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L’attualità del controtransfert nella psicoanalisi contemporanea

Diversamente dallo studio del transfert, più ancorato al retaggio freudiano, quello sul controtransfert ha avuto un ruolo determinante e innovativo nella teoria e nella prassi terapeutica contemporanea.

 

Hirsch (1994), nel ripercorrere sinteticamente la storia dell’uso terapeutico del controtransfert, ci ricorda che i primi a dare un contributo innovativo come Cohen (1952), Fromm-Reichmann (1950), Tauber (1954) e Thompson (1950), ebbero un ruolo di transizione tra i momenti psicoanalitici in cui il controtransfert era visto come un problema nevrotico che interferiva con il lavoro analitico a quelli in cui la consapevolezza controtransferale è considerata una significativa fonte terapeutica, per arrivare poi a una comprensione di “campo” dei fenomeni psicoanalitici.

Questi autori hanno tutti enfatizzato i problemi e le trappole del controtransfert almeno quanto il suo valore potenziale. Al riguardo, ci sembra interessante accennare  brevemente al pensiero di fondo di una delle autrici più influenti e innovative di quegli anni, cioè Clara Thompson.

 

Il controtransfert secondo la visione di Clara Thompson

Nella visione di Clara Thompson (1950, 1964), si possono distinguere nel controtransfert sentimenti sia razionali che irrazionali. Questi ultimi possono essere attribuiti alla personalità e ai valori dell’analista e portare a gravi punti ciechi nella visione analitica o a potenziali agiti. L’obiettivo dell’analista è quindi diventare consapevole di tutti i sentimenti e capire se sono aspetti della propria personalità (cioè reazioni nevrotiche, basate sull’ansia verso il paziente) o dati utili sul paziente stesso.

Come Clara Thompson (1964) indica, tutti gli analisti, nonostante analisi personali adeguate, hanno valori e caratteristiche di personalità che continuano ad avere un significativo impatto analitico che non può mai essere del tutto neutralizzato. L’antidoto è la consapevolezza vigile di tali caratteristiche invece del loro diniego.

Come Thompson anche Cohen (1952) suggerisce che gli analisti dovrebbero accogliere un’ampia gamma di sentimenti controtransferali evocati nel processo analitico. L’autore, ispirato dalle tesi sullivaniane sulla centralità dell’angoscia nelle relazioni interpersonali, considera il controtransfert come un problema legato all’ansia che può, grazie alla consapevolezza della sua inevitabilità, essere usato per controllare l’agito da parte dell’analista, così come per informare l’analista stesso su certe caratteristiche del paziente.

 

Transfert e controtransfert

Nell’attuale prospettiva interpersonale il controtransfert non può essere isolato dal transfert. La maggior parte degli analisti contemporanei della scuola interpersonale parlano del controtransfert come parte di un campo interpersonale dinamico o matrice transfert-controtransfert. Per esempio: Searles (1979);  Stern (1985);  Greenberg (1991); Mitchell (1993); Fiscalini (1994); Ogden (1994).

Il cambiamento di paradigma avvenuto nel pensiero psicoanalitico si deve all’introduzione del concetto sullivaniano di “osservatore partecipe” che presuppone nell’analista l’abilità di occuparsi e di valutare attentamente la propria partecipazione rispetto al paziente. Gli autori interpersonalisti hanno esteso questa preziosa intuizione fino a rivoluzionare l’uso terapeutico del controtransfert in modi che Sullivan (1954) stesso non aveva clinicamente portato avanti. Nel campo psicoanalitico il transfert e il controtransfert sono esperienze formate reciprocamente e create congiuntamente da entrambi i partecipanti analitici, piuttosto che come espressioni esclusivamente endogene del mondo intrapsichico chiuso dell’uno o dell’altro partecipante.

Sfumature più sottili dell’impostazione di fondo appena vista si rilevano in Wolstein (1959) e Searles (1979) per i quali transfert e controtransfert sono reciprocamente agiti, poi osservati da una delle due parti e infine analizzati. Questa radicale concezione dell’analisi controtransferale deve molto agli iniziali contributi di Tauber e Green (1959).

Questi due autori furono i primi a fornire la ormai ampiamente accetta ma storicamente originale idea che sia l’analista che il paziente rispondono inconsciamente l’uno all’altro. Ogni manifestazione controtransferale come sogni, lapsus e così via, non riguardano solo l’analista che li sperimenta ma anche il paziente.

Coerentemente con questa visione della situazione analitica, le esperienze controtransferali vengono trattate allo stesso modo di quelle transferali e cioè accettate, esaminate ed esplorate. Il controtransfert rappresenta sempre un indizio che informa su importanti dati analitici che potrebbero stare al di fuori della consapevolezza sia del paziente che dell’analista.

Da analoghe rilevazioni parte il citato lavoro di Wolstein del 1959 che definisce i modelli di interazione generati da paziente e analista come “interconnessioni transfert-controtransfert”:

Tali interconnessioni paratassiche o collusioni inconscie si verificano quando analista e paziente si relazionano e comunicano in modo tale che il movimento in avanti del processo inconscio di un partecipante è automaticamente intercettato da un processo inconscio dell’altro. In questa circostanza nessuno dei due processi emerge senza l’emergere correlativo dell’altro (Wolstein, 1959, p.133).

Secondo l’autore la reciproca elaborazione di queste interconnessioni è l’evento interpersonale più illuminante e terapeuticamente valido sia per il paziente che per l’analista.

Dello stesso avviso è anche Searles (1979) che sviluppa l’idea del “paziente come terapeuta dell’analista” (Searles, 1979, p.203) inserendola nella sua visione profondamente co-creativa del processo analitico. L’autore descrive una forma di reciprocità in cui può avvenire un’identificazione dell’analista con gli aspetti più sani della personalità del paziente “secondo una modalità che comporta crescite stabili e costruttive della nostra personalità” (Searles, 1979, p.57).

Per concludere questa breve panoramica sull’attuale concezione “co-creativa” (Silvestroni, 2009) dei fenomeni analitici, vorrei citare un autore, Ogden, che ben interpreta lo spirito fortemente interattivo e co-partecipativo tipico della comprensione contemporanea dei fenomeni controtransferali.

Ogden considera la matrice entro cui si generano i significati della situazione analitica come una: “terza soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica” (Ogden, 1997, p.10). In questo contesto il transfert- controtransfert non sono più ritenuti entità separabili, nate ciascuna in risposta dell’altra, ma costituiscono piuttosto: “un’unica dimensione, sono aspetti di una singola totalità intersoggettiva che viene vissuta separatamente (e individualmente) da analista e analizzando” (op.cit., p.180).

Ogden considera il “terzo analitico intersoggettivo” come un terzo soggetto creato dallo scambio inconscio tra analista e paziente. Ne consegue la necessità per l’analista di rimanere aperto, disponibile e sensibile verso “una recettività inconscia che implica la (parziale) consegna della propria individualità separata a […] una terza soggettività” (op.cit., p.10). Tuttavia le soggettività individuali non vengono annullate e anzi si trovano in una tensione dialettica con il terzo analitico che permette a entrambi i partecipanti di vivere l’esperienza generatasi in modo diverso. Secondo Ogden la creazione del terzo analitico riflette l’asimmetria della situazione analitica che implica il privilegiare l’esperienza inconscia dell’analizzando quale tema principale (anche se non esclusivo) del dialogo analitico.

Mi pare della massima suggestività il modo in cui Ogden (1997) sottolinea la naturale e spontanea capacità di “sovrapposizione” degli inconsci all’interno della situazione analitica e ci ricorda, citando Winnicott, che “la psicoterapia ha luogo là dove si sovrappongono due aree di gioco, quella del paziente e quella del terapeuta” (Winnicott, 1971, p.79, cit. in Ogden, 1997, p.38).

Essere John Malkovich (1999) e la ricerca dell’identità – Recensione del film

Essere John Malkovich (1999) raggruppa quattro personaggi infelici e insoddisfatti: un burattinaio appassionato e disoccupato, la moglie trasandata e ingenua, la collega bella e sfuggente, il datore di lavoro centenario e bizzarro; quattro persone diverse che grazie alla celebrità realizzano un sogno recondito proibito.

 

Essere John Malkovich: la trama e la rappresentazione psicologica dei personaggi

Craig è costretto ad accettare un impiego redditizio ma terribilmente noioso, si isola con i suoi “giocattoli” che strumentalizza per rappresentare la solitudine e i sogni, in un’esistenza condotta per inerzia, misera e scialba come il rapporto di coppia che riflette l’unico probabile punto in comune tra i protagonisti: la mancanza di vitalità e di consapevolezza di sé. Allo stesso modo Lotte si fidanza e sposa un uomo senza comprendere quanto si allontani dai suoi desideri: dalla scarsa cura di sé e il look maschile trasuda un modo di essere che di femminile non ha nulla, totalmente inconsapevole dei suoi interessi sessuali, appare spaesata quando si trova di fronte ad una donna di bell’aspetto.

Dal principio non sembra nutrire alcuna invidia nei confronti di Maxine, ma un desiderio di unirsi a lei che si concretizza solo nell’ingresso nel corpo di John Malkovich. È curioso notare il momento di presa di coscienza sulla vera identità di genere e sessuale, ovvero nel primo viaggio nella mente dell’attore, un’esperienza perfetta in cui tutto ha un senso e non manca nulla. Da questo dettaglio tutt’altro che insignificante si deduce una conoscenza di sé silente che si risveglia prepotentemente attraverso l’incontro con Maxine e l’ingresso in John. In altre parole, è significativo scoprire di essere omosessuale e di indossare un corpo egodistonico in un’età ormai lontana dall’adolescenza, un dato che suggerirebbe, pertanto, una scarsa inclinazione alla riflessione su di sé.

Si arriva così alla sprezzante, snob e cinica Maxine, l’approfittatrice che riscopre una sensibilità nella relazione con un Malkovich che ha poco di sé e molto degli altri. Non appena apprende la notorietà dell’attore cerca di accoppiarsi con lui per tornaconti economici e presumibilmente narcisistici, e quando riesce a conquistarlo definitivamente, accedendo così allo status di celebrità internazionale, qualcosa si rompe. Non a caso accadono due avvenimenti essenziali: la metamorfosi di John in Craig e l’attesa di un bambino che organicamente appartiene all’attore ma è “mentalmente” legato a Lotte. La notorietà perseguita anche a costo di ferire l’unica persona che sembra averla amata in quanto tale, perde di significato quando il marito assomiglia più al burattinaio fallito che al grande attore e la gravidanza innesca il senso di colpa: in termini kleiniani, Maxine slitta nella posizione depressiva nella quale comprende una responsabilità personale e si protende verso la persona amata per riparare al danno effettuato. Più che l’orientamento sessuale, appare centrale il tema della popolarità come mezzo di espressione del sé: stare con personaggio celebre a livello internazionale è quindi la sola scappatoia da una vita mediocre nella quale non può essere notata e quindi amata, però qualcosa manca, ed è il riconoscimento, la sintonizzazione affettiva che si concretizza nel legame con Lotte.

 

Essere John Malkovich: riflessioni psicologiche sul film

L’interesse di Craig si sofferma presumibilmente su due elementi: essere un burattinaio di successo e stare con una donna di successo. La carriera ardua e sfuggente, una relazione con la collega ambita e distante suggeriscono il tema dell’irraggiungibilità e della disposizione allo sforzo per creare un contesto perfetto ma poco congruente con la realtà, un’ossessione che macchia la serenità e impedisce di venire a patti con i propri limiti. Non accetta il fallimento professionale, né tanto meno il palese rifiuto di Maxine riluttante ad approfondire la sua conoscenza fin dall’inizio, eppure tenta qualsiasi carta pur di rincorrere i sogni che, una volta realizzati si sbiadiscono e perdono la lucentezza di un tempo.

Essere “un altro” gli ha permesso di ottenere la carriera, non l’amore, e per essere ricambiato Craig è disposto a trasferirsi per sempre in un’altra mente che curiosamente appartiene a qualcuno di molto prezioso per la bella collega: la figlia. Mentre all’inizio l’assunzione di un’identità ideale si pone al centro, adesso è via via più marginale. Essere John Malkovich è l’unico in grado di ottenere l’attenzione delle donne difficili, permettersi di rivestire i panni di chi desidera, anche quelli di un burattinaio: il successo è assicurato poiché la stella del cinema è ammirata e acclamata dal mondo intero e riceverà comunque apprezzamenti.

Il potere, quindi, sta nel pilotare un simbolo, impersonare un’identità dal prestigio conquistato e stabile che ammalia il mondo intero, monitora l’affetto e l’attenzione delle persone ambite e soddisfa, di conseguenza, i desideri inesaudibili. La stessa Maxine suscita nei coniugi una forte attrazione: bella, curata, a tratti perfida e autoritaria, trasmette sicurezza e diventa, in tal senso, il simbolo del potere che non si piega di fronte a nessuno, ad eccezione di Malkovich con il quale perde in confronto. Attraverso la mente dell’attore, Lotte e Craig possono accedere all’oggetto del desiderio, controllarne il piacere e quindi in un certo senso soggiogarla: peccato, però, che questo costituisca una pericolosa illusione, un trampolino di lancio per un abisso incolmabile, in cui il vero sé viene condannato ad un’esistenza inautentica e fittizia per ricevere in cambio la completa accettazione. E se non è possibile essere John Malkovich si trova una soluzione alternativa: entrare nel corpo della piccola figlia, amata e accudita per sempre. Il soggetto cambia, ma il risultato resta immutato e il legame è sorretto precariamente, appunto perché si esce letteralmente e figuratamente da se stessi.

 

Essere John Malkovich: la costruzione dell’identità e del vero sè

Il film è sostanzialmente una metafora dell’aberrante, spasmodica ricerca del contatto con l’altro, dell’accettazione e ammirazione assoluta nelle vesti estranee, sacrificando la vera natura interna, il vero sé di cui parla Winnicott (1965), il daimon di Hillman (1996), la forza creatrice, la personalità autentica e costruttiva. In un certo senso Craig non riesce ad essere diverso, non compiace pienamente neppure con uno sforzo sovrumano: è lui a monitorare il corpo di John fino a riappropriarsi della sua identità, che piaccia o no, alla fine decide di essere quello che voleva essere fin dal principio.

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Dopo una gran fatica il protagonista è destinato a ritornare a se stesso, una scelta che si palesa nella realizzazione della carriera da burattinaio, nella trasformazione estetica che si riappropria dei tratti distintivi: i capelli, i vestiti, l’abbandono della recitazione e il debutto con le marionette profumano del protagonista che sembra aggrapparsi ai suoi interessi con impegno e devozione. Tuttavia tra la carriera e Maxine, Craig sceglie la seconda, ristabilendo le priorità: ricevere il suo amore, la sua attenzione è più importante di un futuro professionale promettente.

E per finire c’è il Dr. Lester la cui scelta desta una riflessione su un altro tema connesso al falso sé. Da tempi remoti progetta il proseguimento infinito della vita, scovando passaggi su passaggi, per restare vivo, permettersi di ricominciare dall’inizio, pagando il prezzo di Craig, restando intrappolato in un essere diverso da sé: diversamente dagli altri che mirano all’attore per una scelta intrapsichica ed interpersonale, in questo personaggio è cruciale la paura di morire fronteggiata attivamente attraverso la crescita di John e successivamente della figlia nata dall’unione con Maxine. Il fine ultimo non è essere una celebrità o un altro per compiacere o ottenere una gratificazione, ma continuare a vivere per sempre sconfiggendo la morte, con il risultato di sperimentare multiple identità, di essere tutto e nulla. Il vero sé è soppresso per un bene supremo: la sopravvivenza, non importa come e nei panni di chi, basta che la vita continui in eterno. La fragilità umana, l’inarrestabile forza del tempo, l’accettazione della morte come fine dell’esistenza sono evitate energicamente con un progetto interminabile in cui la personalità si disperde e confonde con le altre.

 

La restrizione dietetica cognitiva: il problema della sua misurazione

Herman e Polivy, per spiegare il comportamento dei mangiatori restrittivi secondo una prospettiva più cognitiva, iniziano a definire la restrizione dietetica cognitiva come il tentativo prolungato di sopprimere il peso indipendentemente dal successo o meno di riuscire a creare un bilancio calorico negativo.

Simona Calugi e Riccardo Dalle Grave – Unità Funzionale di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda 

 

 

Oltre 40 anni fa inizia, e cresce rapidamente, l’interesse della ricerca scientifica riguardo gli effetti della restrizione dietetica sul comportamento alimentare. Nisbett è il primo a teorizzare nel 1972 che molte delle caratteristiche psicologiche e comportamentali di soggetti con obesità sono attribuibili alla soppressione del loro peso al di sotto del “set point” biologicamente determinato.

 

La restrizione dietetica cognitiva e il rischio di abbuffate

Questo lavoro contribuisce ampiamente allo sviluppo della “Restraint theory”, per la prima volta descritta da Herman e Polivy nel 1975. Con questa teoria si cerca di spiegare perché le persone che stanno a dieta non perdono peso, e si ipotizza che possano avere episodi di abbuffata in risposta alla deprivazione calorica (bilancio energetico in negativo) dovuta alla dieta.

Già qualche anno dopo, Herman e Polivy de-enfatizzano il concetto di set-point per spiegare il comportamento dei mangiatori restrittivi, a favore di una spiegazione più cognitiva. Iniziano così a definire la restrizione dietetica cognitiva come il tentativo prolungato di sopprimere il peso indipendentemente dal successo o meno di riuscire a creare un bilancio calorico negativo (Herman & Polivy, 1980, p. 223) (vedi Tabella 1).

Questo passaggio spinge, negli anni successivi, alcuni autori a sostenere che il rischio dell’abbuffata possa aumentare quando un individuo esperisce una temporanea caduta nel controllo cognitivo sull’alimentazione.

I meccanismi proposti per spiegare questa associazione includono: (a) l’effetto della violazione del controllo, che si verifica quando l’individuo rompe le proprie regole dietetiche e (b) l’esaurimento di limitate risorse cognitive di auto-regolazione.

La restrizione dietetica cognitiva il problema della sua misurazione - TAB 1

Il modo patologico di condurre la dieta diventa poi parte integrante nello sviluppo e nel mantenimento dei disturbi dell’alimentazione nella teoria transdiagnostica proposta da Fairburn e colleghi (2003). Secondo tale teoria, l’eccessiva valutazione del peso, della forma del corpo e del loro controllo incentiva gli sforzi per perdere peso con l’adozione di una dieta ferrea. Quando questi sforzi non hanno successo – a causa della deprivazione fisiologica, dell’effetto di violazione del controllo o per esaurimento delle risorse di auto-regolazione – la rottura delle regole dietetiche si associa a un episodio di abbuffata. Gli individui allora raddoppiano gli sforzi per restringere l’introito calorico ed entrano in un circolo vizioso caratterizzato da episodi di abbuffata e restrizione dietetica che contribuisce a mantenere il disturbo dell’alimentazione.

 

Restrizione dietetica cognitiva: predittore di disturbi dell’alimentazione?

Coerentemente con questi modelli teorici, numerose ricerche hanno dimostrato che la restrizione dietetica cognitiva predice l’esordio e il mantenimento di alcune espressioni caratteristiche della psicopatologia del disturbo dell’alimentazione, come gli episodi di abbuffata e gli associati comportamenti di compenso. Tuttavia un altro filone di ricerca, ha trovato che un aumento del controllo sull’alimentazione riduce la frequenza degli episodi di abbuffata, sia nei pazienti che seguono trattamenti per la perdita di peso sia nelle donne e nelle adolescenti con bulimia nervosa o a rischio di svilupparla, quando sono confrontate con controlli sani.

Una delle possibili ragioni in grado di spiegare queste contraddizioni della ricerca sull’associazione tra restrizione dietetica cognitiva ed episodi di abbuffata, è il fatto che le misure disponibili della restrizione dietetica valutano più di una dimensione latente del costrutto stesso. A conferma di questa ipotesi, vari studi, che hanno utilizzato l’analisi fattoriale sui questionari che valutano la restrizione dietetica cognitiva, hanno trovato più fattori che si associano a caratteristiche cliniche differenti.

Sullo stesso filone, un recente studio ha valutato se la restrizione dietetica cognitiva fosse un costrutto unitario o multidimensionale, somministrando a un ampio campione non clinico di studenti e adulti, maschi e femmine, una batteria di questionari che includevano la misura della restrizione dietetica (Hagan et al. 2016). L’analisi fattoriale esplorativa, i modelli di equazione strutturale e l’analisi fattoriale confermativa hanno prodotto un modello finale che include 43 item con i seguenti 3 fattori latenti:

  1. Conteggio delle calorie (per es. monitorare le calorie assunte; aderire a limiti calorici; selezionare consapevolmente cibi a basso contenuto calorico; prendere intenzionalmente piccole quantità di cibo).
  2. Preoccupazione per la dieta (per es. paura di aumentare di peso; preoccupazioni sulla dieta; ansia riguardo al consumo di cibi “proibiti”).
  3. Restrizione focalizzata sul peso (per es. cercare di mangiare meno per influenzare il peso o la forma del corpo).

Successive analisi di regressione hanno dimostrato che più alti livelli di indice di massa corporea e una maggiore frequenza di episodi di abbuffata erano associati a più alti punteggi di “Preoccupazione per la dieta” e “Restrizione focalizzata sul peso” ma non al “Conteggio delle calorie”. Tutti e tre i costrutti latenti erano, inoltre, positivamente associati al rischio di sviluppare un disturbo dell’alimentazione e ai sintomi depressivi.

Questo studio sembra far luce sulle incongruenze della letteratura, individuando come la restrizione dietetica cognitiva sia un costrutto multidimensionale e dimostrando che, in accordo con i trial clinici di perdita di peso, il conteggio delle calorie non sia associato agli episodi di abbuffata, mentre i fattori legati con l’eccessiva valutazione del peso e la forma del corpo (cioè la preoccupazione per l’alimentazione e il cercare di mangiare meno per influenzare il peso e la forma del corpo) siano associati con maggiore frequenza agli episodi di abbuffata.

Un altro problema che sembra affliggere le misure della restrizione dietetica cognitiva riguarda il fatto che le più utilizzate (vedi Tabella 2) sono state costruite con l’obiettivo di spiegare perché coloro che stanno a dieta non perdono peso e sono state studiate e validate in popolazioni di soggetti non clinici o con sovrappeso e obesità inseriti in programmi di perdita di peso. La loro applicazione a popolazioni di soggetti con disturbo dell’alimentazione risulta perciò di dubbia efficacia, tenendo conto che la restrizione dietetica cognitiva in tali soggetti si caratterizza per l’adozione persistente di un numero elevato di regole dietetiche estreme e rigide – che richiedono una continua vigilanza e un impegno costante e devono essere seguite perfettamente – non comuni alle persone che non hanno un disturbo dell’alimentazione.

La restrizione dietetica cognitiva il problema della sua misurazione - TAB 2

In conclusione appare evidente la necessità di sviluppare nuovi strumenti specificatamente pensati per misurare la restrizione dietetica cognitiva adottata dai pazienti con disturbo dell’alimentazione per meglio comprendere il meccanismo, comunemente osservato dai clinici, che associa la dieta ferrea e gli episodi di abbuffata in questi soggetti.

 

Perchè impariamo a comprendere le altre persone solo dopo i quattro anni?

All’età di circa quattro anni, i bambini cominciano improvvisamente a capire che gli altri, bambini o adulti, sono esseri pensanti e che la visione che hanno del mondo è spesso diversa dalla loro.  I ricercatori di Leiden e di Lipsia hanno esplorato come funziona questo meccanismo, pubblicando il loro studio su Nature Communications. 

 

 

All’età di circa quattro anni, improvvisamente, i bambini fanno quello che i coetanei di tre anni non sono in grado di fare: mettersi nei panni degli altri. I ricercatori del Max Planck Institute per le Scienze Umane Cognitive e Nervose di Lipsia e dell’Università di Leiden hanno spiegato come si verifica questo enorme passo evolutivo: una connessione cruciale di fibre cerebrali giunge a maturazione.

Nikolaus Steinbeis, ricercatore senior e psicologo dello sviluppo a Leiden, ha partecipato alla ricerca come co-autore dell’articolo, supervisionando la dottoranda Charlotte Grosse-Wiesmann, autrice principale dello studio.

 

Il “piccolo Maxi”

Se raccontate a un bambino di 3 anni la seguente storia del piccolo Maxi è molto probabile che lui non sia in grado di capirla.  “Maxi mette la sua tavoletta di cioccolato sul tavolo della cucina e poi va fuori a giocare. Mentre lui non c’è, sua mamma sposta il cioccolato nella credenza. Dove andrà Maxi a cercare il suo cioccolato una volta tornato in cucina?

Un bambino di 3 anni non riesce a prevedere che Maxi cercherà il suo cioccolato sul tavolo (e non nella credenza come tendenzialmente rispondono i bambini a questa età) e non riesce a capire perché Maxi sarebbe sorpreso di non trovare il cioccolato sul tavolo dove lo aveva lasciato. È solo a partire dall’età di 4 anni che un bambino, in modo corretto, è in grado di prevedere che Maxi cercherà il cioccolato dove lui lo ha lasciato e non nella credenza, dove in realtà è, ma dove lui non può sapere che si trova.

 

Teoria della Mente

I ricercatori hanno osservato qualcosa di simile mostrando ad un bambino di 3 anni una scatola di cioccolato contenente matite invece di cioccolatini. Quando al bambino è stato chiesto secondo lui che cosa un altro bambino si sarebbe aspettato di trovare nella scatola, egli ha risposto “matite”, nonostante l’altro bambino non poteva affatto saperlo. Solo un anno più tardi, intorno all’età di 4 anni, però, i bambini interpellati capiranno che l’altro bambino pensa e si aspetta che nella scatola ci siano i cioccolatini. Quindi, tra i 3 e i 4 anni avviene una svolta evolutiva fondamentale: dal punto di vista sperimentale, i bambini cominciano a superare i test della falsa credenza, test in cui viene chiesto di prevedere il comportamento di un agente verso un oggetto sul quale però l’agente possiede una falsa credenza, riguardante tipicamente posizione, contenuto o natura.

Dal punto di vista cognitivo, i bambini cominciano ad attribuire pensieri e credenze agli altri esseri umani e cominciano a capire che le loro convinzioni possono essere diverse da quelle degli altri. Prima di questa età cruciale, i pensieri non sembrano esistere indipendentemente da ciò che vediamo e sappiamo del mondo. Questo finché il bambino non sviluppa una teoria della mente (ToM/Theory of Mind), la capacità appunto di rappresentazione dei propri e altrui stati mentali, in termini di pensieri e credenze, ma anche di desideri e sentimenti, al fine di spiegare e prevedere il comportamento.

 

Sviluppo indipendente

I ricercatori hanno ora scoperto cosa si celi dietro questa svolta. La maturazione delle fibre di una connessione neurale nota come fascicolo arcuato, tra i tre e i quattro anni, stabilisce una connessione tra due regioni cerebrali critiche. Una regione nella parte posteriore del lobo temporale, che supporta l’adulto nel pensare agli altri e ai loro pensieri; e una regione nel lobo frontale, che è coinvolta nel mantenere le cose a diversi livelli di astrazione e, di conseguenza, aiuta a capire ciò che il mondo reale è e cosa sono i pensieri degli altri.

Solo quando queste due regioni del cervello sono collegate tra loro attraverso il fascicolo arcuato, i bambini possono iniziare a capire che cosa pensano gli altri. Questo è ciò che consente di prevedere dove Maxi cercherà il suo cioccolato e cosa un bambino qualsiasi si aspetta di trovare all’interno di una scatola di cioccolatini.  È interessante notare che questa nuova connessione nel cervello supporta questa capacità indipendentemente dalle altre abilità cognitive, come l’intelligenza, il linguaggio o il controllo degli impulsi.

Gerald Roy Patterson: un breve, dovuto ricordo

Gerald Roy Patterson è mancato alla fine dell’estate scorsa, anche se pochi se ne sono accorti. Nato nel North Dakota e cresciuto in Minnesota, dove ha conseguito il dottorato di ricerca, Gerald Roy Patterson ha lavorato prevalentemente in Oregon. È stato uno scienziato al servizio della comunità, descritto dai colleghi come una persona carismatica e idealista, che non ha mai ricercato ricchezza o notorietà, ma si è sempre adoperato per rendere il mondo un posto migliore dove vivere.

Francesca Pergolizzi, IESCUM, ASCCO

 

Gerald Roy Patterson: i suoi contributi alla psicologia comportamentista

Guidato fin dai primi studi dalla passione e dalla missione di aiutare le famiglie con figli difficili, è stato uno dei primi scienziati comportamentali a sviluppare misure empiriche per la valutazione delle interazioni parentali e a utilizzare questi dati per proporre e testare trattamenti innovativi basati su evidenze a favore di famiglie disfunzionali.

Per questo suo intenso e significativo lavoro ha ricevuto numerosi riconoscimenti pubblici internazionali. Kazdin, past president APA lo ricorda così: “I contributi di Gerald Roy Patterson alla psicologia comprendono il modello teorico delle interazioni coercitive, ampiamente citato da numerosi studiosi, la sua leadership nel movimento della terapia del comportamento, i suoi studi innovativi e paradigmatici sull’aggressività e le condotte antisociali, lo sviluppo e la valutazione empirica del Parent Management Training (PMT).”

I suoi libri più famosi, Families Living with Children e Parents and adolescents, hanno venduto milioni di copie: infatti, è uno degli autori più citati nella letteratura comportamentale.

Io ho avuto la fortuna di avere in regalo Families Living with children nel 1978 da colui che sarebbe poi diventato mio marito, che lo aveva avuto tra le mani nei primi workshop che si svolgevano a St. Pierre, che hanno consolidato il primo nucleo di analisti e terapeuti del comportamento (Meazzini, Soresi, Anchisi, Galeazzi, Moderato). La lettura di questo piccolo libro ha avuto un impatto fortissimo sulla direzione della mia ricerca e professione, rafforzando la decisione di occuparmi della psicologia della famiglia e aiutandomi a comprendere come fosse possibile aiutare i genitori a divenire più competenti ed efficaci, soprattutto quando si trovano a gestire maternità e paternità complesse.

Il Parent Management Training: il contributo di Gerald Roy Patterson alla psicologia della famiglia

Gerald Roy Patterson rimarrà una presenza fondamentale nella ricerca futura, come colui che ha messo la scienza del comportamento al servizio della funzione e della dignità genitoriali. I suoi studi pionieristici hanno favorito la proliferazione di ricerche sperimentali e la messa a punto di programmi e protocolli di intervento a favore dei genitori che vivono situazioni di sofferenza e di difficoltà. Anche in Italia ormai da tempo sono stati sviluppati parent training che contribuiscono alla promozione della qualità di vita di moltissime famiglie (Prevedini e Pergolizzi, 2016; Prevedini et al. 2015), ispirati al modello di Patterson e ai contenuti del suo protocollo di intervento PMT.

Va anche ricordato che Gerald Patterson, insieme ad altri colleghi, ha sviluppato alcuni modelli matematici strutturali, le cui equazioni descrivono nel tempo la relazione fra variabili ambientali familiari e soggettivi e direzione della loro influenza, in particolare per spiegare lo sviluppo delle condotte aggressive in bambini e ragazzi. Con l’ausilio di dati tratti da una serie di studi descrittivi ha analizzato le transizioni particolari che si sviluppano fra genitori e figli aggressivi come processo di evoluzione della famiglia coercitiva. In queste famiglie, i genitori tendono a essere estremamente incoerenti e non hanno una padronanza nella gestione educativa dei figli. Per queste difficoltà ricorrono spesso a comandi e minacce fino a punire fisicamente i figli che non riescono a controllare.

Il PMT e stato inizialmente sperimentato negli anni ‘60 da Patterson e Reid presso l’Oregon Social Learning Centre. Il programma che ha coinvolto più di duemila famiglie (Patterson 1976; 1989; 1992) ha dimostrato che l’interazione genitore-figlio è una variabile centrale nell’eziologia del comportamento antisociale, in particolare quando queste relazioni sono connotate da interazioni coercitive. L’autore dimostra che interventi di parent training che modificano e migliorano le pratiche di gestione globale della famiglia, ottengono risultati significativi e a lungo termine in famiglie di preadolescenti. Molti autori hanno ripreso gli studi di Patterson, fra questi quello che attualmente ha ampliato ed esteso l’analisi dell’influenza dei contesti coercitivi è Biglan. In Nurturing enviroments for society change, Biglan (2013) afferma che contesti che promuovono la prosocialità diminuiscono la possibilità che siano attivate manifestazioni aggressive e disadattive, e aiutano a promuovere la flessibilità psicologica, cioè l’abilità di agire seguendo i propri valori, anche quando si è stressati da pensieri ed emozioni spiacevoli.

Tali contesti “nurturing” (vitali, generanti) garantiscono un maggior accesso ai rinforzi: a sua volta, il rinforzo positivo di condotte desiderabili rappresenta la migliore strategia per promuovere comportamenti adeguati e adattivi, non solo nel sistema famiglia ma anche nel contesto scolastico e sociale (Biglan, 2013). Infatti, è stato dimostrato empiricamente che lo sviluppo della prosocialità implica un minor numero di comportamenti problema (Caprara et al, 2000;. Kasser & Ryan, 1993; Sheldon & Kasser, 1998; Wilson & Csikszentmihalyi, 2008), un maggiore benessere psicofisico (Biglan e Hinds 2009), maggiori capacità di adattamento, relazioni sociali positive, livelli inferiori di rifiuto dai pari (Clark & Ladd, 2000), e maggiore successo lavorativo (Channer e Hoppe, 2001).

Da questi studi derivano i più attuali efficaci programmi di intervento per la prevenzione dei comportamenti antisociali in cui viene proposto un ribaltamento di focus nella gestione genitoriale di questi comportamenti: si passa dalla somministrazione di punizioni e penalizzazioni come strumenti di controllo e cambiamento dei comportamenti antisociali, a un saggio, cospicuo, contingente e coerente uso di rinforzi positivi dei comportamenti prosociali.

 

Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità – Report dal workshop

Si è svolto a Grosseto il workshop “Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità ” interamente dedicato alla descrizione e al trattamento di quei pazienti che presentano aspetti psicopatologici multiformi.

 

Si è svolto a Grosseto il workshop “Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità  organizzato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva (SPC) e tenuto dal dott. Antonio Semerari e dalla dott.ssa Livia Colle.

Il titolo dell’evento è stato tratto dal volume Curare i casi complessi – La terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità, pubblicato di recente da Laterza e curato da tre dei fondatori del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva, Antonino Carcione, Giuseppe Nicolò e Antonio Semerari. Il volume ha il pregio di riassumere, per il lettore che desideri accostarsi alle conoscenze sulla terapia dei disturbi di personalità, molte delle evoluzioni più recenti riguardanti la teoria, la ricerca di base e la pratica clinica. Scopo principale degli autori è quello di offrire delle linee guida per il trattamento e la terapia dei disturbi di personalità, secondo un modello di intervento integrato, in modo da fornire al professionista un utile strumento per coglierne per tempo le tracce e prepararsi alle difficoltà che questi pongono in psicoterapia.

L’intensa giornata di workshop è stata dedicata alla comprensione della sintomatologia che accomuna i casi complessi e in particolare alle linee guida della Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) proposta dai clinici del Terzo Centro di Psicoterapia Cognitiva per questa tipologia di pazienti.

 

La terapia dei disturbi di personalità: il problema della nosografia categoriale

Il seminario sulla terapia dei disturbi di personalità si è aperto ponendo l’attenzione al problema dell’attuale nosografia categoriale che presenta profondi limiti nella comprensione della complessità dei casi che si incontrano nella pratica clinica quotidiana.

Come spiegato dal dott. Antonio Semerari durante la prima parte del workshop è raro trovarsi di fronte a un quadro psicopatologico “puro” ovvero che risponda unicamente alle caratteristiche di uno specifico disturbo. Oltre il 60% dei pazienti con diagnosi di disturbo di personalità presenta almeno un altro disturbo di personalità e una varietà di sintomi e di manifestazioni psicopatologiche che caratterizzano altri disturbi psichiatrici.

L’autore inoltre, riprendendo una proposta formulata da Livesley (2003), spiega come la patologia della personalità è caratterizzata dall’alterazione delle “funzioni del Sé”, relative all’identità e all’autodirezionalità, e delle relazioni interpersonali, relative all’empatia e alla capacità di stabilire relazioni intime.

Semerari si sofferma sulle funzioni del Sé, specificando che l’identità riguarda il senso soggettivo di sé, l’autostima e la regolazione emotiva, mentre l’autodirezionalità riguarda gli scopi a lungo termine che gli individui riescono a posizionare su una gerarchia di rilevanza.

La personalità disturbata presenta dunque una rappresentazione di sé alterata – spiega Semerari – perché instabile e frammentata o perché rigida e ridotta, priva di quella flessibilità che permette di avere una coerenza soggettiva di noi stessi pur adattandoci alle richieste della vita, dell’ambiente e della nostra stessa maturazione personale, evolvendo con un senso di continuità. Con la patologia si perde tale continuità, a causa della frammentazione, o si perde l’evoluzione, a causa della rigidità

 

Terapia dei disturbi di personalità: i fattori alla base della psicopatologia

Secondo il modello proposto dai colleghi del Terzo Centro, nella terapia dei disturbi di personalità, l’intervento clinico dovrebbe indirizzarsi sui fattori generali alla base della psicopatologia della personalità, ovvero i fattori comuni a molti disturbi di personalità, quali:

L’attenzione è focalizzata suelle diverse funzioni metacognitive che risultano danneggiate in questi pazienti:

  • Il Monitoraggio ovvero la capacità di riconoscere le emozioni e i pensieri che costituiscono uno stato mentale, le motivazioni e gli scopi che sottendono il comportamento e la capacità di cogliere le relazioni immediate tra pensieri ed emozioni.
  • L’Integrazione ovvero la capacità di riflettere sui diversi stati e processi mentali in modo da poter ordinarli secondo una gerarchia di rilevanza e di rendere coerente il comportamento rispetto ai propri scopi a breve e a lungo termine.
  • La Differenziazione ovvero la capacità di differenziare tra mondo interno delle rappresentazioni e mondo della realtà esterna, che permette di compiere due operazioni fondamentali: distinguere tra fantasia e realtà e sviluppare una distanza critica dalle proprie credenze, ammettendo la possibilità che possano rivelarsi false.
  • Il Decentramento ovvero la capacità di riuscire a descrivere gli stati mentali e le azioni altrui, a prescindere dal proprio punto di vista o coinvolgimento nella relazione, in modo plausibile e chiaro, senza ricorrere a stereotipi o luoghi comuni.

Quando tali abilità risultano danneggiate il paziente presenta narrazioni opache, confuse e frammentate o caratterizzate da un alto livello di egocetrismo tale da esprimersi in forme primitive di pensiero che Bateman e Fonagy (2004) hanno chiamato “pensiero teleologico” (dove all’altro viene attribuita un’intenzione esclusivamente sulla base dell’effetto che il suo comportamento ha provocato sul soggetto).

Come è ampiamente spiegato nel volume Curare i casi complessi, la metacognizione è conoscenza della mente e noi siamo costantemente impegnati a usare tale conoscenza per regolare e influenzare i nostri e altrui stati mentali (come nei casi di malessere soggettivo e di problemi interpersonali). La capacità di regolazione degli stati problematici è un’altra fondamentale funzione metacognitiva, definita Padroneggiamento (mastery), che si riferisce alla capacità dell’individuo di affrontare i propri stati interni come problemi da risolvere, pianificando strategie di coping flessibili e adeguate.

Le strategie di mastery possono essere distinte in tre livelli che vanno dal più semplice, che richiede un ridotto senso di agentività da parte dell’individuo, a quelle più complesse, che richiedono operazioni di rielaborazione metacognitiva:

  1. Agire sullo stato problematico modificando lo stato corporeo (ad esempio assumere dosi congrue di psicofarmaci o effettuare sport) o utilizzando il contesto interpersonale come supporto (ad esempio chiamare un amico per gestire la solitudine o il senso di abbandono).
  2. Affrontare il problema imponendosi o inibendo un comportamento (ad esempio decidere di andare al cinema invece di continuare a rimuginare sul problema), regolando volontariamente l’assetto mentale (distrazione o evitamento).
  3. Affrontare il problema operando sulle valutazioni e le credenze che ne sono alla base (ad esempio cercando di formulare interpretazioni alternative) o tollerando i momenti di sofferenza ai quali non è possibile porre rimedio (ad esempio nel caso di un lutto).

Le capacità di regolazione degli stati interni, cruciali per il benessere psicologico, sono da considerarsi distinte dalle capacità di conoscenza degli stati mentali. Difatti, nella pratica clinica, è frequente incontrare pazienti abili nel descrivere e analizzare i propri stati mentali fonte di sofferenza, ma del tutto incapaci di rispondere a tale sofferenza con strategie efficaci e non controproducenti.

Durante questa prima parte del workshop, il dott. Semerari, attraverso la descrizione di due casi clinici, caratterizzati da una sovrapposizione di diagnosi categoriali differenti, ha illustrato il problema della complessità clinica di questi pazienti, sottolineando l’impossibilità di effettuare una diagnosi differenziale e invitando i clinici a chiedersi come si stabilisce una gerarchia di rilevanza all’interno di questi diversi aspetti psicopatologici.

 

La terapia dei disturbi di personalità proposta dal Dott. Semerari

L’ intervento terapeutico proposto dal dott. Semerari si svolge su un doppio setting (individuale e di gruppo) che necessita di un efficace lavoro di équipe e di una stretta collaborazione tra i terapeuti.

La prima parte della terapia dei disturbi di personalità prevede una fase di pre-trattamento, in cui viene effettuato l’assessment psichiatrico-diagnostico del paziente (primo colloquio clinico, test autosomministrati e interviste semi-strutturate). Durante la fase di trattamento, si procede prima di tutto con la terapia individuale proprio allo scopo di preparare il paziente alla successiva terapia di gruppo.

Curare i casi complessi la terapia dei disturbi di personalita – Report del workshop - semerari

Il Dott. Semerari durante il Workshop Curare i casi complessi: la terapia dei disturbi di personalità

 

Nella fase iniziale, Semerari spiega che le prime domande di tipo terapeutico che il clinico deve porsi di fronte a casi complessi possono ad esempio essere:

  • Sono presenti sintomi gravi che minacciano l’incolumità fisica del paziente?
  • Sono presenti sintomi che ostacolano il lavoro terapeutico?
  • Quale degli aspetti psicopatologici contribuisce di più alla patologia?

Rispondendo a tali domande il clinico può prospettarsi un’idea precisa dei diversi obiettivi terapeutici da perseguire.

All’interno del setting individuale, è importante comprendere inoltre quali sono i fattori che ostacolano un atteggiamento metacognitivo in questi pazienti. Oltre alle difficoltà metacognitive di base proprie dei disturbi di personalità, alcuni esempi possono essere:

  • La presenza di un problema relazionale con il terapeuta,
  • Un’attivazione emotiva troppo intensa per permettere al paziente di riflettere,
  • Una condizione di disorientamento e confusione sui propri stati interni.

Il dott. Semerari sottolinea l’importanza di vedere la rottura dell’alleanza terapeutica, che può avvenire quando si attiva un ciclo interpersonale disfunzionale tra paziente e terapeuta, come una preziosa occasione per il clinico di conoscere e sperimentare in prima persona cosa prova e come funziona il paziente nelle relazioni interpersonali. “Si tratta di un’idea esperienziale oltre che cognitiva che il paziente ci offre di sé all’interno della relazione terapeutica”.

Quando invece ci si trova di fronte a un’intensa attivazione emotiva del paziente lo scopo del clinico sarà quello di stabilizzare il tono emotivo della seduta ad esempio attraverso un atteggiamento calmo e rassicurante. “È attraverso un inconscio processo di elaborazione in cui si tiene conto della conoscenza del paziente, della storia della relazione terapeutica e dei segnali espressivi nel qui e ora che il terapeuta sceglie quale tono, postura, comunicazione non verbale è utile a regolare l’emotività in seduta

Infine, quando il paziente appare molto confuso e disorientato è importante guidare il paziente a riflettere proprio su tale disorientamento, percepito anche dal terapeuta (ad esempio facendogli notare il sovraffollamento di temi importanti all’interno della sua narrazione). “Ciò aiuterà il paziente a riorganizzare le informazioni e porsi in un atteggiamento maggiormente riflessivo”.

 

L’intervento di gruppo: la proposta della Dott.ssa Colle

Nella seconda parte del workshop, la dott.ssa Livia Colle ha illustrato in dettaglio due moduli di intervento di gruppo, dedicati in particolare a due aree sintomatiche: i pazienti che presentano ritiro sociale e i pazienti con difficoltà di regolazione emotiva.

La dott.ssa Colle ribadisce il concetto che:

l’idea alla base di questo modello di trattamento è che siano i deficit metacognitivi a causare in questi pazienti le difficoltà interpersonali e di identificazione e perseguimento dei propri obiettivi”.

Sono dunque sempre le funzioni metacognitive il focus dell’intervento di gruppo e di conseguenza lo sono anche le abilità interpersonali. I moduli di intervento di gruppo sono infatti organizzati in modo simile allo skills training proposto dal trattamento DBT per i pazienti borderline e hanno l’obiettivo di potenziare le abilità metacognitive e le abilità interpersonali dei pazienti.

I moduli previsti sono di due tipi: Il modulo metacognitivo e Il modulo di competenze interpersonali, all’interno dei quali le capacità metacognitive e le competenze sociali vengono sviluppate attraverso:

  • La psicoeducazione
  • Le esercitazioni e il role play in gruppo
  • I compiti a casa su specifici argomenti ogni settimana

Oltre all’utilità di apprendere nuove abilità – spiega infine la dott.ssa Colle – il gruppo ha l’enorme vantaggio di poterle sperimentare in un contesto interpersonale protetto. L’aspetto innovativo di questo intervento è proprio la condivisione graduale delle proprie esperienze personali. La condivisione diviene così un tema di discussione e contemporaneamente un’esperienza concreta più facilmente affrontabile e piacevole.

L’apprendimento nell’ autismo (2016) – Intervista a Giacomo Vivanti

Giacomo Vivanti ed Erica Salomone hanno scritto il libro L’apprendimento nell’autismo, con l’obiettivo di descrivere come alcuni aspetti del funzionamento autistico abbiano importanti ricadute sullo stile di apprendimento dei bambini con autismo. Nell’articolo è riportata l’intervista a Giacomo Vivanti.

 

 

Giacomo Vivanti è Assistant Professor al Drexel Autism Institute di Philadelphia dove prosegue la sua carriera di clinico e ricercatore nell’ambito dei disturbi dello spettro autistico (DSA).

Erica Salomone è Research Fellow presso il Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino e Visiting Researcher presso l’Institute of Psychiatry, Psychology & Neuroscience del King’s College London ed anche lei si occupa di diagnosi e intervento per i disturbi dello spettro autistico.

Insieme hanno scritto il libro L’apprendimento nell’autismo per Erickson che ha l’obiettivo di descrivere come alcuni aspetti cognitivi e comportamentali, caratterizzanti il funzionamento autistico, abbiano importanti ricadute sullo stile di apprendimento dei bambini autistici che dovrebbero quindi confrontarsi con proposte educative diverse da quelle pensate per la popolazione neurotipica. È un libro che ho letto con molto piacere e ho avuto la fortuna di poter parlare direttamente con uno degli autori.

 

L’intervista a Giacomo Vivanti, autore del libro L’apprendimento nell’ autismo

Intervistatrice: Grazie Giacomo per avermi concesso il tuo tempo per questa intervista. Questo libro mi pare avere un grande pregio: descrivere l’autismo in termini di differenze piuttosto che di deficit rispetto al funzionamento neurotipico. Che ricadute ha in termini di intervento rivolto all’insegnamento di abilità questo punto di partenza?

L apprendimento nell autismo 2016 - Intervista all’autore Giacomo VivantiGiacomo Vivanti: Pensare al bambino con autismo come ad un bambino che impara in modo diverso, anziché ad un bambino che impara “di meno”, crea un cambiamento di prospettiva che spinge all’azione. Per esempio, quando il bambino sembra non imparare, pensare in questo modo può spingere il terapista o l’insegnante a passare da una prospettiva del tipo “il bambino non impara perché essendo autistico ha meno capacità di apprendimento e non ci posso fare niente”, ad una prospettiva del tipo “se il bambino non sta imparando, sono io che sto insegnando con delle modalità che non sono quelle giuste per questo bambino, quindi devo sforzarmi per trovare quelle giuste”.

 

Intervistatrice: nel libro descrivete le caratteristiche che accomunano molti autistici, pur sottolineando la necessità di aver ben presente che tipo di realtà “vede” quel bambino e di conseguenza quale stile di apprendimento lo caratterizza, prima di pensare di potergli insegnare qualcosa. Ho l’impressione che i professionisti, almeno qui in Italia, non dedichino a questa fase preliminare il giusto interesse. Perché secondo te?

Giacomo Vivanti: Credo che ci sia una difficoltà ad assimilare i dati che vengono dalla ricerca scientifica nella pratica dei professionisti e dei centri di riabilitazione, che spesso seguono dei protocolli rigidi e legati all’orientamento teorico della loro disciplina o scuola di provenienza. Questo avviene ovunque, c’è una distanza di almeno un decennio tra ciò che viene documentato nella ricerca scientifica e ciò che entra a far parte della pratica clinica ed educative nei servizi.

 

Intervistatrice: Lavorare con bambini molto piccoli dà la possibilità di indirizzare la loro attenzione verso stimoli che altrimenti tenderebbero ad ignorare. È ragionevole pensare che ciò li possa rendere in seguito più “autonomi” nell’apprendimento?

Giacomo Vivanti: E’ plausibile che un bambino la cui attenzione e’ catturata spontaneamente dalle azioni, emozioni e le parole degli altri, diventi sempre più autonomo nella capacità di incorporare nuove conoscenze relative al mondo sociale. Per questo l’attenzione sociale, l’attenzione condivisa e altri “pilastri” dell’apprendimento sociale come l’imitazione sono un target fondamentale per l’intervento precoce – il bambino, facendo attenzione a quello che fanno e che dicono le persone intorno a lui, può acquisire autonomamente nuovi comportamenti che lo aiuteranno a creare nuove opportunità di apprendimento e a navigare la complessità del mondo sociale in modo sempre più autonomo.

 

Intervistatrice: Parallelamente allo sviluppo di competenze che possano favorire l’apprendimento sociale, esiste la possibilità di permettere al bambino di sfruttare alcune sue caratteristiche cognitive e comportamentali autistiche (penso per esempio agli interessi assorbenti e alla ripetitività) affinché impari qualcosa di utile per il suo sviluppo o sono da considerarsi sempre da ostacolo?

Giacomo Vivanti: L’obiettivo dell’intervento non è quello di curare la diversità ma di facilitare l’apprendimento di abilità che aiuteranno il bambino a godere delle stesse opportunità dei suoi coetanei. A seconda dei casi, alcune caratteristiche dell’ autismo  possono essere di ostacolo o di aiuto per questo processo. Per esempio, nel caso un bambino che passa la giornata a guardare un ventilatore, questo comportamento ripetitivo avrà probabilmente un impatto negativo sul suo sviluppo. Invece se un bambino ha un interesse ripetitivo per i dinosauri, questo interesse può essere una chiave per creare opportunità di socializzazione (visite al museo con i coetanei, attenzione condivisa verso libri e cartoni, scambio di figurine etc.) e magari può diventare una carriera professionale, come nel caso di Temple Grandin, una persona con autismo il cui interesse ripetitivo per gli animali ha aperto la strada ad una brillante carriera accademica. Quindi clinici ed educatori devono valutare di volta in volta quando una specifica caratteristica dell’ autismo è di aiuto o di ostacolo alla piena realizzazione del potenziale del bambino, considerando la gravità e l’impatto sulle opportunità di apprendimento e socializzazione.

 

Ancora grazie al dott. Vivanti per le sue risposte.

Il fenomeno overgeneral memory correlato al disturbo depressivo e al disturbo da stress post traumatico

Mentre si ha più facilità nel richiamare ricordi a livello più astratto, non sempre si è in grado di recuperare una determinata memoria specifica, tale fenomeno è detto overgeneral memory (OGM) e fa riferimento al fallimento nel recupero dei ricordi autobiografici specifici. 

Daniela Chieppa – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Se dovessimo riflettere sui nostri ricordi, potremmo chiederci: i nostri ricordi sono realmente specifici come sembrano? Realmente ricordiamo tutto nel modo in cui vorremmo ricordarlo? E come lo ricordiamo?

A tal proposito la memoria autobiografica gioca un ruolo di fondamentale importanza. Essa è importante  per il funzionamento umano, contribuisce alla strutturazione del Sé, all’azione del Sé nel mondo e a far si che l’individuo possa perseguire con efficacia i propri obiettivi alla luce delle esperienze passate (Williams, Barnhofer, Crame et al. 2007).

 

Memoria autobiografica: tre livelli di specificità

Conway e Pleydell – Pearce (2000) hanno descritto le memorie autobiografiche come costruzioni mentali dinamiche generate da sottostanti informazioni di base che si intrecciano sia con le conoscenze semantiche che il soggetto ha di sé, sia con il sistema motivazionale dello stesso. La conoscenza di base della memoria autobiografica è composta da conoscenze relative al Sé organizzate in un magazzino di memorie autobiografiche secondo tre livelli di specificità.

Il livello più alto si riferisce a periodi di vita, a periodi prolungati di tempo con punti di inizio e di fine associati ad un tema prevalente come gli episodi nell’infanzia o nelle relazioni familiari.

A un livello intermedio si trovano gli eventi generali ovvero sia gli eventi ripetuti che gli eventi singoli, ancora una volta in forma di esperienze relativamente astratte, di sintesi concettuali. Da qui si evince che la gerarchia si colloca in modo tale che le rappresentazioni di eventi generali siano associate a periodi prolungati in cui si sono verificati per esempio l’evento generale di “portare il mio bambino all’asilo” associato con il periodo di vita in cui “mio figlio era piccolo”.

A loro volta questi due livelli sono associati con le informazioni codificate al livello più basso denominato conoscenza specifica dell’evento (ESK) il quale consiste di aspetti sensoriali concreti – percettivi di eventi unici, che spesso include immagini visive piuttosto che esperienze passate e sintesi astratte, concettuali e verbali.

 

Il fenomeno Overgeneral Memory

Il recupero di una determinata memoria autobiografica si verifica quando quindi la conoscenza di base si deposita in uno stato stabile, con simultanea e coordinata attività nella rappresentazione archiviata di un evento nella conoscenza di base, eventi generali e periodi di vita prolungati. Ma questo non succede sempre. È come se il processo si interrompesse al  livello più astratto della gerarchia dei ricordi. È come se la ricerca di informazioni autobiografiche si fermasse ad un primo livello della gerarchia o ad un livello intermedio invece di proseguire oltre.

Tale fenomeno è detto overgeneral memory (OGM) e fa riferimento al fallimento nel recupero dei ricordi autobiografici specifici. Questa mancanza di specificità della memoria caratterizza soprattutto i pazienti con disturbi depressivi (Williams, 1996), e pazienti con disturbo da stress post – traumatico e contribuisce all’insorgenza di tali disturbi e a loro mantenimento.

Alcuni studi considerano il fenomeno overgeneral memory come un aspetto funzionale, e quindi potrebbe essere definito come protettivo o adattivo (Raes et al. 2003). Ma non dobbiamo tralasciare il fatto che a lungo termine, la ridotta specificità della memoria potrebbe avere effetti nocivi.

 

Overgeneral model e depressione

Williams (1996), teorizza che una ridotta specificità della memoria possa essere un modo per regolare le emozioni. Un modo quindi, per proteggerci dal ricordare eventi che potrebbero evocare in noi emozioni spiacevoli, dolorose e negative. Questa ridotta specificità potrebbe essere considerata come una strategia cognitiva di evitamento. Probabilmente, questa strategia sarebbe messa in atto spesso non intenzionalmente. Peraltro, come risultato di eventi traumatici subiti nella vita, questa strategia perde il suo carattere di flessibilità e proprio questa perdita può essere importante nel mantenimento della depressione.

Il fenomeno overgeneral memory sarebbe importante per molteplici ragioni. Una di queste si riferisce all’ipergeneralizzazione nei soggetti che nel passato hanno avuto un disturbo depressivo, anche se attualmente non più presente (Machinger et al. 2000, b; Williams e Dritschel, 1988). Da tale prospettiva, potremmo osservare il fenomeno come un predittore di successivi disturbi dell’umore. Si potrebbe ipotizzare che l’insorgenza della depressione possa dipendere dal fallito recupero o fallita codifica degli aspetti sensoriali, di eventi caratterizzati da rilevanti esperienze dolorose.

Inoltre, uno studio condotto da Raes et al. (2006) ha mostrato come l’ipergeneralizzazione della memoria e la scarsa capacità di ricordare dove e come è stata acquisita l’informazione sono associate alla ruminazione, anche dopo la remissione dei sintomi depressivi.

Il fenomeno overgeneral memory sarebbe importante in quanto correlato alla performance nel problem solving (Pollock e Williams 2001; Evans et al. 1992); alla rappresentazione di eventi futuri (Williams et al. 1996) e predice la persistenza della depressione (Dalglaish et al. 2001). In uno studio di Brittlebank et al. (1993) pazienti depressi furono seguiti per sette mesi e valutati in tre tempi diversi. I punteggi dell’AMT (Autobiographical Memory Test) nella prima valutazione spiegarono una variazione del 33% nei punteggi della depressione 7 mesi più tardi. Da questi risultati, gli autori dedussero che il fenomeno overgeneral memory è un indicatore di “tratto” anziché di stato, che rende vulnerabili alla depressione. Ne consegue che, i risultati di Brittlebanck et al. (1993) dovrebbero essere considerati in termini di correlazione anziché considerati in termini causali e considerare il fenomeno come uno stile cognitivo a lungo termine.

 

Overgeneral memory e trauma

Come illustrato precedentemente, alcuni studiosi hanno ipotizzato che la ridotta specificità della memoria possa essere una conseguenza del trauma o della depressione. Al contrario, altri suggeriscono che possa essere un fenomeno già presente prima che possa aumentare la vulnerabilità alla depressione. Kuyken e Brewin (1995) in uno studio hanno confrontato le donne con disturbo depressivo con e senza una storia di abuso sessuale infantile. I risultati mostrarono che coloro che hanno riportato una storia di abuso recuperavano significativamente memorie più ipergeneralizzate rispetto a pazienti con un disturbo di depressione che però non hanno riportato tali storie.

Tali dati indicano che il livello dell’ overgeneral memory  potrebbe essere correlato all’esperienza del trauma in aggiunta ad una diagnosi di depressione. Altre  prove a favore dell’ipotesi che una ridotta specificità della memoria sia una conseguenza del trauma vengono da Stokes e collaboratori (2004) i quali constatarono che negli adolescenti vittime di ustioni vi era la presenza di una memoria meno specifica rispetto al gruppo di controllo.

Mentre Willebrand et al. (2002) hanno scoperto che la memoria specifica degli adulti vittime di ustioni non differiva dal gruppo di controllo. Ciò suggerisce che le reazioni al trauma possono variare in funzione all’età. La scoperta relativa alla rilevanza della natura del trauma è importante perché la ricerca ha trovato che di solito, col passare del tempo, gli eventi negativi tendono a perdere la loro capacità di suscitare un effetto negativo, un fenomeno denominato come Fading Affect bias ovvero lo sbiadimento dei ricordi spiacevoli. E così, oltre ad essere più probabile che le persone con depressione e disturbo da stress post-traumatico abbiano sperimentato eventi negativi, probabilmente continueranno a sperimentare elevati livelli di effetto negativo in risposta al ricordo dell’evento. Anche se la maggior parte degli studi hanno trovato prove di un’associazione tra la memoria specifica e il trauma, ci sono alcuni che non sono riusciti a replicare questo effetto (Arntz, Meeren, & Wessel, 2002; Kremers, Spinhoven, e Van der Does, 2004; Peeters, Wessel, Merckelbach, & Boon-Vermeeren, 2002; Wessel Meeren, Peeters, Arntz, & Merckelbach, 2001; Wilhelm, McNally, Baer, & Florin, 1997).

Tuttavia, questi studi possono intervenire nei più profondi livelli di trauma o focalizzarsi sui disturbi di depressione o di personalità piuttosto che sul trauma come obiettivo iniziale della ricerca in quanto, recenti investigazioni che hanno misurato il disturbo da stress post-traumatico hanno suggerito che questo fenomeno potrebbe essere collegato direttamente ai sintomi del disturbo da stress post-traumatico piuttosto che al trauma in sé (Goodman, Quas e Ogle, 2010). In sintesi, il fenomeno overgeneral memory è una variabile che si è mostrata particolarmente influenzata dal trauma ed è relativamente specifica nei disturbi emotivi che coinvolgono la depressione, il disturbo da stress post-traumatico, o entrambi.

In conclusione, dal quadro appena descritto emerge che il modo in cui si ricorda il proprio passato è importante tanto quanto quello che viene ricordato e che la specificità della memoria può essere influenzata e può essere colpita da diverse variabili psicologiche andando a compromettere in maniera significativa alcuni aspetti del funzionamento cognitivo come la capacità di problem solving e l’abilità di immaginare eventi futuri. Ma con trattamenti adeguati ad esempio attraverso l’utilizzo del protocollo MBCT (Mindfulness – Based Cognitive Therapy) sarebbe possibile modificare e modulare la overgeneral memory per ridurre la depressione.

L’uso del gioco nella lotta contro la depressione 

I videogiochi risultano essere una modalità facilmente implementabile ed efficace nel trattamento dei disturbi mentali, depressione compresa. È possibile incrementare ulteriormente tale efficacia? L’utilizzo di videogiochi e di applicazioni di “brain training” viene sempre più promosso e pubblicizzato come modalità di trattamento efficace nella cura della depressione.

 

I videogiochi contro la depressione

Recentemente, un nuovo studio condotto dai ricercatori dell’Università della California ha anche messo in luce come l’esposizione a specifici messaggi prima dell’accesso a videogiochi appositamente sviluppati per il trattamento dei sintomi depressivi possa favorirne l’utilizzo e promuoverne ulteriormente l’efficacia.

Per quanto fin dagli anni ’80 si sia parlato, all’interno della comunità scientifica, della possibilità di sfruttare l’utilizzo dei computer come piattaforma ludica a fini terapeutici (ad es. Larose et al., 1989), spesso i videogiochi sono stati studiati in ottica sia di rischio per la salute fisica e psicologica sia di minaccia per lo sviluppo di dipendenze.

Da qualche anno, però, mettendo in luce gli aspetti positivi di una terapia “tecnologica”, sta diventando via via più frequente l’utilizzo dei videogiochi come possibilità di trattamento per patologie sia fisiche sia psicologiche (Griffiths, 2004; Griffiths, 2003). I videogiochi, infatti, possono essere visti come un allenamento intensivo di diverse abilità, che può portare anche a miglioramenti strutturali a livello cerebrale. Sembrerebbe, ad esempio, che giocare per almeno 30 minuti al giorno per un paio di mesi possa portare ad un incremento neuronale in aree quali ippocampo, corteccia prefrontale dorsolaterale e cervelletto, coinvolte in diversi processi cognitivi (ad es. memoria, pianificazione strategica, controllo motorio) e danneggiate in caso di disturbi mentali quali schizofrenia, disturbo post-traumatico da stress, patologie neurodegenerative e anche disturbi dell’umore (Kühn et al., 2014).

Diversi sono infatti gli studi attualmente presenti in letteratura che attestano l’efficacia di interventi tramite videogiochi per diverse patologie (ad es. per la depressione si veda la metanalisi di Li et al., 2014).

 

Come prevenire il drop-out e motivare all’utilizzo dei videogiochi con finalità terapeutiche

Nonostante le evidenze sull’efficacia, però, ancora poco si è detto su come poter incrementare il coinvolgimento delle persone nell’utilizzo di queste applicazioni ludico-terapeutiche. Molto alti sono infatti i tassi di drop-out e di non aderenza al trattamento (Doherty et al., 2012)

Secondo Khan & Peña, autori della recente ricerca, grazie all’utilizzo di messaggi di avviso persuasivi ed accuratamente progettati, è possibile far sì che i videogiochi per la salute mentale vengano percepiti ed utilizzati come una modalità di cura valida e sostenibile, aumentando così la compliance al trattamento e mettendo da parte possibili riserve circa la sua efficacia.

Per poter dimostrare ciò, gli autori hanno coinvolto un totale di 160 studenti universitari americani, con un’età media di 21 anni, ai quali hanno chiesto di completare un breve questionario sulla depressione (PHQ-9; Kroenke & Spitzer, 2002) per poter stabilire il livello di patologia prima del trattamento. Più della metà dei partecipanti si è posizionata nelle categorie “depressione minima” e “depressione lieve”.

I messaggi di avviso, così come i successivi videogiochi, sono stati messi a punto in modo da riguardare la depressione. I messaggi, invece che limitarsi ad essere dei meri reminder per invitare a svolgere il compito, si differenziavano tra loro per il grado di attenzione posta sui fattori di rischio e il livello di agency. Poteva, ad esempio, venir data maggiore enfasi ai fattori interni, considerando il disturbo come causato, ad esempio, da squilibri chimici o fattori ereditari, o, al contrario, ai fattori esterni, evidenziando il ruolo di variabili situazionali quali il lavoro o le relazioni. Nonostante le differenze di approccio iniziale, tutti i messaggi, in ogni caso, si concludevano con una frase volta a motivare i partecipanti ad usufruire del videogioco: “Così come accade per l’allenamento fisico, la maggior parte dei benefici che è possibile ottenere grazie a questi compiti deriva dall’utilizzarli in modo continuativo e senza interruzioni e ponendo in essi il massimo impegno possibile”.

All’interno dello studio, gli autori hanno utilizzato sei diversi videogiochi, da tre minuti ciascuno, implementati a partire da altrettanti compiti neurofisiologici (Simon task, go/no go emotivo, face Stroop emotivo e flanker task), che erano già stati efficacemente utilizzati per migliorare il controllo cognitivo in persone affette da depressione (Millner et al., 2012). Per controllo cognitivo si intende quell’abilità di esercitare un certo grado di controllo sui propri pensieri e comportamenti e su dove dirigere l’attenzione al fine di riuscire ad ottenere un obiettivo ed effettivamente anche Khan & Peña hanno potuto rilevare come l’utilizzo di tali videogiochi, specificatamente adattati per la depressione e calibrati in modo da andare a lavorare su diverse componenti del controllo cognitivo (ad es. gestione del conflitto e risoluzione dell’interferenza), riuscisse ad aiutare la maggior parte dei partecipanti a sentire di poter in qualche modo controllare la malattia.

Inoltre, il descrivere la depressione come un qualcosa causato internamente da fattori geneticamente predeterminati, ma evidenziando anche l’esistenza di applicazioni e videogiochi per allenare, e in qualche modo modificare, il cervello, aiutava i partecipanti a sentirsi in grado di poter fare qualcosa per assumere il controllo della propria depressione, facendo sì che percepissero il gioco come altamente fruibile e che riportassero di volerlo utilizzare maggiormente.

D’altra parte, il descrivere, per mezzo di messaggi più esternalizzanti, la depressione come causata da fattori altri da sé, portava i partecipanti ad utilizzare il videogioco per più tempo, ottenendo anche punteggi migliori, forse sempre per una questione di maggiore percezione di controllo della situazione. È infatti possibile che, percependo se stessi come impotenti, i partecipanti avessero la tendenza a reagire d’impulso e passare più tempo giocando, forse nella speranza di ottenere un qualche aiuto dall’esterno. Questo tipo di reazione, però, in quanto nata dall’urgenza di sentimenti di incapacità ed inettitudine, è improbabile che possa apportare dei benefici anche sul lungo termine; al contrario, facendo leva sulla causalità interna, è possibile aumentare la percezione di fruibilità ed utilità dell’applicazione e, di conseguenza, l’intenzione di utilizzarla, andando a modificare la frequenza di utilizzo non immediatamente, ma sul lungo periodo e, idealmente, anche in modo più stabile.

Nonostante i risultati promettenti circa l’utilizzo di messaggi di avviso prima del training vero e proprio, al fine di incrementare l’uso di tali applicazioni, all’interno dello studio non è stato effettivamente valutato se ad un maggior utilizzo dei videogiochi possa corrispondere anche una più ingente diminuzione dei sintomi depressivi (gli autori affermano di voler valutare ciò in studi successivi). Inoltre, come anche affermato dagli autori, dal momento che la maggior parte dei soggetti partecipanti presentava punteggi di depressione molto bassi, sarebbe interessante valutare se tale incremento di utilizzo delle applicazioni, qualora si dimostrasse efficace nel ridurre gli indici di depressione, possa essere significativamente rilevabile anche in caso di patologia clinicamente significativa.

Continuando la presente linea di indagine, gli autori stanno testando la fruibilità a livello terapeutico di un’applicazione per telefono cellulare che ne permetta l’utilizzo in modo ancora più significativo e senza dover necessariamente disporre di un computer.

In conclusione, è possibile affermare che applicazioni e videogiochi di questo genere rappresentano il futuro dei trattamenti nell’ambito della salute mentale, da affiancare, ad esempio, ad una psicoterapia per massimizzarne l’efficacia o, magari, in ottica preventiva, riuscendo sperabilmente a coinvolgere in modo più consistente anche quella fascia di popolazione composta da adolescenti e giovani adulti che, per quanto risulti essere più a rischio di altre per lo sviluppo di patologie mentali, è restia a ricercare un aiuto di tipo professionale (Hunt & Eisenberg, 2010), ma si trova estremamente a proprio agio con tutto ciò che riguarda la tecnologia.

La psicoterapia della Gestalt nel postmodernismo

Dal punto di vista clinico la consapevolezza per la psicoterapia della Gestalt è il principale strumento terapeutico. La consapevolezza è l’abilità di concentrarsi su ciò che esiste ed è attuale nel presente, ovvero l’essere in contatto con la propria esistenza.

Roberto Minotti, Iolanda Gaudiosi

 

La Psicoterapia della Gestalt e l’importanza di esprimere le emozioni represse

La Psicoterapia della Gestalt, come ogni altro modello teorico, è la risposta ad un’ urgenza che emerge da un contesto socio-culturale ben determinato.

Nel 1951, in un periodo in cui il modernismo, come atteggiamento di progressivo affrancamento dal passato e dai valori ritenuti obsoleti, rappresenta il pensiero dominante, la Psicoterapia della Gestalt con la “Teoria e pratica della Terapia della Gestalt” pubblica il suo testo fondamentale.

È un periodo in cui la creatività e il desiderio di ritrovare la propria soggettività, per troppi anni eclissata, riemerge prepotentemente dallo sfondo, e il paradigma gestaltico sembra poter dare voce ad emozioni come la rabbia e l’aggressività. Rimangono storici i seminari a Big Sur, in California, presso l’Esalen Institute; in cui l’esperienza, l’espressione delle emozioni più represse, la presa di consapevolezza e l’autoaffermazione divennero i nuovi imperativi categorici.

Il cittadino della seconda metà del XX secolo riscopre la propria autonomia, la responsabilità verso la propria libertà, comprendendo che per accrescere la propria personalità, sia necessario un rapporto dinamico con l’ambiente. L’individuo e i suoi desideri trovano un pieno soddisfacimento in un contesto storico che sembra finalmente in grado di esaudire tale volontà. Alla fine degli anni ’60 le nuove generazioni si liberano dai legami culturali, mettendo in crisi tutto il sistema normativo e politico. È l’alba dell’era della comunicazione in tempo reale e dell’interconnessione tra popoli e, al contempo, il tramonto del modernismo. Sono i personal computer, i mass-media e l’avvento di Internet, a trasformare la persona in soggetto individuale, rivoluzionando completamente tutto: i confini fisici, lo spazio e il tempo, e poi quelli psicologici si riducono sempre di più, fino a fondersi, sancendo l’epoca della percezione globale. Si parla di prossimità a distanza, di passioni tristi e, paradossalmente, in un periodo in cui tutto confluisce verso un’unica forma amalgamandosi e omologandosi, il ground si sgretola.

I centri di gravità permanente attorno ai quali i valori e i saperi convergevano realizzando la cultura e la storia, lentamente svaniscono; ogni sito, ogni portale o social network diviene un possibile palco da cui affacciarsi per osservare αγορά individuali, da cui esprimere valori e pensieri in solitudine.

Nella nascita di una società postmoderna un ruolo determinante è esercitato dai mass media; che caratterizzano questa società non come una società più “trasparente”, più consapevole di sé, più “illuminata”, ma come una società più complessa, persino caotica e, infine, che proprio in questo relativo “caos” risiedono le nostre speranze di emancipazione”. Gianni Vattimo confermando la visione multipolare dell’individuo post moderno in una società complessificata, ci dà nuove coordinate per comprendere l’evoluzione culturale per i prossimi decenni. Se la frammentazione dello sfondo collettivo determina uno spaesamento e nuovi malesseri, lo stesso caos può certamente rappresentare una risorsa, se letto con una diversa consapevolezza. Resta da chiederci se un modello teorico come quello gestaltico possa calarsi completamente in una realtà che in qualche modo contraddice la sua stessa definizione, la buona forma, o se tale paradosso non costituisca già un elemento di auto e di meta analisi.

Già porsi la domanda se effettivamente l’instabilità si debba considerare una difficoltà e la frammentazione un disagio, vuol dire situarsi in un’ottica che tenga conto della complessità del contesto dell’individuo attuale, accettando di poggiarsi su di un ground mutevole, sbaragliando il campo da ogni euristica o introietto, per giungere ad una comprensione più autentica dei vissuti che ci riferiscono i nostri pazienti. La relazione terapeutica è un viaggio che si fa in due, ed è impensabile credere che sulla stessa barca in cui l’uno soffre il rollio, l’altro si senta stabile come sulla terra ferma.

La Psicoterapia della Gestalt, attraverso i concetti come: adattamento creativo, multipolarità del sé, continuum di consapevolezza e ascolto empatico, è certamente in grado di accogliere concretamente la dimensione fluida dell’uomo post-moderno e delle sue forme di contatto istantanee e apparentemente disconnesse.

 

Psicoterapia della Gestalt: la fenomenologia dell’intenzionalità e la relazione dialogica

Dal punto di vista clinico la consapevolezza per la psicoterapia della Gestalt è il principale strumento terapeutico. La consapevolezza è l’abilità di concentrarsi su ciò che esiste ed è attuale nel presente, ovvero l’essere in contatto con la propria esistenza. Ai nostri pazienti chiediamo di esprimere ciò di cui sono consapevoli in quel momento. Hedmund Husserl ha definito tale “momento” di contatto come la “datità” del mondo, in cui lasciamo che il fenomeno riempia il nostro orizzonte di conoscenza. In questo modo, il paziente impara in modo graduale che ciò di cui è consapevole, rappresenta ciò che realmente esiste per lui. Non c’è una realtà giusta o sbagliata. Ciò che è, è.

Fritz Perls propone il concetto di consapevolezza universale come ipotesi utile che si oppone al trattare noi stessi come oggetti o cose. Noi siamo consapevolezza piuttosto che avere consapevolezza. La consapevolezza, la coscienza e l’eccitazione sono esperienze sicchè hanno tra loro un legame molto forte e rappresentano le dimensioni che vorremmo evidenziare in questo lavoro. Con l’ipotesi di una consapevolezza universale, una coscienza unificatrice, ci disponiamo a considerare noi stessi in modo vitale in una presentificazione sempre aggiornata, nell’hic et nunc, e non a teorizzare intorno ad una mente, su concetti astratti come un Io, un Super-Io e così via (Perls, 1976). Alla luce di questi assunti metodologici, al terapeuta della Gestalt è richiesto uno “sforzo” in più da compiere nel processo terapeutico, quello di essere presente principalmente a se stessi, in un dasein riflessivo e descrittivo, partendo sempre dalle proprie sensazioni e propriocezioni.

Senza dubbio esiste fra terapeuta e paziente una relazione asimmetrica e che il potere trasformativo della psicoterapia si fonda proprio sulle caratteristiche specifiche di questa asimmetria, ma ciò non deve impedire alla relazione di costituirsi autenticamente senza pregiudicare il processo di co-creazione dell’ altra. E’ grazie ad esso, che la persona che chiede aiuto si trova di fronte un professionista in grado di regolare il proprio modo di entrare in relazione, sapendo indietreggiare con la propria persona e avanzare con la propria presenza, modulandosi con i bisogni del paziente, al fine di creare le condizioni più utili per elaborare le modalità e i contenuti condivisi.

La dinamica figura-sfondo, l’autoregolarsi organismico in un’omeostasi costante, costituisce il campo psicologico e la gestalt in cui l’esperienza terapeutica si realizza. È il criterio estetico della relazione ad orientare sia il terapeuta, che il paziente verso un medesimo sentire ed un ascolto comune. La questione delicata è, quindi, definire questa asimmetria nel modello gestaltico. Solo negli ultimi decenni si è affermata, in ambito psicologico, una concezione del setting come di un campo bipersonale e si è prodotta una descrizione del dialogo clinico che identifica un andamento a spirale. Si è arrivati a considerare i due componenti la coppia terapeutica, come contemporaneamente coinvolti nell’attualità dello stesso processo.

Ciò significa che il comportamento dei due protagonisti non può essere compreso senza prendere, contemporaneamente, in considerazione quello dell’altro. In questo bifrontismo, il campo psicologico si energizza, regolando i livelli di eccitazione di entrambi, in un rapporto dinamico. Si è progressivamente affermata la concezione secondo la quale il dialogo clinico può essere descritto da un andamento a spirale, costituito da sequenze di interazioni comunicative fra loro concatenate, che si susseguono nel tempo e che, progressivamente, ampliano e approfondiscono i contenuti sui quali paziente e psicoterapeuta dialogano.

E’ la singola interazione a orientare quanto accade successivamente, divenendo, quindi, l’unità di analisi dell’intero processo. In questa prospettiva, le comunicazioni del paziente non sono più considerate soltanto espressione di un mondo interno di significati, e le attribuzioni sullo psicoterapeuta come esito di una dinamica transferale, ma degli adattamenti creativi prodotti dall’incontro tra due persone in relazione.

La fenomenologia che ne emerge non è più una datità individuale, ma qualcosa che si crea con la responsabilità di entrambi. Potremmo parlare di polifenomenologia; sia il malessere che l’adattamento creativo (concetto caro alla gestalt classica) non può più essere considerato come espressione individuale, ma sempre e costantemente come universo relazionale. Ciò che accade nel colloquio è qualcosa che prende forma soltanto nel presente, dai significati soggettivamente attribuiti all’andamento delle diverse sequenze, spontaneamente e in modo imprevedibile.

Sequenze che avvengono, naturalmente, all’interno di un contesto specifico. La fenomenologia della relazione secondo la psicoterapia della Gestalt ci testimonia che, nonostante l’asimmetria dei ruoli, un’influenza si verifica in entrambe le direzioni e accompagna l’intervento di entrambi. Questa diversa concezione dello scambio comunicativo porta necessariamente a ripensare le funzioni dello psicoterapeuta. Egli, ora, è dentro la relazione in modo più pieno e consapevole, gli viene riconosciuta un’assertività e un’influenza che non possono più permettergli processi di deresponsabilizzazione rispetto a quanto accade, sia rispetto alle caratteristiche del materiale che emerge, che alla qualità del rapporto, fino ai possibili momenti di regressione e peggioramento sintomatologico del paziente. Il primo strumento terapeutico è, perciò, egli stesso. Nella ricerca di contatto con l’altro, nel continuum di consapevolezza, l’osservazione fenomenologica e l’intenzionalità del terapeuta devono partire, necessariamente, da un auto processo di esplorazione, se si vuole sbaragliare il campo da possibili confluenze e introietti iniziali. Osservando l’altro, consapevolmente o inconsapevolmente, qualcosa ci accade, qualcosa ci cade addosso (Waldenfels B. , 2011).

È il pathos “sentito”, che ci svela che qualcosa, in quell’hic et nunc, è accaduto. Sarà poi la consapevolezza del terapeuta, frutto dell’intenso lavoro fatto principalmente su se stesso, a tradurre, in un tempo sempre più breve, quella sensazione che emerge da uno sfondo indistinto, in una figura emotiva (Borgna E.,2015). Senza una tale “coscienza”, lo iato tra pathos e risposta, creerebbe una frattura incolmabile nella relazione terapeutica. Nella psicoterapia della Gestalt la discriminazione da parte del terapeuta tra gli “introietti” evidenti che impediscono un sentire autentico, da quelli che esprimono un vissuto chiaro, sono parte nucleare e fondante della reazione con il paziente; tale momento ci introduce il concetto di neutralità, costruito dall’intendere un’obiettività certa e garantita, con l’idea di creare un posto al paziente dentro di sé, non confondendosi con lui.

Tale distanza ci riconduce al concetto di estraneo introdotto dalla fenomenologia contemporanea. Infatti, “fino a quando ci ostiniamo a trattare l’estraneo come un “qualcosa” o un “qualcuno” d’ordine direttamente accessibile e definibile, che ci sta là di fronte senza troppi problemi, lo mancheremo fin dall’inizio. Il mantenere questa separatezza, implica la capacità da parte del terapeuta di conservare la lucidità di fronte alle intuizioni che suscita il mondo interno del paziente, attraverso meccanismi, quali per esempio la proiezione; nella stessa misura, non si dovrebbe misconoscere la possibilità d’influenzare con il proprio modo di sentire ed essere, e con i propri comportamenti, l’altro che è davanti a noi. Questa modalità di considerare il processo comunicativo porta ad una maggiore umiltà da parte del terapeuta, che non assume più una posizione di privilegio, con una pseudo inviolabilità nell’interazione con il paziente, ma che convalida eticamente le sue precise competenze, tra cui, la capacità di imparare dalle risposte del paziente. Questa consapevolezza è l’humus su cui trarranno sostegno e nutrimento le radici di entrambi, il campo psicologico ed esistenziale in grado di far sviluppare, ogni volta e in una gestalt sempre rinnovata, la relazione terapeutica.

La psicoterapia ha basi solide: lo dice la Scienza

Ad oggi, ancora per molti, la Psicologia e la Psicoterapia sono un tabù e di frequente riecheggia un interrogativo:“Cosa farà mai uno strizzacervelli più di un caffè con un buon amico? Ma la psicoterapia è utile?

 

La Psicoterapia risulta indicata per i trattamenti di stati ansiosi, stati depressivi, disturbi di personalità, difficoltà relazionali, forme di disagio emotivo e psicologico di differente gravità. Studi scientifici evidenziano miglioramenti sui sintomi, sulle capacità psicologiche e di auto-rappresentazione, sulla regolazione emotiva, sul funzionamento dell’individuo (Buchheim et al., 2012; Beutel et al., 2010).

 

La psicoterapia ri-attiva

All’interno del setting terapeutico un atteggiamento autentico, flessibile ed accogliente del terapeuta favorisce la costituzione dell’ Alleanza Terapeutica rendendo possibile il lavoro di ricostruzione e risignificazione della storia di vita del soggetto:

La psicoterapia, in tutte le sue incarnazioni, riguarda la riattivazione della mentalizzazione.(…) La mentalizzazione può solamente essere acquisita nel contesto di una relazione d’attaccamento. E questo significa che la terapia deve incorporare una base sicura. Non ci può essere legame senza comprensione, anche se la comprensione non è possibile senza un legame (Fonagy et al., 2005).

Il terapeuta non riflette in modo esatto gli stati mentali del paziente ma fornisce risposte empatiche congruenti che gli permettono di trovare se stesso e nel contempo favoriscono l’attività riflessiva (Gallese et al., 2006).

Accolta e compresa nella sua soggettività, la persona riattiva dunque il processo delle esperienze emotivo-affettive, partecipando in modo attivo al processo di cura per poter sperimentare e assimilare comportamenti più maturi e funzionali.

L’ampliamento e l’integrazione della narrazione di sé all’interno di un percorso terapeutico, consente di operare sulle memorie implicite affinché non intralcino costantemente nella vita quotidiana. In tal modo il soggetto comincia a pensare che l’esperienza attuale potrebbe concludersi in modo diverso rispetto a quella passata.

I clienti sono parte attiva ed integrale di un processo collaborativo in cui l’obiettivo è osservare, capire e ripensare insieme i loro problemi, tanto più profondi erano gli effetti su di loro (Finn, 2009).

 

Siamo ciò che pensiamo e facciamo

Il cervello è un organo sorprendente in rigenerazione continua, proprio come un muscolo se poco utilizzato, si può ridurre la sua energia ed adattabilità.

Allenare quotidianamente la mente, consente di mantenere un certa flessibilità emotiva, sviluppare la creatività ed organizzarsi più adeguatamente ad affrontare nuove sfide. A qualsiasi età, ugualmente in età adulta, imparare una nuova lingua o uno strumento musicale può potenziare la capacità di fronteggiare il cambiamento e le avversità (Li et al., 2014).

Tale condizione è sostenuta dalla Neurogenesi, dalla possibilità del cervello di formare nuove cellule cerebrali. I neuroni sono continuamente generati da cellule staminali in alcune regioni del cervello per tutto l’arco di vita nella maggior parte dei mammiferi. La trasmissione di segnali elettrochimici nell’intero cervello, permette la formazione di percorsi neurali necessari per la trasmissione delle informazioni. Una volta creatisi tali percorsi, i neuroni utilizzeranno le medesime vie, assimilando informazioni ed abitudini sempre più profondi nel cervello.

Tra i fattori neurotrofici, particolare interesse è stato rivolto al Brain Derived Neurotrophic Factor (BDNF) una proteina cruciale per la sopravvivenza dei neuroni già esistenti, la crescita e la differenziazione di nuovi neuroni e sinapsi, operando su precisi neuroni del sistema nervoso centrale e del sistema nervoso periferico. Si riscontra in alcune aree cerebrali (Corteccia Prefrontale, Ippocampo) collegate ai processi di apprendimento e della memoria (Adlaf et al., 2017; Temprana et al., 2015; Ernst et al., 2014).

 

Allenare il cervello: la Psicoterapia

La Neurogenesi è il risultato del fare esperienza, qualsiasi variazione nei processi psicologici e cognitivi apporta modificazioni nelle funzioni e nelle strutture del cervello stesso. Le condizioni favorevoli allo sviluppo di nuove cellule cerebrali nel cervello dell’adulto possono essere molteplici: l’apprendimento, l’ arricchimento ambientale, il movimento aerobico, la psicoterapia, il trattamento cronico con antidepressivi, l’esplorazione di nuovi oggetti, le interazioni sociali. Un terzo dei neuroni nell’ Ippocampo si rinnovano per tutta la vita di un individuo favorendo la possibilità di acquisire nuovi abitudini e modi di pensare ( Sahay  et al., 2011).

La Psicoterapia in quanto forma di apprendimento, promuove gli effetti neuroplastici, stimola la crescita neurale fornendo le basi per  un cambiamento durevole. Precisamente, in seguito ad un trattamento psicoterapeutico viene stimolata la neurogenesi ippocampale, la regolazione epigenetica dell’espressione genica ed un  maggiore controllo corticale prefrontale di attività del sistema limbico (Gorman, 2016; Yasuhisa Tamura et al., 2016; Malberg  & Duman,  2003).

È scientificamente dimostrato, inoltre, che in seguito ad un percorso di cambiamento mediante un percorso di psicoterapia possano essere riparati a livello molecolare i danni a carico del DNA derivanti da stress traumatico (Morath et al., 2014). Un ulteriore studio condotto dai ricercatori dell’Università di Zurigo mostra, mediante l’utilizzo della risonanza magnetica, la correlazione fra il successo del trattamento del disturbo d’ansia e le alterazioni cerebrali anatomiche coinvolte nella regolazione emotiva (Steiger et al., 2016).

Le scelte quotidiane possono essere influenzate dall’esperienze vissute o dallo stato emotivo del momento, inducendo a modalità familiari e confortevoli ma spesso fin troppo rigide e inflessibili. Mettere in connessione diverse aree del cervello favorisce un certo grado di flessibilità emotiva e di consapevolezza di sé, per affrontare al meglio le vicissitudini della vita. In fondo anche Einstein affermava:

Non possiamo pretendere che le cose cambino, se continuiamo a fare le stesse cose.

GUARDA IL VIDEO SUL POTERE DELL’EMPATIA:

https://www.youtube.com/watch?v=e5Mt9FlThAY

Il Personality Assessment Inventory (PAI): una valida alternativa all’MMPI-2

Il Personality Assessment Inventory (PAI) valuta la personalità e la psicopatologia della persona. La logica dietro il suo sviluppo era quella di creare uno strumento di valutazione che misurava aree rilevanti per la diagnosi e la pianificazione del trattamento.

 

Il Personality Assessment Inventory (PAI), pubblicato in Italia nel 2016, valuta la personalità e la psicopatologia della persona. Il Personality Assessment Inventory (PAI) è un questionario self report pubblicato da Leslie Morey (1991, 2007).

La logica dietro lo sviluppo del Personality Assessment Inventory era quello di creare uno strumento di valutazione che permettesse di misurare alcuni concetti psicologici, mantenendo la forza statistica, sviluppando così, uno strumento di valutazione per misurare aree rilevanti per la diagnosi e la pianificazione del trattamento.

Gli autori, hanno esaminato cinque area valutate dal Personality Assessment Inventory:

  1. Validità delle risposte;
  2. Sintomi clinici;
  3. Stili interpersonali;
  4. Complicanze per il trattamento;
  5. Ulteriori indici supplementari per valutare aspetti dell’attendibilità e validità del test

Su queste cinque aree, è stato costruito il Personality Assessment Inventory, utilizzando due tipi di validità, quella di contenuto, che ha permesso che ogni scala avesse un campione equilibrato di elementi che rappresentavano quel costrutto (es. la scala di depressione ha elementi di contenuto emozionale, cognitivo e fisico) e che ogni scala valutasse anche la gravità del contenuto: per esempio la scala ideazione suicidaria ha elementi che vanno da idee vaghe di suicidio ai piani distinti per autolesionismo.

La validità discriminante, ha consentito che ogni scala fosse distinta dall’altra.

 

La struttura del Personality Assessment Inventory

Il Personality Assessment Inventory è un efficace questionario di personalità  ateorico, pensato per l’età adulta (dai 18 anni in poi) e può essere agevolmente somministrato e compreso, per la sua brevità (45′ per la somministrazione) ed esaustività diagnostica, anche da soggetti con basso livello di scolarità; non richiede per lo scoring l’uso di complesse griglie di correzione, ma offre un sistema di calcolo dei punteggi automatizzato.

Il Personality Assessment Inventory è composto da 344 item, che prevedono una scala di risposta Likert a 4 valori, e sono organizzati Scale Cliniche, Scale di Trattamento e  Scale Interpersonali fra loro non sovrapponibili.

Le Scale Cliniche comprendono 11 scale e rivelano costrutti clinici e comprendono tre grandi categorie di disturbi: relativi all’area nevrotica, relativi all’area psicotica e quelli associati a disturbi del comportamento e alle dipendenze. Due scale sono specifiche per le caratteristiche antisociali e per le caratteristiche borderline.

Le 5 Scale di Trattamento permettono di formulare ipotesi sulla compliance e sulle complicazioni nel trattamento. Esse rilevano il rischio potenziale per sé e per gli altri, l’impatto di eventuali fattori stressanti recenti sulle aree di vita, il livello e la qualità del supporto sociale e un indice di motivazione a intraprendere un eventuale trattamento.

Le 2 Scale Interpersonali forniscono informazioni importanti relativamente alle relazioni e alle interazioni della persona. Lo stile interpersonale viene valutato lungo due poli: caldo e socievole – freddo e riluttante; gli aspetti relativi alla dominanza – sottomissione vengono valutati con una scala che è centrata su questi poli.

Completano il test 4 Scale di Validità:

  1. Inconsistenza (INC/10 paia di item): indica il grado di coerenza con cui il soggetto ha risposto all’intero inventario. Ciascun coppia è costituita da item altamente correlati (positivamente o negativamente).
  2. Infrequenza (INF/8): Indica se il soggetto ha risposto distrattamente, in modo casuale o idiosincratico. Gli item sono neutrali rispetto alla psicopatologia e ricevono un livello di approvazione o estremamente alto o estremamente basso.
  3. Impressione Negativa (NIM/9): suggerisce un’eccessiva impressione sfavorevole o simulazione di disturbo.
  4. Impressione Positiva (PIM/9): suggerisce la presentazione di un’impressione molto favorevole o una riluttanza ad ammettere piccoli difetti.

 

Item critici e indici del Personality Assessment Inventory

Il questionario presenta 27 item critici, che valutano comportamenti patologici che possono richiedere attenzione immediata (ad es., rischio suicidario) e sono stati identificati come critici in base a due criteri: hanno un contenuto specifico su crisi potenzialmente in atto e sono item che generalmente ricevono una percentuale bassa di consenso tra i soggetti. L’esame degli item critici può aiutare a chiarire il significato delle elevazioni osservate in determinate scale o sotto scale.

Inoltre, vengono misurati i seguenti indici:

  • Indice difensivo: si riferisce a configurazioni di 9 scale che si osservano più frequentemente nei soggetti istruiti a fornire un’immagine di Sé positiva, rispetto alla popolazione normativa o clinica;
  • Funzione discriminante Caschel: permette di distinguere i soggetti che si pongono in maniera difensiva rispetto a chi risponde onestamente;
  • Indice di simulazione di malattia: si tratta di configurazioni di 8 scale che si osservano più frequentemente nelle persone che simulano, che nei pazienti reali;
  • Funzione discriminante Rogers: permette di distinguere i protocolli di pazienti onesti dai simulatori;
  • Indice di potenziale suicidio: potenziale rischio suicidario;
  • Indice di potenziale violenza: indice di violenza potenziale;
  • Indice di processo di trattamento: indice di propensione al trattamento.

 

Vantaggi del Personality Assessment Inventory

Campione clinico e campione non clinico: il Personality Assessment Inventory è stato standardizzato sia su popolazione generale che su popolazione clinica. Questa duplice taratura è fondamentale per un confronto molto più preciso nella rilevazione degli aspetti psicopatologici. Pochi sono i test che possono vantare tale doppia taratura.

Dal globale al molto particolare: il Personality Assessment Inventory è stato costruito prendendo in esame i costrutti clinici sia in termini di rilevanza all’interno della nosologia dei disturbi mentali sia di significatività nella pratica diagnostica contemporanea. Ciascun aspetto psicopatologico può essere esaminato a livello macro (grazie ai domini e alle scale) e a un livello di profondo dettaglio (grazie alle sottodimensioni). Inoltre, essendo strutturato su una scala Likert a 4 punti, consente di approfondire ulteriormente le dimensioni indagate (anche grazie alla presenza di item critici).

Dalla diagnosi al trattamento: il Personality Assessment Inventory non solo traccia un profilo che dà informazioni sulla presenza di caratteristiche psicopatologiche, ma fornisce anche, grazie a numerosi indici, indicazioni relative al possibile trattamento e alla potenziale compliance.

 

Svantaggio del Personality Assessment Inventory

Poiché il Personality Assessment Inventory non misura alcuni costrutti che potrebbero essere di preoccupazione clinica (ad esempio, disturbi alimentari), è spesso utile per integrare il Personality Assessment Inventory con altri test.

Sussiste, anche una versione per Adolescenti, Adolescent Personality Assessment (PAI-A), dai 12 ai 18 anni. È composto da 264 item.

 

Gli ambiti di impiego

Ambito clinico:  screening diagnostico; psicodiagnosi; valutazione della personalità, anche non clinica; identificazione del rischio suicidario; valutazione di caratteristiche comportamentali di tipo violento; pianificazione del trattamento. In particolare, appare particolarmente utile nel contesto psicodiagnostico più ampio in ragione del bilancio costo-efficacia, inteso come rapporto fra la mole di informazioni che è possibile raccogliere rispetto al tempo impiegato per l’autosomministrazione.

Ambito forense: particolarmente utili ai fini di perizie o altri usi giuridici, vi sono le scale cliniche indispensabili per l’inquadramento diagnostico e le scale di controllo: Inconsistenza, Infrequenza, Impressione Negativa, Impressione Positiva e altri indicatori di simulazione e malingering utili per questo tipo di valutazioni. Proprio per queste specifiche caratteristiche il test ha trovato negli Stati Uniti e in altri paesi ampie applicazioni in ambito giuridico.

La connessione tra stati religiosi e consumo di materiale pornografico

Religione e consumo di pornografia: Un’indagine condotta a livello nazionale, negli USA, ha scoperto che l’essere religiosi è connesso all’ effettuazione maggiore di ricerche sul web di materiale pornografico.

 

Lo studio sulla connessione tra religione e consumo di pornografia su internet

Lo studio, pubblicato sul Journal of Sex Research, ha evidenziato che gli stati con le più alte percentuali di Evangelici, teisti o letteralisti biblici possiedono anche la più alta proporzione di ricerche condotte su Google per il termine “porno” dal 1° Gennaio 2011 al 31 Luglio 2016. E la stessa cosa vale per gli stati con tassi più alti di frequenza dei servizi religiosi.
Di contro, gli stati composti da più individui che non si identificano con nessuna religione tendono a fare in proporzione meno ricerche di materiale pornografico su Google.

La ricerca si è basata su dati ottenuti dal motore di ricerca Google, dallo Studio sulle Congregazioni Religiose del 2010 e dall’Indagine del Panorama Religioso Statunitense del 2007. I dati sono stati aggiustati per potenziali effetti determinati da ideologie politiche, reddito, istruzione, età e stato civile.

L’interesse dell’autore, Andrew L. Whitehead della Clemson University (Clemson, Carolina del Sud), per tale ricerca è nato a partire dai lavori che il suo co-autore Sam Perry ha pubblicato di recente sulla relazione tra religione e consumo di pornografia. Dopo aver letto le sue pubblicazioni, che analizzavano la questione a livello dell’individuo, Whitehead ha ipotizzato se vi fossero differenze, compiendo le analisi a livello della collettività, nella relazione tra religione e consumo di pornografia e ha iniziato le sue ricerche. Esiste un ampio e affascinante corpo di conoscenze che porta avanti l’idea secondo cui la religione è una componente importante della struttura di una società e serve a creare le comunità morali.

In breve, se più persone intorno a te sono religiose, le tue azioni finiranno con l’essere influenzate dal contesto e questo indipendentemente dal fatto che tu come individuo sia o meno religioso. Le comunità morali esercitano la loro influenza su ciascuno di noi.
Data la natura pressoché nascosta e privata del consumo di materiale pornografico, gli autori erano curiosi di scoprire se vi fosse un’associazione significativa tra le comunità morali e questo tipo di comportamento.

I risultati: chi è religioso compie maggiori ricerche di materiale pornografico

Ciò che hanno scoperto è che gli stati con un numero più alto di Evangelici, teisti (persone che credono in un Dio o in una entità superiore) e litteralisti biblici (coloro che sostengono di interpretare alla lettera la Bibbia come parola di Dio) hanno anche tassi più alti di ricerca online di materiale pornografico. E lo stesso vale per gli stati dove gli abitanti visitano più frequentemente i servizi religiosi. Infine, gli autori hanno anche osservato che gli stati con le più alte percentuali di abitanti non appartenenti a gruppi religiosi mostravano tassi più bassi di ricerca su internet di materiale pornografico. Questi dati sono rimasti tali anche dopo averli aggiustati per età media della popolazione, reddito medio, percentuale di conservazionismo politico, percentuale di abitanti sposati e percentuale di laureati.

Queste scoperte sono molto interessanti dal momento che le analisi a livello dell’individuo mostrano come le persone appartenenti a gruppi religiosi Evangelici, che frequentano la chiesa, che interpretano la Bibbia alla lettera o in genere credono in Dio riferiscono livelli molto più bassi di consumo di materiale pornografico. E’ impressionante vedere come la relazione si ribalta quando le analisi vengono condotte a livello collettivo. Questo sottolinea l’importanza di considerare la religione come un fenomeno di gruppo e non solamente come un tratto individuale. I risultati di questo studio suggeriscono che la religione conta veramente a livello collettivo.

E’ importante però segnalare, come suggeriscono gli autori all’interno dello studio, che se la ricerca di materiale pornografico è maggiormente diffusa negli stati più religiosi, non è possibile tuttavia concludere che le persone religiose effettuano più ricerche. Questo è definito in linguaggio tecnico “fallacia ecologica” – trarre inferenze sul comportamento individuale basandosi su dati raccolti a livello gruppale. Dal momento che la ricerca di informazioni su Google è anonima, non è possibile scoprire nulla sul conto di chi sta effettuando ricerche pornografiche.

La discussione dei risultati

Per qualcuno può essere allettante proporre spiegazioni più sensibili alla fallacia ecologica. Per esempio, uno studio analizzato dall’autore sulla relazione tra religione e consumo di pornografia condotto a livello di stato spiega l’associazione con l’ipotesi della preoccupazione. L’ipotesi della preoccupazione predice che gli individui religiosamente conservatori, mentre esteriormente si oppongono alla pornografia, sono in realtà segretamente attratti da essa. Sebbene questa è certamente una spiegazione plausibile per l’associazione positiva a livello di stato, non v’è alcun modo per confermare che in realtà le persone religiose cerchino materiale pornografico su internet.

Gli autori propongono una serie di possibili spiegazioni per l’associazione positiva tra religione e consumo di pornografia. Potrebbe essere che le persone religiose effettivamente cerchino più materiale pornografico come suggerisce la ricerca precedente. Potrebbe anche essere che le persone non religiose e religiose che vivono all’interno di comunità morali molto forti abbiano un minor numero di vie attraverso le quali la loro sessualità possa esprimersi e così si rivolgono a una forma privata di espressione sessuale. Una terza possibile spiegazione è che siano i giovani nelle case Evangeliche ad effettuare ricerche di materiale pornografico, infatti, esiste un ampio corpo di conoscenze che mostra come gli Evangelici tendano a fornire meno educazione sessuale ai loro figli.

Nel complesso, la scoperta chiave è che nel bel mezzo di una forte comunità morale la ricerca di pornografia sia più diffusa. La ricerca, in futuro, dovrebbe continuare ad esplorare come il comportamento umano si modelli sulla base dell’ambiente sociale circostante. La religione, come evidenziato, è una parte essenziale della struttura sociale.

Depressione: Parliamone. La Giornata Mondiale della Salute è dedicata alla depressione

Come ogni anno, il 7 aprile si celebra la giornata Mondiale della Salute. Quest’anno, l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha deciso di dedicare l’intera campagna a un disturbo psicologico sempre più diffuso in tutti i paesi del mondo, che può colpire le persone di tutte le età e di tutti i ceti sociali: la depressione.

Il video riassume in brevi immagini gli obiettivi dell’intera campagna, ovvero diffondere una conoscenza adeguata della malattia e dei suoi sintomi (tristezza costante, perdita di energia e di interessi, diminuzione dell’appetito, ideazione suicidaria), fornire maggiori informazioni circa le cause, le conseguenze e le possibilità di trattamento, ma soprattutto stimolare le persone con questo disturbo a chiedere aiuto ad amici, conoscenti o famigliari per avere il supporto necessario.

Se non curata, la depressione può portare a conseguenze negative come isolamento, ritiro sociale, perdita di interessi e scopi; il senso di fallimento e la mancanza di speranza possono degenerare in atti estremi come il suicidio, la seconda causa di morte nella fascia d’età compresa tra i 15 e i 29 anni.

In questa giornata di sensibilizzazione l’Organizzazione Mondiale della Sanità vuole ricordare che la depressione è una malattia seria ma che può essere trattata e curata attraverso cure farmacologiche e psicoterapeutiche adeguate. Dalla depressione si può guarire.

 

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Black Dog – Ho un cane che si chiama Depressione

Il neurone: l’anatomia e i diversi tipi della cellula nervosa – Introduzione alla psicologia

Il neurone è una cellula del sistema nervoso centrale e costituisce la più piccola unità funzionale. Esso consente la messa in atto di una serie di funzioni cognitive e comportamentali, come pensare, camminare, parlare, etc. Chiaramente, tutto questo è possibile nel momento in cui il neurone funziona unitamente ad altri neuroni facenti parte della stessa regione cerebrale.

 Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Il neurone è l’unità cellulare  di base che caratterizza il tessuto nervoso, e grazie alle sue caratteristiche fisiologiche e chimiche permette di ricevere, integrare e trasmettere impulsi nervosi, nonché di produrre sostanze denominate neurotrasmettitori.

 

Neuroscienze: L’anatomia del neurone

Il neurone è costituito da una parte centrale chiamata soma, che a sua volta è formata  dal pirenoforo, sede del nucleo, e dagli altri organelli deputati alle principali funzioni cellulari: apparato di Golgi, neurofilamenti, neurotubuli, granuli di pigmento, sostanza tigroide, mitocondri, nucleo, reticolo endoplasmatico liscio e rugoso.

Dal corpo cellulare nascono due prolungamenti citoplasmatici chiamati neuriti, che prendono il nome di dendriti, e l’assone. I dendriti consentono la ricezione dei segnali elettrici da parte dei neuroni confinanti o afferenti e sono in grado di trasmettere tale segnale in direzione centripeta, ovvero verso il pirenoforo.

L’assone, invece, propaga il segnale nervoso in direzione centrifuga, verso altre cellule. Esso riesce a condurre il segnale nervoso grazie alla presenza sulla superficie di una membrana che prende il nome di mielina. La parte finale dell’assone si chiama bottone sinaptico e si collega con i dendriti o il corpo cellulare di altri neuroni affinché l’impulso nervoso si propaghi con una reazione detta a catena, ovvero saltare da una cellula all’altra fino a raggiungere il bersaglio.

Gli assoni delle cellule del sistema nervoso sono ricoperti da due membrane protettive, che proteggono l’assone impedendo la dispersione degli impulsi elettrici. La membrana più esterna prende il nome di neurolemma o guaina di Schwann, quella più interna di guaina mielinica. Lungo il neurolemma sono presenti delle interruzioni, in corrispondenza delle quali la guaina mielinica termina e sono definite nodi di Ranvier (in questo punto in cui non si trova la mielina si ha una piccola dispersione di carica).

 

I diversi tipi di neuroni

I neuroni possono essere classificati in base al numero e alle ramificazione dei prolungamenti, ottenendo in questo modo:

  • Neuroni unipolari, presentano un solo assone e il pirenoforo ha valore di sito recettore.
  • Neuroni bipolari, hanno un assone e un solo dendrite che si articola agli antipodi del soma.
  • Neuroni multipolari, mostrano un assone e molteplici dendriti.

Inoltre, è possibile classificare i neuroni in base all’aspetto presentato:

  • piramidale, i cui dendriti alla base si distribuiscono in senso orizzontale, mentre il dendrite apicale si sviluppa in altezza. L’assone si estende nelle zone corticali della corteccia.
  • stellato, definite anche granuli, in cui i dendriti si ramificano nelle immediate vicinanze del soma e l’assone comunica con le cellule adiacenti.
  • fusiforme, aventi alle estremità due terminazioni dendritiche e l’assone si dirige verso strati più superficiali.

Ogni neurone è imputato allo svolgimento di una serie di funzioni, per questo è anche possibile distinguerli in:

  • Neuroni sensitivi o afferenti,  ricevono stimoli e trasportano l’informazione dagli organi sensoriali al sistema nervoso centrale.
  • Interneuroni o neuroni intercalari, integrano i dati forniti dai neuroni sensoriali e li trasmettono ai neuroni motori.

Neuroni motori o efferenti motoneuroni,  diffondono impulsi di tipo motorio agli organi della periferia corporea. A loro volta si dividono in neuroni somatomotori, i cui assoni formano fibre chiamate efferenti che innervano la muscolatura striata volontaria dell’organismo. Si differenziano ulteriormente in motoneuroni α , ossia responsabili dell’effettiva contrazione delle fibre muscolari striate, e motoneuroni γ , che innervano gli organi sensoriali propriocettivi detti fusi neuromuscolari intercalati nella stessa struttura muscolare.  I visceroeffettori, invece, danno origine a fibre dette pregangliari, che si collegano sempre a un secondo neurone localizzato in un ganglio simpatico o parasimpatico, da cui origina la fibra postgangliare. Tali neuroni agiscono nell’ambito delle risposte involontarie o viscerali.

I neuroni si classificano anche in base al tipo di neurotrasmettitore e si hanno i neuroni:

  • colinergici, che usano l’acetilcolina
  • monoaminergici che utilizzano come neurotrasmettitore la serotonina e le catecolamine.
  • aminoacidergiciche utilizzano il  GABA con funzione inibitoria e i neuroni glutammatergici con funzione eccitatoria.

 

Comunicazione tra neuroni

I neuroni comunicano tra loro tramite i collegamenti intercellulari definiti sinapsi. La comunicazione sinaptica avviene attraverso sostanze chimiche dette neurotrasmettitori, che stimolano, tramite il passaggio dell’impulso nervoso, la cellula successiva.

L’impulso nervoso o potenziale d’azione, si propaga lungo la fibra nervosa e determina delle modificazioni sia chimiche sia elettriche.

I neuroni sono polarizzati, poiché presentano fuori dalla membrana cellulare una carica elettrica diversa da quella presente all’interno. La differenza di carica è determinata dagli ioni sodio e potassio presenti in percentuali diversi all’interno e all’esterno del neurone e permettono, grazie all’ausilio di una pompa detta sodio-potassio, di trasmettere l’informazione dall’interno all’esterno.

Il potenziale d’azione, dunque, si verifica nel momento in cui si ha il passaggio dell’informazione da una cellula all’altra. Quando il potenziale d’azione raggiunge la sinapsi le vescicole presenti sulla sua superficie liberano un neurotrasmettitore che si diffonde rapidamente tramite la fibra postsinaptica e si lega ad alcune molecole specifiche della sua membrana post sinaptica della cellula recettrice. La reazione con il neurotrasmettitore altera la permeabilità della membrana della fibra postsinaptica, dando origine ad un potenziale d’azione che consentirà la propagazione ulteriore dell’impulso nervoso.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicologia della moda e fashion therapy: cosa si nasconde dietro la scelta degli abiti

Psicologia della moda: Il presente articolo vuole essere una riflessione sul significato psicologico individuale, sociale dell’abbigliamento. Molto spesso ciò che si cela dietro l’abbigliamento, nelle sue forme e colori, rivela aspetti della personalità e del rapporto con gli altri, molto prima di qualsiasi altra forma di espressione; i vestiti “parlano” di noi al nostro posto.

Anna Colleluori

 

La psicologia della moda: l’espressione di sè attraverso gli abiti

La psicologia della moda studia il rapporto versatile e poliedrico che ognuno di noi ha con gli abiti e gli accessori, riconducendo questa varietà ad alcuni processi sociali e cognitivi che mettono in relazione gli individui con l’ambiente, mostrandone gli obiettivi, l’identità, le motivazioni, l’influenza sociale, la conoscenza e la comunicazione (Pizza, 2010). Abiti e accessori dialogano di noi con gli altri, sono come una seconda pelle, un io-pelle (pelle mentale) che contiene tutte le nostre parti buone, un’interfaccia con gli altri e una barriera di difesa (Pizza, 2010).

Secondo la psicologia della moda i vari sé sono il frutto degli aspetti di noi che sviluppiamo nelle diverse situazioni di vita, nei diversi ruoli sociali che ricopriamo, nelle diverse relazioni interpersonali che ci interessano. Per ricomporre questa complessità in un insieme coerente si può considerare l’abbigliamento come un mezzo per dare espressione dei vari sé, e quindi il guardaroba può darci un grande aiuto come contenitore e ordinatore. Si può affermare che l’armadio ci permette di costruire un quadro d’insieme e di salvaguardare la coerenza nella conoscenza di noi stessi. Inoltre, abiti e accessori possono essere considerati come un’estensione del sé che ci permette di portare all’esterno ciò che sentiamo dentro, e anche di comunicare alcuni aspetti e coprirne altri, manipolando la nostra immagine per avvicinarla al nostro ideale.

Secondo la psicologia della moda gli abiti sono un manifesto che contiene le iscrizioni della nostra identità e parlano per noi. Flaccus (1906) ha dato un valido contributo alla psicologia dell’abbigliamento in merito all’estensione di sé affermando che “Quando portiamo un corpo estraneo in contatto con la superficie del nostro corpo (questo fenomeno non è limitato solo al tatto) la consapevolezza della nostra esistenza personale si prolunga nell’estremità e nella superficie di questo corpo estraneo, e di conseguenza nascono delle sensazioni di estensione del proprio io o di acquisizione di un tipo o di una quantità di energia estranea o di un grado inconsueto di vigore, di resistenza fisica, di sicurezza”. Secondo questa formula, ripresa dal libro di John Carl Flugel (1974), l’abbigliamento ci permette di estendere il nostro io corporeo. Un chiaro esempio di questo principio è la gonna, essa aggiunge alla forma umana pregi che la natura non le ha dato.

Secondo la psicologia della moda attraverso la forma di un abito, i suoi colori, le dimensioni di un cappello, l’altezza di un tacco, il disegno di un tessuto o i suoi movimenti, possiamo trovare una chiave di lettura alla conoscenza di noi stessi e degli altri, utilizzando le leggi della percezione sensoriale. Tali leggi spiegano come i nostri organi di senso siano colpiti da molte sensazioni, ma tendono ad elaborarne alcune più evidenti, creando una figura e lasciando il resto sullo sfondo, oppure organizzando le informazioni rilevanti in una struttura che unifica i vari elementi.

immagine 1Paola Pizza (2010), riflettendo sulle forme, attraverso la figura di Rubin (fig. 1), mostra come le sensazioni visive facciano mettere a fuoco alcune caratteristiche di un’ immagine e non altre. Secondo Rubin vediamo i profili e la coppa separatamente, ma non possiamo vederli contemporaneamente perché se una forma è figura, l’altra è sfondo. Così un particolare tipo di abbigliamento o un accessorio, possono trovarsi a fuoco ed essere oggetto della nostra attenzione o perché lo stimolo è nuovo e inaspettato, o all’inverso perché è abituale, ma soprattutto perché attiva interessi o motivazioni, pensieri o emozioni. Ad esempio, le gonne corte, i corpetti aderenti, i tacchi alti.

Secondo la tendenza alla chiusura, invece, cerchiamo di dare ai singoli dati sensoriali un significato unitario, come ad esempio nella figura che ritrae un cane e non un semplice insieme di macchie (fig. 2). Nello stesso modo quando osserviamo una persona non vediamo tanto i singoli elementi dell’abbigliamento, ma diamo un significato all’insieme, considerando la persona di buon gusto, alla moda, originale, vincente oppure antiquata, perdente, volgare o scontata. É chiaro come le illusioni ottiche riescono a modificare l’immagine delle persone che indossano determinati abiti o accessori. Come la piega dei pantaloni renda più slanciati, contribuendo ad avvicinare la forma fisica al concetto di corpo ideale condiviso socialmente.

immagine 2

Psicologia della moda: la percezione dei colori e le emozioni di simpatia o antipatia

Anche la percezione dei colori è importante secondo la psicologia della moda; come scrive Max Luscher, ci sono due diversi approcci verso i colori: la sensazione percettiva determinata dalla percezione cromatica, e l’emozione legata alla simpatia o all’antipatia che genera in noi un colore. La preferenza per un colore o il rifiuto di un altro potrebbe essere determinato dallo stato emotivo.

Dietro alla scelta dei colori non c’è quindi solo l’influenza del sistema moda o di fonti autorevoli, ma ci sono anche le caratteristiche di personalità, i conflitti intrapsichici e le motivazioni. L’origine del significato dei colori viene fatto risalire al giorno e alla notte “il blu scuro del cielo notturno e il giallo lucente della luce del giorno. Il blu scuro è il colore della quiete e della passività, il giallo lucente il colore della speranza e dell’attività. L’azione dell’attacco e della conquista è rappresentata dal colore rosso, la difesa dal suo complementare: il verde”(Luscher, 1976).

Per capire la fisiologia dei colori sono stati condotti esperimenti che hanno mostrato, ad esempio come fissare il colore rosso produca “un effetto decisamente stimolante del sistema nervoso, aumenti la pressione arteriosa, la frequenza respiratoria e cardiaca. Il rosso è dunque un eccitante del sistema nervoso, soprattutto della funzione simpatica del sistema nervoso autonomo”, provoca un aumento delle attività vitali, quali, pressione arteriosa, frequenza respiratoria e cardiaca. Il colore blu scuro ha un effetto contrario “la pressione arteriosa diminuisce, come pure la frequenza cardiaca e respiratoria, è dunque calmante e agisce attraverso la funzione parasimpatica.”

Mi soffermerò in particolare, sulle vibrazioni emotive espresse dal colore Rosso, riprese dal libro di Paola Pizza (2016). Il rosso, firma inconfondibile di Valentino che iniziò a proporlo nelle sue collezioni dagli anni ’60, rosso scarlatto anche per le mitiche suole che rendono unica la griffe Lauboutin. É un colore estroverso e attivo che simboleggia l’eros, il fuoco, il sangue e comunica vitalità, dinamismo, energia, potenza, sentimenti intensi e calore.

Insieme al nero è tra i primi colori ad essere stato usato dall’uomo ed è “simbolo dell’essenza della vita”. Per la psicologia dinamica esprime “l’archetipo dello spirito” ed ha la capacità energetica di elaborare i contenuti psichici. É il colore di divinità protettive, ma è anche il colore del diavolo e del diabolico. Colore regale ma anche istintuale, manifesta gli aspetti più alti dell’energia psichica, ma anche quelli più bassi; è infatti il colore della rabbia e dell’aggressività, della competitività e della sfida. Per Luscher rivela “l’appetito in tutte le sue manifestazioni, dall’amore più appassionato alla conquista più avida” è un atteggiamento provocatorio. Le sue forme positive sono “calore, passione, entusiasmo, vita, fertilità e amore”, e quelle negative “potenza, distruttività, aggressività, odio, spargimento di sangue”.

 

La psicologia della moda e la fashion therapy

Attraverso l’osservazione degli abiti che la persona indossa e i relativi significati, unitamente all’analisi del consumo di prodotti moda, è possibile, per alcuni studiosi, dedurre i tratti di personalità. Il termine fashion therapy o anche moda terapia potrebbe essere utilizzato quando gli acquisti anziché colmare un vuoto, creano valore: acquistiamo per comunicare la nostra identità e il nostro cambiamento. La moda terapia non è una terapia convenzionale, non si basa su regole prestabilite ed è ancora in via di sviluppo (Sacchi e Balconi, 2013). Potremmo concepirla come uno degli strumenti all’interno di percorsi psicoterapeutici consolidati.

Dalle prime esperienze in tal senso, secondo Sacchi e Balconi sembrerebbero emergere quattro tipologie di persone sulla base del loro rapporto “patologico” con la moda. “Modadepressi”, di questa categoria, fanno parte quegli individui con personalità problematica nei confronti dell’apparenza. Si tratta di quegli individui che non vorrebbero incontrare nessuno e neppure essere giudicati per il proprio comportamento, tanto meno per l’aspetto che oramai è diventato assolutamente irrilevante.

I “modainsensibili”, ovvero gli indifferenti nei confronti del vestire. Individui con delle potenzialità non completamente espresse. Spesso oppongono una vera e propria resistenza al concetto di moda, fino a trasformare il loro abbigliamento in un’anonima uniforme. I “modanevrotici”, ovvero le persone fantasiose, troppo fantasiose. Appartengono a questa categoria gli individui che non hanno un confine ben chiaro in merito alle scelte nell’abbigliamento o hanno troppe sovrastrutture estetiche. Si tratta spesso di persone dinamiche che non hanno difficoltà ad esprimersi liberamente, che vivono la propria immagine con naturalezza e divertimento ma anche con troppa sofisticazione o che prendono troppo sul serio l’aspetto esteriore. Infine i “modaschizzati” ovvero gli incoerenti incalliti, così definiti dagli autori del libro. Alcuni di questi individui, non sentono di avere uno stile ben definito, o ne possiedono troppi, spesso la linea di demarcazione tra le due cose, non è chiara, non hanno un’immagine di loro stessi in sintonia con quello che sono davvero.

Dall’intervista che ho personalmente effettuato (Anna Colleluori, “Dalla psicologia del consumo alla psicologia della moda e alla fashion therapy”, tesi magistrale in “Psicologia clinica e della salute”, discussa il 17 febbraio 2017 all’università “G. D’annunzio” di Chieti-Pescara) al noto stilista abruzzese Filippo Flocco, direttore creativo della maison teramana “Ferretti”, la quale ha creato le cravatte del presidente Trump per tutta la durata della campagna elettorale, è emerso che gli studi sui vari significati psicologici individuali e sociali dell’abbigliamento, dovrebbero essere conosciuti da coloro che si occupano delle creazioni moda ma che non sempre vengono presi in considerazione quando l’obiettivo che predomina è la vendita. Si evidenzia, inoltre, come, ad esempio, le cravatte rosse del presidente Americano Trump sono state commissionate dal medesimo sia per quanto riguarda i colori che per quanto riguarda la lunghezza e la larghezza. Difatti, è più lunga di 20 cm rispetto allo standard ed è più larga di quasi 4 cm. Chissà se in questa sua scelta, avrà preso in considerazione i significati psicologici delle forme e dei colori dell’abbigliamento!

Una recente ricerca sugli uomini di potere ripresa dal libro di Paola Pizza, che mostra come questi ultimi tendono a mantenere con costanza un look che li contraddistingue, come una sorta di divisa autoimposta che esprime la loro identità e la coerenza del loro sé, come ad esempio le camicie bianche dell’ex premier Matteo Renzi, un elemento essenziale della sua identità.

Secondo Paola Pizza (2016), le camicie bianche possono essere ricondotte a due grandi presidenti Americani, Obama e J.F. Kennedy, simboli dell’ottimismo americano. È possibile che Renzi abbia pensato a questo quando ha scelto la camicia bianca come segno distintivo del suo look presidenziale? É possibile che ci sia dietro un processo di identificazione con i valori e i miti di una coppia di presidenti che hanno simbolizzato il cambiamento? O solo l’imitazione dello stile di grandi leader? Oppure pensava alla frase di Oscar Wilde “l’eleganza si concentra nella camicia”? La camicia bianca nella sua origine ci richiama la camiciola usata come veste dei bambini, fa apparire aperti, disponibili, schietti e leggeri, trasmettendo spontaneità, immediatezza e semplicità.

A differenza della giacca, che simbolizza la corazza, con la maglia di ferro, per difendersi dagli attacchi, la camicia fa apparire informali, raggiungibili e non difesi dagli altri. Potente e teatrale il gesto di Obama che a Berlino, alla Porta di Brandeburgo, si è tolto la giacca ed è rimasto in maniche di camicia comunicando vicinanza, apertura e energia. Il bianco, il cui archetipo secondo Jung è la luce, comunica disponibilità al cambiamento, a differenza del colore scuro spesso scelto per le giacche, il cui archetipo è l’ombra. Se poi le maniche sono arrotolate, si aggiunge un contenuto di giovinezza, fattività, velocità, proattività ed energia che rende ancora più scattante il messaggio (Pizza 2016).

 

Conclusioni: individuare la personalità dalla moda

In conclusione, attraverso le molteplici proposte che il sistema moda offre è stato riscontrato che è possibile esprimere la propria personalità, individuando così anche i tratti “più patologici” che si creano nella relazione con la moda. L’ obiettivo infatti è quello di rendere consapevoli gli individui di cosa si comunica attraverso abiti e accessori e come attraverso l’acquisto dei prodotti di moda, si dia all’individuo l’opportunità di crearsi un proprio stile e di effettuare un cambiamento. Cambiare non solo gli abiti in base alle mode attuali, all’umore, ai sentimenti, alla situazione storico sociale ma avviare l’individuo verso un ipotetico cambiamento, che gli permetta di aumentare l’autostima, di avere una visione più positiva di sé, partendo proprio dall’esterno, ovvero dagli abiti, per poi giungere attraverso il significato di quest’ultimi agli aspetti più profondi del sé.

 

Il Sé e l’uso di un oggetto per entrare in rapporto attraverso le identificazioni secondo Winnicott

Winnicott (1971), nel suo articolo “L’uso di un oggetto” in Esplorazioni psicoanalitiche, spiega la differenza tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto.
Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel avvengano dei cambiamenti e che essi siano accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico.

 

La costruzione del vero Sè o del falso Sè secondo Winnicott

Winnicott (1960) pensa che vi sia un Sé “potenziale o nucleare”, espressione di “una potenzialità ereditaria di sentire la continuità dell’esistenza e di acquisire a modo proprio e con un proprio ritmo una realtà psichica e una schema corporeo personali” (1).
Proprio lo stretto legame che vi è fra mente e corpo fa si che il compaia “non appena c’è un accenno di organizzazione mentale e significhi poco più della formazione di dati sensoriali-motori” (2).

È da questa concezione del Sé che si origina la proposta dell’autore di distinguere tra un vero Sé e un falso Sé. Il vero Sé sarebbe il “gesto spontaneo”, l’idea personale, il sentirsi reale e creativo. Il falso Sé, invece non farebbe “altro che raccogliere insieme gli elementi dell’esperienza del vivere” (3). La sua funzione sarebbe, dunque, quella di costruire una protezione di fronte ad un ambiente che si è rilevato molte volte inadeguato ad anticipare il bisogno del bambino, costringendolo a subire una realtà esterna frustante.

La madre non “sufficientemente buona” non ha colto e valorizzato il gesto del figlio ma ha sostituito “il proprio gesto chiedendo al figlio di dare ad esso un senso tramite la propria condiscenda. Questa condiscenda è lo stadio più precoce del falso Sé, e dipende dall’incapacità della madre di capire i bisogni del figlio” (4).

Il bambino pertanto, è costretto a dare senso da solo al proprio gesto, ma per farlo userà la condiscenda imitativa ma che è lontana dal vero Sé.
Tuttavia, il bambino può esprimere la propria protesta per questa sua condizione tramite “un’irrequietezza generale e/o disturbi dell’alimentazione”. Queste manifestazioni possono scomparire o ripetersi in modo diverso o presentarsi, in forma più acuta, in altre fasi dello sviluppo.
Il falso Sé nasce, dunque, come difesa del bambino di fronte ad un ambiente primario che non si adatta sufficientemente bene ai suoi bisogni.

Mediante il falso Sé il bambino si crea un sistema di rapporti falsi che sembrano reali, egli “diventa proprio come la madre, la balia, la zia, il fratello e qualsiasi persona che in quel momento domini la scena” (5). L’esistenza del vero Sé è così nascosta, poiché ci sono richieste ambientali impensabili e la realtà diviene non tollerabile.
Naturalmente ognuno di noi ha, in misura variabile, un falso Sé, poiché, senza di esso, saremmo persone “con il cuore in mano”, troppo vulnerabili di fronte agli altri.

 

L’uso di un oggetto e le identificazioni per entrare in rapporto con l’oggetto stesso

Nell’osservazione dei bambini piccoli in una situazione prefissata” (6), Winnicott descrive la reazione di bambini lattanti ad una spatula, un “abbassa lingua di metallo luccicante”, posta sul tavolo davanti a loro in un ambulatorio pediatrico. La risposta del bambino si svolge in tre stadi: il primo è di avvicinamento interessato ma sospettoso; il secondo, in cui la spatula è in suo possesso e la sente come parte di sé, come mezzo per appagare i desideri; nel terzo stadio l’esercizio è di liberarsi dalla spatula.
L’assunto di base di questo lavoro è “l’uso di un oggetto e l’entrare in rapporto attraverso identificazioni” (7).

Winnicott (1971), nel suo articolo “L’uso di un oggetto” in Esplorazioni psicoanalitiche, spiega la differenza tra il mettersi in relazione con un oggetto e l’uso dell’oggetto.
Nel mettersi in relazione il soggetto permette che nel avvengano dei cambiamenti e che essi siano accompagnati da un certo grado di coinvolgimento fisico.
Per usare un oggetto, il soggetto deve aver sviluppato una capacità di usare oggetti e ciò fa parte del passaggio al principio di realtà.
Questa capacità, secondo l’autore, non è innata, né si può dare per scontata in quanto lo sviluppo della capacità di usare un oggetto fa parte del processo maturativo che dipende da un ambiente facilitante e supportivo.

Winnicott (1971) sostiene che tra il mettersi in relazione e l’uso dell’oggetto, ci deve essere la capacità del soggetto di collocare l’oggetto fuori dell’area del controllo onnipotente, percependo l’oggetto come qualcosa esterna da sé e non come un’entità proiettiva.

Questo passaggio è dato da precisi momenti che l’autore sintetizza schematicamente:
1. il soggetto entra in relazione con l’oggetto;
2. l’oggetto è in processo di venire trovato invece che posto dal soggetto nel mondo;
3. il soggetto distrugge l’oggetto (quando l’oggetto diventa esterno);
4. l’oggetto sopravvive alla distruzione da parte del soggetto;
5. il soggetto può usare l’oggetto.

Questa distruzione, spiega il maestro, diventa il corollario inconscio dell’amore per un oggetto reale, ovvero, un oggetto al di fuori dell’area di controllo del soggetto.

Pertanto, Winnicott mette un accenno importante all’aggressività intesa come fattore positivo della crescita, poiché nel momento in cui il soggetto capisce che l’oggetto sopravvive ai suoi attacchi, ha la capacità di porlo al di fuori dei suoi meccanismi proiettivi. Infatti, adesso il soggetto ha potuto creare una realtà condivisa, in cui il soggetto può usare e può riportare una “sostanza diversa-da-me”.

Questi concetti si verificano anche nel transfert e ci aiutano a sperimentare ed esaminare il comportamento del paziente nella situazione analitica; attraverso la realizzazione affettiva ed immaginativa del soggetto, infatti, l’analista funziona come oggetto transizionale e oggetto oggettivo.

Più umano di te…o solo migliore: come funziona il processo di auto-umanizzazione?

Auto-umanizzazione: secondo un recente studio la nostra motivazione a pensare di essere persone buone surclassa il nostro desiderio di sentirci umani. 

 

Un recente studio mette in discussione l’idea secondo cui l’essere umano sarebbe così motivato a credere nel suo essere essenzialmente umano da sostenere ed approvare con piacere anche le parti più riprovevoli della condizione umana.

La maggior parte di noi possiede un’idea, seppur vaga, di cosa voglia dire essere umani. La ricerca mostra come sembri esistere un certo grado di accordo circa il fatto che tratti di personalità come l’essere socievoli, gelosi o impazienti sarebbero più tipicamente “umani” di altri quali, ad esempio, l’essere freddi e impassibili o, dall’altro lato, pii e misericordiosi.

Inoltre, in generale, all’essere umano sembrerebbe piacere il considerarsi effettivamente umano, attribuendo a se stesso più tratti di personalità “umani”, rispetto a quanti non ne attribuisca agli altri. In altri termini, ci auto-umanizzeremmo, rivendicando per noi stessi sia gli aspetti positivi sia quelli negativi, ma solo fintanto che questi sono in grado di enfatizzare la nostra stessa umanità.

 

Auto-umanizzazione: cosa si intende con il termine “umano”?

Proprio in questo senso, con il termine auto-umanizzazione (dall’inglese self-humanization) ci si riferisce in generale alla presupposta tendenza di ognuno di noi a vedersi come essenzialmente più umano degli altri (ad es. Haslam et al., 2005).

In generale, il concetto di “umanità” viene usato in riferimento ad una serie di caratteristiche che possono appartenere esclusivamente al genere umano (ad es. essere educati, meticolosi o scortesi) o, al contrario, essere anche attribuiti agli animali (ad es. essere curiosi, attivi, impulsivi).

Questi ultimi tratti vengono percepiti come largamente diffusi a livello della popolazione, si ritiene che emergano precocemente durante lo sviluppo ontogenetico e che siano cross-culturalmente universali. I tratti esclusivamente dell’uomo, invece, sono ritenuti relativamente poco prevalenti ed universali e si pensa emergano più tardivamente nel corso dello sviluppo (Haslam et al., 2005).

 

Auto-umanizzazione: sentirsi umani implica un’alta immagine positiva di sé?

Recentemente, però, un nuovo studio, condotto da Cypryańska e collaboratori dell’Università di Varsavia e di Berna, ha aperto la strada alla messa in discussione della reale esistenza di questo fenomeno, se non altro per come è stato definito in passato.

Infatti, una consistente mole di evidenze mostrerebbe come l’essere umano sia profondamente propenso a proteggere e conservare un’immagine di sé altamente positiva, anche grazie all’utilizzo di bias cognitivi che permettono l’attribuzione della colpa per i propri fallimenti alle circostanze e quella per i fallimenti altrui alle loro carenze e mancanze. Viene così da chiedersi se effettivamente l’essere umano abbia la tendenza a sovrastimare i propri aspetti negativi, pretendendo così di proclamarsi più umani, pregi e difetti compresi. In base alla ricerca, pubblicata dal Journal of Social Psychology, questa sembrerebbe essere una mera semplificazione: quando si tratta di caratteristiche umane considerate sgradite e indesiderate, le persone tenderebbero a vedersi come essenzialmente simili a tutte le altre.

Per poter giungere a questa conclusione, Cypryańska e collaboratori hanno portato avanti uno studio che ha visto coinvolti 250 studenti universitari in Polonia, Corea ed Italia. Ai soggetti partecipanti, in media di 23 anni, è stato chiesto di valutare se stessi sulla base di 40 diversi tratti di personalità in relazione agli altri studenti. Alcuni di questi tratti erano altamente associati alla natura umana, come empatico o geloso, mentre altri, come l’essere freddi e impassibili o altruisti, non lo erano.

Le ricerche presenti in letteratura hanno generalmente studiato il processo di auto-umanizzazione tramite la messa in atto di confronti di tipo sociale. Alle persone viene chiesto di valutare su scala Likert (che va da “più degli altri” a “meno degli altri”) se ritengono di possedere certi tratti di personalità in livelli maggiori, minori o simili agli altri (ad es. “Quanto ti valuti amichevole in confronto alla media degli altri studenti universitari?”). Misurandola in tal modo, l’ auto-umanizzazione viene definita come la tendenza ad attribuire al sé più caratteristiche umane degli altri. Inoltre, secondo alcuni studi, tale attribuzione sembrerebbe essere più marcata in caso di tratti considerati indesiderabili (Haslam et al., 2005).

Secondo Cypryańska e collaboratori, però, una tale linea di ricerca risulterebbe essere abbastanza problematica a causa delle scale di misurazione utilizzate e di come sono state usualmente interpretate. Infatti, secondo quanto da loro sostenuto, tali conclusioni circa la natura dell’ auto-umanizzazione sarebbero scaturite dall’aver erroneamente ritenuto che un giudizio di sé relativamente sopra la media rappresentasse necessariamente l’attribuzione di maggiori caratteristiche al sé piuttosto che agli altri.

Gli autori hanno così revisionato e replicato gli studi precedenti in cui era emersa una significatività a livello dell’ auto-umanizzazione con tratti negativi. Ciò che hanno notato è che in realtà i soggetti partecipanti agli studi hanno raramente dichiarato di possedere maggiori tratti “umani” negativi, ma dichiaravano solo in modo meno marcato di possederne meno. Quindi le evidenze in realtà non dimostrerebbero che le persone siano effettivamente motivate ad apparire più umane a tal punto da approvare e ad abbracciare anche le parti più riprovevoli della natura umana.

D’altra parte, i partecipanti si sono spesso valutati superiori alla media per quanto riguarda i tratti positivi. Piuttosto che confermare che l’essere umano associ se stesso sia a vizi sia a virtù tipicamente umane, quanto rilevato da Cypryańska e collaboratori sarebbe facilmente associabile al ben noto effetto Better-Than-Average (in italiano “Migliore della media”; Alicke et al., 1995), che si riferisce alla tendenza a ritenere di avere molte più caratteristiche positive che non negative e, in generale, di essere migliori della popolazione media.

Secondo questo studio, quindi, in ordine di importanza verrebbe prima il vedere se stessi come speciali e buoni e solo successivamente come umani, difetti compresi.

 

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