra come sembri esistere un certo grado di accordo circa il fatto che tratti di personalità come l’essere socievoli, gelosi o impazienti sarebbero più tipicamente “umani” di altri quali, ad esempio, l’essere freddi e impassibili o, dall’altro lato, pii e misericordiosi.

Inoltre, in generale, all’essere umano sembrerebbe piacere il considerarsi effettivamente umano, attribuendo a se stesso più tratti di personalità “umani”, rispetto a quanti non ne attribuisca agli altri. In altri termini, ci auto-umanizzeremmo, rivendicando per noi stessi sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, ma solo fintanto che questi sono in grado di enfatizzare la nostra stessa umanità.

 

Auto-umanizzazione: cosa si intende con il termine “umano”?

Proprio in questo senso, con il termine auto-umanizzazione (dall’inglese self-humanization) ci si riferisce in generale alla presupposta tendenza di ognuno di noi a vedersi come essenzialmente più umano degli altri (ad es. Haslam et al., 2005).

In generale, il concetto di “umanità” viene usato in riferimento ad una serie di caratteristiche che possono appartenere esclusivamente al genere umano (ad es. essere educati, meticolosi o scortesi) o, al contrario, essere anche attribuiti agli animali (ad es. essere curiosi, attivi, impulsivi).

Questi ultimi tratti vengono percepiti come largamente diffusi a livello della popolazione, si ritiene che emergano precocemente durante lo sviluppo ontogenetico e che siano cross-culturalmente universali. I tratti esclusivamente dell’uomo, invece, sono ritenuti relativamente poco prevalenti ed universali e si pensa emergano più tardivamente nel corso dello sviluppo (Haslam et al., 2005).

 

Auto-umanizzazione: sentirsi umani implica un’alta immagine positiva di sé?

Recentemente, però, un nuovo studio, condotto da Cypryańska e collaboratori dell’Università di Varsavia e di Berna, ha aperto la strada alla messa in discussione della reale esistenza di questo fenomeno, se non altro per come è stato definito in passato.

Infatti, una consistente mole di evidenze mostrerebbe come l’essere umano sia profondamente propenso a proteggere e conservare un’immagine di sé altamente positiva, anche grazie all’utilizzo di bias cognitivi che permettono l’attribuzione della colpa per i propri fallimenti alle circostanze e quella per i fallimenti altrui alle loro carenze e mancanze. Viene così da chiedersi se effettivamente l’essere umano abbia la tendenza a sovrastimare i propri aspetti negativi, pretendendo così di proclamarsi più umani, pregi e difetti compresi. In base alla ricerca, pubblicata dal Journal of Social Psychology, questa sembrerebbe essere una mera semplificazione: quando si tratta di caratteristiche umane considerate sgradite e indesiderate, le persone tenderebbero a vedersi come essenzialmente simili a tutte le altre.

Per poter giungere a questa conclusione, Cypryańska e collaboratori hanno portato avanti uno studio che ha visto coinvolti 250 studenti universitari in Polonia, Corea ed Italia. Ai soggetti partecipanti, in media di 23 anni, è stato chiesto di valutare se stessi sulla base di 40 diversi tratti di personalità in relazione agli altri studenti. Alcuni di questi tratti erano altamente associati alla natura umana, come empatico o geloso, mentre altri, come l’essere freddi e impassibili o altruisti, non lo erano.

Le ricerche presenti in letteratura hanno generalmente studiato il processo di auto-umanizzazione tramite la messa in atto di confronti di tipo sociale. Alle persone viene chiesto di valutare su scala Likert (che va da “più degli altri” a “meno degli altri”) se ritengono di possedere certi tratti di personalità in livelli maggiori, minori o simili agli altri (ad es. “Quanto ti valuti amichevole in confronto alla media degli altri studenti universitari?”). Misurandola in tal modo, l’ auto-umanizzazione viene definita come la tendenza ad attribuire al sé più caratteristiche umane degli altri. Inoltre, secondo alcuni studi, tale attribuzione sembrerebbe essere più marcata in caso di tratti considerati indesiderabili (Haslam et al., 2005).

Secondo Cypryańska e collaboratori, però, una tale linea di ricerca risulterebbe essere abbastanza problematica a causa delle scale di misurazione utilizzate e di come sono state usualmente interpretate. Infatti, secondo quanto da loro sostenuto, tali conclusioni circa la natura dell’ auto-umanizzazione sarebbero scaturite dall’aver erroneamente ritenuto che un giudizio di sé relativamente sopra la media rappresentasse necessariamente l’attribuzione di maggiori caratteristiche al sé piuttosto che agli altri.

Gli autori hanno così revisionato e replicato gli studi precedenti in cui era emersa una significatività a livello dell’ auto-umanizzazione con tratti negativi. Ciò che hanno notato è che in realtà i soggetti partecipanti agli studi hanno raramente dichiarato di possedere maggiori tratti “umani” negativi, ma dichiaravano solo in modo meno marcato di possederne meno. Quindi le evidenze in realtà non dimostrerebbero che le persone siano effettivamente motivate ad apparire più umane a tal punto da approvare e ad abbracciare anche le parti più riprovevoli della natura umana.

D’altra parte, i partecipanti si sono spesso valutati superiori alla media per quanto riguarda i tratti positivi. Piuttosto che confermare che l’essere umano associ se stesso sia a vizi sia a virtù tipicamente umane, quanto rilevato da Cypryańska e collaboratori sarebbe facilmente associabile al ben noto effetto Better-Than-Average (in italiano “Migliore della media”; Alicke et al., 1995), che si riferisce alla tendenza a ritenere di avere molte più caratteristiche positive che non negative e, in generale, di essere migliori della popolazione media.

Secondo questo studio, quindi, in ordine di importanza verrebbe prima il vedere se stessi come speciali e buoni e solo successivamente come umani, difetti compresi.

 

Come le nuove tecnologie ci stanno cambiando: la iGeneration

La iGeneration, conosciuta anche come Generazione Z, accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato (individualized) del world wide web.

Giulia Radice – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

Mi siedo alla scrivania, alla ricerca di materiale di lavoro. Clicco due volte per aprire internet e navigo verso la pagina di Facebook. Guardo, curioso, spulcio, commento, metto qualche like. Ok, adesso chiudo e inizio a lavorare. Prima però è meglio se controllo lo smartphone; magari qualcuno mi ha scritto su WhatsApp. Meglio controllare anche la mail. Se non controllo potrei perdermi qualcosa. Tutto bene, posso iniziare. Ah no, il telefono ha vibrato. Devo controllare.

Quando finalmente riesco a posare il telefono e a lasciare perdere Facebook non posso fare a meno di riflettere su quanto le nuove tecnologie stiano modificando le nostre vite, le nostre abitudini e costumi.

Io appartengo a quella generazione che molti autori chiamano “Nativi Digitali” (Prensky, 2001): la generazione nata tra il 1980 e il 1990, cresciuta nella prima era del Web, la 1.0, caratterizzata da siti web statici, l’uso delle e-mail e dei motori di ricerca. Probabilmente siamo stati noi “nativi” i primi a comprendere e a cogliere l’enorme potenziale dei nuovi media, sfruttandoli e adattandoli per comunicare con i nostri amici, per incontrarne di nuovi, per creare comunità e reti, per cercare informazioni e notizie, per condividere le nostre idee e opinioni.

Ma in questo mondo che cambia così rapidamente, dove il nuovo diventa subito vecchio, dove una notizia compare prima su Twitter che nei telegiornali -nel 2009 gli utenti di Twitter segnalarono la notizia delle scosse sismiche che si stavano verificando in Abruzzo prima delle agenzie di stampa-, sembra necessario non domandarsi più cosa è ma cosa sarà. Quindi, mettendo in disparte il mio smartphone e chiudendo le diverse pagine web che ho aperto tra una ricerca e l’altra, mi domando: in che modo le tecnologie digitali stanno trasformando le vite, le abitudini, le abilità cognitive e i comportamenti dei futuri noi? Insomma, come saranno gli adulti di domani?

 

La iGeneration

In Italia, come nel resto d’Europa, i più grandi fruitori delle tecnologie digitali sono bambini e adolescenti (CENSIS, 2015; Ólafsson, Livingstone & Haddon, 2013). La iGeneration, conosciuta anche come Generazione Z, Post-Millennials, Centennials, Plurals e talvolta Google Generation, accoglie al suo interno tutti gli individui nati a partire dalla seconda metà degli anni novanta fino al 2010, dove la “i” rappresenta sia l’insieme di device nati con loro (iPhone, iPod, iPad…) sia l’uso più personalizzato (individualized) del world wide web e di questi stessi dispositivi (Rosen, 2010).

Sicuramente uno degli aspetti che più contraddistingue la iGeneration è l’uso di internet e delle nuove tecnologie sin dalla giovane età. Prensky (2001a; 2001b) li descrive come individui abili a elaborare le informazioni, con una preferenza per le nozioni che possono ottenere rapidamente e apprendere attraverso modalità attive e non-lineari, multitasking, poco tolleranti verso le lunghe letture e che sperimentano lo sviluppo delle abilità sociali e professionali all’interno della realtà digitale. La iGeneration non usa internet, vive internet, abitando le loro quotidianità contemporaneamente dentro e fuori dagli spazi digitali (Livingstone, 2009).

Secondo recenti studi, 9 su 10 ragazzi tra i 9 e i 16 anni possiede un profilo Facebook e il 49% fa uso di sistemi di messaggistica istantanea (Livingstone, Haddon, Hasebrink, O’Neill, Smahel, & Staksrud, 2014).

Rispetto al resto d’Europa, i ragazzi italiani utilizzano gli strumenti on-line soprattutto a casa, mentre l’accesso da scuola è tra i più bassi in Europa. Il 10° Rapporto Nazionale Sulla Condizione dell’Infanzia e dell’Adolescenza di Eurispes e Telefono Azzurro (2010) riferisce che il 59.2% dei ragazzi tra i 12 e i 18 anni accede a internet attraverso lo smartphone e l’85% possiede un profilo Facebook, a cui 7 su 10 ragazzi accedono quotidianamente. Il 30,8% ha più di 500 amici. Ciò che contraddistingue i bambini e gli adolescenti italiani dai coetanei europei è la minore esposizione ai rischi on-line grazie soprattutto a forti restrizioni d’uso da parte dei genitori. Tale restrizione tuttavia presenta un rovescio della medaglia, tra cui bassi livelli di alfabetizzazione digitale e l’impegno in attività on-line (Mascheroni, 2012).

Rispetto al passato il mondo sembra evolversi sempre più rapidamente e le statistiche cambiano così velocemente che è talvolta difficile comprendere appieno la realtà di un fenomeno. Questa contingenza sembra essere particolarmente rispecchiata quando si tratta di media digitali: il loro celere sviluppo determina enormi difficoltà nel reperire dati storici o effettuare studi longitudinali sugli effetti del consumo di media digitali, che pure si mostrano sempre più necessari.

 

Plasticità neurale nella iGeneration

Tutte le sensazioni, movimenti, pensieri, ricordi e sentimenti sono il risultato di segnali che passano attraverso i nostri neuroni. Per lungo tempo, in passato, si è pensato che, una volta raggiunta l’età adulta, il cervello non potesse più essere soggetto a nessun tipo di cambiamento. A partire dal 1980 le evidenze sulla plasticità neurale sono diventate sempre più consistenti, fino a culminare con l’affermarsi di teorie che sostengono l’esistenza di un rapporto multidirezionale tra ambiente, mente, corpo, cervello e comportamento (Carr, 2011).

I neuroni del nostro cervello vengono attivati ogni volta che eseguiamo un compito o sperimentiamo una sensazione. Neuroni tra loro adiacenti tenderanno ad attivarsi all’unisono e più ripetiamo l’operazione o l’esperienza, più il legame sinaptico tra i neuroni tenderà a rafforzarsi e viceversa (Carr, 2011).

Le nuove tecnologie, come qualsiasi altro trigger esterno, determinano l’attivazione di specifici pattern neurali e quindi possono condurre ad altrettanto specifici fenomeni di plasticità neurale. Small e Vorgan (2008), comparando l’attività cerebrale di utilizzatori di Google classificati come “esperti” e “neofiti”, osservano come dopo solo cinque ore di navigazione le attività cerebrali dei due gruppi, inizialmente molto diverse, appaiono alla fine praticamente identiche, con una specifica attivazione della corteccia prefrontale dorsolaterale.

Molti neuroscienziati mettono in guardia dagli effetti negativi di della multimedialità. Recenti studi (Dalton, 2013; Carr, 2010) affermano che l’eccesso di stimoli a cui siamo sottoposti durante l’uso di internet determina un sovraccarico cognitivo nella memoria di lavoro impedendo la formazione di connessioni neurali profonde e a lungo termine. Navigare in internet, ma anche giostrarsi tra diverse conversazioni in chat, è sostanzialmente un processo di decison making durante il quale, però, le informazioni sottoposte alla nostra attenzione sono troppe e ci distraggono dal compito di comprendere appieno ciò che stiamo leggendo. A chi non è capitato di inviare un messaggio alla persona sbagliata perché non abbiamo letto correttamente il nome nella infinita lista di contatti del nostro smartphone o di perdersi tra l’eccessivo numero di risultati che Google ci fornisce?

Tuttavia non tutta la tecnologia vien per nuocere. Alcuni ricercatori hanno scoperto che i media digitali, in particolare i videogiochi, possono migliorare le abilità visive spaziali e le capacità di problem solving (Schmidt & Vandewater, 2008). In uno studio pubblicato sulla rivista Nature, gli autori riportano come dopo soli dieci giorni di gioco a “Medal of Honor”, i soggetti testati mostravano un drastico aumento dell’attenzione visiva e della memoria (Green & Bavelier, 2003). Secondo Lehrer (2010), inoltre, eseguire ricerche tramite Google incrementerebbe l’attenzione selettiva, mentre Rosen (2012) associa all’uso delle nuove tecnologie QI più alti, migliori capacità mnestiche e maggiore rapidità nell’elaborazione di informazione.

Riguardo alla iGeneration, bisogna però ricordare che il cervello dei bambini e degli adolescenti è però funzionalmente e strutturalmente diverso da quello degli adulti, soprattutto a livello delle aree frontali (Frances, 2015), che nell’adulto governano le funzioni esecutive e i processi decisionali.

Negli adolescenti queste aree devono ancora svilupparsi pienamente e ciò comporta che il loro ruolo di mediatore fra trigger emotivo e output comportamentale sia ancora piuttosto debole. Tradotto in altre parole, quando i ragazzi della iGeneration chattano, navigano e si trovano per scambiarsi opinioni all’interno di forum virtuali, reagiscono spesso precipitosamente e senza riflettere sulle conseguenze, buone o meno, delle loro azioni. Niente di nuovo quindi: gli adolescenti di oggi, quelli che appartengono alla iGeneration, sono impulsivi tanto quelli di ieri.

Ma c’è una differenza fondamentale: l’ambiente nel quale agiscono, che oggi, a differenza di ieri, è potenzialmente senza confini e può contenere qualsiasi forma di stimolo. Secondo molti autori (Aboujaoude citato da Dokoupil, 2012; Lehrer, 2010) questo sovraccarico di dati starebbe portando una sorta di craving da informazioni.

Bauleke e Hermann (2010) rilevano nella iGeneration un alto tasso di problemi di attenzioni e di incapacità di ritardare la gratificazione e ciò sembrerebbe spiegare, almeno in parte, l’elevato numero di diagnosi di Disturbo da deficit di attenzione e iperattività.

Sebbene i tempi siano ancora poco maturi per permetterci di definire con chiarezza come i media digitali incidano sul cervello e le sue strutture, l’influenza delle nuove tecnologie nel processo di sviluppo neurale e dei compiti evolutivi sembra rendere il percorso di crescita dei bambini e degli adolescenti appartenenti alla iGeneration sempre più articolato.

 

Emozioni e identità nella iGeneration

Tra i principali compiti evolutivi dell’uomo vi è certamente la formazione di una propria identità. Per la iGeneration, il mondo digitale cambia in modo significativo questo compito: i social network consentono di scegliere come presentarsi alle persone che compongono la rete, i giochi di ruolo di creare e sperimentare identità completamente diverse tra loro, i blog e i social forum di scoprire nuovi aspetti della propria persona (Pederson, 2012; Riva 2010).

Citando Riva (2010):

Un’importante opportunità viene offerta all’utente dai social network: la creazione di Sé possibili. Questa possibilità, se utilizzata correttamente, può attivare un processo di self empowerment… tuttavia esiste anche il rischio di un’identità fluida.

Se da un lato quindi le nuove tecnologie possono fornire una immensa opportunità di sperimentazione di se stessi, proprio l’assenza di confini, concreti o virtuali che siano, rischia di essere il maggior ostacolo all’individuazione di un’identità stabile. Le motivazioni di ciò sembrano contenute in alcuni dei meccanismi intrinseci della rete stessa, cioè i continui feedback e l’opportunità di modificare la propria identità e di svelarla a piacimento.

D’altra parte questa rete può anche fungere da salvataggio, talvolta anche più potente di alcune istituzioni classiche. Moltissimi sono i siti e i blog che, attraverso l’uso di chat, diventano un luogo di ascolto e di confidenze dove l’adolescente può sentirsi accettato in tutto il suo essere.

Un secondo aspetto critico che sembra emergere sempre di più nella letteratura sulla iGeneration, è l’“analfabetismo emotivo”. Con questa espressione Goleman (2011) intende:

  1. La mancanza di consapevolezza e quindi di controllo delle proprie emozioni e dei comportamenti a esse associati;
  2. La mancanza di consapevolezza delle ragioni per le quali si prova una certa emozione;
  3. L’incapacità a relazionarsi con le emozioni altrui (non riconosciute e comprese) e con i comportamenti che da esse scaturiscono.

La comunicazione mediata da computer, di fatto, manca degli elementi metalinguistici propri della conversazione faccia a faccia ed è priva di segnali di feedback che consentano agli attori interagenti di identificare con precisione gli aspetti relazionali e sociali (Sproull & Kiesler, 1986). Ad esempio, lasciare il proprio ragazzo semplicemente cambiando il proprio status su Facebook da “impegnata” a “single” è molto diverso che dirgli “ti voglio lasciare” guardandolo negli occhi. Infatti, se nel secondo caso osservare la risposta emotiva dell’ex ci costringe a condividere la sua sofferenza, spingendoci magari anche a moderare le parole e i gesti, usando il social network l’altro e le sue emozioni non sono immediatamente visibili e non hanno quindi un impatto diretto sulle nostre emozioni.

È evidente come tutto ciò rischia di privare il soggetto di un importante punto di riferimento nel processo di apprendimento, comprensione e gestione delle emozioni proprie e altrui. Sempre secondo Riva (2010), inoltre, sarebbe proprio questo aspetto a rendere precarie le relazioni sociali che si creano, e in un certo senso vivono, nei social network.

In realtà, visioni più articolate dei percorsi di rischio sostengono che l’uso delle nuove tecnologie sia meno negativo di quanto temuto: l’off-line e l’on-line non dovrebbero essere considerati come opposti o reciprocamente escludenti l’uno dell’altro, ma come universi sociali integrati posti all’interno di un medesimo continuum (Guarini, Brighi & Genta, 2013).

In questo senso nella iGeneration, l’off-line e l’on-line non risultano più due identità distinte e separate, ma due tra le diverse sfaccettature del il medesimo corpus identitario, strettamente legate tra loro, tanto che il proprio profilo digitale ha una ricaduta inevitabile anche al di fuori della rete e viceversa (Guarini et al, 2013) e i social media diventano qualcosa di molto importante per sviluppare e mantenere amicizie, nonché per vivere la propria intimità (Rivoltella, 2010). “L’on-line e l’off-line non sono mondi separati, sono semplicemente situazioni differenti all’interno delle quali entrare in contatto con gli amici e i pari” (Ito, Braumer, Bittanti et al, 2010).

 

Conclusioni

Alla fine di questa ricerca emergono alcune riflessioni. Se da un lato molti aspetti di come la tecnologia digitale sta cambiando il nostro cervello, il modo in cui socializziamo, impariamo e viviamo rimangano ancora sconosciuti, numerose sono anche le informazioni che già abbiamo a disposizione.

I cospicui effetti negativi della tecnologia rilevati fino ad ora appaiono scoraggianti: alterazione delle capacità di lettura degli elementi paravarebali, rilevanti tassi di dipendenza da consumo digitale, diminuzione delle abilità di attenzione sostenuta. Io stessa, nella stesura di questo articolo, mi sono sentita spesso iperattiva e poco concentrata, mentre saltavo da un articolo all’altro, da una mail all’altra, da un messaggio all’altro. Tuttavia, limitare l’analisi dell’influenza delle nuove tecnologie a questi aspetti può condurre a deduzioni errate, perché non sufficientemente complete di informazioni.

Le nuove tecnologie hanno portato con sé grossi cambiamenti, spesso anche molto positivi. Ad esempio, se da un lato lo sviluppo di internet e la possibilità di accedervi sempre più rapidamente e in qualsiasi punto del globo, ha determinato la diffusione di una quantità talvolta eccessiva di informazioni, ha anche permesso di raggiungere molti individui prima emarginati e di dare loro l’opportunità di apprendere e imparare, colmando così il divario educativo.

La tecnologia digitale sta anche creando una nuova forma di alfabetizzazione, quella digitale (digital literacy) che si estende oltre le tradizionali abilità di lettura e scrittura (Ives, 2003). In questa nuova era dei media, la capacità di negoziare e valutare le informazioni on-line, per riconoscere tentativi manipolatori e ingannevoli sta ridefinendo le basi del processo educativo, rendendo tali competenze fondamentali tanto quanto saper produrre e comprende un testo (Jenkins, 2007).

E queste attitudini sembrano emerge spontaneamente e di conseguenza invalidare in parte gli studi che imputano alle nuove tecnologie una riduzione della capacità di empatizzare. “So che può sembrare strano, ma dal modo in cui la mia amica mi sta messaggiando (texitng) riesco a capire il suo stato d’animo” (Wisdom 2.0, 2011). È anche importante sottolineare come questa nuova forma di alfabetizzazione sia creata dai ragazzi stessi: i giovani adolescenti della iGeneration non sono solo i più assidui fruitori delle nuove tecnologie, ma contribuiscono attivamente a svilupparne contenuti, applicazioni e potenzialità, al punto che è ormai da considerare superata la dicotomia tra fruizione e produzione, così come tra emittente e ricevente (Guarini et al, 2013). Citando Cappello (2010) “I ragazzi non considerano (né usano) i media come veicoli di significato quanto piuttosto come risorse simboliche da cui trarre immagini, fantasie e opportunità di autoespressione e gioco”.

Il rapporto tra le nuove generazioni e le tecnologie digitali è circolare, per cui gli uni cambiano in funzione degli altri e viceversa. Così, come i media digitali stanno creando nuove forme di comunicazione, pensiero e abitudini queste vengono plasmate e modificate per adattarsi alle esigenze di sviluppo.

La ricerca qui condotta mostra come sia invece ancora radicata una visione dicotomica del rapporto giovani-nuove tecnologie che, se da una parte descrive i ragazzi della iGeneration come disposti quasi naturalmente all’uso delle nuove tecnologie, dall’altra li dipinge come vittime del sistema mediale.

Una lettura di questo tipo rischia tuttavia di impoverire una relazione ben più complessa (Scarcelli, 2015). Riconoscere il continuum esperienziale tre spazi digitali e vita quotidiana, significa considerare i media non semplicemente come temi di cui occuparsi saltuariamente, ma, piuttosto, dimensioni proprie del percorso di crescita (Guarini et al, 2013).

Poiché il consumo mediale da parte degli adolescenti della iGeneration è strettamente collegato a motivazioni di tipo sociale, identitario ed emotivo, nonché allo sviluppo cognitivo, i ricercatori devono rivolgere la loro attenzione al contesto virtuale in quanto scenario ormai imprescindibile per comprendere le dinamiche comunicative e sociali implicate nella costruzione di opinioni, valori e scelte comportamentali (Guarini et al, 2013).

Maggiordomi e psicoterapeuti: una metafora dell’adulto sano nella Schema Therapy

Nell’ultimo anno ho assistito, con passione e riconoscenza, al successo esponenziale del blog di un giornalista, Simone Tempia, che posta dialoghi con un maggiordomo immaginario, per ritrovare l’equilibrio nei piccoli scompensi emotivi della vita quotidiana. Lloyd dispensa consigli e sparge speranza, saggezza, autocontrollo; stimola alla riflessione ed incita alla creatività. Si offre da moderatore di scarsi equilibri emotivi, non compatisce, né recrimina, non giudica né avvalla. Cambia la prospettiva e ribalta i punti di vista, non rinunciando alla sua dignitosa compostezza, e ad un pizzico di ironia.

Annamaria Libera Lauriola

I maggiordomi come consiglieri di fiducia nei film e nei fumetti

Non importa quanti anni abbiate, ricorderete con grande affetto il modo in cui Alfred si prese cura del piccolo Bruce Wayne dopo il brutale omicidio dei suoi genitori. Un uomo dalla grande dignità: attento, paziente, mite e saggio, seguì con sollecitudine il ragazzino di cui divenne il tutore, e che sarebbe divenuto l’eroe, Batman, che liberava la degradata Gotham dai criminali che si macchiavano dei più efferati delitti.

Chi, leggendo i fumetti, o guardando i diversi film che ne sono stati tratti, non vorrebbe un Alfred da consultare ad ogni ora del giorno o della notte?
Oggi i maggiordomi sono rari, ma rimangono nell’immaginario collettivo (nutrito da fiction, fumetti , film e quant’altro) delle persone di fiducia. Il loro compito andava molto al di là del governo delle ricche case dell’aristocrazia: erano consiglieri, problem solver, inesauribili fonti di saggezza e punti di riferimento per l’espressione – e risoluzione- dei piccoli e grandi dilemmi umani quotidiani. Erano riservati, leali, in grado di rimanere impassibili e di esimersi dal giudizio rispetto a quello che, in una relazione di grande fiducia, veniva loro rivelato. Acuti osservatori e autodisciplinati, servivano il “sir” con grande dedizione. E professionalità.

Nell’ultimo anno ho assistito, con passione e riconoscenza, al successo esponenziale del blog di un giornalista, Simone Tempia, che posta dialoghi con un maggiordomo immaginario, per ritrovare l’equilibrio nei piccoli scompensi emotivi della vita quotidiana: Vita con Lloyd, che è diventato anche un libro di successo (Vita con Lloyd. I miei giorni insieme a un maggiordomo immaginario, Rizzoli Lizard, 2016).

Lloyd dispensa consigli e sparge speranza, saggezza, autocontrollo; stimola alla riflessione ed incita alla creatività. Si offre da moderatore di scarsi equilibri emotivi, non compatisce, né recrimina, non giudica né avvalla. Cambia la prospettiva e ribalta i punti di vista, non rinunciando alla sua dignitosa compostezza, e ad un pizzico di ironia.

 

La figura del maggiordomo e dello psicoteraputa richiamano quella dell’Adulto sano della Schema Therapy

Mi sono chiesta: perché mai migliaia di lettori, me compresa, apprezzino questi arguti scambi di battute con un amico immaginario e insieme all’autore si confrontino con una mente che potremmo definire saggia?

Da psicoterapeuta quanto appena detto mi ha riportato al concetto di Adulto Sano sviluppato all’interno della Schema Therapy. Non sempre si ha la fortuna di crescere confrontandosi con un genitore/adulto che abbia le caratteristiche definite dal mode di Adulto sano, ma la possibilità di costruirlo e rievocarlo nella propria mente ha un grande impatto per la ristrutturazione cognitiva e la regolazione delle emozioni e degli stati mentali problematici, i cosidetti mode maladattivi.

Da psicoterapeuti ci prefiggiamo questa missione, e -all’interno di un approccio basato sulla Schema Therapy – attraverso il limited reparenting abbiamo l’obiettivo di favorire l’interiorizzazione del modello di adulto sano, un adulto in grado di proteggere, accudire, e validare il bambino vulnerabile, di porre dei limiti al bambino arrabbiato e indisciplinato, attraverso la reciprocità e l’autodisciplina.

Torniamo alla nostra metafora del maggiordomo. Un paziente con cui facciamo un buon lavoro richiamerà alla mente il suo “maggiordomo immaginario” e avrà la possibilità di confrontarsi con la parte sana di sé, a volte lo chiamerà a vuoto, lottando con i propri mode maladattivi, mentre in altre e preziose occasioni arriverà con sollecitudine offrendo un the caldo: “Come posso esserle utile, sir?”. E Alfred o Lloyd dimoreranno nella mente.

Ed oggi in seduta potrei sentirmi po’ maggiordomo e un po’ psicoterapeuta.

 

L’intelligenza artificiale al servizio della psicologia, ovvero i sistemi esperti in psicologia clinica

Nell’ambito dell’ Intelligenza Artificiale assumono particolare rilevanza le tecniche che consentono di incorporare la conoscenza di un particolare dominio in un software in grado di risolvere problemi attinenti a tale campo, genericamente tali programmi sono denominati Sistemi Esperti e si rivolgono a molti campi dell’attività umana.

Marco Lazzeri – Lorenza Diato

 

Negli ultimi decenni l’utilizzazione di appositi linguaggi e la diffusione di macchine più flessibili hanno portato allo sviluppo di una nuova branca informatica, l’ Intelligenza Artificiale (A.I.).

Nell’ambito dell’ Intelligenza Artificiale assumono particolare rilevanza le tecniche che consentono di incorporare la conoscenza di un particolare e limitato dominio in un software in grado di risolvere problemi attinenti a tale campo, fornendo risposte simili a quelle che si otterrebbero da un esperto umano. Genericamente tali programmi sono denominati Sistemi Esperti e si rivolgono a molti campi dell’attività umana.

 

Intelligenza Artificiale e sistemi esperti in psicologia clinica: analisi e definizione

Il compito di un sistema esperto è quello di simulare, per quanto possibile, il processo di ragionamento tipico di un essere umano, esperto in un particolare campo, e di suggerire all’utilizzatore le soluzioni più idonee, sulla base delle conoscenze immagazzinate e delle regole per il loro trattamento.

Un sistema esperto è formato essenzialmente da tre moduli: il motore inferenziale, la base di conoscenza e l’interfaccia utente. Il motore inferenziale nei sistemi esperti, opera sulle conoscenze per giungere a delle conclusioni definite. Esso è capace di eseguire deduzioni e passaggi logici utilizzando una serie di assunzioni iniziali e una serie di regole da applicare per la soluzione del problema. La base di conoscenza, invece, comprende tutta la conoscenza specialistica a disposizione del sistema. L’interfaccia utente nei sistemi esperti, infine, serve per mettere in comunicazione il sistema con l’utilizzatore. E’ costituita dagli algoritmi che consentono di sottoporre il problema al sistema esperto e di ricevere da esso la soluzione.

Nella pratica clinica, i sistemi esperti più diffusi sono basati sul modello empirico di uso della conoscenza; in altri casi i dati clinici sono elaborati mediante calcolo probabilistico, utilizzando le conoscenze derivate dall’analisi di larghe basi di dati preesistenti.

Nel primo caso (sistemi basati sulla conoscenza) tutti i dati clinici inclusi nella base dati del sistema sono caratterizzati in rapporto a ciascuna delle ipotesi diagnostiche, identificando sia la rilevanza del dato, sia la compatibilità di ciascuno dei suoi possibili valori. L’evidenza clinica delle ipotesi selezionate, calcolata combinando rilevanza e compatibilità di tutti i dati osservati nel singolo paziente, può essere ulteriormente corretta mediante alter regole basate su criteri di conferma/esclusione, consistenza/inconsistenza o somiglianza/dissomiglianza.

Nei sistemi basati sul calcolo delle probabilità la decisione clinica viene invece elaborata mediante l’applicazione del teorema di Bayes, che calcola le probabilità oggettive delle ipotesi sulla base dei dati osservati. Questo metodo porta a stime più accurate di quelle ottenute con il metodo precedente, ma richiede la definizione di regole predittive sviluppate sulla base della valutazione clinica di una considerevole quantità di pazienti.

L intelligenza artificiale al servizio della psicologia ovvero i sistemi esperti in psicologia clinica - FIG 1

Figura 1. – Schema strutturale di un Sistema Esperto. Il sistema tratta la conoscenza trasmessa da un esperto e “formalizzata” dall’ingegnere della conoscenza, per fornire soluzioni a disparati problemi. L’utente interroga il sistema esperto tramite un’interfaccia che, nel caso più comune, è una tastiera connessa ad un monitor, ma può essere anche un sistema vocale o grafico. La scelta della soluzione più idonea è determinata dal motore inferenziale

 

I sistemi esperti storici e di oggi

Nella storia della psicologia clinica esistono alcuni programmi che si avvicinano a dei sistemi esperti veri e propri. Eccone alcuni:

  • MSER-DIAGNO (Morgana, Pancheri, 1974) è un programma scritto in FORTRAN e destinato a un mainframe. Esso utilizza il Mental Status Examination Record (MSER) per valutare lo stato psichico del paziente e produrre un report narrativo che combina alcune frasi precostruite memorizzate dal computer. È disponibile anche un output in forma sintetica, che riporta i punteggi relativi a 20 scale fattoriali. Il supporto decisionale è invece costituito dal sistema DIAGNO, che, seguendo una procedura decisionale ad albero, forma una indicazione diagnostica secondo 75 categorie nosografiche derivate dal DSM.
  • MANDATE CONSULTANT (Parry, Hofmeister, 1986) è un sistema messo a punto per pianificare alcuni “programmi educativi individuali” nel campo del deficit d’apprendimento. Il sistema è in grado di progettare e revisionare programmi educativi individualizzati e gli autori hanno fornito dati, ottenuti con test in doppio cieco, che dimostrano come esso sia superiore all’esperto umano nell’adeguare i programmi alle necessità dell’utente.
  • SCIROPPO (Brighetti, Contento, 1986) è invece un sistema di supporto alle decisioni relative a un percorso psicoterapeutico. Dialogando con l’utente sui dati anamnestici di un soggetto, “esamina e offre come output le possibili conseguenze dei dati, i possibili obiettivi che un terapeuta può proporsi e una gamma di interventi rapportati al tipo di caso considerato”.
  • SEXPERT (Binik et al., 1988) riguarda un sistema esperto per l’assessment e il trattamento di disturbi di natura sessuale. Esso è concepito come un sistema interattivo di terapia supportato dal computer e deriva le proprie tecniche sia dai sistemi di intelligenza artificiale che da quelli deputati al tutoring intelligente.

Con la metà degli anni 90 l’interesse per i sistemi esperti in psicologia clinica è notevolmente diminuito, ciò nonostante le ricerche in questo campo non hanno mai smesso di continuare. Dal 2000 a oggi sono pochi i sistemi che hanno fatto la loro comparsa nel ramo della psicologia. Eccone alcuni esempi:

  • ESPDQ-C (Zhang Chi et al, 2001) è un programma sviluppato in Visual Basic nato per supportare il lavoro del CCMD-2-R (Chinese Classification Mental Diseases, 2nd revision) sui disturbi della personalità. ESPDQ-C presenta al suo interno la sintesi del PDQ-C, ovvero del Personality Disorder Questionnaire. Le risposte formulate dal sistema presentano un buon grado di affidabilità e validità.
  • ESQUIZOR (Madera Carrillo et al, 2003) è un sistema esperto progettato per formulare e testare l’efficacia di trattamenti neurolettici a favore di schizofrenici di tipo paranoico. Il sistema prevede l’utilizzo di un albero decisionale basato su esempi prima di arrivare a elaborare una conclusione.
  • TRAUM (Julies Grim-Haines et al, 2006) è un sistema computerizzato pensato per assistere chi deve diagnosticare e trattare disturbi neuropsicologici dovuti a lesioni cerebrali, ictus o ritardi nello sviluppo. Oltre al lavoro di assistenza, questo programma è in grado di formulare da sé delle diagnosi valide ed accurate, paragonabili per scrupolosità a quelle ottenute da clinici.

 

Sistemi Esperti: i potenziali impieghi in psicologia clinica

Esistono almeno cinque aree della psicologia clinica nelle quali sarebbe possibile sviluppare veri e propri sistemi esperti, oltre a due d’impiego generale.

La prima area, riguarda l’impiego dei sistemi esperti nell’ambito dell’assessment cognitivo. Dato che gli psicologi stanno attualmente mettendo a punto modelli formali relativamente accurati della abilità cognitive, dovrebbe essere possibile tradurre questi modelli, nel modo descritto più sopra, in un sistema esperto il quale, a sua volta, genererebbe una descrizione psicologica dello stato cognitivo del paziente. Proprio come questo sistema è capace di identificare e valutare la performance relativa alle diverse componenti di una competenza funzionale rispetto a una data abilità, esso potrebbe anche combinare l’assessment di queste abilità in un’ampia gamma di aree, in modo da pervenire a una descrizione complessiva delle funzioni intellettuali del cliente.

Una seconda area, è quella della diagnosi neuropsicologica. I sistemi esperti di cui ci si avvale nel campo più generale della diagnosi medica e psichiatrica forniscono un ovvio modello anche in quest’area. In più, il tipo di approccio neurologico che è stato adottato in questo secolo ha generato, in maniera del tutto naturale, molto materiale adatto a essere incluso in un sistema esperto.

Una terza area di applicazione di Sistemi Esperti in psicologia riguarda la valutazione delle abilità nell’orientamento professionale connessa al tipo di assessment appena preso in considerazione. Anche in questo campo si offre l’opportunità di avvalersi di un sistema esperto basato su un modello teorico della selezione e dell’orientamento, che effettui l’assessment di un cliente e gli fornisca poi alcuni consigli circa le sue opportunità professionali.

La quarta area e la quinta area riguardano gli effetti sul comportamento dell’uso di droghe e dell’alimentazione. In entrambe queste aree si riscontra un ammontare talmente cospicuo di informazioni dettagliate che esse risultano estremamente difficili da organizzare o da collegare a particolari concetti clinici. Ciò dipende in parte dall’assenza di una teoria unificante (perlomeno per quanto riguarda il modo in cui le diverse informazioni sono connesse ai comportamenti più generali) e in parte dalla scarsa dimestichezza degli psicologi clinici nei campi della farmacologia, della biochimica e della fisiologia.

Le due aree di applicazione generale riguardano invece la simulazione di particolari stati psichiatrici e il training. La simulazione di stati psichiatrici deriva dal settore più generale dell’ intelligenza artificiale ed è stata studiata attraverso alcune tecniche, per certi versi più appropriate che non il ricorso a un sistema esperto. Tuttavia, la messa a punto di un modello di un particolare disturbo consentirebbe al clinico di comprendere meglio la dinamica del disturbo stesso, di formulare previsioni sugli esiti futuri e di testare gli effetti di particolari interventi (sul modello, invece che sul paziente). Il training, sia che si tratti di una rieducazione (conseguente a un traumatismo celebrale o a una malattia psichiatrica) o di un training iniziale (nel caso di un disturbo dell’apprendimento), può essere grandemente avvantaggiato dal ricorso dell’ intelligenza artificiale. I sistemi di insegnamento intelligenti possono prendere in considerazione un modello di performance normale e, sulla base di questo, le condizioni del cliente.

 

Conclusioni: tra sistemi esperti e il rischio di acquiescenza del clinico

Fino a oggi, la tecnologia dei sistemi esperti sembra aver esercitato effetti alquanto modesti nel ramo della psicologia clinica. Anche se sono stati conseguiti notevoli progressi nel campo dello sviluppo dei sistemi esperti, sono davvero pochi gli psicologi clinici che fino ad ora utilizzano questi artefatti elettronici nel proprio lavoro. Non tutti i clinici infatti sono convinti dell’effettiva utilità dei sistemi esperti nella propria pratica lavorativa, tanto più che alcuni di loro non li conosce affatto. Molti potrebbero essere indotti a credere che, se ci fossero problemi, li risolverà il sistema. Così non solo essi eviteranno di darsi una solida formazione, ma si disporranno a quell’atteggiamento di acquiescenza che costituisce la più pericolosa forma di inaffidabilità di questi sistemi.

Potrà accadere che poi, quando nell’uso effettivo si presenteranno delle difficoltà, e il sistema mostrerà di non saper fare tutto da solo, l’operatore potrebbe avere difficoltà a formulare una diagnosi e ad operare interventi appropriati. Questo modo di porsi è di per sé sbagliato.

La psicologia clinica è una professione nella quale la qualità del servizio fornito esercita un’influenza diretta sulla salute degli utenti e, di conseguenza, gli operatori del settore devono essere costantemente al corrente degli sviluppi e delle innovazioni che possono migliorare la qualità del loro lavoro. E ancora, in una professione nella quale la carenza di mezzi è spesso denunciata fra i problemi principali, gli psicologi clinici non possono permettersi di ignorare nessuna delle nuove tecnologie che potrebbero consentire loro di utilizzare al meglio le risorse di cui dispongono.

Delitto di Alatri: oltre alla violenza di gruppo, uno spaccato della ferocia dei nostri tempi

Del delitto di Alatri abbiamo capito tutto e non sappiamo nulla, o viceversa. Non brancoliamo nel buio, ma in una luce che ci acceca. D’accordo, il branco che si raduna e uccide, oppure il gruppo di balordi violenti che hanno tentato -goffamente- di passare a un nuovo livello di organizzazione delinquenziale attraverso un atto dimostrativo e fondativo. Ma c’è altro.

Articolo di Giovani Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 31/03/2017

 

 

Da quanto ne è scritto sui giornali finora, sembra ormai sempre più probabile che la vittima, Emanuele Morganti, sia stata perfettamente innocente. Pare che nella sequenza caotica delle provocazioni e colluttazioni successive non abbia mai attaccato per primo e, perfino quando aggredito, si sia sempre limitato a difendersi. Dapprima provocato e sgomitato al bancone del locale da un avventore troppo irruente, si limitava a protestare in un diverbio che tutto sommato poteva esaurirsi lì e rimanere irrilevante. La sicurezza del locale però interviene, in teoria a ragione: in questi luoghi gonfi di alcol e peggio, nessun contrasto può essere trascurato. Qui però si presenta il primo passaggio inquietante della sequenza: Emanuele è improvvisamente giudicato dai buttafuori come unico responsabile del diverbio e –a quanto pare- è già nel locale duramente picchiato.

E ancora non è accaduto nulla. Emanuele è poi portato fuori e qui incontriamo una delle testimonianze oculari più terrificanti. Qualcuno che era fuori dal locale vede questo strano spettacolo: una calca di gente che esce dal Mirò, il locale dove tutto è iniziato. In testa c’è Emanuele, portato di peso -già animale portato al macello- con la maglia strappata e con un po’ di sangue che gli esce dalla bocca. È un’orda disordinata di giovani belve ma è anche una processione, qualcosa che sta immediatamente al di qua di una cerimonia ma che già la prelude. Chi era lì ha potuto assistere al materializzarsi concreto della trasformazione della violenza bestiale in sacralità terrificante.

Poi il secondo passaggio. Fuori dal locale, Emanuele si rivolge ai buttafuori e protesta ancora, protesta la sua innocenza: perché è lui a essere espulso dal locale, lui che è l’innocente e la vittima del diverbio? Meglio farebbe Emanuele a tacere, a dileguarsi, a non protestare. I sofismi della violenza mefistofelica hanno già iniziato il loro percorso falsamente razionale e già la saggezza ipocrita di chi dice che si litiga sempre in due è in agguato. Meglio sarebbe stato sparire in quel momento fuggire. E invece Emanuele parla, protesta e si prepara a morire.

Arriva il terzo passaggio, di tutti il più terribile, forse perfino più dell’omicidio. Passano di lì i due fratellastri ora incarcerati. Essi finora sono del tutto estranei alla vicenda, non erano nemmeno dentro il locale. I due vedono la colluttazione e intervengono con gratuita violenza: a quanto pare, si avvicinano e prendono a schiaffi improvvisamente e del tutto a freddo Emanuele. Non si sa bene perché, oppure lo sappiamo benissimo. I giornali hanno descritto due giovani individui abituati allo spaccio e al consumo di stupefacenti e facili all’uso della violenza. Non si tratta però solo di due balordi. I due giovani hanno idee, progetti, velleità. Non si accontentano della loro marginale delinquenza, aspirano a creare un banda organizzata, una banda capace di assumere il controllo delle attività malavitose del territorio di Alatri, a cominciare dallo spaccio di droga.

Insomma, vogliono diventare dei boss. E per fare questo, e in questo i due balordi tradiscono una sapienza terrorizzante, non basta organizzazione. Occorre anche affiliazione, fedeltà, fondazione. Occorre un atto fondativo che leghi un gruppo nel giuramento di sangue. Sangue vero, però, non simbolico. I fratelli fanno sul serio. E forse i due vedono in questa colluttazione in corso fuori dal Mirò un’occasione. Decidono forse in quel momento di portare la colluttazione a un altro livello, di trasformarla da rissa a linciaggio. Linciaggio di un innocente, che, ironia della sorte, si chiama Emanuele, il nome del servo sofferente evocato da Isaia, la prefigurazione di Gesù Cristo intravista nella Bibbia ebraica. E allora anche gli schiaffi a Emanuele assumono un altro significato. Anche con Cristo portato a giudizio si iniziò con uno schiaffo.

Oppure sono stati i buttafuori a decidere di passare a questo livello. Non sappiamo ancora tutto. Forse erano i buttafuori gli aspiranti fondatori di una banda, o tutti insieme, i fratellastri e i buttafuori. Ce lo diranno le indagini. Fatto sta che nella piazza scatta un pestaggio che ormai è un linciaggio di una vittima che deve morire. Altri testimoni oculari raccontano storie che sono visioni, flash rapidissimi sempre più raggelanti. La fuga di Emanuele tra le auto parcheggiate, l’attacco dalle spalle, il balenare lucente di un tubo metallico o di una chiave a stella per sbullonare le ruote usata per massacrare definitivamente Emanuele. E in tutto questo, la notizia recente dell’autopsia che Emanuele si è sempre solo difeso, senza attaccare. Sul suo corpo non ci sono segni di un attacco attivo da parte sua, non ci sono escoriazioni sulle nocche del suo pugno. E ancora più inquietante che tra i picchiatori ci sia stato anche il padre di un dei fratellastri, a confermare la natura di sangue tribale della banda dei picchiatori. E così via.

Non è ancora finita. C’è ancora un passaggio che aggiunge alla vicenda altro sapore primitivo. Pare che a un certo punto Emanuele sia riuscito a dileguarsi dal branco. Rimasto solo, però, torna indietro a incontrare la morte. Perché fa questo? Perché lui era andato in quel locale in compagnia della sua ragazza, e ora, pur sfuggito al caos dello scontro, si chiede dove sia lei. Torna indietro quindi per proteggere la sua donna, o almeno per trovarla, averne notizie. Ma così facendo va incontro al peggio. Riagganciato dal branco, inizia il pestaggio, quello ultimo e mortale. Emanuele infine perde i sensi e cade a terra, e il pestaggio continua. Ancora non è chiaro se tutto sia rimasto confuso fino alla fine, se la morte sia avvenuta per un colpo accidentale alla testa di Emanuele che cadeva contro un’auto o per un colpo di grazia volontariamente perpetrato con questo misterioso attrezzo metallico, il tubo o la chiave a stella.

Questa storia è davvero terribile. Inutile rivangare ancora una volta  le teorie sul capro espiatorio o sul massacro sacrale o di Dioniso e Cristo e così via. Altrove c’è già molto materiale sulla violenza giovanile, su quel che si può fare e sulla perdita di valori o sulla ricerca sanguinaria di valori.

Questa di Alatri rimane una storia terribile di violenza di gruppo, a metà tra l’orda che cerca l’estasi nel sangue pur di dimenticare la fatica del vivere e la banda che anela velleitariamente a promuoversi a organizzazione tramite un atto fondativo che vorrebbe essere sacrale.

Piacerebbe scrivere “goffamente sacrale” ma questa tragedia rimane una tragedia, non è una farsa. Il bisogno di riunirsi, di affiliarsi, di sentirsi un gruppo può generare mostri, così come anche la solitudine però, la mancanza di riferimenti, a quanto pare. L’aggirarsi in questa storia di personaggi indecifrabili, questi due fratellastri di Alatri che sembrano la versione degradata di altri fratelli imbrattati dal sangue all’origine di qualcosa, di una qualche società, da Caino e Abele a Romolo e Remo, sembrano dirci che non solo non riusciamo ancora a superare la ricerca del sangue per riuscire a convivere, ma che lo facciamo sempre peggio, in maniera sempre più caotica e insensata.

La visione di sant’Agostino per cui l’organizzazione umana, anche quando si copre di gloria, nasconde sempre una banda di delinquenti all’origine (Agostino si riferiva alla fondazione di Roma) ad Alatri assume una forma terrifica.

Nel giorni in cui il Regno Unito esce dall’Unione Europea tutto questo ci avverte in maniera sempre più significativa di quanto sia difficile convivere solo su basi razionali. Ma l’alternativa non può essere il sangue di Remo o di Dioniso. Dopo Cristo, se fai questo, fai la fine di Caino, non diventi Romolo. E questo –se può consolare- accadrà ai picchiatori di Alatri: avranno su di loro il segno di Caino. Ma non finisce bene. Il finale surreale di questa tragedia, con il dettaglio definitivamente disorientante dell’animalista balordo che gioisce su Facebook per la morte del “cacciatore” Emanuele, è solo un ulteriore segno di questi tempi caotici e feroci.

I sentimenti che complicano l’orgasmo – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Come mai quando ho un rapporto sessuale con qualcuno per cui provo interesse particolare e sentimento mi riesce più difficile raggiungere l’orgasmo ed invece più sono disinteressata più mi è facile raggiungerlo? (AnnaMaria)

 

 

Cara AnnaMaria,

nel suo caso sembra che la difficoltà a raggiungere l’orgasmo la sperimenti solo con alcuni partner. Potremmo per questo dire che è una difficoltà situazionale, che dipende appunto da come lei vive la circostanza.

Come mai accade ciò? Con i dettagli che ci ha fornito, una risposta circoscritta non è possibile darla, ma dato che la sua difficoltà si presenta solo quando c’è un interesse o sentimento di particolare rilievo, il punto potrebbe essere il controllo che lei esercita sul suo corpo durante questi rapporti (perché tutto avvenga in modo più relazionale e simultaneo, ad esempio).

Sicuramente, è importante considerare che la risposta sessuale umana coinvolge anche la parte cosciente del cervello, per questo motivo i pensieri che si hanno durante le diverse fasi del rapporto influenzano le sue eventuali difficoltà.

Se vuole saperne di più circa le motivazioni psicologiche che potrebbero ostacolare il suo lasciarsi andare, potrebbe provare a soffermarsi su ciò che pensa durante il rapporto.

Tenga anche in considerazione che questa ricerca del “come mai” può contribuire ad alimentare il controllo stesso e la sua difficoltà.

Greta Riboli

 

Le consigliamo inoltre la lettura di alcuni articoli precedentemente pubblicati su State of Mind, tra cui:

L’ Orgasmo Femminile: ma le Donne come Funzionano?

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Le ragioni del cuore: in base a quali caratteristiche scegliamo il nostro partner?

Vi siete mai chiesti cosa hanno in comune i vostri ex, e in cosa differiscono tra di loro? Secondo uno studio dell’Università della California, le persone condividono tra loro molte particolarità, sia fisiche che caratteriali.
Ma perchè qualcuno ci piace? Quali sono le qualità dell’altro che emergono maggiormente a discapito di altre?

 

Le caratteristiche del partner che ci attraggono

In primis si è attratti da ciò che osserviamo nell’altro sin dal primo momento, ovvero il portamento e l’aspetto fisico. Le persone attraenti seducono altre persone attraenti. Secondo i ricercatori, ci sono altre qualità che attraggono, e dipendono dal luogo in cui si vive, come l’educazione o la religione. Tendiamo ad uscire con persone che hanno il nostro stesso livello di istruzione o appartenenti alla stessa religione, ne siamo maggiormente attratti.

Secondo Paul Eastwick, autore dello studio, tendiamo ad essere attratti da chi ci somiglia, cioè facciamo scelte in qualche modo conformiste.
Lo studio, pubblicato sul Journal of Personality and Social Psychology della American Psychological Association, evidenzia che esistono similitudini fisiche tra i partner attuali e quelli passati. Nel campione in esame gli ex tendevano, infatti, ad essere molto simili tra di loro, poichè avevano in comune l’istruzione, la religione e l’intelligenza. Questo tipo di somiglianza però potrebbe essere stata determinata dalla condivisione di un contesto sociale comune, ad esempio l’aver frequentato le stesse scuole. In altre parole la somiglianza tra gli ex potrebbe non essere stata determinata dalla ricerca di caratteristiche simili ma essere il risultato di un contesto sociale condiviso.

Secondo il Dottor Eastwick infatti l’intelligenza e l’istruzione hanno un ruolo importante, ma spesso le scelta del partner ricade nella cerchia dei colleghi, e quindi si scelgono persone con le quali si condivide l’ambiente lavorativo.

Questo studio si distingue dalla maggior parte delle altre ricerche che esaminano le relazioni sentimentali perché si concentra su quelli che sono i rapporti delle persone nel tempo, e come essi cambiano.

5 idee sul Disturbo Bipolare

Se abbiamo potuto accettare il rapimento delle fobie da parte dell’Alprazolam e ciò ha permesso al “disturbo di panico” di smettere di sembrare un disturbo della psiche (l’Alprazolam è molto più facile da esibire, si porta dovunque e sta bene con tutto) è intollerabile accettare di essere rinchiusi nella riserva della psicoeducazione dagli occupanti di uno dei nostri territori storicamente più importanti, se ricordiamo che Beck è ricordato appunto per la sua triade cognitiva inerente proprio la depressione. Per questo propongo questa piattaforma, da modificare e arricchire con il contributo di tutti, per iniziare una resistenza allo strapotere delle multinazionali del farmaco.

 

5 Idee sul disturbo bipolare

1. Senza dubbio è la patologia in cui è più evidente l’aspetto biologico come si evince dalla presenza di una forte familiarità e dall’efficacia dei farmaci. Non credo tuttavia che la sua gestione vada lasciata completamente nelle mani di psichiatri e aziende farmaceutiche relegando la psicoterapia a mera psicoeducazione sulla malattia e sull’importanza dei farmaci e dell’igiene di vita. Credo al contrario che aspetti psicologici siano sottostanti al disturbo e attivi nei viraggi della sintomatologia.

2. Gli elementi di base sottostanti al disturbo sono due:
l’incertezza sul proprio valore personale;
il fondare tale valore sulle performance.

3. La dinamica del loop della maniacalità prevede che in seguito ad un successo aumenti il valore percepito di sé e esponenzialmente le aspettative di ulteriori più grandiosi successi con un incremento dell’impegno nel perseguirli. Seppure i successi arrivino con progressione lineare (almeno all’inizio è possibile), le aspettative crescono con progressione geometrica. Fatalmente il gap tra risultato ottenuto e risultato atteso da cui dipende il vissuto soggettivo di successo o fallimento si amplia fino a che un certo risultato, per quanto positivo, è ritenuto insufficiente e dunque fallimentare. Il che blocca e inverte il loop attivato inizialmente da un successo. Inoltre è evidente che un incremento percentualisticamente uguale è via via più difficile da ottenere al crescere del valore di partenza (basterà pensare alla diminuzione di peso durante una dieta più consistente all’inizio).

4. La dinamica del loop depressivo è esattamente opposta. Il depresso peggiora le performance ma ancora di più abbassa le aspettative di successo per cui arriva un tempo in cui una performance è molto modesta (ad esempio durante un ricovero il semplice mangiare al tavolino invece che a letto viene registrata come un successo che inverte la spirale).

5. Il meccanismo sottostante ad entrambe le spirali psicopatologiche è, in realtà evolutivamente adattivo. E’ infatti utile aumentare al massimo l’impegno quando un successo è considerato probabile e a portata di mano. Al contrario è altrettanto utile ridurre o sospendere completamente l’impegno, per non sprecare risorse, quando è previsto il fallimento.

Conclusione

E’ troppo presto e sproporzionate le forze per poter proporre uno scontro diretto. Si tratta di agire nell’ombra, anche fingendosi collaborazionisti e contemporaneamente insinuare di tanto in tanto il dubbio “ che forse si d’accordo la serotonina….ma a ben guardare potrebbe……”

Internet e patologia: la dipendenza e l’uso patologico di internet

Il modello dell’ Uso Patologico di Internet (Patological Internet Use, d’ora in poi P.I.U.) proposto da Davis (2001), presenta delle caratteristiche che possono renderlo maggiormente utile sia nel processo diagnostico che nella definizione di una terapia. Tale modello prevede che per parlare di uso patologico di internet, l’esposizione a Internet avvenga in un contesto in cui nella persona c’è già una psicopatologia concomitante (depressione, ansia sociale, dipendenza da sostanze ecc.) e un’ambiente circostante potenzialmente rinforzante.

Matteo Kettmaier, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

La dipendenza da internet

Il problema della “dipendenza da Internet” ha sollevato molto interesse, tanto in ambito accademico, quanto in ambito clinico e, più recentemente, anche sui mass media.

Nell’ultima edizione del DSM (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali), l’unica voce che si riferisce a questa problematica è nella sezione “Condizioni che necessitano di ulteriori studi” e si riferisce ad una condizione molto particolare: il “Disturbo da gioco su Internet”, con la specificazione che questa voce non si riferisce a forme di gioco d’azzardo ed esclude altri contenuti, ad esempio quelli di natura sessuale.

In generale, si possono osservare tre criticità relative alla categorizzazione di un uso patologico di Internet e delle nuove tecnologie come una forma di dipendenza:
– La definizione dell’oggetto specifico di tale dipendenza
– La definizione di criteri discriminanti tra normalità e patologia
– Le implicazioni di tale inquadramento per la terapia

 

Internet addiction: dipendenti da cosa?

Attualmente c’è un forte disaccordo su quale sia effettivamente l’oggetto di questo comportamento patologico. In una review sul tema (Chou et al. 2005), sono stati riportati diversi fattori che renderebbero Internet in sé potenzialmente “additivo”: velocità, accessibilità, intensità dell’informazione a cui si può avere accesso e il potenziale stimolante dei suoi contenuti: a tali fattori si potrebbe aggiungere l’”effetto di disinibizione online” (Suler, 2004) per cui l’invisibilità, l’anonimato e l’asincronicità della comunicazione sarebbero alla base di comportamenti aggressivi on-line come il flaming, il trolling e il cyber-bullismo. Tale effetto disinibente, infatti, può avere un forte ruolo rinforzante nel ritiro sociale, facilitando la comunicazione e l’espressione di sentimenti negativi in individui particolarmente repressi o sofferenti di ansia sociale.

Sin dagli albori della ricerca in questo campo, però, il problema dell’eterogeneità dei servizi offerti da Internet, e i conseguenti quadri comportamentali molto diversi tra loro che ne possono derivare è stato affrontato in maniera diversa dai diversi ricercatori: se alcuni hanno mantenuto la definizione di “dipendenza” cercando di identificare dei sottotipi (Young, 1999), altri hanno negato la validità del concetto, affermando che l’uso eccessivo di Internet sarebbe sempre un mezzo per alimentare altre dipendenze (Griffiths, 2000).

Internet si presenta come un mezzo dalla natura duplice: magazzino apparentemente infinito di informazioni e attività ricreative e mezzo di comunicazione interpersonale.

Per quanto riguarda l’utilizzo di servizi di comunicazione e auto-presentazione, il dott. Tonioni ha dichiarato in un’intervista che sarebbe improprio parlare di dipendenza quanto piuttosto di una forma di ansia sociale legata al bisogno di approvazione.

Analogamente, altri ricercatori hanno constatato la genericità del termine, sottolineando l’importanza di determinate caratteristiche di personalità nell’emergenza del disturbo.

 

Uso patologico di internet: quando si è dipendenti?

Attualmente non ci sono dei criteri definiti per distinguere normalità e patologia e questo ha conseguenze importanti sulla ricerca in questo campo. Questa mancanza di univocità ha portato ad un’estrema eterogeneità dei tassi di prevalenza stimati di tale disturbo, che variano dallo 0,3% al 26,7% nei diversi studi e addirittura dallo 0,2% al 46% nel caso di un disturbo specifico da videogiochi (Strittmatter et al. 2015).

Le conseguenze di questa eterogeneità possono essere molto negative, soprattutto riguardo ai più giovani; i possibili rischi dell’adozione di criteri troppo liberali può infatti portare all’esacerbazione di un GAP generazionale già presente in misura maggiore o minore nelle diverse famiglie.

La preoccupazione di un genitore nei confronti del tempo trascorso on-line da parte del figlio può infatti essere dovuta ad una mancata consapevolezza della pervasività delle nuove tecnologie nella vita quotidiana e sociale dei più giovani. Attualmente, infatti, nonostante l’iscrizione ai social network sia ufficialmente vietata ai minorenni nella maggior parte dei casi, tanto la creazione di un profilo on-line, quanto l’utilizzo di social network “di comunicazione” come Whatsapp e Telegram stanno diventando (o sono già) un’importante tappa evolutiva nel percorso di individuazione del ragazzo. I rischi connessi all’utilizzo precoce di questi mezzi sono molteplici ma, fintanto che non verrà messo in atto uno stretto “giro di vite” volto a far rispettare i divieti, un atteggiamento ansioso e demonizzante nei confronti della rete rischia di produrre forti effetti di incomunicabilità tra genitori e figli col rischio di un circolo vizioso di fuga dalle emozioni negative agita on-line.

Un genitore del tutto disinformato riguardo ai meccanismi della socialità on-line o delle potenzialità informative positive della rete rischia di interpretare come preoccupanti comportamenti che invece sono la norma nella fascia d’età del proprio figlio. Se tale atteggiamento porta ad una demonizzazione del mezzo, oltre ad esserci il pericolo summenzionato di un circolo vizioso di fuga, il genitore sottovaluterà quelli che sono i pericoli autentici della rete per i più giovani e non sarà in grado di fornire un’educazione corretta al riguardo. Il pericolo di adescamento on-line, della messa in atto di comportamenti persecutori (cyber-bullismo) e della ricerca di contenuti inadeguati necessitano di interventi educativi specifici che un atteggiamento completamente negativo preclude. Un panico indiscriminato riguardo al tempo trascorso davanti al computer, poi, rischia di far perdere di vista al genitore la possibilità che il proprio figlio stia scoprendo delle abilità e inclinazioni specifiche che potrebbero diventare una carriera futura nella programmazione, nel web design o nel marketing.

La definizione di criteri univoci per distinguere normalità e patologia è una sfida che non riguarda soltanto l’ambito della psicologia e della clinica ma si inserisce in un più ampio bisogno di definire l’impatto inevitabile delle nuove tecnologie sulla vita quotidiana e sullo sviluppo nelle nuove generazioni. Le possibilità offerte dalla rete stanno introducendo forti mutamenti sociali la cui comprensione è ancora poco chiara e resa difficoltosa dalla mutevolezza del fenomeno, si pensi al potenziale impatto della diffusione domestica di strumenti per la realtà virtuale immersiva come l’Oculus Rift e alle specificità che essa porterebbe con sé. Senza un accordo generale su ciò che costituisce la “normalità” socialmente accettabile e non lesiva, non è possibile definire ciò che rientra nella patologia.

 

Dipendenza da internet: cosa curare?

Attualmente le realtà più consolidate nel trattamento della dipendenza da Internet si trovano negli Stati Uniti e in Cina ma ovunque nel mondo siano diffuse tali tecnologie si sta iniziando a prendere atto del loro potenziale patogeno e stanno emergendo casi di uso patologico di Internet. In Italia, in particolare, il “Centro Pediatrico Interdipartimentale per la Psicopatologia da web” del Policlinico Gemelli prende in carico sia casi di dipendenza da Internet che di cyber-bullismo e diversi Servizi per le Dipendenze della sanità pubblica si stanno attrezzando per far fronte a questo nuovo fenomeno.

I problemi summenzionati nella definizione del problema “dipendenza da Internet” si riverberano nella definizione di piani terapeutici. Considerando come centrale il problema dell’isolamento sociale, il tema del recupero della relazionalità dovrebbe essere a sua volta centrale nel percorso terapeutico ma i differenti profili di abuso della rete possono rendere difficile questo processo, in particolare il lavoro in terapia di gruppo, tipicamente applicato nel caso delle tossicodipendenze: si pensi ad un gruppo in cui convivono persone con un problema di iper-utilizzo di videogiochi, di abuso di pornografia on-line e di ricerca ossessiva di informazioni on-line.

Se l’esperienza e la sensibilità del terapeuta possono gestire questo problema e portare a dei risultati positivi, la complicazione si ripresenta nel momento in cui si voglia definire dei protocolli di intervento.

Un altro problema terapeutico relativo al concetto di “dipendenza da Internet” o “dipendenza tecnologica” è quello della definizione di “astinenza” o “uso non patologico”. Se, tipicamente, in un percorso terapeutico per la dipendenza da sostanze, un obiettivo terapeutico fondamentale è il mantenimento dell’astinenza, viene da chiedersi se sia possibile proporlo nei casi di dipendenza da Internet, moltissimi lavori odierni, infatti, richiedono l’utilizzo di un computer, pertanto la prescrizione dell’astinenza totale può rivelarsi molto controproducente.

Rinunciare allo smartphone, ad esempio, può non essere un’opzione praticabile e per quanto la persona possa lavorare sui propri trigger interni, avrà sempre il proprio trigger esterno in tasca, carico di nuovi significati negativi e potenzialmente ansiogeni.

Un dipendente da alcol che vuole mantenersi sobrio eviterà di lavorare in un bar o in una distilleria ma se si volesse evitare il contatto con le nuove tecnologie, le possibilità occupazionali si riducono in maniera molto più drastica. Un effetto negativo può prodursi anche nel campo della socialità perché il fare a meno di alcune tecnologie per la comunicazione può rendere difficile la relazionalità e produrre isolamento.

 

Il modello di Davis sull’ uso patologico di internet

Come detto sopra, è ancora oggetto di discussione se si possa parlare di uno specifico problema internet-correlato o se, piuttosto, non sia più proficuo considerare le problematiche sottostanti tale comportamento.

Il modello dell’ Uso Patologico di Internet (Patological Internet Use, d’ora in poi P.I.U.) proposto da Davis (2001), presenta delle caratteristiche che possono renderlo maggiormente utile sia nel processo diagnostico che nella definizione di una terapia.

Tale modello prevede che per parlare di uso patologico di internet, l’esposizione a Internet avvenga in un contesto in cui nella persona c’è già una psicopatologia concomitante (depressione, ansia sociale, dipendenza da sostanze ecc.) e un’ambiente circostante potenzialmente rinforzante.

Trattandosi di un modello cognitivo comportamentale, le cognizioni maladattive sono centrali nell’emergenza del sintomo: la convinzione specifica sarebbe l’idea che la propria vita on-line sia migliore della propria vita reale. Tale cognizione porta all’ uso patologico di internet e ai suoi sintomi comportamentali. L’ uso patologico di internet può manifestarsi in forma specifica se diretto ad una tipologia di servizi on-line (videogiochi, pornografia, ecc.) oppure generalizzata, in questo secondo caso un elemento fondamentale nell’emersione del problema è l’isolamento sociale o la mancanza di supporto.

I vantaggi di questo modello sono molteplici:
L’attenzione alla presenza di una psicopatologia concomitante permette un inquadramento più preciso del funzionamento complessivo della persona e della sua sofferenza.

Il concetto di uso patologico di internet è un’”etichetta” meno discriminante rispetto alla dipendenza. Si pensi a quanto possa essere destabilizzante ricevere una diagnosi di dipendenza in un adolescente, inoltre, quando si parla di dipendenza ci si riferisce ad una condizione recidivante e al momento non c’è documentazione di persone trattate per questo disturbo che abbiano vissuto autentiche ricadute.

Questo modello può includere persone il cui uso di Internet è problematico nei confronti degli altri utenti senza che egli o le persone vicine a lui manifestino disagio, come nel caso dei cosiddetti “troll”. A titolo di esempio si può pensare al caso di Michael Brutsch, “il più grande troll di Internet”, che per anni ha molestato gli utenti del sito di discussioni reddit.com con contenuti razzisti, misogini e provocatori pure senza mai superare il limite della legalità. Da quello che si sa della sua biografia si può parlare di una situazione relazionale molto impoverita a cui suppliva mediante il suo avatar Violentacrez esercitando un senso di controllo e manipolazione nei confronti dei nuovi utenti e ricevendo simpatia e affetto da chi già lo conosceva (era soprannominato “Reddit’s Creepy Uncle), con modalità simili a quelle del “cyberbullo avido di potere” (Genta et al. 2013). Nel momento in cui la sua vera identità è stata svelata da un giornalista, dopo un breve periodo di esposizione mediatica, Brutsch ha perso il lavoro e ha subito ostracismo. Per quanto il suo comportamento fosse moralmente riprovevole, ritengo che sarebbe stato più giusto che gli venisse offerta la possibilità di seguire un percorso terapeutico piuttosto che subire una perniciosa umiliazione pubblica.

 

Conclusioni

Il fenomeno della dipendenza da Internet e dei comportamenti patologici e devianti correlati ad Internet necessiterà ancora di molti anni di approfondimento, resi particolarmente difficoltosi dal mutamento costante dell’oggetto di indagine.

Se per intanto, il modello di Davis sembra più utile nel far fronte all’esistente, si può ipotizzare che in futuro i disturbi Internet-Correlati possano meritare una specifica categoria nel DSM, in cui vengano distinte le diverse forme di uso eccessivo in maniera analoga a come vengono distinte le diverse dipendenze da sostanza e considerati come patologici certi comportamenti aggressivi e antisociali agiti on-line qualora fossero pervasivi.

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