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Cognitivismo Clinico, editoriale del nuovo numero. Le variabili latenti che incidono sulla psicopatologia e il fanatismo

Questo numero di Cognitivismo clinico si compone di due parti; nella prima presentiamo la traduzione di due articoli già pubblicati su prestigiose riviste internazionali, che ci sono stati proposti per una diffusione maggiore in Italia, ritenendo che possano essere di interesse per i nostri lettori.

Editoriale di Roberto Lorenzini e Antonino Carcione

 

Il possibile ritorno della sintomatologia ansiosa dopo una terapia con esposizione

Nel primo, pubblicato da Craske et al. su Behaviour Research and Therapy e tradotto da Emiliano Toso, viene esposta un’accurata riflessione, con relative applicazioni cliniche, sui limiti dell’esposizione nel trattamento di alcuni disturbi e, in particolare, dei disturbi d’ansia. Le ricerche evidenziano, infatti, una parziale efficacia o, addirittura, una ricaduta sintomatologica con ritorno della paura dopo una terapia comportamentale basata sull’esposizione.

Secondo gli autori, che corredano le loro affermazioni con ampia letteratura e argomentazioni, ciò potrebbe essere attribuito a un deficit nell’apprendimento inibitorio e nella regolazione neurale inibitoria durante l’estinzione che caratterizza gli individui con disturbi d’ansia o elevati tratti d’ansia. Le persone con ansia, quindi, presenterebbero un deficit proprio di quei meccanismi centrali per l’apprendimento di estinzione, e ciò determinerebbe a volte, paradossalmente, anche un incremento della sintomatologia ansiosa.

Gli autori ritengono dunque essenziale, per aumentare l’efficacia dell’intervento, migliorare l’apprendimento inibitorio durante l’esposizione e propongono in questo lavoro, in modo accurato, come intervenire sul paziente ansioso.

 

Le variabili latenti che incidono sulla psicopatologia

Anche il secondo lavoro è una traduzione di un articolo di Nuijten et al. già pubblicato sulla rivista olandese De Psycholoog e tradotto da Giulio Costantini. Si inserisce all’interno del dibattito sullo studio delle variabili latenti per comprendere la psicopatologia.

Ricordiamo che una variabile latente è una variabile che non si può osservare direttamente, come per esempio un disturbo psicologico (Depressione Maggiore, Ansia, Disturbi di Personalità, ecc.), ma che può essere inferita a partire da indicatori osservabili come lo sono i sintomi o i criteri diagnostici del disturbo (ad esempio del DSM). Secondo gli autori, se si adotta un modello a variabili latenti si assume che il complesso intreccio di sintomi che si osserva empiricamente si può poi tradurre in una struttura matematica semplice ed elegante. In particolare, però, gli autori evidenziano il limite delle diagnosi categoriali, soprattutto nel momento in cui si imposta un trattamento avendo proprio come riferimento la diagnosi, come ad esempio la Depressione Maggiore, piuttosto che il quadro specifico che presenta il soggetto, che può essere composto da un insieme di sintomi combinati in modo diverso in persone diverse, e che può – peraltro – essere complicato dalla presenza di diagnosi co-occorrenti.

Per queste ragioni i modelli a variabili latenti, secondo gli autori, non sono sufficienti e incontrano difficoltà anche nel dare una spiegazione all’eterogeneità che si riscontra empiricamente in psicopatologia, proprio perché le diagnosi si basano spesso su sommatorie di sintomi e, di conseguenza, non tutti coloro che hanno la stessa diagnosi hanno gli stessi sintomi. Sulla base di questa idea propongono un modello di lettura dei quadri psicopatologici che si può avvalere anche di procedure tecnologiche innovative, che permette la simulazione di modelli in cui un disturbo si ricostruisce nella forma di un network di sintomi, che si rinforzano vicendevolmente, a circolo vizioso.

Da una prospettiva network, la co-occorrenza può essere spiegata dai cosiddetti sintomi ponte (bridge symptoms), che sono sintomi che caratterizzano due o più disturbi. Ciò avrebbe ricadute cliniche in quanto un’accurata ricostruzione del network, in cui sono stabilite anche le gerarchie di rilevanza, permette di interrompere i circuiti patologici intervenendo o sui nodi cruciali o su altri punti di mantenimento dei circoli viziosi.

 

Il fanatismo e le ricadute nella psicoterapia

La seconda parte di questo numero è costituito da una sezione speciale dedicata ad un argomento quanto mai attuale e di sicuro interesse per la psicologia e con potenziali ricadute per la psicoterapia: il fanatismo.

È il frutto del lavoro di gruppo di un terzo anno della Scuola di Terapia Cognitivo- Comportamentale denominato JAM che ha coinvolto allievi di training delle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Roma APC e SPC i cui didatti sono Barbara Barcaccia, Roberto Lorenzini e Stefania Fadda. Al di là di chi ha scritto e firmato i singoli articoli e dell’impegno particolare delle curatrici, Ariano, Barucca e Brindisino, esso nasce da riflessioni comuni, dibattiti partiti dai casi clinici che venivano esaminati e confronti sulle personali esperienze fanatiche. Questi articoli intendono aprire un confronto su un modo di vivere che se da un lato può impoverire l’esistenza stessa, coartandola in uno spazio monotematico e autoreferenziale, dall’altro è alla base delle più grandi imprese del genere umano.

Infatti cosa erano se non fanatici assoluti coloro che hanno raggiunto le vette più elevate nell’arte, nelle scienze e nella spiritualità? Non erano forse fanatici gli eroi che hanno dato la vita per una causa (anche quelli che oggi essendo di parte avversa chiamiamo terroristi kamikaze) e molti santi e martiri? Ma lo erano altrettanto Hitler, Stalin e Jim Jones che si suicidò con tutta la sua setta in Guyana. Ci muoviamo, dunque, in una delicata terra di mezzo tra le forme più sublimi e più abiette dell’esperienza umana, entrambe potenzialmente presenti in ognuno di noi grazie a questa capacità per così dire di “fanaticizzarci” o, potremmo dire con termine più familiare, “innamorarci perdutamente e acriticamente”.

Chissà che proprio l’innamoramento non sia il modello più comune ed evidente del fanatismo. Sarebbe meraviglioso se alcune di queste riflessioni potessero essere utili a spiegarne, almeno in parte, la fenomenologia e la dinamica. Chissà poi se qualcuno vorrà dedicarsi ad elaborare un protocollo di intervento per l’emergenza dell’innamoramento. Purtroppo, sia in quest’ultimo che in generale nel fanatismo, non c’è egodistonia; l’intervento semmai è richiesto dalle persone vicine all’interessato che invece si meraviglia che gli altri non condividano il suo stato.

Il fanatismo originariamente nasce come fenomeno squisitamente religioso, concepito per contenere l’angoscia che travolge l’uomo quando, nel corso del suo stesso processo evolutivo, affiora nella sua psiche la coscienza e, con essa, la coscienza del proprio destino di morte e la partecipazione disperata alla morte e all’agonia dei propri cuccioli e dei propri simili più amati. Nasce dunque per risolvere il problema del senso della vita e l’insensatezza della morte e inizialmente religioso diviene poi politico.

Nel primo articolo di questa sezione speciale, di Barucca e Lorenzini, verranno descritte le origini e gli sviluppi storico-filosofici del concetto di fanatismo, mentre nel secondo, di Ariano e Brindisino, verrà presentato il fenomeno del fanatismo nei culti, delineandone le caratteristiche e le dinamiche individuali e gruppali, nonché alcuni modelli teorici esplicativi.

Oltre al fanatismo religioso e politico, si pensi al fenomeno degli ultras sportivi ed ora anche a due situazioni che si sono affacciate di recente nel DSM 5, la ortoressia (fanatismo per una specifica alimentazione) e la vigoressia (l’ossessione per il fitness a tutti i costi). Il terzo articolo, di Garano, Dettori e Barucca, descrive proprio queste ultime due condizioni, le quali potrebbero essere assimilate a delle nuove forme di fanatismo, celate da tendenze virtuose.

Il fanatismo appare, dunque, come uno spettro che si aggira nel mondo assumendo mutevoli sembianze, con manifestazioni talvolta semplicemente grottesche e ridicole, talaltra allarmanti e pericolose. Sempre, comunque, con implicazioni sociali ed economiche rilevanti. In prima battuta potremmo dire che mentre normalmente sono le idee al servizio dell’uomo e anzi ne sono lo strumento adattivo più sofisticato con la loro capacità di anticipare la realtà e dunque consentire di indirizzarla secondo i propri scopi, nel fanatismo avviene il contrario: è l’uomo ad essere al servizio permanente effettivo, e spesso definitivo, di un’idea, realizzando l’ideale romantico di essere pronti a “morire per un’idea”.

Nel fanatismo l’uomo da fine diventa strumento, mentre il fine reale è l’idea stessa. Quando si parla di fanatismo non si può certamente escludere quello che spesso è meno considerato dal punto di vista psicopatologico, riconducendolo più che altro ad analisi sociologiche (certamente altrettanto importanti) fino a quando non si verificano fenomeni eclatanti – e spesso tragici – che assurgono all’onore delle cronache: il fanatismo nello sport.

Il lavoro di Lorenzini, Ariano e Barucca, considerando la realtà italiana, si focalizza in particolare sul calcio che in Italia è lo sport dove emerge in modo particolare, anche se può, naturalmente, essere presente in tutti gli sport, soprattutto di squadra. L’articolo evidenzia come i comportamenti degli ultras siano particolarmente orientati allo scopo esplicito di riconoscere una propria supremazia sull’altro, dominando gli avversari attraverso segnali chiari e inequivocabili di superiorità che devono essere poi oggettivamente riconosciuti da tutti. Anche qui, quindi, si individuano, poi, elementi comuni alle altre forme di fanatismo. Ragionando, quindi, sul tema trattato in modo più trasversale, si evidenzia come la tendenza a considerare assolute e indiscutibili le proprie credenze la vediamo all’opera nel normale confermazionismo che genera i circoli di mantenimento nei disturbi nevrotici e trova la sua massima espressione lungo lo spettro delirante. Al di là della psicopatologia, questa dimensione è presente costantemente, spesso in modo drammatico nella vita quotidiana e sulle prime pagine dei giornali.

È per questo motivo che, nell’ultimo articolo di questa sezione speciale, Lorenzini, Ariano e Brindisino, forniscono elementi utili ai fini clinici individuando e descrivendo in modo accurato i possibili meccanismi intrapsichici e interpersonali trasversali a tutte le forme di fanatismo trattate, formulando, poi, alcune proposte di prevenzione e intervento da attuare nei casi in cui vi fosse una richiesta di terapia.

Cognitivismo clinico (2016) 13, 2, 99-101

Perché è così difficile ricordare i nomi delle persone?

Ci sono diversi fattori che determinano quali parole vengono ricordate più facilmente, ad esempio la fonemica delle parole o l’associazione a volti o altro di noto, che rendono più accessibile l’informazione alla nostra memoria.

 

Ricordare i nomi delle persone: come funziona la memoria e quali strategie si possono utilizzare

E’ importante ricordare il nome delle persone che incontriamo durante la nostra vita” – ha affermato l’attrice Joan Crawford nella sua biografia, scritta da Charlotte Chandler- “Sono orgogliosa di farlo- aggiunge- Mi ricordo centinaia di nomi, o forse anche più, ma non perché mi viene naturale farlo anzi, tutto il contrario. Semplicemente mi sembra giusto fare lo sforzo”.

Se avete difficoltà a ricordare i nomi delle persone a una festa o una conferenza, ricordate: non siete i soli. La Sg.ra Crawford sapeva che era fondamentale ricordare il nome di qualcuno, perché utile per costruire relazioni anche durature se pur solo professionali. Lei stessa ha affermato che questa è un’abilità unica e difficile da padroneggiare.

Secondo alcuni ricercatori dell’Università della Florida, la capacità di ricordare i nomi delle persone, è notoriamente più difficile rispetto ad altri tipi di parole. Il fatto che i nomi propri siano più difficili da ricordare ci dice molto circa il funzionamento della memoria umana.

Abrams e Davis spiegano che, a differenza di altri tipi di parole, i nomi sono etichette senza senso che non ci rivelano nessuna informazione circa la persona ed è per questo che a volte facciamo fatica a ricordarli. Ad esempio, il nome Charlie Brown contiene un descrittore, che è la parola marrone, anche se non ci dà reali informazioni circa la persona stessa. La ricerca ha anche dimostrato che risulta più difficile ricordare il nome di una persona rispetto alla storia della sua vita. Quindi se per caso dovessimo mai incontrare qualcuno di nome Mr. Baker che lavora come panettiere, sarà più facile per noi ricordare il suo mestiere e non il suo nome.

Ci sono diversi fattori che determinano quali parole vengono ricordate più facilmente, ad esempio la fonemica delle parole o l’associazione a volti o altro di noto, che rendono più accessibile l’informazione alla nostra memoria.

Escludendo i nomi di alcuni personaggi famosi, come Beyoncè, i nomi sono costituiti da almeno due componenti, un nome ed un cognome, a differenza di molti oggetti che vengono descritti utilizzando una sola parola. Secondo Abrams e Davis, i nomi possiedono dei suoni, e più questi suoni sono familiari più è semplice recuperare con successo il ricordo di tali nomi e associarli alla persona giusta.

Una classica dimostrazione di associazione nomi-suoni illusoria è la seguente: “Quanti animali Mosè portò con sè sull’Arca?”. La maggior parte delle persone risponde, erroneamente, “due”. La risposta corretta in realtà è “nessuno”, perché fu Noè che navigò con l’arca, non Mosè. Ma entrambi i nomi si riferiscono a figure bibliche maschili associate, e queste caratteristiche condivise creano concorrenza nel richiamo del nome corretto.

Ma la sovrapposizione semantica non è l’unico distrattore; infatti anche la sovrapposizione visiva può anche ostacolare le nostre capacità.
Nel corso della ricerca, gli sperimentatori hanno chiesto ai partecipanti il nome dell’attrice che recita nel film “Black Swan”. La risposta corretta è Natalie Portman, ma i ricercatori hanno inserito tra le risposte anche il nome di Keira Knightley (attrice con un aspetto molto simile alla Portman), e il nome di Maria Sharapova (giocatrice di tennis professionista).

I risultati dimostrano che nel momento in cui il nome della Portman veniva sovrapposto visivamente a quello della Knightley, i partecipanti avevano maggiori margini di errore. Invece, se prima della domanda ai partecipanti veniva mostrata una loro foto, sia della persona “giusta” che della persona “distrattore”, notavano una notevole diminuzione degli errori.

Sembra, dunque, che le informazioni visive giochino un ruolo importante nelle comprensione e nel ricordo delle parole.
Il più delle volte questi distrattori vengono utilizzati per aiutare i partecipanti ai vari studi a lavorare in modo interattivo, e ciò suggerisce che l’informazione visiva gioca un ruolo davvero importante.

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso: Il modello LIBET – Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

a cura di Alessia Incerti & Giovanni Mansueto

 

Nuovi processi e vecchi contenuti per la concetualizzazione cognitivo-comportamentale del caso: Il modello Libet

(life teme and plans implications of biased beliefs: elicitation and a treatment)

Sandra Sassaroli – Giovanni Maria Ruggiero – Gabriele Caselli

 

Milano, 23 Marzo 2017

In apertura l’intervento di Giovanni Ruggiero presenta una dettagliata e attenta analisi critica dell’evoluzione storica della psicoterapia cognitiva e comportamentale mettendo in evidenza il graduale spostamento di focus dai contenuti, ai processi e alle metacognizioni.

Si parte dalla descrizione del modello cognitivo clinico standard proposto da Beck (1962) il quale sembra rappresentare una frattura strutturalista rispetto al funzionalismo comportamentista favorendo una semplificazione teorica in cui le credenze sono considerate come strutture gerarchicamente organizzate relative all’area del sé: self-belief. Ruggiero sottolinea alcuni aspetti che possono aver favorito il successo del modello di Beck:

  • Una maggiore livello di comprensibilità per la mentalità “strutturalista” del clinico medio;
  • Modello più fruibile dai clinici in quanto consente di individuare semplici self-belief facilmente operazionalizzabili;
  • L’adozione da parte di Beck del sistema diagnostico della psichiatria (DSM), rendendo testabile l’efficacia del modello.

Negli anni ’80 si riscontra una netta affermazione del modello CBT: creazione di protocolli di terapia cognitiva modellati sul lavoro di Beck per il trattamento dei disturbi d’ansia (disturbo di panico, fobia sociale, il disturbo post-traumatico da stress, disturbo ossessivo-compulsivo) e disturbi alimentari. Nel 2004 la CBT standard entra nelle linee guida NICE del sistema sanitario inglese come trattamento di elezione per ansia e depressione. In tale direzione nel 2007 sempre in Inghilterra il programma IAPT (Improving Access to Psychological Therapies) rafforza ulteriormente il rilievo della CBT.

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 1

Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli, Gabriele Caselli

 

Dalla modificazione delle self-beliefs alle disfunzioni di processo

La svolta processualista porta a uno spostamento del focus in cui  il cambiamento terapeutico non è legato alla modificazione diretta delle self-beliefs, come teorizzato da Beck, ma sembra essere per lo più legato all’azione centrata sulle disfunzioni di processo (funzione).

In tale contesto i modelli processualisti possono distinguersi in modelli che agiscono sulle funzioni di pensiero attraverso approccio Bottom-up e Top-down.

Nell’approccio Bottom-up sembra essere accentuata prevalentemente la componente esperienziale. In tale approccio possiamo ritrovare i contributi teorici dell’ Acceptance and Commitement Therapy, Schema Therapy, Metacognitive and Intepersonal Therapy, Sensorimotor Psychotherapy, Eye Movement Desensitization and Reprocessing.

Diversamente nell’approccio top-down appare evidente il ruolo attivo delle rappresentazioni metacognitive. Nella Metacognitive Therapy la funzione metacognitiva è definita come gestione della funzione attentiva: attenzione e metacognizione sono ritenute il “collo di bottiglia” (bottleneck) strategico sul quale agire in terapia. Tale svolta metacognitiva porta a considerare lo stato di malessere legato per lo più all’uso errato di una funzione, l’attenzione.

Tale prospettiva, quindi, orienta il lavoro del clinico verso azioni terapeutiche volte a incrementare il livello di consapevolezza del funzionamento delle funzioni volontarie di controllo cognitivo e di selezione attentiva dell’informazione.

In chiusura Ruggiero invita a riflettere su sui seguenti punti:

  • la svolta processualista potrebbe ostacolare la comunicazione tra i clinici dal momento in cui sembra evidente una propensione a concettualizzare e raccontare il caso in termini narrativi della storia più che in termini di funzioni;
  • riflettere sulla necessità di considerare modelli di concettualizzazione funzionalista del caso, compatibili con la mentalità narrativa dei clinici che contengano sia le basi evolutive delle esperienze dolorose (che hanno reso gli individui emotivamente vulnerabili) sia i  processi mentali in cui i pazienti tendono a ingaggiarsi considerandole, sulla base di credenze metacognitive disfunzionali, funzionali o incontrollabili.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DAL CONVEGNO

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 2

 

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 3

 

Il ruolo della storia evolutiva del paziente

Sandra Sassaroli, nel suo intervento, racconta attraverso la propria storia di clinico e ricercatore i modelli che hanno costruito la storia del cognitivismo clinico e come siamo giunti alla terza generazione.

Nella tradizione cognitivista italiana c’è sempre stata una grande attenzione a come alcune esperienze di vita importanti orientano i comportamenti tardivi, la dottoressa Sassaroli ricorda come il suo incontro con J. Bowlby ha stimolato la sua attenzione allo studio della relazione tra pattern di attaccamento e psicopatologia.

Tuttavia non è sempre il momento di trattare la storia evolutiva del paziente ma non è neanche sempre il momento di trattare i processi di funzionamento del paziente stesso o il contenuto dei suoi processi stessi.

Quale potrebbe essere un modello ideale che spieghi il funzionamento di un paziente ? Quale modello per concettualizzare il caso, per formulare il piano terapeutico, per orientare la supervisione e la formazione personale degli stessi terapeuti?

Il valore euristico dei modelli psicopatologici centrati sui contenuti di pensiero è indispensabile per la condivisione tra specialisti e per creare un linguaggio scientifico comune per capire il paziente stesso. “Ma possiamo riferirci ad un modello più completo?

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO LE IMMAGINI DAL CONVEGNO

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 5

 

La concettualizzazione cognitivo-comportamentale del caso Il modello LIBET - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 4

 

Il modello Libet

LIBET (life theme and plans implications of biased beliefs: elicitation and a treatment) è l’acronimo del modello concettualizzato dal gruppo di Studi Cognitivi coordinato dalla dottoressa Sassaroli. Il modello Libet è un modello attenzionale, metacognitivo ed evolutivo, spiegano gli autori.

Il modello descrive la sofferenza secondo due coordinate: i temi e i piani.

 

Il tema nel modello Libet

E’ uno stato mentale doloroso emotivamente intenso, evolutivamente appreso nella storia di vita personale, rigido, inflessibile e giudicato intollerabile.

Come ha spiegato Gabriele Caselli dall’analisi del campione di interviste cliniche, fino ad oggi condotte, sono stati individuati tre temi dolorosi distinti.

Il primo tema è detto della “minaccia terrifica”. Deriva da esperienze traumatiche, in un clima in cui il soggetto ha vissuto i genitori come pericolosi ed ha provato spesso un senso di minaccia al senso di sicurezza.

Un altro tema, individuato dagli autori, è denominato del disamore/ inadeguatezza. Deriva da Esperienza di genitori “freddi”, distanti che non ascoltano e emotivamente distanzianti; o dalla relazione con genitori presenti ma che non hanno fornito modelli per affrontare il mondo, perché inadeguati o iperprotettivi.

Infine vi è il tema d’indegnità personale. Esso deriva dall’esperienza di relazione con genitori frustranti e critici: direttamente criticisti o indirettamente attraverso l’obbligo a regole rigide di prestazione.

E’ interessante comprendere, spiega Sandra Sassaroli, come una persona gestisce il proprio tema doloroso.

Attraverso piani semi-funzionali, ovvero strategie che hanno funzionato e che hanno in parte permesso ad un ritorno alla dimensione di sicurezza.

 

I piani nel modello Libet

Vi sono tre piani teorizzati dal modello Libet:

  • Prudenziale “non penso ai temi dolorosi, li evito e non esploro”.
  • Prescrittivo : “monitoro la minaccia, mi sforzo di prevenirla con comportamenti rigidi e di ipercontrollo”.
  • Immunizzante: “ignoro la minaccia e mi sforzo di tenere una stato desiderato , la ricerca di un’ alternativa estrema”.

Ad oggi non abbiamo ipotizzato, spiega Sandra Sassaroli rapporti univoci tra piani e temi, non c’è un tema che è gestito da un unico piano. E’ importante porre attenzione ai processi mediante i quali i piani si rompono, ovvero: come mai ad un certo punto non funzionano?

Gli autori individuano due modalità secondo le quali un piano si può rompere:

  • Per esaurimento: a causa degli alti costi di mantenere il piano attivo (es. “a forza di stare solo, la mia vita perde senso”)
  • Per invalidazione: ad esempio un piano prudenziale può essere invalidato quando la realtà pone delle imposizioni inevitabili che impediscono ritiro o fuga; o ancora il piano prescrittivo può essere invalidato dalla frustrazione del piano ideale imposta dalla realtà;

Mentre il piano immunizzante è invalidato dall’insight: “è la quarta volta che questa settimana ho picchiato mia moglie perché ho sentito la minaccia di essere abbandonato”.

Caselli illustra, gli effetti dell’irrigidimento del piano a cui consegue l’ irrigidirsi di tutto il funzionamento della persona stessa producendo una nuova sofferenza psicologica: “la mia paranoia mi lascia da solo”.

Vi possono essere dei casi in cui il piano semi adattivo funziona: un piano di dipendenza affettiva da una persona che protegge sempre. Può poi esserci una cristallizzazione su un piano, non è detto che questo non abbia svantaggi e costi: “sono protetta, al sicuro ma non esploro”.

Tutti noi abbiamo temi dolorosi e siamo più sensibili a certi stati emotivi e tendiamo a rispondervi con determinate strategie e comportamenti (piani).

Il modello Libet aiuta a comprendere come dalla propria storia evolutiva e dalla sensibilità personale si giunge alla psicopatologia.

L’intervento sul piano mira all’aumento della flessibilità psicologica ed alla costruzione di alternative;  l’intervento sul tema è in linea con l’accettaptance and committment.

L’intervento degli autori si conclude con le direzioni future del gruppo di lavoro Libet.

Il tema doloroso è davvero l’unico libro che ciascuno di noi può scrivere.”

Sandra Sassaroli

 

ACT e trauma: l’uso dell’ACT nei disturbi associati ai traumi e il ruolo centrale della relazione terapeutica – Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

 

Milano, 24 marzo 2017 – ore 9:00

E’ tutto pronto per aprire il collegamento con Russ Harris in diretta dall’Australia. E’ ospite autorevole della prima tavola plenaria dell’ultimo giorno di congresso.

Un congresso che ha visto 450 partecipanti impegnati ad ascoltare le relazioni di 22 esperti.

R. Harris è tra i principali esponenti dell’ Acceptance and Commitment Therapy modello di terapia cognitivo comportamentale di terza ondata, a lui il anche il merito di aver reso semplici i concetti chiave dell’ ACT, permettendone la diffusione in Europa. Tra le  sue numerose pubblicazioni anche testi fruibili anche dai non addetti ai lavori.

Harris dichiara che lo scopo del suo intervento è far riflettere su come, per comprendere i processi coinvolti in questo modello di psicoterapia, sia necessario sperimentare su di sé ciò che viene proposto ai propri clienti. Questo facilita al terapeuta la comprensione della complessità del paziente stesso.

 

ACT: le metafore di Russ Harris

La prima domanda che Harris invita a porci è: “come vediamo noi i nostri pazienti? Sono degli arcobaleni o dei muri sull’autostrada?

Può non essere sempre facile per noi terapeuti riuscire a vedere oltre l’etichetta con la quale il paziente si presenta a noi (“sono un depresso sono sempre stato così”) ma è fondamentale osservare il paziente e guardarlo come una persona da apprezzare e scoprire.

Quando la terapia diviene complessa, è importante prestare attenzione alla trappola “fusione” con il nostro giudizio e non perdere l’atteggiamento compassionevole.

Harris propone una metafora per comprendere gli aspetti della relazione terapeutica nell’ACT.

La metafora delle due montagne:

“Sai che molte persone arrivano in terapia credendo che il terapeuta sia una sorta di essere illuminato, che ha risolto tutti i suoi problemi, e ha messo tutto a posto, ma in realtà non è così. È più come se tu stessi scalando la tua montagna là in fondo e io stessi scalando la mia montagna quaggiù. E da dove sono io, sulla mia montagna, posso vedere cose sulla tua montagna che tu non puoi vedere, come una valanga che sta per cadere, o un sentiero alternativo che puoi imboccare o che non stai utilizzando la tua piccozza in modo efficace. Ma ti prego di non credere che io abbia raggiunto la cima della mia montagna e mi sia seduto e rilassato, a prendermela con calma. Il fatto è che io sto ancora scalando, sto ancora facendo errori e sto ancora imparando da questi. E alla fine, siamo tutti uguali. Siamo tutti scalando la nostra montagna fino al giorno in cui moriremo. Ma il bello è che tu puoi migliorare sempre più nello scalare e imparare sempre più ad apprezzare il viaggio. E questo è il lavoro che faremo qui, si lavora insieme siamo una squadra!”

Harris sottolinea, in questo modo il valore dell’esperienza di condivisione che caratterizza la condizione umana. Tutti, pazienti e terapeuti, possiamo sentirci imprigionati dagli stessi pensieri.

L’ACT è un modello che è a favore della self-disclousure ovvero considera lo svelamento degli stati interni del terapeuta al paziente come una possibilità non una tecnica obbligatoria ma una possibilità per convalidare l’esperienza del paziente: “le cose che succedono nella mia mente di terapeuta succedono anche a te, anche a me che sono il tuo terapeuta può succedere di pensare che non sono bravo a fare le cose. E quando mi svelo in questo modo, il mio paziente mi dice: come ma tu sei un dottore, anche tu hai dei pensieri negativi?”.

Nell’ACT l’accento non è posto pertanto su cosa pensiamo ma su come lo facciamo, con quale sguardo ci rivolgiamo alla nostra esperienza. Vorrei invitare il lettore a seguire questo esercizio proposto da Russ Harris ai partecipanti:

Vorrei tu immaginassi che questo libro rappresenti tutti i tuoi pensieri, sentimenti e ricordi difficili con cui hai lottato per tanto tempo. E mi piacerebbe che tu lo afferrassi forte in modo che io non possa togliertelo. Adesso mi piacerebbe che lo mettessi davanti in modo da non riuscire più a vedermi e che lo avvicinassi così tanto al viso da toccarti quasi il naso. Adesso com’è cercare di avere una conversazione con me, mentre sei completamente dentro nei tuoi pensieri e sentimenti?” (Harris R. 2011).

Questa semplice metafora sintetizza come l’ACT spiega l’emergere della psicopatologia dall’ “evitamento esperenziale”: ossia nelle insieme di strategie che mettiamo in atto con lo scopo di controllare le nostre esperienze interne (pensieri, emozioni, sensazioni o ricordi), siano esse positive o negative, anche mediante comportamenti disfunzionali.

Se osserviamo i comportamenti, le azioni che compiamo nella nostra giornata, notiamo che possiamo classificarle secondo due categorie:

  • Towards ovvero mosse che ci dirigono verso i nostri valori, verso ciò che riteniamo importante per noi;
  • Away ovvero comportamenti che portano lontano da quello che vorremmo essere e avere.

Immagino un bersaglio verso cui scaglio le frecce del mio arco, l’evitamento esperenziale non è una buona risposta alla sofferenza, ci porta a lanciare la freccia fuori dal paglione. Lanciare fuori dal bersaglio, evitare, cercare di controllare i pensieri è parimenti faticoso, come prendere un bel respiro e mirare al bersaglio.

ACT e trauma l uso dell ACT nei disturbi associati ai traumi e il ruolo centrale della relazione terapeutica - Report dal congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion 1

Russ Harris paragona la Mindfulness a un coltellino svizzero utile al processo di Accettazione

Sul versante opposto dell’evitamento vi è l’accettazione, guardando le esperienze della nostra vita con occhi benevoli senza giudicarle, senza lo sguardo dell’inquisitore. Ci permetterà di accettare noi stessi con i nostri pensieri e le nostre emozioni e di cogliere il loro valore informativo. Andremo nella direzione dei nostri valori e mireremo al bersaglio!

Ecco alcune domande che Harris ci suggerisce di porre ai nostri pazienti per aiutarli a individuare i propri valori:

  • In quale direzione vuoi andare?
  • Cos’ è importante per te? Quali valori?
  • Quali azioni vuoi fare?
  • Da quale punto vuoi iniziare?
  • Cosa t’ impedisce di andarci ?
  • Quali sono i blocchi?

A noi terapeuti spetta il compito di mostrare al paziente le cose positive che già sta compiendo per dirigersi verso i valori, e di insegnare abilità per sganciarsi dai blocchi.

La Mindfulness è paragonata ad un coltellino svizzero ricco di tanti piccoli strumenti per favorire consapevolezza ed accettazione.

Harris nel suo intervento odierno ci ha fornito riflessioni ed esercizi pratici per relazionarci anche con un paziente maldisposto, con chi è dubbioso circa la terapia e il cambiamento, ci ha indicato come interrompere il dialogo rimuginante, e favorire nei nostri pazienti il  proseguire lungo la rotta delle cose per loro importanti (i valori).

Harris termina il suo intervento, applaudissimo dalla sala, citando Winston Churchill:

 “Il successo è l’abilità di passare di fallimento in fallimento, senza perdere l’entusiasmo”.

Ed io non trovo modo migliore per concludere, volgendo al lettore il medesimo augurio.

 

Costruire città Age-Friendly per favorire l’ invecchiamento attivo

Secondo l’OMS per favorire l’ invecchiamento attivo e l’inclusione sociale delle persone anziane bisognerebbe puntare alla trasformazione delle città in città age-friendly: ciò consentirebbe alle persone di ogni età di partecipare attivamente alla vita della propria comunità e a rimanere attive durante l’ invecchiamento.

 

Invecchiamento attivo: non più spettatori della vita che passa

L’allungamento dell’aspettativa di vita ha determinato un cambiamento nel modo in cui l’anziano viene considerato all’interno della società: non più passivo spettatore della vita che passa ma protagonista attivo.

Per definire questa nuova categoria l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS, 2002) ha coniato il termine: invecchiamento attivo, cioè “il processo di ottimizzazione delle opportunità di salute, partecipazione e sicurezza” per migliorare la qualità di vita delle persone che invecchiano. Il termine “attivo” non si riferisce esclusivamente all’importanza di mantenersi fisicamente attivi, ma riflette la rilevanza del coinvolgimento in attività produttive, al mantenimento di un impegno sociale, culturale e civico.

In ambito gerontologico vi è la profonda convinzione che l’ambiente in cui l’anziano vive possa fortemente impattare sulla sua vita (Lawton & Nahemow, 1973). Le ricerche in tal senso si sono focalizzate primariamente sullo studio dei contesti istituzionali e domestici. Recentemente l’interesse si è rivolto anche ai macro contesti, come i quartieri, le comunità, le regioni o le località urbane-rurali.

 

Ambienti e città age-friendly: migliorare la vita delle persone più fragili

Secondo l’OMS per favorire l’ invecchiamento attivo e l’inclusione sociale delle persone anziane bisognerebbe rendere il mondo in cui viviamo più età-solidale e creare città age- friendly. Ciò consentirebbe alle persone di ogni età di partecipare attivamente alla vita della propria comunità, favorendo i rapporti sociali; aiuterebbe le persone a rimanere attive e in salute durante il loro invecchiamento e fornirebbe un sostegno adeguato alle persone che non possono più prendersi cura di sé.

Una città age- friendly, inoltre, non risponde soltanto alle esigenze della popolazione anziana ma di tutte le persone più fragili. Costruire edifici e strade senza barriere architettoniche consente e migliora gli spostamenti e l’indipendenza delle persone disabili, giovani e anziane. Un vicinato sicuro consente ai bambini, alle giovani donne e alle persone anziane di muoversi con sicurezza e di partecipare così alle attività sociali. Per di più, le famiglie delle persone anziane vivono uno stress minore nel momento in cui sanno di poter contare sui servizi sanitari di cui hanno bisogno e sul supporto della propria comunità.

 

Città age-friendly per favorire l’ invecchiamento attivo

Nel 2006 l’OMS lancia l’iniziativa Città Age-friendly (Age-Friendly Cities), per rispondere alle esigenze di una popolazione che invecchia. L’iniziativa, che ha avuto inizio con un’analisi preliminare di varie città del mondo, ha valutato le strutture e i servizi che rendono una città adatta per la popolazione anziana.

All’interno di tale programma sono stati individuati gli elementi chiave dell’ambiente urbano che supportano l’ invecchiamento attivo e in salute. La ricerca, condotta in 33 città usando un approccio partecipativo, ha confermato l’importanza per le persone anziane dell’accessibilità ai trasporti pubblici, agli spazi esterni e agli edifici, nonché la necessità di un alloggio adeguato, il sostegno della comunità e dei servizi sanitari. Ma ha anche evidenziato la necessità di promuovere quei rapporti che permettono alle persone anziane di essere membri attivi della società, per superare i pregiudizi sull’ invecchiamento e per fornire maggiori opportunità di partecipazione civica e di occupazione.

In seguito alla raccolta e all’analisi dei dati, l’OMS ha costituito un network di città age-friendly con un duplice obiettivo: da un lato, permettere lo scambio di informazioni tra le città, accelerando la loro trasformazione in comunità a misura di anziano, e dall’altro, fornire indicazioni per sviluppare politiche su questo tema anche a livello regionale e nazionale.

L’affidamento familiare: l’esperienza dei soci dell’associazione Afap onlus

Al fine di promuovere la cultura dell’ affidamento familiare, tutelando i diritti dei bambini affidati e di chi se ne prende carico, nasce a Palermo l’Associazione Famiglie Affidatarie Palermo (AFAP): attraverso la voce dei soci è possibile acquisire una testimonianza diretta di ciò che significa diventare genitore affidatario.

 

Affidamento familiare: tra legislatura e legami affettivi

L’ affidamento familiare, regolato dalla legge 184/93 e dalla legge 194/2001, è un provvedimento temporaneo che prevede la possibilità, per un bambino proveniente da un ambiente familiare ritenuto non idoneo al suo sano sviluppo, del collocamento presso una famiglia, preferibilmente con figli minori, al fine di soddisfare le esigenze di mantenimento, educazione e crescita emotiva. Caratteristica peculiare di ogni progetto di affidamento familiare è la strutturazione di interventi rivolti alla famiglia di origine per favorire il superamento delle proprie difficoltà e quindi il recupero delle funzioni genitoriali e del rapporto con il figlio, con la famiglia affidataria nel ruolo di “ponte” tra il bambino e la famiglia naturale.

In questo contesto gli affidatari, pur supplendo alle funzioni genitoriali carenti, non possono sostituirsi alla famiglia naturale, benché l’affido dia sempre luogo, sia negli affidatari che negli affidati, a legami affettivi a lungo termine.

Un incontro a termine, almeno da un punto di vista strettamente temporale, un incontro di una famiglia intenzionata a dare amore, e di un bambino bisognoso di cure, eppure non di rado portatore di problematiche personali, come disturbi del comportamento, nonché di un rapporto affettivo preesistente, motivo possibile di conflitto con il nuovo legame che si instaura man mano con gli affidatari. Dinamiche complesse che necessitano di un sostegno psicologico attuato dai Servizi, chiamati in causa nel favorire la gestione delle dinamiche interne alla nuova famiglia e la concreta attuazione di quella funzione “ponte” propria delle famiglie affidatarie.

Dinamiche da manuale che interessano quotidianamente le famiglie affidatarie, imperniano il loro vissuto, segnano il non semplice compito di cementare un rapporto affettivo non scevro da difficoltà, seppur ricco di benefici e gratificazioni affettive.

 

AFAP: la voce delle Famiglie Affidatarie di Palermo

Al fine di promuovere la cultura dell’ affidamento familare, tutelando i diritti dei bambini affidati e di chi se ne prende carico, nasce a Palermo l’Associazione Famiglie Affidatarie Palermo (AFAP): attraverso la voce dei soci e delle loro esperienze dirette è possibile acquisire una testimonianza diretta della concreta attuazione delle dinamiche prima descritte, sottolineando la necessità di interventi di supporto psicologico e di una rete dei servizi coordinata nella presa in carico della situazione del bambino, della sua famiglia di origine e degli affidatari stessi.

E’ necessario distinguere innanzitutto tra affidamento familiare e adozione – sottolinea Valentina Pizzino, avvocato e socia AFAPInfatti nel caso dell’adozione il bambino, la cui famiglia di origine ha perso la potestà genitoriale, viene inserito nello stato di famiglia ed è un figlio a tutti gli effetti, parificato ai figli naturali. Per l’affido non è cosi: l’idea di base è il collegamento con una famiglia di origine in difficoltà, ma che non ha perso la potestà genitoriale. L’ affidamento familiare ha in tal senso lo scopo di creare una famiglia d’appoggio che fornisca una stabilità economico-affettiva. In realtà di recente, per favorire la continuità affettiva si ricorre sempre di più all’ affidamento sine die, allora il bambino permarrà nella famiglia affidataria fino alla maggiore età. Sono del parere che l’ affidamento familiare dovrebbe essere incentivato, anche a fronte di altre soluzioni come l’inseminazione artificiale, perché l’affido è una forma d’amore, nobile e gratuita, è accoglienza del bambino e della sua famiglia in toto.

L affidamento familiare l esperienza dei soci dell associazione Afap onlus - valentina Pizzino

Valentina Pizzino – Avvocato e Socia Afap

Proprio sulla natura gratuita, e non egoistica, dell’ affidamento familiare sembrano sollevarsi le maggiori difficoltà, allorché l’amore si scontra con il tema del possesso.

Le più grandi barriere all’affido sono secondo noi racchiuse nella paura che il figlio venga tolto, un giorno o l’altro. Il possesso è una forte barriera culturale – sostiene Jenny Campanella, consigliera AFAP e mamma affidataria – Altre realtà del Nord Italia hanno nei confronti dell’affido un atteggiamento diverso dal possesso. Voglio ricordare l’associazione Dalla Parte dei Bambini Onlus che si occupa di affidi difficili, ovvero di bambini con patologie conclamate, senza alcuna difficoltà e che possiede una nutrita banca dati di famiglie disposte all’ affidamento.

L affidamento familiare l esperienza dei soci dell associazione Afap onlus - Adriana De Trovato e Jenny Campanella

Adriana De Trovato  e Jenny Campanella – Consigliere e Socie Afap

L’ affidamento familiare come puro atto altruistico, quindi, per il bene del bambino, pur nella miriade di difficoltà quotidiane, innanzitutto determinate dai non sempre facili rapporti con la famiglia di origine e le sue intrinseche carenze educative.

Nella mia esperienza di madre con una figlia in affidamento e una figlia adottata notiamo la differenza, soprattutto nel rapporto con la famiglia naturale – racconta Marinella Governale, consigliera AFAP – Nel caso della mia figlia adottiva sappiamo che nessuno può contestarci, in quanto nostra figlia a tutti gli effetti. Sento emotivamente J. come mia figlia, ma non posso dimenticare che ha una famiglia, ed è difficile gestire una situazione in cui i genitori naturali la fanno sentire in colpa perché si trovano in difficoltà economiche. Per non parlare delle gelosie che scattano nel momento in cui un bambino viene affidato e del disagio provato allorché non possa chiamare Mamma la madre affidataria quando è presente la madre naturale, per non ferirla o farla ingelosire. Nel caso della mia J. abbiamo inoltrato domanda per continuare a tenerla con noi fino a ventuno anni e garantirle una continuità di vita, un rapporto costante con la scuola, gli amici, i suoi spazi, fatto possibile grazie alle linee guida del 2012.

Il carico della famiglia di origine è una costante nell’ affidamento familiare, e assume connotazioni specifiche nel caso di affidamento di minori stranieri.

Il mio affidamento si può definire speciale, perché mio figlio è un minore straniero orfano di entrambi i genitori, ma benché non si ponga la questione del rapporto con la famiglia di origine, la presenza della famiglia è in ogni modo una costante. Posso infatti dire che insieme a lui abbiamo in effetti accolto anche i suoi fratellini e il suo progetto di sostenerli economicamente – conferma Sonia Lo Cascio, socia AFAP.

Difficoltà che rientrano nell’ambito affettivo, a cui si sommano quelle di carattere economico e relative al sostegno dei servizi sociali preposti alla gestione del percorso di affidamento.

Sotto l’aspetto economico, a ciascuna famiglia affidataria spetta un ammontare di 250 euro mensili per i fabbisogni del figlio, di solito erogati a fine anno, e l’onere delle spese sanitarie, da cui attualmente sono esenti le Comunità; dal punto di vista della rete dei servizi di sostegno la situazione non può peraltro definirsi rosea.

Con la legge sulla trasparenza c’è stato uno snellimento degli operatori del centro Affidi per cui la gestione degli affidi passa ai Servizi Sociali territoriali, oberati di lavoro, per cui chiedere un appuntamento è difficile, con incontri sporadici – spiega ancora Governale. E continua – Per ovviare a questa carenza l’AFAP organizza gruppi di sostegno alle famiglie nell’ottica di fornire un servizio psicologico agli affidatari, rispondente alle esigenze concrete della convivenza quotidiana in famiglia.

E se di fronte a queste difficoltà qualcuno potrebbe pensare di mollare, ecco che un beneficio supera ogni difficoltà e attende i genitori affidatari.

Il sorriso di mio figlio mi ripaga di tutto, un suo sorriso a fine giornata basta a cancellare ogni difficoltà, esattamente come accade con un figlio naturale – conclude Adriana De Trovato, consigliera AFAP.

Il ruolo dell’immagine corporea nella disfunzione erettile

Disfunzione erettile e immagine corporea: Molti teorici sostengono che le preoccupazioni riguardo l’ immagine corporea possano minare il raggiungimento del piacere sessuale (Frederickson, Roberts, 1997; Masters, Johnson, 1970). Nonostante il collegamento teorico tra preoccupazioni riguardo il corpo e soddisfazione sessuale, pochi studi hanno studiato questa relazione empiricamente o i particolari meccanismi che ne sono alla base.

Andrea Goldoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Disfunzione erettile: i criteri diagnostici

La Disfunzione Erettile (ED) consiste nell’ incapacità persistente o ricorrente di ottenere o mantenere l’erezione nel corso di un rapporto sessuale. Questo tipo di disagio può essere originato da patologie di vario genere (vascolari, endocrine, neurologiche, ecc.), ma può anche avere cause psicogene, in cui l’alterazione è di tipo psicologico, e quindi a carico dei processi cognitivi ed emozionali che guidano l’erezione.

Una di queste alterazioni può essere legata a una percezione negativa del proprio corpo, che può generare un forte sentimento di vergogna dato dalla tendenza a sentirsi privi di valore e inadeguati, in risposta alla sensazione di fallimento nel soddisfare gli standard culturali ormai imperanti.
Tale sentimento può generare un’eccessiva attenzione ansiosa verso il proprio corpo, che può incidere sui processi di arousal fisiologico, sfociando in un deficit erettile cronico.

L’erezione è un fenomeno complesso che risponde ad una regolazione multifattoriale, ormonale, psichica, endocrina, neurogena e vascolare; tutti questi fattori agiscono in sinergia sul sistema vascolare del tessuto erettile contenuto nei corpi cavernosi. Alterazioni dei fattori psicologici possono quindi provocare una disfunzione erettile. Secondo il DSM 5 per poter diagnosticare la Disfunzione Erettile devono essere soddisfatti i seguenti criteri (American Psychiatric Association, 2013):

A. Almeno uno dei tre seguenti sintomi deve essere sperimentato in quasi tutte o tutte (circa il 75% – 100%) le occasioni di attività sessuale (in contesti situazionali identificati o, se generalizzato, in tutti i contesti):
1. Marcata difficoltà ad ottenere un’erezione durante l’attività sessuale.
2. Marcata difficoltà a mantenere l’erezione fino al completamento dell’attività sessuale.
3. Marcata diminuzione della rigidità dell’erezione.

B. I sintomi del Criterio A sono protratti per un periodo minimo di circa 6 mesi.

C. I sintomi del Criterio A della disfunzione erettile causano disagio clinicamente significativo nei singoli.

D. La disfunzione erettile non è dovuta ad un disturbo mentale non sessuale o alle conseguenze di un grave distress (sofferenza) nelle relazioni o ad altri rilevanti fattori di stress e non è attribuibile agli effetti di una sostanza/farmaco o di un’altra condizione medica.

Specificare se:
Lifelong: Il disturbo della disfunzione erettile è presente da quando l’individuo diventa sessualmente attivo.
Acquisito: Il disturbo inizia dopo un periodo di funzione sessuale relativamente normale.

Specificare se:
Generalizzata. Non si limita a determinati tipi di stimolazione, situazioni o partner.
Situazionale: Si verifica solo con certi tipi di stimolazione, situazioni o partner.

Specificare la gravità attuale della disfunzione erettile:
Lieve: lieve distress nei sintomi del Criterio A.
Moderato: Moderato distress nei sintomi del Criterio A.
Grave: Grave o massimo distress nei sintomi del Criterio A.

 

L’ immagine corporea, l’insoddisfazione per il corpo e i sentimenti di vergogna

Per meglio comprendere la relazione che sussiste tra la vergogna e la Disfunzione Erettile, è indispensabile fare riferimento al costrutto di immagine corporea.
L’ immagine corporea si riferisce alle percezioni, ai sentimenti e ai pensieri di una persona nei confronti del proprio corpo, solitamente generati dalle sue dimensioni e della sua attrattività, e delle emozioni a esso associate (Grogan, 1999; Muth e Cash, 1997). Anche se l’ immagine corporea è generalmente concettualizzata come un costrutto ampio e molto sfaccettato, la maggior parte delle ricerche in quest’area si è concentrata in maniera focale sull’insoddisfazione riguardo il peso, particolarmente verso il desiderio di essere più magri (Grogan, 1999), e anche se i lavori recenti si stanno concentrando in misura maggiore su ragazzi e uomini, la maggior parte delle ricerche sull’ immagine corporea negli ultimi 30 anni sono state condotte su giovani donne. Questo bias nella popolazione in esame è avvenuto in quanto la ricerca sull’ immagine corporea affonda le sue radici nel lavoro psichiatrico e psicologico riguardante i disturbi dell’alimentazione femminili. Ciò ha rinforzato l’idea che la psicologia dell’ immagine corporea sia rilevante solo per le donne, e che il costrutto riguardi esclusivamente la preoccupazione per forma e dimensione corporea. In realtà, l’immagine corporea e le sue conseguenze psicologiche sono rilevanti anche per gli uomini e per i ragazzi.

L’ immagine corporea è implicata in una serie di comportamenti non salutari. Per esempio, essa può influenzare l’impegno nell’esercizio fisico, prevenendo la partecipazione ad attività sportive organizzate come ad esempio l’iscrizione ad una palestra o l’esercizio in un centro sportivo, a causa delle preoccupazioni legate al mostrare il proprio corpo in ambiti sportivi. Tali preoccupazioni sono spesso legate al dubbio di possedere il tipo di corpo accettato da una cultura che promuove costantemente un’ideale di perfezione fisica. Fattori legati all’ immagine corporea possono anche influenzare il corretto modo di alimentarsi o l’autoimposizione di restrizioni legate al cibo.

L’insoddisfazione corporea e l’eccessivo investimento nel corpo sono infatti stati collegati all’intera gamma dei comportamenti alimentari disfunzionali, come le abbuffate, le diete eccessivamente restrittive e il vomito autoindotto (Levine e Piran, 2004). L’insoddisfazione corporea e l’eccessiva importanza attribuita al proprio corpo possono influenzare la decisione di smettere di fumare, laddove sia presente la paura di un aumento ponderale a seguito di ciò. Inoltre, tali percezioni possono condurre a sottoporsi ad una chirurgia cosmetica non necessaria, mettendo così a rischio la salute. Chiaramente l’insoddisfazione corporea e la preoccupazione riguardo il proprio corpo sono collegate con molti comportamenti salutari, perciò rivestono un’importanza vitale per chiunque si occupi di interventi di promozione della salute. I fattori legati all’ immagine corporea devono essere presi in considerazione nel momento in cui si metta a punto qualunque intervento legato all’aspetto fisico, inclusi esercizio, alimentazione bilanciata, controllo del peso e cessazione della dipendenza dal fumo. Capire l’impatto dei fattori alla base dell’ immagine corporea può aiutare ad assicurarsi che variabili come influenze socioculturali, sesso, peso e fattori percettivi siano prese in considerazione nel pianificare programmi ben strutturati.

I modelli socioculturali dei fattori di rischio hanno enfatizzato l’importanza dei media, della famiglia e del gruppo dei pari sulla soddisfazione corporea (Thompson et al., 1999), in particolare concentrandosi sugli effetti che le immagini televisive hanno sull’ immagine corporea. Esse infatti possono causare cambiamenti nel modo in cui il corpo è percepito e valutato, a seconda dell’importanza che questi stimoli rivestono su chi li osserva.

Anche se le preoccupazioni riguardo il proprio corpo sono prevalenti tra le donne, gli studi recenti suggeriscono che gli uomini hanno cominciato a concentrarsi di più sul loro aspetto fisico. Negli ultimi anni infatti, essi sono stati oggetto di pressioni crescenti ad uniformarsi ad un ideale di corpo snello e muscoloso (Frith, Gleeson, 2004). Questi cambiamenti hanno portato alcuni teorici a sostenere che, in maniera simile agli ideali irrealistici riguardanti il corpo femminile, i media hanno creato standard fisici per l’uomo impossibili da ottenere. Infatti, la ricerca suggerisce che gli uomini stanno diventando progressivamente insoddisfatti del loro aspetto fisico.

Anche se gli standard sociali per i corpi maschili e femminili sono diversi (gli uomini desiderano essere snelli e muscolosi, le donne magre), il desiderio di ottenere un corpo ideale può portare sia gli uomini che le donne a sperimentare un aumento della vergogna nei confronti del proprio aspetto fisico. Il concetto di vergogna si riferisce alla tendenza a sentirsi privi di valore o persone cattive in risposta a un fallimento percepito nel vivere specifici ideali culturali (Tangney, Miller, Flicker, Barlow, 1996). Anche se gli attuali ideali femminili e maschili non sono realisticamente ottenibili per la maggior parte delle persone, gli uomini e le donne possono sentirsi costretti a raggiungerli. La loro percezione di fallimento verso questo compito può generare sia sentimenti cronici di vergogna nei confronti dei limiti fisici percepiti, sia ansia e preoccupazione che gli altri possano valutare negativamente il proprio corpo.

Gli studi condotti sul ruolo centrale che l’aspetto fisico può avere nella vita sono stati condotti principalmente su donne. Secondo la teoria dell’oggettivazione (Fredrickson, Roberts, 1997), l’enfasi socioculturale sulla bellezza delle donne presente nella società occidentale porta all’auto-oggettivazione, la self-objectification, ovvero la tendenza a considerare il proprio sé primariamente in termini di aspetto fisico e ad adottare la prospettiva di un osservatore esterno nei confronti di esso. Tale costrutto è stato collegato a numerose conseguenze negative nelle donne, che quando sono indotte ad auto-oggettivarsi in contesti di laboratorio (ad esempio quando si chiede loro di indossare un costume da bagno o quando sono esposte a media che inducono all’auto-oggettivazione), riportano un incremento nei sentimenti di vergogna e nell’ansia.

L’esposizione a immagini mediatiche che mostrano un ideale corporeo ultra-magro aumenta il riportare da parte delle donne sentimenti di vergogna del corpo e self-consciousness. Queste conseguenze negative della self-objectification possono impedire l’eccitazione sessuale.
Data la crescente enfasi socioculturale sull’aspetto fisico dell’uomo, anche essi possono provare la vergogna cronica del corpo che risulta dalla self-objectification. Anche se Fredrickson fallì nel trovare gli effetti di essa negli uomini, studi recenti suggeriscono che l’esposizione a immagini idealizzate del corpo maschile aumenta negli uomini l’insoddisfazione verso il proprio corpo. Inoltre, la self-objectification maschile, così come quella femminile, predispone ad una percentuale maggiore di sintomi come disturbi dell’alimentazione, vergogna del corpo, esercizio fisico compulsivo, così come un’autostima generale più bassa e una scarsa stima del proprio corpo. Perciò, allo stesso modo delle donne, la tendenza degli uomini ad auto-oggettivarsi può avere conseguenze per il benessere psicologico e per una valutazione affettiva del proprio corpo.

 

L’ immagine corporea, la soddisfazione sessuale e la disfunzione erettile

Molti teorici sostengono che le preoccupazioni riguardo l’ immagine corporea possano minare il raggiungimento del piacere sessuale (Frederickson, Roberts, 1997; Masters, Johnson, 1970). Nonostante il collegamento teorico tra preoccupazioni riguardo il corpo e soddisfazione sessuale, pochi studi hanno studiato questa relazione empiricamente o i particolari meccanismi che ne sono alla base. Un lavoro interessante in questo senso è quello svolto da Sanchez e Kiefer, che si propone di esaminare la relazione tra la vergogna per il proprio corpo e le esperienze sessuali soggettive, e se questa relazione sia mediata dalla self-consciousness sessuale. Con il concetto di self-consciousness si fa riferimento a un’attenzione eccessiva rivolta su di sé, causata dalla preoccupazione riguardo ciò che potrebbero pensare gli altri.

Un focus secondario dello studio è stato quello di esplorare le differenze di genere nella relazione tra vergogna del corpo ed esperienze sessuali. Anche se diverse teorie si sono concentrate su come le preoccupazioni per l’ immagine corporea colpiscano le donne, secondo le due ricercatrici la vergogna per il corpo influenza anche le esperienze sessuali degli uomini.

Secondo Sanchez e Kiefer (2007), lo stato affettivo negativo di vergogna del corpo può minare il soddisfacimento sessuale aumentando a livello cognitivo la preoccupazione verso il corpo nei contesti sessuali, aumentando quindi la self-consciousness sessuale. Masters e Johnson (1970) asseriscono che la self-consciousness sessuale, chiamata da loro spectatoring, impedisce le risposte sessuali maschili e femminili, e quindi la soddisfazione. Lo spectatoring, spostando l’attenzione dal piacere sessuale al proprio aspetto fisico, genera problemi di Disfunzione Erettile negli uomini. (Barlow, 1986; Faith, Schare, 1993; Masters, Johnson, 1970). Quando le persone sono distratte dalle preoccupazioni riguardo il loro corpo, possono essere incapaci di rilassarsi e di focalizzarsi sul proprio piacere sessuale, influenzando così la prestazione. Meana e Nunnik (2006) asseriscono che l’essere distratti dal proprio aspetto fisico può avere un effetto maggiore sulla sessualità maschile rispetto a quella femminile, poiché le preoccupazioni riguardo al corpo sono diventate così diffuse nelle donne che esse sono abituate agli stati di self-objectification.

Nel loro studio Sanchez e Kiefer esplorano il collegamento, precedentemente ignorato, tra vergogna del corpo e disturbi sessuali, così come i meccanismi attraverso i quali i due fenomeni potrebbero essere collegati. Poiché l’eccitazione sessuale, la capacità di raggiungere l’orgasmo e il piacere sessuale richiedono attenzione e concentrazione, in questo studio le due ricercatrici si sono concentrate su questi disturbi sessuali e sulla loro connessione con le preoccupazioni riguardo il corpo, negli uomini e nelle donne. Anche se sostengono che la relazione tra preoccupazioni concernenti il corpo ed esperienze sessuali soggettive sia reciproca, esse hanno messo alla prova la direzione di causalità discussa in maniera più consistente nella letteratura scientifica, ovvero che le preoccupazioni verso il corpo conducono a disturbi sessuali. Questa direzione è favorita dal fatto che le preoccupazioni verso il corpo emergono già in adolescenza o addirittura nell’infanzia, prima dell’età media in cui avvengono le prime esperienze sessuali, stimata intorno ai 16 anni (Dickson, Paul, Herbison, Silva, 1998). Poiché le preoccupazioni verso il corpo tendono a precedere le esperienze sessuali, le ricercatrici sostengono che le fonti primarie di vergogna del corpo sono collocate fuori dalla camera da letto.

Il modello strutturale dello studio è costituito dalle seguenti ipotesi:
1) la vergogna per il corpo dovrebbe essere legata a una minore eccitazione sessuale, a minor piacere, a maggiori difficoltà nel raggiungere l’orgasmo, relazioni mediate dalla self-consciousness sessuale;
2) le donne dovrebbero riportare maggiori preoccupazioni riguardo il corpo e disturbi sessuali rispetto agli uomini (come difficoltà ad eccitarsi sessualmente e inabilità a raggiungere l’orgasmo), dal momento che tipicamente le donne riportano maggiori preoccupazioni riguardo il corpo, maggiore insoddisfazione sessuale, minore abilità a raggiungere l’orgasmo e minore raggiungimento dell’eccitazione sessuale rispetto agli uomini;
3) tuttavia, ci si aspetta che le preoccupazioni verso il corpo siano legate a disturbi sessuali e interferiscano con il piacere sessuale sia nelle donne che negli uomini;
4) infine, si ipotizza che il minore raggiungimento dell’eccitazione e la minore abilità di raggiungere l’orgasmo predicano un minore piacere sessuale generale, poiché è stato dimostrato che l’abilità di eccitarsi e di raggiungere l’orgasmo sia una componente importante della soddisfazione sessuale, sia per le donne che per gli uomini.

Lo studio ha fornito supporto alle ipotesi su come le preoccupazioni verso l’ immagine corporea siano correlate alle esperienze sessuali maschili e femminili. La vergogna per il corpo ha predetto in maniera forte una maggiore self-consciousness durante l’intimità fisica. In più, la relazione significativa tra vergogna del corpo e minore possibilità di raggiungere l’eccitazione sessuale è stata mediata dalla self-consciousness sessuale. Inoltre il loro modello si è adattato bene ai dati corrispondenti sia alle donne sia agli uomini, dimostrando che i processi di base (vergogna e self-consciousness) relativi all’eccitazione e al piacere sessuale sono gli stessi per entrambi i generi.

Lo studio ha dimostrato che sia gli uomini che le donne sono soggetti alla vergogna del corpo. Con alcune eccezioni minori, il modello teorico proposto riguardante la relazione tra vergogna del corpo e problemi sessuali si adatta ad entrambi i sessi. Queste scoperte forniscono un supporto preliminare all’idea che gli uomini nel corso degli anni siano diventati più suscettibili nei confronti della vergogna del corpo e dei suoi effetti deleteri. In più, le preoccupazioni riguardo l’aspetto fisico possono avere un effetto maggiore per gli uomini in contesti sessuali piuttosto che non sessuali. Molto probabilmente, i contesti sessuali espongono gli uomini allo stesso tipo di problematiche riguardanti l’aspetto fisico che le donne incontrano in una varietà di contesti non sessuali, come le classi scolastiche e i luoghi di lavoro. Nelle ricerche precedenti, probabilmente gli uomini non sono stati influenzati dalle preoccupazioni per l’ immagine corporea perché sono stati osservati in contesti in cui esse non erano percepite come importanti ai fini della propria autostima.

Tali lavori sono in linea con la ricerca recente, che ha dimostrato le conseguenze negative dell’introiezione di immagini fisiche idealizzate e delle preoccupazioni verso l’aspetto sia per le donne che per gli uomini. Nel momento in cui l’auto-oggettivazione cresce anche per gli uomini, diventa sempre più importante identificare le conseguenze potenziali di queste crescenti preoccupazioni riguardo il corpo.

I risultati dello studio quindi dimostrano che una delle conseguenze dell’aumento della vergogna per il corpo è la ridotta eccitazione sessuale, che negli uomini si traduce in Disfunzione Erettile. Poiché l’eccitazione è fortemente correlata con l’abilità di raggiungere l’orgasmo e con il piacere sessuale, queste scoperte possono spiegare perché le preoccupazioni riguardo l’ immagine corporea precedano l’evitamento delle attività sessuali. Gli uomini e le donne con alti livelli di vergogna del corpo possono evitare le attività sessuali perché trovano il sesso meno piacevole e soddisfacente.
Tali risultati sono importanti al fine di migliorare il benessere generale della persona, poiché esperienze sessuali positive e soddisfacenti sono alla base della salute fisica e mentale.

Essere vittime di bullismo in età infantile aumenta il rischio di sviluppare disturbi cronici in età adulta

Le vittime di bullismo, sottoposte a stress di tipo cronico, risultano essere a rischio di sviluppare diversi disturbi sia psichiatrici sia fisiologici. Essere vittime di bullismo durante l’infanzia comporta effetti a lungo termine, correlati all’esposizione a fattori di stress di tipo cronico, a livello della salute sia fisica sia mentale. In particolare, secondo quanto evidenziato da un recente articolo pubblicato dalla rivista Harvard Review of Psychiatry, vi sarebbe un maggior rischio di sviluppare, nel corso dell’età adulta, malattie cardiache e diabete.

 

Essere vittime di bullismo: gli effetti sulla salute fisica e psicologica

I recenti passi avanti, fatti all’interno della comunità scientifica, inerenti la comprensione degli effetti negativi che l’esposizione cronica a fattori di stress ha sulla salute di ognuno, mostrano come ci sia un sempre più incalzante bisogno di chiarire le implicazioni a lungo termine dell’aver subito atti di bullismo in età infantile. Il bullismo, infatti, viene considerato come una forma di stress di tipo sociale cronico (Olweus, 1994) e, in quanto tale, potrebbe portare, al pari di altri fattori di stress continuativi e cumulativi nel tempo, a significative conseguenze a lungo termine a livello della salute, non solo psicologica, ma anche fisica. Per quanto le prime vengano indagate già da tempo (Kumpulainen, 2008), ancora poco si sa circa le seconde, ovvero circa le ricadute sulla salute fisica, sia immediata sia a lungo termine.

Il bullismo viene definito come una tipologia sistematica di abuso di potere, con la messa in atto in modo ripetuto nel tempo di comportamenti aggressivi che intenzionalmente recano danni ai propri pari (Olweus, 1994). Un tempo liquidato come innocua esperienza infantile, questa modalità comportamentale disfunzionale viene ora riconosciuta come un significativo fattore di rischio per la salute psicologica, soprattutto se messa in atto in modo prolungato nel tempo. Per quanto sussistano ancora delle questioni aperte soprattutto circa la direzione dell’associazione, esso è stato spesso correlato a maggiori rischi di sviluppare disturbi psichiatrici quali, ad esempio, ansia, depressione, ideazione e comportamento suicidario (Lereya et al., 2015).

Inoltre, i bambini che sono stati vittime di bullismo mostrano anche maggiori probabilità di presentare nell’immediato sintomi a livello fisico, a tal punto che la presenza di sintomi ricorrenti e apparentemente inspiegabili vengono spesso considerati dei campanelli d’allarme circa la presenza di possibili fenomeni di bullismo (Gini & Pozzoli, 2009). Secondo Zarate-Garza e collaboratori, autori di un recente articolo sul tema, sarebbe quindi estremamente importante riuscire a comprendere i processi biologici sottostanti la correlazione tra questi fenomeni psicologici e fisiologici, soprattutto riguardo il loro potenziale impatto sulla salute sul lungo periodo.

In linea con questo, studi riguardanti differenti tipologie di esposizione a fattori di stress cronico hanno sollevato la questione circa il fatto che l’ essere vittime di bullismo, “una classica forma di stress cronico sociale”, potesse portare ad effetti persistenti anche per quanto riguarda la salute fisica. Infatti, qualsiasi modalità di stress cronico, sia esso di tipo fisico o mentale, può creare notevole tensione a livello corporeo, portando nel tempo ad un logorio continuo, fino a creare dei veri e propri “danni da usura”.

Questo processo, definito Carico Allostatico (Allostatic Load), risulta quindi essere l’esito delle risposte biologiche a modalità di stress continuative o ripetute (ad es. risposte del tipo fight or flight), il prezzo che il nostro organismo paga per adattarsi alle condizioni mutevoli che affronta e adeguarsi alle situazioni di vita vissute modificando alcuni parametri interni allo scopo di mantenere le funzioni di singoli organi e apparati. Sebbene questi meccanismi siano protettivi nel breve periodo, si parla di “prezzo da pagare” in quanto a lungo termine possono insorgere dei problemi, soprattutto se divengono cronici nel tempo, andando a logorare cellule, tessuti e organi e compromettendone così il funzionamento ottimale, come riflesso dell’impatto cumulativo dello stress sull’organismo stesso. A tal proposito, diversi studi empirici hanno dimostrato come lo stress cronico porti ad alterazioni a livello neuroendocrino, infiammatorio e metabolico (ad es. Naninck et al., 2015).

Quando una persona viene esposta ad alti livelli di stress per brevi periodi, l’organismo nella maggior parte dei casi riesce efficacemente a far fronte alla sfida e a tornare allo stato di benessere iniziale. D’altro canto, con tipologie di stress cronico e prolungato nel tempo, un simile processo di recupero potrebbe non aver modo di essere messo in atto, portando così al suddetto Carico Allostatico per sovraccarico, con conseguente impatto negativo su quei processi fisiologici critici per la salute e il benessere dell’organismo.

A causa dell’aumento del Carico Allostatico, lo stress cronico può portare a cambiamenti a livello ormonale, infiammatorio e anche metabolico. Sul lungo periodo, queste alterazioni fisiologiche possono contribuire allo sviluppo di disturbi quali, ad esempio, depressione, diabete, patologie cardiache e anche al progredire di patologie psichiatriche.

Inoltre, l’esposizione precoce a significativi fattori di stress può influenzare il modo in cui l’organismo si sviluppa e organizza per rispondere ad ulteriori fattori di stress futuri. Questo è possibile in parte grazie ai cosiddetti cambiamenti epigenetici, ovvero alterazioni a livello della funzionalità dei geni in seguito ad esposizione ambientale, che modificano la risposta ad eventi stressanti. In parte, è anche possibile che lo stress cronico alteri direttamente l’abilità del bambino di sviluppare quelle abilità psicologiche legate alla resilienza, andando così a ridurre la sua futura capacità di far fronte allo stress in modo adattivo e costruttivo.

Per quanto attualmente non sia ancora stato dimostrato un legame di tipo causa-effetto tra lo stress cronico, bullismo compreso, e lo sviluppo di patologie sul lungo termine, future indagini, che coniughino l’osservazione clinica con la ricerca scientifica di base, potrebbero assumere un ruolo determinante nella comprensione, anche in ottica di interventi preventivi, della relazione tra queste due variabili.

La review di Zarate-Garza e collaboratori, mettendo in luce le recenti scoperte in merito alla relazione sussistente tra bullismo, infiammazione e disfunzioni metaboliche, esplicita la possibilità che effettivamente il bullismo possa aumentare il rischio di sviluppare una serie di disturbi, che implicano processi quali l’infiammazione e la difesa immunitaria. La ricerca mostra così quanto possa essere importante tenere in considerazione il bullismo e le sue conseguenze già all’interno delle cure cliniche standard per l’infanzia. In tal senso, il bullismo non può più quindi essere solamente considerato come un mero processo sociologico o biologico, ma sarebbe da leggersi come un vero e proprio problema biopsicosociale che richiederebbe ricerche ed interventi integrati. Chiedere ed interessarsi del bullismo e delle sue vittime risulta così essere un concreto passo avanti nell’intervento a favore della prevenzione dell’esposizione traumatica a fattori stressanti potenzialmente cronicizzabili e della riduzione del rischio di sviluppare future comorbilità psichiatriche correlate (ad es. Walker et al., 2014).

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione – Report dalla seconda giornata

I workshop mattutini, del secondo giorno, presentano argomenti che spaziano all’interno delle  nuove applicazioni cliniche e vanno dalla presentazione del gruppo di Studi Cognitivi , guidato dalla Prof.ssa Sassaroli, sulla presentazione del modello Libet, alla presentazione del trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo, Mindfulness Based Cognitive Oriented, tenuto dal Dott. Didonna.

Dal Congresso Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

 

L’analisi del comportamento fa una radiografia alla black box e scandaglia l’inconscio

Tra questa offerta di altissimo livello, abbiamo scelto di seguire il workshop in apparenza più criptico ed ostico, ma dal titolo estremamente interessante: “L’analisi del comportamento fa una radiografia alla black box e scandaglia l’inconscio”. Il workshop è tenuto da giovani ricercatori con la supervisione del Prof.Presti e della Dott.ssa Oppo. Il filo conduttore degli interventi è stata l’esplicazione del modello IRAP.

L’ Implicit Relational Assessment Procedure (IRAP) è un modello che nasce nel 1991 da dei ricercatori (Watt, Keenan, Barnes, & Cairns) che decisero di implementare il paradigma dell’equivalenza dello stimolo (Sidman, 1982) per studiare specifici processi di categorizzazione culturalmente condizionanti, definiti dalla psicologia sociale come Stereotipi.

Il dott. Carnevali, uno dei relatori, prescrive che in una prospettiva di BA (Behavior Analysis), lo scopo dell’IRAP è quello di misurare il grado di sensibilità psicologica (fusione cognitiva) degli individui verbalmente competenti a relazioni verbali apprese e consolidate all’interno della propria comunità di riferimento. L’Irap dovrebbe servire a studiare le risposte derivate o implicite che connotano l’equivalenza di una classe di risposte per un individuo, ossia, le sue regole. La creazione del rapporto tra lo stimolo e il significato racchiude, dunque, le tematiche dell’ IRAP.

Le domande che si pone l’Irap sono molto affascinanti , perché cercano di rispondere a quelli interrogativi a cui la psicologia da sempre si rivolge, ossia, perché scegliamo qualcosa?, quali sono le nostre regole verbali che guidano il nostro comportamento? E’ però interessante osservare come questo approccio cerca di dare le risposte attraverso il laboratorio e l’analisi della costruzione delle cornici relazionali.

Dopo una fase di apprendimento al compito inizia la vera e propria fase sperimentale di raccolta delle risposte derivarte del soggetto. L’IRAP, come molti test che misurano le risposte  implicite, come  lo IAT, l’Estrinsic Affective Simon Test (EAST; De Houwer, 2003), utilizza i ritardi nelle risposte dei partecipanti per suggerire bias; per esempio ai partecipanti potrebbe essere chiesto di affermare relazioni verbali come magro-positivo-vero e grasso-positivo-vero attraverso blocchi di prova alternati.

Le prime relazioni si pensa siano “coerenti” con le relazioni verbali nella più ampia comunità sociale, e le ultime si pensa siano “incoerenti” con quei percorsi relazionali. La risposta più veloce (minori ritardi nella risposta) per il primo caso sarebbero interpretate come bias implicito.

Il termine “implicito”, usato nella ricerca IRAP non è inteso come una descrizione mentalistica; il termine  usato per il tipo di risposta automatica o impulsiva catturata attraverso misure implicite è appunto “breve risposta relazionale immediata”. (BIRRS; Barnes-Homes, Barnes-Holmes, Stewart & Boles, 2010). Il workshop si è concluso con la discussione con i partecipanti che hanno posto diverse domande che spaziavano dai bias percettivi alla difficoltà di trovare gli stimoli giusti atti ad elicitare le risposte implicite.

 

Sessione Plenaria

La Plenaria della mattina è stata condotta da Carmen Luciano, ricercatrice spagnola di matrice contestualista funzionale e post-comportamentista. Il focus dell’ intervento è stato il tentativo di  operazionallizzare il processo della mindfulness. Il suo intervento si è focalizzato sulle funzioni svolte dalle varie componenti della mindfulness.

La Luciano ritiene che la consapevolezza può essere operazionalizzata, in base alla capacità del soggetto, che pratica la mindfulness, di notare e discriminare gli stimoli presenti nel contesto su una cornice relazionale gerarchica. Fare meditazione è una classe di comportamento che contiene vari fattori (diverse reazioni con diverse funzioni). L’aspetto più importante della mindfulness da una prospettiva RFT/ACT , secondo la Luciano, è legata ai processi di defusione e di perspective taking.

Il Perspective taking  viene operazionalizzato in base a cornici relazionali di tipo deittico e ieratico. La prospettiva contestuale funzionale vede nella mindfulness una capacità di discriminazione degli stimoli in base a differenti prospettive.

 

Workshop – Relational Frame Theory nella pratica clinica.

Nel pomeriggio abbiamo partecipato al Workshop RFT nella pratica clinica tenuto da Giovanni Miselli e Matthieu Villatte e giovani clinici che si occupano di applicare i principi della Relational Frame Theory nella pratica clinica. Villatte  ha chiarito da subito che  La clinica della Relational Frame Theory usa direttamente i principi nella RFT nell’ intervento clinico, e quindi non è una applicazione clinica come l’ACT, ma il processo stesso applicato all’uso del linguaggio in psicoterapia. Egli sostiene che:

1) Quando pensi in principi di Relational Frame Theory di base puoi essere più efficace e più pratico nell’ intervento perché si lavora allo stesso livello del modello.

2) Puoi usare il linguaggio in maniera più precisa e funzionale come ad esempio chiedersi che cosa si possa dire al proprio paziente perché si possa evocare una determinata funzione.

 

La ricerca sulla Relational Frame Theory

La Relational Frame Theory è un modello che cerca di spiegare la generatività del linguaggio e della cognizione, è molto complesso e allo stesso tempo molto florido in termini di ricerca. Attualmente ci sono più di 200 studi che ne dimostrano l’efficacia e l’esistenza ed è uno dei processi più studiati con 3 linee di ricerche:

a)   La prima riguarda come si costruiscono le reti simboliche: solitamente questi studi vengono svolti in laboratorio e riguardano l’apprendimento implicito e contestuale. Si occupano in particolare del processo di trasformazione di funzione dello stimolo che è un effetto indiretto e alla base dell’apprendimento di risposte derivate. Con questo metodo è stato ad esempio dimostrata la fobia dei ragni su base indiretta. (Dymond , Schlund , Roche , De Houwer e Freegard 2012).

b)   Il secondo Filone riguarda la formazione di frame gerarchico e frame deittico. Queste linee di ricerca sono studi clinici, ma condotti nei laboratori e riguardano sopratutto lo studio del perspective taking e della metacognizione. Riguardano gli studi, per esempio, condotti da Carmen Luciano, la relatrice della mattina.

c)    Il terzo filone di ricerca è basato , invece,  sugli interventi nel setting clinico: riguardo lo studio dei processi nei vari modelli operativi.

 

Dopo l’intervento introduttivo di Miselli e Villatte, il workshop ha ospitato giovani clinici che applicano la Relational Frame Theory tra cui Nicola Lo Savio che ha fatto una miscellanea di interventi, rendendo visibili i processi della RFT nei vari casi  e il valore delle terapie esperenziale. Per Losapio è essenziale in terapia ridurre gli sproloqui, coinvolgere e far vedere i processi. Di particolare interesse inoltre,  l’intervento di Simone Napolitano che  si è occupato dell’uso della RFT  da parte del terapeuta. Per Napolitano, nel trattamento del paziente difficile l’uso applicato dei principi della Relational Frame Theory è essenziale per discriminare  i processi linguistici che si elicitano nel terapeuta di fronte alle difficoltà del trattamento complesso. Il terapeuta può così essere in grado di rispondere alle sollecitudini del paziente, aiutandolo con l’utilizzo contestuale del linguaggio a fare Traking ed  Aumenting dei valori, incrementando, così  la flessibilità cognitiva.

Il ruolo dell’intelligenza emotiva nella professione medica: l’abilità di comprendere le emozioni cambia nel corso degli anni?

L’ intelligenza emotiva sembra ricoprire un ruolo preponderante nel determinare come un medico si approccerà al suo paziente: un medico emotivamente capace, rende il paziente più fiducioso anche verso il trattamento somministrato.

 

L’ intelligenza emotiva viene definita come quell’abilità di riconoscimento e comprensione delle emozioni sia in se stessi che negli altri e di utilizzo di tale consapevolezza nella gestione e nel miglioramento del proprio comportamento e delle relazioni con gli altri.

Salovey & Mayer (1997) affermano che “l’ intelligenza emotiva coinvolge l’abilità di percepire, valutare ed esprimere un’emozione, l’abilità di accedere ai sentimenti e/o crearli quando facilitano i pensieri, l’abilità di capire l’emozione e la conoscenza emotiva, l’abilità di regolare le emozioni per promuovere la crescita emotiva ed intellettuale”. In tal senso, l’ intelligenza emotiva si compone di una parte di valutazione ed espressione delle emozioni, una parte di regolazione ed una parte di vero e proprio utilizzo delle stesse.

 

L’ intelligenza emotiva nella professione medica

Questo aspetto dell’intelligenza ricopre così un ruolo preponderante nel determinare, ad esempio, come un medico starà al capezzale di un suo paziente.

Di fronte ad un medico emotivamente disponibile e capace, il paziente si sentirà più fiducioso nei suoi confronti, migliorando così in generale la relazione medico-paziente e anche il grado di aderenza al trattamento somministrato. Sembra, inoltre, che l’ intelligenza emotiva sia in grado di influire anche sulle capacità del medico di far fronte allo stress e di mettere in atto abilità inerenti la resilienza, rendendolo così meno propenso ad esperienze negative quali il burnout, o la sindrome da stress (Weng, 2008).

Attualmente, presso il Centro Medico dell’Università di Loyola (Loyola University Medical Center), sono in corso una serie di studi che hanno lo scopo di capire come sfruttare le abilità di intelligenza emotiva dei medici per poter migliorare in parallelo sia il loro livello di benessere personale sia le modalità di cura dei pazienti.

 

L’ intelligenza emotiva nei pediatri

Ad esempio, in un recente studio pubblicato dal Journal of Contemporary Medical Education, Shahid e collaboratori hanno valutato i livelli di intelligenza emotiva di medici pediatri ancora in formazione, ponendo particolare attenzione a come i diversi punteggi variassero con il progredire degli anni di formazione.

Ciò che è emerso è che, al contrario di quanto rilevato da Chan e collaboratori (2014) con un campione di internisti di ortopedia, i medici, anche se ancora in formazione, sembrerebbero presentare in media livelli di intelligenza emotiva maggiori rispetto a quelli della popolazione generale, per quanto la differenza non sia risultata statisticamente significativa. Più nello specifico, i medici hanno totalizzato in media un punteggio di 110 ad un questionario sull’ intelligenza emotiva (il punteggio medio della popolazione generale è di 100), con valori più alti per quanto riguarda le sottoscale riguardanti il controllo degli impulsi, l’empatia e la responsabilità sociale e valori minori nelle sottoscale sull’assertività, la flessibilità e l’indipendenza.

Nonostante siano già presenti in letteratura numerosi studi riguardanti l’ intelligenza emotiva in ambito medico, la ricerca di Shahid e collaboratori, per la prima volta, ha coinvolto un campione composto dai cosiddetti residents, ovvero quei medici specializzandi ancora in formazione che stanno svolgendo attività di tirocinio all’interno di un ospedale sotto la supervisione di un medico di ruolo. Questo tipo di internato in medicina generalmente ha una durata che va tra i tre e i quattro anni (tre per quello in pediatria, quattro per med-peds, un internato che combina sia pediatria sia medicina interna). Il campione di tale ricerca era così composto da 31 pediatri in formazione e 16 internisti med-peds.

Per quanto riguarda la valutazione quantitativa dell’ intelligenza emotiva, ai partecipanti è stato chiesto di completare il Bar-On Emotional Quotient Inventory, un questionario self-report ben validato e composto da 133 item focalizzati sulla misurazione delle diverse abilità inerenti tale tipologia di intelligenza.

Dalle analisi, confrontando i punteggi in base all’anno di formazione, è emerso come gli internisti al terzo e quarto anno ottenessero punteggi maggiori alle sottoscale relative all’assertività rispetto a quanto non totalizzassero gli studenti al primo e secondo anno. Questo, secondo gli autori, potrebbe essere comprensibile alla luce dell’acquisizione di maggiore conoscenza, di maggiori abilità e di un affinamento della conoscenza di sé che caratterizzerebbe il progredire degli anni di formazione.

D’altra parte, in linea anche con studi precedenti (Neumann et al., 2011), gli autori hanno evidenziato come i punteggi degli internisti al primo e secondo anno per quanto riguarda l’empatia fossero significativamente maggiori rispetto a quelli degli studenti degli anni successivi. Ci si potrebbe quindi chiedere se il grado di assertività di ognuno possa aumentare solo a fronte di una diminuzione dei livelli di empatia.

Al contrario del fattore generale dell’ intelligenza (QI), però, l’ intelligenza emotiva può essere insegnata ed appresa, quindi, secondo quanto affermato da Shahid e collaboratori, la messa in atto di interventi volti al miglioramento della stessa dovrebbe focalizzarsi principalmente sulle aree riguardanti l’indipendenza, l’assertività e l’empatia, con lo scopo di aiutare i medici a divenire sì più assertivi, ma senza che questo infici l’empatia.

A tal proposito, recentemente, i pediatri e gli internisti dell’Università di Loyola sono stati coinvolti in un programma educazionale riguardante il miglioramento delle abilità di intelligenza emotiva e l’analisi dei dati, per quanto ancora provvisoria, sembrerebbe mostrare un miglioramento generale nei livelli di intelligenza emotiva posseduta dai partecipanti, anche a livello del benessere personale e della gestione dello stress.

Errori da non ripetere (2016) di D. J. Siegel e M. Hartzell – Recensione del libro

In Errori da non ripetere sin da subito si sottolinea il bisogno di fornire esempi e applicazioni concrete, di fungere da guida pratica, con l’obiettivo ultimo di tutelare l’interazione relazionale nel rispetto delle esperienze emozionali del bambino.

 

L’incontro in questo libro di due professionisti come Daniel J. Siegel, psichiatra infantile e Mary Hartzell, psicologa infantile ed educatrice, fa sì, soprattutto attraverso il loro essere prima di tutto genitori/insegnanti, che il libro Errori da non ripetere contenga tutti gli ingredienti necessari per la comprensione di alcuni meccanismi relazionali tra genitori e figli (ma anche tra educatori e allievi, tra adulto e bambino in genere) la cui conoscenza potrebbe consentire una sana e migliore relazione, di qualsiasi tipo.

Trattasi di una nuova edizione (ndr la prima edizione risale al 2003) e sin da subito si sottolinea il bisogno di fornire esempi e applicazioni concrete, di fungere da guida pratica, per genitori, insegnanti, adulti di riferimento per i bambini, attraverso la narrazione delle loro esperienze personali e professionali, con l’obiettivo ultimo di tutelare l’interazione relazionale nel rispetto delle esperienze emozionali del bambino e della creatività di bambini, insegnanti e genitori.

 

Errori da non ripetere: peculiarità del ruolo genitoriale

In ogni capitolo di Errori da non ripetere si affrontano i principi fondamentali alla costruzione del ruolo genitoriale, dalla comprensione interna e la relazione interpersonale, dal modo in cui ricordiamo e percepiamo la realtà, come ci sentiamo, come comunichiamo, come si sviluppa l’attaccamento e come questo ci influenza in età adulta, come prendiamo le distanze e come invece ci sentiamo coinvolti emotivamente in alcune circostanze, come cerchiamo di comprendere la mente dei nostri figli per entrare in empatia, attraverso la riflessività.

Elementi di questo approccio alla relazione genitori-figlio sono la consapevolezza, continua disponibilità ad apprendere, flessibilità di risposta, capacità di percepire le menti e gioia di vivere…. Troppe cose si potrebbe pensare, certo in apparenza, ma con impegno e dedizione che quasi sempre caratterizzano l’essere genitori è una sfida possibile, la cui vittoria non può che regalare soddisfazioni immense.

In Errori da non ripetere si parte dall’importanza del ricordo delle nostre esperienze, ma soprattutto dai significati ad esse attribuite, in particolare a quelle esperienze non risolte o lasciate in sospeso, che si riattivano nella relazione genitore-figlio, attraverso la forma di risposte emotive, comportamenti e sensazioni fisiche che non lasciano spazio alla lucidità, alla consapevolezza e alla flessibilità di cui sopra, influenzando in modo diretto e spesso imprevedibile  la relazione con i nostri figli nel qui e ora.

Per questioni non risolte si intendono quelle situazioni in cui non si è avuta la possibilità, di comprendere e accogliere quanto emotivamente stesse accadendo, situazioni che possono comportare sentimenti di impotenza, disperazione, perdita, terrore e a volte la sensazione di essere stati traditi.

 

Errori da non ripetere: il racconto delle esperienze

Partendo dal racconto delle loro esperienze, alcuni genitori in situazioni di difficoltà con i loro figli, raccontano il ruolo di queste esperienze vissute in passato da figli e non risolte, e l’impatto che queste hanno adesso.

E’ Mary Hartzell ad iniziare, in Errori da non ripetere, col racconto di un’esperienza personale, partendo da una situazione di fatica, apparentemente banale, come quella di acquistare delle scarpe nuove ai propri figli: quanti genitori potranno ritrovarsi in questo esempio? Quanti hanno memoria di un pomeriggio soleggiato di inizio stagione il cui intento di acquistare un paio di scarpe nuove, si trasforma gradualmente nel risultato di un pomeriggio nero, in cui si ha la sensazione di uscire stravolti da un impresa biblica?

Questo è ciò che avviene, o rischia di avvenire, quando carichiamo il ruolo di genitori del nostro bagaglio emotivo.

Mia madre era troppo indaffarata e preoccupata dall’impresa di farci risalire tutti in auto, noi e le nostre scarpe, per ascoltarmi e anche solo per accorgersi del mio disagio. E fu grazie alla domanda di mio figlio, che portò a galla questo mio disagio, che sono stata in grado di richiamare alla mente l’ansia e i ricordi legate alle mie esperienze infantili, che ancora dopo tanto tempo intervenivano impedendomi di vivere in modo sereno l’acquisto delle scarpe per i miei figli. Erano le esperienze del passato, e non quelle del presente, che influenzavano i miei comportamenti: stavo rispondendo a questioni lasciate in sospeso.

Continua Daniel Siegel, con un esempio in cui l’intolleranza emotiva dei genitori verso l’impotenza (anche qui, quanti ci si possono ritrovare?), possa tradursi in comportamenti diretti contro questa stessa impotenza e vulnerabilità nei propri figli, ovvero situazioni in cui seppur animati dall’amore e dal desiderio di fare bene con i figli, rischiamo di essere pervasi da difese create nel passato che rendono per noi intollerabili alcune esperienze dei nostri bambini. Se ciò dovesse accadere, si sottolinea in Errori da non ripetere, il rischio è di andare incontro ad “ambivalenza parentale”, quando le esperienze dei nostri figli inducono in noi emozioni intollerabili, non riusciamo a riconoscerle e rischiamo di ignorare le emozioni provate dai nostri figli , ai quali trasmettiamo un senso di lontananza e irrealtà, che chiaramente non capiscono.

Dovevo ricordare a me stesso che non ero io la causa dei pianti di mio figlio e che la vulnerabilità e la dipendenza erano normali componenti della vita di un bambino. La comprensione del mio passato mi rendeva libero di accettare i sentimenti di vulnerabilità e il pianto di mio figlio, fino ad imparare a consolarlo e ad essere un padre.

Attraverso l’esempio della piccola Annika, della spiacevole esperienza che vive a scuola, si analizza nel libro Errori da non ripetere l’importanza non solo del modo in cui percepiamo la realtà, ma della sua narrazione, che  assumono un ruolo fondamentale nel processo di integrazione tra ciò che ci accade e il contenuto emozionale ad esso associato, al fine di comprendere il senso di ciò che succede e fornire gli strumenti che permettono di sviluppare capacità di riflessione e comprensione.

Nell’esempio si esplicita come il racconto, la ricostruzione narrativa da parte dell’insegnante di Annika attraverso l’utilizzo delle bambole (in assenza del linguaggio, non condividendo la stessa lingua), si permetta alla bimba, non solo di comprendere l’evento ma anche e soprattutto di prevedere ciò che sarebbe accaduto, consentendo l’aumento delle capacità previsionali che a sua volta aumenta il senso di sicurezza, alleviando infine la sofferenza.

 

La neurobiologia e le emozioni in Errori da non ripetere

Ogni capitolo di Errori da non ripetere contiene spiegazioni di neurobiologia e come queste si manifestano nel nostro funzionamento, per esempio è presente una chiara illustrazione del funzionamento della mente attraverso il cervello, alle sue modalità destra e sinistra di elaborazione delle informazioni: un corretto processo narrativo e di integrazione infatti, è possibile solo se bene si fondono l’esigenza di trovare spiegazioni logiche della modalità sinistra di elaborazione e l’immagazzinamento di informazioni autobiografiche, sociali ed emozionali operato invece dalla modalità destra.

In mancanza di questa integrazione flessibile si impedisce il raccontarsi di una storia coerente e questa impossibilità può essere generata dalla presenza di questioni non risolte, in quanto mancano di complessi contenuti emozionali e autobiografici o in quanto non si riesce a dare un significato, una spiegazione, a questi contenuti.

Una parte importante è dedicata alle nostre emozioni, al loro ruolo nel nostro mondo interno e interpersonale.

Ancora, quante volte per esempio di fronte all’entusiasmo dei nostri figli rispetto ad uno specifico episodio, corredato da comportamenti che riteniamo non corretti, l’istinto primo è quello di correggere questi comportamenti, dando loro una risposta emotiva contraria all’entusiasmo?

Reagendo in questo modo non riconosciamo e non comprendiamo le emozioni dei nostri figli, ciò non vuol dire dovere avvallare i comportamenti scorretti dei nostri figli, ma è importante prima di tutto entrare in sintonia, in risonanza con le esperienze emozionali dei nostri figli prima di cercare di modificarne i comportamenti.

Se posti di fronte a sensazioni di gioia, così come di dolore, i genitori riescono a rispondere e condividere questi stati, per esempio amplificando i primi e accogliendo, confortando i secondi. Si creano così situazioni in cui il bambino si “sente sentito”, ovvero sente di esistere nella mente del genitore, le sue emozioni sono state riconosciute e condivise in uno stato di risonanza.

Per riuscire in questo, secondo gli autori di Errori da non ripetere, i genitori dovrebbero essere consapevoli del proprio stato interno e di comprendere quello dei loro bambini, la consapevolezza genera infatti la possibilità di scegliere, e in questo caso si tratta di scegliere la risposta più adeguata al momento e non lasciarsi guidare in maniera automatica istintiva, ciò che avviene invece quando sono presenti delle questioni non risolte.

La possibilità di prestare attenzione alle nostre esperienze interne quando i comportamenti dei nostri figli ci creano irritazione, disagio, fatica, ci consentirà di imparare a riconoscere come le nostre reazioni interferiscono con la relazione di amore che vorremmo stabilire con loro, motivo per cui ogni capitolo di Errori da non ripetere è corredato da una parte dedicata agli esercizi, indicazioni  pratiche da seguire su come rendersi conto nelle esperienze quotidiane di ciò che avviene.

Una parte invece è dedicata alle ricerche scientifiche recenti, elementi di neurobiologia, studi sulla memoria e sul suo ruolo, così come sulle esperienze traumatiche,  sull’attaccamento, a sostegno ed esempio di quanto viene riportato.

Uno scorrere di contenuti ed esempi continuo, quello in Errori da non ripetere, che a mio parere fanno riflettere, per tutte quelle circostanze, in cui come professionisti, ma anche genitori (e anche figli), ci si trova di fronte a “Non c’è tempo per spiegare, per elaborare, meglio non parlarne…”, e questo libro invece invita a trovarlo questo tempo, soprattutto per riflettere sulle risposte emozionali che diamo ai nostri figli, sui meccanismi relazionali che inneschiamo nell’interazione con essi e come professionista, mi viene da pensare, anche con i nostri pazienti.

Il potere trasformativo dell’emozione (2016) di D. Fosha – Recensione del libro

Il potere trasformativo dell’emozione è un testo unico, che offre una sintesi creativa di Teoria delle emozioni, ricerca madre-bambino e Teoria e ricerca sull’attaccamento, con i principi e le strategie derivati dalle tradizioni psicoanalitica ed esperienziale.

 

L’autrice del libro Il potere trasformativo dell’emozione è Diana Fosha, psicologa e psicoterapeuta fondatrice dell’approccio noto come Psicoterapia Dinamico-Esperenziale Accelerata (AEDP), del quale abbiamo avuto un primo assaggio nel testo di alcuni anni fa presentato in due volumi dal titolo Attraversare le Emozioni.

Con disinvoltura il discorso sembra riprendere proprio laddove si era interrotto, ritrovando nuovi stimoli e arricchendosi di interessanti spunti clinici che ci guidano in una più profonda comprensione del modello affettivo del cambiamento su cui si basa l’AEDP e dei fattori terapeutici in esso implicati.

Scopo del libro Il potere trasformativo dell’emozione è quello di rispondere all’esigenza sempre più impellente di dare un fondamento teorico a tale approccio, che trova la sua origine nella pratica clinica ed in particolare nell’esperienza della Psicoterapia Dinamica Breve di Davanloo.

Accanto a questo, una seconda missione guida l’autrice, ovvero il desiderio di mettere in evidenza con chiarezza quali siano i fenomeni in cui sono radicati i processi trasformativi e di cambiamento di questo processo terapeutico basato sull’emozione.

 

Il potere trasformativo dell’emozione: cos’è l’emozione

Punto di partenza sono dunque proprio le emozioni. Con forza viene innanzitutto ribadito il loro primato come causa potenziale di patologia, come vero agente di cambiamento (rapido ed intenso, contrapposto ad uno più lento e graduale) e come strumento attraverso il quale è possibile l’incontro, la connessione e la costruzione di una nuova esperienza di sé e di sé con l’altro.

L’emozione è concettualizzata, nel testo Il potere trasformativo dell’emozione, come un aspetto innato, adattivo, espressivo e comunicativo, che media l’interazione tra l’individuo e l’ambiente. È chiaro pertanto l’enorme valore che essa acquista nella possibilità di guidare l’individuo nel raggiungimento dei propri scopi e nella regolazione del proprio comportamento nel mondo.

Perché ciò sia possibile, secondo i sostenitori di questo approccio, è però fondamentale che l’individuo abbia accesso al proprio nucleo centrale delle emozioni, ovvero alle proprie emozioni più profonde e autentiche, pena la psicopatologia. Afferma Fosha “per vivere una vita piena nonostante le difficoltà, persino dinnanzi a una tragedia, è necessario saper “sentire” e utilizzare la propria esperienza emozionale”.

L’acquisizione di tale capacità non è tuttavia così scontata.

 

Il ruolo dell’attaccamento nella modulazione degli stati affettivi

Nella comprensione di ciò, ci vengono in aiuto le più recenti teorie che rileggono la relazione di attaccamento primaria come quella dimensione che consente di acquisire gli strumenti necessari per riconoscere e regolare i propri stati affettivi interni. È grazie all’esperienza di una madre sufficientemente buona, capace di rispecchiare ciò che il bambino prova in maniera ancora confusa nei primi mesi di vita, che questi impara a dare un nome a ciò che sta vivendo. Non solo, in questo modo sviluppa anche un senso di sé caratterizzato da continuità e coerenza, che lo renderà progressivamente capace di entrare in contatto con i propri stati affettivi più profondi, di utilizzarli senza restarne soverchiato e progressivamente di autoregolarsi in maniera autonoma.

Di contro, l’indisponibilità del caregiver nelle relazioni di attaccamento insicuro porterà il bambino a sviluppare una serie di strategie difensive necessarie per gestire tutte quelle sensazioni a cui non è riuscito a dare un nome e per questo terrorizzanti e causa di ansia.

Se l’acquisizione della capacità di autoregolazione affettiva è fondamentale nello sviluppo di ciò che Winnicott ha definito il vero Sé, appare chiaro il perché l’AEDP rivolga i propri sforzi proprio all’abbattimento di queste difese. Nel lavoro con un terapeuta AEDP, il bambino, ormai divenuto adulto, ha la possibilità di avviare un processo di guarigione che parta dalla consapevolezza corporea degli stati emotivi bloccati o negati, di riconoscerli, comprenderne il significato e ricostruirli, integrando il nucleo centrale degli affetti.

 

Il potere trasformativo dell’emozione: i correlati fisiologici delle emozioni e la relazione terapeutica

Fondamentale è l’attenzione posta in terapia a tutti i correlati fisiologici e corporei delle emozioni, nel qui ed ora della seduta. È questo un importante intervento di psicoeducazione sulle emozioni che, grazie al fatto di essere messo in atto attraverso la loro dimensione corporea e viscerale, risulta estremamente rapido ed intenso. Perché abbia successo, è però necessario costituire un ambiente sicuro che, come nella relazione madre-bambino, permetta all’individuo di sentirsi libero di esplorare il proprio mondo emotivo interno e, soprattutto, gli consenta di non sentirsi solo nel farlo.

Per raggiungere questo scopo, secondo quanto sostiene Fosha ne Il potere trasformativo dell’emozione, è importante lavorare sulla creazione di una relazione terapeutica orientata ad “una accettazione radicale del paziente” e caratterizzata da empatia e da un forte impegno emotivo da parte del terapeuta nel garantire sintonizzazione, risonanza, condivisione affettiva, affermazione e autorivelazione.

Analogamente alla madre sufficientemente buona, il terapeuta AEDP deve: avere accesso all’intensità dei propri sentimenti ma non esserne travolto, essere in grado di badare alla propria esperienza mentre si concentra su quella del paziente, essere capace di passare fluidamente da uno all’altro. Oltre a ciò, può fungere da modello relativamente a come gestire i sentimenti.

È questo un notevole cambiamento rispetto all’impostazione psicodinamica classica, che vede il terapeuta AEDP rivendicare con forza un ruolo sempre più attivo all’interno del processo di cura.

Al contempo, anche il paziente viene sollecitato a dare il proprio contributo personale alla relazione terapeutica attraverso un continuo esercizio della propria capacità riflessiva, che è chiamato ad esercitare nel qui ed ora della seduta rispetto alle esperienze emotive che nascono nell’interazione con il terapeuta, ma dalle quali allo stesso tempo si sviluppa.

Per riassumere, due sono i temi centrali nell’AEDP illustrati ne Il potere trasformativo dell’Emozione: il potenziale per la trasformazione posseduto dalla relazione con il terapeuta e l’enfasi posta sulle risorse e le capacità del paziente.

In un’alternanza equilibrata di interventi esperenziali e riflessivi, il cui scopo è quello di promuovere nuove esperienze generatrici di sicurezza, viene dunque a stabilirsi la forza di un approccio dall’enorme potere trasformativo. Il risultato è un ricco mosaico costruito ad arte di idee e principi terapeutici che siamo certi stimoleranno e premieranno i clinici di ogni orientamento.

Terapia Multisistemica in Acqua (TMA): gestire le emozioni e modificare gli schemi cognitivo-comportamentali dei bambini con autismo

E’ la Terapia Multisistemica in Acqua, la cosiddetta “TMA”, che oramai da tempo viene praticata con i bambini affetti da disturbi dello spettro autistico. Si avvale di tecniche cognitive, comportamentali, relazionali e senso-motorie e produce risultati davvero ammirevoli.

Aufiero Daiana – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Nata anni fa, nel 1990, nel cuore e nella mente di alcuni giovani psicoterapeuti (P. Maietta, G. Caputo e G. Ippolito) che, ancora studenti, si trovarono a fare gli istruttori di nuoto per persone diversamente abili. Notarono per la prima volta i cambiamenti comportamentali messi in atto da bambini con diagnosi di disturbi generalizzati dello sviluppo e autismo.

Gli stessi bambini che incontrati negli spogliatoi o all’interno della struttura, nei corridoi o nelle stanze, li ignoravano completamente, in acqua assumevano atteggiamenti meno oppositivi e meno evitanti: già dai primi incontri cominciavano a relazionarsi, sia pure con modalità anomale. Da qui cominciarono a raccogliere i primi dati per creare le basi teoriche e le tecniche pratiche di quella che è diventata la Terapia Multisistemica in Acqua, una vera e propria terapia praticata in molte piscine d’Italia.

 

Terapia Multisistemica in Acqua: perché multisistemica? E perché in acqua?

La Terapia Multisistemica in Acqua è multisistemica perché valuta e interviene sui diversi sistemi funzionali del bambino, ossia sul sistema relazionale, cognitivo, comportamentale, emotivo, senso-motorio e motivazionale. Il sistema relazionale è quello attivato prioritariamente dalla terapia in acqua. I miglioramenti degli altri sistemi sono una conseguenza degli interventi che si fanno su questo.

Il terapeuta valuta le modalità di approccio e di interazione del bambino osservando posture corporee, evitamento oculare, interazione con l’ambiente e con gli altri; interviene offrendo un’opportunità di cambiamento del sistema relazionale attraverso tecniche mediate dalla teoria dell’attaccamento di Bowlby e derivanti da modelli teorici di riferimento come la teoria dell’aggrappamento primario di Balint (1991). Secondo tale modello teorico, il bambino avrebbe una tendenza innata ad entrare in contatto con l’altro e ad attaccarsi ad un essere umano. Per l’autore si tratterebbe di un bisogno indipendente dal cibo ed essenziale quanto il cibo.

Per i bambini che presentano un disturbo autistico, sembra che questa tendenza ad aggrapparsi sia poco presente, o meglio, poco attivata: sono soliti stare da soli evitando il contatto con l’altro. Con la terapia multisistemica in acqua, attivandosi la paura per la sopravvivenza, il bambino mostra un innato bisogno di aggrapparsi al terapeuta, bisogno chiaramente non manifestato fuori da questo ambiente.

Ecco perché la terapia si svolge in acqua, in quanto questa risulta essere un forte attivatore emozionale che diventa anche attivatore relazionale (le emozioni vanno dalla felicità, eccitazione o gioia, alla paura, frustrazione e rabbia ed il terapeuta, riconoscendole, aiuta il bambino a contenerle ed esprimerle in modo congruo).

 

La Terapia Multisistemica in Acqua e la teoria dell’attaccamento

Se da un lato, l’aggrappamento primario spiega il comportamento del bambino, che istintivamente si aggrappa al terapeuta, dall’altro, poco ci dice sulla relazione che successivamente si creerà tra terapeuta e bambino. La teoria centrale che permette di spiegare e interpretare tale comportamento è la teoria dell’attaccamento di Bowlby (1969-1973), secondo la quale l’attaccamento sarebbe un sistema motivazionale primario. Nella Terapia Multisistemica in Acqua il bambino ha la possibilità di sperimentare un attaccamento sicuro con il terapeuta e di immagazzinare un modello operativo interno di una persona sensibile ed affidabile, capace di contenerlo; questo lo condizionerà in tutte le altre relazioni.

Obiettivo fondamentale della Terapia Multisistemica in Acqua è quello di stabilire con il bambino una relazione significativa che modifichi le modalità comunicative disfunzionali. L’ingresso del terapeuta nel sistema relazionale del bambino crea fin da subito una rottura delle modalità relazionali pregresse e degli schemi sottostanti, incrementando in modo congruo interscambi più funzionali. Il terapeuta diventa per il bambino una figura di riferimento e successivamente una base sicura, dalla quale partire per poi esplorare il mondo, ampliando le proprie conoscenze e alla quale ritornare nei momenti avvertiti come difficili e/o pericolosi.

 

La Terapia Multisistemica in Acqua: come interviene sulle capacità cognitive?

Le capacità di adattamento all’ambiente stimolate dall’intervento presumono l’attivazione di capacità cognitive. Il bambino in piscina evidenzia aumentate capacità mnemoniche e attentive, mostrando interesse e propensione verso alcune attività e oggetti, prestando attenzione alle richieste dell’operatore, riuscendo ad eseguire i compiti anche attraverso richieste verbali. Inoltre, in acqua è possibile e necessario ai fini terapeutici, produrre situazioni imprevedibili e non già vissute per promuovere le capacità di problem solving.

La Terapia Multisistemica in Acqua interviene positivamente anche sul sistema comportamentale, in quanto attiva una serie di condotte che, con l’intervento del terapeuta, diventeranno man mano adeguate al contesto, permettendo l’estinzione o l’attenuazione di eventuali “comportamenti problema”. Il sistema senso-motorio viene attivato dall’acqua e dagli stimoli che il terapeuta può offrire al soggetto: imparare a muoversi nel nuovo ambiente in relazione continua con il terapeuta facilita le capacità di coordinazione; I giochi motori-relazionali e la temperatura dell’acqua creano, inoltre, delle sollecitazioni che in nessun altro ambiente possono essere offerte. Secondo Piaget le attività cognitive risultano dall’interiorizzazione degli schemi senso-motori: in acqua è possibile operare su quella che Piaget definiva “l’intelligenza senso-motoria”, caratterizzata dall’azione diretta che il bambino compie sugli oggetti, i quali vengono manipolati e conosciuti come realtà limitata nel tempo e nello spazio.

Particolarmente interessante, in tutto ciò, è notare come l’attività del bambino autistico in acqua possa cambiare le dinamiche interne familiari: i genitori cominciano a osservare in piscina un figlio “diverso” da come sono abituati a vedere in tutti gli altri contesti (il ragazzo aggressivo, poco capace di instaurare relazioni significative, poco attento e oppositivo); un po’ alla volta, riacquistano fiducia nelle potenzialità del figlio e ciò porta ad un loro maggiore equilibrio relazionale con il bambino.

 

Applicazione della Terapia Multisistemica in Acqua

Ma vediamo meglio come si applica la Terapia Multisistemica in Acqua. La terapia segue una metodologia specifica che presuppone: l’utilizzo di una piscina aperta al pubblico che costituisce il setting privilegiato in quanto ha il vantaggio di una possibilità costante di piena integrazione sociale del bambino con disturbi di questo tipo; il rapporto individualizzato tra terapista e utente, almeno nelle prime fasi della terapia; la suddivisione della terapia in fasi;  i colloqui anamnestici diagnostici e valutativi con le famiglie; la valutazione funzionale del bambino in acqua; la progettazione individualizzata dell’intervento con obiettivi a medio e lungo termine; la supervisione in acqua e in setting tradizionale; la verifica dei risultati attraverso checklist e scale di valutazione; le figure professionali specializzate.

Le fasi della terapia permettono di immaginare la Terapia Multisistemica in Acqua come un “macroprocesso” suddivisibile in “microprocessi”; queste sono:

  • Fase valutativa
  • Fase emotivo-relazionale
  • Fase senso-natatoria
  • Fase dell’integrazione sociale

Ogni fase ha finalità specifiche, senza aver raggiunto le quali non è possibile passare alla fase successiva. Le fasi si susseguono e si sommano nel senso che: gli obiettivi raggiunti nella fase precedente si sommano con gli obiettivi della fase successiva.

La Terapia Multisistemica in Acqua, pur nascendo come terapia per il disturbo autistico, può essere generalizzata ad altri tipi di disturbi: disturbo iperansioso dell’infanzia, ritardo mentale, disturbo da attenzione e iperattività, disturbo reattivo dell’attaccamento, fobie, disturbo della condotta, disturbo oppositivo-provocatorio, schizofrenia ed altri disturbi psicotici, sindrome di Down, disturbi motori ed altri ancora.

E’ necessario sottolineare che la Terapia Multisistemica in Acqua non deve essere utilizzata da sola, ma deve essere affiancata ad altri interventi terapeutici e se necessario da cure farmacologiche. Non presenta nessuna controindicazione, soprattutto se si condividono gli obiettivi con altre figure professionali per il raggiungimento del benessere del soggetto beneficiario. La riuscita dell’intervento terapeutico pare sia maggiore quanto minore risulta essere l’età del paziente che intraprende la terapia e quanto più precoce sia l’inizio delle attività specifiche.

Mindfulness, Acceptance, Compassion: il primo giorno del congresso di Milano

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

I lavori si aprono molto presto la mattina del 22 e la proposta dei workshop precongressuali è ricca di eventi . I workshop della mattina sono condotti dal Prof. Gianbattista Presti sul modello di base dell’ACT come trappola del Linguaggio; dal dott. Giovanni Miselli e da un ospite internazionale Shinji Tani, della Ritsumeikan University di Kyoto sui valori; da Nicola Petrocchi sulla Compassion Focused Therapy e da Matthieu Villatte e Jennifer Villatte sull’approccio contestuale. L’impronta è dunque chiara ed incentrata sui cambiamenti della psicologia cognitiva comportamentale ed il livello di approfondimento del workshop ben definito nell’ introduzione di questi.

 

Workshop ACT avanzato: dare valore alle persone attraverso i processi del sé

Shinji Tani Professore presso la Ritsumeikan University KyotoIn mattinata abbiamo partecipato al workshop del Dott. Miselli e del Prof. Shinji Tani. E’ stato un evento molto particolare, dove il Prof. Tani ha cercato di alternare esercizi esperienziali a finestre teoriche della RFT (Relational Frame Theory) atte a descrivere e a maneggiare le proposte esperenziali su una base processuale e funzionale.

Il dott. Miselli ha poi incentrato il suo intervento sul suo “cavallo di battaglia”:  l’augmenting dei valori e il rapporto tra il Sè come contesto ed il Perspective Taking. Il relatore ha focalizzato l’attenzione sulle fonti di informazione come variabile preminente nella discriminazione ed organizzazione degli stimoli presenti nel contesto.

Questo passaggio didattico è stato supportato ed arricchito da esempi e dalla proposta di esercizi sul perspective taking. Il riferimento sociale è stato presentato come un apprendimento discriminativo di stimoli ed Il Perspective Taking come processo e risorsa preminente, del terapeuta ACT, per la promozione  della flessibilità cognitiva e della defusione  nel paziente.

 

Functional Analytic Psychoherapy (FAP): il comportamentismo al “servizio” della relazione terapeutica

La proposta pomeridiana è stata ancora più ricca di eventi, i partecipanti potevano scegliere tra ben 8 workshop differenti che andavano dal trattamento degli adolescenti attraverso il modello DNA-V (Hayes, Ciarrochi), al trattamento di coppia attraverso il modello ACT (vedi anche: Parent Training e ACT: genitorialità come valore in situazioni difficili NdR).

Tra le varie proposte, siamo andati a seguire il workshop FAP: il comportamentismo al “servizio“ della relazione terapeutica condotta dalla Dott.ssa K. Manduchi ed il Dott. Allegri.

La Functional Analytic Psichotherpy (FAP) vede ufficialmente la luce nel 1991, con l’uscita dell’omonimo manuale scritto da Robert Kohlenberg e Mavis Tsai, entrando così a far parte delle terapie del comportamento di terza generazione (Hayes et al. 2004).

La dott.ssa Manduchi attraverso numerosi esempi clinici ha accompagnato l’uditorio a far conoscenza della FAP , portando alla luce  gli strumenti per  riconoscere e usare il rinforzo nella terapia. L’obiettivo della FAP è dunque, secondo i relatori del workshop, riconoscere i comportamenti clinicamente rilevanti (CRB) in termini funzionali.

E’ determinante, per il terapeuta FAP, dirigere l’azione rinforzante distinguendo i CRB1 (i comportamenti problematici del paziente) dai CRB2 (quelli che per lui sono funzionali). Nella relazione terapeutica è importante la “consapevolezza”che deve essere una capacità al servizio del rinforzo. Il rinforzo deve basarsi sul contesto relazionale che il terapeuta  via via osserva  e deve essere  contestuale e non casuale.

Al fine di lavorare a pieno con la relazione contestuale è importante individuare i CRB 1 e CRB 2 nel paziente ed i T1 ed i T2 nel terapeuta.

I T1 sono i comportamenti che il terapeuta mette in atto nei confronti del paziente e che possono essere di ostacolo al raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

I T2 sono, invece,  una lista di comportamenti che il terapeuta può rinforzare e che facilitino il paziente nell’apprendimento dei propri comportamenti obiettivo. L’ individuazione dei CRB e dei T devono prevedere un’attenta analisi funzionale.

La sensazione che si ha nel sentire questi relatori è che la FAP sia un invito a prestare, in maniera funzionale e consapevole, la maggior attenzione possibile al paziente, momento per momento.

 

La sessione plenaria

L’intensa giornata di lavori si conclude con la plenaria tenuta dal Prof. Moderato, il Dott. Massimo Ronchei, attuale Presidente di ACT Italia, ed il Prof. Nanni Presti attuale presidente  dell’ ACBS (Association for Contextual Behavioral Science). I tre hanno ripercorso la storia del pensiero inter-comportamentista e contestualista in Italia e all’Estero e sono stati il prodromo al collegamento via streaming con il padre fondatore della RFT/ACT, Steve Hayes.

L’intervento di Hayes si è focalizzato sulla crescita dell’ ACT, ma anche sui cambiamenti della nostra società e su come un approccio contestuale e funzionale, possa essere un arricchimento per l’efficacia delle terapie ed il progresso della società. Il progresso prodotto dall’ACT è secondo Hayes dovuto al focus che la prospettiva contestualista ha sul processo, piuttosto che sul sintomo o sulla diagnosi.

Hayes sostiene di essere arrivato al suo modello perché si è posto il problema sul perché è così complesso essere un essere umano. La risposta che si è dato è legata alla peculiarità dell’utilizzo del comportamento verbale da parte degli esseri umani. Il rapporto tra comportamento verbale, comportamento governato da regole e comportamento legato alle contingenze o alla fisiologia della specie è al centro dell’analisi del prof. Hayes.

La sofferenza umana non solo viene spiegata come una generalizzazione di un comportamento appreso di evitamento, ma viene sostanziata l’avvincente teoria dello spostamento della cooperazione al servizio del problem solving. Per Hayes la capacità di denominare gli oggetti del mondo, di per Sè, non svolge alcun ruolo, ma è al servizio del principio di cooperazione che si attua a partire dalla capacità, del naming(denominazione), di mettere in relazione l’oggetto denominato con gli stimoli e le funzioni presenti nel contesto di emissione, dove, partecipano parlante e ascoltatore. A partire da questi assunti, i processi sono più importanti degli stimoli ed il contesto della somma di questi.

La forza dell’RFT/ACT  è dunque la capacità di questa terapia di promuovere la flessibilità psicologica attraverso tre processi:  apertura, perspective taking (contestualizzazione del Sè) e azioni impegnate.

L’ACT funziona perché permette al paziente di ricontestualizzare funzionalmente gli stimoli verbali presenti in un campo percettivo, promuovendo processi di defusione cognitiva, attraverso il perspective taking, la defusione cognitiva e le azioni impegnate. Tale funzione è importante quando l’essere umano promuove l’evitamento degli stimoli verbali che gli inducono sofferenza, depauperando la sua esistenza nei contesti verbali e percettivi, ove questi si presentano. L’evitamento esperenziale stabilizza così la rigidità cognitiva e la sofferenza del paziente, bloccandone, coseguentemente, la crescita personale.

In conclusione Hayes ha presentato i successi scientifici dell’ ACT nei diversi ambiti che vanno dal trattamento delle psicosi alla psicologia dello sport. La mediazione in tutti gli studi sembra essere legata all’ aumento, da parte dei pazienti che si sottopongono all’ACT, della flessibilità cognitiva.

Parent Training e ACT: genitorialità come valore in situazioni difficili – Report dal Congresso

I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione:

Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione

 

MILANO, 22 marzo 2017 ore 17:30

Tra qualche istante la partenza ufficiale del congresso,  inaugurazione che avviene in collegamento con un ospite internazionale di eccezione Steven Hayes.  Ha sviluppato la Relational Frame Theory , ed esteso i suoi principi all’Acceptance and Commitment Therapy. Introducono i lavori il professor P. Moderato (presidente IESCUM) Massimo Ronchei, presidente ACT Italia, e Giovanbattista Presti, incoming president ACBS.

L’inaugurazione del congresso avviene al termine di una giornata di workshop pre-congressuali: 12 opportunità di spunti teorici clinici ma soprattutto di pratica esperenziale. Vi racconto qualcosa di ciò che ho ascoltato e apprezzato durante il workshop del pomeriggio:

 

Parent Training e ACT:  genitorialità come valore in situazioni difficili

a cura di Pergolizzi Francesca & Miselli Giovanni

Nel titolo ci sono tutti gli ingredienti base dello stesso simposio: genitori-valore-ACT. I relatori sono esperti clinici nell’area dei disturbi dello spettro autistico e della disabilita in età evolutiva. Con delicatezza per la tematica i relatori ci conducono in un viaggio presente tra passato e verso il futuro nel mondo dei bambini con disabilità e dei loro genitori.

La ricerca e la clinica ci mostrano quanto per un genitore di un bambino con disabilità, e in questa sede si è posto l’accento sui disturbi dello spettro autistico, sia complesso gestire le emozioni, i pensieri e le sensazioni fisiche che ne derivano. I bambini con disturbi dello spettro autistico hanno difficoltà di comunicazione sociale; ristrettezza di interessi, comportamenti e movimenti ripetitivi che rendono anche la relazione genitore e figlio complessa e spesso dolorosa.

Essere in relazione con questi bambini implica il dare il meglio di sé , spiega il Dr. Miselli:

“essere il meglio di se è bello e gratificante, esserlo per 4 ore al giorno è faticoso…. esserlo e dover esserlo 24 ore al giorno è durissimo… e come ci sentiremo… ad un certo punto potremo sentirci tristi e frustrati poiché non è umanamente possibile essere al meglio di sé stessi 24 ore su 24!”

Vi sono dati di letteratura che indicano come genitori di bambini con lo spettro siano ad alto rischio di patologia ( S.Tani, 2014; Osborne, 2008). Il nostro compito di clinici è arricchire la funzione e il ruolo del genitore, il vero esperto del proprio bambino.

Il nostro compito di clinici, prosegue la professoressa Pergolizzi, è prenderci cura di queste difficoltà dei bambini e costruire contesti in cui sia possibile la crescita e l’apprendimento.

Quale potrebbe essere un modello ideale di Parent Training che tenga conto dello stress emotivo dei genitori tanto quanto dei comportamenti problematici dei loro bambini? Secondo Pergolizzi e Miselli è importante allargare il focus del Parent Training cognitivo-comportamentale tradizionale dedicandosi anche all’accoglienza dei bisogni psicologici e dei valori dei genitori.

Nello specifico un percorso di Parent Training dovrebbe includere i seguenti elementi chiave:

  • analisi dei tentativi per risolvere il problema;
  • verifica della disponibilità alla collaborazione;
  • descrizione e attuazione delle tecniche di osservazione per conoscere il bambino non solo nelle sue dimensioni problematiche ma anche notando gli aspetti di risorsa.
  • analisi funzionale per l’ individuazione degli stimoli rinforzanti e avversivi;
  • condivisione di un programma di intervento;
  • concettualizzare gli stili genitoriali disfunzionali in termini di processi ACT;
  • esercitare alla flessibilità psicologica in piccolo gruppo;
  • esercizi di Mindfulness in piccolo gruppo;

Un Parent Training integrato con i principi dell’ACT persegue lo scopo di aumentare nei genitori e nelle famiglie l’accettazione delle esperienze personali correlate alla disabilità del figlio e di proseguire il lavoro circa i comportamenti problematici in un contesto di accoglienza e accettazione dell’altro come persona. Questo modello può favorire la compliance del genitore nel seguire le indicazioni educative fornite.

I primi dati delle esperienze cliniche dei relatori presentano miglioramenti significativi , a tre mesi, misurate con self report rilevanti sintomatologia depressiva e flessibilità psicologica. Le interazione genitori e figli è come una danza che ha continuamente necessità di mantenere sintonia e sincronia, anche nel mondo dello sviluppo tipico e nel mondo dello sviluppo atipico. Come indica Pergolizzi:

“essere consapevoli comporta tenere presente ciò che è davvero importante e ha valore mentre compiamo le attività quotidiane della vita dei figli”.

Qual è la tua prima memoria? Il fenomeno dell’amnesia infantile in una prospettiva socioculturale

Il fenomeno dell’ amnesia infantile, ovvero la comune incapacità da parte degli adulti di avere accesso consapevole alle prime memorie autobiografiche infantili, sembrerebbe non essere attribuile ad un semplice processo di decadimento del ricordo dovuto all’età, quanto piuttosto a fattori socio-culturali.

Federica Artiol

 

Da quando inizia il nostro passato? Nonostante l’apparente ovvia riposta, ovvero dal momento della nostra nascita, la realtà, da un punto di vista psicologico, cognitivo ed evolutivo non lo è affatto.

Infatti, già Freud (1905/1949) pose in essere il dilemma della così detta amnesia infantile, ovvero quel fenomeno descritto dalla comune incapacità da parte degli adulti di avere accesso consapevole a memorie autobiografiche, ovvero relative a sé stessi, ricordate da “sé”, senza l’assistenza di altri o perché si vedono foto o altri supporti mnemonici, relative ai primissimi anni di vita.

 

L’assenza di ricordi relativi alla nostra infanzia: amnesia hard e amnesia soft

Il fatto di non riuscire a ricordare, in quanto adulti, i primi eventi della nostra vita è tutt’oggi considerato un dilemma scientifico. Infatti, a differenza degli adulti, i bambini di 2 o 3 anni di età sono capaci di ricordare eventi personali o informazioni su dì sé per considerevoli periodi di tempo (Fivush, Gray, & Fromhoff, 1987), mentre gli adulti generalmente mostrano un impoverimento dei propri ricordi presenti nel periodo di età dai 0-3 anni, così detto periodo di amnesia hard.

I ricordi divengono più frequenti invece nel periodo 3-6 anni, anche detto periodo dell’ amnesia soft, per poi divenire accessibili quasi a chiunque dall’età dei 6 anni  (Davis, Gross, & Hayne, 2008). L’età dei 6 anni è universalmente considerata la childhood amensia boundary, ovvero il momento di cut-off del nostro passato, la fine pressoché universale, per quasi chiunque, della linea d’ombra che secreta l’assenza quasi totale dei ricordi a favore dei primi episodi che ricordiamo di noi stessi, quali ad es. il primo giorno di scuola, un gioco fatto da soli in cortile, una festa di compleanno, ecc.

E’ interessante notare come tali ricordi, pur essendo così importanti da decretare di fatto l’inizio ufficiale del nostro passato, siano spesso eventi banali o apparentemente insignificanti se giudicati dai nostri occhi di adulti, anche se alcuni ricercatori hanno ipotizzato non lo fossero al momento in cui  furono vissuti da bambini (Davis et al., 2008).

 

Amnesia infantile: l’influenza di fattori individuali e culturali

Tale fenomeno di discontinuità nella presenza dei nostri ricordi autobiografici in differenti epoche della nostra infanzia (0-3 e 3-6) non è affatto attribuile ad un semplice processo di decadimento del ricordo dovuto all’età (Howe, 2012). Tornando quindi alla domanda iniziale, dobbiamo pensare che in effetti capire quando e dove inizia la nostra memoria autobiografica, in quanto esseri umani, è di fondamentale importanza, si pensi infatti che la memoria autobiografica è psicologicamente legata al nostro senso di sé e quindi alla nostra identità.

E’ di fatto la quintessenza del chi sono io, domanda a cui per rispondere ci rifacciamo ai ricordi del nostro passato, a chi erano i nostri genitori, a come è stato il nostro periodo scolastico, chi erano i compagni dell’asilo e cosa facevamo con loro, agli eventi significativi che hanno segnato, nel bene e nel male, la nostra vita fino all’oggi. Quindi riflettere sul fatto che il nostro passato non inizia con la nostra nascita biologica apre in realtà molte domande, soprattutto poi riflettendo su come persone diverse iniziano ad avere primi ricordi autobiografici ad età differenti e, non solo, che addirittura persone appartenenti a diverse culture hanno un cut-off di amnesia infantile a differenti età.

Quando viene chiesto a persone appartenenti a diverse culture di datare la loro prima memoria autobiografica (“qual è la prima memoria che hai di te?”), culture diverse riportano per l’appunto età differenti di prima memoria infantile e, dal momento che la comparsa del nostro primo ricordo nonché quanti ricordi riusciamo ad avere (densità delle memorie) decretano la durata del periodo di amnesia infantile, ciò significa che il fenomeno dell’ amnesia infantile decade ad età diverse in base a fattori sia individuali (una certa persona all’interno della stessa cultura può avere la prima memoria ad es. a 2 o a 6 anni), sia collettivi, quali l’appartenenza a diversi gruppi culturali. La seguente tabella, riadattata da Wang (Wang, 2008), ci mostra l’età media del primo ricordo infantile nei diversi studi culturali:

 

Qual è la tua prima memoria? Il fenomeno dell' amnesia infantile in una prospettiva socioculturale

Età del Primo Ricordo Autobiografico (in mesi) nei Diversi Studi Cross-Culturali

 

Tali studi, ci fanno riflettere su una questione cruciale, ovvero che se l’ amnesia infantile, e quindi la dimenticanza dei primi anni di vita, fosse un fatto attribuibile a sole motivazioni neurobiologiche, quali il non avere ancora un apparato neurocognitivo e funzioni mnemoniche complete da un punto di vista evolutivo, non si spiegherebbe perché invece i bambini anche a pochi mesi di vita sono in grado di formulare dei ricordi (pur basici) e perché culture diverse hanno età diverse di fine del periodo di amnesia infantile.

 

Possibili spiegazioni del fenomeno dell’ amnesia infantile

Perché allora tale varietà nell’inizio del nostro passato? Freud ipotizzava che l’ amnesia dei primi anni fosse dovuta all’impossibilità di ricordare, in quanto adulti, pensieri e pulsioni sessuali infantili, ovvero pose in essere la classica ipotesi della rimozione dei contenuti inaccettabili (Freud, 1899). Teorie più recenti hanno enfatizzato invece fattori socio-culturali e linguistici (e.g. (Fivush & Nelson, 2004) e cognitivi e del Sé (e.g. (Conway, 2005) i quali danno maggiore acconto di ciò che rende tali memorie autobiografiche infantili accessibili dal così detto periodo dell’ amnesia infantile, dove molti hanno quindi scarsi o nessun ricordo.

In particolare, Howe e Courage (Courage & Howe, 2004) propongono che lo sviluppo di un sé cognitivo, strutturato attorno alla distinzione tra Io e me che avviene attorno ai 2- 3 anni di età, sia un punto critico nel provvedere un’organizzazione strutturale attorno cui le memorie possano poi essere rappresentate successivamente e quindi ricordate.

L’età dei 2-3 anni, ovvero l’età in cui mediamente è possibile ricordare un primo episodio da adulti, è anche l’età di cui di norma il linguaggio diviene pienamente sviluppato, il che ha un profondo impatto sull’accessibilità di un ricordo, rendendo l’evento verbalmente accessibile. Inoltre, l’emergere del linguaggio apre ad una nuova serie di possibilità di interazione con gli altri, specialmente l’attività di condivisione di memorie e storie famigliari con genitori e parenti, con importanti conseguenze per la successiva accessibilità di tali eventi più tardi nella vita (Fivush & Nelson 2004).

L’interazione complessa tra lo sviluppo del sé, l’emergere delle abilità linguistiche e le interazioni sociali con gli altri significativi per il bambino possono essere tutti fattori influenzati dai costrutti culturali e pratiche socialmente condivise in un dato contesto socio-culturale, i quali, a loro volta, finiscono con l’avere un peso nel facilitare o attenuare l’accesso delle memorie una volta adulti.

La prospettiva socioculturale suggerisce che la cultura ponga enfasi in maniera differente sull’importanza del passato personale dei membri che appartengano ad un determinato gruppo culturale e che quindi ciò abbia un peso nell’emergere del ricordo e nell’accessibilità delle memorie infantili una volta adulti.

In accordo con la tradizione Occidentale, per esempio, una funzione critica della nostra memoria sarebbe definire chi siamo e sviluppare una identità unica. Già Hume (“Opere filosofiche. Vol. 1,” 1739/1882) nel suo Trattato sulla Natura Umana, proclamava l’importanza della memoria a tal fine: “Se non avessimo nessuna memoria, non avremmo nessuna nozione… o catena di cause ed effetti la quale costituisce il nostro senso di sé come persone”.

Le memorie autobiografiche, costituiscono una esperienza distintiva e personale, che permette agli individui di differenziarsi gli uni dagli altri, servendo quindi quali importanti costituenti della creazione di un sé autonomo ed unico. In altre culture invece, quali quelle dell’Est-Asia, la memoria autobiografica non è tradizionalmente centrale al senso della propria identità: si parla in tal caso di culture collettivistiche vs. individualistiche (quali quelle Occidentali), ovvero maggiormente definite da un senso di identità collettiva, che si fonda sull’armonia delle azioni gruppali verso gli altri, e non sull’emergere di uno spiccato senso di individualità del sé (Markus & Kitayama, 1991).

Tale differente visione del sé nelle diverse culture, potrebbe influenzare l’importanza che le persone danno ai loro ricordi autobiografici e riflettere quindi le differenti età di affioramento del proprio ricordo infantile una volta adulti, come mostrato dalla Tabella 1.

L’età di insorgenza delle prime memorie autobiografiche si attesta infatti anche molto dopo i 6 anni in culture Asiatiche, per abbassarsi invece attorno ai 3 anni e mezzo anni nelle culture Nord-occidentali. Ovvero, laddove un senso di sé che privilegia l’autonomia, l’unicità, l’individualità può motivare gli individui a porre attenzione ed enfasi sui propri ricordi passati per definire chi sono ora. Culture che privilegiano il senso dell’armonia collettiva ed il ruolo sociale nel gruppo, per contro, porrebbero invece più enfasi alle regole sociali e comunitarie, alla solidarietà collettiva e meno a ciò che rende ogni individuo unico. Ciò potrebbe contribuire a spiegare il periodo maggiormente lungo di amnesia infantile delle culture Asiatiche

Una interessante eccezione può però essere notata esaminando la tabella: in uno studio Neozelandese, MacDonald, Uesiliana ed Hayne, (2000) trovarono che i Maori della Nuova Zelanda ricordavano memorie datate attorno ai 2 anni e mezzo di età, quindi profilandosi come la popolazione attualmente studiata con la memoria più precoce tra quelle globalmente indagate scientificamente. La cultura Māori, hanno argomentato le ricercatrici, si denota come una cultura che pone estrema importanza sul passato, come si evince da narrazioni orali tramandate dagli anziani e dalla forte importanza posta al tramandare le tradizioni dei propri antenati e ai legami famigliari. Tale attività di racconto delle origini e del proprio passato è anche fortemente incoraggiata dalla intera comunità Māori contemporanea, attraverso celebrazioni rituali collettive e codificate culturalmente (vedi l’Aka, famosa perché danzata dai leggendari rugbisti All Blacks, oppure dalla presenza ancora in auge dei Marae e delle loro funzioni politico-sociali e religiose per la comunità).

Ciò faciliterebbe il ricordo di memorie infantili più precoci rispetto ad altri gruppi culturali, pur notando che nella cultura Māori l’enfasi viene posta sull’appartenenza d un gruppo famigliare anche in senso esteso fino agli antenati e non sull’individuo in senso propriamente occidentale. L’altra interessante eccezione concerne lo studio con partecipanti Giapponesi, i quali ripropongono un’età media del primo ricordo simile alla loro controparte Europea.

 

Amnesia infantile: l’influenza delle pratiche narrative familiari

Secondo la prospettiva socioculturale dello sviluppo della memoria autobiografica, l’influenza sul ricordo inerente la visione culturale del proprio senso di sé ha inizio con le pratiche familiari narrative precoci (Mullen & Yi, 1995). Quando condividono i propri racconti e memorie con i loro bambini, madri Americano-Europee spesso si è visto utilizzano uno stile di conversazione definito elaborativo, ovvero provvedono a dare informazioni aggiuntive al linguaggio utilizzato dal bambino per ricordare, creando una specie di struttura basilare portante che struttura il ricordo del piccolo. Spesso inoltre aggiungono considerazioni sui gusti, emozioni e le preferenze che attribuiscono ai loro figli che essendo piccoli non esprimono ancora compiutamente da sé.

Le madri di origine Asiatica tenderebbero invece all’opposto a utilizzare un tipo di dialogo più pragmatico, orientato alla prova inerente l’oggetto della conversazione, dove assumono un ruolo direttivo nel ricordo, ponendo domande chiuse al bambino (mentre nello stile elaborativo la madre poneva più domande aperte, volte al maggiore insight mnemonico). Negli studi effettuati (Mullen & Yi, 1995), le madri Asiatiche discutevano inoltre maggiormente ruoli e norme sociali attese o disattese dal bambino (es. Sei stato bravo a scuola o Non hai rispettato l’ insegnante), laddove le madri Americane-Europee ponevano maggiori enfasi su giochi e preferenze del bambino (es. Sei un bravo giocatore di pallone! Ti è piaciuto vedere lo zio).

Gli studiosi socioculturali hanno trovato come l’incoraggiare il senso di apparenza al gruppo e alle norme sociali desse minor risalto al ruolo della memoria a favore dello sviluppo di senso di appartenenza collettivo, che sarebbe sfavorito dall’emergere e dal porre accento sulle proprie unicità ed individualità. Mentre l’uso di uno stile convenzionale maggiormente elaborativo delle madri predisponeva il figlio a maggiore enfasi allo sviluppo di un sé interdipendente ed autonomo, così come auspicato dai valori propri dell’Occidente. Dato il differente valore e pratiche nelle precoci forme di socializzazione famigliare poste in essere dalle diverse culture a partire da bambini di meno di 3 anni, i bambini Americani-Europei spesso riportavano ricordi più ricchi dei loro coetanei Asiatici.

Pertanto, precoci pratiche narrative famigliari influenzerebbero il perché persone di culture diverse ricordano in modo differente i primi ricordi una volta adulti, giocando un ruolo nel delimitare quando decade quell’interessante linea d’ombra che decreta il personale inizio del nostro senso di sé, ovvero la questione del fenomeno dell’ amnesia infantile.

Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica (2016) – Recensione del libro

Il testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica raccoglie un pensiero sistemico complesso e integrato sintetizzando procedure utili nelle prime fasi di una presa in carico, attivando un confronto costruttivo anche con altre scuole di psicoterpia, sistemiche e non.

 

Esiste un percorso guidato per avviare terapie familiari o individuali o di coppia?

La risposta è sì o per lo meno ci hanno provato Cirillo, Selvini e Sorrentino con il testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica, che raccoglie un pensiero sistemico complesso e integrato sintetizzando procedure utili nelle prime fasi di una presa in carico, attivando un confronto costruttivo anche con altre scuole di psicoterpia, sistemiche e non.

Il tema iniziale è quello dell’analisi della domanda e di come rispondervi nel modo migliore. Per farlo la ricerca sulle procedure è ritenuta molto importante nel cercare quindi modi di valutare, convocare, intervenire che siano i più efficaci possibili.

 

Entrare in terapia: quali solo le sette porte della terapia sistemica?

Gli autori suggeriscono quindi delle mappe, ad ognuna corrisponde un certo modo di procedere, sette porte che ci guidano partendo dall’analisi della domanda, il primo contatto e il primo colloquio. È compito del terapeuta scegliere le modalità più opportune per un primo colloquio.

Secondo gli autori del testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica ogni convocazione è un messaggio sulla visione del problema da parte del terapeuta. I più classici tipi di domanda sono: la domanda di un familiare per un altro familiare, non motivato a chiedere aiuto o non in grado di farlo autonomamente (se si tratta di un bambino fino alla preadolescenza, potrebbe essere indicato un incontro con i soli genitori); la domanda per una relazione definita dal richiedente difficile/problematica/conflittuale; l’assenza di domanda che induce ad un invio coatto (il caso classico è quello del giudice che interviene a tutela di minori maltrattati); la domanda individuale di una persona per se stessa. L’obiettivo della consultazione è quindi ottenere una collaborazione da parte di tutti, una ricostruzione condivisa della storia e delle difficoltà.

Quando questo processo è concluso ha inizio la terapia vera e propria: l’accompagnamento al processo di cambiamento. La seconda porta è la diagnosi sistemica: la connessione tra il funzionamento della famiglia e la sofferenza di un suo membro, in forza dell’interdipendenza tra i membri del sistema familiare (Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchn et al., 1980b). La diagnosi sistemica è basata sull’individuare la difficoltà/scomodità della posizione del paziente sia nel qui ed ora sia nella sua storia.

La terza porta illustrata nel testo Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica è quella della sintomatologia: in una prima fase si definisce il problema presentato dal paziente in un’ottica descrittiva, successivamente si illustra alla famiglia il tipo di sofferenza espressa dal sintomo o da più sintomi (Asse I del DSM-IV), facendo scoprire a ciascuno risorse, fatiche e responsabilità.

La quarta porta è quella dell’attaccamento: la teoria dell’attaccamento è utilizzata per dare una spiegazione del disagio di un paziente e permettere un percorso autocritico dei genitori. L’obiettivo della terapia familiare è quello di riattivare un legame di fiducia, appartenenza e attaccamento del paziente ai genitori e alla sua famiglia.

La quinta porta è la diagnosi di personalità: un funzionamento ripetitivo e rigido dell’individuo per lo più non funzionale, che si esprime in un impoverimento del funzionamento cognitivo, affettivo, interpersonale e del controllo degli impulsi, che deve essere integrato con le altre “mappe”.

La sesta porta presentata in Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica è quella della diagnosi trigenerazionale. A differenza della diagnosi sistemica che valuta il qui ed ora della famiglia, il modello diagnostico trigenerazionale si concentra sulla storia e sui processi di trasmissione di tratti e comportamenti attraverso le generazioni, radice della terapia familiare. Si parte dalla riflessione su quale bambino/figlio è stato il genitore e quindi quali modelli avrà interiorizzato.

La settima porta, infine, è quella della diagnosi basata sulle emozioni del terapeuta: il terapeuta entra in un’alleanza intensa, creativa, autentica con l’individuo, la coppia o la famiglia. Il terapeuta deve essere in grado di alternare momenti più fusionali e momenti di distacco necessario, con una corretta integrazione sugli aspetti metacognitivi. Le porte, così come vengono presentate, hanno un ordine legato al loro utilizzo nel processo terapeutico e servono insieme ad altri due strumenti essenziali: il lavoro d’équipe e la formazione personale.

 

Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica: quando la famiglia in terapia è una risorsa

Bisogna infine considerare che nella consultazione familiare per pazienti adolescenti e adulti non richiedenti la famiglia è una risorsa. I pazienti tipici sono psicotici, tossicodipendenti, soggetti con un grave disturbo di personalità, o con un disturbo del comportamento alimentare, giovani adulti non motivati alla cura, adolescenti ritirati in casa che non riconoscono il proprio malessere o ribelli, accusatori che non vanno più a scuola. Esistono però situazioni in cui le sedute familiari sono controindicate: è il caso in cui siano presenti violenze, maltrattamenti, abusi sessuali intrafamiliari che vengono negati o banalizzati. Sono controindicate inoltre in caso di un elevato livello di aggressività e ostilità tra i familiari.

Nella consultazione familiare per il bambino, che dipende in tutto dalla famiglia cui è affidato alla quale è rivolta la domanda di aiuto, genitori e bambino non vanno separati all’interno del contesto terapeutico. Quando il bambino è un membro sofferente del nucleo familiare, ma non è l’oggetto della richiesta terapeutica, è opportuno prevedere una seduta in cui tutti i membri del nucleo siano presenti per valutare il livello di disagio dei figli in particolare in caso di crisi coniugale per tranquillizzare i bambini dell’impegno degli adulti ad assumersi la responsabilità di una soluzione.

La consultazione per la famiglia propone un focus sulle relazioni, le risorse familiari vanno stimolate, successivamente si stipula un contratto al quale segue un programma terapeutico basato su una cooperazione generale o su quella di chi è disponibile.

In conclusione Entrare in terapia. Le sette porte della terapia sistemica permette ai terapeuti che non hanno una formazione sistemica di poter conoscere strumenti utili per andare incontro non solo ad un cambiamento del paziente ma anche della famiglia dove ce ne sia la possibilità. Introduce inoltre un dialogo tra modelli diversi di terapia così che si possa migliorare la comunicazione e l’integrazione tra esperienze cliniche.

Un castello di sabbia. Storie della mia vita e della mia schizofrenia (2013) – Recensione

E’ un libro appassionato e coinvolgente, carico di dolore, coraggio e speranza, che racconta in maniera splendidamente lucida e positiva la vita di Elyn Saks, affetta da schizofrenia.

 

La storia di Elyn Saks e la schizofrenia

Oggi Elyn Saks è un’insegnante alla University of Southern California Gould School of Law ed è adjunct professor di psichiatria alla University of California, San Diego, School of Medicine. Una paziente eccellente e di grande successo, che racconta in prima persona la propria biografia attraverso un racconto intenso e commovente, che riesce a trasformare il dolore della malattia in ironia e intelligenza.

Elyn Saks è la prima figlia di una famiglia normale, premurosa e benestante, che si stabilisce a Miami negli anni ’50. Purtroppo intorno agli 8 anni, in un giorno qualunque, Elyn Saks inizia ad avvertire la sensazione che la sua consapevolezza di colpo diventa confusa: sente la sua mente “come un castello di sabbia che si sta sgretolando sotto le onde”. Inizia così il lento processo di disorganizzazione, che porterà il suo “me” verso la dissoluzione, come se diventasse nebbia il centro dal quale l’individuo percepisce la realtà. Visioni, suoni, pensieri e sentimenti si disgregano, non vanno più insieme. Si dissolve in tanti granelli di sabbia il principio organizzativo che permette ai momenti che si succedono nel tempo di assumere una forma coerente da cui trarre un senso.

La schizofrenia lentamente si manifesta in maniera sempre più evidente, peggiorando durante l’adolescenza. Inizia così un lunga e difficile lotta per tenere a bada i terrori, i demoni e gli incubi che iniziano a popolare la vita di Elyn Saks. L’autobiografia ci racconta le sue rotture psicotiche, i ricoveri, le regressioni, i suoi rapporti di amore e di amicizia, le sue conquiste come donna e come accademica, i pregiudizi, l’arduo percorso di accettazione della malattia, durante questa incessante lotta contro la schizofrenia.

Ma Elyn Saks è determinata a vincere: la studentessa di filosofia, psicologia e legge, si laurea prima a Oxford e poi a Yale; grazie alla sua determinazione e alla sua smisurata forza di volontà, la sua schizofrenia diventa un’occasione, uno stimolo alla realizzazione e all’apertura verso il mondo.

La storia di Elyn Saks è la storia di quanti soffrono come ha sofferto lei, e il suo successo una concreta speranza per quanti in futuro dovranno fronteggiare questa malattia: con le giuste risorse e l’opportuno aiuto, un numero infinitamente maggiore di persone potrebbe aspirare al potenziale che aveva prima della malattia. Elyn Saks, che oggi vive con suo marito a Los Angeles, ha dichiarato: “La mia fortuna non è stata guarire dalla malattia mentale. Non sono guarita, né guarirò mai. La mia fortuna è stata trovare una mia vita”.

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