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Ansia da prestazione musicale: i fattori che incidono sull’ansia dei musicisti

L’ansia da prestazione musicale Music performance Anxiety – è un fenomeno complesso determinato da fattori personali e contestuali che interagiscono dinamicamente tra loro, producendo una pluralità di manifestazioni somatico-comportamentali e vissuti ansiogeni estremamente soggettivi (Kenny, 2011).

Dott.ssa Sarah Ferrando, Dott.ssa Giulia Perasso, Dott. Jacopo De Angelis

 

Ansia da prestazione musicale: in cosa consiste

L’ ansia da prestazione musicale può essere disposta lungo un continuum, che va da una semplice e basilare forma di arousal, in grado di mobilitare le risorse psicofisiche per preparare l’organismo a sostenere al meglio la performance, ad una forma ansiosa più grave con veri e propri attacchi di panico (Hansell & Damour, 2007). In questo caso può conseguire la sospensione di ogni attività concertistica, con grande sofferenza interiore, senso di alienazione e sconfitta per il musicista.

Il fenomeno è caratterizzato da una reazione multidimensionale, somatica, cognitiva e comportamentale, dovuta ad un’iperattivazione del sistema nervoso automatico nel contesto di una performance in presenza del pubblico (Wilson & Roland, 2002). Per questo motivo il DSM – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM V, 2013) – categorizza l’ ansia da prestazione musicale come un sottotipo di fobia sociale, senza dedicare una specifica sezione a questa particolare declinazione sintomatologica.

L’ ansia da prestazione musicale presenta inoltre un decorso e una severità sintomatologica del tutto soggettiva, imponendo al soggetto una presa di coscienza profonda delle proprie vulnerabilità ed un’interpretazione più autentica e matura dei propri vissuti. Il musicista viene cioè stimolato a sviluppare nuove e funzionali strategie di coping e di regolazione delle emozioni.

Il linguaggio musicale, inoltre, è connotato immaginativamente ed emotivamente. Presenta cioè un contenuto simbolico ed emotivo, che può consentire al musicista l’immedesimazione immediata e inconscia con il suo ritmo, generando una connessione profonda denominata esperienza del “flow musicale” (Wrigley & Emmerson, 2013), che può essere considerata antitesi rispetto alla fenomenologia dell’ ansia da prestazione musicale.

 

Le variabili dell’ansia per la prestazione musicale

Nell’ambito della performance sportiva, la ricerca ha guardato alla comparazione tra ansia da performance in sport di squadra e individuali (Zamani & Morandi, 2009) ed approfondito il rapporto tra ansia e competizione (Horikawa & Yagi, 2012; Parnabas & Mahamood, 2010). Cosa sappiamo invece della performance musicale in connessione col fenomeno ansioso? Dalla letteratura scientifica, si può ricavare una prima panoramica delle variabili indagate con differenti metodologie, laddove, il principale strumento ad oggi utilizzato risulta essere il Kenny Music Performance and Anxiety Inventory – K-MPAI- (Kenny, David & Oates, 2004) e la sua versione per adolescenti, il Music Performance Anxiety Inventory – Adolescents -MPAI-A- (Osborne & Kenny, 2005).

  • Parametri fisiologici. Gruzelier e collaboratori (2013) utilizzando il monitoraggio dei parametri fisiologici che riflettono la variabilità della frequenza cardiaca (HRV), hanno misurato la risposta fisiologica di una pianista professionista durante la performance. Le condizioni di alto e basso stress sono state manipolate incrociando la presenza o assenza del pubblico, con diversi gradi di difficoltà esecutiva del brano. I risultati mostrano come i livelli di stress fluttuino in relazione alla maggior richiesta cognitiva e tecnica del programma, e alla valutazione dell’audience.
  • Difficoltà del compito e genere musicale suonato. Un altro aspetto indagato dalle ricerche sull’ ansia da prestazione musicale è il livello di difficoltà e stress causato dalle richieste del compito e, andando più nello specifico dal margine di improvvisazione consentito, insito nel genere musicale suonato. Nussek e collaboratori (2015) hanno ottenuto risultati interessanti riguardo al possibile sviluppo e decorso dell’ ansia da prestazione musicale. Misurando i livelli dell’ansia in musicisti classici e pop di differenti età, a confronto, i livelli di ansia da prestazione musicale sono risultati più alti per musicisti classici tra i 7 e i 16 anni, rispetto a musicisti più anziani. Per i musicisti pop, gli effetti sono risultati invertiti. Vellers e collaboratori (2015) hanno indagato, invece, l’effetto del genere musicale (rock classico, occidentale, cristiana contemporanea e rock metal) sulla frequenza cardiaca, osservando una correlazione tra aumento dei battiti e massa corporea, tipo di strumento e predominante componente ritmica nella musica, supportando l’ipotesi di un differente impatto cognitivo e somatico del genere musicale.
  • Presenza dell’audience. Quanto può influire la presenza del pubblico sulla performance del musicista in termini di ansia? Uno studio di Shoda e collaboratori (2015) ha indagato se gli artisti riescano a offrire risultati performativi migliori in presenza del pubblico, se sperimentino cioè un effetto facilitante in termini di esposizione sociale. Analizzando i parametri interpretativi della durata ed espressione dinamica nella registrazione di un brano pianistico, rispettivamente con e senza audience, la presenza del pubblico risulta alzare il livello qualitativo ed emotivo dell’esecuzione. Nello stesso tempo, però, l’audience induce i pianisti a ridurre il livello di individualità nelle scelte interpretative per evitare i rischi, preferendo variazioni espressive più contenute. Questo studio risulta essere in linea con la teoria pulsionale di Zajonc (1965), secondo la quale la presenza fisica di membri della propria specie provoca un incremento psicofisiologico che stimola l’attivazione di modelli abituali di comportamento e risposte dominanti. Se funzionali, porta all’effetto di facilitazione sociale, se disfunzionale a quello di inibizione. Inoltre, la presenza sociale favorisce l’esecuzione di compiti più semplici ostacolando invece i compiti complessi. Questo dato potrebbe spiegare la scelta dei pianisti dell’esperimento di Shoda di rinunciare agli aspetti più estremi delle loro scelte interpretative.
  • Attaccamento. Kenny e Holmes (2015) hanno indagato come traumi relazionali dovuti a pattern di attaccamento disfunzionali trovino espressione attraverso sintomi che sottostanno alle più severe forme di ansia per la prestazione musicale (dissociazione, depersonalizzazione, frammentazione del pensiero, sovraccarico cognitivo, somatizzazioni). Kenny ha suddiviso tali sintomatologie in tre sottotipi di ansia per la prestazione musicale: focalizzata, associata ad attacchi di panico e depressione, e quella con fobia sociale. In senso lato, nella genesi dell’ ansia per la prestazione musicale, l’ipereccitazione fisiologica attira l’attenzione del musicista verso le proprie percezioni interne sottraendola sia all’espressività emozionale che alla gestione della performance, compromettendo il processo esecutivo e comunicativo.
  • Personalità. Il rapporto tra personalità dei musicisti e ansia da performance musicale è stato studiato da Patston e Osborne (2015). Gli autori hanno indagato la relazione tra ansia per la prestazione musicale e perfezionismo in età scolare tra studenti di musica, rilevando che esiste una forte e stabile correlazione tra ansia da prestazione musicale e perfezionismo (soprattutto relativo agli errori esecutivi e alle aspettative genitoriali) nella fascia compresa tra 10 e 17 anni, destinata ad aumentare con l’età e l’esperienza, specialmente nel genere femminile, in cui si è registrato un incremento più rapido e intenso.

In conclusione, la natura multidimensionale dell’ ansia per la prestazione musicale, costrutto relativamente recente poiché definito ed operazionalizzato soltanto nel 2002 (Wilson & Roland, 2002), incoraggia svariate future direzioni nell’ambito della ricerca, che considerino variabili cognitive, percettive, descrittive, esperienziali e di personalità.

Il disagio relativo a questa fenomenologia è infatti diffuso e comune a numerosi talenti del panorama musicale contemporaneo e non, quali per esempio Luciano Pavarotti, Ella Fitzgerald, Enrico Caruso, Barbra Streisand, Leopold Godovsky, Artur Rubinstein, Brian Wilson, Vladimir Horovitz, Sergei Rachmaninoff, Glenn Gould e persino Fryderyk Chopin.

In una lettera a Liszt, infatti, quest’ultimo descriveva così il proprio vissuto di ansia da performance musicale:

“Non sono fatto per i concerti. La folla mi fa paura, mi sento paralizzato da quegli sguardi curiosi, ammutolito da quei visi estranei. Dare concerti invece è affare vostro perché se non vincete il vostro pubblico avete tanta forza d’accopparlo.”

Credenze sulle emozioni e regolazione emotiva: un legame orientato da scopi

Recentemente è stato pubblicato un articolo sulla relazione tra credenze sulle emozioni e strategie di regolazione emotiva (Trincas, Bilotta e Mancini, 2016). In generale, ciò che si osserva dai risultati è che le credenze sulle emozioni sono associate a specifici processi di regolazione emotiva.

 

Le convinzioni sulle emozioni possono influenzare le strategie di regolazione emotiva

La rilevanza di questo studio sta nell’osservazione secondo cui il tipo di regolazione emotiva a cui ricorrono le persone può dipendere da come la persona valuta le proprie emozioni e, quindi, dalle convinzioni riguardo alle reazioni emotive. In altre parole, se la regolazione emotiva risulta inefficace non necessariamente ciò dipende da un deficit di regolazione emotiva, piuttosto potrebbe dipendere da specifiche valutazioni attuate dall’individuo, in linea con scopi specifici.

Tale osservazione è in linea con l’attuale prospettiva funzionalista (Philipott, 2013) che riconsidera e disconferma la prospettiva secondo cui la psicopatologia sarebbe caratterizzata da deficit di regolazione emotiva. Piuttosto, mette in luce l’idea che le diverse strategie di Regolazione emotiva non possono essere definite adattive e disadattive a priori, ma vanno considerate sulla base della specifica funzione che svolgono, delle credenze, degli scopi che l’individuo intende ottenere, e del contesto specifico in cui vengono messe in atto (psicopatologico o meno).

Tale prospettiva è sostenuta da diverse evidenze empiriche. Per esempio, vi sono casi in cui la rivalutazione cognitiva può non essere adattiva se comporta l’esclusione di valutazioni realistiche della situazione. Tali valutazioni realistiche potrebbero infatti implicare emozioni negative e risultare sgradevoli, tuttavia potrebbero essere utili da considerare al fine di modificare una situazione negativa. Per esempio, nei borderline la continua rivalutazione positiva di una situazione di abuso potrebbe contribuire al mantenimento dell’abuso (Chapman et al., 2013). Oppure il controllo emotivo, una strategia di Regolazione Emotiva presumibilmente disadattiva, potrebbe essere adattiva in situazioni di urgenza in cui l’azione deve essere eseguita senza l’interferenza di emozioni che potrebbero innescare tendenze all’azione non adatte in quel contesto e inadeguate per il raggiungimento di uno scopo a breve termine (Philippot, 2013). Ancora, l’inibizione della paura o del disgusto potrebbero essere necessarie per fornire una prima assistenza alle vittime gravemente ferite in un incidente d’auto, mentre la spontanea tendenza all’azione innescata da queste emozioni potrebbe essere quella di fuga dalla situazione.

Allo stesso modo, le convinzioni che le persone hanno riguardo alle proprie reazioni emotive possono influire sulla scelta delle strategie da utilizzare per regolarle. A tal proposito, questo studio mette in rilievo diversi risultati. Per esempio, la paura delle emozioni e la convinzione che le emozioni siano incontrollabili, irrazionali e dannose sono associate alla tendenza ad avere reazioni negative secondarie, alla mancanza di consapevolezza emotiva, e a difficoltà a mettere in atto comportamenti diretti ad uno scopo. In particolare, la credenza che le emozioni siano incontrollabili si associa alla tendenza alla ruminazione e all’evitamento emotivo, e a scarsa capacità di accettazione, di rivalutazione cognitiva e di problem-solving.

Inoltre, la paura di specifiche emozioni (umore depresso, ansia, rabbia e emozioni positive) si associa specificatamente a diversi tipi di Regolazione Emotiva. Per esempio convinzioni negative sull’umore depresso e sull’ansia sembrano associate ad un’eccessiva tendenza alla ruminazione e all’evitamento emotivo, e a difficoltà di regolazione emotiva. Mentre il controllo emotivo si associa alla credenza che rabbia ed emozioni positive possano avere conseguenze sul controllo delle proprie azioni, e a difficoltà nel controllo degli impulsi.

 

La regolazione emotiva e comportamentale in funzione dei propri obiettivi e valori

In linea con questi risultati, gli autori ritengono che queste specifiche associazioni possano essere spiegate dall’idea che le persone regolano il proprio comportamento in funzione di specifici obiettivi e valori (Carver e Sheier, 1998), quindi le strategie di Regolazione Emotiva sarebbero orientate da specifici scopi. Per esempio, la ruminazione potrebbe essere vista come un tentativo di trovare una soluzione in risposta alla paura di essere sopraffatto dalla depressione; l’evitamento emotivo potrebbe essere una strategia orientata dalla convinzione che l’ansia sia incontrollabile e motivata dallo scopo di evitare la perdita di controllo. Inoltre, il controllo di emozioni positive o della rabbia potrebbe essere una strategia motivata dalla paura di perdere il controllo di sé e dallo scopo di evitare un giudizio negativo, o di causare un danno ad altri. Questi risultati sono in linea con diverse evidenze empiriche (Campbell-Sills e Barlow, 2007; Papageorgiou e Wells, 2001; Gross e Thompson, 2007).

Un altro risultato interessante è l’associazione tra la tendenza ad avere una reazione negativa secondaria alla propria sofferenza o disagio emotivo, e la credenza che le emozioni siano irrazionali. In altre parole, la convinzione di irrazionalità delle emozioni si associa a sensazioni di colpa, vergogna, imbarazzo e debolezza in reazione alla propria esperienza emotiva. Secondo una prospettiva clinica, se un individuo crede che le emozioni siano irrazionali, possiamo immaginare che l’esperienza emotiva possa essere un evento negativo, perchè potrebbe per esempio portare la persona a giudicarsi come irrazionale. Per cui, tale esperienza potrebbe influire negativamente sul concetto di sè determinando un problema secondario. Questa osservazione sostiene l’idea che le credenze sulle emozioni possono determinare una risposta emotiva secondaria che può mantenere o incrementare la reazione primaria e i conseguenti tentativi di regolazione (Ellis, 2003; Clark e Beck, 2010; Greenberg e Safran, 1990; Hayes et al., 2006).

Considerare un’emozione come pericolosa o inaccettabile, può influire sul modo in cui la persona regola i propri stati emotivi. Per esempio, una persona che soffre di ansia sociale tende a preoccuparsi delle conseguenze negative che la propria ansia potrebbe avere nel contesto sociale; per esempio, si preoccupa di essere considerata una stupida. Da una prospettiva clinica, tale valutazione può essere considerata responsabile della persistenza dell’ansia (problema primario; Clark e Beck, 2010). In linea con ciò, diversi autori sottolineano l’importanza della valutazione secondaria nell’incrementare e mantenere le manifestazioni psicopatologiche.

Per esempio, Ellis (1986) e De Silvestri (1990) ritengono che il giudizio riguardo ad una reazione emotiva o comportamentale può generare una sofferenza ancora maggiore. A tal proposito, un recente studio dimostra che la riduzione del problema secondario attraverso specifiche tecniche cognitive si associa ad una riduzione dell’attivazione psicofisiologica in risposta a stimoli fobigeni di diversa natura (Couyoumdjian et al., 2016).

L’interpretazione dei propri sintomi, inoltre, può portare ad un processo denominato autoinvalidazione ricorsiva (Garnder, Mancini e Semerari, 1988), attraverso il quale si vanno ad intaccare i costrutti centrali legati alla visione di sè; questo processo sembra essere determinante nello sviluppo e nel mantenimento della sintomatologia.

In sintesi, sulla base di questi risultati, si ritiene che le credenze su specifiche emozioni possono influire sulla scelta e sul mantenimento di differenti strategie di Regolazione Emotiva. E’ stato dimostrato che la regolazione del comportamento è orientata da scopi personali e valori (Carver & Sheier, 1998), per cui si ipotizza che lo stesso valga per la regolazione emotiva. Si assume quindi che anche la Regolazione Emotiva sia motivata da scopi personali associati a specifiche credenze. Per esempio, una persona potrebbe voler controllare l’ansia allo scopo di dimostrare di essere forte, o razionale, o capace di gestire le proprie reazioni. Diverse persone possono avere scopi differenti, quindi la stessa strategia di Regolazione Emotiva può risultare adattiva in alcuni casi e disadattiva in altri (Chapman et al., 2013). Si vedano per esempio alcuni studi in cui si osserva come strategie di Regolazione Emotiva considerate adattive (come il reappraisal) siano presenti in misura eccessiva nel Disturbo Borderline di Personalità (Chapman et al., 2013). Questi dati sarebbero in parte contrari all’idea che il DBP sia caratterizzato da deficit di Regolazione emotiva.

Concludendo, questi dati possono avere importanti implicazioni cliniche per l’eziologia e il trattamento dei disturbi mentali, in particolare per le difficoltà di gestione emotiva. Tra l’altro, le credenze sulle emozioni sono oggetto di intervento delle psicoterapie cognitivo comportamentali. Per questi motivi, sarebbe necessario sviluppare studi sperimentali che chiariscano le credenze e gli scopi specifici alla base dei diversi stili di regolazione emotiva al fine di comprendere meglio i meccanismi specifici che orientano la regolazione emotiva.

La personalità rimane davvero stabile nel tempo?

Il più lungo studio prospettico sulla personalità ha mostrato che non sembra esservi alcuna correlazione tra le misurazioni fatte a 14 anni e quelle a 77. È davvero così?

 

Gli studi precedenti dimostrano la stabilità della personalità

Immaginate di essere arrivati all’età di 77 anni e di ricevere la notizia dell’organizzazione di una rimpatriata con i vecchi compagni di scuola che non vedete da quando avevate 14 anni. Ovviamente sarete tutti cambiati molto nel corso del tempo, ma cosa dire a proposito della personalità? In linea di massima saranno tutti rimasti uguali a com’erano all’epoca o, al contrario, saranno irriconoscibili?

Diversi studi presenti in letteratura hanno messo in luce come molti tratti di personalità sembrino presentare una certa stabilità differenziale nel corso del tempo, anche a distanza di decenni. Queste ricerche si sono generalmente occupate dello studio dei diversi tratti di personalità e di come questi si possano modificare nel corso del tempo a partire dall’ adolescenza fino alla mezza età o dalla mezza età fino ad età più avanzate.

Per quanto i tratti di personalità mostrino in media un certo grado di cambiamento nell’arco di vita, l’essere umano sembrerebbe presentare a livello di differenze individuali una sostanziale stabilità (Hampson & Goldberg, 2006; Caspi et al., 2005; Roberts & DelVecchio, 2000).
Ad esempio, Hampson & Goldberg (2006), e successivamente anche Edmonds e collaboratori (2013), hanno rilevato la presenza di stabilità, anche se con differenze a livello dei singoli tratti, per quanto riguarda la personalità valutata nell’infanzia e quella valutata quarant’anni dopo. Per quanto riguarda la personalità in età successive, Leon e collaboratori (1979) hanno valutato diversi tratti (utilizzando l’MMPI, Minnesota Multiphasic Personality Inventory) in un campione di adulti di circa cinquant’anni d’età e, successivamente, hanno correlato quanto emerso con i dati ottenuti con lo stesso campione circa trent’anni dopo, rilevando, ancora una volta, l’esistenza di una sostanziale stabilità nelle misurazioni.

In generale, quindi, sia gli studi riguardanti la prima metà della vita di un essere umano sia quelli riguardanti i periodi successivi, sembrerebbero confermare la presenza di una buona dose di stabilità per quanto riguarda la personalità di ognuno. Sembrerebbe quindi plausibilmente lecito aspettarsi che questo costrutto rimanga stabile, per lo meno in parte, nel corso dell’intero arco di vita, quindi, ad esempio, tra l’adolescenza e la tarda età.

 

La ricerca longitudinale che mette in discussione i risultati precedenti

Recentemente però, Harris e collaboratori dell’università di Edimburgo hanno concluso una ricerca longitudinale, durata più di 63 anni, che suggerirebbe, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, la presenza di un grado di stabilità quasi nullo per quanto riguarda la personalità intesa in senso generale. Gli autori, infatti, non hanno riscontrato alcuna correlazione tra le misurazioni fatte quando i partecipanti avevano 14 anni e quelle successive, fatte all’età di 77 anni. La personalità nel corso della tarda età sembrerebbe quindi essere decisamente diversa rispetto a quanto non fosse durante l’adolescenza.

Per poter far ciò, gli autori, nel 1950, hanno coinvolto un gruppo di insegnanti, chiedendo loro di valutare la personalità di un totale di 1,208 quattordicenni scozzesi, selezionati a partire da un più ampio campione di persone nate nel 1936, già reclutate dallo Scottish Council for Research in Education (SCRE) per lo Scottish Mental Survey sull’intelligenza, e valutate più o meno annualmente fino all’età di 27 anni (Deary et al., 2009). Più nello specifico, agli insegnanti era stato chiesto di valutare i ragazzi su sei diversi aspetti della personalità (Sicurezza di sé, Determinazione, Stabilità emotiva, Coscienziosità, Originalità e Desiderio di distinguersi) lungo una scala Likert a cinque punti. Comprensibilmente, queste sei caratteristiche non vengono considerate dagli autori una valutazione completa ed esaustiva della personalità, ma anzi, poiché moderatamente correlate tra loro, vengono esaminate come parte di un fattore sovraordinato (a sua volta parte del più generale costrutto “personalità”), definito “Affidabilità” (Deary et al., 2009), comparabile con ciò a cui attualmente si fa riferimento con il termine di “Coscienziosità” (per un approfondimento, cfr. Costa & Widiger, 1994).

Successivamente, poi, nel 2012, gli autori hanno ricontattato 635 dei partecipanti allo studio, dei quali 174 hanno accettato di partecipare ad una nuova valutazione costituita da un insieme di questionari e da un’intervista telefonica (alla quale hanno partecipato solamente in 131) riguardante i test cognitivi precedentemente inviati. Per quanto riguarda la personalità, la valutazione nel follow-up è stata formulata in modo analogo rispetto a quella precedentemente fatta dagli insegnanti. Ai partecipanti è stato inoltre chiesto di completare ulteriori misurazioni riguardanti intelligenza e benessere generale e di coinvolgere un proprio conoscente stretto affinché la valutazione della personalità potesse essere fatta anche in terza persona (affidabilità sé-altri).

Dalle analisi dei dati, al contrario di quanto atteso, è stato possibile rilevare una generale mancanza di correlazione tra le misurazioni raccolte ai 14 anni dei partecipanti e quelle raccolte ai 77, sia per quanto riguarda quelle auto-compilate sia per quelle compilate da terzi. La mancanza di correlazione permane sia considerando i singoli fattori sia considerando il costrutto sovraordinato. In aggiunta, per quanto la variabile Affidabilità sia risultata essere positivamente correlata con l’indice di benessere generale nell’età più avanzata, non è emerso alcun legame tra l’Affidabilità valutata a 14 anni e il livello di benessere successivo. Anche quest’ultimo dato risulta essere discordante rispetto a quanto emerso da studi precedenti che, invece, avevano messo in luce come un maggior punteggio relativo alla coscienziosità fosse associato a maggiori livelli di benessere nei decenni successivi (ad es. Gale et al., 2013).

 

La personalità dell’adolescenza non è conforme a quella dell’età avanzata

Da quanto emerso sembrerebbe quindi non essere poi così inverosimile pensare che la personalità che ci caratterizzerà in età avanzata non avrà praticamente nulla a che vedere con quella caratterizzante la nostra adolescenza. Non a caso, sia l’adolescenza sia la prima età adulta vengono considerati come periodi altamente caratterizzati da sviluppi e modifiche, anche a livello di personalità, e, parimenti, anche la tarda età porta con sé notevoli possibilità di sviluppo. Si può quindi affermare che i partecipanti allo studio abbiano attraversato tutti i principali momenti di cambiamento, compresi gli aggiustamenti più fini e sfumati a livello di personalità che possono avvenire lungo tutto l’arco di vita.

Gli autori concludono quindi che più tempo si lascia passare tra due diverse misurazioni della personalità e minore sarà la relazione tra di essi, fino ad arrivare ad un momento in cui, superati i 63 anni di distanza, la relazione può addirittura divenire nulla.

 

I limiti della ricerca

Per quanto i risultati dello studio di Deary e collaboratori (2016) possano essere interessanti e degni di nota, soprattutto perché in direzione contraria rispetto a quanto ci si aspetterebbe sulla base degli studi precedentemente svolti sul tema, però, sarebbero sicuramente necessarie ulteriori conferme in merito. È infatti possibile muovere qualche critica nei confronti del disegno sperimentale che potrebbe, per lo meno in parte, minare l’affidabilità di quanto ottenuto dagli autori.

Ad esempio, se da un lato l’aver considerato uno span temporale così vasto possa sicuramente essere un valore aggiunto alla ricerca, dall’altro non si può non pensare al fatto che in più di sessant’anni le teorie riguardanti la personalità siano profondamente cambiate. A tal proposito, la comunità scientifica attualmente ritiene, quasi in modo unanime, che la personalità possa essere concettualizzata al meglio facendo riferimento al Five Factor Model, che definisce il costrutto come formato da cinque diversi tratti. All’inizio della ricerca di Harris e collaboratori negli anni ’50, però, questo modello non era ancora stato formulato e questa mancanza potrebbe plausibilmente spiegare il perché dell’assenza di correlazione emersa tra le misurazioni: se la valutazione fosse stata fatta in modo meno superficiale e più completo, con riferimento a teorie più recenti ed accreditate, forse sarebbe potuto emergere qualche legame.

Inoltre, la valutazione iniziale fatta dagli insegnanti potrebbe essere solo parzialmente veritiera e affidabile, dal momento che gli insegnanti conoscono un singolo aspetto della vita dei propri alunni, quello accademico (non a caso, la valutazione fatta è risultata correlare in modo significativo con gli indici di intelligenza). Infine, anche l’alto grado di drop out riscontrato all’interno del campione potrebbe aver contribuito alla creazione di un esito falsamente negativo.

Alla luce delle limitazioni riscontrate a livello metodologico, si può affermare che i dati siano nel complesso, per quanto interessanti, di difficile interpretazione e che quindi sia sicuramente necessario svolgere ulteriori indagini, più controllate e attendibili, prima di poter concludere che la personalità sia o meno stabile nel corso del tempo.

Degno di nota, però, è infine uno studio svolto da Milojev & Sibley (2014) in Nuova Zelanda, che, valutando la personalità attraverso il Five Factor Model (con l’aggiunta di un sesto tratto, Onestà-Umiltà), ha permesso di identificare come effettivamente nel corso di vita (tra i 20 e gli 80 anni) si vada incontro a notevoli variazioni nella stabilità dei diversi aspetti della personalità, raggiungendo il massimo della stabilità durante la mezza età e declinando verso l’età più avanzata. Cercando di guardare oltre le limitazioni dello studio di Harris e collaboratori, quindi, la mancanza di correlazione tra le due valutazioni della personalità potrebbe forse essere almeno in parte spiegata dalla mancanza di stabilità che caratterizza le due fasce d’età considerate.

I nuovi Webinar dell’Ordine Psicologi Lombardia

Diagnosi terminabile o interminabile – Le matrici culturali della diagnosi

Dialogo con Pietro Barbetta

Dia-gnosis, sembra significare un attraversamento, una “conoscenza tra”, in inglese c’è un termine intraducibile: in-between. La diagnosi in questo senso implica l’abbandono di una stato di sicurezza per entrare in un indagine di sé che comporta il dubbio, la cura di sé. Questo il senso della diagnosi in psicologia. In medicina la diagnosi è invece una procedura per trasformare i sintomi in segni che compongano un quadro diagnostico già conosciuto, sul quale agire attraverso una cura. Non c’è dunque un solo significato di “diagnosi”, si tratta di un termine polisemico. Sarebbe un errore contrapporsi alla concezione diagnostica medica, al contrario si tratta di riconoscere che l’evidence based medecine ha portato enormi vantaggi alla cura/prevenzione delle malattie più gravi.

Tuttavia la psicologia e la psicoterapia usano il termine diagnosi con un significato differente, si richiamano cioè al senso originario del termine: conoscere attraverso, abbandonare la conoscenza di sé per praticare la cura di sé.

Per questa ragione da oltre vent’anni lavoro sui molteplici significati della diagnosi in un campo, quella della psicoterapia, dove la diagnosi non può che essere terreno di condivisione e non sfocia necessariamente in una categoria prestabilita. In altri termini, le stesse categorie diagnostiche sono prodotti storico-culturali collocati nel tempo. Dall’antica Melanconia del genio, così bene rappresentata da Dürer, ai contemporanei “spettri” che si aggirano per il DSM-5.

 

Pietro Barbetta, psicologo e psicoterapeuta, è direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, insegna Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo, membro di World Association for Cultural Psychiatry (WACP) e di International Society for Psychological and Social Approach to Psychosis (ISPS), tiene seminari presso altre Scuole di specializzazione in psicoterapia a orientamento psicoanalitico e sistemico ed è autore della rubrica “clinica” per Doppiozero. Ha lavorato in vari paesi europei, nord e sudamericani. Ha curato Le radici culturali della diagnosi (Meltemi, Roma) e, con Enrico Valtellina, Louis Wolfson Cronache da un pianeta infernale (manifestolibri, Roma). Ha scritto Anoressia e isteria (Cortina, Milano), Figure della relazione (ETS, Pisa), Lo schizofrenico della famiglia (Meltemi, Roma), I linguaggi dell’isteria (Mondadori Università, Milano), Follia e creazione (Mimesis, Milano), La follia rivisitata (Mimesis, Milano).

 

COME PARTECIPARE?

Iscrivetevi per assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo il 14 Marzo alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/5672283011997589761 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per problemi o informazioni scrivere a [email protected]

BROCHURE – Webinar Barbetta

 


Prendersi cura delle persone omosessuali – Tra ideologie riparative e valori affermativi

Relatore: Dott. Jimmy Ciliberto

Nonostante i manuali diagnostici internazionali abbiano espunto l’omosessualità dal novero dei disturbi mentali da decenni, ancora molti – troppi –psicologi e psicoterapeuti continuano a considerarla come una patologia, il sintomo di uno sviluppo disfunzionale o, alla meglio, un orientamento sessuale non patologico, ma comunque meno desiderabile di quello eterosessuale.

Durante l’incontro cercheremo di delineare alcune linee guida che, a prescindere dall’orientamento teorico di riferimento, sono fondamentali per potersi muovere all’interno del paradigma scientifico – che dovrebbe fungere da cornice condivisa – nell’ottica di una posizione che garantisca l’accoglienza della domanda e l’aderenza ad una pratica scientifica. A partire da una chiarificazione dei costrutti di base, e con un continuo riferimento alla pratica clinica e non, evidenzieremo le differenze tra ideologie riparative e valori affermativi.

 

Jimmy Ciliberto è psicologo e psicoterapeuta sistemico relazionale, didatta del Centro Milanese di Terapia della famiglia, Coordinatore Redazionale della Rivista Connessioni, Membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica, Socio Fondatore e Vice Presidente della Società Italiana per lo Studio delle Identità Sessuali. Da anni, tra i suoi ambiti di approfondimento, si occupa del tema delle identità sessuali, dal punto di vista della riflessione teorica e clinica. Tra le sue pubblicazioni “Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità” (con Rigliano, P. e Ferrari, F.), Omosessualità: dal conflitto inter-gruppi al conflitto intra-individuale. Riflessioni per una risoluzione sistemica (con Rigliano, P. e Ferrari, F.); Eterosessismo e omofobia in psicoterapia: il Modello di Milano (con Ferrari, F.); Internalized Homophobia, Identity Dynamics, Gender Typization. Hypothesizing a Third Gender Role (con Ferrari, F.

 

COME PARTECIPARE?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo l’11 APRILE alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/1219720515564015617 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per problemi o informazioni scrivere a [email protected]

BROCHURE – Webinar Ciliberto

Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità – Recensione di Saverio Ruberti

Antonella Ivaldi approfondisce in modo lucido e competente le difficoltà che ogni clinico incontra nella cura dei gravi disturbi di personalità, proponendo un modello d’intervento fondato sull’attenzione alla qualità del rapporto con il paziente.

Dott. Saverio Ruberti

 

La prospettiva psicoanalitica e quella cognitivo-evoluzionista in un’ottica di integrazione

L’autrice prende le mosse, nei primi capitoli, da un approfondimento teorico delle motivazioni psicologiche alla relazione, confrontando i due principali paradigmi scientifici attuali sul tema dei sistemi motivazionali: quello psicoanalitico di Joseph Lichtenberg e quello cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti. La descrizione delle due prospettive e il confronto fra esse vengono affidati anche a questi stessi autori che le hanno concepite e formalizzate, i quali contribuiscono alla stesura del terzo capitolo del volume.

Tale scelta fa raggiungere alla prima parte del libro, dedicata ai fondamenti teorici dell’intervento, un livello particolare di completezza e chiarezza. Vengono infatti trattati temi di psicologia evoluzionistica e di etologia umana che, per quanto centrali per la comprensione delle dinamiche cliniche, raramente sono approfonditi nei testi di psicoterapia. Il confronto fra le prospettive scientifiche di Lichtenberg e Liotti, fra l’altro, fa comprendere quanta riflessione congiunta e sinergia possa essere raggiunta fra ottiche differenti quando ciascuno assume una posizione di interesse scientifico genuino per le posizioni dell’altro, senza inutili agonismi e contrapposizioni di “scuola” e senza nemmeno scadere nell’eclettismo superficiale e approssimativo. Questo aspetto è prezioso nel nostro periodo storico, in cui soltanto un impegno di ricerca rigoroso e coordinato fra approcci psicoterapeutici diversi può aiutarci a comprendere i reali punti di forza e di efficacia della psicoterapia, aiutandola a conquistare la dignità scientifica e gli strumenti concettuali adeguati per fronteggiare le frequenti sopravvalutazioni dell’efficacia delle cure (quasi) esclusivamente farmacologiche. Il libro di Antonella Ivaldi costituisce un contributo potente in questa direzione.

 

I pazienti difficili, il vissuto traumatico e l’attaccamento disorganizzato

La parte centrale del volume si sofferma sulle importanti criticità relazionali dei cosiddetti pazienti difficili, le stesse che compromettono drammaticamente le loro vite e di frequente ostacolano il percorso di cura, rendendo straordinariamente faticoso il lavoro del terapeuta. Le radici di quelle difficoltà vengono ricercate con attenzione nelle storie di sviluppo traumatico e attaccamento disorganizzato che molto spesso si ritrovano nelle vite di quei pazienti, e nelle correlate problematiche cliniche di dissociazione, impulsività, disregolazione emotiva e deficit metacognitivi.

In quest’ottica, prende progressivamente corpo un ampio riesame del tema del trauma nei suoi aspetti psicologici, relazionali e anche psicofisiologici. Viene inoltre sviluppato questo argomento verso una dimensione più clinica, descrivendo come le più recenti teorie sul trauma abbiano influenzato i sistemi diagnostici e i vari modelli d’intervento. Fra questi vengono esposti quelli di provata efficacia e più tesi a valorizzare le componenti relazionali del processo terapeutico, indipendentemente dall’orientamento cognitivo-comportamentale o psicodinamico.

 

Il modello RE.MO.TA relazionale e multi-motivazionale

Nell’ultima sezione del volume si entra ulteriormente nel vivo del trattamento e dell’operatività clinica e viene proposto un originale modello clinico d’intervento, che Antonella Ivaldi ci descrive a partire dal racconto delle sue esperienze cliniche e di ricerca che  glielo hanno fatto concepire e formalizzare.

Il modello, che la Ivaldi definisce relazionale/multi-motivazionale, porta il nome di RE.MO.TA, acronimo dell’espressione relational/multi-motivational therapeutic approach. Prevede l’utilizzo e l’integrazione armonica di diversi indirizzi teorici, realizzata in un contesto di lavoro privato e ambulatoriale che consenta al terapeuta di raccordarsi con le risorse disponibili dei pazienti: sociali e familiari.

Il processo di RE.MO.TA si sviluppa in un percorso di co-terapia in cui si alternano una fase di terapia individuale (centrata sulla cura dell’alleanza terapeutica e sul lavoro con le emozioni attraverso l’empatia e l’attenzione alla comunicazione corporea) e una fase di terapia di gruppo. Con questa modalità l’autrice cerca di costruire una continua dialettica tra i singoli e l’insieme. Normalmente l’intervento inizia con la sola terapia individuale e si conclude con il solo trattamento di gruppo, mentre lo stesso terapeuta partecipa a entrambi i momenti. Alcune pagine delineano e documentano in modo chiaro, sia sul piano scientifico sia su quello dell’esemplificazione clinica, con quali dinamiche il passaggio dal setting individuale a quello di gruppo promuova le capacità riflessive e metacognitive del paziente.

Nelle sue considerazioni sull’efficacia dell’intervento di gruppo Antonella Ivaldi descrive e valorizza la predisposizione innata all’affiliazione, ripercorrendone la storia di sistema motivazionale in passato talvolta trascurato (a differenza dei più citati sistemi d’attaccamento e della cooperazione fra pari) nella sua funzione adattiva e nel suo ruolo generativo di sicurezza sociale e benessere relazionale. In quest’operazione l’autrice traccia un breve ma chiarissimo excursus storico che parte dal lavoro di Trigant Burrow, il quale già negli anni ’20 parlava di tendenza primaria aggregativa, e arriva fino al più recente e straordinario contributo di Michael Tomasello sull’ultrasocialità umana.

 

Conclusioni: un libro di approfondimento sulle recenti acquisizioni scientifiche

Non manca, nella parte finale del lavoro, una bella riflessione di Giovanni Fassone sulla valutazione dell’efficacia dei vari modelli d’intervento, che mette in luce la sua importanza ma al contempo ne sottolinea la complessità, segnalando la grande difficoltà a produrre in psicoterapia disegni sperimentali realmente corretti e rigorosi.

In sintesi, il libro di Antonella Ivaldi affronta in modo chiaro e diretto i problemi fondamentali della psicoterapia contemporanea, armonizzando l’approfondimento delle acquisizioni scientifiche più recenti con le problematiche tecniche dell’intervento. In esso si avverte costantemente un’autentica integrazione fra il “sapere” dell’autrice (la sua solida conoscenza scientifica) e il suo “saper fare” (la sua concreta competenza professionale).

Ne deriva un’opera che accompagna con grande equilibrio il lettore nella comprensione di un capitolo complesso della psicopatologia, facendolo muovere più volte dalla dimensione teorica a quella clinica (e viceversa), attraverso continue esemplificazioni e descrizioni di casi, descritti fra l’altro con grande sensibilità, che rendono semplici da capire anche i passaggi teorici più delicati.

Il libro sa rivolgersi a clinici differenti, sia in termini di orientamento sia in termini di maturità ed esperienza: l’allievo in formazione vi troverà un’esposizione chiara dei princìpi e delle tecniche dell’intervento su disturbi difficili da curare, per il terapeuta esperto rappresenterà un’occasione preziosa di aggiornamento e arricchimento.

Curare l’insonnia con la terapia cognitivo comportamentale

La terapia cognitiva comportamentale dell’ insonnia (Cognitive-Behaviour Therapy for Insomnia – CBT-I) è la terapia non farmacologica più indicata per favorire la riduzione dei sintomi dell’ insonnia cronica. La terapia cognitivo comportamentale migliora il sonno nel 75-80% dei soggetti con insonnia e favorisce nel 90% dei casi la riduzione o l’eliminazione dell’uso di farmaci ipnoinducenti. Si tratta di un intervento psicologico strutturato che integra diverse tecniche di significativa efficacia secondo le moderne ricerche sperimentali e, diversamente dai trattamenti farmacologici, non ha effetti collaterali e mantiene il miglioramento dei sintomi nel tempo.

 

 

L’ insonnia come sindrome da sforzo di addormentamento (“sleep effort syndrome”)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’ insonnia come un disturbo dell’addormentamento e della continuità del sonno oppure come un sonno non ristoratore presente per almeno tre notti alla settimana, associati a sensazioni di fatica, stanchezza o inefficienza diurna (WHO, 1992).
Quando l’ insonnia ha una durata inferiore a un mese è definita acuta e generalmente è considerata transitoria perché è causata da fattori precipitanti ben definiti come eventi di vita stressanti, patologie algiche acute o uso di sostanze (Perlis et al., 2012).

La terapia cognitivo comportamentale è particolarmente indicata per il trattamento dell’ insonnia cronica, che è invece caratterizzata da sintomi che perdurano per più di un mese, tipicamente per sei mesi o più (Perlis et al., 2012).

Secondo il Modello dei tre fattori di Spielman e colleghi (1987a) l’ insonnia tende a cronicizzarsi in relazione alla combinazione di più fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.

I fattori predisponenti comprendono fattori biologici (elevati livelli di arousal), psicologici (tendenza ad essere eccessivamente rimuginativi) e sociali (abitudini di sonno del compagno di letto, pressione sociale o orari lavorativi).

I fattori precipitanti comprendono tutti gli eventi di vita che possono scatenare un quadro d’ insonnia acuta. Alcuni esempi sono l’insorgenza di una malattia medica o psichiatrica, eventi vitali stressanti, modificazioni nello stile di vita o nel lavoro.

Infine i fattori perpetuanti comprendono le credenze negative sul proprio sonno, la paura e l’ansia rispetto al pensiero di non riuscire a dormire e quei comportamenti disfunzionali messi in atto per compensare l’ insonnia ma che non fanno altro che mantenere il problema. Ad esempio l’uso di alcool, effettuare sonnellini o estendere il tempo trascorso a letto. Ognuna di queste strategie può avere un effetto positivo a breve termine ma ha effetti negativi a lungo termine.

L’alcool può aiutare nella fase di addormentamento ma favorisce il rischio che si verifichino risvegli mattutini precoci. La tendenza ai sonnellini durante il giorno può incrementare il quantitativo di sonno ottenuto durante le 24 h ma potrebbe favorire un sonno superficiale durante la notte. Estendere le ore di sonno potrebbe incrementare le opportunità di dormire ma allo stesso tempo incrementa il tempo che si trascorre a letto in uno stato di veglia e ciò può favorire un sonno frammentato e un’ insonnia favorita da condizionamenti ambientali (Perlis et al., 2012).

Molte persone imparano a convivere con le conseguenze dell’ insonnia applicando tali “strategie di compensazione”, comportamenti che al momento possono sembrare benefici ma che a lungo termine favoriscono il mantenimento del disturbo. Ognuno di questi comportamenti rappresenta lo sforzo da parte degli insonni di incrementare le possibilità di dormire ma sembrerebbe che sia proprio tale sforzo a mantenere l’ insonnia.

La cosiddetta “sleep effort syndrome” (la sindrome da sforzo di addormentamento) è causata dalla preoccupazione per il sonno, cui seguono tutti i comportamenti disfunzionali con cui si cerca di controllare il sonno stesso, come cercare di dormire ad ogni costo (Morin & Espie, 2003). Il sonno è un processo fisiologico involontario, per cui tutti i tentativi di tenerlo sotto controllo non fanno che peggiorare i quadri d’ insonnia, determinando una disregolazione dell’omeostasi del sonno. Ciò favorisce un peggioramento della continuità del sonno determinando un allungamento della Latenza di Sonno (tempo di addormentamento) e un incremento del Tempo di Veglia Infrasonno (Perlis et al., 2012).

Per tale motivo la terapia cognitivo comportamentale si rivela così efficace con i soggetti insonni, in quanto non mira unicamente a favorire un aumento del tempo totale di sonno o a ridurre la latenza del tempo di addormentamento, ma piuttosto permette di modificare le credenze errate sul sonno e i comportamenti disfunzionali associati che fungono da fattore di mantenimento del disturbo stesso.

La terapia cognitivo comportamentale in dettaglio

I protocolli di trattamento della terapia cognitivo comportamentale descritti in letteratura (Perlis et al., 2012, 2015) si svolgono nell’ambito di 6-8 sedute che prevedono una fase di Valutazione Iniziale, in cui si valutano mediante questionari alcune caratteristiche psicologiche e comportamentali della persona che soffre di insonnia e la si sottopone a esami strumentali come la polisonnografia, la fase di Terapia cognitivo comportamentale vera e propria ovvero l’utilizzo integrato di diverse tecniche (interventi psicoeducativi cognitivi e comportamentali) e una fase di Valutazione Finale dove si analizzano i guadagni della terapia cognitivo comportamentale e si discute sulla prevenzione delle ricadute.

Le sedute hanno la durata di 30-90 minuti in base alla fase del trattamento della terapia cognitivo comportamentale e possono essere svolte in gruppo individualmente o combinando i due approcci.

È consigliabile iniziare con i primi 2 o 3 incontri individuali, dedicare invece le sedute intermedie ad un approccio di gruppo e infine le ultime fasi della terapia cognitivo comportamentale nuovamente ad un approccio individuale.

Valutazione Iniziale

Alcune delle scale di autovalutazione dei disturbi del sonno che possono essere somministrate sono le seguenti:

Insomnia Severity Index (ISI), che valuta la gravità dell’ insonnia (Morin, 1993).
Sleep Hygiene Practice Scale (SHPS), che valuta l’indice di igiene del sonno (Lacks, 1987).
Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI), che valuta l’indice della qualità del sonno ovvero la gravità globale dei disturbi del sonno (Buysse et al., 1989).
Epworth Spleepiness Scale (ESS), che valuta la sonnolenza diurna (Johns, 1991).
Dysfunctional beliefs and Attitudes about Sleep (DBAS), che valuta la presenza di credenze disfunzionali sul riposo notturno (Coradeschi et al., 2000).

In questa fase è fondamentale eseguire anche una registrazione poligrafica dinamica del sonno (polisonnografia) della durata di 24 o 48 ore. La polisonnografia (PSG) infatti fornisce una misurazione obiettiva dei disturbi del sonno e quantitativa dell’attività cerebrale e somatica durante il sonno non ottenibile con altre tecniche di studio del sonno.

Inizio della terapia cognitivo comportamentale

Nell’ambito della prima seduta di terapia cognitivo comportamentale, il terapeuta presenterà al paziente i risultati della polisonnografia e dei test di autovalutazione somministrati in precedenza.

Successivamente verrà raccolta la storia clinica del paziente che sarà poi istruito alla compilazione dei diari del sonno, in modo da registrare i propri sintomi per un periodo di una o due settimane. Al paziente verrà applicato inoltre un actigrafo al polso da indossare nel medesimo periodo, uno strumento che, attraverso la registrazione dell’attività motoria, può individuare se il paziente è in fase di veglia o di sonno. È importante confrontare queste due diverse tipologie di registrazione perché l’actigrafo offre una visione obiettiva della continuità del sonno che paragonata alla descrizione soggettiva del paziente (diari del sonno) consente di individuare la presenza del Disturbo da Mispercezione del Sonno (una condizione in cui il soggetto pensa di non dormire).

Attraverso l’uso di un diario del sonno (o dell’actigrafo) si possono valutare tutte le variabili di continuità del sonno come la Latenza del Sonno (LS), il Numero di Risvegli Notturni (NR), il Tempo di Veglia Infrasonno (TVI) e il Tempo Totale di Sonno (TTS), che consentono al clinico di avere una misura quotidiana della severità dell’ insonnia del paziente e di identificare quei comportamenti che la mantengono (Perlis et al., 2012).

Durante questa prima seduta, sarà necessario effettuare un inquadramento diagnostico più ampio che tenda a valutare anche la presenza di disturbi d’ansia e dell’umore o di altri disturbi psicologici che possono determinare i problemi del sonno. Il terapeuta, se lo riterrà necessario, potrà somministrare ulteriori test utili alla valutazione dell’ansia e della depressione o della personalità.

Alcuni dei test utilizzati per valutare la presenza di disturbi d’ansia e dell’umore o di altri disturbi psicologici sono:

Beck Depression Inventory (BDI), che valuta la presenza di disturbi depressivi (Beck et al., 1961).
State Trait Anxiety Inventory (STAI) che valuta la presenza di disturbi d’ansia (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg, & Jacobs, 1983).
Millon Clinical Multiaxial Inventory- III (MCMI-III), che indaga i profili di personalità (Millon, 1997).
Symptom Checklist-90-R (SCL-90-R), che valuta un ampio spettro di problemi psicologici e di sintomi psicopatologici (Derogatis, 1994).

Infine il clinico descriverà in dettaglio il protocollo, la metodologia della terapia cognitivo comportamentale e il programma relativo.
Nelle sedute successive mantenendo un atteggiamento collaborativo ed empatico, terapeuta e paziente lavoreranno insieme applicando differenti tecniche, seguendo l’ordine qui descritto, integrandole man mano che si procede, o anche riservando particolare importanza ad alcune piuttosto che ad altre al fine di individualizzare l’intervento.
In questa sede sono riportate le tecniche più utilizzate descritte in letteratura:

Tecnica del controllo dello stimolo

La Tecnica del Controllo dello Stimolo (SCT) è indicata per il trattamento dell’ insonnia acuta e cronica (Perlis et al., 2015).
Il razionale della SCT, descritta per la prima volta da Bootzin (1972), deriva dalle teorie dell’apprendimento in cui l’addormentamento viene concettualizzato come un comportamento strumentale all’ottenimento di un rinforzo positivo (ad esempio il sonno) (Bootzin, 1977; Bootzin et Nicassio, 1978). Segnali esterni e interni all’individuo associati all’addormentamento diventano stimoli discriminativi per l’ottenimento di un rinforzo (Blampied et Bootzin, 2012). Di conseguenza le difficoltà nell’addormentamento potrebbero essere legate a un inadeguato controllo di tali stimoli (Perlis et al, 2015).

Risultano importanti inoltre fattori legati al condizionamento pavloviano secondo cui risposte emozionali si possono associare a determinate situazioni stimolo. Il letto e la camera possono così diventare segnali che elicitano stress e frustrazione legata ai tentativi fallimentari di prendere sonno (Bootzin et Nicassio, 1978).

D’altro canto stimoli interni come l’iperattività cognitiva, l’ansia anticipatoria e l’arousal psicofisiologico, possono divenire essi stessi segnali per un ulteriore incremento del livello di attivazione e quindi esacerbare le difficoltà del sonno (Bootzin e Epstein, 2000).
Obiettivo primario di questa seduta è quello di descrivere al paziente l’approccio SCT, la sua efficacia e fornirgli una panoramica del programma.
In questa seduta è prevista anche una componente psicoeducativa in cui si spiega al paziente la teoria del modello dell’ insonnia e le sue caratteristiche.

Sarà inoltre presentata al paziente una lista d’istruzioni previste dalla SCT e ognuna di queste sarà discussa insieme al terapeuta. Si tratta di istruzioni comportamentali (non sempre di facile intuizione per i non esperti in materia) che la persona che soffre di insonnia quasi certamente non rispetta, soprattutto perché non conosce le conseguenze delle strategie compensatorie che al contrario ha sempre messo in atto e che nel qui e ora apportano un beneficio. Difatti le istruzioni suggeriscono di andare a letto solo quando si avverte sonnolenza allo scopo di imparare gradualmente a riconoscere i segnali di sonnolenza che provengono dal corpo (senza andare a letto indipendentemente da ciò). Altra indicazione è quella di utilizzare il letto e la camera da letto solamente per dormire o per le attività sessuali, evitando altri tipi di attività, in modo da rafforzare l’associazione letto-camera e sonno e attenuare quella tra letto-camera e insonnia (per tale motivo ogni attività diversa va effettuata in un’altra camera). Se ci si accorge di non riuscire ad addormentarsi per più di 10-15 minuti è molto importante non rimanere nel letto. È quindi necessario alzarsi e recarsi in un’altra stanza e svolgere attività piacevoli come guardare un film o leggere un libro (non c’è alcun divieto a lasciarsi coinvolgere troppo nelle attività mentre si è svegli durante la notte, bisogna però fare attenzione al problema dell’esposizione alla luce che può provocare degli spostamenti di fase). Infine le ultime due istruzioni della SCT suggeriscono di impostare la sveglia mattutina sempre allo stesso orario indipendentemente da quanto si è riusciti a dormire la notte precedente (per regolarizzare il ritmo circadiano) e di non effettuare sonnellini durante il giorno (il razionale è quello di utilizzare la deprivazione di sonno legata alla notte precedente, per incrementare la spinta omeostatica al sonno e rendere più rapido l’addormentamento la notte successiva).

È evidente dunque come la SCT si proponga di rafforzare l’associazione tra letto, camera e il processo di addormentamento, indebolendo il legame tra tali stimoli ambientali e i comportamenti caratterizzati dall’elevazione dell’arousal. Obiettivo ulteriore risulta quello di ripristinare i ritmi sonno-veglia allo scopo di mantenere i miglioramenti ottenuti (Bootzin et al., 2010).

Tecnica della restrizione del sonno

La Tecnica della Restrizione del Sonno (SRT) è indicata per i disturbi dell’addormentamento e del mantenimento del sonno (Perlis et al., 2015).
La SRT ha lo scopo di restringere il tempo che il paziente trascorre a letto (TTL) aumentando la spinta omeostatica al sonno, attraverso uno stato di parziale deprivazione di sonno, regolarizzando e risincronizzando allo stesso tempo il ritmo sonno-veglia.
Il TTL dovrebbe così arrivare a coincidere con il Tempo Totale di Sonno (TTS).

Per raggiungere tale obiettivo il clinico lavora con il paziente per stabilire un orario specifico di risveglio mattutino e per spostare in avanti l’orario di recarsi a letto in modo da far coincidere il TTL con il TTS, misurato attraverso l’utilizzo dei diari del sonno.
Questa forma di lieve deprivazione di sonno favorisce una riduzione della Latenza di Sonno (LS) e un miglioramento del Tempo di Veglia Infrasonno (TVI).

Di fatto nelle prime fasi i pazienti hanno un tempo di sonno ridotto rispetto al proprio ma si tratta di un sonno più consolidato. Appena i dati misurati con i diari del sonno evidenziano un miglioramento dell’Efficienza di Sonno (EF >90%) si può gradualmente incrementare di 15 min il TTL (Spielman et al., 1987b).

La SRT agisce dunque migliorando la qualità e la continuità del sonno, riducendo la qualità di sonno superficiale e il tempo di addormentamento. Inoltre migliorano progressivamente anche i comportamenti e le credenze che tendono a perpetuare l’ insonnia. La RST agisce infine riducendo direttamente il cosidetto iperarousal che è uno dei fattori predisponenti l’ insonnia.

 

Igiene del sonno

L’educazione all’Igiene del Sonno è indicata in tutte le tipologie d’ insonnia e sembra avere un ruolo determinante nell’incrementare il Tempo Totale di Sonno (TTS). Viene prescritta per correggere una serie di comportamenti che possono influenzare la qualità e la quantità di sonno (Perlis et al., 2015).
Il primo passo di questo intervento è quello di consegnare ai pazienti una lista con le norme di Igiene del Sonno. Successivamente saranno discussi in gruppo i vari item fornendo per ciascuno la motivazione razionale all’utilizzo.

Si deve a Peter Hauri la codifica delle regole fondamentali di questa tecnica, il quale affermava che [blockquote style=”1″]l’educazione all’igiene del sonno ha l’obiettivo di informare il paziente su quelli che sono i comportamenti che caratterizzano lo stile di vita (alimentazione, attività fisica, uso di sostanze psicoattive) o i fattori ambientali (luce, rumore, temperatura) che possono interferire con il sonno o promuoverlo[/blockquote] (Hauri, 2004).

Tali regole hanno un significato preciso e dovrebbero aiutare il paziente a comprendere maggiormente i meccanismi che regolano il ritmo sonno-veglia (se necessario, in questa seduta il terapeuta fornirà ai pazienti informazioni sugli stadi del sonno, sulle loro caratteristiche e funzioni).
L’educazione all’igiene del sonno è maggiormente d’aiuto quando è calibrata sull’analisi comportamentale delle abitudini sonno-veglia di ogni singolo paziente. Una volta discusso sulla modalità di applicazione delle varie regole, i pazienti saranno dunque invitati a stilare una lista di cose da fare sulla base di quanto discusso (ad esempio comprare delle nuove coperte, cambiare le finestre ecc.) (Perlis et al., 2015).

Attraverso l’igiene del sonno si cerca non solo di ottimizzare i risultati della terapia cognitivo comportamentale dell’ insonnia ma anche di rendere il paziente meno vulnerabile alle ricadute.

 

Tecniche di rilassamento e mindfulness

Il Training di Rilassamento è indicato in pazienti che caratterizzano la loro insonnia come “incapacità a rilassarsi” e che lamentano elevati livelli di arousal cognitivo e somatico (Perlis et al., 2015). Tutte le tecniche che ricadono nella categoria “rilassamento” presentano come comune denominatore l’elicitazione di una “risposta di rilassamento” ovvero una condizione di calma sia fisiologica che esperienziale (Benson, 1975).

Le tecniche di rilassamento tendono a ridurre i livelli di attivazione somatica e cognitiva che interferiscono con il sonno. Non è importante il tipo di metodo utilizzato quanto la regolarità della pratica. Normalmente si consiglia di effettuare le pratiche di rilassamento almeno due volte nelle 24 ore: una seduta durante il giorno e una la sera prima di coricarsi.

Il rilassamento può essere applicato anche durante la notte se il paziente non riesce a riprendere sonno dopo un risveglio. Il paziente dovrebbe dedicare circa 5-10 minuti a ogni pratica di rilassamento (Perlis et al., 2015).

Il rilassamento può essere indotto fondamentalmente mediante le seguenti tecniche:
– La respirazione diaframmatica, utilizzata per indurre una forma di respirazione più lenta, profonda e meccanicamente determinata, proveniente dall’addome piuttosto che dal torace.
– Il rilassamento muscolare progressivo (PMR), utilizzato per diminuire la tensione muscolare, che prevede l’alternanza di contrazione e rilassamento dei vari gruppi muscolari (Jacobson, 1929). I pazienti vengono istruiti a confrontare le sensazioni che derivano dalla tensione muscolare a quelle del successivo rilassamento.

I soggetti vengono invitati a praticare una o entrambe le tecniche a domicilio, due volte al giorno, una durante la giornata e l’altra a letto prima dell’addormentamento.

La Mindfulness può essere particolarmente utile per trattare lo stress e le intense risposte emotive associate all’ insonnia cronica. La caratteristica principale della mindfulness è l’osservazione non giudicante dei pensieri, comportamenti, sensazioni fisiche ed emozioni che costituiscono l’esperienza presente del paziente. Gli esercizi di mindfulness si fondano sui principi dell’“accettazione” e del “lasciare andare” nel contesto delle risposte emotive negative dovute alle difficoltà di sonno.

Tale tecnica si basa essenzialmente sul raggiungimento della “consapevolezza” dei propri pensieri, delle proprie azioni e motivazioni. È una tecnica con cui si cerca di raggiungere la “concentrazione”, momento per momento, al fine di raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza della propria esperienza che comprende: sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni (Kabat-Zinn et al., 1992).

Nello specifico la tecnica è costituita da due componenti: la prima cerca di regolare l’attenzione così da focalizzarla sull’esperienza attuale (attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante alla propria esperienza nel momento in cui essa viene vissuta), la seconda componente cerca di ottenere un orientamento esperienziale aperto all’“accettazione”.

Si tratta dunque di coltivare la capacità di accogliere i propri stati mentali, superare la tendenza all’evitamento esperienziale, caratterizzato da atteggiamenti di rifiuto nei confronti dei propri pensieri, emozioni e sensazioni fisiche. Più che una tecnica di rilassamento, questo approccio è considerato una forma di “training mentale” che riduce la vulnerabilità nella risposta allo stress (Perlis et al., 2012).

 

Tecnica dell’intenzione paradossale

La tecnica dell’Intenzione Paradossale (PI) è indicata per le forme di insonnia in cui vi sia una significativa preoccupazione per la perdita di sonno e le sue conseguenze diurne (Perlis et al. 2015). La PI si pone l’obiettivo di ridurre l’ansia da prestazione (l’incapacità dei cattivi dormitori di riuscire ad ottenere un buon sonno) e con essa il rimuginio e le preoccupazioni per il proprio riposo notturno.
L’utilizzo della PI nel trattamento dell’ insonnia si deve a Viktor Frankl (1955) e successivamente a Michael Ascher e colleghi (1978-1979).

Il punto di partenza è cercare di capire insieme ai pazienti cosa vuol dire avere un “sonno normale” ed essere un “buon dormitore”(Espie, 1991).
Servendosi dell’umorismo e dell’ironia, che sembrano avere un’azione decatastrofizzante, è utile spiegare ai pazienti che i cosiddetti “buoni dormitori” possono essere definiti come quelle persone che dormono in base alle proprie esigenze, che non pensano al sonno o ai suoi disturbi e che non sono preoccupati se non dormono. È fondamentale in questa fase far comprendere ai pazienti che il sonno, essendo un processo naturale, non può essere controllato dai propri pensieri (Espie, 1991).

I pazienti saranno dunque invitati a compilare delle scale di valutazione delle convinzioni sul sonno (ad esempio la Scala di Glasgow per lo sforzo di dormire), come se dovesse compilarla un buon dormitore (Broomfield & Espie, 2005).

La PI ha dunque lo scopo di sviluppare l’abilita di cambiare prospettiva rispetto al sonno, invitando il paziente ad entrare nei pensieri di un buon dormitore per immaginare cosa farebbe al suo posto. I pazienti dovrebbero essere quindi invitati a sospendere tutti quei comportamenti disfunzionali riguardo al sonno (come ad esempio sforzarsi di dormire) poiché perpetuano l’ insonnia stessa.

 

Terapia cognitiva per il trattamento dell’insonnia

La Terapia Cognitiva comportamentale è particolarmente indicata per i pazienti preoccupati delle potenziali conseguenze dell’ insonnia (credenze disfunzionali sul sonno) o che riferiscono la presenza di idee intrusive, ansia e eccessivo timore di non dormire (Perlis et al. 2012, 2015).

L’obiettivo della Terapia cognitivo comportamentale è quello di modificare le convinzioni, gli atteggiamenti, le aspettative e le attribuzioni relative al sonno nei pazienti insonni. Gli insonni sembrano possedere alcune distorsioni cognitive che contribuiscono ad alimentare e perpetuare l’ insonnia.

La premessa della terapia cognitivo comportamentale è che l’interpretazione di una data situazione (es. sonnolenza) può elicitare risposte emozionali di tonalità negativa (es. paura, ansia) che interferiscono con il sonno. Per esempio, quando una persona non riesce a dormire e inizia a temere le conseguenze diurne della mancanza di sonno si può creare un circolo vizioso che alimenta l’ insonnia stessa. Ciò può favorire la comparsa di emozioni a contenuto negativo come l’ansia o la paura che perpetuano a loro volta l’ insonnia.

Nell’ambito di questa seduta il terapeuta può mostrare al paziente lo schema del modello concettuale del mantenimento dell’ insonnia ideato da Morin nel 1993. Si tratta di un modello microanalitico dell’ insonnia cronica che dimostra come le credenze disfunzionali e le abitudini rispetto al sonno possono contribuire e perpetuare l’ insonnia (Morin 1993).

A questo punto il terapeuta, servendosi delle medesime procedure cliniche della Terapia Cognitiva comportamentale per i disturbi d’ansia e dell’umore (ad esempio lo strumento ABC), può guidare il paziente ad identificare e modificare le distorsioni cognitive e le credenze disfunzionali riguardo al sonno, tanto da interrompere il circolo vizioso che autoalimentandosi perpetua l’ insonnia (Morin , 1993, Morin & Espie, 2003).

 

Esperimenti comportamentali nell’ambito della terapia cognitivo comportamentale dell’insonnia

Gli Esperimenti Comportamentali hanno lo scopo di modificare le convinzioni disfunzionali riguardo al sonno, per cercare di sviluppare pensieri e comportamenti più funzionali, e di incrementare le conoscenze sui processi cognitivi e comportamentali che possono perpetuare l’ insonnia, per poterli modificare (Perlis et al. 2015).

Una volta identificati i processi di pensiero o le convinzioni errate, terapeuta e paziente potranno individuare insieme le modalità per costruire l’esperimento da condurre.

Ad esempio l’esperimento della “paura di sonno insufficiente”, in cui il paziente ha la credenza errata “per funzionare bene durante il giorno devo dormire almeno 8 ore, se dormo meno di 8 ore ci saranno delle serie conseguenze della mia salute e non riuscirò a fare niente”. In questo caso l’esperimento da effettuare è quello della restrizione del sonno, ovvero ridurre la durata del sonno del paziente durante la notte dell’esperimento in modo da fargli esperire che il giorno seguente, nonostante la sonnolenza, sarà in grado di svolgere tutte le sue attività. Di fatto l’obiettivo dell’esperimento è proprio quello di creare sperimentalmente una notte di sonno insufficiente (es. 6 ore e mezza) per valutare quali sono le conseguenze diurne e quali sono le modalità per affrontarle. In tal modo si riduce la dimensione catastrofica dei pensieri riguardo alle conseguenze diurne dell’ insonnia.

 

Valutazione Finale dopo la terapia cognitivo comportamentale

I principali obiettivi di questa seduta sono quelli di verificare insieme al paziente i guadagni clinici della terapia cognitivo comportamentale, individuare le strategie per mantenerli e discutere sulla prevenzione delle ricadute.

Le norme di Igiene del Sonno per la cura dell’insonnia

Mantenere una buona igiene del sonno è il primo passo per la cura dell’insonnia. È noto che il sonno è influenzato dal nostro stile di vita e da vari fattori ambientali. Nella letteratura scientifica è documentato che nella maggior parte delle insonnie le norme di igiene del sonno non sono rispettate e ciò costituisce un fattore di cronicizzazione e/o peggioramento del disturbo. È altrettanto documentato che la correzione di comportamenti erronei e l’applicazione in modo costante e sistematico delle norme di igiene del sonno, favorisce l’attenuazione dell’insonnia (Perlis et al., 2015)

 

 

Le norme dell’ igiene del sonno

L’educazione all’ igiene del sonno è una vera e propria tecnica che i clinici che si occupano di medicina del sonno applicano all’interno di protocolli di trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia (Cognitive-Behaviour Therapy for Insomnia – CBT-I).
È importante ricordare tuttavia che il fatto di rispettare una o tutte le regole non elimina il problema dell’insonnia che necessita invece di un trattamento CBT-I integrato.

Le norme di Igiene del Sonno sono una serie di comportamenti che fisiologicamente favoriscono un buon sonno notturno. Sono indicate per tutte le tipologie di insonnia e in particolare per i quadri di insonnia in cui la persona presenta abitudini di vita disfunzionali e un ambiente non idoneo all’ addormentamento e al mantenimento del sonno (Perlis et al., 2012, 2015). Vediamole nel dettaglio:

1: Dormire solo quanto è necessario per sentirsi riposati il giorno successivo

Trascorrere molto tempo a letto contribuisce a rendere il sonno frammentato e leggero, mentre restringere il tempo che si sta a letto aiuta il sonno a diventare più continuativo e profondo. Ci si dovrebbe svegliare alla stessa ora ogni giorno senza preoccuparsi di quanto si è dormito la notte precedente.

2: Svegliarsi alla stessa ora ogni giorno, 7 giorni su 7

Svegliarsi al mattino sempre allo stesso orario favorisce anche un orario di addormentamento regolare e permette all’orologio biologico di regolarizzarsi. Si tratta di una sorta di allenamento, il nostro corpo deve essere allenato, deve imparare quando dormire e quando stare sveglio. Andare a letto e alzarsi sistematicamente al suono della sveglia, seguendo un programma fisso, è la condizione migliore per avere effetti di condizionamento tali che, quando è l’ora, il nostro corpo saprà che è il momento giusto per addormentarsi o per svegliarsi.

3: Effettuare regolarmente attività fisica

Cercare di effettuare attività fisica, tranne nelle tre ore precedenti all’orario di addormentamento, favorisce un sonno profondo. La cosa interessante è che non sembra essere l’esercizio fisico di per sé ad essere utile ma piuttosto il concomitante aumento della temperatura corporea. Sembra che quando la temperatura corporea aumenta si abbia poi una brusca diminuzione quando si va a dormire ed è questo fenomeno che ha poi a che fare con la promozione del sonno ad onde lente (sonno profondo). Ci sono studi che mostrano infatti che anche un bagno caldo 1-2 ore prima di andare a letto ha effetti simili sul sonno. Inoltre prendersi un momento di decompressione, come il bagno caldo, è un ottimo rituale per mettere la giornata appena trascorsa “a dormire” e andare a dormire anche noi.

4: Assicurarsi di avere una camera da letto comoda, buia e silenziosa.

Un ambiente comodo, buio e silenzioso riduce la probabilità di svegliarsi durante la notte.
La luce o il rumore, anche se non sono in grado di determinare un risveglio, disturbano la qualità del sonno.

5: Assicurarsi che la temperatura della camera da letto durante la notte sia confortevole.

Ricordiamoci questo slogan: “IL SONNO AMA IL FREDDO”. La regola generale è che ogni temperatura estrema è distruttiva per il sonno. Ci sono dati che suggeriscono che dormire in un ambiente freddo facilita il sonno. Ovviamente è importante che non sia un ambiente eccessivamente freddo, bisogna mantenere la stanza tra i 16-23 gradi.

6: Consumare i pasti regolarmente e non recarsi a letto se affamati

La fame potrebbe disturbare il sonno. Uno spuntino leggero verso l’ora di andare a letto, specie a base di carboidrati (pane, cracker, cereali e frutta), può facilitare il sonno ma bisogna evitare i grassi o i cibi pesanti che possono causare un riflusso gastrico e risvegli notturni.

7: Evitare di bere troppo la sera

Ridurre l’assunzione di bevande prima di recarsi a letto minimizza il rischio di risvegli notturni (per andare in bagno).

8: Eliminare i prodotti che contengono caffeina

Questa è la regola più esagerata. Il problema non è la caffeina ma è quanto e quando assumerla. Bisogna utilizzare la caffeina in modo terapeutico: in particolare la mattina per affrontare meglio la giornata ma anche il pomeriggio per combattere la stanchezza. Dipende dalla propria sensibilità, l’importante è evitarla nelle 6 ore che precedono l’andare a letto.

9: Evitare di assumere alcolici, specialmente la sera

L’alcol è la pillola per dormire migliore del mondo e anche la peggiore. Per le persone che si sentono tese a fine giornata il trucco è l’alcol, perché ha un effetto rilassante, ha proprietà ansiolitiche e può promuovere direttamente il sonno. “Ma ciò che l’alcol dà, se lo riprende”, ha un emivita relativamente breve e provoca poi un brusco incremento della vigilanza e un rebound dell’insonnia, oltre ad avere un effetto disidratante che può determinare il risveglio. Dunque modeste quantità di alcol possono essere assunte per rilassarsi, ma bere per dormire non aiuterà a mantenere un sonno equilibrato, ci si addormenterà svegliandosi però prestissimo.

10: Evitare di fumare, fumare può disturbare il sonno

La nicotina è uno stimolante, quindi fumare la sera renderà più difficile addormentarsi.

11: Evitare di portarsi “i propri problemi a letto”

L’ideale è lasciare al giorno il problema delle “cose da fare”. Pensare insistentemente a importanti questioni a letto innesca un circolo vizioso di preoccupazioni e un eccessivo stato di vigilanza (arousal) che conduce a un’incapacità di addormentarsi.

12: Evitare di “sforzarsi” di dormire

Da un lato è ovvio che è semplicemente impossibile imporre a se stessi di rilassarsi e di essere “inconsapevoli”. Il paradosso è che non si può essere rilassati se ci si sta sforzando, tendando di dormire. Il sonno non può essere imposto con uno sforzo di volontà. Se non si riesce a dormire è opportuno uscire dalla camera per fare qualcosa di diverso 
e di piacevole
 e tornare a letto solo se assonnati.

13: Mettere la sveglia in una posizione tale da evitare di vederla.

Una volta impostata la sveglia non c’è alcuna necessità di vedere l’ora durante la notte, anzi guardare l’orologio può procurare preoccupazione e frustrazione che possono interferire con il sonno.

14: Evitare di effettuare pisolini

Se si dorme durante il giorno resta meno sonno disponibile per la notte. Se ciò accade, dato che il tempo di sonno deve rimanere costante, si dovrà ridurre il tempo di sonno notturno. Sicuramente brevi pisolini, meno di un’ora, hanno effetti più riposanti ma la cosa migliore è comunque non effettuare alcun pisolino diurno.

Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia

Il core anxiety workshop fa parte della serie di corsi forniti dal Beck Institute di Filadelfia, l’Istituto dove Aaron Beck, sua figlia Judith e altri membri del loro staff insegnano la terapia cognitivo-comportamentale da decenni. Partecipare è stata un’occasione di aggiornamento e di verifica. La conoscenza delle basi fondamentali non va data per scontata, anzi rischia di deteriorarsi con il tempo facendosi sostituire da idiosincrasie personali. Con questo spirito abbiamo partecipato al corso sull’ansia del Beck Institute.

Giovanni Maria Ruggiero e Diego Sarracino

 

È durata tre giorni pieni dalle 9.00 alle 16.00, in cui la principale didatta era Amy Wenzel. Anzi, quasi l’unica. Non ha insegnato per sole due ore nel pomeriggio del secondo giorno dove è stata sostituita da Aaron Beck in persona, vecchio e fisicamente debole –la sua voce era sottile- ma lucido e presentissimo. Al suo fianco c’era Judith Beck, ma il suo aiuto si riduceva a ripetere le parole pronunciate a voce troppo bassa. Per due ore Beck ha risposto a domande libere dei presenti e poi ha supervisionato un collega.

Judith & Aaron Beck

Di Beck parleremo dopo. Per ora descriviamo il training, ottimamente condotto da Amy Wenzel, efficiente e chiara. Rispetto al training della terapia cognitiva dell’Istituto di Albert Ellis, si confermano somiglianze e differenze. Anche la terapia di Beck si concentra sui pensieri e li considera come chiave per il cambiamento. Però li analizza e li tratta in maniera diversa.

La tecnica di Beck è meno concentrata sulla situazione specifica e sui pensieri momentanei e più su scenari ricorrenti e legati ai sintomi: le situazioni pubbliche per l’ansia sociale, le condizioni di vulnerabilità per il panico, la contaminazione e i dubbi per il disturbo ossessivo. L’individuazione dei pensieri automatici obbedisce alla regola di cercare le previsioni negative dannose: se parlo in pubblico non sarò preso sul serio, se sono su un mezzo di trasporto avrò un attacco di panico, se ho il dubbio di aver lasciato la porta aperta allora devo controllare, e così via.

Un tempo la teoria di Beck era focalizzata solo su questi pensieri. I nostri disturbi emotivi dipendono da pensieri errati che interpretano male la realtà prevedendo rischi che non esistono. Mi butteranno fuori dalla festa (ansia sociale), morirò d’infarto (panico) o mi ammalerò (disturbo ossessivo).

Con il tempo Beck si rese conto che i fatti temuti dai pazienti erano più soggettivi, più attinenti alla visione di sé: ho l’ansia (o la depressione) perché sono timido, fragile, inferiore, sporco e contaminato, abbandonato e non amato. E altro ancora. È la self-efficacy teorizzata e studiata da Bandura che è deficitaria in questi soggetti.

Tuttavia, pur avendo introdotto questo aspetto soggettivo sul sé, Beck -rispetto a Ellis e ai costruttivisti- rimane un autore che da meno peso alla soggettività del paziente. Anche la visione di sé negativa generata dagli errori di pensiero ha un suo aspetto oggettivo: mi vedo male perché mi vedo poco efficace, non in grado di incidere sulla realtà. Non si tratta di un giudizio, ma di una constatazione intenzionalmente oggettiva, seppure errata.

La terapia diventa un paziente lavoro di raccolta delle prove a favore e contro di questo pensiero negativo. Perché ti ritieni poco adatto alle situazioni sociali? Come definisci una serata fallita? Raccontami cosa hai fatto, con chi hai parlato e se davvero nessuno aveva voglia di interagire con te. E poi, con quanta gente hai tentato a tua volta di relazionarti, di parlare?

Tutto questo condotto con estrema calma. Una terapia del genere, tutta focalizzata sulle prove di fatto (che probabilità ci sono di aver lasciato il rubinetto aperto? E di poter in tal modo allagare l’appartamento?) può sembrare estremamente razionalistica e distanziante. E lo è. Lo stile di Beck e dei suoi allievi però è, al contrario, paziente e validante. Il terapista non sfida mai il paziente, semmai lo incoraggia con un lento lavorio, insistente ma cortese e capace di fermarsi quando necessario, di incoraggiamento all’uso di un pensiero razionale.

L’analisi termina con la descrizione di un quadro realistico dei rischi temuti dal paziente, quadro che è poi confrontato con lo scenario peggiore e con quello migliore, sempre con l’ottimistica fiducia che quello migliore risulterà quello più vicino a quello realistico. Il tutto condotto con un sereno e quieto ottimismo, ottimismo che si può definire la nota caratterizzante della relazione terapeutica secondo Beck.

Abilità relazionale che però è definita da Beck e dai suoi seguaci con un termine meno pomposo di quello di “relazione”, ovvero semplicemente good-practice. La buona pratica, le abilità di base che dovrebbero essere acquisite in partenza e non essere concepite come una sorta di coronamento di un complesso percorso di iniziazione alle terapie più sofisticate e complesse.

 

Esposizione comportamentale e gestione della seduta secondo Beck

Conclusa la ristrutturazione cognitiva, si procede all’esposizione comportamentale a cui è stata dedicata un’intera giornata e che è stata davvero spiegata in maniera esauriente. Ogni esercizio specifico per il singolo disturbo è stato descritto con abbondanza di particolari. Forse è stata la componente più istruttiva del corso.

Accanto alla componente comportamentale è stata formativa anche la parte dedicata alla gestione della seduta. Una serie di accorgimenti e trucchi che rendono possibile l’esecuzione di quei protocolli che sono la dannazione del terapista medio. La costruzione del modello psicopatologico e del piano terapeutico, la sua condivisione esplicita con il paziente a ogni seduta, la valutazione dei progressi a ogni seduta: tutto questo consente al terapista di stare nei binari del protocollo senza fare violenza al paziente, anzi condividendo in maniera realmente e non astrattamente cooperativa il lavoro.

Aaron T. Beck supervisione sul paziente difficile - Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia
Un “paziente difficile”: supervisione con Aaron Beck

Naturalmente le obiezioni sono molte, a iniziare da quella classica sul cosiddetto paziente difficile. E questo è stato proprio il tema della supervisione con Beck. Un collega ha portato un paziente difficile, colui che respinge ogni tentativo di ristrutturazione e ogni invito all’esposizione comportamentale. Beck lo ha trattato richiamandosi agli obiettivi del contratto terapeutico e, con la sua imperturbabile pazienza, lo ha invitato a pensare se davvero ritenesse impossibile intervenire volontariamente sui sintomi. Infatti generalmente la difficoltà con questi pazienti è la loro convinzione che gli stati emotivi siano incontrollabili e quindi impermeabile alla ristrutturazione cognitiva.

La risposta di Beck è in fondo metacognitiva: da dove nasce questa convinzione? E questa convinzione ti aiuta ad affrontare in maniera proattiva i sintomi? Una volta motivato il paziente a contrastare i suoi sintomi, Beck lo incoraggia a tenere maggiormente in mente gli obiettivi della terapia e la possibilità di cambiare e perseguire il processo di cura.

 

Foto di gruppo al Beck Institute di Philadelphia - Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia
Core Anxiety Workshop 2017 – The Beck Institute

Convegno sul Femminicidio a Firenze – Sabato 25 Marzo a Firenze

Convegno Femminicidio Firenze - 25 Marzo 2017Convegno Femminicidio Firenze - 25 Marzo 2017 - 2

Convegno Femminicidio Firenze 25 Marzo 2017 – BROCHURE


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Numeri e mappe ti rendono nervoso? Potrebbe essere colpa dei geni!

Ansia spaziale e matematica: I nostri geni giocano un ruolo fondamentale nel determinare quanto ci sentiamo ansiosi nell’affrontare compiti spaziali o matematici, come ad esempio leggere una cartina geografica o risolvere un problema di geometria.

 

Ansia spaziale e matematica e le possibilità di fallire

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori del King’s College di Londra le abilità spaziali sono importanti nella vita di tutti i giorni e sono strettamente connesse al successo nelle professioni STEM (acronimo inglese che sta per Scienza, Tecnologia, Ingegneria -Engineering in inglese- e Matematica). Tuttavia, le persone presentano una forte variabilità individuale e i ricercatori ritengono che questo sia dovuto in parte all’ansia. Allo stesso modo, l’ ansia spaziale e matematica si pensa possa compromettere il successo in tale disciplina in ambito scolastico e scoraggiare le persone dall’usare le abilità matematiche nella vita di tutti i giorni.

Indagare i fattori genetici e ambientali che sottendono l’ansia è un primo passo necessario nell’identificazione di geni specifici che rendono certe persone più ansiose di altre. Se geni e ambienti che contribuiscono ad una specifica forma d’ansia, come ad esempio l’ansia spaziale, sono differenti da quelli che contribuiscono ad altre forme d’ansia, come quella matematica, ciò suggerisce che esse dovrebbero essere trattate in modo differente per ottenere risultati positivi.

 

Neuropsicologia: le differenze di ansia spaziale e matematica nei gemelli

Nello studio pubblicato su Scientific Reports, i ricercatori hanno valutato l’ansia all’interno di un campione di più di 1400 gemelli di età compresa tra 19 e 21 anni appartenenti al Twins Early Development Study (TEDS), uno dei principali studi longitudinali condotti su gemelli, il cui fondamentale contributo scientifico è riconosciuto a livello mondiale.

I ricercatori hanno identificato numerose differenti forme di ansia: generale, matematica e spaziale, quest’ultima indagata in compiti di navigazione nello spazio e in compiti di rotazione visuospaziale/visualizzazione. Tutte le forme di ansia identificate mostrano una sostanziale componente genetica, in cui il DNA spiega più di un terzo della differenza individuale tra soggetti. Le condizioni di crescita non condivise, invece, spiegano il resto della variabilità dell’ansia spaziale; si tratta di ambienti e condizioni che i gemelli cresciuti nella medesima famiglia non hanno condiviso, come ad esempio differenti attività extracurriculari, insegnanti e amici. Ad esempio, condizioni e ambienti non condivisi come la guida, l’andare in bicicletta o giocare a videogiochi potrebbero essere particolarmente rilevanti per l’ansia spaziale.

Lo studio ha inoltre dimostrato che le persone che sono ansiose nello svolgere compiti di navigazione nello spazio non lo sono necessariamente quando affrontano compiti di rotazione/visualizzazione, come lo è ad esempio il completamento di un complesso puzzle. Lo stesso meccanismo è stata evidenziato per quanto riguarda l’ansia matematica e quella generale, dimostrando che chi sperimenta ansia spaziale non necessariamente tende ad essere una persona ansiosa in generale o a sperimentare ansia in altre attività STEM come lo sono ad esempio quelle matematiche.

I ricercatori hanno inoltre riscontrato un piccola ma significativa differenza di genere all’interno del campione: le donne risultano più ansiose degli uomini in tutte le aree indagate. Questo secondo i ricercatori potrebbe essere dovuto alla maggiore propensione femminile a svelare i propri sentimenti d’ansia oppure all’ansia generata dallo stereotipo secondo cui le discipline STEM sono “cose da uomini”.

Margherita Malanchini dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze (IoPPN) al King’s College di Londra ha affermato: [blockquote style=”1″]I nostri risultati hanno implicazioni molto importanti, dal momento che suggeriscono che alcuni degli stessi geni contribuiscono all’ansia in differenti aree, ma che molti di loro sono specifici per ciascun dominio. Isolare con esattezza specifici geni per l’ansia potrebbe aiutare ad identificare i bambini più a rischio fin da fasi precoci dello sviluppo, e di conseguenza intervenire e prevenire lo sviluppo dell’ansia in questi diversi contesti. Ad esempio, per i bambini a più alto rischio di ansia matematica, interventi che mirino ad accrescere la motivazione e forniscano feedback positivi potrebbero essere d’aiuto riducendo l’ansia e migliorando la performance in tale disciplina.[/blockquote]

Asexuality identification scale (AIS): un nuovo strumento per misurare l’asessualità

Kinsey, cercando di classificare gli orientamenti sessuali, riconobbe l’esistenza di persone con asessualità. Più tardi, in Bogaert, l’ asessualità venne definita come “non aver mai provato attrazione o desiderio sessuale nei confronti di alcuno”.

Mara Compagnoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano 

 

In biologia e discipline correlate, la parola asessuale descrive organismi che non usano il sesso per riprodursi. Nonostante questo, l’ asessualità è stata la forma predominante di riproduzione per la maggior parte del tempo che la vita è esistita sulla terra e ancora esiste in organismi biologicamente semplici.

Tuttavia, anche alcuni animali complessi, di grandi dimensioni ma filogeneticamente più anziani (come lo squalo), sono in grado di riprodursi in modo asessuato. Nella maggior parte degli animali filogeneticamente più giovani (inclusi gli esseri umani) invece, non esiste la capacità di riprodursi asessualmente; la riproduzione avviene solo attraverso un abbinamento di geni provenienti da varianti maschili e femminili. Nonostante questo, all’interno delle specie che si riproducono sessualmente, come i mammiferi, esistono prove che ci mostrano come una percentuale di animali non provi alcun interesse o attrazione verso i potenziali partner sessuali e vengano quindi definiti asessuali.

 

Come definire al meglio l’ asessualità?

Quando possiamo definire una persona come asessuale?

Il mondo non è diviso in pecore e capre. Non tutte le cose sono bianche o nere. È fondamentale nella tassonomia che la natura raramente ha a che fare con categorie discrete. Soltanto la mente umana inventa categorie e cerca di forzare i fatti in gabbie distinte. Il mondo vivente è un continuum in ogni suo aspetto. Prima apprenderemo questo a proposito del comportamento sessuale umano, prima arriveremo ad una profonda comprensione delle realtà del sesso (Alfred Kynsey, Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948)

Alfred Kinsey, biologo e sessuologo statunitense, inventò un sistema di classificazione degli orientamenti sessuali nell’essere umano: la scala Kinsey (in inglese, Kinsey scale o Heterosexual-Homosexual Rating Scale). Essa rappresenta uno dei primi tentativi, se non l’unico in ambito scientifico moderno, di introdurre il concetto di una sessualità umana le cui sfaccettature non siano rappresentate a compartimenti stagni, ma secondo un criterio di gradualità anche nel medesimo individuo, a seconda delle circostanze ambientali e legate all’età.

Kinsey, cercando di classificare gli orientamenti sessuali tramite questa scala, riconobbe l’esistenza di persone asessuali (o non sessuali) che non si conformavano al suo modello unidimensionale, defininedoli “Xs” (Kinsey et al., 1948; Kinsey, Pomeroy, Martin, & Gebhard, 1953).

Più tardi, in Bogaert (2004), l’ asessualità venne definita come “non aver mai provato attrazione o desiderio sessuale nei confronti di alcuno”.

Questa definizione è in parte emersa in anni recenti in risposta a lavori empirici e teorici sull’ asessualità e in parte a seguito di recenti studi sull’orientamento sessuale. C’è da dire che questa è attualmente una definizione in linea con AVEN (Asexual Visibility and Education Network), la più influente comunità online con sito internet e forum dedicato all’ asessualità.

Una coerenza con le idee di AVEN non fornisce alcuna particolare giustificazione logica per l’uso di questa definizione, ma è da notare come la stessa venga fatta risuonare da un certo numero di leader asessuali influenti.

Gli AVENite (membri di AVEN) hanno infatti inventato e diffuso un “lessico dell’ asessualità generale” che viene utilizzato all’interno della comunità on line; questo elenco di parole, seguite da una definizione, sembra essere stato creato per rendere più facile la comprensione del fenomeno per chi ci si avvicina per la prima volta o comunque è interessato all’argomento e per familiari, amici, partner di persone asessuali.

Alcuni esempi di seguito:

  • Anti-sessuale: Essere contrari alla sessualità, o l’aggettivo che descrive le persone che lo sono. Una persona anti-sessuale potrebbe o no essere asessuale, l’anti-sessualità non è esclusiva degli asessuali né è condivisa da tutti gli asessuali. Atteggiamenti di manifesta antisessualità sono sconsigliati all’interno di AVEN.
  • Asessuale: Una persona che non prova attrazione sessuale verso alcun genere/sesso. Da non confondere con: asessuato.
  • Asessuato: Una persona priva di organi genitali. Sinonimo di “sexless”. Da non confondere con: asessuale.
  • Asex, Ace, A: abbreviazioni usate da persone che si identificano asessuali. Gli assi (traduzione dell’inglese “ace”) sono simboli spesso condivisi all’interno della comunità asessuale: per alcuni asessuali l’asso di picche (“ace of spades”) simboleggia gli aromantici, l’asso di cuori (“ace of hearts”) i romantici.
  • Asexy: Termine informale per asessuale; qualcuno o qualcosa reso più attraente dalla sua mancanza di sessualità.
  • Attrazione sessuale primaria: Premessa: la distinzione tra attrazione (romantica o sessuale) primaria e secondaria fa parte del modello di Rabger, tuttora in discussione e spesso contestato. Instantanea attrazione sessuale basata su informazioni subito accessibili come ad esempio l’aspetto fisico o l’odore/profumo che può portare o no a eccitazione sessuale.
  • Attrazione sessuale secondaria: Premessa: la distinzione tra attrazione (romantica o sessuale) primaria e secondaria fa parte del modello di Rabger, tuttora in discussione e spesso contestato. Attrazione sessuale basata sulla profondità di un legame emotivo in un rapporto inter-personale o di coppia.
  • Autosessuale: Una persona che prova attrazione sessuale solo verso se stessa.
  • AVENite: Un membro di AVEN.
  • Celibato/Castità: La scelta di non intraprendere attività sessuale (può essere sia per asessuali che per sessuali).
  • Demisessuale: Una persona che prova attrazione sessuale solo verso persone con cui ha formato un legame più forte, spesso romantico. I demisessuali solitamente provano attrazione sessuale secondaria, ma non provano attrazione sessuale primaria (cfr. rispettive definizioni).
  • Desiderio sessuale primario: Desiderio di intraprendere attività sessuale per motivi di piacere. “Attività sessuale” non è intesa solo come sesso, ma può includere altre attività come, ad esempio, la masturbazione o alcuni preliminari.
  • Desiderio sessuale secondario: Desiderio di intraprendere attività sessuale per motivi diversi dal piacere, ad esempio per formare un legame emotivo con il partner. “Attività sessuale” non è intesa solo come sesso, ma può includere altre attività come, ad esempio, la masturbazione o alcuni preliminari.
  • Gray – A: Una persona che sta nella cosiddetta “area grigia” tra l’ asessualità e la sessualità.
  • Queerplatonic: (non tradotto) termine usato per descrivere una relazione (e i partners presenti in essa) che è principalmente aromantica ma che ha un rapporto emotivo più profondo di un’amicizia.
  • Repulso: (traduzione letterale di “repulsed” ma insoddisfacente per il linguaggio quotidiano) 1) termine usato da alcune persone asessuali per indicare che trovano il sesso disgustoso o ripugnante; 2) può anche essere inteso nel senso che queste persone sono disgustate dall’idea del sesso in generale. Non implica né esclude che queste persone possano essere anche anti-sessuali.
  • Semisessuale: Una persona che appartiene alla sfera gray-a e che in genere è senza libido, ma se sviluppa una connessione emotiva e/o un’attrazione sessuale per qualcuno può provare libido.
  • Sensuale: termine usato per descrivere il contatto fisico e/o una sensazione di piacere provata attraverso il contatto fisico che può essere sessuale o no. Ad esempio abbracci, coccole, a volte baci, ecc..
  • Sessuale: Una persona che prova attrazione sessuale, una persona che non è asessuale (es. un eterosessuale, omosessuale, bisessuale, pansessuale ecc.).
  • Sex-Negative: (non tradotto) Atteggiamento negativo nei confronti del sesso, ma che non sfocia nella discriminazione di chi è sessuale o sessualmente attivo.
  • Sex-positive: (non tradotto) Termine usato da alcuni membri della comunità asessuale per indicare che non gli importa né gli dà fastidio se e come le persone fanno sesso finché è consensuale. Il termine indica una mentalità che può appartenere anche a persone non asessuali.
  • Squish: (non tradotto) Una cotta/crush aromantica, un desiderio di costruire una relazione platonica con qualcuno, ad esempio un rapporto di amicizia molto profonda o una relazione queerplatonica.

Una definizione di asessualità che si incentra su una mancanza di attrazione sessuale non implica necessariamente che una persona asessuata non abbia mai fatto o non farà mai un’esperienza sessuale e non dovrebbe necessariamente includere persone che scelgono la castità (ad esempio prima del matrimonio) o il celibato ecclesiastico, dato che questi individui sono comunque attratti dagli altri sessualmente.

Inoltre, avere una mancanza di attrazione sessuale non significa che gli asessuali non possano avere un’attrazione romantica nei confronti di altri individui. Per questo è importante fare una distinzione tra attrazione romantica (sentimenti di infatuazione attaccamento emotivo) e sessuale (lussuria, desiderio, richiamo verso gli altri). Il presupposto tradizionale è che una implichi l’altra ma non è sempre così. In altre parole, conoscere l’ asessualità migliora la nostra comprensione della sessualità, dal momento che le persone asessuali portano alla luce come le inclinazioni romantiche possano essere “disaccoppiate” dalle inclinazioni sessuali.

Bogaert (2006b) ha sostenuto che l’attrazione sessuale ”soggettiva” è la componente psicologica più rilevante nel definire l’orientamento sessuale, compreso un orientamento asessuale. Il termine “soggettivo” infatti, si riferisce alla propria esperienza interiore o mentale e non include obbligatoriamente l’eccitazione fisiologica/attrazione.

Tuttavia, dato che l’attrazione sessuale (soggettiva) definisce senza dubbio l’orientamento sessuale, o è il nucleo psicologico di orientamento sessuale, se una persona manca di attrazione (soggettiva) nei confronti degli altri, allora l’ asessualità può essere definibile come categoria unica separata all’interno di un quadro di orientamento sessuale. Quindi, utilizzando un modello simile a quello di Storms (1979), l’ asessualità è costruibile come la quarta categoria di orientamento sessuale, quella che attesta il basso o nullo erotismo (soggettivo), o quella avente un orientamento verso nessuno dei due sessi (vedi Figura 1).

 

Asexuality identification scale ais un nuovo strumento per misurare l'asessualità

Figura 1. Modello dell’orientamento sessuale basato sull’attrazione verso i sessi (Storms, 1980).

 

Un possibile argomento contro la costruzione dell’ asessualità come categoria separata di orientamento sessuale è che l’ asessualità potrebbe essere causata da un processo biologico atipico (es. bassi livelli ormonali, meccanismi prenatali atipici ecc…); e, se questi processi biologici venissero alterati, allora verrebbe alla luce il vero orientamento sessuale (eterosessuale, omosessuale, bisessuale) della persona “asessuale”. A questo punto, si potrebbe anche sostenere che sia sbagliato, o come minimo prematuro, indicare che una persona asessuale appartenga a un’unica categoria di orientamento sessuale che differisce dalle tre designazioni tradizionali.

Però, questo ragionamento può contenere un errore logico, perché le origini dell’ asessualità non dovrebbero essere confuse con la fenomenologia dell’ asessualità. Inoltre, più in generale, non dovremmo confondere le origini della sessualità con la fenomenologia dell’orientamento sessuale.

 

Asexuality Identification Scale

L’ asessualità è stata quindi spesso descritta come una mancanza di attrazione sessuale e, secondo gli ultimi studi, sta diventando sempre più evidente che circa l’1% della popolazione adulta si definisca asessuale. Alcune ricerche inoltre, indicano l’ asessualità come un vero e proprio orientamento sessuale.

L’ asessualità deve essere distinta dall’astensione sessuale, che è piuttosto una scelta comportamentale, a volte legata alla religione. L’orientamento sessuale, a differenza del comportamento, è contraddistinto dalla reiterazione e dalla persistenza dello stesso nel tempo. Alcuni individui asessuali intercorrono comunque in rapporti sessuali, nonostante non ne sentano il desiderio.

Nelle passate ricerche non si è mai trovato un valido strumento per misurare l’ asessualità, soprattutto a causa delle limitazioni nel reclutare un numero sufficiente e vario di campioni: la maggior parte degli studi si sono basati solo sul reclutamento di campioni all’interno delle comunità asessuali on line.

Un recente studio compiuto da Yule, Brotto e Gorzalka (Università di British Columbia) nel 2014 ha lo scopo di sviluppare e validare un questionario self-report per valutare il grado di asessualità di un individuo.

Il questionario intende fornire uno strumento valido di misura dell’ asessualità indipendentemente dal fatto che l’individuo si auto indentifichi come asessuale.

Questo strumento è stato creato passando attraverso più fasi:

  • Sviluppo e gestione di domande aperte (209 partecipanti: 139 asessuati e 70 sessuati);
  • Gestione e analisi dei risultanti 111 items (917 partecipanti: 165 asessuati e 752 sessuati);
  • Gestione e analisi di 37 items conservati (1.242 partecipanti: 316 asessuata e 926 sessuale);
  • Analisi della validità dei rimanenti items.

Nella prima fase sono stati utilizzati due campioni di persone (asessuale e sessuato) e sottoposti a otto domande aperte che servissero per individuare i temi principali della fase successiva:

  1. How would you define/describe asexuality? (Come definiresti/descriveresti l’asessualità?)
  2. How would you define/describe sexual attraction? (Come definiresti/descriveresti l’attrazione sessuale?)
  3. How would you define/describe sexual desire? (Come definiresti/descriveresti il desiderio sessuale?)
  4. How would you define/describe romantic attraction? (Come definiresti/descriveresti l’attrazione romantica?)
  5. What are some factors that initially led you to consider yourself as an asexual?/What are some factors that might lead you to think that someone is asexual? (Quali sono i fattori che inizialmente ti hanno portato a considerarti come un asessuale? / Quali sono i fattori che potrebbero portarti a pensare che qualcuno è asessuale?
  6. How would you distinguish asexuality from a sexual dysfunction such as sexual desire disorder? (Come distingueresti l’asessualità da una disfunzione del desiderio sessuale?)
  7. How might you describe your sexuality BEFORE you came across the term “asexual”?/How might you describe your sexuality? (Come potresti descrivere la tua sessualità PRIMA di imbatterti nel termine “asessuale”?/Come potresti descrivere la tua sessualità?)
  8. What questions would you use (without describing or using the term “asexual”) to identify an individual who might be asexual but has not yet come across the term? (Quali domande useresti (senza descrivere o usare il termine “asessuale”) per identificare un individuo che potrebbe essere asessuale ma non conosce questo termine?)

Le risposte a queste domande aperte sono state poi esaminate per individuare i temi prevalenti e per costruire 111 items a scelta multipla che costituiscono  l’AIS-111 e che riguardano: desiderio/attrazione sessuale, masturbazione, fantasie sessuali, erotismo, ansia correlata al sesso, attività sessuale, identità sessuale, disgusto nei confronti del sesso, eccitazione sessuale, incapacità di relazionarsi con la sessualità altrui, disinteresse nei confronti del sesso, religione, evitamento del sesso, sesso all’interno di una relazione, attrazione romantica e intimità.

Ogni item viene conteggiato su una scala Likert a 5 punti e in modo che gli alti punteggi riflettano esperienze più tipiche di individui asessuali piuttosto che sessuali.

L’analisi è stata effettuata su un campione vario, che prescinde dal genere e dall’orientamento sessuale dichiarato, sebbene più donne che uomini sembrino definirsi asessuali.

C’è però la possibilità che alcuni partecipanti a questo studio che si sono identificati come “sessuali”, per varie ragioni (tra le quali il non essere a conoscenza della definizione/categoria “asessuale”) , dovrebbero in realtà far parte degli asessuali. Questo significa che il campione utilizzato per questo studio comprende anche persone che non sanno dell’esistenza dell’ asessualità.

La risultante Asexuality Identification Scale (AIS) è un breve questionario, composto da 12 items, valido e affidabile strumento self-report per la valutazione dell’ asessualità. È uno strumento facile da usare ed è capace di discriminare gli individui asessuati dai sessuati.

Il totale dei punteggi viene calcolato sommando le risposte a tutte e 12 le domande. Punteggi più alti indicano una maggiore tendenza all’ asessualità.

È stato proposto un punteggio cut-off di 40/60 in modo che, quei partecipanti che avranno ottenuto un punteggio pari o superiore a 40 sulla Asexuality Identification Scale, saranno quelli che probabilmente proveranno mancanza di attrazione sessuale. L’ultima domanda è senza punteggio.

In conclusione, la speranza di Yule, Brotto e Gorzalka è che l’ Asexuality Identification Scale si riveli utile per consentire anche ad altri ricercatori di reclutare campioni sempre più rappresentativi di popolazione asessuale, permettendo così una maggiore comprensione dell’ asessualità.

Dilemma-Focused Intervention: applicazioni cliniche per il trattamento della depressione

Il Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione prevede 8 sedute di terapia individuale. Ogni seduta ha un determinato contenuto che viene presentato al paziente; il terapeuta valuta la disponibilità del paziente a lavorare su quel contenuto chiedendo esplicitamente il permesso di farlo e, nel caso il paziente manifesti una resistenza in merito, negozia delle alternative.

 

In questo secondo articolo tenteremo di offrire al lettore una panoramica quanto più chiara ed esaustiva possibile riguardo la specifica applicazione del Dilemma-Focused Intervention (DFI) nel trattamento della depressione unipolare. Per una trattazione più generale dei concetti chiave e delle tecniche del Dilemma Focused Intervention si veda l’articolo precedente.

 

Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione unipolare

Il Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione prevede 8 sedute di terapia individuale (7+1 di approfondimento facoltativa, se sono emersi degli aspetti che meritano una sessione extra) da condurre dopo 7 sedute di terapia di gruppo a stampo cognitivo-comportamentale e alla fine una seduta di gruppo per terminare il processo terapeutico. Le sessioni durano un’ora e sono portate avanti settimanalmente.

Ogni seduta ha un determinato contenuto che viene presentato al paziente; il terapeuta valuta la disponibilità del paziente a lavorare su quel contenuto chiedendo esplicitamente il permesso di farlo e, nel caso il paziente manifesti una resistenza in merito, negozia delle alternative. Le sedute cominciano sempre con la revisione dei compiti a casa, assegnati nella seduta precedente. Fatto ciò si chiede se durante la settimana è emerso qualche aspetto che in qualche modo concerne il dilemma in esame. Successivamente, viene presentato il contenuto della seduta corrente.

 

Seduta 1: presentazione del dilemma

L’obiettivo della prima seduta è individuare il dilemma ed esplorarlo in relazione alla richiesta terapeutica del paziente. Innanzitutto però sarà necessario presentare alcuni aspetti della relazione terapeutica e come l’intervento è strutturato. Inoltre è necessario:

  • Valutare come si sente il paziente, i cambiamenti che potrebbero essere avvenuti dalla fine della terapia di gruppo e i fattori coinvolti.
  • Cominciare a stabilire una buona alleanza terapeutica.
  • Spiegare la differenza con la terapia di gruppo appena terminata.
  • Valutare le aspettative del paziente in relazione alla terapia.

Gran parte della seduta consiste nella presentazione dei dilemmi al paziente, basandosi sull’esplorazione delle figure prototipiche. Ciò viene fatto:

  1. Presentando i costrutti discrepanti implicati nei dilemmi e/o i costrutti dilemmatici
  2. Selezionando i costrutti discrepanti/dilemmatici sui quali lavorare
  3. Esplorando il dilemma focalizzandosi sulle figure prototipiche; questo viene fatto intavolando una ipotetica conversazione nella quale le due parti del dilemma si confrontano
  4. Presentando il dilemma come un obiettivo di lavoro nella terapia

Alla fine della seduta il terapeuta chiede al paziente una autocaratterizzazione come compito a casa.

 

Seduta 2: elaborazione del dilemma

Durante questa seduta di Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione si continua ad esplorare il dilemma, le sue sfumature, i dettagli rilevanti per la persona nel tentativo di comprendere le implicazioni dello stesso. La prima parte della seduta, come al solito, è dedicata alla revisione del compito a casa, in questo caso dell’autocaratterizzazione, con particolare attenzione agli elementi del dilemma emersi. Nel dettaglio, del racconto si considera:

  • La lettura empatica: attraverso questi occhi come vede il mondo una persona?
  • Prima parte del racconto: spesso è possibile trovare dei costrutti congruenti che sono parte del dilemma e tendono ad essere più nucleari per il paziente.
  • Termini o temi ripetuti: indicano un maggiore peso nel sistema di costrutti dell’individuo. Il terapeuta deve porre maggiore attenzione a quelli che si riferiscono ad entrambi i poli del dilemma.
  • Analisi delle cause: qualora il terapeuta incontrasse delle spiegazioni causali del dilemma è bene che le consideri

Per esplorare le implicazioni del dilemma, si possono impiegare le seguenti tecniche:

  • Laddering up: utile con i dilemmi implicativi (polo discrepante).
  • Laddering down: appropriato quando l’etichetta del dilemma ha un elevato livello di astrazione e il nostro obiettivo è sapere quale significato concreto la persona dà a quel termine. Utile anche con i costrutti dilemmatici, per capire perché entrambi i poli sono considerati positivi o negativi.
  • Laddering dialettico: molto utile quando si lavora con un costrutto dilemmatico.
  • ABC di Tschudi: questa tecnica è appropriata per esplorare sia il costrutto discrepante nel dilemma implicativo che il costrutto dilemmatico.

 

Seduta 3: ricostruzione dell’esperienza immediata

L’obiettivo di questa seduta di Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione è di fissare la nozione di dilemma e osservarne l’impatto nella vita di tutti i giorni del paziente. Per fare ciò, il terapeuta procede alla ricostruzione dell’esperienza immediata basandosi sul dilemma e seguendo questi steps:

  1. Si seleziona un episodio recente dove il dilemma si è presentato.
  2. Dopo un’ampia descrizione del paziente il terapeuta chiede altri dettagli rispetto a come il paziente si è sentito in quel momento, cosa stava pensando, cosa stava facendo, etc.
  3. Si esplorano con attenzione i momenti in cui le emozioni si sono presentate (esplicitamente o implicitamente), al fine di creare una connessione tra queste e i significati attribuiti dal paziente alla situazione.
  4. Si esplora l’esperienza del dilemma in questa situazione: come si manifesta il costrutto congruente, la qualità dell’esperienza e delle emozioni che compaiono, etc.
  5. Si cerca di ottenere tutto ciò nel tentativo di evidenziare i significati nella costruzione dell’esperienza del paziente, le sue anticipazioni che guidano l’azione e come vengono invalidate dall’esperienza, con le emozioni negative – o positive nel caso di validazione – che ne conseguono.

Alla fine della seduta viene proposto l’homework della settimana, ossia osservare altre situazioni dove si manifesta il dilemma, con attenzione rivolta ai pensieri, le emozioni e le azioni associate.

 

Seduta 4: implicazioni relazionali del dilemma

Nella quarta seduta di Dilemma-Focused Intervention si esplora come le relazioni del paziente con depressione influenzano il suo modo di costruire la realtà, con particolare attenzione al dilemma, e come si potrebbero generare costruzioni alternative indipendentemente da queste figure. Per fare ciò, vengono esplorate le implicazioni del dilemma attraverso le seguenti fasi:

  1. Si chiede al paziente di descrivere nel dettaglio un episodio recente dove il dilemma si è presentato.
  2. Si chiede al paziente di descrivere le persone coinvolte nell’episodio, specialmente quelle che, in maniera diretta o indiretta, bloccano il cambiamento (ad es., T: “Pensa che questa persona abbia qualcosa a che fare con il dilemma su cui stiamo lavorando?”). Se il paziente è d’accordo, il terapeuta può definire queste figure “complici del dilemma” e chiedergli, secondo lui o lei, qual è il peso di queste persone della costruzione dilemmatica.
  3. Successivamente sono identificate nella griglia del paziente quelle persone che contemporaneamente occupano il polo desiderato e il polo congruente. Qualora non fossero presenti nella griglia, si chiede al paziente quale persona di sua conoscenza potrebbe ricoprire questo ruolo. In seguito il terapeuta chiede al paziente come queste persone reagirebbero in una situazione del genere. L’idea è quella di generare costruzioni alternative a quelle del dilemma che possano aiutare a far fronte alla situazione in un modo differente.

Durante la seduta il terapeuta chiede al paziente se desidererebbe interagire in maniera differente con le persone che, in una maniera o nell’altra, validano la costruzione dilemmatica, magari agendo come le persone identificate come efficienti in questo caso.

Alla fine della seduta, viene chiesto al paziente di scrivere dei capitoli, preceduti da un titolo per ognuno, relativi alla sua storia di vita, spiegando che ci si lavorerà nella seduta successiva, dedicata appunto alla ricostruzione storica del dilemma. Oltre ai capitoli relativi al passato viene richiesta la stesura di un capitolo rivolto al futuro, dove il paziente si immagina in una vita senza il dilemma.

 

Seduta 5: ricostruzione storica del dilemma

L’obiettivo che ci poniamo in questa seduta di Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione è comprendere l’evoluzione storica del sistema di costruzioni del paziente e la sua coerenza nel tempo, identificando l’esordio e il modo diverso in cui è stato vissuto negli anni. Ciò può essere fatto seguendo questi step:

  1. Prendere in esame i capitoli della vita del paziente, magari facendo domande quali: “Perché hai dato questo titolo al capitolo X? Che significato ha nella tua vita?”. Il capitolo relativo al futuro viene preso in esame per ultimo.
  2. Per ogni capitolo chiedere al paziente di posizionarsi rispetto ai costrutti implicati nel dilemma.
  3. Indagare anche la posizione che i “complici del dilemma” hanno ricoperto nel tempo e come hanno reagito alle variazioni nel comportamento che il paziente ha messo in atto durante la sua storia.
  4. Prendere in esame il capitolo dedicato al futuro senza scendere nei dettagli (si amplierà il discorso relativo alla proiezione nel futuro in un’altra seduta), poiché l’obiettivo è osservare la coerenza di questo capitolo con il passato del paziente.

Al termine della seduta viene assegnata il compito a casa, ossia la ricostruzione storica del dilemma (non della vita in generale) preso in esame.

 

Seduta 6: integrazione del dilemma

La seduta 6 punta a chiarire entrambe le parti del dilemma per raggiungere un’integrazione, un accordo.

Si comincia, come al solito, esaminando l’homework assegnato, in questo caso chiedendo al paziente come si è sentito nel scriverlo, su cosa ha riflettuto per farlo, etc.

Spesso si utilizza la tecnica delle due sedie per sviluppare un dialogo tra le due parti del Sé del paziente che costituiscono il dilemma (la parte che desidera cambiare e quella che non vuole o ha paura di farlo) e raggiungere un accordo.

 

Seduta 7: proiettarsi nel futuro e vivere senza il dilemma

In questa seduta prevista dal Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione verranno esplorati i possibili scenari futuri e coerenti con il senso dell’identità del paziente che non comprendono il dilemma oggetto della terapia. Ciò viene fatto in quanto spesso i pazienti hanno vissuto così a lungo con il proprio dilemma o i propri sintomi da faticare a liberarsene o ad immaginare una vita futura che non li comprenda. Non sarà tanto importante stabilire “come” il dilemma verrà risolto, ma piuttosto immaginare come sarà la vita del paziente dopo la risoluzione. Vengono riportati alcuni esempi di domande che possono essere poste al paziente in questo caso:

  • “Che cosa farebbe in maniera diversa?”
  • “Come reagiranno le persone per Lei importanti a questo cambiamento?”
  • “Quali cose invece non cambieranno?”

Una volta delineata un’immagine relativa al futuro del paziente, si esplorano quegli aspetti della vita che sono già cambiati in vista di un’esistenza senza quel dilemma e come ciò è potuto accadere. In seguito, si analizza come estendere i cambiamenti ad altre situazioni.

 

Trattamento della depressione: CBT e Dilemma-Focused Intervention a confronto – Studio

Uno studio ha cercato di capire quale trattamento fosse più efficace per la depressione maggiore e la distimia, scegliendo tra due alternative. A fronte di una comune e preliminare partecipazione a 7 sedute di terapia di gruppo a stampo cognitivo-comportamentale (CBT), 128 partecipanti erano poi trattati con sedute di terapia focalizzata sui dilemmi (Dilemma-Focused Intervention), altri invece con il classico protocollo CBT. L’esperimento includeva 3 mesi di follow-up e garantiva gli standard di un randomized-controlled trial (RCT), tipologia che assicura elevata attendibilità dei risultati.

Le analisi statistiche hanno evidenziato un’eguale efficacia del protocollo CBT e di quello Dilemma-Focused Intervention nel ridurre la sintomatologia depressiva e lo stress psicologico derivante da essa. Queste conclusioni non minano l’utilità della Dilemma-Focused Intervention, poiché dimostrano che è efficace almeno quanto la CBT classica, ossia la terapia che oggi garantisce i migliori risultati nel trattamento della depressione. Il Dilemma-Focused Intervention, infatti, può rappresentare una valida alternativa alla CBT per quei pazienti che non gradiscono le modalità di quest’ultima. Gli studi futuri avranno l’onere di confermare o screditare questi risultati.

Come salvarsi dall’impero del misero benessere? – Riflessioni sul vivere quotidiano

Un sistema impazzito, il nostro, che lascia poche vie d’uscita a chi vorrebbe cambiare la propria vita, un sistema che ruba il tempo e i valori per produrre ricchezza, ricchezza che altro non è se non schiavitù mascherata da libertà.

 

Una grande stanza, sessanta persone. La consegna del direttore della sessione formativa che sto per descrivere è di rimanere in silenzio e camminare, a passi lenti, e intanto osservare intorno ed osservarsi dentro. Su sessanta persone solo due, sguardo nello sguardo, resistono per diversi minuti senza mai perdersi. Per altri tenere lo sguardo fisso nell’altro anche solo per due secondi diventa faticoso, impossibile. Il silenzio sembra spogliarci dalle maschere che ci costruiamo con le parole, ed ogni sguardo che incrociamo sembra vada dritto nel nostro punto più sensibile, a fare luce là dove vogliamo che resti l’ombra.

Quello che ho appena descritto è uno degli esercizi di riscaldamento relazionale, che avviene nella prima fase degli incontri di gruppo condotti utilizzando i Metodi Attivi.

I Metodi Attivi sono una metodologia derivante dallo Psicodramma Classico, costituita da tutti quegli approcci esplorativi e quei linguaggi espressivi che privilegiano il fare anziché il pensare, l’azione invece che la parola, il sentire i propri vissuti piuttosto che il racconto degli stessi. Il pensiero e la parola subentrano solo in un secondo momento per integrare a livello cognitivo, il vissuto emotivo sperimentato durante la messa in scena delle proprie esperienze di vita.

La metodologia dei Metodi Attivi viene utilizzata prevalentemente nel lavoro di gruppo e in differenti contesti, da quello terapeutico a quello educativo e formativo. In questo caso specifico, i Metodi Attivi facevano parte di un programma di formazione rivolto agli educatori membri di un’ Associazione di volontariato internazionale che ha utilizzato questo metodo per esplorare il tema del viaggio.

Quando il direttore dà la consegna di iniziare a camminare più velocemente e di continuare a guardare gli altri, sembra che le resistenze interiori si plachino e l’esercizio diventa un puro movimento fine a se stesso. La velocità rende impossibile il contatto visivo tra le persone, porta tutti a scontrarsi senza guardarsi, la stanza diventa un non luogo caotico intriso di solitudine.

Collego la sensazione a quella che si può provare quando si corre per prendere la prima metro disponibile, scontrando centinaia di persone che vanno velocemente nella direzione opposta per arrivare puntuali al lavoro; oppure a quella che si può sentire nei centri commerciali osservando gli sguardi della gente che affondano nelle vetrine piene di luci e ultime offerte; o nelle palestre, dove i tapis roulant a schiera sono tutto il giorno calpestati dalla gente che una accanto all’altra corre, coi piedi sul tappeto da corsa e lo sguardo altrove alla ricerca di una meta che non si raggiunge mai.

Tutta la vita di corsa, il tempo che non basta, i giorni che si accavallano senza lasciare traccia; gli impegni da incastrare come pezzi di un puzzle senza disegno; le scadenze da rispettare, gli aperitivi sociali, quelli dove si beve per dimenticare la stanchezza; e poi l’appuntamento Yoga poche ore a settimana per prendere un po’ di fiato prima di tornare in apnea, per dirsi che anche se poco quel tempo può bastare per vivere con maggiore consapevolezza.

Intanto a casa le baby sitters riempiono i vuoti affettivi dei figli per come sanno e per come possono; i dog sitters portano a spasso i cani degli altri, le badanti diventano per i genitori anziani più familiari dei figli.

Un sistema impazzito che lascia poche vie d’uscita a chi vorrebbe cambiare la propria vita, un sistema che ruba il tempo e i valori per produrre ricchezza, ricchezza che altro non è se non schiavitù mascherata da libertà.

Qualcuno ha provato a ribellarsi, a fuggire dal potere del consumismo e del capitalismo, dall’ipocrisia delle finte relazioni che tentano invano di coprire il vuoto della solitudine creato dal sistema.

Jon Krakauer racconta nel suo libro Into the Wild – Nelle Terre selvagge la storia vera di Christopher McCandless, giovane Americano che subito dopo essersi laureato abbandona la ricca famiglia e si mette in viaggio a piedi per raggiungere l’Alaska, decidendo di vivere in assoluta libertà e nell’amore per il prossimo. Ciò che scrive in uno dei libri che stava leggendo prima di morire avvelenato da una bacca è “Happiness is only real when shared”.

Anche nel film da poco uscito in Italia Captain Fantastic Matt Ross racconta di un padre fuori dagli schemi che ha vissuto in isolamento con la sua famiglia nei boschi della costa nord-occidentale degli Stati Uniti per oltre dieci anni lontano dalla società consumistica, per poi rivedere le sue ideologie e trasferirsi in una fattoria vicina alla città, dove i figli possono frequentare regolarmente la scuola.

Ma per non andare molto lontano basta pensare ai tanti italiani che si sono riuniti a formare delle comunità basate sulla sostenibiltà ambientale e sull’autosufficienza alimentare nel tentativo di dare vita a nuove forme di convivenza con l’obiettivo di ricostruire il tessuto familiare, culturale e sociale disgregato dal sistema postmoderno e globalizzato. All’interno di questi “ecovillaggi”, dalla Sicilia al Nord Italia, i membri cercano di soddisfare le proprie esigenze lavorative, espressive, educative e affettive avendo come modello comune la sostenibilità ecologica, economica, spirituale e socioculturale.

Ma può una scelta così radicale permettere all’uomo di raggiungere il suo agognato benessere? Fino a che punto questo sottosistema può difendersi dalla società globalizzata senza rischiare l’implosione e l’incomunicabilità con l’esterno?

Uno studio effettuato da generazioni di ricercatori dell’Università di Harvard con a capo lo psichiatra Robert Waldinger, pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Science, rivela ciò che avvicina maggiormente l’uomo al suo benessere fisico e psichico, ossia la creazione e il mantenimento delle connessioni sociali che devono essere, più che numerose, qualitativamente buone. L’esperienza della solitudine per molte persone è risultata essere tossica per la loro salute, così come tossico è risultato vivere in un clima familiare litigioso e caotico.

Insomma, secondo quanto affermato da Robert Waldinger nella sua Ted Talk, l’elisir di lunga vita è risultato essere la capacità di avere relazioni sane e profonde non solo con i propri familiari ma anche con i colleghi di lavoro e gli amici.


Robert Walding: What makes a good life? Lessons from the longest study on happiness


Ma per ritornare al punto iniziale, come si può riuscire a curare maggiormente le relazioni se siamo assorbiti dalla velocità di un sistema che ci ruba pure il tempo di respirare? E se decidessimo di fuggire dal sistema, quanto ciò aumenterebbe il rischio di sentire addosso una solitudine ancora più grande?

Non esiste una risposta univoca che vada bene per tutti, a ognuno di noi la responsabilità della ricerca del proprio vero benessere.

La relazione terapeutica: strada maestra verso il cambiamento – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Al di là della diagnosi categoriale quello che ci è utile è una descrizione del funzionamento del soggetto che è unico ed originale anche se alcuni aspetti delle sue condotte sono riconducibili alle categorie diagnostiche. Lui è molto di più.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La relazione terapeutica (Nr. 20)

 

Una volta fatta una ipotesi sul suo funzionamento gli va restituita allo scopo di riaggiustarla insieme, come il sarto che prova il vestito e poi  insieme vedono le modifiche da fare.

Si può mostrare inoltre al soggetto come ha appreso quella modalità di perseguire  gli scopi per lui importanti ed anche perché quest’ultimi sono tali. Infine gli si può far valutare i costi di una simile strategia, soprattutto se rigida e senza alternative sottolineando contemporaneamente il ruolo adattivo e di salvavita che ha avuto nel contesto di apprendimento, ma che ora la guerra è finita e il panorama cambiato.

Il processo di cambiamento – che può essere graduale e/o minor se si colloca a livello delle strategie di perseguimento o  rivoluzionario e/o maior se coinvolge gli scopi – lo si attua con tutte le tecniche a disposizione (la cassetta degli attrezzi) cognitivo comportamentali e non solo, avendo come obiettivo di esplorare con lui territori prima off limits ampliando dunque i gradi di libertà del sistema ad entrambi i livelli (scopi e strategie).

La strada maestra comunque è l’atteggiamento di fondo da tenere nei suoi confronti che definirei come “percepirlo e trattarlo come non si è mai permesso di essere per consentirglielo”. Credo che questa percezione di come l’altro avrebbe potuto e forse voluto essere e non è stato sia decisiva e deve essere sincera; poi tutto il resto protocolli, tecniche ecc. segue di conseguenza.

L’importante è procedere con un idea in testa sul cambiamento che si vuole ottenere, il resto viene da sé.

Ad esempio se voglio che aumenti l’autostima, l’atteggiamento sarà genericamente validante e incoraggiante. Se voglio che smetta di costringersi ad essere il migliore per essere considerato, lo coccolerò quando sta in difficoltà. Due esempi fuori contesto, dunque più freddi e chiari.

Se voglio  tornare a casa devo rappresentarmi questo desiderio. Poi scegliere l’autobus, la metropolitana, i piedi o il taxi dipenderà dalla distanza, da me in quel preciso giorno, dal tempo e dalle risorse. Se voglio conquistare una donna (uomo) il protocollo non è standard manco per Salvkovsky, e dipende da come è lei (o meglio da come penso che sia), da come sono le condizioni esterne al momento, da come sono io. L’importante non è avere la ricetta giusta ma un metodo per la correzione degli errori che certamente ci saranno e in terapia questo metodo di aggiustamento della mira è la condivisione col paziente.

Questo discorsetto mi pare relativizzi molto le diagnosi, i protocolli e le tecniche (tutto quello che da certezze sob!) e valorizzi la formulazione del caso e l’atteggiamento nella relazione terapeutica.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

L’uso di cocaina nei padri potrebbe influenzare negativamente le funzioni mnemoniche dei figli maschi

Uso di cocaina ed effetti sui figli: I padri che fanno uso di cocaina al momento di concepire un figlio potrebbero mettere i propri figli a rischio di sviluppare disturbi dell’apprendimento e perdita di memoria

 

L’uso di cocaina da parte dei padri e gli effetti sui figli maschi

I risultati di uno studio condotto sugli animali, sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Psychiatry da un team di ricercatori della “Perelman School of Medicine” nell’Università della Pennsylvania. I ricercatori sostengono che i risultati mostrino che l’abuso di droga dei padri – fattore separato dall’ormai ben conosciuto effetto dell’uso della cocaina nelle madri – potrebbe avere degli effetti sui figli maschi, nello specifico sullo sviluppo cognitivo.

Lo studio, condotto da Mathieu Wimmer, PhD, ricercatore nel laboratorio di R.Christopher Pierce, PhD, professore di Neuroscienze psichiatriche alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, ha dimostrato che i figli dei padri che fanno uso di cocaina prima del concepimento avrebbero difficoltà nello sviluppo di nuovi ricordi. I risultati hanno evidenziato che i figli – ma non le figlie – di ratti maschi a cui era stata somministrata cocaina per un periodo esteso di tempo, non riuscivano a ricordare il posizionamento di item nelle zone a loro vicine e presentavano un danneggiamento nella plasticità dell’ippocampo, una regione cerebrale critica per l’apprendimento e per l’esplorazione spaziale negli uomini e nei roditori.

[blockquote style=”1″]I risultati suggeriscono che i figli di uomini che presentano una dipendenza da cocaina potrebbero essere a rischio di sviluppare disturbi dell’apprendimento[/blockquote] sostiene il Dr. R. Christopher Pierce, professore di neuroscienze Psichiatriche alla Perelman School of Medicine all’Università della Pennsylvania.

Neuropsicologia: come spiegare gli effetti sui figli dell’uso di cocaina dei padri

Pierce e i suoi colleghi ipotizzano che alla radice del problema possano esserci i meccanismi epigenetici, definiti come  le modificazioni che variano l’espressione genica senza una variazione della sequenza del DNA, come i tratti ereditari.  Il DNA è strettamente avvolto a proteine basiche chiamate “istoni”, come un filo attorno ad una bobina, e vi interagisce chimicamente, determinando la differente espressione dei geni, in un processo epigenetico.

La ricerca mostra che l’uso di cocaina nei padri comporterebbe cambiamenti cerebrali nei figli maschi, agendo così sull’espressione di geni importanti per la costruzione dei ricordi. Nei ratti i cui padri avevano assunto cocaina, si rilevava un esaurimento della D-Serina, una molecola essenziale per la memoria; il ripristino nei livelli di D-Serina nell’ippocampo dei figli, migliorava le abilità di apprendimento negli animali.

In collaborazione col Dott. Benjamin Garcia, professore di Biochimica e Biofisica all’Istituto Epigenetico della Perelman School of Medicine, gli autori hanno dimostrato che l’abuso di cocaina nei padri altererebbe ampiamente i segnali chimici sugli istoni nelle regioni cerebrali dei figli, anche qualora la progenie non sia stata mai esposta alla cocaina. Le modificazioni chimiche conseguenti avrebbero l’effetto di favorire la produzione dell’enzima “D-amminoacido ossidasi”, che comporta il deterioramento della D-serina. Gli autori sostengono che sia proprio l’incremento di questo enzima, causato dai cambiamenti nei processi epigenetici, a causare i problemi di memoria nei figli dei ratti dipendenti dalla cocaina.

[blockquote style=”1″]Abbiamo un interesse sostanziale nello studio dello sviluppo della D-Serina e i composti correlati tollerati dall’uomo, come le terapie per le dipendenze. L’abilità della D-serina di ribaltare gli effetti negativi dell’uso parentale di cocaina sull’apprendimento, aggiunge potenziale rilevanza clinica alla ricerca[/blockquote] sostiene Pierce.

Il disputing logico-empirico di Aaron T. Beck – Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Con il disputing empirico di Aaron T. Beck il terapeuta chiama il paziente a riflettere su come egli immagina concretamente che avvengano gli eventi negativi, e su quali prove concrete e tratte dalla sua esperienza quotidiana si basano questi pensieri catastrofici.

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2

Disputing alla Beck #3: individuare gli Errori Logici – Psicoterapia –

Dilemma-Focused Intervention (DFI) per il trattamento della depressione

Il Dilemma-Focused Intervention (DFI) si caratterizza come uno specifico modulo di trattamento da impiegare all’interno di una più ampia cornice teorica di riferimento; sebbene non sia pensato come trattamento specifico per la depressione unipolare, recenti evidenze scientifiche ne hanno dimostrato l’efficacia clinica.

 

Il Dilemma-Focused Intervention (DFI) si caratterizza come uno specifico modulo di trattamento da impiegare all’interno di una più ampia cornice teorica di riferimento (ad es., terapia cognitivo-comportamentale, teoria dei costrutti personali, etc.) utile per tutti quei disturbi che contemplano al loro interno almeno un dilemma personale, identificato per mezzo di una Griglia di Repertorio. Sebbene non sia pensato come trattamento specifico per la depressione unipolare, recenti evidenze scientifiche ne hanno dimostrato l’efficacia clinica.

La volontà dell’autore di questo articolo è fornire una traduzione comprensibile della manualizzazione del Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione unipolare (Feixas & Compañ, 2016). Dopo una breve presentazione della Teoria dei Costrutti Personali e delle sue tecniche, si presenterà step by step la procedura clinica del Dilemma-Focused Intervention.

 

Le origini del Dilemma-Focused Intervention: la Teoria dei Costrutti Personali

I fondamenti teorici del Dilemma-Focused Intervention derivano dalla Teoria dei Costrutti Personali (PCT), proposta da George Kelly. Secondo questa teoria, ogni persona interpreta (costruisce) in modo diverso i fenomeni, in accordo con il proprio sistema di costrutti, e l’accesso diretto alla realtà non è possibile. L’attività umana, quindi, è concepita come un processo globale di costruzione di significati: ogni persona, infatti, è concepita come uno scienziato laico che elabora svariate teorie col proposito di dare una spiegazione alle proprie esperienze; tali teorie sono continuamente testate e, al bisogno, riviste. Ogni comportamento, in questo senso, si configura come un esperimento che valida o invalida le teorie personali del soggetto. Le teorie hanno il valore di anticipare le ricorrenze della vita per farvi fronte nella maniera più adattiva possibile.

Secondo la Teoria dei Costrutti Personali, il sistema cognitivo consiste di costrutti personali bipolari, che riflettono le distinzioni che la persona fa sulla base delle somiglianze o differenze notate nella sua esperienza (i.e., “caldo-freddo”; “amichevole-non amichevole”; “depresso-allegro”). I costrutti personali sono organizzati in un network di significati gerarchizzati; quelli ad un livello più alto costituiscono il senso di sé o identità e sono interconnessi con i costrutti più periferici ad un più basso livello gerarchico.

Secondo questa prospettiva, perciò, l’identità garantisce il senso della continuità di noi stessi indipendentemente dal passare del tempo e del mutare delle situazioni, come anche il senso di unicità dell’esistenza umana. Per questo motivo un cambiamento nei costrutti core spesso elicita la resistenza dell’individuo, reazione che rappresenta un tentativo fisiologico di mantenere il proprio sistema di costrutti inalterato ed evitare così di intaccare la continuità del senso di identità personale.

Un altro aspetto chiave della Teoria dei Costrutti Personali è l’enfasi sugli aspetti relazionali della costruzione di significato. Infatti, anche i costrutti connessi agli aspetti più intimi di una persona sono parte di un contesto culturale e relazionale. Le persone, appunto, attribuiscono particolari significati ad ognuna delle loro interazioni con gli altri e nel contesto clinico emerge l’importanza di esplorare il significato personale relato agli altri. In questa visione, accade spesso che l’essere umano, nel momento in cui opera una decisione, debba risolvere dei conflitti tra la visione di sé e i propri valori personali. Tali conflitti possono risolversi o generare uno stato tensione psicologica.

La Teoria dei Costrutti Personali concepisce i conflitti cognitivi come dilemmi che la persona affronta e deve risolvere in una maniera coerente con il suo senso di identità personale. Essa distingue tra costrutti dilemmatici e dilemmi implicativi. I primi sono quelli che non offrono un chiaro percorso d’azione. Secondo la Teoria dei Costrutti Personali, la persona seleziona il polo del costrutto che assicura maggiore prevedibilità. Alle volte, però, entrambi i poli assicurano vantaggi e svantaggi, tali per i quali la persona finisce per bloccarsi e non agire.

I dilemmi implicativi sono invece quei conflitti cognitivi nei quali il sintomo è associato a dimensioni della costruzione di sé positive. Il cambiamento desiderato (ad es., smettere di essere depresso e diventare una persona felice) in quella costruzione implica, perciò, un cambiamento non desiderato verso un altro costrutto associato a caratteristiche positive di sé (ad es., smettere di essere una persona generosa e diventare egoista). Quando tali dilemmi si presentano, la persona spesso si blocca poiché, muoversi nella direzione del cambiamento desiderato (ad es., diventare felice) implicherebbe il cambiamento non desiderato (ad es., diventare egoisti). Questo tipo di conflitto coinvolge il senso di identità personale e spiega l’insorgenza di sintomi clinicamente rilevanti e la resistenza al trattamento.

La tecnica delle Griglie di Repertorio (RGT, Repertory Grid Technique) è uno strumento derivato dalla Teoria dei Costrutti Personali che consente l’identificazione dei conflitti cognitivi. Essa permette la valutazione del concetto di sé e della struttura cognitiva della persona, basandosi sulla costruzione che la persona stessa dà di sé.

Partendo dall’idea di essere umano “costruttore di significati”, è chiaro che i sintomi hanno un senso per il paziente. Per questo motivo la terapia esplora e tenta di comprendere questi significati (e i conflitti di identità in essi inclusi), nel tentativo di scoprire insieme al paziente costruzioni alternative – ma ugualmente coerenti con il suo senso di identità – che generano minore sofferenza.

 

La depressione secondo la Teoria dei Costrutti Personali

Secondo Kelly la depressione si sostanzia in un’estrema costrizione del campo percettivo attuata al fine di minimizzare il rischio di invalidazione personale. Infatti, quando un costrutto core, cioè relato all’identità del soggetto, è a rischio di invalidazione la persona riduce la disponibilità a fare esperienza (ad es., dormendo la maggior parte del tempo, evitando di svolgere attività o di incontrare altre persone, etc.) nel tentativo di proteggere quel significato, di evitare lo stress e il dispiacere derivante dalla perdita dello stesso.

Precedenti studi hanno già rintracciato una chiara correlazione tra la presenza di dilemmi e sintomi depressivi e, sebbene la presenza di dilemmi non è specifica per la depressione, essi sembrano giocare un ruolo importante in questo disturbo. Partiamo dall’idea che la presenza di dilemmi personali è legata alle incongruenze o alla frammentazione del sistema cognitivo. Queste incongruenze possono ostacolare la flessibilità del sistema e la capacità di agire in modo soddisfacente nel contesto interpersonale, favorendo stress emotivo o la sofferenza.

L’intervento descritto in questo manuale persegue l’obiettivo di esplorare i significati personali per risolvere i dilemmi e incoraggiare lo sviluppo di un sistema di costrutti più armonico e flessibile, permettendo al paziente di risolvere i sintomi. Infatti, spingere la persona al cambiamento rischierebbe di elicitare una resistenza a questo tentativo. Invece, focalizzarsi sulle implicazioni del cambiamento e mantenendo la coerenza con il senso di identità del soggetto, permette di instaurare una migliore alleanza terapeutica e di stabilire un punto di partenza migliore per il cambiamento. La terapia è concepita, quindi, come una delicata rinegoziazione dei significati personali del paziente.

Per ciò che riguarda il trattamento della depressione, il Dilemma-Focused Intervention offre al paziente una spiegazione di tutto rispetto riguardo la persistenza dei suoi sintomi in relazione ai dilemmi all’interno del suo sistema di costrutti. Il meccanismo centrale della terapia coinvolgerebbe da una parte il chiarimento della natura del dilemma e dall’altra l’integrazione delle due facce dello stesso. Tutto l’approccio si basa sull’idea che il cambiamento è possibile quando il sistema di significati del paziente è armonizzato; il potere di cambiare è quindi lasciato nelle mani del paziente. La terapia perciò procede in un clima di astensione di giudizio e senza optare per un cambiamento in particolare. Tutto ciò viene fatto sulla base dell’idea che l’unico in grado di valutare e successivamente riconsiderare i propri significati è il paziente stesso.

 

Dilemma-Focused Intervention e assessment dei dilemmi

Il Dilemma-Focused Intervention prevede una valutazione iniziale focalizzata sul sistema di costrutti del paziente, che ne indaga il contenuto e la struttura. Possono essere impiegati questionari come il CORE-OM e altri strumenti self-report. La tecnica usata per l’assessment del sistema di costrutti è la Tecnica delle Griglie di Repertorio o RGT, una intervista semi-strutturata nella quale vengono elicitati i costrutti bipolari (ad es., “depresso-felice”) in relazione a persone significative (i.e., gli elementi); tali costrutti sono trascritti sulla griglia nel modo in cui vengono espressi dal paziente e tra gli elementi compare sempre l’idea attuale e quella ideale di sé.

In seguito ogni elemento è valutato in relazione ai costrutti, utilizzando una scala Likert a 7 punti. Il risultato di questo procedimento è una matrice che riflette la valutazione della persona degli elementi in accordo con i suoi costrutti; la matrice può essere soggetta ad analisi statistiche che restituiscono una serie di indici – come l’indice di discrepanza con il sé ideale e l’isolamento sociale percepito – per sintetizzare le informazioni emerse dalla griglia.

Riguardo l’identificazione dei dilemmi personali, i costrutti dilemmatici sono quelli che ricevono un punteggio di 4 sulla scala Likert, in quanto per il paziente nessuno dei poli del costrutto è veramente desiderabile o magari lo sono entrambi. Per identificare i dilemmi implicativi si possono usare dei software come Gridcor. Attraverso questo programma, inizialmente si identificano i costrutti congruenti – ossia quelli dove la persona percepisce uno scarto minore tra i sé attuale e quello ideale – e discrepanti – dove invece il sé attuale e ideale si pongono ai poli opposti – ed in seguito, quando emerge una correlazione positiva (r > 0.35) tra i punteggi di un costrutto congruente e quelli di uno discrepante, possiamo parlare di un dilemma implicativo. Tale correlazione, infatti, stabilisce che un cambiamento in un costrutto discrepante genera un cambiamento indesiderato in un costrutto congruente.

Facciamo un esempio per meglio comprendere cosa siano i costrutti congruenti e discrepanti (vedi Tabella 1.1). Un paziente descrive se stesso come “generoso”; il polo opposto individuato per “generoso” è “egoista”. Allo stesso tempo, il paziente si definisce “depresso” (sé attuale) e vorrebbe diventare una persona “felice” (sé ideale).

L’associazione tra questi due costrutti, però, implica che per diventare una persona più felice (cambiamento desiderato) la persona necessariamente debba accettare un cambiamento indesiderato nell’altro costrutto, ossia diventare una persona egoista. Per evitare ciò e mantenere un’immagine positiva di sé, il paziente in qualche modo “decide” di sacrificare la sua felicità al fine di non diventare egoista. Questo porta però a stress ed infelicità.

 

Dilemma-Focused Intervention (DFI) per il trattamento della depressione unipolare -Tab 1

Tabella 1.1. I rispettivi poli dei costrutti dell’esempio sovracitato.

 

Procedure e tecniche impiegate nel Dilemma-Focused Intervention

Esistono svariate tecniche utilizzabili nel Dilemma-Focused Intervention, e sono:

  • Identificazione delle figure prototipiche del dilemma: queste figure possono essere trovate tra gli elementi inclusi nella RGT, osservando i punteggi attribuiti. Le figure prototipiche sono gli altri significativi che ben rappresentano le due posizioni opposte del dilemma. Per ciò che riguarda i dilemmi implicativi, da una parte viene assegnato un punteggio ad uno o più elementi per quanto riguarda il polo congruente del costrutto congruente e il polo attuale del costrutto discrepante (nell’esempio in Tabella 1.1 “generoso” e “depresso”), dall’altra parte, vengono assegnati punteggi per quanto riguarda il polo non desiderato del costrutto congruente e il polo desiderato del costrutto discrepante (nell’esempio “egoista” e “felice”). Mentre il primo set di elementi rappresenta la posizione attuale del paziente, il secondo incarna le implicazioni del cambiamento. Per i costrutti dilemmatici, le figure prototipiche sarebbero quelle valutate dal paziente con i punteggi più estremi ad entrambi i poli. Stando all’esempio, il paziente dovrebbe individuare un altro significativo generoso ma depresso e un altro significativo egoista ma felice. Questa procedura permette di esemplificare il dilemma e renderlo più evidente al paziente, utilizzando persone a lui vicine.
  • Tecnica della bacchetta magica: è utilizzata nella fase iniziale per esplorare il dilemma e renderlo esplicito nella conversazione. Questa tecnica è utile a capire se il cambiamento – nel costrutto discrepante – è veramente desiderabile e sarà davvero positivo per il paziente. Per fare ciò, il terapeuta chiede al paziente se è davvero pronto per il cambiamento e, immaginando che abbia una bacchetta magica che lo realizzi, lo invita ad esplicitare alcune implicazioni negative insieme alle risorse necessarie per farvi fronte. In questa maniera, la natura dilemmatica del cambiamento emerge completamente agli occhi del paziente e del terapeuta.
  • Auto-caratterizzazione: questa tecnica prevede che il paziente fornisca i propri costrutti ma in forma narrativa. Nel dettaglio, egli è invitato a scrivere una descrizione di sé utilizzando la terza persona, come se il racconto fosse scritto da un caro amico. L’auto-caratterizzazione generalmente è assegnata al paziente alla fine della prima seduta per poi essere discussa insieme all’inizio della seconda.
  • Laddering up: tecnica introdotta da Hinkle, con l’obiettivo di esplorare le implicazioni sovraordinate ad un dato costrutto. Il terapeuta qui identifica un costrutto personale del paziente e gli chiede di indicare il polo di quel costrutto che reputa desiderabile, in seguito gli chiede perché quel determinato polo sia più desiderabile dell’altro. Nel Dilemma-Focused Intervention i costrutti investigati sono quelli coinvolti nel dilemma. Un esempio potrebbe essere: “Perché è meglio essere felice invece che depresso?”. La tecnica è portata avanti fino a che non si riescono ad individuare ulteriori implicazioni sovraordinate.
  • Laddering down: questa tecnica, invece, punta ad individuare le implicazioni subordinate di ogni polo di un dato costrutto. E’ molto utile per evitare fraintendimenti tra terapeuta e paziente e utilizzata soprattutto per esplorare quelle etichette verbali che sembrano troppo astratte, generali, vaghe o ambigue (ad es., “felice-infelice”). Esempi pratici di come metterla in atto potrebbero essere domande quali: “Che tipo di persona è una persona felice?” o “Che tipo di caratteristiche ha una persona che è felice?”.
  • Laddering dialettico: è basato sul laddering up, ed è molto utile quando un paziente non è in grado di identificare una chiara preferenza per i due poli di un costrutto. Nel Dilemma-Focused Intervention è il caso dei costrutti dilemmatici. L’obiettivo qui è riconciliare i poli in una sintesi o integrazione di più alto livello. Ad esempio, al paziente che propone il costrutto dilemmatico “dà tutto – tiene tutto per sé”, il terapeuta potrebbe suggerire l’etichetta “estremista” che contiene entrambi i poli proposti e per la quale il polo opposto potrebbe essere “moderato”; così facendo magari il paziente saprebbe preferire il polo “moderato” e farebbe evolvere il costrutto dilemmatico in uno nuovo rispetto al quale ha una chiara preferenza per uno dei due poli.
  • Ricostruzione del Cerchio dell’Esperienza: nella terza seduta del Dilemma-Focused Intervention si utilizza tecnica definita Cerchio dell’Esperienza, utile a ricostruire l’immediata esperienza del paziente esaminando le sue costruzioni in un dato corso d’azione. Il Cerchio dell’Esperienza descrive il nostro modo di agire come in un continuo esperimento dove le nostre costruzioni vengono testate ed eventualmente revisionate. La prima fase, quella delle anticipazioni, contempla tutti quei pensieri non propriamente consci o espliciti riguardo ciò che succederà. Segue la fase degli investimenti, dove i contenuti possono essere elicitati con domande quali: “Fino a che punto questa situazione/evento è importante per me?”. La fase successiva è quella dell’incontro con l’evento; segue poi la fase di valutazione rispetto a cosa è successo per capire se l’anticipazione è stata confermata o disconfermata (fase della conferma/disconferma). L’ultimo step prevede la revisione delle costruzioni, se necessaria. Dal momento che questo ciclo può essere bloccato in ogni fase, dando origine ad una varietà di problemi e sintomi che il paziente porta in terapia, è utile analizzarlo per identificare i significati personali che entrano in gioco e rilevare al suo interno sia le limitazioni che le alternative possibili. Il Dilemma-Focused Intervention usa questa tecnica partendo dal dilemma preso in analisi. Nella fase delle anticipazioni e degli investimenti, infatti, emergono i significati personali del paziente, oggetto di analisi in terapia.
  • Analisi delle implicazioni relazionali del dilemma: il Dilemma-Focused Intervention prevede un’analisi del ruolo degli altri significativi – solitamente dei membri della famiglia – nella creazione e nel mantenimento del dilemma investigato. L’obiettivo è rendere consapevole il paziente di come queste persone possano influenzare la costruzione della sua realtà in modo da stimolare costruzioni alternative e meno dipendenti da queste figure. Si parla di complici, quando gli altri significativi trattano il paziente in una maniera che valida la sua posizione attuale all’interno del dilemma e lo invalidano quando egli tenta di cambiare posizione (polo) o ruolo nella relazione.
  • Ricostruzione storica del dilemma: come molte scuole di pensiero, anche il Dilemma-Focused Intervention tenta di investigare il passato del paziente per identificare situazioni passate e scoprire la ragione delle sue costruzioni attuali; tuttavia è assente l’obiettivo di trovare il “colpevole” e di focalizzare la terapia sul passato. In altre parole, ripercorrere i traguardi del passato aiuterebbe a capire come il dilemma fu “logico” in un dato contesto del passato del paziente, una manovra che Kelly chiava time binding. Questa tecnica facilita la ricerca di nuove costruzioni più adatte al presente. Nel Dilemma-Focused Intervention la ricostruzione storica del dilemma è stimolata da un compito chiamato “capitoli dell’autobiografia”. Esso consiste nel chiedere al paziente di scrivere il titolo di una serie di capitoli, con relativo intervallo di tempo che comprendono, che raccontino la sua storia. Inoltre, il paziente deve dare un titolo anche al capitolo relativo al futuro, dove il dilemma sarà risolto. In seguito, tali capitoli sono discussi in terapia e al paziente è chiesto di identificare la sua posizione nel dilemma in ogni capitolo.
  • Rappresentazione drammatica del dilemma: si basa sulla tecnica della Terapia della Gestalt, a sua volta influenzata da Jacob Levy Moreno, ideatore dello psicodramma. Nella rappresentazione drammatica del dilemma vengono impiegate due sedie, ognuna rappresentante un polo del dilemma. Il paziente deve ripetutamente sedersi prima sull’una (polo attuale del costrutto discrepante connesso al polo congruente del costrutto congruente) e poi sull’altra (polo desiderato del costrutto discrepante connesso al polo non desiderato del costrutto congruente) per esprimere a parole “le ragioni”, del dilemma con l’obiettivo di integrarle.
  • Proiezione nel futuro: spesso il paziente è rimasto intrappolato a lungo nel dilemma in questione, a tal punto da sperimentare difficoltà anche solo ad immaginare una vita senza quel dilemma. Nel Dilemma-Focused Intervention ai pazienti viene chiesto di immaginare come sarebbe la loro vita senza quel dilemma e di descrivere specifiche situazioni dove questo è di fatto risolto. Particolare attenzione è rivolta alle implicazioni relazionali della risoluzione del dilemma e alla coerenza di questo cambiamento con la propria identità.

 

Riguardo la relazione terapeutica

La Teoria dei Costrutti Personali favorisce l’instaurarsi di una relazione terapeutica cooperativa tra due esperti in due campi differenti: il paziente è esperto nei contenuti (i.e., temi, obiettivi, progetti ed esperienze), mentre il terapeuta è esperto nei processi di costruzione di significato e nella loro influenza sulle emozioni e le azioni, nelle dinamiche di cambiamento ed in particolare nella terapia come un processo e un contesto.

Per quanto riguarda la comunicazione adottata, il terapeuta raramente è direttivo o prescrittivo; il suo atteggiamento riflette piuttosto la curiosità rispetto al mondo del cliente, ai suoi personali e spesso idiosincratici significati. Il terapeuta può invitare il cliente a considerare le implicazioni di diverse modalità di costruire un evento, ma non giudica mai le prese di posizioni del paziente.

Settimana mondiale del Cervello – Bologna 13-19 Marzo

Un evento patrocinato da State of Mind:

Settimana mondiale del Cervello – Bologna 13-19 Marzo

 

Dal 13 al 19 marzo 2017 anche in Italia si celebra il cervello

Una settimana dedicata alla sensibilizzazione di giovani, adulti e anziani sull’importanza della conoscenza del più complicato e sconosciuto organo del nostro corpo: il cervello. È la Settimana Mondiale del Cervello, campagna coordinata dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa e dalla Dana Alliance for Brain Initiatives negli Stati Uniti che quest’anno si svolge tra il 13 e il 19 marzo. L’iniziativa coinvolge come ogni anno psicologi, neuroscienziati e altri professionisti del settore della salute. In Italia l’evento è animato da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica e partner ufficiale della Dana Foundation, con il patrocinio del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e di moltissime istituzioni pubbliche e private.

Tra il 13 e il 19 marzo tutto lo stivale – isole comprese – sarà animato da una serie di eventi completamente gratuiti a tema cervello che testimoniano l’entusiasmo di singoli professionisti, associazioni, centri di ricerca, cultori della materia, appassionati, pazienti, insegnanti. In programma oltre trecento appuntamenti in più di centocinquanta città italiane: laboratori interattivi, screening, mostre, cineforum, dibattiti, tour guidati nei centri di ricerca e tanto altro.

L’obiettivo è rendere accessibili ai cittadini i dati della ricerca neuroscientifica, per sensibilizzare al mantenimento di una buona salute cerebrale e all’assunzione di corrette abitudini quotidiane, indispensabili per prevenire malattie.

Il calendario è costantemente in evoluzione sul sito www.settimanadelcervello.it e sulla pagina Facebook “Settimana Mondiale del Cervello”.

Per maggiori informazioni è possibile contattare il comitato scientifico – Hafricah.NET

www.hafricah.net

[email protected]

tel. 0909575428 – 3668933240

Settimana Mondiale del Cervello - Bologna 13-19 Marzo 2017

Settimana Mondiale del Cervello - Bologna 13-19 Marzo 2017 - 2

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