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Critica all’articolo ‘Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile’

This work means to provide a logical and methodological critic to the article by Macrì P.G. et. al. (2012), “Indagine conoscitiva sulla violenza verso il maschile”, published in “Rivista di Crimino­logia, Vittimologia e Sicurezza”, Vol. VI, N. 3, September-Dicember 2012, 30, which attempts to investigate women’s violence against men.

Francesco Iovine

 

The authors, starting from ideological premises according to which the Italian culture would “normalize” public violence against men, report the results of an – in many aspects – invalid questionnaire, yet claiming to fulfill projections of results on a national scale.

From these premises, this paper aims to analyze all problematic aspects through a deconstruction on different levels – epistemological, theoretical, methodological, and bibliographic. The starting point will be an analysis of language employed by the authors, which appears strikingly ideological and far from the properness of form a scientific publication would require.

The absence of any theory supporting the authors and authoresses’ petitio principii is furtherly made worse by the missing references to the topic’s literature or any study or data gathering in the field. The substantial scientific unreliability of such questionnaire, the items of which investigate the single act in a generic way and rule out all variables linked to the episode’s context, to the author’s own characteristics, to the consequences of violence and of the victim’s behaviour, to relations with the forces of law and to the history of violence, will be discussed in detail.

Further object of discussion will be the participation in such a questionnaire of male subjects reached through the subscription to a newsletter of a network of websites revolving around a distinguishably misogynous blog (Centro Documentazione Violenza Donne) and unknown associations. The discussion on the point of non-representativeness of such a sample selection and the limits of such a bibliography will be further elements supporting the thesis of the poor validity of the whole Indagine.

 

Keywords: gender symmetry, gender violence, misogyny.

Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017) – Recensione del libro

Nel momento in cui diventa patologico il rimuginio ostacola ogni nostra possibilità di movimento. Tutte le scelte danno adito al pensiero ripetitivo, che logora, toglie il sonno e ci fa tenere l’ombrello aperto anche se il cielo è sereno. Tutto ciò è descritto in modo tecnico e dettagliato nel volume di Caselli, Ruggiero e Sassaroli.

 

In fin dei conti il pensiero, lo hanno già detto altri, o forse anch’io, è come un grosso gomitolo di filo arrotolato su se stesso, lento in alcuni punti, in altri stretto fino alla soffocazione e allo strangolamento, è qui, dentro la testa, ma è impossibile conoscerne tutta l’estensione, bisognerebbe srotolarlo, tenderlo e infine misurarlo, ma questo, per quanto lo si tenti, o si finga di tentarlo, non si può fare da soli, senza aiuto, dev’esserci qualcuno che un giorno venga a dirti dove tagliare il cordone che lega l’uomo al suo ombelico, dove legare il pensiero alla sua causa.

(José Saramago, Il vangelo secondo Gesù Cristo, 1991)

 

Rimuginare è l’arte di soffocare la razionalità costruendo diagrammi di flusso con un numero di opzioni che tende a infinito. È l’illusione di poter riuscire a affermare che tutti i cigni del pianeta sono bianchi perché realmente li abbiamo contati tutti. È la percezione che, pensandoci bene, saremo in grado di prevedere il futuro. O per lo meno evitare di essere sorpresi.

Chi rimugina? Tutti. Siamo tutti matti? Forse. Ma qualcosa che ci ha fatto rimuginare c’è stato e ci sarà ancora. Dalla scelta del percorso di studi, al dubbio ossessivo che ti assale quando tua moglie chiede: “Non senti un desiderio di paternità?”, fino a decidere come suddividere la tua eredità senza offendere nessuno. Questi e molti altri sono ottimi motivi per infilarsi a capofitto nel vortice del rimuginio.

Nel momento in cui diventa patologico il rimuginio ostacola ogni nostra possibilità di movimento. Tutte le scelte, anche le più banali, danno adito al pensiero ripetitivo, che logora, toglie il sonno e ci fa tenere l’ombrello aperto anche se il cielo è sereno. Tutto ciò è descritto in modo tecnico e dettagliato nel volume di Caselli, Ruggiero e Sassaroli, che hanno dedicato parte della loro attività di ricerca nel comprendere il rimuginio e parte della loro attività clinica nel cercare di aiutare i pazienti a chiudere i loro ombrelli.

 

Rimuginio. Teoria e terapia del pensiero ripetitivo: struttura del manuale

Gli autori, ripercorrendo le più importanti tappe del cognitivismo, analizzano il passaggio dal focus sui contenuti all’attenzione sui processi del pensiero. La storia del rimuginio è narrata nel dettaglio, così come vengono definite le sue implicazioni in diversi costrutti, fino a descrivere un modello integrativo articolato, che unisce strategie di regolazione cognitiva, vulnerabilità emozionale automatica e contenuto-specifica e conoscenze metacognitive (Life themes and plans Implications of Biased Beliefs: Elicitation and Treatment – LIBET, Ruggiero e Sassaroli, 2013; Sassaroli, Caselli, Ruggiero, 2016).

La seconda parte del volume è dedicata ai risvolti psicopatologici del rimuginio e alle credenze che ne sostengono l’utilizzo. Uno dei motivi principali per cui rimuginiamo è perché siamo spinti dalla convinzione che sia il modo giusto di risolvere il problema. In effetti, a tutti noi hanno insegnato di pensare bene prima di prendere una decisione. Mossi da questo principio, possiamo dedicare ore e ore nel tentativo di sviscerare un problema, fino a credere di non poter fare altro, di non avere mezzi diversi dal rimuginio per trovare una soluzione. L’opzione di considerare una scelta come valida, seppur non perfetta, non è contemplabile. Per ogni stile di pensiero ripetitivo (rimuginio ansioso, ruminazione depressiva, ruminazione rabbiosa e pensiero desiderante) gli autori analizzano il costrutto, le emozioni negative a essi correlate, le credenze che ne sostengono l’utilizzo e le implicazioni all’interno della terapia.

L’ultima parte del manuale è dedicata all’esposizione di strumenti e tecniche per lavorare in terapia sul pensiero ripetitivo. La concettualizzazione dell’episodio di rimuginio è spiegata passo per passo e illustrata tramite numerosi esempi tratti dalla pratica clinica. Allo stesso modo viene descritto come sia possibile incrementare la consapevolezza e il controllo sul rimuginio e quali homework possano essere utili a tale scopo.

Dopo questi primi passaggi, in terapia è chiara la discrepanza tra l’obiettivo che il paziente intende raggiungere (decidere come dividere l’eredità) e i mezzi che sta utilizzando per farlo (cercare di prevedere tutte le possibili reazioni, emotive e cognitive, dei beneficiari e dei relativi parenti).

Tuttavia emerge spesso nel paziente la sensazione di paura all’idea di dover abbandonare una strategia così famigliare. È il terrore di essere disarmati davanti al nemico, di non avere strumenti per dirigere la propria vita. Anche su questo punto gli autori si soffermano, suggerendo step by step gli interventi necessari a focalizzare nuovamente l’obiettivo della terapia e rafforzare i nuovi apprendimenti. Chi conosce il modello metacognitivo potrebbe pensare a tecniche mirate sul processo, che danno poco spazio ai contenuti personali. In questo volume non si tratta solo di questo: lo stile cognitivo non è descritto in sé e per sé, né nella sua concettualizzazione, né nel trattamento. Gli autori tessono una mappatura del funzionamento personale che permette al terapeuta di muoversi dalla superficie sintomatologica ai temi dolorosi nucleari, propri dell’individuo che incontriamo nel nostro studio. Chiude il libro una precisa rassegna degli strumenti utilizzati per misurare il pensiero ripetitivo e i costrutti a esso correlati. Autrice di quest’ultima parte è Chiara Manfredi, clinica e ricercatrice, che ha curato diverse pubblicazioni in questo ambito.

L’accurato lavoro di raccordo svolto dagli autori ha permesso di realizzare un manuale che scandaglia il costrutto analizzato senza lasciare incertezze al lettore (verosimilmente ci hanno rimuginato, almeno un po’). Ma risulta chiaro che l’impianto teorico alla base va oltre la concettualizzazione e il trattamento del rimuginio: muove nuovi passi la condivisione di un modello profondamente integrato, le cui caratteristiche comprendono il funzionamento dell’individuo e indicano la direzione del trattamento. Le sue orme sono tra queste pagine.

Amore e aggressività nella stanza di analisi: come gestire il transfert

Transfert: Ferenczi (1932) per primo si rese conto che odio, sadismo e aggressività sono forze sempre presenti nei rapporti di amore. Nel suo Diario Clinico riconosce con grande lucidità che i propri sentimenti infantili di aggressività e odio nei confronti della madre erano spesso spostati sui pazienti. Questa idea è stata ampiamente accolta e vagliata sia in ambito clinico che al di fuori della stanza di analisi; di fatto oggi le forze dell’aggressività sono considerate strumentali al legame che si crea nelle relazioni amorose.

 

I sentimenti di odio e aggressività nel transfert analitico

Kernberg (1991) ha osservato in proposito che: “un uomo e una donna che scoprono la loro attrazione e il loro desiderio reciproco […] esprimono non soltanto la loro capacità di unire inconsciamente erotismo e tenerezza, sessualità e ideale dell’Io, ma anche di reclutare l’aggressività al servizio dell’amore” (p. 46-47).

Come afferma efficacemente Brenner (1982) il fatto che l’amore sia regolarmente mescolato all’odio e viceversa è frutto di osservazione empirica, non di logica o di definizione. Si tratta quindi di una questione pratica con conseguenze parimente pratiche per il lavoro analitico.

In linea generale viene riconosciuta valida la distinzione per cui la forma “benigna” di odio di transfert, come la sua controparte erotica, si manifesta in modo caratteristico nei pazienti con organizzazione nevrotica, mentre la variante “maligna”, come il transfert erotizzato, è più frequente nei pazienti con organizzazione psicotica o borderline (Kernberg 1984). Questa distinzione non ha valore assoluto ma è clinicamente utile per concettualizzare la forma prevalente di erotismo (o di odio) nel transfert in relazione al livello di organizzazione dell’Io riscontrato nel paziente.

Tuttavia è bene tenere a mente l’avvertimento della Little (1966) per la quale è possibile osservare transfert normali, nevrotici e psicotici nello stesso paziente all’interno della stessa seduta secondo un’oscillazione che potrebbe essere difficilmente afferrabile all’istante da parte dell’analista.
Mi pare comunque evidente in letteratura la tendenza a considerare e trattare le forme estreme di erotizzazione transferale alla stregua di quel fenomeno che Guidi (1994) puntualizza come “transfert negativo irreprensibile” o come specifiche narrazioni del problema relazionale ed emotivo quale si sta realizzando in quel momento nella stanza di analisi. Infatti, Ferro (1996) considera la sessualità e l’aggressività nel processo analitico come possibili linguaggi o comunicazioni: “di quanto il paziente non ha ancora consapevolezza di poter esprimere in modo meno mediato, rispetto all’analisi, e in maggior contatto con le proprie verità emotive […] e non è l’esplicitare questo il fattore terapeutico, quanto piuttosto il poter trasformare tutto l’ ”a monte” di questo” (Ferro 1996, p. 116).

Le azioni terapeutiche in casi di eccessiva erotizzazione o aggressività nel transfert

Secondo Gabbard (1996) le azioni terapeutiche indispensabili per creare lo spazio analitico in situazioni di intensa erotizzazione o aggressività sono: il contenimento, l’interpretazione differita e l’integrazione. Vediamoli in dettaglio.

Il contenimento si riferisce alla capacità dell’analista di pensare, metabolizzare e disintossicare i contenuti mentali che il paziente proietta in lui (Bion 1962). Esso implica una tacita elaborazione ma anche chiarificazioni verbali di ciò che accade nella diade paziente-analista. Inoltre presuppone numerosi altri processi tra cui l’identificazione di stati affettivi nell’analista e la diagnosi delle relazioni oggettuali interne del paziente in virtù della loro manifestazione nella coppia analitica attraverso l’identificazione proiettiva. Ma presuppone anche un costante processo di autoanalisi nel tentativo di individuare i contributi dell’analista stesso alle difficoltà con il paziente e di chiarire le manovre difensive messe in atto.

Anche Winnicott (1968) valorizza quell’aspetto del contenimento che comunica al paziente la durevolezza dell’analista in quanto oggetto, resistente, che non viene distrutto dai suoi attacchi. Come la madre sopravvive agli attacchi primitivi del bambino perché questo possa procedere sulla via dello sviluppo, anche l’analista deve servire al paziente come figura esterna reale che sfugge al suo controllo onnipotente. Per Winnicott (1968) sopravvivere significa mancanza di ritorsioni e avverte specificamente di non usare l’interpretazione nel bel mezzo degli attacchi del paziente per poi discutere di ciò che è accaduto quando la fase distruttiva si è conclusa.

Venendo ora al tema del differimento e dilazione dell’interpretazione, seguiamo ancora Gabbard (1996) quando afferma che per arrivare ai problemi transferali primitivi l’analista deve sospendere la propria attività interpretativa per tutta dal durata della dinamica distruttiva. Dopo di ché le funzioni profonde svolte dall’erotizzazione e dall’odio, mentalmente annotate durante il processo di contenimento, possono essere interpretate.

Questo differimento dell’interpretazione è necessario per diverse ragioni. In primo luogo perché è improbabile che il paziente sia in grado di fruire delle determinanti inconsce comunicate dall’interpretazione se è in atto un attacco diffuso ai legami con gli oggetti buoni (Bion 1959). In secondo luogo è imperativo che l’analista abbia prima sviluppato una sufficiente comprensione del proprio controtransfert e abbia elaborato le proiezioni del paziente abbastanza da aver ristabilito il proprio spazio analitico interno. Bollas (1990) al riguardo ha opportunamente notato: “E quando certi pazienti psicotici incoraggiano le regressioni nell’analista, più che in se stessi, gli analisti devono tollerare gli episodi regressivi, da cui usciranno con il tempo, la pazienza e il lavoro riflessivo. Quando ciò accade, la comprensione analitica e l’interpretazione sono in primo luogo curative per l’analista, che sta meglio di prima” (Bollas 1990, p.352). Anche secondo Carpy (1989), sostenitore del differimento dell’interpretazione, il paziente inizierà a utilizzare gli interventi interpretativi in modo costruttivo solo quando riconoscerà aspetti di se stesso nell’analista.
Quando finalmente emergeranno in superficie gli aspetti scissi e isolati della personalità del paziente potrà essere usata efficacemente l’interpretazione.

A questo punto insorge un nuovo compito per l’analista che consiste nel procedere all’integrazione di questi aspetti del sé (Gabbard 1996). Ricollegare le isole di amore con i nuclei dell’odio restituisce al paziente il senso della propria soggettività e mette a sua disposizione una diversa modalità di lavoro analitico in conseguenza del suo essere entrato in uno spazio appunto analitico. Può ora pensare simbolicamente a ciò che accade nella relazione analista-paziente ed essere osservatore di pensieri e sentimenti in quanto creazioni intrapsichiche piuttosto che come percezioni fattuali incontrovertibili (Ogden 1989).

Con questo processo, che può comportare anche tempi lunghi, si normalizza in un certo senso il rapporto analitico secondo una dinamica che smussando le asperità provocate dalle implicazioni sessuali avviano paziente e terapeuta verso quella meta ambita chiamata risoluzione che non è detto che sia raggiungibile. E qui ecco il tema dell’analisi finita o infinita su cui siamo ancora debitori a Freud.

Searching for Sugar man (2012) – Recensione del film documentario

Il film Searching for Sugar man racconta la storia di Rodriguez, un talentuoso musicista americano degli anni ’60, che ha avuto la casualità di vivere in una terra che non aveva la capacità di comprenderlo. Così, rassegnato, ha mollato la chitarra e ha “ripreso a lavorare”, mettendosi a fare il muratore.

 

La parola talento è spesso abusata, a volte fraintesa, fino a svuotarsi di significato o innalzarsi a qualcosa di irraggiungibile.

Il film Searching for Sugar man racconta la storia di Rodriguez, un talentuoso musicista americano degli anni ’60, che ha avuto la casualità di vivere in una terra che non aveva la capacità di comprenderlo. Così, rassegnato, ha mollato la chitarra e ha “ripreso a lavorare”, come ha raccontato in un’intervista rilasciata molti anni dopo, mettendosi a fare il muratore.

 

Searching for Sugar man : Rodriguez eroe inconsapevole dell’apartheid

Nel frattempo, in un mondo parallelo era diventato famoso, letteralmente più famoso di Elvis Presley, ma a sua insaputa. Anzi, più che famoso era considerato un eroe: in Sud Africa Rodriguez era diventato la colonna sonora della lotta contro l’apartheid; centinaia di cittadini cantavano le sue canzoni durante le manifestazioni di rivolta e le sue parole venivano riprese dagli striscioni dei cortei.

E mentre lui alzava muri e si spaccava la schiena nei cantieri edili, il suo pubblico lo aveva creduto morto, al contrario di ciò che qualche fan ha creduto di Elvis dopo la sua morte. Nessun mezzo di comunicazione di massa parlava di lui, poiché l’establishment lo ha sempre ignorato. In Sud Africa si pensò ad un suicidio, ma non in una modalità qualunque, e iniziarono a girare le storie più incredibili su come Rodriguez avesse deciso di togliersi la vita. Solo così le persone potevano digerire quel lutto immenso: costruire una leggenda nella quale collocare l’eroe per continuare a idealizzarlo.

Un giorno un detective musicale sudafricano volle far luce su come realmente Rodriguez si fosse suicidato. L’investigatore fece la scoperta clamorosa. Sugar man (anche così chiamato per una tra le canzoni più amate) viveva a Detroit nella sua casa di sempre, la stessa da quasi 50 anni nella più semplice normalità. Rodriguez non poteva credere alla fama che si era conquistato al di là dell’oceano Atlantico. Inizialmente era incredulo e stordito, assolutamente non preparato ad accogliere tanto riconoscimento. Poi si è lasciato convincere dall’uomo che lo stava cercando da anni e lo ha seguito nell’altro mondo per suonare davanti al pubblico che lo aspettava da sempre. Suonò guardando la folla delirante, con lo stupore di un bambino e la calma di un eroe. Finalmente al posto giusto.

 

Searching for Sugar man e le parti del Sé non validate

Questa storia di un eroe inconsapevole, raccontata nel film documentario Searching for Sugar man, mi ha fatto chiedere “cosa siamo quando parti di noi non vengono riconosciute?”.

Rodriguez rispetto al lavoro come manovale dichiarò “è stato bellissimo, è un lavoro che ti fa sentire vivo“, nel frattempo la parte più talentuosa e grandiosa del proprio Sé restava comatosa e sospesa tra vita e morte. Quanto avrà potuto soffrire per non essersi sentito validato come musicista? Era bravo a costruire case e qualcosa di “visibile” lo aveva dotato di senso e riscontro sociale.

Rodriguez era dentro due vite parallele, in una era muratore e in un’altra artista ispiratore e leader “spirituale” di un movimento di lotta civile. Mentre viveva l’una era totalmente all’oscuro dell’esistenza della seconda, in termini psicodinamici a Detroit conduceva la vita consapevole e in Sud Africa quella incoscia. Immagino il lavoro svolto dal detective come quello di uno psicoanalista che aiuta il paziente a mettere in comunicazione parti del Sé dissociate tra loro.

Coming from reality” è il titolo di un suo album. Ma venire dalla realtà per andare dove, Sugar man ? Forse ti riferisci al sogno di te stesso, quello che hai fatto ad occhi aperti davanti alla folla oceanica che ti riconciliava col tuo destino.

L’origine del complottismo: dalla landa delle ipotesi ragionevoli alle terre selvagge dei deliri

Ancora una volta si parla e si paventa di complotti, si dubita di tutto e si immaginano burattinai, dalle scie chimiche alle torri gemelle, dai cassonetti che spariscono fino ai responsabili dell’attacco chimico in Siria. Perché lo facciamo? Forse perché la realtà ci sgomenta superando ogni giorno le più sfrenate fantasie dei complottisti. Non ci credete?

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 08/04/2017

 

Prendiamo un altro complottismo di questi giorni, il caso degli hameriani, quelli che rinunciano alle cure mediche per il cancro e che aderiscono alle teorie di Ryke Geerd Hamer, il medico tedesco inventore della Nuova Medicina Germanica, la NMG. Si chiama proprio così: NMG; grottesco acronimo che è la controfigura degradata dei tanti acronimi che popolano il mondo della scienza moderna.

E questo non è ancora niente. La NMG è un incrocio di varie degradazioni. Degradazione della psicologia, poiché la NMG sostiene che le malattie, tutte, sono originate da esperienze traumatiche. Questi traumi determinerebbero conflitti psicologici che poi si trasmetterebbero nel corpo. Le cure mediche, in particolare la chemioterapia, sarebbero inutili se non dannose. Su questa teoria Hamer costruisce uno stravagante metodo terapeutico che pretende di curare i tumori con farmaci omeopatici e risolvendo i conflitti psicologici. Non basta. Egli fonda una vera setta di seguaci. E questi seguaci spesso sono medici che convincono molti sciagurati a non curarsi, condannandoli a morte. Di pochi giorni fa è la condanna della dottoressa Germana Durando che aveva convinto una paziente a curare un melanoma maligno con la NMG, risolvendo i suoi problemi affettivi con il suo ex fidanzato. Prima ancora c’erano stati i casi di Emanuela Bottaro e prima ancora di Cristian Trevisan e Anna Maria Tosin, tutti morti per le non cure della NMG.

E anche questo non è ancora nulla. La NMG aggiunge a queste bislacche teorie la componente del complotto. Hamer sostiene che le sue scoperte per la cura dei tumori sarebbero state messe sotto silenzio dal solito complotto mondiale ebraico. E anche questo non basta. Secondo Hamer, gli ebrei non solo gli avrebbero impedito di regalare la sua NMG all’umanità, ma si curerebbero –i furbi- di nascosto con la sua NMG. È  stupefacente come tutta questa storia sia così risaputa e al tempo stesso così imprevedibile. Alla caricatura della psicoanalisi e del naturismo, Hamer aggiunge una forma grottesca e balzana di razzismo, così bislacca da essere straniante, per poi concludersi nell’arcinoto complotto ebraico. Il finale rischia di essere comico, ma rimane solo disorientante.

Il complotto è il rimedio che oppone la nostra mente all’inspiegabilità degli avvenimenti, all’irrimediabile dominio del caso che cozza contro ogni ragionamento e contro ogni deduzione. Meglio sarebbe tacere, non pensare di fronte a tutto questo. Ma per noi umani questo è troppo duro. Spegnere la mente è difficile, tacitarla impossibile. Come un gruppo di vecchi zii indementiti e incapaci di stare zitti, così sono la nostra mente, la nostra ragione e il nostro intelletto, questa triade sopravvalutata e troppo spesso così inutilmente intelligente.

La capacità della nostra mente di immaginare scenari alternativi, di analizzare la realtà in concatenazioni logiche o con sfrenate fantasie è nata per darci un’altra possibilità che ci liberasse dalla schiavitù degli istinti. Però questa libertà ci ha illusi e viziati, ci ha illusi che potessimo esercitare questa libertà non solo verso gli istinti, ma anche verso la realtà esterna. Ma la realtà è un osso più duro degli istinti profondi. Non si lascia domare, la sua complessità è irraggiungibile. E davanti a questo fallimento come reagiamo? Male, invece di smettere e di tacere, invece di staccarci dal bancone alcolico dell’inutile moltiplicazione dei pensieri, pensiamo ancora di più, sconfinando dalla landa delle ipotesi ragionevoli per passare alle terre selvagge dei deliri. E immaginiamo complotti.

Poveri illusi che siamo, e povera illusa con noi la nostra povera mente. Non possiamo competere con la realtà, che supererà sempre le nostre immaginazioni più folli, i nostri complotti più stupefacenti. Non ci credete? La prova è proprio lo stesso Ryke Geerd Hamer, che per noi italiani è un vecchio amico che riemerge da un passato dimenticato. Lo abbiamo già incontrato in un altro mondo, e non lo ricordiamo. Egli non è solo l’inquietante inventore della NMG, ricercato e latitante in Norvegia perché incolpato nel suo paese e altrove della morte di tanti sciagurati  che gli hanno creduto. Lui è anche un altro. Sapete chi è costui?

Ryke Geerd Hamer è il padre di quel Dirk Hamer che alcuni o molti di noi ricordano, il giovane tedesco che nel 1978 morì in seguito alle ferite determinate dai colpi di fucile sparati dal principe Vittorio Emanuele di Savoia dal suo yacht verso la barca dell’imprenditore Nicky Pende. Il principe era ubriaco e furente perché gli ospiti di Pende sarebbero stati rei di avergli sottratto un gommone. Uno dei colpi di fucile penetrò nella stiva della barca di Pende e andò a colpire il giovane Hamer, che stava dormendo, alla gamba. Il ritardo dei soccorsi e l’elevata perdita di sangue mandarono la gamba in gangrena e uccisero il giovane dopo un’atroce agonia di quattro mesi, durante la quale aveva anche subito l’amputazione della gamba colpita.

C’era anche il padre su quella maledetta barca, c’era anche Ryke Geerd Hamer, anche lui ospite di Nicky Pende. Egli assistette all’agonia del figlio. In seguito Hamer padre si ammalò di tumore a un testicolo ma si salvò dopo che fu asportato chirurgicamente. Si salvò lui, ma non si salvò la sua mente, a quanto pare. Fu dopo quella operazione chirurgica che Hamer padre iniziò a elaborare la sua teoria, la sua NMG. La prima vittima fu sua moglie, la madre di Dirk. Ammalatasi di tumore, fu convinta dal marito a curarsi con la nascente NMG. Il resto lo sappiamo.

È evidente, o forse è solo plausibile, che Hamer padre sia impazzito di dolore dopo la tragedia del figlio e per dimenticare tutto si sia tuffato in questa vita matta di fondatore di una setta medica e sacerdotale, sorta di versione europea di Scientology. Inquietante che da quella morte non sia seguita nessuna redenzione, ma una scia di altri morti, sciagurati che si lasciano mangiare dal tumore invece che curarsi e salvarsi. Una storia di anti-salvazione, una inversione grottesca del cristianesimo. O forse anche questa è l’ennesima spiegazione che non sappiamo trattenerci dall’elaborare di fronte all’abisso dell’assurdità degli eventi.

Che questi hameriani siano legati a quel lontano fatto di cronaca degli anni ’70, che questi due eventi così strani e inspiegabili, la setta pseudo-medica dei nostri giorni e la morte accidentale, assurda e atroce di Dirk Hamer negli anni ’70, siano non solo due fatti già così eccentrici e macabri in sé ma siano anche legati tra loro in questa maniera così balzana e stravagante, è qualcosa che ci fa girare la testa e lascia la mente dispersa in un terrificante teatro dell’assurdo. Quale assurda e gratuita scia di morti è fiottata dal colpo di fucile del principe di Savoia? Se questa è la realtà, forse è meglio delirare, forse è meglio immaginare complotti. Magari qualcosa di risaputo, di già noto. E cosa c’è di più noto di un complotto ebraico?

Il comportamento alimentare negli atleti: tra normalità e patologia

Nel mondo degli sportivi talvolta lo schema alimentare viene applicato in modo disfunzionale e inflessibile per ottenere, in ottica perfezionistica, un’ottima performance oppure per mantenere un’immagine corporea perfetta. I disturbi alimentari negli sportivi (in particolare si intende anoressia e bulimia) sono problematiche che spesso vengono confuse con atteggiamenti di coerenza con la tipologia di attività sportiva svolta dall’atleta e spesso sfuggono all’occhio “non esperto”, salvo presentarsi con evidenti sintomatologie legate al peso o alla forma del corpo.

Martina Croci, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

L’alimentazione degli sportivi: assumere il giusto apporto calorico

Inseguire un modello alimentare ad hoc o cercare di alimentarsi in modo sano ed equilibrato? Sono ormai note l’attenzione e la cura che gli sportivi dedicano alla loro alimentazione, ma quando uno stile di vita alimentare diventa problematico?

Una corretta alimentazione nella vita di ogni sportivo, e non solo, è di fondamentale importanza siccome permette, attraverso l’assunzione di alimenti in modo sano e bilanciato, di ottenere un benessere fisico ottimale adatto ad ogni prestazione fisica svolta. Tutto ciò che noi introduciamo nel nostro organismo serve, nello stesso momento, come carburante (le calorie sono la quantità di energia contenuta in ogni alimento), come protezione (le vitamine, le fibre, i minerali e gli antiossidanti giocano un ruolo difensivo), come regolazione termica (l’acqua contenuta nei cibi e nelle bevande aiuta il nostro corpo a mantenere la temperatura nel suo stato ottimale) ed infine le proteine con i loro amminoacidi essenziali permettono il continuo rinnovamento dei tessuti. Il nostro organismo ha bisogno di una miscela di macronutrienti (carboidrati, proteine e grassi) con dei rapporti percentuali precisi per funzionare al meglio in ogni circostanza. L’apporto calorico, derivante dalla miscela dei diversi macronutrienti, più opportuno per qualsiasi essere umano, è composto, all’incirca, dal 50% di carboidrati, dal 30% di grassi ed infine dal 20% di proteine.

Nel caso particolare delle diete seguite dagli sportivi non ritroviamo un pattern specifico di alimentazione creata ad hoc per raggiungere un’ottima performance, tuttavia sarebbe auspicabile conoscere i principi alla base di una corretta alimentazione, sana e bilanciata, da adottare in relazione agli sforzi fisici da sostenere; la percentuale di macronutrienti assunta dagli sportivi può variare in base alla disciplina svolta, alla durata e all’intensità dello sforzo fisico (ad esempio se si tratta di giorni di allenamento oppure di competizione), tuttavia non esiste una “ricetta” universale per raggiungere un buon risultato, ma questo è dato da un equilibrio dei nutrienti assunti che varia in base all’obiettivo specifico da raggiungere di volta in volta, senza perdere di vista la corretta alimentazione che ognuno di noi, sportivi e non, dovrebbe mantenere.

I muscoli degli atleti consumano una combinazione di carboidrati e lipidi che variano in base alla durata e all’intensità dell’allenamento effettuato. I carboidrati solitamente, nelle diete adottate dagli atleti, sono utilizzati per mantenere un equilibrio dei livelli di glicogeno, ossia dei depositi composti da molecole di glucosio collocate prevalentemente nei muscoli e nel fegato. In particolare durante l’esercizio fisico si utilizzano alimenti ricchi di fruttosio o maltodestrine, contenuti prevalentemente nei cereali, allo scopo di prevenire l’esaurimento del glicogeno muscolare; infine, dopo lo sforzo, i carboidrati ad alto indice glicemico, come le bevande zuccherate e i dolci, servono per ricostruire il glicogeno muscolare che è stato esaurito dall’organismo durante l’allenamento. Assumere carboidrati dopo aver effettuato un allenamento intenso è fondamentale per ristabilire una sorta di omeostasi dei livelli di glucosio dato che vi è periodo di tempo post – allenamento (circa mezz’ora dopo lo sforzo fisico) chiamato finestra anabolica in cui i muscoli dell’atleta sono più ricettivi, quindi assumendo carboidrati in questo intervallo di tempo si velocizza il recupero del proprio stato ottimale (Aragon & Schoenfeld, 2013; Maughan & Shirreffs, 2012).

Il mondo degli esperti nella nutrizione sportiva raccomanda di consumare almeno cinque pasti durante l’arco della giornata (colazione, spuntino, pranzo, merenda e cena). Questo schema alimentare, tuttavia, non è possibile applicarlo in modo rigido a tutti gli sportivi ma è necessario modificarlo ed adattarlo alla specifica disciplina che ogni atleta svolge, in quanto il modello dell’assunzione dei pasti e dei macronutrienti nell’arco della giornata dipende fortemente dalla durata, dall’intensità e dall’orario dello svolgimento dell’attività sportiva, questo, come precedentemente accennato, proprio perché non esiste un paradigma alimentare ad hoc per l’atleta ma è necessario modulare l’apporto calorico e la percentuale dei macronutrienti in relazione agli sforzi fisici da sostenere in ogni peculiare circostanza e agli obiettivi che l’atleta si pone di raggiungere.

I disturbi alimentari negli sportivi

Nel mondo degli sportivi talvolta lo schema alimentare viene applicato in modo disfunzionale e inflessibile per ottenere, in ottica perfezionistica, un’ottima performance oppure per mantenere un’immagine corporea perfetta. I disturbi alimentari negli sportivi (in particolare si intende anoressia e bulimia) sono problematiche che spesso vengono confuse con atteggiamenti di coerenza con la tipologia di attività sportiva svolta dall’atleta e spesso sfuggono all’occhio “non esperto”, salvo presentarsi con evidenti sintomatologie legate al peso o alla forma del corpo.

Ci sono diverse ragioni per le quali si possa pensare che gli atleti siano più a rischio di sviluppare una problematica alimentare: in primo luogo gli atleti sono esposti a una pressione socioculturale maggiore rispetto alla popolazione, sull’essere conformi ad un ideale di forma corporea ben precisa; questo accade soprattutto negli sport in cui è richiesta la magrezza per ragioni di performance o apparenza, come ad esempio la danza, la ginnastica artistica. In secondo luogo molto spesso gli atleti vengono descritti come perfezionisti, orientati all’obiettivo, competitivi e preoccupati dalla buona riuscita della performance: queste caratteristiche sono altresì caratteristiche personologiche peculiari frequentemente associate ad individui che soffrono di disturbi alimentari. In terzo luogo l’esordio dei disturbi alimentari risale all’adolescenza o alla prima età adulta, periodo in cui inizia anche la partecipazione a competizioni degli sportivi.

Dai diversi studi condotti emerge una vulnerabilità maggiore degli atleti ad incorrere in problematiche legate all’alimentazione, soprattutto nella popolazione femminile, tuttavia pare non emergere un’assoluta prevalenza di disturbi alimentari (classificati nel DSM IV-TR) negli sportivi ma solo una maggiore esposizione ai fattori di rischio, i quali spesso vengono considerati come funzionali alla performance sportiva oppure alla forma corporea richiesta ma possono portare con più facilità all’inflessibilità e alla disfunzionalità degli atteggiamenti alimentari che possono configurarsi come vero e proprio disturbo alimentare (Byrne & McLean, 2001; El Ghoch, Soave, Calugi, & Dalle Grave, 2013).

Vi sono diverse tipologie di sport che sono maggiormente esposte al rischio di esordire con un disturbo alimentare, ad esempio, sport cosiddetti estetici (ad esempio la danza, il nuoto sincronizzato e la ginnastica artistica), sport che prevedono una categoria relativa al peso (come il pugilato e le arti marziali, in questo caso è stata individuato come disturbo del comportamento alimentare più frequente la bulimia, più soggetta alle oscillazioni, ma tra tutte quella meno riconoscibile), sport che necessitano di strutture minute e peso corporeo basso (come ad esempio nel ciclismo e nell’equitazione), sport che mettono in evidenza la massa muscolare (più frequente la dismorfofobia nel body building) ed infine gli sport che prevedono un abbigliamento che mette in evidenza la forma fisica (nuoto, pallavolo). Gli studi condotti sui disturbi alimentari nello sport non sono privi di criticità a livello metodologico, in quanto vi è molta variabilità tra le diverse discipline sportive e alle diagnosi effettuate (Byrne & McLean, 2001; El Ghoch et al., 2013; Kong & Harris, 2015).

Tra gli sportivi possono emergere solo disturbi del comportamento alimentare categorizzati dalla comunità scientifica oppure esistono diverse sfaccettature degli stessi, che possono portare ugualmente ad una sofferenza psicologica o possono rappresentarne “l’anticamera”?

Nel mondo degli sportivi vi può essere una maggiore diffusione dei disturbi alimentari (DCA) clinicamente diagnosticati, probabilmente proprio per una sovrapposizione di peculiari caratteristiche tipiche di pazienti affetti da Disturbi  del Comportamento Alimentare e peculiarità personologiche proprie degli sportivi. I disturbi alimentari non si limitano, in senso stretto, alle categorie descritte dell’attuale Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, ma esistono diverse sfumature degli stessi che rispecchiano, nondimeno, una sofferenza della persona; tra queste sfaccettature, non ancora categorizzate nel DSM 5, troviamo, ad esempio, l’ortoressia, l’anoressia atletica e la vigoressia, più tipicamente maschile.

Ortoressia, anoressia atletica e vigoressia sono comportamenti alimentari molto frequenti tra gli atleti che, tuttavia, possono portare lo sportivo ad una sofferenza psicologica considerevole. Nella sfera degli sportivi è possibile incorrere in casi più evidenti di Disturbi del Comportamento Alimentare oppure possiamo ritrovare dei comportamenti degni di attenzione clinica, seppure non diagnosticabili principalmente come anoressia e/o bulimia nervosa; tuttavia queste sfumature possono rappresentare i prodromi dell’esordio di un Disturbo del Comportamento Alimentare oppure un comportamento alimentare problematico a sè stante.

Gli sportivi prestano molta attenzione e cura al proprio stile di vita alimentare, proprio perché è il loro carburante necessario per un’ottima performance, è la chiave di lettura per ottenere una perfetta forma fisica e gioca un ruolo fondamentale per assicurarsi un buon recupero fisico dopo l’allenamento per ricostruire le fibre muscolari e mantenere in equilibrio i nutrienti presenti nel proprio organismo. Spesso gli atleti, così attenti alla propria alimentazione, possono esasperare la ricerca dell’alimentazione perfetta e farla diventare una vera e propria ossessione ed in questo caso si può parlare di ortoressia: l’atleta che soffre di ortoressia sviluppa una vera e propria fobia per i cibi considerati “pericolosi”, la preoccupazione di assumere cibi sbagliati e/o dannosi prevale sulle altre aree della propria vita (affettiva, relazionale e lavorativa) al punto che si assiste ad un vero irrigidimento del pensiero legato unicamente alla sfera alimentare. L’ortoressia, in particolare, tra gli sportivi, può sfociare in un’eccessiva selezione dei cibi assunti, senza tener presente che una buona alimentazione, funzionale anche alla propria performance, è caratterizzata dalla varietà degli alimenti assunti (Dunn & Bratman, 2016).

Se l’ortoressia è considerata come un’eccessiva attenzione ad un’alimentazione sana, l’anoressia atletica è stata definita per distinguerla dall’anoressia nervosa; l’anoressia atletica è caratterizzata da una restrizione alimentare più tipicamente associata all’allenamento, alla performance sportiva e alla propria forma corporea, invece, l’anoressia nervosa è contraddistinta da un timore di incrementare il proprio peso corporeo e da una marcata alterazione della percezione della propria immagine corporea; in alcuni casi, pazienti affetti da anoressia nervosa possono utilizzare l’esercizio fisico per compensare l’apporto calorico assunto, da loro considerato eccessivo (Dalle Grave, 2009).

L’anoressia atletica

Il concetto di anoressia atletica è stato introdotto per la prima volta, negli anni ’90 da Jorunn Sundgot – Borgen, medico sportivo specializzata in problematiche legate all’alimentazione (J Sundgot-Borgen, 1994). In molti sport, vi è la tendenza a raggiungere un peso corporeo eccessivamente basso, dato l’errato convincimento che questo sia un fattore fondamentale per il miglioramento delle performance. Ne consegue che molte atlete possono andare incontro a disturbi alimentari, pur non soddisfacendo i criteri specifici e diagnostici dell’anoressia nervosa, al fine di riuscire a mantenere un basso peso corporeo e una prestazione ottimale (Sudi et al., 2004).

L’anoressia atletica, negli studi condotti da Sundgot – Borgen e Torstveit, viene inclusa tra i disturbi del comportamento alimentare, poiché si tratta di un pattern di alimentazione anomalo che può portare a seri disturbi alimentari clinici, pur mantenendo una propria singolarità (J. Sundgot-Borgen & Torstveit, 2010; Jorunn Sundgot-Borgen & Torstveit, 2004). L’anoressia atletica presenta la riduzione della massa corporea (comprendente sia la massa grassa che quella magra) e ciò avviene per migliorare la prestazione e non per un’eccessiva preoccupazione come tipicamente accade nelle pazienti che soffrono di anoressia nervosa. Nell’anoressia atletica l’attuazione di diete o di allenamenti eccessivi è spesso raccomandata dagli allenatori al fine di raggiungere un equilibrio dei macronutrienti consono alla durata temporale e all’intensità dell’esercizio fisico richiesto da ogni disciplina sportiva. Nell’anoressia nervosa la perdita di peso è legata esclusivamente ad una dispercezione della propria immagine corporea ed ad una volontà di ridurre il proprio peso corporeo, nell’anoressia atletica, invece, la perdita di peso è sia legata alla diminuzione degli apporti calorici assunti, ma anche al volume e all’intensità dell’allenamento; nei casi in cui le atlete dovessero mantenere un peso molto basso per tutto l’anno (tipicamente il loro peso corporeo subisce delle oscillazioni) aumenterebbe il rischio di sviluppare disturbi alimentari degni di attenzione clinica. Infine l’anoressia atletica spesso non è più rilevabile dopo la cessazione della carriera sportiva, in quanto la poca energia introdotta per compensare quella spesa durante l’esercizio fisico è solitamente temporanea (Sudi et al., 2004).

Ortoressia e anoressia atletica sono condizioni alimentari tipiche del genere femminile, come, d’altro canto, anche la prevalenza dei disturbi alimentari è maggiore nelle donne con valori intorno allo 0,4% per l’anoressia nervosa e intorno al 2% per la bulimia nervosa ed in entrambe le condizioni la prevalenza nel sesso maschile è di circa un decimo rispetto al sesso femminile (Association, 2013; Bratland-Sanda & Sundgot-Borgen, 2013).

I disturbi del comportamento alimentare negli uomini

Negli ultimi anni, anche la percentuale di Disturbi alimentari negli uomini è in aumento, ma in che modo le problematiche alimentari interessano maggiormente il genere maschile?

Per quanto riguarda ragazzi e giovani uomini, è stato descritto un disturbo, dalla sintomatologia apparentemente opposta all’anoressia nervosa, che è la vigoressia. L’uomo che soffre di vigoressia è ossessionato dall’idea di essere esile e poco sviluppato fisicamente e, nonostante abbia spesso una muscolatura ipertrofica, non è soddisfatto a causa della distorsione dell’immagine corporea. L’autostima si basa quasi esclusivamente sul peso corporeo e sulle forme fisiche, che in quanto riferiti a dei modelli irraggiungibili, richiedono un livello estremo di perfezionismo. Come si evince i meccanismi sottostanti al sintomo esplicito si possono considerare i medesimi tra vigoressia ed anoressia nervosa.

Più nel dettaglio, la vigoressia, non è semplicemente il trascorrere ore ed ore in palestra, avere cura del proprio fisico, ma è la continua e ossessiva preoccupazione per quanto riguarda la propria massa muscolare anche a discapito della propria salute fisica. Tra le principali caratteristiche della vigoressia vi è un iperinvestimento sul proprio corpo, la ricerca della perfezione fisica, l’eccessiva focalizzazione visiva sul corpo, sui singoli muscoli o sul peso corporeo, tutto ciò accompagnato da una marcata insoddisfazione per il proprio fisico nonostante l’enorme sforzo che è stato fatto per raggiungere l’obiettivo prefissato con il timore di regredire rispetto ai progressi fatti riguardo alle proprie dimensioni fisiche.

Nelle persone che soffrono di vigoressia spesso vi è la tendenza a consumare cibi ipocalorici e/o abusare di integratori alimentari; i vigoressici sono più inclini all’utilizzo di sostanze illecite, come ad esempio il doping, proprio per una spasmodica ricerca della perfezione del proprio fisico ed il doping ha proprio la funzione di stimolare l’ipertrofia e velocizzare il recupero muscolare che permette al soggetto di allenarsi più spesso e aumentare l’intensità dello sforzo (questo fenomeno si riscontra soprattutto nel body building) (Mosley, 2009).

In conclusione non esiste un regime alimentare che può attuare indistintamente ogni atleta al fine di raggiungere una perfetta prestazione o un’ottimale forma corporea, tuttavia, è sempre consigliabile mantenere un’alimentazione equilibrata, sana e bilanciata composta da tutti i macronutrienti necessari per il nostro organismo, i quali possono variare in base alla durata e all’intensità dell’esercizio fisico peculiare per ogni disciplina sportiva svolta dall’atleta. Tra gli sportivi vi potrebbe essere una maggior prevalenza di disturbi del comportamento alimentare, tuttavia possono essere presenti anche delle sfumature degli stessi che possono rappresentare un fattore di rischio rispetto all’esordio di un Disturbo del Comportamento Alimentare, oppure una sofferenza psicologica a sè stante. Infine sarebbe importante non confondere una sintomatologia clinica da una coerenza alimentare dell’atleta finalizzata al raggiungimento di una forma fisica perfetta oppure di una prestazione ottimale nella propria disciplina sportiva (Bar, Cassin, & Dionne, 2015).

Il rischio di infarto e ictus causato dall’insonnia

L’insonnia, secondo la ricerca pubblicata sulla rivista European Journal of Preventive Cardiology, è associata ad un aumentato rischio di infarto e ictus.

 

Insonnia e rischio di infarti e ictus

Secondo il Dottor Qiao Lui, il sonno è importante per il recupero biologico e occupa all’incirca un terzo del tempo della nostra vita. Nella società odierna sempre più persone si lamentano di soffrire di insonnia. Secondo alcuni dati, circa un terzo della popolazione in Germania ha affermato di soffrire di sintomi di insonnia.

Recenti ricerche hanno constatato che vi è una associazione tra i sintomi di insonnia e i disturbi cardiovascolari (infarto del miocardio, malattie coronariche, insufficienza cardiaca), ictus, o una combinazione di più di tali patologie.

I sintomi dell’insonnia includono la difficoltà ad addormentarsi, difficoltà a mantenere il sonno, e/o un risveglio mattutino precoce.

Gli autori hanno intervistato circa 160.867 soggetti; dalle analisi di tali dati sono emerse significative associazioni tra i sintomi dell’insonnia e l’aumentato rischio di soffrire di malattie cardiovascolari e ictus.

In particolare sembra che chi ha difficoltà ad addormentarsi e a mantenere il sonno, corra più alti rischi di soffrire di disturbi cardiovascolari e ictus.

I meccanismi alla base di tali collegamenti non sono attualmente molto chiari. Studi precedenti hanno dimostrato che l’insonnia altera il metabolismo e le funzioni endocrine di chi ne soffre, aumentando l’attivazione sinaptica e la pressione sanguigna; e questi sono tutti fattori di rischio delle malattie cardiovascolari e ictus.

In conclusione, i disturbi del sonno sono molto comuni e a volte anche sottovalutati perché non si calcolano i rischi clinici sia a livello psicologico che prettamente somatico. Per questo una buona consapevolezza di tali fenomeni per aumentare la conoscenza e consapevolezza di tali sintomi, potrebbe incoraggiare le persone a cercare aiuto e ad attuare interventi per una adeguata igiene del sonno.

 

Ipotalamo e ipofisi: le funzioni – Introduzione alla psicologia

L’ ipotalamo e l’ ipofisi costituiscono un circuito cerebrale attraverso il quale è possibile realizzare la biosintesi di ormoni di varia natura che regolano una serie di eventi biologici. L’ asse ipotalamo-ipofisario collega il sistema nervoso al sistema endocrino garantendo l’attuazione di processi regolatori a carico degli ormoni secreti.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Ipotalamo

L’ipotalamo è una struttura cerebrale in cui afferiscono informazioni provenienti da diversi distretti anatomici corporei. L’ipotalamo è posizionato nella zona centrale dell’encefalo, interna ai due emisferi cerebrali, e costituisce la parte ventrale del diencefalo. In dettaglio, l’ipotalamo è situato ai lati del terzo ventricolo cerebrale ed è delimitato posteriormente dai corpi mammillari, anteriormente dal chiasma ottico, superiormente dal solco ipotalamico  e inferiormente dall’ipofisi, con la quale è a stretto contatto sia da un punto di vista anatomico sia funzionale. Esso è formato da cellule della sostanza grigia raggruppate in nuclei, divisi in tre gruppi: anteriore, intermedio e posteriore. L’ipotalamo è collegato alla corteccia cerebrale, ai centri del telencefalo, al talamo, all’epitalamo, al mesencefalo e al bulbo.

L’ipotalamo controlla e gestisce il sistema nervoso autonomo. Esso, infatti, è in grado di modificare la motilità viscerale, il ciclo sonno-veglia, il bilancio idrosalino, la temperatura corporea, l’appetito, l’espressione degli stati emotivi, e il sistema endocrino.

L’ipotalamo attraverso il nucleo anteriore e il nucleo preottico riesce a stimolare il sistema nervoso parasimpatico, generando manifestazioni come la bradicardia, diminuzione della frequenza dei battiti cardiaci al di sotto dei 60 bpm, incremento della salivazione e della sudorazione e ipotensione arteriosa, nel momento in cui si verifica un incremento dell’attività parasimpatica. Inoltre, quando si registra uno stato di allarme, i segnali inviati dalla corteccia dai nuclei posteriori dell’ipotalamo, stimolano il simpatico determinando tachicardia, aumento del battito cardiaco, tachipnea, aumento della frequenza respiratoria, midriasi, dilatazione delle pupille e aumento del flusso sanguigno ai muscoli. In altre parole, si registra una reazione di attacco fuga, risposta automatica derivante dalla percezione di un pericolo.

L’ipotalamo svolge anche funzione di termoregolazione. I nuclei anteriore e preottico sono detti centri del raffreddamento, mentre il nucleo posteriore è detto centro del riscaldamento, e sono formati da cellule sensibili alle variazioni di temperatura. Quando si rileva una temperatura al di sotto dei 36 °C, l’ipotalamo anteriore induce il rilascio di serotonina, si attiva il nucleo posteriore, che stimola il simpatico e di conseguenza si genera un aumento della temperatura. Al contrario, se la temperatura è alta, il nucleo posteriore dell’ipotalamo stimola la produzione di noradrenalina o di dopamina, che, a loro volta, stimolano i nuclei situati nella zona anteriore dell’ipotalamo, i quali agiscono favorendo la sudorazione e la vasodilatazione periferica.

Inoltre, il nucleo soprachiasmatico mantiene lo stato di veglia, i nuclei ventro-mediali e laterale regolano l’assunzione di cibo e il rapporto fame-sazietà.

L’ipotalamo è responsabile della regolazione delle emozioni e del comportamento sessuale, grazie alla connessione con il talamo e con il sistema limbico.

La superficie inferiore dell’ipotalamo si espande leggermente verso il basso formando il tuber cinereum, dal cui centro sporge l’infundibolo, riccamente vascolarizzato, che a sua volta si prolunga nell’ipofisi.

Ipofisi

L’ipofisi, o ghiandola pituitaria, è la ghiandola del sistema endocrino strettamente connessa all’ipotalamo. Essa è situata alla base del cranio, nella fossa ipofisaria della sella turcica dell’osso sfenoide e produce ormoni che guidano l’attività di quasi tutte le altre ghiandole corporee.

L’ipofisi si divide in tre parti, denominate lobi: il posteriore è chiamato neuro-ipofisi ed è costituita da fibre nervose che derivano dai neuroni dell’ipotalamo, l’anteriore è costituito da cellule che secernono ormoni ed è denominato adeno-ipofisi, riceve stimoli dall’ipotalamo, ma in questo caso si tratta di molecole o mediatori trasportati dal sangue, attraverso una rete di vasi dedicati, definita circolo portale dell’ipofisi o ipofisario, e il lobo intermedio dell’ipofisi.

L’ipotalamo, dunque, regola la liberazione di ormoni attraverso la neuroipofisi e modula l’attività dell’adenoipofisi mediante ormoni specifici.

 

Ormoni secreti dall’ipotalamo

Gli ormoni prodotti dall’ipotalamo sono definiti anche “fattori di rilascio” o “fattori di inibizione”. Essi inducono la produzione e lo sviluppo di una serie di meccanismi nell’ipofisi dopo averla adeguatamente stimolata. I principali ormoni prodotti dall’ipotalamo sono:

  • CRH, ormone stimolante il rilascio di corticotropina (ACTH), da parte dell’adenoipofisi.
  • MSHRH, ormone melanotropo (MSH che stimola il rilascio di MSH da parte del lobo intermedio dell’ipofisi.
  • TRH, ormone stimolante il rilascio di tireotropina (TSH), da parte dell’adenoipofisi.
  • PIF, inibitore di prolattina da parte dell’adenoipofisi.
  • GHRH, stimola il rilascio di GH, ormone della crescita, da parte dell’adenoipofisi.
  • LHRH, stimola il rilascio dell’ormone luteinizzante (LH)
  • GnRH, attivante il rilascio delle gonadotropine. L’LHRH e il GnRH inducono la produzione di FSH e LH da parte dell’adenoipofisi.
  • PRH, ormone stimolante il rilascio di prolattina da parte dell’adenoipofisi.
  • GHIF, denominato anche Somatostatina, inibisce il rilascio di GH da parte dell’adenoipofisi.

Le funzioni svolte dell’ipotalamo sono dettate sia dal sistema nervoso, che modula l’attività attraverso informazioni derivanti da diverse regioni cerebrali, sia dal sistema endocrino che definisce le concentrazioni di ormoni nel sangue, regolando la liberazione di ormoni da parte dell’ipofisi. Di conseguenza, l’ipofisi, dopo essere stata stimolata, rilascia gli ormoni nel sangue e gli ormoni, a loro volta, raggiungono l’ipotalamo attraverso il sangue e lo informano circa la necessità di aumentare, diminuire o mantenere stabile la secrezione di ormoni stessi.

 

Neuroipofisi

A livello della neuroipofisi sono liberati due ormoni:
vasopressina, ormone antidiuretico che determina una riduzione della produzione delle urine;
ossitocina, che agisce sulle ghiandole mammarie e sull’utero durante il parto.

 

Adenoipofisi

Al contrario della neuroipofisi che riceve i mediatori dall’ ipotalamo l’adenoipofisi è in grado di produrre differenti tipi di ormoni:
– Ormone Tireostimolate o Tireotropinache stimola la produzione e la liberazione degli ormoni della tiroide T3 e T4.
– Ormone follicolo stimolante, regola l’ovaio, nel quale stimola lo sviluppo dei follicoli, e i testicoli.
– Ormone luteinizzante, agisce sull’ovaio, determinando l’ovulazione  e la formazione del corpo luteo, e sui testicoli, induce la produzione di testosterone da parte di cellule presenti nei testicoli.
– Ormone della crescita o somatotropina, stimola la crescita dei tessuti dell’organismo.
– Ormone corticostimolante o corticotropina, regola nelle ghiandole surrenali  la produzione di cortisolo.
– Prolattina, regola la produzione di latte da parte delle ghiandole mammarie.

 

Lobo intermedio dell’ipofisi

Il lobo intermedio dell’ipofisi secerne ormoni definiti melanotropi e altre proteine che possono agire come mediatori. Questi ormoni stimolano la produzione di melanina, sostanza che conferisce colore alla pelle.
Inoltre, l’ipofisi sintetizza anche i peptidi oppioidi o oppiacei endogeni, le endorfine e  fattori che influenzano il fegato ed il pancreas.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Quando il paziente si innamora dell’analista: osservazioni sull’ amore di transfert

La generica definizione di amore di transfert rimanda a una lunga serie di questioni che da sempre hanno riguardato la tradizione psicoanalitica.

 

Etchegoyen (1986) al riguardo afferma che:

In ogni analisi devono esistere momenti d’amore, di innamoramento, poiché la cura riproduce le relazioni d’oggetto della triade edipica, ed è pertanto inevitabile (e salutare) che ciò avvenga (p. 184).

Anche se questo è ben presente e in un certo modo atteso dall’analista, perché appunto la cognizione che l’evento accada è fortissima, tuttavia c’è una particolare sfumatura che desta nel terapeuta problematiche complesse.

L’ amore di transfert che maggiormente preoccupa ogni analista è quello che, per la sua improvvisa apparizione, per la sua tenacia, per la sua intenzione distruttiva e per l’intolleranza alla frustrazione che lo accompagna, sembra capace di portare l’analisi a un punto di rottura.

 

L’ amore di transfert tra veicolo di guarigione e pericolo per la terapia

Precocemente nella pratica analitica Freud si trovò alle prese con le potenti forze dell’ amore che si attivano tra paziente e analista. In una celebre lettera del 1906 indirizzata a Jung, Freud colloca inequivocabilmente l’amore al centro della riflessione sull’azione terapeutica:

Si tratta propriamente di una guarigione mediante l’amore (Citazione in McQuire 1974, p. 3).

Il fondatore della psicoanalisi non intendeva, ovviamente, che fosse l’ amore dell’analista a guarire la paziente, mentre appariva chiaro che per lui il veicolo della guarigione stava nell’ amore di transfert. Nella stessa lettera confidava all’illustre interlocutore:

A Lei non sarà sfuggito che le nostre guarigioni avvengono mediante la fissazione di una libido che domina nell’inconscio (traslazione), che s’incontra con la maggior probabilità nell’isteria. È questa che fornisce la forza motrice per afferrare e tradurre l’inconscio; quando essa si rifiuta, il paziente non si sottomette a tale fatica o non dà ascolto se noi gli presentiamo la traduzione che abbiamo trovato (Citazione in McQuire 1974 p. 14-15).

Tuttavia Freud scorgeva nell’ amore di transfert anche un lato oscuro in grado di opporre al trattamento un ostacolo formidabile. Già anni prima aveva sottolineato come la paziente potesse essere presa “dal timore di abituarsi troppo alla figura del medico, di perdere la propria indipendenza nei suoi confronti, e persino di poterne dipendere sessualmente” (Freud 1892-1895, p. 437) collegando questo particolare ostacolo alla “natura della sollecitudine terapeutica” (ibidem).

Per sollecitudine terapeutica Freud intendeva l’ascolto attento e interessato da parte dell’analista verso i contenuti mentali della paziente e questo avrebbe potuto sollecitare in lei una sorta di innamoramento.

Alcuni anni dopo, quando apparvero gli scritti sulla tecnica, Freud sembrava aver modificato la propria posizione sull’attrazione erotica come veicolo di cura: soltanto il transfert cosciente, il transfert positivo ineccepibile, è alleato del trattamento. Il transfert erotico veniva relegato, insieme al transfert negativo, tra i due tipi di transfert inconsci che rappresentano una resistenza al trattamento (Freud 1912).

L’incertezza di Freud sul tema dava adito a molte domande pertinenti: l’ amore di transfert era una resistenza o un veicolo di guarigione? Era un sentimento reale o irreale? E, soprattutto, era simile o diverso rispetto all’amore che si prova al di fuori del contesto analitico?

Nel saggio “Osservazioni sull’amore di traslazione” (1914) Freud tenta di dare una risposta a queste domande, ma rimane ambiguo e descrive sostanzialmente una situazione paradossale in cui l’analista dovrebbe utilizzare l’amore che l’analizzando nutre per lui per far cessare definitivamente quegli stessi desideri transferali.

 

Differenze tra amore di transfert e amore fuori dall’analisi

Secondo molti autori quali Coen (1994), Friedman (1991), Gabbard (1993) e Schafer (1993), tale ambiguità viene resa da Freud particolarmente evidente nella differenziazione tra amore di transfert e amore fuori dall’analisi:

È bensì vero che questo innamoramento costituisce una riedizione di antichi processi e riproduce reazioni infantili. Ma questo è il carattere tipico di qualsiasi innamoramento. […] Forse l’amore di traslazione offre un grado di libertà minore che non l’amore quale si verifica nella vita e che chiamiamo normale, e lascia scorgere di più la sua dipendenza dai modelli infantili, rivelandosi meno duttile e malleabile. Ma questo è tutto, e non è l’essenziale (Freud 1914b, p. 371).

Quindi secondo Freud anche se non c’è dubbio che residui di vecchie relazioni oggettuali vengano portati nel transfert non possiamo basarci su tali indizi per distinguerlo da ogni altro tipo di amore. L’astinenza dell’analista e lo stesso setting potrebbero renderlo un po’ più infantile, ma si tratta, probabilmente, di una differenza irrilevante.

Pur avendo scoperto solo differenze insignificanti tra l’ amore di transfert e quello reale, Freud avverte tuttavia l’analista di procedere come se l’amore non fosse reale:

Si tenga in pugno la traslazione amorosa, ma la si tratti come qualcosa di irreale, come una situazione che deve verificarsi durante la cura e va fatta risalire alle sue cause inconsce (1914, p. 369).

Questo consiglio nasce probabilmente dalle preoccupazioni che Freud aveva riguardo a quel fenomeno non ancora ben definito e chiamato controtransfert. Il timore principale era che i suoi colleghi si innamorassero delle pazienti anziché astenersi e che cedessero alla seduzione come accadrebbe al di fuori della situazione analitica. Freud era consapevole dell’intensa attrazione che l’analista può provare per la paziente e imparò ben presto la bidirezionalità della seduzione quando vide i suoi discepoli soccombere, uno dopo l’altro, al canto delle sirene dell’ amore di transfert.

Gabbard (1996), revisionando attentamente gli scritti sulla differenza tra amore reale e amore transferale negli autori  successivi a Freud ha evidenziato che:

l’amore nella situazione analitica ha molte più somiglianze che differenze rispetto all’amore in situazioni non analitiche: usa le stesse metafore, indossa le stesse maschere e provoca la stessa varietà di risposte negli altri […]. La differenza fondamentale sta nell’atteggiamento dell’analista, volto alla riflessione, alla contemplazione e all’analisi, piuttosto che all’azione (pp. 38-39).

Le supposizioni teoriche che nel suo fondamentale lavoro Gabbard mette al vaglio, riguardano molti autori alcuni dei quali però meritano di essere citati dettagliatamente per la maggior peculiarità  del loro dettato.

Schafer (1977) ritiene che l’ amore di transfert abbai una duplice natura. Da un lato, si tratta di una nuova edizione di una precedente relazione oggettuale regressiva, dall’altro è una nuova relazione oggettuale reale e adattata alla situazione di trattamento, ossia: “uno stato transizionale di carattere provvisorio in vista di un esito razionale, genuino quanto l’amore normale” (p. 340). Il problema principale che si presenta all’analista è come integrare i due aspetti dell’ amore di transfert in un approccio interpretativo efficace.

Modell (1991) mette in evidenza una differenza fondamentale tra l’amore in analisi e l’amore extra-analitico. I due membri della diade analitica sanno che alla fine si separeranno, a prescindere da quanto siano tra loro compatibili e dalla reciprocità dei loro sentimenti. Questa dimensione del rapporto analitico rispecchia un paradosso fondamentale: le risposte affettive di analista e paziente sono reali ma avvengono nel contesto di una relazione irreale, considerando i termini dei comuni rapporti sociali.

Hoffer (1993) sottolinea quanto sia fuorviante, per il paziente come per l’analista, considerare irreale l’amore nel rapporto analitico. L’amore di per sé è praticamente identico a quello che si prova nel trattamento e gli aspetti distintivi vanno cercati altrove:

La differenza non va cercata nella realtà, ma nella sua specifica unilateralità. Da parte dell’analista, la relazione d’amore è unilaterale a causa del suo scopo, in altri termini la raison d’être del rapporto è che esiste a vantaggio del paziente. Inoltre, il setting analitico stesso, il suo contesto e la sua struttura sono naturalmente definiti e subordinati a quello scopo (p. 349).

Anche Kernberg (1994) avvisa che la mancanza di reciprocità deve essere posta alla base dei criteri  di differenziazione tra l’ amore di transfert e quello extra-analitico. Inoltre, l’ amore di transfert permette al paziente di esplorare a fondo le determinanti inconsce della situazione edipica, possibilità che non è data in altre forme d’amore.

Per concludere questa breve panoramica sulle attuali posizioni definitorie di transfert erotico intendo nuovamente citare Gabbard (1996)  e segnatamente sulla possibilità di commettere un errore metodologico nel quale possono incorrere gli analisti:

Possiamo affermare che l’amore è reale nel senso che implica una specifica relazione in atto, e al tempo stesso è irreale nel senso che contiene elementi di relazioni oggettuali passate, che sono state interiorizzate e poi riattivate nella diade analitica […]. Oggi gli analisti spesso provano lo stesso disagio di Freud di fronte a intensi sentimenti tansferali d’amore e, un’attenzione eccessiva alle distinzioni tra l’ amore nel transfert e al di fuori di esso, può essere una difesa ossessiva contro il disagio che si prova all’insorgere di sentimenti d’amore nel trattamento (p.36).

Occuparsi delle difficoltà degli adolescenti è possibile: un esempio di percorso di cura dei disagi dell’età evolutiva

L’ adolescenza è sicuramente un periodo di vita caratterizzato da numerosi e profondi cambiamenti sia dal punto di vista fisico, ma anche dal punto di vista emozionale e comportamentale.

 

Tali cambiamenti, che iniziano intorno ai 12 anni, determinano il processo di transizione verso lo stato di adulto e sottendono fattori di natura biologica, psicologica e sociale.

Il cambiamento più evidente agli occhi di chiunque è il cambiamento fisico, al quale però ogni adolescente associa esperienze emozionali intense e personali. Data la velocità con cui questi mutamenti si verificano, è infatti frequente un certo livello di ansia da parte dei ragazzi nei confronti del loro aspetto fisico e della loro capacità di relazionarsi con i pari, i quali cambiano rapidamente tanto quanto loro.

Così come ogni altra fase dello sviluppo di un individuo, anche l’ adolescenza è contraddistinta da peculiari atteggiamenti e comportamenti, prima su tutti la tendenza all’autonomia.

Il bisogno di indipendenza permette infatti ai ragazzi di sperimentare vari ruoli e nuove responsabilità, i loro interessi cambiano e iniziano porsi domande di natura esistenziale, tuttavia la carica emotiva che accompagna loro nella stragrande maggioranza delle attività, può condurli a conquiste e gioie, ma anche a delusioni e sconfitte di difficile gestione per loro.

Tali esperienze vengono vissute spesso con sbalzi di umore, iper-reattività al comportamento di amici, parenti e insegnanti, conflitti con i genitori e sentimenti di inadeguatezza, i quali nei casi più estremi possono sfociare in ansia, depressione, uso di sostanze stupefacenti e comportamenti devianti.

Le caratteristiche comportamentali ed emotive associate a particolari situazioni problematiche possono dare vita a determinati sintomi che se intensi e duraturi possono causare a loro volta, un disagio nella vita del ragazzo. I disturbi in età evolutiva, vengono spesso classificati e suddivisi in “problemi internalizzanti” e “problemi esternalizzanti”.

Con il termine esternalizzanti si intende una serie di disturbi e comportamenti ad essi associati caratterizzati da aggressività, scarsa concentrazione, impulsività e iperattività. Come si può facilmente immaginare, in adolescenza questi problemi si contraddistinguono per il fatto che il disagio che l’adolescente prova viene riversato all’esterno, dando luogo a situazioni e circostanze spesso spiacevoli o di difficile gestione. I più frequenti tra questi sono il Disturbo della Condotta e il Disturbo Oppositivo Provocatorio.

Il termine internalizzante invece, descrive una serie di disagi che i ragazzi sviluppano e mantengono dentro loro stessi, in altri termini, di fronte a sofferenze e stati emotivi intollerabili, alcune persone cercano di controllare e regolare le proprie emozioni e i propri pensieri in autonomia e in maniera inappropriata. I disturbi più frequenti tra questi sono i disturbi d’ansia e i disturbi dell’umore.

 

Problematiche dell’ adolescenza: il lavoro del centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, si avvale di esperti e qualificati psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

Il percorso terapeutico con gli adolescenti, è in genere un intervento altamente strutturato e di breve durata. Il principio su cui si basa la terapia cognitivo comportamentale è che i pensieri, le emozioni e i comportamenti, siano tre aspetti capaci di influenzarsi reciprocamente; l’obiettivo di cura del centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova, è dunque quello di aiutare i ragazzi a modificare proprio quei modi di pensare che spesso li portano a vivere determinate emozioni e di conseguenza a mettere in atto determinati comportamenti, spesso disfunzionali.

Il centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova offre a ragazzi e genitori la possibilità di riconoscere le criticità che spesso portano a conflitti familiari e malessere individuale e ad individuare insieme il percorso più adatto al fine di ridurre gli stati di sofferenza.

Il percorso diagnostico e terapeutico offerto dal centro di Psicoterapia e Scienza Cognitiva – Genova prevede:

  • Assessment psicodiagnostico – valutazione psicologica delle difficoltà e delle risorse dell’adolescente attraverso l’utilizzo di strumenti standardizzati, allo scopo di descrivere la problematicità dell’individuo e individuare un obiettivo terapeutico condiviso.
  • Psicoterapia individuale – spesso ciò che pensiamo di noi stessi e della realtà che ci circonda può essere poco funzionale e causare un certo livello di sofferenza soggettiva. L’intervento terapeutico è volto a ridurre la sofferenza soggettiva e ad aiutare il ragazzo ad individuare nuove e più funzionali strategie relazionali e comportamentali.
  • Colloqui con i genitori – regolari incontri informativi e psicoeducativi con i genitori e/o con le figure di riferimento del ragazzo.

La Comunicazione Mediata da Computer e la Self-Disclosure, costrutto importante nella psicoterapia faccia a faccia e on-line

Considerando la rilevanza della Self-Disclosure nella comunicazione Face to Face come elemento fondamentale per iniziare, sviluppare e mantenere le relazioni e, considerando la repentina diffusione della Comunicazione Mediata da Computer, alcuni ricercatori hanno indagato la variazione della Self-Disclosure anche nella comunicazione online.

Tommaso Ciulli – OPEN SCHOOL Scuola Psicoterapia Cognitiva di Firenze

 

Dalla loro nascita ad oggi, le tecnologie di comunicazione via Internet hanno registrato un’espansione senza precedenti. Per le nuove generazioni la comunicazione mediata dal computer rappresenta una modalità comune e consueta di comunicare. Come rilevato da Erich e Rhonda (2000), Internet ha determinato un forte impatto nei modelli di comunicazione interpersonale, facilitando inoltre le amicizie e le relazioni romantiche. La diffusione della Comunicazione Mediata dal Computer (CMC) come modalità abituale di comunicare pone numerosi interrogativi su come queste tecnologie siano in grado di modificare la comunicazione (Corlianò, 2010).

La comunicazione mediata dal computer viene definita come un processo attraverso il quale le persone creano, scambiano e ricevono le informazioni utilizzando i sistemi di telecomunicazione che facilitano la codifica, la trasmissione e la decodifica dei messaggi (December, 1996).

Dal momento che Internet è divenuto un luogo importante per l’interazione sociale (D’Amico, 1998), diversi ricercatori in ambito psicologico hanno studiato le diverse applicazioni e possibilità legate alla comunicazione mediata dal computer via Internet, suddividendole in due principali categorie; in base alla capacità del mezzo utilizzato di permettere lo scambio comunicativo in tempi diversi (comunicazione asincrona) oppure nello stesso tempo (comunicazione sincrona). La comunicazione asincrona comprende: E-Mail, mailing-list e newsgroup; quella sincrona racchiude gli Istant Messaging (IM), le Internet Relay Chat (IRC) o le web-conference (la comunicazione via webcam).

 

Comunicazione mediata dal computer: le tecnologie al servizio della psicologia

Come affermato da Skitka e Sargis (2006), le tecnologie introdotte con Internet possono essere usate come un laboratorio di psicologia, possono essere manipolate molte variabili e molti indizi visivi e uditivi, possiamo scomporre l’interazione sociale nelle sue componenti base.

Nei primi anni ‘90 le ricerche scientifiche hanno analizzato diversi aspetti: la diversità tra le interazioni online nei differenti ambienti digitali, le differenze nelle interazioni faccia a faccia (FtF) e quelle online, gli effetti sulla vita quotidiana prodotti dall’uso prolungato della comunicazione mediata dal computer o le differenze etnografiche nell’uso della comunicazione mediata dal computer.

Le prime ricerche si sono concentrate sull’influenza che queste tecnologie hanno portato negli ambienti lavorativi\aziendali, primi veri luoghi di crescita della comunicazione mediata dal computer, definite task-oriented (Tosoni, 2004). Queste prime indagini si focalizzavano sulle conseguenze sociologiche dell’introduzione della comunicazione mediata dal computer in strutture organizzative preesistenti. Questi modelli si concentravano sulle caratteristiche fisiche del mezzo e della sua capacità\ricchezza di trasmettere più o meno informazioni. Alcuni ricercatori hanno direzionato la loro attenzione sulle varie componenti della comunicazione offline e sulle possibili differenze tra la comunicazione mediata dal computer e quella faccia a faccia (FtF). Come affermano Derlega, Winstead, Wong e Greenspam (1987), due fenomeni presenti nella comunicazione risultano essere molto importanti e rilevabili all’interno di ogni relazione, ovvero, la Self-Disclosure e la Self-Presentation.

 

La Self-Disclosure

La Self-Disclosure e la Self-Presentation sono componenti importanti della comunicazione, sono costrutti molto legati fra di loro ma non intercambiabili (Schlenker, 1986; Johnson, 1981). Goffman (1959) descrive la Self-Presentation come il processo di gestione delle informazioni personali, la selezione di ciò che riportiamo di noi all’esterno, mentre Wheeless e Grotz (1976), definiscono la Self-Disclosure come “ogni messaggio riguardo se stessi che una persona comunica ad un’altra”; Archer (1980) fornisce una definizione della Self- Disclosure molto simile e la identifica come l’azione di rivelare informazioni personali, pensieri e sentimenti ad altri soggetti. Pertanto, la Self-Presentation implicherebbe una selezione delle informazioni riguardanti se stessi divulgate all’esterno, mentre, stando alle definizioni di Self-Disclosure, non vi sarebbe in essa alcuna selezione delle informazioni.

Tra i due fenomeni quello più facilmente identificabile e osservabile è la Self- Disclosure, infatti, Jourard (1971) afferma come per identificare tale aspetto sia necessario solamente rilevare la quantità di informazioni personali espressa nella relazione.

Nella vita di tutti i giorni la Self-Disclosure risulta essere molto importante per le sue implicazioni all’interno di ogni relazione sia essa con un individuo o un gruppo di persone. È importante all’interno di semplici interazioni con gli amici, con i famigliari o con gli estranei, e, soprattutto, all’interno di quelle relazioni dove l’esprimere sé stesso è determinante come nel percorso psicoterapeutico.

Permette la nascita e lo sviluppo delle relazioni (Gibbs, Ellison, & Heino, 2006), ne influenza il percorso e può trasformarne il significato (Derlega, Metts, Petronio, & Margulis, 1993). Alcune ricerche, che hanno studiato le relazioni intime tra le persone, hanno riportato come una maggiore Self-Disclosure da parte di entrambi i partner accresca l’esperienza di intimità ed essi riportino una maggiore soddisfazione nel rapporto (Laurenceau, Barrett, & Pietromonaco, 1998; Reis & Shaver, 1988). È stata considerata come una componente rilevante all’interno delle relazioni genitori-figli (Papini & Farmer, 1990). La Self-Disclosure è stata anche associata ad una maggiore autostima, ad un maggiore benessere generale e psicologico (Kernis, 2003; Kernis & Goldman, 2006), inoltre, le persone sane tendono a riportare una Self-Disclosure con più dettagli di tipo positivo che negativo (Wheeless & Grotz, 1976).

Il passaggio dallo studio della Self-Disclosure nella vita di tutti i giorni, allo studio di essa nella Comunicazione Mediata da Computer è stato breve; considerando la rilevanza della Self- Disclosure nella comunicazione Face to Face come elemento fondamentale per iniziare, sviluppare e mantenere le relazioni e, considerando la repentina diffusione della Comunicazione Mediata da Computer, alcuni ricercatori hanno indagato la variazione della Self-Disclosure anche nella comunicazione online.

 

La Self-Disclosure online: i modelli

I dati raccolti dalle ricerche hanno portato alla formulazione di modelli interpretativi volti a spiegare le variazioni tra la Self-Disclosure nella comunicazione Face to Face e nella Comunicazione Mediata da Computer.

Sproull e Kiesler (1985) hanno proposto la teoria RSC, Reduced Social Cues, secondo i quali la Comunicazione Mediata da Computer impedirebbe alle persone impegnate nell’interazione di includere tutte quelle informazioni che si agganciano alla comunicazione verbale (quali il tono di voce, gli indizi visivi, il linguaggio del corpo, l’aspetto,  la mimica, la prossemica) presenti invece nella comunicazione Faccia a Faccia (FtF), con la conseguenza, secondo tale teoria, di un generale appiattimento sociale e di una minore Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer rispetto alla FtF.

Altri autori come Lea e Spears (1992) hanno sviluppato un modello diverso da quello proposto da Sproull e Kiesler (1985). Secondo il modello SIDE (Social Identity DE-individuation di Lea e Spears), tutti gli indizi che riguardano l’identità sociale non vengono filtrati dalla comunicazione mediata, ma passano attraverso le conoscenze pregresse delle persone che hanno un’interazione al computer, oppure, tramite indicatori inclusi nei messaggi come le intestazioni e le firme elettroniche. Proprio perché la Comunicazione Mediata da Computer, al contrario di quanto postulato dalla RSC, permette il passaggio di certi indicatori sociali nonostante la scarsa larghezza di banda che è comunque intrinseca al mezzo, la Comunicazione Mediata da Computer non equalizza gli attori, non avverrebbe un appiattimento sociale della comunicazione ed una minore Self-Disclosure. Inoltre, Lea e Spears (1992) hanno rilevato che tutte le informazioni che fanno parte della comunicazione non verbale e che non possono essere direttamente trasmesse tramite E-Mail, vengono in realtà “tradotte” e inserite nel testo tramite l’impiego di emoticon o di un particolare stile di scrittura permettendo così la Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer.

Walther (1992) propone un altro modello in grado, secondo l’autore, di spiegare quali siano le dinamiche che permettono o limitano la Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer. Il suo approccio denominato SIP (Social Information Processing) al contrario del modello SIDE (Lea & Spears, 1992) si distanzia molto dagli approcci basati sugli indizi filtrati, introducendo due variabili indipendenti fondamentali, ovvero, le aspettative di future interazioni e il fattore temporale. Per quanto riguarda la prima variabile, le aspettative di futura interazione, che in genere non venivano considerate negli esperimenti di laboratorio delle precedenti ricerche sulla Comunicazione Mediata da Computer, risulterebbero, secondo invece il modello SIP, determinanti nella disponibilità dei soggetti ad aprirsi maggiormente, a ricercare maggiori informazioni l’uno dell’altro, a comportarsi a in maniera più amichevole e a cooperare nelle negoziazioni. In riferimento alla seconda variabile, l’ipotesi dei ricercatori è che, comunicando al computer, i tempi per l’espressione di comportamenti relazionali e per poter rivelare la propria identità, sono ovviamente più lunghi, ecco perché nel modello SIP viene presa in considerazione la variabile temporale.

Secondo tale approccio la Comunicazione Mediata da Computer non sarebbe meno efficace della comunicazione faccia a faccia dal punto di vista dell’interazione sociale (come teorizzato e rilevato dal modello RSC), ma solo meno efficiente a causa delle caratteristiche tecniche del computer, tra le quali: la riduzione di canali simbolici (che secondo il modello SIP, tende all’irrilevanza via via che i soggetti prendono confidenza con i nuovi strumenti) e la lentezza della digitazione che amplia il tempo degli scambi comunicativi rispetto all’interazione faccia a faccia.

Tale approccio critica direttamente i dati ottenuti dalle ricerche utilizzano il modello RSC sulla impersonalità della comunicazione, ritenendo che esse non tengono conto in modo adeguato dei tempi necessari per la Self-Disclosure. Le ipotesi dei ricercatori è stata supportata da ricerche condotte su persone geograficamente distanti, le quali cooperavano in gruppi di lavoro per diverse settimane e con molto tempo a disposizione per entrare in contatto con la tecnologia impiegata e per potersi aprire (Tosoni, 2004).

Non solo, come riportato da Walther (1992), le persone sono motivate ad adattarsi ai pochi indizi che la Comunicazione Mediata da Computer consente di trasmettere al fine di favorire la  formazione di buone impressioni nel desiderio di sviluppare rapporti interpersonali, come ad esempio rilevato nelle ricerche condotte da Cummings, Butler, e Kraut, (2002) e Wellman, Haase, Witte, e Hampton (2001), in cui le persone coinvolte potevano manipolare i due tipi di comunicazione mediata da computer (sincrona e asincrona) per soddisfare obiettivi differenti.

Successivamente alla volontà dei ricercatori di strutturare un modello univoco in grado di spiegare le variazioni rilevate nella Comunicazione Mediata da Computer rispetto alla FtF della Self- Disclosure ed alla difficoltà riscontrata nel raggiungere tale obiettivo, alcuni di essi hanno cercato di rilevare le differenze della Self-Disclosure tra Comunicazione Mediata da Computer e FtF considerando altre variabili.

In una serie di esperimenti, Bargh, McKenna e Fitzsimmons (2002) hanno trovato che gli studenti erano più facilitati nella loro Self-Disclosure in Internet che di persona (FtF). Alcuni ricercatori hanno trovato che la Comunicazione Mediata da Computer faciliterebbe lo scambio emotivo, empatico e favorirebbe una maggiore Self-Disclosure tra persone con problemi di salute, disabilità o persone con un basso livello di sostegno reale (Braithwaite, Waldron, & Finn, 1999; Maloney-Krichmar & Preece, 2005; Rice & Love, 1987; Turner, Grube, & Meyers, 2001). Altri autori Wellman et. al. (2001) rilevano che coloro che sono classificati come utenti regolari di internet non usano l’E-Mail come sostituto dell’interazione FtF, ma piuttosto come mezzo per mantenere e sviluppare le relazioni con persone distanti o per aiutare le persone che hanno già una relazione a sentirsi vicine tra di loro (Vetere et al., 2005). Parks e Floyd (1996), hanno rilevato come il processo di Self-Disclosure delle persone fosse in qualche modo accelerato all’interno della Comunicazione Mediata da Computer, e di come le persone arrivassero a parlare di dettagli molto intimi solo dopo aver scambiato due E-Mail. Bonebrake (2002), Cooper e Sportolari (1997) riportano che le persone forniscono volontariamente online informazioni su se stesse che in una simile interazione FtF non avrebbero mai fornito.

Joinson (2004) nella sua ricerca su tre gruppi di discussione diversi, ovvero, FtF, Comunicazione Mediata da Computer con indizi visivi (registrazione video) e Comunicazione Mediata da Computer in completo anonimato visivo, riportò gli stessi risultati, una maggiore Self-Disclosure nelle condizioni Comunicazione Mediata da Computer rispetto a FtF e una maggiore apertura nella condizione di completo anonimato visivo rispetto a quella registrata con video.

Bargh et. al. (2002), Tidwell e Walther (2002), riportano che la Comunicazione Mediata da Computer stimolerebbe una maggiore Self-Disclosure rispetto alla FtF. Quello che emerge dalle ricerche, sembra ripercorrere quanto ipotizzato da Rubin (1975) e Derlega e Chaikin (1977), secondo i quali le persone siano più facilitate ad aprirsi agli estranei su Internet, come nel fenomeno “dell’estraneo sul treno”, cioè, come gli individui rivelano informazioni ad uno sconosciuto sul treno che non rivelerebbero ad amici, colleghi o parenti, poiché in tal caso potrebbero intercorrere nei rischi sopra elencati. Così in rete, nella Comunicazione Mediata da Computer, l’anonimato presente potrebbe garantire ai loro utilizzatori una qualche sorta di difesa dalle loro preoccupazioni e paure di critiche sociali (McKenna, Green, & Gleason, 2002).

Secondo un’altra ipotesi, livelli più alti di Self-Disclosure online rispetto alla FtF, dipenderebbero da una maggiore esperienza nell’uso della Comunicazione Mediata da Computer: infatti le persone che utilizzano maggiormente tali mezzi di comunicazione, benché siano a conoscenza delle varie problematiche legate alla privacy, per una forte convinzione che la loro comunicazione non possa essere intercettata, non permetterebbero a tali preoccupazioni di alterare la loro Self-Disclosure (Frye & Dornisch, 2010). Secondo lo studio di Lai-yee Ma e Leung (2006), un uso frequente del programma ICQ (software di instant messaging) sarebbe, per esempio, correlato positivamente a livelli più alti di Self-Disclosure, in termini di ore per giorno e giorni alla settimana. Suggerendo che chi usa maggiormente un software di IM, in questo caso ICQ, è portato ad aprirsi e rivelare più dettagli intimi di chi lo usa meno frequentemente. Inoltre, nello stesso studio emerge come persone con un livello di educazione più alto abbiano una maggiore Self- Disclosure online.

Nel caso dei SNS (Social Network Site, ad esempio Facebook) è stato rilevato che tali ambienti rafforzano la Self-Disclosure attraverso la gratificazione sociale, come un alto numero di amici e stretti legami (Park, Kee, & Valenzuela, 2009); cosi potrebbe essere anche per la Comunicazione Mediata da Computer, dove una maggiore apertura personale potrebbe dipendere dai possibili benefici ad essa connessi (Laurenceau et al., 1998; Reis & Shaver, 1988). Alcuni studi come ad esempio quello di Taddei, Contena e Grana (2010), evidenziano l’assenza di differenze significative nella Self-Disclosure tra la Comunicazione Mediata da Computer e FtF, sottolineando invece un effetto di “riscaldamento” per cui una prima esposizione ad un interazione via Comunicazione Mediata da Computer, comporta un aumento della Self-Disclosure in una successiva interazione via FtF. Come espresso da Moghaddam (2002) ci sono altri fattori oltre la Self-Disclosure rintracciabili all’interno di una relazione che ne permettono la sua formazione ed il suo mantenimento. Secondo il ricercatore, la Simpatia sarebbe un fattore molto importante nello studio dei fenomeni sociali.

 

Le caratteristiche personali dell’individuo nella Comunicazione Mediata da Computer

Studi recenti hanno indagato come certe caratteristiche dei soggetti possono condizionare la comunicazione stessa o se l’esistenza di relazioni tra l’uso di Internet e tali caratteristiche (Qin, Yusen, Zao, & Ruogu, 2010). Emerge che con  il passare del tempo le persone siano entrate sempre più in confidenza con le nuove tecnologie, diventando così sempre più d’uso comune, non solo negli ambienti lavorativi ma anche nella propria cerchia familiare e amicale (Leung, 2002) tanto da portare le persone ad adattarsi ad esse (Walther, 1992), e che a loro volta abbiano adattato queste tecnologie (Cummings et al., 2002; Wellman et al., 2001; Lea & Spears, 1992), le quali sono usate più in base a caratteristiche personali, che in base ad effettive differenze dei mezzi di comunicazione (Leung, 2002).

Ad esempio, Joinson (2004) riporta che quando le possibilità di rifiuto sono più elevate le persone scelgono di usare l’E-Mail per comunicare rispetto alla FtF e che questo comportamento sembra legato all’autostima delle persone; tanto più è bassa l’autostima, tanto più le persone useranno la Comunicazione Mediata da Computer; al contrario, tanto più è alta la loro autostima, tanto più preferiranno una conversazione FtF. Aspetti interessanti e da considerare all’interno di in una relazione psicoterapeutica soprattutto per quei soggetti per i quali il rifiuto o il giudizio possono essere temi rilevanti a tal punto da condizionare la scelta nel richiedere o usufruire di un percorso psicoterapeutico tradizionale in caso di bisogno.

Per quanto concerne la Timidezza, emerge come offline le persone timide mettono in atto comportamenti di ritiro sociale (Cheek & Buss, 1981; Jones et al., 1986) e quindi, potrebbero esprimere livelli di Self-Disclosure più bassi di coloro che non sono timidi; secondo Mckenna et al. (2002) la Comunicazione Mediata da Computer potrebbe facilitare comportamenti sociali nelle persone che riportano alti livelli di ansia sociale.

Come indicato da Guadagno, Okdie e Eno (2008), molte sono state le ricerche presenti nella letteratura scientifica che hanno indagato gli aspetti psicologici delle persone che utilizzano Internet, come ad esempio la personalità dei soggetti (Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2003; Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2000; Leung, 2002; Scealy, Philips, & Stevenson, 2002). Come spiegano Pervin e John (1997) e Shaffer (2000), i tratti di personalità rientrano tra quelle caratteristiche di una persona che perdurano in maniera relativamente stabile durante tutta la vita, in un gran numero di situazioni e contesti diversi. Dato che Internet è diventato di largo uso e coinvolge tutti i ceti sociali, è divenuto logico studiarlo dalla prospettiva della personalità, tanto più che è un’attività generalmente libera, non obbligatoria e che quindi può riflettere motivazioni personali, valori, preferenze e altre caratteristiche dell’individuo (Landers e Lounsbury, 2006).

Inoltre, da un punto di vista di sviluppo individuale, la personalità ha una rilevanza maggiore rispetto ad altre variabili che sono state messe in relazione con l’uso di Internet, tra cui gli atteggiamenti nei confronti di internet (Lavin, Marvin, McLarney, Nola, & Scott, 1999),  l’esperienza nell’uso del PC (Blair, O’Neil, & Price, 1999), il supporto sociale (Shaw & Gant, 2002), gli stili di vita (Ho & Lee, 2001), il supporto nelle informazioni (Scull, 1999), l’ansietà nell’uso del PC (Chua, Chen, &  Wong, 1999), l’autostima (Armstrong, Philips, & Saling, 2000) e altri stati affettivi correlati all’uso del computer (Coffin & MacIntyre, 1999; Landers & Lounsbury, 2006).

Riferendosi al modello dei Big-Five di McCrae e Costa (1992), nel caso delle dimensioni di personalità sembrerebbe che alti livelli di Amicalità siano correlati con la comunicazione all’interno di Facebook e quindi una possibile maggiore Self-Disclosure (Seidman, 2013). Per la dimensione Coscienziosità emerge come essa sembrerebbe correlata negativamente con la Self-Disclosure online (Seidman, 2013; Landers & Lounsbury, 2006). L’Apertura Mentale risulta essere correlata con una maggiore Self-Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer (Guadagno et. al., 2008; Amichai-Hamburger & Vinitzky, 2010), mentre Seidman (2013) non rileva nessuna associazione. Il Nevroticismo risulta essere correlato positivamente con alti livelli di Self-Disclosure (Seidman, 2013; Correa et al., 2010; Amichai-Hamburger & Ben-Artzi, 2000; Ehrenberg et al., 2008). Persone con alti livelli di Estroversione riportano tendenzialmente una maggiore Self- Disclosure nella Comunicazione Mediata da Computer (Muscanell & Guadagno, 2012).

 

Conclusioni: Comunicazione Mediata da Computer e psicoterapia

Come esposto da alcuni autori, internet ha creato e crea un’alternativa alla psicoterapia faccia a faccia e molti psicoterapeuti utilizzano le opportunità offerte da questi strumenti nel loro lavoro (Amichai-Hamburger et. al, 2014).

Specialmente la CBT (Terapia Cognitiva-Comportamentale) sta puntando molto nella ricerca sulle terapie online (Barak, Hen, Boniel-Nissim, & Shapira 2008; Speck et al., 2007). In una review di Amichai-Hamburger e colleghi del 2014, vengono elencati tutti gli studi a favore e contro la possibilità di integrare, alternare o sostituire la terapia FtF con quella Mediata da Computer e altri tipi di e-therapy.

Diversi sono i punti discussi, uno tra questi la capacità della Comunicazione Mediata da Computer di far passare quei segnali verbali e non verbali molto importanti nella relazione terapeutica, per questo è stato dato molto spazio in questo articolo a quei modelli che hanno cercato di determinare se effettivamente la Comunicazione Mediata da Computer favorisca o meno la trasmissione di questi segnali.

Molte sono le ricerche che hanno verificato l’efficacia delle psicoterapie online (Amichai-Hamburger et al., 2014). Alla luce di ciò, dei risultati raggiunti, dalle opportunità che Internet e la Comunicazione Mediata da Computer offrono e potrebbero offrire per la psicoterapia e considerando che in Italia rispetto ad altri paesi, le linee guida tracciate dall’Ordine nazionale degli psicologi tendono a essere comprensibilmente e in maniera precauzionale più restrittive nell’adozione della Comunicazione Mediata da Computer nella psicoterapia, risulta di primaria importanza continuare la ricerca in tal senso considerando anche gli aspetti strutturali e tecnologici della rete ed anche culturali specifici del nostro paese.

L’insight di malattia nei pazienti schizofrenici: un test per incrementarlo

Un nuovo studio del “Centre for Addiction and Mental Health”, ha dimostrato che un test dell’equilibrio che stimola una parte del sistema nervoso utilizzando dell’acqua fredda all’interno dell’orecchio sinistro, potrebbe alleviare temporaneamente la mancanza d’insight nei pazienti schizofrenici.

 

Il test che aumenta l’insight nei pazienti schizofrenici

Più della metà dei pazienti con schizofrenia hanno una ridotta capacità d’insight riguardo alla propria condizione; non credono, cioé, di essere affetti da patologia. Questa mancanza d’ insight è la principale ragione del perché molti pazienti rifiutino di seguire dei trattamenti medici o prendere regolarmente dei medicinali. Le conseguenze possono essere una cattiva condizione di salute, un rischio più alto di essere ospedalizzati o di esperire instabilità all’interno delle mura domestiche.

Un nuovo studio del “Centre for Addiction and Mental Health”, ha dimostrato che un test dell’equilibrio che stimola una parte del sistema nervoso utilizzando dell’acqua fredda all’interno dell’orecchio sinistro, potrebbe alleviare temporaneamente la mancanza d’insight.

Il Dr.Philip Gerresten, uno scienziato clinico del Campbell Familiy Mental Health Research Institute, ha concepito l’idea di utilizzare questo test sui soggetti schizofrenici, basandosi sui risultati promettenti ottenuti con i pazienti paralizzati con danno da stroke, che avevano perso la consapevolezza della propria paralisi.

Il test, chiamato “Stimolazione vestibolare calorica”, consiste nell’irrigare il canale uditivo con dell’acqua di varie temperature. Il test è comunemente usato per valutare il sistema vestibolare corporeo o l’equilibrio. La procedura può stimolare diverse aree del cervello, incluse le regioni specifiche associate con la mancanza d’insight, una connessione che è stata confermata da studi di neuroimmagine.

Nei pazienti affetti da stroke con l’emisfero destro danneggiato, l’acqua fredda conduce ad una temporanea consapevolezza della propria paralisi. I nuovi risultati ottenuti utilizzando la procedura tra i pazienti schizofrenici, sono stati promettenti.

L’acqua fredda nell’orecchio sinistro ha aumentato significativamente l’insight e la consapevolezza dei pazienti riguardo alla schizofrenia, che abbiamo misurato 30 minuti dopo il test, confrontandolo con un falso trattamento o placebo di acqua a temperatura ambiente“, sostiene Gerresten. Poco dopo il trattamento, tuttavia, l’insight è diminuito.

Nell’orecchio destro, il trattamento è sembrato avere l’effetto opposto, diminuendo la consapevolezza nei soggetti schizofrenici.

I ricercatori hanno utilizzato la procedura su 16 pazienti schizofrenici, che avevano un grado medio/grave di mancanza d’insight di malattia. Ai soggetti era assegnata, in ordine casuale, una sola di tre condizioni: acqua fredda a 39.2° F (4°C) nell’orecchio sinistro; acqua fredda nell’orecchio destro ed un finto trattamento in cui la temperatura dell’acqua corrispondeva a quella corporea.

L’insight di malattia dei pazienti era poi valutato 30 minuti dopo il test, utilizzando la scala “VAGUS Insight into Psychosis”, una misura creata per rilevare cambiamenti dell’insight in un lasso di tempo breve.

Con questi promettenti risultati, potremo intraprendere una nuova ricerca per rendere più lungo il periodo di consapevolezza, utilizzando una nuova tecnica che renderà la procedura più comoda“, sostiene il Dr. Gerresten.

Il ricercatore sta testando una nuova tecnica, un casco per la stimolazione vestibolare, con degli auricolari la cui temperatura è controllata. Al contrario del test dell’acqua, questa tecnica è stata progettata per uso domestico e non richiede acqua o uno specialista formato per applicarla. I partecipanti dello studio utilizzeranno la procedura per diversi giorni consecutivi, per vedere se condurrà ad un miglioramento prolungato nell’insight di malattia.

Il neurocostruttivismo in ricordo di Annette Karmiloff-Smith

Il 19 dicembre 2016 è venuta a mancare la fondatrice ed esponente del neurocostruttivismo odierno, Annette Karmiloff-Smith . Il suo lavoro ha ispirato e continua a ispirare tanta ricerca psicologica soprattutto nel campo dello sviluppo.

 

Tantissimi sono i suoi contributi e sarebbe impensabile e riduttivo cercare di ricordarli tutti. Con questo articolo, a pochi mesi dalla morte di Annette Karmiloff-Smith, si cerca di cogliere la portata innovativa del suo pensiero attraverso un piccolo scorcio della sua prospettiva teorica.

Partiamo da una domanda: come è organizzata la mente umana?

 

Annette Karmiloff-Smith: verso la mente modulare e oltre

Siamo comodamente seduti ad ascoltare la nona sinfonia di Beethoven, che costituisce uno “stimolo-input” per il nostro cervello. Il nostro sistema uditivo è il primo a codificare la melodia in un segnale “comprensibile” e manipolabile dal sistema cognitivo, segnale che viene inviato a delle determinate aree del nostro cervello. Queste elaborano lo stimolo selezionato in maniera specifica ed automatica e inviano a loro volta il segnale al sistema centrale, deputato ai processi decisionali, alle attività di monitoraggio, controllo e pianificazione dell’azione. Qui le informazioni vengono integrate e viene emesso un output comportamentale: ci godiamo l’ascolto di quella che viene riconosciuta come una melodia musicale.

Questo esempio rappresenta l’ipotesi modulare della mente umana, che Jerry Fodor ha ben descritto nel libro “La mente modulare”. L’autore ipotizza che la mente si caratterizzi per la presenza di tre componenti: trasduttori (sistema uditivo, in questo caso); moduli (aree specifiche come ad esempio l’area di Broca e di Wernicke); sistemi centrali (corteccia frontale e cingolata).

A tal proposito Annette Karmiloff-Smith, nel libro “Oltre la mente modulare” si chiede: può questa architettura della mente essere estesa ad una mente in via di sviluppo, ovvero ad una mente estremamente plastica? E quali implicazioni ha questa visione per la clinica dei disordini dello sviluppo?

La piccola rivoluzione operata da questa autrice prevede, in primis, un radicale cambio di prospettiva: è chiaro che questa visione statica a “compartimenti stagni” della mente umana può essere adatta alla descrizione di un cervello maturo, adulto, ma non si addice al cervello del bambino che subisce numerosi cambiamenti architettonici, strutturali e funzionali nel corso del tempo e in maniera continua. È necessario andare oltre questa prospettiva modulare: il cervello del bambino ha bisogno di una spiegazione non statica ma dinamica, in grado di cogliere il suo essere in divenire.

A tal proposito è importante inquadrare il concetto di “vincolo” che Annette Karmiloff-Smith propone in sostituzione a quello di modulo.

 

Il vincolo: definizione e sfaccettature

Secondo Annette Karmiloff-Smith il vincolo è una predisposizione biologicamente innata, “dominio rilevante” che conduce lo sviluppo verso una traiettoria tipica, per intenderci nella zona a norma della curva gaussiana, ma che può essere deviato da tantissime piccole alterazioni. Cosa vuol dire “dominio rilevante”? In un suo lavoro del 1998, Annette Karmiloff-Smith descrive come un vincolo dominio-rilevante abbia effetti a tre livelli: cerebrale, comportamentale e mentale.

Nel neonato a livello cerebrale si osserva, grazie alle tecniche di neuroimaging, un’attivazione molto diffusa interemisferica e intraemisferica, che si localizza e si specializza col passare del tempo.

A livello comportamentale osserviamo delle predisposizioni innate ad apprendere in maniera dominio-generale e dominio specifica.

A livello cognitivo si osserva una predisposizione innata all’elaborazione di taluni stimoli, prevalentemente di natura sociale (ad esempio i volti umani, cfr. esperimenti di Goren, Sarty & Wu,1975; Morthon & Johnson, 1991; Valenza, Simion, Macchi-Cassia & Umiltà, 1996). Un esempio di tipo cognitivo lo possiamo trarre dal modello evolutivo dell’HIP, nei meccanismi per estrarre invarianti: la categorizzazione, lo “statistical learning” (sistema per cogliere co-occorrenze statisticamente più frequenti) e il “rule learning” (sistema di apprendimento di regole), sono meccanismi “dominio-generali” che permettono al bambino come all’adulto di dare un senso al mondo circostante.

Senza addentrarci troppo in aspetti tecnici, ecco un esempio di come agisce un vincolo, attraverso processi di localizzazione e specializzazione e di come si passa da un “momento dominio-rilevante” ad uno “dominio-specifico”: a 3 giorni di vita il bambino mostra una preferenza per un volto rispetto a un non volto (ovvero ad uno stimolo non sociale), ma l’attivazione neurale riscontrata è molto diffusa in entrambi gli emisferi. A sei mesi di vita si nota che l’attivazione neurale è localizzata unicamente all’emisfero destro ed è scomparsa nel sinistro. A un anno di vita l’attivazione corrisponde ad una zona molto più ristretta dell’emisfero destro nel suo lobo temporale. Alla fine dell’età scolare l’attivazione è ristretta ad una specifica zona: l’area fusiforme per il riconoscimento dei volti, la stessa che si attiva in un cervello maturo.

Dunque, riformuliamo la domanda: può l’ipotesi modulare della mente descrivere in maniera esaustiva la plasticità di una mente in via di sviluppo? Appare chiaro che una visione modulare non possa essere applicata alla mente del bambino, molto più interconnessa e  “neurodiversa” sotto tanti aspetti! Ci vuole una prospettiva “prospettica” per analizzare il bambino, che non prenda come punto di partenza dell’analisi il modulo maturo dell’adulto (nel nostro esempio: l’area fusiforme), ma piuttosto che parta, come dice Annette Karmiloff-Smith, dallo sviluppo stesso per spiegare lo sviluppo.

 

Ripercussioni sulla clinica

Mettiamo il caso che un bambino, all’età di sei anni, mostri scarse abilità comunicative e linguistiche, in particolar modo un lessico molto povero rispetto ai coetanei e problemi a livello fonologico e sintattico. Non risulta avere problemi a livello uditivo a possiede un QI nella norma. Con questo quadro sintomatologico è molto probabile che al bambino venga diagnosticato un disturbo specifico del linguaggio. Ci si chiede: può un disturbo dello sviluppo linguistico essere ricondotto ad una disfunzione del modulo del linguaggio così come prevede l’ipotesi modulare della mente?

La neuropsicologia classica interverrebbe solo dopo una diagnosi attivando una riabilitazione del modulo disfunzionale senza prevedere nessun intervento sui moduli preservati. La prospettiva neurocostruttivista invece è totalmente differente: ricerca delle atipie nella traiettoria evolutiva in fase molto precoce. Si va a cercare la “deviazione” dal percorso tipico in un momento maggiormente plastico nel quale è possibile fornire dei supporti che possano limitare un decorso atipico.

Con ciò non si vuole dire che si può cambiare il corso della genetica: un bambino affetto da sindrome di Williams, ad esempio, possiede una microdelezione del cromosoma 7 e questo è un fatto immodificabile che provoca necessariamente degli effetti a cascata sul successivo sviluppo, però agire in un momento nel quale un cervello ha una fortissima interconnessione è sicuramente più fruttuoso che agire quando il cervello è modularizzato. Agire precocemente quando sono ancora presenti vincoli “dominio-rilevanti” significa agire su predisposizioni cognitive più generali che solo in seguito si specializzeranno e localizzeranno.

Dove è possibile osservare queste atipie? Ad esempio, in alcuni meccanismi cognitivi di base quale il focus attentivo (si veda lo studio di A. Karmiloff-Smith “Development itself is the key to understanding developmental disorders”, 1998), oppure nella postura (si veda lo studio di Lindsay e collaboratori “Posture Development in Infants at Heightened versus Low Risk for Autism Spectrum Disorders”, 2013 ), e in altri possibili “marcatori” o, come dice E. Valenza, “campanelli d’allarme” che possano segnalare la presenza di una piccola deviazione dalla traiettoria tipica dello sviluppo.

 

La metafora del paesaggio epigenetico

Il neurocostruttivismo in ricordo di Annette Karmiloff-Smith - Paesaggio epigenetico

C.H. Waddington (1940) – La metafora del paesaggio epigenetico

 

L’ immagine sovrimpressa è la copertina di un’opera di C.H. Waddington del 1940 e rappresenta la metafora del paesaggio epigenetico, che risulta particolarmente adatta a descrivere la prospettiva neurocostruttivista. La pallina (ovvero lo sviluppo) può percorrere infinite traiettorie e subire diverse deviazioni all’interno del suo percorso. Quando la pallina giunge in fondo alla sua traiettoria si ha l’esito fenotipico, prodotto dall’interazione tra geni e ambiente.

In termini squisitamente neurocostruttivisti, i vincoli, dunque alcune predisposizioni innate, innescati dall’ambiente filogenetico e ontogenetico determinano una traiettoria unica che è sempre bidirezionale e probabilistica.

L’originalità del neurocostruttivismo di Annette Karmiloff-Smith è stata quella di sottolineare come sia estremamente più interessante e produttivo studiare la “pallina” mentre scende a valle, guardarne le piccole deviazioni e fornire dei supporti educativi in itinere, piuttosto che analizzare la pallina quando è già in fondo, a percorso concluso.

Le intuizioni di Annette Karmiloff-Smith hanno aperto un varco enorme di possibilità per la ricerca sullo sviluppo e il cambiamento cognitivo.

La scoperta del transfert: Freud e la rivoluzione psicoanalitica

All’inizio per Freud il transfert si caratterizza come un caso particolare di spostamento dell’affetto da una rappresentazione all’altra e diviene preferibile quella dell’analista per l’intrinseca disponibilità. Affiora inoltre l’idea, non ancora concettualizzata, del transfert come elemento che favorisce la resistenza: confessare un desiderio rimosso diviene decisamente difficile se fatto alla persona direttamente interessata.

 

Freud e la nascita del concetto di transfert

È ben noto come già prima di Freud certi fenomeni che mettevano in rapporto terapeuta e paziente, che oggi possiamo rubricare con i termini di transfert e controtransfert, fossero ritenuti di un’importanza rilevante: basti pensare che già nella pratica dell’ipnotismo nel settecento e nell’ottocento si sapeva che la relazione tra l’ipnotizzatore e l’ipnotizzato era una forma di rapporto con caratteristiche regressive e di dipendenza tali da ricreare aspetti genitore-figlio. Ma il contributo di Freud nella creazione a livello teorico del concetto di transfert e a livello clinico dell’idea di analizzarlo rimane a fondamento di ogni possibile sviluppo (Silvestroni 2009).

Possiamo ancora dire che la teoria del transfert è il pilastro su cui poggia il trattamento psicoanalitico e viene considerata uno dei maggiori apporti di Freud alla scienza (Etchegoyen 1986).
Ma come arrivò Freud a intuire questo processo?

Bisogna richiamare il trattamento catartico di Anna O. da parte di Breuer sul quale Freud agì come supervisore e poi, nel 1883, interpretò in tutta la sua complessità. Il trattamento della celebre paziente Anna O. durò dal 1880 al 1882 e terminò con un intenso amore di transfert e di controtransfert. I protagonisti di questa ben nota vicenda la considerarono un episodio umano come tanti altri e sul momento neppure Freud stabilì una connessione tra l’innamoramento e la terapia. Ma negli anni successivi Freud convinse Breuer a pubblicare le loro scoperte sull’isteria e osservò che la reticenza del collega era dovuta all’episodio sentimentale con Anna O: la convinzione arrivò solo quando Freud gli raccontò che anche a lui era successo qualcosa di simile e che perciò riteneva il fenomeno pertinente, inerente all’isteria.

Nei casi clinici degli “Studi sull’isteria” (1892-95) Freud fa numerosi commenti sulle singolari sfumature affettive che caratterizzano la relazione tra paziente e psicoterapeuta arrivando a definire con precisione il transfert (Übertragung) come una singolare relazione umana che si instaura tra medico e paziente attraverso un falso nesso in cui il paziente stesso assegna al terapeuta rappresentazioni spiacevoli che emergono a vari livelli durante il lavoro comune.

Il ragionamento di Freud parte dalle considerazioni sulla validità del metodo delle libere associazioni e su come, in alcuni momenti, esso si blocchi. Queste circostanze che lui definisce resistenze sono attribuibili a una spiacevole ed erronea rappresentazione del medico da parte del paziente. Ne dà un esempio chiaro che riportiamo testualmente: “Un certo sintomo isterico in una delle mie pazienti era stato il desiderio, concepito molti anni prima e subito ricacciato nell’ inconscio, che l’uomo col quale stava conversando si fosse fatto coraggio e afferrandola l’avesse baciata. Una volta, alla fine di una seduta, sorge nella paziente un desiderio analogo nei riguardi della mia persona; essa ne è terrorizzata, passa una notte insonne e la volta dopo, pur non rifiutando il trattamento, si dimostra del tutto inutilizzabile per il lavoro” (1892-95, p. 437). E poi aggiunge :”Da che ho appreso questo, posso presumere che in ogni caso in cui la mia persona si trovi coinvolta in modo simile si verifichino nuovamente un transfert e un falso nesso” (p. 438).

Freud osserva che il desiderio che tanto aveva spaventato la paziente non si presenta sotto forma di ricordo ma viene riferito direttamente a lui. Già qui i falsi nessi del transfert costituiscono un fenomeno regolare e costante della terapia, vengono inseriti nella dialettica del presente e del passato, nel contesto delle ripetizioni e della resistenza ma non comportano un nuovo tipo di impegno.

All’inizio quindi per Freud il transfert si caratterizza come un caso particolare di spostamento dell’affetto da una rappresentazione all’altra e diviene preferibile quella dell’analista per l’intrinseca disponibilità.

Affiora inoltre l’idea, non ancora concettualizzata, del transfert come elemento che favorisce la resistenza: confessare un desiderio rimosso diviene decisamente difficile se fatto alla persona direttamente interessata.
Questo materiale e queste intuizioni iniziali nel breve si coagulano concettualizzandosi con pienezza.

Nel poscritto dell’analisi del “Caso Dora” (1901) Freud espone la teoria del transfert in forma completa, declinandone i due versanti: come ostacolo e come agente della cura. L’idea principale è che, nel corso del trattamento analitico, la nevrosi cessi di produrre i suoi sintomi e se ne formino altri che coinvolgono direttamente la figura dell’analista: “Si può affermare che, in tutti i casi, la formazione di nuovi sintomi cessa durante la cura psicoanalitica. Ma la capacità produttiva della nevrosi non è per questo affatto spenta; si esercita creando un particolare tipo di formazioni mentali, per lo più inconsce, che possono denominarsi transfert” (1901, p. 396).

Così vengono rivissute una serie di esperienze psicologiche come se appartenessero non al passato ma al presente e fossero in relazione con lo psicoanalista: alcune di esse sono delle ristampe pressoché identiche a quelle pregresse, altre sono rifacimenti che subiscono l’influenza di qualche fatto reale. Ma il processo terapeutico, anche se gravemente ostacolato da tali distorsioni, può procedere normalmente poiché non c’è differenza se l’impulso da dominare è diretto alla persona dell’analista o a un’altra qualsiasi, infatti la psicoanalisi non genera il transfert ma lo scopre. Questa idea, che Freud non cambierà, declina il transfert come la malattia in sé che può essere curata attraverso il metodo interpretativo: “Il transfert, destinato a divenire il più grave ostacolo per la psicoanalisi, diviene il suo migliore alleato se si riesce ogni volta a intuirlo e a tradurne il senso al malato” (1901, p. 398).

Nell’articolo “Dinamica della traslazione” (1912), contenuto nei lavori sulla tecnica, Freud riprende la teoria del transfert, mette in evidenza il carattere essenzialmente erotico del fenomeno e si propone di risolvere due problemi: l’origine e la funzione del transfert nel trattamento psicoanalitico.

La radice del transfert va ricercata in certi modelli di comportamento o stereotipi che caratterizzano la vita amorosa di ognuno e sono la risultante di disposizioni innate e di esperienze vissute nei primi anni di vita. Freud pensa che solo una parte della libido promossa dalle esperienze del passato raggiunga il pieno sviluppo psichico e si metta al servizio della coscienza mentre l’altra componente viene rimossa e subisce l’attrazione dei complessi inconsci. È proprio questa parte di libido, sottratta alla realtà, che provoca il fenomeno del transfert.

Cioè, se il bisogno d’amore di un individuo non arriva a completo soddisfacimento nella vita reale, per Freud, nella pressante e continua ricerca, questo individuo applicherà la propria libido a qualsiasi oggetto che possa prestarsi a consentire la scarica in piena conformità con la logica del processo primario vigente nell’inconscio.

Riguardo alla funzione del transfert, Freud non ha dubbi nell’ attribuirgli il compito di resistenza: poiché lo scopo del trattamento psicoanalitico è seguire il processo regressivo della libido per renderla nuovamente accessibile alla coscienza e porla al servizio della realtà, l’analista diventa il nemico delle forze regressive e della rimozione: così il processo patologico si volge contro il fattore di cambiamento che vuole invertirne lo sviluppo.

Il transfert comincia a operare nel momento in cui si arresta il processo di richiamo alla memoria, così il paziente comincia a trasferire invece che ricordare e perciò sceglie da tutto il complesso l’elemento che può meglio inserirsi nella situazione presente: “Quando ci si avvicina ad un complesso patogeno, la parte del complesso idonea alla traslazione viene sempre spinta avanti per prima nella coscienza, e difesa con il più grande accanimento” (1912a, p. 527).

La successiva evoluzione nella teoria del transfert si ritrova nella nuova serie di scritti dedicati alla tecnica, specificamente nel saggio “Ricordare, ripetere e rielaborare” (1914). Qui Freud osserva che nella prima parte dell’analisi si produce una calma nel paziente accompagnata da una diminuzione e perfino una scomparsa dei sintomi, ma ciò non equivale alla guarigione. Si sviluppa piuttosto una nevrosi di transfert, cioè la trasposizione del fenomeno patologico a livello del trattamento stesso: quel che prima era nevrosi nella vita quotidiana dell’individuo si trasforma in nevrosi che ha come punto di partenza l’analisi e l’analista. Questo processo, che si manifesta spontaneamente all’inizio della cura, Freud lo ascrive a un meccanismo già menzionato nel 1901 e soprattutto nel 1912, la ripetizione. A questo punto viene delineata l’idea di ripetizione come implicita in quella di transfert in quanto qualcosa torna dal passato e opera nel presente. La ripetizione quindi viene contrapposta al ricordo, stabilendo una differenza concettuale chiara e ben definita: la dinamica del transfert è intesa come resistenza al ricordo, in altre parole il ricordo rimosso si ripete nel transfert.

 

La ridefinizione del concetto di transfert

Nel 1920 abbiamo una svolta radicale nella concettualizzazione del transfert e della ripetizione e questo avviene con il saggio “Al di là del principio di piacere”.

La ripetizione finora considerata un elemento descrittivo del tutto subordinato al principio di piacere diviene elemento esplicativo genetico, mentre il transfert non è più considerato come motivato dalla resistenza ma dalla coazione a ripetere a sua volta a servizio della pulsione di morte.
Trova consolidamento l’idea di ripetizione come principio esplicativo del transfert e si afferma inoltre che l’Io, agendo in nome del principio di piacere, tende a rimuovere tale transfert (che diviene quindi il rimosso e non la resistenza) dal momento che la funzione dell’Io è di opporsi alla ripetizione, vista come fonte di distruzione e di minaccia.

La ripetizione, in quanto principio esplicativo, testimonia l’esistenza di un impulso “demoniaco” che tende a ripetere la situazione del passato e così ridefinisce il transfert come bisogno di ripetere. Ma l’individuo, dice Freud, si oppone alla ripetizione attraverso una resistenza al transfert mobilitata dal principio di piacere e quindi dalla libido.
Vi è quindi un’inversione di rotta rispetto ai lavori precedenti in cui era la libido a spiegare il transfert come ripetizione dei desideri erotici infantili e non la resistenza al transfert.
Questo momento speculativo rimane comunque caratterizzato da una certa astrattezza come del resto il concetto di pulsione di morte.

Da questa analisi diacronica del concetto freudiano di transfert possiamo dire in conclusione che in lui il transfert fu percepito come un fenomeno di scarica aderente al principio del piacere e consistente nello spostamento della pulsione agente in quel preciso momento da immagini infantili e inconsce alla persona dell’analista.
Cioè il transfert è solo un modo di ripetizione del passato, segnatamente del conflitto edipico infantile, e la situazione del momento non vi apporta niente di nuovo poiché ai fini della scarica libidica un oggetto vale l’altro.

Nel processo analitico il transfert non è di ostacolo ma attiva l’impegno del paziente nel suo lavoro col medico e diventa strumento di comprensione e appropriazione dell’interpretazione dell’analista stesso.

Si tratta cioè da parte dell’analista di “permettere al paziente di arrivare a comprendere la differenza tra vecchi e nuovi oggetti, di eliminare le distorsioni di cui consta il fenomeno transferale, di comprendere l’irrealtà e l’inappropriatezza degli affetti sperimentati nei confronti del neutrale analista” (Silvestroni 2009).

 

La propensione al rischio nella scelta farmacologica

Fino a non molto tempo fa i processi decisionali venivano spiegati, soprattutto in ambito economico, dalla nota Teoria dell’utilità dell’attesa, in base alla quale la scelta veniva considerata come l’esito naturale di un calcolo delle probabilità del verificarsi degli eventi da parte dell’agente decisionale. E’ stato solamente grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Kahneman e Tversky che si è dimostrato poi come i processi decisionali siano di fatto guidati da euristiche e bias. 

Eleonora Minacapelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La funzione del farmaco e le origini della terapia farmacologica

Non mi riferisco all’uso del paracetamolo o di chissà quale semplice farmaco da banco, anche se, pure in questi casi, ciò che andrò a trattare c’entra pienamente. Qui voglio riferirmi nello specifico a tutti quei farmaci che in un dato momento della nostra vita è possibile che ci vengano proposti come soluzione a un problema organico di natura severa e su cui potremmo essere chiamati a decidere il da farsi.

Partiamo dalle premesse. La parola ‘farmaco’ deriva dal greco pharmakon, un termine semanticamente ambiguo, che, fin dagli albori del suo utilizzo, portava in sé il significato di rimedio benefico, ma nello stesso tempo anche quello di veleno. Se si guarda alla storia, infatti, fino al XVIII secolo non sarebbe stato del tutto errato pensare al farmaco come a un rimedio funzionalmente dicotomico. Le capacità di indurre modificazioni funzionali benefiche all’interno dell’organismo vivente non potevano, di fatti, disgiungersi completamente da effetti potenzialmente dannosi. Con l’introduzione dei farmaci di sintesi e con l’avvento della farmacodinamica e della farmacologia clinica, poi, il concetto di farmaco ha cominciato a mutare, divenendo semanticamente inscindibile da dimostrabili ed efficaci azioni terapeutiche. Il rapporto rischio-beneficio è diventato, così, metro della convenienza di utilizzare alcune sostanze in circostanze specifiche, allo scopo di ottenere alterazioni terapeutiche in presenza di patologia. Anche al giorno d’oggi, tuttavia, in alcune circostanze tale rapporto può risultare non del tutto vantaggioso, ponendo paziente e medico di fronte a scelte terapeutiche di non facile attuazione.

Voltaire sosteneva che la medicina consistesse nell’introdurre medicamenti che non si conoscono in un corpo che si conosce ancor meno per guarire da malattie di cui non sa niente. Pur nel suo estremismo, di fatto dipingeva con semplicità le incertezze cui talvolta siamo sottoposti, quando ci approcciamo a un farmaco importante per la nostra sopravvivenza e il nostro benessere.

 

Nonostante i rischi si sceglie di effettuare una terapia farmacologica

Potenti azioni terapeutiche, infatti, possono esporre il paziente anche al rischio di eventi avversi gravi e talvolta mortali, in un rapporto rischio-beneficio di difficile valutazione. Soprattutto nell’ambito di patologie croniche invalidanti e degenerative, non sono rari, infatti, i ricorsi a terapie farmacologiche  che possono presentare importanti effetti collaterali, quali danni al fegato, problemi cardiovascolari, infezioni, encefalopatie e chi più ne abbia più ne metta.

Un’ambiguità funzionale che richiede spiegazioni esaustive da parte degli specialisti, ma anche e soprattutto la disponibilità di un paziente capace di comprendere e di vagliare, nell’ottica di una scelta farmacologica condivisa, la strada più adatta per sé e per la sua malattia. A tale ambiguità funzionale, si associa poi un’ambiguità derivante dalla dimensione economica e commerciale dei farmaci disponibili sul mercato. Basti pensare alle vicende relative al Daraprim, il farmaco anti-HIV, il cui brevetto è stato acquistato da quello che poi è stato definito “l’uomo più cattivo d’America”, che ne ha alzato il prezzo del ben 5000%. Ora, chi di voi comprerebbe ugualmente un farmaco del genere se ne avesse bisogno? Chi di voi vi rinuncerebbe? Chi di voi accetterebbe il rischio di una leucemia pur di non “finire” su una sedia a rotelle? Chi di voi preferirebbe un maggior profilo di sicurezza, anche se questo dovesse comportare una maggiore probabilità di perdere l’uso delle gambe? Sicuramente ognuno di noi risponderebbe in maniera differente. Ognuno per le sue ragioni, per il suo istinto e per le condizioni che sta vivendo nel momento in cui si trova a rispondere a queste domande. Bene, quello che voglio fare qui, è analizzare cosa può influire su una tale presa di decisioni, considerando come focus fondamentale il concetto di propensione al rischio.

 

I fattori che guidano i processi decisionali nella scelta dei farmaci

Fino a non molto tempo fa i processi decisionali venivano spiegati, soprattutto in ambito economico, dalla nota Teoria dell’utilità dell’attesa (Von Neumann & Morgenstern, 1947), in base alla quale la scelta veniva considerata come l’esito naturale di un calcolo delle probabilità del verificarsi degli eventi da parte dell’agente decisionale. E’ stato solamente grazie agli esperimenti di psicologia cognitiva di Kahneman e Tversky che si è dimostrato poi come i processi decisionali siano di fatto guidati da euristiche e bias. Grazie a queste ricerche nel 1979 veniva formulata dagli stessi autori la Teoria del prospetto, in base alla quale la scelta dell’agente decisionale veniva considerata come fortemente dipendente dal contesto di valutazione. L’effetto di riflessione, un particolare tipo di violazione dell’utilità dell’attesa, è risultato poi essere rivoluzionario nell’indagine dei processi decisionali umani.

In base a quanto emerso, Kahneman e Tversky potevano, infatti, affermare che gli agenti decisionali tendono: 1) a preferire eventi positivi di valore minore con probabilità maggiore, rispetto a eventi positivi di valore maggiore con probabilità minore e, in maniera speculare, a preferire eventi negativi di valore maggiore con probabilità minore, rispetto a eventi negativi di valore minore di probabilità maggiore; 2) a preferire eventi positivi certi a quelli incerti e, specularmente, eventi negativi incerti a eventi negativi certi. Emergeva, quindi, come l’avversione al rischio venisse di fatto favorita dall’eventualità di ottenere dei guadagni, mentre la messa in gioco di possibili perdite, derivanti da condizioni di malattia ad esempio, attivava di fatto una ricerca del rischio. Lo sviluppo di tali evidenze assicurò almeno a Kahneman il premio Nobel per l’Economia nel 2002.

Qui, tuttavia, parliamo di salute e non di conto in banca, e, in effetti, le nostre scelte non funzionano sempre allo stesso modo indipendentemente dall’ambito in cui ci troviamo a prender decisioni. In un interessante studio inglese del 2005 condotto su 2041 soggetti, si è dimostrato, ad esempio, come la propensione al rischio non sia unitaria, ma altresì variabile di persona in persona, anche in base al dominio oggetto di analisi (sia esso il tempo libero, la salute, gli aspetti economico/finanziari, la carriera, la sicurezza o la società). Un trader finanziario ad esempio, potrebbe preferire scelte sanitarie più sicure e meno rischiose, pur effettuando compravendite di strumenti finanziari ogni giorno. Allo stesso modo, veniva dimostrato come il genere e l’età dell’agente decisionale assumessero un ruolo fondamentale nella presa di decisioni, per cui i maschi e i giovani risultavano essere i soggetti con maggior propensione al rischio rispetto al resto della popolazione.

 

Come la personalità influenza l’inclinazione al rischio

Da dove, tuttavia, tali differenze? Sicuramente l’inclinazione al rischio affonda le sue radici nella personalità. Nello studio inglese già citato, ad esempio, veniva dimostrato, come la generale propensione al rischio correlasse con un chiaro pattern del Big Five, costituito da un’alta estroversione e apertura all’esperienza, e da bassi livelli di nevroticismo, amicalità e coscienziosità. Fu il dottor Marvin Zuckerman, tuttavia, a parlare per la prima volta di sensation seeking e cioè di quel particolare tratto di personalità, secondo lui disgiunto da altri fattori di personalità, che può portare alla ricerca di esperienze e sensazioni varie, nuove, complesse e intense, per il cui risultato si è disposti ad accettare rischi fisici, sociali, legali e finanziari.

Attraverso studi di deprivazione sensoriale, Zuckerman aveva, infatti, notato che alcuni individui sopportavano situazioni monotone meglio di altri, i quali divenivano invece fin da subito molto inquieti. Non è mai stata chiarita la causa di tali diversità di base tra gli individui, né le motivazioni che portassero un individuo a una maggiore propensione alla ricerca del brivido e dell’avventura, piuttosto che alla semplice ricerca di esperienze o a una disinibizione generale o a una suscettibilità alla noia. L’ipotesi dell’indipendenza da altri fattori di personalità, tuttavia, è stata spesso screditata, a sostegno dell’ipotesi secondo la quale il substrato personologico generale della persona determini di fatto la soggettiva propensione al rischio.

Propendere per situazioni o scelte rischiose, tuttavia, non dipende unicamente da questo. Chi ha qualche base di neuropsicologia, sa bene quanto i lobi frontali, posti nella parte anteriore del cervello, siano ciò che abbiamo di più importante per la pianificazione, l’organizzazione e il controllo del nostro comportamento. Essi si qualificano come le aree filogeneticamente più recenti del nostro cervello e ci caratterizzano per la nostra peculiare dimensione di esseri umani, in un netto salto evoluzionistico rispetto agli altri animali. Richiedono, tuttavia, un lento processo di maturazione che subisce un picco di criticità in età adolescenziale fino alla finale e più importante maturazione delle aree prefrontali, necessarie per lo sviluppo delle capacità di giudizio sociale e di presa di decisioni. In uno studio di Eshel e colleghi, ad esempio, si dimostrava come gli adolescenti di fatto ingaggiassero strutture regolatrici prefrontali con un’estensione minore rispetto agli adulti di fronte a scelte economiche rischiose.

E’ per tali motivi che nei teenager spesso osserviamo comportamenti rischiosi e alti livelli d’impulsività, in realtà destinati a un naturale declino con il completamento della maturazione cerebrale. Alle fasi normali di sviluppo, si aggiungono poi l’abuso di sostanze e le patologie neurologiche, che in un dato momento della vita possono affacciarsi alla nostra esistenza. In tali situazioni, le aree frontali possono risultare purtroppo coinvolte, provocando alterazioni del comportamento e delle capacità di flessibilità mentale, d’inibizione delle risposte automatiche e di problem-solving, con un’inevitabile influenza sulle capacità di prendere decisioni secondo criteri di ragionamento interni. Risulta chiaro, quindi, come persone di giovane età o con un profilo attentivo-esecutivo deficitario possano risultare svantaggiate nella presa di decisioni in ambito sanitario, per l’indisponibilità di un completo assetto cognitivo, utile a una ragionata valutazione degli scenari possibili. Si pensi ad esempio a una giovane paziente con sclerosi multipla con lesioni frontali attive, posta di fronte alla scelta di un ventaglio di farmaci immunosoppressori con minori o maggiori effetti collaterali e con minori o maggiori profili di efficacia per rallentare il decorso della malattia. Quanta parte la sua età e i suoi deficit cognitivi giocheranno nella sua scelta? Quanta parte giocherà il suo tono dell’umore e quanto la sua personalità? Quanto interferirà poi la sua precedente esperienza farmacologica, il suo livello di disabilità e ciò che ha sentito da un paziente con la sua stessa malattia in sala d’attesa? Chissà se vorrà fare un Erasmus a breve, chissà che progetti avrà per il suo futuro e quante montagne vorrà scalare, … e tali progetti influiranno sulla sua scelta?

Per questo tipo di esempi e per le domande a essi correlate, è stato introdotto il concetto di percezione del rischio, un costrutto fondamentale per predire l’ingaggiamento del paziente in comportamenti connessi alla salute. Da letteratura si sa come esso si costituisca in parte di un processo deliberativo, in base al quale i pericoli connessi alla salute vengono analizzati in termini razionali, e in parte di un processo emotivo, attraverso cui gli stessi rischi vengono valutati mediante la valenza percepita dell’evento (positiva o negativa) in associazione con il livello di arousal (basso o alto) esperito. Questo modello bi-dimensionale, tuttavia, si è dimostrato non essere sufficiente a spiegare il nostro comportamento quando ci troviamo a prender decisioni in ambito sanitario.

Per questo motivo, Ferrer e colleghi hanno di recente proposto un modello tripartito di percezione del rischio, il TRIRISK model, aggiungendo alle due componenti sopra descritte, una terza, chiamata esperienziale. Essa qualifica il paziente come un soggetto che valuta i rischi connessi alla salute in maniera né razionale, né emotiva, ma sostanzialmente olistica, basata su associazioni acquisite nel corso del tempo, esplicantisi in immagini concrete, metafore e narrative personali. In particolare, nello stesso studio emergeva come, a mediare il rapporto tra la percezione del rischio e i comportamenti connessi alla salute, fosse il rapporto che le persone solitamente instaurano con le proprie emozioni. La componente esperienziale della percezione del rischio, ad esempio, prediceva meglio le intenzioni dei pazienti che tendevano ad accettare i propri sentimenti, quella deliberativa prediceva meglio le intenzioni di quelli che tendevano a evitare i propri sentimenti, mentre quella emotiva prediceva le intenzioni di tutti i soggetti indipendentemente dalla loro tendenza ad accettare o evitare le emozioni. Come suggerito dagli autori, un obiettivo futuro sarà quello di comprendere la direzione e l’ampiezza dei cambiamenti di comportamento connessi alla salute per ognuno dei costrutti discussi, in modo da massimizzare gli impatti positivi sulle condotte sanitarie.

D’altra parte, per come si evince da quanto appena discusso, la propensione e la percezione del rischio connesse alla salute costituiscono una tematica assai complessa, in cui psicologia e neuropsicologia si intersecano concertando insieme i tempi e le scelte del paziente. Non va dimenticato, tuttavia, come anche il medico, di fatto, sia probabilmente soggetto alle stesse disquisizioni di cui abbiamo trattato finora. La personalità, l’età, il sesso, i fattori concomitanti (esperienze professionali di eventi avversi, personale familiarità con la malattia, il tono dell’umore…), la soggettiva inclinazione ad accogliere o evitare le emozioni potrebbero di fatto giocare un ruolo decisivo, non solo nella scelta, ma anche nella proposta del trattamento.

Incrementare le nostre conoscenze rispetto alla presa di decisioni in ambito sanitario consentirebbe, quindi, di rendere la scelta terapeutica un momento realmente condiviso con la possibilità di aumentare l’aderenza ai trattamenti e di migliorare, in potenza, gli outcome clinici.

Abilità sociali nelle donne anziane: questione di “naso”

Un nuovo studio condotto su anziane statunitensi dai ricercatori del Monell Center e alcune istituzioni collaboranti hanno riportato che la vita sociale delle donne è associata con l’efficienza del funzionamento del proprio senso dell’olfatto. Lo studio ha scoperto che le donne più anziane che svolgono in maniera meno efficiente compiti di identificazione olfattiva, tenderebbero anche ad avere una rete sociale meno ricca.

 

Un buon olfatto nelle donne anziane correla con una buona vita sociale

I nostri risultati confermano che il senso dell’olfatto è un aspetto chiave della salute complessiva nella popolazione anziana“, sostiene Johan Lundström, dottore di ricerca, neuroscienziato cognitivo e autore dello studio al Monell Center. “Più del 20% della popolazione Statunitense al di sopra dei 50 anni presenta un senso ridotto dell’olfatto. Abbiamo bisogno di comprendere meglio come l’olfatto sia collegato al comportamento sociale in modo da poter migliorare la qualità della vita di chi invecchia“.

Nello studio, pubblicato online sulla rivista “Scientific Reports”, i ricercatori hanno analizzato dati dal “National Social Life, Health and Aging Project” (NSLHP), uno studio condotto sulla popolazione riguardo il rapporto tra salute e fattori sociali negli Stati Uniti. I dati NSHAP, raccolti tra il 2005 e il 2006 da un campione di 3.005 Americani adulti tra i 57 e gli 85 anni, includevano test di identificazione dell’odore e informazioni sulla vita sociale dei partecipanti.

I ricercatori hanno confrontato i punteggi di ogni soggetto del NSHAP ai test di identificazione dell’odore, una misura scientificamente accettata della funzione olfattiva, con un indice aggregato di “vita sociale complessiva”, che includeva rilevazioni di dati come il numero di amici e parenti stretti dei partecipanti, e di quanto spesso essi socializzassero con gli altri. I dati sono stati adattati per potere controllare possibili variabili confondenti, come il livello di educazione, la tendenza a fumare e lo stato mentale e fisico dei soggetti.

I risultati hanno rivelato un chiaro collegamento tra l’abilità olfattiva delle donne più anziane e il loro punteggio complessivo riguardante la vita sociale: le donne con buone abilità olfattive tendevano ad avere vite socialmente più attive, mentre, al contrario, funzioni olfattive ridotte erano associate a punteggi minori nella vita sociale.

Sappiamo che le interazioni sociali sono strettamente legate allo stato di salute, quindi donne anziane che presentano un senso minore dell’olfatto potrebbero volersi focalizzare sul mantenimento si una vita sociale attiva per migliorare la loro salute fisica e mentale complessiva“, sostiene l’autrice Sanne Boesveldet, PhD e neuroscienziata.
I ricercatori non hanno rilevato la stessa associazione tra funzione olfattiva e vita sociale negli uomini anziani.

Queste differenze di genere potrebbero suggerire che un training sulle abilità olfattive, che è stato dimostrato aiuti a migliorare un senso dell’olfatto ridotto sia in uomini che donne, potrebbe avere benefici aggiuntivi in donne anziane aiutandole a migliorare sia il senso dell’olfatto che il benessere sociale“, sostiene Lundström.

Mentre lo studio stabilisce un collegamento tra il senso dell’olfatto e la vita sociale, ancora non è chiara la modalità con cui le due variabili sarebbero connesse o se la stessa relazione esista anche nelle donne più giovani. Futuri studi longitudinali sugli stessi soggetti potrebbero aiutare a chiarire se la perdita del senso dell’olfatto possa influenzare la vita sociale e potrebbero permettere ai ricercatori di identificare i meccanismi coinvolti.

Ciò nonostante, sapere che lo stato del senso dell’olfatto è collegato alle attività sociali, potrebbe già essere prezioso per i soggetti affetti da disordini olfattivi.

E’ possibile incorrere in racconti aneddotici da parte di donne che hanno perso il proprio senso dell’olfatto, sul fatto di avere meno amici rispetto ad una condizione di salute precedente“, sostiene Lundström. “Speriamo che i nostri risultati possano rassicurarle sul fatto di non essere le sole a sentirsi così“.

 

Cos’è il dèjà vù? Un viaggio fra gli studi e le interpretazioni più recenti

Il dejà vù è infatti descritto come quella esperienza nella quale si percepisce un intenso e inspiegato senso di familiarità verso quello che si sta vivendo, come se fosse già accaduto, ma totalmente inappropriato in quanto, in realtà, sta avvenendo per la prima volta.

Anna Beatrice Concilli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI FIRENZE

 

Il dejà vù: che cos’è e le possibili spiegazioni

Mi sembra di aver già vissuto questa situazione…” è una delle frasi che molti di noi hanno almeno una volta pensato nel corso della propria vita. Secondo Adachi et al. (2003) sono circa il 60-80% delle persone sane che hanno sperimentato questa sensazione, ovvero il cosiddetto dejà vù. Il dejà vù è infatti descritto come quella esperienza nella quale si percepisce un intenso e inspiegato senso di familiarità verso quello che si sta vivendo, come se fosse già accaduto, ma totalmente inappropriato in quanto, in realtà, sta avvenendo per la prima volta (Bràzdil et al., 2012). Nei giovani adulti, questo fenomeno si verificherebbe addirittura più volte nello stesso anno (Urquhart&O’Connor, 2014).

Questo tipo di esperienza è stato oggetto di interesse non soltanto per neurologi e psicologi, ma ha interessato molto anche il mondo del cinema, essendo un fenomeno tanto affascinante, per alcuni paranormale, quanto inspiegato. Infatti si sono scatenate le più bizzarre interpretazioni, fra le quali una possibile “altra vita” che irromperebbe, in questa, con il Dejà Vù proprio per ricordarci che in realtà ne abbiamo già vissuta una in precedenza. In realtà, ci sarebbe una spiegazione più scientifica e comprovata rispetto alle più disparate congetture che si muovono su questo argomento.

I primi studi sono stati effettuati su singoli casi clinici (Moulin et al, 2005) affetti da un particolare tipo di epilessia: quello del lobo temporale. Infatti il Dejà Vù risultava essere uno dei sintomi maggiormente presenti in questo tipo di patologia e quindi più facilmente studiabile. Successivamente le procedure sperimentali sono state applicate a campioni più ampi che permettessero dei risultati più generalizzabili e significativi. Tuttavia studiare il Dejà Vù sperimentalmente ha presentato molti ostacoli. La difficoltà maggiore che gli studiosi hanno incontrato nel fatto di studiare in laboratorio un fenomeno come questo, era che le osservazioni e i test venivano effettuati settimane o addirittura mesi dopo tale esperienza, e questo avrebbe potuto comportare ristrutturazioni o bias cognitivi. (Urquhart&O’Connor, 2014). Nonostante queste difficoltà la ricerca in questo ambito ha portato negli ultimi anni a grandi scoperte e ha permesso di far maggiore chiarezza sopratutto sulle basi neuronali e sul network implicato in questo processo.

Inizialmente il Dejà Vù sembrava fosse dovuto ad un’alterazione mnemonica: al soggetto sembrava quindi di aver già vissuto una determinata situazione perché, in un angolo della mente, per sbaglio, un falso ricordo si attivava.

Studi successivi hanno cercato di dare un profilo ancora più delineato a questo fenomeno, partendo dall’evidenza che la sensazione del Dejà Vù fosse anche uno dei sintomi degli individui che soffrono di epilessia temporale (Akgul et al., 2013; Adachi et al., 2010). Così, dagli studi su soggetti patologici, gli esperti si sono chiesti se fosse possibile sovrapporre il network neuronale implicato in quel tipo di Dejà Vù, con quello coinvolto nel Dejà Vù che viene sperimentato dai soggetti sani. Infatti l’esperienza del Dejà Vù in soggetti non patologici è un fenomeno che porta ancora con sé molti punti interrogativi, alcuni dei quali risolti dalle ultime evidenze sperimentali.

 

Gli studi sulla morfologia cerebrale di chi ha esperienze di dejà vù

Uno degli studi più rilevanti degli ultimi anni risulta essere quello di Bràzdil e colleghi del 2012 che hanno studiato le differenze nella morfologia cerebrale fra 113 soggetti sani che hanno sperimentato almeno una volta nella vita il Dejà Vù, e soggetti sani che invece non hanno mai provato tale esperienza. L’obiettivo dello studio è stato quello di individuale le strutture anatomiche implicate in questo processo. I risultati ottenuti sono molto interessanti: emerge, infatti, una significativa riduzione della materia grigia nell’area paraippocampale nei soggetti con Dejà Vù rispetto a quelli senza.

L’insieme delle regioni cerebrali che distinguono i soggetti Dejà Vù e quelli non Dejà Vù rispecchia proprio la riduzione del volume della materia grigia, recentemente identificata, in soggetti con epilessia del lobo temporale, che coinvolge, infatti, l’ippocampo e le regioni paraippocampali. Il Dejà Vù, quindi, si configurerebbe come una piccola epilessia temporale che creerebbe la sensazione di familiarità e, di fatto, una sorta di falso ricordo. I risultati hanno dimostrato come, in entrambi i gruppi con Dejà Vù epilettico e non patologico, sembra esserci un’alterazione diffusa delle stesse strutture e reti neurali. Questa somiglianza qualitativa dell’esperienza del Dejà Vu in casi patologici e non patologici suggerisce allora un processo comune sottostante (Adachi et al., 2010) e quindi indica la presenza di una similarità nelle strutture anatomiche coinvolte.

Partendo da questo studio, l’Istituto di bioimmagini e fisiologia molecolare (Ibfm) del Cnr di Catanzaro e della clinica neurologica dell’università di Catanzaro, ha sottolineato come in realtà non si possa realmente parlare di falsi ricordi nelle persone sane.
Labate e colleghi (2015), infatti, stimano che in realtà, nei soggetti che non soffrono di epilessia temporale, il fenomeno del Dejà Vù sia riconducibile ad un’origine diversa, benchè caratterizzata dalle stesse sensazioni di familiarità. Sarebbe dovuto, cioè, ad una sorta di inganno emotivo. Ma vediamo più nello specifico quest’interessante studio.

I ricercatori hanno confrontato le aree di attivazione cerebrale di 32 soggetti con epilessia temporale con esperienza di Dejà Vù, 31 soggetti con epilessia temporale senza Dejà Vù, 22 soggetti sani che avevano sperimentato almeno una volta nella vita il Dejà Vù e 17 soggetti sani che invece non lo avevano mai sperimentato. Tutti i gruppi sono stati sottoposti ad uno screening per il Dejà Vù, ad un elettroencefalogramma sia in veglia che in sonno, e ad una risonanza magnetica cerebrale tradizionale e morfologica avanzata. Da questi test sono state evidenziate le aree cerebrali coinvolte nel Dejà Vù ed è emerso che l’espressione cerebrale di questo fenomeno, in soggetti sani e affetti da epilessia, è completamente diverso.

Lo studio, infatti, evidenzia come nei soggetti affetti da epilessia temporale sarebbero coinvolti principalmente le aree temporali e in particolar modo l’ippocampo, aree deputate al riconoscimento visivo e implicate nella memoria a lungo termine. I soggetti non patologici, invece, evidenziavano attivazioni nella corteccia insulare, che convoglia tutte le informazioni provenienti dal mondo sensoriale all’interno del sistema limbico, deputato alla regolazione dello stato emotivo. Questa evidenza mostrerebbe quindi come le basi anatomiche del Dejà Vù sarebbero completamene diverse. Come spiegare allora questi risultati?

 

Deja Vù: Possibili interpretazioni dei risultati degli studi

Gli autori ipotizzano come nei soggetti epilettici il fenomeno del Dejà Vù sia un sintomo organico correlato, ovviamente, alla patologia in corso. Si creerebbero quindi dei veri e propri errori di memoria, percepiti in realtà dal soggetto come ricordi corretti. Chi soffre di epilessia avrebbe una reale alterazione della memoria in quanto l’area che si attiva durante il Dejà Vù è proprio quella implicata nella memorizzazione. I falsi ricordi sarebbero delle manifestazioni ictali causate dalle scariche epilettiche che creerebbero un malfunzionamento di queste aree.

Nei soggetti sani, invece, si potrebbe parlare, come detto in precedenza, di “inganno emotivo”: sostanzialmente la situazione che si sta vivendo, con tutti i suoi correlati emotivi, richiamerebbe un’altra situazione simile vissuta precedentemente. In realtà, quindi, sarebbero le emozioni di quella determinata esperienza che sarebbero state già vissute, non propriamente l’esperienza in sé. Labate identifica il Dejà Vù come un richiamo di un ricordo che ha determinato quella sensazione, immagazzinata grazie ad un’altra esperienza vissuta in passato. Questo spiegherebbe anche perchè è un fenomeno così frequente nella popolazione sana.

Nonostante gli studi abbiano condotto ad una spiegazione più prettamente scientifica, qualcuno ritiene ancora che il Dejà Vù sia una sensazione che viene provata quando ci si trova esattamente dove si dovrebbe essere. Come se fosse un punto di congiunzione fra il percorso tracciato dal destino, e quello che realmente si sta percorrendo. Forse dopo queste evidenze, anche i più romantici si ricrederanno. O no?

L’interpretazione psicoanalitica di un caso di frigidità in Musica: il libro di Yukio Mishima

Nel libro, ispirato ad una storia vera, l’affascinante ragazza, Reiko, che il medico assiste, sostiene di non riuscire a sentire la “musica”. I suoni e la melodia, non appena uditi, si trasformano in silenzi, metafora del suo non riuscire a percepire e raggiungere il piacere nel rapporto amoroso. La musica diventa allora simbolismo e allusione dell’orgasmo, un problema sessuale femminile che il dottor Shiomi si trova ad affrontare.

Francesco Roselli 

 

[blockquote style=”1″]Nel nostro lavoro si trattano solo cose che non si possono né vedere né toccare, ma ciò non toglie che qualsiasi psicoanalista abbia il nascosto desiderio di avere davanti ai propri occhi una chiara verifica[/blockquote] è quanto ammette con amarezza, a se stesso, il dottor Shiomi Kazunori, psicoanalista, tra i principali protagonisti di Musica (libro scritto da Yukio Mishima), che ha in cura una giovane donna, un caso non semplice che lo mette a dura prova.

Nel libro, ispirato ad una storia vera, l’affascinante ragazza, Reiko, che il medico assiste, sostiene di non riuscire a sentire la “musica”. I suoni e la melodia, non appena uditi, si trasformano in silenzi, metafora del suo non riuscire a percepire e raggiungere il piacere nel rapporto amoroso. La musica diventa allora simbolismo e allusione dell’orgasmo, un problema sessuale femminile che il dottor Shiomi si trova ad affrontare.

Nel libro si indagano gli aspetti dell’animo umano, non solo del paziente ma anche dello psicoanalista, del suo debole per l’attraente giovane. Tra le pagine, si può toccare con mano quel controtransfert che mette in risalto le debolezze dell’animo umano, rapporto tra terapeuta e paziente di cui già C.G. Jung e Sabina Spielrein ci avevano messo al corrente.

Ma Reiko non è costante nelle sedute, le salta, si allontana per un po’, poi ritorna, prova giovamento al rientro nella “sala terapia”, le brillano gli occhi, il dottor Shiomi l‘ha sempre aspettata e desiderata. Reiko forse guarisce ma non grazie al suo terapeuta. Perché mente. Utilizza la bugia come protezione del suo essere. Guarirà, forse no. Il finale è da scoprire.

Poi c’è il pagamento delle sedute, anche se saltate. Il tutto fa parte della terapia e il lettore, curioso, può finalmente, attraverso queste pagine, entrare nella stanza della terapia, assistere agli incontri e osservarne gli sviluppi, seguire il rapporto che s’instaura tra psicoanalista e paziente e comprenderne le evoluzioni.

Mishima ci regala pagine ordinate, soddisfa la curiosità del lettore che ha voglia di conoscere e capire, pensieri brevi ma strutturati, una scrittura cadenzata, con una metodica tipica della precisione giapponese, Mishima è un samurai della letteratura.

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