expand_lessAPRI WIDGET

Ipocondria: efficacia di un trattamento cognitivo comportamentale online

Una ricerca condotta in Svezia ha dimostrato l’efficacia di una terapia cognitivo comportamentale online per persone con diagnosi di ipocondria.

 

L’efficacia della terapia cognitivo comportamentale online per l’ ipocondria

L’ipocondria è caratterizzata da una forte ansia per il proprio stato di salute. L’aspetto principale dell’ipocondria è che la paura o la convinzione ingiustificate di avere una malattia persistono nonostante le rassicurazioni mediche.

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) ha dimostrato di essere efficace per l’ipocondria, ma, come sottolineano i ricercatori svedesi, a causa della cronica scarsità di terapeuti nel settore sanitario pubblico, non sempre risulta disponibile, quindi, potrebbe essere molto utile sviluppare nuove modalità di trattamento.

In questo studio è stata valutata l’efficacia di una terapia cognitivo comportamentale online per l’ipocondria con la guida via e-mail di uno psicologo.

Lo studio randomizzato ha messo a confronto un trattamento di terapia cognitivo comportamentale online di 12 settimane gestito da uno psicologo tramite e-mail, con un gruppo di controllo, che, per tutta la durata della ricerca, non ha preso parte a nessun tipo di trattamento.
Allo studio, hanno partecipato 81 persone con diagnosi di ipocondria secondo i criteri del DSM-IV, che sono state divise in modo del tutto casuale in uno dei due gruppi di ricerca.
Al termine delle 12 settimane anche il gruppo di controllo ha avuto accesso al trattamento per l’ipocondria.

I partecipanti allo studio sono stati inviati da psichiatri e medici di base, sono state escluse persone con malattie somatiche gravi, con storia di psicosi o di disturbo bipolare, persone con alti livelli di depressione, persone con ideazione suicidaria, con disturbi di personalità e infine persone che presentavano abuso di sostanze.

Le valutazioni, comprese le interviste diagnostiche eseguite da uno psicologo clinico, sono state condotte prima del trattamento, immediatamente dopo il trattamento e a 6 mesi dalla fine. Tutte le valutazioni iniziali di selezione dei pazienti sono state effettuate da psichiatri e psicologi in presenza, mentre, quasi tutte le misure di outcome, sono state somministrate dallo psicologo online.

Il trattamento utilizzato ha fatto riferimento al modello cognitivo-comportamentale per l‘ipocondria. Inoltre, gli psicologi , hanno previsto una formazione mindfulness per insegnare ai partecipanti ad osservare le proprie sensazioni corporee senza cercare di controllarle.

Il trattamento previsto era sostanzialmente di auto-aiuto, somministrato tramite una specifica piattaforma gestita da uno psicologo online.
Ogni modulo è stato dedicato ad un tema specifico e comprendeva i relativi esercizi.

La durata del trattamento cognitivo-comportamentale era di 12 settimane e, durante questo periodo, i partecipanti hanno avuto la possibilità di contattare a loro discrezione lo psicologo online. Il ruolo dello psicologo è stato principalmente quello di fornire un feedback riguardo i compiti e di garantire l’accesso ai moduli di trattamento successivi; tuttavia, i partecipanti potevano contattare lo psicologo online, in qualsiasi momento. Durante la fase di trattamento, i partecipanti hanno anche avuto la possibilità di accedere ad un forum di discussione online che ha permesso il contatto anonimo con gli altri partecipanti.

Dopo il trattamento, 27 dei 40 partecipanti (67,5%) che avevano ricevuto la terapia cognitivo comportamentale online non hanno più soddisfatto i criteri diagnostici per l’ipocondria. Nel gruppo di controllo soltanto 2 dei 41 partecipanti (4,9%) non ha più soddisfatto criteri diagnostici per l’ipocondria secondo il DSM-IV.
A 6 mesi di follow-up i miglioramenti sono stati mantenuti, con 32 su 40 partecipanti al gruppo CBT basato su internet (80%) che non hanno più soddisfatto i criteri diagnostici per l’ipocondria.

Questa ricerca suggerisce che una terapia cognitivo comportamentale online può essere considerato un’alternativa efficace ed efficiente al classico trattamento per l’ipocondria e suggeriscono di continuare gli studi in questa direzione.

 

Il bullismo: strategie d’intervento per aiutare i bambini a difendersi

Sarebbe opportuno pensare al bullismo come fosse un grande recipiente contenente un ampio spettro di comportamenti che condizionano negativamente i pensieri, i sentimenti e le relazioni sociali di chi lo subisce.

 

Introduzione: bullismo o conflitto tra coetanei?

Sarebbe opportuno cominciare a pensare al termine “bullismo”come fosse un grande recipiente contenente un ampio spettro di comportamenti che condizionano negativamente i pensieri, i sentimenti e le relazioni sociali di chi lo subisce. Demarcare la linea fra il classico conflitto fra coetanei ed il bullismo spesso non è così facile per insegnanti e genitori che si trovano nella posizione d’aiuto per eccellenza.

Un comportamento che mira chiaramente a provocare del danno al bambino non andrebbe classificato come forma di un normale conflitto.

Per dirla con le parole di Olweus, uno dei massimi esperti in materia, “uno studente è oggetto di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”(Olweus, 1996).

Di seguito vengono riportati gli strumenti necessari per riconoscere il bullismo ed intervenire in modo efficace.

 

Bullismo o Bullismi?

Quando si pensa al bullismo la prima immagine che ci viene in mente è quello del ragazzino debole che viene picchiato da compagnetto gradasso di turno, ma il bullismo fisico è solo uno dei modi in cui si manifesta questa piaga sociale. Non per questo dobbiamo pensare che sia anche il più facile di cui accorgersi.

Rientra fra il bullismo fisico il fenomeno dello “swirling”, cioè la pratica di spingere la testa del malcapitato dentro al gabinetto. Purtroppo è più diffusa di quello che si possa pensare, in quanto molto umiliante, ma i bambini che lo subiscono non riportano segni sul corpo che rendono il riconoscimento del bullismo immediato. La stessa cosa vale per le continue spinte per terra.

Tuttavia esistono modi ancora più subdoli di cui si avvalgono i bulli. Fra questi rientra il bullismo verbale, estremamente dannoso per l’autostima dei bambini. Si tratta di comportamenti che hanno come scopo l’umiliazione e l’annullamento della vittima mediante insulti, pettegolezzi infondati lasciati circolare intenzionalmente, derisioni continue e ripetute, osservazioni malevole dai toni razzisti o indirizzati verso difetti fisici.

Infine è utile fare focus anche sul bullismo relazionale, cioè quel bullismo volto all’isolamento della vittima, escludendola da tutti i gruppi sociali, facendogli trovare scritte minacciose sul banco, non rivolgendogli la parola trascinando nello stesso comportamento l’intero gruppo, guardandola in maniera schifata e rendendola oggetto di offese molto gravi (ad esempio “Ti odiano tutti”; “ucciditi”; “sarebbe stato meglio per tutti se non fossi mai nato”, etc.).

In quest’ultima categoria rientra anche il cyberbullismo che ricalca le stesse dinamiche ma in maniera ancora più efferata in quanto digitale e impersonale.

 

Come riconoscere le caratteristiche tipiche del bullismo?

Olweus descrive 3 caratteristiche tipiche del comportamento da bullo e i protagonisti che vengono coinvolti in questa dinamica sociale. Per quanto riguarda le caratteristiche esse sono:

  • L’  intenzionalità: il comportamento ha come preciso scopo il creare nocumento all’altra persona;
  • La sistematicità: il fenomeno si ripete nel tempo con caratteristiche di costanza e perseveranza;
  • L’ asimmetria di potere: nella relazione il bullo si trova in una situazione privilegiata di “forza” mentre la vittima è costretta a subire in quanto, per diversi motivi,  incapace di difendersi. (Olweus, 1993; Coie e Dodge, 1998; Smith et al.,1999).

Per quanto riguarda lo scenario, le figure coinvolte sono:

  • Il bullo:  E’ caratterizzato da marcata aggressività verso gli altri (indipendentemente che siano coetanei o adulti), da scarsa empatia ed è mosso da una marcata necessità di dominio sugli altri ( Coie et al., 1991; Boulton e Underwood, 1992).
  • La vittima: Di solito è caratterizzata da ansia, insicurezza e uno scarso senso di autostima e autoefficacia. Ciò implica una visione negativistica di sé e delle proprie competenze (Olweus, 1993; Perry, Kusel e Perry, 1988; Kochenderfer e Ladd, 1997).
  • Gli spettatori o pubblico: si tratta di coloro che, pur non essendo coinvolti direttamente nel fenomeno, ne sono consapevoli. Osservano le dinamiche senza intervenire in alcun modo nell’aiutare la vittima.

 

Consigli pratici per genitori

Infine è doveroso riportare alcuni consigli pratici che i genitori di bambini che affrontano questo problema possono mettere in atto per meglio consigliare i loro figli per gestire la situazione senza rischiare di comprometterla. Infatti spesso i genitori si chiedono “come dovrebbe reagire mio figlio?”:

  • Non avere reazioni violente a scopo di vendetta, di solito non sono utili e portano ad un peggioramento della situazione;
  • Sforzarsi di mantenere la calma. I bulli hanno come scopo provocare la reazione di umiliazione e il soddisfacimento di questo loro bisogno li porta alla reiterazione del comportamento. Il non ottenimento di questa reazione potrebbe farli desistere;
  • Ricordarsi che non si è soli. Il bullismo non è una cosa che la vittima deve affrontare da sola, riguarda anche i genitore e l’istituzione scolastica. Dunque non bisogna aver paura di parlarne con quanti più adulti di riferimento possibili;
  • Evitare di frequentare gli stessi posti del bullo e cercare di essere quanto più possibile sempre in compagnia e mai soli;
  • Quando si risponde al bullo farlo sempre in modo determinato, fermo ed assertivo. Non rispondere in modo aggressivo, ma nemmeno in modo sottomesso;
  • Cercare di volgere a vostro favore i commenti negativi del bullo;
  • Coltivare quante più amicizie possibili dentro e fuori la scuola. Avere degli amici che vi vogliono bene e che sono dalla vostra parte vi aiuterà a non cedere emotivamente;
  • A volte, in qualche caso, l’autoironia si dimostra essere nostra alleata. Qualche bullo potrebbe apprezzare il vostro senso dell’umorismo e lasciarvi in pace. Ovviamente ciò è differente per ogni caso, quindi valutate bene la persona con cui avete a che fare prima di farne una strategia d’utilizzo.

L’ alleanza terapeutica nel trattamento del disturbo borderline di personalità

Nella relazione con pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità, la flessione dell’ alleanza terapeutica raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo terapeutico: rievocare tale obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza.

Maddalena Goffredo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

L’ alleanza terapeutica, nonostante sia soltanto una delle variabili della relazione clinica, è probabilmente la più importante ai fini dell’efficacia terapeutica ( Lingardi, 2002, Nocross, 2011, Safran, Muran, 2000).

Essa rappresenta, infatti, il fattore terapeutico aspecifico, ovvero non correlato all’uso di tecniche proprie di specifici orientamenti e modelli psicoterapeutici, con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Diversi autori hanno tentato di dare una definizione specifica del costrutto. In questo articolo tenterò di descriverla e definirla attraverso la rassegna dei vari studi condotti su di essa, nello specifico condotti nelle terapie del disturbo borderline di personalità, il quale risulta essere, per le sue varie caratteristiche, il più vulnerabile alla formazione delle rotture dell’ alleanza terapeutica e delle interruzioni di trattamenti terapeutici (né seguirà una descrizione nella seconda parte dell’articolo).

 

Alleanza terapeutica: definizioni e caratteristiche

Bordin (1979) definisce l’ alleanza terapeutica sulla base dell’esistenza di tre componenti:  l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta, la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento e il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto. Considera il terzo elemento, il legame affettivo quindi, come costitutivo dell’ alleanza terapeutica, e fattore aspecifico di grande efficacia clinica.

Secondo l’autore esso emerge dall’interazione tra due variabili principali: da un lato i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, d’altro lato le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’ alleanza terapeutica e nella conduzione di una terapia avente buon esito; la condivisione degli obiettivi e la chiarezza, circa i diversi compiti del terapeuta e del paziente, assumono maggiore importanza rispetto al legame emotivo, nell’empirismo collaborativo di Beck (1976).

Safran e Segal (1990), come Bordin (1979), hanno indirizzato il loro lavoro alla descrizione del terzo fattore della definizione di Bordin (1979), definendolo  come una qualità dinamica della relazione che il terapeuta deve controllare costantemente in quanto in continua oscillazione. Gli autori propongono di analizzare i marcatori interpersonali insieme agli atteggiamenti problematici del paziente, riconcettualizzando il caso perché così facendo il terapeuta cognitivista può accorgersi che l’atteggiamento problematico del paziente dipende dal riemergere di schemi cognitivi interpersonali poco adattivi, che coinvolgono lo scambio col terapeuta (concetto sovrapponibile con il ciclo interpersonale problematico di Semerari, 2000).

La prospettiva cognitiva evoluzionista, che cerca di colmare la mancanza di una teoria della relazione interpersonale e delle motivazioni umane alla relazione (Gilbert,1989; Liotti, 1994/2005), vede nella relazione terapeutica lo scopo di strumento conoscitivo e di processo che cura, sulla base dei SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali). La relazione clinica diventa quindi la sede in cui terapeuta e paziente esplorano gli stati d’animo e i processi di pensiero di entrambi i membri, con lo scopo di aumentare le capacità metacognitive del paziente.

L’incremento di queste capacità permette al paziente di riflettere sui propri contenuti mentali. Secondo questa prospettiva il motore dell’ incrementata capacità è il sistema motivazionale cooperativo, che favorisce la condivisione dell’attenzione per lo stesso oggetto, cioè gli stati mentali di entrambi i partecipanti.

È importante sottolineare che questa prospettiva distingue le dinamiche transferali dall’ alleanza terapeutica. Le dinamiche transferali emergono, secondo questo modello, nelle fasi in cui il paziente percepisce un maggior senso di vulnerabilità e necessita di un maggior sostegno da parte del terapeuta, attivando il sistema di attaccamento motivazionale. L’ alleanza terapeutica invece è coordinata dall’attivazione del sistema motivazionale cooperativo.

L’atteggiamento collaborativo si fonda su strutture di memoria meno problematiche di quelle dell’attaccamento e quando attive nei momenti di alleanza, durante lo scambio clinico, permettono, oltre alla condivisione di obiettivi, anche l’esplorazione congiunta delle difficoltà attuali del paziente. In sintesi, l’ alleanza terapeutica è comprensibile in termini di attivazione del sistema cooperativo in entrambi  i membri della diade terapeutica, mentre le sue flessioni e le sue fratture sono dovute soprattutto all’attivazione, nel paziente, del sistema di attaccamento e dei MOI insicuri e disorganizzati a esso coordinati (e di accudimento conseguente nel terapeuta).

 

Alleanza terapeutica e attaccamento

L’influenza dello stile di attaccamento è stata confermata da numerosi studi tra cui quello di Eames e Roth (2000), dal quale si evince come nei pazienti con stile disorganizzato o invischiato le terapie presentavano frequenti rotture dell’ alleanza, di cui si discuterà in seguito (Liotti, Monticelli 2014).

Si evince quindi che in un contesto terapeutico, ogni volta che nel dialogo clinico affiorino memorie e aspettative di difficoltà e dolore mentale, sia inevitabile l’attivazione del sistema di attaccamento. Il rapporto clinico tra psicoterapeuta e paziente si presenta dunque frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982).

Il paziente, in almeno alcuni momenti del dialogo clinico, racconta la propria sofferenza, paura o angoscia e lo stato mentale che accompagna questa narrazione implica pressoché sempre l’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento appunto. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (MOI degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Se da un lato ciò comporta una minaccia all’ alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da MOI insicuri o disorganizzati, dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’ attaccamento nel dialogo clinico, è una condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

 

Disturbi di personalità e fratture dell’ alleanza terapeutica

Diverse ricerche hanno studiato l’andamento dell’ alleanza terapeutica, soprattutto nei trattamenti dei disturbi di personalità, confermando l’ipotesi iniziale che la definiva come un processo dinamico che può ridursi nelle fasi intermedie della terapia. Questo perché probabilmente durante queste fasi emergono le problematiche interpersonali dei pazienti più gravi che possono compromettere la qualità della relazione terapeutica appunto.

I dati di ricerca longitudinali sono compatibili con l’impressione dei clinici che l’andamento dell’ alleanza terapeutica nel corso del processo terapeutico sia spesso imprevedibile, oscillante tra momenti di grande intesa e altri di perdita di sintonizzazione tra paziente e terapeuta (Horvath, Greenbrg, 1994; Horvath, Marx, 1991; Safran, Crock, McMain, 1990).

Un momento importante della relazione terapeutica è la riparazione delle fratture dell’ alleanza che può essere un fattore terapeutico di importanza fondamentale non solo perché permette la prosecuzione del trattamento, ma anche perché avvia il cambiamento in senso adattivo degli schemi interpersonali più problematici del paziente.

Questi schemi emergono infatti con particolare chiarezza nei momenti in cui l’ alleanza terapeutica è minacciata, e spesso sono identificabili soltanto in questi momenti diventando oggetto di correzione terapeutica solo all’interno della relazione in corso fra paziente e terapeuta.

Come precedentemente accennato, entrambi i membri della diade terapeutica, con la loro storia, le loro caratteristiche di personalità e funzionamento influenzano la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza terapeutica. Tra le caratteristiche del paziente ci sono la capacità di mentalizzare, la motivazione alla terapia, le aspettative di cambiamento, le qualità generali delle relazioni interpersonali, la gravità del disturbo e gli stili di attaccamento. Sono molto significativi e concordanti i dati degli studi sulla relazione tra gravità del disturbo di personalità e fragilità dell’ alleanza (Lingiardi, Croce, Fossati et al. , 2000)

I risultati di questi studi supportano le ipotesi secondo cui gli indicatori precoci di alleanza terapeutica si rivelano utili predittori del dropout. L’obiettivo principale di questa ricerca era quello di segnalare ai clinici che trattano con pazienti con disturbi di personalità l’utilità del costrutto di alleanza terapeutica. L’interruzione prematura del trattamento psicoterapico è frequente nei disturbi gravi di personalità. Una nuova direzione di indagine sul dropout è legata all’ipotesi che un fenomeno così complesso come l’abbandono della psicoterapia dipenda dalle caratteristiche della relazione terapeutica, come interazione reale e processo relazionale (Horvath, 1996). L’ alleanza terapeutica sembra, quindi, un costrutto promettente nell’indagine sul dropout.

 

Disturbo borderline di personalità e alleanza terapeutica

Fino ad oggi però sono state condotte poche ricerche sul ruolo che potrebbero giocare le caratteristiche di personalità, i sintomi psicopatologici, i meccanismi di difesa, sul processo di formazione di alleanza, specialmente con pazienti con disturbo borderline di personalità.

In particolare il trattamento con pazienti con disturbo borderline di personalità è particolarmente difficoltoso per via delle problematiche relazioni che interferiscono con la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza. Gli studi retrospettivi mostrano infatti un’alta percentuale di dropout in fase iniziale della terapia.

Non di rado gli stati mentali relativi alla disorganizzazione dell’attaccamento (Liotti, 1994,/2005, 2007; Liotti, Farina, 2011; Main, kaplan, Cassidy, 1985) sono alla base di sviluppi psicopatologici in particolare dello spettro Borderline/dissociativo(Liotti, farina, 2011).

Soprattutto in questi casi il comportamento del terapeuta viene spesso assimilato alla rappresentazione di un genitore da un lato spaventato, gravemente trascurante, oppure ostile e violento, e dall’altro fonte potenziale di aiuto e conforto. Si può dedurre che il paziente teme allora simultaneamente di perdere la vicinanza emotiva del terapeuta e di mantenere un vicinanza percepita come pericolosa (paura senza sbocco, Main, Hesse, 1990). Questo conflitto si manifesta in terapia nei confronti del terapeuta il quale sarà oggetto di idealizzazione e svalutazioni da parte del paziente, di fobie opposte e simultanee delle emozioni di attaccamento provate (paura della vicinanza e paura dell’abbandono), il paziente spesso potrebbe attribuire alla vicinanza emotiva significati distorti come persecutori, sentimenti di impotenza propria e attribuiti al terapeuta che conducono a considerare inutile la terapia, e potrebbero emergere condotte paradossali di sollecitudine accudente rivolte al terapeuta.

Lo stato mentale del paziente relativo all’ attaccamento al terapeuta è stato indagato con uno strumento derivato dall’ AAI (Adult Attachment Interview), la Patient – Therapist Adult Attacchment Interview (PT – AAI: Diamond, Stovall-McClough, Clarkin et al.,2003). Le valutazioni al PT – AAI dopo un anno dall’inizio della terapia sono state confrontate con quelle dell’AAI dopo un anno dall’inizio del trattamento. In tutti i casi, tranne uno, lo stato mentale del paziente riguardante l’attaccamento al terapeuta concorda con uno o più aspetti dello stato mentale riguardante l’attaccamento alle figure genitoriali.

Questi dati confermano l’ipotesi di Bowlby (1969) che sostiene che quando si attivano nel paziente, all’interno della relazione terapeutica, bisogni di vicinanza e protezione, emergono anche i MOI (Modelli Operativi Interni) dei suoi originari attaccamenti, cioè le strutture di memoria e aspettative costruite durante l’interazione con le figure di attaccamento (FDA) nell’infanzia.

Se si confrontano i dati di Diamond , Stovall –McClough, Clarkin e collaboratori (2003) con quelli dello studio di Bradley, Heim e Westen (2005), è facile concludere che l’emergere dei MOI dell’attaccamento originario del paziente all’interno della relazione terapeutica è foriero di problemi della rottura dell’alleanza. Infatti il tranfert del paziente corrisponde in maniera sorprendete, secondo i dati di Bradley e,Heim e Westen (2005) al controtasfert del terapeuta, e le configurazioni di trasfert- controtasfert identificate nella ricerca appaiono molto lontane dal garantire le condizioni di sicurezza, reciproca fiducia e collaborazione caratteristiche dell’ alleanza terapeutica. Diventa così comprensibile il dato di ricerca, ripetutamente confermato, che l’ alleanza terapeutica e il modo di riparane le rotture sono fortemente influenzati dal tipo di attaccamento del paziente.

Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie controllanti rendono difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e collaborazione tipico delle relazioni di aiuto efficaci (Liotti, Farina, 2011).

L’attaccamento disorganizzato è frequentemente correlato alla psicopatologia in generale e al Disturbo Borderline di Personalità con stati dissociativi in particolare, come è stato precedentemente accennato; nelle terapie con questi pazienti il rischio di rotture dell’ alleanza terapeutica anche gravi, fino all’interruzione del trattamento è elevato.

 

Emozioni e relazioni nel Disturbo Borderline di Personalità

La diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità (DBP), prevista nel DSM-V fornisce ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantisce, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato.

Il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Queste modalità di pensiero coinvolgono diverse sfere di vita e le persone con questo disturbo spesso ne sono poco consapevoli, faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Ulteriori caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità sono la variabilità e l’eterogeneità, nessun tratto è sempre presente, periodi di sofferenza oscillano con fasi di benessere e buon adattamento sociale e un quadro clinico grave può cambiare rapidamente per un efficace intervento terapeutico o per un evento favorevole  (Semerari, Di Maggio, 2003). Tuttavia il Disturbo Borderline di Personalità ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Il Disturbo Borderline di Personalità è stato ed è tuttora oggetto di studio di diversi autori e sono stati ideati appropriati approcci e protocolli psicoterapici.

Secondo Kernberg (1995), il soggetto con Disturbo Borderline di Personalità presenta un deficit di integrazione che lo caratterizza attraverso oscillazioni opposte delle rappresentazioni di sé e dell’oggetto visto come o tutto positivo o tutto negativo, o buono o cattivo che causa inoltre l’instabilità dell’immagine di sé e delle relazioni interpersonali.

Chi soffre di Disturbo Borderline di Personalità presenta inoltre un deficit di mentalizzazione  (descritto precedentemente nella teoria dell’attaccamento e dei SMI di Liotti): il bambino è alle prese con Figure Di Attaccamento (FDA) spaventate e spaventanti e tende quindi a costruirsi una memoria della rappresentazione dell’altro come responsabile persecutorio della paura sperimentata e del sé come vittima. Contemporaneamente però può percepire la FDA come salvatore che lo conforta, ma anche come vittima da confortare. La problematicità di queste rappresentazioni non sta soltanto nell’incompatibilità dei ruoli, quanto nel loro presentarsi simultaneamente e nel loro succedersi caotico. Il discorso del paziente è infatti confuso, oscilla da un argomento all’altro senza che sia possibile identificare un tema sovraordinato che dia senso a quanto detto e guidi il comportamento in modo coerente. Il senso di inferiorità si alterna alla rabbia e al timore per il giudizio negativo, ruoli seduttivi si alternano a immagini di competizione, memorie piacevoli si alternano con l’idea di un futuro vuoto.

Linehan (1993) identifica come nucleo disfunzionale del Disturbo Borderline di Personalità la disregolazione emotiva e gli aspetti di padroneggiamento degli stati interni, noto come deficit di regolazione emotiva. Secondo l’autrice i border sono caratterizzati da una forte vulnerabilità emotiva e da una difficoltà a regolare le emozioni, reagiscono intensamente e rapidamente di fronte a stimoli emotivi anche minimi e a causa della disregolazione sono incapaci, una volta attivata l’emozione, di compiere operazioni necessarie per ridurne l’intensità e ritornare al tono emotivo di base.

Tra le cause di sviluppo della disregolazione emotiva, secondo l’autrice, ci sarebbe la crescita in un ambiente invalidante dove la comunicazione interiore riceve risposte caotiche, inappropiate ed estreme. Anche l’autrice come Kernbreg (1995), riconduce la stessa stabilità del senso di sé al susseguirsi di stati mentali caotici ma tutti di intensità estrema. Nel modello della Linehan la disregolazione emotiva rappresenta l’elemento patogenetico fondamentale del Disturbo Borderline di Personalità ed è in grado di spiegarne gli aspetti fondamentali: i comportamenti impulsivi, il disturbo d’identità e il caos interpersonale, l’affettività disregolata.

Come ha scritto Linehan (1993) “la bravura del terapeuta sta nel scorgere un raggio di sole senza negare l’oscurità del paesaggio”. È fondamentale sottolineare e non sottovalutare le molte risorse personali e relazionali di cui dispongono i pazienti borderline. Essi sono capaci di instaurare, pur nella loro caoticità, relazioni intense e significative (Semerari, Dimaggio, 2003). Possono instaurare cicli interpersonali positivi in cui ottenere validazione e accettazione di sé e un senso di aiuto protezione e conforto; grazie a queste capacità si può ipotizzare l’attivazione di un potenziale circuito terapeutico in cui un senso di sé positivo emerge all’interno di una relazione di fiducia attraverso cicli validanti e cicli protettivi. Il problema è che questi cicli tendono ad essere brevi, fragili ed esposti a fratture di invalidazione proprio a causa del deficit di metarappresentazione che fa sì che l’investimento sull’altro sia scarsamente realistico, idealizzato, carico di aspettative eccessive che possono essere facilmente invalidate.

Si evince quindi che nella relazione terapeutica con questi pazienti, la flessione dell’ alleanza, raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo durante le fasi iniziali del trattamento come sostenuto da diversi autori. Rievocare l’obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza terapeutica. Nello specifico, il contratto è l’estensione di quello che si definisce progetto di cura, ma ne differisce in modo sostanziale perché è elaborato insieme al paziente e posizionato al livello effettivo della possibile motivazione verso il cambiamento (M. Sanza, 2015).

Infatti l’atto in sé di chiamare in causa la persona nel definire gli obiettivi del proprio percorso di cura determinerebbe un immediato coinvolgimento di entrambi gli attori nella relazione terapeutica: il terapeuta (o l’equipe) diverrebbe esperto dei processi di cambiamento, lasciando alla persona il ruolo di principale esperto di sé, della propria storia e delle proprie problematiche; una dimensione maggiormente simmetrica, cooperativa e collaborativa (come la definisce Liotti, 2008) pertanto, senza implicare con ciò un disconoscimento della diversità dei ruoli e delle relative differenti responsabilità. Interrogarsi e condividere gli obiettivi a breve e medio termine del trattamento diverrebbe, così, un processo che responsabilizza il paziente riducendo il rischio della delega e favorendo l’ancoraggio delle aspettative ad un piano il più possibile realistico, predefinito, negoziato e verificabile nel tempo.

Un tale coinvolgimento attivo della persona potrebbe avere quindi una valenza di per sé terapeutica in riferimento, ad esempio, alla potenzialità di incrementare il senso di autodeterminazione ed i bisogni di autonomia del paziente stesso, influenzandone positivamente la motivazione. La prassi del contratto terapeutico può essere uno strumento per incrementare il senso di empowerment dei pazienti nei confronti della propria salute, uno dei fattori più frequentemente associati alla compliance ed alla buona riuscita dei trattamenti.

 

L’ alleanza terapeutica nella Terapia Dialettico Comportamentale

Anche l’ideatrice del protocollo “Terapia Dialettico Comportamentale dedicato al trattamento dei pazienti con disturbo Borderline di Personalità, M.Marsha Linehan, sottolinea l’importanza della relazione forte e salda che il terapeuta deve instaurare con il paziente partendo dalla definizione del patto iniziale. Questo è essenziale poiché a volte la relazione con il terapeuta è l’unico rinforzo efficace con un soggetto borderline nella gestione e nel cambiamento del suo comportamento.

Con i pazienti ad elevato rischio suicidario, ad esempio, l’autrice vede nella relazione con il terapeuta, a volte, l’unica cosa che lo tiene in vita nei momenti di crisi acuta. La Terapia Dialettico Comportamentale si basa sulla premessa per cui l’esperienza di sentirsi accettati e accuditi e validati ha una valore di per sé (Linehan, 1989). Nella Terapia Dialettico Comportamentale in particolare, mentre all’inizio il paziente può credere che se fosse guarito avrebbe perso il terapeuta, quest’ultimo può applicare la tecnica del ricatto, e esplicita che nel caso in cui non migliorasse perderebbe il terapeuta ancora più velocemente in quanto “la prosecuzione di una terapia inefficace è un comportamento antietico”.

La tipica sequenza di eventi nella terapia del Disturbo Borderline di Personalità prevede difficoltà iniziale del paziente a fidarsi del terapeuta, a chiedergli aiuto e a raggiungere un equilibrio ottimale tra dipendenza e indipendenza. È probabile infatti che inizialmente il paziente mostrerà una scarsa fiducia nel terapeuta, rinuncerà a contattarlo telefonicamente, anche quando sarebbe opportuno farlo e tenderà a oscillare tra un atteggiamento di estrema dipendenza da un lato e di assoluta indipendenza dall’altro. Durante le fasi iniziali della terapia pertanto, gran parte del lavoro terapeutico è finalizzato a rinforzare la capacità di chiedere aiuto al terapeuta quando non riesce ad affrontare efficacemente la situazione.

Tuttavia se tale capacità non viene estesa all’ambiente circostante, al di fuori del contesto terapeutico, e se al paziente non viene insegnato ad aiutare sé stesso e a tranquillizzarsi da solo, la conclusione della terapia rappresenterà un evento altamente traumatico. Il processo di transizione dalla fiducia del terapeuta alla fiducia in se stesso e negli altri deve iniziare sin da subito. L’obiettivo finale è imparare a confidare in sé stessi e nelle proprie forze e il rispetto di sé con il superamento dei sentimenti di vergogna e odio. A volte il riemergere di intensi sentimenti di vergogna, o delle angosce legate alla conclusione della terapia, può essere tale da precipitare una regressione a comportamenti della fase iniziale o a reazioni di stress.

Il processo terapeutico parte quindi dallo sviluppo di un contratto terapeutico collaborativo: preparare il paziente ad una vita senza Terapia Dialettico Comportamentale, creando un’atmosfera emotiva in cui il paziente si senta sicuro di interagire apertamente e che lo protegga per quanto possibile da reazioni emotive incontrollabili una volta terminata la seduta. Un compito essenziale durante le sedute dedicate alla contrattazione del patto è costituito dall’instaurazione di una positiva relazione interpersonale. Queste sedute offrono al terapeuta e al paziente l’opportunità di esplorare problemi che possano interferire con l’ alleanza terapeutica. Compito del terapeuta è trasmettere competenza efficacia e credibilità. Un genuino interesse verso il paziente come persona piuttosto che solo come cliente o soggetto di una ricerca.

La terapia del borderline in sintesi, come tutte le terapie, si basa su alcuni principi fondamentali, tra i quali la fiducia che il paziente prova nei confronti del terapeuta, nessuna terapia infatti potrà funzionare se il paziente non ha fiducia nel terapeuta. Ciò significa che la relazione deve essere al centro dell’interesse del terapeuta.

Non si può però sottovalutare l’ipercoinvolgimento a cui i terapeuti sono sottoposti nelle terapie con questi pazienti e spesso ciò è difficile da sopportare per un singolo terapeuta. Ecco perché anche Liotti (2001) ritiene necessaria la presenza di un secondo terapeuta con cui il paziente è meno coinvolto, essa favorisce l’elaborazione delle rappresentazioni non integrate che minacciano la prima relazione. Infatti dato l’impegno, la disponibilità e la tensione emotiva che queste terapie richiedono esse possono portare il terapeuta ad una condizione di insopportabilità.

Il poter condividere il carico con altri e l’aver definito il patto e i confini del setting con il paziente, sono due importanti fattori che proteggono i trattamenti dal più maligno dei rischi: il rifiuto del terapeuta. Relativamente a questo è esplicativo ciò che Semerari scrive: “Non c’è crisi peggiore dell’ alleanza di quella in cui il terapeuta non desidera più fare terapia” (Semerari, 2003)

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia (2017) di Goleman D., Bennett L., Barlow Z. – Recensione del nuovo libro sull’ intelligenza ecologica

Lo studioso statunitense Daniel Goleman introduce in Coltivare l’intelligenza emotiva, Come educare all’ecologia, testo del quale è coautore, oltre ai costrutti di intelligenza emotiva e intelligenza sociale, una terza forma di intelligenza, collegata alla prima, l’ intelligenza ecologica.

 

 

Nonostante la sensibilità ecologica sia più diffusa, al giorno d’oggi, di quanto non lo fosse in passato, manca spesso la consapevolezza del fatto che il nostro agire quotidiano, inteso come “il nostro coinvolgimento nei sistemi energetici dell’agricoltura, dell’industria, del commercio e dei trasporti”, può incidere in positivo o in negativo sul benessere dell’ecosistema terrestre.

Lo studioso statunitense Daniel Goleman, noto per aver promosso l’importanza di una corretta educazione all’ intelligenza emotiva, introduce, in Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, testo del quale è coautore, oltre ai costrutti di intelligenza emotiva e intelligenza sociale, una terza forma di intelligenza, collegata alla prima, l’ intelligenza ecologica; se l’ intelligenza sociale ed emotiva incrementano l’abilità di vedere la realtà adottando la prospettiva altrui e di empatizzare, l’ intelligenza ecologica  si identifica con l’applicare queste capacità alla comprensione dei sistemi naturali e fonde le capacità cognitive con l’ empatia.

 

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia – L’integrazione tra intelligenza emotiva ed intelligenza ecologica

Il testo Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si pone l’obiettivo di presentare un modello educativo fondato sull’integrazione di intelligenza emotiva, sociale ed ecologica; questi tre tipi di intelligenza rappresentano dimensioni interconnesse dell’intelligenza umana che “si espande verso l’esterno: partendo da sé stessi si procede sia verso gli altri che verso tutti i sistemi viventi”. Le intelligenze sono, inoltre, in un rapporto dinamico tra loro: alimentandone e promuovendone una si possono incrementare anche le altre.

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si compone di una serie di storie di buone pratiche educative, raccontate attraverso la voce dei protagonisti; si tratta storie, tratte dalla realtà americana contemporanea, che narrano dell’importanza di salvaguardare l’ambiente e la natura intesa come fonte di vita, contrastando le iniziative che, al contrario, creano, in nome di interessi economici, un danno all’ecosistema.

Gli autori del libro si propongono, attraverso queste storie, di illustrare in quali modi sia possibile attuare una forma di “Eco istruzione” finalizzata ad incrementare l’ intelligenza ecologica; è possibile individuare varie modalità, il cui minimo denominatore comune è caratterizzato dalla presenza di una dimensione affettiva e di una dimensione cognitiva.

La dimensione affettiva si identifica con il provare “empatia verso tutte le forme di vita”, promuovendo  un senso di responsabilità e di cura che non riguarda, quindi, solo gli esseri umani, ma che viene esteso a tutte le forme di vita; la dimensione cognitiva ha a che vedere con la comprensione di come i sistemi viventi siano interconnessi gli uni con gli altri.

Gli autori di Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si muovono dal presupposto che la promozione di una sensibilità ecologica debba avvenire nelle scuole, ad opera degli educatori, andando ad intervenire sui sistemi di apprendimento; lo scopo di tale pratica educativa si identifica con il coltivare, nei giovani, la capacità di comprendere le relazioni tra le proprie azioni e il mondo naturale di cui sono parte.

La finalità di questo processo è quella di rendere le persone “eco istruite”; l’ Eco-istruzione, che ha delle ricadute a livello di azioni nel sociale, si configura come un percorso mediante il quale gli educatori e gli studenti si allenano insieme ad analizzare e comprendere i problemi ecologici cui è necessario fare fronte e ad individuare soluzioni creative. In questo modo, le comunità scolastiche possono rappresentare ambienti formativi in cui gli studenti vengono incoraggiati a tradurre in azioni e in impegno concreto le proprie aspirazioni, dando un contributo che va ad intervenire in modo attivo e responsabile sulla realtà.

In questo quadro è importante sottolineare che il creare un rapporto equilibrato con la natura passa attraverso la presa di coscienza del fatto ognuno di noi ha la possibilità, attraverso le proprie azioni, di esercitare un impatto negativo o, al contrario, estremamente positivo; in altre parole, abbiamo modo di intervenire attivamente sulla realtà che ci circonda.

Si tratta di un atteggiamento, quello promosso in Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, che favorisce un presa di responsabilità rispetto ai problemi, contrastando la passività e l’indifferenza, e stimolando, di contro, una modalità di partecipazione attiva; ciò crea i presupposti affinché gli studenti apprendano come “ridurre la dipendenza dal petrolio della loro scuola, scoprire come le loro vite sono interconnesse con persone che vivono accanto ai siti di trivellazione mineraria nelle montagne, migliorare la resilienza delle zone naturali intorno ai bacini idrici, o permettere che più persone abbiano accesso ad alimenti sani”, allenandosi ad essere protagonisti del mondo cui tutti apparteniamo e agendo in modo da promuovere un miglioramento delle condizioni di vita proprie ed altrui.

La mente ossessiva: una lezione con il Professor Francesco Mancini – Report dal seminario

Si è svolto lo scorso 27 febbraio a Palermo un intenso seminario di studi tenuto dal Professor Francesco Mancini, il cui tema è stato il disturbo ossessivo-compulsivo, il suo impatto negativo sulla qualità di vita di chi ne è affetto e l’efficacia delle terapie disponibili sulla sintomatologia.

 

Si è svolto lo scorso 27 febbraio a Palermo un intenso seminario di studi organizzato dall’Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma, in collaborazione con l’Università degli Studi Palermo. Il tema dell’incontro, condotto dal Professor Francesco Mancini, Medico chirurgo, Specialista in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapeuta Cognitivista e Direttore della Scuola di Psicoterapia Cognitiva dell’Associazione di Psicologia Cognitiva APC, è stato il disturbo ossessivo-compulsivo, largamente studiato in clinica per il suo impatto negativo sulla qualità di vita di chi ne è affetto e in relazione alle terapie disponibili e all’efficacia sulla sintomatologia.

Le ossessioni interessano la popolazione generale e non esiste differenza qualitativa tra i controlli e le persone affette da disturbo ossessivo, ma solo una differenza quantitativa – apre il Professor Francesco Mancini – I pensieri intrusivi tipici degli ossessivi sono noti da tempo: basti pensare che già nel 1600 un arcivescovo inglese descrisse un paziente affetto da scrupolosità morale (paura del peccato) e lavaggi.

E addentrandosi nella tipologia dei comportamenti tipici degli ossessivi, diversi sono i sottototipi esistenti, benché un soggetto possa presentare più comportamenti sintomatici: compulsioni di controllo, di contaminazione, rituali di ordine e simmetria.

 

Diversi tipi di ossessivi: il sottotipo checker spiegato dal Prof. Francesco Mancini

Nella categoria dei checkers troviamo soggetti che controllano ripetute volte le cose, come la chiusura della porta di casa. L’ossessione da cui nasce la compulsione si fonda sull’idea che qualcosa possa essere sfuggito al controllo e che pertanto possa accadere qualcosa di negativo per cui essere colpevoli. L’obiettivo di tali comportamenti di controllo è di essere certi di non avere la responsabilità di certe disgrazie, come far entrare i ladri in casa – spiega il Professor Francesco Mancini.

E continuando:

Tuttavia accade che la ripetizione del gesto conduca a dubbi sull’accuratezza del ricordo, sulla fiducia della propria memoria fino a provocare stati simil-dissociativi: in tal caso si arriverà a dubitare della propria percezione, dopo aver fissato più volte l’oggetto.

Lungo il suo intervento, il Prof. Francesco Mancini si è soffermato a sottolineare un concetto fondamentale: la preoccupazione reale del paziente è di essere certo di non aver niente di cui rimproverarsi (come l’occorrenza di un disastro, nei checkers) piuttosto che della disgrazia in se stessa.

Caratteristica degli ossessivi, più che degli ansiosi e dei controlli, è una colpa definita deontologica, caratterizzata dal rispetto delle norme in sé piuttosto che dal bene degli altri come avviene nel senso di colpa altruistico. Si tratta del rispetto di un’autorità morale, riconosciuta autorevole, alla cui supremazia sottomettere le volontà individuali, limitando i diritti decisionali del singolo. Ecco che nel noto dilemma del trolley, in cui i partecipanti possono decidere di salvare cinque vite umane bloccate lungo un binario al costo di una, muovendo lo scambio su cui viaggia il vagone fuori controllo, gli ossessivi decideranno di non usare lo scambio. Si tratta di un’azione omissiva dettata dal fine di non mettersi al posto di Dio, non assumendosi pertanto la responsabilità del gesto. Una prova ulteriore del carattere deontologico della preoccupazione ossessiva e dell’effetto anti-ansiogeno dell’evitamento della responsabilità è che, se deresponsabilizzati, gli ossessivi si preoccupano molto meno anche se l’esito temuto può accadere lo stesso (il furto in casa)

 

Il senso di colpa deontologico risulta collegato al disgusto morale, nella misura in cui aumenta la sensibilità al disgusto, inducendo il bisogno di lavarsi, di modo che il lavaggio delle mani riduce il senso di colpa (Effetto Macbeth).

Il collegamento diretto con l’emozione del disgusto trova poi una corrispondenza a livello cerebrale.

Il senso di colpa deontologico attiva le insule, stazione dove pervengono le afferenze propriocettive, la cosiddetta strada del disgusto. Esse tuttavia si attivano di meno rispetto ai controlli per una sorta di familiarità con la colpa deontologica.

La mente ossessiva una lezione con il Professor Francesco Mancini - Report dal seminario

Il Prof. Francesco Mancini illustra i diversi sottotipi di ossessivi

 

L’etiopatogenesi e trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo

Riguardo all’etiopatogenesi del Disturbo Ossessivo Compulsivo il Prof. Francesco Mancini ha esaminato le principali esperienze infantili chiamate in causa nel contribuire alla rappresentazione catastrofica tipica della colpa deontologica. Esse sono nello specifico:

  1. Carico di responsabilità fin da bambino
  2. Standard elevati imposti dai genitori per cui ogni piccolo errore merita una punizione
  3. Il ricorso a punizioni severe e scarsamente prevedibili (gravi umiliazioni)
  4. Il ricorso a un interruzione del rapporto, per esempio tenendo il muso per giorni per poi riprendere il rapporto in modo improvviso. In questo caso il bambino non sarà in grado di capire come si ricuce un rapporto, mancando la capacità di dare un senso all’accaduto.

In riferimento infine al trattamento, il Disturbo Ossessivo Compulsivo ha generalmente il fine di ridurre il senso di colpa vissuto come catastrofe, qualcosa che non può accadere.

L’obiettivo del trattamento è l’accettazione del senso di colpa e di responsabilità sia nei domini sintomatici, che non sintomatici. Una tecnica utilizzata è l’ACT, acronimo di Acceptance and Commitment Therapy, terapia cognitiva di seconda generazione basata sull’accettazione delle emozioni nel loro libero fluire e sull’impegno attivo per il cambiamento. Una terapia ben riuscita riesce a modificare inoltre le difese di ordine superiore, come l’ironia – conclude Francesco Mancini.

Una prospettiva che ribadisce la necessità di alleggerire il peso delle inevitabili frustrazioni e perdite che la vita presenta, contrastando la sensazione che “niente va come dovrebbe”, o che sia necessario acquisire determinate certezze per camminare lungo i sentieri del benessere.

Mindfulness e Schema Therapy: guida pratica (2016) – Recensione

Il libro Mindfulness e Schema Therapy di Van Vreesvijk, J. Broersen, G. Schurink propone un modello di intervento integrato con l’illustrazione di linee guida chiare per fornire una preparazione di mindfulness ai pazienti che hanno problemi con gli schemi e i mode.

La terza onda del cognitivismo e la necessità di integrazione

La “terza onda” del cognitivismo ha imposto una riflessione sull’integrazione dei diversi modelli psicoterapeutici che si sono affacciati alla ribalta negli ultimi anni. Le modalità con le quali affrontare e risolvere il problema sono diverse: un eclettismo riduzionista che utilizza le varie tecniche a seconda del caso clinico da affrontare, la ricerca di fattori comuni alle diverse psicoterapie su cui basare l’integrazione, un’integrazione teoretica che presuppone la fusione di due o più modelli teorici in una formulazione concettuale sovraordinata, l’assimilazione di posizioni, prospettive e tecniche all’interno di un contesto teorico che determina il significato di ciò che è assimilato.

Il libro Mindfulness e Schema Therapy

Il libro Mindfulness e Schema Therapy di Van Vreesvijk, J. Broersen, G. Schurink propone un modello di intervento integrato con l’illustrazione di linee guida chiare per fornire una preparazione di mindfulness ai pazienti che hanno problemi con gli schemi e i mode.

La Schema Therapy utilizza già un approccio eclettico all’interno di una cornice teorica sovraordinata con l’applicazione di tecniche che attingono da diversi modelli: cognitivo-comportamentale, esperienziale, interpersonale, Gestalt.

Il protocollo proposto da utilizzare per diversi disturbi compresi quelli di personalità inserisce un’ulteriore integrazione con tecniche mindfulness.

La parte introduttiva del libro illustra sinteticamente il modello teorico della Schema Therapy e della Mindfulness riprendendo sia la Riduzione dello Stress Basata sulla Mindfulness (MBSR), sia la Terapia Cognitiva Basata sulla Mindfulness da cui deriva una parte del percorso delineato.

L’approccio presentato integra le tecniche dei due modelli per modificare schemi e mode attraverso un’attenzione all’esperienza interiore di attivazione meno reattiva e più funzionale. Gli esercizi di mindfulness hanno lo scopo di rompere la rigidità dello schema, allontanare le sensazioni e regolare le emozioni.

Nel volume sono riportati i risultati di molti studi sull’efficacia della mindfulness per disturbi specifici e diagnosi eterogenee e illustrati i meccanismi funzionali della pratica: meditazione, decentramento, flessibilità psicologica, valori, regolazione delle emozioni, autocompassione, cambiamenti nell’attenzione e nella memoria di lavoro. Gli autori evidenziano che esiste un consenso generale fra i ricercatori riguardante i due fattori principali della mindfulness, attenzione e accettazione, ed elencano i cinque aspetti principali della pratica: la descrizione, l’azione consapevole, l’assenza di giudizio, l’assenza di reattività e l’osservazione.

Il protocollo di formazione presentato nella seconda parte del volume si compone di otto sessioni di gruppo con 8-12 partecipanti della durata di 90 minuti e due sessioni di follow-up. La formazione può essere impartita anche su base individuale.

Una prima fase è dedicata alla psicoeducazione su mode, schemi e coping identificandone tre fra i principali presentati da ogni partecipante. Nelle prime due sessioni si descrivono, spiegano e praticano le capacità di base della mindfulness.
Nella terza i componenti del gruppo praticano l’attenta consapevolezza di ricordi dolorosi.
Dalla quarta sessione in poi i partecipanti imparano a osservare consapevolmente durante la pratica i propri schemi e mode, lavorando su di essi a livello cognitivo e con le modalità Adulto Sano e Bambino Felice.

Le sessioni sono così articolate:

I sessione. Rispondere consapevolmente a schemi, mode e coping;
II sessione. Consapevolezza del tuo ambiente;
III sessione. Respirazione consapevole;
IV sessione. Mindfulness del coping;
V sessione. Permettere e accettare ciò che è;
VI sessione. Schemi: realtà o fantasia?;
VII sessione. Prendersi cura di se stessi attraverso l’Adulto Sano e il Bambino Felice;
VIII sessione. Il futuro.

A un mese dalla fine del percorso si svolgono le due sessioni di Follow-up.
I risultati sono misurati pre e post formazione con alcuni questionari (Young Schema Questionnaire, Schema Mode Inventory, Brief Symptom Inventory) e settimanalmente rispetto alla consapevolezza su una scala con punteggio da 1 a 10.

Il testo è compendiato da casi clinici ed esperienze, inoltre sono elencate le controindicazioni all’utilizzo del protocollo, tra le principali la gravità del disturbo, la carenza di capacità verbali e i problemi di apprendimento.

Gli esercizi da svolgere in seduta e a casa sono presentati e spiegati nella terza parte del volume, sicuramente la più interessante.
Per ogni sessione sono inserite delle schede di illustrazione degli esercizi che hanno come obiettivo di favorire nei partecipanti la capacità di rispondere consapevolmente a schemi, mode e coping. Gli esercizi sono i più noti e praticati per chi conosce la mindfulness: l’esercizio dell’uva passa, la scansione del corpo, gli esercizi per la respirazione consapevole, la camminata consapevole, la consapevolezza dei ricordi dolorosi, esercizi di destrezza.

L’integrazione che propongono gli autori ci sembra avvenire sul versante eclettico, senza un’assimilazione di posizioni, prospettive e tecniche all’interno di un contesto teorico che determina il significato di ciò che è assimilato, tuttavia il volume rappresenta un ottimo strumento da utilizzare praticamente sia per i terapeuti che privilegiano la Schema Therapy sia per chi pratica la Mindfulness.

Il piccolo principe: analisi psicologica dei personaggi e delle relazioni

Tante sono le interpretazioni della metafora della vita de Il Piccolo Principe, ancora oggi forse il messaggio che Antoine de Saint-Exupervy ci voleva lasciare con il suo racconto rimane celato tra le righe di questa favola, per cui “L’essenziale è invisibile agli occhi”.

Ilenia Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il libro ed i suoi protagonisti possono essere letti come un messaggio di tolleranza ed accettazione, ma soprattutto di riscoperta del valore dei sentimenti e dei legami affettivi, motivo per cui questa favola andrebbe riletta più volte nel corso della nostra vita, un promemoria di ciò che per noi è realmente importante ma che per paura di soffrire tendiamo a dimenticare.

Ogni capitolo de Il piccolo principe racconta l’incontro del protagonista con personaggi diversi, ognuna di queste figure bizzarre lascia il Piccolo Principe stupito e sconcertato per la stranezza delle persone adulte.

 

Il pilota ed il Piccolo Principe: l’adulto ed il bambino

Il libro inizia con il ricordo e la sensazione di fallimento sperimentata dal pilota all’età di 6 anni, fallimento che lo fa rinunciare al suo sogno: decide di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno. Il pilota è sì adulto ma non ha dimenticato il se stesso bambino, conserva il disegno “per non dimenticare, giustamente, a che punto la mancanza d’immaginazione degli adulti potesse essere grande e scoraggiante”. Il Pilota sa per sua esperienza personale (si è reso ben presto conto che nessuno capisce il suo disegno che, al contrario dei tanti che lo interpretano come un cappello, rappresenta un boa che mangia unelefante) che spesso “I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta”, gli adulti non capiscono le fantasie dei bambini e ciò è motivo di forte sofferenza per loro.

Crescendo a volte mettiamo da parte la nostra parte più giocosa e creativa pensando che questa non possa essere utile nel mondo adulto, precludendoci così il piacere di fare le cose che ci rendono felici e che ci alleggeriscono, in questo modo ci troviamo a dover riacquisire i comportamenti che ci facevano stare bene lavorando sulle nostre strategie comportamentali. Il paradosso è trovare difficoltà nel compilare “L’Elenco delle possibili attività piacevoli”, mentre da bambini era la cosa che ci risultava più naturale al mondo, da grandi ci ritroviamo a fare i compiti per quello che ci siamo dimenticati di noi di quando eravamo bambini ed eravamo impegnati a studiare per diventare grandi.

Il pilota, ne Il Piccolo Principe, prova a cercare il bambino in ogni adulto che incontra, ma quando mostra il disegno tutti rispondono “è un cappello” così lui si abbassa al loro livello adulto.

La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo 6 anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che i serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro.

Nel personaggio del pilota viene mostrato come le nostre prime esperienze possono influenzare il nostro diventare adulti.

Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo … Il paese delle lacrime è così misterioso

Da piccoli, il paese delle lacrime è il paese che conosciamo meglio, il pianto è il primo urlo che facciamo sentire di noi quando veniamo al mondo, la prima nostra forma di comunicazione quando siamo piccoli ma da grandi capita di dimenticarsene e ci rende difficile anche comprendere il pianto altrui.

Il personaggio del Pilota crea con il Piccolo Principe un vero e proprio legame d’amicizia. Questo personaggio mostra di non scoraggiarsi facilmente, si trova nell’immensità del deserto e, pur essendo solo, non si perde mai d’animo e cerca di uscire da quella situazione anche se non è per niente semplice.

Il Piccolo Principe è un misterioso bambino proveniente da un pianeta minuscolo, con tanta voglia di conoscere gli uomini e le loro abitudini. Pur giungendo in una regione disabitata, non appare né smarrito, né tanto meno impaurito, balzano agli occhi la sua semplicità, la sua innocenza. Una delle caratteristiche del Piccolo Principe che viene più volte esaltata nel racconto è la sua capacità di arrossire, residuo dell’infanzia.

 

La Volpe e la Rosa: attaccamento e relazioni

In questo romanzo non si trova solo il rapporto tra l’adulto e il bambino (pilota-piccolo principe), ma c’è anche quello tra pari, come tali possono essere visti il protagonista e la volpe: quest’ultima ha rivelato come “le amicizie possono essere tante ma sempre uniche”, l’incontro tra i due è un trattato sull’importanza dei legami nelle relazioni umane. Un amico non è una persona uguale a tutte le altre.

Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.

La volpe, con queste parole, insegna al Piccolo Prinicipe il valore dell’amicizia, che per lei significa essere addomesticata e per il piccolo principe vuol dire prendersi cura della sua rosa.

Ciò che differenzia per ognuno di noi una persona dall’altra è la relazione che costruiamo con quest’ultima dedicandole tempo e attenzioni, impegnandoci nel conoscerla nei suoi punti di forza e nelle sue fragilità. Essere addomesticata per la volpe vuol dire creare un’affiliazione reciproca dove l’uno poi avrà bisogno dell’altro, creare un legame, questo brano spiega molto bene il senso del libro di Bowlby “Una base sicura”: l’attaccamento si sviluppa come una interazione tra un bambino unico ed i suoi genitori unici e uno degli aspetti più affascinanti del genere umano è proprio quello di creare dei legami unici.

Se tu vieni , per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Con il passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, inizierò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore … ci vogliono i riti

Sembra che la volpe sappia come si crei un legame di attaccamento sicuro: la madre assicura sempre la sua presenza e il bambino si abitua a questo rito.

Il Piccolo Principe si guadagna la fiducia della volpe andandola a trovare tutti i pomeriggi stabilendo un rito, è proprio il ripetersi di questo modello di interazione che fa sì che il bambino cominci a crearsi della aspettative. Si aspetta proprio che quella determinata persona appaia in quel determinato tempo, ed è il continuo verificarsi di tale rito che assicura che esiste lui, esiste l’altro, esiste la relazione. Il legame di attaccamento che si stabilirà fornirà un modello per le relazioni future e per tale motivo le nostre relazioni risentiranno di quella matrice interattiva densa per noi di significati, come ricorda Holmes nel libro “La teoria dell’attaccamento”:

L’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo il ciclo vitale – l’attaccamento quindi non è limitato all’infanzia ma dura – dalla culla alla tomba.

Ad oggi bisognerebbe discriminare l’utilizzo del termine “dipendenza”, non sempre questa può essere classificata come patologica in quanto in realtà è un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano, di stare quanto più vicino possibile a chi si vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di noi. Su questi aspetti odierni di “dipendenza affettiva”, dove ci si fonde con l’altro per la paura e l’incapacità di sentirsi soli, e di “individualismo spietato”, dove si maschera la paura di un legame al quale però realmente si ambisce, si potrebbe aprire un lungo dibattito ma non è questo il contesto.

Il rapporto tra la volpe ed il Piccolo Principe aiuta quest’ultimo a fare chiarezza sul suo rapporto con la rosa. Il Piccolo Principe viene a conoscenza del roseto: la rosa dovrebbe perdere qualsiasi importanza per il principe, ma egli capisce che la rosa non è più speciale perché unica nel suo genere, bensì è speciale perché le vuole bene, perché c’è un legame che si è creato tra di loro.

Ogni persona per noi importante lo è a seguito del rapporto che abbiamo costruito con questa, del tempo che abbiamo investito nel coltivare e nel creare una relazione con lei. I legami che gli esseri umani creano vanno al di là del puramente visibile, diventano pensieri, significati e schemi mentali. La necessità del cucciolo d’uomo di creare dei legami di attaccamento nasce dall’istinto di sopravvivenza, ci dice Bowlby.

Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Non è ciò che vediamo delle persone che le rende speciali ai nostri occhi, ma ciò che sentiamo per loro, un sentimento impercettibile per l’occhio umano ma talmente forte da condizionare la nostra vita.

Tale frase riprende anche il disegno della pecora che non si vede perché è dentro alla scatola, si vede la scatola se la si guarda con gli occhi, la pecora se la si guarda con il cuore. Solo la nostra sensibilità percepisce la singolarità dell’individuo, le persone sono rinchiuse nelle apparenze e solo “addomesticandole” si potrà rivelare ed apprezzare la loro singolarità, per cui anche la nullità del deserto può essere bella.

Volpe: “Ah … piangerò”

Piccolo Principe: “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi”

La volpe facendosi addomesticare vuol far si che il Piccolo Principe si ricordi di lei anche quando non saranno più insieme, la conoscenza ed il legame con una persona implicano in sé la possibilità che poi si sperimenti la sofferenza, ad esempio quella del distacco, ma varrà la pena soffrire se poi in cambio si guadagnerà “il colore del grano”, cioè un legame affettivo, il calore di un’altra persona che non toglie nulla a ciò che siamo ma ci arricchisce permettendoci anche una maggior conoscenza di noi stessi:

I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano

Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato: questo ad oggi nei legami e nelle relazioni è ciò che più spaventa: la responsabilità del rispetto dell’altro all’interno della relazione e la paura che questa responsabilità limiti la nostra libertà, quando siamo noi in realtà a limitarla a causa delle nostre paure più nascoste.

Ogni adulto dovrebbe limitare il distanziamento emotivo da se stesso perché è solo ascoltandosi che si riesce ad ascoltare, è solo percependosi come “persona” con una identità ben precisa che si riesce a vedere l’altro, nella sua alterità e non come un prolungamento di sé.

La rosa che vive sull’asteroide B612 (paese in cui vive il Piccolo Principe) è delicata e molto esigente, le cure e la protezione del Piccolo Principe sono quelle che le permettono di sopravvivere e di splendere della sua bellezza. Il Piccolo Principe quindi era responsabile della rosa e della sua vita, questo era ciò che la rendeva così importante per lui, ma era anche il motivo per cui alle volte “avrebbe voluto dimenticarla, ma in quel momento si rammentava di essere tutto per la rosa e se ne occupava di nuovo.

Il nostro bisogno iniziale quando nasciamo è quello di sicurezza, motivazione per la quale fin da subito siamo predisposti alla creazione di legami, il nostro bisogno di sicurezza può aiutarci a comprendere meglio il dolore e la sofferenza legate al senso di perdita emergenti anche nell’adulto abbandonato. Inoltre il riconoscere da subito quel legame con la figura di attaccamento privilegiata rispetto agli altri è la conferma che sin dai primi mesi di vita il nostro principale obbiettivo è quello di assicurarsi di non essere soli, e oltre al cibo per andare avanti nella vita abbiamo bisogno di garanzie e certezze che ci vengono assicurate solo se abbiamo la possibilità di sperimentare che quello che ci accade intorno ha una continuità.

Era per alleviare la solitudine della rosa, che continuava a pensare a lei, anche da lontano

A ognuno di noi serve pensare ad una persona, ci fa sentire essere importanti essere pensati da qualcuno, perché noi non siamo un’isola, esistiamo in relazione agli altri. Accettando questa realtà e non remando contro la nostra natura potremo finalmente essere liberi nel non sentirci vincolati da una mancata ed assoluta indipendenza fortemente esalata nella quotidianità odierna, perché come dice Vittorino Andreoli (ex direttore del dipartimento di Psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association) in un’intervista pubblicata nel 2013:

L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…

Questo è ciò che accade nei rapporti con le persone alle quali vogliamo bene: ci piace sentirci indispensabili e responsabili per l’altro, è questo che rende così importante l’altro e la relazione ma allo stesso tempo tutto questo sembra avere un costo per la nostra libertà fino a quando non ci accorgiamo che la vera libertà è quella di vivere le emozioni ed i sentimenti che sentiamo.

Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda

La vanità della rosa è la causa della rottura del rapporto con il Piccolo Principe, è così che il protagonista, perde il proprio punto di riferimento e soffre per la rottura di questo rapporto, ma proprio questa rottura, questo dolore, questo senso di solitudine è ciò che poi lo spinge a esplorare nuovi pianeti, metafora per spiegarci quanto la rottura di un rapporto possa avere due facce. perdita/opportunità, entrambe reali. Elaborata la perdita possiamo andare verso opportunità che prima ci precludevamo.

La separazione, per quanto dolorosa, è necessaria, come ricorda la Telfener in “Le forme dell’addio”, molti passaggi da una fase all’altra del vivere si svolgono proprio all’insegna della separazione: nascere, svezzarsi, cambiare contesto lavorativo, dire addio a ideali-speranze e progetti rimasti irrealizzati, la perdita di un genitore, fino alla nostra morte, che è l’ultima separazione, quella dalla vita. Il processo di separazione porta alla differenziazione tra sé e gli altri, alla nascita del mondo delle rappresentazioni mentali, fa parte di un processo di individuazione (diventare individui con particolari caratteristiche) e differenziazione (percepirsi differenti, distinti da tutti gli altri). Ci sono infatti interpretazioni nelle quali la rosa viene vista come la metafora della “madre” dalla quale ognuno di noi per crescere deve separarsi, per poi ritrovarla da adulto in una relazione differente, basata su altri bisogni.

Il Piccolo Principe mostra di avere una “base sicura” per sentirsi libero di andare ad esplorare il mondo e poi tornare: come il bambino, quando viene lasciato all’asilo, che piange e si dispera ma poi inizia a giocare e accoglie felice la mamma quando va a riprenderlo.

Il Piccolo Principe cede e si fa mordere dal serpente “quando il desiderio della rosa è diventato troppo forte per potervi resistere ancora”, a volte per coltivare l’attaccamento bisogna sperimentare la perdita a piccole dosi: la lontananza dalla rosa ha permesso al Piccolo Principe di capirne l’importanza e di dare un valore al loro legame.

Un altro insegnamento che perviene da questo rapporto è l’importanza di ciò che le persone fanno piuttosto che la loro valutazione in base a ciò che dicono e raccontano:

Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole. Mi profumava, mi illuminava. Non avrei dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie … ma ero troppo giovane per saperlo amare.

 

Analisi degli altri personaggi de Il Piccolo Principe

Il Re monarca assoluto che pensa di dominare l’interno universo in un pianeta dove vive solo lui, ordina quello che sa già che accadrà e mantiene così l’illusione che l’universo gli obbedisca. Regna su un tutto che alla fine si rivela essere un niente. Vuole che la sua autorità sia rispettata e perché avvenga non dà ordini che poi non vengano eseguiti, questo personaggio intimidisce il Piccolo Principe.

Il Re è la rappresentazione del bisogno degli uomini di avere l’illusione del potere e del controllo, senza le quali alcune personalità si sentono fragili ed esposte al pericolo. Si parla di illusione perché il controllo sugli altri non può esistere per definizione, il Re infatti non potendo controllare l’altro controlla se stesso, formulando ordini che possano essere eseguibili dalla persona che ha di fronte a sé.

L’Uomo vanitoso vuole solo essere ammirato e per questo risulta noioso, si accorge degli altri solo nel momento in cui loro lo ammirano “Ti ammiro”, disse il piccolo principe, alzando un poco le spalle, “ma tu che te ne fai?”.

Probabilmente l’Uomo vanitoso ha l’illusione di riempire il vuoto che sente dentro di sé colmandolo con le parole di ammirazione, rappresentazione di personalità istrioniche che puntano la loro sicurezza sull’apparire e sul mostrarsi.

L’Ubriacone che beve per la vergogna di bere, in questo personaggio sono rappresentati i circoli viziosi delle nostre fragilità, cercando di mascherarle invece di accettarle ed imparare a gestirle inneschiamo un circolo vizioso che le amplifica e le evidenzia, rendendo la nostra fragilità ancor più evidente. Questo personaggio lascia nel protagonista una sensazione di malinconia.

L’Uomo d’affari pensava che contando le stelle diventassero sue, non saluta neanche il protagonista perché troppo impegnato. Ha avuto la brillante idea di possedere le stelle e dice che sono sue solo perché nessuno ci aveva mai pensato prima. Possedendo le stelle si sente ricco anche se alla fine, alla domanda del Piccolo Principe di che cosa se ne fa di tutte le stelle, non sa rispondere, rimanendo di stucco.

Il desiderio di possesso dell’altro per il bisogno di percepire di avere un valore, stessa motivazione per la quale accumuliamo cose delle quali non abbiamo bisogno ma che ci servono per sentire che valiamo. Possedere cose e persone ma senza dedicare tempo per coltivare i rapporti… Alla fine le 856 amicizie su Facebook a cosa ci servono?

L’Uomo che accende e spegne il lampione è l’unico a non sembrare ridicolo per il Piccolo PrincipeForse perché si occupa di altro che non di se stesso”, fa il suo dovere senza metterlo in discussione e senza cercare soluzioni alternative, il protagonista gli da un consiglio, ma lui vorrebbe solo dormire.

Il Geografo fa un lavoro che al Piccolo Principe sembra molto interessante ma poi rimane deluso quando scopre che non ci sono esploratori nel suo pianeta, quindi il geografo in realtà non conosce il suo pianeta. Questo personaggio svela al protagonista che i fiori sono effimeri, per questo il Piccolo Principe si dispiace di aver abbandonato la sua rosa.

Il Serpente, simbolo della morte, in questo racconto ha un’accezione positiva, come l’inizio di un viaggio. Spiega come a volte ciò che sembra un male serva a fare del bene, come il dolore per la separazione da un affetto possa in realtà permetterci di fare nuove esperienze.

Il Controllore è addetto allo smistamento delle persone, anche lui ammette che gli uomini non sono mai contenti dove stanno e che vorrebbero sempre raggiungere un posto nuovo, ma non sanno neanche loro qual è questo posto. Ammette che la mente dei bambini è piena di buoni pensieri e questi vivono tranquilli “con il naso appiccicato ai vetri”.  Rappresentazione dell’ affaccendarsi degli uomini insensato ed immotivato e della costante insoddisfazione mai legata ad una vera e propria presa di coscienza su cosa possa migliorare la nostra vita, necessità costante di lamentarsi senza mai attivamente trovare soluzioni alternative.

Il Mercante pur di risparmiare tempo assume pillole per calmare la sete, ma anche qui alla domanda del Piccolo Principe su cosa poi ci farà con il tempo guadagnato rimane basito realizzando di non sapere cosa farsene. Questo personaggio rappresenta la nostra quotidiana corsa contro il tempo, la frenesia e la mancanza di capacità di riuscire a godere dei piccoli piaceri quotidiani, spinti poi a cercare piaceri estremi per evadere dalle frustrazioni accumulate.

 

Conclusioni: lo sguardo da bambino de Il Piccolo Principe

Il Piccolo Principe è uno sguardo infantile sul mondo, ognuno di noi è stato bambino ma poi crescendo alcuni lo dimenticano e questo fa reprimere la nostra spontaneità, limita la nostra curiosità ed appiattisce le nostre emozioni facendoci iniziare a pensare che la “leggerezza” della vita non ci sia più concessa, che i sogni, le risate ed i giochi con gli amici siano sostituiti dall’esigenza e necessità di essere persone performanti in ogni momento della giornata ed in tutti gli ambiti della nostra vita e senza tempo libero a disposizione.

Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici.

Nell’incontro con i vari personaggi è evidente come ogni persona abbia bisogno della presenza dell’altro per definirsi, noi esistiamo in relazione agli altri, il geografo non può fare il suo lavoro senza gli esploratori, il vanitoso non può essere tale senza nessuno che lo ammiri, stessa cosa per il re senza sudditi. L’importanza delle relazioni e dei legami rappresenta il filo conduttore di questo racconto.

L’autore evidenzia l’ingenuità e la fantasia dell’infanzia in contrapposizione alla rigidità dell’uomo giù maturo “ … i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spigargli tutto ogni volta …”. Viene messo in luce come gli adulti con le loro “bizzarrie” siano totalmente presi dai loro affari e non riescano a cogliere il senso della realtà e della reale utilità delle loro azioni, senza badare agli interrogativi posti dal Piccolo Principe.

Questo libro è il dialogo tra un adulto ed un bambino, all’interno del quale entrambe affrontano un processo di crescita e di conoscenza e ne escono arricchiti; l’autore parla al cuore degli adulti a cui nel mondo odierno sembra interessare null’altro che il proprio tornaconto personale.

Ci sono cose dei bambini che gli adulti non capiscono e queste incomprensioni sono motivo di sofferenza per un bambino ma ancor di più per il bambino che abbiamo dimenticato vivere ancora dentro di noi, il quale vorrebbe realizzassimo i nostri sogni di diventare pittori, piloti o qualsiasi altra professione sia nei nostri desideri senza che arrivi la società adulta a distruggerci i sogni all’età di 6 anni!

La figura del Piccolo Principe permette all’autore di riavvicinarsi alla sua parte bambina e di riuscire a leggere la realtà con gli occhi dell’infanzia, il protagonista si fa morsicare dal serpente per tornare sulla Terra perché l’autore-narratore non ha più bisogno di lui, il Piccolo Principe è riuscito nel suo intento di far riscoprire all’adulto il bambino che è ancora in lui.

Questa favola scritta durante l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi rimane molto attuale.

 

L’instabilità lavorativa condiziona l’identità sociale

Un gruppo di ricerca ha tentato di indagare il legame tra la percezione di instabilità lavorativa e le possibili variazioni nella definizione dell’ identità sociale nel corso degli anni.

 

L’instabilità lavorativa e gli effetti sul benessere e sull’identità sociale

Cosa fai nella vita?” è spesso una delle prime domande che si pongono in una conversazione tra due persone estranee. Per molti, il lavoro è molto di più che una fonte di retribuzione, giocando un ruolo importante nel determinare la maniera in cui essi si percepiscono. Perdere un lavoro può farci percepire di perdere una parte di noi stessi, di chi siamo.

Se gran parte del benessere economico e personale è collegato strettamente al lavoro, allora non deve sorprendere che la condizione di instabilità lavorativa possa a sua volta minacciare questo benessere. I risultati di un nuovo studio suggeriscono che la minaccia di instabilità lavorativa non è solo causa di stress economico, ma può avere un impatto anche maggiore sulle modalità di percepire se stessi e il proprio senso di identità personale.
Eva Selenko (Università di Loughborough), Anne Mäkikangas (Università di Jyväskylä), e Christopher B.Stride (Università di Sheffield), hanno studiato circa 400 impiegati Britannici in tre momenti diversi durante l’anno 2014. I risultati del loro studio suggeriscono che l’instabilità lavorativa pervasiva potrebbe avere effetti nocivi sul benessere delle persone allo stesso modo di una vera e propria performance lavorativa.

[blockquote style=”1″]Lavoro e identità personale sono strettamente legati[/blockquote] scrivono Selenko e coll. nel “Journal of Organizational Behavior”. [blockquote style=”1″]In molte situazioni sociali, il proprio impiego fornisce un modo pratico per definire e collocare se stessi in relazione agli altri.[/blockquote]

Quando il lavoro di una persona è sufficientemente “sicuro”, la sua identità sociale, nella definizione di “persona che lavora“, non potrebbe venire in mente con facilità. Invece, quando l’attenzione è spostata sulla condizione di perdita del lavoro, le persone inizierebbero a sentirsi identificati come parte di un gruppo alternativo e stigmatizzato: quello dei disoccupati.

Le ricerche precedenti hanno collegato la disoccupazione a numerose ripercussioni negative al di là del lato economico. In uno studio del 2004 pubblicato sulla rivista Psychological Science, un gruppo di ricerca guidato da un membro dell’APS, Richard E. Lucas (Università del Michigan), ha scoperto che un periodo di disoccupazione avrebbe conseguenze a lungo termine sulla soddisfazione per la propria vita.

Uno studio longitudinale su un campione di più di 24000 tedeschi, ha permesso a Lucas e coll. di “misurare”, nei soggetti, la soddisfazione per la propria vita prima, durante e dopo i periodi di disoccupazione. E’ stato scoperto che, in media, anche a seguito di un nuovo impiego, le persone non riuscivano a ritornare del tutto ai precedenti livelli di soddisfazione per la propria vita, anche dopo anni.
Ed è possibile che la minore soddisfazione possa essere collegata, anche solo in parte, ai cambiamenti nell’identità sociale di fronte all’instabilità lavorativa:

[blockquote style=”1″]Suggeriamo che l’instabilità lavorativa comprometta l’identità sociale delle persone; “avere un impiego” sarebbe, in tal modo, inteso come una categoria che determina l’identità sociale. Parte dei risultati di ricerca, mostrano come una minaccia all’identità potrebbe portare ad una riduzione di benessere percepito, ad un minore coinvolgimento nel gruppo di lavoratori, e una minore volontà di spendere energie per il gruppo.[/blockquote]

Per testare le proprie teorie, Selenko e coll. hanno reclutato 377 impiegati per completare un questionario per tre volte durante l’arco di 6 mesi nel 2014. La media dell’età dei partecipanti si aggirava attorno ai 45 anni. Più della metà di loro (56%) apparteneva alla categoria lavorativa delle cosiddette “tute blu” (lavori manuali o relativi al commercio, operatori di macchina o assemblatori, agricoltori , pescatori ecc.), mentre il resto dei soggetti apparteneva alla categoria dei cosiddetti “colletti bianchi” (manager o lavori che richiedevano una formazione professionale più “avanzata”).
Il questionario era composto da domande che valutavano la percezione di instabilità lavorativa (ad esempio “Vi sono possibilità che io perda il mio lavoro” o “Mi sento fortemente legato alla popolazione lavorativa“), il comportamento a lavoro e il senso di benessere.

Come da ipotesi, un senso crescente di instabilità lavorativa era collegato al peggioramento nel benessere nel corso degli anni. Ma i risultati hanno anche dimostrato che l’identità di questi soggetti, anche quando era definita nei termini di “impiegato”, era collegata ad effetti negativi sul benessere e sulla performance lavorativa nel corso del tempo. Dunque, anche quando le persone mantenevano il lavoro e percepivano di essere lavoratori, esse potevano approdare ad alcuni dei risultati negativi a cui approdavano coloro che avevano perso il lavoro.
[blockquote style=”1″]I soggetti che percepivano il loro lavoro in maniera più instabile, erano anche meno propensi a percepirsi come parte del gruppo sociale degli impiegati; essi tendevano a definirsi di meno come impiegati. Questo aspetto riflette l’impressione dei lavoratori meno fiduciosi del mantenimento del proprio lavoro, spesso riportata a livello aneddotico, di essere già ai margini o tagliati fuori dal proprio impiego.[/blockquote]

Revenge Porn: condividere e pubblicare immagini o video dal contenuto intimo e sessuale

Una nuova ricerca, condotta da un gruppo di psicologi dell’Università di Kent (Canterbury, Inghilterra), ha evidenziato che gran parte delle persone non disapprovano il revenge porn. Dallo studio è emerso che gli individui che praticano il revenge porn hanno un profilo di personalità specifico.

Revenge porn: che cos’è

Il revenge porn è da intendersi come l’atto di condividere e diffondere online, a esempio su Facebook, immagini e/o video dal contenuto intimo e sessuale che ritraggono altre persone, che seppur consenzienti al momento della produzione di tale materiale, non hanno fornito alcun assenso per la pubblicazione sui social media. La vendetta sta nel fatto che qualcosa che doveva essere interno ed intimo alla coppia viene invece reso noto da uno dei due partner per ledere all’altro.

Chi approva la porno vendetta

Il campione di studio era composto da 100 soggetti adulti (82 donne, 18 uomini) di età compresa tra i 18 e i 54 anni. Sebbene solo il 29% di essi avesse compiuto verosimilmente questo genere di comportamento vendicativo, ben il 99% dei soggetti intervistati ha espresso perlomeno qualche forma di approvazione – come ad esempio l’assenza di rimorso – nei confronti del revenge porn nello scenario immaginario in cui si è stati lasciati dal partner. Ma non solo, l’87% dei partecipanti ha ritenuto divertente e stimolante il revenge porn, senza però necessariamente averla praticata.

Il gruppo di ricercatori, condotto da Afrodite Pina, ha inoltre stabilito che c’è un collegamento tra l’inclinazione al revenge porn e specifiche caratteristiche psicologiche di chi la commette. Infatti, i dati di ricerca hanno evidenziato una correlazione positiva tra una forte propensione a commettere atti di “revenge porn” ed alti livelli di tratti appartenenti alla “Triade Oscura”, una triade di tratti personologici che include psicopatia, machiavellismo e narcisismo. In particolar modo, tratti psicopatologici come impulsività e mancanza di empatia erano connessi con più forza al perpetuare la “revenge porn”.

I ricercatori hanno concluso che sebbene la maggior parte dei partecipanti allo studio verosimilmente non commetterebbe atti di revenge porn nei confronti degli ex partner, c’è una generale accettazione di tali comportamenti. Questo ha importanti implicazioni, specialmente se si considera il ruolo di facilitatore che ha lo spettatore online nella rapida diffusione del materiale pornografico, tra cui anche quello prodotto con scopo vendicativo.

La sessualità nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica: analisi di 170 casi

L’ obesità rappresenta una importante situazione clinica, sia per l’ aumento esponenziale della sua incidenza sia per le comorbilità ad essa connesse.
Tra le problematiche che questa può determinare vi sono il disturbo di autoimmagine, le disfunzioni fisiche sessuali, i disturbi di ansia legati alla sessualità. I problemi legati all’ansia sembrano prevalere rispetto a quelli fisici nella genesi della disfunzione della sessualità. La chirurgia bariatrica sembra efficace per alleviare i problemi della sessualità. Presentiamo uno studio retrospettivo condotto su 170 cartelle di pazienti donne sottoposte a chirurgia bariatrica.

Tanini M*, Buganini C, Barni C**, Leone S***, Goglia L*, Bernacchi G*, Gensini F****, Florio P*.

* U. O. Ostetricia e Ginecologia Ospedale S. Jacopo Pistoia; Asl Toscana Centro
** Centro chirurgia Bariatrica Ospedale S. Jacopo Pistoia Asl; Toscana Centro
*** Direttore Scientifico Master in Psicosessuologia, Area Psicologica Elform E Learning.
**** Genetica Medica, Dipartimento Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche, Università di Firenze, AOU Careggi.

 

Summary

Obesity is an important clinical situation, both for exponential increase in its incidence and co­morbidities related to it. Among the problems that obesity can determine, there are self­image disorder, physical sexual dysfunctions and anxiety disorders related to sexuality. Anxiety-related problems seem to prevail over physical ones in the genesis of sexual dysfunction. Bariatric surgery appears to be effective for relieving the problems of sexuality. We now present a retrospective study of 170 folders on psychological therapies for women who are about to have undergoing bariatric surgery.

Il legame tra obesità e sessualità

La patologia dell’ obesità ha un aumento esponenziale nel mondo. In taluni stati ha caratteristiche di vera e propria epidemia.
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), descrive l’ obesità, come uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo.
Diversi studi hanno indagato la predisposizione genetica all’ obesità, tuttavia si ritiene che debba ancora essere considerata ad insorgenza multifattoriale e che esistano fattori genetici combinati in grado di favorire o meno la capacità di perdere peso e di mantenerlo basso.
La condizione di obesità, oltre a determinare l’ insorgenza di numerose comorbilità, determina una grave alterazione dell’ immagine corporea che a sua volta genera disturbi psicologici di tipo prevalentemente ansioso; in vari studi è stato dimostrato come nelle persone obese conviva una disturbata visione corporea.

Sono state effettuate molte ricerche volte ad indagare l’esistenza di una possibile relazione tra storia di problematiche sessuali, soprattutto nelle pazienti, con disturbi alimentari; è stata descritta una disposizione più negativa verso il sesso rispetto a gruppi di controllo, un maggior timore della sessualità, un minor appagamento sessuale.

Una ricerca ha dimostrato che le donne obese sono considerate sessualmente meno attraenti, sensibili, e capaci di avere desideri e comportamenti sessuali  rispetto alle donne normopeso.

Il legame tra peso corporeo e disturbi sessuali ha avuto diverse conferme, dai risultati di uno studio relativo agli esiti post chirurgia bariatrica, è stato indicato che dopo l’intervento chirurgico, ed il conseguente dimagrimento, il 50% dei pazienti ed il 75% dei loro partner riportavano un miglioramento nel livello di soddisfazione sessuale.

Materiali e metodi

Abbiamo effettuato una analisi retrospettiva della casistica dell’universo che accede a terapia psicologica presso il servizio di chirurgia bariatrica dell’Ospedale San Jacopo USL 3 di Pistoia nel periodo da settembre 2013 a marzo 2015.
Il percorso psicoterapico costituisce elemento indispensabile per avere indicazioni sull’intervento chirurgico.

L’universo di analisi è costituito da 196 pazienti, di cui 170 donne; nello stesso periodo sono stati osservati 26 uomini,. Si è deciso di inserirli all’interno dello studio per indagare eventuali differenze di genere, pur riconoscendo che la diversa numerosità dei due campioni non rende attendibili eventuali raffronti.
La casistica è stata elaborata con foglio di calcolo SPSS per la statistica descrittiva.

Risultati

  • Dati anagrafici:

L’età media delle pazienti giunte ad osservazione è di 47.7 anni pari a 47 anni ed 8 mesi, con un minimo di anni 17 ed un massimo di 68 per le femmine, mentre nella popolazione maschile il più giovane ha 26 anni ed il più anziano ha 63 anni.

Abbiamo poi indagato il contesto familiare, per quanto attiene allo stato civile nelle donne, 58 sono risultate single (34%), 80 sposate (48%), 2 donne si sono sposate due volte (1%,), 18 sono conviventi (11%), 4 separate (2%) , 4 divorziate (2%), 2 vedove (1%).

La familiarità per obesità è presente nella stragrande maggioranza dei casi, 152 persone (78%) hanno dichiarato di avere almeno un familiare affetto da obesità; il criterio adottato per considerare una familiarità per obesità è relativo ad ascendenti e genitori di ascendenti.

È interessante osservare che tutti gli appartenenti alla popolazione maschile hanno almeno un familiare affetto da obesità. Inoltre la popolazione maschile ha la costante di avere un padre assente, deceduto, che ha abbandonato il figlio, e se presente lo è scarsamente e comunque in modo affettivamente negativo.

In merito alla condizione lavorativa 4 persone (2%) sono risultate collocate in pensione, 34, pari al 17% sono casalinghe, 68, pari al 35% sono risultate disoccupate, 90, pari al 46% sono risultati collocati al lavoro.
Il numero dei disoccupati appare significativo rispetto al dato ISTAT che per il 2015 è 12,6%.

La popolazione che normalmente lavora svolge lavori per i quali non è richiesta nessuna qualificazione professionale nel 69% dei casi, nel 18% dei casi svolge una professione con medio livello di qualificazione professionale, il 13% svolge un lavoro in cui è richiesto un alto livello di qualificazione professionale.

  • Disturbo alimentare presente:

Nella casistica oggetto di osservazione sono presenti diversi disturbi alimentari, in 80 casi è presente un disturbo da alimentazione incontrollata, in 66 casi un grignotage, il grignotage si associa ad un BED in 37 casi, in 2 casi è stata osservata una Night Eating Sindrome che in altri due casi si associa ad un disturbo da alimentazione incontrollata.
In 48 casi non è presente nessun disturbo alimentare, sono soggetti di solito obesi fin dalla prima adolescenza, con alimentazione scorretta, sedentari.

Dei soggetti con disturbo alimentare, (148) 10 sono uomini, 138 donne.
Dei soggetti con disturbo alimentare, 74 hanno un disturbo di auto immagine, mentre nei soggetti che non presentano un disturbo alimentare (48), il disturbo di auto immagine è presente nella stragrande maggioranza dei casi (42 soggetti).
Il disturbo che prevale, senza sostanziali modificazioni, è il disturbo da alimentazione incontrollata.

L’ansia legata alla condizione di obesità è la caratteristica maggiormente presente nella casistica, è interessante osservare che nei soggetti in cui questa non è presente spesso non vi è un disturbo alimentare alla base della condizione di obesità.
L’ansia relativa alla condizione di obesità non è presente in 64 casi.

Per quanto riguarda la popolazione con disturbo alimentare si nota una certa concordanza con l’ansia da prestazione, nei casi in cui non è presente l’ansia da prestazione (96 soggetti), 54 non hanno disturbi alimentari.
Non vi sono correlazioni tra tipologia del disturbo alimentare e vaginismo o dispareunia e non vi sono differenze tra presenza o meno di disturbo alimentare e problematiche nell’ambito della sessualità.

  • Comorbilità dell’ obesità

Sono state indagate le comorbidità più importanti; queste sono risultate presenti in 137 pazienti; i livelli di incidenza non mostrano significativi discostamenti dipendenti dal genere; in diversi casi si associano più patologie.

  • Problematiche psicologiche e psichiatriche presenti nel campione

Nell’ ambito dei disturbi psichici (22 casi) si segnalano: 3 casi di disturbo ossessivo (14%), 5 casi di disturbo psichico riconducibile all’area schizoide (23%), 7 casi di disturbo bipolare (32%), 7 casi di disturbo borderline (31%).

Abbiamo indagato separatamente il problema depressione che è presente in 71 persone (36%) e dell’ ansia relativamente alla propria obesità, questa è risultata presente in 124 persone (63%).

La presenza di ansia relativamente alla condizione di obesità sembra prevalere nella popolazione femminile, 69% contro il 38% degli uomini.
Abbiamo poi indagato la presenza di disturbo di percezione dell’ auto immagine; quesoe è risultato presente in 116 casi (59%).
Nella popolazione maschile è risultato presente in 18 casi (69%); mentre nella popolazione femminile è risultato presente in 98 casi pari al 58%.
Si segnala il caso di un uomo, orientamento sessuale bisessuale, che ha manifestato ansia rispetto all’obesità e disturbo di auto immagine solo nelle interazioni con il sesso femminile.

Non si sono registrati casi di diversità di genere rispetto al sesso biologico.
Se analizziamo l’incidenza di disturbi psichici, ansia e depressione, 189 soggetti hanno manifestato almeno uno di questi.
Abbiamo poi indagato l’associazione tra disturbi della sfera psichica (disturbi psichici, ansia e depressione) e ansia per l’obesità.
Questa associazione è presente in 98 casi; mentre l’indagine successiva: associazione tra disturbi psichici e disturbi della sfera psichica (disturbi psichici, ansie e depressione) e disturbo dell’auto immagine, ha mostrato un’ associazione in 111 casi.

L’associazione tra ansia per l’obesità e disturbi psichici è presente nel 12% degli uomini, e nel 69% delle donne.
L’associazione tra disturbi psichici e disturbo dell’immagine corporea è presente nel 28% degli uomini e nell’87% delle donne.

  • Orientamento sessuale

Relativamente all’orientamento sessuale abbiamo osservato un solo caso in cui non è mai stata presente attività sessuale.
La stragrande maggioranza è eterosessuale, 2 donne sono omosessuali, 4 donne sono bisessuali, 6 uomini sono bisessuali.
Se analizziamo separatamente il dato dell’omosessualità, notiamo che questo è presente solo nella popolazione femminile, per quanto riguarda il dato relativo alla bisessualità, questa risulta essere prevalente nella popolazione maschile: 6 casi su 26 mentre nelle donne è presente in 4 casi su 169.

Per quanto attiene i rapporti omosessuali per la popolazione maschile bisessuale, non sono caratterizzati da una stabilità di ruolo ma sono di tipo versatile.
L’età media del primo rapporto sessuale è di 17 anni, con una media di 16 anni per gli uomini, valore minimo 14 massimo 20 anni, e di 18 anni per le donne, valore minimo 14 anni ed un massimo di 32 anni.
Per quanto attiene alla sfera della libido, abbiamo riscontrato una problematica di carenza della libido in 70 soggetti (36%). Nello specifico: 8 uomini su 26 (36%) e 62 donne su 170 (36%).

L’alterazione della libido si associa al disturbo di auto immagine in 56 casi, 6 casi nella popolazione maschile e 50 in quella femminile.
L’ obesità rende particolarmente difficile il rapporto sessuale, 66 persone hanno dichiarato di avere problemi durante i rapporti sessuali, relativamente alle loro dimensioni. È interessante osservare come il numero delle persone che hanno dichiarato di aver effettivamente problemi durante il rapporto (66, pari al 34%) sono in numero inferiore rispetto a quelle che hanno dichiarato di avere ansia durante i rapporti sessuali relativamente alla loro condizione di obesi (124 soggetti pari al 63%).

  • L’ ansia associata all’ obesità ed implicazioni sulla sessualità

La presenza di ansia relativa alla condizione di obesità e la difficoltà nei rapporti sessuali si associa in 62 casi.

Abbiamo quindi pensato di distinguere la presenza di ansia quotidiana legata alla condizione di obesità dall’ansia da prestazione relativamente al rapporto sessuale.
L’associazione tra ansia legata alla condizione di obesità, difficoltà nella copula ed ansia da prestazione è presente in 56 soggetti.

Il vaginismo è stato riscontrato in 34 donne ed è presente solo nella popolazione femminile eterosessuale.
Su 34 casi di vaginismo, questo si associa in 26 casi a difficoltà nella copula riferibili all’obesità.
La condizione di ansia relativa alla condizione di obesità correla al 100% con il vaginismo; mentre l’ansia da prestazione è presente in 24 soggetti affetti da vaginismo; 18 donne con vaginismo hanno anche un disturbo di auto immagine.
In 30 casi il vaginismo si associa a dispareunia.
La dispareunia è presente in 71 casi, di questi 38 si associano a difficoltà nella copula riferibile alla condizione di obesità, analogamente con il vaginismo la totalità dei casi di dispareunia correla con ansia relativa alla condizione di obesità, l’ansia da prestazione è presente in 46 casi, il disturbo di auto immagine si associa alla dispareunia in 44 casi.

Le donne affette da dispareunia sono single in 8 casi, in 50 sono o sono state sposate.
L’insoddisfazione per la sessualità è stata manifestata dall’81% dei maschi e dal 94% delle donne. Si segnala che due dei tre soggetti maschi che hanno dichiarato di essere soddisfatti della loro vita sessuale hanno un orientamento bisessuale.
L’insoddisfazione per la propria vita sessuale è presente in tutti gli uomini con disturbi erettili, ricordiamo che i soggetti con orientamento bisessuale hanno manifestato disfunzioni dell’erezione solo durante rapporti eterosessuali.
Per quanto riguarda la popolazione femminile, delle 11 donne che hanno mostrato soddisfazione 8 hanno riferito difficoltà nella copula, 9 ansia da prestazione, 8 dispareunia e 3 vaginismo.

La presenza di soddisfazione per la sessualità è più presente nelle donne single rispetto a quelle sposate. Ricordiamo che 58 sono risultate single (34%), 80 sposate (48%), 2 donne si sono sposate due volte (1%,) 18 sono conviventi (11%), 4 separate (2%), 4 divorziate (2%), 2 vedove (1%).
Il livello di soddisfazione verso la sessualità tende a migliorare post intervento, il 60% della popolazione generale (117 persone) ha dichiarato un miglioramento in tal senso.
La percentuale degli uomini che hanno mostrato un miglioramento è del 62% contro il 71% delle donne.

  • Una storia di abuso è più frequente nella popolazione obesa

Le persone che sono state oggetto di abuso sessuale sono 12, in prevalenza donne, 2 uomini.
Le persone di sesso maschile abusate sono single, bisessuali, non hanno figli, con desiderio di figli, hanno familiarità per obesità, disturbo di auto immagine, sono entrambi affetti da disturbo da alimentazione incontrollata, affetti da disturbi erettili, problematiche dell’eiaculazione, diminuzione della libido, ansia relativa alla condizione di obesità, ansia generalizzata, ansia da prestazione, difficoltà nella copula, affetti da depressione e non mostrano miglioramenti della sessualità dopo dimagrimento post chirurgia bariatrica.

Le dieci donne oggetto di abuso hanno tutte una relazione di coppia, 8 sono sposate, due sono conviventi, sono eterosessuali, hanno tutte figli (minimo 2, massimo 8), in 6 casi hanno familiarità per obesità, solo in un caso hanno vaginismo, la dispareunia è presente nel caso affetto da vaginismo ed in un altro, la difficoltà nella copula è riferita in 8 casi, l’ansia generalizzata, l’ansia legata alla situazione di obesità e l’ansia da prestazione si associano sempre e sono presenti in 8 casi; inoltre in 8 casi (gli stessi con disturbi riferibili all’ ansia) vi è stato un miglioramento della sessualità post intervento chirurgico.

  • I cambiamenti dopo dimagrimento

Tra le persone che hanno dichiarato un miglioramento della vita sessuale post intervento, 54 presentavano ansia da prestazione prima di sottoporsi alla chirurgia ed al conseguente dimagrimento.
Di questi 4 uomini (tra questi un caso di uomo bisessuale che riferiva problematiche solo con il sesso femminile) e 50 donne.

Sono invece 84 le persone che associano un miglioramento della sessualità post chirurgia bariatrica con precedente ansia legata alla loro vita da obeso.
L’associazione tra miglioramento della sfera sessuale e difficoltà nella copula legate alle dimensioni corporee precedenti alla chirurgia è presente in 38 casi; tra questi due sono uomini.
La correlazione tra disturbo di auto immagine e miglioramento della sessualità post chirurgica è presente in 76 soggetti di cui nessun uomo.
Anche nel caso di disturbi della libido, nella condizione di obesità, nessun uomo ha visto un miglioramento della propria vita sessuale, mentre le donne che hanno associato al dimagrimento un miglioramento (precedentemente affette da disturbo della libido) sono state 40.
Le donne affette da vaginismo che hanno avuto un miglioramento post operatorio del vissuto sessuale sono state 20, analogamente le donne che hanno notato un miglioramento e che prima erano affette da dispareunia sono state 40.

Il dimagrimento rende infedeli?

I casi di infedeltà dopo aver ottenuto il dimagrimento successivo alla chirurgia bariatrica sono stati 50, tra questi si segnala l’alta incidenza di uomini 10 su 50.
I casi di infedeltà post intervento si associano sempre all’ammissione di un miglioramento della vita sessuale dovuta al dimagrimento post operatorio.

L’ obesità e la psicoterapia

Il periodo di psicoterapia preoperatorio è stato in media di 3 anni con un massimo di 4 anni ed un minimo di 1 mese, si registra che i tempi più brevi di terapia si registrano nella popolazione maschile, periodo minimo un mese, periodo massimo 3 anni.
La terapia post operatoria è stata seguita per un massimo di 3 anni e per un minimo di un mese.
La media di mesi è di circa 16. Esistono diversi casi che non si sono sottoposti a psicoterapia post intervento.

Risultati e conclusioni

  • L’ obesità: problema femminile?

Il primo elemento di riflessione deve scaturire dall’enorme differenza tra maschi e femmine.
La maggiore incidenza di donne può trovare una sua spiegazione nel fatto che l’ideale corporeo femminile si rifà maggiormente a stereotipi di magrezza; mentre non sussiste un giudizio parimenti negativo verso l’obesità maschile, che può addirittura essere tollerata in presenza di altri elementi di attrazione.
I dati presenti in letteratura non confermano una differenza di incidenza di obesità così ampia.
L’età della popolazione oggetto dello studio evidenzia che tali persone giungono all’osservazione dei sanitari piuttosto tardivamente (età media intorno ai 47 anni); ricordiamo che l’obesità nasce, nella stragrande maggioranza dei casi, in epoca periadolescenziale.
Relativamente allo stato civile, risulta interessante osservare l’alta incidenza dei single. Questo dato sembra confermare l’alta difficoltà di intraprendere relazioni sentimentali dovuta all’ostacolo ad avere relazioni interpersonali.
È interessante osservare che spesso i maschi obesi hanno una partner obesa, al contrario le donne obese hanno un partner normopeso.

  • Problematica fisica o disturbo d’ ansia?

Riguardo alla difficoltà di avere relazioni sentimentali, oltre all’aspetto fisico, gioca un ruolo estremamente importante, il dato che noi abbiamo definito “ansia legata alla condizione di obesità”; questo disturbo ansioso è dato dalla continua insicurezza che l’obeso ha nei contesti sociali, dovuta non solo all’auto immagine, ma soprattutto alle quotidiane difficoltà che incontra nella vita sociale, come doversi confrontare con l’ingombro del suo corpo o l’ipersudorazione che genera odori sgradevoli.

Riguardo alla situazione familiare, la popolazione oggetto di studio, ha mostrato una maggiore predisposizione verso la sfera riproduttiva, in particolare la componente femminile.
La tendenza ad avere una predilezione ad avere figli ed in numero superiore a quello che avviene nei normopeso, potrebbe avere una correlazione dovuta al fatto che gli obesi provengono spesso da famiglie con presenza di più fratelli e sorelle.
La familiarità per obesità ha mostrato un dato interessante soprattutto nella popolazione maschile, infatti tutti gli obesi avevano almeno un familiare obeso, risultato non presente nella popolazione femminile, anche se nella grande maggioranza dei casi (74%) anche le obese hanno almeno un familiare con seri problemi di peso.

Sempre a carico della popolazione maschile, deve far riflettere che tutti gli uomini oggetto dell’osservazione non hanno interazioni affettivamente positive con il padre.
Nella maggioranza dei casi, la figura paterna è risultata assente, deceduta precocemente, o protagonista di abbandono della famiglia, o quando presente è risultato essere violento o comunque affettivamente disfunzionale.
I maschi obesi che non hanno avuto figli, a differenza delle donne, non mostrano interesse per questo argomento, eccezione un caso di uomo con orientamento bisessuale.

Il livello di scolarità è più basso rispetto alla popolazione normopeso, questo potrebbe correlare con il disagio di interazione con i compagni e con la scuola in genere, dato dalla presenza dell’ansia per la condizione di obesità, questo problema ansioso potrebbe essere alla base della decisione di interrompere precocemente il percorso di studi.

La condizione di ansia trova un sicuro peggioramento nelle derisioni da parte dei compagni di cui la persona obesa può essere fatto oggetto.
Anche la condizione lavorativa mostra alcune differenze rispetto alla popolazione normopeso, è interessante osservare l’alta incidenza di disoccupazione; dato che colpisce se riflettiamo che questa popolazione ha dimostrato di accettare anche lavori con bassa qualificazione professionale.
Su questo argomento riteniamo che sia fondamentale la mole corporea che determina l’impossibilità di svolgere alcune professioni, il basso livello di scolarizzazione, ma in molti casi l’ansia legata alla condizione di obeso contribuisce a scoraggiare il soggetto rispetto alla possibilità di mettersi in gioco per un’opportunità professionale.

La stragrande maggioranza degli obesi ha un disturbo ansioso relativo alla propria corporeità, inoltre il contesto sociale tende ad orientarli verso un auto-isolamento, è normale quindi osservare una maggiore incidenza di disturbi psichici, tra i quali la depressione riveste un ruolo estremamente importante.

  • Uomini e donne con adattamento sessuale diverso

Gli uomini con orientamento bisessuale non hanno relazioni stabili omosessuali, ma queste sono caratterizzate da rapporti sessuali occasionali.
Potrebbe essere la difficoltà nell’ottenere una vita sessuale eterosessuale che li spinge a trovare soddisfazione in rapporti con persone dello stesso sesso. Con la chirurgia bariatrica, e con il dimagrimento, gli uomini oggetto dello studio, non hanno più presentato bisessualità.
Anche il fatto che i disturbi erettili e l’ansia da prestazione siano presenti solo nel sesso con partner eterosessuale potrebbe correlarsi ad una diversa importanza che il soggetto obeso bisessuale attribuisce al sesso con le donne. Le donne omosessuali tendono a ricercare una relazione oltre al sesso, mentre le donne bisessuali tendono a rispecchiare quanto detto per la popolazione maschile.

  • La libido nella popolazione obesa

Per quanto attiene alla sfera della libido nella popolazione femminile il disturbo può originare da molteplici fattori, in particolare nelle adolescenti. Possono entrare in gioco fattori di tipo sociale quali problematiche di natura estetica. Possono inoltre coesistere fattori di tipo cognitivo-comportamentale come problematiche emozionali e sensoriali, originate da un sentimento di vergogna nei confronti del proprio corpo, che portano al disprezzo per la propria immagine corporea. La conseguenza di tutto ciò è la tendenza a sottrarsi al rapporto sessuale o a viverlo comunque in modo negativo.

Negli uomini la carenza della libido, oltre a quanto detto per le donne, può essere influenzata anche da frustrazioni dovute a fallimenti sessuali, negli obesi i disturbi erettili sono più frequenti che nella popolazione normopeso. Nei maschi obesi spesso si hanno bassi livelli di testosterone, l’ormone che regola fra l’altro anche il desiderio sessuale, e quando l’ obesità è di grado elevato la sua carenza può avere come conseguenza un calo della libido. In chi presenta problematiche di eccesso di peso è poi frequentissimo il diabete tipo 2, che rappresenta già di per sé una possibile causa di disfunzione erettile. Inoltre, l’eccesso di peso è molto spesso associato all’ipertensione arteriosa e ad altre patologie cardiovascolari su base aterosclerotica, secondarie soprattutto alla dislipidemia, situazioni nel corso delle quali la disfunzione erettile non è infrequente.

A sostegno della concausa psicologica e in contrasto della possibile etiologia clinica, relativamente ai disturbi erettili, dobbiamo ricordare che i pazienti obesi bisessuali, hanno mostrato disturbi solo con le donne. Questo dato potrebbe avvalorare la tesi della “patologia vascolare dei corpi cavernosi” se il ruolo omosessuale fosse sempre di tipo passivo, cioè in questa dinamica l’obeso, non riuscendo a penetrare le donne, si orienterebbe verso una sessualità compensatoria che non prevede l’utilizzo del pene disfunzionale.
Al contrario, i bisessuali oggetto dell’osservazione riescono ad avere un ruolo attivo con partner omosessuale.

  • La sessualità con un corpo ingombrante

È interessante osservare come il numero delle persone che hanno dichiarato di aver effettivamente problemi durante il rapporto (66, pari al 34%) sono in numero inferiore rispetto a quelle che hanno dichiarato di avere ansia durante i rapporti sessuali relativamente alla loro condizione di obesi (124 soggetti, pari al 63%).
Ancora una volta, si conferma come l’ansia per la propria condizione di obeso, sia il fattore che maggiormente influenza la sessualità dei soggetti osservati.

L’associazione tra: ansia legata alla condizione di obesità, difficoltà nella copula ed ansia da prestazione è presente in 56 soggetti.
Su 34 casi di vaginismo, questo si associa in 26 casi con difficoltà nella copula riferibili all’obesità; la condizione di ansia relativa alla condizione di obesità correla al 100% con il vaginismo; mentre l’ansia da prestazione è presente in 24 soggetti affetti da vaginismo; 18 donne con vaginismo hanno anche un disturbo di auto immagine.
La correlazione più importante è quella tra il vaginismo, presente in 34 soggetti e la dispareunia, infatti in 30 casi il vaginismo si associa a dispareunia.

La catena che regola la sessualità degli obesi, potrebbe essere, da un punto di vista esclusivamente fisico, determinata da: difficoltà della copula, dispareunia, vaginismo; da un punto di vista psichico, ansia per la condizione di obesità, vaginismo.
È vero che la catena ansia, dispareunia, vaginismo, ha mostrato un maggior numero di associazioni.
L’insoddisfazione per la sessualità è stata manifestata dall’81% dei maschi e dal 94% delle donne.

Per quanta riguarda la popolazione femminile delle 11 donne che hanno mostrato, invece, soddisfazione sessuale, 8 hanno riferito difficoltà nella copula, 9 ansia da prestazione 8 dispareunia e 3 vaginismo.
Appare contrastante l’asserzione di soddisfazione sessuale in donne che poi presentano un’incidenza così alta di problematiche.
Una possibile spiegazione di questa espressione di soddisfazione, in presenza di problematiche sessuali, potrebbe essere suggerita dal fatto che le persone che maggiormente dichiarano la propria soddisfazione sono single; il livello di soddisfazione infatti, correla negativamente con la stabilità del vicolo con il partner.

In questa ottica le obese, in particolare, potrebbero identificare come soddisfazione sessuale, il numero di partner che riescono ad avere, la qualità del singolo rapporto sessuale tenderebbe così a perdere importanza.
In questa dinamica, avrebbe molta più importanza il riuscire a procurarsi un partner sessuale piuttosto che avere una buona interazione di coppia.
Non a caso il livello di soddisfazione sessuale mostra un miglioramento dopo dimagrimento post intervento.

Per quanto riguarda la popolazione maschile è interessante osservare il fenomeno della bisessualità, della presenza di depressione e dell’assenza di miglioramento della sessualità post chirurgica e come questi correlio sempre con storie di abuso.
Le dieci donne oggetto di abuso hanno tutte una relazione di coppia, a differenza degli uomini che sono single. Sono tutte eterosessuali.
La popolazione maschile appare anche meno disposta a sottoporsi a psicoterapia, sia prima che dopo l’intervento.

Questo dato potrebbe suggerire che gli uomini, ottenuto il dimagrimento e la soddisfazione di interazioni eterosessuali, si ritengono soddisfatti, le donne mostrano una maggiore disponibilità alla psicoterapia forse per superare le problematiche ansiose, depressive e il vissuto di disturbo di auto immagine che le ha afflitte per una buona parte della loro vita.

Diversity Management: uno sguardo al caso degli older workers

La gestione delle risorse umane con approccio orientato al diversity management significa sapere riconoscere le differenze nel mondo del lavoro e saper agire di conseguenza, in particolare il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare i bisogni della categoria degli older workers nel contesto lavorativo.

 

Gestire la diversità nel contesto lavorativo: il diversity management

Il fenomeno sociodemografico dell’ invecchiamento, che caratterizza l’Italia e più in generale l’intero continente europeo, è diventato un tema di spiccata rilevanza sociale. L’ invecchiamento è il frutto della vincita di numerose sfide sorte con l’avanzare dell’età media. In questo senso, anche il mercato del lavoro attraversa fasi di cambiamento in relazione alla composizione della sua forza lavoro. Questi cambiamenti inducono alla necessità di fare i conti con l’avanzare dell’età della forza lavoro e l’incontro di quest’ultima con le successive generazioni (Peeters & Van Emmerik, 2008).

In questo scenario si inserisce il concetto di diversity management, ossia la gestione e valorizzazione delle diversità negli ambienti di lavoro, intesa come l’insieme di politiche, pratiche e azioni che hanno l’obiettivo di valorizzare le diversità degli individui nelle organizzazioni/luoghi di lavoro. La gestione delle risorse umane con approccio orientato al diversity management, dunque, significa sapere riconoscere le differenze di professionalità, di approccio cognitivo e di orientamento etico dei diversi segmenti del mondo del lavoro e saper agire di conseguenza. La diversità si manifesta negli stili di lavoro o nelle diverse esigenze delle persone e saper gestire queste differenze attivamente, facendo leva su di esse per aumentare la competitività dell’azienda, concretizza le possibilità di successo.

Questo elaborato ha dunque l’obiettivo, in un ottica basata sul diversity management, di analizzare i bisogni della categoria degli older workers nel contesto lavorativo, al fine di strutturare un’ipotesi di intervento volto all’integrazione e alla valorizzazione degli stessi.

 

Gli older workers e il concetto di anzianità negli ambienti di lavoro

Il termine anglofono older workers, è usato per descrivere i lavoratori che vanno dai 40 ai 75 anni a seconda del differente campo di studi nel quale viene utilizzato (Bourne, 1982; Warr 2000). Per meglio comprendere le peculiarità che caratterizzano questo target di lavoratori (in relazione al fatto che il range al quale il termine older workers si riferisce è molto amplio) è necessario approfondire i significati attribuiti al concetto di invecchiamento. La distinzione del concetto di invecchiamento a seconda della condizione alla quale ci riferiamo, è fondamentale per una comprensione a 360° dei bisogni degli older workers. Una delle motivazioni che spinge alla distinzione di differenti significati dell’età è che i cambiamenti biologici, fisici e psichici, nonostante la loro natura normativa, possono essere indipendenti dall’età cronologica. A tal proposito, in letteratura è sempre più attuale il dibattito in merito ai criteri da utilizzare per poter definire un lavoratore “anziano” (Schalk & van Veldhoven, 2010).

In questo senso, un importante contributo è stato offerto da dal lavoro di Sterns e Doverspike (1989 in Kooij et al., 2008) i quali distinguono cinque differenti approcci alla definizione dell’invecchiamento al lavoro:

  • Età cronologica: riferita all’età “da calendario” che distingue i lavoratori giovani da quelli senior basandosi solamente sull’anno di nascita.
  • Età funzionale o basata sulla performance: riferita alla performance lavorativa. Quest’età fa riferimento agli aspetti che riflettono lo stato di salute, le capacità psichiche, le performance e le abilità cognitive degli individui.
  • Età soggettiva o psicosociale: riferita alla percezione soggettiva e sociale dell’età. L’età soggettiva indica quanto anziani gli individui appaiono o si sentono anche in relazione ai comportamenti che mettono in atto (Kaliterna et al., 2002). La percezione sociale dell’età include le norme applicate agli individui, all’occupazione alla compagnia o alla società. L’età attribuita dalla società, agli individui, per categorizzarli come anziani e le attitudini sociali nei confronti degli older workers come ad esempio gli stereotipi.
  • Età organizzativa: si riferisce al tempo che un individuo passa all’interno di un’organizzazione o svolgendo un tipo di lavoro, in altre parole all’anzianità di servizio maturata durante gli anni. Con questa concettualizzazione ci si riferisce inoltre all’aggiornamento del background posseduto dai lavoratori, ovvero all’obsolescenza delle qualifiche e delle abilità possedute.
  • Il concetto di ciclo di vita dell’età: questo approccio desume molti aspetti da altri approcci ma si caratterizza per l’introduzione della possibilità di cambiamenti nel comportamento in qualsiasi fase e momento della vita. Tuttavia, tali cambiamenti devono essere influenzati dai tre seguenti aspetti ossia: a) cambiamenti biologici o aspetti ambientali/contestuali i quali sono fortemente correlati con l’età; b) influenze dovute alle esperienze vissute e c) una carriera non lineare caratterizzata, anche, da cambiamenti personali. Per poter verificare l’efficacia di questo approccio, è fondamentale tenere in considerazione le varie fasi di vita vissute dal soggetto e la propria condizione familiare (Lange et al., 2006; Sterns and Doverspike, 1989).

Sicuramente l’età cronologica rappresenta il parametro più utilizzato per definire un lavoratore “anziano” anche se nella comunità accademica sono state avanzate riflessioni critiche circa la l’insufficienza di questo criterio per guidare le ricerche sull’invecchiamento della popolazione al lavoro (Sterns & Miklos, 1995; Wolf et al., 1995; Settersten & Mayer, 1997;). Come affermano Kooij et al. (2007), infatti, gli individui con la stessa età possono ritrovarsi ad occupare differenti posizioni lavorative ed essere in condizioni psicofisiche diverse. A partire dalla mancata considerazione della possibilità che differenti “età” possano coesistere nella storia individuale di ciascuno di noi, alcuni bias e generalizzazioni possono avere luogo.

 

Il rapporto tra età e lavoro: il problema degli stereotipi

L’invecchiamento della forza lavoro nei contesti organizzativi produce una serie di risultati di valenza sia positiva che negativa sul benessere lavorativo e sul percorso di carriera di ciascun lavoratore maturo. Per ciò che concerne gli aspetti di valenza negativa, spesso esaminati in un ottica di Diversity Management, sono molteplici gli stereotipi e i pregiudizi che gli older workers si trovano ad affrontare, oltre ad una serie di “discriminazioni”, di natura lavorativa, relative al fatto di essere targettizzati in una fascia d’età non più produttiva.

Gli studi sulle abilità cognitive e performance degli older workers condotti da Warr (1994; 2001), rivelano la tendenza progressiva al deterioramento dell’intelligenza fluida (individuare relazioni, trarre inferenze) e nel trattamento delle informazioni complesse così come in attività di problem solving, rapidi tempi di reazione, risorse attentive. Tuttavia, nel processo di assunzione questi risultati come generalizzabili a tutta la popolazione anziana, è importante sottolineare che essi fanno riferimento a compiti astratti che non tengono conto dell’expertise e delle variabili di contesto fondamentali per la prestazione (es. lavoro in gruppo, presenza di sostegno sociale, funzione dei supervisori, ecc.).

A tal proposito, alcuni studi mostrano che le credenze e i comportamenti derivanti, costituiscono un ostacolo nello svolgimento del proprio lavoro per i lavoratori anziani in quanto risulta essere un problema talmente diffuso e radicato da oscurare i contribuiti positivi che essi forniscono o possono fornire all’interno dell’azienda (Toppan, 2014). Questi stereotipi, infatti, si ripercuotono sfavorevolmente sulle scelte aziendali e sulle politiche gestionali, penalizzando la partecipazione attiva ed il contributo degli older workers al buon funzionamento dell’organizzazione.

Secondo Shore et al. (2009), ad esempio, la discriminazione o perlomeno il trattamento ingiusto riservato agli older workers presenta ripercussioni negative circa le decisioni che vengono prese per gli individui in relazione ai processi reclutamento o ai salari. Prendendo in considerazione l’analisi portata avanti da Shore et al. (2009), infatti, le differenze sono riscontrabili soprattutto nei gruppi di lavoro nei quali la presenza di membri giovani sovrasta quella di membri più anziani.

Più nello specifico, alcune delle differenze stereotipate che dividono i lavoratori giovani da quelli più anziani riguardando ad esempio l’idea che le persone più anziane siano meno produttive, flessibili, creative e difficili da formare (Kulik, Perry, & Bourhis, 2000; Ringenbach & Jacobs, 1994), più rigide e resistenti al cambiamento (Rosen & Jerdee, 1976, 1977) e al contrario, i lavoratori più giovani abbiano un rapporto più confidenziale con la tecnologia e i suoi cambiamenti.

 

Stereotipi e self-efficacy

Sempre nell’ottica del Diversity Management, rispetto al rapporto che intercorre tra l’esistenza di stereotipi nelle organizzazioni e l’autoefficacia percepita dai lavoratori è utile tenere in considerazione un recente studio realizzato da Chiesa et al. (2016). Secondo gli autori, gli stereotipi possono essere intesi come esperienze vicarie, che d’accordo con Bandura (1997), vengono processate dagli individui e integrate con diverse informazioni rispetto alle loro capacità come la riuscita, la persuasione verbale e gli stati psicologici ed emozionali, per costruire quella che viene chiamata autoefficacia. Secondo Bandura (1997), il senso di autoefficacia corrisponde alle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. Seguendo questa linea, alcuni degli aspetti che potrebbero portare i lavoratori maturi a percepire un senso di emarginazione e minore autoefficacia, potrebbe essere la differenza circa la possibilità di accedere alla formazione e allo sviluppo, rispetto ai lavoratori più giovani (Maurer, 2001 in Chiesa et al. 2016). I risultati ottenuti dallo studio, infatti, confermano che gli stereotipi legati all’età degli individui nelle organizzazioni, posso essere descritti in termini di credenze circa la produttività, affidabilità e adattabilità degli older workers, condizionando il trattamento riservato a questi ultimi.

Alla luce delle considerazioni fatte fino ad ora attraverso l’approccio del Diversity Management, emerge il bisogno di favorire la comunicazione tra le diverse generazioni. In questo modo, si andrebbe ad intervenire sulle credenze che affettano gli older workers e che li conducono a mettere in atto comportamenti controproducenti che potrebbero influire negativamente sulla motivazione nel continuare a lavorare.

In un’ottica di Diversity Management l’attenzione sul tema dei lavoratori senior, che ormai costituiscono una presenza non più marginale bensì rilevante sul mercato del lavoro, richiede perciò la valorizzazione degli aspetti positivi legati alla diversità e soprattutto alle conoscenze degli aspetti reali che caratterizzano gli individui. Tuttavia, per raggiungere questo risultato è fondamentale acquisire consapevolezza di quali credenze, opinioni, “considerazioni” e pregiudizi, spesso riduttivi, vive e subisce questa categoria di lavoratori.

L’ approccio cognitivo-comportamentale tra i banchi di scuola: l’ Educazione Razionale Emotiva nel contesto scolastico

Uno dei primi approcci preventivi, che è stato poi ampiamente applicato all’interno del contesto scolastico, è quello dell’ Educazione Razionale Emotiva, essa è una strategia preventiva che mira a favorire il benessere emotivo del bambino e dell’adolescente.

Maddalena Malanchini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Contesto scolastico e sviluppo della persona

La scuola rappresenta per il bambino un “luogo di vita” in quanto contribuisce fortemente alla crescita e sviluppo della persona. Non si limita a dare un’istruzione, ma consente anche di comunicare e di costruire insieme, condividendo un percorso di vita (Oliverio, 2000).

Gli anni della scolarizzazione costituiscono un importante momento per lo sviluppo delle competenze sociali. Attraverso le relazioni con i coetanei, i bambini e gli adolescenti hanno l’opportunità di acquisire molte abilità, che possono essere apprese soltanto all’interno di questa specifica tipologia di rapporto: la capacità di leggere gli stati emotivi, le intenzioni e le motivazioni degli altri, le modalità di interazione, il rispetto e le regole della convivenza sociale (Schaffer, 1998).

Il contesto scolastico ha come compito principale quello di favorire l’adattamento degli alunni, e per fare questo deve aiutarli a rispondere sia alle sfide connesse all’apprendimento, sia a quelle legate alla gestione del proprio comportamento e alla costruzione delle relazioni con i pari, promuovendo lo sviluppo di abilità di tipo emotivo e sociale (Marini & Menesini, 2012).

 

I programmi di promozione della salute mentale nel contesto scolastico

Pertanto il contesto scolastico viene sempre più visto come un valido punto d’accesso per proporre interventi precoci e progetti di prevenzione per i ragazzi (Mifsud & Rapee, 2005). Infatti la presenza di programmi di promozione della salute mentale appositamente sviluppati per l’ambito scolastico determina un aumento delle opportunità di prevenzione e delle possibilità di accesso sia alle cure di base sia a servizi specialistici per i bambini che presentano difficoltà psicopatologiche. Inoltre tali programmi contribuiscono a ridurre il bisogno di interventi psichiatrici in fase acuta e smorzano lo stigma associato al trattamento (Armbruster, 2002).

Soprattutto in Paesi come gli Stati Uniti o l’Australia, la scuola è stata utilizzata come contesto preferenziale per intervenire con bambini e adolescenti a vari livelli: dalla promozione della salute, alla prevenzione primaria, fino alla presenza più recente dei servizi di salute mentale all’interno delle scuole; le diverse tipologie di programmi hanno condotto ad esiti positivi (Mifsud & Rapee, 2005).

Tuttavia ci sono alcune difficoltà riguardo all’implementazione dei programmi per il benessere psicologico all’interno del contesto scolastico, prima di tutto la fatica a collaborare tra personale scolastico e personale sanitario (Waxman et al. 1999) e la scarsa valutazione dell’efficacia degli interventi (Rones & Hoagwood, 2000; Evans, 1999).

Per questo motivo è importante che gli interventi proposti nelle scuole siano prima di tutto interventi dei quali è stata testata l’efficacia e che contengano all’interno degli stessi una parte dedicata alla valutazione degli esiti, al fine di proporre interventi sempre più ad hoc.

 

L’ Educazione Razionale Emotiva tra le materie scolastiche

Uno dei primi approcci preventivi, che è stato poi ampiamente applicato all’interno del contesto scolastico, è quello dell’ Educazione Razionale Emotiva (ERE). La prima sperimentazione avvenne negli anni ‘70 presso la scuola privata “The Living School”, che era presente all’interno dell’Istitute for Rational Emotive Therapy di New York di Albert Ellis, dove l’ Educazione Razionale Emotiva era considerata una normale materia curriculare al pari delle altre. Questa esperienza durò circa un decennio, dopodiché si decise di promuovere l’applicazione dell’ Educazione Razionale Emotiva anche in altre scuole dello Stato di New York e degli stati limitrofi. Negli anni ‘80 Mario Di Pietro e collaboratori hanno iniziato ad adattare l’ Educazione Razionale Emotiva al contesto scolastico italiano (Di Pietro & Dacomo, 2007).

L’ Educazione Razionale Emotiva è una strategia preventiva che mira a favorire il benessere emotivo del bambino e dell’adolescente; può essere intesa sia come prevenzione primaria che secondaria, in quanto interviene prima che si manifestino forme di disagio oppure sulle iniziali manifestazioni di malessere. E’ un percorso didattico derivato dalla Terapia Razionale-Emotiva, che si concretizza in un lavoro di “Alfabetizzazione Emozionale”, allo scopo di insegnare l’ “ABC” delle emozioni a bambini e ragazzi e in particolare il collegamento tra pensieri e emozioni, per favorire reazioni emotive equilibrate e funzionali (AA VV, 2013).

Una peculiarità dell’ Educazione Razionale Emotiva rispetto ad altri programmi che lavorano sulla dimensione emotiva, è l’accento posto sull’apprendimento di abilità metacognitive: mira a sviluppare la capacità di comprendere i meccanismi cognitivi che sono alla base dell’emozione, in modo da poter agire su di essi e quindi operare una trasformazione delle reazioni emotive spiacevoli e disfunzionali (Di Pietro & Dacomo, 2007).

 

Obiettivi ed efficacia della Educazione Razionale Emotiva nel contesto scolastico

Nel dettaglio, gli obiettivi con i bambini della scuola primaria comprendono: il riconoscimento corretto delle emozioni, l’espansione del vocabolario emotivo, la distinzione tra emozioni utili e dannose, la differenza tra pensieri e stati emotivi, l’individuazione del proprio “dialogo interno” in situazioni emotivamente connotate, il legame tra pensieri ed emozioni e l’apprendimento di un repertorio di pensieri utili. Con i ragazzi della scuola secondaria, oltre a questi obiettivi di base, si mira anche a sviluppare una maggiore competenza metacognitiva: riconoscere le principali categorie di pensieri dannosi (pretese assolute, valutazioni catastrofiche, bassa tolleranza alla frustrazione, valutazioni globali di sé o degli altri), le caratteristiche che rendono un pensiero dannoso e imparare a trasformare tali pensieri (Di Pietro & Dacomo, 2007; AA VV, 2013).

Essendo ormai applicata da qualche decennio, sono stati svolti studi relativi all’efficacia dell’ Educazione Razionale Emotiva, che dimostrano come sia maggiormente adatta per prevenire ed agire sulle problematiche di tipo internalizzato, quali ansia, paura, tristezza, fragilità dell’autostima, rispetto ai disturbi esternalizzanti (Di Pietro & Dacomo, 2007).

In particolare, una review di 21 studi sull’efficacia dell’ Educazione Razionale Emotiva applicata in vari contesti ha sottolineato come nell’88% delle ricerche si notava una diminuzione dei punteggi relativi all’irrazionalità, nell’80% degli studi risultava diminuire l’ansia e nel 71% emergeva un aumento dei punteggi della dimensione “locus of control interno”. Inoltre nel 50% degli studi risultava che l’ Educazione Razionale Emotiva era efficace sulla dimensione dell’autostima e sui problemi comportamentali (Hajzler & Bernard, 1991). Recenti studi sottolineano come l’ Educazione Razionale Emotiva possa essere applicata anche per la prevenzione di nuove forme di malessere tra gli adolescenti, come il Gioco d’Azzardo Patologico, purché debitamente riadattata e abbinata alla divulgazione di informazioni specifiche sulla patologia (Todirita & Lupo, 2013).

 

Programmi per la gestione dell’ansia nel contesto scolastico

Di recente è cresciuto l’interesse per l’applicazione di programmi specifici per la gestione dell’ansia all’interno del contesto scolastico, sia in termini di prevenzione che di intervento precoce su situazioni a rischio (Misfud & Rapee, 2005).

Uno studio che ha valutato l’efficacia di un programma di prevenzione primaria per i disturbi d’ansia in infanzia è quello condotto da Lowry-Webster e collaboratori, che ha coinvolto in prima persona gli insegnanti, i quali hanno svolto il programma all’interno delle ore curricolari. I risultati sono stati incoraggianti, seppur limitati: i sintomi ansiosi mostravano un decremento significativo secondo una delle due scale di rilevazione utilizzate (Spence Children’s Anxiety Scale), ma non secondo l’altra (Revised Manifest Anxiety Scale) (Lowry-Webster et al., 2001).

Per quanto riguarda gli interventi precoci con gli alunni a rischio di sviluppare un disturbo d’ansia, è stato svolto uno studio controllato su ben 1.786 studenti dai 7 ai 14 anni, selezionati in quanto avevano ottenuto alti punteggi per sintomatologia ansiosa ma non per comportamenti dirompenti o difficoltà di apprendimento, in base al giudizio dei loro docenti. Il trattamento è stato erogato a scuola e consisteva in 10 sessioni per ciascun ragazzo e 3 incontri individuali per i genitor (Dadds et al., 1997). Al re-test non era emersa alcuna differenza significativa tra il gruppo sperimentale che aveva ricevuto il trattamento e il gruppo di controllo; tuttavia, il follow-up a sei mesi ha rilevato che il 16% del gruppo trattato presentava un disturbo d’ansia contro il 54% del gruppo di controllo. Stranamente le differenze si sono appianate al follow-up di dodici mesi, ma sono poi riemerse al follow up di due anni (Dadds et al., 1999).

Una ricerca successiva di Misfud e Rapee ha tentato di applicare il modello di intervento del “Cool Kids Program” per la riduzione dei sintomi ansiosi all’interno del contesto scolastico (Misfud & Rapee, 2005). Il Cool Kids Program è un modello cognitivo-comportamentale che deriva da precedenti programmi per il trattamento dei disturbi d’ansia e prevede una serie di attività da svolgere con il bambino (10 sessioni, comprendenti 37 attività) e con i genitori (altrettanti 10 moduli). Il programma comprende una fase di psicoeducazione sulla natura dell’ansia, una fase di ristrutturazione cognitiva per combattere i pensieri ansiosi, un’esposizione graduale agli stimoli che elicitano nel soggetto risposte ansiose e lo sviluppo di abilità complementari quali abilità sociali, assertività, gestione delle prepotenze subite (Lyneham et al., 2014).

La ricerca è stata svolta su una popolazione di 425 bambini tra gli 8 e gli 11 anni a rischio di sviluppare un disturbo d’ansia e appartenenti a una condizione socio-economica svantaggiosa; il campione è stato suddiviso tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo (questi ultimi assegnati a una lista di attesa). I bambini sottoposti al Cool Kids Program hanno partecipato a 8 sessioni in piccoli gruppi, condotte dagli psicologi e dai docenti insieme; i genitori in parallelo hanno partecipato a due incontri formativi. I risultati hanno dimostrato che i bambini assegnati alla condizione sperimentale hanno riportato una riduzione significativa nei sintomi ansiosi, rispetto a coloro assegnati alla lista d’attesa; tali differenze si sono mantenute a distanza di quattro mesi, sia secondo i punteggi dei questionari somministrati ai ragazzi che dei questionari compilati dai docenti (Misfud & Rapee, 2005).

Per quanto riguarda i Disturbi Esternalizzanti, caratterizzati da aggressività, problemi nella concentrazione, impulsività e iperattività, sono stati messi a punto programmi di prevenzione e di intervento specifici. E’ facile capire infatti come bambini con alti livelli di aggressività espressa e di problemi di condotta creino maggiori difficoltà di gestione nel contesto scolastico, possano impattare sull’ambiente di apprendimento dei propri compagni e sui loro stessi risultati accademici (Kupersmidt et al.,2000). Inoltre i comportamenti aggressivi e dirompenti (ad esempio un atteggiamento di sfida nei confronti dell’autorità, mentire, imbrogliare) possono compromettere seriamente il benessere emotivo e relazionale degli alunni e turbare il clima della classe (Barth et al., 2004).

Ci sono evidenze che insegnanti supportivi, che impiegano di frequente i rinforzi positivi (come la lode), strategie di insegnamento proattive e che evitano una disciplina rigida, possano giocare un ruolo estremamente importante nel promuovere lo sviluppo di abilità emotive e sociali e nel prevenire l’insorgenza di problemi comportamentali nei bambini (Burchinal et al., 2000).

Gli interventi di prevenzione nel contesto scolastico, il cui scopo è diminuire la prevalenza di comportamenti antisociali nei giovani, sono stati quotati come un modalità di intervento efficace e che minimizza i costi (Jenson, 2006; Powell et al, 2011). Le ricerche condotte a cavallo tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del XXI secolo hanno dimostrato che l’applicazione di strategie cognitive in classe può diminuire la presenza di comportamenti dirompenti e aggressivi e rinforzare le competenze sociali e i comportamenti prosociali (Daunic et al., 2006; Mytton et al., 2006).

Infatti molti programmi preventivi utilizzano un modello di intervento cognitivo-comportamentale che si focalizza sulla modificazione dei processi socio-cognitivi distorti o deficitari dei bambini: in particolare, le distorsioni nel ricordo e nella percezione dei comportamenti degli altri, l’eccessiva rilevanza assegnata alle soluzioni non verbali dirette all’azione, la scarsa rilevanza data alle soluzioni verbali assertive durante la risoluzione di un problema. Tali programmi hanno come obiettivo anche il potenziamento delle competenze sociali ed emotive degli alunni, per migliorare le loro competenze relazionali e di auto-regolazione (Eyberg e al., 2008).

 

I protocolli clinici riadattati per il contesto scolastico

Al fine di metter in atto programmi sempre più efficaci, alcuni psicologi clinici e ricercatori hanno cercato di riadattare al contesto scolastico interventi inizialmente sviluppati e attuati in contesti clinici, inizialmente come programmi di trattamento precoce per gli studenti a rischio, ma poi sempre più come programmi di prevenzione universale per tutta la classe (Misfud & Rapee, 2005).

Un esempio è il programma “The Incredible Years Program” di Webster-Stratton e collaboratori, originariamente sviluppato per il trattamento di bambini dai 3 ai 7 anni con diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio o con un esordio precoce di Disturbo della Condotta, che è stato riadattato da Barrera e collaboratori in modo tale che gli insegnanti potessero utilizzarlo come intervento precoce di prevenzione universale all’interno delle classi (Barrera et al.,2002).

Un altro programma che è stato di recente applicato nel contesto scolastico è il “Coping Power Program” (CPP) di J. Lochman e collaboratori. Il Coping Power Program è un modello multi-sistemico e multi-modale per il trattamento di minori con Disturbi del Comportamento di età compresa tra gli 8 e 16 anni, che prevede un percorso per i figli (che si sviluppa in 34 sessioni di gruppo) e uno per i genitori (che si articola in 16 sessioni). Originariamente sviluppato per i contesti clinici, può essere applicato anche in ambito preventivo (Lochman et al.,2012; Muratori et al., 2011, 2015). E’ un programma evidence-based, che ha dato prove di efficacia nel ridurre i comportamenti aggressivi e l’abuso di sostanze nei ragazzi anche a distanza di tre anni (Lochman e Wells, 2002) e che è stato tradotto e debitamente riadattato al contesto culturale italiano (Muratori et al., 2015).

Il Coping Power Program si focalizza sullo stabilire regole di gruppo e rinforzi contingenti, generare soluzioni alternative, considerare le conseguenze di soluzioni alternative relative a situazioni sociali problematiche, gestire e fronteggiare la rabbia (utilizzando auto-istruzioni ed esercizi di rilassamento), identificare in modo accurato le situazioni sociali in cui vengono messi in atto atteggiamenti provocatori, aumentare le abilità sociali, scoprire modalità più funzionali per entrare a fare parte di nuovi gruppi di coetanei, utilizzare modalità positive come la negoziazione e la cooperazione nelle interazioni con i pari (Muratori et al., 2015).

Uno studio del 2015 di Muratori et al., svolto nel contesto toscano, ha applicato per la prima volta il Coping Power Program come intervento preventivo di classe all’interno di due scuole primarie. Sono state coinvolte in totale nove classi, di cui cinque sono state assegnate casualmente al Coping Power Program e quattro al gruppo di controllo. La versione di classe del Coping Power Program è stata debitamente riadattata e ha previsto 24 sessioni della durata di 60-75 minuti, con frequenza settimanale in orario curricolare. Ha coinvolto tutti gli alunni invece di un piccolo gruppetto di essi con problemi di aggressività conclamata, come previsto invece dal protocollo originale, anche a partire dall’idea che i bambini che avrebbero mostrato alti livelli di coinvolgimento nel programma sarebbero potuti essere modelli positivi per i coetanei maggiormente reattivi (Muratori et al., 2015).

Per misurare l’efficacia del programma è stato utilizzato il Questionario sui Punti di Forza e di Debolezza (SDQ) – Versione Insegnante di Goodmann (Goodman, 1997), somministrato prima dell’inizio dell’intervento e un mese dopo il termine dello stesso. Il questionario SDQ consente di raccogliere informazioni sul minore riguardo alle seguenti aree: iperattività e problemi di attenzione, problemi di condotta, difficoltà emotive, comportamenti prosociali, rapporti con i pari; inoltre raggruppa le cinque sottoscale su una scala totale di stress globale.

I risultati dello studio mostrano una diminuzione dei punteggi per l’indice totale di difficoltà e per la scala iperattività/disattenzione all’interno delle classi appartenenti al gruppo sperimentale, così come un aumento dei punteggi della scala relativa al comportamento prosociale; tali modificazioni dei punteggi non sono state riscontrate invece nelle classi appartenenti al gruppo di controllo (Muratori et al., 2015).

In uno studio successivo sono stati analizzati gli effetti a medio termine, con un follow up a distanza di un anno. Dai risultati emerge che le classi che hanno ricevuto il Coping Power Program presentano una probabilità significativamente inferiore di mostrare problemi di iperattività e/o disattenzione e presentano una minor occorrenza di comportamenti problematici; inoltre tali classi hanno mostrato un miglioramento significativo dei voti scolastici. Pertanto i risultati mostrano che la versione riadattata del Coping Power Program, come programma di prevenzione universale, produce cambiamenti positivi per quanto riguarda le difficoltà comportamentali dei bambini e ciò può determinare un importante effetto generalizzato sul rendimento scolastico (Muratori et al., in press).

A fronte delle ricerche sopracitate, è importante sottolineare come i programmi di prevenzione e di intervento sulle principali manifestazioni psicopatologiche in età evolutiva attuati in contesto scolastico non possano sostituire il bisogno di trattamenti specifici in ambito clinico per i bambini e i ragazzi che presentano disturbi conclamati (Misfud & Rapee, 2005). Tuttavia gli interventi sia di prevenzione primaria (promozione del benessere) sia di prevenzione secondaria (screening diagnostico e interventi precoci) consentono di raggiungere un’ampia fetta di popolazione in età evolutiva, in modo che insegnanti, educatori, psicologi scolastici possano intervenire precocemente, abbattendo i costi e la durata dei trattamenti e riducendo il disagio esperito dai minori e dalle famiglie.

Le persone attraenti vengono pagate di più? Sfatata la teoria del Beauty Premium

Recentemente, Kanazawa, in collaborazione con Still, dell’università del Massachusetts a Boston, ha evidenziato, grazie come l’ammontare dello stipendio di ognuno è influenzato da fattori che vanno oltre il mero aspetto fisico di una persona e che anche le diverse caratteristiche che, in termini di differenze individuali, rendono una persona unica rispetto alle altre, giocano un ruolo importante. 

Più nello specifico, la ricerca, pubblicata dal Journal of Business and Psychology, ha messo in luce come siano le persone più intelligenti ed in salute, con anche più alti livelli di Coscienziosità ed Estroversione e minori tratti di Nevroticismo, a percepire salari più ingenti.

 

Secondo gli studi precedenti chi è più attraente guadagna di più: il Beauty Premium

Tradizionalmente, gli economisti hanno largamente argomentato e documentato l’esistenza del cosiddetto “Beauty premium”, contrapponendolo all’ “Ugliness penalty”, per quanto riguarda l’ammontare dello stipendio. Indagini basate sulla popolazione americana e canadese, ad esempio, avrebbero mostrato come le persone fisicamente attraenti guadagnino generalmente di più rispetto ad un cittadino medio, mentre, dall’altro lato, le persone esteticamente non piacevoli guadagnino meno (Fletcher, 2009; Judge et al., 2009). Inoltre, anche avvocati o laureati con Master of Business Administration (MBA) apparentemente intraprendono carriere migliori e guadagnano di più se fisicamente più attraenti (Biddle & Hamermesh, 1998; Frieze et al., 1991).

Il nuovo studio non conferma i risultati sulla correlazione tra aspetto fisico e successo economico

Nel loro studio, Kanazawa & Still hanno analizzato i dati provenienti da un campione rappresentativo della popolazione americana, che era già stato reclutato all’interno dello studio longitudinale Add Health (National Longitudinal Survey of Adolescent Health) e già valutato in modo preciso ed esaustivo per quanto riguarda l’aspetto fisico lungo un periodo di tempo di tredici anni.

Dalle analisi è emerso che le persone non vengono necessariamente discriminate sulla base dell’aspetto fisico. Ciò ha permesso agli autori di criticare e sfatare la teoria del “Beauty premium”. Infatti, nel momento in cui nelle analisi venivano considerati fattori legati alle differenze individuali quali salute, intelligenza e caratteristiche personologiche (cfr. Five Factor Model, Costa & Widiger, 1994), la correlazione tra l’aspetto fisico e il successo economico veniva a decadere.

È, inoltre, emerso per la prima volta un cosiddetto effetto di “Ugliness premium”, grazie al quale sembra che le persone veramente non attraenti guadagnino molto di più rispetto a quelle solo relativamente poco attraenti. Ulteriori indagini sono necessarie per comprendere la natura peculiare delle persone veramente non attraenti, in quanto contraria alle relazioni emerse tra bellezza, salute e intelligenza.

L’idea di bellezza e il rapporto con l’estroversione e il successo economico

L’idea sottostante quanto rilevato dagli autori è che la bellezza a livello di aspetto fisico, più che essere meramente una questione superficiale perché la bellezza sta solo “negli occhi di chi guarda”, può essere visto come un aspetto oggettivo e quantificabile caratterizzante una persona, tanto quanto può esserlo il peso o l’altezza. In questo senso, l’aspetto esteriore verrebbe considerato come un indice di benessere a livello genetico ed evolutivo, correlato con il livello di salute in età adulta (Thornhill, & Gangestad, 1993), nonché come un indice generale di intelligenza (Kanazawa, 2011).

In questo senso, Kanazawa postula che in una persona le caratteristiche di personalità più adattive potrebbero emergere come risultato di una tendenza intrinsecamente umana a rispondere ad un certo tipo di caratteristiche fenotipiche stabili, come, ad esempio, l’aspetto fisico. In altri termini, secondo questa teoria, bambini fisicamente attraenti sarebbero più propensi ad esperire nel corso della propria infanzia feedback positivi derivanti da interazioni interpersonali e, così facendo, a sviluppare personalità più estroverse e propositive rispetto a quanto non accada a bambini fisicamente meno belli (Lukaszewski & Roney, 2011).

Quindi, i lavoratori più in salute, più intelligenti e con caratteristiche di personalità favorevoli sarebbero autenticamente più produttivi e, di conseguenza, guadagnerebbero anche di più, facendo così sembrare, ad un livello più superficiale, che siano le persone esteticamente più attraenti a guadagnare di più. Questo è proprio ciò che è emerso dallo studio di Kanazawa & Still: l’effetto del “Beauty premium” sull’ammontare dello stipendio si annulla nel momento in cui vengono considerate variabili intervenienti quali salute, benessere e personalità. Il “Beauty premium” e l’ “Ugliness penalty” tanto sostenuti dalla comunità scientifica, pertanto, sarebbero solo fenomeni illusori, emersi in studi in cui non sono stati presi in considerazione tratti correlati all’aspetto fisico: le persone più attraenti guadagnerebbero di più non perché meramente più attraenti, ma perché più in salute, più intelligenti, estroversi e coscienziosi.

100 cose da sapere per volare sereni: come affrontare il volo senza paura – Recensione

Alcune ricerche riportano che almeno il 10% della popolazione mondiale ha giurato che non volerà mai più! Nei paesi sviluppati, tra il 2 e il 3 per cento delle persone soffrono di un’intensa e irrazionale paura di volare. Questo disturbo è chiamato aerofobia o aviofobia e colpisce sia chi non ha mai volato sia chi vola spesso o chi raramente. Si può sperimentare durante tutta la durata del viaggio o solo in alcuni momenti ad esempio al decollo o in fase di atterraggio.

Peter: “Vieni con me!”

Wendy: “io…non so volare”.

Peter: “ te lo insegno io e ti insegno anche a cavalcare i venti e via che si va…”

Dal film di P. J. Hogan

 

“Volare per te è una prova di coraggio? O hai deciso che non volerai mai, punto e basta!”

Allora t’ invitiamo a compilare il test che gli autori (un pilota e uno psicoterapeuta) hanno ideato appositamente e posto tra le prime pagine.

Valutate la vostra paura e scoprite a quale profilo appartenete:

A: volo perché devo

B: che ansia volare!

C: Odio volare!

D : Non volerò mai e poi mai!

 

Poi mettetevi comodi sulla vostra poltrona …per ora e iniziate la lettura di questo agevole ed accurato manuale per affrontare la vostra paura del volo.

Per prima cosa scoprirete che non siete gli unici a soffrirne.

 

La paura di volare, i sintomi associati e il bisogno di controllo

Alcune ricerche riportano che almeno il 10% della popolazione mondiale ha giurato che non volerà mai più!

Nei paesi sviluppati, tra il 2 e il 3 per cento delle persone soffrono di un’intensa e irrazionale paura di volare.

Questo disturbo è chiamato aerofobia o aviofobia e colpisce sia chi non ha mai volato sia chi vola spesso o chi raramente.

Si può sperimentare durante tutta la durata del viaggio o solo in alcuni momenti ad esempio al decollo o in fase di atterraggio.

Tra i sintomi si sperimenta un aumento della pressione sanguigna, tachicardia, iperventilazione, disturbi gastrici e attacchi di panico.

Chi ne soffre di solito sa bene che l’aereo è uno dei mezzi di trasporto più sicuri, ma non è in grado di liberarsi della paura di un incidente, in verità ciò che si teme è la paura di perdere il controllo su se stessi. Già perché staccarsi da terra e affidare totalmente la propria vita nelle mani di uno sconosciuto, seppure esperto pilota, è davvero arduo!

Soprattutto per coloro a cui piace programmare tutto e prevedere anche gli imprevisti, in modo da sapere esattamente cosa accadrà momento per momento.

Volare, non avere la terra sotto ai piedi, è per molti perdere totalmente il controllo di sé e questo è davvero spaventante.

Come fare allora? Si può andare in vacanza in Italia, è tanto bella e non è necessario prendere l’aereo…si può rinunciare ad alcune sfide professionali che implichino trasferte oltre oceano…… Diventa più difficile quando è proprio necessario prendere un aereo : per obbligo lavorativo o per amore!

Questo libro è quel che fa per voi, vi può aiutare.

 

Ciò che accade al cervello quando si prova ansia e alcuni suggerimenti per superare la paura di volare

Alberto Pellai e Giuseppe Lapenta hanno studiato e descritto per voi strategie per gestire efficacemente la vostra paura di volare.

Il testo illustra cosa succede nel nostro cervello (anzi nel vostro cervello, perché chi scrive adora viaggiare e volare!) quando sperimentate paura, ansia, panico o fobia. Come il cervello vi fa sperimentare queste emozioni, quali ordini impartisce al resto del corpo e voi quali pensieri fate, cosa vi dite nella vostra testa. Scoprirete che alcuni pensieri innescano la paura di volare ed altri ancora la mantengano, nonostante sappiate che è statisticamente più pericoloso viaggiare in auto che in aereo, che i piloti sono bene addestrati e che il loro primo obiettivo è la sicurezza.

Nel testo troverete tutto quello che è utile sapere sul funzionamento dell’aereo e sull’equipaggio e delle figure professionali addette alla sicurezza del volo. Non solo il pilota dunque ma anche chi atterra controlla i vostri bagagli per la vostra sicurezza.

E poi ancora vi saranno illustrate tutte le fasi di un volo: prima del volo, l’imbarco, il rullaggio, il decollo, la salita, la discesa e avvicinamento e atterraggio e infine parcheggio e sbarco.

Una parte di questo che ho trovato molto utile e chi vi raccomando riguarda la preparazione al viaggio. Occorre preparare la valigia qualche giorno prima per decidere con calma quali pensieri mettere (pensieri razionali e calmanti) e quali pensieri togliere (irrazionali e spaventanti). Occorre anche arrivare con largo anticipo all’aereoporto : “datevi il  tempo di vivere tutte le fasi della partenza con sufficiente dose di tranquillità e rilassatezza. Questo permetterà alla mente di rimanere nel “qui ed ora” (…) non dimenticate che l’ansia è scatenata da un surplus di stress.”

Gli autori hanno pensato a canzoni, musiche e film adatti al tema del volo ed altri suggerimenti per gestire la vostra ansia.

E se ora vi state chiedendo:

“ E se un fulmine colpisce l’aereo?

E se il carburante finisce?”. Non preoccupatevi troverete anche queste risposte!

Allacciatevi la cintura e buona lettura!

 

Psicologia del lavoro: di cosa si occupa lo psicologo in azienda

La Psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane è una branca della psicologia legata all’ambito lavorativo.  Essa si occupa delle relazioni tra i diversi soggetti lavorativi e dei contesti organizzativi, evidenziando i fattori personali, interpersonali e situazionali che agiscono nella costruzione delle relazioni individuali e collettive.

 

La psicologia del lavoro studia il comportamento delle persone in una determinata situazione lavorativa e nello svolgimento della loro attività professionale. L’obiettivo della psicologia del lavoro è promuovere in maniera specifica il benessere lavorativo.

Lo psicologo del lavoro, dunque, svolge diversi compiti all’interno di una azienda, tutti volti al raggiungimento del  benessere aziendale e individuale che andrà ad incidere su un migliore rendimento lavorativo. Lavorare come psicologi del lavoro significa applicare i modelli e le teorie della psicologia all’ambiente di lavoro per garantire delle buone condizioni psicologiche e promuovere l’identità lavorativa del cliente attraverso il career counseling.

Lo psicologo del lavoro, nello specifico, si occupa di selezione del personale, formazione e sviluppo, orientamento, consulenza per la carriera, marketing, sviluppo di competenze e apprendimenti lavorativi, analisi dei fattori di ostacolo alle prestazioni efficaci e sicure e di relazione fra dipendente e azienda.

 

Lo psicologo aziendale

La psicologia del lavoro in ambito aziendale si occupa di una vasta gamma di funzioni. Gli psicologi delle organizzazioni  o aziendali analizzano e migliorano il funzionamento dei gruppi di lavoro e delle relazioni tra gruppi,  intervengono sulla leadership per individuare l’efficacia dell’azione direttiva, contribuiscono all’ incremento della qualità delle relazioni sindacali e dei processi di negoziazione, esaminano ed intervengono sui fattori psicosociali che influenzano il funzionamento organizzativo, cooperano affinché i processi di cambiamento organizzativo abbiano un sostenibile impatto sulla vita delle persone, contribuiscono all’arricchimento dei sistemi di comunicazione interna ed esterna, etc.

Lo psicologo all’interno di una azienda valuta la situazione attuale e il potenziale dei soggetti lavorativi che la costituiscono. In questo modo esamina l’efficacia nella messa in atto di una serie di strategie future e interviene su eventuali errori che potrebbero causare, nel tempo, danni economici o relazionali.

 

Psicologia del lavoro: formazione e selezione del personale

Lo psicologo del lavoro notoriamente svolge la selezione del personale, individuando soggetti con competenze specifiche in grado di ricoprire un determinato ruolo all’interno di una azienda. Quindi, individua curriculum vitae di persone che mostrano abilità adatte allo svolgimento del ruolo preposto e, per questo, cerca sempre di identificare e unire adeguatamente caratteristiche personologiche e professionali che possano garantire stabilità e successo all’organizzazione.

Lo psicologo, per svolgere il suo compito, utilizza strumenti quali interviste e questionari grazie ai quali è possibile valutare tutti coloro che intendono entrare a far parte di una determinata azienda. Inoltre, adopera i seguenti strumenti per realizzare sondaggi in merito all’efficacia di un prodotto o per individuare la presenza di eventuali disagi. Lo psicologo aziendale, però, non svolge solo questa funzione, infatti, è in grado di motivare e condurre efficacemente un gruppo al raggiungimento degli obiettivi prefissati oltre a occuparsi di formazione, rivolgendosi sia al personale interno all’organizzazione, sia a tutti coloro che gravitano intorno all’azienda a diverso titolo. La formazione professionale, attualmente, è fondamentale non solo per quel che riguarda le nuove metodologie utilizzabili sul campo, ma anche nella prevenzione di fenomeni quali il mobbing o il bullismo. Quindi, lo psicologo si occupa anche di prevenzione e sicurezza in quanto, oltre ai rischi fisici, ogni azienda e tutti i suoi dipendenti sono soggetti ai rischi psicosociali, tra cui lo stress lavoro-correlato, che nel tempo induce a un basso rendimento lavorativo e conseguenti perdite economiche.

Inoltre, errori dovuti alla comunicazioni tra le diverse componenti aziendali potrebbero arrecare disagi, per questo lo psicologo valuta e analizza le comunicazioni interne, tra i dipendenti, ed esterne, rivolte alla clientela, prestando attenzione sia alla modalità di interazione con l’utenza che alla pubblicità. Egli, inoltre, analizza il contesto sociale in cui agisce l’azienda, e pone particolare attenzione alle esigenze e agli interessi dei dipendenti. Di conseguenza, lo psicologo deve pianificare accuratamente gli obiettivi a breve e lungo termine da raggiungere.

 

Psicologia del lavoro: il coaching aziendale

La psicologia del lavoro si occupa anche di coaching aziendale che consiste nell’affiancare gli individui per aiutare un singolo, o un gruppo, a raggiungere il massimo livello delle proprie capacità prestazionali. Per ottenere questo obiettivo è necessario definire le aree in cui intervenire e gli obiettivi da perseguire. Il coaching aziendale e manageriale può essere richiesto da qualunque professionista per migliorare le proprie performance nella vita professionale e rappresenta inoltre un veicolo di cambiamento e di crescita che permette di ottenere risultati immediati ed estremamente produttivi per un’azienda.

 

Le soft skill aziendali

Le soft skill sono delle competenze, definite appunto “soft” prettamente inerenti il funzionamento psicologico e si differenziano da quelle che sono le competenze “hard”, ovvero competenze specifiche e tecniche di una determinata mansione lavorativa.

Le soft skill possono essere divise in diverse categorie:

–  ragionamento: riguarda le capacità di problem solving, analisi e sintesi, la comunicazione e la gestione dei rapporti interpersonali, la collaborazione e la negoziazione;

– iniziativa: si riferisce alla proattività, orientamento al risultato, pianificazione, organizzazione, gestione del tempo e delle priorità, decisioni;

– manageriali: si rivolgono alla gestione e motivazione dei collaboratori e alle capacità di delega o di utilizzo delle proprie competenze.

Esistono inoltre delle competenze trasversali, che abilitano all’utilizzo delle soft skill e sono: flessibilità, tolleranza allo stress, tensione al miglioramento continuo, innovazione.

Nello specifico il compito dello psicologo aziendale è anche quello di promuovere e individuare le competenze di una azienda per raggiungere gli obiettivi con il minimo sforzo e il massimo rendimento. Per questo sono necessari soggetti con competenze sempre più specifiche e affinate per ricoprire i possibili ruoli in una data organizzazione.

 

Gruppo, dinamiche relazionali e organizzazione

In una azienda è importante il clima che si respira in relazione al tipo di gruppo di lavoro che si crea. Quindi, comprendere il clima organizzativo e strutturale dell’azienda è utile per interpretare e sviluppare profondi cambiamenti strutturali rispetto alle personalità degli individui facenti parte dell’azienda.

Sicuramente capire quali sono le caratteristiche di comunicazione e sviluppo del gruppo aiuta a individuare le strategie di funzionamento più idonee. Di conseguenza, è indispensabile valutare, con appositi strumenti, le dinamiche relazionali e le affinità elettive che si instaurano.

I gruppi possono avere caratteristiche diverse che impattano differentemente sul benessere aziendale. Se si creano gruppi coesi e coinvolgenti si ottiene una buona unità interna derivante dalla presenza di mediazione, disponibilità, flessibilità, equità e riconoscimento, tutte caratteristiche che facilitano il  perseguimento di un obiettivo lavorativo.

Se invece si creano gruppi che presentano pressione, stress, poca chiarezza comunicativa si potrebbe manifestare uno stato di malessere, frutto di dinamiche di opposizione come l’insofferenza, il logoramento, il fastidio e l’equivoco, che potrebbero portare l’azienda al default.

In tal senso, lo scopo della psicologia del lavoro è migliorare l’interazione tra gruppi e risolvere dinamiche gruppali non funzionali al raggiungimento dello scopo e opposte alla mission dell’azienda.

 

Psicologia del lavoro: la gestione della leadership

Altro aspetto di cui si occupa la psicologia del lavoro è la leadership. Lo scopo è individuare la giusta strategia attuativa che possa facilitare l’interazione tra i dipendenti per raggiungere senza ostacoli gli obiettivi previsti dalla struttura.  Per realizzare tutto questo è necessario ottenere una buona integrazione tra i gruppi e una adeguata comunicazione tra le diverse componenti.

Esistono molti stili di Leadership che dipendono dalle caratteristiche di personalità integrate ad aspetti professionali posseduti da colui che ricopre questo ruolo. Stili diversi di leadership portano a strategie aziendali differenti e a gruppi con caratteristiche particolari. Chiaramente, una Leadership motivante, creativa e coinvolgente potrebbe portare entusiasmo e fervore tra i dipendenti che lavorerebbero con maggiore interesse. Al contrario, una leadership invischiate o opportunistica potrebbe ottenere un basso consenso tra i dipendenti, diventando istigante e auto-distruttiva non trasmettendo fiducia al gruppo poiché incapace di difendersi dalle oppressioni.

E’ necessario precisare che utilizzare uno stile di leadership oppure un altro non può essere accidentale, ma dipende dalle diverse dinamiche di gruppo che si creano all’interno dell’azienda. Quindi, ogni leadership deve essere considerata come adeguata a quel gruppo, per questo le strategie devono essere scelte in maniera mirata, considerando le diverse componenti e volgendo anche uno sguardo all’esterno ovvero alla collettività. Ogni stile, se è utile per l’interno potrebbe essere dannoso per la personalità collettiva e viceversa.

La psicologia del lavoro, dunque, interviene sulla leadership individuando la strategia migliore atta a facilitare l’interazione tra le diverse parti per favorire il benessere aziendale e di conseguenza lavorativo.

Aspetti e conseguenze psicologiche nelle malattie dermatologiche della pelle: focus sulla Psoriasi

La psoriasi è da tempo riconosciuta per la sua connessione con effetti potenzialmente negativi sulla salute mentale. Quantificare il rapporto tra la psoriasi e le principali conseguenze psicologiche è importante al fine di identificare di quali disturbi di salute mentale i pazienti affetti da psoriasi possono essere particolarmente suscettibili. La psoriasi è spesso associata, oltre che a un disagio psicologico, anche alla presenza di stress cronico. Allo stress dunque è riconosciuto un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento di numerosi disturbi dermatologici.

Genoveffa Malizia, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Psicodermatologia: la relazione tra mente e corpo

Le diverse patologie che coinvolgono la pelle possono avere delle ripercussioni sia sul piano psicologico sia sul piano sociale, pertanto risulta necessario tenere conto di questi aspetti tanto nella diagnosi, quanto nel trattamento e nella prognosi. (Mercan & Altunay, 2006).

In psicodermatologia, una disciplina che ha come oggetto di studio la relazione tra sistema nervoso, cognizioni, emozioni, personalità ed aspetti biologici e patologici, il nucleo fondante è la connessione cervello-pelle con linee di ricerca finalizzate alla determinazione dei risultati dell’interazione tra questi due organi (Jafferany, 2007)

Il primo lavoro che compare in letteratura su questo argomento è stato proposto da  Ingram (1933), il quale considera la pelle come un’estensione della mente e si spinge ad affermare, che tra gli esami che si propongono di indagare la personalità debba esserci anche un esame delle condizioni esterne della pelle.

A livello clinico più di un terzo dei pazienti dermatologici presentano condizioni alle quali sono spesso associati fattori di natura psicologica (Savin & Cotterill, 1992).

I dermatologi infatti, ricorrono spesso, per i loro pazienti, a consultazioni psichiatriche, essendoci prove a favore che i fattori psicologici possano giocare un ruolo di fondamentale importanza in malattie croniche come la psoriasi (Capoore et al., 1998; Humphreys & Humphreys, 1998; Attah Johnson & Mostaghimi, 1995).

Grazie anche all’affermarsi del modello bio-psico-sociale, l’attenzione dei ricercatori si è spostata su altri aspetti più prettamente di interesse della psicologia come le strategie di coping, le configurazioni di personalità, gli stili di vita, la percezione della malattia ed infine il produttivo filone di ricerca riguardante la qualità della vita.

Nel corso degli anni si sono succedute alcune proposte di classificazione dei disturbi psicodermatologici. Non essendoci ancora un accordo univoco sulla nosografia di seguito verranno presentate quelle più significative.

Koo & Lee (2003) propongono una classificazione che prevede:

  • Disturbi psicofisiologici: condizioni in cui il ruolo dei fattori psicosociali è rilevante e concorre all’esordio e/o al mantenimento del disturbo (es. Psoriasi, dermatite atopica).
  • Disturbi Psichiatrici con sintomi dermatologici: problemi a carico della pelle insorgono a causa del disturbo mentale (es. dermatiti in pazienti con disturbo ossessivo compulsivo).
  • Disturbi dermatologici con sintomi psichiatrici: questa categoria include pazienti che sviluppano una sintomatologia psichiatrica dal momento che sono affetti da una patologia dermatologica.

Locala (2009) invece integra la proposta di classificazione precedente, utilizzando però una prospettiva più psicologica/psichiatrica, che prevede:

  • Fattori psicosociali che influenzano malattie dermatologiche (es. psoriasi).
  • Disturbi psichiatrici primari che si manifestano attraverso sintomi o lamentele cutanee (es. tricotillomania).
  • Disturbi psichiatrici secondari emergenti dall’affrontare malattie cutanee (es. sintomi ansiosi e /o depressivi).
  • Disturbi psichiatrici in comorbilità con disturbi della pelle.

L’ipotesi di partenza è che i pazienti con psoriasi abbiano un maggior rischio di diagnosi clinica di depressione, ansia, e tentato suicidio o ideazione suicidaria  rispetto alla popolazione generale.

 

Caratteristiche della psoriasi e il suo impatto sulla qualità della vita

La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica a carico della pelle, non contagiosa, che colpisce il 1,5-3% della popolazione (Griffiths & Barker, 2007), sia uomini che donne. Coinvolge infatti 130 milioni di persone nel mondo, 2 milioni solo in Italia (ADIPSO, Associazione Difesa Psoriasici), e può insorgere a tutte le età, ma in genere (nel 75% dei casi) il suo esordio avviene prima dei 40 anni.

Questa patologia si manifesta con la comparsa di placche eritematose (rosse), squamose ed argentee, dovute ad un aumento anomalo della produzione di cellule dello strato più esterno della pelle, in genere distribuite simmetricamente sui gomiti, ginocchia, cuoio capelluto e talvolta sulle unghie, ma tutte le zone della cute possono esserne interessate. Nel 20% dei pazienti le lesioni sono diffuse a vaste aree della superficie corporea e nel 10-15% coesiste un’artropatia che causa dolore ed incapacità a svolgere le normali attività quotidiane assumendo così una funzione invalidante (Schon et al., 2005).

L’evoluzione generale della malattia è imprevedibile, ha un andamento cronico-recidivante, nel quale si alternano spontaneamente a fasi di riacutizzazione, un miglioramento e talvolta anche persistenti remissioni.

La psoriasi è anche da tempo riconosciuta per la sua connessione con effetti potenzialmente negativi sulla salute mentale. Quantificare il rapporto tra la psoriasi e le principali conseguenze psicologiche è importante al fine di identificare di quali  disturbi di salute mentale i pazienti affetti da psoriasi possono essere particolarmente suscettibili.

La psoriasi è spesso associata, oltre che a un disagio psicologico, anche alla presenza di stress cronico. Allo stress dunque è riconosciuto un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento di numerosi disturbi dermatologici (Al’badie, Kent & Grawkrodger, 1995).

In due dei più imponenti studi, che hanno coinvolto circa 6000 soggetti psoriasici in Norvegia, Zachariae et al. (2002) e Zachariae et al. (2004), hanno esaminato il ruolo dello stress nell’esordio della patologia: il 66% dei soggetti esaminati riferiva un peggioramento dei sintomi psoriasici in concomitanza con l’aumento dello stress percepito. Inoltre, la maggior parte dei soggetti che riferivano di essere “stress-reactors” erano femmine e presentavano una maggiore gravità della sintomatologia, alti livelli di connessione stress-psoriasi e un peggioramento nella qualità della vita.

La patologia però sottopone costantemente il soggetto a stress distruggendo le quotidiane routine con una conseguente ridotta capacità di perseguire valori e obiettivi di vita provocando un effetto negativo sulla qualità sulla vita (Choi & Koo, 2003; Kiebert et al., 2002; Husted et al., 2001; Krueger et al., 2001; Rapp, et al., 1999; Finaly & Coles, 1995).

La psoriasi incide infatti negativamente sulla qualità di vita delle persone che ne sono colpite, soprattutto nelle forme più estese o in quei casi dove le lesioni sono in zone del corpo esposte come le mani e la faccia, o particolari come la zona genitale (Mease & Menter, 2006).

Il dolore cutaneo colpisce circa il 42% dei pazienti mentre il disagio cutaneo circa il 37% (Yosipovitch, et al., 2000; McKenna, et al., 1997). Il dolore e il disagio cutaneo interferiscono negativamente con funzioni come il sonno, l’umore e la qualità di vita (Ljosaa, et al., 2010).

Purtroppo, la Psoriasi è anche una patologia incurabile e ha una caratteristica recidivante, per cui molti pazienti soffrono e vivono esperienze di vita fortemente stressanti e connesse a stress psicologico; di conseguenza riferiscono una pessima qualità di vita comparabile a quella di altri disturbi cronici. La credenza principale di una sottopopolazione di pazienti psoriasici è quella secondo cui la psoriasi sia appunto esacerbata dallo stress psicologico (Fordham, Griffiths & Bundy, 2012).

Notoriamente stimoli di diversa natura quali traumi fisici, infezioni od eventi psicologicamente stressanti sono in grado di agire come fattori inducenti la comparsa o l’aggravamento della psoriasi.

Sebbene nella gran parte dei casi la psoriasi è una malattia che di per sé  non rappresenta un rischio per la vita, l’impatto sulla sfera psicosociale è di grande rilevanza ed è paragonabile a quello prodotto da altre malattie come artrite reumatoide, cancro e patologie cardiache croniche (Van de Kerkhof  et al. 2002)

 

Ipotesi eziologiche della psoriasi: aspetti neurobiologici, fattori temperamentali e gli stressors

Sul piano patogenetico la psoriasi viene considerata una patologia determinata dall’interazione tra fattori genetici predisponenti e fattori ambientali scatenanti/aggravanti, come traumi, infezioni, radiazioni solari, farmaci e stress psicologico, capaci di innescare una reazione immunologica specifica prevalentemente mediata da linfociti T, con conseguente disregolazione dell’equilibrio citochinico (Di Nuzzo, Zanni & De Panfilis, 2007; Fabbri, 2004; Fabbri, Leigheb & Gelmetti, 2010).

La causa esatta di questo processo è ancora sconosciuta, tuttavia si sottolinea il ruolo di alcuni fattori genetici e ambientali (Ryan, 2010).

Diversi sono invece gli autori che hanno cercato di chiarire quale possa essere il ruolo delle caratteristiche temperamentali e di personalità sulla genesi, sviluppo e mantenimento delle malattie dermatologiche.

Le caratteristiche di personalità, ed in particolare quelle temperamentali, potrebbero giocare un ruolo importante nell’espressione di patologie dermatologiche.

Kilic et al., (2008), seguendo un approccio alla psoriasi di tipo bio-psico-sociale, hanno evidenziato elevati punteggi di una componente temperamentale, l’evitamento del danno, e bassi punteggi in una componente caratteriale, l’autodirezionalità. I risultati di questo studio delineerebbero il soggetto psoriasico a livello temperamentale come un soggetto inibito, schivo, preoccupato che i propri comportamenti possano avere delle conseguenze negative, mentre a livello caratteriale si distinguerebbe per avere un basso livello di accettazione di sé e un comportamento poco orientato al perseguimento di obiettivi.

A tal proposito, Janowski & Steuden (2008) ipotizzarono che la gravità della patologia, in questo caso la psoriasi, con il peggioramento del grado di qualità della vita percepita, potesse essere influenzata dal temperamento. Incrociando i dati risultanti da una misurazione dei tratti temperamentali, dell’indice PASI (Psoriasis Area and Severity Index) e da un questionario sulla qualità della vita (HRQL) essi dimostrarono che tratti temperamentali quali la perseveranza, l’attività, la reattività emozionale, la vivacità, la tolleranza risultano avere un effetto mediatore soprattutto sulla valutazione (appraisal) e sulla gestione (coping) dello stress. In sostanza l’effetto che la patologia viene ad avere sulla qualità della vita dipenderebbe sostanzialmente dalle diverse configurazioni temperamentali.

Il significato dello stress nello studio di tale patologia potrebbe essere quello delineato dalla consistente mole di ricerche effettuate che lo definiscono lungo tre categorie generali:

1) stressful life events: ad esempio, cambiamenti nell’assetto lavorativo, grave malattia personale, problemi finanziari;

2) stress psicologico e caratteristiche di personalità disadattive;

3) mancanza di supporto sociale (Gupta et al., 1989).

Verhoeven et al. (2009) hanno evidenziato una associazione significativa tra stress e gravità della patologia: in questo studio prospettico su 62 soggetti psoriasici, gli autori hanno sottolineato come elevati livelli di stressor quotidiani sembrano essere connessi ad un aumento nella gravità della patologia quattro settimane dopo l’evento stesso. Concludendo, lo stress potrebbe peggiorare la gravità di una psoriasi già in atto e agire anche influenzando negativamente l’aderenza ai trattamenti e l’outcome.

Le diverse rassegne della letteratura evidenziano che questa relazione è di tipo multifattoriale.

La psoriasi, ad esempio, potrebbe portare a sintomatologie depressive a causa della sua stigmatizzazione nei contesti sociali e sintomi quali ansia e depressione potrebbero essere la causa della psoriasi stessa (Szumański & Kokoszka,2001).

 

Psoriasi e comorbidità psichiatrica

Strategie di Coping

Diversi ricercatori si sono occupati di indagare se esistano delle particolari cognizioni che possano influenzare sia le strategie di coping sia l’outcome di pazienti psoriasici. La cornice teorica in cui si sono mossi la maggior parte degli autori è quella della self-regulation theory proposta da Leventhal et Al., (1980), la quale ipotizza che le persone, nel tentativo di affrontare una malattia cronica, cerchino di creare un sistema coerente di percezioni rispetto alla malattia e a loro stessi attraverso la costruzione attiva di rappresentazioni cognitive della patologia.

Queste rappresentazioni poi generano comportamenti, adattivi o meno, ed emozioni nella gestione della malattia che a loro volta vengono valutati dal soggetto in base ai loro effetti, il quale decide se utilizzarli in futuro in un meccanismo di autoregolazione.

La capacità di coping risulta infatti molto importante in questi pazienti: in quelli che utilizzano strategie di coping dannose come il nascondere le lesioni cutanee, evitare le altre persone e dire a se stessi che “gli altri non mi capiscono” si osserva una marcata riduzione della qualità di vita. Essa è migliore, invece, nei pazienti che parlano agli altri della propria patologia, in particolare spiegando che non è contagiosa (Choi et Al., 2005). Cercare supporto sociale, esprimere le proprie emozioni, cercare delle distrazioni e credere nella controllabilità e curabilità della propria patologia sono infatti meccanismi di coping associati ad un migliore funzionamento del soggetto (Scharloo, et Al., 1998; O’Leary CJ, et Al.,2004).

Per quanto riguarda il coping, Fortune et al. (2002) hanno utilizzato il Coping Orientations for Problems Experienced (COPE) per valutare le strategie di coping più frequentemente utilizzate da soggetti con psoriasi. Il coping sembra essere un fattore di mediazione tra la percezione della malattia e l’esito dei trattamenti. I risultati hanno evidenziato che le strategie di coping sono un importante fattore di rischio per l’insorgenza di una sintomatologia ansiosa (strategie focalizzate sull’emozione, sull’evitamento) e depressiva (distanziamento). Influiscono anche sulla preoccupazione ossessiva di questi soggetti circa la loro patologia (worrying). Altri studiosi hanno invece evidenziato che la negazione, il distacco comportamentale e l’abuso di sostanze e alcol (misurati con il Brief COPE) sono dei fattori di rischio per l’insorgenza di una sintomatologia psicopatologica in questi soggetti (Finzi et al., 2007). Le risorse soggettive per affrontare patologie croniche come quelle cutanee si suddividono in risorse personali, relativamente costanti, e fattori sociali che esercitano la loro influenza sui tentativi di ciascun individuo di fronteggiare lo stress.

Quindi il supporto sociale (che secondo lo studio di Jankovic, 2009, è un fattore protettivo), le strategie di coping in generale, autostima ed autoefficacia, ottimismo, assertività, Locus of control, sono tutti fattori importanti nel processo di accettazione di una patologia cronica (Kupfer et al., 2003).

Alcuni studi hanno, infatti, evidenziato come questi soggetti non solo devono essere in grado di gestire la cronicità della loro patologia, ma spesso si trovano a dover affrontare anche problemi legati allo stress, alle relazioni sociali e alla regolazione ed espressione delle proprie emozioni (Naldi et al., 2001).

Le influenze personali, i tratti di personalità, il modo soggettivo di affrontare gli eventi stressanti (coping) ed il deficitario riconoscimento delle proprie emozioni (alessitimia), sembrano fattori di rischio che influenzano l’insorgenza, il mantenimento e l’esacerbazione di tale patologia.

 

Aspetti emotivi della psoriasi

Le emozioni che molto spesso vengono sperimentate dagli psoriasici sono: depressione, vergogna, preoccupazione, rabbia e irritazione; i problemi funzionali riportati più spesso sono: “la malattia mi impedisce di lavorare e avere hobbies”, “ha un impatto sulla mia vita sociale” e “ha un effetto sulle mie relazioni” (Ginsburg & Link, 1989). Lo stigma viene definito come un marchio biologico o sociale che esclude la persona dal contesto sociale, screditandola e turbandone le interazioni con gli altri (Jones, Farina, Hastorf, Markus & Miller, 1984). In tutto questo, la vergogna assume quindi un ruolo importante e infatti è una delle emozioni più frequentemente sperimentate dai soggetti psoriasici, soprattutto tra le donne e nei soggetti con una psoriasi di lunga durata.

I sentimenti di vergogna possono avere un’influenza forte sulla vita sociale, riducendo le opportunità lavorative e relazionali; ad esempio possono essere compromesse le relazioni sessuali, e i sintomi di malessere in generale possono persistere nonostante un evidente miglioramento clinico della psoriasi (Sampogna, Gisondi, Tabolli & Abeni, 2007).

Un’altra emozione analizzata da Sampogna et al. (2012) è la rabbia, che sembra essere un fattore di rischio significativo per l’insorgenza in questi pazienti di disturbi cardiovascolari ed è spesso associata anche ad una sintomatologia depressiva. Come tratto di personalità, la rabbia può intaccare la capacità dei soggetti psoriasici di far fronte allo stress (Diong & Bishop, 1999).

Alti livelli di rabbia, infatti, sembrano aumentare la probabilità di avere un esordio precoce della psoriasi (Gupta et al., 1996).

Un altro sintomo maggiormente esperito dagli psoriasici è la preoccupazione patologica (pathological worrying), che nella sua forma più estrema può avere un effetto significativo e dannoso sull’outcome dei pazienti (Fortune et al., 2003; Fortune et al., 2002). La preoccupazione degli psoriasici per un peggioramento della patologia dermatologica è molto frequente nelle donne e nei pazienti con una psoriasi grave. Quindi, la rabbia, la vergogna e la preoccupazione eccessiva portano con sé un’alta probabilità di problemi clinicamente significativi. Per questo dovrebbero essere presi in dovuta considerazione nella fase di valutazione dei pazienti psoriasici, che per questo potrebbero ricevere maggiore attenzione clinica e di conseguenza beneficiare di interventi psicologici aggiuntivi prima e durante il trattamento medico.

 

Aspetti Psicologici della psoriasi

La psoriasi è infatti correlata con problemi psicologici quali bassa stima di sé, una distorta immagine di sé e del proprio corpo, disfunzioni sessuali, ansia, depressione e ideazione suicidaria.

Gli individui affetti da psoriasi, infatti, sperimentano ogni giorno situazioni di stigmatizzazione sociale e di rifiuto con un effetto profondo sull’immagine di sé, sulla fiducia in se stessi e sul senso di benessere in generale. Inoltre, in molti studi differenti, i pazienti con psoriasi riferiscono sentimenti di imbarazzo e vergogna e mostrano alti livelli di rabbia rispetto alla popolazione generale (Conrad et al., 2008; Magin, Adams, Heading, Pond & Smith, 2009). Queste emozioni spesso sfociano in veri e propri cambiamenti nel comportamento, quali l’evitamento di contesti pubblici o di situazioni in cui la pelle potrebbe essere esposta: in questo modo riducono la possibilità di una vita sociale e inibiscono le relazioni con gli altri.

Nei soggetti affetti da psoriasi il ruolo degli schemi cognitivi ed emotivi maladattivi è stato spesso collegato a un’alta comorbilità psichiatrica e a stress psicologico: alcuni di questi schemi (vulnerabilità al pericolo e difettosità) sembrano predire la comparsa di sintomi d’ansia e depressione e isolamento sociale, indipendentemente dall’età o dalla durata della patologia, per questo si è ipotizzato l’inserimento di una schema-focused therapy nel trattamento degli psoriasici. (Mizara, Papadopoulos & McBride, 2012).

La comorbilità psichiatrica sembra essere molto frequente nei soggetti con psoriasi e, tra i vari disturbi mentali, la depressione maggiore sembra essere quella più sperimentata, soprattutto se si pensa che il legame tra psoriasi e depressione non è solo di tipo psicopatologico, ma anche biologico (circolo vizioso: alterazione della psoriasi-alterazione della qualità di vita-depressione); è stato comunque evidenziato che un miglioramento nella psoriasi non determina, nonostante questo legame, un miglioramento dei sintomi depressivi. Inoltre, è noto che i pazienti depressi abbiano una cattiva compliance al trattamento (Misery, 2012).

Per valutare la gravità della malattia, è necessario utilizzare un indice che tenga conto sia dello stato fisico del paziente sia di quello psicologico ( Gupta et Al., 1989; Serville, 1977). Gli indici validati più frequentemente utilizzati nella pratica clinica per misurare la gravità della psoriasi in termini di coinvolgimento fisico sono l’indice di superficie corporea ( Marks R, Barton S, Shuttleworth D, Finlay AY, 1989) , il PASI (Psoriasis Area and Severity Index), Van de Kerkhof, 1977.

Alcuni degli strumenti per la valutazione degli impatti psicologici e sociali della psoriasi sono l’Hospital Anxiety and Depression Scale (Lewis G, Wesley S, 1990) l’Illness Perception Questionnaire (Weinmann J, Petrie KJ, Moss-Morris R, Horne R, 1996), Psoriasis Disability Index (Finlay AY, Kelly SE, 1987), Dermatology Life Quality Index (Finlay AY, Khan GK, 1994) e il CES-D che valuta gli aspetti Depressivi (Radloff LS., 1977).

I pazienti psoriasici sono dunque particolarmente vulnerabili a una sintomatologia depressiva a causa dello stress causato dalla loro disabilità, e sembra probabile che una malattia cronica e grave tale come la psoriasi può portare a un disturbo depressivo maggiore ( Gupta et Al, 1998). Tuttavia, uno studio ha dimostrato che i dermatologi hanno la tendenza a sottostimare la presenza di comorbilità psichiatrica tra i loro pazienti (Wessely SC, Lewis GH.,1989; Sampogna F, Picardi A, et Al., 2003)

Nel 1993, Gupta et al. hanno riportato una correlazione statisticamente significativa tra la gravità della psoriasi e la gravità della depressione. Nel 1998, gli stessi autori (Gupta  et al., 1998) hanno osservato che, rispetto ad altri gruppi di pazienti dermatologici, i pazienti psoriasici mostrano alti punteggi di depressione, una prevalenza di ideazione suicidaria del 2,5% in pazienti ambulatoriali e del 7,2% in pazienti ricoverati. La prevalenza di ideazione suicidaria in pazienti psoriasici è superiore a quella riportata in altri studi su pazienti di medicina generale (Cooper-Patrick L.,1994;Olfson et al.,1996). In una precedente relazione, si è osservato che la psoriasi ha un maggiore effetto avverso sulla qualità della vita nei pazienti più giovani rispetto  ai loro colleghi più anziani, mentre la sintomatologia depressiva sembrava essere anche più diffusa tra le donne ( Gupta et al.,1995). In questi casi, il trattamento con farmaci antidepressivi può anche essere utile nella gestione complessiva della psoriasi (Gupta et al.,2001).

Recentemente, i risultati di un ampio studio europeo che coinvolge 18.000 pazienti ha dimostrato che la psoriasi influisce negativamente sulla vita di molti pazienti con un impatto significativo su tutte le attività di vita quotidiana (Dubertret L., 2003)

La comorbilità psicologica dunque può influire negativamente sul decorso della malattia, ed è probabile che i pazienti con psoriasi trarrebbero benefici se si affiancasse alle cure mediche dermatologiche anche il trattamento psicologico della depressione. È essenziale considerare l’associazione di depressione e psoriasi nella gestione complessiva della malattia.

 

Conclusioni

Le patologie dermatologiche risentono dunque delle dimensioni emotive del soggetto e vari eventi di vita possono determinare un notevole disagio psicologico e ripercussioni emotive soprattutto in soggetti particolarmente sensibili. Alcuni studi hanno dimostrato che l’espressività della patologia dermatologica potrebbe dipendere dalla differente modalità di interpretazione degli eventi e dalla particolare sensibilità allo stress, oltre che da una maggiore difficoltà ad esprimere i propri sentimenti e le emozioni (Savron, Montanaro, Landi & Bartolucci, 2001).

La maggior parte dei pazienti riporta esperienze negative con il personale medico a causa di una cattiva comprensione da parte dei dermatologi degli aspetti psicologici (importantissimi invece per i pazienti) che la psoriasi implica. I pazienti ritengono, infatti, che il personale medico sia insensibile alla loro sofferenza emotiva, che banalizzi la loro condizione e che dia poco tempo alle informazioni specifiche. Molti psoriasici percepiscono i medici come tecnici sanitari che prescrivono loro solo il trattamento adatto alla loro condizione fisica e non tengono conto degli aspetti emotivi o sociali ad essa connessi (Magin et al., 2009).

Feldman, Behnam, Behnam & Koo (2005) ritengono che coinvolgere i pazienti nella gestione della malattia faccia parte integrante del processo di cura, e educare i medici a riconoscere il disagio psicologico potrebbe essere un passo in avanti verso un trattamento di tipo multidimensionale nella cura della Psoriasi (Evers et al., 2005).

Una buona relazione medico-paziente, una buona soddisfazione per il trattamento e per la qualità delle cure ricevute sono associate ad alti livelli di aderenza ai trattamenti (Altobelli, et al., 2012; Ribera, et al., 2011; Gokdemir, et al., 2008; Atkinson, et al., 2004; Renzi, et al., 2002).

Prescrivere terapie in linea con le preferenze del paziente potrebbe migliorare la sua relazione con il personale medico e portare ad un approccio personale ed individualizzato (Bewley & Page, 2011).

Inoltre, per una maggiore compliance bisognerebbe aumentare la consapevolezza del paziente sulla relazione tra psoriasi, disturbi mentali e disagio psicologico (es. abuso di sostanze; Hayes & Koo, 2010).

Il ruolo che lo psicologo potrebbe avere – attuando in questo modo un’effettiva presa in carico globale del paziente – potrebbe svolgersi nell’aiutare il soggetto a riconoscere eventuali cognizioni distorte, percezioni rigide di malattia e strategie di coping disadattive, nonché aiutarlo a fronteggiare le emozioni negative attraverso interventi che spaziano dalla psico-educazione alla vera e propria psicoterapia. Inoltre potrebbe affiancare il medico aiutandolo a curare quegli aspetti comunicativi indispensabili per creare una buona relazione medico-paziente indispensabile per creare una alleanza terapeutica funzionale.

È stato riscontrato, infatti, che i pazienti psoriasici che hanno seguito un approccio integrato (Psoriasis Symptom Management Programme – PSMP: è un programma di gestione di tipo cognitivo-comportamentale) per sei settimane, dopo sei settimane di follow up hanno evidenziato un miglioramento nei sintomi psoriasici, nei sintomi ansiosi e depressivi e nello stress percepito (Fortune et al., 2002).

Christine Bundy ha effettuato una revisione degli interventi psicologici disponibili per le persone  affette da psoriasi. La terapia cognitivo comportamentale condotta a livello individuale, online o in gruppo è sicuramente il trattamento più studiato. È  risultato evidente che una terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulle emozioni ha un effetto positivo sulla psoriasi, sullo stress e sulla qualità di vita individuale (Zachariae et al., 1996; Fortune et al., 2002, 2004; Bundy et al., 2013).

Quindi il successo terapeutico si trova in un approccio di valutazione globale del paziente, grazie alla collaborazione dei diversi professionisti  che collaborano per colmare il divario tra la valutazione mentale e fisica nella pratica clinica quotidiana.

La pica: un disturbo dalle voglie alimentari insolite

La pica, anche denominato allotriofagia, è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall’ingestione continuata nel tempo di sostanze non nutritive (terra sabbia, carta, gesso, legno, cotone, etc.). L’ingestione di sostanze non alimentari si deve protrarre per un periodo di almeno un mese ed è inappropriata rispetto al livello di sviluppo (generalmente in bambini più grandi di 18- 24 mesi).

Monica Mascolo e Valeria Mancini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Pica: in cosa consiste

Il termine pica deriva dal latino (gazza), un uccello che si caratterizza per la sua tendenza a rubare oggetti non commestibili e a mangiarli (Iorio, Prisco & Iorio, 2014).

La pica viene inserita nel DSM-5 all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Secondo la definizione del DSM-5 i disturbi alimentari sono caratterizzati da comportamenti inerenti l’alimentazione che portano ad un alterato consumo o assorbimento di cibo tali da compromettere significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale (American Psychiatric Association, 2014).

Spesso sono in comorbilità con altri disturbi psichiatrici come la depressione, l’abuso di sostanze e i disturbi d’ansia. Nei disturbi alimentari sono frequenti le complicanze fisiche che comportano un rischio di morte 12 volte maggiore di quello riscontrabile in soggetti sani confrontabili per età.

La diagnostica della pica non è applicabile a individui appartenenti a culture che accettano tale pratica, a bambini o adulti affetti da disabilità intellettiva, disturbo dello spettro autistico, schizofrenia o altra condizione medica, ad eccezione dei casi in cui il comportamento d’ingestione è sufficientemente grave da giustificare ulteriore attenzione clinica. La sindrome interessa talvolta anche le donne incinte, le quali desiderano cibi inappropriati, come per esempio carne cruda e ghiaccio.

Alla base della pica vi è quasi sempre un’anemia da carenza di ferro, e il disturbo regredisce con la correzione della carenza o, nel caso delle donne incinte, col termine della gravidanza.
Le persone che soffrono di pica potrebbero incorrere nel rischio dell’ingestione accidentale di veleni.
L’ingestione di sostanze bizzarre o inusuali inoltre provocherebbe problemi intestinali, ulcera, infezioni polmonari ricorrenti, anemia, ecc.. (Gupta & Gupta, n.d.).

Tale comportamento è stato osservato con minore frequenza negli uomini rispetto alle donne e sembra diminuire con l’età (Iorio, Prisco & Iorio, 2014), mentre è difficile stabilirne l’incidenza, perché si tratta di un disturbo raro nella popolazione generale.
C’è poca coerenza nella definizione della pica, nella classificazione delle sostanze ingerite, nell’individuazione delle caratteristiche principali dei praticanti, nel consigliare il trattamento, o nei risultati messi in luce (Lacey, 1990).
Quindi, la sistemazione nosografica della pica è incerta e suscettibile di opinioni differenti e poco esplorato appare il profilo psicopatologico.

 

Pica: definizione e criteri diagnostici

Non esiste una definizione univoca di pica, la più utilizzata è quella di Taber (Lacey, 1990), che definisce la pica come un comportamento alimentare che si manifesta con un desiderio di ingerire materiale normalmente non considerato come cibo, ad esempio, l’amido, l’argilla, la cenere, i pastelli, il cotone, l’erba, i mozziconi di sigaretta, il sapone, il legno, la carta, o il gesso. Questa condizione viene riscontrata in gravidanza, nella clorosi, nell’isteria, nell’elmintiasi, e in certe psicosi. L’importanza di questa condizione, la cui causa è sconosciuta, deriva dalla tossicità del materiale ingerito, ad esempio, la vernice che contiene il piombo, o dall’ingestione di materiali al posto di nutrienti essenziali (Clayton, 1985).

Nel DSM-5 la pica è inserita nel capitolo “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione”, mentre in precedenza nel DSM-IV-TR veniva classificata all’interno dei “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”. I criteri del DSM-IV per la pica sono stati rivisti per chiarezza e per indicare che la diagnosi può essere fatta per le persone di ogni età.

Prendendo in considerazione la definizione del DSM-5, la caratteristica fondamentale della pica è la persistente ingestione di una o più sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili per un periodo di almeno un mese (Criterio A), che risulti sufficientemente grave da giustificare attenzione clinica. Di solito le sostanze ingerite tendono a variare con l’età dell’individuo e con la disponibilità delle sostanze stesse, e possono comprendere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, talco in polvere, vernice, gomma, metallo, ciottoli, carbone, cenere, creta, amido o ghiaccio.

E’ stato incluso il termine non commestibile perché la diagnosi di pica non viene applicata all’ingestione di prodotti dietetici che hanno un apporto calorico minimo. Solitamente non vi è avversione per il cibo in generale. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili deve essere inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo (Criterio B) e non deve far parte di una pratica culturalmente sancita o socialmente normata (Criterio C). E’ stato suggerito nei bambini un minimo di 2 anni di età per una diagnosi di pica al fine di escludere quel gesto, evolutivamente fisiologico, di portare alla bocca oggetti che possono essere ingeriti. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili può essere una manifestazione associata ad altri disturbi mentali (per es., disabilità intellettiva [disturbo dello sviluppo intellettivo], disturbo dello spettro dell’autismo, schizofrenia). Se il comportamento d’ingestione si manifesta esclusivamente nel contesto di un altro disturbo mentale, si dovrebbe porre una diagnosi separata di pica solo se il comportamento d’ ingestione è sufficientemente grave da giustificare ulteriore attenzione clinica (Criterio D). Si parla di pica in remissione, se successivamente alla precedente piena soddisfazione dei criteri per la pica, i criteri non sono stati soddisfatti per un consistente periodo di tempo (American Psychiatric Association, 2014).

A seconda della sostanza ingerita la pica cambia il suo nome: la geofagia (ingestione di vari tipi di terra), la xilofagia (ingestione di legno), la tricofagia (ingestione di capelli o lana), la litofagia (ingestione di pietre), la acufagia (ingestione di oggetti acuti), la coniofagia (ingestione di polvere), la stactofagia (ingestione di cenere da sigaretta), l’amilofagia (ingestione di amido), etc.

 

Eziologia della pica

Per i bambini, che imparano a conoscere il mondo, mettendo le cose in bocca, la pica è davvero abbastanza comune.
Dal punto di vista evolutivo, i neonati hanno un periodo di crescita in cui mettono in bocca tutto ciò che trovano. Quando un bambino ha superato questo stadio dello sviluppo e comincia improvvisamente a mangiare prodotti non alimentari, ci può essere un problema, in questo caso bisogna individuare la causa ed eliminarla.

Sebbene l’eziologia esatta della pica non è nota, ci sono alcune ipotesi riguardo ad essa: fattori organici, psicodinamici, socioeconomici e culturali. La maggior parte delle ipotesi ha ampiamente accettato argomenti della teoria orientati verso la carenza nutrizionale come causa della pica (Bhatia & Kaur, 2014).

Le teorie presumibilmente dietro la pica quindi sono due: una teoria nutrizionale e una teoria fisiologica. La teoria nutrizionale suggerisce che gli enzimi del cervello che regolano l’appetito, alterati da una carenza di ferro o zinco, innescano voglie specifiche. Tuttavia, gli elementi non alimentari di solito non soddisfano la carenza di minerali nel corpo della persona. La teoria fisiologica dichiara che mangiare l’argilla o la sporcizia contribuisce ad alleviare la nausea, a controllare la diarrea, all’aumento della salivazione, ad eliminare le tossine e ad alterare l’odore o la percezione del sapore durante la gravidanza (Advani, Kochhar, Chachra & Dhawan, 2014).

Le altre cause possono essere la carenza di ferro, zinco, calcio e altre sostanze nutritive (tiamina, niacina, vitamine del gruppo B e C). La pica si presenta in modo variabile nei pazienti affetti da carenza di ferro. Alcuni studi hanno dimostrato che alcuni bambini con carenza di ferro che in correlazione presentavano il disturbo pica, dopo il trattamento con il ferro presentavano remissione del disturbo: in un primo studio Lanzkowsky riferisce la remissione di pica nei bambini in seguito al trattamento con ferro per via intramuscolare (Lanzkowsky, 1959; citato in Ahmed, Gaboli & Attalla, 2015); la remissione da pica è stata dimostrata da MacDonald e Marshall nei bambini con anemia da carenza di ferro quando veniva somministrata la terapia di ferro (MacDonald e Marshall, 1964; citato in Ahmed et al., 2015). In Sudan l’anemia sideropenica è stata osservata nel 50% dei bambini che avevano pica; la pica si è risolta nel 90% di quelli trattati con la terapia di ferro (Altohami AE, Università della Scienza e della tecnologia, il Sudan, comunicazione personale; citato in Ahmed et al., 2015).

La fisiopatologia esatta della sindrome non è nota.
I pazienti consumano elementi insoliti, come l’amido da lavanderia, il ghiaccio e il terreno argilloso. Sia l’argilla che l’amido possono vincolare il ferro nel tratto gastrointestinale, aggravando la carenza. Un drammatico esempio dei problemi prodotti dal consumo di argilla si è verificato nel 1960 con le segnalazioni della carenza di ferro nei bambini lungo il confine tra l’Iran e la Turchia (Say, Ozsoylu & Berkel, 1969; citato in Advani et al., 2014). Questi bambini avevano altre anomalie, tra cui una peculiare massiccia epato-splenomegalia, una scarsa guarigione delle ferite e una diatesi emorragica. Presumibilmente, i bambini avevano inizialmente una semplice carenza di ferro associata a pica, tra cui la geofagia. Il terreno contiene composti che trattengono sia il ferro che lo zinco. La secondaria carenza di zinco è causata dall’epatomegalia e da altre anomalie insolite.

Un’altra causa che può essere associata con questa malattia è l’alto livello di piombo. L’esposizione al piombo è un problema per molti bambini che vivono o sono ospiti per lunghi periodi di tempo in case più vecchie che hanno la vernice a base di piombo. Queste sono state costruite soprattutto prima del 1970 e la vernice al piombo è stata bandita nel 1978. Tuttavia, altre fonti di piombo comprendono alcuni tipi di farmaci e alcuni tipi di ceramiche. L’ingestione di vernice è più frequente tra i bambini appartenenti ad un basso status socioeconomico ed è associata alla mancanza di supervisione da parte dei genitori.

Anche gli eventi traumatici sono associati con lo sviluppo della pica. Eventi comuni che potrebbero causare l’insorgere della pica includono la separazione dei genitori, la negligenza dei genitori, la mancanza d’interazione genitore-figlio e gli abusi sui minori.
Nonostante la grande varietà di teorie, nessuna di loro spiega tutte le forme di pica (Advani et al., 2014).

La pica può avere una base psicologica e può anche cadere nello spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi, dove essa assume la forma di un comportamento compulsivo. Le persone con questo disturbo talvolta sviluppano il disturbo come meccanismo di coping (vale a dire la capacità di fronteggiare situazioni difficili). La pica ha una maggiore incidenza nella popolazione umana con una diagnosi di fondo che coinvolge il funzionamento mentale, queste diagnosi sono: condizioni psichiatriche come la schizofrenia, lo sviluppo di disturbi mentali tra cui l’autismo e le condizioni con ritardo mentale. Queste condizioni non sono caratterizzate dalla carenza di ferro, che supporta la componente psicologica nella causa della pica (Firyal, 2007). Le persone con disabilità dello sviluppo hanno questo disturbo a causa della loro incapacità di discriminare i prodotti alimentari e non alimentari.

Le tradizioni culturali e religiose possono anche svolgere un ruolo nel comportamento della pica. In molte zone rurali dell’India, le femmine gravide consumano fango, argilla, cenere, calce, carbone e mattoni in risposta alle voglie. Le sostanze non alimentari si ritiene che abbiano effetti positivi sulla salute e spirituali. Nel Nord dell’India le voglie delle sostanze della pica sono utilizzate come mezzo per predire il sesso del nascituro, se una donna desidera fortemente la cenere, le persone credono che lei avrà una femmina, mentre se desidera fortemente la polvere indica che lei avrà un maschio (Jeffrey, Jeffery & Lion, 1982; citato in Bhatia, Kaur, 2014). Tra alcuni afroamericani del sud, l’ingestione di un particolare tipo di argilla bianca si crede promuova la salute e riduca la nausea mattutina durante la gravidanza (Firyal, 2007).

 

Manifestazioni cliniche

Sebbene in alcuni casi siano stati riferiti deficit di vitamine o di sali minerali (per es. zinco, ferro), spesso non si riscontrano anomalie biologiche specifiche. In alcuni casi, la pica giunge all’attenzione clinica solo in seguito a complicazioni mediche generali: problemi meccanici all’intestino; ostruzione intestinale come conseguenza di bezoario; perforazione intestinale; infezioni come toxoplasmosi o toxocariosi conseguenti all’ingestione di feci o sporcizia; avvelenamento conseguente all’ingestione di vernice a base di piombo (American Psychiatric Association, 2014).

Maravilla e Berk presentano quattro effetti correlati alla pica: (a) la tossicità intrinseca delle sostanze, come avviene nell’intossicazione da piombo; (b) l’impatto fisiologico ostruttivo, come è stato dimostrato con la geofagia, la tricofagia, e la litofagia; (c) le calorie in eccesso, come potrebbe verificarsi con l’amilofagia o qualsiasi sostanza ad alto contenuto calorico; e (d) la privazione calorica, come potrebbe verificarsi con la pagofagia o qualsiasi altra sostanza che è scarsa o vuota di calorie, ma piena di proprietà (Lacey, 1990).

I pazienti con pica che hanno carenza di ferro, mostrano pallore e l’assottigliamento delle unghia che diventano concave e hanno le estremità sollevate, fenomeno noto come il curvamento (a forma di cucchiaio) delle unghie. Le piccole elevazioni sulla lingua possono essere appiattite e si possono avere erosioni superficiali e fessurazioni agli angoli della bocca, che segnalano spesso carenza di riboflavina.

In alcuni casi sono evidenti anomalie dentali come l’abrasione del dente e la perdita dei denti. Masticare pietre e mattoni può portare al logoramento dei denti (Advani et al., 2014). Gli alimenti della pica in genere non possiedono alcun valore calorico. I bambini nati da madri che praticano la pica durante la gravidanza possono avere un basso peso alla nascita, essere prematuri, nascere con anomalie fisiche e persino la morte è segnalata tra questi neonati (Bhatia et al., 2014).

Le complicazioni variano, a seconda del tipo di pica. La geofagia ha potenziali effetti collaterali che colpiscono più frequentemente l’intestino e le budella. Le complicazioni possono includere: costipazione, crampi, dolore, ostruzione causata dalla formazione di una massa indigesta, perforazione da oggetti appuntiti come rocce o ghiaia, e la contaminazione e l’infezione da parassiti terricoli.

L’amilofagia di solito comporta il consumo di amido di mais e, meno frequentemente l’amido di riso. L’alto contenuto calorico dell’amido può causare eccessivo aumento di peso, mentre allo stesso tempo conseguente malnutrizione, dal momento che l’amido fornisce calorie “vuote” mancanti di vitamine e minerali. L’amilofagia durante la gravidanza può simulare il diabete gestazionale nella sua presentazione e anche nei suoi potenziali effetti dannosi sul feto. La pica che coinvolge l’ingestione di sostanze come vernici a base di piombo o carta contenente mercurio può causare sintomi di avvelenamento tossico. Il consumo compulsivo di una sostanza anche apparentemente innocua come il ghiaccio (pagofagia) può avere effetti collaterali negativi, tra cui il diminuito assorbimento dei nutrienti nell’intestino (Dugan, 2006; citato in Firyal, 2007).

Rispetto al funzionamento sociale, la pica raramente è la sola causa di compromissione dello stesso. La pica si verifica spesso insieme ad altri disturbi associati alla compromissione del funzionamento sociale (American Psychiatric Association, 2014).

La pica non può essere diagnosticata mediante un esame, ma dopo una valutazione da parte del medico, sulla base di una serie di fattori.
Potrebbero essere consigliate analisi del sangue e altri esami di laboratorio per accertare un’eventuale carenza di zinco o ferro, poiché queste carenze possono indurre talvolta la pica, ma anche per evidenziare un’anemia sottostante e per accertare le eventuali complicazioni risultanti dalla pica, come infezioni, parassiti, ostruzioni gastrointestinali e avvelenamento.

 

Sviluppo e decorso della pica

L’esordio della pica può verificarsi in età infantile, in adolescenza oppure in età adulta, nonostante sia riportato più comunemente l’esordio in età infantile. La pica può verificarsi in bambini con sviluppo altrimenti normale, mentre negli adulti sembra verificarsi con maggiore probabilità in un contesto di disabilità intellettiva o di altri disturbi mentali. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili può manifestarsi anche durante la gravidanza, quando possono insorgere desideri incontrollati specifici (per es., gesso o ghiaccio).

La diagnosi di pica, durante la gravidanza, risulta appropriata solo se tali desideri incontrollati portano all’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili nella misura in cui l’ingestione di tali sostanze costituisce un potenziale rischio medico. Il decorso del disturbo può essere protratto e provocare emergenze mediche (per es., ostruzione intestinale, forte perdita di peso, avvelenamento). In base alle sostanze ingerite, il disturbo può essere potenzialmente fatale (American Psychiatric Association, 2014).

 

Prevalenza

I tassi di prevalenza della pica non sono chiari (American Psychiatric Association, 2014).

La prevalenza esatta della Pica è spesso sotto riportata dal momento che molte persone possono essere in imbarazzo ad ammettere queste insolite abitudini alimentari e possono nasconderle ai loro medici. Anche se la pica è osservata a tutte le età e in entrambi i sessi, essa è molto prevalente tra i bambini e le femmine. La pica è considerata non patologica fino a 2 anni di età perché i bambini hanno l’abitudine di esplorare le cose mettendole in bocca.

La pica è anche comunemente osservata nei bambini con disabilità dello sviluppo (ritardo mentale, autismo, etc) (Bhatia & Kaur, 2014). Tra gli individui con disabilità intellettiva, la prevalenza del disturbo sembra aumentare con la gravità della condizione (American Psychiatric Association, 2014). Si riscontra nelle donne durante la gravidanza; tuttavia non ci sono molti studi a riguardo del decorso della pica nel periodo del post partum (American Psychiatric Association, 2014). La geofagia è la forma più comune di pica in persone che vivono in condizioni di povertà (Gupta & Gupta, n.d.).

 

Diagnosi differenziale

L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili può manifestarsi durante il decorso di altri disturbi mentali (per es., disturbo dello spettro dell’autismo, schizofrenia) e nella sindrome di Kleine-Levin. In questi casi si dovrebbe porre una diagnosi aggiuntiva di pica solo se il comportamento d’ingestione è sufficientemente persistente e grave da giustificare ulteriore attenzione clinica.

  • Anoressia nervosa. La pica può essere distinta dagli altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in base al consumo di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili. E’ importante notare, tuttavia, che alcune manifestazioni dell’anoressia nervosa comprendono l’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili, come fazzoletti di carta, quale mezzo per tentare di controllare l’appetito. In questi casi, se l’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili è utilizzata primariamente come mezzo per controllare il peso, allora la diagnosi primaria dovrebbe essere quella di anoressia nervosa.
  • Disturbo fittizio. Alcuni individui con disturbo fittizio possono ingerire intenzionalmente oggetti estranei come parte del pattern di falsificazione di sintomi fisici. In questi casi, vi è un elemento d’inganno coerente con l’induzione intenzionale di lesioni o malattie.
  • Autolesività senza intenti suicidari e comportamenti autolesivi senza intenti suicidari nei disturbi di personalità. Alcuni individui possono deglutire oggetti potenzialmente dannosi (per es. spilli, aghi, coltelli) all’interno di un contesto di pattern comportamentali disadattivi associati a disturbi di personalità oppure ad autolesività senza intenti suicidari (American Psychiatric Association, 2014).

 

Comorbilità con la pica

I disturbi più comunemente in comorbilità con la pica sono il disturbo dello spettro autistico e la disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo); in misura minore, schizofrenia e disturbo ossessivo-compulsivo. La pica può essere associata alla tricotillomania (disturbo da strappamento di peli) e disturbo da escoriazione (stuzzicamento della pelle). Nelle manifestazioni in comorbilità, i capelli o la pelle vengono solitamente ingeriti. La pica può anche essere associata a disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, soprattutto in individui con una forte componente sensoriale inerente allo loro sintomatologia. Qualora sia noto che un individuo è affetto da pica, la valutazione dovrebbe comprendere la considerazione della possibilità di complicazioni gastrointestinali, avvelenamento, infezioni e deficit nutrizionale (American Psychiatric Association, 2014).

 

Trattamento della pica

La pica regredisce spontaneamente nella maggior parte dei casi. Non esiste un trattamento specifico per questo disturbo.
Il piano di trattamento deve concentrarsi sui fattori che concorrono alla pica e affrontare i problemi psicologici sottostanti (Bhatia & Kaur, 2014). Quindi il medico potrebbe chiedere un consulto psicologico per determinare se il paziente è affetto da disturbo ossessivo-compulsivo o da altri problemi psicologici, che potranno essere risolti con una psicoterapia e opportuni farmaci (Holm, 2012).

Dal momento che la pica può essere acquisita nel contesto culturale, alle persone colpite può essere suggerita la psicoterapia cognitiva-comportamentale (Bhatia & Kaur, 2014).

Una recente ricerca suggerisce che i farmaci migliorando l’attività dopaminergica possono rivelarsi utili. E’ stato dimostrato che gli SSRI sono efficaci.
Eventuali carenze nutrizionali hanno bisogno di essere affrontate e corrette. L’emergenza medica come l’avvelenamento da piombo o l’emergenza chirurgica come l’ostruzione intestinale devono essere trattate di conseguenza (Bhatia & Kaur, 2014).
Esistono alcune conferme scientifiche dell’utilità di un semplice integratore multivitaminico per trattare alcuni di questi casi (Pace & Toyer, 2000; citato in Holm, 2012).

Se la causa è la carenza di ferro o zinco dovrebbero essere dati opportuni integratori. Anche se il solfato ferroso è spesso raccomandato per il trattamento della carenza di ferro, frequenti problemi con il farmaco, tra cui disturbi gastrointestinali, gonfiore e altri disagi, rendono questo inaccettabile per molti pazienti. Il gluconato ferroso, che è approssimativamente equivalente a costo, produce meno problemi ed è preferibile come trattamento iniziale della carenza di ferro. Integratori di acido ascorbico aumentano l’assorbimento del ferro.

 

Conclusioni

La pica è un disturbo relativo alla condotta alimentare, caratterizzato dalla necessità persistente di ingerire sostanze non nutritive per un periodo di almeno 1 mese. Le sostanze ingerite tendono a variare con l’età dell’individuo, i bambini piccoli di solito ingeriscono vernice, intonaco, spago, capelli o tessuto, mentre i bambini più grandi possono ingerire sterco di animali, sabbia, insetti, foglie o ciottoli. Gli adolescenti e gli adulti possono mangiare argilla o terra (American Psychiatric Association, 2000).

La letteratura suggerisce che questo disturbo è un problema comune sia nei bambini che negli adulti.
La pica può essere associata a ritardo mentale, essere causata da un deficit vitaminico o di sali minerali (ferro, zinco, calcio), viene riscontrata nelle donne gravide e in certe società la pica è una pratica culturale e non è considerata patologica. Di solito un individuo giunge ad attenzione clinica solo in seguito a complicanze mediche generali (per es. problemi meccanici all’intestino; ostruzione intestinale come conseguenza di bezoario; perforazione intestinale; infezioni come toxoplasmosi o toxocariosi conseguenti all’ingestione di feci o sporcizia; avvelenamento conseguente all’ingestione di vernice a base di piombo) (American Psychiatric Association, 2014).

La prevalenza esatta della pica è sconosciuta perché il disturbo non viene riconosciuto da chi ne soffre e molte persone sono imbarazzate ad ammettere queste insolite abitudini alimentari ai loro medici. Essa si riscontra più frequentemente nei bambini piccoli e nelle donne. Sono necessari studi più completi circa la prevalenza e l’incidenza di tale disturbo.

Anche l’eziologia esatta di questo disturbo è ancora sconosciuta. Ci sono numerose ipotesi che spiegano il fenomeno, che vanno dalle cause psicosociali a quelle di origine puramente bio-chimica. La maggior parte di esse si orienta verso la carenza nutrizionale come causa.
Considerando che esistono varie spiegazioni della pica, fisiologiche, psicologiche e sociologiche, ed ognuna di esse si concentra su un aspetto particolare di questo disturbo, risulta necessario che i meccanismi di causalità della pica vengano studiati più accuratamente, per arrivare ad una spiegazione esaustiva.

Riguardo al trattamento, non ne esiste uno specifico. La pica regredisce spontaneamente nella maggior parte dei casi. Quando la pica è dovuta alla carenza di sali minerali, può essere superata reintegrando nell’organismo queste sostanze, mentre se è legata a un disturbo psichiatrico, va combattuta insieme alla patologia maggiore.

Le terapie per la pica dovrebbero essere esplorate in modo sistematico per determinare l’adeguatezza e l’efficacia delle risposte farmacologiche, così come delle terapie meno invasive (Lacey, 1990).

L’entità della letteratura sulla pica è così frammentata che è difficile trovare una sintesi precisa di questa condizione. C’è poca coerenza nella definizione della pica, nella classificazione delle sostanze ingerite, nell’individuazione delle caratteristiche principali dei praticanti, nel consigliare il trattamento, o nei risultati messi in luce (Lacey, 1990).

Risulta evidente il bisogno di effettuare ulteriori ricerche, per una completa panoramica di questo disturbo.

Ansia da prestazione musicale: i fattori che incidono sull’ansia dei musicisti

L’ansia da prestazione musicale Music performance Anxiety – è un fenomeno complesso determinato da fattori personali e contestuali che interagiscono dinamicamente tra loro, producendo una pluralità di manifestazioni somatico-comportamentali e vissuti ansiogeni estremamente soggettivi (Kenny, 2011).

Dott.ssa Sarah Ferrando, Dott.ssa Giulia Perasso, Dott. Jacopo De Angelis

 

Ansia da prestazione musicale: in cosa consiste

L’ ansia da prestazione musicale può essere disposta lungo un continuum, che va da una semplice e basilare forma di arousal, in grado di mobilitare le risorse psicofisiche per preparare l’organismo a sostenere al meglio la performance, ad una forma ansiosa più grave con veri e propri attacchi di panico (Hansell & Damour, 2007). In questo caso può conseguire la sospensione di ogni attività concertistica, con grande sofferenza interiore, senso di alienazione e sconfitta per il musicista.

Il fenomeno è caratterizzato da una reazione multidimensionale, somatica, cognitiva e comportamentale, dovuta ad un’iperattivazione del sistema nervoso automatico nel contesto di una performance in presenza del pubblico (Wilson & Roland, 2002). Per questo motivo il DSM – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM V, 2013) – categorizza l’ ansia da prestazione musicale come un sottotipo di fobia sociale, senza dedicare una specifica sezione a questa particolare declinazione sintomatologica.

L’ ansia da prestazione musicale presenta inoltre un decorso e una severità sintomatologica del tutto soggettiva, imponendo al soggetto una presa di coscienza profonda delle proprie vulnerabilità ed un’interpretazione più autentica e matura dei propri vissuti. Il musicista viene cioè stimolato a sviluppare nuove e funzionali strategie di coping e di regolazione delle emozioni.

Il linguaggio musicale, inoltre, è connotato immaginativamente ed emotivamente. Presenta cioè un contenuto simbolico ed emotivo, che può consentire al musicista l’immedesimazione immediata e inconscia con il suo ritmo, generando una connessione profonda denominata esperienza del “flow musicale” (Wrigley & Emmerson, 2013), che può essere considerata antitesi rispetto alla fenomenologia dell’ ansia da prestazione musicale.

 

Le variabili dell’ansia per la prestazione musicale

Nell’ambito della performance sportiva, la ricerca ha guardato alla comparazione tra ansia da performance in sport di squadra e individuali (Zamani & Morandi, 2009) ed approfondito il rapporto tra ansia e competizione (Horikawa & Yagi, 2012; Parnabas & Mahamood, 2010). Cosa sappiamo invece della performance musicale in connessione col fenomeno ansioso? Dalla letteratura scientifica, si può ricavare una prima panoramica delle variabili indagate con differenti metodologie, laddove, il principale strumento ad oggi utilizzato risulta essere il Kenny Music Performance and Anxiety Inventory – K-MPAI- (Kenny, David & Oates, 2004) e la sua versione per adolescenti, il Music Performance Anxiety Inventory – Adolescents -MPAI-A- (Osborne & Kenny, 2005).

  • Parametri fisiologici. Gruzelier e collaboratori (2013) utilizzando il monitoraggio dei parametri fisiologici che riflettono la variabilità della frequenza cardiaca (HRV), hanno misurato la risposta fisiologica di una pianista professionista durante la performance. Le condizioni di alto e basso stress sono state manipolate incrociando la presenza o assenza del pubblico, con diversi gradi di difficoltà esecutiva del brano. I risultati mostrano come i livelli di stress fluttuino in relazione alla maggior richiesta cognitiva e tecnica del programma, e alla valutazione dell’audience.
  • Difficoltà del compito e genere musicale suonato. Un altro aspetto indagato dalle ricerche sull’ ansia da prestazione musicale è il livello di difficoltà e stress causato dalle richieste del compito e, andando più nello specifico dal margine di improvvisazione consentito, insito nel genere musicale suonato. Nussek e collaboratori (2015) hanno ottenuto risultati interessanti riguardo al possibile sviluppo e decorso dell’ ansia da prestazione musicale. Misurando i livelli dell’ansia in musicisti classici e pop di differenti età, a confronto, i livelli di ansia da prestazione musicale sono risultati più alti per musicisti classici tra i 7 e i 16 anni, rispetto a musicisti più anziani. Per i musicisti pop, gli effetti sono risultati invertiti. Vellers e collaboratori (2015) hanno indagato, invece, l’effetto del genere musicale (rock classico, occidentale, cristiana contemporanea e rock metal) sulla frequenza cardiaca, osservando una correlazione tra aumento dei battiti e massa corporea, tipo di strumento e predominante componente ritmica nella musica, supportando l’ipotesi di un differente impatto cognitivo e somatico del genere musicale.
  • Presenza dell’audience. Quanto può influire la presenza del pubblico sulla performance del musicista in termini di ansia? Uno studio di Shoda e collaboratori (2015) ha indagato se gli artisti riescano a offrire risultati performativi migliori in presenza del pubblico, se sperimentino cioè un effetto facilitante in termini di esposizione sociale. Analizzando i parametri interpretativi della durata ed espressione dinamica nella registrazione di un brano pianistico, rispettivamente con e senza audience, la presenza del pubblico risulta alzare il livello qualitativo ed emotivo dell’esecuzione. Nello stesso tempo, però, l’audience induce i pianisti a ridurre il livello di individualità nelle scelte interpretative per evitare i rischi, preferendo variazioni espressive più contenute. Questo studio risulta essere in linea con la teoria pulsionale di Zajonc (1965), secondo la quale la presenza fisica di membri della propria specie provoca un incremento psicofisiologico che stimola l’attivazione di modelli abituali di comportamento e risposte dominanti. Se funzionali, porta all’effetto di facilitazione sociale, se disfunzionale a quello di inibizione. Inoltre, la presenza sociale favorisce l’esecuzione di compiti più semplici ostacolando invece i compiti complessi. Questo dato potrebbe spiegare la scelta dei pianisti dell’esperimento di Shoda di rinunciare agli aspetti più estremi delle loro scelte interpretative.
  • Attaccamento. Kenny e Holmes (2015) hanno indagato come traumi relazionali dovuti a pattern di attaccamento disfunzionali trovino espressione attraverso sintomi che sottostanno alle più severe forme di ansia per la prestazione musicale (dissociazione, depersonalizzazione, frammentazione del pensiero, sovraccarico cognitivo, somatizzazioni). Kenny ha suddiviso tali sintomatologie in tre sottotipi di ansia per la prestazione musicale: focalizzata, associata ad attacchi di panico e depressione, e quella con fobia sociale. In senso lato, nella genesi dell’ ansia per la prestazione musicale, l’ipereccitazione fisiologica attira l’attenzione del musicista verso le proprie percezioni interne sottraendola sia all’espressività emozionale che alla gestione della performance, compromettendo il processo esecutivo e comunicativo.
  • Personalità. Il rapporto tra personalità dei musicisti e ansia da performance musicale è stato studiato da Patston e Osborne (2015). Gli autori hanno indagato la relazione tra ansia per la prestazione musicale e perfezionismo in età scolare tra studenti di musica, rilevando che esiste una forte e stabile correlazione tra ansia da prestazione musicale e perfezionismo (soprattutto relativo agli errori esecutivi e alle aspettative genitoriali) nella fascia compresa tra 10 e 17 anni, destinata ad aumentare con l’età e l’esperienza, specialmente nel genere femminile, in cui si è registrato un incremento più rapido e intenso.

In conclusione, la natura multidimensionale dell’ ansia per la prestazione musicale, costrutto relativamente recente poiché definito ed operazionalizzato soltanto nel 2002 (Wilson & Roland, 2002), incoraggia svariate future direzioni nell’ambito della ricerca, che considerino variabili cognitive, percettive, descrittive, esperienziali e di personalità.

Il disagio relativo a questa fenomenologia è infatti diffuso e comune a numerosi talenti del panorama musicale contemporaneo e non, quali per esempio Luciano Pavarotti, Ella Fitzgerald, Enrico Caruso, Barbra Streisand, Leopold Godovsky, Artur Rubinstein, Brian Wilson, Vladimir Horovitz, Sergei Rachmaninoff, Glenn Gould e persino Fryderyk Chopin.

In una lettera a Liszt, infatti, quest’ultimo descriveva così il proprio vissuto di ansia da performance musicale:

“Non sono fatto per i concerti. La folla mi fa paura, mi sento paralizzato da quegli sguardi curiosi, ammutolito da quei visi estranei. Dare concerti invece è affare vostro perché se non vincete il vostro pubblico avete tanta forza d’accopparlo.”

cancel