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Rapporto tra attività sportive e miglioramento delle abilità cognitive

L’ attività fisica ha degli effetti positivi sulle abilità cognitive: abbiamo dati che parlano di miglioramenti nelle funzioni esecutive, nel controllo inibitorio, nella memoria e nell’attenzione; abbiamo fin qui riportato diverse prove a favore dell’ipotesi che l’attività sportiva aumenti la produzione di neurotrofine che migliorano la vascolarizzazione cerebrale e promuovono sia la neurogenesi che la plasticità cerebrale.

Laura Casnaghi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Lo sport e gli effetti sulle abilità cognitive

I bambini amano i giochi di movimento: correre, saltare, rincorrersi e utilizzare palle e palloni di varie dimensioni. Se vi è mai capitato di chiedere a studenti delle elementari e delle medie le loro materie preferite a scuola, spesso vi sarete sentiti rispondere “ginnastica” o “educazione fisica”. Inoltre, chi di voi ha figli o fratelli più piccoli sa come spesso i compiti scolastici vengano da loro tralasciati per partecipare agli allenamenti sportivi o per uscire a giocare con gli amici. Durante la mia esperienza di animatrice in oratorio ho spesso incontrato genitori che venivano a recuperare i figli, molto occupati a concludere una partita di pallone per aver avuto tempo di finire di studiare storia o di esercitarsi in matematica.

Ma il gioco e le attività sportive sono davvero gli antagonisti della preparazione scolastica? Oppure possono essere visti come un valido supporto allo sviluppo di quelle abilità cognitive, come ad esempio l’attenzione, la memoria e la capacità di pianificazione, che sono indispensabili per ottenere successi in ambito didattico?

I primi dati sugli effetti che l’attività motoria ha sulle abilità cognitive provengono dagli studi che, soprattutto negli anni ’90, molti ricercatori hanno condotto su roditori di diverso tipo. Da questi studi è emerso come l’architettura cerebrale di topi “sportivi” sia differente da quella di altri roditori meno attivi (Tong et al., 2001).

Ad esempio, uno studio di Black e collaboratori (1990) confrontava i cervelli di ratti che erano stati allevati in condizioni di minimo stimolo motorio, con ratti che invece avevano avuto libero accesso a una ruota per correre, con altri che erano stati sottoposti ad esercizi obbligatori su tapis roulant (con difficoltà progressivamente aumentata) e infine con un gruppo sottoposto ad allenamenti acrobatici con percorsi fatti di travi, altalene e corde a difficoltà crescente. I topi dell’ultimo gruppo mostravano un aumento del numero delle sinapsi cerebrali e, insieme a quelli sottoposti all’allenamento con tapis roulant, avevano sviluppato una migliore irrorazione sanguigna del cervello: entrambi dati a favore di un miglioramento dell’attività cerebrale dei topini atletici!

Fordyce e Farrar nel 1991 dimostrarono, sempre grazie ad un esperimento su ratti diversamente allenati, come l’ attività fisica costantemente praticata avesse migliorato le funzioni dell’ippocampo e, di conseguenza, i risultati dei roditori in compiti che richiedevano l’utilizzo della memoria spaziale.
Pochi anni dopo, Neeper (1996) con i suoi collaboratori mostrò come l’ attività fisica nei topi producesse una maggior espressione di un gene regolatore della produzione della neurotrofina BDNF (brain-derived neurotrophic factor), responsabile della crescita del sistema nervoso, del buon funzionamento dei neuroni e della difesa di questi dai danni causati dai radicali liberi. Insomma, più un topo aveva corso durante la sua vita, maggiore era stata la produzione di neurotrofina.

Nel 2002, Cotman and Engessar-Cesar pubblicarono uno studio che indicava come la neurotrofina BDNF fosse coinvolta nei processi di apprendimento e di immagazzinamento di informazioni nella memoria a lungo termine. Inoltre è stato riconosciuto l’importante ruolo che questa neurotrofina ha nella prevenzione dello stress cronico (Duman et al., 2006) e della depressione (Martinowich et al., 2007), e nell’aumentare la plasticità cerebrale così da migliorare la resilienza a eventuali danni (Cotman e Berchtold, 2003). L’esercizio fisico genera quindi a cascata una serie di vantaggi al corpo umano dovuti alla produzione di BDNF: maggiore vascolarizzazione cerebrale, neurogenesi, modifiche dell’architettura neuronale e protezione dai danni cerebrali, soprattutto nell’ ippocampo, area centrale per la memoria e l’apprendimento (Cotman e Berchtold, 2003).
Gli studi sugli animali e sugli adulti hanno quindi fatto emergere un ruolo importante dell’esercizio fisico nella preservazione e nel miglioramento delle abilità cognitive.

 

Gli studi sui bambini

Cosa succede invece nei bambini? Nel 2003, Sibley e Etnier pubblicarono una meta analisi su 44 studi che indagavano la correlazione tra attività fisica e abilità cognitive nei bambini; dal loro lavoro emerse non solo una correlazione positiva tra attività motoria e cognizione, ma che l’effetto di miglioramento nella cognizione dovuto all’esercizio fisico era presente anche in soggetti con ritardo mentale o con disabilità fisiche. Questo dato inoltre faceva nuova luce su review precedenti che non avevano trovato associazioni tra l’esercizio fisico e il miglioramento cognitivo di bambini con difficoltà d’apprendimento: Bluechardt,  Wiener e Shephard (1995) scrissero un articolo in cui dichiararono che programmi di attività motoria integrati con training per le abilità sociali in bambini con difficoltà di apprendimento non avevano un effetto migliore di altre forme di attenzione rivolte agli stessi nel miglioramento delle loro abilità intellettive; Shephard (1997) dimostrò come un programma di educazione fisica giornaliera migliorasse lo sviluppo psicomotorio, la rapidità della capacità di apprendere e i risultati accademici dei giovani studenti coinvolti, ma questo effetto non era ugualmente evidente nel caso di bambini con difficoltà di apprendimento.

Nel 2006 Nelson e Gordon-Larsen pubblicarono i dati di uno studio che coinvolgeva più di undicimila adolescenti (età media 15.8 anni) e che si proponeva di studiare le relazioni tra stili di vita sedentari, attività fisica e comportamenti a rischio in età adolescenziale; trovarono che gli adolescenti più attivi negli sport non solo avevano meno possibilità di incorrere in comportamenti rischiosi (assenteismo scolastico, fumare sigarette, usare droghe,…) ma inoltre avevano maggiori possibilità di avere alti profitti scolastici.

Similmente Sigfusdottir, Kristjansson e Allegrante (2006), in uno studio svolto in Islanda su più di cinquemila ragazzi tra i 14 e i 15 anni, trovarono che il rendimento scolastico dipendeva molto dal tipo di dieta seguita dai ragazzi, dal loro Indice di Massa Corporea (BMI) e dal tempo che dedicavano all’ attività fisica. Infatti gli adolescenti più attivi, magri e che si nutrivano in modo sano ottenevano un maggior successo scolastico. I ricercatori tenevano conto anche del sesso dei soggetti, della loro struttura familiare, del tipo di educazione a cui erano sottoposti in famiglia e la frequenza di assenze scolastiche.

Sempre in seguito alle preoccupazioni riguardo all’aumento dell’obesità infantile, uno studio americano del 2007 (Castelli et al., 2007) su bambini tra il terzo e il quinto anno di scuola ( età media di 9,5 anni) indicava che esercizio aerobico e IBM correlavano col successo scolastico, soprattutto nella lettura e nella matematica; dallo stesso studio risultava che l’esercizio fisico per aumentare la forza muscolare e la flessibilità non influiva sul miglioramento scolastico.

Davis (2007) in un primo esperimento su 94 bambini americani tra i 7 e gli 11 anni, in sovrappeso ma per il resto in buona salute, decise di dividere il target in tre gruppi, uno di controllo, uno sottoposto a venti minuti di esercizio al giorno (cinque volte a settimana per quindici settimane), e l’ultimo sottoposto a quaranta minuti di esercizio con la stessa frequenza. Prima e dopo le quindici settimane di allenamento fu somministrato a tutti i bambini una batteria di test per la valutazione dei processi cognitivi (Cognitive Assessment System, CAS): il gruppo sottoposto a un allenamento intenso (quello dei quaranta minuti al giorno) ottenne un notevole incremento dei punteggi al test alla fine delle quindici settimane dando prova del fatto che l’esercizio fisico fosse un buon metodo per migliorare le abilità cognitive e sociali nei bambini.

La stessa Davis nel 2011 diede una ulteriore conferma ai risultati dei suoi studi pubblicando una ricerca che aveva lo stesso disegno sperimentale ( 171 bambini sovrappeso tra i 7 e gli 11 anni divisi in tre gruppi: uno di controllo, uno con sessioni di esercizio di venti minuti, uno con sessioni di quaranta, per circa tredici settimane) ma che aumentava i test pre e post esercitazione e che introduceva anche una valutazione con risonanza magnetica funzionale; l’esercizio fisico migliorava i risultati ai test matematici e ai test valutanti le funzioni esecutive, dato supportato da un aumento dell’attività corticale prefrontale bilaterale riscontrata durante la risonanza magnetica funzionale.

Nel 2008 uno studio di Budde e altri svolto in Germania su ragazzi tra i 13 e i 15 anni riscontrò che anche attraverso una serie di sessioni intense di esercizi di coordinazione (quindi non solo con l’esercizio aerobico descritto negli studi precedenti) si possono ottenere miglioramenti significativi a test che valutano le capacità attentive.

L’esercizio fisico inoltre influisce sulla memoria di lavoro, cioè la facoltà di tenere a mente le informazioni utili ai compiti che si stanno svolgendo, e sul controllo inibitorio delle risposte inadeguate al compito, importanti aspetti delle abilità cognitive coinvolte nei processi di apprendimento (Scudder et al, 2015). Di recente uno studio svolto in Israele (Zach et Shalom, 2016) su venti adulti ha mostrato grandi effetti sulla memoria di lavoro dopo delle sessioni di due ore di pallavolo.

Gli effetti di anche solo cinque minuti di intensa attività fisica provoca un miglioramento delle funzioni esecutive anche in bambini con disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività (ADHD) (Gawrilow et al., 2016).

Abbiamo quindi ricavato dagli studi fin qui riportati come l’ attività fisica abbia degli effetti positivi sulle abilità cognitive: abbiamo dati che parlano di miglioramenti nelle funzioni esecutive, nel controllo inibitorio, nella memoria e nell’attenzione; abbiamo fin qui riportato diverse prove a favore dell’ipotesi che l’attività sportiva aumenti la produzione di neurotrofine che migliorano la vascolarizzazione cerebrale e promuovono sia la neurogenesi che la plasticità cerebrale. Si è visto che tutto ciò corrisponde, spesso in modo significativo, a un miglioramento delle prestazioni scolastiche nei soggetti giovani che praticano attività fisica.

Sfruttando questi miglioramenti dovuti allo sport, Benso (2004) ha istituito un protocollo di riabilitazione dei Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) e del disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività basato su esercizi atti a rafforzare le abilità cognitive di base (memoria lavoro, percezione visiva, attenzione divisa, attenzione sostenuta, …) e il funzionamento del Sistema Attentivo Supervisore (SAS; Shallice, 1989) affiancato a una costante attività sportiva. Infatti secondo l’autore il deficit delle prestazioni nei soggetti DSA è dovuto a debolezze del SAS e dei moduli da questo controllati, in particolare l’attenzione (Benso; 2005); i soggetti DSA vengono quindi considerati bambini con debolezza attentiva, similmente al disturbo da deficit di attenzione e iperattività. Rafforzando i moduli, viene rafforzato anche il SAS e si ottengono miglioramenti nelle prestazioni deficitarie. L’attività motoria prevista nello sport, nelle arti e nel gioco, oltre ad essere utile al fine riabilitativo, è anche piacevole per i bambini e tale piacevolezza aumenta la motivazione al trattamento. Si richiede però che l’allenatore o istruttore sportivo sia un professionista, adeguatamente preparato e formato, che sappia quali funzioni sta andando ad allenare nel bambino con debolezza attentiva; l’istruttore deve essere in grado di allenare i moduli del bambino stimolandolo al limite delle risorse, senza però eccedere rendendo il compito frustrante: infatti un esercizio eccessivamente difficile avrebbe ricadute gravi sulla motivazione e sull’autostima.

L’istruttore deve anche essere a conoscenza che lavorare al limite delle risorse genera irritabilità; è di grande efficacia la scelta di un programma tarato sull’età e sulle capacità del bambino, che non preveda sedute passive di allenamento ma dedichi molta attenzione all’apprendimento dei movimenti fondamentali: questi infatti, se imparati, scomposti, velocizzati e automatizzati, renderanno possibile la flessibilità di composizione di atti motori complessi efficaci. Questo è valido sia che l’attività sia sportiva o artistica: l’importante è evitare ambienti eccessivamente agonistici e gli sport di squadra; nello sport di squadra infatti la pressione dei compagni a giocare bene può incidere sull’autostima del bambino: meglio scegliere attività da svolgere in gruppo o in solitaria come il tennis o le arti marziali. Questo porterà a un aumento dell’attenzione sostenuta, della concentrazione e del controllo, capacità che potranno essere trasferite anche al di fuori dell’ambito artistico/sportivo.

 

Conclusioni: gli effetti benefici dell’ attività fisica sulle abilità cognitive

Abbiamo quindi trovato una risposta supportata dai dati della letteratura alla nostra domanda iniziale: le attività sportive e ludiche caratterizzate da attività fisica non sono antagoniste della preparazione scolastica; sostenendo lo sviluppo delle funzioni esecutive, possono essere considerate un aiuto al miglioramento delle prestazioni didattiche, pure in soggetti con difficoltà di apprendimento. Anche se è ancora da approfondire quanto rilevante sia il contributo dell’ attività fisica al successo scolastico, essendo diversi i risultati delle ricerche riportate, si può comunque concludere che il fatto che i nostri ragazzi passino delle ore a giocare a pallone con gli amici o in palestra ad allenarsi in altri sport non sarà la causa principale dei loro brutti voti!

Suicidio e Tempo, tra la vita e la morte: una riflessione filosofica

Se la vita e il tempo si dispiegano assieme per formare ciò che chiamiamo esistenza, ed il suicidio si compie in questo tempo, allora il suicidio è un gesto della vita, un’espressione in comunione con il fluire del tempo. 

Roberto Minotti e Paulina Szczepanczyk

 

«Vi è solamente un problema filosofico
veramente serio: quello del suicidio.
Giudicare se la vita valga o non valga la
pena di essere vissuta, è rispondere al
quesito fondamentale della filosofia.»

 

Il suicidio è davvero un atto disperato contro la vita? Ma cos’è “vita” e cosa è “morte” per l’individuo, un essere costituito non solo di corporeità e finitudine organica, ma soprattutto di sogni, spirito e trascendenza?
Se osservassimo con maggior cura le ferite invisibili dell’anima, comprenderemmo che il suicidio reale non avviene con la morte del corpo, ma con la sconfitta dello spirito.
Se la vita e il tempo si dispiegano assieme per formare ciò che chiamiamo esistenza, ed il suicidio si compie in questo tempo, allora il suicidio è un gesto della vita, un’espressione in comunione con il fluire del tempo.

La vita ha in sé un’ostinazione così grande a realizzarsi che oltrepassa qualsiasi ragione e qualsiasi ostacolo. Esiste la vita e non il nulla, poiché la volontà che tutto muove non può far altro che generare esistenza. Ma se la vita è così determinata ad esprimere una volontà assoluta ad esistere, perché c’è il suicidio?
In questo lavoro, oltre a tentare di rispondere a tali domande, si cercherà di approcciarsi in modo olistico alla problematica del suicidio.

Per tale ragione, approcciarsi ad una problematica come il suicidio, reputando questo comportamento un errore o un oltraggio alla verità della vita, significherebbe banalizzare la complessità di tematica riducendola a una condotta da correggere o da eliminare. Ma possiamo mai immaginare l’esistenza dell’essere umano senza più il suicidio? Nonostante questo atto sia così tragico ed estremo, possiamo intuire quanto sia profondamente legato alla volontà e al libero arbitrio, caratteristiche fondamentali del genere umano. Un approccio complesso e rigoroso deve poter intuire che alla verità della vita si contrappone la verità della morte, e tra questi due momenti esiste la verità della libertà del volere umano.

 

Il suicidio nella società post-moderna

In questi ultimi decenni si sono scritti molti articoli e si sono fatte moltissime ricerche sul problema del suicidio. Su tale argomento si sono sviluppate teorie, approcci, metodi d’intervento e di prevenzione anche attraverso centri specializzati.

Come mai proprio in questi ultimi anni si sono intensificati gli studi sul suicidio? Cosa rappresenta il suicidio in una società fondata sull’individualismo e sul consumismo? Per tentare di rispondere a tali domande proviamo ad osservare statisticamente questo problema.
Se si analizza il trend storico degli indici relativi al fenomeno del suicidio, scopriamo che le oscillazioni che si sono registrate negli ultimi anni non hanno risentito delle fasi di espansione o contrazione dell’economia. Tale risultato potrà sorprendere, tenuto conto della pressione mediatica che si occupa, molto spesso, in modo anche morboso di tale problematica. Secondo le statistiche, in Italia, ad esempio, l’indice dei suicidi annuali è circa di 1 ogni 20 mila abitanti, con differenze sensibili sulla distribuzione geografica tra il Nord e il Sud. Il Nord, infatti, ha un tasso di suicidi quattro volte superiore a quello del Sud. A riguardo, se consideriamo tra i paesi europei la Germania, che rappresenta uno degli stati più ricchi, rispetto all’Italia tale tasso è esattamente il doppio per giungere addirittura a quattro volte nei paesi scandinavi. La correlazione tra indice economico e suicidi sembrerebbe essere, paradossalmente, molto più alta rispetto a quello legato alla depressione economica e all’insicurezza di non disporre di beni materiali.

Siamo nella società dei paradossi, in cui è radicata la convinzione che il benessere si possa raggiungere attraverso il fare e la produzione “artificiale” di felicità, senza comprendere che tale attività produce invece ulteriore malessere.

Pensando a tutte le potenzialità costituite dalla tecnologie dell’informazione e della comunicazione, in una società iperstimolante, e in perenne trasformazione, l’individuo dovrebbe trovarsi nell’oceano di percezioni, e invece, paradossalmente, il sentire e le passioni si sono cristallizzate: si parla di passioni tristi, di esperienze anestetizzate e anestetizzanti, vissute in assoluto solipsismo, ma esperite in contesti socialmente confluenti. Lo scopo della relazione non sembra più la condivisione di interessi, ma quello di non sentire l’angoscia della solitudine; per non provare il dolore per la perdita dell’altro, di non raggiungerlo o di non essere accettati, non si è più disposti a rischiare il contatto con l’altro, alienando dal nostro campo esistenziale la relazione, ritrovandosi in una vita di solitudine. La relazione è sempre più esperita virtualmente, dove il grande assente è proprio il corpo.

L’isolamento affettivo e il misconoscimento dei livelli emotivi e corporei costituiscono fattori di rischio assai superiori rispetto alle tanto paventate cause economiche. Probabilmente più delle terapie e delle farmacoterapie, la vera prevenzione nasce dall’inclusione del singolo in gruppi e alla rieducazione dell’individuo dei valori relazionali.

La sovraesposizione mediatica delle masse determina un’ulteriore elemento di desensibilizzazione emotiva di fronte a tali eventi. La profonda sofferenza vissuta dalle persone che si sono suicidate, non è mai scandagliata fino in fondo, non costituisce un’occasione di introspezione seria e rigorosa da parte di tutti gli agenti educativi e politici, ma è ridotta a icona o a stereotipo culturale.

Il comportamento suicida, infatti, pone una serie di interrogativi che coinvolgono soprattutto i familiari e la società. Come clinici, pensando soprattutto alla prevenzione del suicidio, dovremmo focalizzare sempre di più la nostra attenzione su tutto il campo relazionale della persona a rischio di suicidio. La sofferenza non è soltanto dell’individuo che minaccia o ha già tentato il suicidio, ma appartiene in modo ancor più radicale al suo campo esistenziale. Se è il lavoro di rete, che in qualche modo può arginare tale fenomeno prevenendolo, allo stesso modo, la famiglia, gli amici, la scuola, il lavoro ecc. possono essere la principale causa di frammentazione della persona che si è progressivamente disancorata dall’esistenza. È la relazione con gli altri a costruire quei legami che permettono alla persona di sentirsi parte di un tutto. Il suicidio prima di essere un atto, è un’idea, un’intenzionalità. Paradossalmente chi si suicida si pone di fronte alla vita in modo così determinato da oltrepassare la tenacia estrema che la vita stessa incarna. Alla verità della vita non si oppone l’errore del suicidio, ma un’altra verità, un’altra espressione dell’essere umano.

Chi ha deciso di uccidersi, oltre a ideare e a pianificare tale atto, sta formulando un messaggio, sta provando a comunicare qualcosa a qualcuno. In quest’ottica il suicidio assume una connotazione di svelamento, di apertura, può essere interpretata come una dinamica relazionale. Infatti, la comunicazione, come sappiamo, ha sempre un’intenzionalità relazionale. Per una vita che è giunta, attraverso la sofferenza e la disperazione, all’isolamento estremo, il suicidio può rappresentare l’ultimo atto relazionale.

 

«A che scopo soffrire?»

L’interrogativo posto da Nietzsche sembra non aver trovato ancora una risposta, ed è proprio questo problema irrisolto, ovvero il nostro senso come esseri viventi, a renderci inquieti e spesso angosciati di fronte all’esistenza. Possiamo allora comprendere la disperazione di chi con un’ intensità diversa e con un dolore più profondo, non avendo più risposte decide di darsi la morte.

Chiederci se la stessa vita abbia un senso, o come afferma Albert Camus, se sia degna di essere vissuta, ci pone di fronte ad un dubbio che mette in discussione il nostro essere nella sua globalità. Classificare i comportamenti suicidari esclusivamente come “non normali”, assurdi o addirittura patologici, significherebbe togliere all’uomo quella parte fondamentale dello suo spirito che lo rende così ostinato e tenace nella ricerca di se stesso. In questa ricerca infinita, in questo viaggio affascinante e tragico, esiste anche la possibilità del suicidio, darsi la morte diviene ammissibile.

Siamo consapevoli che il tema della sofferenza è un tema sempre attuale e al contempo inattuale: è inattuale poiché nella società del benessere, il dolore rappresenta il controsenso più grande. Il dolore e la sofferenza per la società sembrano avere significato se trattati mediaticamente in modo superficiale o virtuale. La sofferenza offerta dai network diviene un grande schermo su cui proiettare tutti i malesseri del mondo come fosse un immenso magnete verso cui ogni disagio scivola, e nello stesso tempo la distanza tra la sofferenza e chi realmente la percepisce aumenta sempre di più.

Ci possiamo chiedere, quindi, se togliere ad ogni costo la sofferenza dal mondo abbia un senso, e se questo procedere verso un illusorio benessere non conduca l’uomo a sofferenze ancora maggiori. Per il clinico che inevitabilmente si avvicina al dolore psichico e alla disperazione, un atteggiamento etico, che possa rispettare sia la persona che soffre che se stesso, è quello di dare dignità, memoria e tempo a questi sentimenti.

L’assurdo è la malattia di cui soffre la nostra mente determinata dall’incapacità di colmare le conoscenze fondamentali attraverso il vivere.
Søren Kierkegaard, nella malattia mortale, ci mostra come la consapevolezza e l’angoscia siano inequivocabilmente uniti; l’uno non può esistere senza l’altro, ed entrambi contribuiscono a creare le nostre strutture e il nostro modo di essere, anche se il risultato di tale consapevolezza è ulteriore angoscia.

La vita è sia libero arbitrio che ineludibilità, sia intrinseca bellezza che incomprensibile dolore, e il suo scorrere è irreversibile; queste grandi separazioni dilaniano l’uomo che di fronte ad una scelta deve necessariamente scindersi per un istante. Per coloro i quali utilizzano il pensiero dicotomico, tali scelte divengono estreme e per tali coscienze, che superano il consueto sentire giungendo alla più profonda consapevolezza, questo dolore diviene metafisico. La scelta ammissibile che l’individuo può compiere, svelati questi massimi orizzonti, può anche essere il suicidio.

In questa prospettiva, la ricerca dell’io non si arresta al suo sentire emotivo, ma prosegue verso l’indicibile, trasformando i segni archetipici, che costituiscono la nostra dimensione ontologica, in visioni improvvise di verità senza nome: l’angoscia è la vertigine che accompagna l’inevitabilità dell’esistenza, in cui la disperazione di non poter uscire dalla vita, se non attraverso un atto consapevole e definitivo, prende forma e sostanza.

Ma a che serve l’uomo? Il suo solo scopo sembra essere quello di evolversi, una voglia indefinibile di divenire, oltrepassandosi continuamente per realizzare il suo Essere. Era dopo era, cellula dopo cellula, strato dopo strato, di struttura in struttura, il cervello «creatore» ha compiuto la metamorfosi, d’improvviso non è più sostanza, ma una mente che non desidera altro che farsi spirito.

Il suicidio non interrompe tale cammino, al contrario ci mostra come l’essere nel mondo trovi un’altra possibilità nell’autenticità del vivere. Molto probabilmente è l’emozione del tempo, ad aprire la ferita più profonda nell’animo e a depositare l’angoscia più grande, un terrore senza confini: il limite del nulla.

Il disagio intimo e la mancanza di senso probabilmente hanno questa origine: nascono dalla dilaniante lotta tra due rapaci insaziabili, ciò che potremmo conoscere e ciò che non potremmo svelare mai. Siamo nati per essere e allo stesso tempo per morire. In quella rima di frattura c’è l’uomo, che gettato nell’esistenza sembra un perenne Lazzaro, un trastullo dell’assurdo. Come uomini di scienza e studiosi del comportamento umano, il nostro compito, o meglio la nostra missione, può essere quella di accogliere questo mare di sofferenza e provare a farlo divenire altro attraverso la relazione e la condivisione. La nostra volontà, che è la medesima che orienta il tutto verso uno scopo, e la nostra ragione che ci guida, sono sufficienti a comprendere ed accettare la disperazione per cambiarla in possibilità?

La paura delle malattie: affrontare e superare l’ansia per la salute e l’ipocondria (2016) – Recensione

Attraverso il libro “La paura delle malattie”, Gordon Asmundson (professore e ricercatore in Psicologia e in Chinesiologia al Canadian Institutes of Health Research) e Steven Taylor (professore al Dipartimento di Psichiatria dell’Università della British Columbia) cercano di spiegare quando l’ ansia per la salute diventa eccessiva e in che modo, attraverso un manuale di auto-aiuto, è possibile venir fuori dai circoli viziosi che caratterizzano tale disturbo.

Marianna Palermo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

[blockquote style=”1″]Ognuno di noi, di tanto in tanto, si preoccupa per la propria salute, spesso anche solo per capire le ragioni delle sensazioni che avverte; e ognuno di noi si è almeno una volta chiesto se il proprio mal di stomaco dipendesse da ciò che aveva mangiato o non fosse piuttosto il sintomo di un’ulcera, se il proprio mal di testa e i propri occhi infiammati fossero conseguenza di una giornataccia o di un tumore al cervello […].[/blockquote]

Ma quando questi pensieri diventano pervasivi tanto da ostacolare le attività quotidiane? E quando l’ansia correlata a tali pensieri diventa disturbante e patologica?

Attraverso il libro “La paura delle malattie”, Gordon Asmundson (professore e ricercatore in Psicologia e in Chinesiologia al Canadian Institutes of Health Research) e Steven Taylor (professore al Dipartimento di Psichiatria dell’Università della British Columbia) cercano di spiegare quando l’ansia per la propria salute diventa eccessiva e in che modo, attraverso un manuale di auto-aiuto, è possibile venir fuori dai circoli viziosi che caratterizzano tale disturbo.

Il testo è suddiviso in 3 parti: nella prima parte si cerca di guidare i lettori nella scoperta delle origini della propria ansia per la salute e nell’individuazione della presenza di altri possibili disturbi d’ansia o depressivi; nella seconda parte si descrivono le modalità per interrompere i circoli viziosi correlati all’ansia per la salute e per eliminare sia i pensieri che i comportamenti ansiogeni associati; nell’ultima parte si discute, invece, della prevenzione delle ricadute e di come si possano modificare i rapporti con i medici e coi familiari che si mostrano spesso esasperati o iperprotettivi nei confronti della persona ansiosa.

 

Ansia per la salute: la diagnosi clinica e quelle differenziali

L’ansia in generale è un’emozione che si esperisce quando si teme che possa accadere qualcosa di pericoloso; l’incertezza del futuro e l’impossibilità di controllare tutto ciò che possa accadere genera uno stato di tensione intenso. Per questo, l’ansia genera delle reazioni fisiologiche e comportamentali che preparano il nostro corpo a reagire nel caso in cui si verificasse davvero l’evento temuto: aumenta la frequenza cardiaca, il respiro è affannoso, i muscoli sono in tensione e si possono provare altre reazioni, quali nausea, sudorazione o sensazione di ovattamento.

L’ansia per la salute, nello specifico, viene esperita nelle situazioni in cui si teme che il benessere fisico possa essere compromesso da qualcosa di molto grave. Essendo una forma d’ansia, è anch’essa caratterizzata dalla presenza di una serie di modificazioni fisiologiche, comportamentali e cognitive e la sua intensità può collocarsi su un continuum che varia da un livello basso ad uno alto e completamente invalidante. La persona che soffre di ansia per la salute, di fatto, avverte davvero dei sintomi fisici che non sono il frutto della sua immaginazione. Tali sintomi possono derivare da molteplici fattori; i più comuni sono lo stress, il sovraccarico lavorativo, cambiamenti nelle abitudini quotidiane. Chi soffre di ansia per la salute, tuttavia, tende ad amplificare tali sintomi e a interpretarli erroneamente come la causa di una grave malattia.

Nel DSM 5 (2014) compare la dicitura di Disturbo d’Ansia di malattia (noto anche come ipocondria), che prevede i seguenti criteri diagnostici:
– Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.
– I sintomi somatici non sono presenti, o se presenti solo di lieve entità. Se è presente un’altra condizione medica, la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.
– È presente un elevato livello di ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo al proprio stato di salute.
– L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute o presenta un evitamento disadattivo.
– La preoccupazione per la malattia è presente da almeno 6 mesi.
– La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale come il disturbo da sintomi somatici, il disturbo di panico, il disturbo d’ansia generalizzata, il disturbo di dismorfismo corporeo, il disturbo ossessivo compulsivo o il disturbo delirante.

L’ansia per la salute va distinta dalla fobia delle malattie, che invece consiste in una fobia specifica e in questo caso la persona non crede di essere già ammalata ma teme di potersi ammalare in futuro. Le manifestazioni dell’ansia e le sensazioni corporee risultano tuttavia le stesse.
Se, invece, la convinzione di avere una grave malattia è così marcata, può insorgere un vero e proprio delirio somatico (ad esempio si può pensare di emettere cattivi odori o di essere infestati da insetti..).

 

Lo stress: la principale causa dei sintomi

La persona che soffre di ansia per la salute tende a pensare che i sintomi che prova siano la manifestazione di una grave malattia. Secondo gli autori, invece, il primo passo per superare questo disturbo è quello di riconsiderare tali sintomi come il frutto di stress e stanchezza. Diventa quindi prioritario individuare i principali fattori stressanti che potrebbero generare tali reazioni corporee e successivamente si possono apprendere delle strategie di gestione dello stress, tra cui le tecniche di rilassamento, i training di respirazione, il problem solving e la gestione del tempo.

Il libro fornisce una lista di potenziali fattori stressanti per poter accedere più facilmente agli eventi che di fatto possono generare alterazioni a livello fisiologico. Tra i più comuni si rintracciano le difficoltà nel contesto familiare, i rapporti sociali, il lavoro, le finanze o i problemi interiori.
In seguito, vengono proposte le tecniche di gestione dello stress e come dovrebbero essere praticate settimana per settimana.

 

Gli errori cognitivi alla base dell’ansia per la salute: riconoscerli per liberarsene

Secondo gli autori, alla base dell’ansia per la salute vi sono delle errate interpretazioni delle sensazioni corporee esperite e dei falsi allarmi: sintomi di per sé innocui e abbastanza comuni vengono considerati espressione di una grave malattia.

Chi soffre di ansia per la salute, inoltre, tende a focalizzare costantemente la sua attenzione sul corpo e sulle sensazioni avvertite e ha la sensazione di percepire più sintomi o più dolore degli altri, proprio a causa di questo meccanismo cognitivo (attenzione selettiva). Tali sintomi tendono, inoltre, ad essere amplificati.

Prendere consapevolezza dei meccanismi cognitivi messi in atto è il primo passaggio per poter sostituire i propri pensieri disfunzionali e generanti ansia con altri più funzionali e adattivi. Tra gli errori cognitivi più frequenti si riscontrano: la generalizzazione (un sintomo viene considerato la prova di una grave malattia), il ragionamento emotivo (avvertire un sintomo equivale ad avere un grave problema di salute), il pensiero dicotomico tutto/nulla, lo sminuire il positivo, la catastrofizzazione e il pensiero magico.

Anche secondo Salkovskis e Warwick (1990) le caratteristiche principali dell’ansia per la salute sono le seguenti: preoccupazione eccessiva per la salute; patologia organica insufficiente per giustificare la preoccupazione; attenzione selettiva nei confronti dei cambiamenti corporei; interpretazione negativa dei sintomi; ricerca continua di rassicurazioni e continuo monitoraggio del proprio corpo.

Secondo Ruggiero e Sassaroli (2006), i costrutti cognitivi principali associati all’ansia per la salute consistono nel timore sproporzionato del danno (catastrofizzazione), intolleranza all’incertezza, timore legato alla valutazione di sé (il paziente ipocondriaco si percepisce come debole e incapace di affrontare i pericoli), il bisogno di controllo.

Una volta individuati tali meccanismi, è possibile liberarsene e sostituirli con pensieri più adattivi utilizzando delle strategie cognitive: ricercare le prove a favore e contro i propri pensieri disfunzionali; assumere il punto di vista di un’altra persona e chiedersi che cosa ci direbbe in tale situazione; valutare i costi dei propri pensieri e rinunciare al bisogno assoluto di controllo e di avere certezze.

 

I comportamenti tipici dell’ansia per la salute

Per gestire la propria ansia per la salute spesso si mettono in atto dei comportamenti che non fanno altro che aumentare il proprio stato ansiogeno. Tra i più frequenti vi sono: il controllare costantemente il proprio corpo per valutare la presenza di eventuali anomalie, il cercare informazioni su internet o libri, il richiedere continuamente visite mediche che, nonostante diano un esito negativo continuano ad essere programmate, il chiedere consigli e rassicurazioni ad amici e familiari, l’evitare situazioni che potrebbero generare una malattia.

Una volta individuati i comportamenti abitualmente messi in atto, è opportuno che essi vengano interrotti e sostituiti con altri più funzionali: innanzitutto, è opportuno limitare i continui monitoraggi del proprio corpo, non richiedere continuamente pareri ai familiari che potrebbero esasperarsi, interrompere il ciclo delle visite mediche, non cercare info su internet o libri in quanto questo potrebbe generare maggiore confusione a causa delle info talvolta contraddittorie o confuse, esporsi alle situazioni temute.

Rispetto a quest’ultimo punto gli autori evidenziano come in particolare gli ansiosi tendano ad evitare le situazioni che aumentano lo stato di ansia. Ad esempio chi soffre di ansia per la salute potrebbe non andare a trovare un amico in ospedale per il timore di contrarre una malattia o potrebbe non svolgere nessuna attività fisica per il timore di un infarto. Potrebbe essere, invece, molto utile aiutare gli ansiosi ad esporsi alle situazioni temute e nel caso dell’ansia per la salute si potrebbero proporre esercizi di esposizione enterocettiva (procurarsi le sensazioni corporee con degli esercizi) e situazionale (esporsi a situazioni in cui si teme di poter contrarre delle malattie).

 

Relazionarsi diversamente con i medici e i familiari

Chi soffre di ansia per la salute tende a recarsi frequentemente dal medico e a non essere soddisfatto del responso ricevuto. Queste continue visite possono rendere difficile il rapporto col proprio medico e potrebbe essere invece utile mettere in atto dei comportamenti differenti per non deteriorare il rapporto col medico e per non mettere in atto il comportamento ansiogeno di continua ricerca di rassicurazioni. Sarebbe ad esempio importante chiedersi se si ha davvero necessità di recarsi dal medico e se la risposta è affermativa è opportuno esporre in maniera chiara ciò che ci spinge a richiedere una visita, esplicitare che si hanno dei problemi di ansia per la salute e per questo si ringrazia il medico per l’attenzione e il tempo dedicati.

Per quanto riguarda il rapporto con i familiari, anch’esso può essere messo a dura prova dalla presenza di un familiare affetto da ansia per la salute. Generalmente le modalità con cui i familiari si rapportano con la persona in difficoltà sono di due tipi: o ci si mostra ipercoinvolti e si forniscono continuamente rassicurazioni oppure si è alquanto stressati e giudicanti. Entrambe le modalità risultano inadeguate, in quanto la prima aumenta la richiesta di rassicurazioni da parte dell’ansioso e l’altra aumenta il senso di colpa della persona con ansia per la salute.

 

Conclusioni

Il testo risulta di facile lettura e presenta numerosi esempi, trascritti e schede con esercizi da svolgere. È consigliato a chi soffre di ansia per la salute ma anche a chi svolge la professione di psicoterapeuta e intende utilizzare il libro come guida per la risoluzione del disturbo del paziente.

Il benessere psicologico di chi si sottopone ad un trapianto di cuore

Sopravvivere ad eventi cardiaci gravi, quale può essere considerato un trapianto di cuore, influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute della persona che ne è vittima (Razzini, C., et al. 2008; Kubzansky, L.D., et al. 2006; Shemesh, E., et al. 2004); generalmente la grave patologia cronica porta con sè vissuti di tipo ansioso-depressivo (Davidson, K.W., et al. 2010), ma anche una sintomatologia tipica del disturbo post traumatico da stress ( Mavros, N., et al. 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew, M. A., et al. 1996,1999, 2000, 2001).

Laura Grigis, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Trapianto di cuore: le fasi da percorrere e l’importanza del supporto psicologico

Il trapianto di organi è un intervento chirurgico che consiste nella sostituzione di un organo malato e quindi non più funzionante, con uno sano dello stesso tipo proveniente da un altro individuo che viene chiamato donatore. Si tratta di un intervento invasivo e molto delicato, non solo a livello medico ma anche per gli importanti risvolti psicologici.

Quanto più l’organo è investito di un significato simbolico, tante più fantasie psicologicamente rilevanti esso porta con sé, con ricadute sulla prognosi. Il cuore, fin dall’antichità, è stato così descritto: «il battito che da esso proviene, che ciascuno può percepire, segna l’inizio e la fine della vita, ne ha fatto il centro vitale dell’essere umano, ancora prima che al cuore venisse riconosciuto il ruolo di assicurare la circolazione del sangue» (Politi, P.L. 2002).

In Italia dal 2010 al 2015 sono stati eseguiti 1474 trapianti di cuore. Di tutti i pazienti in lista d’attesa, quelli per trapianto di cuore sono il 7.8% : il tempo medio in lista è di 2.8 anni, con una mortalità in lista del 7.2.

Perché un paziente cardiopatico venga inserito in lista d’attesa serve un’accurata valutazione della gravità della patologia, del rischio di vita e della non funzionalità di un diverso trattamento (farmacologico e/o chirurgico): la cardiomiopatia ischemica e la cardiomiopatia dilatativa costituiscono, attualmente, le più comuni indicazioni al trapianto. Il protocollo di inserimento in lista d’attesa prevede anche una valutazione psichiatrica con l’obiettivo di escludere l’esistenza di patologie psichiatriche che possano in qualche modo pregiudicare la collaborazione del paziente alle complesse e impegnative procedure post operatorie (Barale, F., Magnani, G., Politi, P.L. 1988).

Generalmente, vengono considerate controindicazioni assolute al trapianto: attuale dipendenza/abuso di droghe e alcol, schizofrenia in fase attiva, storia di numerosi tentativi di suicidio, attuale ideazione suicidaria e demenze (Skotzko, C.E., Stowe, J.A., Wright, C., et al. 2001). In queste situazioni emerge la complessità di aspetti psicologici, relazionali e sociali, aspetti tutti che nella condizione di vulnerabilità di malattia si evidenziano essenzialmente come bisogni (Lovera, G., et al. 2000). La sola considerazione dei bisogni fisiologici fondamentali e la salvaguardia della sopravvivenza biologica non sono più sufficienti: è questa, tipicamente, la condizione dei pazienti giunti ad una insufficienza terminale di organi vitali e sottoposti a trapianto d’organo, che vanno ad aumentare la categoria di quelli che la medicina ha definito survivors (Burke, C.M., et al. 1986) cioè dei pazienti che hanno ricevuto un intervento “salvifico” per la sopravvivenza organica e si trovano così a dover affrontare lo stress di insolite condizioni di vita.

Sopravvivere ad eventi cardiaci gravi, quale può essere considerato un trapianto di cuore, influenza fortemente il benessere psicologico e le condizioni di salute della persona che ne è vittima (Razzini, C., et al. 2008; Kubzansky, L.D., et al. 2006; Shemesh, E., et al. 2004); generalmente la grave patologia cronica porta con sè vissuti di tipo ansioso-depressivo (Davidson, K.W., et al. 2010), ma anche una sintomatologia tipica del disturbo post traumatico da stress ( Mavros, N., et al. 2011): secondo i dati in letteratura va incontro a un PTSD 11% -16% dei pazienti che hanno subito un trapianto (Dew, M. A., et al. 1996,1999, 2000, 2001).

Non intervenire adeguatamente su questi aspetti psicologici ed emotivi può compromettere le possibilità di recupero sia psicologico che fisico del paziente (Shemesh, E. et al. 2004; Frasure-Smith, N., Lespérance. F. 2008).
E’ possibile suddividere in più fasi il percorso che porta al trapianto di cuore: la prima fase è quella “pre-trapianto”, cioè il momento in cui viene comunicata la diagnosi al paziente e inizia l’attesa dell’organo; la seconda fase è quella “post-trapianto” a breve termine; la terza fase è relativa all’adattamento nel lungo periodo alle nuove condizioni di vita.

 

La fase pre – trapianto di cuore

Nel periodo pre-trapianto le difficoltà maggiori sono legate ai disturbi fisici della malattia cardiologica ingravescente, oltre al senso di incertezza e di minaccia per la vita, cambiamenti forzati nel lavoro e nell’ambito familiare e sociale. Questa condizione è complicata dalla permanenza in lista di attesa, con la duplice prospettiva di morte e di vita, e con l’ansia che l’organo non arrivi in tempo: questo viene descritto da molti pazienti come il periodo più stressante mai sperimentato (Christopherson, L.K. 1987). Inoltre l’attesa di un organo ed il desiderio di sopravvivenza causano spesso sentimenti di colpa, vissuti con sofferenza morale (Rupolo, G., Poznanski, C. 1999). Nei pazienti candidati al trapianto cardiaco il 53% presenta disturbi di ansia e il 34% sintomi depressivi (Jones, B.M., et al. 1988): l’ansia si manifesta con insonnia, preoccupazioni ipocondriache, manifestazioni di tipo fobico-ossessivo; la presenza, invece, di depressione, si traduce spesso con difficoltà cognitivo-affettive e generale restrizione dell’attività e/o con l’abbandono dei progetti da parte della persona, nei casi limite si arriva anche a manifestazioni deliranti e sindromi psicotiche (Ciurluini, P., Di Fonzo, C., Rongoni, S., Amicarelli, M. 2010).

In questa fase si sviluppano nel paziente sentimenti di sfiducia e sospetto, disperazione e rassegnazione; la prospettiva del trapianto viene vissuta con grande ambivalenza: se da un lato può suscitare sentimenti di speranza, dall’altro suscita sentimenti di profondo sconforto, se non di terrore, e tali momenti vengono spesso affrontati all’inizio con incredulità e con tentativi di negare la gravità della situazione. La precarietà e la fragilità delle condizioni cliniche impongono un notevole sforzo di adattamento e minano l’autostima e l’autonomia; il vissuto predominante è “la paura di non farcela in tempo” da cui scaturiscono ansia e paura. Non raramente inoltre in questa fase compaiono i primi sentimenti di colpa nei confronti del possibile donatore, cioè la consapevolezza che il reperimento di un organo compatibile richiede la morte di un’altra persona.

In un’ottica di prevenzione, considerato che numerosi studi hanno riconosciuto significative correlazioni tra aspetti psichici e psicosociali ed esiti post-trapianto (ansia, depressione, fattori psicosociali di rischio sono correlati con il numero di rigetti, di infezioni e di ricoveri e con una peggior qualità di vita nel post- trapianto di cuore) (Paris, W., et al. 1994) è necessaria in fase iniziale una valutazione psichiatrica (Chacko, R.C., et al. 1996) e un accurato assessment psicologico, ai quali seguirà uno specifico percorso di sostegno psicologico. Gli obiettivi di una assistenza psicologica nella fase pre-trapianto di cuore si fondano sul comune principio che una buona riabilitazione inizia prima dell’intervento chirurgico, non dopo.

E’ proprio per fronteggiare emozioni così forti in modo funzionale che si pone come necessario un intervento di sostegno psicologico e/o di psicoterapia in fase pre- trapianto: quando, dai colloqui e dall’esame psichiatrico, appaiono evidenti sintomi di ansia o depressione o turbe psicopatologiche, l’assistenza si orienta verso più decisi interventi terapeutici, di ordine sia psicoterapico (a livello individuale e/o familiare) sia psicofarmacologico.

Affiancano questo lavoro di preparazione psicologica gli interventi che hanno lo scopo di aumentare il grado di informazione e di consapevolezza del paziente (e dei familiari) sulla realtà clinica del trapianto di cuore, sulla sua portata e sul programma terapeutico successivo, e di accertarne le motivazioni, sia a livello cognitivo che emotivo.

 

La fase post-trapianto di cuore a breve termine

Nella fase post – trapianto di cuore a breve termine il paziente si trova ancora ricoverato in terapia intensiva, in condizione di precarietà fisica: la facile incidenza di momenti critici di scompenso psichico in questa fase richiede una pronta disponibilità di interventi di valutazione psichiatrica e di terapia psicofarmacologica, che sono di molto agevolati da una precedente conoscenza con il paziente.

La degenza in unità di terapia intensiva (UTI) con i postumi dello shock biologico e dello stress dell’intervento, il dolore, le condizioni di regressione e fragilità psichica, la perdita dei ritmi fisiologici, l’isolamento e la deprivazione sensoriale, rappresenta un periodo di forte sofferenza.

Dal 2°-3° giorno post-operatorio con notevole frequenza i pazienti soffrono di fenomeni psicopatologici, che possono esprimersi in quadri di ansia, irrequietezza, disorientamento, o più conclamati di delirium: stato confusionale, agitazione psicomotoria, allucinazioni, confabulazioni deliranti, affettività alterata. La frequenza di queste psicosi confusionali è indicata in percentuali molto variabili, che mediamente si collocano intorno al 20-40% (Mai, F.M. 1993; Speidel, H., Dahme, B., Flemming, B., et al. 1983; Craven, J.L., et al. 1990): vi contribuiscono non solo cause biologiche (metaboliche, chirurgiche, farmacologiche) ma anche aspetti psichici di fragilità personologica dei pazienti.

Generalmente, se non si presentano complicazioni post-operatorie, dopo circa una settimana il paziente trapiantato esce dall’UTI per essere seguito nel reparto di cardiologia; in questa fase l’assistenza psicologica assume una più incisiva azione psicoterapeutica:
– favorire la ripresa dell’autonomia e delle funzioni vitali (per esempio del sonno notturno)
– concedere spazio all’espressione delle emozioni e dei vissuti post-trapianto
– sostenere il paziente a livello emotivo e cognitivo durante le possibili complicazioni
– favorire comportamenti di accettazione e di compliance e più in generale stili di coping di tipo adattivo da parte del paziente, operando anche con interventi di mediazione tra medici e paziente (o familiari) per sostenere la comprensione reciproca e individuando strategie relazionali da concordare con i curanti (Lovera, G., et al. 2000).

In ogni caso, anche nelle degenze di più felice e rapido decorso, si considera importante un colloquio psicologico prima della dimissione con il paziente per valutarne l’equilibrio psichico e le capacità di riadattamento all’ambiente esterno e con i familiari perché siano sufficientemente preparati ad accoglierlo.

Nella fase immediatamente successiva all’intervento in alcuni pazienti si ha quella che alcuni autori definiscono “luna di miele” (Barale, F., Magnani, G., Politi, P.L. 1988), una sensazione transitoria di rinascita che può assumere le caratteristiche di uno stato di ipomaniacalità reattiva alla condizione di grave angoscia provata prima dell’intervento (Livi, U., Thiene, G., Casarotto, D. 1988); sentimenti di liberazione, di emotività intensa, talora di vera euforia, per essere sopravvissuti, fanno percepire l’evento del trapianto come una rinascita.

La fase della “luna di miele” non è però libera da cognizioni negative e sintomi disfunzionali al benessere psicologico del paziente: la paura del rigetto, delle complicazioni, del futuro, creano una condizione di incertezza esistenziale. Inoltre in questa fase sono particolarmente attivi pensieri e fantasie sulla persona del donatore, con sentimenti compositi di gratitudine e di colpa. Sono inoltre diffusamente presenti, nelle prime settimane del post-intervento, sintomi organici cerebrali, con deterioramento cognitivo (attenzione, concentrazione, memoria) che possono permanere, sfumati, anche a lungo (Mai, F.M. 1993; Craven, J.L., et al. 1990).

A distanza di un anno dal trapianto i dati rivelano un aumento significativo delle funzioni fisiche: l’83% dei sopravvissuti non ha alcuna limitazione funzionale, mentre il 10% dei pazienti afferma di aver bisogno di assistenza nelle attività quotidiane (Catania, C.G., et al. 2013).

La diagnosi di disturbi ansiosi e depressivi è più frequente durante il primo anno dopo il trapianto rispetto agli anni successivi, ed è più frequente rispetto al resto della popolazione e rispetto a un campione di soggetti affetti da altre patologie croniche; inoltre ansia e depressione (associate a fattori psicosociali di rischio) sono correlati con il numero di rigetti, di infezioni e di ricoveri e con una peggior qualità di vita nel post-trapianto (Paris, W., et al. 1994); il disturbo post-traumatico da stress correlato al trapianto, sebbene meno comune, è stato osservato nel 15% dei pazienti (Coffman, K.L., Crone, C. 2002); disturbi psichici e psicosociali risultano essere predittivi di scompensi psichici, di non compliance e di cattivo adattamento nel post-trapianto (Phip, L. 1997); la valutazione psichiatrica e la misura delle modalità di coping e del sostegno sociale sono fattori predittivi della mortalità nel post-trapianto (Chacko, R.C., et al. 1996) perciò diventa importante una assistenza psicologica in questa fase, non solo per l’aiuto attuale ai pazienti, ma anche per riconoscere fattori di rischio su cui operare preventivamente.

 

La fase post dimissioni dopo il trapianto di cuore

Nella fase che segue la dimissione, inizia la vera e propria riabilitazione del paziente alla vita familiare, sociale e lavorativa. L’assistenza psicologica può essere di diverse tipologie: interventi nelle situazioni di crisi, su richiesta dei medici curanti, o del paziente e dei familiari; terapia di gruppo (Hyler, B.I., Corley, M.C., MC Mahon, D. 1985)

La crescente consapevolezza della durata e complessità dei processi di adattamento che seguono al trapianto di cuore e delle difficoltà di reinserimento familiare e sociale, insieme con la necessità di capire meglio le conseguenze a lunga distanza del trapianto sulla qualità della vita dei pazienti, consigliano di preferire valutazioni dello stato di salute psicologica programmati, in genere a distanza di 3-6 mesi e poi di un anno (Lovera, G., et al. 2000), a cui far seguire se necessario interventi di sostegno e/o psicoterapia; la valutazione riguarderà la compliance alle cure, il funzionamento dal punto di vista emotivo, familiare, sociale e la percezione della qualità della vita.

Un importante studio tedesco del 1999 (Schlitt, H.J., et al. 1999) ha dimostrato che, diversamente dalle aspettative comuni, il trapianto d’organo sembra essere ben accettato psicologicamente dai pazienti: il 99% di loro consideravano infatti il nuovo organo come parte integrante del loro corpo, anche se con un’eterogeneità di atteggiamenti che oscillavano dalla totale alla parziale ma possibile integrazione. La completa integrazione del trapianto era associata ad un miglior stato di salute e un buon equilibrio mentale: difficile capire se l’atteggiamento mentale positivo abbia favorito le condizioni mediche, oppure se al contrario la gravità non eccessiva della patologia e dei sintomi organici abbia permesso l’utilizzo di strategie di “coping” efficaci nell’affrontare il trapianto; da questo studio (Schlitt, H.J., et al. 1999) emerge però una differenza significativa di migliore integrazione dell’organo tra le pazienti donne; inoltre, si è visto che la maggior parte dei pazienti si poneva domande riguardo l’organo estraneo soprattutto nella fase immediatamente postoperatoria, mentre pochissimi facevano riflessioni sul trapianto a lungo termine.

Con la dimissione i pazienti affrontano il ritorno al loro contesto familiare e sociale ed un periodo di adattamento alla vita di “trapiantato”, che generalmente si svolge nell’arco di sei mesi-un anno. Nonostante il miglioramento delle condizioni fisiche, rimane in letteratura la fondata evidenza di un malessere psicopatologico e psicosociale (Grady, K.L., Jalowiec, A., White-Williams, C. 1996). Con la dimissione i pazienti si sentono privati della protezione dell’ospedale e sperimentano sentimenti di abbandono e di insicurezza, mentre sono esposti all’ansia di un riadattamento al mondo esterno. Inoltre i pazienti trapiantati, dopo la dimissione e nell’incontro con la realtà successiva, sperimentano delusioni nelle aspettative di “guarigione”, che trasformano l’euforia del periodo post-operatorio in crisi emotive di ansia e di depressione, con la progressiva consapevolezza della propria incertezza esistenziale e della permanenza nella condizione “di malato”.

L’esperienza del trapianto costituisce una crisi psicosomatica (Chiesa, S. 1989) che impegna le risorse bio-psico-sociali dei pazienti, e dei familiari, nel processo di adattamento all’organo trapiantato. Ciononostante medici e familiari sollecitano, ed i pazienti fantasticano, il ritorno alla normalità. Per i medici l’obiettivo finale è l’immagine di un paziente in discreto equilibrio fisico-psichico e con buona compliance a terapie e controlli; per i familiari è spesso il desiderio di un ritorno alla vita “di prima”, cioè senza la presenza della malattia.

I pazienti invece incontrano numerosi fattori di ostacolo ad una normalizzazione dell’esistenza Lovera, G., et al. (2000) ad esempio:
– i postumi dello stress chirurgico (6 mesi-1 anno) che possono lasciare disturbi cognitivi e della cenestesi, insonnia e turbe emotive quali ansia e depressione, fino allo strutturarsi in un vero e proprio Disturbo post-traumatico;
– gli effetti collaterali delle terapie antirigetto (ciclosporine e cortisone);
– modificazioni dell’immagine corporea;
– ansia per i controlli periodici;
– paura, rabbia, angoscia e depressione legate alle possibili complicanze e agli episodi di rigetto;
– modificazioni nella quotidianità legate alle attenzioni specifiche che la persona trapiantata deve prestare a se stessa e al suo ambiente (nutrizione, infezioni, protocolli terapeutici).

A risentire della nuova condizione di vita, per quanto spesso migliore della precedente, sono anche la relazione di coppia (Bunzel, B., Laederach-Hofmann, K., Schubert, M.T. 1999) e la definizione dei ruoli all’interno della famiglia; la letteratura segnala un ritorno al lavoro a tempo pieno in percentuali medie intorno al 45% (Mai, F.M. 1993; Craven, J.L., et al. 1990; Notova, P., et al. 1997) che sono ben inferiori ai valori medi di recupero delle funzioni fisiche.

Un importante studio condotto, Padova (con la collaborazione di Dipartimento Trapianti e Clinica Psichiatrica Universitaria) tra il 1997 e il 1999 ha studiato la qualità della vita di 467 pazienti trapiantati (Lovera, G., et al. 2000). Con la definizione di qualità della vita (quality of life: QoL) si intende, secondo le indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità “la percezione soggettiva che un individuo ha della propria posizione nella vita, nel contesto di una cultura e di un insieme di valori nei quali egli vive, anche in relazione ai propri obiettivi, aspettative, preoccupazioni”.

Questo studio conferma che il trapianto migliora la qualità della vita dei pazienti, ma con le seguenti precisazioni: nell’immediato post-trapianto il giudizio espresso è entusiastico non solo per il benessere riacquistato, ma soprattutto per il superamento del rischio di morte che, nell’esperienza del paziente, si traduce in un vissuto di “rinascita” e “liberazione”. La consapevolezza realistica del trapianto si verifica una volta trascorso il primo anno, all’emergere di complicanze e di difficoltà di adattamento alla vita quotidiana. Se il primo anno corrisponde dunque alla fase più critica da un punto di vista organico, il periodo successivo è il tempo della elaborazione psicologica e della crisi psico-somatica.

Nel post- trapianto di cuore, l’insorgenza di disturbi ansioso-depressivi potrebbe giocare un ruolo importante. È stata infatti dimostrata una correlazione tra sintomatologia depressiva e bassa percezione della QoL (Buendia, F., Almenar, L., Martinez- Dolz, L., et al. 2011). Il tasso di prevalenza dei disturbi depressivi nelle malattie cardiovascolari va da un 15% a un 25%. In più, il 30-45% dei pazienti affetti da patologie cardiovascolari soffre di sintomatologia depressiva che però non rientra nei criteri diagnostici del disturbo depressivo maggiore. Tali sintomi possono essere difficili da diagnosticare e si presentano con caratteristiche atipiche, come irritabilità, presenza di disturbi cognitivi, sentimenti di frustrazione, mal di testa, disturbi gastrointestinali, astenia, disturbi del sonno, riduzione dell’appetito e vaghi sintomi somatici (Catania, C.G., et al. 2013).

La depressione è un fattore di rischio per la morbilità e la mortalità in pazienti con malattie cardiovascolari. Poichè un umore depresso predice la QoL, e QoL e benessere psicologico sono correlati alla morbidità e mortalità dopo un trapianto, un trattamento effettivo della depressione potrebbe potenzialmente migliorare la QoL e prolungare la sopravvivenza dei pazienti sottoposti al trapianto di cuore.

L’intervento psicologico sui pazienti che sono stati sottoposti al trapianto si sviluppa quindi su due direzioni, seguendo un po’ quella che è la divisione delle fasi “di vita” pre e post intervento: in ottica preventiva, è importante l’assessment psicologico e l’intervento psicoterapeutico precedente all’intervento; in ottica di miglioramento della qualità della vita e di prevenzione di complicazioni post-trapianto sono importanti interventi di sostegno psicologico (anche alla famiglia) e di psicoterapia, volti alla risoluzione di sintomi e disturbi ansiosi, depressivi e alla gestione della reazione allo stress traumatico.

La sintomatologia ansiosa, depressiva e post-traumatica possono essere efficacemente gestite attraverso l’utilizzo della Psicoterapia Cognitivo Comportamentale; in particolare la metodologia EMDR si è rivelata di successo sui pazienti sopravvissuti ad eventi cardiaci gravi (Arabia, E., Manca, M. L., Solomon, R. M. 2011) come il trapianto; inoltre i pazienti possono essere guidati in un processo di consapevolezza degli stati interni attraverso il biofeedback e l’analisi delle variabili fisiologiche fino all’acquisizione della capacità di autoregolazione delle stesse.

Un nuovo modello per prevedere attentati terroristici con un accuratezza del 90%

I ricercatori della Binghamton University (State University of New York) sostengono di avere sviluppato un nuovo modello esplicativo che sarebbe in grado di prevedere attentati terroristici futuri con elevate percentuali di accuratezza, riconoscendo schemi d’azione attuati in attacchi passati.

 

Le agenzie governative non possono sempre utilizzare social media e mezzi di comunicazione per scoprire le intenzioni dei terroristi dal momento che oggigiorno i terroristi sono molto più prudenti nell’utilizzo di queste tecnologie per pianificare e prepararsi per un attacco.

I ricercatori della Binghamton University (State University of New York) sostengono di avere sviluppato un nuovo modello esplicativo che sarebbe in grado di prevedere attentati terroristici futuri con elevate percentuali di accuratezza, riconoscendo schemi d’azione attuati in attacchi passati.

I ricercatori hanno proposto questo nuovo modello di comprensione che potrebbe placare anche l’ansia e la paura delle masse verso il possibile verificarsi di attacchi terroristici: il Networked Pattern Recognition (NEPAR) Framework, un modello finalizzato a comprendere comportamenti, analizzare schemi d’azione e connessioni nell’ attività terroristica, predire future mosse terroristiche ed eventualmente prevedere attentati terroristici futuri.

 

Prevedere attentati terroristici: come è stato sviluppato il NEPAR Framework

Utilizzando dati ricavati da più di 150mila attacchi terroristici avvenuti tra il 1970 e il 2015, Salih Tutun, dottorando alla Binghamton University, ha sviluppato questo modello in grado di calcolare le connessioni tra determinate caratteristiche degli attacchi terroristici (ad esempio: ora dell’attacco, tipologia dell’arma, etc.) e specifiche azioni terroristiche.

Mohammad Khasawneh, professore e direttore del dipartimento di Scienze Sistemiche e Ingegneria Industriale alla Binghamton, ha assistito la ricerca. Il metodo proposto era in grado di prevedere attentati terroristici con successo,: esso infatti, nel corso dello studio, ha predetto la maggior parte delle caratteristiche degli attacchi terroristici già avvenuti con un accuratezza superiore al 90%.

In seguito, dopo aver costruito il network di connessioni, i ricercatori propongono un approccio in grado di prevedere attentati terroristici con maggior accuratezza e identificare l’estensione degli attacchi (90% di accuratezza), gli attacchi multipli (96% di accuratezza) e gli obiettivi dei terroristi (92% di accuratezza). Pertanto, i governi potranno controllare i comportamenti terroristici per ridurre il rischio di attacchi futuri.

 

Le novità introdotte dal NEPAR Framework per prevedere attentati terroristici

Studi precedenti si erano focalizzati sul comprendere il comportamento individuale dei terroristi (come singole persone) piuttosto che studiare i differenti attacchi terroristici creando un modello sistemico e più complesso; l’attività di individuazione terroristica si è sempre focalizzata su un incidente specifico, in modo individuale, non tenendo in considerazione così le dinamiche di interazione tra i diversi attacchi.

Tutun ritiene che i policy-maker possano usare questi approcci per tentare di comprendere e individuare con un buon margine di tempo l’ attività terroristica, rendendosi così capaci di prendere precauzioni contro attacchi futuri.

Quando risolvi il problema a Baghdad, tu risolvi il problema in Iraq. Quando risolvi il problema in Iraq, risolvi il problema in Medio Oriente. E quando risolvi il problema in Medio Oriente, risolvi il problema nel mondo – ha detto Tutun – Perchè quando guardi a ciò che succede in Irag, gli stessi schemi stanno verificandosi negli USA.

 

Intervista a Matthieu Villatte: Relational Frame Theory e terapie di terza generazione

In attesa di Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione, I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione, abbiamo incontrato Matthieu Villatte uno dei professionisti internazionali esperti in materia di Relational Frame Theory.

Michele Pennelli

 

Dal 22 al 24 Marzo saremo a Milano per seguire il convegno Mindfulness, Acceptance, Compassion: nuove dimensioni di relazione. Sarà il I° congresso italiano di confronto tra psicoterapie cognitivo-comportamentali di terza generazione. Il convegno è organizzato da ACT Italia e IESCUM con il patrocinio della IULM, ospiterà diversi professionisti Internazionali, molti afferenti all’ ACBS (Association for Contextual Behavioral Science).

In anteprima, abbiamo incontrato uno di loro: Matthieu Villatte, che ha tenuto un interessantissimo workshop ad Ancona dal 16 al 18 Marzo ed organizzato dall’ SPC (Scuola di Psicologia Cognitiva).

Matthieu Villatte è psicologo, trainer e autore, ha lavorato presso l’University of Louisiana e l’Evidence-Based Practice Institute of Seattle; si occupa di RFT (Relational Frame Theory) ed ha pubblicato, nel 2015, Mastering the Clinical Conversation Language as Intervention, un importantissimo libro sulle possibili applicazioni cliniche di una delle teorie più complesse e apprezzate degli ultimi anni, la Relational Frame Theory per l’appunto, un approccio post skinneriano allo studio della cognizione e del linguaggio.

 

Alla scoperta della Relational Frame Theory: intervista a Matthieu Villatte

 

Intervistatore: Ci puoi dire come dalla Francia e dal tessuto culturale della psicoanalisi francese tu sei arrivato alla Relational Frame Theory?

Matthieu Villatte: Beh, in effetti, è veramente sorprendente, so bene che in Francia, nel tessuto culturale francese, c’è una dominanza della psicoanalisi, ma sono stato fortunato, perché nell’ Università che ho frequentato c’era anche una buona parte di analisi comportamentale e pur essendo la maggior parte dei corsi di psicoanalisi, c’era anche molto comportamentismo.

La mia mente razionale era più interessata ad un approccio scientifico e mi attraeva il comportamentismo. Sono arrivato, poi, alla Relational Frame Theory perché ho iniziato a studiare la teoria della mente, ma da una prospettiva comportamentista. E’, comunque, da rilevare che allora pochi comportamentisti conoscevano la Relational Frame Theory.

 

Intervistatore: Il modello della Relational Frame Theory è un approccio post skinneriano allo studio della cognizione e del linguaggio ed è un modello molto complesso, tu, con il tuo libro, hai cercato di restituire a questo modello di laboratorio, un approccio clinico, ci puoi spiegare come ci sei riuscito? E da dove è nato questo bisogno?

Matthieu Villatte: All’inizio, per me, la Relational Frame Theory e l’ACT erano collegate perché così venivano presentate nei libri, ma il collegamento tra le due non mi era chiaro, perché da un lato vedevo la teoria e dall’ altro l’applicazione pratica. In realtà il mio vero interesse per l’ACT è nato perché essa era incorporata nella Relational Frame Theory. Molti terapeuti arrivano alla Relational Frame Theory perché praticano l’ACT, ma io ho fatto il percorso inverso, infatti, nella prima formazione che ho fatto volevo che il collegamento tra la Relational Frame Theory e l’ACT fosse ben chiaro, soprattutto perché volevo che la Relational Frame Theory fosse più facilmente riferibile al suo modello applicativo, ossia, l’ ACT.

Il percorso di chiarificazione del passaggio dalla Relational Frame Theory ad ACT è stato ed è molto complesso, perché si tratta di capire cosa nella pratica clinica è veramente essenziale trasportare dalla Relational Frame Theory. In questo passaggio ho ritrovato due tipi di rischi: da una parte, individuare le cose importanti per l’applicazione clinica di un modello teorico ampio e complesso, dall’ altra non semplificare troppo, correndo il rischio di perdere la ricchezza della Relational Frame Theory come modello esplicativo della cognizione e del linguaggio. Il libro Mastering the Clinical Conversation: Language as Intervention è stato il risultato di un confronto continuo con i clinici, incontrati nelle diverse formazioni tenute. Infatti, abbiamo costruito il libro parallelamente alle formazioni, tanto è vero che, la prima stesura del libro è stata molto differente rispetto alla seconda che è stata adattata rispetto a ciò che ritenevamo, via via, utile.

 

Intervistatore: Mi è capitato di confrontarmi con diversi BCBA (Board Certified Behavior Analyst) ed ho notato che c’è molta difficoltà a parlare di Relational Frame Theory, come ho notato molta difficoltà in alcuni terapeuti della seconda onda ad accettare i cambiamenti teorici che le terapie di terza onda stanno portando in questo periodo nel panorama della psicoterapia cognitiva comportamentale, tu cosa ne pensi di questo dibattito?

Matthieu Villatte: Io penso che la Relational Frame Theory possa essere un buon ponte tra la psicologia cognitiva e la psicologia comportamentale, però, si può correre il rischio che entrambi gli approcci possano creare delle resistenze a questo incontro. E’ molto importante capire come e su quali basi possa essere costruito questo ponte, da un lato la psicologia cognitva può sostenere che alcuni aspetti siano troppo comportamentali, viceversa, la psicologia Skinneriana può sostenere che la Relational Frame Theory sia troppo cognitiva.

Il ponte potrebbe essere il contesto, dove è possibile inserire le cognizioni ed il comportamento, ma il dibattito rimane aperto ed è importante non chiudersi alle nuove scoperte, ma sempre dialogare per un accrescimento comune.

 

Intervistatore: L’anno scorso, sempre ad Ancona, abbiamo incontrato Niklas Törneke (autore del libro Learning RFT: An Introduction to Relational Frame Theory and Its Clinical Application) e ci disse che il regalo che la Relational Frame Theory /ACT aveva fatto alla comunità psicologica era il concetto di fusione e defusione, sei d’accordo con lui e qual è secondo tela peculiarità della Relational Frame Theory?

Matthieu Villatte: Sono pienamente d’accordo con Niklas, perché ritengo che probabilmente il concetto defusione cognitiva sia il concetto chiave nell’ ACT, insieme a quello di augmenting sui valori, se si mettono insieme questi concetti si ha veramente tutto. Il concetto di fusione e defusione cognitiva e il lavoro funzionale sui valori può essere forse la chiave per costruire il ponte di cui parlavamo prima, tra la psicologia cognitiva e quella comportamentale.

Fusione e defusione, infatti, permettono di riconoscere come il linguaggio abbia un’influenza sul comportamento e come l’approccio contestuale possa alterare il comportamento. Se dovessi definire la peculiarità della Relational Frame Theory, direi che essa ritiene che il linguaggio sia un comportamento come gli altri, ma allo stesso tempo non sia un comportamento come gli altri: può essere studiato come un prodotto del contesto, ma è un comportamento con delle caratteristiche diverse da altri comportamenti.

 

Intervistatore: La settimana prossima sarai a Milano al primo congresso 3 G in Italia, cosa ti aspetti?

Matthieu Villatte: Sono molto entusiasta di partecipare al convegno 3 G, perché la comunità italiana è una delle comunità più attive e più prominenti nella ACBS (Association for Contextual Behavioral Science), il nostro attuale presidente è Nanni Presti, primo presidente eletto non di lingua anglosassone. Quindi, ritengo che la comunità italiana abbia molto contribuito alla ricerca radicata in quella che è l’analisi comportamentale. E’ stato fatto in Italia un grosso lavoro anche di traduzione dei contributi internazionali sull’ ACT e la Relational Frame Theory.

Moltissimi formatori dell’ ACBS sono venuti negli anni in Italia, come per esempio Niklas Törneke, ed hanno fatto sì che l’Italia sia diventata un luogo importante per la nostra società.

 

Intervistatore: Grazie per la tua disponibilità Matthieu!

Matthieu Villatte: Prego, ci vediamo a Milano!!

 

Si ringrazia la Dott.ssa Laura Coverlizza per la traduzione, il Dott.Emanuele Rossi e la Scuola di Ancona dell’Spc per la disponibilità dimostrata.

 

Forse non sarà domani – Luigi Tenco e il suicidio di protesta

Da quanto ho potuto intuire dalle interviste e dalle canzoni, Luigi Tenco aveva un carattere idealista e coerente e per certi aspetti molto rigido sulle proprie posizioni, qualità che sicuramente non erano molto adattative all’ambiente dello spettacolo. 

 

Quest’anno decorre il cinquantesimo anniversario dalla morte del cantautore Luigi Tenco, morto suicida il 27 gennaio 1967 nella stanza 219 dell’Hotel Savoy di San Remo, dove si trovava per partecipare al celeberrimo Festival musicale. Negli ultimi mesi sono stato coinvolto dal giornalista e sociologo Mario Campanella nella realizzazione di un libro su questo importante personaggio della musica e della cultura italiana, uscito proprio il 27 gennaio scorso per l’editore Arcana.

Nel libro, mentre Mario ha dato voce ad un Io narrante immaginario, che in qualche modo ha tentato di “rivitalizzare” Luigi Tenco, il mio compito è stato quello di tracciarne un profilo psicologico, partendo dalla sua biografia e dalle sue canzoni.

E’ stato un viaggio molto interessante nell’universo di un uomo complesso, a tratti controverso e contraddittorio, la cui opera artistica continua ad essere ricordata e reinterpretata, generazione dopo generazione. La sua uscita di scena così clamorosa, che una parte del mondo dello spettacolo tentò allora di ignorare o sminuire, ha continuato a rivivere e ad essere ricordata dal Club Tenco, una organizzazione di artisti e giornalisti che ha avuto in questi anni la finalità di valorizzare e tutelare la canzone d’autore italiana.

 

Luigi Tenco, il suicidio di protesta contro la giuria del Festival

Alcuni studiosi hanno addirittura visto nel suo suicidio una sorta “trauma sociale” che avrebbe contribuito alla nascita della stessa canzone d’autore in Italia. Nel congedarsi dal mondo terreno, Luigi Tenco ha lasciato infatti un famoso biglietto (chiamato in termini tecnici “nota suicidiaria”), in cui lanciò un pesante j’accuse contro la giuria del Festival, colpevole di aver escluso il suo brano Ciao amore, ciao  e di avere premiato brani ben più frivoli e meno impegnati, facendo rientrare così il suo gesto nei cosiddetti “suicidi di protesta”, che non hanno solitamente alle spalle una problematica psichiatrica come la depressione o altri disturbi, ma rappresentano il sacrificio estremo per un’idea o un’ingiustizia subita.

 

Analisi psicologica di Luigi Tenco: cosa raccontano di lui le sue canzoni?

Nonostante il titolo non particolarmente pregnante, Ciao amore, ciao è una canzone di Luigi Tenco impegnata sull’immigrazione, forse non una delle più memorabili del cantautore, ma sicuramente più innovativa di tante altre. A differenza di quello che alcuni hanno cercato di sottolineare per tentare di discolpare il modo della musica, Luigi Tenco non pareva affatto una persona che stesse vivendo un periodo di depressione, ma era anzi pieno di interessi e di progetti, con una fervida vita sociale, con tanti amici ed amori.

Molti testi di Luigi Tenco sono sicuramente venati da una certa malinconia, che a tratti diventa lucida disillusione (“Un giorno dopo l’altro…qualcuno anche questa sera, torna deluso a casa piano piano”), che ricorda per certi versi l’organizzazione di significato personale depressiva di guidaniana memoria.

Da quanto ho potuto intuire dalle interviste e dalle canzoni, Luigi Tenco aveva un carattere idealista, coerente e per certi aspetti molto rigido sulle proprie posizioni, qualità che sicuramente non erano molto adattative all’ambiente dello spettacolo. Quando diceva “la canzone è un fatto troppo importante nella vita di un uomo” ci credeva davvero e mostrava un rispetto quasi religioso per il prodotto artistico e per il pubblico. E’ probabile dunque che la fisiologica ferita narcisistica per l’eliminazione del proprio brano dalla competizione sia stata vissuta in modo molto amplificato dal cantautore.

Nelle dichiarazioni e nelle canzoni di Luigi Tenco si trovano inoltre diversi esempi di quel pensiero dicotomico, tutto o nulla, che non lascia spazio alla mediazione e che è spesso uno dei target della psicoterapia cognitiva. Diceva l’artista in un ‘intervista “Io compromessi non ne ho fatti mai, con nessuno, perché non ne so fare, non riesco a venire a patti con la coscienza, cioè con certe mie convinzioni…è una protesta che nasce al di fuori della propria volontà”. Anche nei testi di alcuni brani, come la splendida canzone Cara Maestra, troviamo tracce di questa attitudine alla coerenza estrema (in questo caso anche di preoccupante presagio), che letta con gli occhi del nostro mondo liquido fa quasi sorridere “Egregio sindaco, m’hanno detto che un giorno tu gridavi alla gente: Vincere o morire! Ora vorrei sapere come mai vinto non hai eppure non sei morto, e al posto tuo è morta tanta gente che non voleva né vincere né morire…”.

Il tragico evento della morte del cantautore può essere stato dunque favorito da un particolare assetto caratteriale, su cui ha inciso un forte evento stressante, con il fattore precipitante della polintossicazione, che rappresenta come è noto un importante fattore di rischio negli eventi suicidari (pare accertato che quella notte Luigi Tenco abusò di alcolici e del barbiturico Pronox).

Come riporta il suicidologo Maurizio Pompili intervistato per il libro:

Il caso di Luigi Tenco ci insegna che il rischio di suicidio era intriso nella sua personalità. Le emozioni negative lacerenti che provocano una sofferenza che supera la soglia di sopportazione specifica per ogni individuo, possono esporre l’individuo al suicidio. Essere privati di qualcosa ritenuto vitale ossia come scopo di vita, e come motivo di realizzazione, può, in certi casi dove sussiste una vulnerabilità condurre l’individuo al desiderio di morire.

Di seguito è riportata l’introduzione alla mia parte del libro, con una sorta di lettera al cantautore.

Caro Luigi,

ci sono ricascato, ma questa volta non è stata del tutto colpa mia. E’ stato un giornalista appassionato di musica e psichiatria (un po’ come me) a chiedermi una specie di consulenza sul tuo caso. Mario Campanella è riuscito a convincermi (non c’è voluto poi così tanto in realtà) a ficcare il mio naso di psichiatra nella tua storia, alla ricerca di riflessioni psicodinamiche, forse qualche diagnosi, un profilo psicologico, insomma qualcosa di psichiatricamente rilevante. Chi considera solo il modo in cui ci hai lasciato, in effetti sarebbe portato a pensare che verosimilmente eri depresso, forse disperato, magari impazzito, come altro si potrebbe giudicare un bellissimo uomo di ventinove anni, che fa il cantante e partecipa alla manifestazione musicale più nota in Italia, quindi sulla strada della consacrazione, pieno di amici, di interessi e di talenti, che decide di spararsi dopo una piccola-grande delusione? Molti dicono che noi psichiatri siamo interessati solo a cercare quello che non va, il difetto mentale, il deficit, l’anomalia, il conflitto. Un po’ è vero, ma nel tuo caso, a differenza di altri tuoi colleghi, mica ho trovato un gran che nella tua breve storia! D’accordo non ti ho conosciuto di persona, ma in questi cinquant’anni la tua vita e la tua opera è stata davvero passata al microscopio dagli studiosi e dagli appassionati.

Il gesto del suicidio non può essere confinato nel recinto del dibattito psichiatrico, perché può avere note implicazioni filosofiche, esistenziali, religiose (per chi ci crede) e ideologiche. Uno psichiatra può essere interpellato per tentare di capire se dietro al gesto estremo possa celarsi un disturbo psichiatrico, un dolore silenzioso magari non riconosciuto che abbia come conseguenza il gesto anticonservativo, o se il movente vada cercato altrove. Quello che ho cercato di fare, usando come nell’altro libro scritto per Arcana (Psicorock, storie di menti fuori controllo del 2016) uno stile e un atteggiamento più scientifico possibile, è stato allora di ripercorrere la tua vita, interrotta in modo così brusco dal tuo suicidio, per cercare di capire come il tuo carattere e le tue esperienze di vita, al di fuori della patologia, possano averti portato a compiere una scelta così clamorosa.

Mi sono così imbattuto nella tua spiazzante disillusione, nella tua tristezza apparentemente consapevole, nel tuo dipingere la noia del vivere quotidiano, nel tuo raccontare l’amore in modo non idealizzato, nel tuo carattere intransigente, nella tua fragilità. Sei stato sicuramente più di un cantante, per certi aspetti forse anche un filosofo, con la tua poetica a tratti così vicina al nichilismo, che colpisce davvero in un ragazzo poco più che ventenne. La tua profondità di sguardo e il tuo atteggiamento disincantato mi portano ad associare la tua figura ad altri grandissimi personaggi che hanno dato un contributo fondamentale al pensiero occidentale come Giacomo Leopardi o Arthur Schopenhauer.

Avere trascorso alcuni mesi insieme alle tue canzoni, alle tue parole, alle testimonianze dei tuoi amici è stata per me un’esperienza emozionante e interessantissima, direi unica e ti ringrazio per questo privilegio. Come cantautore poi non potevo non amare alcune tue canzoni-faro come “Vedrai, vedrai”, “Cara maestra”, “Mi sono innamorato di te” e tante altre. Aver avuto l’occasione di approfondire la tua discografia mi ha portato a scoprire molte altre perle, ma soprattutto mi ha aiutato a comprendere meglio la tua dedizione alla causa della canzone (che forse portata all’accesso è stato anche quello che ha contribuito a portarti via), facendomi capire la tua importanza nella storia della cultura italiana.  Mi metto dunque in fila dietro l’esercito di studiosi, musicisti, scrittori, semplici appassionati che ti hanno ricordato in questi anni, con il mio modesto contributo.

Grazie per tutto,

Gaspare.

Luigi Tenco: Vedrai Vedrai (1965)

 

Attenzione, bias attentivi e disregolazione emotiva nel Disturbo Borderline di Personalità 

Pazienti con disturbo borderline di personalità sono caratterizzati da ipervigilanza e bias attentivi per stimoli negativi, le teorie cognitive assumono che tali bias dell’ attenzione non siano un semplice prodotto del disturbo ma che abbiano un ruolo chiave nel mantenimento e nel concorrere a causare questi problemi, innescando un circolo vizioso che fa precipitare in uno stato di ansia intensa che appare fuori controllo e senza fine.

Luana Lazzerini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Processi cognitivi e disregolazione emotiva nel Disturbo borderline di personalità

La disregolazione emotiva è spesso descritta come la caratteristica centrale del disturbo borderline di personalità (BPD) e viene concettualizzata come una combinazione di vulnerabilità emotiva ed incapacità a modulare le risposte emotive.

Persone con disturbo borderline di personalità hanno una tendenza biologicamente determinata a sperimentare emozioni negative che possono essere facilmente attivate, intense e di lunga durata. Questo temperamento emotivamente vulnerabile interagisce con un ambiente invalidante e/o traumatico che favorisce lo sviluppo di adulti con intenso dolore emotivo e con poche competenze per la gestione dello stesso (Linehan, 1993; Zanarini & Frankenburg, 2007). La vulnerabilità emotiva è caratterizzata da un’elevata sensibilità a stimoli emotivi e da reazioni insolitamente forti che sono rallentate nel ritorno allo stato basale.

Gran parte dei comportamenti disfunzionali e impulsivi caratteristici del disturbo borderline di personalità sono tentativi disadattivi volti a ridurre o evitare stati negativi intensi (Chapman et al.,  2006). Rabbia, ansia, vergogna e depressione sono emozioni comunemente elevate nel disturbo borderline di personalità (Rush et al., 2007).

Una vasta letteratura teorica ed empirica mette in evidenza come i problemi emozionali siano fortemente associati ad una serie di processi cognitivi disadattivi che favoriscono l’elaborazione di informazioni con significato e valenza emozionale negativa (Wilson et al., 2007).

Ad oggi ci sono numerosi studi che dimostrano come i processi cognitivi disadattivi spesso possano anche precedere l’insorgenza dello stress emotivo e possono svolgere un ruolo rilevante sia nel mantenimento che nello sviluppo di disturbi emotivi (Alloy L.B. & Riskind, 2006; Mathews & MacLeod, 2005).

La maggior parte degli studi che indagano la relazione tra processi cognitivi e problemi emozionali si sono focalizzati su singoli disturbi e perlopiù in asse I. Tuttavia, le importanti analogie nei processi cognitivi tra i vari disturbi hanno portato ad un aumento di riconoscimento del valore di una prospettiva transdiagnostica. Molti processi cognitivi, tra cui l’attenzione selettiva e la memoria, o stili di ragionamento disadattivo quali la ruminazione e la soppressione di pensiero, sono legati in modo trasversale a numerosi disturbi emotivi contribuendo alla loro insorgenza ed al loro mantenimento (Harvey et al., 2004; Baer R.A. et al., 2012).

La centralità del disturbo emotivo nel disturbo borderline di personalità suggerisce che tali processi possano contribuire in modo rilevante alle disfunzioni caratteristiche del disturbo borderline di personalità e quindi al suo sviluppo e mantenimento (Arntz et al., 2005).

In generale, il modello cognitivo ipotizza che i pazienti con disturbo borderline di personalità elaborino le informazioni attraverso uno specifico insieme di tre credenze fondamentali (schemi di stessi e degli altri): “Io sono impotente e vulnerabile”, “Io sono indegno, inaccettabile”, “Gli Altri sono pericolosi e cattivi”. Avendo bisogno di sostegno in un mondo pericoloso ma non fidandosi degli altri, chi soffre di disturbo borderline di personalità mostra un costante stato di ipervigilanza. In condizione di ipervigilanza informazioni specifiche relative allo schema sono altamente prioritarie e difficili da inibire; questo porta a dei bias nelle fasi iniziali di elaborazione delle informazioni, come l’attenzione selettiva.

 

L’ attenzione selettiva nel disturbo borderline di personalità

L’attenzione selettiva è stata ampiamente studiata in vari disturbi, e si è dimostrata avere un ruolo cruciale nell’eziologia e nel mantenimento in particolare dell’ansia patologica (Mathews, 1997). Nel disturbo borderline di personalità, tuttavia, i bias attentivi non sono stati presi adeguatamente in considerazione da parte dei ricercatori.

La scarsità di studi sull’ attenzione selettiva è in contrasto con il riconoscimento dell’ansia come un aspetto significativo del disturbo borderline di personalità, con la relazione tra disturbo borderline di personalità e traumi infantili e con la relativa alta comorbilità del disturbo borderline di personalità sia con disturbi d’ansia che con disturbi di personalità del cluster ansioso (Zanarini et al., 1998). Pazienti con disturbo borderline di personalità hanno difficoltà a controllare la loro attenzione che può essere focalizzata sul passato, sul futuro, o sul dolore attuale piuttosto che sul compito corrente (Linehan 1993).

 

Bias attentivi nel disturbo borderline di personalità: i paradigmi sperimentali e le ricerche

Negli studi empirici il bias attentivo viene valutato considerando le prestazioni al Test di Stroop o su compiti di sonda visivi (Visual Dot Probe Task). Entrambi i metodi richiedono ai partecipanti di svolgere un compito attentivo centralizzato il più rapidamente possibile, ignorando distrattori emotivi.

Nel compito emotivo Stroop gli intervistati vedono parole neutre ed emotivamente rilevanti in scritte con inchiostro di diversi colori e viene chiesto di nominare il colore dell’inchiostro il più rapidamente possibile. Persone con problemi emotivi in ​​genere sono più lente a nominare il colore di parole emotive rispetto a parole neutre (Mathews & MacLeod, 1985), presumibilmente a causa di  una polarizzazione dell’ attenzione sul significato delle parole emotivamente rilevanti che interferisce con l’esecuzione del compito.

Alcuni studi utilizzano una procedura subliminale, in cui ogni parola è presentata molto brevemente ed è seguita immediatamente da altre lettere dello stesso colore. Anche quando i partecipanti non possono identificare la parola, il tempo di latenza per citare il colore è più lungo per parole legate a contenuto emotivo piuttosto che per le parole neutre (MacLeod & Hagan, 1992). La procedura subliminale cattura meglio il processo attentivo automatico, mentre i tempi di presentazione più lungo possono valutare un processo più controllato (Mathews, 1997).

Nelle attività con sonda visiva, i partecipanti vedono brevemente due parole (una emotiva e una neutra) sullo schermo del computer. Le parole poi scompaiono e appare un punto nello spazio che prima era occupato da una delle due parole. Il partecipante deve premere un tasto il più velocemente possibile dopo aver rilevato il punto.

Persone con bias attentivo dovrebbero essere più veloci ad individuare i punti che appaiono nello spazio appena occupato dalla parola emotiva mentre, quando il bias non c’è i tempi di risposta dovrebbero essere equivalenti per i punti che compaiono nelle due posizioni (Harvey et al., 2004).

In entrambi questi test si possono utilizzare immagini al posto delle parole.

Alcuni studi sperimentali hanno mostrato una polarizzazione dell’attenzione per stimoli negativi nei pazienti con disturbo borderline di personalità  (Arntz et al., 2000). Questi si sono dimostrati più lenti rispetto ai controlli sani e ad altri gruppi clinici nel nominare il colore di parole connotate emotivamente in senso negativo in modo specifico per parole legate ai temi tipici del disturbo borderline di personalità  (indegno, vulnerabile, inaccettabile), suggerendo una polarizzazione dell’attenzione coerente con i temi cognitivi caratteristici del disturbo (Sieswerda et al., 2006).

Tale effetto è stato riscontrato anche quando il Test di Stroop veniva modificato includendo parole individualizzate per ogni partecipante che rappresentavano eventi negativi personali. I pazienti con disturbo borderline di personalità hanno mostrato tempi di risposta significativamente più lenti rispetto ai controlli sani per le parole che rappresentano quest’ultima categoria (Wingenfeld et al. 2009).

Uno studio con pazienti adolescenti ha riscontrato un’interazione tra stato d’animo corrente e ipervigilanza a stimoli emotivi negativi. Il bias attenzionale verso stimoli emotivi negativi è stato riscontrato quando i pazienti con disturbo borderline di personalità  si trovavano in uno stato d’animo negativo. Quando i pazienti erano in uno stato d’animo positivo, tendevano invece all’evitamento di stimoli emotivi negativi. I gruppi di controllo hanno mostrato un modello inverso. Questo può indicare che i risultati non rappresentano un comune, effetto non specifico che dipende dall’umore corrente, ma piuttosto una specificità del disturbo borderline di personalità. (Ceumern-Lindenstjerna I.-A. et al. 2010).

Uno studio in un campione non clinico che ha utilizzato un Visual Dot Probe con immagini di volti minacciosi, piacevoli o neutre ha evidenziato come i partecipanti con caratteristiche di personalità più simili al disturbo borderline di personalità hanno una tendenza a rilevare stimoli minacciosi velocemente per poi spostare l’ attenzione lontano da essi. (Berenson et al. 2009). Studi prospettici indicano che l’ attenzione selettiva legata a stimoli di minaccia predice una maggiore difficoltà di fronteggiamento di eventi stressanti (MacLeod & Hagan, 1992). Inoltre, è stato dimostrato che i partecipanti possono essere addestrati a sviluppare un bias attentivo verso stimoli negativi determinando così una maggiore difficoltà durante lo svolgimento successivo di attività stressanti come risolvere anagrammi difficili (MacLeod et al., 2002).

 

Attenzione, bias attentivi e disturbo borderline di personalità: conclusioni

Pazienti con disturbo borderline di personalità sono caratterizzati da ipervigilanza e bias attentivi per stimoli negativi. Le teorie cognitive assumono che tali bias non siano un semplice prodotto del disturbo ma che abbiano un ruolo chiave nel mantenimento e nel concorrere a causare questi problemi, innescando un circolo vizioso che fa precipitare in uno stato di ansia intensa che appare fuori controllo e senza fine.

Il legame tra attenzione selettiva e disturbo borderline di personalità è stato dimostrato in diversi studi, che indicano un substrato comune tra la patologia borderline, disturbi affettivi, disturbi d’ansia, disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) e anche da prove di deficit neuropsicologici in pazienti con disturbo borderline di personalità (Portella et al., 2011; Domes et al., 2006; Arntz et al., 2000).

Non è stata segnalata nessuna evidenza di bias attentivi per stimoli presentati in forma subliminale, il che suggerisce che la polarizzazione dell’ attenzione in questi pazienti può essere un processo controllato, piuttosto che automatico.

La capacità di controllare l’ attenzione in corrispondenza di stimoli emotivi è fondamentale per facilitare la regolazione emotiva. Sono stati delineati 5 passaggi fondamentali nel processo di regolazione emotiva: la selezione della situazione, la modifica della situazione, la  distribuzione dell’ attenzione, il cambiamento cognitivo, e la modulazione della risposta (Ceumern-Lindenstjerna I.-A. et al., 2010). Imparare a distribuire l’ attenzione implica la capacità di adattarla al fine di modificare le emozioni in una data situazione.

Linehan (1993) sostiene che i pazienti con disturbo borderline di personalità mostrano problemi di disingaggio dell’ attenzione da stimoli emotivi a causa del loro deficit nella regolazione emotiva e che ogni persona molto attivata emotivamente mostra un deficit nel controllo dell’ attenzione, sottolineando quindi l’impatto delle oscillazioni marcate dello stato emotivo sul controllo attentivo.

Alcuni studi hanno però dimostrato la presenza di un’associazione causale tra i bias attentivi e la vulnerabilità emotiva che può influire in modo importante nella capacità di regolazione emotiva (MacLeod et al., 2002). La presenza di una difficoltà nella capacità di discriminare rapidamente tra espressioni facciali negative e neutre sotto pressione temporale dimostra una polarizzazione dell’ attenzione verso stimoli negativi che aiuta a comprendere le difficoltà e le incomprensioni dei pazienti con disturbo borderline di personalità nelle interazioni sociali, in cui sono richieste risposte particolarmente veloci ai fini della capacità adattiva (Dyck et al., 2009).

Inoltre, alcuni autori (Ceumern-Lindenstjerna I.-A. et al., 2010) sostengono che la modalità con cui vengono elaborate le informazioni negative nei pazienti con disturbo borderline di personalità possa variare a seconda dello stato d’animo del momento, ovvero che quando l’umore è negativo ci sia un bias verso stimoli negativi, mentre quando lo stato d’animo è positivo si verifichi il processo inverso. Il bias attentivo verso stimoli negativi può aggravare l’umore già negativo facilitando la disregolazione e causando deficit di inibizione. Invece, l’evitamento di espressioni facciali negative in uno stato d’animo positivo può favorire interazioni sociali disfunzionali alterando il riconoscimento di importanti stimoli emozionali e favorendo in modo indiretto una successiva disregolazione. Studi condotti su adolescenti mettono in evidenza che il deficit di elaborazione delle informazioni esiste già nelle prime fasi di sviluppo del disturbo borderline di personalità.

Per incrementare le capacità terapeutiche può essere rilevante prendere in considerazione sia gli effetti dell’umore corrente nel bias attentivi sia approfondire la conoscenza circa le relazioni tra bias attentivi, disturbo borderline di personalità, e le disfunzioni sottostanti nei sistemi neurali coinvolti nell’elaborazione di stimoli emotivi negativi.

In generale anomalie nei processi attentivi aiutano a mantenere la patologia borderline. Questo offre spunti per nuove possibilità terapeutiche. Interventi che hanno lo scopo di influenzare i processi attentivi potrebbero rappresentare un utile complemento alle terapie già stabilite nei pazienti con disturbo borderline di personalità. Una possibilità sarebbe quella di utilizzare tecniche per modificare o controllare i processi attentivi, come ad esempio training per la riqualificazione dell’ attenzione che insegnano ai pazienti a contrastare l’ attenzione verso stimoli negativi adottando uno stile attentivo evitante verso gli stessi.

Se venisse confermata l’associazione tra stato d’animo attuale e bias attentivo dovrebbero essere svolti addestramenti diversi da praticare in situazioni di umore positivo o negativo. In particolare si dovrebbe stimolare l’evitamento in condizioni di umore negativo mentre, quando lo stato d’animo è positivo, i pazienti dovrebbero essere istruiti a prestare attenzione a spunti emotivi negativi nell’ambiente sociale (Ceumenrn-Lindenstjerna I.-A. et al., 2010). Attraverso questi interventi diversificati i pazienti potrebbero migliorare la loro capacità di regolazione emotiva in contesti sociali.

Nel complesso interventi terapeutici che si focalizzano sulle anomalie dei processi attentivi potrebbero essere utilizzati in modo complementare ad altri approcci terapeutici (DBT-cognitivo-trauma) contribuendo a migliorare il funzionamento sociale e la capacità di regolazione emotiva in pazienti con disturbo borderline di personalità (Ceumenrn-Lindenstjerna I.-A. et al., 2002).

Risulta necessario estendere le competenze teoriche relative alla comprensione del ruolo dei bias attentivi nello sviluppo della sintomatologia clinica e valutare la concreta efficacia di training attentivi in vista della possibile apertura a nuove prospettive terapeutiche.

Autismo ed evoluzione del cervello. Più intelligenti grazie ai geni dell’autismo

Le leggi della selezione naturale prevedono che le varianti evolutive con impatto negativo sul successo riproduttivo di una specie si estinguano a favore invece di elementi che, capaci di garantire una maggiore possibilità di sopravvivenza, tendono ad essere trasmessi di generazione in generazione. Ci si dovrebbe dunque aspettare che con il trascorrere del tempo i geni associati all’autismo vadano a scomparire ma le cose non stanno così.

 

Gli effetti vantaggiosi dei geni dell’autismo

L’autismo è una condizione poligenica, vale a dire che più geni, su cui possono intervenire vari fattori ambientali, risultano coinvolti nella configurazione di questa neurodiversità.

Le leggi della selezione naturale prevedono che le varianti evolutive con impatto negativo sul successo riproduttivo di una specie si estinguano a favore invece di elementi che, capaci di garantire una maggiore possibilità di sopravvivenza, tendono ad essere trasmessi di generazione in generazione.
Ci si dovrebbe dunque aspettare che con il trascorrere del tempo i geni associati all’autismo vadano a scomparire ma le cose non stanno così.

Due ricercatori della Yale School of Medicine, Renato Polimanti e Joel Gelernter, hanno condotto uno studio su un campione di più di 5000 soggetti autistici per giungere alla conclusione che le varianti genetiche responsabili di tratti autistici, hanno goduto di un’evoluzione positiva che ha permesso che si mantenessero nel tempo poichè portatrici di effetti almeno in parte vantaggiosi. È il caso per esempio di alcune varianti coinvolte in processi molecolari alla base della formazione di nuovi neuroni, condizione che garantirebbe un funzionamento intellettivo migliore.

I ricercatori hanno infatti potuto constatare che la genetica dei disturbi dello spettro autistico (l’insieme di varianti che determina un rischio di autismo nella popolazione generale) è positivamente correlata con indici significativi di un miglior funzionamento cognitivo, quali gli anni di scolarizzazione, il completamento del college e l’intelligenza infantile.

L’autismo sembrerebbe insomma il prezzo da pagare per l’evoluzione del nostro cervello piuttosto che un errore nel processo evolutivo della nostra specie.

Evitare le informazioni contrarie alla propria felicità: una strategia comune

Le persone evitano deliberatamente tutte le informazioni che rappresentano una potenziale minaccia per la loro felicità e il loro benessere. 

 

Le strategie per evitare deliberatamente alcune informazioni

I ricercatori hanno dimostrato che, se la semplice mancanza di informazioni costituisce il caso più netto di evitamento delle informazioni, le persone, in realtà, possiedono un ampio range di strategie che gli consentono di evitare attivamente informazioni che sarebbero facilmente a loro disposizione. Inoltre, gli esseri umani sono notevolmente abili nel dirigere l’attenzione in modo selettivo verso informazioni che tendono a confermare ciò in cui credono o che si riflettono positivamente su di loro e a dimenticare informazioni che non gradiscono e “sperano non siano vere”. Viviamo in un’ “era dell’informazione” senza precedenti: chi è a dieta ha accesso a informazioni nutrizionali, di ogni genere, gli individui a rischio di patologie genetiche possono sottoporsi a test medici all’avanguardia e i cittadini appartenenti a democrazie moderne hanno accesso ad un ampio range di nuove fonti che coprono l’intero scenario politico.

Tuttavia però, nonostante tutte le informazioni che ci sono in circolazione, le persone ne utilizzano molto poche. Chi è a dieta, ad esempio, spesso preferisce non badare al numero di calorie presenti in un dessert gustoso, gli individui a rischio di patologie genetiche evitano test di screening che potrebbero fornire risposte definitive sulla loro condizione e la maggior parte dei consumatori di notizie scelgono fonti che sono in linea piuttosto che contro alla loro ideologia politica. Pertanto, gli esseri umani, a volte, evitano in modo attivo informazioni che tuttavia sono utili e disponibili.

Sulla base di ricerche condotte in ambito economico, psicologico e sociologico, George Loewenstein, Russell Golman and David Hagmann della Carnegie Mellon University’s (Pittsburgh, in Pennsylvania) hanno illustrato come le persone evitino deliberatamente informazioni che costituiscono una potenziale minaccia per la loro felicità e il loro benessere, pubblicando il loro lavoro sul Journal of Economic Literature.

[blockquote style=”1″]In economia, la verifica standard delle informazioni prevede che le persone ricerchino informazioni che le possano aiutare nel processo decisionale, che non evitino mai attivamente informazioni e che aggiornino spassionatamente le proprie opinioni quando incontrano nuove informazioni valide[/blockquote] ha affermato Loewenstein, professore di Economia e Psicologia e co-fondatore dell’Economia Comportamentale.

[blockquote style=”1″]Ma le persone, spesso, evitano informazioni che potrebbero aiutarle a prendere decisioni migliori se ritengono che tali informazioni possano essere dolorose da ricevere. I cattivi insegnanti, ad esempio, potrebbero beneficiare dei feedback provenienti dai loro studenti, ma sono molto meno propensi a studiare assiduamente per la qualifica di insegnante rispetto agli insegnati più qualificati.[/blockquote]

Perfino quando le persone non possono in alcun modo ignorare le informazioni in entrata, spesso utilizzano dei modi tutti loro di interpretarle: prove assolutamente discutibili sono spesso trattate come credibili quando confermano ciò in cui si vuole credere -come nel caso di ricerche screditanti che collegano i vaccini all’autismo. E, per lo stesso motivo, prove che incontrano le richieste rigorose della scienza sono spesso ignorate se vanno contro ciò in cui le persone vogliono credere, come illustrato dalla diffusa rimozione di prove scientifiche dei cambiamenti climatici.

 

Le controindicazioni dell’evitamento di alcune informazioni

Evitare le informazioni può minacciare il benessere individuale, come quando le persone perdono importanti opportunità per trattare malattie gravi nelle fasi precoci o falliscono nel venire a conoscenza di migliori investimenti finanziari utili per la pensione. E ha inoltre consistenti implicazioni sociali. La richiesta di informazioni ideologicamente allineate guida il bias mediatico che alimenta la polarizzazione politica (un fenomeno che si verifica quando l’iniziale posizione media del gruppo diventa estrema dopo l’interazione tra i membri e porta gli individui più cauti ad assumere atteggiamenti più estremi rispetto all’orientamento preesistente). Quando fatti di base non fanno più parte di una visione comune, la base del discorso sociale scompare.

[blockquote style=”1″]Un’implicazione dell’evitamento di informazioni è che finiamo col non impegnarci con quelli che non sono d’accordo con noi[/blockquote] ha affermato Hagmann, dottorando presso il Dipartimento di Scienze Sociali e Decisionali.

[blockquote style=”1″]Bombardare le persone con informazioni che sfidano le tanto amate credenze -la strategia abituale che le persone impiegano nei tentativi di persuasione- è più probabile che alimenti l’evitamento difensivo piuttosto che un’elaborazione ricettiva. Se vogliamo ridurre la polarizzazione politica, bisogna trovare vie alternative non solo per esporre le persone ad informazioni contrastanti, ma per aumentare la loro ricettività alle informazioni che sfidano ciò in cui credono e in cui vogliono credere.[/blockquote]

Nonostante le sue insidie e i suoi costi, l’evitamento delle informazioni non è però sempre uno sbaglio o il riflesso di una mente pigra. Le persone lo fanno per una ragione secondo Golman, assistente alla cattedra di Scienze Sociali e Decisionali. Coloro che non si sottopongono ad un test genetico possono godere della loro vita fino a quando la malattia non può più essere ignorata, un senso grandioso di sé e delle proprie capacità può aiutare a perseguire obiettivi importanti e utili e non controllare gli investimenti finanziari quando i mercati sono in calo può impedirci di vendere tutto in preda al panico.

Capire quando, perché e come le persone evitano le informazioni può aiutare allo stesso modo governi e aziende a raggiungere il proprio pubblico senza sommergerlo di messaggi indesiderati.

La cura del Sé traumatizzato – Intervista a Ruth Lanius

Il libro di Ruth Lanius, La cura del Sé traumatizzato, è un compendio della sua esperienza clinica e del suo impegno come ricercatrice in tema di trauma e sintomi dissociativi. Abbiamo intervistato l’autrice per lasciare alle sue parole la descrizione del libro e del suo metodo di lavoro.

 

 

L’ultimo libro di Ruth Lanius e Paul Frewen “La cura del sé traumatizzato” è da pochissimo uscito in Italia, edito da Giovanni Fioriti Editore e tradotto da Giovanni Tagliavini, e offre finalmente ai cultori del tema una nuova occasione di approfondimento, scambio e confronto su trauma complesso e disturbi dissociativi.

Durante il workshop tenutosi a Milano lo scorso 24 e 25 Febbraio, organizzato da Btl Workshop, è stato possibile acquisire dal vivo racconto della Dott.ssa Ruth Lanius una panoramica dettagliata delle tecniche più efficaci nella cura del trauma e delle più recenti ricerche in neuroscienze e neurofisiologia, permettendo a tutti i clinici presenti, seppur appartenenti a diversi orientamenti teorici, di comprendere e fare luce sui meccanismi fisiologici che sottostanno ai sintomi dissociativi e più in generale ai sintomi da stress post traumatico.

Il libro di Ruth Lanius è un compendio di tutto questo: della sua esperienza clinica e del suo impegno come ricercatrice, appassionata e rigorosa, nella comprensione dei fini meccanismi psicologici, biologici  e ambientali che regolano la relazione tra mente, corpo e cervello, in una cornice neuro fenomenologica che tiene conto dell’evoluzione e dell’adattamento individuale e personale alla vita.

 

Intervista a Ruth Lanius

Alle parole di Ruth Lanius la descrizione del libro e del suo metodo di lavoro.

 

Intervistatrice: Come ha sottolineato più volte nel corso del workshop, fare la diagnosi giusta è cruciale per i pazienti traumatizzati ed è cruciale per i clinici nella scelta dei trattamenti più efficaci a disposizione. Spesso è tuttavia difficile intercettare sintomi dissociativi o trauma-correlati, se non si è esperti conoscitori di quest’area della psicopatologia. Quali sono le domande più importanti e significative che esplora durante le primissime sedute, per essere certa di individuare la presenza di dissociazione sotto la superficie dei sintomi depressivi o di ansia o dei tratti di personalità? Come usa il suo Modello quadridimensionale nell’assessment?

Ruth Lanius: Di solito inizio esplorando la dimensione del tempo e chiedo ad esempio “Le capita qualche volta di perdere alcuni momenti della sua giornata?” e cerco di approfondire episodi specifici per quantificarlo; se si tratta di qualche secondo, so che parliamo di episodi non significativi, ma quando i miei pazienti mi riferiscono di perdere minuti, ore o addirittura giorni, subito so che lì c’è un problema dunque di alterazione della coscienza e di non-integrazione. Qualche volta mi capita anche semplicemente di chiedere:  “Mi dica qualcosa sulla sua percezione del tempo?” e se c’è una dissociazione grave spesso ricevo come risposta “Non ho in realtà alcuna percezione del tempo che passa”.

La seconda area che esploro è a dimensione del pensiero e di certo chiedo al paziente se ha avuto o ha attualmente l’esperienza di sentire le voci. Ovviamente i pazienti possono essere spaventati o vergognarsi, perciò quello che chiarisco sempre quando faccio questa domanda è che sentire le voci non vuol dire “essere pazzi”, ma che al contrario si tratta di una esperienza molto frequente quando una persona ha vissuto nella vita situazioni gravemente traumatiche, soprattutto se durante nell’infanzia. Credo che una delle caratteristiche distintive tra voci dissociative e voci più tipiche delle psicosi è la presenza di voci bambine; se è presente almeno una voce bambina, di solito sono più orientata a valutare la presenza di un disturbo dissociativo piuttosto che psicotico.

Poi esploro la dimensione del corpo e chiedo ai miei pazienti se qualche volta capita loro di sentirsi fuori dal corpo o di sentire che il corpo non appartiene affatto a loro e in genere questo secondo tipo di risposte mi suggerisce che c’è una dissociazione più grave e più complessa, poiché credo che la sensazione di non avere o non riconoscere il corpo come proprio abbia più direttamente a che fare con l’identità: è molto diverso dire “Mi sento fuori dal MIO corpo” o dire “Sento di non avere un corpo o che il MIO corpo non mi appartenga davvero”, poiché nel primo caso il corpo è ancora percepito come proprio, nel secondo il corpo non lo è e questo indica più frammentazione. E infine circa la dimensione delle emozioni, chiedo di solito se capita di vivere sensazioni di ottundimento (numbing), o di non sentire nessuna emozione rispetto ad alcuni eventi, ed esploro anche la presenza di compartimentalizzazione emotiva. In questo caso ad esempio chiedo “Le capita qualche volta di vivere intense emozioni, ad esempio rabbia, e di non ricordare affatto di averle provate?”. E’ abbastanza frequente per i pazienti dissociativi non riuscire a ricordare di essersi arrabbiati finché un partner o un familiare non glielo riferisce; più spesso hanno un vago ricordo di aver perso il controllo, ma non riescono a recuperare nella memoria neppure l’innesco del litigio. Come clinici sappiamo che quando le emozioni non sono dentro la coscienza e in controllo consapevole delle nostre aree corticali, può succedere che non venga fissata alcuna memoria cosciente degli eventi che le coinvolgono.

Tutte queste domande sono solo alcuni esempi che possono aiutare a raccogliere una “breve storia di sintomi dissociativi” da approfondire e valutare nel contesto emotivo e relazionale in cui si manifestano. Inoltre questo ultimo esempio mostra come ogni sintomo può essere più significativo se osservato attraverso più dimensioni, come in questo ultimo esempio in cui una grave compartimentalizzazione coinvolge sia la dimensione del tempo (e dunque della memoria) che quella delle emozioni.

 

Intervistatrice: Quale è stata la sua principale motivazione nella scrittura di questo secondo e importante testo sui disturbi della coscienza e sul trattamento del trauma?

Ruth Lanius: Allan Schore mi aveva chiesto di dare il mio contributo ad una collana sulla neurobiologia interpersonale proprio sul tema della dissociazione e dal momento che con il mio gruppo di ricerca avevamo raccolto molti dati di neuroimaging e io stessa avevo maturato molta esperienza clinica diretta nel campo della dissociazione, con Paul Frewen abbiamo iniziato a pensare alla possibilità di organizzare le nostre conoscenze in un libro.

Questo è stato molto importante per noi, perché il tema della dissociazione non è un tema molto trattato, soprattutto in psichiatria e psicologia. La nostra motivazione principale è stata dunque quella di uscire con un libro che potesse guidare direttamente i ricercatori perché penso che abbiamo disperato bisogno che la ricerca sperimentale sulla dissociazione diventi mainstream e più popolare nei sistemi accademici. Il nostro problema, specialmente in Nord America, è che la dissociazione non viene studiata abbastanza nelle università e proprio da questo è scaturito il nostro desiderio di offrire una cornice di riferimento che potesse far emergere di più questo tema. Sono convinta inoltre che per essere buoni terapeuti sia necessario comprendere come funzionano i processi integrativi e le alterazioni della coscienza, mentre al contrario credo che molte persone e clinici ne siano soprattutto spaventati. Insomma, il modello che proponiamo può essere d’aiuto sia a ricercatori che a clinici di ogni orientamento.

 

Intervistatrice: Nel suo libro parla di Neurofenomenologia come metodo, cosa intende con questo?

Ruth Lanius: Io credo che il punto più critico nel nostro lavoro sia comprendere la biologia all’interno delle esperienze soggettive dei pazienti. Per esempio, sulle memorie traumatiche: se quando ricordi un trauma hai improvvisamente flashback e una risposta di iper-arousal, il tuo battito cardiaco aumenterà e avrai attivo uno specifico pattern nel cervello; quando invece si richiama il ricordo di un evento traumatico, questo provoca una reazione di spegnimento (shut down), esperienze fuori dal corpo e finisci per allontanare te stesso da quella memoria perché è troppo soverchiante, dal punto di vista neurobiologico la reazione è completamente diversa. In questo caso il battito cardiaco non aumenterà e anche le reti cerebrali attive saranno diverse.

Quello che penso è che possiamo capire meglio la biologia, se comprendiamo anche le risposte individuali in momenti specifici, come reazioni ad un particolare stimolo. Abbiamo davvero bisogno di combinare le due osservazioni, e penso che qualche volta ci perdiamo nella ricerca e tendiamo a cercare “punteggi medi” di tutto, anche se questo non corrisponde sempre a come funzionano gli esseri umani. Non possiamo come ricercatori ridurre tutto alla ricerca di risposte che siano “nella media”, ma per comprendere meglio la relazione mente-corpo-cervello abbiamo bisogno di considerare contemporaneamente e in modo integrato sia la risposta soggettiva che i pattern neurobiologici correlati ad essa. Questo è il metodo che chiamiamo neurofenomenologia.

 

Intervistatrice: Ha parlato di terapie centrate sul presente e terapie centrate sul passato nel trattamento del trauma. Quali sono, nella sua esperienza clinica e di ricercatrice, le più efficaci ed evidence based terapie presenti nel panorama scientifico attuale?

Ruth Lanius: Credo che sia molto eccitante il fatto che la ricerca stia iniziando a mostrare buoni risultati sia delle terapie centrate sul presente che di quelle centrate sul passato. In generale mi pare che i clinici siano stati a lungo molto poco formati ed è bello vedere che questo sta cambiando. Quello che sappiamo sulle terapie centrate sul presente è che la Mindfulness si è mostrata efficace sullo stress post traumatico, che abbiamo ad oggi anche una versione della DBT riadattata al trauma (Terapia Dialettico-Comportamentale di Marsha Linehan), in cui ci sono parti del protocollo DBT centrati sul presente che sembra aiutino nella cura del trauma complesso. Queste sono le principali evidenze che emergono dalla ricerca, ma credo che presto ne arriveranno molte di più. Stanno emergendo inoltre molte evidenze scientifiche anche sull’efficacia dello yoga come trattamento centrato sul presente.

Rispetto alle terapie centrate sul passato invece abbiamo un ampio numero di trattamenti risultati efficaci nell’elaborazione delle memorie traumatiche: EMDR, la Cognitive Processing Therapy, la terapia dell’Esposizione Prolungata e accanto a queste anche la Terapia dell’Esposizione Narrativa. Più tecniche abbiamo, più riusciamo a personalizzare i trattamenti sulle esigenze dei singoli pazienti.

 

Intervistatrice: Sappiamo che sta conducendo ricerche sull’efficacia del Neurofeedback. Cosa racconta nel libro su questo?

Ruth Lanius: Nel libro menzioniamo uno studio recente che dimostra come il Neurofeedback sia efficace nel trattamento del  Disturbo da Stress Post Traumatico (PTSD). Potremmo dire che si tratta di una terapia centrata sul presente, ma più basata sulla stimolazione neurale e abbiamo raccolto nel nostro gruppo di ricerca alcuni risultati preliminari interessanti: sembra che il Neurofeedback riesca a modificare alcuni circuiti neurali critici responsabili dell’attivazione dei sintomi da stress post traumatico e alcuni network coinvolti nelle attività di mentalizzazione legate al sé e alla valutazione di stimoli interni o esterni rilevanti per l’individuo, valutazione che guida poi i comportamenti. Se il Neurofeedback è in grado di stimolare questi circuiti, allora credo che sia un’altra tecnica utile da aggiungere nelle psicoterapie per il PTSD.

Ormai c’è molto disponibile e molte tecniche validate arriveranno in futuro, quello che ritengo davvero importante è avere un approccio integrato e non lasciarsi guidare da un’unica tecnica, ma di riuscire ad abbracciare un numero ampio di tecniche terapeutiche che possano essere usate in diversi momenti cruciali della terapia. La nostra intenzione con il Modello a 4 Dimensioni descritto nel libro è quella di offrire un modello teorico inclusivo e aperto per tutti, terapeuti e ricercatori, poiché ci piacerebbe che clinici acquisissero più competenze possibili e che mantenessero una approccio integrato rispetto al processo di cura. Credo che questo modo di lavorare renda le vite dei terapeuti più soddisfacenti e porti molti più benefici anche ai pazienti che a loro si rivolgono.

 

Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno (2015) – Recensione

I professionisti alla ricerca di un manuale che rappresenti un’utile guida al trattamento dei disturbi del sonno dovrebbero consultare Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno, il manuale illustra una grande varietà di protocolli in modo molto preciso, dettagliato ma per nulla dispersivo.

Marina Morgese – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Disturbi del sonno: introduzione

Così come mangiare e respirare, anche dormire ha un ruolo di primaria importanza nella vita degli esseri viventi. Basti pensare alla nostra ultima notte insonne e alla successiva giornata lavorativa, alla stanchezza provata e trascinata fino a tardi e all’unico pensiero fisso che da mattina a sera ci ha accompagnato “Non vedo l’ora di rimettermi a letto!”.

Adesso immaginiamo che questa situazione non avvenga solo per una notte, ma continui nella notte successiva, riproponendosi ancora nelle nottate a seguire e così via, il tutto mentre le giornate che viviamo si arricchiscono così di stanchezza, irritabilità, scarsa concentrazione e depressione.

Vi sono poi le situazioni contrarie: una lunga nottata di sonno non basta, è difficile staccarsi dal letto, viene invece più facile richiudere gli occhi e nuovamente cadere tra le braccia di Morfeo e lasciar vivere la vita agli altri.

Purtroppo questi due poli opposti, insonnia e ipersonnia, rappresentano due tra i più diffusi disturbi del sonno che portano molto spesso i pazienti a richiedere un consulto medico e/o psichiatrico. Ma non sono gli unici.  Altre lamentele comuni riguardano la sensazione di eccessiva sonnolenza diurna o i disturbi e le difficoltà durante il sonno, come ad esempio il sonnambulismo.

Trattasi ovviamente di problemi per nulla banali: i disturbi del sonno e della veglia portano a un rischio più elevato di patologie mediche e psichiatriche e a una compromissione generale del lavoro e dei rapporti sociali.

 

Fasi del sonno

Oltre alla veglia, il sonno umano comprende due fasi: la fase REM (Rapid Eye Movement) e la fase non-REM (NREM). Questi due stadi si alternano ciclicamente nel corso di un episodio di sonno.

Le caratteristiche di ogni fase sono ben definibili: nel sonno non-REM vi è un basso tono muscolare e attività psicologica minima; nella fase REM i muscoli sono atonici e comincia l’attività onirica.

Il sonno di un adulto presenta un’alternanza regolare di fasi non-REM e REM costituita da cicli di durata simile tra loro. Dopo essersi addormentato, il soggetto passa dallo stadio 1 del sonno non-REM allo stadio 2, per poi passare allo stadio 3 o allo stadio 4 e quindi, tra i 70 e i 90 minuti dopo l’addormentamento, si verifica la prima fase di sonno REM che dura circa 15 minuti. Alla fine della prima fase di sonno REM si conclude il primo ciclo che dura all’incirca dagli 80 ai 100 minuti.

Dopo questo primo ciclo, ve ne sono altri di durata pressoché simile, ma con un leggero aumento di durata del sonno REM (a scapito soprattutto degli stadi 3 e 4 del sonno NREM).

Durante la notte, in conclusione, il sonno REM costituisce circa il 25% della durata totale del sonno. È possibile che tra i vari cicli vi siano momenti di veglia. Il periodo di sonno viene rappresentato graficamente mediante gli ipnogrammi che illustrano il succedersi delle fasi di veglia e sonno in rapporto al tempo. Una più recente classificazione degli stadi del sonno ha abolito la distinzione tra stadio 3 e 4, accorpandoli in un unico stadio di sonno profondo, denominato N3 (Carskadon M.A. e Dement W.C. 2011).

 

Classificazione dei disturbi del sonno

Per classificare i disturbi del sonno, si fa spesso riferimento, oltre che al DSM, al “The International Classification of Sleep Disorders” (ICSD). La seconda edizione dell’ICSD divide i disturbi del sonno in:

  • Dissonie: di queste fanno parte i Disturbi Del Sonno Intrinseci tra cui l’Insonnia (insonnia psicofisiologica; insonnia paradossale; insonnia idiopatica) e l’eccessiva sonnolenza (narcolessia; ipersonnia ricorrente; ipersonnia idiopatica; ipersonnia da post-trauma; disturbi della respirazione: apnea del sonno; disturbi di movimento: sindrome delle gambe senza riposo, movimenti limbici periodici). Nelle dissonnie rientrano anche i Disturbi Del Sonno Estrinseci, come per esempio l’igiene del sonno inadeguata, l’insonnia dovuta ad altitudine, l’insonnia dovuta ad allergia e l’insonnia dovuta a dipendenza da alcool. Anche i Disturbi Del Ritmo Circadiano Del Sonno rientrano nelle dissonie, tra questi troviamo il disturbo da jet lag, da fase ritardata/avanzata del sonno (disturbo frequente negli adolescenti e nei giovani adulti) e il disturbo del sonno dovuto a orari di lavoro irregolari o notturni.
  • Parasonnie: in queste rientrato i Disturbi Del Risveglio (risvegli confusionali, sonnambulismo, terrori notturni), i Disturbi Associati Alla Transizione Tra Sonno E Veglia (tra cui movimenti ritmici, soliloquio, crampi alle gambe notturni), le Parasonnie Associate Con La Fase Rem (come per esempio incubi e paralisi del sonno) e, infine, altre parasonnie (tra cui enuresi e bruxismo)
  • Disturbi associati con altro disturbo mentale o medico
  • Disturbi del sonno poposti

Nel 2014, la pubblicazione dell’ICSD 3 ha inserito alcuni cambiamenti nella classificazione, proponendo così sei principali divisioni cliniche:

  1. L’insonnia
  2. Disturbi respiratori legati al sonno
  3. Disturbi centrali di ipersonnolenza
  4. I disturbi del ritmo circadiano sonno-veglia
  5. Parasonnie
  6. Disturbi del movimento legati al sonno

Inoltre è stata inclusa un’ulteriore categoria chiamata “Altri Disturbi del Sonno” allo scopo di permettere al medico di assegnare un codice a condizioni che, per motivi diversi, potrebbe non adattarsi alle sei categorie di cui sopra (Zucconi M. e Ferri R., 2014).

 

Disturbi del sonno: uno sguardo all’ insonnia

L’ insonnia è caratterizzata da una persistente difficoltà di inizio, durata, consolidamento e qualità del sonno. Il disturbo è presente nonostante l’opportunità di ottenere condizioni e quantità adeguate di sonno e determina una serie di conseguenze diurne negative. Così, l’insonnia è composta da tre tratti generali:

  1. L’opportunità di condizioni di sonno adeguato
  2. La persistenza del disturbo del sonno
  3. L’associazione tra disturbo del sonno e disfunzionalità diurne.

I sintomi notturni comprendono difficoltà di inizio e/o mantenimento del sonno, sonno leggero e non ristorativo (e.g., Morin & Espie, 2004), mentre i sintomi diurni comprendono sonnolenza, difficoltà di concentrazione, calo del tono dell’umore, irritabilità, difficoltà sociali/occupazionali o in altre aree importanti del funzionamento (ICSD-2, 2005).

L’insonnia è spesso associata ad altre condizioni psicopatologiche, prima tra tutte la depressione ma anche ai disturbi d’ansia. Harvey in uno studio del 2011 ha riscontrato delle comorbilità anche con fobia sociale, disturbo da attacchi di panico, autismo e disturbi dell’alimentazione.

 

Modelli di spiegazione dell’ insonnia

Tra i fattori di mantenimento dell’ insonnia, oltre a quelli predisponenti (quali familiarità e caratteristiche individuali) e precipitanti (stress, lutti, preoccupazioni), vi sono anche fattori perpetuanti quali comportamenti e credenze disfunzionali relative al sonno (Spielman, 1986; Spielman e Glovinsky, 1991).

Vi sono diversi modelli in letteratura che spiegano il mantenimento dell’ insonnia.

Il modello dell’ insonnia di Morin (1993) vede nell’arousal la caratteristica principale dell’ insonnia: l’eccessivo arousal infatti è un fattore causale dell’ insonnia, che al tempo stesso lo rinforza. Accadrebbe così che un eccessivo arousal porta a “disturbare” la naturale sequenza rilassamento, sonnolenza e addormentamento. Col passare delle notti insonni, inoltre, la persona potrebbe pian piano associare il momento dell’andare a letto (o anche la stessa camera da letto) con l’ansia e la paura di non dormire bene, creando così un effetto di condizionamento negativo. In questo modo la persona si dispone a letto con apprensione, si sforzerà a dormire a tutti i costi avviando così una sorta di ansia da prestazione per il sonno. Le conseguenze diurne (irritabilità, fatica, ecc) portano ad un aumento dei pensieri negativi riguardanti il sonno e di come la propria situazione sia irrimediabile. E’ ben evidente come la condizione di insonnia e pensieri disfunzionali venga a costituire un pericolo circolo vizioso.

Secondo Espie e collaboratori (2006), il sonno è un processo automatico. Chi dorme senza problemi si addormenta in modo spontaneo, senza controllo e senza pensarci troppo. L’automaticità del sonno è dunque la parte centrale del modello di Espie: tale automaticità invece viene persa quando la persona presta attenzione in modo selettivo al sonno e si sforza a tutti i costi di dormire. Secondo gli autori, quindi, i tre elementi cognitivi principali che portano al’insonnia sono: attenzione selettiva, intenzione esplicita e sforzo.

Secondo Harvey (2002, 2005), l’insonnia può essere spiegata tramite una serie di processi cognitivi attivi sia di giorno che di notte: (a) le persone che soffrono di insonnia sono più preoccupate nel pre-addormentamento, presentando pensieri intrusivi spiacevoli; (b) la preoccupazione e la conseguente ruminazione aumentano il livello di arousal; (c) l’eccessiva ansia porta il soggetto a monitorare continuamente tutti quegli stimoli interni ed esterni che potrebbero ostacolare un buon sonno, aumentando la probabilità di trovare dei reali stimoli minacciosi; (d) le persone danno grande importanza al disturbo notturno e alle conseguenze diurne, aumentando così l’ ansia di cui al primo punto; (e) le convinzioni disfunzionali e i comportamenti messi in atto per rimediare all’insonnia, altro non fanno che incrementare ulteriormente il disturbo.

 

Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno: recensione

I professionisti alla ricerca di un manuale che rappresenti un’utile guida al trattamento dei disturbi del sonno dovrebbero consultare Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno, manuale a cura di Michael Perlis, Mark Aloia e Brett Kuhn (edizione Italiana curata da Davide Coradeschi, traduzione di Laura Palagini), Giovanni Fioriti Edizioni.

Il manuale conta quasi 400 pagine, ed è diviso in tre grandi aree:

  • Parte I. Medicina comportamentale dei disturbi del sonno (BSM): protocolli per il trattamento dell’insonnia.
  • Parte II. Medicina comportamentale dei disturbi del sonno (BSM): protocolli per la terapia e il miglioramento dell’aderenza al trattamento dei disturbi intrinseci del sonno
  • Parte III. Medicina comportamentale dei disturbi del sonno (BSM): protocolli per il trattamento dei disturbi del sonno in età pediatrica.

Il vantaggio pratico del manuale è quello di illustrare una grande varietà di protocolli in modo molto preciso, dettagliato ma per nulla dispersivo. La chiarezza di ogni capitolo è garantita da una scaletta standard: nome del protocollo; indicazioni generali (es. insonnia); indicazioni specifiche (es. tipo o sottotipo); controindicazioni; razionale dell’intervento; descrizione della procedura; possibili modificazioni o varianti; evidenze scientifiche sull’efficacia della terapia; letture consigliate.

Il manuale diviene, organizzato in questo modo, di facile consultazione per il clinico che intende applicare uno dei protocolli descritti nella propria pratica clinica.

La seconda parte del manuale, seguendo sempre la stessa organizzazione sovra menzionata, si concentra su altri disturbi del sonno, in particolare disturbo delle apnee ostruttive e narcolessia. Vengono proposti, nella fattispecie, protocolli di intervento utili ai pazienti che, per via delle apnee ostruttive, sono costretti a ventilazione meccanica a pressione positiva continua delle vie aeree (CPAP), terapia non sempre ben accetta dai pazienti, né quindi adeguatamente osservata. I protocolli esposti mirano principalmente a migliorare l’adattamento del paziente alla CPAP.

Anche la terza parte del manuale è ricca di spunti clinici, illustrando protocolli per il trattamento dei disturbi del sonno in età pediatrica e adolescenziale: non solo insonnia ma anche sonnambulismo, enuresi notturna, terrore notturno e il disturbo da incubi in età adolescenziale.

Si evince dunque come Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno rappresenti un libro che ogni clinico, ricercatore o studente dovrebbe possedere nella propria libreria.

I disturbi del sonno rappresentano un insieme di disturbi molto vario e complesso, cosa che dovrebbe spronare ogni professionista a informarsi e formarsi al meglio relativamente ai diversi trattamenti. E’ premura anche degli autori del libro sottolineare come sia consigliabile, oltre allo studio dei protocolli proposti e alla consultazione del manuale, effettuare dei periodi di formazione, training e supervisione.

Imagery nella cura del trauma e della dissociazione

L’ Imagery è uno strumento a disposizione del terapeuta, utile in diverse tipologie d’intervento, che vanno dalla psicologia sportiva al trattamento di pazienti traumatizzati che presentano la dissociazione.

Mazzucco Luca, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Imagery: che cos’è

Kosslyn, Ganis e Thompson (2001) definiscono l’ imagery come una “esperienza quasi-sensoriale e quasi-percettiva che avviene in assenza di stimolo esterno”, un’esperienza che, oltre all’emergere delle immagini mentali, permette la generazione di correlati emotivi e cognitivi, tanto da risultare “simil-esperienziale” (Conway, 2001).

Già nel 1929, Einstein osservava “L’immaginazione è più importante della conoscenza”, mentre Beck (2014) ha affermato “Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni interne, attività decisamente favorita dall’ imagery”.

Due aspetti risultano fondamentali nell’uso della tecnica immaginativa con i pazienti in terapia:

  • individualizzare le caratteristiche della tecnica in funzione delle peculiarità del paziente
  • porre estrema attenzione alle possibili conseguenze iatrogene di un uso errato della tecnica stessa, come ad esempio l’involontaria creazione di immagini minacciose.

 

Dissociazione strutturale della personalità

Secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), i criteri diagnostici caratteristici della presenza di un Disturbo dissociativo dell’identità (DID), riguardano la “presenza di due o più stati di personalità distinti” che portano a “una marcata discontinuità del senso di sé e della consapevolezza delle proprie azioni, accompagnata da correlate alterazioni dell’affettività, del comportamento, della coscienza, della memoria, della percezione, della cognitività e/o del funzionamento senso-motorio” e “ricorrenti vuoti nella rievocazione di eventi quotidiani, di importanti informazioni personali e/o di eventi traumatici non riconducibili a normale dimenticanza”.

Sempre il DSM-5 riporta: “Il disturbo dissociativo dell’identità è associato a esperienze opprimenti, eventi traumatici e/o abusi nell’infanzia … l’abuso interpersonale fisico e sessuale è associato a un maggior rischio di disturbo dissociativo e sottolinea che la gravità del DID aumenta in presenza di “Abusi continuativi, nuovi traumi nel corso della vita, comorbilità con disturbi mentali ed età del soggetto”.

Ancora il DSM-5 riporta: “Molti individui con disturbo dissociativo dell’identità manifestano un disturbo in comorbilità. Se non vengono valutati e trattati specificatamente per il disturbo dissociativo, questi individui spesso ricevono trattamenti prolungati solo per la diagnosi in comorbilità, con una ridotta risposta generale al trattamento e conseguenti demoralizzazione e disabilità”. In linea con tale posizione, Van der Hart, Steele e Boon (2011) affermano: “I disturbi in comorbilità al DID, tipicamente si risolvono quando si chiarisce il loro collegamento con la sottostante dissociazione della personalità”.

Prendendo spunto dal lavoro di Pierre Janet (1907) e in sintonia con le indicazioni presenti nel DSM-5, Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) propongono il concetto di “ Dissociazione Strutturale della Personalità” e ipotizzano che essa derivi da un “deficit delle capacità integrative” del soggetto, dal quale avrebbero origine “parti dissociate separate da barriere psicobiologiche, che impediscono la comunicazione tra di esse”.

Ford (2009) propone la dissociazione come un tentativo di mantenere la propria integrità che avviene abbandonando la self-regulation a favore della self-preservation.

In pratica, il soggetto che si trova ad affrontare un’esperienza talmente “minacciosa” da non poter essere integrata, va incontro alla formazione di parti dissociate della propria personalità. Si tratta di una strategia che permette il superamento momentaneo del trauma, ma che spesso si cronicizza e si trasforma in una “strategia di sopravvivenza, una possibilità di andare avanti nella vita quotidiana, evitando di venire schiacciati da esperienze, presenti o passate, insopportabili” (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006).

Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) ipotizzano due tipi distinti di parti dissociate di personalità:

  • “apparently normal part of the personality” (ANP), funzionante nella quotidianità, in grado di comunicare con l’ambiente in cui il soggetto vive, ma che evita ogni possibile collegamento al trauma;
  • “emotional part of the personality” (EP), bloccata al tempo del trauma, ancora alle prese con la necessità di difendersi. Si attiva quando il soggetto incontra “trigger” che richiamano l’esperienza traumatica, prende il controllo della persona e la spinge a rispondere alle minacce ed ai pericoli, reali o temuti, usando le stesse modalità che erano state utilizzate durante l’evento traumatico.

Questo spiegherebbe perché “le persone con disturbi della dissociazione presentano problematiche che interferiscono con l’essere presenti. Solo quando il passato sarà dietro di loro, potranno essere presenti” (Van der Hart, Steele & Boon, 2011).

I sintomi della dissociazione possono essere ricondotti a quattro gruppi fondamentali (Van der Hart, Steele, Boon & Brown, 1993):

  • sintomi negativi (perdita di funzionalità, come afonia, amnesia, paralisi, ecc.)
  • sintomi positivi (intrusivi, come flashback o il “sentire delle voci”)
  • psicoformi (come amnesia, voci, ecc.)
  • somatoformi (come anestesia, tic, sensazioni corporee legate al trauma, ecc.)

 

Anp, Ep e reti neurali

Vari studi eseguiti su pazienti traumatizzati esposti a stimoli che rievocavano le loro esperienze traumatiche (Liberzon & Phan, 2003; Schmahl, Elzinga & Vermetten, 2008) hanno rilevato l’attività di diverse aree cerebrali coinvolte nell’attivazione legate al riconoscimento e al controllo delle emozioni. In particolare:

  • strutture corticali (corteccia prefrontale mediale e cingolo anteriore)
  • strutture sottocorticali (amigdala ed insula)

Studi neurali volti a valutare le singole parti dissociate, ANP e EP (Nijenhuis & Den Boer, 2007), hanno rilevato che:

  • l’attivazione corticale si verifica soprattutto quando il soggetto si trova in “modalità ANP”
  • l’attività sottocorticale è invece caratteristica della “modalità EP”

Si tratta di risultati che confermerebbero la teoria della dissociazione strutturale di personalità di Van der Hart e collaboratori (2006), dimostrando come i soggetti, quando si trovano in “modalità ANP”, non riconoscevano l’evento come rilevante per loro (lo avevano cioè dissociato), mentre rivivevano le emozioni traumatizzanti quando si trovavano in “modalità EP”, ma non riuscivano a dare un significato alla loro esperienza emotiva.

 

Dissociazione e intervento terapeutico trifasico

Secondo numerosi autori (Brown, Scheflin & Hammond, 1998; Chu, 2011; Courtois, 2010; International Society for the Study of Trauma and Dissociation, 2011; Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) l’intervento terapeutico riguardante i PTSD (semplici o complessi), i  Disturbi da stress estremo non altrimenti specificati (DESNOS), il Disturbo borderline di personalità correlato a traumi e il Disturbo dissociativo dell’identità (DID), deve seguire 3 fasi specifiche, che si susseguono in un processo a spirale, nel quale le diverse fasi possono alternarsi e riprendere da capo. Ad esempio è molto probabile che in fase 3 emergano nuovi ricordi traumatici che richiedono di ripartire dalla fase 1 del trattamento.

 

Imagery e intervento trifasico nella dissociazione della personalità

I pazienti che presentano disturbi dissociativi complessi sono caratterizzati da una grande capacità di coinvolgimento immaginativo e tutte le parti dissociative della personalità sono spesso assorbite in esperienze di immaginazione. Tale capacità, secondo vari autori (Ogden, Minton & Pain, 2006; Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006), rappresenta un’importante opportunità terapeutica. L’ imagery assume infatti un ruolo centrale in ogni singola fase dell’intervento, permettendo a ANP e EP di entrare in contatto tra di loro e con il mondo esterno, all’interno di un contesto “sicuro” come quello terapeutico.

 

Imagery e fase 1

Nella fase 1 del trattamento dei disturbi dissociativi di personalità, l’obiettivo riguarda:

  • la messa in sicurezza del paziente
  • la sua stabilizzazione
  • la riduzione della dissociazione
  • lo sviluppo di skill che gli permettano di affrontare più efficacemente la vita di tutti i giorni.

Una volta garantita la sicurezza fisica e psicologica del paziente, inizia un lento processo di ri-stabilizzazione in cui ci si focalizza sul raggiungimento di numerosi obiettivi, come ad esempio la gestione del sonno, il controllo degli impulsi, la funzione riflessiva, la gestione delle energie fisiche e mentali, le capacità relazionali.

Un aspetto centrale di tale fase terapeutica, in cui il ruolo dell’ imagery risulta fondamentale, è rappresentato dalla identificazione empatica delle parti di personalità dissociate e dalla costruzione di una reciproca relazione cooperativa. Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) evidenziano come, dal momento in cui i pazienti realizzano tale suddivisione della propria personalità, vi sia una sensibile riduzione dei sintomi ansiosi.

Il lavoro del terapeuta, in tale fase, è focalizzato essenzialmente sulla relazione con la ANP che avrà il compito di interagire con le EP. In tal modo, i risultati riportati da Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) dimostrano come i pazienti stessi riescano a individuare l’immagine delle loro EP, che riguardano, nella grande maggioranza dei casi, parti correlate agli eventi traumatici come, ad esempio:

  • Parti giovani e bambine (tipiche di traumi nell’infanzia), che vivono nell’età del trauma, esprimono sentimenti come solitudine, dipendenza, consolazione, sfiducia, rifiuto e possono essere descritte dai pazienti come “un bimbo piangente rannicchiato in un angolo”
  • Parti che aiutano, descritte come somiglianti a una persona gentile del passato, tentativo del soggetto di consolare e confortare se stesso
  • Parti che imitano l’aggressore, descritte come somiglianti a persone maltrattanti del passato, caratterizzate da rabbia e collera e vissute da altre parti come terrorizzanti
  • Parti che provano vergogna, descritte ad esempio come timorose di farsi vedere, concentrate su un senso di colpa che le fa sentire responsabili del trauma.

Un secondo passaggio, in cui l’ imagery è centrale in fase 1, riguarda la possibilità di fornire alle diverse EP uno speciale equipaggiamento di protezione (Van der Hart, Steele & Boon, 2011). Il terapeuta invita il paziente ad immaginare un negozio in cui sono esposti vari tipi di protezione, capaci di difendere da tutti i possibili stressor. Ogni EP può scegliere e indossare la propria specifica protezione e tenerla a disposizione in situazioni future ri-attivanti.

A questo punto, ogni EP deve essere protetta dal mondo esterno e, a volte, dalle altre parti dissociate. La tecnica del “luogo sicuro” permette alla ANP di sviluppare, insieme alle diverse EP, delle specifiche aree protette. In previsione di eventi minacciosi (esterni o interni) l’ANP informerà la EP che potrebbe essere coinvolta, invitandola preventivamente a trovare riparo. Sarà la stessa ANP a comunicare che il pericolo è passato e aiutare la EP a tornare allo scoperto. Il terapeuta guida il paziente a identificare il proprio (o i propri) luoghi sicuri, lasciandolo libero di immaginare ogni più piccolo particolare (es. un’isola deserta, un bunker, una casa su un albero, …). Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) sottolineano il ruolo strategico che il “luogo sicuro” può assumere con pazienti che pensano al suicidio o ad azioni autolesive. In questo caso la ANP invita la EP fonte dell’acting-out a restare nella propria area di sicurezza fino all’incontro con il terapeuta.

Altro utilizzo terapeutico dell’ imagery in fase 1 riguarda l’individuazione, da parte del paziente, di un “contenitore in cui custodire le memorie traumatiche” (una cassaforte, un file dati, un videotape …), il cui accesso potrà avvenire unicamente tramite una doppia chiave (o password) in possesso del paziente e del terapeuta ed accessibile quindi solamente durante la seduta terapeutica.

Il momento centrale della fase 1 riguarda la possibilità di far incontrare, accettare e cooperare le diverse parti. Fondamentale in questo passaggio risulta la capacità del paziente di immaginare un “meeting place”, dove tutte le parti convergono e possono negoziare i diversi obiettivi e i vari modi per raggiungerli in modo sicuro. Anche in questo caso sarà l’ANP a coordinare gli interventi e a interfacciare la relazione bidirezionale tra terapeuta ed EP.

 

Imagery e fase 2

Nella fase 2 del trattamento dei disturbi dissociativi di personalità, l’obiettivo riguarda l’integrazione delle memorie traumatiche, processo che deve prevedere due momenti ben definiti (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006):

  1. Sintesi, che comporta la condivisione tra ANP(s) e EP(s) dei principali elementi riguardanti l’evento traumatico e richiede la rievocazione narrativa autobiografica (simbolico verbale) di quanto successo
  2. Realizzazione, relativa alla collocazione temporale dell’evento all’interno della propria storia di vita

Tale processo permette al soggetto di realizzare che il momento attuale è diverso da quello del trauma, ma anche che il trauma è parte della sua vita e che è quindi naturale che vi siano alcune conseguenze.

Anche in questo caso, l’ imagery costituisce uno strumento fondamentale a disposizione del terapeuta, che inviterà le parti dissociate pronte ad affrontare l’evento traumatico ad incontrarsi in uno specifico “meeting place”, mentre le altre parti, che necessitano ancora di maggiore tempo per avvicinarsi ai ricordi traumatici, resteranno nei loro luoghi sicuri o potranno iniziare a partecipare attraverso una finestra nascosta, dietro una barriera protettiva, o ad ascoltare tramite speciali interfoni, ma sempre in condizioni di sicurezza. Alla fine di ogni incontro, tutte le parti potranno tornare nei loro luoghi sicuri ed eventualmente confortarsi a vicenda.

Si può trattare di un percorso lungo e laborioso, dove ogni parte dissociata diventa sempre più integrata nel gruppo e oggetto dei processi di sintesi e realizzazione e dove la capacità immaginativa del paziente deve essere continuamente variata e modulata verso lo scopo finale. Uno stralcio tratto da Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) può illustrare la procedura di fase 2: “Steve aveva cinque EP, una delle quali era estremamente terrorizzata dall’idea di ricordare il brutale abuso fisico. Il terapeuta invitò Steve, come ANP e le altre quattro EP a condividere i ricordi dolorosi, mentre l’EP spaventata andò nel suo luogo sicuro a prova di rumore. La sintesi guidata migliorò il livello mentale di tutte le parti coinvolte, che furono in seguito capaci di aiutare l’EP spaventata a diventare più orientata sul presente e a realizzare gradualmente cosa era successo”.

 

Imagery e fase 3

In alcuni casi, i processi di Sintesi e Realizzazione delle memorie traumatiche, eseguiti in fase 2, possono avere già favorito la re-integrazione della personalità del paziente (tutte le parti si fondono in un’unica personalità), obiettivo della fase 3. Ma, quasi sempre, tale obiettivo richiede tempi piuttosto lunghi con un continuo lavoro di condivisione. Anche in questo caso, mediante la tecnica di imagery il terapeuta può guidare il paziente a eseguire il processo di fusione, invitandolo a immaginare le parti che si abbracciano o danzano insieme, come nel caso riportato in Van der Hart (2012): “Mary who loved swimming imagined that the parts ready to become one simultaneously dived into a swimming pool, then under the surface swimming toward and embracing each other. When they emerged from the water, they had become one”.

La fase 3 include, spesso, anche la necessità di prendere atto di quanto di doloroso è accaduto. Van der Hart (2012) sottolinea l’utilità dell’ imagery nell’aiutare il paziente ad affrontare tale passaggio, ad esempio “immaginando un rituale solenne di addio al proprio perpetratore”.

Sempre in fase 3, il paziente deve affrontare anche il ritorno alla “normalità”, al dover affrontare situazioni critiche. Tramite l’immaginazione guidata, il terapeuta può aiutare il soggetto a visualizzarsi in tali situazioni e ad affrontarle scoprendo nuove possibilità e nuove abilità (Van der Hart, 2012).

Esposizione a videogiochi violenti e aggressività: un legame smentito

In uno studio recente, pubblicato sulla rivista “Frontiers in Psychology”, il Dr. Gregor Szycik, della “Hannover Medical School”, e colleghi, hanno investigato gli effetti a lungo termine della pratica di videogiochi violenti.

 

Il collegamento tra l’esposizione a videogiochi violenti e l’aggressività: gli studi

Il collegamento tra l’esposizione alla violenza tramite film o videogiochi violenti e l’aumento di aggressività e violenza nella vita reale, è stato a lungo discusso e analizzato, fin da quando questa tipologia di mezzi d’intrattenimento ha iniziato ad esistere. Benché molti dei collegamenti ipotizzati siano derivati da forme di “isteria” dell’opinione pubblica, questa questione ha realmente riguardato numerosi studi scientifici. Studi precedenti hanno dimostrato che i soggetti che giocano frequentemente a videogiochi violenti, potrebbero essere “desensibilizzati” riguardo a stimoli emozionali come la violenza, e dimostrerebbero una minore empatia e un’aggressività più marcata.

Tuttavia, la maggioranza di questi studi ha indagato solo gli effetti a breve termine della pratica di videogiochi violenti; in essi i soggetti giocavano subito prima o durante l’esperimento. Vi sono effettivamente pochi studi che si sono concentrati, invece, sugli effetti a lungo termine.
In uno studio recente, pubblicato sulla rivista “Frontiers in Psychology”, il Dr. Gregor Szycik, della “Hannover Medical School”, e colleghi, hanno investigato gli effetti a lungo termine della pratica di videogiochi violenti.
[blockquote style=”1″]La domanda di ricerca è partita dal fatto che la popolarità e la qualità di questi videogiochi stanno aumentando e, in secondo luogo, ci stiamo confrontando ogni giorno con un numero sempre maggiore di pazienti che utilizzano i videogiochi in maniera problematica e compulsiva [/blockquote]sostiene Szycik.

Nel suo studio, i soggetti erano tutti uomini, poiché la maggior parte delle persone che giocano a videogames violenti e mettono in atto comportamenti aggressivi, sono uomini. Tutti i giocatori dovevano aver giocato ad un videogioco di sparatutto in prima persona, come “Call of Duty” o “Counterstrike”, per almeno due ore al giorno nei quattro anni precedenti allo studio, anche se la media effettiva dei partecipanti era di quattro ore al giorno. I giocatori erano confrontati con un gruppo di controllo che non aveva esperienza con videogiochi violenti e che, in generale, non giocava regolarmente ai videogiochi.

Per evitare gli effetti a breve termine della pratica di gioco, i giocatori dovevano astenersi dal gioco per un minimo di tre ore prima dell’inizio dell’esperimento, anche se la maggior parte di essi non ha giocato per un tempo maggiore.
Per valutare l’empatia e l’aggressività dei soggetti, i partecipanti hanno risposto a questionari psicologici. Dopodiché, mentre erano sottoposti ad una risonanza magnetica, era mostrata loro una serie di immagini per provocare delle risposte emozionali ed empatiche. Quando apparivano le immagini, era loro chiesto come si sarebbero potuti sentire nelle situazioni raffigurate.
Utilizzando le scansioni ottenute tramite l’fMRI, i ricercatori hanno misurato l’attivazione di regioni cerebrali specifiche, per confrontare le risposte di giocatori e non giocatori.

 

Risultati: non emergono differenze in termini di aggressività ed empatia tra chi gioca ai videogiochi e chi no

I questionari non hanno rilevato differenze nelle misure di aggressività ed empatia tra giocatori e non giocatori. Questo risultato è stato confermato dai dati prodotti dall’fMRI, che hanno dimostrato che entrambi i gruppi, giocatori e non giocatori, avrebbero risposte neurali simili alle immagini elicitanti emozioni. Questi risultati hanno sorpreso i ricercatori, poiché sono risultati essere contrari alla loro ipotesi di partenza, e suggeriscono che gli effetti negativi dei videogiochi violenti sulla percezione o sul comportamento potrebbero essere di breve durata.

I ricercatori suggeriscono che potrebbero essere necessarie altre ricerche.
[blockquote style=”1″]Speriamo che lo studio incoraggi altri ricercatori a focalizzare la propria attenzione sui possibili effetti a lungo termine dei videogiochi sul comportamento umano[/blockquote] sostiene Szycik.

[blockquote style=”1″]Questo studio ha utilizzato immagini elicitanti emozioni. Il passo successivo potrebbe essere quello di analizzare dati raccolti con stimolazioni più valide, come l’utilizzo di video per provocare risposte emozionali.[/blockquote]

Utilizzo del disegno nel percorso diagnostico e terapeutico nell’età evolutiva

L’utilizzo del disegno come mezzo per comprendere meglio il mondo del bambino ha una lunga e articolata tradizione; si parte da Tardieu nel 1872 che fu tra i primi a studiarli, passando per Freud e Jung che vi leggevano delle conferme alle loro teorie (Lis, 1998).

Valentina Lucca, OPEN SCHOOL  “Studi Cognitivi” di Bolzano

Alessandro Failo

 

 

Sappiamo tutti che il primo dono che i bambini portano a casa dall’asilo per i genitori sono i loro scarabocchi che vengono attaccati amorevolmente sul frigo di genitori orgogliosi. Il disegno però, oltre che delicato ricordo, può essere considerato anche una porta privilegiata per il mondo interno del bambino. L’utilizzo del disegno come mezzo per comprendere meglio il mondo del bambino ha una lunga e articolata tradizione; si parte da Tardieu nel 1872 che fu tra i primi a studiarli, passando per Freud e Jung che vi leggevano delle conferme alle loro teorie (Lis, 1998).

Nel 1926 Florence Goodenough, creò uno schema di codifica che viene tuttora utilizzato e che correlava le caratteristiche del bambino ad un quoziente intellettivo; ella infatti sostenne che il disegno della figura umana acquisisce sempre più particolari man mano che il bambino diviene più maturo dal punto di vista cognitivo (Lis, 1998).

Da allora si sono susseguite molte interpretazioni e diversi metodi di scoring sia nel disegno libero – ad es. la tecnica dello scarabocchio di Winnicott (Günter, 2008) che nelle varie modalità strutturate (ad es. disegno della figura umana, della famiglia, dell’albero, della casa).

Il valore proiettivo dei disegni dei bambini per misurare l’intelligenza e i disturbi psicologici o emotivi è stato simultaneamente supportato e cambiato nel corso degli anni (Gross e Hayane, 1999).

Fasi del disegno

Il bambino attraversa diversi stadi nell’avvicinamento all’espressione grafica, secondo una prospettiva che segue le fasi indicate dalla teoria piagetana (Malchiodi, 2000).

Il primo stadio è quello degli scarabocchi, che accompagnano il bambino dall’esplorazione sensomotoria, dove tutto è potenzialmente una superficie disegnabile, e si prolunga fino alla formazione del pensiero simbolico che arriva intorno ai 3 anni.

Cosa possiamo osservare nel bambino che disegna i suoi primi scarabocchi?

-L’impugnatura, che viene acquisita intorno ai 3 anni,

-il punto di partenza da dove parte a disegnare e che secondo alcune interpretazioni potrebbe indicare una maggiore e minore inibizione nell’affrontare la realtà,

-lo spazio: quanto ne viene occupato,

-la pressione che ci comunica la carica vitale e la sua capacità di affrontare gli avvenimenti.

Il secondo stadio è quello delle forme, che si realizza intorno ai 3 e 4 anni. In questa fase i bambini cominciano ad attribuire un significato di storie ai loro disegni; in questo senso possiamo avere bambini più interessati all’aspetto grafico e altri più interessati alla narrazione (Gardner, 1980 in Serraglio, 2011).

In questo stadio si possono notare le preferenze per alcune forme rispetto ad altre e l’attribuzione di diversi vissuti che verrebbero associati alla prevalenza di alcune linee grafiche rispetto ad altre.

Nel terzo stadio, che corrisponde al periodo preoperatorio (4-7 anni) viene approfondito e migliorato il disegno della figura umana nella lettura dei quali significati si rimanda al test che presuppone questo compito.

Nel quarto stadio (lo schema visivo), tra i 6 e i 9 anni migliorano le capacità grafiche, e si sviluppano schematismi e simboli; nello stadio successivo (il realismo) il bambino cerca di riprendere la realtà nel suo disegno.

Tipologia di studi sul disegno

Al di là di quelle che sono le varie fasi di acquisizione, è utile fare chiarezza su quali siano i quadri concettuali dentro i quali si muovono gli studi psicologici sul disegno. Bombi e Tambelli (2001) hanno identificato tre ampi filoni tradizionali:

  1. a) la ricerca tra disegno e stadi di sviluppo del pensiero,
  2. b) disegno del bambino come arte,
  3. c) l’indagine delle relazioni tra disegno e assetto della personalità.

Il primo filone, che possiamo considerare all’interno della corrente di pensiero stadiale piagetiana, tenta di comprendere soprattutto le regolarità evolutive del disegno, inteso come mezzo di rappresentazione che si muove in termini di stadi, quindi al crescere dell’età si possono riscontrare differenze via via più adeguate di rappresentazione. Il bambino quindi non riproduce esattamente la realtà, ma deve utilizzare la mediazione di un “modello interno” che è vincolato a sua volta alle sue capacità intellettuali che quindi cambiano da un’età all’altra. Il disegno così concepito, diventa dunque un indicatore della capacità cognitiva del bambino.

Il secondo approccio, si richiama alla teoria della Gestalt in cui vengono sottolineate le caratteristiche innate di alcuni principi estetici (simmetria e buona forma). Questa visione, a differenza di quella stadiale, considera alcuni “difetti” del disegno elementi in sè significativi positivi, come ad esempio il cercare di aumentare la rilevanza di un particolare (una testa grande) o rendere più efficace l’azione in corso (la mano che raccoglie qualcosa).

Nel terzo ambito, quello dell’indagine della personalità, il disegno è inteso come rivelatore della personalità infantile, quindi utilizzabile sia ai fini valutativi che a quelli terapeutici. L’attività grafica, all’interno della prospettiva psicoanalitica è quindi spontanea e, insieme al gioco, è per il bambino una modalità utile per narrare gli aspetti emotivi di se stesso. Sono perciò strumenti di espressione della sfera inconscia al pari del linguaggio, delle libere associazioni e dei sogni per l’adulto.

Limiti e perplessità

Lo status scientifico dei test grafici, inteso come attendibilità e replicabilità, è ancora oggi ampiamente dibattuto (Gross & Hayne H, 1998; Motta, Little, Tobim, 1993).

Tuttavia esiste un’evidente discrepanza tra l’ambito della ricerca e quello della pratica clinica: se le proprietà psicometriche indicano che non hanno una buona generalizzibilità e validità, dall’altra l’utilizzo da parte dei clinici per avvalorare altre ipotesi è ancora molto popolare (Lilienfield et al., 2000; Roberti, 2013).

Approccio psicodinamico al disegno

All’interno dell’ottica della corrente psicodinamica, il disegno, seppur rappresentando soggetti diversi, è una tecnica proiettiva che ha avuto grande popolarità partendo dagli anni ’50 e ’60.

È da sottolineare che la difficoltà nel poter dare un giudizio sulla validità di questo tipo di strumenti diagnostici deriva dal fatto che la maggior parte degli studi sono stati condotti da clinici di stampo psicoanalitico o da ricercatori empirici molto critici, quindi appartenenti a fazioni diametralmente opposte (Lis ,1998).

La teoria di attribuire un significato proiettivo al disegno parte dall’ osservazione fatta dalla Goodenough secondo la quale oltre a poter ricavare un quoziente di età mentale, dal disegno del bambino si possono anche intravedere dei tratti di personalità. A perseguire questa ipotesi  furono in particolare Buck (1948) e Machover (1949).

L’assunto teorico di base è che il disegno della figura umana rappresenta l’espressione di sé, o del corpo, nell’ambiente, e l’immagine composita che costituisce la figura disegnata è intimamente legata al Sé in tutte le sue ramificazioni” (Machover, 1949, 1951 in Lis,1998, p.43).

Anche secondo Hammer (1958), il disegno della figura umana riflette l’autostima e l’organizzazione di sé ma “per quanto riguarda i bambini è necessario ricordare che essi tendono a rappresentare il loro vissuto attuale e, a seconda della fase evolutiva, lo stato delle loro identificazioni con le figure genitoriali, intorno a cui ruota il mondo affettivo” (Piperno e Lucarelli, 2008 in Roberti, 2013 p.25)

Il disegno quindi assumerebbe dei significati che aiuterebbero a leggere la struttura psicologica del bambino.

L’approccio cognitivista al disegno

Se proviamo ad osservare il disegno come una forma di problem solving possiamo inquadrarlo all’interno di una prospettiva più “cognitiva”, dando però meno importanza alla concezione stadiale di sviluppo e considerando il disegno guidato parzialmente da una progettualità consapevole (Pinto e Bombi, 1999; Davis, 1983; in Bombi e Tambelli, 2001).

Bombi e Tambelli (2001) sottolineano che in questo approccio “è cresciuto l’interesse per le circostanze che facilitano il disegnare, così come la consapevolezza che ogni disegno è il risultato congiunto del livello evolutivo del bambino, del messaggio che egli intende affidare al foglio e delle circostanze in cui il disegno viene disegnato” (Bombi e Tambelli, 2001, p.9).

I principali test proiettivi grafici utilizzati dagli psicologi italiani

1) Test della figura umana

Nel test della figura umana viene richiesto al bambino di disegnare una figura umana (la consegna differisce sensibilmente in base a quale autore si intende seguire per la codifica) ed è un disegno molto utilizzato nell’ambito clinico da psicologi anche di diverse scuole. Dopo che il bambino ha disegnato la prima figura umana,  a volte, gli viene chiesto di disegnarne una seconda, di sesso opposto. Non costituisce di per sé uno strumento diagnostico di personalità e tanto meno uno strumento per valutare l’intelligenza del bambino.

Quello che si può valutare nel disegno è il grado di evoluzione intellettiva in riferimento alla completezza del disegno, mettendo in relazione lo sviluppo psicomotorio con quello di funzioni specifiche del sistema nervoso (Roberti, 2013). Oltre al disegno, viene proposta al bambino una breve inchiesta che aiuta il clinico a contestualizzare il disegno  e diviene conferma delle caratteristiche che vi sono disegnate.

Alcuni clinici preferiscono lasciare al bambino l’utilizzo della gomma, perché soprattutto in ambito cognitivo, viene osservato il processo attraverso cui il bambino giunge al disegno mentre in ambito psicodinamico, la gomma non è permessa.

Un’interessante metodo di scoring per l’analisi del disegno della persona è il DAP:SPED, proposto da Naglieri, McNeish, & Bardos (1991) che insieme a quello di Koppitz (1966) più conosciuto in Italia rispetto al precedente, hanno dimostrato avere una maggior affidabilità. I 51 item del DAP:SPED che aiutano ad analizzare il disegno possono essere utilizzati nei disegni di ragazzi dai 6 ai 17 anni ed è un metodo molto utilizzato nei paesi anglossassoni.

Secondo Naglieri, la tecnica del disegno della figura umana fornisce una misura della capacità non verbale utilizzando un formato divertente e utile per la valutazione dei bambini piccoli e senza la componente di velocità di alcuni dei test WISC–R.

 

2) Test della famiglia

Il Disegno della Famiglia viene considerato anch’esso un test proiettivo  grafico che permette di indagare la rappresentazione e l’interazione delle figure famigliari secondo la visione del bambino. Anche qui la consegna varia sensibilmente in base al sistema di codifica che si sceglie di seguire ma in generale viene chiesto di disegnare “una“ famiglia laddove la scelta di disegnare la propria o una inventata, o una estranea acquisisca già di per sé un significato.

Il disegno viene poi affiancato da delle domande che aiutano a capire anche i significati e le emozioni associate ai personaggi del disegno.

Una variabile particolare del disegno della famiglia è il disegno della famiglia cinetica (Kinetic Family Drawings K-F-D) sviluppato da Burns e Kaukman (1970) e ha come caratteristica quello di invitare a disegnare la propria famiglia mentre compie un’azione, dando così “maggiore spazio alla proiezione rispetto al disegno statico della famiglia, poiché induce a  rappresentare particolari dell’ambiente fisico e naturale in cui vive e da questi elementi e dal tipo di azione che ogni personaggio compie si possono ricavare informazioni più precise sul modo in cui l’autore del disegno percepisce e si pone in relazione con ogni componente della famiglia” (Roberti, 2014, p.16).

 

3) Test dell’albero

Ultimo test proiettivo grafico di cui vogliamo parlare è il test dell’albero, ideato da Jucker ed elaborato da Koch (1949, tr.it 1958). La consegna data al bambino è quella di disegnare su un foglio un albero da frutto, e in secondo luogo si chiede di disegnare un albero totalmente diverso dal primo.

L’ipotesi alla base di tale metodo è che l’albero rimandi simbolicamente all’uomo per l’analogia con la posizione eretta per cui vi sarebbe un’ identificazione con la persona che lo disegna. Questo test diviene quindi un utile complemento, al disegno della persona: in questo modo unendo i due proiettivi si possono ottenere delle inferenze maggiori.

 

Conclusioni

Come abbiamo visto in queste righe, gli approcci al disegno possono essere molto diversificati e questo pregiudica anche il tipo di significati che possono essere colti nei tratti grafici.

Siccome però, il disegno è uno strumento molto utilizzato e anche apprezzato dai bambini perché rivolge loro una richiesta che si sentono in grado di esaudire, riteniamo importante condividere alcuni elementi che, anche senza indagare i significati proiettivi, possono essere utili nell’assessment dell’età evolutiva.

  • Dimensione rispetto al foglio che riflette l’esplorazione nello spazio
  • Pressione: livello di energia presente nel tratto
  • Tratto: a seconda di un tratto più o meno lungo si potrà notare il comportamento del bambino
  • Numero di dettagli
  • Posizione del disegno sul foglio
  • Movimento
  • Ombreggiatura
  • Presenza di uno sfondo
  • Utilizzo dei colori.

Calo delle nascite: frutto dell’antica modernità

Il calo delle nascite, che secondo l’ISTAT ha toccato nuove profondità nel 2016, ha un’origine meno recente di quel che si potrebbe credere. Il ritardo del matrimonio e la pianificazione delle gravidanze sono frutti della modernità, ma non della modernità recente e consumistica, ma di quella più antica iniziata già nel seicento in Olanda e poi proseguita nei secoli successivi in Inghilterra, in Europa e nel mondo.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, una prima versione è stata pubblicata su Linkiesta, 11 marzo 2017

 

Una modernità antica, che precede la rivoluzione industriale e che è stata chiamata la “rivoluzione industriosa” dall’economista olandese Jan De Vries. Già allora si piantarono i semi che oggi diradano le nascite. In quei secoli si diffuse una visione attiva della vita che poneva il lavoro e non la natura al centro della vita dell’uomo e della donna, che proponeva una gestione razionale e calcolata e non istintiva del tempo, che promuoveva un aumento dei consumi e della produzione di beni voluttuari grazie alla invenzione di nuove attività lavorative di tipo artigianale che andavano al di là della produzione agricola di cibo.

Erano soprattutto le donne a intraprendere queste nuove attività lavorative, a trasformare le antiche mansioni del cucito e del ricamo in una prima industrializzazione artigianale e familiare, in una sorta di proto-femminismo della prima modernità. Si diffuse anche una propaganda moralizzatrice –intenzionalmente religiosa ma dagli effetti laici e secolari, come vedremo- contro l’alcolismo e in favore dell’igiene, dell’autocontrollo soprattutto sessuale, della cura dei figli e del risparmio.

L’autocontrollo sessuale della prima modernità fu il primo passo verso l’odierna diminuzione delle nascite. Non fu affatto frutto di una pressione sociale dall’alto, non fu affatto ispirata dalle istituzioni religiose e aristocratiche dell’antico regime. Papi, re e imperatori, preti e funzionari erano stati sempre disinteressati alle abitudini sessuali dei loro sudditi e fedeli e condividevano con loro un libertinismo spontaneo e naturale. Un po’ iniziarono i pastori luterani e calvinisti a esercitare un invito all’autocontrollo che comprese anche l’area sessuale.

Ma fu soprattutto la gente, la gente comune che si astenne sempre di più, iniziando la lunga risacca di quasi quattro secoli di denatalità che oggi raggiunge nuovi abissi. E perché iniziò ad astenersi? Suonerà strano al nostro orecchio sessualmente liberato, ma i primi moderni si astennero proprio per essere più liberi. Liberi dalla schiavitù della prole infinita, liberi di non diventare proletariato schiavo della povertà, liberi di lavorare e di realizzarsi nel lavoro e di produrre i primi beni di consumo, le prime comodità: alcolici, vestiti, mobili, sedie, pipe e sigari, piatti e posate, candele e poi lampade, finestre, infissi e serramenti, modanature, specchi, tovaglie, argenteria varia e varia chincaglieria, tappeti e tende, zuccheriere e caffettiere e tanti, tanti altri oggetti quotidiani che resero la vita più comoda e più industriosa come mai prima, appunto.

Astenersi dal sesso e fare meno figli significava poter pianificare meglio la propria vita, programmare una carriera lavorativa e costruirsi una vita individuale e soprattutto individualistica. Questa prima diminuzione delle nascite passò inosservata. Perché? Perché al tempo stesso migliorano enormemente le condizioni igieniche e quindi crollò la mortalità infantile, cosicché per un paio di secoli la popolazioni occidentali continuarono a crescere, malgrado il diminuire delle nascite. Meno nati, ma anche meno morti tra i bambini.

Nel frattempo le ondate dello sviluppo industriale si susseguivano. Alla rivoluzione industriosa seguì quella industriale vera e propria, poi le successive rivoluzioni tecnologiche e delle comunicazioni: motore a vapore, motore a scoppio, telegrafo, telefono, e il treno e produzione industriale di massa. Cresceva l’alfabetizzazione, l’acculturazione e la consapevolezza individuale di massa.

E a questo punto si aprì una strana parentesi. Quale parentesi? Nel tardo ottocento ci fu un intervallo neo-patriarcale, curiosamente da molti attribuito alla Chiesa Cattolica, che invece c’entrava poco o nulla. C’entrava invece –suona ancora più strano- la modernità borghese sempre più laica e secolarizzata. Dopo l’industriosità artigianale delle donne e dopo lo sfruttamento industriale del lavoro minorile e femminile del primo ottocento esplose una nuova prosperità pre-consumista che risospinse momentaneamente le donne in casa per una cinquantina d’anni, fino alla prima guerra mondiale almeno. Può sembrare una regressione, ma era invece frutto anche di una inaudita prosperità economica che consentiva alla famiglia borghese di vivere –e vivere bene- col solo lavoro del capofamiglia.

Ma non si trattava solo di benessere, ma di una nuova cultura emotiva e psicologica, frutto di una nuova consapevolezza e conoscenza dell’infanzia e delle cure che occorre dare ai bambini. Trascurati e perfino maltrattati per millenni, i bambini furono scoperti nell’ottocento. In quel secolo fu inventata l’infanzia come età debole e vulnerabile da proteggere.

Nei secoli precedenti l’infanzia era stata protetta solo con il numero, il grande numero dei figli fatti di cui pochi raggiungevano l’età adulta. Nell’ottocento –in cui malgrado le apparenze i figli diminuiscono ma riescono finalmente a sopravvivere quasi tutti al massacro della mortalità infantile – i fanciulli per la prima volta sono protetti con la cura e l’amore.

I romanzi di Dickens diffondono una nuova sensibilità verso i bambini e le bambine maltrattate. Mentre nel Satyricon di Petronio si parla con noncuranza dello schiavetto usato dai protagonisti per i loro giochi sessuali (ci avete mai fatto caso, a quel bambino schiavo sballottato come un oggetto per pagine e pagine? Come abbiamo fatto a non commuoverci? Il cuore di pietra del paganesimo ce l’ha fatta sotto il naso?); mentre nel Lazarillo de Tormes un altro ragazzino sopravvive tranquillo a incredibili avventure (e già va meglio, già c’è una nuova attenzione per il bimbo); in Dickens finalmente ci si commuove per le vicissitudini di Oliver Twist, di Davide Copperfield e soprattutto di Amy Dorritt, una bambina, qualcosa di mai visto in letteratura.

La parentesi neo-patriarcale del tardo ottocento potrà pure essere stancamente interpretata come un ritorno al potere maschile dopo il caotico “liberi tutti!” della rivoluzione industriale, oppure no. Oppure è anch’essa un passo avanti: le donne tornano in casa, ma il loro essere casalinghe è una scoperta dei bambini, dei figli, esseri prima mai visti. E questi figli e figlie cominciano a essere amati e curati in una misura mai avvenuta, e diventano un tesoro da proteggere. Si comincia a pensare sempre di più che essere genitori è una responsabilità, una grande responsabilità. Ci si mettono poi anche la psicoanalisi e la psicologia a rendere tutti sempre più consapevoli di quale grave compito sia essere genitori. E l’ansia sale. E la natalità scende.

Passano altri cinquant’anni, passano due guerre mondiali e arrivano altre rivoluzioni sociali e non solo. Rivoluzioni forse in contrasto con le epoche precedenti, ma anche in continuità. Le donne escono di nuovo fuori di casa, ma non è la prima volta che accade, come ci piace credere. Come nel periodo precedente, quando le guerre napoleoniche e la rivoluzione industriale avevano tenuto gli uomini lontano dal focolare consentendo alle donne di accedere all’ambiente del lavoro, anche in questo caso due guerre e il diffondersi di nuove occasioni di lavoro sempre più abbondanti consentono alle donne di liberarsi. Dopo l’incubazione al caldo della crescente prosperità degli anni ’50 del novecento, l’esplosione della ricchezza diffusa degli anni ’60 consente una definitiva liberazione sociale e sessuale. L’incremento di sensibilità verso i bambini raggiunge nuovi traguardi e si unisce –paradossalmente- a un incremento di individualismo e di fame di divertimento che rendono il fare figli un atto sempre più pensato e pianificato.

E poi c’è il sesso. Fino a quel momento temuto e allontanato come una trappola, con la contraccezione il sesso finalmente diventa anch’esso un bene voluttuario, un consumo e un consumismo, in continuità con la produzione industriale di beni voluttuari iniziata in Olanda tre secoli prima. Si può infine abbandonare la repressione sessuale e liberarsi anche in quella dimensione, ricordandoci però che l’autocontrollo repressivo era stato abbracciato trecento anni prima come mezzo di libertà individualistica e borghese. Prima della pillola, il sesso era immediatamente gravidanza e quindi solo un enorme ostacolo per la realizzazione personale. Ora invece ci si può scatenare ed esplode un po’ tutto: la musica esplode, esplodono le anche di Elvis Presley, esplodono le urla delle adolescenti allo Shea Stadium dove cantano i Beatles.

Insomma, i contrari si toccano. La lunga espansione demografica dell’ottocento nascondeva già un calo delle nascite e preparava l’inverno delle culle di oggi, l’astinenza sessuale dell’ottocento era stata il terreno di coltura della liberazione individualistica e sessuale degli anni ’60.

Ciò che non cambiava e non cambia è la nuova, enorme sensibilità verso i bambini. Sesso come bene di consumo e bambini da curare perfettamente senza possibilità di errore rendono ormai la riproduzione un evento sempre più complesso e angosciante per gli aspiranti genitori dello stanco Occidente. Il calo delle nascite colpisce in particolare l’Europa meridionale, ma non risparmia l’Europa nordica e le coste degli Stati Uniti. Solo la Francia è in precario pareggio grazie ai migranti, peraltro rapidissimi a inaridire la loro fertilità appena approdano sulle nostre rive. Le grandi pianure interne degli Stati Uniti per ora continuano a figliare, forse grazie soprattutto agli ispanici. L’Oriente del Giappone e della Corea è anch’esso incapace di prolificare e un po’ dappertutto il rapporto con la maternità ormai è un film horror.

È un paradosso che, mentre la popolazione mondiale non è mai stata così numerosa, ci si debba al tempo stesso preoccupare di un futuro senza bambini con milioni di vecchi letteralmente privi di assistenza, privi di un numero sufficiente di giovani nipoti in grado di averne cura. Basteranno le badanti? O ci faremo fuori tutti, teneri vecchietti, in una festa mondiale dell’eutanasia? La singolare convergenza di attenzione estrema all’infanzia e di desiderio individualistico hanno prodotto questa strana crisi, in cui ci si deve preoccupare di tutto e del contrario di tutto: sovrappopolazione e denatalità. È la modernità, e non puoi farci nulla.

Intersessualità: la sofferenza di chi non si sente né femmina né maschio

Intersessualità e DSD: per definizione una persona con DSD (Disorders of Sex Development), vive una condizione in cui vi è incongruenza tra anatomia sessuale interna ed esterna, o sviluppo di genitali ambigui, o anomalie nello sviluppo delle gonadi, o sviluppo incompleto dell’anatomia sessuale, oppure anomalie a livello cromosomico sessuale.

 

La persona intervistata non ama la definizione DSD (Disorders of Sex Development) , preferisce venga usato il termine ombrello “intersessualità” in quanto “disturbo dello sviluppo sessuale” la fa sentire patologizzata, mentre “intersessualità” sottolinea una condizione: la propria.

S. non ama le definizioni in generale; sono proprio le definizioni ad averla fatta sentire imprigionata per una vita intera. Sentiva di continuo la necessità di doversi definire, eppure non trovava uno spazio nel quale rientrare.

Oggi, per convenzione, accetta che si parli di lei al femminile, ma non si sente né donna né uomo.

S. ha una tormentata storia alle spalle. È nata negli anni Settanta e da un punto di vista sessuale disponeva di cromosomi XY, organi genitali esterni femminili e gonadi ritenute nell’addome. Si ricorda che durante i primi anni della sua vita spesso era dal pediatra, come molti altri bambini, ma all’età di tre anni successe qualcosa di anomalo: subì un intervento chirurgico di asportazione di alcune parti del suo corpo. Ricorda come traumatico il ritrovarsi nuda su un lettino, circondata da diversi medici intenti a studiarla. Negli anni successivi torna ogni sei mesi in ospedale per dei controlli ed a undici anni inizia una terapia ormonale.

Durante l’infanzia e la prima adolescenza S. è convinta di essere una bambina, anche se qualcosa non le torna, e spesso si sente strana e diversa rispetto agli altri. All’età di diciannove anni ha il suo primo rapporto sessuale, durante il quale prova un dolore indescrivibile e da lì a breve si ritrova in ospedale. Questa volta viene sottoposta ad un intervento per la “riabilitazione sessuale dei suoi organi”, un intervento dolorosissimo seguito da una serie di esercizi che S. avrebbe dovuto svolgere con dei dilatatori vaginali. Eppure quando torna a casa i dilatatori spariscono e S. ipotizza che i suoi genitori non fossero così d’accordo con quel tipo di ginnastica; forse non erano pronti a pensare alla vita relazionale e sessuale della loro figlia.

 

Intersessualità e vita sessuale: le linee guida per il trattamento dei Disorders of Sex Development

Nonostante in passato, in casi di intersessualità, l’equipe si focalizzava maggiormente sull’estetica dei genitali per rendere le ricostruzioni il più possibili aderenti alla norma, oggi dovrebbe esserci una maggiore attenzione al benessere sessuale, componente essenziale per un benessere generale della persona. Le linee guida per il trattamento dei Disorders of Sex Development in età infantile, redatte originariamente in USA nel 2006 e tradotti ed adattati nella versione italiana nel 2012 a cura dell’Associazione Italiana Sindrome Insensibilità Androgeni (AISIA) invitano i genitori, nonostante l’argomento “vita sessuale dei propri figli” possa metterli in difficoltà, a valutare l’importanza di questo aspetto sin dalla prima infanzia per fare in modo che i propri figli crescano percependosi come soggetti sessualmente sani e possano stringere relazioni intime, anch’esse determinate da una buona percezione di se stessi.

A questo proposito S. racconta di come questo aspetto, ovvero poter avere relazioni romantiche e sessuali, sia quello per lei più difficile al momento: «Se dovessi pensare ad un miracolo ovvio che vorrei indietro la mia sensibilità clitoridea perché finisco sempre con il chiedermi “Come sarebbe se tutto fosse normale?”. E così provo rabbia, dolore e vergogna».

Racconta inoltre che non le piace essere toccata: «faccio fatica anche con i due baci sulle guance o con gli abbracci. E ci sono anche parti del mio corpo che non mostrerei mai, come la schiena e le spalle. Non mi vedrai mai con una canottiera».

Ammette che dopo varie fatiche, ora accetta un po’ di più il proprio corpo e non ha intenzione di sottoporsi ad altri interventi chirurgici, nonostante l’accettazione sia un processo tuttora in atto: «Accetto che la mia sessualità sia vissuta in modo particolare, ma comprendo anche che le altre persone, miei eventuali partner, la vivono in modo diverso da me. A breve inizierò anche una terapia in Svizzera per procedere nell’accettazione corporea e scoprire come gradire il contatto fisico anche a livello di zone non per forza erogene».

 

Crescere nella vergogna e nel dubbio

Fino al momento in cui non c’è stato quell’intervento chirurgico d’urgenza in seguito al suo primo rapporto sessuale S. non riceve alcuna informazione da medici o dai genitori rispetto alla sua condizione.

Le linee guida per il trattamento dei Disorders of Sex Development in età infantile sottolineano diverse volte l’importanza di mettere il soggetto a conoscenza della propria condizione, aiutando i genitori a comunicare in modo efficace a seconda dell’età del figlio. Il soggetto deve sentire di poter domandare e poter esprimere le proprie preoccupazioni. Inoltre più esso sarà informato più sarà educato a prendere autonomamente decisioni su se stesso, con il supporto costante dell’equipe pluriprofessionale e dei genitori.

Un ulteriore punto sul quale le linee guida insistono molto è l’elaborazione della vergogna che quasi sempre i pazienti e le loro famiglie provano per l’ambiguità sessuale. Entrando a contatto con il mondo esterno le sfide aumentano e gli operatori che hanno contribuito alla stesura del manuale indicano quanto sia «indispensabile dedicare del tempo a parlare dello sviluppo del senso di vergogna, da considerare del tutto naturale, e del modo in cui quest’ultimo possa essere rielaborato. In caso contrario, questo sentimento negativo tende ad essere amplificato e ad influenzare tutte le scelte future riguardanti il bambino. È importante evitare di trasmettere l’idea secondo cui ogni reazione negativa possa essere eliminata con interventi chirurgici o altre terapie. La vergogna fa paura e può causare isolamento, specialmente quando non si parla d’altro o quando, al contrario, non se ne parla affatto. L’unico modo per affrontarla al meglio è parlarne apertamente e in modo diretto».

È stato dimostrato come una rete di supporto costruita con altre persone che hanno vissuto un’esperienza simile ha aiutato spesso a superare la vergogna e la riluttanza nel parlare della propria condizione.

S. vive la sua infanzia e la sua adolescenza con i genitori ed il fratello. «Per vergogna i miei genitori non volevano se ne parlasse con nessuno e mi imponevano continuamente il genere femminile. Eppure io sentivo di avere anche un’altra parte».

«Ricordo mio padre come molto severo. Dovevo essere una femmina e non potevo replicare. Mia madre, vecchio stampo, mi invitava a fare i lavori domestici, quelli ritenuti femminili, ed io ad una certa età ho iniziato a riderci sopra, rispondendole che non potevo farli perché in fondo non ero proprio una femmina. Mia madre non rideva affatto di questi giochi, evitava totalmente l’argomento. Si arrabbiavano se non ero la bambina ideale da vestitino e gonnellina».

La madre si vergogna ancora se sua figlia parla della sua storia a qualcuno, ma ora S. afferma: «ho iniziato a pensare che la vita è mia ed è importante uscire dalla vergogna. Ho iniziato un po’ di attivismo con orgoglio. Mia madre però non è ancora pronta a questo ed io ora accetto i suoi tempi. In adolescenza invece ero arrabbiatissima con i miei e ricordo di aver iniziato a “farmi” per questo motivo. Oggi invece penso diversamente, non sono più arrabbiata e penso ai miei genitori che quando sono nata avevano circa vent’anni e si sono solamente affidati ad altri. Sfido qualsiasi genitore ad esser nei loro panni, mi sono chiesta anche io cosa avrei fatto di diverso da loro».

Con il fratello attualmente non parla più: «sicuramente non sarà stato facile starmi vicino in certi momenti. Da tossicodipendente ne ho fatte tante, eppure credo che ci sia qualcosa sotto per cui lui non mi voglia parlare. Così un giorno stavo leggendo un libro su due gemelli dal titolo “Bruce, Brenda e David” e la storia racconta di quando ad uno dei due neonati, durante la circoncisione, viene erroneamente amputato il pene. In seguito a questo incidente si decide che Bruce diventerà Brenda e verrà cresciuto da bambina. L’ultimo capitolo di questo libro parla di come il fratello ha vissuto questa esperienza ed io, dopo averlo letto, ho pensato a mio fratello. Ho capito come anche per lui la mia condizione poteva essere vissuta con difficoltà a causa di tutte le attenzioni dei nostri genitori rivolte quasi sempre solo a me».

 

Sogni e propositi

L’accettazione di S. da parte di S. è un processo ancora in atto, nel quale si impegna quotidianamente, affidandosi a diversi professionisti.

Ha diversi propositi per il suo futuro. Vorrebbe evitare che altre persone passino certe sofferenze: «creerò un’associazione e forse scriverò anche un libro. Il mio obiettivo è che i genitori dei bambini intersex di oggi siano più informati nel prendere decisioni, o meglio, che non ne prendano affatto. Vorrei che si evitasse l’interventismo a meno che non ce ne sia assoluto bisogno. Questa sarà la mia battaglia.

Vorrei che non si provasse più vergogna per non poter essere né un maschio né una femmina, e che non si ragionasse più in termini binari, perché noi persone intersessuali siamo la dimostrazione che il binarismo non esiste per natura».

Le linee guida riportano una letteratura a dimostrazione del fatto che bambini cresciuti con anatomia genitale ambigua non sono maggiormente soggetti allo sviluppo di problemi psicopatologici, rispetto al resto della popolazione. Nonostante queste pubblicazioni siano datate, non ci sono prove che dimostrino la necessità di ricorrere a chirurgia estetica riparativa e precoce per una normalizzazione genitale. Inoltre, secondo il principio della riduzione della vergogna, investire su una serie di interventi normativi non può far altro che ledere il messaggio di accettazione incondizionata che si vorrebbe accompagnasse il soggetto nell’arco della sua esistenza.

S. conclude: «Mi auguro che nessuno provi nemmeno l’1% di quel che ho passato io, sia fisicamente che a livello di comprensione. Ci vuole tanto tempo per capire chi si è ed io sto ancora cercando di capirlo passo dopo passo».

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Differenze di potere nelle relazioni: un danno maggiore per le donne

All’interno delle relazioni eterosessuali, le differenze di potere sono comuni, ma secondo uno studio condotto all’università di Buffalo, avere meno potere ha più grandi ripercussioni sulle donne che sugli uomini.

 

La percezione di potere nelle relazioni di coppia: lo studio

Tra gli adolescenti e i giovani adulti, le relazioni costituiscono un aspetto complesso e significativo, dando alle persone l’opportunità di sviluppare capacità come l’attenzione verso i bisogni degli altri, la sensibilità e abilità relazionali e comunicative.

Nelle relazioni, il potere, inteso come la rispettiva abilità dei partner di influenzarsi reciprocamente e di dirigere in qualche misura la relazione, è un elemento complesso e fondamentale che riguarda diversi domini, come la sessualità, la gestione della parte economica, i legami affettivi extrafamiliari, etc.

Uno studio, condotto da un gruppo di ricerca dell’università di Buffalo, ha cercato di indagare la percezione di potere e le sue conseguenze, in 114 soggetti, 59 uomini e 55 donne, con una media d’età di circa 22 anni.

I risultati, pubblicati sulla rivista The Journal of Sex research, suggeriscono “un sano scetticismo per quanto riguarda ciò che classifichiamo come uguaglianza di genere“, sostiene Laina Bay-Cheng, professoressa associata alla UB School of Social Work ed esperta nella sessualità di giovani donne. “Questa ricerca confuta l’assunzione che l’uguaglianza di genere sia stata raggiunta e che non dovremmo più temere la misoginia“.

La ricerca ha previsto lo studio quantitativo e qualitativo di 395 relazioni eterosessuali. Bay-Cheng ha sviluppato un nuovo metodo di ricerca, sviluppando un database online in cui i soggetti, oltre alle informazioni anagrafiche (riguardanti l’età, il sesso, il proprio status socioeconomico ecc.), erano tenuti a compilare un calendario digitale, riportando le proprie esperienze sessuali dall’adolescenza e dalla prima età adulta. Il calendario poteva essere compilato mese per mese.

Per ogni relazione i soggetti avevano la possibilità di categorizzarla indicandone la natura (suddivisa poi in due gruppi: relazioni romantiche o relazioni casuali) e di indicare quanto la reputassero intima, stabile e piacevole fisicamente attraverso la risposta ad alcune domande, ad esempio “Quanto reputi stabile la tua relazione?” (su una scala likert che andava da “Per nulla stabile” a “Molto stabile”).

Per valutare la percezione di potere, era posta ai soggetti una singola domanda: “Com’era bilanciato il potere nella coppia?”. I partecipanti potevano rispondere su un continuum a tre punti (“Il mio partner aveva più potere“; “Il potere era bilanciato”; “Io avevo più potere“).
Nel calendario, inoltre, i partecipanti potevano inserire sia testo che altro genere di materiale, come file audio, immagini o emoji, per descrivere a livello qualitativo le proprie relazioni.

 

I risultati: l’uguaglianza di genere esiste davvero nelle coppie?

Abbiamo ottenuto dati vari e diversi“, sostiene la Bay-Cheng. “I partecipanti, piuttosto che cerchiare un numero su una scala di qualche questionario, hanno avuto la possibilità di esprimere loro stessi nei modi e nei tempi che volevano, ed in seguito “sfogliare” i loro calendari ed avere una prospettiva differente riguardo alle loro storie sessuali e a come queste fossero collegate ad altre parti della vita. I soggetti ci hanno detto quanto potesse essere significativa questa possibilità di riflessione“.

Le analisi, sia quantitative che qualitative, hanno dimostrato che i partecipanti percepivano le relazioni in cui erano dominanti o condividevano il potere, come più intime e stabili rispetto a quelle in cui si sentivano subordinati.

Il genere fungeva da moderatore, per cui le donne valutavano le relazioni in cui si sentivano subordinate come meno intime e più instabili, rispetto agli altri tipi di relazione, mentre la valutazione degli uomini non variava, in media, nelle diverse condizioni di potere percepito.

A livello qualitativo, inoltre, è stato dimostrato che lo sbilanciamento di potere sarebbe più problematico per le donne: di 17 relazioni in cui uno dei due partner risultava essere abusante o controllante, 15 erano riportate da donne.

Bay-Cheng sostiene che le dinamiche sottostanti le relazioni richiedano un esame minuzioso e che l’affermazione spesso pronunciata che le donne abbiano superato la disuguaglianza rispetto agli uomini, si disgreghi velocemente quando la si esamina nel dettaglio.

Dovremmo guardare più da vicino le relazioni e le esperienze reali e smettere di utilizzare dei segnali superficiali come prova dell’uguaglianza di genere“, sostiene la Bay-Cheng. “Quando sono gli uomini ad essere subordinati in una relazione, questo fatto non li preoccupa molto; essi non percepiscono la relazione come meno intima o stabile rispetto alle relazioni in cui si percepiscono dominanti. Ma per le giovani donne, avere meno potere in una relazione è una condizione associata ad una diminuzione dell’intimità e della stabilità che si associa ad un maggior rischio di abuso.E’ sensato ipotizzare che l’ineguaglianza in una relazione non danneggi troppo gli uomini, poiché essi sono già inseriti in un sistema più ampio che li privilegia“.

Le relazioni che si sviluppano lungo il cammino verso l’età adulta sono eventi fondamentali. E’ da queste esperienze precoci che le persone imparano come stare in una relazione e quali sono gli effetti dipendenti dalla natura e dalla qualità di queste esperienze – sia positivi che negativi – che possono avere delle ripercussioni per tutta la vita.

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