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Traumi relazionali precoci multipli e dissociazione – Il contributo di Lorenzo Cionini al Congresso di Ischia

Il video riprende la relazione presentata da Lorenzo Cionini, al VII Congresso della Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP) tenuto a Ischia dal 6 al 9 ottobre 2016, con il titolo “Traumi relazionali precoci multipli e dissociazione: la logica dell’assurdo” nella quale viene brevemente illustrata una cornice teorico-clinica sulla possibile relazione tra esperienze traumatiche relazionali precoci e dissociazione.

I processi dissociativi sono comuni a qualsiasi persona e non hanno necessariamente un “valore clinico”; tuttavia, in presenza di esperienze traumatiche relazionali precoci (assenza di sintonizzazione affettiva, gravi forme di trascuratezza, violenza psicologica, violenza fisica, abuso sessuale, da parte dei care-giver) assumono una funzione protettiva, portando alla costituzione di stati dissociati del Sé, multipli e non integrabili, ognuno con un “proprio senso di verità” e un accesso indipendente alla consapevolezza.

Il trauma evolutivo e la dissociazione sono sempre presenti nel percorso di sviluppo di qualsiasi persona e differiscono, fra una storia individuale e l’altra, soltanto “in termini di misura”. In questo senso è possibile assumere che coloro che richiedono un aiuto psicoterapeutico presentino fenomeni dissociativi di diversa entità e che il modello di lavoro che prende corpo da questa modalità di leggere i fenomeni dissociativi possa essere utilizzato praticamente con qualsiasi paziente.

L’approccio relazionale al paziente e le modalità terapeutiche sinteticamente descritte in questa relazione sono illustrate più approfonditamente nell’articolo di Lorenzo Cionini & Isabella Mantovani, Leggere la dissociazione dell’esperienza del trauma relazionale: la psicoterapia nell’ottica costruttivista intersoggettiva, recentemente pubblicato sul vol.3., n. 1-2, del 2016 della rivista online Costruttivismi. L’articolo è scaricabile utilizzando il seguente link.

 

Traumi relazionali precoci multipli e dissociazione: la logica dell’assurdo

 

LE SLIDES DELL”INTERVENTO:

Linguaggio: l’uso della seconda persona per far fronte alle esperienze negative

I ricercatori dell’Università del Michigan, sostengono che la seconda persona sia una modalità sottovalutata di esprimersi, che le persone utilizzano spesso per riferirsi a norme e regole.

 

Per affrontare esperienze negative o per condividere un’idea, le persone usano spesso la parola “tu” o la seconda persona al posto di “io” o della prima persona.

I ricercatori dell’Università del Michigan, sostengono che la seconda persona sia una modalità sottovalutata di esprimersi, che le persone utilizzano spesso per riferirsi a norme e regole.

I ricercatori hanno condotto nove esperimenti con 2.489 soggetti per comprendere come mai le persone siano portate ad utilizzare la seconda persona non solo per riferirsi ad altri soggetti specifici, ma anche per portare avanti dei discorsi sulle proprie esperienze.

E’ qualcosa che facciamo per trovare un modo di esprimere come le cose funzionino e per cercare dei significati nelle nostre vita – sostiene Adriana Orvell, una studentessa di dottorato nel Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan – Quando i soggetti utilizzano la parola “tu” per trarre significato dalle esperienze negative, essa permette loro di “normalizzare” queste esperienze e di riflettere su di esse da una prospettiva più distante.

Per esempio, l’enunciato “qualche volta vinci, qualche volta perdi”, potrebbe indicare che una persona abbia fallito in una situazione, ma utilizzare la seconda persona potrebbe permetterle di comunicare che questo fatto potrebbe accadere a chiunque.

Oppure dire “quando sei arrabbiato puoi dire e fare cose di cui probabilmente ti pentirai”, potrebbe spiegare una situazione personale, ma la persona tende a trasformarla in qualcosa che molte persone farebbero – sostene Orvell.

In un esperimento, i ricercatori hanno chiesto ai partecipanti di scrivere di un’esperienza personale: a 201 soggetti veniva chiesto di trarre significato da un evento negativo (gruppo Significato); a 198 soggetti veniva chiesto di alleviare un evento negativo (Gruppo Attenuazione); a 203 soggetti era semplicemente chiesto di scrivere di un evento neutrale (Gruppo Neutrale). I soggetti del gruppo Significato utilizzavano la seconda persona in modo generico nei loro racconti (il 46% la usava almeno una volta), molto di più rispetto al gruppo Attenuazione (il 10% la usava almeno una volta) e  al gruppo Neutrale (il 3% la usava almeno una volta). I ricercatori hanno anche scoperto che l’utilizzo della seconda persona generica, porterebbe i soggetti a valutare l’evento da una maggiore distanza.

I ricercatori sostengono che potrebbe sembrare contraddittorio che una modalità di generalizzare sia largamente utilizzata quando qualcuno riflette sulle proprie esperienze personali.

Sospettiamo che sia l’abilità di muoversi oltre le proprie prospettive a far esprimere esperienze universali e condivise che permettono agli individui di ricavare significati più ampi da eventi personali – sostiene Orvell.

 

Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità (2016) – Recensione del libro

Il manuale Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità di Antonella Ivaldi si pone come ponte teorico e clinico tra la prospettiva psicoanalitica e quella cognitivo-evoluzionista per il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità.

 

L’autrice nella prima parte del libro Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità espone in modo dettagliato ed esaustivo i fondamenti teorici dei due modelli scientifici attuali sul tema dei sistemi motivazionali, quello cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti e quello psicoanalitico di J. Lichtenberg. Segue un interessante confronto tra i due modelli teorici e un intero capitolo dedicato alla relazione terapeutica nella prospettiva teorica dei sistemi motivazionali, curato dagli autori Liotti e Lichtenberg.

L’intento del volume è quello di tenere conto degli importanti contributi provenienti da approcci teorici differenti ma profondamente interconnessi, promuovendo la curiosità per la ricerca e prendendo le distanze da rigide posizioni teoriche.

 

Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità: dai “pazienti difficili” al modello REMOTA

La parte centrale del manuale Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità approfondisce in modo specifico le caratteristiche relazionali dei cosiddetti pazienti difficili, le loro storie di sviluppo traumatico, l’attaccamento disorganizzato e l’instabilità affettiva. Sono proprio questi aspetti a rendere tortuoso e al tempo stesso affascinante il rapporto terapeutico con questa tipologia di pazienti. Quello che si richiede ad uno psicoterapeuta che desidera lavorare con pazienti difficili, sottolinea l’Ivaldi è un’alta capacità a monitorare in modo continuo l’andamento emotivo della relazione, esplorando le proprie emozioni e provando a stimolare una riflessione congiunta con il paziente su ciò che sta accadendo nella relazione. All’interno del volume numerosi sono gli esempi di casi clinici che vengono affrontati dall’inizio della terapia, fino alle fasi più avanzate.

L’ultima parte del volume Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità descrive in modo chiaro e dettagliato il Modello clinico Relazionale/ Multi-Motivazionale- REMOTA-: si tratta di un modello ideato dalla stessa autrice il cui punto di forza è dato dall’integrazione di diversi indirizzi teorici. Dopo qualche cenno storico, l’Ivaldi, in Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità, si sofferma sui punti cardine del modello di lavoro, arricchendo la narrazione con esempi clinici che consentono al lettore di calarsi nell’esperienza terapeutica e di coglierne l’essenza.

Il modello prevede l’integrazione tra psicoterapia individuale e di gruppo e viene presentato ai pazienti come un unico trattamento, la terapia individuale alternata settimanalmente a quella di gruppo. La prima fase del trattamento si svolge individualmente per circa un anno, durante il quale il paziente viene seguito dal proprio terapeuta. Il lavoro del terapeuta in questa fase iniziale si concentra perlopiù sulla valutazione, sull’identificazione delle risorse personali del paziente e sul contesto affettivo di appartenenza.

Dopo la fase iniziale il terapeuta concorda con il paziente l’inizio del gruppo terapeutico, che sarà condotto da due co-terapeuti gli stessi che seguono i pazienti individualmente. Inizialmente verrà alternata terapia individuale e di gruppo per poi passare, nella fase finale alla sola terapia di gruppo. Questa parte del manuale riporta anche i risultati e la discussione su uno studio di valutazione di un campione di pazienti difficili trattati con il modello in oggetto.

La parte conclusiva del volume affronta l’analisi del concetto di affiliazione all’interno di un gruppo terapeutico, soffermandosi sui fattori che possono ostacolare l’attivazione del sistema motivazionale affiliativo nel paziente così come nel terapeuta. Come sottolinea l’autrice l’affiliazione è la base per essere un individuo sociale e il trattamento di gruppo fornisce un ambiente all’interno del quale lavorare su se stessi e con gli altri in maniera più complessa ed efficacie.

Il libro Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità grazie alla sua chiarezza ed esaustività si presenta come un buon punto di riferimento teorico e pratico sia per gli allievi in formazione sia per i terapeuti più esperti che potranno aggiornarsi e avvicinarsi ad un nuovo approccio integrato.

Ghost in the shell: cyborg, coscienza e bioetica tra oriente e occidente

Da fine marzo sul grande schermo l’attesissimo Ghost in the Shell, prodotto nientemeno che dai colossi californiani Dreamwork e Paramount Pictures, nonostante il marchio sia Giapponese. E’ evidente che stiamo assistendo alla crisi dello Sci-Fi Occidentale.

 

D’accordo, un annuncio di questo genere non ha alcun senso. Lo avrebbe in Giappone, dove il marchio Ghost in the Shell è un romanzo, un manga, due film, due serie TV e videogioco. Celebre come Spiderman in occidente, fa la sua comparsa nel 1989 nel manga, o sarebbe meglio dire nel gekiga (Man-ga: immagini disimpegnate; Geki-ga: immagini drammatiche) disegnato da Masamune Shirow. Il primo adattamento per il cinema è del 1994, un film di animazione dall’architettura registica più vicina alla cinematografia in carne e ossa piuttosto che al cartone animato, con trame complesse e dialoghi di spessore.

 

Ghost in the Shell: trama

In un mondo sovrappopolato e iper tecnologico, le reti informatiche e il flusso delle informazioni hanno raggiunto ogni aspetto dell’esistenza. Protagonista di Ghost in the Shell, thriller fantascientifico dai toni cyberpunk un po’ retrò, è Motoko Kusanagi, il “Maggiore” della Sezione 9, divisione speciale della polizia che contrasta i crimini informatici. Il suo corpo è un contenitore per la coscienza, usato per le sue straordinarie doti tecniche e odiato perché limite all’espansione del Sé.

La storia narrata stuzzica il palato all’evoluzionismo darwiniano, sviluppandosi tra azione, tecnica investigativa ed esistenzialismo cibernetico, in un mondo dove la tecnologia non è nemica ma integrata -forse troppo- al punto da creare conflitti irrisolvibili tra spirito e corpo.

Proprio nel rapporto con il proprio corpo, vero fulcro emotivo di tutta la storia, sta l’elemento originale del franchise Ghost in the Shell, ed è probabilmente a questo che si deve il suo successo.

Ad arricchire il tutto, scontri a fuoco, spionaggio industriale, terrorismo informatico, arti marziali e diplomazia internazionale, tanto per non annoiarsi. Verrebbe da dire che non si tratta della solita fantascienza.

 

Il blocco creativo dello Sci-Fi Occidentale

Perché due colossi come Paramount Pictures Corporation e Dreamworks hanno scelto di acquistare i diritti di questa proprietà giapponese? Dalle immagini disponibili nei trailer di Ghost in the Shell, sembra proprio che lo sforzo di questa produzione si sia esaurito nel convertire l’anime giapponese del 1994 in una pellicola con attori in carne e ossa.

Chi ha visto l’originale riconosce immediatamente nelle scene in anteprima del film, le stesse immagini, come se si passasse dalle tavole disegnate al set cinematografico, ricreando le stesse inquadrature, ricalcando in tutto e per tutto la posizione dei personaggi all’interno della scena, i movimenti, i tempi, tutto. Se così fosse per gran parte del film si tratterebbe di un processo fotocopiativo raro nel mondo del cinema. Nel nuovo adattamento di Ghost in the Shell in uscita il 30 Marzo in Italia (regia di Rupert Sanders), la scelta di Scarlett Johansonn come protagonista scatenò diverse accuse di whitewashing dal momento che il personaggio originale del manga è di etnia asiatica. Il Whitewashing è una pratica che nel cinema assegna a un interprete bianco la recitazione di un ruolo che originariamente viene ricoperto da un attore di etnia non caucasica, al fine di rendere il personaggio più appetibile al grande pubblico. Le polemiche sono in seguito decadute.

Ghost in the shell cyborg coscienza e bioetica tra oriente e occidente -IMM 

Ghost in the Shell: in alcune scene del film è possibile riconoscere le stesse immagini dell’anime giapponese

 

Del resto l’ultimo trentennio della produzione fantascientifica americana, rivoluzionato ad ogni decade dal successo stratosferico di titoli del calibro di Blade Runner, Terminator e Matrix, attraversa una fase di stanca; sfruttato fino all’osso anche il filone dell’esplorazione spaziale (Prometeus, Gravity, Cloud Atlas, l’eccezionale Interstellar, The Martian), la crisi delle idee è evidente.

In Giappone, le case di produzione dei soli anime sono 430 e sono in aumento. Il costo per un episodio di 20 minuti si aggira sugli 80.000 euro; il tutto da moltiplicare per migliaia di titoli. Se quella occidentale è un’industria cinematografica dominata da poche majors con azioni di borsa e un grande fabbisogno di incassi, quella nipponica è multiforme, magmatica e più ispirata. Perché i giapponesi esportano la loro fantasia in tutto il mondo? Cosa hanno di diverso le loro opere, tanto da spingere uno come Steven Spielberg -non proprio l’ultimo arrivato in fatto di idee-, a pescare nell’immenso mare orientale dell’animazione?

 

Immaginario cristiano vs immaginario shinto

I riferimenti delle opere nipponiche di fantasia sono gli stessi che si ritrovano negli altri medium espressivi: shintoismo, buddismo, bushido, sono il substrato culturale del costume che inevitabilmente permea ogni opera, imprimendo ai personaggi quell’etica di fondo, fiera e marziale, che fa della resilienza e della disciplina le virtù in cui da spettatori ci identifichiamo più volentieri.

I giapponesi, maestri dell’estetica e dell’armonizzazione, danno vita molto più spesso di quanto non avvenga altrove, a opere che elogiano la bellezza attraverso l’integrazione e l’equilibrio, con curiosità e piacere, laddove noi occidentali mostriamo una netta tendenza alla separazione e alla rimozione come mezzo di regolazione entropica.

La costante nell’immaginario occidentale fantascientifico –basta pensare ai titoli già citati-, sta nel fatto che macchine e cyborg sono oggetti pensati per sostituirci, per fare il lavoro sporco, e solo successivamente, quando per errore acquistano una volontà propria ribellandosi al loro creatore, la trama diventa invariabilmente quella della lotta tra esseri umani e macchine.

Da trent’anni la nostra fantasia associa al progresso tecnologico un esito infausto, come se “l’uomo che progetta l’uomo” infrangesse un taboo scatenando profondi sensi di colpa. I giapponesi invece non sembrano subirli, al contrario, hanno inventato un genere a sé (mecha); a milioni in tutto il mondo siamo cresciuti appassionandoci ai loro robot, esempio perfetto di integrazione e dell’alleanza tra uomo e macchina.

In quale rapporto si trovano il desiderio, o meglio la capacità dell’uomo di infrangere i propri limiti -pensiamo all’eugenetica o alla clonazione cellulare- e la filosofia repressiva e punitiva del mondo occidentale? Esserci sostituiti a Dio, riparati dal vetro di un laboratorio o dai confini di carta di un romanzo, può essere l’elemento che impone alla fantasia un mondo popolato da esseri ostili, punitivi e ritorsivi? Forse possiamo fare ancora un passo indietro.

La prima opera del genere fantascienza –Frankenstein di Mary Shelley-, esprime in pieno la paura dell’essere umano per lo sviluppo tecnologico, per il diverso, e la condanna della società per l’aberrazione etica che ha dato vita a un mostro. Dunque è già dal XIX secolo, cioè dall’epoca del grande balzo tecnologico dell’uomo, che inizia a manifestarsi la tendenza dei prometei occidentali, cristiani e sacrileghi, a sentirsi decisamente colpevoli?

Diversamente, la religione autoctona giapponese, non riconosce nell’istinto una fonte di peccato. Se in occidente il “male” è proiettato all’esterno e collocato in un nemico da cui psicologicamente è più facile difendersi –potremmo aggiungere…all’insegna di una purezza e di una bontà d’animo, a sua immagine e somiglianza-, nella tradizione shintoista nessuna azione è codificata come peccaminosa di per sé; bene e male sono conseguenze secondarie alle scelte di vita del singolo di perseguire la via della pace e della purezza (bushido), oppure quella della dannazione.

Un ultimo elemento che vale la pena accennare riguarda la differenza, sempre tra gli autori orientali e occidentali, nel modo di rappresentare gli elementi perturbanti; il livello di violenza delle produzioni giapponesi supera di gran lunga quello delle opere occidentali tanto che gli anime, esportati in tutto il mondo, subiscono una censura dalla maggioranza dei paesi importatori.

Lo stesso vale per gli impulsi di natura sessuale: se nel nostro mondo l’esibizione plateale del corpo arriva quasi ad irritare il senso della vista, l’oriente –ancora il Giappone in particolar modo- si dedica alla rappresentazione della sessualità in maniera trasversale, riconoscendone la naturale importanza anche nei confronti delle generazioni più giovani e con modalità spesso distanti dal voyerismo nudo e crudo, cercando una seduzione più raffinata, dominata dall’alternanza tra desiderio e rinuncia. La vista esplicita dei caratteri sessuali è sostituita da altri elementi: il tono della voce, la postura, il tatto, l’olfatto, secondo quella tradizione filosofica della seduzione che va sotto il nome di iki.

Eccoci dunque. C’è sempre un po’ da temere quando “Hollywood” decide di riportare in vita vecchi miti, leggende popolari o successi d’oltreoceano, perché con la sua immensa macchina è in grado di creare capolavori indimenticabili, così come prodotti dalle meccaniche incerte, senza anima. Questa volta, come nel caso di Ghost in the Shell, si affida al lavoro compiuto da altri, e all’intuito, nel tentativo di riaccendere l’interesse di un pubblico annoiato da scontri tra uomo e macchina e dal solito replicante ribelle da “mettere a posto” solo perché diverso.

 

GHOST IN THE SHELL – GUARDA IL TRAILER:

La Terapia Metacognitiva Interpersonale per incrementare l’ adesione al trattamento in caso di malattie croniche

La Terapia Metacognitiva Interpersonale con la sua costante attenzione alla relazione terapeutica e il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo può essere considerata una valida opzione di trattamento per persone con patologie croniche che non sono in grado di rispettare un’adeguata adesione al trattamento.

 

L’ adesione al trattamento nelle patologie croniche: lo stato dell’arte

L’ aderenza del paziente alle prescrizioni mediche è una delle condizioni critiche per il successo terapeutico nella gestione delle malattie croniche, come il diabete, l’ipertensione, le cardiopatie, la BPCO (broncopneumopatia cronica ostruttiva) e l’asma e nella gestione del dolore cronico, delle nefropatie e delle malattie infiammatorie croniche intestinali.

Una terapia subottimale non riesce a trasferire al paziente i suoi potenziali effetti positivi e comporta quindi conseguenze per l’individuo, in termini di perdita di opportunità di salute e aumento di mortalità e morbilità, e conseguenze per la società, in termini di risorse sprecate, di maggiori carichi per i servizi sanitari e maggior numero di ricoveri ospedalieri.

Solo il 50% dei pazienti in terapia per malattie croniche segue le prescrizioni, mentre nell’asma e nella BPCO le percentuali variano dal 22 al 78%; quando si parla di terapie antiretrovirali per l’HIV, sono stati riportati valori che vanno dal 26 al 94%.

In Europa si stima che la mancata adesione al trattamento causi circa 200.000 morti l’anno e gravi sulla spesa sanitaria per circa 80 miliardi di euro l’anno.

Il miglioramento dell’ adesione al trattamento costituisce un fattore chiave per affrontare il cambiamento demografico e la sostenibilità futura dei sistemi sanitari dal momento che l’aumento dell’aspettativa di vita ha portato ad una maggiore incidenza di patologie croniche e conseguentemente maggiore necessità di terapie a lungo termine.

Le cause della scarsa adesione al trattamento sono molteplici; in particolare sono state individuate 5 dimensioni dell’aderenza: fattori socioeconomici; fattori legati al sistema sanitario ed al team di operatori sanitari; fattori legati alla condizione patologica; fattori legati al trattamento; fattori legati al paziente.

Il modello attualmente più utilizzato valuta le barriere all’ adesione al trattamento come conseguenze delle interazioni tra paziente, operatore sanitario e sistema sanitario, individuando nella centralità del rapporto medico-paziente la chiave dell’aderenza.

Non c’è profilo di paziente aderente o non aderente. L’età, il sesso, il livello educazionale, l’occupazione, lo stato anagrafico, l’etnia, la religione, il fatto di vivere in contesti urbani o rurali non sono stati associati in maniera inequivoca all’aderenza.

La presenza di una comorbidità psichica espone, invece, ad un rischio aggiuntivo. Il paziente si caratterizza per la sua storia clinica e sono numerosi i fattori legati alla patologia che possono avere un impatto sull’ adesione al trattamento farmacologico: la gravità della malattia, la presenza e la gravità dei sintomi, l’andamento della malattia, la storia della malattia, le comorbidità, la percezione del paziente relativamente alla patologia.

Anche le caratteristiche intrinseche del trattamento e la percezione del paziente relativamente allo stesso sono fortemente correlate all’ aderenza.

Ma questi aspetti possono avere impatti diversi su pazienti diversi, a conferma del ruolo centrale del paziente e delle sue condizioni. Caratteristiche del paziente correlate a scarsa aderenza terapeutica sono: i disturbi cognitivi; i disturbi dell’umore; l’abuso di droghe ed alcool e la scarsa capacità di reagire alla malattia.

 

L’ adesione al trattamento nelle malattie trasmissibili

L’ aderenza alla terapia antiretrovirale è di fondamentale importanza per ridurre la morbilità correlata ad HIV e prolungare la sopravvivenza, migliorare la qualità della vita e prevenire la trasmissione.

Nella realtà clinica un’aderenza non ottimale alla terapia antiretrovirale costituisce un problema rilevante.

In alcuni setting specifici, l’ aderenza alla terapia HAART assume un’importanza maggiore: i primi mesi di terapia, la presenza di marcato immunodeficit, l’infezione sostenuta da virus con mutazioni genotipiche conferenti resistenze ad una o più classi di farmaci, la gravidanza, le coppie sessuali discordanti per l’infezione da HIV, le popolazioni più vulnerabili come i migranti, i detenuti, i tossicodipendenti attivi e le persone senza fissa dimora.

In particolare la depressione, i gravi disturbi d’ansia, l’uso di alcol e sostanze stupefacenti riducono la capacità di adottare e mantenere assunzioni regolari dei farmaci prescritti.

La confidenzialità e il rischio di rivelare il proprio stato sierologico sono aspetti che hanno importanti ricadute sull’ adesione al trattamento. Molte persone sieropositive, infatti, riferiscono difficoltà ad assumere farmaci fuori casa, per esempio nel posto di lavoro o comunque in presenza di altre persone, poiché in tal modo possono segnalare la loro condizione.

Un dato ancora attuale è che una rilevante quota di persone in trattamento riportano ai questionari interruzioni di terapia (drug holidays). Questa specifica tipologia di non aderenza predispone, in base alle caratteristiche farmacocinetiche dei farmaci assunti, al rebound virologico sostenuto più o meno frequentemente da virus resistente.

Tra gli effetti collaterali del farmaco, in grado di ridurre l’ aderenza terapeutica, la lipodistrofia ha un impatto notevole: il paziente stesso accetterebbe un rischio superiore di morte pur di evitare la sindrome lipodistrofica, che può peggiorare o causare disturbi psichiatrici condizionando l’efficacia della terapia.

Anche frequenti disturbi sessuali legati alle alterazioni dell’immagine corporea spesso causano la sospensione e la mancata aderenza terapeutica.

Questo riscontro suggerisce che vi sono ostacoli da ricercare prevalentemente nella sfera psicologica. Recenti studi correlano la presenza del tratto alessitimico nei pazienti sieropositivi ad una maggiore replicazione virale e scarsa aderenza terapeutica. Il deficit della capacità di riconoscimento delle emozioni potrebbe essere indice di una compromissione del funzionamento metacognitivo più ampio, così come della capacità di riflettere e ragionare sugli stati mentali e quindi  essere un marker in grado di influenzare negativamente la relazione medico-paziente e la capacità di comprendere il reale impatto della malattia sulla propria vita e sugli altri.

Di contro, la percezione della propria capacità di seguire il regime terapeutico e un buon livello del senso di autoefficacia sono associati ad elevata aderenza.

Infine, sono state descritte esperienze di interventi diretti a coppie discordanti eterosessuali ed omosessuali che prevedevano informazioni sulla terapia e sull’ adesione al trattamento, identificazione delle barriere, sviluppo di strategie comunicative e di problem solving, ottimizzazione del supporto sieronegativo e costruzione della fiducia nelle proprie possibilità di aderire in modo ottimale alle prescrizione. I risultati hanno dimostrato un significativo miglioramento dell’aderenza nelle coppie che avevano partecipato confrontate con i controlli ma tuttavia gli effetti si attenuavano nel tempo.

Accanto all’HIV, l’emergenza di ceppi di tubercolosi multiresistente ha portato ad una recrudescenza della tubercolosi come importante minaccia per la salute pubblica. E’ stato riportato che circa il 3,6% dei nuovi pazienti affetti da TBC nel mondo presentano ceppi MDR.

La maggior parte dei pazienti MDR-TB non viene individuata, esponendo la loro famiglia e la comunità al rischio di contrarre ceppi MDR-TB trasmessi attraverso l’aria soprattutto nelle comunità ad alta densità e tra le persone con HIV.

A livello globale, la percentuale di paziente MDR-TB, che termina con successo il trattamento rimane inferiore al 50%. Tra le cause di non aderenza vi sono soprattutto problematiche psicologiche e sociali quali dipendenza da alcol, depressione e stigma. L’emozione più comunemente riportata dal paziente, una volta diagnosticata la TB-MDR, è la paura.

Ciò si riflette nella sensazione che il trattamento antitubercolare sia l’ultima opzione per loro, il che corrobora le loro paure intrinseche dell’efficacia del trattamento MDR-TB con conseguente perdita della propria identità, riduzione dell’autostima, senso di colpa ed isolamento.

 

L’ adesione al trattamento nelle malattie non trasmissibili

È da tempo noto che il diabete, in particolare il diabete di tipo 2, è una delle condizioni cliniche nelle quali è più facile registrare un basso livello di adesione al trattamento: per esempio, l’accuratezza nell’eseguire la terapia insulinica oscilla tra il 20 e l’80%, l’adesione alle raccomandazioni dietetiche è all’incirca del 65% e quella dell’automonitoraggio glicemico è di poco superiore al 50%; ancora più bassa (inferiore al 30%) è l’aderenza all’esercizio fisico consigliato.

L’ adesione al trattamento dipende da vari fattori, tra cui preminente è la complessità del trattamento stesso, intesa non solo come numero di farmaci da assumere, ma anche e soprattutto come difficoltà a cambiare lo stile di vita: seguire una  dieta, praticare esercizio fisico, monitorare la glicemia e, cosa ancora più complicata di effettuare gli opportuni aggiustamenti terapeutici.

Altro importante livello di criticità è da individuare nella carente informazione/formazione fornita ai pazienti dal medico o dal team di cura. Sicuramente lo strumento più efficace per migliorare l’adesione di un paziente con DMT2 è il suo attivo coinvolgimento nella gestione della patologia, attraverso un percorso educativo adeguato.

Una rassegna sistematica di 21 studi clinici controllati sugli interventi atti a migliorare l’adesione alle raccomandazioni di cura nel DMT2, condotta dalla Cochrane Collaboration ha confermato che gli interventi efficaci in questo senso, erano innanzitutto quello educazionale condotto da personale dedicato ma anche l’uso di sistemi di supporto terapeutico nella vita quotidiana e la semplificazione della terapia.

Dai risultati emersi dallo studio DAWN (Diabetes Attitudes Wishes and Needs) si evince come attitudini negative, difficoltà a comprendere la terapia e problemi psicologici come disturbi dell’umore, disturbi d’ansia e del comportamento alimentare sono piuttosto comuni in persone che vivono con diabete e possono contribuire al fallimento terapeutico.

Molte delle reazioni considerate anomale derivano dalla sfiducia che il farmaco possa essere efficace, dalla paura di effetti collaterali, dalla paura di dover assumere per sempre un farmaco e quindi di dipendere da esso, dalla mancanza di percezione della gravità della propria condizione e da molti altri fattori. Una recente meta-analisi ha dimostrato che un’attività educativa sul self-management della malattia migliora i livelli glicemici già al primo follow-up, e che dei contatti più prolungati potenziano questo effetto. Tuttavia, i benefici si riducono da uno a tre mesi dopo la prima fine dell’intervento, suggerendo che i comportamenti appresi si modificano nel tempo e che sono necessari ulteriori interventi per mantenere il miglioramento ottenuto.

Schlundt, Stetson & Plant hanno diviso in gruppi i pazienti affetti da Diabete tipo 1, in base ai problemi che incontravano nell’aderire alle diete prescritte, e rilevato che due dei gruppi individuati – i mangiatori “emotivi” e i diet-bingers, cioè quelli che sistematicamente evitavano la dieta – mostravano problemi di adesione ai trattamenti che si correlavano ad emozioni negative come lo stress e la depressione.

E’ stato osservato che tra i pazienti diabetici l’incidenza doppia della depressione sfocia spesso in complicanze legate allo scarso controllo dei valori glicemici e alla minore adesione alla self-care rispetto alla popolazione generale. Ott e al hanno inoltre rilevato l’impatto drammatico che la depressione ha sui pazienti adolescenti: ne risultano compromessi l’autostima, le relazioni con gli altri, la sicurezza sociale, col risultato che lo stigma persistente della terapia insulinica e la perdita di controllo di fronte all’ipoglicemia determinano esiti clinici peggiori del previsto.

Al contrario, affrontare lo stigma migliora gli stati emotivi ed i comportamenti di salute. Un recentissimo studio ha riportato che interventi ambulatoriali di 15 minuti incentrati su episodi autobiografici hanno prodotto un incremento dell’ aderenza terapeutica con miglioramento della qualità della vita dei pazienti diabetici.

Numerosi studi hanno documentato in tutto il mondo una scarsa adesione al trattamento per l’asma. La quota di non adesione tra i pazienti asmatici varia dal 30 al 70%. Il fallimento dell’adesione determina un cattivo controllo della malattia, con ovvie conseguenze da un punto di vista clinico, ricorsi più frequenti ai ricoveri ospedalieri ed ai servizi di pronto soccorso ed un inevitabile aumento dei costi per la sanità.

L’Open Airways Programme (sei sedute mensili di 1 ora) istruiva genitori a basso reddito di 310 bambini asmatici delle aree urbane, il 44% dei quali temeva di non essere in grado di affrontare adeguatamente un attacco d’asma e preferiva portare i piccoli al più vicino pronto-soccorso. La partecipazione al progetto ha ridotto sensibilmente i costi di ospedalizzazione. Un recentissimo studio effettuato su 568 pazienti con asma di età compresa tra i 18 e i 56 ha dimostrato ancora  l’influenza che la depressione (e una scarsa attività educativa) avrebbe sulla scarsa aderenza ai farmaci corticosteroidei e quindi sugli esiti complessivi della malattia.

Nell’epilessia l’impatto degli effetti collaterali della terapia sulle funzioni cognitive e delle limitate o compromesse capacità cognitive sull’adesione ai trattamenti richiedono maggiore attenzione.

Le dimenticanze del paziente, legate o meno a disturbi della memoria e il rifiuto di assumere farmaci sono i fattori che più comunemente si associano ad una riduzione dell’ adesione al trattamento.

L’associazione delle somministrazioni del farmaco a determinati eventi quotidiani nello schema terapeutico giornaliero, l’uso di aiuti mnemonici, calendari e richiami sonori collegati all’orologio possono rappresentare strumenti utili per migliorare l’adesione ai trattamenti nei pazienti che regolarmente dimenticano di assumere i farmaci. Tuttavia, nella letteratura presa in esame non è stato trovato alcun studio che dimostrasse quanto appena riferito.

Ci sono forti evidenze che suggeriscono come i programmi di autogestione della malattia forniti ai pazienti affetti da patologie croniche migliorino lo stato di salute e riducano il ricorso ai servizi.

L’educazione terapeutica al paziente dovrebbe permettere secondo al definizione dell’OMS “di acquisire e mantenere la capacità e le competenze che lo aiutano a vivere in maniera ottimale con la sua malattia”.

L’educazione all’ aderenza terapeutica è quindi un processo permanente, integrato alle cure e centrato sul paziente. Tuttavia, i diversi modelli  teorici di riferimento ed i programmi disponibili per il supporto psicologico alla terapia suggeriscono che nessuno di essi è in grado di arginare il fenomeno della non aderenza. Nasce l’esigenza di sviluppare interventi che partano dalla conoscenza dei reali aspetti psicologici della non aderenza. Interventi che possono essere adattati al singolo paziente a partire dai suoi bisogni.

 

La terapia metacognitiva interpersonale: un modello per la scarsa aderenza

La Terapia Metacognitiva Interpersonale sviluppa il percorso terapeutico sulle narrative personali con l’obiettivo di aiutare i pazienti a divenire consapevoli di modalità ricorrenti di costruire significati e sostenerli nell’adottare nuove prospettive per accedere agli scopi desiderati.

La Terapia Metacognitiva Iinterpersonale, principalmente sviluppata per trattare i disturbi di personalità e le condizioni sintomatiche ad essa associate, è già stata applicata con successo al caso di una paziente sieropositiva con disturbo borderline e dipendente di personalità con ottimi risultati ottenuti in termini di remissione della sintomatologia post-traumatica e riduzione dello stigma.

Al fine di adattare la Terapia Metacognitiva Interpersonale alle persone affette da patologie croniche ma non aderenti alle terapie, abbiamo introdotto una parte preliminare di psicoeducazione e di attività di pianificazione e strategie volte al mantenimento dell’aderenza terapeutica.

La psicoeducazione include argomenti riguardanti l’efficacia delle opportunità terapeutiche, evidenziando che l’efficacia è strettamente correlata ad una perfetta aderenza ai programmi prescritti e la centralità che deve assumere la cura di sé, della propria salute fisica e psicologica.

Bisogna affrontare diversi aspetti della patologia, compresa la rilevanza degli indicatori di progressione e dell’aderenza ed elencare le modalità di assunzione delle opzioni terapeutiche al fine di porre il paziente in grado di impegnarsi attivamente nella gestione della malattia.

Infine, occorre discutere i possibili effetti collaterali dei farmaci ed il modo di affrontarli ed argomentare le implicazioni di un risultato positivo anche a livello relazionale, sociale e lavorativo.

Una volta chiarito il regime terapeutico, l’intervento comprende azioni specifiche di pianificazione delle attività: potrebbe essere utile iniziare con un “dry run” (periodo di prova con farmaci fittizi per vedere come organizzare la routine); pianificare il regime terapeutico sulla base dello stile di vita del paziente identificando le attività che vengono svolte quotidianamente, utilizzando soprattutto attività che vengono sempre fatte  (ad esempio portare i bambini a scuola); stabilire che il farmaco andrebbe preso prima di eseguire l’attività (farsi la barba) e non dopo (anche usare una suoneria per ricordarsi quando assumere le compresse); mostrare al paziente come tenere un diario dei farmaci (una pagina al giorno,  segnando quando ha preso le medicine, quando le ha saltate, perché e come si sente); aiutare il paziente ad identificare un momento per contare le compresse (ad esempio domenica sera preparare le porzioni per tutti i giorni della settimana); stabilire un luogo dove prendere le pillole (collocare le pillole dove andranno prese, ad esempio vicino la tazza del caffè), ricordando che le dosi della sera tendono ad essere dimenticate più facilmente rispetto a quelle del mattino; infine programmare per tempo eventuali cambiamenti della routine (vacanza e cambiamenti del lavoro).

Se i pazienti non rispondono alla psicoeducazione e alla pianificazione delle attività si passa alla seconda fase del trattamento in cui, attraverso l’utilizzo del diario giornaliero, si valutano insieme al paziente i momenti ripetuti  di non assunzione del farmaco.

Questi momenti diventano il focus della psicoterapia. Il terapeuta esplora costantemente  lo stato della relazione terapeutica, al fine di capire se l’alleanza terapeutica è minacciata, caratteristica della Terapia Metacognitiva Interpersonale è infatti adattare gli interventi alle capacità metacognitive del paziente con  particolare attenzione alla relazione terapeutica. I pazienti sono invitati a riflettere sugli episodi relazionali accaduti poco prima della mancata assunzione del farmaco con descrizioni accurate della sofferenza e dei fattori nei quali emerge riportando il resoconto dettagliato degli episodi concernenti le relazioni interpersonali. Un episodio narrativo si svolge entro precisi confini spaziali e temporali e devono essere identificati gli attori presenti in scena, il dialogo che la persona intraprende con loro e il motivo per cui la storia si racconta.

Una volta identificate le motivazioni reali della mancata aderenza, l’obiettivo terapeutico diventa duplice: offrire al paziente strategie alternative per affrontare i momenti di non adesione al trattamento (con tecniche che siano coerenti con le capacità metacognitive del paziente) e collegare i problemi relazionali con i modelli di funzionamento di personalità del paziente in modo da aiutarlo ad acquisire una più profonda comprensione del suo mondo interiore e successivamente promuovere il cambiamento.

Abbiamo utilizzato la Terapia Metacognitiva Interpersonale nel caso di un paziente affetto da infezione HIV, con disturbo di personalità grave e scarsa aderenza alla terapia antiretrovirale.

La scarsa aderenza era confermata dalla costante replicazione virale e dall’insorgenza di patologie opportunistiche AIDS correlate.

Il paziente nel corso della sua vita aveva assunto diversi regimi terapeutici senza mai raggiungere la piena risposta in termini di soppressione virologica. Nel complesso si presentava con gravi difficoltà a ragionare sui suoi stati mentali e le sue abilità per risolvere i conflitti interpersonali erano molto limitate. In una prima fase riportava in seduta esclusivamente episodi di rabbia distruttiva come responsabili della scarsa adesione al trattamento. Dopo una prima fase di gestione del disturbo d’ansia, si cerca di motivare il paziente sul raggiungimento dell’azzeramento virologico come obiettivo primario della terapia ma egli non si mostra sensibile alle tematiche di psicoeducazione poiché non ritiene di essere responsabile della sua condizione clinica ma piuttosto si definisce vittima di un ceppo di HIV particolarmente virulento ed aggressivo, impossibile da controllare.

Attraverso l’utilizzo della scheda pianificata per il monitoraggio terapeutico, individuiamo insieme i momenti di non assunzione della terapia antiretrovirale. Sono momenti serali, legati al rientro a casa, in presenza di una compagna definita “rigida ed austera” ed in grado solo di “sfruttarlo economicamente”.

Realizza di sentirsi costretto in una relazione che non desidera ma che lo allontana dal senso di solitudine e disperazione. Al fine di superare l’angoscia, dedica molto tempo a chat online in cui si presenta con altre identità creando stati temporaneamente piacevoli ma che esasperano i suoi sentimenti di  impotenza e vergogna. Sono questi i momenti più frequentemente correlati alle “dimenticanze” delle dosi terapeutiche. Conclusa la psicoeducazione quindi, la procedura di Terapia Metacognitiva Interpersonale consiste in una prima parte denominata formulazione condivisa del funzionamento in cui i pazienti, una volta individuati i momenti di non aderenza, sono aiutati per prima cosa ad identificare e dare un nome ai sentimenti associati a questi episodi, capire gli stimoli emotivi e raccogliere una serie di memorie autobiografiche associate per riconoscere e ricostruire gli schemi interpersonali sottostanti. Nel caso specifico, Il nostro paziente ricorda dettagliati episodi autobiografici di rifiuto sin da bambino. Anche da adulto, al momento della diagnosi di infezione da HIV, il paziente ricorda vissuti di  abbandono da parte di familiari e partner. Il desiderio del paziente quindi è quello di essere amato ed accettato, ma la risposta dell’altro è il rifiuto e l’austerità. La sua risposta alla reazione dell’altro è un misto di vergogna, paura di essere abbandonato definitivamente ed umiliazione che lo portano ad utilizzare meccanismi di coping disfunzionali per lenire il dolore.

La formulazione condivisa del funzionamento si considera completata quando il paziente riconosce quel suo schema come generatore di sofferenza e di problemi e desidera cambiare. È a questo punto che il paziente è in grado di differenziarsi dall’immagine di sé come non degno di amore e adottare nuovi comportamenti coerenti con il senso di autostima. Il ruolo del terapeuta diventa quello di aiutare il paziente a comprendere come le proprie idee su quello che succede nelle relazioni con gli altri non sono necessariamente vere ma possono essere diverse se guardate da un’altra prospettiva. In particolare, durante la seduta si aiuta il paziente ad accedere a stati mentali positivi e a parti di sé funzionanti. Nel corso dei mesi di terapia, il paziente è stato sempre partecipe dei suoi parametri biologici, è al corrente dell’incremento dei suoi linfociti grazie all’aderenza terapeutica mantenuta e scopre di essere in grado di avere un controllo della malattia ed un ruolo sulla sua evoluzione. Il paziente comprende, inoltre, che cedere denaro alla compagna ed autosacrificarsi sono modalità ricorrenti utilizzate per sentirsi accettato ma che incrementano la sua rabbia, emozione che riconosce più facilmente.

Il paziente decide di interrompere la relazione con la compagna affrontando il senso di abbandono e la solitudine e si espone a situazioni relazionali prima temute, sperimentando momenti di piacere, calore ed accettazione. Sperimenta il senso di autoefficacia e di appartenenza al gruppo attraverso esercizi di esposizione concordati con il terapeuta.

Il paziente si riconosce come autore degli accadimenti e capace di prendersi cura di sé attraverso la gestione della malattia, il che si traduce in un lento e progressivo cambiamento del modo di porsi rispetto agli eventi della vita quotidiana.

Solo dopo essersi riconosciuto come autore del cambiamento, il paziente è sensibile ai temi di psicoeducazione relativi alla sua patologia, alla loro valenza relazionale e desidera mantenere i benefici dell’aderenza terapeutica acquisendo abilità di problem solving flessibili.

Dopo 2 anni di trattamento, il paziente ha raggiunto la soppressione virologica ed un buon compenso immunologico con remissione clinica delle patologie AIDS correlate.

L’applicazione su un caso singolo sostiene la necessità di replica su popolazioni più ampie ed eterogenee tuttavia gli eccellenti risultati ottenuti confermano che la Terapia Metacognitiva Interpersonale con la sua costante attenzione alla relazione terapeutica e il lavoro parallelo sul funzionamento metacognitivo può essere considerata una valida opzione di trattamento per persone con patologie croniche che non sono in grado di rispettare regimi terapeutici complessi.

I correlati neurocognitivi dell’uso problematico dei social network

L’ uso problematico dei social network, come Facebook, mentre si sta guidando, durante un meeting di lavoro o in altre circostanze che potrebbero portare a conseguenze negative, è stato collegato a uno squilibrio tra due sistemi cerebrali.

 

Hamed Qahri Saremi, un professore associato di sistemi d’informazione al De Paul University College of Computing and Digital Media, è co-autore dello studio insieme ad Ofir Turel, un professore di sistemi d’informazione e scienze decisionali alla California State University, Fullerton e ricercatore interno alla University of Southern California, Los Angeles.

 

La dual system perspective per spiegare l’ uso problematico dei social network

I due ricercatori, per indagare i meccanismi alla base dell’ uso problematico dei social network, hanno applicato la “dual system perspective”, una teoria mutuata dalla psicologia cognitiva che ipotizza che gli uomini abbiano due differenti meccanismi cerebrali che influenzano i processi di decision-making.

Essi ritengono che il Sistema 1 sia automatico e reattivo, venga innescato velocemente, spesso al di sotto del livello di coscienza, in reazione a stimoli come guardare i social network o ricevere una notifica dagli stessi; mentre il Sistema 2 è  un sistema riflessivo e razionale che viene innescato più lentamente, regola la cognizione, inclusa quella generata dal primo sistema, e controlla i comportamenti, aiutando gli individui ad evitare gli impulsi e le azioni che non sono nel loro interesse.

Utilizzando un questionario validato deputato a misurare l’ uso problematico dei social network, i ricercatori hanno raccolto le risposte di 341 studenti universitari del Nord America che utilizzano frequentemente Facebook.

I ricercatori hanno raccolto e ed analizzato dati riguardanti l’ uso problematico di Facebook durante un semestre e in seguito hanno seguito il percorso universitario di ogni studente per indagare la loro performance accademica – utilizzando la media dei voti – sia nei singoli semestri, che, cumulativamente, in tutto l’anno accademico.

I soggetti che avevano mostrato un uso problematico dei social network, nella fattispecie un uso di Facebook più marcato, avevano una forte preoccupazione cognitivo-emozionale (sistema 1), ma un controllo cognitivo-comportamentale più debole (sistema 2), mostrando uno squilibrio tra i due sistemi; di fatto, più grande era questo squilibrio, più i soggetti erano a rischio di sviluppare comportamenti legati all’uso problematico dei social.

Tra i risultati più importanti della suddetta ricerca sull’ uso problematico dei social network abbiamo:

  • Il 76% dei soggetti riportava l’utilizzo di Facebook in classe;
  • Il 40% dei soggetti utilizzava Facebook alla guida;
  • Il 63% dei soggetti riportava l’utilizzo di Facebook quando aveva una conversazione faccia a faccia con un’altra persona;
  • Il 65% dei soggetti sosteneva di utilizzare Facebook sul lavoro, invece di lavorare.

Il forte effetto dell’ uso problematico dei social media sulla performance accademica è sorprendente – sostiene Turel. – Un leggero incremento nell’ uso problematico dei social si traduce in una significativa diminuzione dei voti, e il declino nella performance è costante. Esso, infatti, si è protratto per un anno dopo il nostro primo studio – ha aggiunto.

Qahri-Saremi e Turel hanno scoperto che un uso problematico di Facebook influisce negativamente la performance accademica degli studenti: più problematico era l’utilizzo, meno alti erano i voti. Infatti, più del 7% delle differenze della media dei voti tra gli studenti, era attribuibile al grado di problematicità legato all’ uso dei social media.

Gli autori hanno definito il comportamento problematico come un “tipico comportamento impulsivo, spesso di breve durata, che è considerato inappropriato, proibito, o pericoloso in un dato ambiente o contesto, o per un dato status o obiettivo della persona“. Questi comportamenti problematici possono portare a conseguenze negative proprio come l’effetto sulla performance universitaria evidenziato nello studio.

La cosa più entusiasmante di questo studio, per me, è che il nostro modello di ricerca basato sul sistema dual, potrebbe spiegare in maniera molto adeguata come siano costituiti questi comportamenti e come essi possano essere controllati – sostiene Qahri-Saremi.

Sfortunatamente, i comportamenti problematici nell’utilizzo di “sistemi d’intrattenimento”, come i social media o i videogames, sono molto diffusi oggigiorno e vanno incrementandosi. In alcuni casi, essi hanno comportato gravi conseguenze per i fruitori, come si evince , ad esempio, dalle news che lo scorso anno hanno riguardato l’ uso problematico di Pokemon GO, i cui giocatori sono stati coinvolti in incidenti o sono stati derubati, perché erano distratti dal gioco. Pertanto, c’era bisogno di un modello di ricerca che potesse spiegare perché questi comportamenti emergano e come possano essere mitigati, obiettivo che si è riflesso abbastanza bene nel nostro lavoro – sostiene nuovamente Qahri-Saremi.

Lo studio sull’ uso problematico dei social network ha suggerito che le persone potrebbero iniziare a limitare l’ uso dei social media con delle strategie, ad esempio disattivando le notifiche dei social sul proprio telefono. E’ stato anche suggerito che i programmatori potrebbero prendere in considerazione l’idea di aggiungere specifiche di sistema che renderebbero ai fruitori più facile controllare il proprio comportamento problematico.

Seppure la teoria del sistema duale sia una teoria stabile e comprovata all’interno del filone della psicologia cognitiva, si pensa che Qahri-Saremi e Turel siano stati i primi ricercatori ad utilizzarla per spiegare l’eziologia dell’ uso problematico dei social network.

Il prossimo passo include delle ricerche aggiuntive estendendo lo studio ad altri social media, come i video games e le chat. Gli autori aggiungono che la ricerca futura potrebbe anche indagare se gli stessi risultati possano essere prodotti in altri contesti culturali ed educativi.

Inoltre, studi di neuroimmagine potrebbero integrare questi risultati ed individuare le strutture cerebrali del sistema sopra menzionato, nel contesto nell’ uso problematico dei social media.

Il disturbo da uso di sostanze: aspetti diagnostici e clinici – Report dal seminario del 18 Marzo

Sabato 18 Marzo presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova si è tenuto il primo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova 2017” dal titolo “Il disturbo da uso di sostanze: aspetti diagnostici e clinici” tenuto dal Dr. Luigi Filippo Bardellini, Dirigente medico di 1°livello presso la Sc SERT della ASL 5 Spezzino sede di La Spezia.

 

Il disturbo da uso di sostanze: i criteri diagnostici

Nella parte introduttiva dell’intervento sono stati fatti alcuni cenni storici sulle sostanze d’abuso per poi concentrarsi sulla diagnosi di Disturbo correlato all’uso di sostanze. Quando si parla di dipendenze si fa riferimento ad una condizione patologica per cui la persona è impossibilitata a gestire e controllare l’abitudine. Possiamo vedere la dipendenza come suddivisa in due versanti: la dipendenza fisica e la dipendenza psichica. La prima è connessa ad un alterato stato biologico, la seconda ad un’alterazione dello stato psichico e comportamentale. Nei casi più complessi sono presenti entrambe le forme di dipendenza, la persona pertanto si troverà a fare i conti con un bisogno di assunzione della sostanza ripetuto nel tempo così da risperimentare l’effetto psichico percepito inizialmente ed evitare inoltre la sindrome d’astinenza.

L’intervento prosegue mostrando come nel DSM IV-TR (American Psychiatric Association, 2001) i disturbi correlati a sostanze sono suddivisi in due gruppi: 1) Disturbo da uso di sostanze 2) Disturbi indotti da sostanze. Al disturbo da uso di sostanze fanno riferimento l’Abuso di sostanze e la Dipendenza da sostanze ciascuna delle quali presenta specifici criteri diagnostici. Sia l’abuso che la dipendenza fanno riferimento ad una modalità patologica dell’uso della sostanza che incide sulle condizioni di vita della persona causando disagio clinicamente significativo per almeno 12 mesi.

Per poter fare diagnosi di Abuso secondo i criteri del DSM-IV TR è necessario sia presente almeno una delle seguenti condizioni:
1. uso ricorrente della sostanza risultante in una incapacità di adempiere ai principali compiti connessi con il ruolo lavorativo, scolastico o domestico;
2. ricorrente uso della sostanza in situazioni fisicamente rischiose (ad esempio alla guida di un’automobile);
3. ricorrenti problemi legali correlati alle sostanze;
4. uso continuativo della sostanza nonostante persistenti o ricorrenti problemi sociali o interpersonali causati o esacerbati dagli effetti della sostanza.

B. I sintomi non hanno mai soddisfatto i criteri per Dipendenza da Sostanze della medesima classe.

Per poter fare diagnosi di Dipendenza invece è necessario siano presenti almeno tre delle seguenti condizioni:

1. tolleranza, come definita da ciascuno dei seguenti:
a. il bisogno di dosi notevolmente più elevate della sostanza per raggiungere l’intossicazione o l’effetto desiderato
b. un effetto notevolmente diminuito con l’uso continuativo della stessa quantità della sostanza

2. astinenza, come manifestata da ciascuno dei seguenti:
a. la caratteristica sindrome di astinenza per la sostanza
b. la stessa sostanza (o una strettamente correlata) è assunta per attenuare o evitare i sintomi di astinenza
3. la sostanza è spesso assunta in quantità maggiori o per periodi più prolungati rispetto a quanto previsto dal soggetto
4. desiderio persistente o tentativi infruttuosi di ridurre o controllare l’uso della sostanza
5. una grande quantità di tempo viene spesa in attività necessarie a procurarsi la sostanza (per es., recandosi in visita da più medici o guidando per lunghe distanze), ad assumerla (per es., fumando “in catena”), o a riprendersi dai suoi effetti
6. interruzione o riduzione di importanti attività sociali, lavorative o ricreative a causa dell’uso della sostanza
7. uso continuativo della sostanza nonostante la consapevolezza di avere un problema persistente o ricorrente, di natura fisica o psicologica, verosimilmente causato o esacerbato dalla sostanza (per es., il soggetto continua ad usare cocaina malgrado il riconoscimento di una depressione indotta da cocaina, oppure continua a bere malgrado il riconoscimento del peggioramento di un’ulcera a causa dell’assunzione di alcool).

 

La diagnosi dal DSM-IV al DSM-5 e l’importanza di un trattamento plurispecialistico

Ci si concentra poi sull’evoluzione della diagnosi dal DSM IV-TR al DSM-5. Nella quinta edizione del manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali il ricorso all’uso di sostanze prende il nome di Disturbi correlati a sostanze e disturbi da addiction. Il cambiamento principale sta nel fatto che non vi è più separazione tra abuso e dipendenza da sostanze, ma entrambe vengono incluse in un unico disturbo da uso di sostanze. E’ presente un elenco di 11 sintomi, quasi uguali a quelli presenti nel precedente manuale, e un continuum di gravità necessario a misurare il sintomo che va da lieve a grave. L’aspetto di innovazione sta nell’introduzione del concetto di craving da intendersi come desiderio irrefrenabile, una forte pulsione soggettiva a raggiungere l’oggetto desiderato (May, Andrade, Panabokke, Kavanagh, 2004). Caratteristica del craving è la perdita di controllo e i conseguenti movimenti che la persona fa per ottenere la sostanza desiderata.

Si fa in ultimo una riflessione sui diversi tipi di sostanze comprese le smart drugs e la diffusione tra le nuove generazioni, sugli effetti che le sostanze in generale possono provocare specie se assunte durante il periodo dello sviluppo. Si conclude con una riflessione relativa alla complessità della sintomatologia e alla necessità di un trattamento plurispecialistico che preveda l’unione di diverse competenze sia mediche che psicoterapiche.

 

Il prossimo appuntamento presso il Centro di psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Si segnala che il secondo incontro organizzato dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “MINDFULNESS: CONOSCERE LA “VERITA’” DEL SENTIRE-PERCEPIRE” tenuto dalla Dott.ssa Alessia Renzoni si svolgerà sabato 22 Aprile 2017 ore 10-13. La partecipazione è gratuita e aperta a tutti i professionisti che operano nell’ambito dei disturbi psichiatrici e psicologici, specializzandi in psichiatria, studenti di psicologia e di medicina e operatori della salute mentale.

 

Per info e iscrizioni è possibile scrivere una mail a: [email protected]
oppure chiamare il centro allo: 010 8683077.

 

 

Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici (2015) – Recensione del libro

Essenziale nel libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici è la voce di coloro che stanno introducendo la mindfulness nella propria vita durante il viaggio personale nel cancro e, l’aspirazione affinché questo libro supporti ulteriori studi relativi all’impatto psicologico degli interventi basati sulla mindfulness in persone affette da tumore.

Teresa Lamanna – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Tra le malattie a minaccia per la vita, il cancro si pone come evento tra i più traumatici e stressanti col quale chi ne è colpito deve confrontarsi. Nonostante i progressi tecnologici in ambito oncologico, il vissuto soggettivo del cancro e l’interpretazione individuale e sociale di questa malattia restano quelli di un processo insidioso e incontrollabile che invade, trasforma e, lentamente, porta alla morte (Saccomani R., Raffaello Cortina, 1998).

 

L’assistenza psicologica al malato di cancro: la psico-oncologia

La psico-oncologia costituisce in ambito sanitario un riferimento per tutti coloro – oncologi, psicologi, psichiatri, psicoterapeuti – che nel trattamento della malattia neoplastica hanno una visione olistica del malato, tesa a tutelare e favorire una migliore qualità della vita del paziente considerandolo nella sua complessità, vista la inscindibilità negli esseri umani della componente biologica da quella emozionale (Società italiana di psico-oncologia, Sipo, 1998).

Il rispetto della vita e della persona umana, della famiglia e dei nuclei di convivenza, il diritto alla tutela delle relazioni e degli effetti, la considerazione e la cura del dolore, il sostegno psicologico nelle diverse fasi della malattia costituiscono gli obiettivi principale della disciplina. La psico- oncologia può essere considerata un approccio multidisciplinare. Esistono due grandi linee di indirizzo teorico (Guarino 1996):

  1. La prima si occupa delle ricerca. Essa indaga sulle componenti psicosomatiche del cancro con studi sulla influenza delle variabile psicologiche nella con-causa delle neoplasie, cerca cioè, di confermare l’ipotesi per cui certe caratteristiche psicologiche in forza del legame mente-corpo, sarebbero dei fattori predisponenti l’insorgenza della malattia neoplastica. Sempre all’interno della ricerca in psicologia oncologica, ma in un altro ambito, vi è un’intensa attività per determinare le reazioni psicologiche del paziente in ogni fase della malattia. Si cerca di giungere all’approfondita conoscenza dei bisogni del malato neoplastico e delle dinamiche messe in atto, sia dal paziente, sia dall’ambiente sociale, in cui vive o viene a trovarsi per necessità imposte dalla malattia.
  2. La seconda si occupa dell’aspetto assistenziale. Essa studia le varie modalità di approccio neoplastico psicoterapeutico, psicometrico e di assistenza, per aiutare il paziente neoplastico ad affrontare al meglio la malattia e per prevenire le sequele psicologiche quali la depressione e l’ansia.

L’assistenza psicologica è importante sia per affrontare e gestire i numerosi eventi stressanti, a cui il paziente è sottoposto durante l’arco della malattia, sei per il possibile ruolo che fattori, di natura emozionale, possono avere sul decorso della malattia (Spiegel, 1994). Il malessere psicologico quindi, sia che si esprima sotto forma di ansia aperta e di aggressività, o forma depressiva, con il rinchiudersi in se stessa della persona, esiste ed in più la sofferenza psicologica si può esprimere anche nel dolore fisico.

Chiunque lavori in ambito oncologico, abbia un tumore oppure si occupi di una persona vicina che ne è affetta, saprà troppo bene che il cancro e il suo trattamento possono offrire continue opportunità di sperimentare dolore, disagio, rabbia, paura e disperazione. Può apparire del tutto normale e comprensibile che, in seguito a queste esperienze, ci si possa sentire molto angosciati, al punto in cui l’approccio a qualsiasi suggerimento di “potrebbe esserci un altro modo per rapportarsi a queste esperienze” deve essere fatto con grande sensibilità. È qui che la personale esperienza diretta di Trish di essere tanto paziente oncologica quanto un’insegnante di centinaia di malati di cancro, è così utile nella descrizione del suo libro “Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness per pazienti oncologici” .

 

Terapia Cognitiva basata sulla Mindfulness per pazienti oncologici: la premura verso la sofferenza propria e altrui

In Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici Trish Bartley descrive e sviluppa in modo originale il modello della MBCT (Mindfulness based cognitive therapy) dedicandosi ai pazienti oncologici.

Lo stimolo per il programma di Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici (MBTC-Ca) deriva dal primo incontro personale di Trish con il cancro (ne ebbe un secondo proprio mentre scriveva questo libro). Questa esperienza, insieme al suo coinvolgimento con l’insegnamento e la sua formazione nella Mindfulness based cognitive therapy, rende Trish straordinariamente adatta al compito che si è assunta. La Mindfulness based cognitive therapy per pazienti oncologici si fonda nell’idea la nostra sofferenza emerge in realtà da come ci relazioniamo alle esperienze di dolore, disagio e difficoltà che alle esperienze stesse. Tale prospettiva indica la possibilità di poter ridurre l’angoscia apprendendo un nuovo modo di rapportarsi con le esperienze spiacevoli e indesiderate, anche se si può fare poco per cambiare l’esperienza in sé.

Uno degli aspetti più belli e potenti della terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici è l’enfasi posta sull’apertura e la premura verso la sofferenza altrui, così come la propria, sul connettersi con la condizione umana condivisa con tutti coloro che sono toccati dal cancro e, sull’estendersi oltre l’isolamento che dolore e angoscia possono così spesso rafforzare. L’importanza della gentilezza e della compassione nelle pratiche mindfulness non è sempre stata riconosciuta esplicitamente. Ora la situazione sta cambiando: ad esempio, disponiamo di evidenze empiriche per cui una maggiore compassione nelle pratiche e una maggiore compassione verso se stessi costituisce una delle vie principali che rendono vantaggiosa la Mindfulness based cognitive therapy nel trattamento della depressione.

Il libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici descrive inoltre diversi e creativi adattamenti della struttura base della Mindfulness based cognitive therapy per le esigenze specifiche dei pazienti oncologici: sono stati sviluppati una varietà di nuove pratiche brevi, metodi per aumentare la propria sensibilità ai messaggi, e altri le esperienze di sofferenza negli elementi di cui si compongono. In tutto il testo, la descrizione dettagliata delle pratiche è ospitata in un ampio recipiente di calore, con passione e grande sensibilità alle dinamiche del processo di gruppo.

Essenziale nel libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici è la voce di coloro che stanno introducendo la mindfulness nella propria vita durante il viaggio personale nel cancro e, l’aspirazione affinché questo libro supporti ulteriori studi relativi all’impatto psicologico degli interventi basati sulla mindfulness in persone affette da tumore.

Il programma di otto settimane descritto in v è un’elaborazione della terapia cognitiva basata sulla mindfulness per la prevenzione delle ricadute depressive e la riduzione dello stress. Nel libro Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici si condivide quanto appreso dall’insegnamento della MBCT-Ca  a oltre 30 gruppi di pazienti oncologici. È tratta da più di dieci anni di esperienza di valutazione, sviluppo e ridefinizione del programma.

Il libro è suddiviso in tre parti e inizia descrivendo in modo generale la mindfulness. In seguito viene descritto un incontro di tre persone affette da tumore che hanno partecipato a un corso basato sulla mindfulness e, attraverso la loro esperienza, si costruisce un quadro di ciò che può offrire la mindfulness a persone con storia analoga. L’ultimo capitolo della sessione delinea un modello dei pattern psicologici del disagio (distress) derivante dal cancro.

La seconda parte di Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici si accosta alle otto settimane della MBCT-Ca, da prima dell’inizio del corso sino a dopo la sua conclusione . Il primo capitolo delinea il metodo di reclutamento dei malati di cancro e descrive come li si prepara al corso. I capitoli successivi analizzano il programma in dettaglio, settimana per settimana, includendo vari aneddoti dei partecipanti.

Successivamente, vengono esaminate le pratiche di mindfulness contenute nel programma: il loro adattamento per i pazienti oncologici e la descrizione delle pratiche brevi impiegate e si descrivono i metodi per sostenere i partecipanti dopo il corso e il lavoro individuale per chi non sta bene. Un intero capitolo, invece è dedicato all’ intervento basato sulla mindfulness per coloro che stanno ricevendo cure palliative.

Nella terza parte di Terapia cognitiva basata sulla mindfulness per pazienti oncologici si passa all’esplorazione del ruolo dell’insegnante di un corso mindfulness – based impegnata per pazienti oncologici. Si trattano alcune difficoltà che incontra nel suo ruolo e le qualità di cui potrebbe necessitare. Si analizzano questioni relative a pratiche e intenzioni nell’insegnamento della mindfulness e si spiega l’importanza del processo di gruppo nella MBCT-Ca.

 

Ma cos’è la mindfulness ?

La parola mindfulness, traduzione inglese della parola in lingua Pali (la lingua dell’antico Canone buddista) “Sati”, significa letteralmente presenza mentale o consapevolezza. E’ una forma particolare di consapevolezza, non cognitiva, non discorsiva, un modo di essere in contatto (un contatto non filtrato da immagini mentali piene di emozioni dolorose che trasformano e appesantiscono la realtà) con ciò che accade nel momento presente, nello stesso momento in cui accade.

È la chiara e decisa consapevolezza di ciò che realmente accade a noi e in noi nei momenti successivi alla percezione. È chiamata nuda poiché riguarda solo i puri e semplici fatti della percezione, presentandosi attraverso i cinque sensi o attraverso la mente senza reagire ad essi.

Lo stato mentale della consapevolezza così intesa è lo stato naturale della mente intrinseca a noi esseri umani quando essa non è agitata dai movimenti di avversione e attaccamento, dalla proliferazione mentale, dalla confusione, dal torpore che la allontanano dalla chiara visione dell’esperienza del momento; “qualifica la mente nella sua funzione di pura conoscenza/esperienza, non orientata a scopi, il cui focus è il permettere al presente di essere com’è e di permettere a noi di essere, semplicemente, in questo presente” (Teasdale); implica il riuscire a diventare più intimi con la propria esperienza momento per momento attraverso l’esercizio sistematico dell‘osservazione (attenzione intenzionale non giudicante) di ciò che sorge fuori e dentro di sé, con una sospensione intenzionale dell’impulso a definire, valutare e giudicare l’esperienza. La mindfulness non agisce sui contenuti dolorosi, interni o esterni che siano, ma sulla relazione che con essi abbiamo.

Porta cioè a non essere più in relazione con la realtà a partire dalle nostre sensazioni, emozioni, pensieri, ma assieme a questi che diventano non tanto abiti della nostra identità, lenti che deformano il mondo con cui entriamo in contatto, ma viceversa oggetti essi stessi facenti parti di quella realtà di osservazione e di consapevolezza di una mente calma e chiara la cui funzione non è tanto quella di giudicare, opporsi, reagire, negare, deformare ma di conoscere, e dunque prima di tutto accettare, la realtà per come essa si presenta e di rispondere ad essa in modo utile e salutare per il proprio benessere.

La proposta della mindfulness dunque è di iniziare a spostare l’attenzione dall’evento percepito come doloroso allo strumento che questo evento percepisce, cioè la mente. Dalla malattia a come la mente accoglie l’esperienza della malattia, la percepisce a livello sensoriale e la interpreta a livello cognitivo e reagisce ad essa a livello emotivo.

Le pratiche mindfulness aiutano a coltivare alcune qualità mentali – pazienza, attenzione non giudicante, accettazione, curiosità, chiarezza mentale, serenità, decentramento, compassione, gioia – utili a liberare la mente stessa dalla morsa dell’avversione (che si trasforma in rabbia persecutoria o in depressione); della paura (da cui la negazione e la confusione); dell’auto-referenza (perché proprio a me…); dell’attaccamento ad una identità cristallizzata (che porta all’impossibilità di rispondere efficacemente alle richieste di cambiamento psicologico, fisico e sociale che la malattia impone).

Per chi convive con una malattia oncologica e con il suo carico di dolore, ansia e paura, mente mindful significa per esempio poter notare le sensazioni, le emozioni, i pensieri via via che sorgono senza correre in avanti saltando a piè pari in conclusioni a priori; poter fare attenzione alla qualità della sensazione dolorosa, a come pulsa, alla sua temperatura, a come si modifica, osservandola attentamente e in profondità attimo per attimo nel suo manifestarsi cosicché forse è possibile sperimentare che non è un qualcosa di enorme, fisso e spaventoso, ma un processo in continua trasformazione; significa notare la rabbia, la paura che sorge e fare esperienza di queste, di come esse si manifestano nella mente e nel corpo, non come la “mia rabbia”, “la mia paura” che porterebbe automaticamente a giudicarsi, a negarla, reprimerla o agirla contro sé o gli altri, ma come fenomeni che sorgono, occupano uno spazio temporale conoscibile attraverso le impressioni sensoriali e svaniscono.

Il legame tra musica e “pelle d’oca”: l’importanza dei fattori cognitivi

Sentendo un bel brano musicale, ad alcuni soggetti capita di sentire un brivido lungo la schiena, o la pelle d’oca lungo braccia e spalle.
Il fenomeno è chiamato “frisson“, un termine francese indicante una sensazione di “freddo artistico”, che può essere percepito come un’onda di piacere che percorre la pelle. Alcuni ricercatori lo hanno tradotto come “orgasmo della pelle”.

 

La musica che trasmette emozioni: il fenomeno del “frisson”

Sentire musica che veicola emozioni è la causa più comune del frisson, ma qualcuno sperimenta la sensazione anche osservando meravigliose opere artistiche, guardando particolari scene di film o avendo contatti fisici con un’altra persona. Gli studi hanno dimostrato che circa i due terzi della popolazione sperimenta il frisson, ed esiste addirittura una pagina web, creata dagli utenti di Reddit ( un sito di social news e intrattenimento), per condividere materiale che genera frisson.

Perché alcune persone sperimentano questa sensazione ed altre no?

Mentre alcuni scienziati stanno ancora cercando di comprendere i segreti del fenomeno, una grande parte di ricercatori, negli ultimi 50 anni, ha attribuito l’origine del frisson alla modalità con cui le persone reagiscono a livello emozionale a stimoli inaspettati nell’ambiente circostante, particolarmente alla musica.

Passaggi musicali che hanno al loro interno armonie inaspettate, cambiamenti improvvisi nel volume o un’entrata commovente di un solista, sono trigger molto comuni per la generazione del frisson, perché sconvolgono positivamente le aspettative degli ascoltatori.

Se un violino solista sta suonando un passaggio particolarmente toccante che culmina in una nota elevata, l’ascoltatore potrebbe trovare questo picco molto carico emozionalmente e sentirsi eccitato al pensiero di assistere alla riuscita esecuzione di un pezzo così difficile.

Ma la scienza sta ancora cercando di comprendere perché questa eccitazione dia vita al fenomeno della “pelle d’oca“.
Alcuni scienziati hanno suggerito che la cosiddetta “pelle d’oca” sia, in un’ottica evoluzionista, un’eredità dei nostri primi antenati, che si riscaldavano attraverso uno strato endotermico collocato subito al di sotto dei peli della pelle. L’esperienza di brividi a seguito di un cambiamento rapido della temperatura (mentre, ad esempio, erano esposti ad una brezza di freddo improvvisa in un giorno soleggiato), faceva temporaneamente “rizzare” e poi riabbassare i peli, per riportare al calore lo strato sottostante.

Quando sono stati inventati i vestiti, gli esseri umani non hanno più avuto bisogno di questo strato endotermico di calore. Tuttavia, la struttura fisiologica è ancora al suo posto e potrebbe essere stata “risintonizzata” per produrre sensazioni di brivido come reazione a stimoli che generano emozioni, come la bellezza dell’arte o della natura.

La ricerca riguardante la prevalenza del frisson ha prodotto dati molto variabili, con vari studi che indicano che una percentuale di popolazione compresa tra il 55% e l’86% sperimenta questo fenomeno.

Nello studio è stato ipotizzato che quanto più un soggetto sia immerso, a livello cognitivo, in un brano musicale, tanto più sarà probabile che egli esperisca il frisson, come risultato della maggiore attenzione allo stimolo scatenante. La seconda ipotesi è stata che il fatto che qualcuno possa farsi trasportare a livello cognitivo ed essere immerso in un brano musicale, sia un risultato della tipologia di personalità da cui è caratterizzato.

Per testare queste ipotesi, i partecipanti sono stati condotti in un laboratorio di ricerca e sono stati collegati ad uno strumento misurante la cosiddetta “galvanic skin response”, che indica quanto cambia la resistenza elettrica della pelle quando le persone vengono stimolate a livello fisiologico.
I soggetti, allora, sono stati invitati ad ascoltare diversi brani musicali, mentre gli assistenti di laboratorio monitoravano le loro risposte alla musica in tempo reale.

Alcuni esempi di brani musicali utilizzati nello studio:
– I primi 2 min. e 11 sec. di “St. John’s Passion: Parte 1 – Herr, unser Herrscher”;
– I primi 2 min. e 18 sec. del “Piano concerto n.1:II” di Chopin;
– I primi 52 sec. di “Making Love Out of Nothing at All” degli Air Supply;
.- I primi 3min. e 21 sec. di “Mythodea: Movimento 6” di Vangelis;
– I primi 2 min. di “Oogway Ascends” di Hans Zimmer.

Ciascuno di questi brani contiene almeno un momento eccitante che è conosciuto come causa di frisson negli ascoltatori (alcuni di questi sono stati utilizzati in studi precedenti). Per esempio, nel brano di Bach, nei primi 80 sec., l’orchestra genera un crescendo di tensione che è rotto dall’entrata del coro, un momento di particolare carico emotivo che generalmente elicita frisson.
Quando i partecipanti ascoltavano questi brani, gli assistenti di laboratorio chiedevano loro di riportare le loro esperienze di frisson premendo un piccolo bottone, che creava una registrazione temporale di ogni sessione di ascolto.

 

I fattori che favoriscono il fenomeno del frisson

Confrontando questi dati con le misure fisiologiche e con i test di personalità che i partecipanti avevano completato, si è potuti pervenire ad un risultato sorprendente sul fatto che il frisson potrebbe coinvolgere più spesso alcuni ascoltatori rispetto ad altri.

I risultati dei test di personalità hanno dimostrato che gli ascoltatori che esperivano il frisson, avevano anche punteggi più alti in un tratto di personalità chiamato “apertura all’esperienza”.

Alcuni studi hanno mostrato che i soggetti caratterizzati da questo tratto avrebbero spesso un’immaginazione particolarmente fervida, apprezzerebbero la bellezza e la natura, ricercherebbero nuove esperienze, rifletterebbero spesso profondamente riguardo ai propri sentimenti, e amerebbero la varietà negli eventi della vita.
Alcuni aspetti di questi tratti sarebbero inerenti alle emozioni (amare la varietà, apprezzare la bellezza, ed altri sarebbero più strettamente cognitivi (immaginazione, curiosità intellettuale).

Se alcune ricerche precedenti avevano connesso l’apertura all’esperienza col frisson, molti ricercatori avevano concluso che gli ascoltatori sperimentavano il frisson come risultato di una profonda reazione emozionale alla musica.

Al contrario, i risultati dello studio hanno mostrato che sarebbero le componenti cognitive dell’apertura all’esperienza, come fare previsioni mentali sull’andamento della musica o associare l’immaginazione alla musica (combinare, cioé, l’ascolto con i “sogni ad occhi aperti”), ad essere associate col frisson, più delle componenti emozionali.

Questi risultati, pubblicati sulla rivista “Psychology of Music“, indicano che le persone che s’immergono nella musica a livello intellettuale, potrebbero esperire il frisson più frequentemente e in maniera più intensa rispetto alle altre persone.

Il rimuginio: cura e ruolo nella sofferenza psicologica – Webinar dell’Ordine Psicologi Lombardia

Milano 20 Aprile 2017 – 20:45

Relatore: Dott. Gabriele Caselli

webinar caselli 20 aprileIl rimuginio è una forma di pensiero negativo e ripetitivo che negli ultimi decenni ha assunto un ruolo fondamentale tra i fattori psicologici, identificati come perno della sofferenza emotiva nella maggior parte dei disturbi psicologici. Rimuginare significa preoccuparsi delle cose negative che possono accadere ma anche riflettere continuamente sui propri errori, sulle cause, sulle implicazioni, su ciò che desideriamo e non abbiamo, sulle ingiustizie subite. Il rimuginio prolunga e intensifica la sofferenza psicologica, ostacola una naturale regolazione delle emozioni, specie quando i pazienti fanno fatica ad ad abbandonarlo . o quando viene ritenuto necessario e utile. La presentazione ha lo scopo di descrivere in breve definizione, meccanismi patologici e interventi che si focalizzano sul rimuginio.

Gabriele Caselli è psicologo, psicoterapeuta cognitivo comportamentale, dottore di ricerca in Psicologia Clinica. Docente e vice-direttore del corso di laurea triennale in psicologia presso la Sigmund Freud University e didatta della scuola di specializzazione post-laurea in psicoterapia cognitiva “Studi Cognitivi”. Attualmente è research fellow presso London South Bank University. È socio didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC). È autore del libro ‘Rimuginio’ e di pubblicazioni su riviste scientifiche nazionali e internazionali su metacognizione, psicopatologia e psicoterapia dei disturbi d’ansia, depressione e dipendenze patologiche.

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Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo il 20 APRILE alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

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Un altro me (2016) di Claudio Casazza – Recensione del film

Un altro me di Claudio Casazza ci conduce all’interno del carcere di Bollate nel percorso rieducativo di un gruppo di detenuti condannati per reati sessuali.

IN SALA da giovedì 13 aprile 2017

 

Un altro me (2016) di Claudio Casazza - Recensione del filmI gruppi terapeutici, le attività artistiche, i film, lo sport, il rilassamento corporeo. Un’equipe di operatori della salute mentale e di educatori. Il confronto tra le diverse figure impegnate nel progetto.

Il tema, complesso, viene trattato in modo asciutto, tondo. Cercando di conciliare tutte le istanze coinvolte.

Da un lato infatti vi è il tentativo, riuscito, di scandagliare l’umanità dei detenuti. L’umanità di soggetti nati come persone e diventati detenuti. Dall’altro, il film Un altro me non nasconde la verità.

 

Un altro me: la riabilitazione nei reati sessuali

I reati sessuali, gravissimi per la profondità degli sconvolgimenti generati nelle vite delle vittime, ricevono uno stigma sociale per molti aspetti inevitabile. Giustificato, pure.

Nessuno vuole avere a che fare con individui così pericolosi, colpevoli di azioni lecitamente associabili all’idea di un’intrinseca malvagità. E’ qui che il progetto di recupero, e il film Un altro me nel mostrarlo, colgono nel segno. La riabilitazione terapeutica dei detenuti deve passare da una riabilitazione morale che può avvenire solo attraverso l’espiazione emotiva.

Gli operatori lavorano con loro sulla necessità di far emergere una consapevolezza del male compiuto, superando le resistenze che il carnefice frappone tra sé e la constatazione empatica del dramma. Il carcere non emette giudizi universali ma applica sentenze. Le sentenze cercano di tradurre in linguaggi universali il bisogno di giustizia.

Molto interessante, non solo per gli addetti ai lavori, l’onestà con cui i terapeuti si rapportano ai detenuti, senza temere l’impatto della verità e anzi ricercandolo, nella convinzione che il carcere, contenendo fisicamente le pulsioni devianti, sia un contesto adatto a tale scivolosa operazione.

Lo sguardo del film Un altro me è davvero senza giudizio e lucido al contempo nel chiarire cos’è la devianza, per quanto grave. Impossibile perdonare se il perdono è revisionismo ideologico, proviamo invece a promuovere un diverso incontro di questi uomini con se stessi, plasmati nella mentalità che li porta a trasformare l’irresponsabilità di una “puttanella da discoteca” nel diritto maschile di imporre sesso. Se questo è il presupposto tutto il resto scorre naturale.

La fatica dei detenuti nel trovare respiri più ampi ai loro pensieri e ancor più nel contattare l’emozione che anche dentro di loro procede ferita, i dubbi dei terapeuti sull’esistenza di reali margini di cambiamento, lo spettro che una volta fuori di lì potrebbe ripresentarsi con la stessa fame.

La verità è che uno stupro cambia la vita per sempre. La vita di chi lo subisce. Nessun dubbio, nessuna ambiguità, la lettera di una vittima che confluisce come un rivolo implacabile nell’immagine sfuocata dei detenuti senza parole, uno incrocia le gambe, l’altro inizia a grattarsi la testa, nessuno mantiene la spocchia del carnefice. La verità. Iniziando a guardarla per la prima volta ciascuno di loro reagisce con le proprie corde. Il cambiamento non può essere per finta e non può essere così grande, non stiamo dentro un film.

Nel carcere le persone hanno strumenti di sopravvivenza, gli stessi che utilizzati fuori li hanno condotti dentro. Molestare donne era l’unica valvola di sfogo, forse l’unica competenza relazionale e pensarlo è tanto mostruoso quanto vitale per poter costruire una speranza futuribile.

Cambiare significa accorgersi che l’assoluzione data dalla propria famiglia è una bestialità, che tua moglie ti vuole in carcere perché ti ama e almeno ti fermano, che la vittima portata al gruppo a raccontare l’esperienza che l’ha rovinata è un plotone di esecuzione, e davanti a lei sei nudo come un verme. Stavolta per davvero. E può anche accadere che la psicologa non ne possa più, quando fissi le tirocinanti con gli occhi della belva. Non ne possiamo più. Un giorno forse uniti, vittime ed ex carnefici. Ma senza ambiguità.

 

UN ALTRO ME – IL TRAILER DEL FILM DOCUMENTARIO:

 

Ageing in place: invecchiare bene a casa propria

Si diffonde sempre più in Europa il concetto di “ageing in place” definita come la possibilità per una persona di vivere nel luogo che ha scelto – casa propria, nella sua comunità – in modo sicuro, indipendente e confortevole indipendentemente dall’età, dal reddito o dalle proprie capacità (Hooyman & Kiyak, 2011). Questa scelta di vita è molto apprezzata dalle persone anziane in quanto consente loro di mantenere la propria indipendenza e la possibilità di vivere circondati da famigliari e amici. Preservare la propria autonomia vuol dire possedere il controllo decisionale e di scelta nel determinare la propria vita.

 

Ageing in place: i vantaggi dell’assistenza in casa dell’anziano

Dalla prospettiva dei responsabili politici, l’assistenza istituzionale è molto più costosa rispetto all’assistenza in comunità e in casa della persona anziana (Chappell et al 2004). Le elevate spese pubbliche relative all’assistenza residenziale hanno quindi spinto gli agenti politici e i professionisti a pensare ad alternative che consentano di aiutare gli anziani fragili nelle loro abitazioni e nelle loro comunità.

Il termine “place”, infatti, non si riferisce soltanto all’abitazione fisica dell’anziano ma anche alla sua comunità, che si concretizza nei membri della famiglia, i vicini, la chiesa e i diversi servizi disponibili sul territorio. Non sorprende che molte società abbiano approvato politiche per dare priorità ai servizi community- based, fornendo così nuove opzioni per quelle persone anziane che abbiano bisogno di assistenza ma non si sentano pronte a trasferirsi in una residenza assistenziale.

Secondo diversi studi, si possono generare effetti positivi sulla persona attraverso piccole modifiche ambientali (Lawton, 1998), ciò consente un miglioramento nell’adattamento persona- ambiente e un conseguente miglioramento delle condizioni generali di vita. Lawton sottolinea l’importanza dell’interazione tra le abilità personali e l’ambiente fisico domestico sul benessere delle persone anziane, mostrando come piccoli cambiamenti realizzabili nella propria abitazione (come rimuovere gli ostacoli e introdurre degli aiuti per la mobilità) possano migliorare i livelli di autonomia.

Gli studi sul tema dell’ageing in place spesso si riferiscono alla possibilità di rendere la propria casa più funzionale e meno rischiosa, fornendo aiuti per facilitare lo svolgimento dei compiti della vita quotidiana. L’idea alla base è che la persona anziana possa vivere nella propria abitazione in sicurezza finchè i diversi servizi e supporti lo consentano.

Lau e colleghi (2007) hanno individuato una serie di caratteristiche importanti per vivere e invecchiare nel luogo scelto in sicurezza, tra queste: le caratteristiche biologiche e psicologiche, la rete di supporto sociale, i servizi formali, i servizi assistenziali, la struttura dell’abitazione e del vicinato.

Questo ed altri contributi teorici riconoscono chiaramente che le varie strategie di ageing in place dovrebbero tenere in considerazione non solo l’ambiente personale (micro) della persona, ma anche la comunità e le diverse componenti strutturali (Oswald et al., 2011).

Le allucinazioni: le cause, le tipologie e il trattamento – Introduzione alla Psicologia

Le allucinazioni consistono in un fenomeno psichico in cui si percepisce come reale qualcosa che in realtà è solo immaginato. L’allucinazione in psicopatologia spesso è definita come “percezione senza l’oggetto”. Chiaramente, malgrado manchi la stimolazione sensoriale, in realtà il cervello produce una risposta a uno stimolo sensoriale esternamente inesistente. Nel caso di un’allucinazione visiva, ad esempio, si riscontra la presenza di un’immagine sovrapposta allo sfondo reale esistente, e poiché questo meccanismo è inconsapevole, il soggetto non ha motivo di non credere che sia reale, quindi la percezione è considerata vera.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

 

Le allucinazioni si possono manifestare secondo ognuna delle modalità sensoriali, in particolare si hanno allucinazioni visive, uditive, gustative, olfattive e tattili e fenomeni allucinatori cenestesici, enterocettivi e protopatici.

 

Allucinazione: etimologia

Il termine allucinazione deriva dal latino hallucinere o allucinere, che significa “vagare nella mente”. Essa potrebbe essere ricondotta anche al greco ἁλύσκειν (haluskein), che significa “scappare”, “evitare”, riferendosi alla diffusa definizione di allucinazione come fuga dalla realtà.

In psicopatologia le allucinazioni sono annoverate tra i disturbi della percezione e sono diverse dalle allucinosi, percezione allucinatoria di cui è riconosciuta la natura patologica, e dalle illusioni, distorsione di una percezione sensoriale, causata dal modo in cui il cervello organizza e interpreta le informazioni ricevute.
Nell’allucinazione, dunque, si rileva uno stimolo esterno che non esiste, per esempio una persona vede qualcuno, senza che vi sia uno stimolo visivo in atto.

Le allucinazioni derivano solitamente da una condizione medica generale o da assunzione di sostanza come l’alcool o particolari droghe.

 

Storia degli studi sulle allucinazioni

I Disturbi allucinatori furono studiati e descritti fin dall’età classica, ma solo nel 1574 Fernel usò, per la prima volta, il termine allucinazione, per definire delle affezioni oculari. Successivamente, nel 1817, Esquirol definì l’allucinazione come la convinzione intima di una sensazione attualmente percepita mentre nessun oggetto esteriore adeguato a eccitare questa sensazione è alla portata dei suoi sensi. Caratteristica peculiare dell’allucinazione è la certezza, da parte del soggetto, della veridicità della percezione.

Un contributo decisivo allo studio dell’allucinazione è stato fornito dall’impiego di droghe come la mescalina, l’LSD o il dietilammide dell’acido lisergico e la psilocibina, che sono capaci di generare disturbi psicosensoriali soprattutto legati alla sfera visiva.

L’allucinazione, dunque, deriverebbe da un’intensificazione dell’immagine in aggiunta a un’eccitazione degli organi sensoriali imputati alla ricezione della stessa, ma l’esatto meccanismo fisiologico sottostante rimane ancora non chiaro.
Spesso, l’allucinazione è accompagnata dal delirio che è fondamentale nel determinare forma e tipo di allucinazione, ad esempio il paranoide tende ad avere allucinazioni visive nelle quali sente di essere minacciato, il mistico crede di udire voci da parte di santi o ha visioni del paradiso e dell’inferno o di Gesù Cristo.

 

Prevalenza e cause delle allucinazioni

Le allucinazioni si manifestano nel 10-27% della popolazione generale in assenza di una condizione medica generale o di assunzione di sostanze stupefacenti.

Le allucinazioni possono verificarsi anche in presenza di una condizione medica generale, con malattie psichiatriche e neurologiche. Inoltre possono essere causate dall’assunzione di sostanze stupefacenti o da farmaci. Si riconoscono anche fenomeni allucinatori non patologici in presenza di deprivazione da sonno o di disturbo post traumatico da stress.

 

Come si formano le allucinazioni

Le teorie sulla genesi delle allucinazioni sono numerose e derivano dall’osservazione di quanto avviene nel corso di patologie neurologiche.

Quindi, da un punto di vista biologico si ha un’ irritazione che si traduce in iper-funzionamento di alcune zone del cervello che provocherebbero una interpretazione non veritiera di una serie di stimoli sensoriali.

Invece, le allucinazioni presenti in soggetti in stato confusionale, per esempio da astinenza acuta da alcol o droghe, sono causate da un’alterazione diffusa dell’attività elettrica dell’intero encefalo.

Esiste, anche, una ipotesi dopaminergica nella schizofrenia, in cui le allucinazioni deriverebbero da un iperfunzionamento delle vie mesolimbiche.

In condizioni di deprivazione sensoriale, al contrario, le allucinazioni costituiscono una difesa dell’organismo in carenza di stimoli, poiché il cervello lavora sempre e, non potendo spegnersi, genera false percezioni.

Secondo la psicoanalisi le allucinazioni sono manifestazioni dell’inconscio, i cui contenuti arrivano alla coscienza distorti.

Nell’Interpretazione dei sogni (1900) S. Freud sostiene che le allucinazioni rappresentino delle regressioni, al punto che i pensieri sono trasformati in immagini, in suoni e sono collegate a un ricordo della prima infanzia represso e rimasto inconscio. Freud lega, inoltre, l’allucinazione ai sogni, analogia resa evidente dall’uso di meccanismi analoghi durante i due processi.

Secondo Bion, l’allucinazione è un sintomo caratteristico dei processi psicotici, e consiste nella manifestazione all’esterno di elementi scissi della personalità, che si verificano attraverso gli organi di senso. Questi elementi scissi o frammenti provengono da un livello mentale primitivo ed è come se cercassero una loro collocazione nella realtà esterna all’interno di un oggetto che possa accoglierli e proteggerli.

 

I diversi tipi di allucinazioni

Le allucinazioni possono essere distinte in semplici e complesse. Si definisce allucinazione semplice quella in cui è presente una singola modalità sensoriale e la percezione non richiede un’elaborazione cognitiva per essere decodificata; nell’allucinazione complessa si attivano, invece, diverse modalità sensoriali e, a loro volta, sono codificate in aree cerebrali differenti.

Esistono, inoltre, allucinazioni:

– ipnagogiche ed ipnopompiche, sono le allucinazioni che si verificano quando la persona è sul punto di addormentarsi o di risvegliarsi.

– negativa, si verifica nel momento in cui un oggetto reale non è percepito dal soggetto allucinato in assenza di lesioni a carico dell’apparato visivo o uditivo.

– visive, si presentano sotto forma di fenomeni elementari, fotopsie o fosfeni, o complessi, con caratteristiche di spazialità e di chiarezza, identiche a quelle che si riscontrano nelle normali percezioni visive. Rientrano in questa area le micropsie, le macropsie, le zoopsie del delirium tremens, le allucinazioni extracampali, che si realizzano al di fuori del campo visivo, e di fenomeni autoscopici.

– uditive o acustiche, sono le più frequenti, e si distinguono in elementari, ronzii, rumori, ecc., e complesse, voci, queste ultime, rappresentano il più frequente disturbo psicosensoriale e possono essere presenti in disturbi psichici come la schizofrenia.

– olfattive e gustative, si presentano associate ad altre forme di allucinazioni e hanno contenuto generalmente sgradevole.

– cenestesiche, si tratta della percezione della alterazione della normale consistenza dei visceri, della loro funzione o della loro invasione da parte di corpi estranei o animali.

 

Diagnosi differenziale dei sintomi delle allucinazioni

Le allucinazioni si riscontrano tipicamente in presenza di patologia mentale causata da malattie neurologiche e psichiatriche, come demenze (senili e precoci), schizofrenia e delirium tremens (in caso di alcolismo cronico).
Inoltre, è possibile possano verificarsi allucinazioni in casi di assunzione di sostanze allucinogene o alcool.
I sintomi e i segni di accompagnamento alle allucinazioni informano e sono importanti per determinare l’origine di tali manifestazioni.

 

Terapia delle allucinazioni

Il trattamento principale per la cura delle allucinazioni è la farmacoterapia con farmaci antipsicotici adatti al tipo di problema psichico specifico presentato dal paziente.

L’efficacia della farmacoterapia aumenta se ad essa vengono affiancati altri tipi di trattamento, tipo la psicoterapia di sostegno, che aiuta il paziente ad accettare e tollerare il disturbo e a gestire la vita quotidiana.

Se si fosse verificato un danno a carico delle funzioni cognitive sarebbe possibile utilizzare la cognitive remediation, programma finalizzato all’allenamento di specifiche funzioni cognitive.

Inoltre, la terapia cognitivo-comportamentale aiuta nella riduzione e gestione del sintomo, ovvero riconoscimento dell’allucinazione, distanziamento critico e padroneggiamento da parte del paziente. Si ottiene in questo modo una maggiore consapevolezza del disturbo che favorisce l’attuazione della terapia farmacologica. Inoltre, è utile anche potenziare le abilità metacognitive del paziente e incrementare le abilità sociali, mediante i social skill training.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Scadenze più lunghe, fanno donare alle persone più soldi!

In questo studio, i ricercatori hanno osservato come le differenti scadenze non avessero effetti sul numero delle donazioni. Non importava il termine, la maggior parte delle donazioni sono sopraggiunte entro i primi due o tre giorni dall’invio della mail e dell’sms.

 

Fare pressioni per le donazioni non convince la gente a donare

Se fai una donazione entro tre giorni, un contributore anonimo donerà ulteriori 10 DKK!” (10 corone danesi = 1.35 euro). Questo è stato il messaggio che i ricercatori del Dipartimento di Economia e Commercio presso l’Università di Aarhus (Danimarca) hanno inviato tramite email e sms a circa 53mila Danesi già donatori a nome dell’associazione benefica contro la povertà nel mondo “DanChurchAid”.

La scadenza fornita per attivare la donazione supplementare da parte del contributore anonimo variava. Per un gruppo di destinatari di mail la scadenza era di 3 giorni. Per un secondo gruppo era di 10 giorni e ad un terzo gruppo è stato dato tempo fino al primo giorno del mese successivo. Per i destinatari degli sms la scadenza fornita era leggermente più ravvicinata.

I risultati hanno evidenziato che le donazioni aumentavano quando la scadenza fornita era più in là nel tempo.

Le persone non amano pressioni quando devono fare delle donazioni benefiche!

Sappiamo da altri studi che le persone non amano avvertire pressioni quando donano soldi, pertanto abbiamo interpretato i risultati con il fatto che pressare qualcuno con una scadenza breve, crea una sorta di mentalità dare-avere nel destinatario: “Va bene, sono d’accordo nel donare in fretta, ma non stai ricevendo tanto!”. Così ha spiegato Mette Trier Damgaard del Dipartimento di Economia e Commercio alla Aarhus University, co-autore dello studio in collaborazione con Christina Gravert dell’Università di Gothenburg (Svezia). La ricerca è stata pubblicata sul Journal of Behavioral and Experimental Economics.

 

Le scadenze non hanno un effetto in sé e per sé

Secondo la teoria delle scadenze e la tendenza delle persone a posporre le azioni ad un momento successivo (procrastinazione), il numero di donazioni dovrebbe aumentare in modo significativo appena prima della scadenza fornita. Tuttavia, in questo studio, i ricercatori hanno osservato come le differenti scadenze non avessero effetti sul numero delle donazioni. Non importava il termine, la maggior parte delle donazioni sono sopraggiunte entro i primi due o tre giorni dall’invio della mail e dell’sms. Mette Trier Damgaard ha definito questo fenomeno “effetto ora o mai più” e ha indicato due possibili spiegazioni: “I destinatari potrebbero essere stati consapevoli del fatto che se non avessero donato subito, si sarebbero dimenticati di farlo. Oppure potrebbero aver donato prontamente per evitare di ricevere ulteriori richieste di donazione”.

 

Mettere delle scadenze ha senso?

Questo studio contiene interessanti spunti per le associazioni benefiche di tutto il mondo. Solo in Danimarca, vengono donati 2 bilioni di corone danesi ogni anno (circa 270 miliardi di euro). Tuttavia, i ricercatori sono riluttanti nel trarre qualsiasi conclusione nel rispetto delle altre industrie, poiché in molte altre situazioni, le scadenze possono avere un effetto positivo nel prevenire la procrastinazione delle persone. “Con il nostro studio, possiamo fornire un’immagine più sfaccettata e migliore nella comprensione di dove, quando e come le scadenze funzionano” ha affermato Mette Trier Damgaard.

Born Risky: capire chi siamo, fregandosene del resto

Born Risky è un mini progetto diretto ad esplorare le vite di alcune persone che hanno sfidato gli stereotipi tradizionali riguardanti genere e identità e, attraverso i loro vissuti, hanno aperto la strada alle nuove generazioni.

 

A dispetto dell’Italia dove si sente ancora spesso parlare di una presunta “teoria gender”, in altri paesi si è aperto già da tempo il dibattito sui rapidi cambiamenti e l’evoluzione, sia in campo sociologico che biologico, delle nozioni riguardanti genere, sesso e identità.

Oggi abbiamo deciso di introdurvi la nuova serie dell’artista britannico Grayson Perry il quale, dagli anni 2000, ha iniziato a collaborare con il canale televisivo Channel 4 per la realizzazione di documentari che focalizzano l’attenzione sul concetto di mascolinità nel 21esimo secolo.

Born Risky è un mini progetto diretto ad esplorare le vite di alcune persone che hanno sfidato gli stereotipi tradizionali riguardanti genere e identità e, attraverso i loro vissuti, hanno aperto la strada alle nuove generazioni.

Protagonista del primo episodio è proprio l’artista Grayson Perry – famoso per le sue ceramiche ma anche per il suo crossdressing (v. nota a fine articolo) – il quale ci introduce all’interno del suo personale percorso nello sviluppo della sua identità di “uomo cui piace indossare vestiti da donna”.

 

Born Risky capire chi siamo fregandosene del resto 1

Perry Grayson: protagonista del primo episodio, nonché creatore della serie Born Risky

 

Perry non ha mai avuto alcun dubbio riguardo la sua identità di uomo cisgender (v. nota a fine articolo) ed ha sempre trovato offensivo quando ingenuamente la gente intorno a lui diceva “tu sì che capisci cosa vuol dire essere donna!”; piuttosto, come lo stesso afferma: “se ho imparato qualcosa dall’essere un travestito è la consapevolezza di cosa vuol dire essere un uomo”. Nonostante l’artista ammetta di aver provato in giovane età ansia e paura riguardo alla possibilità che una parte di lui volesse essere una donna, questi dubbi si sono chiariti quando i media hanno iniziato a riportare le prime storie di transessuali, capendo che quello che amava era “il suo corpo in un vestito”. L’idea che il cross-dressing sia legato al mondo omosessuale e al mondo trans è molto diffusa; tuttavia erronea. Infatti, sebbene alcune persone transessuali possano attraversare un iniziale periodo di cross-dressing, essa è soltanto una fase di sperimentazione cui seguirà il desiderio di un cambiamento anche nel fisico.

Nel secondo episodio Perry ci introduce EJ, uomo trans esperto in storia della moda; insieme essi discutono di come il modo di mostrarsi esteriormente al mondo si riallacci alla costruzione della nostra identità.

 

Born Risky capire chi siamo fregandosene del resto 2

EJ: protagonista del secondo episodio di Born Risky

 

Parlando della sua vita e di come ha capito che il suo rifiuto per certi abiti femminili fosse qualcosa di più profondo e interconnesso alla costruzione della sua identità di genere, EJ esprime i suoi dubbi al riguardo: “il solo pensiero di indossare vestiti femminili mi pietrifica […], mi chiedo se non sia io stesso a perpetuare stereotipi maschili?”.

In realtà, le paure di EJ sono da ricollegare alla percezione che gli altri hanno di noi e della nostra identità; la nostra società ha regole ben precise quando si tratta del genere e della sua esteriorizzazione, chi le infrange molto spesso viene considerato “anormale” e questo è particolarmente vero se si tratta di un uomo. Basti pensare come anche elementi marginali, quali gioielli o un trucco leggero, possano suscitare reazioni ,a volte anche violente.

Ed è Tina l’alter ego di Geoff, protagonista della terza puntata, che ci racconta quanto un uomo con i tacchi sia a rischio di abuso e violenze; ecco perché ha deciso di aprire il Tina’s Hotel che, a suo dire, è “un luogo di ritrovo per chi ancora non ha il coraggio di uscire in pubblico; qui possono incontrare altri crossdresser e vestirsi in privato”.

 

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Geoff: protagonista del terzo episodio di Born Risky

 

Infatti, molte delle persone che frequentano l’hotel sono state respinte e rifiutate dalla famiglia e dagli amici e, anche per questo, si sentono in grado di “travestirsi” solo nella sicurezza della loro camera da letto.

Ma l’hotel di Tina non è soltanto un rifugio; ritrovarsi insieme nell’affrontare lo stesso stigma e le stesse difficoltà è un modo per guadagnare fiducia in se stessi all’interno di un ambiente non giudicante. Secondo Geoff, che solo dopo il divorzio ha trovato il coraggio di sviluppare il suo alter ego, le persone “hanno bisogno di qualcuno che le prenda per mano, qualcuno che sia abbastanza sicuro da trasmettere questa sicurezza […] Tina è il mio lascito”.

Infine, nel quarto ed ultimo episodio incontriamo Tschan, una giovane modella trans che ritorna nel suo quartiere d’origine, Brixton.

 

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Tschan: protagonista del quarto episodio di Born Risky

 

La giovane racconta di come veniva bullizzata: “Ogni giorno cercavo di trovare strade diverse per andare a scuola, cercavo di evitare quei gruppi che mi avrebbero potuto aspettare alla fermata del bus”. Tschan ricorda come all’interno della sua comunità d’origine, qualsiasi cosa al di fuori della norma non venisse accettata, “anche essere gay”; allo stesso tempo, il suo aspetto femminile la esponeva allo sguardo predatore di uomini adulti. Adesso Tschan è una donna adulta e realizzata; le attenzioni che riceve tramite il suo lavoro da modella sono ben accette e non ha più paura di camminare per quelle stesse strade: il suo motto, infatti, è “sono Tschan, ed è necessario che tu lo rispetta”.

A cura di Lorena Lo Bianco

 

Per guardare le puntate seguire il link Grayson Perry: Born Risky

 

  • Il termine crossdressing denota l’atto o l’abitudine di indossare alternativamente vestiti comunemente associati in un determinato ambito socio-culturale al ruolo di genere opposto al proprio, pubblicamente e/o in privato, per molteplici motivi, non esclusi quelli ludici. La persona che fa uso di crossdressing è chiamata crossdresser. Il termine è corrispondente all’italiano travestitismo, e chi ne fa uso travestito, e non denota necessariamente l’identità di genere o l’orientamento sessuale, e quindi non è sinonimo di omosessuale, transessuale, transgender, né dà indicazioni di sorta sulle preferenze sessuali.
  • Cisgender è un neologismo che significa “qualcuno a proprio agio con il genere che gli è stato assegnato alla nascita”

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Interazione geni-ambiente ed esordio psicotico, un focus sull’esperienza migratoria

Uno dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (e.g. Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005; McGrath et al. 2004). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011), risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana (Morgan, 2006; Cantor-Grae, 2005).

Ornella Lastrina, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

Interazione geni-ambiente nell’esordio della psicosi

Negli ultimi anni, diversi studi hanno messo in evidenza come, non solo i fattori genetici, ma anche i fattori socio-ambientali, abbiano un ruolo fondamentale nel determinare l’insorgenza delle psicosi (e.g. Bredy, 2007; Akdeniz & Meyer-Lindenberg, 2014). Una spiegazione di tipo solo biologico-genetico sembra, infatti, essere riduttiva per comprendere l’insorgenza del disturbo psicotico (Van Os et al., 2008).  Sempre maggior importanza acquisiscono gli studi di tipo epigenetico che hanno l’obiettivo di far luce sulle interazioni geni-ambiente coinvolte nell’eziopatogenesi delle psicosi.

Per epigenetica si intende, secondo la prima definizione di Waddington (1942): “le interazioni dei geni con il loro ambiente che danno vita al fenotipo.” E’ proprio attraverso i meccanismi di tipo epigenetico che si esplica, dunque, il ruolo dei fattori di tipo socio-ambientale coinvolti nella comparsa dei disturbi psicotici (Rutten et al., 2009; Pishva, 2014). Un cambio di direzione si è verificato, inoltre, nel considerare i disturbi dello spettro psicotico attraverso un approccio dimensionale piuttosto che categoriale. Alla luce delle ultime evidenze scientifiche, Jim Van Os ha introdotto, infatti, il concetto di “sindrome psicotica multidimensionale complessa” sostenendo l’esistenza di un continuum sintomatologico tra soggetti della popolazione generale e casi clinici di psicosi. In quest’ottica, diventa fondamentale considerare i fattori di rischio che in interazione con la predisposizione genetica possono trasformare le esperienze psicotiche sottosoglia, in psicosi conclamata (Van Os, 2008). Un’attenzione specifica ai fattori di rischio e alle prime manifestazioni psicotiche consentono, infatti, oltre che di comprendere meglio l’eziopatogenesi delle psicosi, anche di poter intervenire precocemente e di favorire una migliore prognosi.

Come messo in luce da McGrath (2006), per molti anni si è consolidata nella comunità scientifica la credenza che l’incidenza della schizofrenia avesse una scarsa variabilità e che il disturbo potesse interessare tutti, a prescindere da sesso, etnia e altre condizioni socio-ambientali. Queste credenze sono state smentite, negli ultimi anni, da un sempre più corposo numero di evidenze scientifiche che mostrano invece come la comparsa del disturbo sia correlata ad alcuni specifici fattori di rischio. Alcuni dei fattori evidenziati dalle ricerche scientifiche sono: l’appartenenza ad una minoranza etnica, l’esperienza di abuso in età infantile, l’essere di sesso maschile, essere disoccupati, fare uso di cannabis e vivere in un’area urbana (Driessen et al.1998; Verdoux et al. 1998; Agerbo et al. 2004; McGrath et al. 2004; Di Forti et al., 2009).

 

La migrazione come fattore di rischio della psicosi

Un altro dei fattori che viene frequentemente riportato in letteratura, come fattore di rischio per l’insorgenza delle psicosi è la migrazione (e.g. Bhugra et al. 2004; Cantor-Grae et al. 2005; McGrath et al. 2004). Nella comunità sud-asiatica presente in Gran Bretagna, per esempio, è stato riscontrato un maggior tasso di incidenza di psicosi rispetto alla popolazione nativa (Bourque et al., 2011), risultati simili sono stati rilevati nella minoranza etnica caraibico-africana (Morgan, 2006; Cantor-Grae, 2005).

Anche in Olanda una maggiore incidenza di disturbi psicotici è stata evidenziata tra persone immigrate, di origine surinamese, danese e marocchina (Selten et al., 2001). Un maggior rischio di sviluppare psicosi è stato anche rilevato nelle popolazioni migranti presenti in Danimarca, in particolare tra i migranti provenienti da Australia, Africa e Groenlandia (Cantor-Grae et al.; 2003). Lo studio di Zolkowska e colleghi (2001) riporta che i migranti in Svezia presentano un maggior rischio di sviluppare disturbi dello spettro psicotico rispetto alla popolazione nativa. Questi dati epidemiologici hanno sollecitato l’interesse e l’attenzione della comunità scientifica. I dati di maggiore incidenza di psicosi in popolazioni migranti hanno aperto, inoltre, una nuova strada di comprensione dell’eziologia della psicosi, offrendo l’opportunità di indagare fattori di rischio propriamente socio-ambientali e come questi interagiscono con la vulnerabilità genetica.

Il fenomeno migratorio si configura come un fenomeno complesso ed eterogeneo, le motivazioni che sottendono, infatti, la scelta di migrare verso un altro Paese sono molteplici e anche molto diverse tra loro: si può emigrare per motivazioni economiche, per motivazioni di tipo religioso e/o politico, perché perseguitati nel Paese di origine o perché si scappa da situazioni di conflitto. La migrazione può avvenire in condizioni spesso precarie e di pericolo, il viaggio può essere intrapreso in modo individuale o con altri familiari. I motivi che inducono alla partenza, le aspettative rispetto alla nuova condizione nel Paese di destinazione e la modalità con cui avviene il viaggio, influiscono sul modo in cui viene percepita l’intera esperienza migratoria e dunque sul livello di stress esperito, rendendo l’individuo più o meno predisposto a sviluppare disturbi psicologici (Bhugra, 2000).

Sia la fase della migrazione, che quella post-migrazione sono caratterizzate da molteplici avversità e spesso anche da esperienze di tipo traumatico (Fearon et al., 2006). La migrazione si configura, infatti, come un evento particolarmente stressante nella vita di un individuo: essa implica il distacco da amici, familiari e da tutto il contesto in cui si è vissuto per anni, per approdare, poi, in un ambiente completamente nuovo che pone il soggetto di fronte a continue sfide e sollecitazioni. La migrazione verso un nuovo paese implica la ridefinizione del proprio progetto di vita (Cimino, 2015). Di uguale importanza e complessità sono, infatti, le difficoltà che presenta la fase post- migrazione: il migrante si trova a dover affrontare diversità linguistiche, religiose, diversi usi e costumi della comunità ospitante e la necessità di ricostruire una solida rete di relazioni sociali. In questa fase così complessa, l’accettazione da parte della comunità ospitante e il processo di integrazione sono, inoltre, fondamentali, e se vengono a mancare, contribuiscono a creare ulteriori difficoltà (Bhugra, 2000). La discrepanza tra aspettative e realizzazione, le difficoltà economiche, le condizioni abitative spesso precarie e la mancanza di opportunità lavorative sono alcuni dei fattori che rendono la fase successiva alla migrazione particolarmente stressante e difficoltosa (e.g., Bhugra, 2005).

In questa fase di ridefinizione e adattamento alcuni fattori sono protettivi e funzionali a facilitare il benessere dell’individuo nel paese ospitante. Tra questi, il supporto sociale è stato evidenziato come una buona risorsa di coping per affrontare le difficoltà della migrazione. Coloro che hanno, infatti, una buona rete di relazioni e supporto sociale presentano una migliore condizione psico-fisica e vivono più a lungo (Holt-Lunstad et al. 2008). Come riportato dalla revisione sistematica di Anderson e Morgan (2013), molti studi hanno indagato la riduzione delle relazioni sociali e del supporto sociale, di pazienti con psicosi, ma poche ricerche hanno, analizzato il supporto sociale e la quantità di relazioni sociali, nella fase precedente l’esordio psicotico.

Alcuni studi hanno mostrato, invece, un impoverimento delle relazioni sociali precedentemente al primo contatto con i servizi clinici, nello stesso periodo corrispondente al periodo di psicosi non trattata (Thorup et al. 2006; Jeppesen at al. 2008). Il supporto sociale è stato inoltre indagato in soggetti appartenenti a diverse etnie e a gruppi di minoranza etnica. Das Munshi e colleghi (2012) hanno registrato che, su un campione di 4281 soggetti, considerando i soggetti appartenenti a minoranze etniche, coloro che percepivano un maggior supporto sociale avevano anche minore probabilità di riportare esperienze psicotiche. Il modo di percepire il supporto sociale sembra, inoltre, essere influenzato dai valori culturali propri dell’ etnia di appartenenza. In uno studio di Lee e colleghi (2012), si è registrato che in un campione di soggetti immigrati a New York, di origine cinese, coloro che avevano mantenuto i valori propri della cultura cinese, riportavano di percepire un maggior supporto sociale e mostravano, inoltre, migliori capacità di coping dello stress.

In linea con queste evidenze, l’ipotesi della densità etnica sostiene che nelle aree in cui la densità di persone appartenenti ad una stessa etnia è più alta, vi è una minore probabilità di sviluppare disturbi psicologici (Boydell et al. 2001, Kirkbride et al. 2008 e Veiling et al., 2009). La possibilità, infatti, di vivere a contatto con persone che condividono uno stesso background culturale e dunque la stessa lingua, stessi usi e costumi, consente di poter avere una buona rete di supporto e di aiuto e permette dunque di ridurre le difficoltà che il migrante deve affrontare nella fase di adattamento.

Spesso, questa rete sociale è fondamentale per ottenere informazioni sugli iter burocratici da effettuare per ottenere i documenti, come trovare un alloggio, come iscrivere a scuola i bambini, oltre che fornire un supporto e sostegno morale che facilita notevolmente un buon inserimento della persona nella comunità. A conferma di quanto teorizzato dall’ipotesi di densità etnica, anche i dati relativi ai tassi di suicidio hanno una correlazione con la densità etnica dell’area in cui si vive. Un esempio è dato dalla comunità marocchina presente in Belgio che registra un’alta densità etnica nell’area metropolitana e una buona coesione sociale, riportando un tasso di suicidi più basso, rispetto ad aree con densità etnica inferiore (Fossion, 2004).

Le evidenze scientifiche sopra elencate rendono ben chiaro come la migrazione sia un’esperienza complessa che comporta un notevole carico di difficoltà per chi la vive; le teorie che hanno tentato di far luce su come essa possa essere un fattore di rischio per l’insorgenza di psicosi sono molteplici e a volte contrastanti.

Una delle teorie proposte è quella di Selten e Cantor-Grae (2005): i ricercatori hanno ipotizzato che l’esperienza di svantaggio sociale sia uno dei fattori esplicativi degli alti tassi di psicosi presso le popolazioni migranti. Lo svantaggio sociale viene inteso come una posizione di subordinazione e di emarginazione rispetto al contesto sociale in cui l’individuo è inserito. E’ fondamentale considerare, però, il modo in cui l’individuo percepisce la sua condizione di emarginazione e isolamento (Selten et al., 2013) perché è infatti, il modo in cui egli considera e percepisce questa condizione, uno dei fattori che andrà poi a influire sul suo benessere e potrà elicitare la comparsa di psicosi.

L’ipotesi dello svantaggio sociale si contrappone all’ipotesi della migrazione selettiva dello psichiatra norvegese Odegard, (1932), questa è una delle prime teorie che ha tentato di dare una spiegazione dei più alti tassi di psicosi presso le popolazioni migranti, in particolare negli Stati Uniti. La teoria della migrazione selettiva, nell’ottica di un modello di “selezione negativa” postulava che: coloro che intraprendevano un percorso migratorio erano accomunati da alcune caratteristiche quali, scarsa integrazione sociale nel paese di origine, debolezza psico-fisica e problematiche familiari, queste caratteristiche favorivano disturbi latenti che si sarebbero poi rivelati nel paese d’accoglienza.

Tale teoria è stata però ampiamente smentita (e.g. Rosenthal et al. 1974; Selten et al. 2002; Lundberg et al. 2007; van der Ven, 2014), e contrapposta ad un modello di “selezione positiva” che indica come la migrazione sia intrapresa, invece, da soggetti particolarmente sani e in grado di affrontare con successo, il difficile percorso della migrazione. Le ricerche più recenti evidenziano, tuttavia, che i fattori motivanti la scelta migratoria, sono fattori contingenti, piuttosto che fattori individuali, quali guerre, violenze, persecuzioni, crisi sociali ed economiche. Il cosiddetto “effetto migrante sano”, ovvero una preselezione di individui particolarmente dotati di risorse, rimane valido solo per alcuni percorsi di migrazione: quando questa è cioè una scelta ponderata e autonoma che implica una valutazione dei costi che l’esperienza migratoria comporta (Geraci et al., 2005). Ulteriori studi sono stati condotti per indagare la presenza di disturbi psicotici anche nei migranti di seconda generazione. Alcune evidenze scientifiche presentano un uguale elevato tasso di incidenza di psicosi anche in questo gruppo rispetto a quello dei nativi, con alcune differenze di questo dato fra le diverse etnie prese in considerazione nel campione di studio (Selten et al., 2001). Una meta analisi condotta da Bourque et al. (2011) riporta, invece, un rischio di psicosi per i migranti di seconda generazione più alto, rispetto a quelli di prima. Tale dato suggerisce che la situazione di avversità sociali vissute spesso anche dai migranti di seconda generazione possa influire sul loro benessere.

Le teorie si sono succedute nel corso degli anni, producendo risultati utili per comprendere meglio i meccanismi sottostanti l’insorgenza delle psicosi e hanno permesso inoltre di individuare i gruppi ad alto rischio, sui quali gli stressors di tipo socio-ambientale, quali la migrazione, possono avere maggiore influenza. Una delle ricerche scientifiche, più recenti, sul tema e di notevole importanza per la quantità di dati raccolti e di centri coinvolti è il progetto EUGEI: European Network of National Schizophrenia Networks studying Gene-Environment Interactions. Questo progetto è iniziato nel 2010 e ha permesso, per un periodo di 5 anni, di raccogliere dati su fattori ambientali, socio-psicologici e genetici e di comprendere come questi intervengono nell’insorgenza delle psicosi. La ricerca è stata condotta in più di 15 centri in Europa permettendo così di effettuare anche confronti trans-culturali sui dati raccolti. Questo progetto testimonia perciò l’interesse della comunità scientifica nazionale e internazionale a far luce sull’interazione di fattori socio-ambientali con quelli genetici per meglio comprendere l’origine delle psicosi e per orientare in modo efficace la prevenzione e i trattamenti del disturbo.

 

Conclusioni: l’interazione di fattori genetici e ambientali dell’esordio della psicosi e il rischio derivante dalla migrazione

L’attenzione che negli ultimi anni si è posta sui fattori socio ambientali ha, infatti, avuto numerose ricadute dal punto di vista clinico poiché in tal modo si è aperta la possibilità di intervenire e di avere un margine di azione molto più ampio, rispetto ad un approccio che considera le psicosi derivanti solo da vulnerabilità genetica (Kirkbride et al., 2010).

I gruppi maggiormente a rischio sono quelli verso cui orientare le strategie di prevenzione e che permettono inoltre di indagare come le interazioni geni-ambiente si esplicano a livello clinico. Coloro che hanno una storia migratoria in anamnesi e presentano esordio psicotico diventano perciò un’occasione per comprendere i meccanismi di interazione tra fattori di vulnerabilità individuale e fattori di rischio ambientale che sono coinvolti nell’eziopatogenesi delle psicosi (Tarricone et al., 2013). La comprensione, per esempio, di come gli aspetti sociali di esclusione e isolamento siano causali nell’insorgenza delle psicosi, può avere delle ricadute pratiche molto utili per strutturare interventi di prevenzione (Kirkbride e Jones, 2011).

Trattamenti di tipo cognitivo comportamentale possono, inoltre, intervenire sulla percezione di svantaggio sociale e sul potenziamento delle abilità sociali (Burnett et al., 1999). Numerosi studi confermano l’efficacia di interventi di CBT per la prevenzione degli esordi psicotici in pazienti giovani, come confermato dalla recente revisione sistematica di Hutton e Taylor (2014). Si auspica perciò che ulteriori ricerche scientifiche permettano di indagare in modo più completo le interazioni e i meccanismi sottostanti i disturbi dello spettro psicotico, favorendo l’elaborazione di ulteriori protocolli clinici per il trattamento.

Salute e carcere: le condizioni di salute dei carcerati – Un convegno di studi a Palermo

Con lo scopo di inquadrare le “condizioni di salute” delle carceri italiane, operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo “Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?” che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento.

 

Privazione della libertà e autonomia limitata: quali effetti hanno sui carcerati?

La privazione della libertà personale è una condizione costrittiva che genera una vasta gamma di sintomi di natura fisica (problemi cardiovascolari e metabolici, fino a malattie contagiose come la tubercolosi) e psicologica, che probabilmente rappresentano gli esiti più subdoli e devastanti della carcerazione.

Sintomi che la letteratura sull’argomento ascrive al rapporto con un’identità in cambiamento, con un “prima” sempre più lontano, paragonato a un “adesso” cristallizzato, spesso caratterizzato dal drastico scemare dell’autonomia, in un rapporto di dipendenza quasi totale dall’istituzione carceraria.

Un’autonomia limitata certamente da spazi angusti e dalle molteplici restrizioni dovute a chiare esigenze di sicurezza sociale, e resa ancora più problematica dalla mancata attivazione di esperienze produttive/professionali che contrastino sensazioni di inutilità, vuoto e disimpegno. Da qui l’invasione del male di vivere e delle patologie tipiche collegate (depressione, irritabilità, apatia, deterioramento della personalità, distacco dalla realtà, suicidio). Una cornice teorica che sembra lasciare poco spazio all’ottimismo, e che risulta utile confrontare con la concretezza della realtà carceraria, così da rilevare l’attuale livello di salute detentiva e tutela dei diritti inviolabili della persona, in particolare sotto gli aspetti della vivibilità degli spazi e del senso di autoefficacia, quest’ultimo esito primario di fattive occasioni di recupero sociale.

 

Il convegno a Palermo sulla salute dei carcerati

Con lo scopo di inquadrare le “condizioni di salute” delle carceri italiane operatori della giustizia, avvocati e testimoni diretti dell’esperienza carceraria si sono riuniti lo scorso 18 marzo a Palermo in un dibattito dal titolo suggestivo “Diritti-sicurezza-rieducazione. Quale lo stato di salute delle carceri italiane?” che ha affrontato temi spinosi, quali il sovraffollamento e l’efficacia delle misure riparative, proponendo interventi mirati in un’ottica di miglioramento.

Lo Stato deve garantire il diritto alla salute, all’istruzione e al lavoro, finalizzati al recupero e alla risocializzazione poiché solo in questa maniera il detenuto potrà mettersi in pari con la societàapre i lavori l’avvocato Antonietta Cocchiara – Tuttavia bisogna tristemente constatare che tali diritti basilari non sono garantiti dalle attuali istituzioni carcerarie. Parlando di sovraffollamento i numeri sono chiari: a fronte di una capienza regolamentare di 49.000 posti, nel 2016 le carceri italiane contavano più di 54.000 unità e tale fatto, unito alla carenza di esperienze costruttive, porta il 90% dei detenuti alla recidiva”.

Questo seminario nasce dall’esigenza di mantenere sempre attuale il problema del sovraffollamento. Un problema che viola apertamente l’articolo 27 della Costituzione secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e che ha costretto l’Italia a pagare ingenti somme alla Corte europea per il limite minimo non rispettato di 3 metri quadrati di spazio vitale che spetta a ogni detenuto. Consideriamo che già la privazione della libertà, la segregazione in una cella, è la pena in se stessa: non è pertanto ammissibile fare scontare tale pena ai limiti della sopravvivenza, con le strutture che mancano delle cose essenziali – commenta Silvano Bartolomei, responsabile dell’Associazione Diritti Umani Contro Tutte Le Violenze di Palermo e organizzatore del convegno – Il problema è allarmante: stiamo parlando di quattro o cinque detenuti in tre metri quadrati con il rischio non trascurabile di arrivare ad atti di autolesionismo o al suicidio vero e proprio”.

Un problema scottante quello degli spazi di vivibilità e del sovraffollamento da contrastare con precise misure giuridiche. “Un elemento di criticità è sicuramente il fatto che le carceri sono strutture di sfiducia, già a livello architettonico. Esistono pochi spazi fruibili, con una sorveglianza talmente serrata da limitare le possibilità di libertà all’aperto – denuncia il Prof. Fiandaca, Garante dei diritti dei detenuti della regione Sicilia – Ecco che quando la delimitazione degli spazi vitali si traduce in condizioni di vita irrispettose dei detenuti e del diritto alla salute (mancanza di acqua calda, docce, bagni ubicati negli stessi spazi in cui il detenuto vive) la sensazione di disperazione e annullamento del sé è immediata; peraltro le stesse proposte rieducative, a compensazione talvolta di tali difficoltà, risultano di difficile attuazione per tutti i detenuti, a fronte del loro numero elevato. Parliamo di condizioni di sopravvivenza durissime, che significa essere costretti a vivere, per ciascun detenuto, in non più di 3 metri quadri di spazio, situazione che è valsa all’Italia la condanna per la violazione dei diritti umani e che sempre più si contrasterebbe riducendo il ricorso al carcere almeno per i reati meno gravi. In alcuni casi il carcere non è davvero necessario e ritengo che si debba aumentare il ricorso alle misure alternative, organizzate in attività lavorative in favore della comunità”.

Rispetto per la salute e per la dignità umana, un nervo scoperto nel sistema delle carceri italiane, anche se non l’unico: il destino delle misure rieducative, in direzione della garanzia dei basilari diritti di istruzione e lavoro, sembra infatti non essere differente. “È da rilevare che in carcere non ci sono molte possibilità rieducative, ciò vale per il lavoro, da considerarsi un deterrente rispetto alla delinquenza perché se insegni un mestiere è più difficile diventare manodopera della delinquenza, come spesso avviene per gli immigrati – riprende Bartolomei – Ecco perché ritengo necessario incentivare il volontariato nelle carceri e aumentare il personale, innanzitutto psicologi e psichiatri. In più i detenuti meno pericolosi potrebbero essere stimolati a seguire corsi, ad esempio come cuoco ed elettricista. Eppure il lavoro non basta nell’ottica di garantire quella salute utile al corretto reinserimento sociale: dobbiamo altresì garantire ai detenuti la continuità affettiva. Esemplificando non puoi inviare un detenuto a Brescia se la famiglia vive a Palermo perché esistono esigenze sanitarie ed esigenze lavorative, ma non meno importanti risultano le esigenze familiari per una corretta risocializzazione”.

Parere amaro, crudo, infine quello proveniente dall’esperienza più che trentennale della dottoressa Rita Barbera, direttore dell’istituto di rieducazione Ucciardone di Palermo, il cui intervento illustra la realtà del penitenziario palermitano. “La realtà carceraria porta inevitabilmente alla frustrazione del detenuto. Frustrazione significa non veder considerati l’autonomia e le esigenze basilari. Frustrazione significa dover chiamare per ogni necessità o vedersi negato un colloquio familiare. Ecco perché secondo me il carcere, per come è stato finora, non può essere un luogo di rieducazione, al punto che potrei definire la risocializzazione una menzogna istituzionale. Non ha senso peraltro trattenere in carcere persone per reati minori quali contraffazione o alimenti non versati, fenomeno che aumenta solo il sovraffollamento e la disperazione di chi è recluso. Per tale organizzazione e le inadeguatezze di tipo sanitario e territoriale gli esiti della carcerazione spesso si sostanziano in disturbi a carattere psichiatrico a lungo termine non sempre risolvibili”.

E se, da ciò che emerge, non sembrano totalmente tramontati gli anni della pena afflittiva, di quel carcere che “sanziona e punisce”, la speranza è che l’umanità alberghi pienamente in chi dovrebbe riabilitare chi l’umanità l’ha persa (o non l’ha mai acquisita nel processo di sviluppo). E insieme a questo aspetto quasi scontato va un ulteriore monito, affinché l’occhio saggio della giustizia non abbandoni le vittime, troppo spesso lasciate a se stesse, con il rischio di fomentare una rabbia collettiva e un accanimento punitivo verso il carnefice che, da una parte, non restituiscono alla vittima ciò che a questa è stato tolto con crudeltà e che, dall’altro deumanizzano il soggetto che si intende rieducare, vanificando gli sforzi di una pena non afflittiva e pienamente umanizzante.

Cognitivismo Clinico, editoriale del nuovo numero. Le variabili latenti che incidono sulla psicopatologia e il fanatismo

Questo numero di Cognitivismo clinico si compone di due parti; nella prima presentiamo la traduzione di due articoli già pubblicati su prestigiose riviste internazionali, che ci sono stati proposti per una diffusione maggiore in Italia, ritenendo che possano essere di interesse per i nostri lettori.

Editoriale di Roberto Lorenzini e Antonino Carcione

 

Il possibile ritorno della sintomatologia ansiosa dopo una terapia con esposizione

Nel primo, pubblicato da Craske et al. su Behaviour Research and Therapy e tradotto da Emiliano Toso, viene esposta un’accurata riflessione, con relative applicazioni cliniche, sui limiti dell’esposizione nel trattamento di alcuni disturbi e, in particolare, dei disturbi d’ansia. Le ricerche evidenziano, infatti, una parziale efficacia o, addirittura, una ricaduta sintomatologica con ritorno della paura dopo una terapia comportamentale basata sull’esposizione.

Secondo gli autori, che corredano le loro affermazioni con ampia letteratura e argomentazioni, ciò potrebbe essere attribuito a un deficit nell’apprendimento inibitorio e nella regolazione neurale inibitoria durante l’estinzione che caratterizza gli individui con disturbi d’ansia o elevati tratti d’ansia. Le persone con ansia, quindi, presenterebbero un deficit proprio di quei meccanismi centrali per l’apprendimento di estinzione, e ciò determinerebbe a volte, paradossalmente, anche un incremento della sintomatologia ansiosa.

Gli autori ritengono dunque essenziale, per aumentare l’efficacia dell’intervento, migliorare l’apprendimento inibitorio durante l’esposizione e propongono in questo lavoro, in modo accurato, come intervenire sul paziente ansioso.

 

Le variabili latenti che incidono sulla psicopatologia

Anche il secondo lavoro è una traduzione di un articolo di Nuijten et al. già pubblicato sulla rivista olandese De Psycholoog e tradotto da Giulio Costantini. Si inserisce all’interno del dibattito sullo studio delle variabili latenti per comprendere la psicopatologia.

Ricordiamo che una variabile latente è una variabile che non si può osservare direttamente, come per esempio un disturbo psicologico (Depressione Maggiore, Ansia, Disturbi di Personalità, ecc.), ma che può essere inferita a partire da indicatori osservabili come lo sono i sintomi o i criteri diagnostici del disturbo (ad esempio del DSM). Secondo gli autori, se si adotta un modello a variabili latenti si assume che il complesso intreccio di sintomi che si osserva empiricamente si può poi tradurre in una struttura matematica semplice ed elegante. In particolare, però, gli autori evidenziano il limite delle diagnosi categoriali, soprattutto nel momento in cui si imposta un trattamento avendo proprio come riferimento la diagnosi, come ad esempio la Depressione Maggiore, piuttosto che il quadro specifico che presenta il soggetto, che può essere composto da un insieme di sintomi combinati in modo diverso in persone diverse, e che può – peraltro – essere complicato dalla presenza di diagnosi co-occorrenti.

Per queste ragioni i modelli a variabili latenti, secondo gli autori, non sono sufficienti e incontrano difficoltà anche nel dare una spiegazione all’eterogeneità che si riscontra empiricamente in psicopatologia, proprio perché le diagnosi si basano spesso su sommatorie di sintomi e, di conseguenza, non tutti coloro che hanno la stessa diagnosi hanno gli stessi sintomi. Sulla base di questa idea propongono un modello di lettura dei quadri psicopatologici che si può avvalere anche di procedure tecnologiche innovative, che permette la simulazione di modelli in cui un disturbo si ricostruisce nella forma di un network di sintomi, che si rinforzano vicendevolmente, a circolo vizioso.

Da una prospettiva network, la co-occorrenza può essere spiegata dai cosiddetti sintomi ponte (bridge symptoms), che sono sintomi che caratterizzano due o più disturbi. Ciò avrebbe ricadute cliniche in quanto un’accurata ricostruzione del network, in cui sono stabilite anche le gerarchie di rilevanza, permette di interrompere i circuiti patologici intervenendo o sui nodi cruciali o su altri punti di mantenimento dei circoli viziosi.

 

Il fanatismo e le ricadute nella psicoterapia

La seconda parte di questo numero è costituito da una sezione speciale dedicata ad un argomento quanto mai attuale e di sicuro interesse per la psicologia e con potenziali ricadute per la psicoterapia: il fanatismo.

È il frutto del lavoro di gruppo di un terzo anno della Scuola di Terapia Cognitivo- Comportamentale denominato JAM che ha coinvolto allievi di training delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Roma APC e SPC i cui didatti sono Barbara Barcaccia, Roberto Lorenzini e Stefania Fadda. Al di là di chi ha scritto e firmato i singoli articoli e dell’impegno particolare delle curatrici, Ariano, Barucca e Brindisino, esso nasce da riflessioni comuni, dibattiti partiti dai casi clinici che venivano esaminati e confronti sulle personali esperienze fanatiche. Questi articoli intendono aprire un confronto su un modo di vivere che se da un lato può impoverire l’esistenza stessa, coartandola in uno spazio monotematico e autoreferenziale, dall’altro è alla base delle più grandi imprese del genere umano.

Infatti cosa erano se non fanatici assoluti coloro che hanno raggiunto le vette più elevate nell’arte, nelle scienze e nella spiritualità? Non erano forse fanatici gli eroi che hanno dato la vita per una causa (anche quelli che oggi essendo di parte avversa chiamiamo terroristi kamikaze) e molti santi e martiri? Ma lo erano altrettanto Hitler, Stalin e Jim Jones che si suicidò con tutta la sua setta in Guyana. Ci muoviamo, dunque, in una delicata terra di mezzo tra le forme più sublimi e più abiette dell’esperienza umana, entrambe potenzialmente presenti in ognuno di noi grazie a questa capacità per così dire di “fanaticizzarci” o, potremmo dire con termine più familiare, “innamorarci perdutamente e acriticamente”.

Chissà che proprio l’innamoramento non sia il modello più comune ed evidente del fanatismo. Sarebbe meraviglioso se alcune di queste riflessioni potessero essere utili a spiegarne, almeno in parte, la fenomenologia e la dinamica. Chissà poi se qualcuno vorrà dedicarsi ad elaborare un protocollo di intervento per l’emergenza dell’innamoramento. Purtroppo, sia in quest’ultimo che in generale nel fanatismo, non c’è egodistonia; l’intervento semmai è richiesto dalle persone vicine all’interessato che invece si meraviglia che gli altri non condividano il suo stato.

Il fanatismo originariamente nasce come fenomeno squisitamente religioso, concepito per contenere l’angoscia che travolge l’uomo quando, nel corso del suo stesso processo evolutivo, affiora nella sua psiche la coscienza e, con essa, la coscienza del proprio destino di morte e la partecipazione disperata alla morte e all’agonia dei propri cuccioli e dei propri simili più amati. Nasce dunque per risolvere il problema del senso della vita e l’insensatezza della morte e inizialmente religioso diviene poi politico.

Nel primo articolo di questa sezione speciale, di Barucca e Lorenzini, verranno descritte le origini e gli sviluppi storico-filosofici del concetto di fanatismo, mentre nel secondo, di Ariano e Brindisino, verrà presentato il fenomeno del fanatismo nei culti, delineandone le caratteristiche e le dinamiche individuali e gruppali, nonché alcuni modelli teorici esplicativi.

Oltre al fanatismo religioso e politico, si pensi al fenomeno degli ultras sportivi ed ora anche a due situazioni che si sono affacciate di recente nel DSM 5, la ortoressia (fanatismo per una specifica alimentazione) e la vigoressia (l’ossessione per il fitness a tutti i costi). Il terzo articolo, di Garano, Dettori e Barucca, descrive proprio queste ultime due condizioni, le quali potrebbero essere assimilate a delle nuove forme di fanatismo, celate da tendenze virtuose.

Il fanatismo appare, dunque, come uno spettro che si aggira nel mondo assumendo mutevoli sembianze, con manifestazioni talvolta semplicemente grottesche e ridicole, talaltra allarmanti e pericolose. Sempre, comunque, con implicazioni sociali ed economiche rilevanti. In prima battuta potremmo dire che mentre normalmente sono le idee al servizio dell’uomo e anzi ne sono lo strumento adattivo più sofisticato con la loro capacità di anticipare la realtà e dunque consentire di indirizzarla secondo i propri scopi, nel fanatismo avviene il contrario: è l’uomo ad essere al servizio permanente effettivo, e spesso definitivo, di un’idea, realizzando l’ideale romantico di essere pronti a “morire per un’idea”.

Nel fanatismo l’uomo da fine diventa strumento, mentre il fine reale è l’idea stessa. Quando si parla di fanatismo non si può certamente escludere quello che spesso è meno considerato dal punto di vista psicopatologico, riconducendolo più che altro ad analisi sociologiche (certamente altrettanto importanti) fino a quando non si verificano fenomeni eclatanti – e spesso tragici – che assurgono all’onore delle cronache: il fanatismo nello sport.

Il lavoro di Lorenzini, Ariano e Barucca, considerando la realtà italiana, si focalizza in particolare sul calcio che in Italia è lo sport dove emerge in modo particolare, anche se può, naturalmente, essere presente in tutti gli sport, soprattutto di squadra. L’articolo evidenzia come i comportamenti degli ultras siano particolarmente orientati allo scopo esplicito di riconoscere una propria supremazia sull’altro, dominando gli avversari attraverso segnali chiari e inequivocabili di superiorità che devono essere poi oggettivamente riconosciuti da tutti. Anche qui, quindi, si individuano, poi, elementi comuni alle altre forme di fanatismo. Ragionando, quindi, sul tema trattato in modo più trasversale, si evidenzia come la tendenza a considerare assolute e indiscutibili le proprie credenze la vediamo all’opera nel normale confermazionismo che genera i circoli di mantenimento nei disturbi nevrotici e trova la sua massima espressione lungo lo spettro delirante. Al di là della psicopatologia, questa dimensione è presente costantemente, spesso in modo drammatico nella vita quotidiana e sulle prime pagine dei giornali.

È per questo motivo che, nell’ultimo articolo di questa sezione speciale, Lorenzini, Ariano e Brindisino, forniscono elementi utili ai fini clinici individuando e descrivendo in modo accurato i possibili meccanismi intrapsichici e interpersonali trasversali a tutte le forme di fanatismo trattate, formulando, poi, alcune proposte di prevenzione e intervento da attuare nei casi in cui vi fosse una richiesta di terapia.

Cognitivismo clinico (2016) 13, 2, 99-101

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