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Stili di vita, benessere e apprendimento scolastico: una ricerca esplorativa

Stili di vita, benessere e apprendimento scolastico: una ricerca esplorativa

R. Carnevale¹, C. Sidoti², I. Pernetti³

(1- Laboratorio Apprendimento e ASL TO4; 2- Matematica Statistica Torino; 1- Matematica Statistica Torino; 3-  Istituto Comprensivo Ciriè 1 -TO)

 

Abstract

La letteratura e il lavoro in ambito clinico ed educativo con bambini e ragazzi che presentano difficoltà evidenziano come il benessere scolastico sia un costrutto complesso che coinvolge fattori diversi, dalle abitudini motorie, al ritmo sonno-veglia, agli aspetti emotivi, motivazionali e relazionali, con un forte legame al processo di apprendimento.

La presente ricerca, con un approccio sistemico, mette in relazione e analizza alcuni di questi aspetti attraverso tre punti di vista.

Il campione è infatti costituito da studenti, genitori e insegnanti di scuola primaria (III, IV e V) e secondaria di primo grado (I e II) della provincia di Torino. Sono stati somministrati questionari differenziati per le diverse categorie di partecipanti, appositamente costruiti, tenendo conto della letteratura e dell’osservazione sul campo, unitamente al QBS – Bambini/Ragazzi (Tobia e Marzocchi, 2015) e alla raccolta dei dati delle singole pagelle di fine anno scolastico. Dai risultati è possibile trarre alcune implicazioni a livello clinico ed educativo.

 

L’ideazione suicida e il rischio di suicidio nel Morbo di Parkinson

E’ stato riscontrato come comportamenti suicidari possano essere più comuni in alcune malattie neurologiche, tuttavia sono pochi gli studi che hanno esaminato l’ ideazione suicida e il rischio di suicidio nel morbo di Parkinson.

Maria Pia Totaro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Il suicidio è una delle principali cause di morte in tutto il mondo. Secondo il National Comorbidity Survey, l’incidenza stimata nell’arco di vita relativamente a ideazione suicida e tentativi di suicidio nella popolazione generale è rispettivamente del 13,5% e del 4,6%.

 

Ideazione suicida, tentato suicidio e suicidio completato

Comportamenti e pensieri suicidi possono essere classificati come ideazione suicida, tentativi di suicidio, e suicidio completato, i primi due sono tra i fattori di rischio più importanti per un suicidio completato.

L’ ideazione suicida è definita come pensieri relativi al porre fine intenzionalmente alla propria vita, senza l’agire. Il tentato suicidio è l’autolesione con il desiderio di porre fine alla propria vita, che non dia luogo alla morte. I fattori di rischio modificabili per il comportamento suicida comprendono: disturbi dell’umore (ad esempio, la depressione maggiore), abuso di sostanze o alcolismo, patologie croniche comuni (ad esempio, il dolore, insufficienza cardiaca, e bronco pneumopatia cronica ostruttiva), e la mancanza di legami sociali, mentre i fattori di rischio immutabili comprendono il sesso maschile e l’aumentare dell’età.

 

Rischio di suicidio nel Morbo di Parkinson

La prevalenza dell’ ideazione suicida negli anziani varia ampiamente, da meno dell’1% al 17%. In uno studio  che ha coinvolto persone anziane senza disturbi mentali diagnosticati, il 4% ha ritenuto che la vita non è degna di essere vissuta, il 28% ha desideri di morte, il 9% ha pensato  di impadronirsi della propria vita, e il 2% ha seriamente pensato al suicidio entro 1 mese dall’ intervista.

E’ stato riscontrato come comportamenti suicida possano essere più comuni in alcune malattie neurologiche, come il morbo di Huntington,  la sclerosi multipla, e lesioni traumatiche del midollo spinale, tuttavia sono pochi gli studi che hanno esaminato il rischio di  suicidio nel morbo di Parkinson. Il Morbo di Parkinson è un disturbo neuropsichiatrico e neurodegenerativo progressivo. Esso è stato conosciuto principalmente come un disturbo motorio, con tremore, bradicinesia, rigidità e instabilità posturale nelle sue caratteristiche dominanti. Inoltre è stata evidenziata la presenza di sintomi psichiatrici non motori  che spesso insorgono durante il cronicizzarsi della malattia.

La presente rassegna si è proposta di investigare il comportamento suicida nei soggetti affetti da Morbo di Parkinson. In particolare Kummer e colleghi (2009) hanno indagato circa la frequenza dell’ ideazione suicida e  i tentativi di suicidio in pazienti con Morbo di Parkinson, non colpiti da demenza e senza disturbi del controllo degli impulsi o in fase di stimolazione subtalamica.

Il campione è stato costituito da 90 pazienti ambulatoriali con malattia di Parkinson clinicamente definita, reclutati  dal Movement Disorders Clinic del Federal University di Minas Gerais, Belo Horizonte, Brasile.

Dai risultati è stato riscontrato che il 14,4% dei pazienti con Morbo di Parkinson ha avuto un’ ideazione suicida nell’ultimo mese. La frequenza di ideazione suicida nel campione sembra essere superiore a quella emersa in generale o nella popolazione anziana. Un aspetto degno di nota emerso dallo studio è stato che nessun paziente ha mai tentato il suicidio.

Esso ha anche  suggerito che il comportamento suicida potrebbe essere maggiore nei pazienti con malattia di Parkinson più giovani e nei pazienti con esordio più precoce della malattia. Di conseguenza, nel presente studio, il rischio di suicidio nel morbo di Parkinson è risultato essere associato ad un età inferiore e alla minore età di insorgenza della malattia.

Tali evidenze hanno fornito un ulteriore sostegno a precedenti analisi. Lo studio di Nazem e colleghi (2008) ha analizzato il rischio di suicidio in un campione di 116 pazienti con Morbo di Parkinson e intatto funzionamento cognitivo globale. I risultati hanno riscontrato  l’insorgenza di un attiva ideazione suicida o di morte in quasi un terzo dei pazienti parkinsoniani (30% del campione) e di una rara presenza di tentativi di suicidio (4,3% del campione).

 

Ideazione suicida e Morbo di Parkinson: variabili psichiche e neurologiche associate

Kummer e colleghi (2009) hanno inoltre  proposto di valutare quale delle possibili variabili (neurologiche e psichiatriche) associate con l’ ideazione suicida potrebbero meglio prevederla. La depressione maggiore è stata il principale fattore predittivo di ideazione suicida. Tuttavia, nonostante l’alta prevalenza di disturbi depressivi e ideazione suicida nel Morbo di Parkinson, il comportamento suicida non è comune. Una spiegazione di questo ha proposto che la depressione nella malattia di Parkinson potrebbe essere generalmente meno severa. Tuttavia, i disturbi depressivi nella malattia di Parkinson non sembrano essere di solito lievi e l’ ideazione suicida è associata alla gravità dei sintomi depressivi.

Un tale riscontro sembra supportare studi precedenti, come Nuzem e colleghi (2008) e la loro evidenza di come complicanze non motorie, in particolare i sintomi depressivi, sono risultati strettamente legati alla presenza di ideazione suicida o di morte. Tale analisi ha inoltre riscontrato come altre complicazioni psichiatriche quali una storia di comportamenti da disturbo del controllo degli impulsi durante il Morbo di Parkinson e un’ attuale psicosi, sembrano svolgere un ruolo nella comparsa di ideazione suicida o di morte.

In termini di variabili demografiche e correlati del morbo di Parkinson questo studio non ha riscontrato  associazioni ad un’ ideazione suicida o di morte, supportando l’ipotesi  che i sintomi e disturbi psichiatrici  siano i maggiori contribuenti all’ ideazione suicida e di morte nella popolazione parkinsoniana.

Anche se il tentato suicidio e il suicido completato si sono dimostrati  essere relativamente poco comuni nei pazienti parkinsoniani, l’insorgenza di un suicidio attivo o di ideazione di morte in tale popolazione è degno di nota e clinicamente significativo. Pertanto, i pazienti con la malattia di Parkinson e presenza di ideazione suicida dovrebbero essere ulteriormente valutati  per quanto riguarda la depressione e  altri disturbi psichiatrici, e quindi poi trattati prontamente qualora siano riscontrati alcuni sintomi.

La tDCS nel trattamento dei sintomi cognitivi dei pazienti con Sclerosi Multipla

Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Neuromodulation: Technology at the Neural Interface”, i pazienti con sclerosi multipla presenterebbero migliori abilità di problem solving e più rapidi tempi di risposta a seguito di un training effettuato con la cosiddetta “stimolazione transcranica a corrente diretta” (tDCS).

 

La stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS) per il trattamento della sclerosi multipla

La Sclerosi Multipla è la malattia neurologica progressiva più diffusa tra gli adulti in età lavorativa, il 70% dei quali si trova ad essere affetto da problematiche cognitive che includono un’elaborazione delle informazioni più lenta e difficoltà di memoria e problem solving. Altri sintomi comuni della malattia includono stanchezza e problemi sensoriali, motori e nel tono dell’umore.

Negli ultimi anni, si stanno diffondendo gli studi che indagano l’utilità di tecniche innovative per il trattamento dei sintomi correlati alle patologie neurologiche progressive. Una di queste è la cosiddetta “Stimolazione Transcranica a Corrente Diretta” (tDCS).

La tDCS, è una tecnica in cui viene applicata corrente elettrica a basso voltaggio attraverso degli elettrodi posizionati sul cranio, disposti attraverso una cuffia. La stimolazione produce dei cambiamenti nell’eccitabilità neuronale permettendo ai neuroni di “scaricare” più facilmente, fatto che aumenta le connessioni cerebrali e velocizza l’apprendimento che si verifica durante la riabilitazione.

Un nuovo studio, condotto da alcuni ricercatori del NYU Langone’s Multiple Sclerosis Comprehensive Care Center, ha evidenziato che i soggetti con Sclerosi Multipla che hanno utilizzato la tDCS mentre eseguivano un training cognitivo di giochi al computer per l’incremento delle abilità di elaborazione delle informazioni, mostravano miglioramenti significativi nelle misure cognitive, rispetto ai soggetti che eseguivano lo stesso training senza stimolazione. I soggetti, inoltre, hanno svolto il training cognitivo e la tDCS nella propria abitazione.

Secondo gli autori dello studio, la possibilità di consentire ai pazienti di partecipare al trattamento senza ripetute visite al clinico, le quali potrebbero costituire una difficoltà crescente per le persone affette da Sclerosi Multipla all’aggravarsi della sintomatologia, potrebbe produrre un miglioramento della qualità della vita dei soggetti.

[blockquote style=”1″]La nostra ricerca evidenzia che la tDCS, eseguita a distanza tramite un protocollo di trattamento controllato, potrebbe fornire una valida nuova opzione di trattamento per i pazienti con sclerosi multipla che non possono trarre giovamento per alcuni dei loro sintomi cognitivi [/blockquote] sostiene Leigh E. Charvet, Phd, professore associato di neurologia e direttore di ricerca al NYU Langone’s Multiple Sclerosis Comprehensive Care Center.

[blockquote style=”1″]Molte cure della Sclerosi Multipla sono finalizzate alla prevenzione dei focolari della malattia, ma questi farmaci non forniscono aiuto per quanto riguarda la gestione dei sintomi quotidiani, specialmente i problemi cognitivi. Speriamo che la tDCS colmerà questo importante gap e contribuirà a migliorare la qualità della vita delle persone con Sclerosi Multipla.[/blockquote]

Lo studio con tDCS somministrata a pazienti con sclerosi multipla

Nello studio, è stata applicata la tDCS alla corteccia cerebrale pre-frontale dorsolaterale, un’area cerebrale collegata con  senso di stanchezza, depressione e funzioni cognitive.

A 25 soggetti è stata fornita una cuffia di elettrodi che essi hanno imparato a mettere tramite l’aiuto del team di ricerca. In ciascuna sessione un tecnico contattava ogni partecipante attraverso una videochiamata, dando a ciascuno un codice per accedere a un tastierino elettronico che dava inizio alla sessione di tDCS per controllare la somministrazione. In seguito, durante la stimolazione, i partecipanti giocavano ad una versione ideata dai ricercatori di giochi al computer di training cognitivo che coinvolgevano aree cerebrali riguardanti l’elaborazione delle informazioni, l’attenzione e la memoria di lavoro.

Il gruppo di partecipanti a cui era applicata la tDCS, svolgeva 10 sessioni di training, e i ricercatori confrontavano i suoi risultati con quelli di 20 partecipanti con Sclerosi Multipla che svolgevano 10 sessioni di giochi di training cognitivo senza tDCS.

E’ stato scoperto che i soggetti del gruppo trattato con la tDCS mostravano maggiori miglioramenti, attraverso misurazioni di elevata sensibilità e basate su rilevazioni al computer dell’ attenzione complessa (Attenzione Selettiva, Attenzione Divisa e Attenzione Sostenuta) e nei tempi di risposta nei diversi trial, rispetto al gruppo che non era trattato con la tDCS. Inoltre, i miglioramenti crescevano con l’aumento del numero di sessioni, dimostrando che la tDCS potrebbe avere benefici cumulativi.

Tuttavia, sono necessarie altre ricerche per stabilire quanto durino questi effetti dopo le sessioni finali.

Il gruppo che ha partecipato al training cognitivo con la tDCS, non ha tuttavia mostrato una differenza statisticamente significativa dal gruppo che eseguiva solo il training, quando si rilevavano i cambiamenti con misurazioni neuropsicologiche standard e meno sensibili, come il test “Brief International Cognitive Assessment in Multiple Sclerosis” (BICAMS) o attraverso rilevazioni al computer riguardanti l’attenzione di base (Arousal).  Secondo il Dr. Charvet, questi risultati suggeriscono che i cambiamenti cognitivi apportati dalla tDCS potrebbero richiedere più sessioni di trattamento per comportare miglioramenti significativi osservabili nel funzionamento quotidiano.

I ricercatori stano reclutando soggetti per dei trial clinici ulteriori di 20 sessioni di tDCS e un protocollo di ricerca randomizzato che prevede la somministrazione di un placebo, per ricercare ulteriori prove dei vantaggi della tDCS. Al NYU Langone si sta portando avanti anche un’altra ricerca per testare l’utilizzo della tDCS per altre malattie neurologiche, incluso il morbo di Parkinson.

 

I genitori che non accettano l’orientamento sessuale dei figli e le conseguenze sulla salute mentale

In uno studio condotto in America, nel 2014, da J. A. Puckett, E. N. Woodward, E. H. Mereish e D.W. Pantalone si esplora l’associazione tra la reazione dei genitori al coming out dei propri figli e l’omofobia interiorizzata, il supporto sociale e la salute mentale di questi.

 

Le persone con orientamento sessuale minoritario, rispetto alle persone con orientamento eterosessuale, riportano in media alti livelli di disagio psicologico (depressione, ansia e tentativi suicidari) e alti rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari, alto colesterolo e tumori. Come possono essere spiegate queste disparità di salute in base all’orientamento sessuale?

I partecipanti allo studio sono un gruppo di 241 adulti statunitensi (51% F; 43,2% M; 2,1% Genderqueer; 1,7% Male to Female; 0,8% Female to Male; 1,2% altro – 71,8% omosessuali; 21,2% queer; 2,1% bisessuali; 5% altro).

Lo strumento utilizzato è un’intervista online, composta da sei questionari autosomministrati sulla reazione dei genitori nella settimana in cui hanno detto loro del proprio orientamento sessuale, sull’omofobia interiorizzata, sulla percezione del supporto sociale ricevuto, sull’ansia, sui sintomi depressivi e sull’ideazione suicidaria.

Dallo studio risultano confermate entrambe le ipotesi ad esso sottese:

1.     I partecipanti che hanno percepito i propri genitori come rifiutanti durante il loro coming out hanno riportato più alti livelli di sofferenza psicologica.

2.     L’omofobia interiorizzata ed il supporto sociale mediano l’associazione tra il rifiuto genitoriale ed il disagio psicologico.

Tornando ora alla domanda principale: come possono essere spiegate le disparità nella salute in base all’orientamento sessuale?

La risposta sta nello stress a cui sono sottoposte queste persone: omofobia o bifobia interiorizzata, stigma, occultamento della propria sessualità ed esperienze di eterosessimo vanno ad influire sulla salute fisica e mentale dei soggetti con orientamento non eterosessuale.

Nonostante lo studio sia stato condotto a distanza di anni dal coming out e accomunando i diversi sotto gruppi di orientamento sessuale (ad esempio lesbiche o gay, o bisessuali e queer), dati i risultati emersi i professionisti della salute dovrebbero lavorare sul decremento dell’omofobia interiorizzata, analizzando come i famigliari ed alte figure di riferimento hanno invece contribuito al potenziamento di questo aspetto. Inoltre non è da escludere l’utilità di una terapia famigliare per accompagnare durante il processo di coming out, decrementando il rifiuto genitoriale.

In base ai risultati, il benessere di una persona con orientamento sessuale minoritario può esser favorito grazie ad un lavoro incentrato sull’omofobia interiorizzata e sul supporto sociale.

 

Greta Riboli

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

ll trattamento del disturbo di panico: il confronto tra la classica terapia vis à vis con un trattamento online

I ricercatori di un’università svedese hanno effettuato uno studio randomizzato sul trattamento del disturbo di panico, confrontando l’efficacia di una classica terapia cognitivo-comportamentale vis à vis, con un programma di auto-aiuto online per persone con diagnosi di disturbo da attacchi di panico.

 

Lo scopo della ricerca è stato quello di confrontare due diverse modalità di trattamento per il disturbo di panicocon o senza agorafobia.

I ricercatori, hanno messo a confronto gli effetti di una terapia vis à vis ad orientamento cognitivo-comportamentale (10 sedute individuali, a cadenza settimanale) con un programma di auto-aiuto online seguito dallo psicologo via e-mail.

I risultati suggeriscono che il programma di auto-aiuto, con l’aggiunta di un contatto con uno psicologo online via e-mail, può essere altrettanto efficace della tradizionale terapia cognitivo-comportamentale individuale .

 

Trattamento del disturbo di panico: il confronto tra terapia on line e terapia vis à vis

Lo studio ha coinvolto 49 pazienti con disturbo da attacchi di panico distribuiti, in modo del tutto casuale, nei due gruppi di trattamento. I due diversi trattamenti sono stati effettuati in studi controllati separati con lista d’attesa non trattata.

I due tipi di trattamento del disturbo di panico, con lo psicologo online e con lo psicologo vis à vis, sono stati manualizzati e suddivisi in 10 moduli: (1-2) psicoeducazione e socializzazione, (3) gestione della respirazione e dell’iperventilazione, (4-5) ristrutturazione cognitiva, (6-7) esposizione introcettiva, (8-9) esposizione in vivo, e, infine, (10) prevenzione delle ricadute.

Nel gruppo online, ogni modulo è stato convertito in pagine web e i partecipanti sono stati invitati a prendere parte ad gruppo di discussione online creato ad hoc, in cui, di volta in volta, si è discusso di un determinato argomento scelto preventivamente dagli psicologi.

I vari messaggi sono stati letti e commentati dagli altri partecipanti e nel gruppo si è creata un’atmosfera di sostegno e aiuto reciproco.

Gli psicologi, hanno fornito di volta in volta un feedback via e-mail sui compiti effettuati generalmente entro 36 ore dall’invio dei messaggi.

I pazienti del gruppo di terapia in vivo hanno seguito 10 sedute individuali con una cadenza settimanale della durata di 45-60 minuti. Ai pazienti, tra una seduta e l’altra, è stato chiesto di fare dei compiti a casa, identici a quelli somministrati al gruppo online. Inoltre, ogni sessione è stata registrata e i pazienti sono stati invitati ad ascoltare le sessioni per consolidarne l’apprendimento.

Dopo un mese dalla fine del trattamento per il disturbo di panico, l’80% dei partecipanti del gruppo online e il 67% del gruppo in presenza non ha più soddisfatto i criteri per il disturbo da attacchi di panico secondo i criteri del DSM-IV. Ad un anno di distanza la percentuale era del 92% per i partecipanti seguiti dagli psicologi online e del 88% nel gruppo di persone seguite dagli psicologi in presenza .

Tuttavia, in ciascuno dei due gruppi, il 20% dei partecipanti che non rispondevano più ai criteri di disturbo da attacchi di panico avevano ancora alcuni problemi residuali (vale a dire, attacchi di panico occasionali, brevi o di bassa intensità).

I risultati del presente studio suggeriscono che, un trattamento di auto-aiuto seguito da uno psicologo via e-mail può essere altrettanto efficace di 10 sedute di terapia cognitivo-comportamentale in presenza.

Oltre alla possibile riduzione dei costi, uno dei vantaggi nell’utilizzare un trattamento del disturbo di panico di auto-aiuto seguito da uno psicologo online, è la possibilità di trattare persone che altrimenti non cercherebbero un supporto; pensiamo per esempio alle persone con agorafobia grave che spesso presentano una forte paura di lasciare le loro case per affrontare un trattamento con uno psicologo.

I risultati di questo studio forniscono prove per l’utilizzo e lo sviluppo di programmi di auto-aiuto seguiti da uno psicologo online.

Servo e padrone: cercare la liberazione nel proprio carceriere

Chi sei per me: salvatore o persecutore? È tutto mosso dalla paura e dal bisogno di conforto. Se nella tua storia a fronte della paura hai conosciuto quelle risposte: frusta o indifferenza, riconoscerai con facilità chi le sa somministrare e in lui spererai di trovare la salvezza.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 05/02/2017 su il Corriere della Sera

 

The Dark Knight, che parli Joker: “Tu non riesci proprio a lasciarmi andare, vero? Ecco cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile… Tu non mi uccidi per un malriposto ipocrita moralismo. E io non ti ucciderò perché sei troppo divertente. Credo che io e te siamo destinati a lottare per sempre”. Citando il paradosso dell’onnipotenza, Joker si rivolge a Batman che lo tiene appeso a testa in giù sull’abisso.

In quel momento Batman lo domina, ha potere di vita e di morte, ma le parole di Joker sono sagge: hanno bisogno l’uno dell’altro, incubo e succube, dominato e dominatore. Il filo che lega schiavo e padrone è noto. Il padrone, certo, teme il sottomesso, ma solo se crede che abbia i mezzi per detronizzarlo; se si sente sicuro continua a comandare con naturalezza.

Per Max Mosley non era così. Figlio di fascisti antisemiti – alle loro nozze partecipò Hitler – è stato pilota e poi boss della Formula 1. Nel 2008 il mondo intero lo scopre protagonista di un’orgia sadomaso. Cinque prostitute vestite da naziste o da detenute dei lager lo spidocchiano, frustano e poi si cambia, tocca a lui stare in piedi. Era figlio di sostenitori del dominio razziale, leader di un’organizzazione di potenza economica gigantesca, dove immagino provasse un certo gusto nel gestire il potere, eppure gli era necessario inscenare il teatro della propria umiliazione. Padrone per discendenza, godeva nel tornare schiavo.

Nella mente, cosa unifica i poli di questa simmetria perversa, e cosa porta all’interno di una relazione a trovarsi catturati da questa ossessiva messinscena? Di varie strade, la prima, quella più chiara allo psicologo, nasce dall’abuso. I nostri pazienti, vittime di maltrattamenti fisici o psicologici, riproducono nella vita adulta il copione che Stephen Karpman definì triangolo drammatico. Sono stati vittima, alla mercé di un persecutore ed erano alla disperata ricerca di un salvatore onnipotente. Succede se i genitori ti picchiano, violentano, tiranneggiano, ti trascurano fino al punto della non-esistenza. I tre ruoli si stampano nella mente del bambino e diventano la chiave che, da adulto, utilizzerà per decidere cosa aspettarsi dalle relazioni.

Ci amiamo? Allora chi sei per me: salvatore o persecutore? È tutto mosso dalla paura e dal bisogno di conforto. Se nella tua storia a fronte della paura hai conosciuto quelle risposte: frusta o indifferenza, riconoscerai con facilità chi le sa somministrare e in lui spererai di trovare la salvezza. Un paradosso beffardo: cercare la liberazione nel proprio carceriere, avere bisogno delle chiavi che ci liberino e implorarle speranzose proprio a chi ci aveva sbattuto nelle segrete.

Ma attenzione, la mente gioca scherzi strani. Quel bambino non impara solamente a essere vittima. Sperimentando giorno dopo giorno una relazione d’abuso, impara che il mondo è fatto di chi infligge dolore e chi lo subisce e sviluppa la fantasia che arrivi il Cavaliere Oscuro che protegge e riscatta. Da adulto il ruolo in cui ricadrà con più facilità, in piena coscienza, sarà quello di vittima. Ma automaticamente, senza premeditazione, ribalterà con tocco magico i ruoli. La donna maltrattata, pur pensandosi colei che subisce, troverà il modo di vessare l’altro. È un bolero inesorabile, che tante volte osservo nelle relazioni di coppia malate.

Anni fa curai una donna giovane, intelligente, acuta. Era incinta di un compagno che la amava e accudiva, ma era ossessionata dal ricordo dell’ex che più volte l’aveva picchiata, lasciata e poi ricercata e poi insultata e ancora picchiata. Non era lui che la perseguitava, niente stalker nel quartiere. Era lei che lo sognava, lo desiderava, apriva Facebook angosciata che un’altra le avesse sottratto il posto. Capire il perché del suo comportamento fu facile. Già dopo una seduta le suggerii che non fosse davvero innamorata dell’ex, ma ossessionata da un fantasma al quale prestava un volto. Le chiesi chi fosse l’attore della tragedia originale, non con queste parole naturalmente, il linguaggio dello psicoterapeuta deve essere semplice. Si ricordò del padre che la minacciava che avrebbe sfondato la porta se lei non si fosse consegnata spontaneamente alla punizione. Non riesco a sopprimere l’immagine di Jack Nicholson in Shining: Wendy? Sono a casa.

Una volta svelato chi era davvero che la tormentava, si rese conto che tante volte lei stessa aggrediva l’ex – che questo non sia mai giustificazione per chi commette violenza – e, con sua grande sorpresa, scoprì di tiranneggiare con richieste rabbiose e impossibili da soddisfare il nuovo compagno. Il quale, da buona pietra inamovibile, non faceva una piega e continuava ad amarla. Sorrise all’idea di sapersi persecutrice. In un anno smise di premere replay e cambiò film. So che dopo anni sta ancora insieme al nuovo compagno e hanno avuto tre figli. Non ha mai più cercato lupi cattivi.

C’è un’altra strada che porta al continuo scambio dei ruoli tra servo e padrone. Nasce direttamente dai rapporti di potere. Immaginate un genitore tirannico e allo stesso tempo disattento, che vi fa la morale e biasima ogni vostro gesto spontaneo. È possibile che veniate su preda di una frustrazione cronica ma incapaci di agire, ribellarvi e mandare al diavolo tutti per seguire la vostra strada. Nelle relazioni adulte vi vedrete tra le mani di un prepotente e il vostro comportamento sarà apparentemente sottomesso. Ma la voglia di resistere non si spegne mai, solo, la mettete in atto attraverso una sequela di rifiuti, dimenticanze, sottili sabotaggi, velate critiche mai ammesse a palmi aperti. Subite e infliggete stilettate quotidiane in un quadro in cui vi dipingete carcerati, ma lo spettatore vi vede nel costume di aguzzino.

In entrambi i percorsi, abuso e silenziosa lotta per il comando, l’unica strada proibita è quella della liberazione. È per questo che il Cavaliere Oscuro non lascia morire Joker e lo tiene appeso alla corda e Joker lo insegue per ghignargli beffardo in faccia. L’uno attore del teatro dell’altro, vittima, carnefice e salvatore e chi apparirà al prossimo giro della slot machine?

 

Crea consapevolmente! Il legame tra la pratica di Mindfulness e la creatività

Sempre più spesso la creatività è un requisito per trovare lavoro, o per migliorare il proprio; e se ci fosse un modo per aumentare le nostre capacità creative? Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questo modo potesse essere la pratica di Mindfulness.

Marta Venturini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Sempre più spesso essere creativi è un requisito per trovare lavoro, o per migliorare il proprio. Il saper trovare facilmente soluzioni creative a problemi di tutti i giorni in ufficio, a casa, a scuola può dare la cosiddetta “marcia in più”, e se ci fosse un modo per aumentare le nostre capacità creative, probabilmente un certo numero di persone desidererebbe quantomeno tentare. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questo modo potesse essere la pratica di Mindfulness. Tuttavia, i punti di contatto tra pratica di mindfulness e creatività sono oggetto di studio molto recente. Allo stesso modo, anche l’influenza che la pratica di Mindfulness può esercitare sul pensiero creativo non è ancora del tutto chiara. Con il presente articolo vorrei offrire una breve rassegna di studi che hanno come argomento il collegamento tra pratica di Mindfulness e creatività.

 

Pratica di Mindfulness e creatività: quale punto di connessione?

Prima di iniziare, è bene introdurre alcuni concetti. La Mindfulness è ormai un argomento molto conosciuto e discusso all’interno della comunità scientifica, soprattutto da parte di esperti in psicologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale, grazie al lavoro di Jon Kabat-Zinn, che nel 1979 concepì un tipo di intervento chiamato “Mindfulness Based Stress Reduction” (MBSR) e successivamente la “Mindfulness Based Cognitive Therapy for Depressive Relapse Prevention” (MBCT) (Zindel, Segal, Williams, & Teasdale, 2014).

Per quanto riguarda la creatività, sembra non esserci, al momento, una definizione condivisa tra gli esperti nel settore. Horan (2009) propose la propria, come “l’intenzione di trascendere barriere informative”. Secondo Torrance (1988), la creatività sarebbe invece l’attitudine a pensare fuori dagli schemi, a trovare soluzioni a problemi di varia natura senza utilizzare conoscenze pregresse (Torrance, 1988; in Sternberg, 2006). Infine, nell’enciclopedia Treccani (versione online), la definizione di creatività dal punto di vista psicologico verte sui concetti di pensiero divergente e di risoluzione di problemi attraverso l’insight. In ogni definizione vi è una componente intenzionale, originale, e chiaramente qualcosa che implichi produzione di nuovo materiale.

Il materiale creativo può essere reale, fisico, come un’opera d’arte, un racconto scritto, ma può essere anche un’idea, come nei casi di problem solving creativo e di insight. Tali processi di pensiero sono caratterizzati dal trovare soluzioni fuori dagli schemi, il primo, e trovare soluzioni per le quali apparentemente non si può dare una spiegazione razionale, il secondo (Ostafin & Kassman, 2012).

A partire da queste definizioni è possibile trovare un punto di connessione con la Mindfulness: la “mente del principiante”, alla quale Jon Kabat-Zinn sprona a tornare e che chi fa pratica di Mindfulness tenta di coltivare, è di natura simile a quella creativa, che trova soluzioni senza necessariamente utilizzare conoscenze già acquisite, quindi uscendo dagli schemi appresi attraverso l’esperienza: questo aspetto della creatività è definito dagli esperti “pensiero divergente” (Colzato, Ozturk, & Hommel, 2012).

 

Pratica di Mindfulness e creatività: gli insight problems

Uno studio grazie al quale è stato messo in luce il legame tra pratica di Mindfulness e creatività è quello realizzato da Ostafin & Kassman (2012). Gli autori introducono la loro ipotesi ricordando che uno degli obiettivi principali di chi fa pratica di Mindfulness è quello di diminuire il potere dell’influenza dei pensieri abituali sul proprio modo di agire. Dato che essere creativi significa soprattutto pensare fuori dai propri schemi abituali, si può ipotizzare che la pratica di Mindfulness possa facilitare la risoluzione di problemi poco ordinari, per i quali è richiesto pensiero creativo.

Ciò che è ritenuto come problema che richiede soluzioni creative è quel tipo di problemi chiamati “insight problems”, ovvero, come dicono gli autori, quei problemi che si risolvono con un “Aha!”. Questo tipo di soluzione creativa non è logica come nei problemi “non-insight”, quindi non viene raggiunta a piccoli passi attraverso la suddivisione del problema in sotto-problemi. Al contrario, chi risolve insight problems non è del tutto consapevole di come abbia trovato la soluzione.

Per il primo studio, gli autori utilizzarono la “Mindful Attention Awareness Scale” (MAAS; Brown & Ryan, 2003) per valutare la “consapevolezza mindfulness di tratto”, e tre problemi precedentemente utilizzati in letteratura per valutare la modalità di risoluzione insight. Inoltre, due ulteriori problemi vennero inclusi per valutare la capacità di risoluzione non-insight (per maggiori dettagli, vedere Ostafin & Kassman, 2012). Questa fase vide coinvolto un campione di studenti universitari, non meditatori e che non avevano partecipato a training di Mindfulness.

Sorprendentemente, i risultati confermano l’ipotesi che persone con una più alta consapevolezza di tratto fossero anche più creative nella risoluzione di problemi insight, ma non di quelli non-insight.

Nel secondo studio presentato nel manoscritto, Ostafin & Kassman (2102) decisero di introdurre una breve pratica di Mindfulness per il gruppo sperimentale, di valutare la “consapevolezza mindfulness” sia “di tratto” che “di stato”, ma anche di controllare una variabile che potenzialmente si inserisce nel rapporto tra Mindfulness e creatività. Tale variabile è l’associazione tra pratica e sentimenti positivi. Valutarono quindi i sentimenti positivi attraverso il “Self-assessment manikin” (SAM, Bradley & Lang, 1994; in Ostafin & Kassman, 2012). I partecipanti eseguirono inoltre gli stessi problemi presentati precedentemente.

I risultati replicarono il primo studio, aggiungendo un ulteriore miglioramento per il gruppo sperimentale che aveva fatto esperienza di una breve pratica di meditazione. La “consapevolezza mindfulness di tratto” risultò positivamente correlata alla capacità di risolvere problemi insight, indipendentemente dalla presenza di sentimenti positivi. Per quanto riguarda invece i problemi non-insight, la loro risoluzione non fu influenzata dalle misure di consapevolezza.

 

Diversi tipi di meditazione portano allo sviluppo di differenti aspetti del pensiero creativo?

Nello stesso anno, Colzato, Ozturk e Hommel (2012) studiarono la relazione tra la capacità creativa dei partecipanti, la meditazione basata sull’Attenzione Focalizzata, e quella basata sul Monitoraggio Aperto (Mindfulness).

Ipotizzarono che le due modalità meditative potessero mediare diversamente due aspetti del pensiero creativo: il pensiero divergente e quello convergente. Il pensiero divergente, già brevemente descritto, è il processo mentale più spontaneo per arrivare a soluzioni creative; il pensiero convergente, invece, si può avere quando viene risolto un problema grazie ad un ragionamento molto logico e focalizzato. Ad esempio, quando nei quiz televisivi viene presentata una lista di parole (“Orario”, “Agenda”, “Lavoro”) ed il partecipante deve trovarne una quarta che colleghi semanticamente le altre (“Appuntamento”).

Colzato et al. (2012) studiarono un gruppo di 19 persone, praticanti Meditazione con Attenzione Focalizzata o con Monitoraggio Aperto (Mindfulness). Il disegno sperimentale prevedeva che tutti i partecipanti prendessero parte a tre sessioni in tre settimane, ognuna delle quali poteva essere, in ordine casuale, di meditazione focalizzata, meditazione aperta o un esercizio di immaginazione (utilizzata come seduta di controllo o baseline).

In seguito, ai partecipanti veniva chiesto di completare due compiti: “Remote association task” ed “Alternate uses task”, che hanno come oggetto di studio, rispettivamente, il pensiero convergente ed il pensiero divergente. Il RAT è un test che si basa sulla capacità accennata precedentemente, ovvero di individuare un termine che collega concettualmente altri termini (ad esempio “granita”, “pattini” ed “acqua” sono collegati da “ghiaccio”). Il AUT invece prevede che al partecipante vengano mostrati diversi oggetti di uso quotidiano: lo scopo è trovare quanti più utilizzi possibili per uno stesso oggetto. In seguito alle 3 sessioni veniva misurata la percezione dell’umore (migliorato o non migliorato). Il RAT veniva analizzato in termini di risposte corrette, mentre per quanto riguarda l’AUT, venivano analizzati diversi aspetti delle risposte fornite dai partecipanti: Originalità, Fluenza, Flessibilità ed Elaborazione. La previsione degli autori era che la capacità di pensiero creativo convergente e divergente aumentassero, rispettivamente, in seguito a Meditazione con Attenzione Focalizzata e con Monitoraggio Aperto (Mindfulness).

Mentre per quanto riguarda il AUT, tre misure su quattro furono influenzate positivamente a seguito della Meditazione con Monitoraggio Aperto (Mindfulness), questo non si verificò per la Meditazione con Attenzione Focalizzata, che non cambiò significativamente la prova di RAT. Tuttavia, entrambi i tipi di meditazione influenzarono positivamente l’umore. Gli autori proposero che questa variabile potesse aver interferito con il pensiero convergente, in quanto è stato riportato in letteratura che l’umore positivo scaturito dalla meditazione (di qualsiasi tipo) agirebbe positivamente sul pensiero divergente ma non su quello convergente, che ne verrebbe alcune volte addirittura ostacolato.

Quello che si può dedurre dopo aver letto i due studi qui riportati (Ostafin & Kassman, 2012; Colzato et al., 2012) è che l’aspetto divergente del pensiero creativo sia effettivamente stimolato da modalità di meditazione di tipo aperto, non giudicante, come la Mindfulness. Quanto all’influenza che può avere il tono dell’umore in questa relazione, non c’è ancora consenso, ma dati neuropsicologici dimostrano che l’umore migliori progressivamente con la pratica di Mindfulness (Horan, 2009).

 

Neuropsicologia della meditazione e della creatività

Nel 2009 Horan pubblicò un interessante articolo riguardo ai parallelismi tra meditazione e creatività, dal punto di vista neuropsicologico. Questo articolo, oltre a fornire una spiegazione esaustiva delle componenti neurofisiologiche associate alla meditazione ed alla creatività, ci offre una base scientifica sul potenziale collegamento fra le due.

L’articolo in questione è relativo alle basi neuropsicologiche di diversi tipi di meditazione, tra i quali è inclusa la Mindfulness. Come scrive l’autore, chi fa pratica di Mindfulness assume un atteggiamento distaccato e non giudicante sui pensieri e sulle sensazioni che prova.

L’ipotesi sulla quale Horan basa la propria ricerca è che trascendenza ed integrazione siano meccanismi neuropsicologici che accomunano meditazione e creatività. Nella definizione kantiana, trascendentale sarebbe la conoscenza di qualcosa della quale non abbiamo mai avuto esperienza. Horan ritiene che lo slegarsi dalle limitazioni informative, e quindi trascendere idee e percezione, stia alla base della creatività (Horan, 2007). Le barriere informative verrebbero successivamente trasformate grazie all’integrazione di nuova conoscenza con quella che già esiste, all’interno di un contesto informativo noto.

Horan (2009) ci offre una rassegna di studi, pubblicati in letteratura, che si basano prevalentemente sull’uso dell’elettroencefalografia (EEG) come tecnica di registrazione di segnali neurofisiologici. Questi registrano e localizzano l’attività neurale associata al processo creativo o a diversi tipi di meditazione. La sua ipotesi è che sia nella creatività sia nella meditazione sia implicato un certo grado di intenzionalità a trascendere le barriere dell’informazione che noi abbiamo già, ed integrare queste esperienze di trascendenza con la realtà che viviamo. Attraverso la sua rassegna di letteratura l’autore vuole validare l’ipotesi secondo la quale la creatività sarebbe supportata dalla pratica di meditazione, in quanto entrambe sarebbero attività attentive.

Horan (2009) prende in considerazione diversi tipi di meditazione: Meditazione Mindfulness (sia Zen che Vipassana), Meditazione di Concentrazione e Meditazione Trascendentale (o Combinata). L’autore elenca una serie di cambiamenti nell’attività neurale dei meditatori, esperti e non esperti. Tra questi, è stata registrata una sincronizzazione delle onde alfa su gran parte della corteccia, che potrebbe essere la base neurale di quello stato di consapevolezza attento ma rilassato presente sia nella pratica di Mindfulness che nel processo creativo. Anche l’attività delle onde delta sembra giocare un ruolo importante sia nella Mindfulness che nella creatività, in quanto è stata associata alle reazioni emotive alle novità, tra le quali emerge soprattutto la sorpresa, ai momenti di insight creativo, ed alle attività che richiedono flessibilità cognitiva.

La flessibilità cognitiva, come riportato da Greenberg, Reiner e Meiran (2012), è associata alla creatività e può essere migliorata attraverso la pratica di Mindfulness. Attraverso il loro lavoro, gli autori dimostrarono che meditatori esperti erano meno “accecati dall’esperienza passata”, quindi trovavano più frequentemente la soluzione migliore, ovvero la più semplice, rispetto a non-meditatori al “Water jar task” (Luchins, 1942; Schultz & Searleman, 1998; in Greenberg et al., 2012). Allo stesso modo, anche persone non esperte, che però seguivano un training di alcune settimane, risultavano più cognitivamente flessibili rispetto al gruppo di controllo (Esperimento 2).

Come scrivono Ostafin e Kassman (2012), “le soluzioni di ieri potrebbero non applicarsi ai problemi di oggi”. La conoscenza pregressa non sempre aiuta a risolvere i problemi, e questo riguarda soprattutto gli “insight problems”.

 

Pratica di Mindfulness e creatività: l’importanza dell’atteggiamento da principianti

La potenzialità maggiore della pratica di Mindfulness risiede nel cambiamento rispetto al nostro approcciarci al mondo esterno ed interno. Assumendo un atteggiamento da principianti veniamo più facilmente in contatto con le novità proposte dal mondo, con curiosità ed apertura. Parafrasando una frase di Jon Kabat-Zinn (2014), chi ha una vita troppo legata alle conoscenze apprese in passato, difficilmente si farà stupire dalla dimensione dell’ignoto e farà un salto nella creatività, nell’immaginazione, nelle arti. La fissità della conoscenza pregressa agirebbe quindi come una sorta di paraocchi, o filtro, tra la nostra mente e l’esperienza. La centralità dello sforzo ad essere (o ritornare) principianti appare quindi un forte collegamento tra la pratica di Mindfulness e lo sviluppo di creatività ed immaginazione.

Negli studi che propongono una correlazione positiva tra pratica di Mindfulness e creatività, solitamente nella forma del problem solving creativo, è bene tenere sempre presente il fatto che la correlazione non significhi causalità. Potrebbe essere infatti che persone più creative siano più inclini alla consapevolezza sviluppata nel training di meditazione Zen, che assumano quasi naturalmente un atteggiamento da principianti nei confronti del mondo o che riescano ad integrare con poco sforzo la realtà esperita con il piano di conoscenza trascendentale.

Sicuramente il lavoro di ricerca in questo campo è solo all’inizio, ma sembra molto promettente e ricco di potenziali applicazioni sia in ambito quotidiano che in ambito clinico.

Il concetto di “casa” per gli studenti dopo la laurea

Uno studio condotto dalla University of British Columbia ha cercato di capire come gli studenti si muovono e percepiscono la loro casa dopo la laurea.

 

Le scelte degli studenti dopo la laurea: chi torna in patria e chi resta fuori casa

[blockquote style=”1″]Molte ricerche tendono a concentrarsi su quali poli universitari gli studenti scelgono per andare a studiare, ma pochi studi si pongono domande su dove vanno gli stessi studenti dopo la laurea. Questo studio dimostra quanto sia complessa le decisione del post laurea per gli studenti[/blockquote] ha affermato Cary Wu, autore dello studio.

Il Dr. Wu ha esaminato i dati delle interviste di oltre 200 studenti provenienti da più di 50 paesi che hanno studiato alla UBC tra il 2006 e il 2013. Studiando i dati che aveva a disposizione ha notato che gli studenti percepivano la loro casa universitaria in quattro modi differenti: come ospite, come ancestrale, come cosmopolita o come nebulosa. Questi diversi modi di percepire casa hanno influenzato le loro decisioni sul post laurea.

Secondo il Dr Wu, di solito tendiamo a pensare che le persone si allontanino dalla loro casa sulla base di un singolo fattore, come una allettante offerta di lavoro o un obbligo di famiglia. In realtà queste non sono motivazioni sufficienti.

Dallo studio infatti è emerso che, se gli studenti concepivano la loro casa universitaria come “ospite”, la loro idea era quella di rimanere. Dei 232 studenti intervistati, il 16% di loro ha deciso di fermarsi in Canada, citando legami emotivi, relazioni interpersonali, familiari ecc. In sintesi, quanto più gli studenti si sentono accolti, più alte sono le probabilità che scelgano di fermarsi in quel posto anche dopo la loro laurea.

Se la casa universitaria è vista come ancestrale, il piano degli studenti è quello di rientrare nei loro paesi di origine. E’ come se questi ragazzi avessero sempre avuto un profondo desiderio di ritornare nella loro casa d’origine, infatti circa il 27% degli studenti ha dichiarato di voler tornare a casa, soprattutto quelli provenienti dagli USA, Francia e Australia. Dopo la laurea hanno preso la decisione di rientrare in “patria”. Per alcuni studenti provenienti dalla Cina e dal Giappone, la decisione di tornare a casa è stata in parte a causa di barriere linguistiche, sociali e culturali.

Quasi il 57% degli studenti sono aperti a qualsiasi piano di migrazione. Il Dr. Wu ha detto che molti studenti prima di studiare in Canada, hanno vissuto in altri due/tre paesi diversi. Questi, secondo lo studioso, sono coloro che considerano la casa come cosmopolita perché sono in grado di sentirsi a proprio agio in qualsiasi posto.

Gli studenti che vedono la loro casa universitaria come una nebulosa, ovvero come poco chiara o come se fosse avvolta dalla nebbia dell’incertezza, hanno difficoltà ad inserirsi in qualsiasi luogo vivendo in una costante confusione causata dalla mancanza di radici.

Secondo la Dr.ssa Rima Wilkes, sociologa presso la UBC, lo studio dimostra che gli studenti non sono un gruppo monolitico e che le loro idee di casa sono diverse, così come diverse sono le persone e le esperienze che vivono.

Locus of control – Introduzione alla Psicologia

Le modalità messe in atto da una persona per poter controllare gli eventi di vita sono definite locus of control, luogo da cui si esercita il controllo.

 

Il locus of control: che cos’è e la distinzione tra locus of control interno ed esterno

Il Controllo è un concetto molto utilizzato in psicologia e psicopatologia. Esistono persone che pensano di controllare qualsiasi cosa, altre, invece, credono di essere controllati da situazioni che si verificano all’esterno. In generale, controllare significa dirigere le proprie azioni per influenzare gli esiti di un determinato accadimento. Spesso la parola controllo è preceduta da un’ altra: Locus o luogo,  che tradotto significa il posto attraverso il quale si definisce il controllo. Ognuno di noi possiede un Locus of Control, che può essere interno o esterno.

Coloro che basano il loro successo lavorativo e credono di avere pieno controllo della loro vita hanno un locus of control interno. Al contrario, le persone che attribuiscono il loro successo o il fallimento a cause esterne hanno un locus of control esterno.

In sostanza, il locus of control rappresenta l’atteggiamento mentale grazie al quale si riescono a influenzare le proprie azioni e i risultati che ne derivano.

Chi mostra un locus of control esterno percepisce gli eventi come imprevedibili,  dipende dagli altri, ha bassa autostima, scarsa autoefficacia e attribuisce i propri insuccessi al destino o agli altri.

Al contrario chi ha un locus of control interno mostra conoscenze e skill che consento di affrontare al meglio le situazioni e i problemi, pensano di poter raggiungere gli obiettivi prefissati, credono nelle loro capacità e non temono la fatica.

 

Storia

Rotter nel 1954 teorizzò il concetto di Locus of Control, definendolo un costrutto unidimensionale caratterizzato da due poli, l’ interiorità e l’esteriorità, posti lungo un continuum. Coloro che presentano un locus of control interno tendono ad attribuire i risultati ottenuti a capacità personali, sono certi di possedere competenze altamente specifiche che li rende in grado di raggiungere standard molto elevati e ritengono i risultati delle loro azioni derivanti dalle proprie abilità. Inoltre, credono che ogni azione ha delle conseguenze, per questo per cambiare gli esiti  sostengono sia necessario esercitare un controllo serrato.

Al contrario, chi presenta un locus of control esterno ritiene che le conseguenze di alcune azioni siano dovute a circostanze esteriori, per questo le cose che accadono nella vita sono fuori dal loro controllo e le azioni messe in atto sono il risultato di fattori non gestibili, come il destino e la fortuna. Queste persone tendono a incolpare gli altri piuttosto che se stessi per i risultati ottenuti. Quindi, chi ha un locus interno considera l’interiorità come  legata esclusivamente a una serie di abilità personali e se volesse ottenere risultati dovrebbe mettere in atto  sforzo e sacrificio, mentre chi ha un locus esterno sostiene che gli accadimenti siano gestiti e regolati dal fato e quindi siano fuori dal proprio controllo.

Le modalità di attribuzione di controllo si ripercuotono evidentemente sulla motivazione al successo e sulla gestione delle emozioni. Infatti, coloro che presentano un locus of control interno sono più inclini all’ansia mentre coloro che mostrano un locus of control esterno potrebbero manifestare principalmente depressione.

 

Locus of control: non più un costrutto categoriale ma dimensionale

L’ unidimensionalità del costrutto di Locus of Control, successivamente, è stato contestato da Levenson che sostenne l’esistenza di dimensioni separate tra loro e non più poli opposti di un continuum. Quindi, non più un costrutto categoriale, ma dimensionale. Partendo da questo presupposto teorico Bernand Weiner ha aggiunto alla teoria dell’attribuzione di Rotter, i seguenti due criteri:

1) la stabilità, ovvero quanto risultano durature nel tempo le cose ottenute;

2) la controllabilità, che può essere alta se dovuta alle proprie competenze, o bassa se dipende da fattori come la fortuna, le azioni degli altri, il destino, etc.

L’interazione tra i due criteri porterebbe a considerare le situazioni esterne come prevedibili [stabili] e controllabili, ottenendo in questo modo un controllo anche su situazioni apparentemente non gestibili.

Esistono, inoltre, persone con un locus of control che è una via di mezzo tra interno ed esterno. Tali individui mostrano una combinazione tra i due tipi di locus of control e sono spesso indicati come bi-loci. Essi sono capaci di gestire lo stress e far fronte alle difficoltà in maniera più efficiente ed efficace,  poiché mostrano una maggiore flessibilità nello spostarsi dall’esterno all’interno e viceversa. Le persone che possono contare sul duplice locus of control sono in grado di assumersi  maggiori responsabilità e raggiungono gli obiettivi con minori disagi emotivi.

Chiaramente, il tipo di locus of control di ciascuno risulta essere influenzato della personalità, della cultura e dalla famiglia di origine, oltre che da una serie di rinforzi positivi o negativi che si verificano durante la vita.

 

La famiglia d’origine

Lo sviluppo del locus of control deriva  dallo stile familiare e dal tipo di risorse interiori di cui ciascuno dispone.  Molte persone che presentano un locus of control interno sono cresciute con famiglie che pongono particolare attenzione all’impegno, all’istruzione, alla responsabilità e alla costanza nel raggiungere un obiettivo. Solitamente i genitori di queste persone ricompensavano i loro figli nel momento in cui riuscivano a raggiungere i risultati prefissati. Diversamente, chi ha un locus of control esterno proviene da famiglie che esercitano un basso controllo e non considerano centrale l’assunzione di responsabilità. Chiaramente col passare del tempo, e coll’avvicendarsi di situazioni di vita, è possibile che il locus si possa modificare.

 

Gestione dello stress

Per quanto riguarda il benessere psicofisico e la gestione dello stress, si è osservato che con una percezione di controllo interno è più facile fronteggiare lo stress in modo adeguato e adottare uno stile di pensiero che influenzi l’attuazione di comportamenti volti a raggiungere gli obiettivi. Di conseguenza, la reazione emotiva che ne deriva è funzionale al conseguimento dello scopo. Al contrario un controllo esterno potrebbe risultare utile a minimizzare la propria responsabilità in caso di incidenti: attribuire la responsabilità di un evento negativo a una fonte esterna permette di minimizzare l’emozione di colpa. Quindi, pensare che l’accaduto sia colpa del destino o di persone esterne, è in questo senso funzionale al benessere individuale perchè preserva dal rimuginio e permette di canalizzare le energie mentali nell’affrontare al meglio le conseguenze.

In generale, pensare di poter controllare gli eventi o ritenere che non si possa esercitare alcun tipo di controllo porta a mettere in atto comportamenti diversi e più o meno funzionali al proprio benessere. Chi ha un locus of control interno si sentirà maggiormente responsabile delle sue azioni e avrà maggiori possibilità di successo perché consapevole di avere una serie di caratteristiche e abilità, quindi assumerà una posizione attiva nell’affrontare i problemi. Invece, l’atteggiamento di un individuo con un locus of control esterno sarà passivo rispetto agli accadimenti e più orientato all’accettazione, anche quando potrebbe intervenire efficacemente nel modificarli.

 

Relazioni interpersonali

Nelle relazioni interpersonali, è adattivo possedere un locus of control interno piuttosto che esterno, perchè consente di porsi nei confronti dell’altro in modo collaborativo e volto al raggiungimento dello scopo. Si tratta di individui fiduciosi, ottimisti e pronti a prestare soccorso, se necessario. Le persone che, al contrario, mostrano un locus esterno hanno la percezione di essere prevalentemente controllati da chi sentono più forte di loro, nei confronti del quale mostrano spesso un atteggiamento di sottomissione, hanno sfiducia in loro stessi, nelle proprie capacità e presentano umore basso.

In ogni caso, non esistono soggetti che hanno esclusivamente un locus of control esterno o interno. Per questo, in un sistema di credenze equilibrato e adattivo, funzionale al benessere dell’individuo, sarebbe auspicabile possedere un mix di loci, interno o esterno, adattabili alle diverse situazioni che si verificano.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbo da ansia di malattia: diagnosi, fattori predisponenti e trattamento

La caratteristica centrale del disturbo da ansia di malattia è la paura di avere un grave malattia fisica; essa insorge a causa di una errata interpretazione di sintomi fisici minori, come una normale sensazione fisiologica, una disfunzione benigna o un disagio corporeo non indicato, generalmente, come indice di malattia (APA, 2013).

Martina Pigionatti, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Cos’è il Disturbo da Ansia di Malattia?

La preoccupazione inerente la propria salute si manifesta, saltuariamente, nella vita della maggior parte delle persone, ma quando essa diventa così persistente da compromettere il normale funzionamento sociale, lavorativo e interpersonale potrebbe trattarsi di un disturbo da sintomi somatici, in particolare di Disturbo da Ansia di Malattia.

La caratteristica centrale di questo disturbo è la paura di avere un grave malattia fisica; essa insorge a causa di una errata interpretazione di sintomi fisici minori, come una normale sensazione fisiologica, una disfunzione benigna o un disagio corporeo non indicato, generalmente, come indice di malattia (APA, 2013). Tale preoccupazione rimane inalterata nonostante la persona si sottoponga a numerosi controlli medici, i quali spesso escludono la presenza della malattia temuta. Le rassicurazioni mediche e gli esami clinici negativi non riescono a placare quest’ansia e, spesso, rischiano addirittura di aumentarla.

Se, invece, è presente una condizione medica specifica, l’individuo affetto dal Disturbo da Ansia di Malattia nutrirà comunque un’ansia e una preoccupazione palesemente eccessive e sproporzionate rispetto alla gravità della diagnosi. Le persone che soffrono di questo disturbo si allertano rapidamente riguardo la malattia: basta sentire una notizia legata alla salute in televisione o leggerla su un quotidiano, oppure venire a conoscenza del fatto che altri abbiano contratto quella malattia. Inoltre, questi individui eseguono innumerevoli check fisici, in cerca dei sintomi indicatori di malattia, o svolgono ripetute ricerche su quest’ultima, soprattutto mediante l’utilizzo di internet. Tali comportamenti non fanno altro che alimentare la credenza centrale del disturbo.

Nella maggior parte dei casi, ciò che maggiormente spaventa questi soggetti non è l’idea della morte, quanto l’immaginare le conseguenze della malattia in termini di disabilità e sofferenza.

Il disturbo può manifestarsi in differenti modalità: alcuni individui cercheranno incessantemente rassicurazioni da parte di famigliari e amici, ma soprattutto di specialisti medici; altri soggetti eviteranno qualsiasi contatto con operatori sanitari, arrivando a trascurare la propria salute, poiché spaventati da ogni elemento che possa far loro sorgere o aumentare il pensiero di malattia (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

Questi pazienti difficilmente si rivolgono a specialisti della salute mentale, è molto più probabile incontrarli in strutture mediche poiché, appunto, sono convinti di avere una malattia fisica. Accedono ripetutamente a visite specialistiche, consultando più medici per lo stesso problema, rimanendo però insoddisfatti delle cure ricevute e maturando la convinzione che esse siano inutili, che i medici non li prendano seriamente e che nessuno possa realmente aiutarli.

Alcune persone riconoscono che le loro paure sono eccessive, mentre altre rimangono convinte della fondatezza delle loro convinzioni.

Il Disturbo da Ansia di Malattia genera grandi sofferenze sia in chi ne soffre, sia nelle persone che stanno loro accanto, compromettendo le attività della vita quotidiana, interferendo con le relazioni interpersonali e famigliari, danneggiando le prestazioni lavorative e riducendo le proprie funzionalità fisiche e psichiche.

 

Criteri Diagnostici per il Disturbo da Ansia di Malattia

Fino a qualche anno fa, tale problematica era inserita nel DSM-IV-TR nei Disturbi Somatoformi ed era classificata come Ipocondria (APA, 2001). Il termine “ipocondria” ha però assunto, negli ultimi anni, implicazioni negative e, molto spesso, viene rifiutato da chi ne soffre: l’ipocondriaco viene spesso associato a un “malato immaginario”, senza però considerare la sofferenza e la disperazione che effettivamente provano questi individui (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011). Inoltre, essendo sempre più chiare le analogie fra ipocondria e disturbi ansiosi,  nella 5° edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (APA, 2013) si è preferito utilizzare la denominazione di Disturbo da Ansia da Malattia. Esso è attualmente inserito nella sezione “Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati”.

Secondo l’attuale concettualizzazione il disturbo è caratterizzato da:

  1. Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.
  2. I sintomi somatici non sono presenti o, se presenti, sono di lieve intensità. Se è presente un’altra condizione medica o vi è rischio elevato di svilupparla, la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.
  3. È presente un elevato livello di ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo il proprio stato di salute.
  4. L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute o presenta un evitamento disadattivo.
  5. La preoccupazione per la salute è presente da almeno 6 mesi, ma la specifica patologia temuta può cambiare nel corso di tale periodo di tempo.
  6. La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale.

Il manuale, inoltre, distingue tra due sottocategorie:

–              Tipo richiedente l’assistenza: l’assistenza medica è richiesta frequentemente.

–              Tipo evitante l’assistenza: l’assistenza medica è richiesta raramente.

 

Prevalenza e Costi del Disturbo da Ansia di Malattia

Per molto tempo è stato difficile stimare con precisione la prevalenza del disturbo in quanto gli studi di ricerca venivano generalmente condotti in contesti psichiatrici piuttosto che nell’ambito medico (sia specialistico che di base), ambienti dove è molto più facile incontrare questi pazienti.

Inoltre, preoccupazioni eccessive sulla propria salute sono presenti periodicamente nel corso della vita del 10-20% delle persone sane (Kellner, 1987).

Tuttavia alcuni studi indicano che la prevalenza del disturbo varia dallo 0,8% al 8,5% (Farabelli et al., 1997; Altamura et al., 1998; Creed e Barsky, 2004).

Altre stime riguardanti la prevalenza del disturbo si basano su quelle del DSM-IV-TR per la diagnosi di Ipocondria e indicano una presenza del disturbo nella popolazione generale che varia dal 1,3 al 10% (APA, 2013).

Il Disturbo da Ansia di Malattia colpisce indifferentemente maschi e femmine, in una fascia di età compresa tra i 20 e i 30 anni (APA, 2013).

Come precedentemente affermato, il Disturbo da Ansia di Malattia provoca notevole sofferenza nei pazienti, i quali si dirigono sempre più sovente a specialisti dell’ambito medico, nonostante i risultati delle visite non confermino le loro paure; essi, essendo sovrautilizzatori del sistema sanitario, comportano costi economici notevolmente elevati (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

 

Fattori predisponenti e precipitanti del Disturbo da Ansia di Malattia

Esistono alcune situazioni che possono elicitare lo svilupparsi del Disturbo da Ansia di Malattia:

–              Fattori genetici: non vi sono ricerche che dimostrino con certezza una trasmissione genetica del disturbo. Tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato che, fra i parenti di pazienti ipocondriaci, si rileva, con elevata frequenza, la presenza di disturbi somatoformi, Disturbo d’Ansia Generalizzata e Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Fallon et al., 2000; Bienvenu et al., 2000).

–              Fattori ambientali: è stato evidenziato che alcuni contesti famigliari, caratterizzati da elevati livelli di stress, conflitti e abusi, aumentino la vulnerabilità personale a sviluppare disturbi d’ansia, fra i quali il Disturbo da Ansia di Malattia (APA, 2013). Inoltre, i genitori che esprimono preoccupazioni o timori eccessivi riguardo la salute portano i figli ad adottare le loro strategie di coping disfunzionali, accrescendo la probabilità di acquisizione del disturbo (Barsky et al., 2001). Infine, la presenza di esperienze traumatiche relative a morti o gravi malattie di amici e/o famigliari correla positivamente col manifestarsi di questa patologia.

Anche i media possono scatenare l’esordio del disturbo o esacerbare le paure di chi già ne soffre, attraverso la divulgazione di informazioni riguardanti gravi malattie o pandemie, delineate come qualcosa di oscuro e inevitabile, che possono colpire casualmente chiunque (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

–              Fattori biologici: recenti studi hanno dimostrato la presenza di deficit neurochimici simili sia nell’Ipocondria che nei disturbi d’ansia e dell’umore (Brondino et al., 2008).

 

Trattamento del Disturbo da Ansia di Malattia

Per il trattamento del Disturbo da Ansia di Malattia la letteratura è esigua, numerosissimi sono invece gli studi riguardanti l’efficacia di interventi per l’Ipocondria.

Essi indicano la terapia cognitivo-comportamentale come trattamento d’elezione per il disturbo, comprovandone l’efficacia e la stabilità nel tempo (Seiwright et al., 2008; Greeven et al., 2009; Hedman et al., 2010; Torsello  e Dell’Erba, 2014). Tali interventi prevedono l’attuazione di un protocollo standardizzato comprendente, in breve:

–              una fase iniziale di assessment in cui vengono indagati comportamenti e cognizioni disfunzionali, i quali vengono attivati di fronte a uno stimolo critico e che sono implicati nella formazione e nel mantenimento del disturbo;

–              una fase di psicoeducazione del disturbo e di condivisione del modello cognitivo-comportamentale della patologia;

–              interventi cognitivi atti a ristrutturare i pensieri disfunzionali che alimentano la preoccupazione per la salute e i comportamenti associati; tali interventi hanno, inoltre, la funzione di mettere un freno a quei meccanismi cognitivi implicati nel mantenimento del disturbo (come ad esempio il rimuginio).

–              interventi comportamentali per estinguere le condotte problematiche e interrompere i circoli viziosi che intercorrono tra cognizione e comportamento; essi si basano prevalentemente sulla tecnica di esposizione e prevenzione alla risposta;

–              una fase finale di prevenzione delle ricadute e follow-up per controllare la stabilità degli esiti a distanza di tempo.

In letteratura, inoltre, sono presenti alcuni recenti studi che attestano l’efficacia di interventi cognitivi basati sulla mindfulness nel trattamento nel Disturbo da Ansia di Malattia (Lovas e Barsky, 2010; Surawy et al., 2014); essi, al protocollo sopra citato, aggiungono fasi di meditazione mindfulness e training attentivi che agiscono su rimuginio e ruminazione presenti nel disturbo.

Altri recenti studi affermano che la Terapia Metacognitiva si sta dimostrando utile al trattamento della patologia (Bailey e Wells, 2015; Caselli, 2016). Tale intervento si focalizza sulle meta-credenze, quali il rimuginio, considerate come fattore di rischio primario della malattia.

Infine, non vi sono dati in letteratura relativi a trattamenti farmacologici efficaci per il trattamento del Disturbo da Ansia di Malattia; tuttavia  i farmaci dovrebbero essere prescritti, in aggiunta al trattamento psicoterapeutico e in caso di necessità, per ridurre alcuni sintomi e disturbi in comorbilità (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

Psicoterapia del trauma e pratica clinica. Corpo, neuroscienze e Gestalt – Recensione

Il testo ruota intorno a tre perni: fenomenologia, teoria del campo e dialogo. I tre aspetti sono ben strutturati e metodologicamente spiegati dall’autrice la quale oltre che al bagaglio esperienziale e culturale del suo approccio terapeutico, si avvale anche degli influssi di varie epistemologie (psicoterapia sensomotoria, Daniel Siegel, Philip Bromberg).

 

La suddivisione del libro in 3 parti

L’asse portante risulta suddiviso, così, in tre sezioni.

Nella prima parte vengono enunciate con un linguaggio chiaro e scorrevole i principi cardini della teoria della Gestalt; l’autrice, infatti, riporta la teoresi dell’approccio (concetto di Gestalt, figura-sfondo) accompagnando la spiegazione con dei microesempi che rendono la lettura complessa e coinvolgente.

La seconda parte esemplifica gli aspetti fenomenologici  del pensiero traumatico al fine di fornirne una descrizione accurata e di catturare l’interesse non solo  del lettore “tecnico”, bensì anche del lettore “amatoriale”.

Nella terza parte, l’autrice illustra il lavoro terapeutico sia dal punto di vista della vittima traumatizzata  sia di quella del terapeuta.

Il testo, quindi,  si presta a qualsivoglia occhio per la chiarezza dei contenuti e la pregnanza dell’argomento. Le tematiche trattate, nonostante la loro architettura complessa e variegata, riescono a creare un contesto dove sia il lettore “tecnico” che  il lettore “amatoriale” possano immergersi nei meandri dell’epigenesi del trauma e dei suoi correlati.

 

Le storie narrate e la dissociazione

Esemplificativi i casi clinici presentati; infatti raccontano storie di soggetti vittime di traumi complessi  e del loro percorso di cura, connubio perfetto di aspetti tecnici e connotazioni emotive. Interessante e innovativo il modello sulla dissociazione che consente di poter viaggiare lungo il continuum  che va dalla dissociazione intesa come meccanismo difensivo al disturbo dissociativo in sé e alle sue declinazioni cliniche.

Consigliata la lettura e l’utilizzo del testo come possibile spunto e dispositivo per la comprensione e cura di questa specifica categoria di utenti.

L’agopuntura come sostegno al trattamento di dolore cronico e depressione

L’ agopuntura aiuta e potenzia l’efficacia dei trattamenti medici standard, diminuendo la gravità di patologie quali dolore cronico e depressione, secondo quanto emerso da recenti studi. Recentemente, i ricercatori dell’Università inglese di York hanno dimostrato quanto effettivamente possa essere utile l’utilizzo dell’agopuntura, e non solo grazie ad un mero effetto placebo.

 

Un programma di studi sulle pratiche a sostegno dei pazienti con patologie fisiche e mentali

Lo studio, svolto dal professor MacPherson, del Department of Health Sciences, in collaborazione con un team di studiosi inglesi ed americani, è parte del Programme Grants for Applied Research (PGfAR) del National Institute for Health Research (NIHR), programma messo in atto con lo scopo di produrre risultati empirici con applicazioni pratiche immediate che possano andare a beneficio dei pazienti con patologie mentali e fisiche. Lo scopo ultimo del programma è proprio quello di promuovere la salute della popolazione inglese, cercando di prevenire lo sviluppo di patologie e la gestione del disagio nel modo più ottimale, promuovendo la messa in atto di una serie di ricerche indipendenti.

 

L’agopuntura e le dispute sull’efficacia

L’agopuntura è una pratica di derivazione cinese volta alla promozione della salute e del benessere dell’individuo tramite l’inserimento di piccoli aghi in specifiche parti del corpo. In Italia l’agopuntura rientra tra le cosiddette “medicine e pratiche non convenzionali” ritenute rilevanti dal punto di vista sociale (FNOMCeO, 2002) e può essere praticata solo da medici e veterinari laureati, in quanto considerata un atto eminentemente medico. Nonostante alcune proposte di legge risalgano già al 1987, solo nel 2013, nella conferenza permanente Stato-Regioni, è stato emanato un accordo che regolamenta la qualità della formazione e della pratica dell’agopuntura, riconoscendo legalmente la professione di medico agopuntore e istituendo elenchi dei professionisti esercenti l’agopuntura presso gli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Regioni, Conferenza Stato, 2013).

Per anni, l’utilizzo dell’agopuntura è stato oggetto di accese dispute e perplessità riguardanti, tra l’altro, il consentirne o meno un accesso più ampio, soprattutto a fronte dell’aumento della pratica stessa come intervento medico. A tal proposito, nell’intento di dipanare una volta per tutte la diffidenza nei confronti di questa tecnica, la ricerca di MacPherson e collaboratori è stata svolta proprio allo scopo di raccogliere dati provenienti da trial clinici altamente controllati e validati, che fornissero un insieme di prove sufficientemente convincenti a favore dell’effettiva utilità dell’agopuntura a livello clinico e terapeutico, dando così modo ai professionisti della salute di prendere decisioni scientificamente validate.

Infatti, per quanto l’agopuntura risulti essere una pratica largamente utilizzata, soprattutto per la cura del dolore cronico, le prove scientifiche in merito risultano essere ancora abbastanza disomogenee e frammentarie. Fin dalla fine del XX si è assistito ad una proliferazione di ricerche empiriche volte ad analizzarne rigorosamente l’efficacia, le quali hanno però portato a risultati fra loro contrastanti, acuendo le controversie soprattutto per quanto riguarda l’efficacia della pratica a livello clinico e quanto possa essere vantaggiosa in termini di rapporto tra costi e benefici. Inoltre, dal momento che ancora molto poco si sa circa i meccanismi sottostanti il funzionamento dell’agopuntura, si è spesso pensato che potesse riguardare l’induzione di un mero effetto placebo (Ernst et al., 2007).

Proprio a tal proposito, il National Council Against Health Fraud (NCAHF) nel 1991 ha pubblicato uno studio che avrebbe dimostrato la mancanza di comprovata validità dell’agopuntura come modalità di trattamento. Nei vent’anni precedenti, infatti, la ricerca avrebbe “fallito nel dimostrare che l’agopuntura sia efficace contro qualunque malattia” e gli effetti percepiti dopo un trattamento sarebbero “probabilmente causati da una combinazione di aspettative, suggestione, revulsione, condizionamento e altri meccanismi psicologici”. Per quanto siano passati più di vent’anni da questa pubblicazione, la confusione, frequente precursore della denigrazione, e la controversia in merito all’utilizzo e all’efficacia di questa pratica resta tuttora ampia, anche a causa della messa in discussione dell’accuratezza di molti degli studi svolti (Ernst, 2006).

 

Una review sull’efficacia dell’agopuntura nel trattamento di dolore cronico e depressione

Ad ogni modo, approfittando della presenza di una vasta letteratura sul tema e selezionando solamente quella più rigorosa e validata, MacPherson e collaboratori hanno implementato una review proprio con lo scopo di analizzare i risultati di trial clinici, nello specifico 29, riguardanti il trattamento di pazienti tramite agopuntura e cure mediche standard. All’interno dei trial, i pazienti, affetti da dolore cronico, venivano trattati con una combinazione di agopuntura e cure tradizionali e confrontati con coloro i quali erano trattati solo in modo standard (ad es. farmaci anti-infiammatori, fisioterapia) o con un’agopuntura di tipo fittizio (sham). Nel complesso, i trial hanno coinvolto un totale di circa 18,000 pazienti affetti da dolore cronico di tipo muscoloscheletrico al collo o alla zona lombare, osteoartrite alle ginocchia o dolori alla testa, come emicranie e mal di testa.

Dall’analisi dei trial è stato possibile notare come l’aggiunta di sedute di agopuntura ai trattamenti tradizionali, in confronto alla somministrazione dei trattamenti in modo isolato, portasse ad una significativa riduzione della gravità e dell’intensità del dolore percepito nella zona lombare o alle ginocchia e del numero di mal di testa e cefalee.

Dalle analisi è anche emerso come l’agopuntura sembri effettivamente essere economicamente vantaggiosa, anche nel ridurre e alleviare il dolore e la disabilità date dall’artrite cronica (osteoartrite alle ginocchia), che, conseguentemente, andrebbe a diminuire notevolmente anche i livelli di dipendenza dei pazienti dall’assunzione di farmaci anti-infiammatori, assunti, spesso in quantità sempre maggiori, nel tentativo di controllare il dolore.

Infine, per quanto l’efficacia dell’agopuntura sia stata spesso almeno parzialmente associata al cosiddetto effetto placebo (Ernst et al., 2007; Linda, 1991), gli autori hanno messo in luce come l’uso dell’agopuntura nel trattamento del dolore cronico sembri essere in grado di portare ad una riduzione della sofferenza in modo significativamente più marcato ed ingente rispetto a quanto avverrebbe con l’uso di placebo (agopuntura sham).

In aggiunta a quanto emerso per il dolore cronico, il gruppo di ricerca ha implementato un ulteriore trial clinico focalizzato sull’uso dell’agopuntura nel trattamento della depressione. Questo nuovo studio, svolto nel nord dell’Inghilterra, ha coinvolto un totale di 755 pazienti depressi, sottoponendo gli stessi a sedute di agopuntura o di counseling e confrontandone l’efficacia con quella di trattamenti diversi, come l’assunzione di farmaci antidepressivi.

Analizzando i dati di quest’ultimo trial, è stato possibile notare come sia l’uso dell’agopuntura sia la fruizione di incontri di counseling sembrino essere in grado di ridurre in modo significativo la gravità dei sintomi depressivi, con una persistenza di tali benefici in media fino a 12 mesi dopo la fine del trattamento, indipendentemente da quale dei due fosse stato fatto.

Gli autori affermano che questa ricerca, la più ampia che sia mai stata svolta sul tema, può potenzialmente apportare una buona mole di dati affidabili in grado di dimostrare non solo come l’agopuntura e il counseling siano in grado di aiutare efficacemente i pazienti con episodi depressivi, ma anche come i miglioramenti ottenuti da questi trattamenti sembrino essere sufficientemente stabili anche ad un anno di distanza.

Studi empirici di questo tipo, che mostrano l’esistenza e la fruibilità di terapie alternative ed efficaci, possono risultare estremamente utili e preziose soprattutto per quanto riguarda la prassi clinica. Infatti, ad esempio, il trattamento d’elezione per la depressione comprende solitamente, soprattutto a livello di assistenza primaria, l’utilizzo di terapie farmacologiche, a volte senza nemmeno un sostegno psicoterapeutico adeguato. In circa la metà dei pazienti trattati, però, questo si rivela essere inefficace ai fini di un miglioramento, sia per resistenza al trattamento a livello fisico sia per mancanza di compliance del paziente stesso.

 

Conclusioni: l’efficacia dell’agopuntura nel trattamento di dolore cronico e depressione

In conclusione, quanto emerso, per quanto necessiti di ulteriori conferme empiriche, potrebbe considerarsi un significativo passo in avanti per quanto riguarda il trattamento di dolore cronico e depressione, chiarendo, per lo meno in parte, le annose controversie sul tema e permettendo così anche a pazienti e a professionisti della salute di fare scelte più consapevoli circa l’utilizzo dell’agopuntura. Il trattamento tramite agopuntura di dolore cronico e depressione, infatti, risulta essere vantaggioso non solo a livello di bilancio tra costi e benefici, ma anche nella riduzione sostanziale dei livelli di dolore cronico e depressione e nel miglioramento dell’umore, limitando anche la presenza di eventuali effetti collaterali, causati invece frequentemente dai farmaci (NIH, 1997).

Infine, i ricercatori hanno evidenziato come possa risultare estremamente interessante approfondire e studiare in modo più mirato i meccanismi potenzialmente sottostanti l’efficacia dell’agopuntura, in particolar modo a livello neuroendocrino. Ad esempio, Goldman e collaboratori (2010) hanno dimostrato come l’agopuntura sembrerebbe agire a livello cerebrale favorendo il rilascio di adenosina, un neuromodulatore con proprietà anti-nocicettive e analgesiche. Questo tipo di alterazione metabolica sarebbe potenzialmente in grado di spiegare anche perché questa pratica porti a benefici apparentemente stabili nel tempo.

Nel complesso, l’agoupuntura risulta un sostegno valido nel trattamento di dolore cronico e depressione.

Amore Aromantico?

Non ho mai sentito le “farfalle allo stomaco” per qualcuno, prima pensavo di essere una persona esigente, poi ho iniziato ad abbassare la guardia ed ho avuto delle relazioni sessuali ma alla fine tutto si risolve sempre con l’essere solo “amici di letto”. Come si fa a capire la distinzione fra qualche disfunzione emozionale ed essere semplicemente aromantica?

Giulia

 

Cara Giulia,

che tu sia romantica, aromantica o anche apatica l’eterno dilemma sulla natura dell’innamoramento resterà sempre un mistero; l’argomento è così ampiamente dibattuto ed esplorato che ancora oggi psicologi, neurologi, sociologi , antropologi, poeti [ecc] non sono riusciti a dare una definizione univoca che possa mettere tutti d’accordo.

Non essendo pienamente sicuri sulla natura dell’ ‘innamoramento’, non mi soffermerei troppo sulle farfalle e altri luoghi comuni sull’amore romantico. E’ inevitabile guardare alle vite altrui e chiedersi come mai a noi qualcosa non capita o se capita, domandarsi perché avvenga in modo diverso.

Trovo però altrettanto ragionevole spostare lo sguardo dal mondo esterno al nostro mondo soggettivo: quali sono le emozioni che provo nei confronti degli “amici di letto”? Desidero un coinvolgimento emotivo maggiore di quello che fino adesso sono riuscita ad avere, o no? E per quanto riguarda le amicizie, riesco facilmente ad entrare in contatto emotivo con qualcuno a prescindere dall’attrazione fisica?

Il personale percorso di introspezione e di scoperta di se stessi (e quindi anche della propria sessualità’) e’ un po come un lungo corridoio pieno di porte e sta a noi decidere quali esplorare senza aver timore di farlo nel modo “sbagliato”.

Lorena Lo Bianco

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Sindrome di Asperger e Disturbo Ossessivo Compulsivo: somiglianze e differenze

Il disturbo ossessivo compulsivo e i disturbi dello Spettro Autistico presentano diverse somiglianze e differenze. Ma che cosa fa sì che un paziente con sindrome di Asperger e un paziente ossessivo possano essere trattati come affetti da sindromi simili?

Francesca Mazzocco, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Uno studio su bambini con disturbo di Asperger o disturbo ossessivo compulsivo

Due principali motivi della doppia diagnosi o di diagnosi inesatte è dovuta alla relativa recente acquisizione e recepimento della diagnosi di Asperger (Wing, 1981) e al tardivo riconoscimento dello spettro autistico a causa del normale sviluppo della lingua nei pazienti Asperger.

Ma l´elemento più importante è forse legato alla fenomenologia di alcuni sintomi presenti nei pazienti Asperger, ossia la presenza di comportamenti, interessi e attività ristrette e ripetitive che risultano anormali per intensità e focalizzazione come può accadere nei casi più gravi di pazienti ossessivi e con esordio precoce.

Vi è, inoltre, l´adozione di abitudini o rituali rigidi, movimenti stereotipati e ripetitivi o un eccessivo interesse per parti specifiche di oggetti.

Uno studio condotto da L.Ruta, D. Mugno e altri (2010), ha esaminato la presenza e le caratteristiche di comportamenti ossessivo compulsivi nei bambini e adolescenti con sindrome di Asperger (gruppo AS) e nei bambini e adolescenti con disturbo ossessivo compulsivo (gruppo OCD) comparati con bambini e adolescenti con sviluppo tipico (gruppo di controllo, GC).

In questo studio la diagnosi di sindrome di Asperger è stata effettuata attraverso l’utilizzo di strumenti quali: “The Autism Diagnostic Interview-Revised e l’ Autism Diagnostic Observation Schedule”.  Invece, i sintomi ossessivi e compulsivi sono stati valutati utilizzando la Children’s Yale-Brown Obsessive-Compulsive Scale (CY-BOCS). Ad entrambi i gruppi è stata somministrata la WISC-R per la valutazione del QI.

Dalla somministrazione dei test è emerso che il gruppo con sindrome di Asperger presenta alte frequenze significative di alcune variabili di compulsione  (Accaparramento, Ripetizione, Ordinazione). Il gruppo con disturbo ossessivo compulsivo riporta, invece, alte frequenze significative di ossessioni Aggressive e di Contaminazione e compulsioni di Controllo rispetto al gruppo con sindrome di Asperger.

Come previsto il gruppo OCD possiede una maggiore gravità dei sintomi (Moderato livello di severità) rispetto al gruppo AS (Livello lieve di severità).

Inoltre dal seguente studio emerge come entrambi i gruppi non hanno una piena e completa consapevolezza riguardo la natura intrusiva e irragionevole dei sintomi.

Bambini con Sindrome di Asperger mostrano alte frequenze di sintomi ossessivi e compulsivi che hanno tipicamente i bambini in via di sviluppo e queste caratteristiche sembrano raggrupparsi intorno a comportamenti di Accumulo.

In particolare gli autori hanno ipotizzato che:

1)            Bambini e adolescenti con sindrome di Asperger possano sperimentare un più alto tasso di sintomi ossessivo compulsivi, rispetto ai bambini con sviluppo tipico;

2)            Pazienti con sindrome di Asperger e disturbo ossessivo compulsivo potrebbero presentare patterns differenti  di ossessioni e compulsioni;

3)            Il gruppo con Disturbo ossessivo compulsivo (OCD), potrebbe mostrare un’ alta severità dei sintomi;

4)            Il gruppo con Disturbo ossessivo compulsivo (OCD) potrebbe mostrare una migliore comprensione rispetto al gruppo sindrome di Asperger (AS).

Prima di proseguire nell’articolo, ritengo di fondamentale importanza mettere a confronto la sindrome di Asperger e il Disturbo ossessivo compulsivo.

 

Sindrome di Asperger e disturbo Ossessivo Compulsivo a confronto

La sindrome di Asperger è un disturbo neuro-evolutivo, caratterizzato da debilitanti deficit nelle abilità sociali, comunicative e da un modello limitato e ripetitivo di interessi e comportamenti, ma senza i sintomi di ritardo mentale e di ritardo del linguaggio che sono caratteristiche clinicamente significative dell’autismo classico.

Secondo il DSM-IV, la Sindrome di Asperger rientra nella categoria dei disturbi dello spettro autistico (ASD), assieme al disturbo autistico classico, al disturbo pervasivo dello sviluppo non altrimenti specificato (PDD-NOS), al disturbo disintegrativo dello sviluppo e alla sindrome di Rett.

Ma con l’uscita del nuovo Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali, viene proposta una nuova e unica categoria “Disturbo dello Spettro Autistico”, che include il Disturbo Autistico (autismo), la Sindrome di Asperger, il Disturbo disintegrativo dell’infanzia e i disturbi pervasivi dello sviluppo non altrimenti specificati. Una caratteristica importante dei criteri proposti per il Disturbo dello Spettro Autistico è un cambiamento da triade (triade autistica) a due domini: “Deficit Socio-Comunicativi” e “Schemi di comportamento fissi e ripetitivi”, i membri del gruppo di lavoro hanno osservato che i deficit del linguaggio non sono né universali nell’autismo e né devono essere considerati come una caratteristica di definizione della diagnosi.

Concettualizzare l’autismo come uno “spettro” piuttosto che una entità diagnostica categoriale è in linea con la ricerca esistente. La proposta di eliminare il disturbo di Asperger come entità clinica “distinta” è stata suffragata anche dalle difficoltà nel riuscire a delineare confini chiari che lo separassero da altri disturbi autistici. La ricerca e l’esperienza clinica suggeriscono che non vi è alcuna chiara evidenza che la sindrome di Asperger e l’autismo ad alto funzionamento siano disturbi diversi, in quanto sono maggiori le somiglianze piuttosto che le differenze.

Schemi comportamentali ripetitivi, limitati e stereotipati, così come la compromissione della comunicazione e dell’interazione sociale rappresentano le principali caratteristiche invalidanti e fondamentali della sindrome di Asperger. In particolare la gamma di interessi e attività ripetitive osservati nello spettro autistico sono ampi ed eterogenei e mostrano una differente fenomenologia, specialmente tra autismo a basso-funzionamento e autismo ad alto-funzionamento.

Nel complesso, questi comportamenti includono manierismi e stereotipie motorie, rigorose aderenze alle routines, bisogno di identità, preoccupazioni persistenti verso parti di oggetti, rituali nella vita quotidiana, interessi o abilità idiosincratiche circoscritte, ossessiva attenzione ai dettagli, di frequente bizzarri, quest’ultimo aspetto risulta essere particolarmente caratteristico della sindrome di Asperger.

Clinici e ricercatori fanno spesso riferimento a questi  comportamenti sostanzialmente in termini di tratti ossessivi e compulsivi.

Il disturbo ossessivo compulsivo (OCD) è definito nel DSM-IV come un disturbo caratterizzato dalla presenza di ricorrenti e persistenti pensieri, impulsi o immagini (ossessioni) che causano marcata ansia o marcato disagio. La persona tenta di neutralizzare tali ossessioni, eseguendo determinate azioni o rituali, definiti compulsioni.

Il disturbo ossessivo compulsivo interferisce significativamente con la routine quotidiana e il funzionamento lavorativo o scolastico e danneggia il rapporto sociale e familiare.

Come detto in precedenza, dallo studio condotto da L.Ruta, D. Mugno et al. (2010), alte prevalenze di tratti autistici sono stati trovati in campioni di OCD sia in adulti e sia in bambini e alcune evidenze sperimentali ci suggeriscono che i trattamenti efficaci per il disturbo ossessivo compulsivo possono essere efficaci anche per i pensieri e i comportamenti ripetitivi caratteristici della sindrome di Asperger (5, 6).

Nel loro insieme queste evidenze sperimentali indicano chiaramente un legame e una parziale sovrapposizione tra i due disturbi. Tuttavia l’applicazione dei concetti del disturbo ossessivo compulsivo (OCD) allo spettro autistico in termini di categoria diagnostica o di dominio bidimensionale è attualmente controverso. Infatti anche se la fenomenologia clinica del disturbo ossessivo compulsivo può essere simile nei due gruppi, gli individui con ASD tendono a non mostrare disagio associato ai loro pensieri ossessivi senza eseguire rituali per alleviare l’ansia. Questo dato potrebbe essere spiegato dal fatto che le persone con autismo hanno poca consapevolezza riguardo la natura eccessiva e irragionevole dei loro comportamenti e pensieri ossessivi (insight), in quanto la loro capacità di elaborare e parlare dei propri stati mentali risulta compromessa (2).

Tuttavia anche se la comprensione rappresenta una caratteristica distintiva del disturbo ossessivo compulsivo in età adulta, ciò non si applica ai bambini che possono non avere sufficiente consapevolezza cognitiva nell’effettuare giudizi (3,9).

Studi che hanno messo a confronto  i comportamenti ripetitivi nei bambini con sindrome di Asperger (ASD) e con disturbo ossessivo compulsivo (OSD) sono pochi.

Uno studio (7), ha utilizzato la Yale-Brown Obsessive Compulsive Scale per identificare la presenza di “Hoarding” (accaparramento), “Touching/Tapping/Rubbing” (Toccare, Sfregamento), “Self-damaging” (Autolesionismo) e l’assenza di “Aggressive” (pensieri aggressivi), “Symmetry”, “Checking” (Controllo) e “Counting” (Conteggio) nella sindrome di Asperger, invece una differente gamma di sintomi ossessivi compulsivi sono stati riportati per essere approvati nei due gruppi.

Tuttavia una differenza tra i due gruppi potrebbe essere rappresentata da una discrepanza nel QI (QI significativo = 69.7 nel gruppo ASD contro QI nella media del gruppo OCD) e da un significativo disturbo del linguaggio in un sottogruppo di soggetti con sindrome di Asperger (AS) (15 soggetti erano non verbali).

Un altro studio (10) ha confrontato adulti con autismo ad Alto-Funzionamento (HFA) e con sindrome di Asperger (AS) con un campione di pazienti con disturbo ossessivo compulsivo (OCD). Gli autori hanno trovato un modello simile di ossessioni e compulsioni nei gruppi HFA/AS e OCD, ed è stato inoltre, osservato che il 25% di soggetti con HFA riceve una diagnosi formale di Disturbo Ossessivo Compulsivo secondo i criteri dell’ICD-10 (14).

In letteratura è presente solo uno studio indirizzato all’infanzia (15) che confronta bambini con autismo ad alto-funzionamento (HFA) e con disturbo ossessivo compulsivo (OCD) su una serie di comportamenti ripetitivi. Ai fini dello studio, Zandt e al., hanno somministrato il “Repetitive Behaviour Questionnaire (RBQ) e la Children’s Y-BOCS (CY-BOCS) come un complemento del RBQ. Dal test RBQ, è emerso che bambini con disturbo ossessivo compulsivo e sindrome di Asperger hanno tassi simili riguardo i comportamenti ripetitivi e i movimenti ripetitivi. Dalla somministrazione della CY-BOCS il gruppo con disturbo ossessivo compulsivo ha mostrato più frequenti e sofisticate ossessioni e compulsioni rispetto al gruppo HFA ed entrambi i gruppi hanno mostrato maggiori ossessioni e compulsioni di un gruppo di confronto in via di sviluppo.

In relazione ai dati limitati presenti in letteratura, la logica dello studio è stata quella di indagare in modo sistematico la presenza di tratti ossessivo compulsivi nei bambini con sindrome di Asperger.

Si è ipotizzato che alcuni bambini e adolescenti con sindrome di Asperger potrebbero presentare modelli particolari e livelli sconvolgenti dei sintomi ossessivi e compulsivi, probabilmente sottostimati a causa della mancanza di attenzione su questa particolare caratteristica psicopatologica.

 

Discussione

I risultati suggeriscono che bambini e adolescenti con sindrome di Asperger (AS) mostrano alte frequenze di sintomi ossessivi e compulsivi rispetto ai bambini con sviluppo tipico. Le categorie significative emerse sono quelle di Saving/Hoarding, Repeating e Ordering.

Immagine: ossessioni

 

Immagine-2: compulsioni

Questo risultato è in linea con la prima ipotesi e ragionevolmente coerente con i dati riportati in letteratura (15), ossia che i bambini con disturbo ossessivo compulsivo e sindrome di Asperger riportano molte ossessioni e compulsioni rispetto ai bambini con sviluppo tipico.

Coerentemente con la seconda ipotesi, bambini e adolescenti con sindrome di Asperger e disturbo ossessivo compulsivo sono impegnati in differenti e frequenti tipi di pensieri e comportamenti.

In particolare il gruppo OCD riporta alte frequenze significative di ossessioni Aggressive e di Contaminazione e compulsioni di Controllo rispetto al gruppo AS. A sua volta il gruppo AS possiede alte frequenze leggermente superiori (ma non statisticamente significative) rispetto al gruppo OCD riguardo ai clusters di Saving/Hoarding e Ordering ( Risparmio/Accaparramento e Ordinazione).

Questi risultati rispecchiano quelli di McDougle et al. (7) i quali affermano che negli adulti con disturbo ossessivo compulsivo sono presenti ossessioni caratteristiche di Contaminazione, Aggressive e Simmetria e comportamenti compulsivi come Controllo e Pulizia, invece comportamenti di Hoarding e Ordering (Accaparrramento e Ordinazione) sono presenti negli adulti con disturbi dello spettro autistico.

Rispetto alla terza ipotesi, la gravità dei sintomi ossessivo compulsivi era significativamente più alta non solo nel gruppo con disturbo ossessivo compulsivo (Moderato range di gravità), ma anche tra i bambini con sindrome di Asperger che hanno mostrato una compromissione clinica lieve.

In contrasto con l’ipotesi finale non sono state riscontrate differenze tra bambini con sindrome di Asperger e bambini con disturbo ossessivo compulsivo riguardo il loro grado di consapevolezza dei loro sintomi ripetitivi, tranne che per il livello di comprensione (insight), assente nei bambini con AS dove era molto più significativo.

 

Conclusioni

Dallo studio di L. Ruta, Mugno et al. (2010) e dai dati presenti in letteratura, una questione si solleva riguardo al fatto se i sintomi ossessivo compulsivi nei soggetti con sindrome di Asperger possano essere considerati come una comorbilità secondo un approccio categoriale oppure se possano essere considerati come un continuum di sintomi attraverso condizioni diverse in una prospettiva dimensionale.

Ulteriori ricerche sono necessarie per capire meglio le caratteristiche dei pensieri e comportamenti ripetitivi nella sindrome di Asperger e per chiarire le basi neurobiologiche alla base di questi sintomi.

Shameless (TV Series): ritratto di una famiglia moderna tra forme del trauma e della resilienza

È necessario oggi fare i conti con la modernità e con i nuovi modi di raccontare la famiglia, ci viene così in aiuto Shameless, una delle serie tv più intelligenti degli ultimi anni, con i suoi personaggi senza pudore che hanno il potere di farci riconoscere la nostra fallibilità ma anche la nostra incredibile capacità di adattarci.

 

Da sempre cinema e letteratura hanno messo su schermo, e su carta, storie familiari cariche di vicende intense, di sentimenti contrastanti e di tutti quegli elementi che ciascuno eredita col susseguirsi del tempo e delle generazioni.

È necessario oggi fare i conti con la modernità e con i nuovi modi di raccontare la famiglia, la sua struttura sempre più mutevole, le sue vicissitudini sempre più spietatamente vicine a problemi attuali e reali. Ci viene così in aiuto Shameless, una delle serie tv più intelligenti degli ultimi anni, con i suoi personaggi senza pudore che hanno il potere di farci sentire un po’ più umani, di farci riconoscere la nostra fallibilità ma anche la nostra incredibile capacità di adattarci e sopravvivere di fronte al cambiamento.

Prima di proseguire nell’analisi di Shameless e della vita familiare dei Gallagher, si avvisano i lettori che non hanno ancora avuto modo di completare la visione degli episodi finora andati in onda che l’articolo contiene riferimenti espliciti alle trame delle sette stagioni della serie.

La buona notizia, per tutti i fan, è che Shameless sarà rinnovata per un’ulteriore (ottava) stagione.

La famiglia Gallagher, protagonista della serie tv Shameless – remake made in USA di un prodotto televisivo britannico – è una famiglia totalmente disfunzionale che ha trovato il suo personalissimo modo di funzionare. Il futuro non è roseo per chi, come loro, vive appieno la vita della periferia, il South Side di Chicago per la precisione. È in questo contesto che dobbiamo immaginarci i Gallagher: uno scenario un po’ grigio, decadente, con le sue case malandate, i bar in cui si vedono sempre le stesse facce, i treni affollati della metropolitana, la dedizione al crimine, la ricerca continua di un modo per ottenere qualcosa, qualsiasi cosa, da questa vita.

 

Shameless: analisi psicologica dei personaggi e delle dinamiche relazionali

Frank, “capofamiglia”, è un padre assente e troppo presente al tempo stesso. Incapace di assolvere le responsabilità che il ruolo genitoriale comporta, alcolista cronico, è però sempre presente nella vita familiare e la complica nel tentativo perenne di trarre vantaggi – principalmente economici – da ogni situazione al fine di “finanziare” le proprie dipendenze.

Più volte negli episodi di Shameless ci si riferisce a questo padre come ad un narcisista: appellativo coerente con il suo comportamento ma anche con la sua predisposizione alla dipendenza, dall’alcol in primis, che ha ricadute significative sul piano delle relazioni. In termini psicodinamici, ad esempio, l’alcolista viene descritto come un individuo i cui “rapporti interpersonali rimarranno caratterizzati dalla dipendenza; gli altri continueranno ad essere appoggi narcisistici esterni necessari per ‘tenere’ insieme i pezzi del sé; saranno oggetti parziali come nel periodo neonatale quando l’individuo intrattiene la sua prima relazione con il seno materno e non è capace di tollerare le frustrazioni” (Rossi, Schirone, 2003, p. 34).

Frank si lega a Monica, anche lei dedita all’assunzione di alcol e sostanze, ma con una caratteristica ulteriore che porta con sé diverse e importanti conseguenze: una diagnosi di disturbo bipolare. Monica scompare e riappare spesso nelle vite dei Gallagher; è fonte di problemi, di delusioni per i suoi figli che ad ogni suo ritorno ricadono nell’illusione di aver ritrovato quella figura materna che non c’è mai stata. Il senso di abbandono è quindi ricorrente e riedito, si spinge fino all’estremo quando i figli di questa insolita coppia agiscono un convinto rifiuto nei confronti di entrambi i genitori e delle loro crisi quasi-letali.

La necessità di far fronte a questa assenza di figure significative spinge la primogenita, Fiona, ad assumere il ruolo di genitore, fino a diventare il tutore legale dei suoi fratelli. Non senza rimpianti Fiona vive questa scelta perché la costringe a rinunciare alla propria vita. Intrattiene relazioni difficili con soggetti altrettanto difficili e si perde anche lei, come tanti in quella periferia, nei comportamenti rischiosi e negli eccessi. Non smette però di cercare il riscatto e la sua tendenza al rischio la porta a prendere decisioni che si riveleranno tutt’altro che fallimentari.

Uno dei personaggi più complessi di Shameless è certamente Ian, che deve affrontare la propria omosessualità e la fatica di vivere questo lato di sé in una realtà “dura” come quella del South Side. Vinta questa prima battaglia gli si presenta, però, una nuova sfida, qualcosa con cui dovrà convivere, l’unico lascito di sua madre Monica: il disturbo bipolare. È utile ricordare come tale disturbo presenti infatti una componente di familiarità. Una storia familiare di disturbo bipolare rientra tra i maggiori fattori di rischio per lo sviluppo della patologia (American Psychiatric Association, 2013).

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DELLA SERIE

Lip ricalca invece le orme del padre quando l’abuso di alcol lo porta ad essere espulso dal college e a perdere, così, la sua unica possibilità di riscattarsi ed emergere da quel contesto. Cede ai suoi impulsi più aggressivi e, anche dopo aver affrontato un programma di riabilitazione, ricade nel vizio e sembra arrendersi al suo destino. Un personaggio che mette in scena una perenne lotta interiore tra la voglia di salvarsi e la scelta, più facile, di lasciarsi andare.

Anche i personaggi di Shameless più giovani, Carl e Debbie, portano i segni di quel nucleo familiare stravolto. Carl è un ragazzo da sempre attratto da contesti e compagnie devianti, da comportamenti distruttivi; trova la sua vocazione nelle attività criminali e finisce in riformatorio. Solo dopo questa esperienza si risveglia in lui il desiderio di cambiare, di investire quella voglia di dominare sugli altri diventando, un giorno, un uomo di potere ed entrando all’accademia militare. Inizialmente Carl sembra presentare un disturbo della condotta “da manuale”, con la sua caratteristica violazione di norme e regole, danni a persone, cose, uso di armi e comportamento ripetutamente aggressivo e minaccioso (APA, 2013), passibile di sfociare in un disturbo della personalità di tipo antisociale.

A questo proposito è interessante il contributo di Mancini, Capo e Colle (2009) i quali hanno esaminato le teorie interpretative del Disturbo Antisociale, tra cui quella che lo vede legato a specifiche esperienze di apprendimento relative alla percezione dell’autorità. Tra gli altri, gli autori citano alcuni studi (Nigg & Hinshaw, 1998; Harnish, Dodge & Valente, 1995; Lovejoy et al., 2000) a sostegno della tesi secondo cui le madri di soggetti antisociali presentino spesso livelli significativi di depressione che comportano interazioni problematiche e scarsamente positive/affettive col bambino, nonché una mancanza di controllo. “Inoltre i figli di uomini che abusano di sostanze manifestano alti livelli di aggressività molto più spesso rispetto ai figli di padri che non fanno uso di droghe e alcol (Malo & Tremblay, 1997, cit. in Mancini, Capo & Colle, 2009). Tale correlazione sembra avere a che fare con l’imprevedibilità delle reazioni emotive e comportamentali e con l’aggressività espresse dai genitori che abusano di sostanze” (Mancini, Capo & Colle, 2009, pp. 172-173).

La coppia Frank-Monica sembra presentare proprio queste caratteristiche, ma Carl, nel corso delle stagioni, rivela un lato nuovo che lo porta ad abbandonare (in parte) le vecchie abitudini, a riavvicinarsi ai fratelli e ad immaginare per sé un futuro diverso.

Contrariamente al resto della prole, Debbie esprime più apertamente la propria sofferenza dettata dal senso di abbandono e il desiderio di una famiglia “normale”. Si prende spesso cura del padre e persino della madre quando questa fa le sue apparizioni destinate a durare ben poco. Nella sua ricerca disperata di amore e accudimento cerca volutamente una gravidanza all’età di soli 16 anni, ma si ritrova ancora una volta sola, stavolta con la sua bambina e con delle nuove responsabilità.

A questo proposito risulta interessante il lavoro di Miller, Benson e Galbraith (2001) i quali hanno sintetizzato e raccolto gli studi effettuati nel corso di circa due decadi sul rapporto tra gravidanza in adolescenza e relazioni familiari. Da questa review della letteratura scientifica sul tema emergono, infatti, tra i fattori di rischio, l’assenza di supporto e supervisione genitoriale, nonché variabili legate al contesto socio-economico. Per cui il rischio di gravidanza precoce sarebbe associato anche allo status sociale e al contesto di vita: ad esempio, vivere in quartieri poveri e pericolosi, appartenere ad una famiglia in cui uno dei genitori è assente o in cui si è a contatto con fratelli e sorelle maggiori sessualmente attivi.

Infine in Shamless abbiamo Liam, il più piccolo dei fratelli, vive passivamente i tumulti incessanti della famiglia, ne è inconsapevole data la sua tenera età. Viene messo in pericolo più volte per via della noncuranza genitoriale e di quello stile di vita a base di eccessi che per i Gallagher è pura routine.

 

Il trauma e la resilienza in Shameless

Shameless è quindi la storia di una famiglia moderna che, seppur a tratti estremizzata e caricaturale, conserva elementi di realtà. I suoi personaggi non sono eroi nel senso più tradizionale del termine ma, a modo loro, hanno il potere di adattarsi e di sopravvivere; per questo motivo ogni episodio può far riflettere, commuovere e sorridere, tutto nel corso di 50 minuti: una versione condensata della vita reale in cui non sempre le cose vanno come vorremmo, ma nonostante tutto ci sono momenti che ci riportano a ciò che conta davvero.

I Gallagher sono “resistenti”, eppure quello che hanno vissuto e vivono è una forma di trauma, un trauma ripetuto e, principalmente, un trauma relazionale. Esiste, infatti, una concezione dell’evento traumatico in termini evolutivi che si discosta dalla classica interpretazione del trauma in termini oggettivi relativi alla gravità di un evento riconoscibile e osservabile. Traumatica può essere anche “la qualità della rappresentazione emotiva di un’esperienza relazionale non simbolizzabile, che può operare come nucleo mentale dissociato all’interno dei processi psichici del soggetto” (Caretti, Craparo, Ragonese, Schimmenti, 2005, p. 176).

Si può quindi parlare di un esempio moderno e realistico di resilienza? Probabilmente no! O almeno, non nel senso più puro del termine. Le vite di questi personaggi sono segnate profondamente da alterazioni psicopatologiche dell’umore, della personalità, del controllo degli impulsi, ecc… Il termine resilienza però, etimologicamente, può significare anche “tornare indietro”, non nel senso di arrendersi e ritirarsi/ripiegarsi su se stessi, piuttosto racchiude in sé l’idea di flessibilità, la capacità dell’individuo di “annullare” l’evento negativo (Loriedo, 2005).

Come canta la band The High Strung nella sigla iniziale di Shameless: “Think of all the luck you got!”. Forse è questo il segreto dei Gallagher, sentirsi fortunati anche di fronte alla cattiva sorte, restare uniti anche quando ognuno sembra pensare per sé, capovolgere il corso degli eventi trasformando la fragilità in risorsa.

Split (2016) – Cinema & Psicoterapia

Nel film Split, Kevin, un uomo con 23 diverse personalità, rapisce tre ragazze. I tentativi di fuga delle sventurate sono vani mentre le diverse identità del protagonista combattono per venire alla luce, alcune in particolare si contendono il controllo delle altre.

Split (2016) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #39 di Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

Split (2016) Trama del film

Scritto e diretto da M. Night Shyamalan. Interpretato da J. Mc Avoy, Anya Taylor-Joy, J. Sula, B. Buckley, H. Lu Richardson.

Nel film Split, Kevin, un uomo con 23 diverse personalità, rapisce tre ragazze. I tentativi di fuga delle sventurate sono vani mentre le diverse identità del protagonista combattono per venire alla luce, alcune in particolare si contendono il controllo delle altre. La dottoressa Fletcher, psichiatra di fiducia di Kevin, cerca di lavorare per integrare le personalità multiple che cercano di proteggere Kevin, ma una di esse con il tempo cercherà di materializzarsi e prendere il sopravvento sulle altre.

Qual è lo scopo del rapimento delle ragazze? Cosa accadrà quando emergerà il mostro, “The Beast”, che si nasconde nel profondo della psiche? Le diverse personalità possono rappresentare un privilegio, come in alcuni passaggi del film Split sembra suggerire la psichiatra, per andare oltre la singola esistenza, o manifestano le infinite potenzialità del cervello? E la violenza, il dolore e la sofferenza meritano solo un giudizio di condanna o chi ha sofferto è più evoluto come sostiene il protagonista?

Il twist porta lo spettatore dal realismo descrittivo di un grave disturbo psichico alla fantasia implausibile di un finale tutto da scoprire.

La trama di Split riprende la storia vera di Billy Milligam romanzata da Daniel Keyes in The Minds of Billy Milligan.

William Stanley Milligan, meglio conosciuto come Billy Milligan, fu arrestato nel 1972 per aver rapito, violentato e rapinato tre studentesse. Durante le varie fasi processuali si scoprì che il ragazzo soffriva di disturbo dissociativo dell’identità ed emersero le varie personalità di Billy, ben 24.

Il disturbo si manifestò sin dall’età di quattro anni, probabilmente a seguito delle violenze inflitte dal patrigno e si sviluppò fino a disgregare la sua personalità in ventiquattro identità diverse. Billy avvertiva solo vuoti di memoria e non aveva consapevolezza dei momenti vissuti dalle altre personalità, né tanto meno delle loro azioni. La sua vita fu un susseguirsi di tentati suicidi, ricoveri in ospedali psichiatrici, stati di confusione, aggressioni, stupri, sequestri, furti e rapine. Furono formulate diverse diagnosi: nevrosi isterica con aspetti passivo-aggressivi, schizofrenia acuta, disturbo di personalità multipla, quest’ultima diagnosi gli permise di essere prosciolto dai capi d’accusa per infermità mentale.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER di SPLIT (2016):

 

Motivi d’interesse

La caratteristica che definisce il disturbo dissociativo dell’identità è la presenza di due o più stati di personalità distinti (Criterio A DSM5) e ricorrenti vuoti nella rievocazione di eventi quotidiani, di importanti informazioni personali e/o di eventi non riconducibili a normale dimenticanza (Criterio B DSM5). I sintomi procurano disagio clinicamente significativo e compromissione del funzionamento del soggetto, il disturbo non è una parte normale di una pratica culturale o religiosa largamente accettata e i sintomi non sono attribuibili agli effetti fisiologici di una sostanza o a una condizione medica (Criteri C, D, E DSM5).

Il protagonista del film Split è stato esposto a maltrattamenti ripetuti e continui da parte della madre durante l’infanzia e abbandonato dal padre. Anche Casey, una delle ragazze rapite è stata abusata ripetutamente dallo zio paterno.

Il care-giver è una figura che rassicura il bambino e gli consente di esplorare il mondo in sicurezza. Quando questa figura di riferimento è minacciosa, addirittura abusante, possono emergere rappresentazioni di sé in relazione all’altro frammentate e dissociate.

Esperienze traumatiche cumulative in cui la vittima è impotente rispetto alla possibilità di sottrarsi ad una forza soverchiante generano un trauma psichico. La risposta a questo trauma complesso ripetuto nel tempo può portare alla disgregazione dell’identità.

Si stabilisce un vero e proprio distacco dall’esperienza di sé e del mondo esterno e un deficit delle funzioni metacognitive che comporta un’interruzione dell’autoconsapevolezza e della capacità di ordinare in modo coerente e integrato l’esperienza. Ne deriva la molteplicità non integrata degli stati dell’io che caratterizza la dissociazione patologica (Liotti e Farina, 2011).

In Kevin non siamo in presenza di fenomeni di detachment, ma di compartimentazione delle funzioni quali la memoria, lo schema e l’immagine corporea, la regolazione delle emozioni che vanno ad alterare la struttura della personalità dell’individuo e l’unità dell’identità (personalità multiple alternanti) (Liotti e Farina, 2011).

Le strategie che sono messe in atto da Kevin in Split sono di tipo controllante, e hanno come obiettivo di proteggersi da caos, impotenza, paura che sono caratteristiche della disorganizzazione. Le personalità prevalenti assumono il controllo per proteggerlo, in particolare Dennis, con marcati tratti ossessivi si assume questo ruolo controllante-punitivo con atteggiamenti ostili, dominanti e umilianti, mentre Patricia e Hedwig, un bambino di nove anni, sono controllanti accudenti con condotte in parte protettive nei confronti delle ragazze.

Le strategie di Kevin sono delle difese che vorrebbero impedire alla Bestia di emergere, e sono anche difensive rispetto al riemergere del triangolo drammatico vittima, persecutore, salvatore. Il triangolo drammatico del protagonista è parallelo a quello di una delle ragazze rapite che sarà l’unica a salvarsi dalla Bestia, ma anche ad agire da carnefice e in parte da salvatore nei suoi confronti (Liotti, 2004, 2011). Casey ha sofferto, porta sul suo corpo le cicatrici della sua sofferenza e questo la rende pura, più evoluta.

Nel film Split, la dottoressa Fletcher costruisce una discreta alleanza, ma non riesce a stabilizzare il paziente e nonostante lavori sulle memorie traumatiche di Kevin l’integrazione degli stati dell’io dissociati non va a buon fine, la loro separatezza dalla coscienza e dalla memoria produrrà effetti drammatici.

 

Split: indicazioni d’utilizzo

La visione di Split può essere utile agli allievi delle scuole di formazione in psicoterapia.

Le conseguenze a breve e a lungo termine prodotte dalle esperienze violente: il mondo delle rappresentazioni mentali della vittima di maltrattamento infantile

Le conseguenze psicologiche del maltrattamento infantile sono complesse, di entità differente in ciascun caso, e variano in relazione all’età del bambino, alla tipologia, alla durata, alla gravità degli episodi di abuso, al grado di familiarità tra la vittima e l’abusante e al tipo di supporto che riceve dalle figure di riferimento

Caterina Micalizzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

 

Le conseguenze psicologiche in caso di maltrattamento infantile

Il maltrattamento infantile può produrre nei bambini conseguenze di varie entità a breve, ma anche a lungo termine. Le ricerche hanno confermato una relazione significativa tra maltrattamento infantile e depressione, disturbi d’ansia, disturbi alimentari, disfunzioni sessuali, disturbi dissociativi, disturbi della personalità, disturbi post traumatici e abuso di sostanze stupefacenti.

Negli ultimi anni, inoltre, le ricerche hanno permesso di evidenziare anche la presenza di una stretta relazione tra il maltrattamento infantile, in particolare l’abuso sessuale, e i disturbi psicotici (Janssen et al., 2004). Nello specifico, le vittime di violenza hanno maggiore possibilità, rispetto alla popolazione generale, di presentare sintomi, quali allucinazioni di natura visiva, uditiva, o le voci di commento, i deliri e i disturbi del pensiero, sintomi di internalizzazione ed esternalizzazione e disturbi nell’attaccamento. I bambini vittime di abusi e maltrattamenti, punizioni ingiuste e prepotenze, vivono un problema di deformazione dei sentimenti di fiducia in sé stessi e negli altri e nell’espressione delle emozioni empatiche.

Ciò che caratterizza un evento di abuso perpetrato nelle prime fasi evolutive è l’irruzione, durante il percorso di crescita di fattori nocivi ed intrusivi, che possono influenzare profondamente e negativamente la strutturazione della personalità del bambino o dell’adolescente, provocando nel minore una condizione di estrema vulnerabilità emotiva e di confusione, che nel tempo può associarsi ad una molteplicità di manifestazioni sintomatologiche, come uno stato di ansia, bassa autostima, depressione, difficoltà scolastiche, problemi di somatizzazione.

Le conseguenze psicologiche del maltrattamento infantile sono complesse, di entità differente in ciascun caso, e variano in relazione all’età del bambino, alla tipologia, alla durata, alla gravità degli episodi di abuso, al grado di familiarità tra la vittima e l’abusante e al tipo di supporto che riceve dalle figure di riferimento (Fish & Scott, 1999).

Dallo studio di Tambone, Cassibba, Luchinovich e Godelli (2009), che hanno utilizzato il test proiettivo di Rorschach per rilevare le conseguenze psicologiche dell’abuso sui minori, nelle sue molteplici forme, emerge che in questi bambini vi è una chiusura difensiva e difficoltà nel mettersi in gioco, evitando il contatto con i contenuti traumatici profondi. Tali bambini vittime di abuso presentano una condizione psicologica estremamente complessa e disturbata. Essi prendono coscienza della loro condizione ma non hanno gli strumenti cognitivi, né le risorse psicologiche per attribuire elementi di qualificazione alla realtà, in quanto presentano un’immagine povera della realtà, priva di elementi dinamici e vitali. In essi si evidenzia una persistenza di sensazioni di tristezza e apatia, dovuta nella maggior parte dei casi dall’incapacità o impossibilità a vivere, simbolizzare e verbalizzare le proprie emozioni.

 

Maltrattamento infantile e sindromi dissociative

L’esperienza di maltrattamento può produrre sindromi dissociative, in particolare quando l’abuso è stato consumato durante l’infanzia (Putnam, 2001). Subire un abuso può arrecare una sofferenza emotiva tale da produrre contenuti ideativi con conseguenti difese di carattere dissociativo. Le conseguenze psicopatologiche dell’abuso sono gravi e profonde, coinvolgendo diversi livelli di funzionamento psicologico, tra cui il pensiero, le emozioni, le relazioni interpersonali, tolleranza dello stress, e causando molteplici conseguenze psicologiche come frequenti ricordi dell’evento traumatico, disturbi dissociativi, comportamenti regressivi, alterazione del livello di vigilanza, per cui scarsa attenzione, concentrazione e iperattività, diminuzione del rendimento scolastico, impulsività, esitamento e sentimenti di solitudine.

Maggiori difficoltà affettivo-relazionali si presentano nelle vittime il cui abuso è avvenuto in età precoce ( Armsworth & Holaday, 1993). Alcuni studi evidenziano che i bambini in età preadolescenziale sono più vulnerabili rispetto agli adolescenti e che dopo l’abuso si rilevano maggiori effetti pervasivi (Kendall-Tackett, Williams, & Finkelhor, 1993).

L’esperienza traumatica dell’abuso apporta sofferenza e dolore tale da provocare un effetto disorganizzante della personalità. Il processo di disorganizzazione del pensiero che si evidenzia nelle persone che hanno subito maltrattamento infantile è probabilmente funzionale all’integrazione e all’elaborazione dell’evento doloroso.

Tale disorganizzazione sembra essere riconducibile ad un meccanismo difensivo di regressione adattiva (Kris, 1952), che consente un arretramento verso livelli di funzionamento psichico primitivi che consentono a pensieri e sentimenti intollerabili, di arrivare a stati di consapevolezza maggiori per essere elaborati. Per cui il processo di disorganizzazione può essere considerato come uno strumento curativo naturale, che permette una riorganizzazione ed un’integrazione delle esperienze inattese e dolorose, quindi livelli moderati di distorsioni cognitive possono essere considerati indicatori prognostici di processi riparativi e curativi.

 

Le conseguenze del maltrattamento infantile sulla socialità

L’ esperienze di maltrattamento infantile interferiscono sullo sviluppo positivo del bambino, compromettendone vari aspetti come la socialità, l’interazione con i pari e con gli adulti. L’esposizione continua alla violenza porta ad uno sviluppo distorto dell’immagine di sé, a condotte antisociali, a disfunzioni nelle emozioni e alla messa in atto di comportamenti dissociativi. La violenza porta spesso ad alterazioni della percezione, ad una mancata comprensione degli stati emotivi e delle intenzioni altrui.

Tra le principali e frequenti conseguenze del maltrattamento infantile vi sono le alterazioni delle regolazioni emotive e delle emozioni sociali. I bambini maltrattati sviluppano un’immagine di sé negativa, e già all’età di due/ tre anni, tendono a mostrare reazioni emotive intense, e sono riluttanti ad accettare se stessi in termini positivi (Shaffer 1996). Le difficoltà riscontrate nei bambini maltrattati dipendono dal fatto che gli adulti fanno poco uso di emozioni positive, e l’elevato uso di emozioni negative riducono le espressioni del bambino.

I bambini sottoposti ad esperienze di violenza presentano difficoltà nel riconoscere le espressioni facciali e nell’utilizzare le informazioni contestuali per spiegare le incoerenze tra causa delle emozioni ed espressione emotiva discrepante. Tali bambini tendono a distorcere le informazioni emotive attribuendogli significati negativi, nel senso che sovrastimano le emozioni di rabbia, le attribuiscono in modo inappropriato e le percepiscono come presenti anche in loro assenza (Camras, Sachs-Alter & Ribordy, 1996).

Per cui è possibile affermare che il maltrattamento, soprattutto in età precoce, determina rilevanti problemi sia nella regolazione delle proprie emozioni ma anche nella capacità di comprenderle e di valutare adeguatamente le cause degli stati affettivi altrui.

 

Colpa e vergogna nei bambini vittime di maltrattamento

I minori vittime di maltrattamenti e abusi vanno incontro a due sentimenti negativi che tendono a opprimerli, questi sono il senso di colpa e la vergogna.

Queste si manifestano già dopo il primo anno di vita e sono espressioni emotive legate alla socializzazione, alle pratiche educative, al contesto culturale e richiedono inoltre capacità cognitive più evolute di valutazione di sé, degli altri, delle aspettative sociali e di autoconsapevolezza. La colpa e la vergogna hanno un significato sociale e relazionale poiché elicitate dall’interazione. Tali emozioni nascono dal riconoscimento di comportamenti o di attributi negativi rivolti a se stesso ed hanno origine dalla percezione del fallimento di modelli posti dall’esterno o interiorizzati.

Nei bambini che subiscono maltrattamenti si può osservare la coesistenza di sentimenti di colpa, che li portano a preoccuparsi degli altri e a cercare di riparare, e di vergogna, che implica una complessa deformazione delle percezioni e dell’immagine di sé. Il bambino si sente impotente, incapace di reagire adeguatamente e percepisce, come segni della propria incapacità, il fallimento dei tentativi con cui cerca di difendersi e giustificarsi. Percepisce il proprio corpo come diverso da quello degli altri  e prova vergogna a mostrarlo, e nasconde i lividi che gli vengono provocati, considerandoli frutto di una propria mancanza. Nei bambini vittime di abusi sessuali la vergogna, la timidezza e l’imbarazzo finiscono per rinforzare la sensazione di essere inadeguati e diversi a causa di comportamenti sintomatici percepiti estremamente inaccettabili e inesprimibili.

Il vissuto di colpa occupa una posizione centrale nella caratterizzazione del mondo interno del bambino che ha subito un abuso sessuale. Il bambino abusato, per l’intervento di un meccanismo identificatorio, assume su di sé la colpa dell’aggressore in un processo amplificato dal diniego dell’evento traumatico, messo in atto dall’adulto (Kluzer, 1996).

Le emozioni innescate dalla vergogna, portano il bambino a chiudersi, a nascondersi, ad interrompere la comunicazione e l’espressione di se stessi. L’esperienza di colpa e/o di vergogna rinforza in misura significativa una rappresentazione di sé come “malvagio, cattivo o ridicolo” ed una rappresentazione dell’altro come “rifiutante, controllante e minaccioso”.

I bambini esposti a ripetute esperienze di malessere da parte degli adulti, possono sviluppare la propensione a pensare di essere i diretti responsabili. Per cui ciò vuol dire convivere con sentimenti di inefficacia e di impotenza che possono trasformarsi in tratti depressivi, ostacolano o rallentano il processo di separazione-individuazione e interferiscono con la capacità di role-taking.

Le esperienze di maltrattamento infantile possono avere effetti negativi sul buon sviluppo del bambino, compromettendone vari aspetti come la socialità, l’interazione con i pari e con gli adulti. L’esposizione continua alla violenza porta ad uno sviluppo distorto dell’immagine di sé, a condotte antisociali, a disfunzioni nelle emozioni e alla messa in atto di comportamenti dissociativi. La violenza porta spesso ad alterazioni della percezione, ad una mancata comprensione degli stati emotivi e delle intenzioni altrui.

Dagli studi sulla cognizione sociale è emerso che nei casi di abuso sessuale, le vittime tendono a costruirsi uno schema di sé come seduttrici, portando la convinzione di essere colpevoli per l’atto avvenuto, di essere troppo attraenti, o troppo dolci, o troppo generose. La conseguenza di ciò può generare depressione, sensi di colpa, promiscuità o inibizione sessuale (Gelinas, 1983; Herman, Russell & Trocki, 1986). Per cui alla base di ciò vi è una percezione di sé come cattive o troppo seducenti, ma esse non sono consapevoli di queste potenti autorappresentazioni negative.

Aver subìto abusi nel corso dell’infanzia può condurre allo stabilizzarsi di schemi non adattivi che riguardano il sé, alla sensazione di non essere amati o alla mancanza di speranza (concetto di vulnerabilità cognitiva). Anche lo stabilizzarsi di stili attribuzionali negativi (attribuire agli eventi cause interne, stabili e globali) può essere considerato una conseguenza a lungo termine di situazioni negative subite nel corso dell’infanzia. Studi prospettici hanno mostrato che i bambini abusati e trascurati dai genitori presentano un ridotto funzionamento cognitivo rispetto ai bambini che non hanno subito maltrattamenti (Egeland, Sroufe & Erickson, 1983).

 

Funzioni intellettive ed empatia nelle vittime di maltrattamento infantile

Deprivazioni sensoriali ed emotive associate alla trascuratezza sembrano essere particolarmente dannose per lo sviluppo del linguaggio espressivo così come per lo sviluppo di un QI nella norma e, in generale, per lo sviluppo delle funzioni intellettive (Sandgrund, Gaines, & Green, 1974). Nelle situazioni di maltrattamento infantile, il bambino sviluppa rappresentazioni di sé e dell’altro multiple e dissociate, le funzioni integrative come l’identità, la coscienza e la memoria vengono a perdersi producendo uno stato alterato di coscienza (Liotti, 1996).

Secondo Liotti i fenomeni dissociativi provocano uno stato alterato di coscienza nel bambino e allontanano cosi la sofferenza. Consentono di risolvere conflitti inconciliabili, di sfuggire dalle costrizioni della realtà, di isolarsi da esperienze catastrofiche, proteggendo il sé, di sfuggire al dolore, anche fisico, grazie all’effetto analgesico. Tuttavia quando diventa un meccanismo automatico, si innesta la patologia, provocando una frattura nel senso dell’identità e della continuità della memoria e dell’integrazione del sé.

Risulta compromesso lo stato di regolazione emotiva, di regolazione affettiva, di attribuzione di sentimenti e credenze. Nel bambino maltrattato emerge un fragile senso di sé che è legato all’incapacità di rappresentare sentimenti e desideri propri che forniscano un nucleo stabile d’identità. La percezione e le attribuzioni che il soggetto maltrattato costruisce sulla propria esperienza di maltrattamento sono fondamentali nel determinare l’adattamento successivo.

Un altro aspetto fortemente compromesso nel soggetto abusato o maltrattato è l’empatia. Il bambino maltrattato sperimenta la presenza di un genitore che non riesce ad essere empatico nei suoi confronti. A partire da questa condizione il bambino non può sviluppare quella capacità introspettiva di autoriflessione su se stessi e sulle conseguenze che le proprie azioni hanno sull’altro. Il comportamento antisociale e delinquenziale ha la propria origine in questa carenza di capacità empatica, poiché l’empatia media l’adozione di comportamenti prosociali, e rappresenta una condizione che consente di acquisire in modo profondo il significato sociale delle norme e delle regole (Shaffer, 1996).

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