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L’illusione del narcisista (2016) di G. Dimaggio – Recensione

Giancarlo Dimaggio con il suo saggio divulgativo L’illusione del narcisista descrive uno dei disturbi di personalità più affascinanti che si possano incontrare nella pratica clinica.

 

Cosa hanno in comune Miranda Priestley, Tony Stark, Frank Underwood, Tywin Lannister e il partner che ci tiranneggia? Ce lo svela Giancarlo Dimaggio, psichiatra e psicoterapeuta di professione, appassionato di cinema, serie tv e fumetti nel tempo libero, che con il suo saggio divulgativo L’illusione del narcisista descrive uno dei disturbi di personalità più affascinanti che si possano incontrare nella pratica clinica, ma da cui ci si dovrebbe tenere alla larga, soprattutto in campo relazionale affettivo, se si tiene alla propria incolumità emotiva e psicologica.

Stiamo parlando del disturbo narcisistico di personalità, un disturbo che in un’accezione molto naive sembrerebbe interessare l’80% nostri contatti Facebook, ma che in realtà rappresenta tutt’altro. Infatti siamo spesso portati a etichettare erroneamente come narcisista l’amica a caccia di like che posta le foto della propria mise prima di uscire a far serata, così come il fidanzato a cui interessa esclusivamente guardare la partita, che ignora noi e lo stato disastroso in cui versa la casa, e non esprime mai i propri sentimenti. Ecco, il narcisismo non è questo.

 

L’illusione del narcisista: come si riconosce un vero narcisista?

Come si riconosce allora un narcisista?

Attraverso una divertente carrellata di personaggi che spazia da La guerra dei Roses a Il diavolo veste Prada ad Iron Man passando per Game of Thrones e House of Cards, giusto per citarne alcuni, Dimaggio ne L’illusione del narcisista dipinge un quadro accurato del narcisista in tutte le sue sfaccettature e forme (compresa quella maligna della Triade Oscura – narcisismo, machiavellismo e psicopatia): un dio affascinante, carismatico, di successo da cui è difficile non lasciarsi sedurre, ma al contempo un mostro cinico, freddo, svalutante, sprezzante, in grado di polverizzare la nostra autostima con un solo sguardo. Due facce della stessa medaglia, quelle raccontate dall’autore ne L’illusione del narcisista, attraverso scene memorabili di film e serie tv (indimenticabile Miranda Priesley che asfalta Andy e il suo maglione ceruleo) e casi clinici di persone comuni, in un saggio quasi romanzesco che si lascia leggere d’un fiato, che regala diverse risate e che riesce a farci empatizzare con un narcisista.

 

Da Il Diavolo Veste Prada: il narcisismo di Miranda Priesley che asfalta Andy e il suo maglione ceruleo

 

Dimaggio infatti, nel suo libro L’illusione del narcisista, ci mostra cosa si nasconde dietro la maschera grandiosa e sprezzante del narcisista: il vuoto, la passività. Il narcisista è talmente impegnato nella spasmodica ricerca dell’approvazione altrui da non sapere che cosa gli piace, quali sono i suoi desideri indipendentemente dal giudizio e dalle aspettative degli altri.

Immaginate quanto sia sfiancante cercare costantemente di dimostrare di valere, di essere capace, in una estenuante gara fine a se stessa, e quanto sia angosciante e intollerabile l’umiliazione che gli altri scoprano che si è soltanto un bluff, che in realtà non si vale niente, che si è vuoti. Ecco che la rabbia e il disprezzo che caratterizzano il narcisista diventano armi di difesa, tengono l’altro a distanza e le proprie vulnerabilità nascoste e al sicuro. Ma a che prezzo!

Una vita priva di relazioni affettive intime autentiche, dove non c’è spazio per le proprie passioni e i propri desideri, dove quello che conta è solamente competere per dimostrare il proprio valore perché fallimento significa sottomissione, umiliazione, gogna.

L’illusione del narcisista è un testo per i clinici, gli studenti di psicologia e gli specializzandi in psicoterapia, perché descrive in maniera sì divulgativa, ma estremamente rigorosa, questo disturbo di personalità, dando preziose indicazioni per il trattamento e per evitare danni nella pratica terapeutica; per gli amanti del cinema, perché offre una divertente e accurata analisi psicologica di personaggi indimenticabili; per chi ha la sfortuna di ritrovarsi in una relazione con un narcisista, nella speranza che guarisca dalla sindrome della crocerossina e scappi finché è in tempo; per chi ha tratti narcisisti, con l’auspicio che riconoscendosi nelle descrizioni trovi la volontà di iniziare un percorso psicoterapeutico; ma soprattutto, è un libro per tutti, perché ci aiuta a riscoprire una verità che a volte, anche se non abbiamo tratti narcisisti, tendiamo a dimenticare, cioè che è il perseguire le proprie vere passioni che dà significato alla vita poiché “il senso della vita non deriva mai dalla riuscita di ciò che facciamo, ma dal nostro industriarci operoso in quello che ci piace”.

Il Millon® Clinical Multiaxial Inventory-IV (MCMI®-IV): la nuova versione del Millon

La nuova versione del questionario MCMI (MCMI-IV) è stata pubblicata nel 2015 da Theodore Millon, Seth Grossman e Carrie Millon. Rispetto alla versione precedente, quella attuale permette di rappresentare e valutare le diverse dimensioni della personalità, come anche il funzionamento generale e l’adattamento individuale. Inoltre, l’ultima variante dell’inventario, fornisce un’utile e valida guida clinica per migliorare l’alleanza terapeutica con l’esaminato.

Stefano Terenzi, Rosario Capo

 

La struttura del MCMI-IV

La struttura generale riflette la revisione già operata per la creazione del MCMI-III (Millon, 2011), ma è stata aggiornata, affinata ed ampliata dal lavoro di Grossman. Nello specifico, il MCMI-IV introduce un set di scale “Facet” di Grossman, che aiutano a progettare l’intervento terapeutico identificando i domini più salienti della personalità di un individuo (interpersonale, cognitivo, relativo all’immagine di sé). Nondimeno, offre sia la possibilità di evidenziare immediatamente specifiche aree critiche (ad esempio: il potenziale di violenza, la disposizione autodistruttiva), che la possibilità di realizzare una diagnosi differenziale accurata per favorire un inquadramento efficace e preciso nell’ambito delle categorie cliniche del DSM-5.

Il MCMI (Millon Clinical Inventario Multiassiale) si distingue dagli altri questionari sulla personalità per la sua brevità, il suo solido ancoraggio teorico, il formato multiassiale, la costruzione schematica tripartita e di convalida, l’uso di punteggi base-rate, e la profondità interpretativa. Ogni generazione dell’inventario MCMI ha tentato di mantenere un numero totale di item sufficientemente ridotti per incoraggiare il suo utilizzo in tutti i tipi di impostazione diagnostica e terapeutica, ma abbastanza numerosi da permettere la valutazione di una vasta gamma di comportamenti clinicamente rilevanti in una cornice multiassiale. Con i suoi 195 items, a risposta dicotomica Vero-Falso, l’inventario MCMI-IV è molto più breve rispetto agli strumenti ad esso comparabili. Si può somministrare a soggetti di età superiore ai 18 anni. La terminologia utilizzata è comprensibile già da una popolazione di individui con un livello di competenza nella lettura da quinta elementare. Pertanto, la grande maggioranza degli individui può completare agevolmente il MCMI-IV in 25-35 minuti, rendendo effettuabili somministrazioni relativamente rapide e riducendo al minimo la resistenza del paziente ed il suo affaticamento.

Storicamente, lo strumento si basa su una teoria prevalentemente di derivazione clinica (Millon, 1969, 1981, 1986a, 1986b, 1990, 2011; Millon & Davis, 1996). Le scale ed i profili emergenti dall’elaborazione delle risposte al MCMI misurano quindi variabili di derivazione teorica raffinata, in modo diretto e quantificabile. Con una solida base statistica i punteggi elevati nelle diverse scale e le diverse configurazioni possono essere utilizzate per suggerire diagnosi specifiche dei pazienti e delle loro dinamiche cliniche come anche ipotesi cliniche verificabili tramite la storia sociale relazionale del soggetto e l’osservazione del comportamento attuale.

Non meno importante del suo legame con la teoria è il coordinamento dello strumento testologico con i costrutti diagnostici ufficiali del DSM-5. A riguardo, pochi strumenti psicodiagnostici attualmente disponibili sono consoni alla recente nosologia ufficiale come avviene invece per il MCMI-IV.

L’attuale struttura dell’inventario MCMI mantiene una distinzione tra disturbi di personalità e sintomatologia clinica, come nel precedente sistema multiassiale, aggiornandosi ai perfezionamenti apportati dai recenti criteri diagnostici del DSM-5. Pertanto, nella versione attuale dell’inventario vi sono scale separate per distinguere le caratteristiche di personalità più stabili dalla sintomatologia clinica più acuta evidenziata attualmente dal paziente. In particolare, è possibile utilizzare il profilo derivato dall’analisi di tutte le scale cliniche che compongono l’inventario, al fine di illuminare l’interazione tra i modelli caratteriologici di lunga data che caratterizzano il soggetto ed i suoi sintomi clinici attualmente manifestati.

 

Lo scoring del MCMI-IV

Lo scoring del test può essere effettuato con un programma informatico che rende la decodifica rapida ed efficiente. Il software genera report interpretativi a due livelli di dettaglio profilo: (a) Il PROFILE REPORT (Relazione sul Profilo) che presenta i punteggi ottenuti al MCMI ed il profilo del paziente, ed è utile come strumento di screening per identificare i soggetti che possono richiedere una valutazione più specifica ed approfondita o una specifica attenzione professionale; (b) il NARRATIVE REPORT (Relazione Descrittiva) che integra sia le caratteristiche personologiche che quelle sintomatiche attuali del paziente, ed è elaborato in uno stile simile a quello utilizzato solitamente dagli psicologi clinici. I risultati si basano su ricerche attuariali, lo schema teorico del MCMI, e sulle relative diagnosi DSM, all’interno di un quadro multiassiale. Nella relazione descrittiva viene automaticamente inclusa una guida terapeutica orientata ai processi clinici potenzialmente rilevanti.

 

Gli ambiti di impiego del MCMI-IV

In linea generale, l’intento primario del MCMI è di fornire informazioni ai medici, agli psicologi, agli psichiatri, ai consulenti, agli assistenti sociali ed agli infermieri, che devono effettuare valutazioni e prendere decisioni rispetto al trattamento clinico di persone caratterizzate da difficoltà emotive e relazionali. Può essere utilizzato in una valutazione di screening in molteplici contesti: ambito ospedaliero, libera professione, programmi di counseling universitario, servizi psichiatrici di diagnosi e cura, gruppi di sostegno, ecc.

 

La validità, l’affidabilità e le scale del MCMI-IV

Rispetto alla validità e all’affidabilità della versione attuale dell’inventario, va detto che lo strumento diagnostico in oggetto è stato validato e supportato sia teoricamente che empiricamente da un gran numero di studi. Più di 600 ricerche hanno utilizzato il MCMI per testare ipotesi cliniche, sperimentali e demografiche.

Il MCMI-IV consta di un totale di 25 scale:

15 Pattern Clinici di Personalità:                   3 Gravi Patologie di Personalità:

Schizoide                                                                Schizotipico

Evitante                                                                  Borderline

Depressivo                                                             Paranoide

Dipendente                                                          7 Sindromi cliniche:

Istrionico                                                                 Ansia

Turbulent (Esuberante/Ipomaniaca)               Somatoforme

Narcisistica                                                             Spettro Bipolare

Antisociale                                                              Distimia

Sadica                                                                      Dipendenza da Alcool

Compulsiva                                                            Dipendenza da Droghe

Negativistica                                                          Disturbo Post-Traumatico da Stress

Masochistica

3 Gravi Sindromi Cliniche                                3 indici di correzione

Spettro Schizofrenico                                           Apertura

Depressione Maggiore                                         Desiderabilità

Disturbo Delirante                                                Autosvalutazione

2 indicatori di risposta:

indice di Validità

indice di Incoerenza

 

La scala Incoerenza (W) rileva le differenze nelle risposte a coppie di items che implicano una risposta simile. La scala può indicare se il soggetto ha risposto a caso o se non ha prestato la giusta attenzione.

In aggiunta, il MCMI-IV dispone anche delle Scale di Grossman sui Facet, che sono in grado di fornire informazioni che articolano ed approfondiscono i punteggi del paziente rispetto ad alcuni dei domini personologici/clinici particolarmente rilevanti. Ad esempio il Pattern della Personalità Depressiva è composta da tre facet:

  • Pensiero Fatalistico
  • Immagine di sé immeritevole
  • Temperamento triste

Il Pattern di Personalità Evitante dai Facet:

  • Avversività Interpersonale
  • Immagine di Sé alienante
  • Contenuto Vessatorio

Il Pattern di Personalità Narcisistica dai Facet:

  • Esplosività Interpersonale
  • Espansività cognitiva
  • Immagine di sé ammirabile

 

Le 45 Facet si basano sulle teorie della personalità e della psicopatologia specificamente sviluppate dall’autore. Diagnosticamente, contribuiscono a fornire utili informazioni che aiutano i medici a capire meglio le particolari aree di funzionamento in cui le difficoltà del paziente si manifestano. Essi dovrebbero anche fornire al professionista una guida per la selezione di modalità terapeutiche specifiche per massimizzare il raggiungimento degli obiettivi terapeutici.

Nel complesso, il MCMI-IV appare uno strumento agevole da somministrare, con un background teorico e clinico consolidato e arricchito di ulteriori elementi che lo rendono ancora più utile, rispetto alle versioni precedenti, per la professione dello psicologo.

Quando il cervello sceglie una mossa, ha sempre pronto un piano B

Di fronte a due alternative, i motoneuroni cerebrali si preparano per entrambe le possibilità prima di decidere quale alternativa seguire; è questo ciò che afferma un gruppo di ricercatori della Queen’s University in Ontario.

 

Mentre percorriamo la strada che ci conduce al lavoro o vaghiamo tra gli scaffali al supermercato, i nostri cervelli sono costantemente impegnati nel prendere decisioni sui movimenti da compiere: “Devo attraversare la strada ora o all’incrocio?”, “Devo dirigermi verso le mele rosse o le mele verdi?”: di fronte a due alternative, i motoneuroni cerebrali si preparano per entrambe le possibilità prima di decidere quale alternativa seguire; è questo ciò che afferma un gruppo di ricercatori della Queen’s University (Ontario), all’interno di un recente articolo pubblicato su Cell Reports.

Il cervello è continuamente impegnato nel tradurre target visivi in azioni che possano essere compiute verso quei target – ha affermato il co-autore Jason Gallivan, neuroscienziato presso l’Università – Anche al di là della consapevolezza cosciente, il sistema motorio sembra stare sempre operando in sottofondo, fino ad emergere con queste potenziali azioni.

Ad esempio, immaginate un attaccante di hockey che sta sfrecciando sul ghiaccio verso la porta per fare goal. In base al suo ruolo, egli deve schivare i difensori dell’altra squadra e cercare un’apertura per tirare il dischetto oltre il portiere. L’attaccante vede due possibili aperture. In una frazione di secondo, i neuroni motori corticali del giocatore codificano i comandi muscolari necessari per prendere entrambe le due decisioni possibili. Entrambi i piani di attacchi vengono preparati e risultano pronti per essere attivati. L’attaccante decide per uno dei due target, ma improvvisamente uno dei difensori dell’altra squadra appare dal nulla, bloccando il tiro.

Senza perdere un colpo, il sistema sensomotorio dell’attaccante fa dietro front verso il piano B precedentemente codificato. Allora tira.

Dal momento che i due piani sono già stati definiti a livello cerebrale, è possibile passare prontamente da uno all’altro e mettere in atto ciascuno di esso più velocemente in caso di necessità – ha affermato Gallivan – Questo rende i tempi di reazioni più brevi; quindi, tornando all’esempio precedente, se il portiere dovesse muoversi in una o nell’altra direzione, l’attaccante potrebbe attivare più velocemente il piano alternativo.

I neuroscienziati hanno a lungo dibattuto su cosa venga prima: la decisione su quale target agire oppure il piano motorio? Sebbene precedenti studi avessero mostrato attivazioni cerebrali per multipli target potenziali a livello della regione sensomotoria, tale attività potrebbe riferirsi ad una codifica sia della posizione visiva del target sia del piano motorio richiesto per agire sul target. Sul campo da hockey (e nella vita di tutti i giorni), le decisioni motorie avvengono così in fretta che è stato dimostrato quanto sia difficile distinguere questi due processi.

Tuttavia, Gallivan e colleghi hanno escogitato un compito che separa i target visivi dai movimenti necessari per raggiungerli. In tale esperimento, è stato chiesto a 16 volontari di dirigere un cursore verso uno tra due target, ma il trucco stava nel fatto che i partecipanti dovevano iniziare il movimento prima di scoprire quale dei due target dovessero scegliere.

Quando si è forzati a lanciare un’azione senza sapere quale target sarà selezionato, le persone semplicemente avviano azioni nel mezzo, tra i target – ha affermato Gallivan.

La domanda è: la corteccia motoria calcola la media della distanza tra i due target oppure divide la differenza in due potenziali piani motori?

All’insaputa dei volontari, era presente un aspetto cruciale, ma nascosto, nel compito. All’inizio , la posizione del cursore combaciava esattamente con la posizione della mano, ma ad ogni ripetizione del compito, il cursore slittava un pochino, risultando scoordinato rispetto al controller. Dal momento che il cambio era così graduale e poiché il controller era coperto in modo tale che i volontari non potessero vedere le loro mani, i partecipanti inconsapevolmente compensavano la mancata corrispondenza cursore-controller alterando in modo opportuno i movimenti della mano. Alla fine dell’esperimento, la differenza tra il percorso motorio necessario a raggiungere il target e la traiettoria del cursore sullo schermo era di 30 gradi.

Nella fasi di analisi dei dati, i ricercatori hanno scoperto che i movimenti della mano dei volontari risultavano dalla media dei percorsi motori necessari a raggiungere i due potenziali target e non dalla media delle posizioni che i due target occupavano sullo schermo. Il comportamento di media spaziale non è strategico o intenzionale, e non è connesso alla posizione dei target.

Questa scoperta supporta l’idea che il cervello percepisca il mondo come una serie di possibili azioni e oggetti con cui interagire. Avere immediatamente disponibili piani di riserva ha benefici tangibili, ma i ricercatori stanno ancora indagando su quali effettivamente essi siano. Il team prevede di proseguire con studi di fMRI per vedere come la codifica motoria appaia nel cervello.

Benvenuti a Cervellopoli: le neuroscienze per bambini di tutte le età

Torniamo a parlare di Matteo Farinella, un autore molto apprezzato su State of Mind. Con Benvenuti a Cervellopoli  si cimenta con una graphic novel pensata per un pubblico di giovani e giovanissimi.

Articolo di Valentina Congedo

 

Benvenuti a Cervellopoli, un libro rivolto a bambini dai 10 ai 99 anni

Recensione di Benvenuti a Cervellopoli - Matteo Farinella 2017 - Editoriale Scienza - CopertinaCervellopoli si apre con una breve parte esplicativa sul corpo umano. Esso è descritto come un sistema altamente complesso, nel quale coesistono e collaborano famiglie di cellule specializzate; tra di esse, i neuroni sono quelle che compongono il sistema nervoso.

 

Il viaggio di Ramon

Successivamente è introdotto Ramon, il personaggio principale della storia; è un giovane neurone che intraprende una gita a Cervellopoli, in un percorso alla scoperta del sistema nervoso. Ramon è accompagnato da Camillo, una guida che gli spiegherà la funzione delle principali aree cerebrali attraversate. Il percorso si svolge lungo il sistema nervoso di una bambina che, mentre sta giocando in giardino, viene improvvisamente punta da uno scorpione.

Per Ramon si tratta di un viaggio di formazione; raggiunta l’età della fanciullezza, è arrivato il momento di scoprire in quale area cerebrale gli piacerebbe svolgere il suo lavoro di cellula adulta.

A partire dal talamo, area di smistamento delle informazioni che arrivano al sistema nervoso centrale, Ramon e Camillo attraversano la corteccia sensoriale, che riceve l’informazione della dolorosa puntura di insetto; in seguito i due percorrono la corteccia motoria, che reagisce impartendo prontamente ai muscoli l’ordine di allontanarsi dallo scorpione; successivamente arrivano al cervelletto, deputato al mantenimento dell’equilibrio dopo lo scatto improvviso.

Ramon è poi guidato fino al sistema limbico, dove avviene il processamento delle emozioni che “colorano” indelebilmente la costruzione del ricordo dell’esperienza a opera dell’ippocampo. Il sistema limbico è responsabile anche della reazione istintiva della bambina, che si appresta a vendicarsi uccidendo lo scorpione con una sassata. Il comportamento istintivo è però bloccato dalla corteccia frontale, area deputata all’astrazione, alla mentalizzazione e alla pianificazione delle azioni. La bambina ipotizza che la puntura dello scorpione possa essere una reazione di difesa dell’animale e lo raccoglie delicatamente per fare la sua “conoscenza”.

Ramon è entusiasta della scoperta dell’area frontale e della sua funzione ed è proprio lì che deciderà di arruolarsi.

Se, come è probabile, nel corso del viaggio in un sistema cosí complicato ci si fosse persi, al fondo del volume sono disponibili due utili mappe, una del sistema nervoso periferico e centrale, e un’altra del cervello in sezione che riprende il viaggio di Ramon.

 

Benvenuti a Cervellopoli, un immagine dal libro:

Benvenuti a Cervellopoli -Matteo Farinella 2017 - Editoriale Scienza - Immagine

 

Perché leggere Benvenuti a Cervellopoli

I nomi dei protagonisti, Ramon e Camillo, non risulteranno nuovi a chi già conosce Matteo Farinella: il suo Neurocomic è un romanzo grafico sulle neuroscienze rivolto agli adulti, che mira a introdurre i principali concetti relativi al sistema nervoso (morfologia, farmacologia, elettrofisiologia, plasticità e sincronicità) in modo più masticabile e digeribile rispetto a un classico e ostico manuale.

Benvenuti a Cervellopoli si propone un obiettivo analogo; si presenta come un fumetto didattico rivolto ai bambini, con il fine di illustrare il funzionamento del sistema nervoso e delle sue aree principali.

Tali contenuti fanno parte del programma scolastico dell’ultimo anno della scuola primaria e saranno ripresi nei cicli scolastici successivi. Quando affrontano questi argomenti, spesso i bambini si trovano alle prese con libri di testo freddi e schematici, in cui trovano molte informazioni slegate dalla loro esperienza concreta, spesso poco utili e difficili da apprendere, facendole proprie. Con la stessa difficoltà si confrontano gli insegnanti che devono trasmettere interesse per questi contenuti e devono spiegarli con chiarezza; inutile dirlo, la stessa fatica pesa sui genitori che affiancano i figli nello studio.

Benvenuti a cervellopoli risulta un valido complemento all’apprendimento; la grafica è accattivante perché colorata e ricca di immagini, stimola la curiosità e l’immedesimazione sia nel protagonista Ramon, sia nell’esperienza universale della bambina.

La veste di fumetto per bambini non deve indurre a credere che sia un racconto semplicistico. Infatti, le pagine si presentano cariche di informazioni e particolari; il passaggio dalla prospettiva interna “cerebrale” a quella esterna della bambina non è immediato; inoltre, la lettura impone frequenti salti alla mappa del sistema nervoso contenuta al fondo del libro per seguire il percorso di Ramon (solidificando, in questo modo, l’apprendimento).

È una lettura consigliata anche ad adulti che sono a digiuno o dimentichi della materia, da fare insieme ai propri figli, nipoti o alunni. Nel corso della lettura, bambini e adulti sono portati a rallentare per passare da una prospettiva all’altra; devono soffermarsi sulla ricchezza di parole e immagini offerta da una pagina di grande formato e tenere sottomano la mappa finale.

In conclusione “Benvenuti a Cervellopoli” rappresenta un’ottima occasione di apprendimento divertente per i bambini il cui potenziale si realizza a pieno quando l’esperienza è condivisa con un adulto.

Voglio sapere tutto delle tue vacanze! Ma mi interessa davvero?

Vorresti condividere storie con un amico che ha viaggiato ovunque, compreso il luogo da cui sei appena tornato? Avanti tutta. Vorresti intrattenere i tuoi amici con racconti delle avventure vissute in un luogo dove loro non sono mai stati? Forse meglio trattenersi.

 

E’ una verità universalmente condivisa quella secondo cui quando si torna da un viaggio e qualcuno ci dice: “Voglio sapere tutto!”, ciò che realmente intende è: “Sono stato educato, ma spero tanto che il racconto sia breve, e ti prego, per l’amor di Dio, non farmi vedere fotografie”. E uno studio pubblicato recentemente sul giornale Psychological Science lo conferma: non ci piace per niente ascoltare i racconti delle esperienze altrui, a meno che non si tratti di esperienze familiari per noi.

 

Lo studio

Come primo step, i partecipanti sono stati divisi in due gruppi: oratori e ascoltatori. Quelli assegnati al ruolo di oratori hanno visionato un breve video (il cui contenuto spaziava da cortometraggi di animazione a videoconferenze TED -videoconferenze tenute da esperti su argomenti vari- a presentazioni di immagini naturalistiche), dopodiché, è stato chiesto loro di raccontare una storia riguardante ciò che avevano visto ad un piccolo gruppo di ascoltatori.

In alcuni casi, gli ascoltatori avevano già visto lo stesso video; in altri casi, ascoltavano la storia per la prima volta. Prima di immergersi nel racconto, gli oratori hanno completato un sondaggio in cui facevano previsioni su come le persone avrebbero reagito all’ascolto della storia, mentre gli ascoltatori hanno registrato le loro reazioni una volta terminato il racconto.

Le persone si sono divertite maggiormente ad ascoltare storie quando avevano familiarità con l’argomento del racconto – nel caso dello studio, coloro che avevano già visto il video – nonostante gli oratori avessero predetto che sarebbe stato vero il contrario.

 

Le conclusioni

Gli autori ritengono che il motivo di tali risultati ha a che fare con la discrepanza che vi è tra il proprio concetto di sé e le abilità reali: non siamo così bravi a fare i cantastorie come crediamo. [blockquote style=”1″]Il linguaggio umano è pieno di lacune per quanto riguarda le informazioni fornite, e le storie familiari consentono all’ascoltatore di usare la propria conoscenza per riempire queste lacune[/blockquote] ha affermato l’autore dello studio.

Probabilmente gli amici potrebbero divertirsi ad ascoltarci mentre raccontiamo loro di un quadro che non hanno mai visto o di un libro che non hanno mai letto solo se riuscissimo a descriverli in modo opportuno. Ma molti di noi non sono in grado di farlo. Ne risulta che i nostri amici sono molto più felici quando gli raccontiamo cose che già conoscono perché almeno capiscono cosa gli stiamo dicendo. Ci preoccupiamo troppo di entusiasmare i nostri ascoltatori e non ci curiamo abbastanza di poterli confondere.

Le esperienze, in altre parole, non si prestano bene al racconto – il ricordo della cosa più cool e pazza che tu abbia fatto rimarrà con te per moltissimo tempo, ma i tuoi amici se ne dimenticheranno presto.

Trauma, coscienza, personalità. Scritti clinici di Pierre Janet (2016) – Recensione del libro

Pierre Janet (1859-1947), considerato il ‘padre della moderna psicotraumatologia’, si impara a conoscere attraverso questo libro come ricercatore attento della persona a prescindere dalle manifestazioni psicopatologiche.

 

La raccolta di alcuni famosi casi clinici dell’autore permette di osservare l’originalità e la ricchezza del contributo di Pierre Janet.

 

Pierre Janet e i disturbi dissociativi della coscienza

La Prefazione di Giovanni Liotti aiuta il lettore a prepararsi coscientemente alla lettura. La tesi fondamentale di Pierre Janet: i disturbi dissociativi della coscienza, conseguenti alle emozioni veementi dei traumi psicologici, sono spiegabili con il fallimento delle funzioni mentali superiori (la ‘sintesi mentale’) piuttosto che con un meccanismo di difesa dell’Io. La ricaduta di questa tesi sulla psicoterapia porta non più a interventi sulle resistenze (tese a superare la barriera delle difese) come chiedeva la psicoanalisi ma a tecniche volte a incrementare le capacità di ‘sintesi mentale’.

Questa nuova concezione gerarchica dei processi mentali coscienti si osserva anche nella contemporanea psicoterapia volta a aumentare le capacità metacognitive del paziente. Oltre a questo elemento innovativo è possibile scoprire l’attenzione al ruolo delle posture corporee negli scambi interpersonali, che ritroviamo congruentemente nelle ricerche recenti sul funzionamento dei neuroni specchio. Inoltre, la lettura dei casi, permette di osservare una gestione empatica della relazione terapeutica, in cui Pierre Janet cercava di entrare in uno stato intersoggettivo di condivisione con le parti dissociate della personalità, valorizzando la ‘persona’ ed evitando con i colleghi di usare i termini ‘soggetti’ o ‘malati’.

 

Pierre Janet: la mente umana come gerarchia di funzioni

L’introduzione, curata da Francesca Ortu e Giuseppe Capraro, chiarisce gli aspetti nucleari del lavoro di Pierre Janet.

La mente umana è concettualizzata come una gerarchia di funzioni sottese alla tensione psicologica, al vertice di questa gerarchia è collocata la funzione del reale (ne consegue che il delirante è una persona che colloca male la sua parola nella gerarchia dei gradi di realtà). L’emozione esercita sulla mente una diminuzione delle capacità di sintesi, mettendo il germe di un’idea fissa (un insieme di immagini sensoriali, condensate in modo da formare un sistema) e cioè di uno stato emotivo persistente, di uno stato della personalità che rimane invariato e ostacola l’adattamento alle condizioni variabili dell’ambiente circostante.

L’idea fissa è quindi parte della malattia, per guarire non è sufficiente portare tali idee subconscie alla coscienza, poiché esse tendono ad essere distrutte mediante dissociazione o trasformazione. Pertanto l’idea fissa deve essere integrata, attraverso il recupero dei gruppi psichici dissociati dalla coscienza ordinaria, con un trattamento sintetizzante, come la rieducazione o altre forme di esercizio mentale.

 

I concetti chiave nel pensiero di Pierre Janet nei capitoli di ‘Trauma, coscienza, personalità’

I capitoli successivi permettono di approfondire alcuni concetti chiavi del pensiero di Pierre Janet. Sull’isteria dal punto di vista psicologico (capitolo 1), approfondendo il concetto attraverso il confronto con altri autori, si giunge alla definizione di isteria come forma di disgregazione mentale, caratterizzata dalla tendenza allo sdoppiamento permanente e completo della personalità. Riprendendo i concetti gerarchici della mente di Pierre Janet esposti precedentemente, l’isteria si esprime nella dissociazione delle funzioni superiori e nella autonomizzazione delle funzioni più semplici.

Il caso clinico di Irene (capitolo 2) è l’occasione per Pierre Janet di approfondire il tema dell’amnesia e della dissociazione dei ricordi causata dall’emozione. Raccontando i disturbi della memoria, ipermnesia e amnesia, reattivi alla morte della madre, si evidenzia l’effetto delle oscillazioni del livello mentale reattivo alle emozioni, senza giungere a una completa teoria delle emozioni.

Il caso di Marceline (capitolo 3) permette di addentrarsi nelle osservazioni cliniche fatte da Pierre Janet di un’anoressia isterica (durata più di diciassette anni e delle modificazioni della personalità registrate) considerando il valore aggiunto nell’osservare l’evoluzione della malattia, per comprendere i periodi di innalzamento del livello mentale a discapito di preconcetti sulle ricadute, come andamento della malattia.

Esponendo il ruolo delle idee fisse negli accidenti isterici (capitolo 4) riprende le lezioni di Charcot (1884-85) e viene mostrato come Pierre Janet si allontani da esse proponendo l’idea fissa come un fenomeno che non rende pienamente conto dell’intera malattia, ma di una tendenza alla debolezza di sintesi mentale. Pertanto, sono proposti ‘trattamenti locali e generali’ volti a educare l’idea fissa in rapporto con una emozione, più o meno lontana, che svolge un ruolo importante nella forma che ha assunto la malattia. Si giunge ad affermare che ‘questo trattamento sarà qualche volta, ma raramente, sufficiente…il miglior servizio che un medico può rendere a un’isterica consiste nel dirigerne la mente’.

Il caso di Justine (capitolo 5) riportato da Pierre Janet mostra la storia di un’idea fissa e del suo trattamento: dal bisogno continuo di direzione morale al problema di ridurre allo stretto necessario tale direzione della mente, da parte del medico, attraverso il distanziare nel tempo le sedute che si dedicano al malato.

Nel caso clinico di Achille (capitolo 6) Pierre Janet tratta il tema della possessione e dell’esorcismo moderno e utilizza lo studio di questo delirio per verificare alcune teorie di psicologia patologica, proposte per spiegare fenomeni di sonnambulismo e medium, giungendo a sottolineare l’utilità scientifica di una psicologia oggettiva per raccogliere documenti preziosi per lo studio della mente umana.

Il subcosciente (capitolo 6) è, a mio parere, il capitolo più esplicativo della storia di un termine poco chiaro. Si differenzia fra studi sull’inconscio (molto antichi, sono studi di metafisica, relativi alla possibilità di un’intelligenza differente dall’intelligenza umana) e ricerche sul subcosciente (più recenti, sono studi clinici e psicologici volti a chiarire le difficoltà nell’interpretazione di alcuni disturbi mentali, in particolare l’isteria). Proponendo l’approfondimento dello studio dei rapporti fra la depersonalizzazione degli psicoastenici e la subcoscienza degli isterici, si colgono aspetti di similitudine nel funzionamento dei due disturbi. Infine, Pierre Janet riconosce che la questione del subcosciente, nata nell’ambito clinico psichiatrico, non è abbastanza matura per uscirne e riporta a tale stadio iniziale questioni filosofiche che da questo termine sono state prodotte.

Il caso clinico di Madeleine (capitolo 8) tratta l’osservazione di una donna seguita per ventidue anni, per delirio religioso. Viene descritto accuratamente il caso, la biografia e i diversi gradi degli stati di consolazione, per giungere a riconoscere come la debolezza psicologica ostacoli l’equilibrio fra tendenze sessuali/materne e idee morali, offrendo loro uno sbocco particolare attraverso il delirio: utile direzione per i sentimenti (considerati regolatori dell’azione).

Gli appassionati di psicotraumatologia scopriranno interessante ritrovare le loro radici, attraverso le osservazioni cliniche di Pierre Janet, che insegnano il valore di uno studio appassionato e attento, scrupoloso e neutro rispetto al fenomeno in essere, percepito dal ‘clinico dalla mente apparentemente sana’. La lettura dei casi mostra profondamente il rapporto fra sintesi mentale e reazione emotiva, alla ricerca di un equilibrio rispetto alla tensione psicologica, volto ad aggregare o disaggregare i ricordi. L’esperienza e la memoria, il modificarsi di esse, sono al centro di un dibattito che porta dal trauma alla coscienza alla personalità.

Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori (2016) di C. Grillone – Recensione

Nel libro Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori, attraverso uno stile narrativo descrittivo e denso di immagini, il lettore viene accompagnato lungo l’analisi di questa nuova devianza, il bullismo, e aiutato a sondarne le diverse declinazioni.

 

‘Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori’: un libro che nasce dall’esperienza professionale di un avvocato criminologo, dedicato al bullismo e alla devianza minorile, con uno sguardo di rilievo al ruolo della prevenzione a opera delle agenzie educative coinvolte nella formazione dell’identità del minore (famiglia, scuola, società).

Così recita la presentazione al volume del noto criminologo Vincenzo Maria Mastronardi, sintetizzando magistralmente il contenuto delle oltre duecento pagine in cui esso si snoda, fitte di riferimenti teorici e normativi, che lo rendono adatto maggiormente ai professionisti del settore psicologico, giuridico e socio-educativo.

Ecco che nel libro Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori, con uno stile narrativo descrittivo e denso di immagini, il lettore viene accompagnato lungo l’analisi di questa nuova devianza (definita teppismo per noia o malessere del benessere), aiutato a sondarne le diverse declinazioni, nella cornice di un fenomeno “democratico”, che non è possibile relegare a un discorso di classe sociale, genere o confini geografici.

Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori è un libro ottimista e propositivo che fornisce inizialmente uno spaccato di carattere classificatorio/etiologico fino a illustrarne le ricadute normativo/sociologiche, al fine di proporre strategie di fronteggiamento e linee guida di intervento.

 

Il bullismo come trattato in Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori

Già dal primo capitolo di Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori il lettore potrà farsi una chiara idea delle caratteristiche strutturali del fenomeno, approfondendo le caratteristiche del bullismo femminile nelle sue specificità rispetto alla violenza maschile. Sul versante legato alla genesi delle condotte devianti, forte enfasi pone l’autrice, Caterina Grillone, sulla componente gruppale: il bullo è tale in quanto sostenuto dal gruppo che incita alla violenza. Interessante da un punto di vista psicodinamico il ruolo dei cosiddetti attendenti, che si astengono dall’interrompere la violenza per cementare un’identità di gruppo.

Focus sui meccanismi gruppali, ma altresì valutazione attenta del ruolo dei fattori di rischio di ordine socio-familiare e di quelli soggettivi (collegati in particolare alla neurobiologia del trauma), senza mai cadere nel giustificazionismo.

Infatti, nella visione normativa della Grillone, il bullismo è un reato e, in quanto tale, da sanzionare, in un’ottica riparativa; eppure nel contempo il minore bullo resta sempre un minore, quindi da proteggere rispetto all’esperienza detentiva. Alla conciliazione di queste due esigenze socio-giuridiche, nell’ottica di una prevenzione secondaria (e ancor più, terziaria), è dedicato il secondo capitolo, incentrato sull’analisi delle misure penali minorili previste dal nostro ordinamento e sul valore riparativo della mediazione penale.

Se con un aggettivo si dovesse definire il libro Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori si potrebbe senz’altro utilizzare il termine “pedagogico”, concetto che investe la famiglia, perché “l’educazione alle norme sociali è essa stessa espressione di affetto”, la scuola “che punterà tutti i suoi sforzi sulla comunicazione” e la società che, istigando alla violenza, rischia di rendere l’abuso sui minori uno “scherzo pericoloso”.

E al rapporto tra scuola e bullismo è dedicato interamente il terzo capitolo: una scuola che si prefigga la mission del rispetto dei diritti umani, e dove il diritto all’istruzione divenga effettivo senza discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, causa di atti di violenza su gay e lesbiche percepiti come diversi.

Se famiglia, scuola e società vengono chiamate in causa in quanto responsabili “nel favorire, più o meno consapevolmente, forme di bullismo”, quali strategie adottare?

In ottica interventista, la Grillone nel suo libro Dalla violenza sui minori alla violenza dei minori propone un intervento duplice, nell’idealistica finalità di una prevenzione primaria che abbatta il fenomeno sul nascere. Una visione top-down “Gli Stati dovrebbero investire in programmi per l’educazione e la formazione sistematica di professionisti e non, per la diffusione di una cultura del rispetto dell’altro”, e bottom-up attraverso “L’istituzione di strumenti, come i numeri verdi, per permettere ai bambini di denunciare gli abusi”.

In queste proposte la Grillone appare conoscitrice acuta dei principi pedagogici del coinvolgimento diretto della vittima nella ristrutturazione della propria storia personale, ma non trascura il minore autore di violenza, con una famiglia “incapace di trasmettere il valore della responsabilità del proprio comportamento”.

La presa di coscienza di tale responsabilità appare determinante in un percorso terapeutico efficace, e non può essere slegata dalla garanzia della fine dell’impunità affinché “Tutti i responsabili della violenza sui bambini vengano assicurati alla giustizia”. Perché la violenza non può “accontentarsi” della creazione astratta di norme (benché efficaci su un piano normativo-pedagogico), ma deve invece beneficiare della sicurezza di una sanzione “giusta, ragionevole”, propedeutica a un ravvedimento interiore che favorisca l’adesione interna a un progetto di vita basato sull’aberrazione di ogni tipo di lesione alla dignità personale.

Profili di Personalità e tipologia di reati: Il pregiudizio del soggetto antisociale

Personalità antisociale: Per molti autori da un punto di vista psicologico, lo sviluppo del disturbo della condotta e della devianza in genere, ha insorgenza nell’infanzia e può essere riportato a disfunzioni della diade genitore-figlio. Le caratteristiche genitoriali e dello stile familiare vengono interiorizzate, e trasformate in caratteristiche della personalità.

Romina Edith Monteleone, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La complessa definizione del comportamento antisociale e della devianza

La classificazione di un individuo criminale è un compito difficile, dal momento che ciascuno di essi potrebbe indubbiamente definire una nuova categoria nosografica a causa degli innumerevoli comportamenti clinici; tuttavia è anche possibile trovare caratteristiche comuni in sottogruppi che spiegano alcuni fenomeni che si verificano in soggetti con storie simili (Grisso, 2007).

Il comportamento antisociale, la devianza e la criminalità sono oggetto di riflessioni e studio fin dai tempi di Aristotele. La definizione di disturbo antisociale inizia ad essere delineata fin dai primi anni del XVIII secolo. Se ne interessano diversi studiosi che tentano di delineare le caratteristiche di personalità d’individui che ingaggiano comportamenti pericolosi, distruttivi e dannosi per la società ( Bertozzi A, 2007).

Fino ai primi anni del XVII secolo la tendenza alla distruzione e all’autolesionismo si attribuiva ad un deficit della capacità di ragionare. Nel secolo successivo si notò invece che alcuni soggetti, nonostante le loro facoltà fossero integre, ingaggiavano comportamenti distruttivi ed azioni impulsive. (De Cataldo Neuburger, 2011)

 

Le teorie psicologiche che spiegano la personalità antisociale

Per molti autori da un punto di vista psicologico, lo sviluppo del disturbo della condotta e della devianza in genere, ha insorgenza nell’infanzia e può essere riportato a disfunzioni della diade genitore-figlio. Le caratteristiche genitoriali e dello stile familiare vengono interiorizzate, e trasformate in caratteristiche della personalità.

La teoria psicoanalitica, ad esempio offre secondo Anna Freud (1949) e Masud Khan (1979) una teoria in cui la personalità antisociale, e di conseguenza i comportamenti criminali, costituirebbero una predisposizione personologica; in particolare, i comportamenti criminali verrebbero messi in atto quando le pulsioni libidiche o aggressive dell’Es vincono le spinte opposte verso la conformità sociale dettate dal Super-Io oppure quando le componenti narcisistiche sono così frustate da indurre un passaggio all’atto (Canepa, 1997).

Inoltre studi come Kolbo, Blakely & Engleman (1996) (in Fornari, 2009) ha mostrato che ambienti familiari antisociali hanno un effetto maggiore su: (a) il funzionamento emotivo e comportamentale, (b) il funzionamento cognitivo, (c) lo sviluppo a lungo termine. Secondo gli autori, questi ambienti generano, come adulti, comportamento più aggressivo e antisociale. Il soggetto sviluppa una sorta di alienazione emozionale, cioè, un’alterazione delle emozioni assieme alla perdita di controllo di sé. Sono individui che si mostrano sospettosi ed ostili, e che si sentono maltrattati o trattati ingiustamente. Essi hanno difficoltà di apprendimento dall’esperienza, come evidenziato dalla ripetizione del comportamento criminale; nonostante le sanzioni ricevute.

Interessante è il contributo di Piatel (1999) ( in Strano, 2009) dove si determinano 4 tratti centrali di personalità:
a) egocentrismo, che permette di ignorare i giudizi;
b) labilità emotiva e cognitiva che predisporrebbero alla non presa in carico delle conseguenze dell’atto criminale;
c) aggressività quale spinta motivazionale al reato;
d) indifferenza affettiva verso le sofferenza della vittima.

L’autore sottolinea che queste caratteristiche di personalità sono presenti in ognuno di noi. La differenza tra un soggetto che delinque ed un cittadino normale si cela nell’influenza delle variabili ambientali. Quindi vale la pena domandarsi: tutti i reati sono commessi da soggetti antisociali? Le caratteristiche della personalità antisociale spingono verso la criminalità? L’ antisocialità del soggetto è un valido predittore di comportamenti criminali o è un pregiudizio?

Yochelson e Samenow (1977), rispondono con uno studio che evidenzia che delle caratteristiche psicologiche ricorrenti in criminologia, quali la facilità di eccitamento, fantasie di dominio, di potere e di trionfo, paura diffusa e persistente sospettosità, sono presenti nella popolazione normale di controllo.

A questo proposito, particolare attenzione è il punto fatto da Bronfenbrenner (1987) (in Rudas 1997) sul rapporto tra variabili sociali e scale psicopatologiche nella manifestazione del comportamento criminale. Nel suo studio l’autore dimostra come “pesino” di più le condizioni socio-ambientali piuttosto che le caratteristiche di personalità nel comportamento criminale. Tuttavia nello studio lo “Status socio-economico” non è stato considerato nelle indagini perché i partecipanti assegnati ai gruppi di ricerca sono stati privati ​​della libertà, la variabile descritta con maggiore rilievo è attribuibile ad ambienti socialmente rurali o periferici in cui, a seguito di poche opportunità di avanzamento sociale, sono stati in grado di generare una tendenza a sviluppare condotte criminali ammissibili in tali contesti.

Allo stesso modo, Heider (1958) ( in Fornari, 2009) sottolinea che questi contesti possono influenzare la motivazione al comportamento delittivo tramite i grossi incentivi economici esistenti a commettere crimini e l’esistenza di garanzie per profitti illeciti, si pensi ad esempio al traffico di droghe.

In Colombia, ci sono diversi studi che cercano di spiegare il tema del narcotraffico dal punto di vista della personalità antisociale del soggetto, i risultati, pur se a volte contraddittori, consentono di concludere che non sempre la condotta del soggetto criminale si declina da aspetti psicopatologici di personalità antisociali bensì da soprastrutture sociali ed ambientali che condizionano l’operato criminale dell’individuo.

Questi dati sono preziosi per sviluppare ulteriormente modelli di prevenzione, se si vuole ottenere che queste persone vengano reinserite nella società; ed è una cosa vitale per una corretta attenzione alla natura dei problemi delle persone che infrangono la legge.

La nuova scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e comportamentale di Mestre “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca – Mestre”

Apre la scuola di specializzazione in psicoterapia cognitiva e comportamentale di Mestre “Psicoterapia Cognitiva e Ricerca – Mestre”.

La scuola è riconosciuta con Decreto Ministeriale del 6 dicembre 2016 Abilitazione 16A08859.

 

In breve, gli obiettivi principali della scuola sono l’insegnamento di capacità diagnostiche fini che consentono di indirizzare il paziente verso il trattamento più efficace, l’integrazione tra le tecniche cognitive e cognitivo-comportamentali standard e la sapienza nel gestire la relazione terapeutica e il setting con pazienti anche difficili.

Nel dettaglio, il percorso offerto è focalizzato nel primo biennio su una formazione cognitiva e costruttivista classica che ripropone con rigore e attenzione le procedure sia della terapia cognitivo-comportamentale standard derivate dal lavoro di Beck e Clark e specifiche per i disturbi d’ansia, dell’umore e alimentari, sia sull’attenzione della scuola italiana per l’analisi gerarchica dei costrutti di Kelly e di altri autori costruttivisti sia di scuola americana (Mahoney) che italiana (Sassaroli e Lorenzini; Guidano e Liotti). Come base fondamentale rimane la tecnica razionale – emotiva ABC sui pensieri irrazionali alla Ellis.

Nel secondo biennio si prendono in considerazione le difficoltà peculiari dei disturbi di personalità e i nuovi sviluppi di tipo processuale e funzionalista avvenuti nell’ambito cognitivo, con particolare attenzione alla terapia metacognitiva di Wells.

Il corpo docente è costituito da terapisti esperti cresciuti nel gruppo clinico e di ricerca nato oltre vent’anni fa intorno a Sandra Sassaroli e Roberto Lorenzini. Citiamo tra loro Giovanni M. Ruggiero, Gabriele Caselli, Francesco Centorame, Roberto Framba, Carmelo Lamela, Daniela Rebecchi, Susanna Zanon, Marina Apparigliato, Marita Pozzato, Simone Del Negro e molti altri ancora.

Sono aperte le iscrizioni per l’anno 2018 alla scuola di specializzazione in psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre

16 Marzo: presentazione della scuola.

 

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre fa parte del network Studi Cognitivi

Il razionale delle scuole del network:

  • Una forte importanza alla psicodiagnosi corretta sia dal punto di vista del colloquio clinico che dal punto di vista della testistica, sia psichiatrica che psicologica che cognitiva. L’importanza data alla psicodiagnosi corretta è premessa fondamentale per l’organizzazione del progetto clinico e psicoterapeutico e per l’integrazione tra diverse figure professionali: lo psichiatra, lo psicoterapeuta individuale, l’invio in doppio setting ai gruppi, ecc.
  • Una forte spinta a costruire un gruppo di ricerca di livello internazionale perché la formazione degli allievi sia costantemente informata non solo dalla competenza clinica dei didatti, ma dalla vicinanza al pensiero scientifico sulla clinica. Il gruppo Studi Cognitivi ha ad oggi una cinquantina di pubblicazioni su riviste internazionali referate, come Psychological Medicine, Behaviour Research and Therapy e molte altre. Gli allievi interessati possono interagire con il gruppo ricerca, ma soprattutto vi è una relazione di interazione tra pensiero clinico, conduzione della psicoterapia e conoscenza della ricerca sulla psicoterapia.
  • La presenza di alcune figure di spicco del cognitivismo italiano che insegnano ogni anno portando le loro competenze teoriche e cliniche (Gianni Liotti, Cristiano Castelfranchi, Antonio Semerari, Giancarlo Dimaggio, Giovanni Maria Ruggiero, Sandra Sassaroli e tanti altri).
  • Una forte tendenza a divenire luogo privilegiato di iniziative cliniche, culturali, scientifiche, del web che coinvolgano gli allievi dal punto di vista della ricerca e della clinica, della psicodiagnostica, delle attività extrascolastiche e che contribuiscano alla loro professionalizzazione come psicoterapeuti. Alcuni esempi possono essere: il progetto Pro-Youth sulla prevenzione online dei disturbi alimentari; “State of Mind” (www.stateofmind.it), il webjournal che sta rivoluzionando il modo di fare informazione nell’area della psicologia; le supervisioni; la scrittura di articoli scientifici; l’assistere ai gruppi clinici di skill training o alla psicodiagnostica e l’organizzazione di congressi e tante altre attività.

 

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La La Land: un film dallo stile onirico e gioiosamente malinconico – Cinema e Psicologia

Proclamato a gran voce il film dell’anno, dopo aver vinto 7 golden globe e guadagnato ben 14 nomination agli Oscar, La La Land è un film dallo stile onirico che intende omaggiare la tradizione del musical hollywoodiano senza cadere in uno sguardo meramente nostalgico, ma reinventandosi in una veste contemporanea che dà voce ad una storia semplice, appassionata e gioiosamente malinconica.

 

La la land: l’amore per l’arte e tra i due protagonisti

La la land: un musical gioiosamente nostalgico - Cinema e psicologiaDamien Chazelle mostra ammirazione nei confronti della tradizione, rispetto per i suoi canoni e linguaggi dimostrando di padroneggiarli abilmente per poter inserire le proprie personali variazioni, firmando un capolavoro destinato a costituire un riferimento imprescindibile per i musical che verranno. Il legame che nasce tra Sebastian e Mia accompagna lo spettatore in un vortice caleidoscopico di jazz, ballo e colori, accarezzando temi significativi come l’intransigenza della passione ed il desiderio dell’amante, la coerenza dell’agire e il rischio di tradire il Sé nel duro confronto con il Reale, la forza delle aspirazioni e la solitudine dell’artista.

Le esistenze dei protagonisti di La la land sono profondamente segnate dalla forza travolgente della passione artistica che, come il loro legame sentimentale, non nasce da un intento prestabilito ma si sprigiona come una forza naturale in grado di trascendere la loro volontà. L’impegno con cui Sebastian si rende paladino della difesa del jazz tradizionale lottando contro le resistenze del mercato del lavoro, la tenacia di Mia nel continuare imperterrita a coltivare l’aspirazione di diventare un’attrice nonostante le porte chiuse in faccia, provino dopo provino, esprimono la sofferenza di chi persegue una strada che non ha il sapore di una scelta ma della realizzazione di una vocazione.

La vocazione di cui parla Hillman, ne “Il Codice dell’Anima”, corrisponde al carattere, all’immagine, al genio, traduzioni differenti di un unico termine: daimon. Mia e Sebastian non avrebbero potuto rinunciare a ciò che domina le loro esistenze, ma si impegnano scontrandosi con la dura realtà di un mondo che sembra non riservi un posto per le loro passioni; il daimon nella mitologia greca e nella versione junghiana di Hillman rappresenta l’immagine affidata sin dalla nascita, per la realizzazione della quale è necessario vivere.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL VIDEO

La La Land (2016) Trailer

 

I sogni e le aspirazioni frustrate e il confronto con la realtà nel film La la land

La realtà del daimon può porsi in contrasto con l’esame di realtà, può generare sofferenza e frustrazione, ma sono egualmente necessari per raggiungere uno stato di benessere. I protagonisti si incontrano in un momento poco felice delle loro esistenze, entrambi appaiono fragili e logorati dai ripetuti rifiuti eppure tanto forti per la consapevolezza della verità della loro immagine. Nella Grecia antica l’eu-daimonia corrispondeva alla felicità, ovvero alla buona realizzazione del daimon, in altre parole: dar voce alla propria passione, realizzare il proprio destino.

Mia è l’unica nel locale che riconosce il valore delle note suonate da Ryan Gosling, nell’indifferenza di un’intera sala ristorante, ed il suo riconoscimento non è soltanto un interesse musicale, si scoprirà infatti che non apprezza il jazz, ma costituisce l’atto con cui Mia vede la forza della passione frustrata e dolorante di Sebastian, in una corrispondenza empatica che avvicina i protagonisti. Ciascuno costituisce il mentore dell’altro, restituisce quindi dignità al desiderio di realizzazione dell’altro così ripetutamente calpestato da un mondo sordo alla sincerità delle passioni.

Mia ad un certo punto decide di rinunciare a ripetere l’ennesimo provino, sicura che si sarebbe trattato dell’ulteriore fallimento, anticipando una previsione di insuccesso e avvertendo quindi di essere incapace di esercitare un controllo sugli eventi della sua vita: l’impotenza appresa viene confusa con l’esame di realtà, con quello che il contesto socio-culturale odierno chiamerebbe “buon senso”.

Come la psicologia positiva suggerisce, l’impotenza appresa costituisce una trappola rischiosa in grado di farci percepire un fallimento atteso pur essendo in grado di vincere, che porta a non dare il giusto valore alle abilità possedute in virtù delle aspettative frustrate. Eppure oggi, l’invito rivolto ai tanti ragazzi a rinunciare alle loro passioni se poco remunerative, se poco promettenti e redditizie, va in questa direzione, a fermarsi anzi ancor prima che si possa sperimentare la frustrazione per un traguardo non conseguito. Non c’è attenzione per la realtà del daimon ma un prevalere dell’esame di realtà che non tiene in considerazione il carattere individuale, in un adattamento unidirezionale dove la propria persona si piega al volere del mondo esterno.

Ciò che emoziona e fa sorridere dei protagonisti di La la land è la loro intransigenza verso la passione, questo imperterrito procedere oltre le bastonate con il sorriso dato dalla loro scoperta, dalla convinzione di ciò che il daimon di ciascuno voglia da loro. Mia cade nella tentazione di tradurre l’impotenza appresa in un pragmatismo realistico di buon senso; la tenacia di Sebastian le consentirà di procedere oltre le aspettative frustrate del passato riuscendo così ad ottenere quell’occasione agognata tutta la vita. Entrambi i protagonisti, però, si ritrovano a confrontarsi con l’ombra della vocazione, ovvero la dedizione assoluta, incontrastata, il suo carattere esigente e incorruttibile, che obbliga ad un isolamento forzato, talvolta anche affettivo.

Le parole del più influente pianista jazz vivente, Keith Jarrett, possono costituire un buon riferimento per avvicinarsi ad avvertire l’intransigenza del talento: “La solitudine di un artista creativo è sempre maggiore della fama che esso raggiunge. Non importa quanta gente gli sta attorno, un artista è sempre solo, che gli piaccia o no. Se nega questa solitudine, significa che non è un artista completo, perché non ha sperimentato l’unicità dell’arte. Più un artista diventa eccellente più solo si sentirà. Se non ti senti solo, vuol dire che la tua conoscenza è inferiore al tuo talento, e il talento non è tutto”.

La passione o la vocazione non ammette confini, richiede la rinuncia al limite e poco si concilia con le esigenze di un amore puro, onesto e sincero. Amore per il daimon e amore per l’amante, due amori non scelti, ma egualmente esigenti, che rifiutano compromessi, che esigono dedizione costante.

Per questo sembra necessario che entrambi debbano rinunciare a concedersi un simile legame pur amandosi, profondamente coinvolti. Nella scena finale, in quel sorriso appena abbozzato al Seb’s dopo aver assaporato in sogno ciò che avrebbe potuto essere, Mia e Sebastian riconoscono e accettano la scelta fatta, riescono a permanere nella malinconia accogliendola.

 

La gioiosa malinconia e la tenacia di chi continua a credere in un sogno

La forza di La la land potrebbe risiedere proprio nella maestria con la quale Chazelle coinvolge lo spettatore in un malinconico gioco di rimandi nostalgici chiedendo di provare ad abitarlo, di restarci e di provare a gustare il sapore comunque dolce che può avere la (gioiosa) malinconia. Anche la realizzazione della felicità (eu-daimonia) può serbare un nocciolo di nostalgica accettazione consapevole del sacrificio e della rinuncia. Ed ecco l’attualità del film, nella sua dedica: “ai folli e ai sognatori”. Chi sono i folli e i sognatori di oggi? Sono tutti i giovani che nonostante un mondo che sembra gridare che non ci sia spazio per loro, imperterriti non cadono nelle trappole del “buon senso” per non tradire il proprio destino. Chiunque scelga di assecondare una passione non scelta in un tempo in cui ciò si traduce in rischio, difficoltà e sacrificio è il folle, il sognatore di Chazelle, è l’intransigente che desidera perseguire e realizzare un disegno presente fin dai tempi più antichi, consapevole del costo che comporta la felicità.

Neurobiologia del consumo di cocaina: Il ruolo del sistema limbico

Le neuroscienze hanno dato un contributo significativo alla spiegazione del substrato neuronale che supporta i comportamenti di dipendenza dalle sostanze, tra cui la cocaina, studiando i percorsi neurali, i modelli di neurotrasmissione coinvolti, gli agenti molecolari e, naturalmente, le componenti genetiche alla base della dipendenza.

Romina Edith Monteleone, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Il contributo delle neuroscienze per spiegare la dipendenza da cocaina

Le relazioni annuali sul consumo di droga nel mondo, dimostrano che il consumo di cocaina è stabile nel corso degli anni. Il 4,8% dei soggetti italiani di 15-64 anni ha provato ad assumere cocaina almeno una volta nella vita, mentre lo 0,9% ammette di averne consumato anche nel corso dell’ultimo anno. Le modalità di consumo di cocaina preferiti sono per via endovenosa e per via inalatoria. Si presume che la cocaina presa in questo modo generi cambiamenti neurochimici a lungo termine. Questo fatto, unitamente alla complessità di altri aspetti del comportamento di dipendenza rendono complicato l’efficacia di un processo terapeutico. (Gamberana C; 2007)

In questo senso, le neuroscienze hanno dato un contributo significativo alla spiegazione del substrato neuronale che supporta i comportamenti di dipendenza dalle sostanze tra cui la cocaina, studiando i percorsi neurali, i modelli di neurotrasmissione coinvolti, gli agenti molecolari e, naturalmente, le componenti genetiche alla base della dipendenza.

Uno dei principali oggetti di studio è il ruolo del sistema limbico nel consumo specifico di cocaina.
Classicamente si considera che questo sistema sia costituito dalle seguenti strutture: Cortex prefrontale, Ippocampo, Ipotalamo, Talamo. Al suo interno si trovano alcuni nuclei fondamentali come l’abenula, l’amigdala, e i nuclei dorsale (i gangli della base) e ventrale (nucleo accumbens – Nac -, formato da una parte detta core e una parte detta shell).

L’amigdala valuta la qualità di una esperienza ovvero: se è piacevole o sgradevole, quindi se va ripetuta o evitata, e a formare connessioni tra un’esperienza e altri segnali, è il centro della memoria emotiva e dell’apprendimento; il talamo, che secerne la corticotropina, aiuta a mantenere l’omeostasi del metabolismo corporeo in rapporto agli stimoli ambientali; l’ippocampo contribuisce alla registrazione del ricordo di un’esperienza, compreso dove, quando e con chi si è verificata, e contribuisce alla creazione della memoria cosciente. (Vanderschuren LJMJ, Everitt BJ; 2005)

Negli anni si è stabilito che facciano parte del sistema della gratificazione altre componenti basilari ovvero: il sistema neurotrasmettitoriale dopaminergico mesolimbico, che controlla la spinta motivazionale per la ricerca dello stimolo gratificante, il sistema neurotrasmettitoriale oppioide, che medierebbe i processi di gratificazione conseguenti al consumo della sostanza, il sistema glutaminergico, che modula il rilascio della dopamina in alcune aree cerebrali. (Nestler E. J.2001; 2002)

A differenza di un picco dopaminergico naturale, il piacere e la ricompensa mediati da una sostanza d’abuso, come la cocaina, dipendono da una elevata concentrazione di dopamina sui recettori postsinaptici D2 del sistema limbico. Per un processo di neuroadattamento, questa sovraesposizione alla dopamina fa sì che siano necessarie quantità sempre maggiori di sostanza d’abuso per produrre gli stessi livelli di dopamina e che l’individuo diventi di fatto incapace di funzionare all’esaurimento degli effetti della sostanza stessa. Si avvia a questo punto il circolo vizioso neurofarmacologico da cui dipendono l’abuso e la dipendenza. Il processo di neuroadattamento alla base di questo fenomeno sembra essere da un lato la riduzione dei recettori per la dopamina (fenomeno che riguarda anche i consumatori cronici di altre sostanze d’abuso) e dall’altro, successivamente, la riduzione stessa della dopamina, per una sorta di effetto di esaurimento.

I neuroni contenenti dopamina presenti nel NAc sono attivati da stimolazioni motivazionali che incoraggiano una persona a determinati comportamenti ed alla loro ripetizione. Anche minime quantità di cocaina sono state in grado di aumentare il rilascio di dopamina nel NAc: il che contribuisce agli effetti “ricompensa” e, quindi, costituisce una parte importante nella promozione dei consumi. (Hyman Se., Malenka RC., Nestler EJ, 2005; Hyman Se, 2006)

Il craving: l’intenso desiderio della sostanza

L’esistenza di queste connessioni anatomiche può spiegare in parte un altro fenomeno, tipico delle sostanze d’abuso, che osserviamo spesso nella clinica delle dipendenze: l’apprendimento incentivo. Questo meccanismo è caratterizzato dal fatto che stimoli neutri o secondari di varia natura, come un volto, un luogo, una situazione, associati ripetutamente agli effetti gratificanti delle sostanze d’abuso, possono diventare capaci di per sé di scatenare un intenso desiderio della sostanza (craving) anche a distanza di anni dall’ultima assunzione, portando alla ricaduta. L’apprendimento incentivo, non avviene nel caso degli stimoli gratificanti naturali, per cui uno stimolo neutro ad essi associato rimane tale senza riuscire a scatenare il craving. Il craving, definito come un forte e inevitabile desiderio di assumere una sostanza o più in generale di soddisfare un bisogno, può essere scatenato dalla droga o dalla presenza di uno stimolo neutro o secondario, ripetutamente associato all’effetto gratificante della stessa. (Everitt BJ., Robbins TW, 2005)

Da un punto di vista neurologico il craving è concepito come un fenomeno che attiva alcune aree cerebrali come la cortex prefrontale, il nucleo accumbens, l’ippocampo e l’amigdala, al pari del controllo del desiderio e del consumo indotto dagli stimoli primari, dove le droghe probabilmente provocano cambiamenti duraturi a livello molecolare, soprattutto nelle aree deputate alla formazione e immagazzinamento della memoria. (Aquas E,2007)

Si ipotizza che l’aumento della trasmissione dopaminergica in tali aree indotta dalle sostanze si accompagni a un potenziamento delle proprietà emozionali e motivazionali delle stesse. La dopamina, quindi, sarebbe in grado di modulare, attraverso meccanismi molecolari cellulari, l’archiviazione delle informazioni (in questo caso delle sensazioni piacevoli indotte dalle droghe) a livello della corteccia cerebrale. In questo modo, le sostanze d’abuso, attraverso un potenziamento della trasmissione dopaminergica mesolimbica-corticale e del rilascio di determinati fattori come il CRF, l’ormone dello stress, indurrebbero nell’individuo un rinforzo nella memorizzazione degli effetti gratificanti indotti dal loro uso.( Acquas E., Carboni E., Valentini V., Lecca D, 2004)

Il meccanismo neurobiologico alla base della dipendenza

Per concludere lo schema clinico neurologico che porta un individuo alla dipendenza si potrebbe descrivere nei seguenti modi ( Gamberana, 2007):
A. un circuito che media gli effetti di rinforzo positivo di una sostanza: include il nucleo centrale dell’amigdala e il nucleo del letto della stria terminale. A livello molecolare si ipotizza il ruolo di diversi neuromodulatori, tra i quali la dopamina, peptidi oppioidi della gratificazione, noradrenalina e corticotrophin releasing factor nello stress. (Sarnyai Z., Shaham Y., Heinrichs S.; 2001)
B. Un circuito implicato nelle ricadute, che nei modelli animali sono rappresentati dalla ripresa di un comportamento di autosomministrazione indotto dall’esposizione alla sostanza o a stimoli ad essa associati. Questo circuito comprende la corteccia prefrontale con le sue regioni (corteccia cingolata anteriore, prelimbica, orbitofrontale) e la regione baso laterale dell’amigdala.
C. Il terzo circuito sarebbe implicato nella ricerca della sostanza e comprende nucleo accumbens, pallido-ventrale, talamo, corteccia orbito-frontale e corteccia motoria. Presumibilmente sono anche implicate altre strutture come l’ippocampo che registra il ricordo delle esperienze e le vie nervose dopaminergiche e noradrenergiche delle aree corticali.

Il counseling filosofico: alcune domande provocatorie

I corsi di counseling filosofico sembrano suscitare un crescente interesse, a fronte del quale sembra necessario porsi qualche interrogativo, tanto sulla legittimità dello strumento, quanto sul suo significato dal punto di vista socio-culturale.

 

Personalmente mi sento autorizzato a esprimere un’opinione in materia di counseling filosofico per aver compiuto studi sia di carattere filosofico che psicologico (sono laureato in filosofia e psicologia, ho conseguito un dottorato di ricerca in storia della scienza e ho seguito corsi di specializzazione che mi hanno condotto alla qualifica di psicoterapeuta; attualmente insegno Psicologia dinamica e Filosofia della scienza presso l’Università di Roma “Tor Vergata”).

Non è quindi un preconcetto nei confronti della filosofia a spingermi ad avanzare dubbi e obiezioni verso il counseling filosofico. Sono anzi convinto che lo studio della filosofia sarebbe imprescindibile ai fini della formazione di uno psicologo. Sono però altrettanto convinto che la filosofia di per sé non basti a formare un ‘terapeuta’, a qualunque significato si voglia piegare questo termine. Vi propongo quindi alcune questioni sulle quali ritengo importante dibattere.

 

Counseling filosofico e strumenti diagnostici

Chi fornirà al counselor gli strumenti diagnostici necessari per sapere se e come procedere al counseling?

Prima ancora di chiederci se il counselor filosofo sia in condizione di aiutare qualcuno bisogna chiedersi come possa evitare di causare dei danni. La formazione dello psicologo clinico comprende come aspetto essenziale l’acquisizione di strumenti diagnostici per accertare l’eventuale presenza di psicopatologie gravi o potenzialmente gravi a carico della persona che a lui si rivolge. Si tratta di un sapere assolutamente necessario perché, ogni volta che si instaura una relazione di aiuto, un errore può comportare dei rischi: e un errore può anche consistere nella semplice decisione di commentare quello che l’altro dice. Basta provare a interpretare troppo precocemente il contenuto di quanto vi racconta uno psicotico compensato (che non è per niente facile da individuare al primo sguardo) o un soggetto borderline.

Il rischio nel primo caso può essere un simpatico delirio (auguri di buon proseguimento!) e nel secondo caso può consistere in un altrettanto simpatico acting out, in una gradazione molto varia che può andare da un pugno in un occhio a un tentativo suicidario differito. Si tratta ovviamente di casi limite, ma situazioni nelle quali un errore diagnostico conduce a una prassi terapeutica sbagliata e di conseguenza provoca ferite psicologiche sono tutt’altro che infrequenti. Si dirà che anche gli psicologi clinici sono soggetti a errori e questo è vero. Tuttavia lo psicologo clinico segue un corso di laurea nel quale apprende strumenti diagnostici, segue un tirocinio di un anno che serve a mettere in pratica gli insegnamenti e deve superare un esame di stato che mette alla prova le sue competenze in questo stesso ambito: tra l’altro si tratta di uno degli esami di stato più selettivi che ci siano.

Lo psicoterapeuta aggiunge a questa formazione di base altri quattro anni di specializzazione. Se sbaglia chi ha una tale formazione, cosa farà chi questi strumenti non li apprende in modo approfondito e, presumibilmente, neanche superficiale? Noto per inciso che la legge (non per caso) autorizza solo gli psicologi ad applicare gli strumenti di cui sopra.

Posso essere d’accordo, in linea di principio, con chi sostiene che la malattia mentale è frutto della nostra civiltà etc., etc. Il guaio è che noi in questa civiltà ci viviamo e non possiamo prescinderne. Chi incontra uno psicotico incontra “uno psicotico”, prima che “una persona che in un contesto non dominato dalla téchnē avrebbe dei connotati umani differenti”. Provare per credere.

Qualcuno argomenta che il counseling filosofico si ponga come una forma di intervento ‘diversa’ qualitativamente dalla psicoterapia. Personalmente ritengo che difficilmente esista una terza via: o il counseling non è una relazione di aiuto o lo è. Nel primo caso non è nulla, o nulla più di una conversazione amichevole (a pagamento); nel secondo si instaura comunque una relazione di tipo transferale tra fruitore e praticante (ovvero, una relazione nella quale il primo attribuisce al secondo la capacità di capirlo e aiutarlo). E quando si instaura questo tipo di relazione, si corrono tutti i rischi che corre la clinica psicoterapeutica.

 

L’utilità del counseling filosofico

Come potrà essere utile a qualcuno il counseling filosofico?

Posto che il counselor possa non danneggiare il suo cliente, come è possibile provare che sia in grado di aiutarlo? Già sento filosofi che cominciano a mettere in questione la possibilità di parlare di verità, efficacia e così via. Non ho intenzione di proporre argomenti contro chi sostiene che (a) non c’è bisogno di prove di alcun tipo o che (b) quando si ha a che vedere con il vissuto umano soggettivo non esistono prove in senso stretto. Se il counseling filosofico si basa su un’epistemologia allegramente post-moderna, allora è semplice chiacchiera.

Vogliamo dire che sarà il mercato a fare giustizia? A prescindere dal fatto che pensare che debba essere il mercato a decidere della bontà di un sistema terapeutico mi sembra oltraggioso di per sé, di fatto nel mercato sono presenti elementi di aberrazione le psicosette: queste realtà hanno un grande successo nel mondo, anche se il successo procede di pari passo con la rovina di coloro che ne vengono risucchiati. Il mercato non ha cancellato né maghi, né astrologi ma questo non mi pare una prova a favore della magia o dell’astrologia.

Parliamo allora di prove di efficacia. All’inizio del secolo scorso la psichiatria e la psicoterapia brancolavano nel buio, e per decenni non è stato neanche pensato un progetto di ricerca per stabilire se le rispettive terapie ‘funzionassero’: si riteneva sufficiente suffragare l’efficacia dei sistemi terapeutici illustrando singoli casi clinici per i quali la terapia avesse condotto i pazienti a un miglioramento.

Oggi le cose stanno diversamente: consiglio, per informazioni al riguardo, la lettura di Psicoterapie e prove di efficacia di Roth e Fonagy (Il pensiero scientifico, Roma) e la consultazione di riviste internazionali come Psychotherapy Research. Persino la psicoanalisi, che non ha certo mai brillato per voglia di confrontarsi con il metodo scientifico, ha cercato di mettersi al passo, come testimonia l’Open Door Review of Outcome Studies in Psychoanalysis, che si trova anche su internet. Chi voglia proporre uno strumento terapeutico oggi, senza produrre nessuna prova dei suoi effetti, o ha le idee poco chiare o non è in buona fede. A maggior ragione quando non sembra esserci neanche una particolare disponibilità di resoconti di casi clinici condotti a buon esito (che, insisto, di per sé non costituiscono una prova scientifica in senso stretto, se non soddisfacendo gli standard moderni della ricerca single case).

 

Counselling filosofico: ricezione passiva o critica?

La filosofia aiuta di più attraverso la ricezione passiva delle idee o attraverso la capacità di prendere posizione critica in prima persona rispetto ai testi?

I casi sono due: o il potenziale fruitore del counseling filosofico è in grado di capire le idee filosofiche che gli verranno comunicate o non lo è. Nel primo caso mi permetto di esprimere qualche dubbio sulla possibilità che la filosofia possa in qualsiasi modo essergli di aiuto o conforto se non ex auctoritate. Nel secondo caso mi permetto di instillare nel lettore un dubbio: non sarebbe per tale fruitore più importante seguire dei corsi che gli permettano di impadronirsi della capacità di leggere i testi in prima persona, piuttosto che ascoltare qualcuno che gli fornisca un’etica già pronta, un’ontologia già pronta?

In altre parole, attraverso il counseling filosofico, la filosofia non rischia di diventare dogma, proprio il contrario di ciò che è per natura?

L’argomento, si badi, non può essere rovesciato: il testo filosofico si offre direttamente alla lettura di tutti (al di là delle difficoltà ermeneutiche), mentre il testo psicologico comunica un sapere tecnico, indirizzato fondamentalmente al tecnico (salvo quando non si tratti di un libro di pura divulgazione): non sono più i tempi di Freud.

 

La filosofia tra le professioni d’aiuto?

Ma la filosofia deve proprio “servire” a qualcosa?

Uno dei dubbi che personalmente suscita in me la nascita del counseling filosofico è legato alla possibilità che tra le motivazioni vi sia l’ansia di dimostrare che la filosofia “serve” a qualcosa in senso stretto, cioè che il sapere filosofico possa essere immediatamente utilizzabile. Siamo veramente arrivati a questo punto? Forse che la filosofia deve cercare di confrontarsi con la ricerca scientifica (tra l’altro in modo ingenuo, perché la scienza tende quando possibile alla ricerca pura, senza implicazioni e applicazioni pratiche immediate)?

Se i filosofi devono dimostrare di servire a qualcosa, allora veramente si può temere che la filosofia sia vicino alla sua fine.

In ogni caso, che speranza avranno i counselor di inserirsi sul mercato delle professioni d’aiuto?

Il numero degli psicologi e psicoterapeuti regolarmente presenti negli Albi professionali supera la somma totale delle figure professionali simili, in tutto il resto d’Europa. Che speranza abbiano i filosofi di inserirsi in questo mercato (fatti salvi i distinguo di cui sopra) è difficile dire. Il mio personale dubbio di fondo, a questo punto, è che chi veramente potrà guadagnare qualcosa dai corsi per diventare counselor saranno piuttosto i docenti che i partecipanti, e che la motivazione per la nascita di tutto il movimento sia umana, troppo umana. A mio avviso, coloro che alimentano le speranze dei laureati in filosofia proponendo corsi per diventare counselor dovrebbero fare i conti con la loro coscienza (posto che questo termine abbia ancora un significato filosofico).

 

Acufeni: Manuale di sopravvivenza secondo la terapia cognitivo comportamentale (2012) – Recensione

La Terapia Cognitivo Comportamentale insegna ai pazienti a convivere con gli acufeni. Ritengo il libro utile ai pazienti per avvicinarsi ad un trattamento basato sulla Terapia Cognitivo Comportamentale, ma prezioso anche per lo specialista che può affinare le sue tecniche e adattarle a questo specifico disagio.

 

 

L’acufene è un suono (ronzio, fischio, fruscio o simile) anche di forte intensità, che può essere percepito in una o in entrambe le orecchie, o all’interno della testa. Spesso le cause della sua insorgenza sono sconosciute e non è necessariamente associata una perdita dell’udito.

L’acufene, come potete immaginare, è un coinquilino fastidioso, si fa notare. Organizza feste con gli amici senza autorizzazione da parte nostra, allaga il bagno quando fa la doccia, non lava i piatti, entra nella nostra camera quando vogliamo stare soli. I pazienti mi dicono spesso: “no, io non voglio averlo, non voglio abituarmi, non voglio conviverci!”. Purtroppo a noi specialisti non hanno dato una bacchetta magica durante la formazione. Sarebbe bello poter pronunciare “bidibi bodibi bù” e sentirci dire “ha funzionato! Non sento più nulla!”. Il coinquilino ha fatto le valigie e ha deciso di andarsene.

I pazienti che ho visto nella mia esperienza clinica, specialmente in fase acuta (nei primi sei mesi dall’insorgenza dell’acufene), si rivolgono a diversi specialisti, anche ripetendo gli stessi controlli (vedi ad es. l’esame audiometrico) per trovare una cura semplice, veloce ed efficace per eliminare del tutto il fastidio. E la frase che mi ripetono spesso è: “il medico mi ha detto che me lo devo tenere!”. Ovvio, loro non vogliono. Questa frase è la peggiore che potevano aspettarsi. Per questo poi cambiano specialista, perché non riescono ad arrendersi a questa idea.

Mi vengono in mente le equazioni del liceo; stai lì ore nel pomeriggio a cercare di completarne una in particolare, perdi energie e tempo e poi alla fine la soluzione che leggi sul libro è: “impossibile”. Il punto qual è? Per arrivare a quella “non-soluzione” dobbiamo comunque svolgere tutta l’equazione, rifarla se il risultato non torna, magari confrontarci con i compagni di classe, sperimentare la frustrazione mettendo a dura prova le nostre abilità matematiche. A volte questo è l’acufene. Il paziente fatica tanto per cercarne la soluzione, si rivolge a tutti i centri specializzati che conosce, si informa su internet, prova a prendere farmaci o integratori, ma alla fine non la trova, o meglio, capisce che quella frase detta in malo modo dal dottore di turno è vera. Ma più che dirsi semplicemente “me lo devo tenere”, il pensiero man mano si trasforma in “ho capito che è necessario adattarmi, voglio conviverci”. Ed è in questo momento di consapevolezza che il paziente si rivolge al terapeuta. Alcune persone fin da subito sono pronte a impegnarsi e collaborano attivamente. Altre, spesso ostacolate da specifici tratti di personalità o disturbi d’ansia o dell’umore, necessitano di un lavoro più lungo e centrato sulle problematiche psicologiche/psichiatriche annesse.

 

Acufeni: manuale di sopravvivenza secondo la terapia cognitivo comportamentale

Mentre sistemo i miei libri sullo scaffale mi capita tra le mani il manuale di auto-aiuto “Acufeni: manuale di sopravvivenza” (Springer-Verlag Italia, 2012) scritto da Henry e Wilson che cerca di dare ai pazienti una risposta al problema che sia realistica e accettabile. Il manuale è basato sulla terapia cognitivo comportamentale (TCC) che è una delle poche tecniche che rientra tra le recommendations delle linee guida dell’American Academy of Otolaryngology – Head and Neck Surgery (Tunkel et al., 2014).

La Terapia Cognitivo Comportamentale insegna ai pazienti a convivere con il suono.
Ritengo il libro utile ai pazienti per avvicinarsi ad un trattamento basato sulla Terapia Cognitivo Comportamentale, ma prezioso anche per lo specialista che può affinare le sue tecniche e adattarle a questo specifico disagio.

Il manuale offre una psicoeducazione puntuale sul disturbo e descrive nel dettaglio gli esercizi pratici da svolgere. Interessanti e utili i materiali scaricabili dal sito della Springer: un file audio per il rilassamento progressivo muscolare e i moduli di monitoraggio degli esercizi proposti.
Si parte, come di consueto nella Terapia cognitivo comportamentale, dal riconoscimento dei pensieri e delle emozioni con il modello ABC e la conseguente ristrutturazione cognitiva.

Nella pratica clinica intendiamo con l’espressione “ristrutturazione cognitiva”, la modificazione del contenuto di un pensiero. Facciamo un esempio preso direttamente dal manuale. Un paziente con acufeni può pensare “gli acufeni mi impediscono di godermi la vita”. Questo è il pensiero disfunzionale, quello costruttivo è invece “a volte gli acufeni sono fastidiosi, ma molte altre cose mi danno ancora piacere”.

La ristrutturazione cognitiva a volte può funzionare, altre no. Mi è capitato di proporre esercizi simili e sentirmi dire cose del tipo: “si certo sembra facile! Voglio vedere lei a stare tutto il giorno con questo fischio!”. In questo caso è necessario intervenire prima sull’accettazione. Il paziente, come osservavo precedentemente, non vuole intervenire per convivere con gli acufeni ma vuole la sua eliminazione (ben comprensibile). E la sua mente è impegnata costantemente alla ricerca di soluzioni definitive o a raffigurarsi un futuro catastrofico. Spesso è più il tempo che il paziente passa a pensare agli acufeni, che interferiscono con le attività quotidiane e il sonno, che il suono in sé. In questo caso la terapia metacognitiva e e la mindfulness sono sicuramente strumenti più efficaci. Nell’edizione originale del 2002 non vengono trattate ma si tratta di approcci essenziali per lavorare sul processo cognitivo (sul come penso, e non sul cosa, penso) e sull’accettazione.

Il manuale prosegue poi con la descrizione delle tecniche di rilassamento e di controllo dell’attenzione. Queste ultime sono interessanti e coinvolgono gli stimoli corporei, gli stimoli esterni e anche l’immaginazione per spostare l’attenzione su qualcosa di piacevole o neutro. Uno degli esercizi di immaginazione che trovo divertente è quello di includere il suono dell’acufene in uno scenario immaginato piacevole. Per esempio mi è stato riportato da alcuni pazienti un acufene molto simile al suono delle cicale. Nello scenario in immaginazione si potrà visualizzare un bel posto immerso nella natura, in un pomeriggio estivo, seduti in giardino su una sedia a dondolo a sorseggiare una bibita fresca, il vento leggero che sentiamo tra i capelli, la luce del tramonto e appunto il suono delle cicale.

Trovo estremamente importante l’ultima parte del libro dedicata allo stile di vita. Spesso le persone con acufene modificano completamente la loro quotidianità in base al disturbo: “oggi il fischio è lieve posso uscire con le mie amiche” oppure “il ronzio è alle stelle non vado in palestra”. E’ qui che subentra l’aspetto depressivo. I piaceri di prima vengono, a volte, eliminati e alla lunga questi limiti abbassano il tono dell’umore. Non ci si sente più come prima, non ci si sente più gli stessi, ci si sente impossibilitati a fare. Una delle tecniche utilizzate nel manuale per attivare il paziente consiste, attraverso esercizi di autovalutazione, nell’individuare degli eventi piacevoli da inserire in un programma dettagliato di attività quotidiane.

 

I limiti del manuale

Il libro offre tante e diverse alternative per agire ma con i limiti classici di un libro self-help. Innanzitutto un paziente con problematiche più impegnative, come descritto precedentemente, sarà scettico e resistente nel mettere in atto gli esercizi indicati. Per tutti i lettori non esperti ritengo la lettura impegnativa, sia per la comprensione stessa del razionale sottostante, sia per la mole di materiale proposto. Mi sembra infine superfluo ribadire l’importanza di un rapporto terapeutico, di un incontro con l’altro che modula, ci fa da specchio, ci mostra un punto di vista diverso, ci offre un confronto.

Per questi motivi ritengo essenziale l’incontro con un terapeuta: il manuale può essere un valido strumento da utilizzare nel lavoro terapeutico, ma non un sostituto. Ricordando che si lavora sempre per un unico obiettivo: il coinquilino, ahimè resta, ma nelle feste che organizza ora siamo invitati e portiamo anche un po’ di birra; per l’acqua in bagno possiamo rimediare con un tappetino; lo schema con i turni per i piatti è appeso in cucina e quando siamo in camera a rilassarci appendiamo un cartello con su scritto “DO NOT DISTURB”.

Il metodo sperimentale in psicologia generale – Introduzione alla Psicologia

L’applicazione del metodo sperimentale in psicologia generale permette l’individuazione delle relazioni esistenti tra uno stimolo fisico e la percezione sensoriale da esso derivante. Questa relazione può essere studiata e verificata in laboratorio e può essere supportata da dati numeri che rappresentano il grado e l’intensità della relazione esistente tra i fenomeni osservati.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Metodo sperimentale e psicologia

Quando si parla di metodo sperimentale si è soliti riferirsi a una prassi strutturata e estremamente controllata. Essa consiste nel formulare una serie di ipotesi, che verranno poi verificate, confermate o disconfermate empiricamente, a cui eventualmente segue la generalizzazione del risultato ottenuto. Quest’ultimo può essere postulato in una legge sul funzionamento generico di un dato fenomeno oggetto di studio.

Per acquisire conoscenze attendibili e tangibili gli psicologi applicarono, e applicano tuttora, il metodo sperimentale ai fenomeni psichici. Grazie all’applicazione del metodo sperimentale in psicologia è stato possibile osservare e registrare accuratamente un evento in tutte le sue manifestazioni sia psichiche sia comportamentali.

La psicologia generale spesso è definita anche psicologia sperimentale. Essa rappresenta la branca della psicologia in cui si applica la ricerca scientifica alle funzioni psicologiche di base. Quindi lo scopo è studiare, applicando la metodologia sperimentale la mente e il comportamento.

 

Il metodo Sperimentale in psicologia generale

L’applicazione del metodo sperimentale in psicologia generale permette l’individuazione delle relazioni esistenti tra uno stimolo fisico e la percezione sensoriale da esso derivante. Questa relazione può essere studiata e verificata in laboratorio e può essere supportata da dati numeri che rappresentano il grado e l’intensità della relazione esistente tra i fenomeni osservati.

La psicologia generale diventa sperimentale, dunque, quando si avvale del metodo sperimentale (verifiche, prove, test, simulazioni…) e della statistica (psicometria), la quale permette di quantificare la grandezza di un dato fenomeno studiato. La psicologia generale è scientifica nel momento in cui studia i fenomeni mentali in maniera strutturata e seguendo la prassi tipica del metodo scientifico.

In questo ambito, dunque, l’oggetto di studio può essere il comportamento, la percezione, le emozioni, la memoria, il linguaggio, la personalità, e molte altre funzioni e processi mentali.

Applicare il metodo sperimentale in psicologia generale significa  osservare i fenomeni psichici (percezione, intelligenza, memoria, etc) e i comportamenti, da essi derivanti, in maniera oggettiva grazie all’attuazione di rigide procedure molto strutturate, tipiche del metodo sperimentale. Le diverse caratteristiche di un fenomeno psichico saranno considerate variabili e possono essere direttamente manipolate dallo sperimentatore o semplicemente osservate nell’ambiente in cui si verificano. Queste variabili in alcune condizioni è possibile tenerle sottocontrollo per garantire una accurata registrazione di quanto si riscontra in determinate circostanze in cui il fenomeno si è presentato; in altre situazioni è possibile osservarle senza manipolarle.

 

La storia della psicologia sperimentale

La psicologia sperimentale si è costituita come disciplina autonoma intorno alla seconda metà dell’Ottocento con Wilhelm Max Wundt. Per Wundt la psicologia è la scienza dell’esperienza e il metodo della psicologia deve essere quello sperimentale, basato sull’auto-osservazione o introspezione, condotta in maniera sistematica, ovvero come una ricerca scientifica.

Quindi, secondo Wundt è possibile studiare l’esperienza attraverso un processo di conoscenza sistematico volto alla comprensione degli elementi di cui è costituita, individuandone le relazioni esistenti e ricavando da essi delle regole generali che spiegano il loro funzionamento.

Nel 1873-74 fu pubblicata la prima edizione del libro “Fondamenti di psicologia fisiologica“, che può essere considerata la prima opera sistematica della psicologia scientifica moderna e nel 1879 Wundt fondò il primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia. In questo laboratorio Wundt e i suoi collaboratori eseguivano ricerche in quattro campi di indagine diversi: la psicofisiologia dei sensi, in particolare della vista e dell’udito, i tempi di reazione, la psicofisica e l’associazione mentale.

Per Wundt osservare in maniera scientifica consisteva nel determinare quando è il momento di iniziare il procedimento sperimentale, ripetere l’operazione parecchie volte e individuare le condizioni che devono essere suscettibili a manipolazione o controllate. L’oggetto della psicologia per Wundt è lo studio dell’esperienza che fa parte della coscienza intesa come prodotto mentale. Per questo, la prassi era: analizzare i processi coscienti scomponendoli nei loro elementi costitutivi o variabili, individuare le possibili connessioni tra le variabili, e formulare leggi di combinazione tra le variabili. Da qui, nasce un intero filone di ricerca sui fenomeni psichici, tra cui ricordiamo gli studi sperimentali sulla memoria messi a punto da Ebbinghaus.

Egli realizzò numerose ricerche sulla memoria grazie alle quali riuscì a formulare la “legge di Ebbinghaus”, secondo la quale esiste un rapporto costante tra il numero di informazioni da memorizzare e il tempo di apprendimento. Inoltre, egli fondò due laboratori di psicologia ed il Giornale di fisiologia e psicologia degli organi di senso, una delle prime e più importanti riviste scientifiche di psicologia. L’approccio di Ebbinghaus alla memoria è definito associazionismo e i suoi studi a tutt’oggi risultano ancora molto utilizzati.

Un altro psicologo che ha contribuito alla nascita della psicologia sperimentale è stato Theodor Gustav Fechner. Egli riuscì a individuare le leggi che governano i rapporti tra stimolo fisico e sensazione. Fechner sostenne che ciò che determina il rapporto tra la mente e il corpo può essere individuata nella relazione, intesa in termini quantitativi, tra la sensazione mentale e lo stimolo materiale. Gli effetti dell’intensità degli stimoli non sono assoluti, bensì relativi alla quantità di sensazioni esistente in quel momento. Ad esempio, se si aggiunge il suono di un campanello a uno già esistente, si ottiene un aumento di percezione sensoriale che intensifica la percezione dello stimolo.

In psicologia generale è rilevante anche il comportamentismo, approccio concettuale che dà rilevanza a ciò che è oggettivo e misurabile a livello di comportamento osservato. Il maggiore esponente del comportamentismo è Watson, che individua nel comportamento l’oggetto dell’indagine psicologica. Il comportamento può essere osservato e misurato attraverso degli esperimenti che permettono di individuare modalità di funzionamento tramite la messa a punto di uno schema del tipo stimolo-risposta (S-R). Quindi, lo scopo era individuare le leggi che regolano la relazione tra stimolo e risposta o viceversa, rendendo in questo modo scientifico lo studio del comportamento.

Le conseguenze di tale approccio sono che l’individuo può essere manipolato e costruito dal suo esterno (comportamento), persino contro la sua dignità e il suo interesse. Watson riuscì ad applicare questo meccanismo di funzionamento anche per spiegare le emozioni e i pensieri. Egli sosteneva che i desideri, i piaceri e i sentimenti erano supplementi che accompagnano il comportamento, ma non hanno un ruolo causale. Ad esempio una persona che si volta in una direzione lo fa perché stimolata da qualcosa, a livello sensoriale, di visivo, acustico, o termico, e non perché decide di girarsi in maniera volontaria.

 

Gli esperimenti e le tecniche della psicologia generale

La psicologia generale, dunque, si focalizza notevolmente sullo studio dei processi cognitivi, e quindi rappresenta il contesto epistemico principale per gli studi di psicologia sperimentale. Per questo, si svolgono di prassi numerosi esperimenti volti a percepire il funzionamento psichico attraverso compiti sperimentali, accuratamente selezionati, in grado di individuare le caratteristiche che compongono il fenomeno studiato. Si tratta di compiti riprodotti al computer e capaci di far evincere a esempio come funziona la percezione in relazione al processamento dell’informazione in ingresso. Uno dei compiti utilizzati in questo caso specifico potrebbe essere costituito dal famoso effetto stroop che consente di selezionare o escludere l’informazione saliente attraverso la stimolazione visiva di parole colorate.

In psicologia generale si utilizzano tuttora metodiche e strumenti tipici della psicologia sperimentale, come le metodologie di derivazione comportamentista (stimolo-risposta), la misurazione dei tempi di reazione o la psicofisica comportamentale.

La psicologia generale, inoltre, è sempre più influenzata delle neuroscienze, e in questo caso la ricerca utilizza sempre più di frequente le tecniche elettrofisiologiche, ad esempio i potenziali evocati evento correlato nello studio dei processi cognitivi come il linguaggio, o le neuroimmagini. Notoriamente, queste ultime sono utilizzate in neuropsicologia, ambito in cui si utilizza molto la simulazione dei processi cognitivi attraverso compiti riprodotti al computer mentre il soggetto è, per esempio, in Risonanza magnetica funzionale per registrare l’attività che si verifica in una determinata area cerebrale.

La psicologia generale, per concludere, rappresenta un ambito di studio specifico della psicologia, ovvero quello in cui si applica il metodo scientifico allo studio dei fenomeni mentali.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La Psicoterapia Cognitiva nel cancro: guarire l’anima al di là della chemioterapia

La psicoterapia cognitiva è stata pioniera nel stabilire diverse modalità di intervento in casi di cancro, tra le più importanti troviamo la terapia psicologica adiuvante di Moorey e Greer e l’approccio per la promozione della resilienza.

Romina Edith Monteleone – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La necessità di un approccio psicosociale alla cura dei tumori

L’approccio psiconcologico nasce alla fine degli anni Settanta seguendo quella prospettiva integrata di rete che oggi ritroviamo nei Chronic Care Model. (Biondi, 1995)

La neoplasia si costituisce, infatti, come l’elemento scatenante di una crisi globale, di una modificazione dell’ambiente psicologico e dell’ambiente sociale, tale da determinare un clima paralizzante d’isolamento e da assumere un significato di minaccia alla propria esistenza, integrità, identità e ruolo. Pazienti e operatori si trovano normalmente a confronto con i grandi dilemmi dell’esistenza che il cancro e la malattia oncologica implicano:

  • vita/morte;
  • salute/malattia;
  • piacere/sofferenza;
  • giustizia/ingiustizia;
  • condivisione/solitudine;
  • reagire/subire;
  • conoscere/scegliere di ignorare.

Di conseguenza nasce nel 1982 da parte dell’European Organization for Research and Treatment for Cancer (EORTC) il riconoscimento della necessità di un’integrazione tra variabili fisiche e variabili psicosociali nel trattamento del cancro, portando l’ oncologia sempre più al di fuori degli ospedali. Secondo tale prospettiva, anche le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico (Age.Na.S. Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, 2001)

Le tematiche psiconcologiche sono infatti presenti in tutte le fasi del percorso assistenziale, dalla prevenzione alla fine della vita e le occasioni di intervento psiconcologico possono avvenire in contesto ospedaliero, territoriale o a domicilio, con il possibile coinvolgimento di tutta la rete socio-assistenziale del paziente malato di cancro nel suo complesso.

Nell’ attualità esistono oggi tre linee di indirizzo teorico:

  1. La prima indaga sulle componenti psicosomatiche del cancro, con studi sullo stress, depressione e profilo di personalità; (Pasquini M. et al., 2006)
  2. La seconda studia le varie modalità di approccio psicoterapeutico e psicometrico e di assistenza per una migliore qualità della vita; ( Milanesi E. et al, 2005)
  3. La terza, ancora in fase di sperimentazione, è l’area della formazione, atta a ricostruire, nel quadro delle istituzioni competenti, i livelli di specializzazione, sia sotto il profilo teorico-professionale che umano, che si rendono concretamente necessari.( Janz NK et al, 2004)

 

Psicoterapia cognitiva per l’intervento in oncologia

La psicoterapia cognitiva è stata pioniera nel stabilire diverse modalità di intervento. In seguito proporremo le più innovative e quelle che hanno il supporto delle ricerche scientifiche.

Tra le ricerche più rilevanti in tema di psicoterapia cognitiva e cancro, troviamo quelle di Dunkel-Schetter e colleghi (2012), e  Egeland B, Carlson E, Sroufe A (2013) i quali hanno evidenziato in donne con cancro al seno operate e sopravvissute, una correlazione positiva tra ricerca attiva di supporto sociale (resilienza) e stile cognitivo-comportamentale di evitamento. Sempre in tema di psicoterapia cognitiva e cancro, un’indagine longitudinale precedente aveva evidenziato, nei pazienti ad alto rischio, specifici deficit di coping. Tali pazienti non mostravano in generale un maggior numero di problemi rispetto agli altri, ma modalità comportamentali inadeguate di affrontarli (repressione, passività e stoica sottomissione) ed un’incapacità a produrre una serie alternativa di strategie di adattamento. I pazienti a “basso rischio” disponevano invece di uno stile di coping flessibile e differenziato, caratterizzato da modalità di confronto, capacità di ridefinizione dei problemi e maggiore capacità di complicance con gli operatori sanitari.

Psicoterapia cognitiva e cancro: la terapia psicologica adiuvante di Moorey e Greer

Una delle più recenti applicazioni della psicoterapia cognitiva per la cura del cancro è la terapia psicologica adiuvante (Adjuvant Psychological Therapy, APT), messa a punto da Greer e Moorey in Gran Bretagna al Royal Marsden Hospital di Sutton. Viene definita adiuvante proprio perché può essere somministrata in concomitanza e come completamento del trattamento medico. La terapia psicologica adiuvante è molto efficace nel trattamento dei disturbi dell’adattamento (coping) con ansia e depressione ed è indicata per la fase iniziale del cancro e per pazienti con diagnosi recente di recidiva. Nell’applicazione della psicoterapia cognitiva per la cura del cancro di Moorey e Greer, si cerca di rilevare le differenti modalità di far fronte a eventi stressanti, studiando i fattori predittivi delle strategie di coping adeguate in relazione a componenti psicopatologici di personalità.

Un ciclo di terapia consiste in 6-12 sedute a cadenza settimanale di 50 minuti ognuna. Generalmente il setting è individuale, ma può essere previsto anche un intervento sulla famiglia al fine di migliorare la comunicazione tra i membri. Per quanto concerne i trattamento famigliare i punti da tenere in considerazione si possono riassumere in:

  • Istituzione di un sistema terapeutico multidisciplinare, caratterizzato dalla collaborazione attiva fra le diverse figure professionali e dall’integrazione fra le competenze; tale sistema dovrà interagire con quello paziente-famiglia;
  • Necessità di una buona conoscenza delle variabili “critiche” chiamate in causa nella reazione emozionale della famiglia al cancro, sulla quale si costruisce un profilo di adattamento o disadattamento alla malattia;
  • Identificazione di una figura significativa del sistema familiare o extrafamiliare sulla quale agire per l’attivazione delle funzioni di supporto (caregiver).

 

Psicoterapia cognitiva per promuovere la resilienza del malato oncologico

Un’altra importante prospettiva della psicoterapia cognitiva per la presa in cura del malato oncologico è l’analisi e la promozione del costrutto di resilienza. Per la medesima si intende dunque la capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti, di condizioni di vita difficili e di traumi anche severi (Aspinwall LG, Clark A (2005).

Il termine resilienza implica due aspetti: la resistenza ad un trauma, ad un avvenimento, ad uno stress riconosciuto come serio e un’evoluzione soddisfacente, socialmente accettabile; tale termine sembra dunque riferirsi ad un processo complesso risultante dall’interazione tra la persona e il suo ambiente.

La maggior parte dei ricercatori (in Costanzo ES, Lutgendorf SK, Rothrock NE, Anderson B, 2006) sembra concordare sul fatto che la resilienza si definisce meglio in termini di processo piuttosto che di risultato. Il processo di resilienza è una prospettiva che esamina il ciclo di vita e non è mai assoluta, totale, acquisita una volta per tutte, ma varia a seconda delle circostanze, della natura del trauma, del contesto, dello stadio di vita e si può esprimere in modo differente secondo le differenti culture.

Le risposte degli individui alle malattie sono chiaramente diverse a seconda delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa; gli aspetti cognitivi ed emotivi di questa condizione, per definizione transitoria, consistono in uno stato temporaneo di turbamento e di disorganizzazione, i cui esiti possono rivelarsi radicalmente positivi o negativi.

Tra i fattori che promuovono la resilienza si possono riscontrare:

  • La percezione del controllo personale: la percezione del controllo personale fa sì che un soggetto abbia un pensiero fortemente positivo su se stesso e sulla vita. Questi soggetti, con locus of control interno, pensano di avere il controllo sugli eventi dell’esistenza, credono di essere capaci di esercitare il controllo su molte vicende che sono considerate importanti per la loro felicità e per il loro senso di benessere. Nei confronti della malattia reagiscono in termini risolutivi e in prima persona. I pazienti risultano propositivi e collaborano con l’equipe curante aumentando così la compliance con i farmaci.
  • L’inevitabilità e la desiderabilità dei cambiamenti: i soggetti che hanno un atteggiamento positivo nei confronti dell’esistenza accettano i cambiamenti che la vita impone, li affrontano e li superano e si riadattano ad essi con plasticità e controllo allo stesso tempo, siano essi cambiamenti positivi o negativi. La sfida rappresenta per loro una vittoria sicura di fronte alla malattia che si presenta. Le esperienze passate e superate diventano un bagaglio di forze cui attingere in ogni momento; il pensiero di essere riusciti a superare ostacoli nel corso della propria vita diventa automaticamente una spinta interna.
  • La relazione con l’altro: la capacità di intrattenere relazioni è una delle componenti della resilienza. Molti studi hanno dimostrato come avere relazioni positive aiuta a far fronte e a contrastare gli effetti negativi dello stress. Sentirsi sostenuti dagli altri, anche se non sempre presenti fisicamente, favorisce il benessere sia fisico che psicologico.
  • L’autoesperienza: la consapevolezza del valore della propria esperienza aiuta a superare le difficoltà che si presentano.

La resilienza dunque è un processo, una costruzione dinamica, sempre rimessa in gioco e reinterrogata in dipendenza degli avvenimenti e delle circostanze dell’esistenza.

A livello temporale è possibile individuare tre fasi che mobilitano elementi di natura diversa e sono rilevanti nell’ottica della presa in carico terapeutica.

La prima fase riguarda le conseguenze immediate e a breve termine di un trauma, quale potrebbe essere la diagnosi di cancro. In questa fase ci troviamo di fronte alla necessità di sostenere il paziente annientato dal suo vissuto emozionale assieme alla famiglie , bruscamente disorganizzate e colpite nella loro sicurezza interna.

In questo momento è molto importante mettere in atto un’azione incentrata sull’attenzione contenitiva, sostenitrice e/o restauratrice della possibilità di pensiero e rappresentazione: ciò sarà la base per la resilienza.

La seconda fase concerne le conseguenze a medio termine di un trauma. È in questa fase che possono svilupparsi o non svilupparsi i processi di resilienza. Per aiutarli, gli interventi terapeutici dovranno inquadrarsi in una comunicazione specifica nella famiglia, la funzionalità e il sistema dei valori e delle credenze.

La terza fase è focalizzata sulla capacità di cui la famiglia ha dato prova di permettere la rinascita dei suoi membri nonostante l’esperienza vissuta ( Cyrulnik B, Malaguti E 2005).

Per concludere sarà indispensabile che l’equipe curante aiuti il paziente a:

  • Formulare un obiettivo: ogni forma di comunicazione impone la formulazione dell’obiettivo da elaborare secondo determinati criteri. L’obiettivo va formulato verbalmente in maniera positiva.
  • Manageability: l’accento va posto sulle possibilità di controllo da parte del paziente o sulla sua responsabilità. Ciò in riferimento ad: a) la sua salute, stimolando l’individuo a riflettere su che cosa può e desidera fare per se stesso e che cosa vuole controllare e come, relativamente alle sue cure; b) la sua malattia, promovendo la motivazione a fare il necessario “in maniera volontaria”, favorendo la compliance.
  • Ricevere e capire le informazioni: capire dipende molto dalla disponibilità di informazioni chiare in merito a prevenzione e terapia. Esistono in letteratura diversi studi che evidenziano gli effetti positivi che una corretta comunicazione di “cattive notizie” può avere sui malati di cancro per quanto riguarda la comprensione delle informazioni, la soddisfazione per l’assistenza ricevuta e, in generale, le modalità di adattamento alla malattia.
  • Ricercare il significato: è un processo che non ha mai fine. In questo ambito il sostegno di una rete sociale è di fondamentale importanza. Si tratta di compiere un percorso di ricerca del significato, anche nella malattia, e di collocazione all’interno della storia individuale, prima solo per se stessi, poi, successivamente, da condividere con i propri cari.

La parola cancro reca con sé ancora molti significati irrazionali, che evocano una profezia di sventura e di catastrofe esistenziali. Per molto tempo, il cancro non è stato una malattia come le altre, da curare e che può essere guarita, ma una sorta di anticamera di morte, sinonimo di grande dolore e d’incommensurabile sofferenza.

Oggi la psicoterapia cognitiva ridimensiona l’immagine della morte, l’immagine d’irrecuperabilità e d’irreversibilità che rimane intrinseco nella patologia neoplastica offrendo al paziente una la possibilità di rinascita.

Può l’attività fisica aiutare contro la depressione?

L’attività fisica può essere un fattore protettivo contro il rischio di sviluppare depressione in età infantile. I bambini che vengono coinvolti in una qualche attività fisica, sia essa a livello moderato o intenso, risultano essere meno propensi allo sviluppo di depressione, secondo quanto emerso da un recente studio svolto dai ricercatori del dipartimento di psicologia dell’Università norvegese di scienza e tecnologia (NTNU).

 

La depressione in età infantile

La capacità dell’esercizio fisico di svolgere un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo di una sintomatologia depressiva è da tempo nota all’interno della comunità scientifica per quanto riguarda persone adulte e adolescenti (Josefsson et al., 2014; Pereira et al., 2013). Ad esempio, Jerstad e collaboratori (2010) hanno dimostrato come lo svolgere un’attività fisica in età adolescenziale possa diminuire il rischio di futuri inasprimenti della sintomatologia depressiva così come la loro stessa comparsa in età adulta. Inoltre, la presenza di depressione in età adulta sembrerebbe scoraggiare la possibilità che una persona, in età adulta, possa intraprendere una qualche attività fisica.

Recentemente, ulteriori studi hanno rilevato la presenza di sintomi depressivi anche in bambini in età prescolare. Nonostante questo, però, la depressione in età infantile risulta essere ancora poco studiata, sia in termini di effetti che ha sul bambino sia in termini di differenze rispetto alla sintomatologia in età successive.

Per quanto riguarda questi temi, Luby e collaboratori (2003) sostengono che i clinici, e, più in generale, le figure di riferimento, dovrebbero essere ben informati circa la molteplicità di manifestazioni che può caratterizzare il disturbo depressivo in base alle diverse età di sviluppo. Più nello specifico, per quanto riguarda l’età prescolare, sembrerebbe essere caratterizzata da un nucleo di sintomi tipici e comuni anche alle età successive, in particolar modo da tristezza e/o irritabilità, associate a sintomi vegetativi e anedonia (ad es. mancanza di piacere per attività quali il gioco), ma anche da sintomi più “velati” e tipici, come le lamentele a livello fisico, indice di somatizzazione di altro tipo di disagi. In particolar modo l’anedonia sembrerebbe essere il sintomo più specifico della depressione, utilizzabile per poter operare diagnosi differenziali con altri disturbi in questa età.

 

Il trattamento della depressione in età infantile: l’importanza dell’ attività fisica

Inoltre, l’applicazione di trattamenti e procedure preventive attualmente disponibili per i bambini con depressione risulta essere efficace solo in modo esiguo e limitato, suggerendo il bisogno di ricercare interventi alternativi o complementari che ne accrescano i benefici (Michael & Crowley, 2002).

A tal proposito, Zahl e collaboratori (2017), sulla base della letteratura presente sul tema, hanno svolto una ricerca proprio con lo scopo di indagare quanto l’attività fisica possa essere di beneficio per ridurre e prevenire i sintomi depressivi anche in bambini in età prescolare.

Capire la relazione tra attività fisica e sintomi depressivi risulta essere di estrema importanza, in quanto, se l’esercizio fisico fosse realmente in grado di sortire effetti positivi in merito alla depressione, rappresenterebbe un tipo di intervento a basso rischio e basso costo di cui potenzialmente tutta la popolazione potrebbe usufruire, apportando ulteriori benefici anche a livello della salute fisica e mentale (cfr. ad es. Warburton et al., 2006).

Per poter indagare l’esistenza di una correlazione inversa tra attività fisica e depressione, gli autori dello studio hanno selezionato un gruppo di 795 bambini norvegesi di 6 anni di età e li hanno seguiti per un totale di quattro anni, eseguendo due diverse misurazioni di follow-up, una a 8 e una a 10 anni. Per quanto riguarda le misurazioni, l’utilizzo di un accelerometro ha permesso di determinare il livello di attività fisica dei partecipanti, mentre i sintomi inerenti la depressione maggiore sono stati valutati attraverso interviste cliniche fatte sia ai partecipanti sia ai loro genitori.

Le analisi hanno evidenziato come un maggiore livello di attività fisica, sia a 6 sia a 8 anni, fosse predittivo di un minor numero di sintomi depressivi due anni dopo. Al contrario di quanto rilevato per adolescenti e adulti (Jerstad et al., 2010), invece, non è emersa alcuna prova a favore del fatto che il condurre una vita sedentaria possa portare a depressione e che quest’ultima possa predire il livello di attività fisica o di sedentarietà.

In conclusione, lo studio di Zahl e collaboratori (2017), per la prima volta, ha indagato in modo oggettivo il livello di attività fisica e di sedentarietà, correlandolo al successivo sviluppo di depressione sia nella prima infanzia sia negli anni successivi. Ciò che è emerso è che, in linea con quanto già rilevato per soggetti di età maggiore, lo svolgere una qualche attività fisica fin da piccoli porti a minore sintomatologia depressiva negli anni successivi. Viceversa, la presenza di sintomi depressivi non porterebbe necessariamente a minori livelli di attività nel corso del tempo.

Per quanto l’effetto predittivo rilevato fosse, a livello quantitativo, di piccole dimensioni, i risultati confermano l’effettiva possibilità che l’attività fisica possa essere utilizzata anche nei bambini per prevenire, oltre che curare, la depressione, se non altro a livello subclinico. In ultima analisi, i bambini sembrerebbero avere un realmente bisogno di svolgere attività fisica, intesa come qualsiasi attività che li faccia un po’ sudare e li lasci senza fiato, per poter preservare e sfruttare al meglio la propria salute mentale.

Il mito della vita sessuale appagante – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Sandra: “Sono lesbica, non mi piace la penetrazione e il sesso orale non mi fa impazzire, ma non ho alcun problema nel raggiungere l’orgasmo. Anche quando parlo con le mie amiche mi accorgo di avere una vita sessuale appagante, però mi chiedo se sto sbagliando qualcosa”

 

ἡδονή (edonè) è il piacere per gli antichi greci. Non una parola come un’altra, poiché per la mitologia greca Edonè è la dea figlia di Eros e Psiche, unione quindi tra l’amore totalizzante che tutto stravolge e l’anima, intesa qui come parte più razionale che fornisce all’individuo esperienza di sé e del mondo.

 

Cara Sandra,

questa breve premessa è il mio modo per dirle che il piacere che si prova durante un rapporto sessuale è estremamente soggettivo ed è frutto di un qualcosa che va oltre alla semplice e biologica, per quanto importante, soddisfazione sessuale. Non c’è un modo giusto e univoco per raggiungere il piacere. E il sentirsi appagata dal suo personale modo di vivere la sessualità mi sembra una grande dimostrazione di consapevolezza di sé e del proprio benessere.

Valentina Orlandi

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’organizzazione delle attività ludoterapiche nei reparti pediatrici: l’esempio di una sessione ludoterapica nel reparto di Oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma

Le attività ludoterapiche (altrimenti dette terapia del gioco o play therapy) presso i reparti pediatrici sono una risorsa importante per contribuire alla cura del bambino malato e per aumentare le sue capacità di resilienza.

Alessia Pizzimenti

 

Le attività ludoterapiche: il ruolo del gioco nei reparti pediatrici

Dal 1989, anno in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite a New York stilò la Convenzione sui diritti del Fanciullo, è ormai assodato come diritto fondamentale dei bambini il diritto al gioco (art. 31). Tale diritto, in quanto imprescindibile, deve essere riconosciuto anche nelle strutture ospedaliere.

A livello europeo nel 1988 è con la “Carta di Leiden” dell’European Association for Children in Hospital (EACH) il gioco e lo studio vengono annoverati tra i diritti fondamentali dei bambini che vivono l’esperienza dell’ospedalizzazione. In Italia è il decreto legislativo n. 502 del 1992 che ha dato una spinta alla concreta elaborazione e diffusione della Carta dei Diritti del Bambino in Ospedale sul territorio nazionale. Nella versione del 2007 possiamo leggere:

I bambini e gli adolescenti devono avere quotidianamente possibilità di gioco, ricreazione e studio –  adatte alla loro età, sesso, cultura e condizioni di salute – in ambiente adeguatamente strutturato ed arredato e devono essere assistiti da personale specificatamente formato per accoglierli e prendersi cura di loro (Abio, SIP, 2007- art. 7).

Come si nota da questo breve excursus i legislatori hanno ben compreso l’importanza del gioco per la crescita dei bambini e se “il gioco, basato sull’intenzione di divertirsi e sullo sviluppo psicosociale, fornisce nuove sensazioni, crea e ricrea situazioni di vita giornaliere ed aiuta i bambini a scoprire il mondo” (Francioso, 2016) un’attenzione particolare deve essere posta all’organizzazione del tempo del gioco nei reparti pediatrici.

E’ infatti raccomandato che nell’organizzazione dei reparti ospedalieri dedicati ai bambini e agli adolescenti si debba prevedere uno spazio dedicato al gioco dove non vengano effettuati atti medici e/o infermieristici. Inoltre, così come per quanto riguarda i docenti in ospedale (capitolo molto interessante dell’umanizzazione delle cure ospedaliere ma che qui non tratteremo), è evidenziata l’importanza della presenza di personale debitamente formato sulle specificità del contesto ospedaliero e delle patologie. Chi si occupa di attività ludoterapiche, ovvero i ludoterapisti, operano in un reparto ospedaliero con il compito specifico di organizzare e scegliere le attività di gioco.

 

Le attività ludoterapiche in ematoncologia pediatrica

In questo scritto vogliamo puntare l’attenzione sulle attività ludoterapiche in un contesto ospedaliero specifico: l’ematoncologia pediatrica. Se ogni diagnosi di patologia in età pediatrica (anche la semplice influenza stagionale) crea una riorganizzazione dei ritmi di tutta la famiglia, la possibilità e poi la certezza di una diagnosi di cancro crea, comunque, una destabilizzazione emotiva per tutto il nucleo familiare.

Nel momento in cui la diagnosi irrompe in una famiglia, una serie di meccanismi di difesa viene messa in atto nel tentativo di “controllare” l’evoluzione della propria storia, bloccando il ciclo vitale alla fase immediatamente precedente l’insorgenza della malattia. Il tentativo, illusorio, è quello di evitare di andare verso un futuro che comporta una minaccia di morte (Paglia, 2007).

In questo contesto il gioco può diventare il contenitore espressivo delle emozioni collegate all’ospedalizzazione e alla malattia. Emozioni che possono prendere tutte le direzioni: positive e negative. Per questo parte importante della formazione dei ludoterapisti, iniziale e continua, è incentrata sulla cura della relazione e dell’incontro con l’“altro”.

Uno degli obiettivi delle attività ludoterapiche è la sintonizzazione con le emozioni dei bambini e degli adolescenti al fine di aiutarli ad elaborare i vissuti legati all’ospedalizzazione e alla malattia. Per dirlo con le parole di Zaratti i ludoterapisti

Sono persone con competenze svariate e diversificate: attori, musicisti, fumettisti, psicologi e sociologi ma […] la caratteristica che «li accomuna» ossia la sensibilità, intesa come profondità del sentire, sensibilità per cui le “cose non sono solo come appaiano (Zaratti, 2012).

Giocare e mettersi in gioco in ogni situazione purché ci siano le condizioni emotive di disponibilità e reciprocità relazionale (Bateson, 1996) è uno degli assunti di base della ludoterapia in ospedale. Per questo il modo migliore per far comprendere gli aspetti teorici delle varie attività ludoterapiche è raccontare una giornata di gioco.

 

La preparazione della Sessione di Ludoterapia

Si è nel periodo prenatalizio del 2016. Presso il reparto di Oncologia pediatrica l’associazione Sale in Zucca Onlus offre due pomeriggi a settimana di ludoterapia. Il giorno precedente all’intervento le due ludoterapiste si contattano per ragionare e riflettere sulle possibilità di gioco da proporre. Decidono di fare come attività ludoterapiche dei lavoretti manuali a tema natalizio, ma cercando qualcosa che stimoli il gioco competitivo.

Le precedenti attività ludoterapiche proposte consistevano in molti “lavoretti” di decorazione ma, pur rimanendo nel tema, si sentiva la necessità di modificare il target emotivo e rintracciare emozioni legate all’aggressività. Dopo molte idee si decide per la costruzione del calcio balilla usando come giocatori Elfi e Renne. In questa maniera il tema natalizio entrerà comunque in ospedale. E’ importante quando si organizzano le attività ludoterapiche che queste siano sintonizzate con il tempo fuori dal reparto. Nei reparti ospedalieri il tempo è scadenzato dalle indicazioni infermieristiche e mediche, la temperatura delle stanze è pressoché la stessa in tutte le stagioni, la luce preponderante è quella artificiale. In tutto questo mondo ovattato, ancor di più per le lungo degenze, le attività ludoterapiche a tema, tra cui la decorazione della sala giochi e delle stanze di degenza, riportano il tempo della vita. Tempo fatto di variazioni termiche, olfattive, visive ed emotive.

Così, se è vero che a Natale si è tutti più buoni, la bontà non implica la cancellazione delle emozioni negative. Le emozioni cosiddette negative (rabbia, invidia etc.) possono essere giocate in maniera sana attraverso la competizione sportiva. Portare la competizione sportiva in un reparto di oncologia pediatrica è arduo, ma non impossibile.

In questa cornice si inserisce l’idea della costruzione del calcio balilla fatto di Elfi contro Renne.

L organizzazione delle attivita ludoterapiche nei reparti pediatrici l esempio di una sessione ludoterapica nel reparto di Oncologia pediatrica del policlinico Gemelli di Roma - Elfi renne

Il calcio balilla Elfi contro Renne realizzato dai bambini del Reparto 

 

L’entrata nel reparto: la presentazione delle attività ludoterapiche

Per entrare in reparto e portare da subito l’aria di novità collegata alla preparazione del gioco, oltre al camice colorato le ludoterapiste indossano un cappello da Elfo e delle corna da Renna: una diviene il capitano della squadra delle Renne e l’altra degli Elfi.

Anche i collaboratori e il personale infermieristico vengono incuriositi e la consueta valutazione delle condizioni cliniche dei bambini diviene un momento divertente: chi farà parte di quale squadra? Il personale medico, infermieristico e i collaboratori del reparto sono una sorta di beneficiari secondari dell’azione del ludoterapista. Fare turni di otto ore al giorno in un reparto ospedaliero, a maggior ragione dentro l’oncologia pediatrica, espone a fonti di stress psichico ed emotivo importanti. Queste categorie di lavoratori sono esposti al rischio di burnout (Tetzlaff, 2016). Portare dall’esterno un po’ di freschezza e di novità può aiutare gli operatori sanitari a diversificare la routine e quindi contribuire alla prevenzione del burnout (Italia et al, 2008).

In questa giornata di intervento le ludoterapiste trovano una situazione clinica dei bambini costellata di tante necessità. Secondo le indicazioni delle infermiere cinque bambini potranno uscire dalla stanza. Due più grandi sono in isolamento completo, una bambina è appena entrata, trasferita dal reparto di neurochirurgia infantile.

Come indicazione di principio delle attività ludoterapiche nei reparti ospedalieri il lavoro in gruppo è sempre preferibile (Pizzimenti, Paglia, 2016). I bambini e i ragazzi tendono a stare nelle loro stanze, trascorrendo il tempo con TV, videogiochi, cellulari, tablet. Uscire dalla stanza e giocare insieme ad altri bambini permette di rintracciare la loro normalità dell’essere un bambino. E’ compito di noi ludoterapisti organizzare dei giochi che siano fruibili e gestibili dai bambini anche in presenza di impacci dovuti alle necessarie flebo, derivazioni etc.

 

La proposta ludica

Avute le indicazioni cliniche, compito del ludoterapista è valutare le disponibilità emotive al gioco dei bambini. Con questo spirito si inizia il giro delle stanze. La bambina di cinque anni è già pronta a seguirci in sala giochi, curiosa di valutare qualsiasi proposta di gioco. E’ da diverso tempo in cura presso il reparto e conosce molto bene l’associazione; nonostante la sua provenienza da un paese dell’est Europa la comprensione reciproca è ormai molto buona: fatta di sorrisi, gesti e qualche parolina.

Una ludoterapista inizia ad andare con lei in sala giochi, mentre l’altra prosegue il giro delle stanze. L’altro amico “storico” dell’associazione (un bimbo di quattro anni rumeno) è sul letto con una busta piena di supereroi. Era appena arrivato un Babbo Natale anticipato. Le ludoterapiste decidono di non disturbare il suo momento di gioco, sono presenti degli amici di famiglia. Passerà il pomeriggio in piacevole compagnia. La sua compagna di stanza è invece molto stanca e vuole solo riposare. In questa stanza si ha l’esempio concreto di due tipologie di rifiuto della proposta di gioco.

Il rifiuto della relazione è sempre un momento difficile da gestire per il ludoterapista. Quanto tempo dedicare al convincimento? Quanto insistere? In queste due situazioni la scelta è stata di accoglienza dell’autenticità del momento e di rispetto da un canto della gioia familiare, dall’altro della visibile stanchezza (Zaratti, 2012).

I bambini in ospedale si trovano molto spesso a non poter esercitare il loro diritto al rifiuto anche di pratiche dolorose o comunque fastidiose. Le proposte di gioco possono essere rifiutate! Paradossalmente questo è il modo per ridare gradi di libertà ai bambini; avendo una continuità di attività ludoterapiche in reparto e dovendo, purtroppo per loro, stare a volte dei mesi ricoverati, ci potrà essere un’altra occasione per giocare insieme.

Nelle stanze successive la situazione è diversa. Il bambino (due anni, italiano) verrà in sala giochi con la mamma al termine dell’infusione del farmaco. La bambina (quattro anni, ucraina) si è da subito intimidita e nascosta dietro al suo tablet. La comprensione linguistica è molto difficoltosa e anche la mamma parla solo la sua lingua d’origine. Non vuole uscire dalla stanza. Ma la sensazione netta della ludoterapista è di una bambina molto intimidita ma con tanta voglia di giocare.

 

La costruzione del gioco e l’improvvisazione

Si rientra in sala giochi con l’unica bimba al momento disponibile. A questo punto il nostro obiettivo diviene la costruzione del gioco spacchettando le varie parti per permettere ai bambini di partecipare al divertimento, assemblarlo in sala giochi e lasciarlo lì per future competizioni. La sala giochi sarà il punto cruciale dove si creerà la struttura del calcio balilla e si assembleranno le varie parti. Una delle capacità fondamentali di un buon ludoterapista è l’improvvisazione in base alle condizioni mediche ed emotive dei bambini che trova in reparto. La coppia dei ludoterapisti si divide: la ludoterapista junior coordina i lavori in sala giochi per costruire e colorare la base del calcio balilla. La ludoterapista senior porta il gioco nelle stanze disegnando e costruendo i vari personaggi.

Con la bambina ucraina la comunicazione è soprattutto gestuale. Grazie all’incoraggiamento della mamma segue il lavoro proposto: colorare gli Elfi. La ludoterapista disegna a specchio, colorando un Elfo davanti alla bambina, per superare la barriera linguistica grazie all’esempio concreto. Piano piano la piccola si scioglie e regala una serie di sorrisi e risate. Finiti tutti gli Elfi la ludoterapista torna in sala giochi per preparare la costruzione delle Renne.

Ci si dedica alla bambina appena arrivata in reparto, cogliendo la preoccupazione delle infermiere per una situazione familiare di difficile comprensione. Nella stanza singola la ludoterapista trova una ragazzina di undici anni, italiana ma di un’altra regione, accompagnata dalla nonna e dalla mamma. Sta a letto, con flebo e i capelli raccolti da una garza: segno evidente del passaggio dalla neurochirugia infantile. La nonna da subito dice che la bambina ha difficoltà visive importanti dovute all’intervento appena subito. Ecco che le doti di improvvisazione del ludoterapista devono nuovamente entrare in gioco.

Prima di tutto la sintonizzazione emotiva sul desiderio della bambina. Vuole giocare ed è molto interessata al disegno. La ludoterapista organizza una postazione sul letto adattando il tavolino alle possibilità di movimento della piccola paziente e si inizia. La ludoterapista avvolge la mano della bambina con la sua e insieme disegnano e colorano. La scelta del colore è sempre della bambina e c’è una continua richiesta della ludoterapista alla bambina di valutazione del risultato finale. L’obiettivo in questo caso è far percepire alla piccola paziente la sua competenza nel disegno, ridarle gradi di autonomia per lo meno decisionale e ridare ai familiari l’immagine di una ragazzina propositiva.

Il messaggio che si vuole trasmettere con l’esempio dell’attività è che anche se l’intervento chirurgico ha, al momento, diminuito alcune capacità e funzioni, con il giusto aiuto si possono raggiungere dei risultati e divertirsi. Vista l’impossibilità della bambina di fare movimenti fini delle mani, la ludoterapista userà le forbici per ritagliare i personaggi, questo tempo sarà dedicato alla chiacchiera sulla sua passione per il disegno. Quasi in sincrono gli infermieri entrano nella stanza per montare il monitoraggio con il saturimetro al dito. Subito la bimba chiede se devono fare altre punture, prontamente il personale infermieristico risponde di no.

La ludoterapista, mentre ritaglia le Renne, diventa mediatore emotivo della richiesta della bambina, mostrando curiosità per l’apparato elettromedicale e chiedendo spiegazioni agli infermieri sul suo funzionamento: come rileva la quantità di ossigeno nel sangue? Avendo la bambina undici anni potrebbe anche lei essere incuriosita e conoscendo maggiormente le macchine averne meno paura. Nel momento dell’ attività ludoterapica dedicato ad incollare i personaggi sul cartoncino la ludoterapista aiuta la bambina a mobilizzare ambedue le braccia facendo una piccola forma di riabilitazione. La bambina pigia sul cartoncino con tutta la forza che ha, con evidente soddisfazione. Ora che il lavoro è concluso la ludoterapista si congeda per andare ad assemblare il tutto.

Durante queste attività ludoterapiche, in sala giochi il clima è leggermente confusionario, come in una qualsiasi ludoteca che ospita bambini piccoli. L’obiettivo di dare normalità attraverso il gioco è raggiunto! Ci sono il bimbo di due anni con la mamma e la bimba di cinque. C’è la musica di Natale di sottofondo, i bambini che stanno finendo di dipingere la base del calcio balilla e la ludoterapista che cerca soluzioni creative per fare i supporti ai personaggi.

Alla fine con pazienza e determinazione il calcio balilla Elfi contro Renne è terminato. Per creare comunque lo spirito di un lavoro di gruppo, anche se effettuato in parte nelle stanze, si fa il giro del reparto con il risultato finale. Si presenta il gioco a tutti i bambini, dando soddisfazione del loro operato a coloro che hanno contribuito. Tutti i bambini sapranno dove trovare il nuovo gioco per sfidarsi quando vorranno.

 

Conclusione: l’importanza del gioco nel rispetto delle emozioni

Winnicott (1971) scrive

E’ nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé. […] Sulla base del gioco viene costruita l’intera esistenza dell’uomo come esperienza.

Per i bambini e le famiglie che devono affrontare la diagnosi e la cura di una patologia oncologica il gioco può divenire uno dei mezzi affinché questo evento di vita possa divenire esperienza. Nei reparti ematoncologici, incontrare ludoterapisti formati può fare la differenza perché permette ai bambini di giocare tutta la gamma delle emozioni presenti nel qui ed ora delle sessioni delle attività ludoterapiche.

Come si è voluto far emergere dal racconto della giornata di intervento, le variabili che i ludoterapisti devono prendere in considerazione nell’organizzazione della sessione ludica sono molteplici: mediche, infermieristiche, situazionali, emotive etc. Il punto fermo che orienta le attività ludoterapiche è la volontà di incontrare nel gioco i bambini presenti in reparto rispettando il loro mondo emotivo.

Rintracciare la normalità di un pomeriggio di gioco con i bambini avendo anche solo per pochi istanti la sensazione di trovarsi in una ludoteca qualsiasi e non in un reparto ospedaliero dà ai bambini e a tutti i presenti una “ricarica emotiva” che servirà a gestire i momenti più stressanti della degenza.

Abbiamo visto come uno dei nodi fondamentali per i ludoterapisti, dove la formazione e il contenimento emotivo sono di fondamentale importanza, è la gestione del rifiuto al gioco. Essere un ludoterapista formato e competente significa riuscire a discernere il rifiuto che va rispettato da una timidezza che va incoraggiata. E’ viaggiare sul filo del funambolo avendo come barra di equilibrio la formazione e la supervisione clinica e come rete di sostegno il compagno ludoterapista e tutto il gruppo dei colleghi. Per usare una metafora di Bateson: “Una mano non è cinque dita ma quattro relazioni” (Bateson, 1997).

Un altro elemento importante durante il gioco è la funzione di mediatore emotivo che il gioco assume e che il ludoterapista deve essere in grado di governare. Come un bravo timoniere non cerca la burrasca, ma se la incontra accompagna la barca sulle onde attraversandola o se è troppo impetuosa cambiando rotta. Fuor di metafora le emozioni che possono innescarsi durante il gioco non vanno soffocate, qualunque esse siano, ma attraverso il gioco possono essere esperite. Il raccordo con il servizio psicologico di riferimento del reparto è fondamentale per il piccolo degente per continuare l’elaborazione con altri mezzi e per il ludoterapista per avere un feedback sul suo lavoro.

Da quanto descritto ci sembra evidente come i legislatori in questo caso hanno realmente colto nel segno. Quando le varie edizioni delle Carte dei diritti dei bambini e degli adolescenti in ospedale vengono realmente applicate, la realtà di un reparto che cura i tumori in età pediatrica e le condizioni della degenza divengono più leggere e sopportabili.

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