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Disturbo esplosivo intermittente (IED) e l’abuso di sostanze

Secondo uno studio condotto dalla University of Chicago, le persone che soffrono del disturbo esplosivo intermittente (IED)– disturbo del comportamento caratterizzato da espressioni estreme di rabbia, spesso incontrollabili, che sono sproporzionate rispetto alla situazione- hanno un rischio cinque volte maggiore rispetto al resto della popolazione di fare abuso di sostanze quali alcol e altre sostanze stupefacenti.

 

Il disturbo esplosivo intermittente, la disregolazione emotiva e l’abuso di alcol e sostanze

Il disturbo esplosivo intermittente, colpisce ben 16 milioni di americani, in comorbidità con altre patologie quali il disturbo bipolare o la schizofrenia. Questo disturbo è spesso diagnosticato nella prima adolescenza, intorno agli 11 anni di età.

Nello studio pubblicato a Febbraio 2017 sul Journal of Clinical Psychiatry, la Dr.ssa Emil Coccaro e i suoi colleghi hanno analizzato i dati relativi alla salute mentale di un campione di oltre 9200 soggetti che presentavano il disturbo esplosivo intermittente. In questo esperimento è stata misurata nel dettaglio la disregolazione emotiva e si è osservato come la disregolazione emotiva possa portare alla manifestazione di comportamenti aggressivi o di agiti impulsivi.

I ricercatori dunque hanno dimostrato che più aumentavano i comportamenti aggressivi più i soggetti abusavano di alcol o droghe. Inoltre, il disturbo esplosivo intermittente è assolutamente acutizzato dall’assunzione di alcol o di droghe, portando in questo caso a un circolo vizioso che si auto-alimenta e ha come conseguenza la messa in atto di comportamenti sempre più aggressivi.
Quindi, un trattamento mirato ad appianare i comportamenti aggressivi potrebbe impedire o ritardare l’abuso di sostanze nei giovani.

La Dr.ssa Coccaro sostiene, inoltre, che questa patologia non è ancora considerata come un problema psichico, ma esclusivamente legato al comportamento disadattivo sviluppato nel corso della loro vita.

Per concludere, la Dr.ssa Coccaro ha aggiunto che un intervento psicologico precoce, quale ad esempio un trattamento farmacologico o la terapia cognitiva, possa essere efficace per prevenire o quantomeno ritardare il problema dell’abuso di sostanze legato alla diagnosi di disturbo esplosivo intermittente.

La teoria della mente – Introduzione alla Psicologia

La Teoria della Mente (ToM) consiste nella capacità cognitiva di riuscire a rappresentare gli stati mentali propri e altrui, ovvero credenze, desideri, emozioni, per spiegare e prevedere la messa in atto di comportamenti. Si tratta di una capacità cognitiva innata in ogni essere umano, il cui sviluppo è influenzato dal contesto culturale e dalle capacità intellettive presentate dall’individuo.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Storia della Teoria della Mente

Premack e Woodruff (1978) per primi parlarono di Theory of Mind  ovvero la capacità di comprendere uno stato mentale di un individuo partendo del comportamento manifesto. Essi osservarono per la prima volta questa abilità negli scimpanzé che erano in grado di prevedere il comportamento di un uomo in situazioni finalizzate a uno scopo. Quindi, la Teoria della Mente è una abilità evolutasi negli ominidi in risposta all’ambiente sociale e alle situazioni che si presentano, diventando sempre più eterogenea in ambiti dissimili.

Naturalmente, trattandosi di un’attitudine ogni individuo presenterà una Teoria della Mente più o meno sviluppata a seconda delle proprie risorse cognitive e delle capacità relazionali.  Inoltre, ognuno potrebbe essere in grado di avere una rappresentazione della mente dell’altro anche non avendo dati comportamentali, ma basandosi su una serie di percezioni sensoriali che consentono, in ogni caso, di inferire un funzionamento cognitivo, quindi di avere ben presente come quella persona potrebbe comportarsi in alcune circostanze.

 

I modelli teorici della Teoria della Mente

Esistono tre principali modelli teorici relativi alla Teoria della Mente:

1) “Teoria della Teoria”, secondo Gopnik e Wellman l’attività mentale si basa su conoscenze che avvengono empiricamente e il bambino le acquisisce nel corso dello sviluppo imparando a discriminare le situazioni reali da quelle ipotetiche. In questo modo, si sviluppa una teoria della Teoria della Mente che gli permette di inferire rappresentazioni mentali e di costruire una propria rappresentazione del mondo. Le rappresentazioni mentali sono definite meta-rappresentazioni.

2) “Teoria Modulare”, si definisce “modulare” in quanto legato alla teoria della mente modulare di Fodor , secondo cui la mente umana è costituita da moduli specializzati, geneticamente determinati e funzionanti autonomamente. Per questo esiste un modulo  in cui è processata la Teoria della Mente (Theory of Mind-Module), che trae informazioni utili dall’ambiente sociale. Il ToM-Module è in grado di separare le informazioni contestuali rilevanti da quelle irrilevanti, aumentando così la probabilità di una corretta inferenza degli stati mentali altrui. Lo sviluppo di questa abilità dipenderebbe principalmente dalla maturazione neurologica delle strutture cerebrali coinvolte, mentre l’esperienza ne determinerebbe l’utilizzo della stessa.

3) “Teoria della Simulazione”, secondo Goldman e collaboratori l’attività mentale si basa sulla capacità di riuscire a provare lo stesso stato emotivo dell’altro. Inferire gli stati mentali altrui consisterebbe nel simulare il mondo ponendosi nella prospettiva dell’altro, sperimentandone i diversi stati mentali che ne derivano per poi poterli ripetere o condividere.

 

Evoluzione della Teoria della Mente

La Teoria della Mente si sviluppa in diverse fasi della vita di una persona. Secondo Tomasello (1999) la comprensione dei fenomeni mentali deriva dall’intenzionalità, processo che si manifesta intorno all’anno di vita del bambino, ovvero nel momento in cui la propria attenzione si dirige consapevolmente verso una azione. Tale capacità si evidenzia attraverso l’imitazione del comportamento dell’adulto, riproducendone un meccanismo simile a quello osservato ma con delle aggiunte proprie.

A dodici-tredici mesi dalla nascita il bambino è in grado di riconoscere e distinguere le espressioni del volto e il loro significato emotivo; a due-tre anni è in grado di comprendere gli stati mentali non epistemici, come desideri, emozioni, intenzioni e i giochi di finzione in cui si simula il funzionamento di qualche oggetto, per esempio imitare con due dita un telefono o una pistola. Infine, intorno ai quattro anni di età, si espleta a pieno la Teoria della Mente. Infatti, si manifesta la capacità di comprendere stati mentali epistemici e di prevedere il comportamento proprio e altrui.

Secondo Fonagy, possedere una buona capacità riflessiva implementa la probabilità che il bambino possa sviluppare un attaccamento sicuro e un’adeguata capacità di mentalizzazione, ovvero possedere una rappresentazione della mente dell’altro. Una relazione di attaccamento sicuro permette di esplorare e di rappresentare adeguatamente la mente del caregiver e, quindi, di conseguenza consente di capire e interpretare adeguatamente gli stati mentali altrui.
Qualora il bambino non sviluppi un attaccamento di tipo sicuro si potrebbe verificare un deficit in termini di Teoria della Mente che si manifesterebbe attraverso la sofferenza psichica.

Inoltre, secondo Baron-Cohen lo sviluppo dell’individuo avviene in base alla progressiva maturazione biologica delle strutture cerebrali, per questo determinati assetti caratteriali derivano da particolari corredi genetici che nell’interazione con l’ambiente esterno portano al manifestarsi di particolari rappresentazioni mentali.

 

Le basi neurobiologiche della Teoria della Mente

Gli studi di neuroimaging funzionale e quelli condotti su lesioni cerebrali hanno aiutato a localizzare i circuiti cerebrali alla base della Teoria della Mente.

Esperimenti eseguiti sui  macachi hanno rivelato che i neuroni nel solco temporale posteriore (STS) si accendono selettivamente quando le scimmie osservano la direzione dello sguardo di altre scimmie. Inoltre, questi neuroni si attivano anche quando queste scimmie osservano un’azione diretta ad uno scopo (Gallese e Goldman, 1998). Studi di imaging funzionale hanno rivelato, inoltre, che negli umani si attiva un’area omologa del lobo temporale nell’osservare oggetti finalizzati a uno scopo.

Il lobo temporale, inoltre, contiene anche i neuroni specchio che si attivano sia durante l’esecuzione di un movimento di un arto, a esempio, sia durante la semplice osservazione dello stesso movimento compiuto da un’altra persona. Non solo, i neuroni specchio si attivano anche quando si osserva o si prova la stessa emozione dell’altro. La scoperta dei neuroni specchio permette di capire come si possono imitare non solo le azioni degli altri ma anche gli stati mentali. Per avere una buona Teoria della Mente è inoltre necessario imitare sia lo stato emotivo sia differenziare tra quello che si priva in prima persona da quanto provato da altri.

Recenti studi di risonanza magnetica funzionale fanno rilevare che la Teoria della Mente è divisa da altre funzioni cognitive, poiché espressa da una rete neurale che collega  la corteccia pre-frontale mediale e la corteccia cingolata (MPFC), la corteccia cingolata posteriore e le regioni temporo-parietali bilaterali.

 

Psicopatologia e Teoria della Mente

Aspetti deficitari della Teoria della Mente si riscontra in differenti quadri psicopatologici e si manifesta grazie a una diversa gamma di anomalie comportamentali.  A esempio:

Disturbi autistici  e schizofrenici

In pazienti affetti da tali patologie è presente un deficit specifico nella comprensione delle credenze che regolano il comportamento, non imputabile a difficoltà linguistiche, ignoranza della causalità o incapacità di sequenziamento. Si è ipotizzato che bambini affetti da disturbi dello spettro autistico non sviluppino una Teoria della Mente o presentino difficolta’ in relazione a tale ambito, di conseguenza non ci sarebbe un meccanismo meta-rappresentazionale sottostante la costruzione di una Teoria della Mente e per questo mostrerebbero deficit nella messa in atto di comportamenti.

Disturbi di Personalità

Le persone che manifestano disturbi di personalità possiedono deficit di mentalizzazione e per questo carenti nell’attuazioni di comportamenti adeguati allo scopo. Inoltre,  la capacità di mentalizzazione risulta compromessa in una percentuale significativa di soggetti che hanno vissuto un’esperienza traumatica, soprattutto nell’infanzia. Inoltre, scarse capacità di mentalizzazione, inducono il soggetto a regredire a livello mentale a uno stadio di sviluppo precedente (Fonagy et al., 2000).

 

Testare la Teoria della Mente

Il  gold standard dei test per valutare la comprensione degli stati mentali altrui è il  false-belief task, utilizzato in adolescenza e infanzia soprattutto nell’autismo e nella schizofrenia Esso consiste nel valutare se un soggetto è in grado di capire che gli altri possono avere delle credenze errate rispetto ad un evento di cui lui ha una conoscenza corretta. Tale test è utile per verificare le false credenze da cui il soggetto deve trarre conclusioni, su una situazione, prevedendo lo stato mentale di un altro individuo che compie un’azione, e le convinzioni che si possiedono sui comportamenti o stati emotivi di un’altra persona.

Un altro strumento di valutazione della Teoria della Mente è il test Sally and Anne caratterizzato da una situazione in cui il soggetto deve distinguere tra il sapere che un oggetto è stato nascosto da uno dei due personaggi (Anne) in assenza dell’altro (Sally) e uno dei due personaggi (Sally) non abbia questa conoscenza.

Inoltre, Baron-Cohen e collaboratori hanno sviluppato un test, l’Eye Test, in cui il compito dei soggetti è di inferire lo stato mentale altrui osservando lo sguardo di un’altro soggetto. Un ultimo esempio è il Theory Of Mind Picture Sequencing Task, ideato da Brune, che utilizza come materiale di somministrazione 6 storie, ognuna composta da 4 vignette da riordinare. Le vignette sono presentate coperte e in ordine sparso. Al soggetto esaminato è richiesto di scoprirle e riordinarle nel minore tempo possibile per formare una sequenza di eventi che abbia un senso logico.

 

Teoria della Mente e familiarità

La Teoria della Mente deriva anche dal tipo di relazione instaurata con la figura di riferimento. Le interazioni genitore-bambino, specialmente con la madre, indubbiamente svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo e sociale del bambino. Quindi, una buona relazione genera una buona Teoria della Mente. Inoltre, i deficit riscontrabili a carico della Teoria della Mente sono tratti presenti sia nei pazienti, sia nei familiari degli stessi, e frequentemente si manifestano attraverso un disagio mentale.

 

Trattamenti riabilitativi della teoria della mente

E’ possibile riabilitare la Teoria della Mente grazie all’acquisizione di competenze psico-sociali attraverso trattamenti che si focalizzano su i deficit funzionali presentati dal paziente, che a loro volta sono associati a deficit cognitivi. Fondamentale durante questo processo è riuscire ad attribuire e riconoscere gli stati mentali degli altri e tarare il proprio funzionamento emotivo rispetto a quello altrui.

Esistono anche tecniche riabilitative, come ad esempio il Metacognitive Training (MCT), che si concentrano maggiormente sui meccanismi cognitivi deficitari derivanti dalla percezione e dall’interpretazione dei segnali ambientali. Il Metacognitive Training si basa su due componenti fondamentali: la knowledge translation, in cui si rilevano gli errori cognitivi e la loro relazione con la patologia, e la dimostrazione delle conseguenze negative che derivano dagli errori cognitivi, parte composta da esercizi focalizzati sui singoli deficit cognitivi presentati. Ai pazienti è insegnato a riconoscere e confutare gli errori attraverso l’uso di strategie alternative che consentono di giungere a delle conclusioni senza rimanere schiavi di trappole mentali. Si tratta principalmente di un approccio gruppale in cui il paziente riceve e vive esperienze correttive in un ambiente supportato e protetto.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Traumi infantili, psicopatologia genitoriale e disturbi bipolari

Fra le patologie psichiatriche il disturbo bipolare è un disturbo affettivo complesso dall’origine multifattoriale. Fra i fattori eziopatogenetici, un posto di rilievo è occupato dalla componente genetica. Numerose ricerche hanno riscontrato che eventi traumatici accaduti durante l’infanzia sono associati ad un incremento del rischio di sviluppare un disturbo bipolare ad esordio precoce. 

 

 

Disturbo bipolare: tra i fattori di rischio la componente genetica e i maltrattamenti infantili

Fra le patologie psichiatriche il disturbo bipolare è un disturbo affettivo complesso dall’origine multifattoriale. Fra i fattori eziopatogenetici, come diverse ricerche dimostrano (Kerner, 2014; Craddock e Sklar, 2013), un posto di rilievo è occupato dalla componente genetica.

A questo proposito, il fattore genetico predispone ad una forma di vulnerabilità: infatti, nella famiglia del paziente affetto da disturbo bipolare si riscontra una maggiore tendenza ad ammalarsi di qualche psicopatologia, come il disturbo bipolare stesso, la sindrome depressiva unipolare, le sindromi ansiose, le dipendenze patologiche, la sindrome da deficit dell’attenzione con iperattività e le sindromi psicotiche (Bergink et al., 2016). I pazienti affetti da disturbo bipolare frequentemente riferiscono di aver avuto un’infanzia travagliata, costellata da una serie di eventi avversi.

Numerose ricerche (Daruy – Filho et al., 2011; El Kiss et al., 2013; Larsson et al., 2013; Agnes-Blais e Danese, 2016) hanno riscontrato che eventi traumatici accaduti durante l’infanzia sono associati ad un incremento del rischio di sviluppare un disturbo bipolare ad esordio precoce, con notevole probabilità di suicidio ed evoluzione psicotica.

Queste ricerche hanno utilizzato come strumento d’indagine le interviste semistrutturate o la raccolta delle storie di vita raccontate dai pazienti stessi. Altri studi (Gilman et al., 2015), basati sull’analisi di intere popolazioni, hanno evidenziato che esiste un incremento di rischio per i disturbi bipolari, allorquando si verificano la perdita precoce di un genitore e dei maltrattamenti subiti nell’età evolutiva.

La ricerca danese sul disturbo bipolare e gli eventi di vita avversi

Una recente ricerca danese (Università di Aarhus e di Aalborg) e olandese (Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Rotterdam e Scuola di Medicina dell’Università di Utrecht) (Bergink et al., op. cit.) ha voluto indagare il peso esercitato sia dagli eventi avversi accaduti nelle prime fasi della vita che dalla psicopatologia dei genitori nell’insorgenza del disturbo bipolare. In altre parole, la ricerca ha voluto analizzare le correlazioni esistenti fra eventi di vita avversi, accaduti prima dei 15 anni di età, storia psichiatrica della famiglia e patologia bipolare.

Lo studio ha considerato come eventi di vita avversi le seguenti condizioni: disgregazione della coppia parentale, malattie fisiche di uno o di entrambi i genitori, disoccupazione del padre o della madre, detenzione di uno dei genitori, perdita di un genitore ed eventuale adozione da parte di un’altra famiglia.

La ricerca ha utilizzato informazioni provenienti dal Registro Nazionale Danese, che riguardava i nati in Danimarca dal 1980 al 1998, circa 980.554 persone. Questi individui sono stati monitorati dall’età minima di 15 anni ad un’età massima di 34 anni. Di questi soggetti, 2235 hanno sviluppato un disturbo bipolare.

Nell’infanzia di questi soggetti affetti da disturbo bipolare si è riscontrato nel 47,8 % la disgregazione della coppia genitoriale, nel 19,4 % una patologia psichiatrica di uno o di entrambi i genitori e nel 19,1 % una malattia fisica del padre o della madre.

In conclusione, la ricerca ha stabilito che la disgregazione della famiglia insieme alla patologia (psichiatrica o fisica) dei genitori, durante l’infanzia, possono essere dei fattori di rischio per la comparsa del disturbo bipolare nell’età adulta.

I cellulari e quella dolorosa sensazione di vuoto – Commento all’intervista del comico Louis C.K.

A volte accade di ascoltare una storia di persone lontane anni luce dal mondo della psicologia che riescono a cogliere alcuni aspetti chiave su cui noi “specialisti della salute mentale” dibattiamo da anni, oggi volevo condividere le parole non banali del comico Louis C.K.  

 

A volte accade di ascoltare una storia o una particolare esperienza di persone lontane anni luce dal mondo della psicologia che riescono a cogliere alcuni aspetti chiave su cui noi “specialisti della salute mentale” dibattiamo da anni e che, almeno personalmente, ci insegnano e ci fanno riflettere più di tanti manuali.

Anni fa scrissi di un’intervista del calciatore Rino Gattuso che mi rimase nel cuore, nella quale descriveva quale fosse per lui il problema secondario. Ovviamente non lo chiamava così, ma la sua genuina descrizione e valutazione delle proprie emozioni fu ancora più interessante per me, prima della finale dei mondiali.

Oggi volevo condividere le parole non banali di un comico, Louis C.K.  (nome d’arte di Louis Székelye, attore e comico statunitense) espresse in una sua intervista in “Late Night with Conan O’Brien”. I comici sono spesso maestri nel descrivere l’uomo comune, con le sue ansie e le sue fragilità; di conseguenza, ascoltare le loro parole può diventare uno stimolo per riflettere su temi anche di carattere prettamente psicologico.

Ma cosa dice di così particolare questo Luis C.K.? Parla essenzialmente di aspetti educativi, lui padre di due figlie, e di come l’utilizzo di smartphone sia un ostacolo per la crescita di bambini piccoli, che, a causa dell’uso smodato del cellulare, perdono di vista l’esperienza diretta con i propri pari.

 

Louis C.K. : lo smartphone come evitamento della tristezza

Inoltre Louis C.K. sottolinea come lo smartphone possa diventare uno strumento di controllo per non accedere a una sensazione di vuoto, comune e temuta da tutti gli esseri umani.

Attenzione, sta parlando un comico statunitense ma usa parole che non possono passare inosservate a uno psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Louis C.K. parla in un certo senso di stati dolorosi, “quella consapevolezza di essere solo”, di quella modalità di stare lontano dall’emozione di tristezza che accompagna tale consapevolezza attraverso l’utilizzo di smartphone; spesso col rischio, in macchina, di causare un incidente, perché, come dice Louis C.K., “le persone preferiscono rischiare di uccidere qualcuno e rovinarsi la vita pur di non rimanere soli per un secondo, che è una cosa tanto difficile”. Luis ha anche una soluzione, non certo nuova per noi ma ugualmente e forse ancora più interessante; la descrive mentre racconta un episodio a lui accaduto recentemente.

Era in macchina e, ascoltando una canzone di Bruce Springsteen, viene invaso da memorie passate di quando era giovane che generano un momento di forte nostalgia; Louis pensa:“ora inizio a mandare 50 messaggi”, con lo scopo di fronteggiare questa tristezza nascente. Invece Louis C.K. fa qualcosa di diverso; nelle nostre psicoterapie, ciò rappresenta spesso un momento chiave del percorso perché ha l’obiettivo di modificare le strategie spesso faticose e disfunzionali portate avanti da anni per evitare quello stato doloroso, aiutando la persona ad accedervi per poter provare a tollerarlo.

Dicevamo: cosa fa Louis C.K.? Non fa nulla e lo racconta così, descrivendo i suoi pensieri in quei momenti “Sai che c’è di nuovo? Non farlo, sii triste e basta. Lascia libera la tristezza, non evitarla. Fatti investire dalla nostalgia come un camion”. Così Louis ha fatto. Ha accostato e si è permesso di piangere “come un bambino”.

Quale giudizio rispetto a questa sua reazione? “E’ stato bellissimo. La tristezza è poetica. E’ una fortuna vivere momenti tristi”, giusto per non farci mancare anche il riferimento al problema secondario. Poi quella tristezza ha fatto spazio alla felicità, a pensieri allegri che sono potuti emergere solo grazie al permesso di provare quella tristezza, transitoria e a suo modo bellissima.

Ci sono tantissimi spunti, certo a volte caricaturali, da questa intervista che racconta una storia su uno stato doloroso e sul modo diverso in cui una persona lo ha gestito. Tutto questo partendo dalla curiosità di ascoltare esperienze che nulla hanno a che vedere con contesti clinici.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’INTERVISTA DI LOUIS C.K. AL “LATE NIGHT WITH CONAN O’BRIEN”

(Video sottotitolato in italiano qui)

La regolazione emozionale: basi neurali coinvolte e benessere psicologico

Con il termine regolazione emozionale si intende quell’insieme di processi attraverso i quali gli individui regolano i propri stati emotivi. Le emozioni sono necessarie alla sopravvivenza, tuttavia non sempre mantengono il loro ruolo adattivo e diventano problematiche nel momento in cui eccedono per intensità o durata, si manifestano in contesti inadeguati o in modo imprevedibile.

Stefania Luchesa, Annalisa Bertoldi, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Che cos’è la regolazione emozionale

Gli individui rispondono all’inadeguatezza delle reazioni emotive adottando strategie in grado di modificare flessibilmente l’esperienza emotiva. Gli aspetti del processo emotivo in cui l’uomo può intervenire alternandone la natura sono la comparsa, la durata, il contenuto e la qualità dell’esperienza.

Negli ultimi anni l’interesse nei confronti della capacità di regolazione emotiva è notevolmente cresciuto e diversi studiosi si sono occupati degli aspetti adattivi o disfunzionali e del substrato neurale ad essa associato.

James J. Gross, professore di psicologia all’università di Stannford, noto per le numerose ricerche condotte nell’ambito della regolazione emozionale, propone un modello che descrive le emozioni come un processo dinamico flessibile e multicomponenziale, definendo tre aspetti in particolare. In primo luogo il processo generativo delle emozioni si configura come un meccanismo dinamico a carattere ricorsivo costituito da feedback che dalla risposta emotiva tornano alla fase di selezione della situazione, influenzando ogni fase del processo e conseguentemente influenzando le seguenti risposte emotive.

Il secondo aspetto fondamentale riguarda il tempo della regolazione, sia essa focalizzata sull’antecedente (Antecedent-Focused Regulation) o sulla risposta (Response-Focused Regulation). Infine, la regolazione può verificarsi parallelamente in diverse fasi del processo, così ciò che facciamo per regolare le nostre emozioni spesso include multipli meccanismi che intervengono contemporaneamente. Gross (1998a 1998b; 2002) definisce col termine regolazione emozionale la serie di processi eterogenei tramite cui gli individui riescono a regolare le proprie emozioni. Nello specifico individua cinque tipologie di regolazione emozionale, distinte in base al momento all’interno del processo di generazione dell’emozione in cui intervengono. Partendo dalla situazione, si individuano i seguenti processi: selezione della situazione, modificazione della situazione, distribuzione dell’attenzione, modifica cognitiva, modulazione della risposta. I primi quattro sono focalizzati sull’antecedente poiché si verificano prima della risposta emotiva, mentre l’ultimo è centrato sulla risposta poiché si verifica dopo che essa è stata generata.

Tra gli autori principali che si sono interessati alla regolazione emotiva vi è Frijda, che con il termine control precedence o precedenza di controllo indica l’attivazione dell’organismo attraverso risposte affettive, cognitive, fisiologiche e comportamentali per gestire in via prioritaria la situazione emotigena, ponendo in secondo piano le azioni in corso. La capacità di regolazione delle emozioni è essenziale per interagire adeguatamente con l’ambiente e diviene automatica all’aumentare del livello di interiorizzazione della norma. Frijda sostiene l’ipotesi per cui le risposte emotive siano frutto di un meccanismo generativo che si autoregola e tutte le fasi del processo generativo delle emozioni possano essere, monitorate, valutate e modulate, sia in modo consapevole che non. Dunque la risposta emotiva manifesta, o esplicita, si configura in una forma diversa da quella che avrebbe avuto in assenza dei meccanismi regolatori che hanno svolto la funzione di mediatori. E’ tuttavia da ricordare che il lavoro di rivalutazione è stato parzialmente compiuto per l’individuo dalla sua stessa cultura e ciò tendenzialmente aumenta il potere adattivo delle emozioni da noi esperite.

 

Le strategie di regolazione emozionale

Diverse sono le strategie adottate dagli individui per modulare i propri stati emotivi: tra le principali si distinguono la rivalutazione (reappraisal), il distacco e la soppressione espressiva.

Il concetto di reappraisal nasce con Lazarus negli anni 60, nell’ambito di ricerca su stress e coping. Lazarus sostiene il ruolo di mediatore cognitivo del processo di valutazione che media fra lo stimolo stressante (stressor) e l’effetto esercitato sull’individuo o, in altri termini, fra le domande dell’ambiente e gli interessi dell’individuo. Con il termine reappraisal si intende dunque una modificazione del significato attribuito ad un evento emotigeno alla luce di informazioni o di considerazioni acquisite o formulate prima, durante o dopo il suo accadere. Dal punto di vista clinico le principali scale che valutano il reappraisal sono la Positive reappraisal contenuta nel WCQ (Ways of Coping Questionnaire di Folkman e Lazarus, 1988) e la Positive reinterpretation and growth del COPE (Carver, Scheier e Weintraub, 1989).

Tra le altre modalità di regolazione, il distacco conduce invece ad una percezione degli eventi come non riguardanti direttamente se stessi. Il distacco può manifestarsi in un appiattimento delle sensazioni provate (numbness) e in un senso di derealizzazione. L’esempio tipico è rappresentato dalla macchina che sbanda o da un evento traumatico come la morte di un compagno. La sensazione è quella che l’evento stia capitando a qualcun altro, nel primo caso tuttavia dopo la fase di appiattimento emotivo segue un periodo di profonda paura che può protrarsi anche una volta cessato il pericolo, mentre nel secondo caso il lutto si manifesta con un appiattimento delle emozioni che perdura nel tempo. Il distacco, tuttavia, può manifestarsi anche in maniera più moderata, come rivalutazione volontaria o come conseguenza di un atteggiamento osservatore. Tale condizione è evidente quando gli individui adottano un atteggiamento umoristico per far fronte alle situazioni angoscianti (Frijda 1986).

Tra le strategie di regolazione emozionale vi sono anche quelle focalizzate sull’espressione dell’emozione, sia essa relativa alla risposta emozionale che alla comunicazione verbale della stessa. Si tratta dunque di un’inibizione conscia del comportamento espressivo-emozionale in corso ed è una modalità di regolazione focalizzata sulla risposta.

 

Le basi neurali della regolazione emozionale

Le emozioni sono state a lungo trascurate dalle neuroscienze cognitive, ma grazie al diffondersi delle tecniche non invasive di neuroimaging  è stato possibile studiare i centri nervosi coinvolti nelle varie risposte emotive e descrivere con accuratezza quali siano le strutture attive in corrispondenza di determinate emozioni o strategie regolative.

In particolare, studi recenti condotti con l’analisi di connettività funzionale hanno mostrato che la capacità dell’uomo di produrre un comportamento emotivo appropriato implica l’attivazione di due circuiti paralleli. Da un lato, esiste una via che coinvolge sia strutture sottocorticali (amigdala, insula, striato e ippocampo) che corticali (corteccia prefrontale laterale e mediana, corteccia cingolata anteriore e corteccia orbitofrontale), la quale sembra implicata nei processi automatici di regolazione emozionale. Dall’altro lato, esiste una via che coinvolge soltanto le strutture corticali (corteccia prefrontale laterale e mediana e corteccia cingolata anteriore), la quale sembra implicata nei processi volontari di regolazione emozionale e nell’adattamento del comportamento alle diverse situazioni.

La scoperta di quest’ultima via si è rivelata fondamentale ai fini della messa a punto di procedure che possono consentire alle persone di giungere ad un maggiore controllo delle proprie emozioni. Un esempio di tali procedure è rappresentato dal neurofeedback, nel quale un individuo viene messo nella condizione di osservare su uno schermo la propria attività cerebrale mentre vive una certa emozione e viene poi addestrato a ridurre gradualmente l’attività della regione coinvolta nell’emozione stessa.

La meta-analisi di Kohn e colleghi del 2013 ci consente inoltre un’immediata comprensione delle principali regioni cerebrali attive durante la regolazione emozionale: risultano attivi bilateralmente il giro frontale inferiore e la regione anteriore dell’insula, l’area supplementare motoria (SMA), la pre-SMA fino al giro cingolato medio anteriore, il giro precentrale bilaterale ed il giro frontale medio bilaterale. Infine altre attivazioni sono state riscontrate in corrispondenza della corteccia temporale media sinistra e dei giri angolari bilaterali.

Nel dettaglio, la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) è ritenuta un’area importante per la regolazione durante lo stadio della generazione emotiva e per la modulazione di una vasta gamma di reazioni comportamentali. La corteccia prefrontale ventrolaterale (VLPFC)  gioca un ruolo significativo nella generazione e nella valutazione delle emozioni e degli affetti (Ochsner and Gross, 2005; Phillips et al., 2008) e appare in stretta associazione con due particolari tipologie di processi emotivi: la cognizione sociale e l’inibizione dell’azione. Il giro cingolato medio anteriore è coinvolto in compiti di memoria, linguaggio e inibizione dell’azione e ricopre un ruolo cruciale nel controllo motorio intenzionale (Hoffstaedter et al., 2012) e nel comportamento legato all’emozione.

Anche l’area supplementare motoria si attiva in corrispondenza della regolazione emozionale, essa in particolare è associata al comportamento motorio cognitivo ed esecutivo. Il giro angolare è correlato alla cognizione sociale ed è generalmente riconosciuto come una corteccia associativa per i processi semantici, la memoria episodica, l’aritmetica mentale e i processi cognitivi auto-rilevanti. Infine vi è il giro temporale superiore che computa processi  integrativi multimodali di ordine superiori, influenza l’attività dell’amigdala ed è implicato nei compiti di cognizione sociale (Muller et al., 2012). Il giro temporale superiore gioca un ruolo importante nella verbalizzazione delle scene sociali o dell’immaginazione mentale ed è inoltre in una posizione particolare che consente, grazie alle proiezioni all’amigdala, di modulare l’eccitazione (arousal) affettiva.

Gli autori distinguono il processo di regolazione in tre fasi a seconda del tipo di elaborazione condotta sullo stimolo emotivo. In particolare, la prima fase è costituita dalla valutazione affettiva, la seconda dai processi iniziali regolatori che rispondono al bisogno di modulare l’eccitazione emozionale generata dallo stimolo emotivo, la terza dalla regolazione vera e propria che da origine ad un nuovo stato emotivo regolato. Per quanto riguarda il primo stadio sono principalmente coinvolte le strutture subcorticali come l’amigdala e lo striato ventrale, che giocano un ruolo importante nei processi di generazione dell’emozione e proiettano l’eccitazione affettiva attraverso l’insula anteriore e il giro cingolato medio anteriore alla corteccia prefrontale ventrolaterale VLPFC).

Quest’ultima è implicata perlopiù nella fase di valutazione e nei processi regolatori iniziali ed è fondamentale per la segnalazione della necessità di regolazione che comunica attraverso il giro del cingolo medio anteriore e le connessioni anatomiche dirette con la corteccia prefrontale dorso laterale (DLPFC). La DLPFC, a sua volta, consente l’esecuzione di “freddi” processi regolatori, che elaborano le informazioni dalla VLPFC e le trasmettono ad una rete neurale implicata nel controllo motorio. Gli autori sottolineano, il duplice ruolo svolto della VLPFC che non solo contribuisce al processo di formazione, ma è anche coinvolta nella rivalutazione dell’attività affettiva delle regioni subcorticali ed è per questo implicata anche nelle fasi di regolazione. Infine nell’ultimo stadio sono coinvolte principalmente le aree pre-motorie, il giro angolare, il giro temporale superiore che conducono alla ricostruzione della scena emotiva ovvero all’esecuzione della regolazione. Tale processo può a sua volta influenzare l’attività dello striato ventrale e dell’amigdala sia direttamente che attraverso il giro cingolato medio anteriore.

 

Regolazione emozionale e salute

La capacità di adottare strategie efficaci di regolazione emozionale è considerata un aspetto fondamentale per l’adattamento, il funzionamento sociale e il benessere psicologico degli individui. Nessuna modalità di regolazione è adattiva di per sé, ma la sua funzionalità è legata agli scopi personali e al contesto in cui si manifestano determinate risposte emotive. I disordini che coinvolgono la sfera della regolazione comportano l’uso di strategie disadattive e sono alla base di molti sintomi psicopatologici. Gli stati emotivi inoltre hanno una forte influenza su altre funzioni complesse cerebrali, comprese le facoltà nervose alla base delle decisioni razionali e dei giudizi interpersonali che orientano i comportamenti sociali. Per questi motivi l’interesse nei confronti della regolazione è cresciuto negli ultimi anni e ha condotto alla realizzazione di diversi studi per il miglioramento delle tecniche psicoterapeutiche e per l’incremento della conoscenza sulla cognizione sociale.

La capacità di regolare gli stati emotivi procede di pari passo con i tratti di personalità: gli individui affrontano i sentimenti in base a quanto è loro consentito, ovvero in base alla capacità di autocontrollo, al desiderio di sicurezza o di stimolazione, alla capacità di tollerare le situazioni stressanti. Per semplificare è possibile mettere a confronto due strategie regolative, ovvero la rivalutazione cognitiva e la soppressione espressiva.

In primo luogo, la rivalutazione cognitiva avviene nelle fasi iniziali del processo emotivo e comporta un impiego di risorse cognitive limitato poiché consente di modificare la sequenza emozionale prima che le tendenze alla risposta si siano completamente formate. La soppressione espressiva avviene invece nella fase finale e richiede uno sforzo cognitivo maggiore. Gli individui che adottano la strategia della soppressione espressiva percepiscono un senso di incongruenza tra ciò che provano e ciò che esprimono e ciò che comporta a lungo andare un forte senso di inautenticità associato a sentimenti negativi verso il sé e all’estraniazione dagli altri. Gli studi che hanno indagato le differenze tra le due strategie sopracitate, sottolineano la connotazione negativa della soppressione espressiva. Essa infatti, come indica il termine stesso, riduce il comportamento espressivo tuttavia non l’esperienza soggettiva e comporta un aumento di attivazione fisiologica. La rivalutazione cognitiva invece limita sia il comportamento espressivo che l’esperienza soggettiva delle emozioni negative e non induce aumenti nell’attivazione fisiologica.

Per descrivere le differenze tra le due strategie è utile fare riferimento ai quattro domini principali della salute psicologica, ovvero l’affetto, la cognizione, il funzionamento sociale e il benessere. Per quanto riguarda la prima dimensione, l’uso frequente della strategia di rivalutazione cognitiva è associato a un maggior numero di esperienze emotive positive e un minor numero di esperienze e espressioni negative. L’adozione frequente della strategia di soppressione espressiva non riduce invece la negatività dell’emozione, bensì la aumenta a causa della percezione del senso di inautenticità ed è inoltre associata ad una minore esperienza ed espressione emotiva positiva.

Dal punto di vista cognitivo, come già anticipato, la soppressione si traduce in un consumo superiore di risorse rispetto alla rivalutazione poiché interviene alla fine del processo emotivo. Per quanto riguarda la sfera sociale, gli individui che sopprimono con alta frequenza le espressioni emotive tendenzialmente evitano le relazioni, non condividono esperienze intime positive o negative e di conseguenza hanno meno legami affettivi profondi e meno supporto sociale. Al contrario gli individui che utilizzano la rivalutazione cognitiva condividono le proprie emozioni positive o negative e sono alla ricerca di legami affettivi, che non sono superiori per quantità ma per qualità. Infine, le differenze riscontrate nel dominio del benessere psicologico sono chiaramente identificabili: la rivalutazione è considerata la promotrice del benessere psicologico, in quanto diminuisce l’impatto negativo degli eventi avversi e produce un effetto protettivo contro la depressione, aumentando la soddisfazione della vita e dell’autostima. La soppressione è invece associata a conseguenze avverse quali emozioni negative, minor supporto sociale, rischio di depressione e bassi livelli di soddisfazione.

Le differenze individuali nella capacità di regolazione emozionale non sono da considerare come tratti immutabili, piuttosto come acquisizioni sociali sensibili agli sviluppi individuali. Un fattore determinante è costituito dall’educazione genitoriale che può incoraggiare l’utilizzo di strategie regolative adeguate come la rivalutazione cognitiva, o contribuire alla formazione di una visione evitante delle emozioni che devono essere minimizzate o non espresse. Il periodo dall’infanzia all’età adulta è importante per la formazione delle differenze individuali, sembra infatti che la capacità di regolare i propri stati emotivi possa migliorare con l’età e sia soggetta a costante apprendimento. Nell’ottica di Gross e John il progredire dell’età, associato all’aumento delle esperienze di vita, è conseguentemente legato all’incremento di consapevolezza circa i costi e i benefici delle differenti forme di regolazione emozionale, per cui l’abilità di regolare le emozioni sarebbe soggetta a costante mutamento nel corso della vita (Gross & John, 2002).

Il suicidio nel Disturbo dello Spettro Autistico: review della letteratura

Sembrebbe che soggetti con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico possano tentare o commettere un suicidio specialmente quando hanno in concomitanza sintomi depressivi. Depressione, problemi comportamentali e bullismo sono tra gli stress psicologici più predittivi di ideazione suicidaria o tentativo di suicidio.

Ignazio Maniscalco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Disturbo dello Spettro Autistico e suicidio: introduzione

Il nuovo Manuale Diagnostico-Statistico delle Malattie Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Edition 5; DSM-5; APA, 2013), propone il disturbo dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder; ASD) come la sola diagnosi per la precedente categoria diagnostica dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (Pervasive Developmental Disorder) nella precedente edizione (DSM-IV-TR; APA, 2002), come anche l’eliminazione della Sindrome di Asperger (Asperger Syndrome; AS).

Questo cambiamento enfatizza il concetto dimensionale del quadro clinico delle aree neurocognitive interessate (comunicazione sociale e inflessibilità mentale). Questa nuova classificazione è basata su evidenze empiriche che la maggior parte dei soggetti affetti incontra i criteri diagnostici del disturbo autistico (Belinchon M, et al, 2003; Howlin P, 2003). La prevalenza del disturbo dello spettro autistico negli adulti è stimato essere circa 0,98% (Brugha TS, et al, 2011), la quale è abbastanza simile a quella riscontrata nella popolazione infantile (Baird G, et al, 2006).

Vi è un rinnovato interesse nell’importanza di studiare e valutare il rischio suicidario. La American Psychiatric Association ha sviluppato alcune linee guida per prevenire e valutare il rischio suicidario; nel DSM-5, la presenza o assenza di rischio suicidario dovrebbe essere valutato come un sesto asse (“V 02 Suicidal Behaviour Disorder”) (APA, 2013; Oquendo MA, et al, 2009; Garcia-Nieto R, et al, 2012).

Nella popolazione generale, il suicidio è classificato come una delle prime cause di morte in adolescenti ed il trend è in crescita (Hawton K, et al, 2012).

 

La depressione nel Disturbo dello Spettro Autistico

Gli studi confermano l’alto rischio di comorbidità del Disturbo dello Spettro Autistico con la depressione in particolare i soggetti ad alto funzionamento (high functioning autism spectrum disorders; HFASD) (Simonoff E, et al, 2008; Whitehouse AJO, et al, 2009; White SW, et al, 2009; Wing L, 1996; Kanner L, 1943; Wing L, 1981; Gillberg C, et al, 2000; Ghaziuddin E, et al, 1998; Kanne SM, et al, 2009; Ghaziuddin M, et al, 2002; Barnhill, et al, 2001; Leyfer OT, et al, 2006; Mayes SD, et al, 2011; Mayes SD, et al, 2011a; Green J, et al, 2000; Hurtig T, et al, 2009; Kim JA, et al, 2000; Meyer JA, et al, 2006).

Studi suggeriscono un’aumentata prevalenza di disturbi affettivi tra i parenti di primo grado dei soggetti autistici (Ingersoll B, et al, 2011; Micali N, et al, 2004), suggerendo talaltro una possibile interazione di fattori neurochimici condivisi (Cook EH, et al, 1994).

In aggiunta, questi problemi potrebbero influenzare negativamente la famiglia, producendo un’incremento dello stress e dei conflitti nei caregivers (Cappe E, et al, 2009).

Ricerche suggeriscono che tale condizione può esacerbare i sintomi nucleari dell’autismo, compremettendo la qualità di vita e il livello funzionale a lungo termine (Matson JL, et al, 2007). Infatti i soggetti ad alto funzionamento, che raggiungono elevati livelli cognitivi e capacità di introspezione, potrebbero presentare maggior rischio di depressione nella fascia di età adolescenziale, dovuto al fatto che sono più consapevoli delle loro difficoltà nelle relazioni sociali (Belinchon M, et al, 2003; Howlin P, 2003). Questo fattore potrebbe ipotizzare un aumento dei casi di suicidio in quella fascia di età (De-la-Iglesia M, et al, 2015).

Ghaziuddin e collaboratori (Ghaziuddin M, et al, 2002) hanno discusso che la risposta autistica ad eventi negativi con sintomi depressivi è probabilmente derivata dal fatto che i pazienti autistici sono geneticamente predisposti alla depressione (Mazzone L, et al, 2012). Comunque non ci sono ancora studi sistematici che hanno confermato l’ipotesi che l’insorgenza di depressione sia mediata da fattori genetici.

Sulla base delle risposte date da parte di 89 genitori di bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico di età compresa tra 5 e 17 anni, Stratis e Lecavalier (Stratis EA, et al, 2013) hanno trovato che adolescenti con alti livelli di comportamento rituale tendevano a mostrare maggiori sintomi depressivi.

 

Il ruolo della neurobiologia e della neurogenetica

Una correlazione tra Disturbo dello Spettro Autistico e depressione è stata dimostrata dallo studio di Smoller e colleghi (Smoller JW, et al, 2013; Cook EHJ, et al, 1994). Tali dati potrebbero essere in accordo con l’evidenza da studi di genetica che ha esaminato loci genetici di rischio (Ijichi S, et al, 2013; Betancur C, 2011), che hanno dimostrato degli effetti condivisi tra autismo, ADHD, schizofrenia, disturbo bipolare e depressione maggiore (Smoller JW, et al, 2013).

È ben risaputo che la serotonina è coinvolta sia nella depressione che nell’autismo. Diversi dati mostrano che cambiamenti dei livelli serotoninergici possono influenzare mediante diversi meccanismi (Kepser LJ, et al, 2015).

 

Il bullismo come evento stressante

Un evento stressante a rischio per i soggetti affetti da disturbo dello Spettro Autistico è l’abuso e maltrattamento da parte del gruppo dei pari. Alcuni studi hanno dimostrato una correlazione tra questa varibile con con sintomi depressivi, ansiosi, sentimenti di solitudine e suicidio (Hawker DSJ, et al, 2000).

Il bullismo frequentemente coinvolge bambini affetti da disturbo dello Spettro Autistico (Cappadocia MC, et al, 2012; Van Roekel E, et al, 2010; Carter S, 2009; Wainscot JJ, et al, 2008). In uno studio, 34 genitori di bambini autistici di età compresa tra 5 e 21 anni, hanno indicato che circa il 65% dei figli era vittima di bullismo (Carter S, 2009); in uno studio condotto da Mayes e collaboratori (Mayes SD, et al, 2013), che ha studiato un campione di 791 bambini autistici, il 57% delle madri ha riportato che i propri figli erano vittima di bullismo. Ricerche condotte da Wainscot e collaboratori (Wainscot JJ, et al, 2008) hanno trovato simili tassi tra 57 giovani adulti affetti da autismo ad alto funzionamento. Altri studio hanno registrato tassi del 75% tra adolescenti affetti da autismo ad alto funzionamento (Little L, 2001).

Molti autori tentano di spiegare la correlazione tra gli alti tassi di bullismo con alcuni sintomi cardini o sintomi associati al disturbo dello Spettro Autistico. Per esempio le difficoltà nelle interazioni sociali e nella comunicazione o il rischio di essere oggetto di giochi dovuti alla loro rigidità (comportamenti ripetitivi, interessi ristretti), mancanza di assertività, reazioni intense comportamentali ed emotive, eccentricità, difficoltà con alcune capacità intellettive. Cappadocia e collaboratori (Cappadocia MC, et al, 2012) hanno trovato associazioni dirette tra bullismo ed alcuni comportamenti che possono essere osservati nell’autismo (comportamento stereotipato, auto-lesività, difficoltà comunicative ed ipersensibilità), come pure sintomi ansiosi ed iperattività, in un campione di 192 genitori di bambini affetti da autismo di età compresa tra 5 e 21 anni (di cui il 54% era affetto da autismo ad alto funzionamento).

 

Studi su Disturbo dello Spettro Autistico e suicidio

Diversi studi hanno riportato che molti individui con autismo manifestano comportamenti suicidari (Wolff S, et al, 1995; Balfe M, et al, 2010; Raja M, et al, 2011; Cassidy S, et al, 2014; Hannon G, et al, 2013; Kato K, et al, 2013). Studi sistematici, su soggetti autistici, focalizzanti i comportamenti suicidari sono rari e sono stati condotti in campioni di popolazione piccole (Fitzgerald M, 2007; Barry-Walsh JB, et al, 2004; Frazier JA, et al, 2002). Il rischio di suicidio nell’autismo è sottostimato; questo potrebbe derivare dal basso tasso di suicidio riuscito nella popolazione pediatrica e pre-adolescienziale e dal fatto che l’autismo rappresenta una delle diagnosi più misconosciute della psichiatria degli adulti (Hannon G, et al, 2013; Fitzgerald M, 2007).

Le caratteristiche patognonomiche del disturbo dello Spettro Autistico potrebbero mascherare i sintomi che indicherebbero un rischio immediato di suicidio; come alterazioni della comunicazione e dell’interazione sociale, comportamenti bizzarri, deficit cognitivi (Raja M, et al, 2011). Alcuni studi indicano che soggetti adulti affetti da autismo, hanno maggiori tassi di suicidio riuscito al primo tentativo (Kato K, et al, 2013), in quanto eseguiti con metodi violenti (impiccagione, arma da fuoco o avvelenamento).

Tra i pochi studi epidemiologici sul suicidio e autismo, si evidenzia lo studio di Balfe e Tantam (Balfe M, et al, 2010). Loro hanno studiato 42 adolescenti e adulti affetti da disturbo dello Spettro Autistico ad alto funzionamento (età media, 26.21 anni) ed hanno trovato un tasso di tentativo di suicidio del 15%. Storch e collaboratori hanno riportato un tasso del 11% tra 102 preadolescenti ed adolescenti, di età compresa tra 7 e 16 anni affetti da autismo ad alto funzionamento, in cui era presente depressione e disturbo post-traumatico da stress in comorbidità (Storch EA, et al, 2013).

Raja e collaboratori hanno riportato dati simili, studiando 26 soggetti adulti autistici in comorbidità con disturbo psicotico, riportando un tasso di suicidio del 7.7% (2 casi), 3.8% di tentativo di suicidio (1 caso), 3.8% di autolesionismo (1 caso), e 30.8% (8 casi) di ideazione suicidaria (Raja M, et al, 2011). In riferimento all’ideazione suicidaria, Shtayermman (Shtayermman O, 2007) ha trovato un tasso del 50% (5 casi) in adolescenti e giovani adulti autistici; mentre Wing (Wing L, 1981) ha indicato che nel 18.75% (3 casi) del campione di soggetti autistici ha dimostrato ideazione suicidaria o tentativo di suicidio. L’ideazione suicidaria è significativamente presente nella popolazione pediatrica autistica (Gadow KD, et al, 2012).

In studi in cui il Disturbo dello Spettro Autistico viene diagnosticato in popolazioni caratterizzate da soggetti ammessi in ospedale dopo tentativo di suicidio; si evidenzia lo studio di Høg e collaboratori che ha studiato una popolazione di 126 bambini, nel quale nel 97% (123 casi) erano diagnosticati con almeno una diagnosi psichiatrica, in cui tra loro, 7 bambini presentavano autismo in comorbidità con psicosi [Høg V, et al, 2002].

In uno studio retrospettivo, Mikami e collaboratori hanno trovato che dei 94 adolescenti ospedalizzati per un tentativo di suicidio, il 12.8% (12 casi) presentavano Disturbo dello Spettro Autistico (Mikami K, et al, 2009). Tra questi, 5 soggetti dei 12 pazienti (42%) aveva un’anamnesi positiva per precedenti tentativi di suicidio.

In uno studio simile, Kato e collaboratori (Kato K, et al, 2013) ha studiato 587 soggetti giovani adulti ed ha trovato che il 7.3% (43 casi) presentavano Disturbo dello Spettro Autistico. In tutti questi studi, la prevalenza in soggetti autistici era maggiore rispetto alla popolazione generale.

Sembrebbe dunque che soggetti con diagnosi di autismo ad alto funzionamento possano tentare o commettere un suicidio specialmente quando hanno in concomitanza sintomi depressivi. Mayes e collaboratori hanno concluso (Mayes SD, et al, 2013), che depressione, problemi comportamentali e bullismo sono tra gli stress psicologici più predittivi di ideazione suicidaria o tentativo di suicidio.

Il tasso di ideazione suicidaria e di tentativo di suicidio era 28 volte più elevato in bambini e adolescenti (fino a 16 anni) con Disturbo dello Spettro Autistico rispetto ai controlli. I ricercatori hanno concluso che certe variabili demografiche (età superiore a 10, sesso maschile, razza afro-americana o ispanica, professione del padre poco remunerativa e storia di bullismo) sono dei fattori di rischio suicidario in soggetti affetti da Disturbo dello Spettro Autistico; mentre tra i fattori comportamentali, disubbidienza, ribellione, aggressività, impulsività, depressione e disregolazione emotiva (esplosivo, irritabile) sono maggiormente correlati al comportamento suicidario (Mayes SD, et al, 2013).

In uno studio condotto da McDermott e collaboratori hanno riportato che il tasso relativo di autolesionismo o tentativo di suicidio era molto più elevato tra i bambini affetti da autismo rispetto a quelli senza diagnosi di autismo, che sono stati ammessi in un dipartimento di emergenza (RR = 7.62, 95% intervallo di confidenza = 1.65–35.21) (McDermott S, et al, 2008).

Altri studi hanno evidenziato una correlazione negativa tra gravità dell’autismo e livelli di ideazione suicidaria (Shtayermman O, 2007).

Inflessibilità cognitiva, disregolazione emotiva (Rydén E, et al, 2008; Semrud-Clikeman M, et al, 2010), difficoltà nell’identificare sentimenti stressanti (Samson A, et al, 2012) potrebbero contribuire all’insorgere dell’ ideazione o del comportamento suicidario. Similmente, soggetti con tratti autistici lievi o atipici paradossalmente potrebbero manifestare un’incrementata suicidalità, la quale è esacerbata da sentimenti di disperazione relativi alla discrepanza tra alta domanda di adattamento sociale e competenze interpersonali.

Nello studio condotto da Takara e collaboratori (Takara K, et al, 2014), l’agitazione era il più influente fattore di tentativo di suicidio tra tutti i soggetti depressi e la sua incidenza era estremamente più elevata tra i soggetti che hanno tentato il suicidio affetti da autismo. Alcuni studi hanno dimostrato che l’agitazione era uno dei più importanti manifestazioni dell’autismo visitati nei dipartimenti di emergenza (Bradley E, et al, 2005; McGonigle JJ, et al, 2014).

Kato e collaboratori hanno suggerito che soggetti autistici tendono a scegliere metodi più letali, a causa della loro inferiore immaginazione ed al loro diminuito controllo degli impulsi rispetto alla popolazione generale (Kato K, et al, 2013).

Billstedt e collaboratori (Billstedt E, et al, 2005) hanno riportato che circa la metà dei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico o tratti autistici atipici avevano manifestato gradi moderati o gravi di autolesionismo in un follow-up di 13–22 anni.

In uno studio su tassi di ideazione suicidaria e di tentativo di suicidio mediante valutazione dei genitori, hanno dimostrato tassi significativamente maggiori in bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico (14%) rispetto a bambini controllo (0,5%) (Mayes SD, et al, 2013). Uno studio su 102 giovani soggetti con autismo in comorbidità con disturbi d’ansia, il tasso di ideazione suicidaria e di tentativo di suicidio, era dell’11% (Storch EA, et al, 2013). Uno studio condotto su 42 soggetti adulti affetti da sindrome di Asperger, il tasso di ideazione suicidaria era di 40% e il tasso di tentativo di suicidio di 15% (Balfe M, et al, 2010). In 26 pazienti adulti psichiatrici con disturbo dello spettro autistico, il 30,8% presentava ideazione suicidaria e due sono morti per suicidio (Raja M, et al, 2011).

Tradire con l’immaginazione – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Mi sto chiedendo se sia giusto o sbagliato, nonostante una persona sia fidanzata, avere delle fantasie principalmente sessuali su altre persone, persone dalle quali magari si era attratti in passato, ma non per forza. Inoltre mi chiedo se sia giusto non cedere a queste tentazioni se per caso si presentassero in modo più concreto e resistervi. Insomma in che modo ci si deve comportare? (Yoyo)

 

 

Caro Yoyo,

l’immaginazione è forse l’ultimo spazio di autentica intimità che ci è concesso negli anni dominati dai social media. Invece di chiederci se sia giusto o sbagliato avere fantasie sessuali su persone diverse dal proprio/dalla propria partner dovremmo chiederci qual è il rapporto tra questa dimensione immaginativa così intima e la nostra vita amorosa.

La risposta alla sua domanda quindi non può essere univoca, ma deve tenere conto di diversi fattori, primo fra tutti il benessere psicologico della coppia e degli individui che la compongono. Pertanto, caro Yoyo, la invito a riflettere su come i pensieri che ha esposto la fanno sentire. Teme che la solidità del rapporto possa essere minata in qualche modo dalle sue fantasie, o al contrario crede che trovando sfogo in esse sarà meno propenso a tradire realmente? Le sue fantasie sessuali influenzato il desiderio sessuale verso il suo partner? Se sì, in che modo?

Avere fantasie sessuali su persone diverse dal proprio/dalla propria partner è un fenomeno piuttosto frequente (anche se non tutti sono disposti ad ammetterlo!), altra cosa è come ci comportiamo quando l’occasione di essere infedeli si fa più concreta. Prima di essere avventato rifletta bene sui suoi desideri e se lo ritiene opportuno ne parli apertamente con la sua/il suo partner.

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Ipocondria: efficacia di un trattamento cognitivo comportamentale online

Una ricerca condotta in Svezia ha dimostrato l’efficacia di una terapia cognitivo comportamentale online per persone con diagnosi di ipocondria.

 

L’efficacia della terapia cognitivo comportamentale online per l’ ipocondria

L’ipocondria è caratterizzata da una forte ansia per il proprio stato di salute. L’aspetto principale dell’ipocondria è che la paura o la convinzione ingiustificate di avere una malattia persistono nonostante le rassicurazioni mediche.

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) ha dimostrato di essere efficace per l’ipocondria, ma, come sottolineano i ricercatori svedesi, a causa della cronica scarsità di terapeuti nel settore sanitario pubblico, non sempre risulta disponibile, quindi, potrebbe essere molto utile sviluppare nuove modalità di trattamento.

In questo studio è stata valutata l’efficacia di una terapia cognitivo comportamentale online per l’ipocondria con la guida via e-mail di uno psicologo.

Lo studio randomizzato ha messo a confronto un trattamento di terapia cognitivo comportamentale online di 12 settimane gestito da uno psicologo tramite e-mail, con un gruppo di controllo, che, per tutta la durata della ricerca, non ha preso parte a nessun tipo di trattamento.
Allo studio, hanno partecipato 81 persone con diagnosi di ipocondria secondo i criteri del DSM-IV, che sono state divise in modo del tutto casuale in uno dei due gruppi di ricerca.
Al termine delle 12 settimane anche il gruppo di controllo ha avuto accesso al trattamento per l’ipocondria.

I partecipanti allo studio sono stati inviati da psichiatri e medici di base, sono state escluse persone con malattie somatiche gravi, con storia di psicosi o di disturbo bipolare, persone con alti livelli di depressione, persone con ideazione suicidaria, con disturbi di personalità e infine persone che presentavano abuso di sostanze.

Le valutazioni, comprese le interviste diagnostiche eseguite da uno psicologo clinico, sono state condotte prima del trattamento, immediatamente dopo il trattamento e a 6 mesi dalla fine. Tutte le valutazioni iniziali di selezione dei pazienti sono state effettuate da psichiatri e psicologi in presenza, mentre, quasi tutte le misure di outcome, sono state somministrate dallo psicologo online.

Il trattamento utilizzato ha fatto riferimento al modello cognitivo-comportamentale per l‘ipocondria. Inoltre, gli psicologi , hanno previsto una formazione mindfulness per insegnare ai partecipanti ad osservare le proprie sensazioni corporee senza cercare di controllarle.

Il trattamento previsto era sostanzialmente di auto-aiuto, somministrato tramite una specifica piattaforma gestita da uno psicologo online.
Ogni modulo è stato dedicato ad un tema specifico e comprendeva i relativi esercizi.

La durata del trattamento cognitivo-comportamentale era di 12 settimane e, durante questo periodo, i partecipanti hanno avuto la possibilità di contattare a loro discrezione lo psicologo online. Il ruolo dello psicologo è stato principalmente quello di fornire un feedback riguardo i compiti e di garantire l’accesso ai moduli di trattamento successivi; tuttavia, i partecipanti potevano contattare lo psicologo online, in qualsiasi momento. Durante la fase di trattamento, i partecipanti hanno anche avuto la possibilità di accedere ad un forum di discussione online che ha permesso il contatto anonimo con gli altri partecipanti.

Dopo il trattamento, 27 dei 40 partecipanti (67,5%) che avevano ricevuto la terapia cognitivo comportamentale online non hanno più soddisfatto i criteri diagnostici per l’ipocondria. Nel gruppo di controllo soltanto 2 dei 41 partecipanti (4,9%) non ha più soddisfatto criteri diagnostici per l’ipocondria secondo il DSM-IV.
A 6 mesi di follow-up i miglioramenti sono stati mantenuti, con 32 su 40 partecipanti al gruppo CBT basato su internet (80%) che non hanno più soddisfatto i criteri diagnostici per l’ipocondria.

Questa ricerca suggerisce che una terapia cognitivo comportamentale online può essere considerato un’alternativa efficace ed efficiente al classico trattamento per l’ipocondria e suggeriscono di continuare gli studi in questa direzione.

 

Il bullismo: strategie d’intervento per aiutare i bambini a difendersi

Sarebbe opportuno pensare al bullismo come fosse un grande recipiente contenente un ampio spettro di comportamenti che condizionano negativamente i pensieri, i sentimenti e le relazioni sociali di chi lo subisce.

 

Introduzione: bullismo o conflitto tra coetanei?

Sarebbe opportuno cominciare a pensare al termine “bullismo”come fosse un grande recipiente contenente un ampio spettro di comportamenti che condizionano negativamente i pensieri, i sentimenti e le relazioni sociali di chi lo subisce. Demarcare la linea fra il classico conflitto fra coetanei ed il bullismo spesso non è così facile per insegnanti e genitori che si trovano nella posizione d’aiuto per eccellenza.

Un comportamento che mira chiaramente a provocare del danno al bambino non andrebbe classificato come forma di un normale conflitto.

Per dirla con le parole di Olweus, uno dei massimi esperti in materia, “uno studente è oggetto di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”(Olweus, 1996).

Di seguito vengono riportati gli strumenti necessari per riconoscere il bullismo ed intervenire in modo efficace.

 

Bullismo o Bullismi?

Quando si pensa al bullismo la prima immagine che ci viene in mente è quello del ragazzino debole che viene picchiato da compagnetto gradasso di turno, ma il bullismo fisico è solo uno dei modi in cui si manifesta questa piaga sociale. Non per questo dobbiamo pensare che sia anche il più facile di cui accorgersi.

Rientra fra il bullismo fisico il fenomeno dello “swirling”, cioè la pratica di spingere la testa del malcapitato dentro al gabinetto. Purtroppo è più diffusa di quello che si possa pensare, in quanto molto umiliante, ma i bambini che lo subiscono non riportano segni sul corpo che rendono il riconoscimento del bullismo immediato. La stessa cosa vale per le continue spinte per terra.

Tuttavia esistono modi ancora più subdoli di cui si avvalgono i bulli. Fra questi rientra il bullismo verbale, estremamente dannoso per l’autostima dei bambini. Si tratta di comportamenti che hanno come scopo l’umiliazione e l’annullamento della vittima mediante insulti, pettegolezzi infondati lasciati circolare intenzionalmente, derisioni continue e ripetute, osservazioni malevole dai toni razzisti o indirizzati verso difetti fisici.

Infine è utile fare focus anche sul bullismo relazionale, cioè quel bullismo volto all’isolamento della vittima, escludendola da tutti i gruppi sociali, facendogli trovare scritte minacciose sul banco, non rivolgendogli la parola trascinando nello stesso comportamento l’intero gruppo, guardandola in maniera schifata e rendendola oggetto di offese molto gravi (ad esempio “Ti odiano tutti”; “ucciditi”; “sarebbe stato meglio per tutti se non fossi mai nato”, etc.).

In quest’ultima categoria rientra anche il cyberbullismo che ricalca le stesse dinamiche ma in maniera ancora più efferata in quanto digitale e impersonale.

 

Come riconoscere le caratteristiche tipiche del bullismo?

Olweus descrive 3 caratteristiche tipiche del comportamento da bullo e i protagonisti che vengono coinvolti in questa dinamica sociale. Per quanto riguarda le caratteristiche esse sono:

  • L’  intenzionalità: il comportamento ha come preciso scopo il creare nocumento all’altra persona;
  • La sistematicità: il fenomeno si ripete nel tempo con caratteristiche di costanza e perseveranza;
  • L’ asimmetria di potere: nella relazione il bullo si trova in una situazione privilegiata di “forza” mentre la vittima è costretta a subire in quanto, per diversi motivi,  incapace di difendersi. (Olweus, 1993; Coie e Dodge, 1998; Smith et al.,1999).

Per quanto riguarda lo scenario, le figure coinvolte sono:

  • Il bullo:  E’ caratterizzato da marcata aggressività verso gli altri (indipendentemente che siano coetanei o adulti), da scarsa empatia ed è mosso da una marcata necessità di dominio sugli altri ( Coie et al., 1991; Boulton e Underwood, 1992).
  • La vittima: Di solito è caratterizzata da ansia, insicurezza e uno scarso senso di autostima e autoefficacia. Ciò implica una visione negativistica di sé e delle proprie competenze (Olweus, 1993; Perry, Kusel e Perry, 1988; Kochenderfer e Ladd, 1997).
  • Gli spettatori o pubblico: si tratta di coloro che, pur non essendo coinvolti direttamente nel fenomeno, ne sono consapevoli. Osservano le dinamiche senza intervenire in alcun modo nell’aiutare la vittima.

 

Consigli pratici per genitori

Infine è doveroso riportare alcuni consigli pratici che i genitori di bambini che affrontano questo problema possono mettere in atto per meglio consigliare i loro figli per gestire la situazione senza rischiare di comprometterla. Infatti spesso i genitori si chiedono “come dovrebbe reagire mio figlio?”:

  • Non avere reazioni violente a scopo di vendetta, di solito non sono utili e portano ad un peggioramento della situazione;
  • Sforzarsi di mantenere la calma. I bulli hanno come scopo provocare la reazione di umiliazione e il soddisfacimento di questo loro bisogno li porta alla reiterazione del comportamento. Il non ottenimento di questa reazione potrebbe farli desistere;
  • Ricordarsi che non si è soli. Il bullismo non è una cosa che la vittima deve affrontare da sola, riguarda anche i genitore e l’istituzione scolastica. Dunque non bisogna aver paura di parlarne con quanti più adulti di riferimento possibili;
  • Evitare di frequentare gli stessi posti del bullo e cercare di essere quanto più possibile sempre in compagnia e mai soli;
  • Quando si risponde al bullo farlo sempre in modo determinato, fermo ed assertivo. Non rispondere in modo aggressivo, ma nemmeno in modo sottomesso;
  • Cercare di volgere a vostro favore i commenti negativi del bullo;
  • Coltivare quante più amicizie possibili dentro e fuori la scuola. Avere degli amici che vi vogliono bene e che sono dalla vostra parte vi aiuterà a non cedere emotivamente;
  • A volte, in qualche caso, l’autoironia si dimostra essere nostra alleata. Qualche bullo potrebbe apprezzare il vostro senso dell’umorismo e lasciarvi in pace. Ovviamente ciò è differente per ogni caso, quindi valutate bene la persona con cui avete a che fare prima di farne una strategia d’utilizzo.

L’ alleanza terapeutica nel trattamento del disturbo borderline di personalità

Nella relazione con pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità, la flessione dell’ alleanza terapeutica raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo terapeutico: rievocare tale obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza.

Maddalena Goffredo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

L’ alleanza terapeutica, nonostante sia soltanto una delle variabili della relazione clinica, è probabilmente la più importante ai fini dell’efficacia terapeutica ( Lingardi, 2002, Nocross, 2011, Safran, Muran, 2000).

Essa rappresenta, infatti, il fattore terapeutico aspecifico, ovvero non correlato all’uso di tecniche proprie di specifici orientamenti e modelli psicoterapeutici, con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Diversi autori hanno tentato di dare una definizione specifica del costrutto. In questo articolo tenterò di descriverla e definirla attraverso la rassegna dei vari studi condotti su di essa, nello specifico condotti nelle terapie del disturbo borderline di personalità, il quale risulta essere, per le sue varie caratteristiche, il più vulnerabile alla formazione delle rotture dell’ alleanza terapeutica e delle interruzioni di trattamenti terapeutici (né seguirà una descrizione nella seconda parte dell’articolo).

 

Alleanza terapeutica: definizioni e caratteristiche

Bordin (1979) definisce l’ alleanza terapeutica sulla base dell’esistenza di tre componenti:  l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta, la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento e il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto. Considera il terzo elemento, il legame affettivo quindi, come costitutivo dell’ alleanza terapeutica, e fattore aspecifico di grande efficacia clinica.

Secondo l’autore esso emerge dall’interazione tra due variabili principali: da un lato i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, d’altro lato le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’ alleanza terapeutica e nella conduzione di una terapia avente buon esito; la condivisione degli obiettivi e la chiarezza, circa i diversi compiti del terapeuta e del paziente, assumono maggiore importanza rispetto al legame emotivo, nell’empirismo collaborativo di Beck (1976).

Safran e Segal (1990), come Bordin (1979), hanno indirizzato il loro lavoro alla descrizione del terzo fattore della definizione di Bordin (1979), definendolo  come una qualità dinamica della relazione che il terapeuta deve controllare costantemente in quanto in continua oscillazione. Gli autori propongono di analizzare i marcatori interpersonali insieme agli atteggiamenti problematici del paziente, riconcettualizzando il caso perché così facendo il terapeuta cognitivista può accorgersi che l’atteggiamento problematico del paziente dipende dal riemergere di schemi cognitivi interpersonali poco adattivi, che coinvolgono lo scambio col terapeuta (concetto sovrapponibile con il ciclo interpersonale problematico di Semerari, 2000).

La prospettiva cognitiva evoluzionista, che cerca di colmare la mancanza di una teoria della relazione interpersonale e delle motivazioni umane alla relazione (Gilbert,1989; Liotti, 1994/2005), vede nella relazione terapeutica lo scopo di strumento conoscitivo e di processo che cura, sulla base dei SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali). La relazione clinica diventa quindi la sede in cui terapeuta e paziente esplorano gli stati d’animo e i processi di pensiero di entrambi i membri, con lo scopo di aumentare le capacità metacognitive del paziente.

L’incremento di queste capacità permette al paziente di riflettere sui propri contenuti mentali. Secondo questa prospettiva il motore dell’ incrementata capacità è il sistema motivazionale cooperativo, che favorisce la condivisione dell’attenzione per lo stesso oggetto, cioè gli stati mentali di entrambi i partecipanti.

È importante sottolineare che questa prospettiva distingue le dinamiche transferali dall’ alleanza terapeutica. Le dinamiche transferali emergono, secondo questo modello, nelle fasi in cui il paziente percepisce un maggior senso di vulnerabilità e necessita di un maggior sostegno da parte del terapeuta, attivando il sistema di attaccamento motivazionale. L’ alleanza terapeutica invece è coordinata dall’attivazione del sistema motivazionale cooperativo.

L’atteggiamento collaborativo si fonda su strutture di memoria meno problematiche di quelle dell’attaccamento e quando attive nei momenti di alleanza, durante lo scambio clinico, permettono, oltre alla condivisione di obiettivi, anche l’esplorazione congiunta delle difficoltà attuali del paziente. In sintesi, l’ alleanza terapeutica è comprensibile in termini di attivazione del sistema cooperativo in entrambi  i membri della diade terapeutica, mentre le sue flessioni e le sue fratture sono dovute soprattutto all’attivazione, nel paziente, del sistema di attaccamento e dei MOI insicuri e disorganizzati a esso coordinati (e di accudimento conseguente nel terapeuta).

 

Alleanza terapeutica e attaccamento

L’influenza dello stile di attaccamento è stata confermata da numerosi studi tra cui quello di Eames e Roth (2000), dal quale si evince come nei pazienti con stile disorganizzato o invischiato le terapie presentavano frequenti rotture dell’ alleanza, di cui si discuterà in seguito (Liotti, Monticelli 2014).

Si evince quindi che in un contesto terapeutico, ogni volta che nel dialogo clinico affiorino memorie e aspettative di difficoltà e dolore mentale, sia inevitabile l’attivazione del sistema di attaccamento. Il rapporto clinico tra psicoterapeuta e paziente si presenta dunque frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982).

Il paziente, in almeno alcuni momenti del dialogo clinico, racconta la propria sofferenza, paura o angoscia e lo stato mentale che accompagna questa narrazione implica pressoché sempre l’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento appunto. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (MOI degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Se da un lato ciò comporta una minaccia all’ alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da MOI insicuri o disorganizzati, dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’ attaccamento nel dialogo clinico, è una condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

 

Disturbi di personalità e fratture dell’ alleanza terapeutica

Diverse ricerche hanno studiato l’andamento dell’ alleanza terapeutica, soprattutto nei trattamenti dei disturbi di personalità, confermando l’ipotesi iniziale che la definiva come un processo dinamico che può ridursi nelle fasi intermedie della terapia. Questo perché probabilmente durante queste fasi emergono le problematiche interpersonali dei pazienti più gravi che possono compromettere la qualità della relazione terapeutica appunto.

I dati di ricerca longitudinali sono compatibili con l’impressione dei clinici che l’andamento dell’ alleanza terapeutica nel corso del processo terapeutico sia spesso imprevedibile, oscillante tra momenti di grande intesa e altri di perdita di sintonizzazione tra paziente e terapeuta (Horvath, Greenbrg, 1994; Horvath, Marx, 1991; Safran, Crock, McMain, 1990).

Un momento importante della relazione terapeutica è la riparazione delle fratture dell’ alleanza che può essere un fattore terapeutico di importanza fondamentale non solo perché permette la prosecuzione del trattamento, ma anche perché avvia il cambiamento in senso adattivo degli schemi interpersonali più problematici del paziente.

Questi schemi emergono infatti con particolare chiarezza nei momenti in cui l’ alleanza terapeutica è minacciata, e spesso sono identificabili soltanto in questi momenti diventando oggetto di correzione terapeutica solo all’interno della relazione in corso fra paziente e terapeuta.

Come precedentemente accennato, entrambi i membri della diade terapeutica, con la loro storia, le loro caratteristiche di personalità e funzionamento influenzano la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza terapeutica. Tra le caratteristiche del paziente ci sono la capacità di mentalizzare, la motivazione alla terapia, le aspettative di cambiamento, le qualità generali delle relazioni interpersonali, la gravità del disturbo e gli stili di attaccamento. Sono molto significativi e concordanti i dati degli studi sulla relazione tra gravità del disturbo di personalità e fragilità dell’ alleanza (Lingiardi, Croce, Fossati et al. , 2000)

I risultati di questi studi supportano le ipotesi secondo cui gli indicatori precoci di alleanza terapeutica si rivelano utili predittori del dropout. L’obiettivo principale di questa ricerca era quello di segnalare ai clinici che trattano con pazienti con disturbi di personalità l’utilità del costrutto di alleanza terapeutica. L’interruzione prematura del trattamento psicoterapico è frequente nei disturbi gravi di personalità. Una nuova direzione di indagine sul dropout è legata all’ipotesi che un fenomeno così complesso come l’abbandono della psicoterapia dipenda dalle caratteristiche della relazione terapeutica, come interazione reale e processo relazionale (Horvath, 1996). L’ alleanza terapeutica sembra, quindi, un costrutto promettente nell’indagine sul dropout.

 

Disturbo borderline di personalità e alleanza terapeutica

Fino ad oggi però sono state condotte poche ricerche sul ruolo che potrebbero giocare le caratteristiche di personalità, i sintomi psicopatologici, i meccanismi di difesa, sul processo di formazione di alleanza, specialmente con pazienti con disturbo borderline di personalità.

In particolare il trattamento con pazienti con disturbo borderline di personalità è particolarmente difficoltoso per via delle problematiche relazioni che interferiscono con la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza. Gli studi retrospettivi mostrano infatti un’alta percentuale di dropout in fase iniziale della terapia.

Non di rado gli stati mentali relativi alla disorganizzazione dell’attaccamento (Liotti, 1994,/2005, 2007; Liotti, Farina, 2011; Main, kaplan, Cassidy, 1985) sono alla base di sviluppi psicopatologici in particolare dello spettro Borderline/dissociativo(Liotti, farina, 2011).

Soprattutto in questi casi il comportamento del terapeuta viene spesso assimilato alla rappresentazione di un genitore da un lato spaventato, gravemente trascurante, oppure ostile e violento, e dall’altro fonte potenziale di aiuto e conforto. Si può dedurre che il paziente teme allora simultaneamente di perdere la vicinanza emotiva del terapeuta e di mantenere un vicinanza percepita come pericolosa (paura senza sbocco, Main, Hesse, 1990). Questo conflitto si manifesta in terapia nei confronti del terapeuta il quale sarà oggetto di idealizzazione e svalutazioni da parte del paziente, di fobie opposte e simultanee delle emozioni di attaccamento provate (paura della vicinanza e paura dell’abbandono), il paziente spesso potrebbe attribuire alla vicinanza emotiva significati distorti come persecutori, sentimenti di impotenza propria e attribuiti al terapeuta che conducono a considerare inutile la terapia, e potrebbero emergere condotte paradossali di sollecitudine accudente rivolte al terapeuta.

Lo stato mentale del paziente relativo all’ attaccamento al terapeuta è stato indagato con uno strumento derivato dall’ AAI (Adult Attachment Interview), la Patient – Therapist Adult Attacchment Interview (PT – AAI: Diamond, Stovall-McClough, Clarkin et al.,2003). Le valutazioni al PT – AAI dopo un anno dall’inizio della terapia sono state confrontate con quelle dell’AAI dopo un anno dall’inizio del trattamento. In tutti i casi, tranne uno, lo stato mentale del paziente riguardante l’attaccamento al terapeuta concorda con uno o più aspetti dello stato mentale riguardante l’attaccamento alle figure genitoriali.

Questi dati confermano l’ipotesi di Bowlby (1969) che sostiene che quando si attivano nel paziente, all’interno della relazione terapeutica, bisogni di vicinanza e protezione, emergono anche i MOI (Modelli Operativi Interni) dei suoi originari attaccamenti, cioè le strutture di memoria e aspettative costruite durante l’interazione con le figure di attaccamento (FDA) nell’infanzia.

Se si confrontano i dati di Diamond , Stovall –McClough, Clarkin e collaboratori (2003) con quelli dello studio di Bradley, Heim e Westen (2005), è facile concludere che l’emergere dei MOI dell’attaccamento originario del paziente all’interno della relazione terapeutica è foriero di problemi della rottura dell’alleanza. Infatti il tranfert del paziente corrisponde in maniera sorprendete, secondo i dati di Bradley e,Heim e Westen (2005) al controtasfert del terapeuta, e le configurazioni di trasfert- controtasfert identificate nella ricerca appaiono molto lontane dal garantire le condizioni di sicurezza, reciproca fiducia e collaborazione caratteristiche dell’ alleanza terapeutica. Diventa così comprensibile il dato di ricerca, ripetutamente confermato, che l’ alleanza terapeutica e il modo di riparane le rotture sono fortemente influenzati dal tipo di attaccamento del paziente.

Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie controllanti rendono difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e collaborazione tipico delle relazioni di aiuto efficaci (Liotti, Farina, 2011).

L’attaccamento disorganizzato è frequentemente correlato alla psicopatologia in generale e al Disturbo Borderline di Personalità con stati dissociativi in particolare, come è stato precedentemente accennato; nelle terapie con questi pazienti il rischio di rotture dell’ alleanza terapeutica anche gravi, fino all’interruzione del trattamento è elevato.

 

Emozioni e relazioni nel Disturbo Borderline di Personalità

La diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità (DBP), prevista nel DSM-V fornisce ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantisce, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato.

Il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Queste modalità di pensiero coinvolgono diverse sfere di vita e le persone con questo disturbo spesso ne sono poco consapevoli, faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Ulteriori caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità sono la variabilità e l’eterogeneità, nessun tratto è sempre presente, periodi di sofferenza oscillano con fasi di benessere e buon adattamento sociale e un quadro clinico grave può cambiare rapidamente per un efficace intervento terapeutico o per un evento favorevole  (Semerari, Di Maggio, 2003). Tuttavia il Disturbo Borderline di Personalità ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Il Disturbo Borderline di Personalità è stato ed è tuttora oggetto di studio di diversi autori e sono stati ideati appropriati approcci e protocolli psicoterapici.

Secondo Kernberg (1995), il soggetto con Disturbo Borderline di Personalità presenta un deficit di integrazione che lo caratterizza attraverso oscillazioni opposte delle rappresentazioni di sé e dell’oggetto visto come o tutto positivo o tutto negativo, o buono o cattivo che causa inoltre l’instabilità dell’immagine di sé e delle relazioni interpersonali.

Chi soffre di Disturbo Borderline di Personalità presenta inoltre un deficit di mentalizzazione  (descritto precedentemente nella teoria dell’attaccamento e dei SMI di Liotti): il bambino è alle prese con Figure Di Attaccamento (FDA) spaventate e spaventanti e tende quindi a costruirsi una memoria della rappresentazione dell’altro come responsabile persecutorio della paura sperimentata e del sé come vittima. Contemporaneamente però può percepire la FDA come salvatore che lo conforta, ma anche come vittima da confortare. La problematicità di queste rappresentazioni non sta soltanto nell’incompatibilità dei ruoli, quanto nel loro presentarsi simultaneamente e nel loro succedersi caotico. Il discorso del paziente è infatti confuso, oscilla da un argomento all’altro senza che sia possibile identificare un tema sovraordinato che dia senso a quanto detto e guidi il comportamento in modo coerente. Il senso di inferiorità si alterna alla rabbia e al timore per il giudizio negativo, ruoli seduttivi si alternano a immagini di competizione, memorie piacevoli si alternano con l’idea di un futuro vuoto.

Linehan (1993) identifica come nucleo disfunzionale del Disturbo Borderline di Personalità la disregolazione emotiva e gli aspetti di padroneggiamento degli stati interni, noto come deficit di regolazione emotiva. Secondo l’autrice i border sono caratterizzati da una forte vulnerabilità emotiva e da una difficoltà a regolare le emozioni, reagiscono intensamente e rapidamente di fronte a stimoli emotivi anche minimi e a causa della disregolazione sono incapaci, una volta attivata l’emozione, di compiere operazioni necessarie per ridurne l’intensità e ritornare al tono emotivo di base.

Tra le cause di sviluppo della disregolazione emotiva, secondo l’autrice, ci sarebbe la crescita in un ambiente invalidante dove la comunicazione interiore riceve risposte caotiche, inappropiate ed estreme. Anche l’autrice come Kernbreg (1995), riconduce la stessa stabilità del senso di sé al susseguirsi di stati mentali caotici ma tutti di intensità estrema. Nel modello della Linehan la disregolazione emotiva rappresenta l’elemento patogenetico fondamentale del Disturbo Borderline di Personalità ed è in grado di spiegarne gli aspetti fondamentali: i comportamenti impulsivi, il disturbo d’identità e il caos interpersonale, l’affettività disregolata.

Come ha scritto Linehan (1993) “la bravura del terapeuta sta nel scorgere un raggio di sole senza negare l’oscurità del paesaggio”. È fondamentale sottolineare e non sottovalutare le molte risorse personali e relazionali di cui dispongono i pazienti borderline. Essi sono capaci di instaurare, pur nella loro caoticità, relazioni intense e significative (Semerari, Dimaggio, 2003). Possono instaurare cicli interpersonali positivi in cui ottenere validazione e accettazione di sé e un senso di aiuto protezione e conforto; grazie a queste capacità si può ipotizzare l’attivazione di un potenziale circuito terapeutico in cui un senso di sé positivo emerge all’interno di una relazione di fiducia attraverso cicli validanti e cicli protettivi. Il problema è che questi cicli tendono ad essere brevi, fragili ed esposti a fratture di invalidazione proprio a causa del deficit di metarappresentazione che fa sì che l’investimento sull’altro sia scarsamente realistico, idealizzato, carico di aspettative eccessive che possono essere facilmente invalidate.

Si evince quindi che nella relazione terapeutica con questi pazienti, la flessione dell’ alleanza, raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo durante le fasi iniziali del trattamento come sostenuto da diversi autori. Rievocare l’obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza terapeutica. Nello specifico, il contratto è l’estensione di quello che si definisce progetto di cura, ma ne differisce in modo sostanziale perché è elaborato insieme al paziente e posizionato al livello effettivo della possibile motivazione verso il cambiamento (M. Sanza, 2015).

Infatti l’atto in sé di chiamare in causa la persona nel definire gli obiettivi del proprio percorso di cura determinerebbe un immediato coinvolgimento di entrambi gli attori nella relazione terapeutica: il terapeuta (o l’equipe) diverrebbe esperto dei processi di cambiamento, lasciando alla persona il ruolo di principale esperto di sé, della propria storia e delle proprie problematiche; una dimensione maggiormente simmetrica, cooperativa e collaborativa (come la definisce Liotti, 2008) pertanto, senza implicare con ciò un disconoscimento della diversità dei ruoli e delle relative differenti responsabilità. Interrogarsi e condividere gli obiettivi a breve e medio termine del trattamento diverrebbe, così, un processo che responsabilizza il paziente riducendo il rischio della delega e favorendo l’ancoraggio delle aspettative ad un piano il più possibile realistico, predefinito, negoziato e verificabile nel tempo.

Un tale coinvolgimento attivo della persona potrebbe avere quindi una valenza di per sé terapeutica in riferimento, ad esempio, alla potenzialità di incrementare il senso di autodeterminazione ed i bisogni di autonomia del paziente stesso, influenzandone positivamente la motivazione. La prassi del contratto terapeutico può essere uno strumento per incrementare il senso di empowerment dei pazienti nei confronti della propria salute, uno dei fattori più frequentemente associati alla compliance ed alla buona riuscita dei trattamenti.

 

L’ alleanza terapeutica nella Terapia Dialettico Comportamentale

Anche l’ideatrice del protocollo “Terapia Dialettico Comportamentale dedicato al trattamento dei pazienti con disturbo Borderline di Personalità, M.Marsha Linehan, sottolinea l’importanza della relazione forte e salda che il terapeuta deve instaurare con il paziente partendo dalla definizione del patto iniziale. Questo è essenziale poiché a volte la relazione con il terapeuta è l’unico rinforzo efficace con un soggetto borderline nella gestione e nel cambiamento del suo comportamento.

Con i pazienti ad elevato rischio suicidario, ad esempio, l’autrice vede nella relazione con il terapeuta, a volte, l’unica cosa che lo tiene in vita nei momenti di crisi acuta. La Terapia Dialettico Comportamentale si basa sulla premessa per cui l’esperienza di sentirsi accettati e accuditi e validati ha una valore di per sé (Linehan, 1989). Nella Terapia Dialettico Comportamentale in particolare, mentre all’inizio il paziente può credere che se fosse guarito avrebbe perso il terapeuta, quest’ultimo può applicare la tecnica del ricatto, e esplicita che nel caso in cui non migliorasse perderebbe il terapeuta ancora più velocemente in quanto “la prosecuzione di una terapia inefficace è un comportamento antietico”.

La tipica sequenza di eventi nella terapia del Disturbo Borderline di Personalità prevede difficoltà iniziale del paziente a fidarsi del terapeuta, a chiedergli aiuto e a raggiungere un equilibrio ottimale tra dipendenza e indipendenza. È probabile infatti che inizialmente il paziente mostrerà una scarsa fiducia nel terapeuta, rinuncerà a contattarlo telefonicamente, anche quando sarebbe opportuno farlo e tenderà a oscillare tra un atteggiamento di estrema dipendenza da un lato e di assoluta indipendenza dall’altro. Durante le fasi iniziali della terapia pertanto, gran parte del lavoro terapeutico è finalizzato a rinforzare la capacità di chiedere aiuto al terapeuta quando non riesce ad affrontare efficacemente la situazione.

Tuttavia se tale capacità non viene estesa all’ambiente circostante, al di fuori del contesto terapeutico, e se al paziente non viene insegnato ad aiutare sé stesso e a tranquillizzarsi da solo, la conclusione della terapia rappresenterà un evento altamente traumatico. Il processo di transizione dalla fiducia del terapeuta alla fiducia in se stesso e negli altri deve iniziare sin da subito. L’obiettivo finale è imparare a confidare in sé stessi e nelle proprie forze e il rispetto di sé con il superamento dei sentimenti di vergogna e odio. A volte il riemergere di intensi sentimenti di vergogna, o delle angosce legate alla conclusione della terapia, può essere tale da precipitare una regressione a comportamenti della fase iniziale o a reazioni di stress.

Il processo terapeutico parte quindi dallo sviluppo di un contratto terapeutico collaborativo: preparare il paziente ad una vita senza Terapia Dialettico Comportamentale, creando un’atmosfera emotiva in cui il paziente si senta sicuro di interagire apertamente e che lo protegga per quanto possibile da reazioni emotive incontrollabili una volta terminata la seduta. Un compito essenziale durante le sedute dedicate alla contrattazione del patto è costituito dall’instaurazione di una positiva relazione interpersonale. Queste sedute offrono al terapeuta e al paziente l’opportunità di esplorare problemi che possano interferire con l’ alleanza terapeutica. Compito del terapeuta è trasmettere competenza efficacia e credibilità. Un genuino interesse verso il paziente come persona piuttosto che solo come cliente o soggetto di una ricerca.

La terapia del borderline in sintesi, come tutte le terapie, si basa su alcuni principi fondamentali, tra i quali la fiducia che il paziente prova nei confronti del terapeuta, nessuna terapia infatti potrà funzionare se il paziente non ha fiducia nel terapeuta. Ciò significa che la relazione deve essere al centro dell’interesse del terapeuta.

Non si può però sottovalutare l’ipercoinvolgimento a cui i terapeuti sono sottoposti nelle terapie con questi pazienti e spesso ciò è difficile da sopportare per un singolo terapeuta. Ecco perché anche Liotti (2001) ritiene necessaria la presenza di un secondo terapeuta con cui il paziente è meno coinvolto, essa favorisce l’elaborazione delle rappresentazioni non integrate che minacciano la prima relazione. Infatti dato l’impegno, la disponibilità e la tensione emotiva che queste terapie richiedono esse possono portare il terapeuta ad una condizione di insopportabilità.

Il poter condividere il carico con altri e l’aver definito il patto e i confini del setting con il paziente, sono due importanti fattori che proteggono i trattamenti dal più maligno dei rischi: il rifiuto del terapeuta. Relativamente a questo è esplicativo ciò che Semerari scrive: “Non c’è crisi peggiore dell’ alleanza di quella in cui il terapeuta non desidera più fare terapia” (Semerari, 2003)

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia (2017) di Goleman D., Bennett L., Barlow Z. – Recensione del nuovo libro sull’ intelligenza ecologica

Lo studioso statunitense Daniel Goleman introduce in Coltivare l’intelligenza emotiva, Come educare all’ecologia, testo del quale è coautore, oltre ai costrutti di intelligenza emotiva e intelligenza sociale, una terza forma di intelligenza, collegata alla prima, l’ intelligenza ecologica.

 

 

Nonostante la sensibilità ecologica sia più diffusa, al giorno d’oggi, di quanto non lo fosse in passato, manca spesso la consapevolezza del fatto che il nostro agire quotidiano, inteso come “il nostro coinvolgimento nei sistemi energetici dell’agricoltura, dell’industria, del commercio e dei trasporti”, può incidere in positivo o in negativo sul benessere dell’ecosistema terrestre.

Lo studioso statunitense Daniel Goleman, noto per aver promosso l’importanza di una corretta educazione all’ intelligenza emotiva, introduce, in Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, testo del quale è coautore, oltre ai costrutti di intelligenza emotiva e intelligenza sociale, una terza forma di intelligenza, collegata alla prima, l’ intelligenza ecologica; se l’ intelligenza sociale ed emotiva incrementano l’abilità di vedere la realtà adottando la prospettiva altrui e di empatizzare, l’ intelligenza ecologica  si identifica con l’applicare queste capacità alla comprensione dei sistemi naturali e fonde le capacità cognitive con l’ empatia.

 

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia – L’integrazione tra intelligenza emotiva ed intelligenza ecologica

Il testo Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si pone l’obiettivo di presentare un modello educativo fondato sull’integrazione di intelligenza emotiva, sociale ed ecologica; questi tre tipi di intelligenza rappresentano dimensioni interconnesse dell’intelligenza umana che “si espande verso l’esterno: partendo da sé stessi si procede sia verso gli altri che verso tutti i sistemi viventi”. Le intelligenze sono, inoltre, in un rapporto dinamico tra loro: alimentandone e promuovendone una si possono incrementare anche le altre.

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si compone di una serie di storie di buone pratiche educative, raccontate attraverso la voce dei protagonisti; si tratta storie, tratte dalla realtà americana contemporanea, che narrano dell’importanza di salvaguardare l’ambiente e la natura intesa come fonte di vita, contrastando le iniziative che, al contrario, creano, in nome di interessi economici, un danno all’ecosistema.

Gli autori del libro si propongono, attraverso queste storie, di illustrare in quali modi sia possibile attuare una forma di “Eco istruzione” finalizzata ad incrementare l’ intelligenza ecologica; è possibile individuare varie modalità, il cui minimo denominatore comune è caratterizzato dalla presenza di una dimensione affettiva e di una dimensione cognitiva.

La dimensione affettiva si identifica con il provare “empatia verso tutte le forme di vita”, promuovendo  un senso di responsabilità e di cura che non riguarda, quindi, solo gli esseri umani, ma che viene esteso a tutte le forme di vita; la dimensione cognitiva ha a che vedere con la comprensione di come i sistemi viventi siano interconnessi gli uni con gli altri.

Gli autori di Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si muovono dal presupposto che la promozione di una sensibilità ecologica debba avvenire nelle scuole, ad opera degli educatori, andando ad intervenire sui sistemi di apprendimento; lo scopo di tale pratica educativa si identifica con il coltivare, nei giovani, la capacità di comprendere le relazioni tra le proprie azioni e il mondo naturale di cui sono parte.

La finalità di questo processo è quella di rendere le persone “eco istruite”; l’ Eco-istruzione, che ha delle ricadute a livello di azioni nel sociale, si configura come un percorso mediante il quale gli educatori e gli studenti si allenano insieme ad analizzare e comprendere i problemi ecologici cui è necessario fare fronte e ad individuare soluzioni creative. In questo modo, le comunità scolastiche possono rappresentare ambienti formativi in cui gli studenti vengono incoraggiati a tradurre in azioni e in impegno concreto le proprie aspirazioni, dando un contributo che va ad intervenire in modo attivo e responsabile sulla realtà.

In questo quadro è importante sottolineare che il creare un rapporto equilibrato con la natura passa attraverso la presa di coscienza del fatto ognuno di noi ha la possibilità, attraverso le proprie azioni, di esercitare un impatto negativo o, al contrario, estremamente positivo; in altre parole, abbiamo modo di intervenire attivamente sulla realtà che ci circonda.

Si tratta di un atteggiamento, quello promosso in Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, che favorisce un presa di responsabilità rispetto ai problemi, contrastando la passività e l’indifferenza, e stimolando, di contro, una modalità di partecipazione attiva; ciò crea i presupposti affinché gli studenti apprendano come “ridurre la dipendenza dal petrolio della loro scuola, scoprire come le loro vite sono interconnesse con persone che vivono accanto ai siti di trivellazione mineraria nelle montagne, migliorare la resilienza delle zone naturali intorno ai bacini idrici, o permettere che più persone abbiano accesso ad alimenti sani”, allenandosi ad essere protagonisti del mondo cui tutti apparteniamo e agendo in modo da promuovere un miglioramento delle condizioni di vita proprie ed altrui.

La mente ossessiva: una lezione con il Professor Francesco Mancini – Report dal seminario

Si è svolto lo scorso 27 febbraio a Palermo un intenso seminario di studi tenuto dal Professor Francesco Mancini, il cui tema è stato il disturbo ossessivo-compulsivo, il suo impatto negativo sulla qualità di vita di chi ne è affetto e l’efficacia delle terapie disponibili sulla sintomatologia.

 

Si è svolto lo scorso 27 febbraio a Palermo un intenso seminario di studi organizzato dall’Associazione di Psicologia Cognitiva di Roma, in collaborazione con l’Università degli Studi Palermo. Il tema dell’incontro, condotto dal Professor Francesco Mancini, Medico chirurgo, Specialista in Neuropsichiatria Infantile e Psicoterapeuta Cognitivista e Direttore della Scuola di Psicoterapia Cognitiva dell’Associazione di Psicologia Cognitiva APC, è stato il disturbo ossessivo-compulsivo, largamente studiato in clinica per il suo impatto negativo sulla qualità di vita di chi ne è affetto e in relazione alle terapie disponibili e all’efficacia sulla sintomatologia.

Le ossessioni interessano la popolazione generale e non esiste differenza qualitativa tra i controlli e le persone affette da disturbo ossessivo, ma solo una differenza quantitativa – apre il Professor Francesco Mancini – I pensieri intrusivi tipici degli ossessivi sono noti da tempo: basti pensare che già nel 1600 un arcivescovo inglese descrisse un paziente affetto da scrupolosità morale (paura del peccato) e lavaggi.

E addentrandosi nella tipologia dei comportamenti tipici degli ossessivi, diversi sono i sottototipi esistenti, benché un soggetto possa presentare più comportamenti sintomatici: compulsioni di controllo, di contaminazione, rituali di ordine e simmetria.

 

Diversi tipi di ossessivi: il sottotipo checker spiegato dal Prof. Francesco Mancini

Nella categoria dei checkers troviamo soggetti che controllano ripetute volte le cose, come la chiusura della porta di casa. L’ossessione da cui nasce la compulsione si fonda sull’idea che qualcosa possa essere sfuggito al controllo e che pertanto possa accadere qualcosa di negativo per cui essere colpevoli. L’obiettivo di tali comportamenti di controllo è di essere certi di non avere la responsabilità di certe disgrazie, come far entrare i ladri in casa – spiega il Professor Francesco Mancini.

E continuando:

Tuttavia accade che la ripetizione del gesto conduca a dubbi sull’accuratezza del ricordo, sulla fiducia della propria memoria fino a provocare stati simil-dissociativi: in tal caso si arriverà a dubitare della propria percezione, dopo aver fissato più volte l’oggetto.

Lungo il suo intervento, il Prof. Francesco Mancini si è soffermato a sottolineare un concetto fondamentale: la preoccupazione reale del paziente è di essere certo di non aver niente di cui rimproverarsi (come l’occorrenza di un disastro, nei checkers) piuttosto che della disgrazia in se stessa.

Caratteristica degli ossessivi, più che degli ansiosi e dei controlli, è una colpa definita deontologica, caratterizzata dal rispetto delle norme in sé piuttosto che dal bene degli altri come avviene nel senso di colpa altruistico. Si tratta del rispetto di un’autorità morale, riconosciuta autorevole, alla cui supremazia sottomettere le volontà individuali, limitando i diritti decisionali del singolo. Ecco che nel noto dilemma del trolley, in cui i partecipanti possono decidere di salvare cinque vite umane bloccate lungo un binario al costo di una, muovendo lo scambio su cui viaggia il vagone fuori controllo, gli ossessivi decideranno di non usare lo scambio. Si tratta di un’azione omissiva dettata dal fine di non mettersi al posto di Dio, non assumendosi pertanto la responsabilità del gesto. Una prova ulteriore del carattere deontologico della preoccupazione ossessiva e dell’effetto anti-ansiogeno dell’evitamento della responsabilità è che, se deresponsabilizzati, gli ossessivi si preoccupano molto meno anche se l’esito temuto può accadere lo stesso (il furto in casa)

 

Il senso di colpa deontologico risulta collegato al disgusto morale, nella misura in cui aumenta la sensibilità al disgusto, inducendo il bisogno di lavarsi, di modo che il lavaggio delle mani riduce il senso di colpa (Effetto Macbeth).

Il collegamento diretto con l’emozione del disgusto trova poi una corrispondenza a livello cerebrale.

Il senso di colpa deontologico attiva le insule, stazione dove pervengono le afferenze propriocettive, la cosiddetta strada del disgusto. Esse tuttavia si attivano di meno rispetto ai controlli per una sorta di familiarità con la colpa deontologica.

La mente ossessiva una lezione con il Professor Francesco Mancini - Report dal seminario

Il Prof. Francesco Mancini illustra i diversi sottotipi di ossessivi

 

L’etiopatogenesi e trattamento del Disturbo Ossessivo Compulsivo

Riguardo all’etiopatogenesi del Disturbo Ossessivo Compulsivo il Prof. Francesco Mancini ha esaminato le principali esperienze infantili chiamate in causa nel contribuire alla rappresentazione catastrofica tipica della colpa deontologica. Esse sono nello specifico:

  1. Carico di responsabilità fin da bambino
  2. Standard elevati imposti dai genitori per cui ogni piccolo errore merita una punizione
  3. Il ricorso a punizioni severe e scarsamente prevedibili (gravi umiliazioni)
  4. Il ricorso a un interruzione del rapporto, per esempio tenendo il muso per giorni per poi riprendere il rapporto in modo improvviso. In questo caso il bambino non sarà in grado di capire come si ricuce un rapporto, mancando la capacità di dare un senso all’accaduto.

In riferimento infine al trattamento, il Disturbo Ossessivo Compulsivo ha generalmente il fine di ridurre il senso di colpa vissuto come catastrofe, qualcosa che non può accadere.

L’obiettivo del trattamento è l’accettazione del senso di colpa e di responsabilità sia nei domini sintomatici, che non sintomatici. Una tecnica utilizzata è l’ACT, acronimo di Acceptance and Commitment Therapy, terapia cognitiva di seconda generazione basata sull’accettazione delle emozioni nel loro libero fluire e sull’impegno attivo per il cambiamento. Una terapia ben riuscita riesce a modificare inoltre le difese di ordine superiore, come l’ironia – conclude Francesco Mancini.

Una prospettiva che ribadisce la necessità di alleggerire il peso delle inevitabili frustrazioni e perdite che la vita presenta, contrastando la sensazione che “niente va come dovrebbe”, o che sia necessario acquisire determinate certezze per camminare lungo i sentieri del benessere.

Mindfulness e Schema Therapy: guida pratica (2016) – Recensione

Il libro Mindfulness e Schema Therapy di Van Vreesvijk, J. Broersen, G. Schurink propone un modello di intervento integrato con l’illustrazione di linee guida chiare per fornire una preparazione di mindfulness ai pazienti che hanno problemi con gli schemi e i mode.

La terza onda del cognitivismo e la necessità di integrazione

La “terza onda” del cognitivismo ha imposto una riflessione sull’integrazione dei diversi modelli psicoterapeutici che si sono affacciati alla ribalta negli ultimi anni. Le modalità con le quali affrontare e risolvere il problema sono diverse: un eclettismo riduzionista che utilizza le varie tecniche a seconda del caso clinico da affrontare, la ricerca di fattori comuni alle diverse psicoterapie su cui basare l’integrazione, un’integrazione teoretica che presuppone la fusione di due o più modelli teorici in una formulazione concettuale sovraordinata, l’assimilazione di posizioni, prospettive e tecniche all’interno di un contesto teorico che determina il significato di ciò che è assimilato.

Il libro Mindfulness e Schema Therapy

Il libro Mindfulness e Schema Therapy di Van Vreesvijk, J. Broersen, G. Schurink propone un modello di intervento integrato con l’illustrazione di linee guida chiare per fornire una preparazione di mindfulness ai pazienti che hanno problemi con gli schemi e i mode.

La Schema Therapy utilizza già un approccio eclettico all’interno di una cornice teorica sovraordinata con l’applicazione di tecniche che attingono da diversi modelli: cognitivo-comportamentale, esperienziale, interpersonale, Gestalt.

Il protocollo proposto da utilizzare per diversi disturbi compresi quelli di personalità inserisce un’ulteriore integrazione con tecniche mindfulness.

La parte introduttiva del libro illustra sinteticamente il modello teorico della Schema Therapy e della Mindfulness riprendendo sia la Riduzione dello Stress Basata sulla Mindfulness (MBSR), sia la Terapia Cognitiva Basata sulla Mindfulness da cui deriva una parte del percorso delineato.

L’approccio presentato integra le tecniche dei due modelli per modificare schemi e mode attraverso un’attenzione all’esperienza interiore di attivazione meno reattiva e più funzionale. Gli esercizi di mindfulness hanno lo scopo di rompere la rigidità dello schema, allontanare le sensazioni e regolare le emozioni.

Nel volume sono riportati i risultati di molti studi sull’efficacia della mindfulness per disturbi specifici e diagnosi eterogenee e illustrati i meccanismi funzionali della pratica: meditazione, decentramento, flessibilità psicologica, valori, regolazione delle emozioni, autocompassione, cambiamenti nell’attenzione e nella memoria di lavoro. Gli autori evidenziano che esiste un consenso generale fra i ricercatori riguardante i due fattori principali della mindfulness, attenzione e accettazione, ed elencano i cinque aspetti principali della pratica: la descrizione, l’azione consapevole, l’assenza di giudizio, l’assenza di reattività e l’osservazione.

Il protocollo di formazione presentato nella seconda parte del volume si compone di otto sessioni di gruppo con 8-12 partecipanti della durata di 90 minuti e due sessioni di follow-up. La formazione può essere impartita anche su base individuale.

Una prima fase è dedicata alla psicoeducazione su mode, schemi e coping identificandone tre fra i principali presentati da ogni partecipante. Nelle prime due sessioni si descrivono, spiegano e praticano le capacità di base della mindfulness.
Nella terza i componenti del gruppo praticano l’attenta consapevolezza di ricordi dolorosi.
Dalla quarta sessione in poi i partecipanti imparano a osservare consapevolmente durante la pratica i propri schemi e mode, lavorando su di essi a livello cognitivo e con le modalità Adulto Sano e Bambino Felice.

Le sessioni sono così articolate:

I sessione. Rispondere consapevolmente a schemi, mode e coping;
II sessione. Consapevolezza del tuo ambiente;
III sessione. Respirazione consapevole;
IV sessione. Mindfulness del coping;
V sessione. Permettere e accettare ciò che è;
VI sessione. Schemi: realtà o fantasia?;
VII sessione. Prendersi cura di se stessi attraverso l’Adulto Sano e il Bambino Felice;
VIII sessione. Il futuro.

A un mese dalla fine del percorso si svolgono le due sessioni di Follow-up.
I risultati sono misurati pre e post formazione con alcuni questionari (Young Schema Questionnaire, Schema Mode Inventory, Brief Symptom Inventory) e settimanalmente rispetto alla consapevolezza su una scala con punteggio da 1 a 10.

Il testo è compendiato da casi clinici ed esperienze, inoltre sono elencate le controindicazioni all’utilizzo del protocollo, tra le principali la gravità del disturbo, la carenza di capacità verbali e i problemi di apprendimento.

Gli esercizi da svolgere in seduta e a casa sono presentati e spiegati nella terza parte del volume, sicuramente la più interessante.
Per ogni sessione sono inserite delle schede di illustrazione degli esercizi che hanno come obiettivo di favorire nei partecipanti la capacità di rispondere consapevolmente a schemi, mode e coping. Gli esercizi sono i più noti e praticati per chi conosce la mindfulness: l’esercizio dell’uva passa, la scansione del corpo, gli esercizi per la respirazione consapevole, la camminata consapevole, la consapevolezza dei ricordi dolorosi, esercizi di destrezza.

L’integrazione che propongono gli autori ci sembra avvenire sul versante eclettico, senza un’assimilazione di posizioni, prospettive e tecniche all’interno di un contesto teorico che determina il significato di ciò che è assimilato, tuttavia il volume rappresenta un ottimo strumento da utilizzare praticamente sia per i terapeuti che privilegiano la Schema Therapy sia per chi pratica la Mindfulness.

Il piccolo principe: analisi psicologica dei personaggi e delle relazioni

Tante sono le interpretazioni della metafora della vita de Il Piccolo Principe, ancora oggi forse il messaggio che Antoine de Saint-Exupervy ci voleva lasciare con il suo racconto rimane celato tra le righe di questa favola, per cui “L’essenziale è invisibile agli occhi”.

Ilenia Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il libro ed i suoi protagonisti possono essere letti come un messaggio di tolleranza ed accettazione, ma soprattutto di riscoperta del valore dei sentimenti e dei legami affettivi, motivo per cui questa favola andrebbe riletta più volte nel corso della nostra vita, un promemoria di ciò che per noi è realmente importante ma che per paura di soffrire tendiamo a dimenticare.

Ogni capitolo de Il piccolo principe racconta l’incontro del protagonista con personaggi diversi, ognuna di queste figure bizzarre lascia il Piccolo Principe stupito e sconcertato per la stranezza delle persone adulte.

 

Il pilota ed il Piccolo Principe: l’adulto ed il bambino

Il libro inizia con il ricordo e la sensazione di fallimento sperimentata dal pilota all’età di 6 anni, fallimento che lo fa rinunciare al suo sogno: decide di abbandonare una delle sue più grandi passioni, il disegno. Il pilota è sì adulto ma non ha dimenticato il se stesso bambino, conserva il disegno “per non dimenticare, giustamente, a che punto la mancanza d’immaginazione degli adulti potesse essere grande e scoraggiante”. Il Pilota sa per sua esperienza personale (si è reso ben presto conto che nessuno capisce il suo disegno che, al contrario dei tanti che lo interpretano come un cappello, rappresenta un boa che mangia unelefante) che spesso “I grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spiegargli tutto ogni volta”, gli adulti non capiscono le fantasie dei bambini e ciò è motivo di forte sofferenza per loro.

Crescendo a volte mettiamo da parte la nostra parte più giocosa e creativa pensando che questa non possa essere utile nel mondo adulto, precludendoci così il piacere di fare le cose che ci rendono felici e che ci alleggeriscono, in questo modo ci troviamo a dover riacquisire i comportamenti che ci facevano stare bene lavorando sulle nostre strategie comportamentali. Il paradosso è trovare difficoltà nel compilare “L’Elenco delle possibili attività piacevoli”, mentre da bambini era la cosa che ci risultava più naturale al mondo, da grandi ci ritroviamo a fare i compiti per quello che ci siamo dimenticati di noi di quando eravamo bambini ed eravamo impegnati a studiare per diventare grandi.

Il pilota, ne Il Piccolo Principe, prova a cercare il bambino in ogni adulto che incontra, ma quando mostra il disegno tutti rispondono “è un cappello” così lui si abbassa al loro livello adulto.

La colpa non è mia, però. Con lo scoraggiamento che hanno dato i grandi, quando avevo 6 anni, alla mia carriera di pittore, non ho mai imparato a disegnare altro che i serpenti boa dal di fuori o serpenti boa dal di dentro.

Nel personaggio del pilota viene mostrato come le nostre prime esperienze possono influenzare il nostro diventare adulti.

Non sapevo bene cosa dirgli. Mi sentivo molto maldestro. Non sapevo come toccarlo, come raggiungerlo … Il paese delle lacrime è così misterioso

Da piccoli, il paese delle lacrime è il paese che conosciamo meglio, il pianto è il primo urlo che facciamo sentire di noi quando veniamo al mondo, la prima nostra forma di comunicazione quando siamo piccoli ma da grandi capita di dimenticarsene e ci rende difficile anche comprendere il pianto altrui.

Il personaggio del Pilota crea con il Piccolo Principe un vero e proprio legame d’amicizia. Questo personaggio mostra di non scoraggiarsi facilmente, si trova nell’immensità del deserto e, pur essendo solo, non si perde mai d’animo e cerca di uscire da quella situazione anche se non è per niente semplice.

Il Piccolo Principe è un misterioso bambino proveniente da un pianeta minuscolo, con tanta voglia di conoscere gli uomini e le loro abitudini. Pur giungendo in una regione disabitata, non appare né smarrito, né tanto meno impaurito, balzano agli occhi la sua semplicità, la sua innocenza. Una delle caratteristiche del Piccolo Principe che viene più volte esaltata nel racconto è la sua capacità di arrossire, residuo dell’infanzia.

 

La Volpe e la Rosa: attaccamento e relazioni

In questo romanzo non si trova solo il rapporto tra l’adulto e il bambino (pilota-piccolo principe), ma c’è anche quello tra pari, come tali possono essere visti il protagonista e la volpe: quest’ultima ha rivelato come “le amicizie possono essere tante ma sempre uniche”, l’incontro tra i due è un trattato sull’importanza dei legami nelle relazioni umane. Un amico non è una persona uguale a tutte le altre.

Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo.

La volpe, con queste parole, insegna al Piccolo Prinicipe il valore dell’amicizia, che per lei significa essere addomesticata e per il piccolo principe vuol dire prendersi cura della sua rosa.

Ciò che differenzia per ognuno di noi una persona dall’altra è la relazione che costruiamo con quest’ultima dedicandole tempo e attenzioni, impegnandoci nel conoscerla nei suoi punti di forza e nelle sue fragilità. Essere addomesticata per la volpe vuol dire creare un’affiliazione reciproca dove l’uno poi avrà bisogno dell’altro, creare un legame, questo brano spiega molto bene il senso del libro di Bowlby “Una base sicura”: l’attaccamento si sviluppa come una interazione tra un bambino unico ed i suoi genitori unici e uno degli aspetti più affascinanti del genere umano è proprio quello di creare dei legami unici.

Se tu vieni , per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Con il passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, inizierò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore … ci vogliono i riti

Sembra che la volpe sappia come si crei un legame di attaccamento sicuro: la madre assicura sempre la sua presenza e il bambino si abitua a questo rito.

Il Piccolo Principe si guadagna la fiducia della volpe andandola a trovare tutti i pomeriggi stabilendo un rito, è proprio il ripetersi di questo modello di interazione che fa sì che il bambino cominci a crearsi della aspettative. Si aspetta proprio che quella determinata persona appaia in quel determinato tempo, ed è il continuo verificarsi di tale rito che assicura che esiste lui, esiste l’altro, esiste la relazione. Il legame di attaccamento che si stabilirà fornirà un modello per le relazioni future e per tale motivo le nostre relazioni risentiranno di quella matrice interattiva densa per noi di significati, come ricorda Holmes nel libro “La teoria dell’attaccamento”:

L’attaccamento e la dipendenza, sebbene non più evidenti allo stesso modo che nei bambini piccoli, rimangono attivi lungo il ciclo vitale – l’attaccamento quindi non è limitato all’infanzia ma dura – dalla culla alla tomba.

Ad oggi bisognerebbe discriminare l’utilizzo del termine “dipendenza”, non sempre questa può essere classificata come patologica in quanto in realtà è un desiderio assolutamente legittimo di ogni essere umano, di stare quanto più vicino possibile a chi si vuole bene, a chi in caso di bisogno può prendersi cura di noi. Su questi aspetti odierni di “dipendenza affettiva”, dove ci si fonde con l’altro per la paura e l’incapacità di sentirsi soli, e di “individualismo spietato”, dove si maschera la paura di un legame al quale però realmente si ambisce, si potrebbe aprire un lungo dibattito ma non è questo il contesto.

Il rapporto tra la volpe ed il Piccolo Principe aiuta quest’ultimo a fare chiarezza sul suo rapporto con la rosa. Il Piccolo Principe viene a conoscenza del roseto: la rosa dovrebbe perdere qualsiasi importanza per il principe, ma egli capisce che la rosa non è più speciale perché unica nel suo genere, bensì è speciale perché le vuole bene, perché c’è un legame che si è creato tra di loro.

Ogni persona per noi importante lo è a seguito del rapporto che abbiamo costruito con questa, del tempo che abbiamo investito nel coltivare e nel creare una relazione con lei. I legami che gli esseri umani creano vanno al di là del puramente visibile, diventano pensieri, significati e schemi mentali. La necessità del cucciolo d’uomo di creare dei legami di attaccamento nasce dall’istinto di sopravvivenza, ci dice Bowlby.

Non si vede bene che col cuore, l’essenziale è invisibile agli occhi”, il segreto che la volpe svela al Piccolo Principe. Non è ciò che vediamo delle persone che le rende speciali ai nostri occhi, ma ciò che sentiamo per loro, un sentimento impercettibile per l’occhio umano ma talmente forte da condizionare la nostra vita.

Tale frase riprende anche il disegno della pecora che non si vede perché è dentro alla scatola, si vede la scatola se la si guarda con gli occhi, la pecora se la si guarda con il cuore. Solo la nostra sensibilità percepisce la singolarità dell’individuo, le persone sono rinchiuse nelle apparenze e solo “addomesticandole” si potrà rivelare ed apprezzare la loro singolarità, per cui anche la nullità del deserto può essere bella.

Volpe: “Ah … piangerò”

Piccolo Principe: “La colpa è tua”, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi”

La volpe facendosi addomesticare vuol far si che il Piccolo Principe si ricordi di lei anche quando non saranno più insieme, la conoscenza ed il legame con una persona implicano in sé la possibilità che poi si sperimenti la sofferenza, ad esempio quella del distacco, ma varrà la pena soffrire se poi in cambio si guadagnerà “il colore del grano”, cioè un legame affettivo, il calore di un’altra persona che non toglie nulla a ciò che siamo ma ci arricchisce permettendoci anche una maggior conoscenza di noi stessi:

I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai i capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano

Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato: questo ad oggi nei legami e nelle relazioni è ciò che più spaventa: la responsabilità del rispetto dell’altro all’interno della relazione e la paura che questa responsabilità limiti la nostra libertà, quando siamo noi in realtà a limitarla a causa delle nostre paure più nascoste.

Ogni adulto dovrebbe limitare il distanziamento emotivo da se stesso perché è solo ascoltandosi che si riesce ad ascoltare, è solo percependosi come “persona” con una identità ben precisa che si riesce a vedere l’altro, nella sua alterità e non come un prolungamento di sé.

La rosa che vive sull’asteroide B612 (paese in cui vive il Piccolo Principe) è delicata e molto esigente, le cure e la protezione del Piccolo Principe sono quelle che le permettono di sopravvivere e di splendere della sua bellezza. Il Piccolo Principe quindi era responsabile della rosa e della sua vita, questo era ciò che la rendeva così importante per lui, ma era anche il motivo per cui alle volte “avrebbe voluto dimenticarla, ma in quel momento si rammentava di essere tutto per la rosa e se ne occupava di nuovo.

Il nostro bisogno iniziale quando nasciamo è quello di sicurezza, motivazione per la quale fin da subito siamo predisposti alla creazione di legami, il nostro bisogno di sicurezza può aiutarci a comprendere meglio il dolore e la sofferenza legate al senso di perdita emergenti anche nell’adulto abbandonato. Inoltre il riconoscere da subito quel legame con la figura di attaccamento privilegiata rispetto agli altri è la conferma che sin dai primi mesi di vita il nostro principale obbiettivo è quello di assicurarsi di non essere soli, e oltre al cibo per andare avanti nella vita abbiamo bisogno di garanzie e certezze che ci vengono assicurate solo se abbiamo la possibilità di sperimentare che quello che ci accade intorno ha una continuità.

Era per alleviare la solitudine della rosa, che continuava a pensare a lei, anche da lontano

A ognuno di noi serve pensare ad una persona, ci fa sentire essere importanti essere pensati da qualcuno, perché noi non siamo un’isola, esistiamo in relazione agli altri. Accettando questa realtà e non remando contro la nostra natura potremo finalmente essere liberi nel non sentirci vincolati da una mancata ed assoluta indipendenza fortemente esalata nella quotidianità odierna, perché come dice Vittorino Andreoli (ex direttore del dipartimento di Psichiatria di Verona, membro della New York Academy of Sciences e presidente del Section Committee on Psychopathology of Expression della World Psychiatric Association) in un’intervista pubblicata nel 2013:

L’individualismo spietato. E badi che ci tengo a questo aggettivo. Perché un certo individualismo è normale, uno deve avere la sua identità a cui si attacca la stima. Ma quando diventa spietato…

Questo è ciò che accade nei rapporti con le persone alle quali vogliamo bene: ci piace sentirci indispensabili e responsabili per l’altro, è questo che rende così importante l’altro e la relazione ma allo stesso tempo tutto questo sembra avere un costo per la nostra libertà fino a quando non ci accorgiamo che la vera libertà è quella di vivere le emozioni ed i sentimenti che sentiamo.

Se qualcuno ama un fiore, di cui esiste un solo esemplare in milioni e milioni di stelle, questo basta a farlo felice quando lo guarda

La vanità della rosa è la causa della rottura del rapporto con il Piccolo Principe, è così che il protagonista, perde il proprio punto di riferimento e soffre per la rottura di questo rapporto, ma proprio questa rottura, questo dolore, questo senso di solitudine è ciò che poi lo spinge a esplorare nuovi pianeti, metafora per spiegarci quanto la rottura di un rapporto possa avere due facce. perdita/opportunità, entrambe reali. Elaborata la perdita possiamo andare verso opportunità che prima ci precludevamo.

La separazione, per quanto dolorosa, è necessaria, come ricorda la Telfener in “Le forme dell’addio”, molti passaggi da una fase all’altra del vivere si svolgono proprio all’insegna della separazione: nascere, svezzarsi, cambiare contesto lavorativo, dire addio a ideali-speranze e progetti rimasti irrealizzati, la perdita di un genitore, fino alla nostra morte, che è l’ultima separazione, quella dalla vita. Il processo di separazione porta alla differenziazione tra sé e gli altri, alla nascita del mondo delle rappresentazioni mentali, fa parte di un processo di individuazione (diventare individui con particolari caratteristiche) e differenziazione (percepirsi differenti, distinti da tutti gli altri). Ci sono infatti interpretazioni nelle quali la rosa viene vista come la metafora della “madre” dalla quale ognuno di noi per crescere deve separarsi, per poi ritrovarla da adulto in una relazione differente, basata su altri bisogni.

Il Piccolo Principe mostra di avere una “base sicura” per sentirsi libero di andare ad esplorare il mondo e poi tornare: come il bambino, quando viene lasciato all’asilo, che piange e si dispera ma poi inizia a giocare e accoglie felice la mamma quando va a riprenderlo.

Il Piccolo Principe cede e si fa mordere dal serpente “quando il desiderio della rosa è diventato troppo forte per potervi resistere ancora”, a volte per coltivare l’attaccamento bisogna sperimentare la perdita a piccole dosi: la lontananza dalla rosa ha permesso al Piccolo Principe di capirne l’importanza e di dare un valore al loro legame.

Un altro insegnamento che perviene da questo rapporto è l’importanza di ciò che le persone fanno piuttosto che la loro valutazione in base a ciò che dicono e raccontano:

Avrei dovuto giudicarlo dagli atti, non dalle parole. Mi profumava, mi illuminava. Non avrei dovuto venirmene via! Avrei dovuto indovinare la sua tenerezza dietro le piccole astuzie … ma ero troppo giovane per saperlo amare.

 

Analisi degli altri personaggi de Il Piccolo Principe

Il Re monarca assoluto che pensa di dominare l’interno universo in un pianeta dove vive solo lui, ordina quello che sa già che accadrà e mantiene così l’illusione che l’universo gli obbedisca. Regna su un tutto che alla fine si rivela essere un niente. Vuole che la sua autorità sia rispettata e perché avvenga non dà ordini che poi non vengano eseguiti, questo personaggio intimidisce il Piccolo Principe.

Il Re è la rappresentazione del bisogno degli uomini di avere l’illusione del potere e del controllo, senza le quali alcune personalità si sentono fragili ed esposte al pericolo. Si parla di illusione perché il controllo sugli altri non può esistere per definizione, il Re infatti non potendo controllare l’altro controlla se stesso, formulando ordini che possano essere eseguibili dalla persona che ha di fronte a sé.

L’Uomo vanitoso vuole solo essere ammirato e per questo risulta noioso, si accorge degli altri solo nel momento in cui loro lo ammirano “Ti ammiro”, disse il piccolo principe, alzando un poco le spalle, “ma tu che te ne fai?”.

Probabilmente l’Uomo vanitoso ha l’illusione di riempire il vuoto che sente dentro di sé colmandolo con le parole di ammirazione, rappresentazione di personalità istrioniche che puntano la loro sicurezza sull’apparire e sul mostrarsi.

L’Ubriacone che beve per la vergogna di bere, in questo personaggio sono rappresentati i circoli viziosi delle nostre fragilità, cercando di mascherarle invece di accettarle ed imparare a gestirle inneschiamo un circolo vizioso che le amplifica e le evidenzia, rendendo la nostra fragilità ancor più evidente. Questo personaggio lascia nel protagonista una sensazione di malinconia.

L’Uomo d’affari pensava che contando le stelle diventassero sue, non saluta neanche il protagonista perché troppo impegnato. Ha avuto la brillante idea di possedere le stelle e dice che sono sue solo perché nessuno ci aveva mai pensato prima. Possedendo le stelle si sente ricco anche se alla fine, alla domanda del Piccolo Principe di che cosa se ne fa di tutte le stelle, non sa rispondere, rimanendo di stucco.

Il desiderio di possesso dell’altro per il bisogno di percepire di avere un valore, stessa motivazione per la quale accumuliamo cose delle quali non abbiamo bisogno ma che ci servono per sentire che valiamo. Possedere cose e persone ma senza dedicare tempo per coltivare i rapporti… Alla fine le 856 amicizie su Facebook a cosa ci servono?

L’Uomo che accende e spegne il lampione è l’unico a non sembrare ridicolo per il Piccolo PrincipeForse perché si occupa di altro che non di se stesso”, fa il suo dovere senza metterlo in discussione e senza cercare soluzioni alternative, il protagonista gli da un consiglio, ma lui vorrebbe solo dormire.

Il Geografo fa un lavoro che al Piccolo Principe sembra molto interessante ma poi rimane deluso quando scopre che non ci sono esploratori nel suo pianeta, quindi il geografo in realtà non conosce il suo pianeta. Questo personaggio svela al protagonista che i fiori sono effimeri, per questo il Piccolo Principe si dispiace di aver abbandonato la sua rosa.

Il Serpente, simbolo della morte, in questo racconto ha un’accezione positiva, come l’inizio di un viaggio. Spiega come a volte ciò che sembra un male serva a fare del bene, come il dolore per la separazione da un affetto possa in realtà permetterci di fare nuove esperienze.

Il Controllore è addetto allo smistamento delle persone, anche lui ammette che gli uomini non sono mai contenti dove stanno e che vorrebbero sempre raggiungere un posto nuovo, ma non sanno neanche loro qual è questo posto. Ammette che la mente dei bambini è piena di buoni pensieri e questi vivono tranquilli “con il naso appiccicato ai vetri”.  Rappresentazione dell’ affaccendarsi degli uomini insensato ed immotivato e della costante insoddisfazione mai legata ad una vera e propria presa di coscienza su cosa possa migliorare la nostra vita, necessità costante di lamentarsi senza mai attivamente trovare soluzioni alternative.

Il Mercante pur di risparmiare tempo assume pillole per calmare la sete, ma anche qui alla domanda del Piccolo Principe su cosa poi ci farà con il tempo guadagnato rimane basito realizzando di non sapere cosa farsene. Questo personaggio rappresenta la nostra quotidiana corsa contro il tempo, la frenesia e la mancanza di capacità di riuscire a godere dei piccoli piaceri quotidiani, spinti poi a cercare piaceri estremi per evadere dalle frustrazioni accumulate.

 

Conclusioni: lo sguardo da bambino de Il Piccolo Principe

Il Piccolo Principe è uno sguardo infantile sul mondo, ognuno di noi è stato bambino ma poi crescendo alcuni lo dimenticano e questo fa reprimere la nostra spontaneità, limita la nostra curiosità ed appiattisce le nostre emozioni facendoci iniziare a pensare che la “leggerezza” della vita non ci sia più concessa, che i sogni, le risate ed i giochi con gli amici siano sostituiti dall’esigenza e necessità di essere persone performanti in ogni momento della giornata ed in tutti gli ambiti della nostra vita e senza tempo libero a disposizione.

Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercati le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercati di amici, gli uomini non hanno più amici.

Nell’incontro con i vari personaggi è evidente come ogni persona abbia bisogno della presenza dell’altro per definirsi, noi esistiamo in relazione agli altri, il geografo non può fare il suo lavoro senza gli esploratori, il vanitoso non può essere tale senza nessuno che lo ammiri, stessa cosa per il re senza sudditi. L’importanza delle relazioni e dei legami rappresenta il filo conduttore di questo racconto.

L’autore evidenzia l’ingenuità e la fantasia dell’infanzia in contrapposizione alla rigidità dell’uomo giù maturo “ … i grandi non capiscono mai niente da soli e i bambini si stancano di spigargli tutto ogni volta …”. Viene messo in luce come gli adulti con le loro “bizzarrie” siano totalmente presi dai loro affari e non riescano a cogliere il senso della realtà e della reale utilità delle loro azioni, senza badare agli interrogativi posti dal Piccolo Principe.

Questo libro è il dialogo tra un adulto ed un bambino, all’interno del quale entrambe affrontano un processo di crescita e di conoscenza e ne escono arricchiti; l’autore parla al cuore degli adulti a cui nel mondo odierno sembra interessare null’altro che il proprio tornaconto personale.

Ci sono cose dei bambini che gli adulti non capiscono e queste incomprensioni sono motivo di sofferenza per un bambino ma ancor di più per il bambino che abbiamo dimenticato vivere ancora dentro di noi, il quale vorrebbe realizzassimo i nostri sogni di diventare pittori, piloti o qualsiasi altra professione sia nei nostri desideri senza che arrivi la società adulta a distruggerci i sogni all’età di 6 anni!

La figura del Piccolo Principe permette all’autore di riavvicinarsi alla sua parte bambina e di riuscire a leggere la realtà con gli occhi dell’infanzia, il protagonista si fa morsicare dal serpente per tornare sulla Terra perché l’autore-narratore non ha più bisogno di lui, il Piccolo Principe è riuscito nel suo intento di far riscoprire all’adulto il bambino che è ancora in lui.

Questa favola scritta durante l’inizio della Seconda Guerra Mondiale, ad oggi rimane molto attuale.

 

L’instabilità lavorativa condiziona l’identità sociale

Un gruppo di ricerca ha tentato di indagare il legame tra la percezione di instabilità lavorativa e le possibili variazioni nella definizione dell’ identità sociale nel corso degli anni.

 

L’instabilità lavorativa e gli effetti sul benessere e sull’identità sociale

Cosa fai nella vita?” è spesso una delle prime domande che si pongono in una conversazione tra due persone estranee. Per molti, il lavoro è molto di più che una fonte di retribuzione, giocando un ruolo importante nel determinare la maniera in cui essi si percepiscono. Perdere un lavoro può farci percepire di perdere una parte di noi stessi, di chi siamo.

Se gran parte del benessere economico e personale è collegato strettamente al lavoro, allora non deve sorprendere che la condizione di instabilità lavorativa possa a sua volta minacciare questo benessere. I risultati di un nuovo studio suggeriscono che la minaccia di instabilità lavorativa non è solo causa di stress economico, ma può avere un impatto anche maggiore sulle modalità di percepire se stessi e il proprio senso di identità personale.
Eva Selenko (Università di Loughborough), Anne Mäkikangas (Università di Jyväskylä), e Christopher B.Stride (Università di Sheffield), hanno studiato circa 400 impiegati Britannici in tre momenti diversi durante l’anno 2014. I risultati del loro studio suggeriscono che l’instabilità lavorativa pervasiva potrebbe avere effetti nocivi sul benessere delle persone allo stesso modo di una vera e propria performance lavorativa.

[blockquote style=”1″]Lavoro e identità personale sono strettamente legati[/blockquote] scrivono Selenko e coll. nel “Journal of Organizational Behavior”. [blockquote style=”1″]In molte situazioni sociali, il proprio impiego fornisce un modo pratico per definire e collocare se stessi in relazione agli altri.[/blockquote]

Quando il lavoro di una persona è sufficientemente “sicuro”, la sua identità sociale, nella definizione di “persona che lavora“, non potrebbe venire in mente con facilità. Invece, quando l’attenzione è spostata sulla condizione di perdita del lavoro, le persone inizierebbero a sentirsi identificati come parte di un gruppo alternativo e stigmatizzato: quello dei disoccupati.

Le ricerche precedenti hanno collegato la disoccupazione a numerose ripercussioni negative al di là del lato economico. In uno studio del 2004 pubblicato sulla rivista Psychological Science, un gruppo di ricerca guidato da un membro dell’APS, Richard E. Lucas (Università del Michigan), ha scoperto che un periodo di disoccupazione avrebbe conseguenze a lungo termine sulla soddisfazione per la propria vita.

Uno studio longitudinale su un campione di più di 24000 tedeschi, ha permesso a Lucas e coll. di “misurare”, nei soggetti, la soddisfazione per la propria vita prima, durante e dopo i periodi di disoccupazione. E’ stato scoperto che, in media, anche a seguito di un nuovo impiego, le persone non riuscivano a ritornare del tutto ai precedenti livelli di soddisfazione per la propria vita, anche dopo anni.
Ed è possibile che la minore soddisfazione possa essere collegata, anche solo in parte, ai cambiamenti nell’identità sociale di fronte all’instabilità lavorativa:

[blockquote style=”1″]Suggeriamo che l’instabilità lavorativa comprometta l’identità sociale delle persone; “avere un impiego” sarebbe, in tal modo, inteso come una categoria che determina l’identità sociale. Parte dei risultati di ricerca, mostrano come una minaccia all’identità potrebbe portare ad una riduzione di benessere percepito, ad un minore coinvolgimento nel gruppo di lavoratori, e una minore volontà di spendere energie per il gruppo.[/blockquote]

Per testare le proprie teorie, Selenko e coll. hanno reclutato 377 impiegati per completare un questionario per tre volte durante l’arco di 6 mesi nel 2014. La media dell’età dei partecipanti si aggirava attorno ai 45 anni. Più della metà di loro (56%) apparteneva alla categoria lavorativa delle cosiddette “tute blu” (lavori manuali o relativi al commercio, operatori di macchina o assemblatori, agricoltori , pescatori ecc.), mentre il resto dei soggetti apparteneva alla categoria dei cosiddetti “colletti bianchi” (manager o lavori che richiedevano una formazione professionale più “avanzata”).
Il questionario era composto da domande che valutavano la percezione di instabilità lavorativa (ad esempio “Vi sono possibilità che io perda il mio lavoro” o “Mi sento fortemente legato alla popolazione lavorativa“), il comportamento a lavoro e il senso di benessere.

Come da ipotesi, un senso crescente di instabilità lavorativa era collegato al peggioramento nel benessere nel corso degli anni. Ma i risultati hanno anche dimostrato che l’identità di questi soggetti, anche quando era definita nei termini di “impiegato”, era collegata ad effetti negativi sul benessere e sulla performance lavorativa nel corso del tempo. Dunque, anche quando le persone mantenevano il lavoro e percepivano di essere lavoratori, esse potevano approdare ad alcuni dei risultati negativi a cui approdavano coloro che avevano perso il lavoro.
[blockquote style=”1″]I soggetti che percepivano il loro lavoro in maniera più instabile, erano anche meno propensi a percepirsi come parte del gruppo sociale degli impiegati; essi tendevano a definirsi di meno come impiegati. Questo aspetto riflette l’impressione dei lavoratori meno fiduciosi del mantenimento del proprio lavoro, spesso riportata a livello aneddotico, di essere già ai margini o tagliati fuori dal proprio impiego.[/blockquote]

Revenge Porn: condividere e pubblicare immagini o video dal contenuto intimo e sessuale

Una nuova ricerca, condotta da un gruppo di psicologi dell’Università di Kent (Canterbury, Inghilterra), ha evidenziato che gran parte delle persone non disapprovano il revenge porn. Dallo studio è emerso che gli individui che praticano il revenge porn hanno un profilo di personalità specifico.

Revenge porn: che cos’è

Il revenge porn è da intendersi come l’atto di condividere e diffondere online, a esempio su Facebook, immagini e/o video dal contenuto intimo e sessuale che ritraggono altre persone, che seppur consenzienti al momento della produzione di tale materiale, non hanno fornito alcun assenso per la pubblicazione sui social media. La vendetta sta nel fatto che qualcosa che doveva essere interno ed intimo alla coppia viene invece reso noto da uno dei due partner per ledere all’altro.

Chi approva la porno vendetta

Il campione di studio era composto da 100 soggetti adulti (82 donne, 18 uomini) di età compresa tra i 18 e i 54 anni. Sebbene solo il 29% di essi avesse compiuto verosimilmente questo genere di comportamento vendicativo, ben il 99% dei soggetti intervistati ha espresso perlomeno qualche forma di approvazione – come ad esempio l’assenza di rimorso – nei confronti del revenge porn nello scenario immaginario in cui si è stati lasciati dal partner. Ma non solo, l’87% dei partecipanti ha ritenuto divertente e stimolante il revenge porn, senza però necessariamente averla praticata.

Il gruppo di ricercatori, condotto da Afrodite Pina, ha inoltre stabilito che c’è un collegamento tra l’inclinazione al revenge porn e specifiche caratteristiche psicologiche di chi la commette. Infatti, i dati di ricerca hanno evidenziato una correlazione positiva tra una forte propensione a commettere atti di “revenge porn” ed alti livelli di tratti appartenenti alla “Triade Oscura”, una triade di tratti personologici che include psicopatia, machiavellismo e narcisismo. In particolar modo, tratti psicopatologici come impulsività e mancanza di empatia erano connessi con più forza al perpetuare la “revenge porn”.

I ricercatori hanno concluso che sebbene la maggior parte dei partecipanti allo studio verosimilmente non commetterebbe atti di revenge porn nei confronti degli ex partner, c’è una generale accettazione di tali comportamenti. Questo ha importanti implicazioni, specialmente se si considera il ruolo di facilitatore che ha lo spettatore online nella rapida diffusione del materiale pornografico, tra cui anche quello prodotto con scopo vendicativo.

La sessualità nei pazienti sottoposti a chirurgia bariatrica: analisi di 170 casi

L’ obesità rappresenta una importante situazione clinica, sia per l’ aumento esponenziale della sua incidenza sia per le comorbilità ad essa connesse.
Tra le problematiche che questa può determinare vi sono il disturbo di autoimmagine, le disfunzioni fisiche sessuali, i disturbi di ansia legati alla sessualità. I problemi legati all’ansia sembrano prevalere rispetto a quelli fisici nella genesi della disfunzione della sessualità. La chirurgia bariatrica sembra efficace per alleviare i problemi della sessualità. Presentiamo uno studio retrospettivo condotto su 170 cartelle di pazienti donne sottoposte a chirurgia bariatrica.

Tanini M*, Buganini C, Barni C**, Leone S***, Goglia L*, Bernacchi G*, Gensini F****, Florio P*.

* U. O. Ostetricia e Ginecologia Ospedale S. Jacopo Pistoia; Asl Toscana Centro
** Centro chirurgia Bariatrica Ospedale S. Jacopo Pistoia Asl; Toscana Centro
*** Direttore Scientifico Master in Psicosessuologia, Area Psicologica Elform E Learning.
**** Genetica Medica, Dipartimento Scienze Biomediche Sperimentali e Cliniche, Università di Firenze, AOU Careggi.

 

Summary

Obesity is an important clinical situation, both for exponential increase in its incidence and co­morbidities related to it. Among the problems that obesity can determine, there are self­image disorder, physical sexual dysfunctions and anxiety disorders related to sexuality. Anxiety-related problems seem to prevail over physical ones in the genesis of sexual dysfunction. Bariatric surgery appears to be effective for relieving the problems of sexuality. We now present a retrospective study of 170 folders on psychological therapies for women who are about to have undergoing bariatric surgery.

Il legame tra obesità e sessualità

La patologia dell’ obesità ha un aumento esponenziale nel mondo. In taluni stati ha caratteristiche di vera e propria epidemia.
L’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), descrive l’ obesità, come uno dei principali problemi di salute pubblica nel mondo.
Diversi studi hanno indagato la predisposizione genetica all’ obesità, tuttavia si ritiene che debba ancora essere considerata ad insorgenza multifattoriale e che esistano fattori genetici combinati in grado di favorire o meno la capacità di perdere peso e di mantenerlo basso.
La condizione di obesità, oltre a determinare l’ insorgenza di numerose comorbilità, determina una grave alterazione dell’ immagine corporea che a sua volta genera disturbi psicologici di tipo prevalentemente ansioso; in vari studi è stato dimostrato come nelle persone obese conviva una disturbata visione corporea.

Sono state effettuate molte ricerche volte ad indagare l’esistenza di una possibile relazione tra storia di problematiche sessuali, soprattutto nelle pazienti, con disturbi alimentari; è stata descritta una disposizione più negativa verso il sesso rispetto a gruppi di controllo, un maggior timore della sessualità, un minor appagamento sessuale.

Una ricerca ha dimostrato che le donne obese sono considerate sessualmente meno attraenti, sensibili, e capaci di avere desideri e comportamenti sessuali  rispetto alle donne normopeso.

Il legame tra peso corporeo e disturbi sessuali ha avuto diverse conferme, dai risultati di uno studio relativo agli esiti post chirurgia bariatrica, è stato indicato che dopo l’intervento chirurgico, ed il conseguente dimagrimento, il 50% dei pazienti ed il 75% dei loro partner riportavano un miglioramento nel livello di soddisfazione sessuale.

Materiali e metodi

Abbiamo effettuato una analisi retrospettiva della casistica dell’universo che accede a terapia psicologica presso il servizio di chirurgia bariatrica dell’Ospedale San Jacopo USL 3 di Pistoia nel periodo da settembre 2013 a marzo 2015.
Il percorso psicoterapico costituisce elemento indispensabile per avere indicazioni sull’intervento chirurgico.

L’universo di analisi è costituito da 196 pazienti, di cui 170 donne; nello stesso periodo sono stati osservati 26 uomini,. Si è deciso di inserirli all’interno dello studio per indagare eventuali differenze di genere, pur riconoscendo che la diversa numerosità dei due campioni non rende attendibili eventuali raffronti.
La casistica è stata elaborata con foglio di calcolo SPSS per la statistica descrittiva.

Risultati

  • Dati anagrafici:

L’età media delle pazienti giunte ad osservazione è di 47.7 anni pari a 47 anni ed 8 mesi, con un minimo di anni 17 ed un massimo di 68 per le femmine, mentre nella popolazione maschile il più giovane ha 26 anni ed il più anziano ha 63 anni.

Abbiamo poi indagato il contesto familiare, per quanto attiene allo stato civile nelle donne, 58 sono risultate single (34%), 80 sposate (48%), 2 donne si sono sposate due volte (1%,), 18 sono conviventi (11%), 4 separate (2%) , 4 divorziate (2%), 2 vedove (1%).

La familiarità per obesità è presente nella stragrande maggioranza dei casi, 152 persone (78%) hanno dichiarato di avere almeno un familiare affetto da obesità; il criterio adottato per considerare una familiarità per obesità è relativo ad ascendenti e genitori di ascendenti.

È interessante osservare che tutti gli appartenenti alla popolazione maschile hanno almeno un familiare affetto da obesità. Inoltre la popolazione maschile ha la costante di avere un padre assente, deceduto, che ha abbandonato il figlio, e se presente lo è scarsamente e comunque in modo affettivamente negativo.

In merito alla condizione lavorativa 4 persone (2%) sono risultate collocate in pensione, 34, pari al 17% sono casalinghe, 68, pari al 35% sono risultate disoccupate, 90, pari al 46% sono risultati collocati al lavoro.
Il numero dei disoccupati appare significativo rispetto al dato ISTAT che per il 2015 è 12,6%.

La popolazione che normalmente lavora svolge lavori per i quali non è richiesta nessuna qualificazione professionale nel 69% dei casi, nel 18% dei casi svolge una professione con medio livello di qualificazione professionale, il 13% svolge un lavoro in cui è richiesto un alto livello di qualificazione professionale.

  • Disturbo alimentare presente:

Nella casistica oggetto di osservazione sono presenti diversi disturbi alimentari, in 80 casi è presente un disturbo da alimentazione incontrollata, in 66 casi un grignotage, il grignotage si associa ad un BED in 37 casi, in 2 casi è stata osservata una Night Eating Sindrome che in altri due casi si associa ad un disturbo da alimentazione incontrollata.
In 48 casi non è presente nessun disturbo alimentare, sono soggetti di solito obesi fin dalla prima adolescenza, con alimentazione scorretta, sedentari.

Dei soggetti con disturbo alimentare, (148) 10 sono uomini, 138 donne.
Dei soggetti con disturbo alimentare, 74 hanno un disturbo di auto immagine, mentre nei soggetti che non presentano un disturbo alimentare (48), il disturbo di auto immagine è presente nella stragrande maggioranza dei casi (42 soggetti).
Il disturbo che prevale, senza sostanziali modificazioni, è il disturbo da alimentazione incontrollata.

L’ansia legata alla condizione di obesità è la caratteristica maggiormente presente nella casistica, è interessante osservare che nei soggetti in cui questa non è presente spesso non vi è un disturbo alimentare alla base della condizione di obesità.
L’ansia relativa alla condizione di obesità non è presente in 64 casi.

Per quanto riguarda la popolazione con disturbo alimentare si nota una certa concordanza con l’ansia da prestazione, nei casi in cui non è presente l’ansia da prestazione (96 soggetti), 54 non hanno disturbi alimentari.
Non vi sono correlazioni tra tipologia del disturbo alimentare e vaginismo o dispareunia e non vi sono differenze tra presenza o meno di disturbo alimentare e problematiche nell’ambito della sessualità.

  • Comorbilità dell’ obesità

Sono state indagate le comorbidità più importanti; queste sono risultate presenti in 137 pazienti; i livelli di incidenza non mostrano significativi discostamenti dipendenti dal genere; in diversi casi si associano più patologie.

  • Problematiche psicologiche e psichiatriche presenti nel campione

Nell’ ambito dei disturbi psichici (22 casi) si segnalano: 3 casi di disturbo ossessivo (14%), 5 casi di disturbo psichico riconducibile all’area schizoide (23%), 7 casi di disturbo bipolare (32%), 7 casi di disturbo borderline (31%).

Abbiamo indagato separatamente il problema depressione che è presente in 71 persone (36%) e dell’ ansia relativamente alla propria obesità, questa è risultata presente in 124 persone (63%).

La presenza di ansia relativamente alla condizione di obesità sembra prevalere nella popolazione femminile, 69% contro il 38% degli uomini.
Abbiamo poi indagato la presenza di disturbo di percezione dell’ auto immagine; quesoe è risultato presente in 116 casi (59%).
Nella popolazione maschile è risultato presente in 18 casi (69%); mentre nella popolazione femminile è risultato presente in 98 casi pari al 58%.
Si segnala il caso di un uomo, orientamento sessuale bisessuale, che ha manifestato ansia rispetto all’obesità e disturbo di auto immagine solo nelle interazioni con il sesso femminile.

Non si sono registrati casi di diversità di genere rispetto al sesso biologico.
Se analizziamo l’incidenza di disturbi psichici, ansia e depressione, 189 soggetti hanno manifestato almeno uno di questi.
Abbiamo poi indagato l’associazione tra disturbi della sfera psichica (disturbi psichici, ansia e depressione) e ansia per l’obesità.
Questa associazione è presente in 98 casi; mentre l’indagine successiva: associazione tra disturbi psichici e disturbi della sfera psichica (disturbi psichici, ansie e depressione) e disturbo dell’auto immagine, ha mostrato un’ associazione in 111 casi.

L’associazione tra ansia per l’obesità e disturbi psichici è presente nel 12% degli uomini, e nel 69% delle donne.
L’associazione tra disturbi psichici e disturbo dell’immagine corporea è presente nel 28% degli uomini e nell’87% delle donne.

  • Orientamento sessuale

Relativamente all’orientamento sessuale abbiamo osservato un solo caso in cui non è mai stata presente attività sessuale.
La stragrande maggioranza è eterosessuale, 2 donne sono omosessuali, 4 donne sono bisessuali, 6 uomini sono bisessuali.
Se analizziamo separatamente il dato dell’omosessualità, notiamo che questo è presente solo nella popolazione femminile, per quanto riguarda il dato relativo alla bisessualità, questa risulta essere prevalente nella popolazione maschile: 6 casi su 26 mentre nelle donne è presente in 4 casi su 169.

Per quanto attiene i rapporti omosessuali per la popolazione maschile bisessuale, non sono caratterizzati da una stabilità di ruolo ma sono di tipo versatile.
L’età media del primo rapporto sessuale è di 17 anni, con una media di 16 anni per gli uomini, valore minimo 14 massimo 20 anni, e di 18 anni per le donne, valore minimo 14 anni ed un massimo di 32 anni.
Per quanto attiene alla sfera della libido, abbiamo riscontrato una problematica di carenza della libido in 70 soggetti (36%). Nello specifico: 8 uomini su 26 (36%) e 62 donne su 170 (36%).

L’alterazione della libido si associa al disturbo di auto immagine in 56 casi, 6 casi nella popolazione maschile e 50 in quella femminile.
L’ obesità rende particolarmente difficile il rapporto sessuale, 66 persone hanno dichiarato di avere problemi durante i rapporti sessuali, relativamente alle loro dimensioni. È interessante osservare come il numero delle persone che hanno dichiarato di aver effettivamente problemi durante il rapporto (66, pari al 34%) sono in numero inferiore rispetto a quelle che hanno dichiarato di avere ansia durante i rapporti sessuali relativamente alla loro condizione di obesi (124 soggetti pari al 63%).

  • L’ ansia associata all’ obesità ed implicazioni sulla sessualità

La presenza di ansia relativa alla condizione di obesità e la difficoltà nei rapporti sessuali si associa in 62 casi.

Abbiamo quindi pensato di distinguere la presenza di ansia quotidiana legata alla condizione di obesità dall’ansia da prestazione relativamente al rapporto sessuale.
L’associazione tra ansia legata alla condizione di obesità, difficoltà nella copula ed ansia da prestazione è presente in 56 soggetti.

Il vaginismo è stato riscontrato in 34 donne ed è presente solo nella popolazione femminile eterosessuale.
Su 34 casi di vaginismo, questo si associa in 26 casi a difficoltà nella copula riferibili all’obesità.
La condizione di ansia relativa alla condizione di obesità correla al 100% con il vaginismo; mentre l’ansia da prestazione è presente in 24 soggetti affetti da vaginismo; 18 donne con vaginismo hanno anche un disturbo di auto immagine.
In 30 casi il vaginismo si associa a dispareunia.
La dispareunia è presente in 71 casi, di questi 38 si associano a difficoltà nella copula riferibile alla condizione di obesità, analogamente con il vaginismo la totalità dei casi di dispareunia correla con ansia relativa alla condizione di obesità, l’ansia da prestazione è presente in 46 casi, il disturbo di auto immagine si associa alla dispareunia in 44 casi.

Le donne affette da dispareunia sono single in 8 casi, in 50 sono o sono state sposate.
L’insoddisfazione per la sessualità è stata manifestata dall’81% dei maschi e dal 94% delle donne. Si segnala che due dei tre soggetti maschi che hanno dichiarato di essere soddisfatti della loro vita sessuale hanno un orientamento bisessuale.
L’insoddisfazione per la propria vita sessuale è presente in tutti gli uomini con disturbi erettili, ricordiamo che i soggetti con orientamento bisessuale hanno manifestato disfunzioni dell’erezione solo durante rapporti eterosessuali.
Per quanto riguarda la popolazione femminile, delle 11 donne che hanno mostrato soddisfazione 8 hanno riferito difficoltà nella copula, 9 ansia da prestazione, 8 dispareunia e 3 vaginismo.

La presenza di soddisfazione per la sessualità è più presente nelle donne single rispetto a quelle sposate. Ricordiamo che 58 sono risultate single (34%), 80 sposate (48%), 2 donne si sono sposate due volte (1%,) 18 sono conviventi (11%), 4 separate (2%), 4 divorziate (2%), 2 vedove (1%).
Il livello di soddisfazione verso la sessualità tende a migliorare post intervento, il 60% della popolazione generale (117 persone) ha dichiarato un miglioramento in tal senso.
La percentuale degli uomini che hanno mostrato un miglioramento è del 62% contro il 71% delle donne.

  • Una storia di abuso è più frequente nella popolazione obesa

Le persone che sono state oggetto di abuso sessuale sono 12, in prevalenza donne, 2 uomini.
Le persone di sesso maschile abusate sono single, bisessuali, non hanno figli, con desiderio di figli, hanno familiarità per obesità, disturbo di auto immagine, sono entrambi affetti da disturbo da alimentazione incontrollata, affetti da disturbi erettili, problematiche dell’eiaculazione, diminuzione della libido, ansia relativa alla condizione di obesità, ansia generalizzata, ansia da prestazione, difficoltà nella copula, affetti da depressione e non mostrano miglioramenti della sessualità dopo dimagrimento post chirurgia bariatrica.

Le dieci donne oggetto di abuso hanno tutte una relazione di coppia, 8 sono sposate, due sono conviventi, sono eterosessuali, hanno tutte figli (minimo 2, massimo 8), in 6 casi hanno familiarità per obesità, solo in un caso hanno vaginismo, la dispareunia è presente nel caso affetto da vaginismo ed in un altro, la difficoltà nella copula è riferita in 8 casi, l’ansia generalizzata, l’ansia legata alla situazione di obesità e l’ansia da prestazione si associano sempre e sono presenti in 8 casi; inoltre in 8 casi (gli stessi con disturbi riferibili all’ ansia) vi è stato un miglioramento della sessualità post intervento chirurgico.

  • I cambiamenti dopo dimagrimento

Tra le persone che hanno dichiarato un miglioramento della vita sessuale post intervento, 54 presentavano ansia da prestazione prima di sottoporsi alla chirurgia ed al conseguente dimagrimento.
Di questi 4 uomini (tra questi un caso di uomo bisessuale che riferiva problematiche solo con il sesso femminile) e 50 donne.

Sono invece 84 le persone che associano un miglioramento della sessualità post chirurgia bariatrica con precedente ansia legata alla loro vita da obeso.
L’associazione tra miglioramento della sfera sessuale e difficoltà nella copula legate alle dimensioni corporee precedenti alla chirurgia è presente in 38 casi; tra questi due sono uomini.
La correlazione tra disturbo di auto immagine e miglioramento della sessualità post chirurgica è presente in 76 soggetti di cui nessun uomo.
Anche nel caso di disturbi della libido, nella condizione di obesità, nessun uomo ha visto un miglioramento della propria vita sessuale, mentre le donne che hanno associato al dimagrimento un miglioramento (precedentemente affette da disturbo della libido) sono state 40.
Le donne affette da vaginismo che hanno avuto un miglioramento post operatorio del vissuto sessuale sono state 20, analogamente le donne che hanno notato un miglioramento e che prima erano affette da dispareunia sono state 40.

Il dimagrimento rende infedeli?

I casi di infedeltà dopo aver ottenuto il dimagrimento successivo alla chirurgia bariatrica sono stati 50, tra questi si segnala l’alta incidenza di uomini 10 su 50.
I casi di infedeltà post intervento si associano sempre all’ammissione di un miglioramento della vita sessuale dovuta al dimagrimento post operatorio.

L’ obesità e la psicoterapia

Il periodo di psicoterapia preoperatorio è stato in media di 3 anni con un massimo di 4 anni ed un minimo di 1 mese, si registra che i tempi più brevi di terapia si registrano nella popolazione maschile, periodo minimo un mese, periodo massimo 3 anni.
La terapia post operatoria è stata seguita per un massimo di 3 anni e per un minimo di un mese.
La media di mesi è di circa 16. Esistono diversi casi che non si sono sottoposti a psicoterapia post intervento.

Risultati e conclusioni

  • L’ obesità: problema femminile?

Il primo elemento di riflessione deve scaturire dall’enorme differenza tra maschi e femmine.
La maggiore incidenza di donne può trovare una sua spiegazione nel fatto che l’ideale corporeo femminile si rifà maggiormente a stereotipi di magrezza; mentre non sussiste un giudizio parimenti negativo verso l’obesità maschile, che può addirittura essere tollerata in presenza di altri elementi di attrazione.
I dati presenti in letteratura non confermano una differenza di incidenza di obesità così ampia.
L’età della popolazione oggetto dello studio evidenzia che tali persone giungono all’osservazione dei sanitari piuttosto tardivamente (età media intorno ai 47 anni); ricordiamo che l’obesità nasce, nella stragrande maggioranza dei casi, in epoca periadolescenziale.
Relativamente allo stato civile, risulta interessante osservare l’alta incidenza dei single. Questo dato sembra confermare l’alta difficoltà di intraprendere relazioni sentimentali dovuta all’ostacolo ad avere relazioni interpersonali.
È interessante osservare che spesso i maschi obesi hanno una partner obesa, al contrario le donne obese hanno un partner normopeso.

  • Problematica fisica o disturbo d’ ansia?

Riguardo alla difficoltà di avere relazioni sentimentali, oltre all’aspetto fisico, gioca un ruolo estremamente importante, il dato che noi abbiamo definito “ansia legata alla condizione di obesità”; questo disturbo ansioso è dato dalla continua insicurezza che l’obeso ha nei contesti sociali, dovuta non solo all’auto immagine, ma soprattutto alle quotidiane difficoltà che incontra nella vita sociale, come doversi confrontare con l’ingombro del suo corpo o l’ipersudorazione che genera odori sgradevoli.

Riguardo alla situazione familiare, la popolazione oggetto di studio, ha mostrato una maggiore predisposizione verso la sfera riproduttiva, in particolare la componente femminile.
La tendenza ad avere una predilezione ad avere figli ed in numero superiore a quello che avviene nei normopeso, potrebbe avere una correlazione dovuta al fatto che gli obesi provengono spesso da famiglie con presenza di più fratelli e sorelle.
La familiarità per obesità ha mostrato un dato interessante soprattutto nella popolazione maschile, infatti tutti gli obesi avevano almeno un familiare obeso, risultato non presente nella popolazione femminile, anche se nella grande maggioranza dei casi (74%) anche le obese hanno almeno un familiare con seri problemi di peso.

Sempre a carico della popolazione maschile, deve far riflettere che tutti gli uomini oggetto dell’osservazione non hanno interazioni affettivamente positive con il padre.
Nella maggioranza dei casi, la figura paterna è risultata assente, deceduta precocemente, o protagonista di abbandono della famiglia, o quando presente è risultato essere violento o comunque affettivamente disfunzionale.
I maschi obesi che non hanno avuto figli, a differenza delle donne, non mostrano interesse per questo argomento, eccezione un caso di uomo con orientamento bisessuale.

Il livello di scolarità è più basso rispetto alla popolazione normopeso, questo potrebbe correlare con il disagio di interazione con i compagni e con la scuola in genere, dato dalla presenza dell’ansia per la condizione di obesità, questo problema ansioso potrebbe essere alla base della decisione di interrompere precocemente il percorso di studi.

La condizione di ansia trova un sicuro peggioramento nelle derisioni da parte dei compagni di cui la persona obesa può essere fatto oggetto.
Anche la condizione lavorativa mostra alcune differenze rispetto alla popolazione normopeso, è interessante osservare l’alta incidenza di disoccupazione; dato che colpisce se riflettiamo che questa popolazione ha dimostrato di accettare anche lavori con bassa qualificazione professionale.
Su questo argomento riteniamo che sia fondamentale la mole corporea che determina l’impossibilità di svolgere alcune professioni, il basso livello di scolarizzazione, ma in molti casi l’ansia legata alla condizione di obeso contribuisce a scoraggiare il soggetto rispetto alla possibilità di mettersi in gioco per un’opportunità professionale.

La stragrande maggioranza degli obesi ha un disturbo ansioso relativo alla propria corporeità, inoltre il contesto sociale tende ad orientarli verso un auto-isolamento, è normale quindi osservare una maggiore incidenza di disturbi psichici, tra i quali la depressione riveste un ruolo estremamente importante.

  • Uomini e donne con adattamento sessuale diverso

Gli uomini con orientamento bisessuale non hanno relazioni stabili omosessuali, ma queste sono caratterizzate da rapporti sessuali occasionali.
Potrebbe essere la difficoltà nell’ottenere una vita sessuale eterosessuale che li spinge a trovare soddisfazione in rapporti con persone dello stesso sesso. Con la chirurgia bariatrica, e con il dimagrimento, gli uomini oggetto dello studio, non hanno più presentato bisessualità.
Anche il fatto che i disturbi erettili e l’ansia da prestazione siano presenti solo nel sesso con partner eterosessuale potrebbe correlarsi ad una diversa importanza che il soggetto obeso bisessuale attribuisce al sesso con le donne. Le donne omosessuali tendono a ricercare una relazione oltre al sesso, mentre le donne bisessuali tendono a rispecchiare quanto detto per la popolazione maschile.

  • La libido nella popolazione obesa

Per quanto attiene alla sfera della libido nella popolazione femminile il disturbo può originare da molteplici fattori, in particolare nelle adolescenti. Possono entrare in gioco fattori di tipo sociale quali problematiche di natura estetica. Possono inoltre coesistere fattori di tipo cognitivo-comportamentale come problematiche emozionali e sensoriali, originate da un sentimento di vergogna nei confronti del proprio corpo, che portano al disprezzo per la propria immagine corporea. La conseguenza di tutto ciò è la tendenza a sottrarsi al rapporto sessuale o a viverlo comunque in modo negativo.

Negli uomini la carenza della libido, oltre a quanto detto per le donne, può essere influenzata anche da frustrazioni dovute a fallimenti sessuali, negli obesi i disturbi erettili sono più frequenti che nella popolazione normopeso. Nei maschi obesi spesso si hanno bassi livelli di testosterone, l’ormone che regola fra l’altro anche il desiderio sessuale, e quando l’ obesità è di grado elevato la sua carenza può avere come conseguenza un calo della libido. In chi presenta problematiche di eccesso di peso è poi frequentissimo il diabete tipo 2, che rappresenta già di per sé una possibile causa di disfunzione erettile. Inoltre, l’eccesso di peso è molto spesso associato all’ipertensione arteriosa e ad altre patologie cardiovascolari su base aterosclerotica, secondarie soprattutto alla dislipidemia, situazioni nel corso delle quali la disfunzione erettile non è infrequente.

A sostegno della concausa psicologica e in contrasto della possibile etiologia clinica, relativamente ai disturbi erettili, dobbiamo ricordare che i pazienti obesi bisessuali, hanno mostrato disturbi solo con le donne. Questo dato potrebbe avvalorare la tesi della “patologia vascolare dei corpi cavernosi” se il ruolo omosessuale fosse sempre di tipo passivo, cioè in questa dinamica l’obeso, non riuscendo a penetrare le donne, si orienterebbe verso una sessualità compensatoria che non prevede l’utilizzo del pene disfunzionale.
Al contrario, i bisessuali oggetto dell’osservazione riescono ad avere un ruolo attivo con partner omosessuale.

  • La sessualità con un corpo ingombrante

È interessante osservare come il numero delle persone che hanno dichiarato di aver effettivamente problemi durante il rapporto (66, pari al 34%) sono in numero inferiore rispetto a quelle che hanno dichiarato di avere ansia durante i rapporti sessuali relativamente alla loro condizione di obesi (124 soggetti, pari al 63%).
Ancora una volta, si conferma come l’ansia per la propria condizione di obeso, sia il fattore che maggiormente influenza la sessualità dei soggetti osservati.

L’associazione tra: ansia legata alla condizione di obesità, difficoltà nella copula ed ansia da prestazione è presente in 56 soggetti.
Su 34 casi di vaginismo, questo si associa in 26 casi con difficoltà nella copula riferibili all’obesità; la condizione di ansia relativa alla condizione di obesità correla al 100% con il vaginismo; mentre l’ansia da prestazione è presente in 24 soggetti affetti da vaginismo; 18 donne con vaginismo hanno anche un disturbo di auto immagine.
La correlazione più importante è quella tra il vaginismo, presente in 34 soggetti e la dispareunia, infatti in 30 casi il vaginismo si associa a dispareunia.

La catena che regola la sessualità degli obesi, potrebbe essere, da un punto di vista esclusivamente fisico, determinata da: difficoltà della copula, dispareunia, vaginismo; da un punto di vista psichico, ansia per la condizione di obesità, vaginismo.
È vero che la catena ansia, dispareunia, vaginismo, ha mostrato un maggior numero di associazioni.
L’insoddisfazione per la sessualità è stata manifestata dall’81% dei maschi e dal 94% delle donne.

Per quanta riguarda la popolazione femminile delle 11 donne che hanno mostrato, invece, soddisfazione sessuale, 8 hanno riferito difficoltà nella copula, 9 ansia da prestazione 8 dispareunia e 3 vaginismo.
Appare contrastante l’asserzione di soddisfazione sessuale in donne che poi presentano un’incidenza così alta di problematiche.
Una possibile spiegazione di questa espressione di soddisfazione, in presenza di problematiche sessuali, potrebbe essere suggerita dal fatto che le persone che maggiormente dichiarano la propria soddisfazione sono single; il livello di soddisfazione infatti, correla negativamente con la stabilità del vicolo con il partner.

In questa ottica le obese, in particolare, potrebbero identificare come soddisfazione sessuale, il numero di partner che riescono ad avere, la qualità del singolo rapporto sessuale tenderebbe così a perdere importanza.
In questa dinamica, avrebbe molta più importanza il riuscire a procurarsi un partner sessuale piuttosto che avere una buona interazione di coppia.
Non a caso il livello di soddisfazione sessuale mostra un miglioramento dopo dimagrimento post intervento.

Per quanto riguarda la popolazione maschile è interessante osservare il fenomeno della bisessualità, della presenza di depressione e dell’assenza di miglioramento della sessualità post chirurgica e come questi correlio sempre con storie di abuso.
Le dieci donne oggetto di abuso hanno tutte una relazione di coppia, a differenza degli uomini che sono single. Sono tutte eterosessuali.
La popolazione maschile appare anche meno disposta a sottoporsi a psicoterapia, sia prima che dopo l’intervento.

Questo dato potrebbe suggerire che gli uomini, ottenuto il dimagrimento e la soddisfazione di interazioni eterosessuali, si ritengono soddisfatti, le donne mostrano una maggiore disponibilità alla psicoterapia forse per superare le problematiche ansiose, depressive e il vissuto di disturbo di auto immagine che le ha afflitte per una buona parte della loro vita.

Diversity Management: uno sguardo al caso degli older workers

La gestione delle risorse umane con approccio orientato al diversity management significa sapere riconoscere le differenze nel mondo del lavoro e saper agire di conseguenza, in particolare il presente articolo ha l’obiettivo di analizzare i bisogni della categoria degli older workers nel contesto lavorativo.

 

Gestire la diversità nel contesto lavorativo: il diversity management

Il fenomeno sociodemografico dell’ invecchiamento, che caratterizza l’Italia e più in generale l’intero continente europeo, è diventato un tema di spiccata rilevanza sociale. L’ invecchiamento è il frutto della vincita di numerose sfide sorte con l’avanzare dell’età media. In questo senso, anche il mercato del lavoro attraversa fasi di cambiamento in relazione alla composizione della sua forza lavoro. Questi cambiamenti inducono alla necessità di fare i conti con l’avanzare dell’età della forza lavoro e l’incontro di quest’ultima con le successive generazioni (Peeters & Van Emmerik, 2008).

In questo scenario si inserisce il concetto di diversity management, ossia la gestione e valorizzazione delle diversità negli ambienti di lavoro, intesa come l’insieme di politiche, pratiche e azioni che hanno l’obiettivo di valorizzare le diversità degli individui nelle organizzazioni/luoghi di lavoro. La gestione delle risorse umane con approccio orientato al diversity management, dunque, significa sapere riconoscere le differenze di professionalità, di approccio cognitivo e di orientamento etico dei diversi segmenti del mondo del lavoro e saper agire di conseguenza. La diversità si manifesta negli stili di lavoro o nelle diverse esigenze delle persone e saper gestire queste differenze attivamente, facendo leva su di esse per aumentare la competitività dell’azienda, concretizza le possibilità di successo.

Questo elaborato ha dunque l’obiettivo, in un ottica basata sul diversity management, di analizzare i bisogni della categoria degli older workers nel contesto lavorativo, al fine di strutturare un’ipotesi di intervento volto all’integrazione e alla valorizzazione degli stessi.

 

Gli older workers e il concetto di anzianità negli ambienti di lavoro

Il termine anglofono older workers, è usato per descrivere i lavoratori che vanno dai 40 ai 75 anni a seconda del differente campo di studi nel quale viene utilizzato (Bourne, 1982; Warr 2000). Per meglio comprendere le peculiarità che caratterizzano questo target di lavoratori (in relazione al fatto che il range al quale il termine older workers si riferisce è molto amplio) è necessario approfondire i significati attribuiti al concetto di invecchiamento. La distinzione del concetto di invecchiamento a seconda della condizione alla quale ci riferiamo, è fondamentale per una comprensione a 360° dei bisogni degli older workers. Una delle motivazioni che spinge alla distinzione di differenti significati dell’età è che i cambiamenti biologici, fisici e psichici, nonostante la loro natura normativa, possono essere indipendenti dall’età cronologica. A tal proposito, in letteratura è sempre più attuale il dibattito in merito ai criteri da utilizzare per poter definire un lavoratore “anziano” (Schalk & van Veldhoven, 2010).

In questo senso, un importante contributo è stato offerto da dal lavoro di Sterns e Doverspike (1989 in Kooij et al., 2008) i quali distinguono cinque differenti approcci alla definizione dell’invecchiamento al lavoro:

  • Età cronologica: riferita all’età “da calendario” che distingue i lavoratori giovani da quelli senior basandosi solamente sull’anno di nascita.
  • Età funzionale o basata sulla performance: riferita alla performance lavorativa. Quest’età fa riferimento agli aspetti che riflettono lo stato di salute, le capacità psichiche, le performance e le abilità cognitive degli individui.
  • Età soggettiva o psicosociale: riferita alla percezione soggettiva e sociale dell’età. L’età soggettiva indica quanto anziani gli individui appaiono o si sentono anche in relazione ai comportamenti che mettono in atto (Kaliterna et al., 2002). La percezione sociale dell’età include le norme applicate agli individui, all’occupazione alla compagnia o alla società. L’età attribuita dalla società, agli individui, per categorizzarli come anziani e le attitudini sociali nei confronti degli older workers come ad esempio gli stereotipi.
  • Età organizzativa: si riferisce al tempo che un individuo passa all’interno di un’organizzazione o svolgendo un tipo di lavoro, in altre parole all’anzianità di servizio maturata durante gli anni. Con questa concettualizzazione ci si riferisce inoltre all’aggiornamento del background posseduto dai lavoratori, ovvero all’obsolescenza delle qualifiche e delle abilità possedute.
  • Il concetto di ciclo di vita dell’età: questo approccio desume molti aspetti da altri approcci ma si caratterizza per l’introduzione della possibilità di cambiamenti nel comportamento in qualsiasi fase e momento della vita. Tuttavia, tali cambiamenti devono essere influenzati dai tre seguenti aspetti ossia: a) cambiamenti biologici o aspetti ambientali/contestuali i quali sono fortemente correlati con l’età; b) influenze dovute alle esperienze vissute e c) una carriera non lineare caratterizzata, anche, da cambiamenti personali. Per poter verificare l’efficacia di questo approccio, è fondamentale tenere in considerazione le varie fasi di vita vissute dal soggetto e la propria condizione familiare (Lange et al., 2006; Sterns and Doverspike, 1989).

Sicuramente l’età cronologica rappresenta il parametro più utilizzato per definire un lavoratore “anziano” anche se nella comunità accademica sono state avanzate riflessioni critiche circa la l’insufficienza di questo criterio per guidare le ricerche sull’invecchiamento della popolazione al lavoro (Sterns & Miklos, 1995; Wolf et al., 1995; Settersten & Mayer, 1997;). Come affermano Kooij et al. (2007), infatti, gli individui con la stessa età possono ritrovarsi ad occupare differenti posizioni lavorative ed essere in condizioni psicofisiche diverse. A partire dalla mancata considerazione della possibilità che differenti “età” possano coesistere nella storia individuale di ciascuno di noi, alcuni bias e generalizzazioni possono avere luogo.

 

Il rapporto tra età e lavoro: il problema degli stereotipi

L’invecchiamento della forza lavoro nei contesti organizzativi produce una serie di risultati di valenza sia positiva che negativa sul benessere lavorativo e sul percorso di carriera di ciascun lavoratore maturo. Per ciò che concerne gli aspetti di valenza negativa, spesso esaminati in un ottica di Diversity Management, sono molteplici gli stereotipi e i pregiudizi che gli older workers si trovano ad affrontare, oltre ad una serie di “discriminazioni”, di natura lavorativa, relative al fatto di essere targettizzati in una fascia d’età non più produttiva.

Gli studi sulle abilità cognitive e performance degli older workers condotti da Warr (1994; 2001), rivelano la tendenza progressiva al deterioramento dell’intelligenza fluida (individuare relazioni, trarre inferenze) e nel trattamento delle informazioni complesse così come in attività di problem solving, rapidi tempi di reazione, risorse attentive. Tuttavia, nel processo di assunzione questi risultati come generalizzabili a tutta la popolazione anziana, è importante sottolineare che essi fanno riferimento a compiti astratti che non tengono conto dell’expertise e delle variabili di contesto fondamentali per la prestazione (es. lavoro in gruppo, presenza di sostegno sociale, funzione dei supervisori, ecc.).

A tal proposito, alcuni studi mostrano che le credenze e i comportamenti derivanti, costituiscono un ostacolo nello svolgimento del proprio lavoro per i lavoratori anziani in quanto risulta essere un problema talmente diffuso e radicato da oscurare i contribuiti positivi che essi forniscono o possono fornire all’interno dell’azienda (Toppan, 2014). Questi stereotipi, infatti, si ripercuotono sfavorevolmente sulle scelte aziendali e sulle politiche gestionali, penalizzando la partecipazione attiva ed il contributo degli older workers al buon funzionamento dell’organizzazione.

Secondo Shore et al. (2009), ad esempio, la discriminazione o perlomeno il trattamento ingiusto riservato agli older workers presenta ripercussioni negative circa le decisioni che vengono prese per gli individui in relazione ai processi reclutamento o ai salari. Prendendo in considerazione l’analisi portata avanti da Shore et al. (2009), infatti, le differenze sono riscontrabili soprattutto nei gruppi di lavoro nei quali la presenza di membri giovani sovrasta quella di membri più anziani.

Più nello specifico, alcune delle differenze stereotipate che dividono i lavoratori giovani da quelli più anziani riguardando ad esempio l’idea che le persone più anziane siano meno produttive, flessibili, creative e difficili da formare (Kulik, Perry, & Bourhis, 2000; Ringenbach & Jacobs, 1994), più rigide e resistenti al cambiamento (Rosen & Jerdee, 1976, 1977) e al contrario, i lavoratori più giovani abbiano un rapporto più confidenziale con la tecnologia e i suoi cambiamenti.

 

Stereotipi e self-efficacy

Sempre nell’ottica del Diversity Management, rispetto al rapporto che intercorre tra l’esistenza di stereotipi nelle organizzazioni e l’autoefficacia percepita dai lavoratori è utile tenere in considerazione un recente studio realizzato da Chiesa et al. (2016). Secondo gli autori, gli stereotipi possono essere intesi come esperienze vicarie, che d’accordo con Bandura (1997), vengono processate dagli individui e integrate con diverse informazioni rispetto alle loro capacità come la riuscita, la persuasione verbale e gli stati psicologici ed emozionali, per costruire quella che viene chiamata autoefficacia. Secondo Bandura (1997), il senso di autoefficacia corrisponde alle convinzioni circa le proprie capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie per produrre determinati risultati. Seguendo questa linea, alcuni degli aspetti che potrebbero portare i lavoratori maturi a percepire un senso di emarginazione e minore autoefficacia, potrebbe essere la differenza circa la possibilità di accedere alla formazione e allo sviluppo, rispetto ai lavoratori più giovani (Maurer, 2001 in Chiesa et al. 2016). I risultati ottenuti dallo studio, infatti, confermano che gli stereotipi legati all’età degli individui nelle organizzazioni, posso essere descritti in termini di credenze circa la produttività, affidabilità e adattabilità degli older workers, condizionando il trattamento riservato a questi ultimi.

Alla luce delle considerazioni fatte fino ad ora attraverso l’approccio del Diversity Management, emerge il bisogno di favorire la comunicazione tra le diverse generazioni. In questo modo, si andrebbe ad intervenire sulle credenze che affettano gli older workers e che li conducono a mettere in atto comportamenti controproducenti che potrebbero influire negativamente sulla motivazione nel continuare a lavorare.

In un’ottica di Diversity Management l’attenzione sul tema dei lavoratori senior, che ormai costituiscono una presenza non più marginale bensì rilevante sul mercato del lavoro, richiede perciò la valorizzazione degli aspetti positivi legati alla diversità e soprattutto alle conoscenze degli aspetti reali che caratterizzano gli individui. Tuttavia, per raggiungere questo risultato è fondamentale acquisire consapevolezza di quali credenze, opinioni, “considerazioni” e pregiudizi, spesso riduttivi, vive e subisce questa categoria di lavoratori.

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