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L’ approccio cognitivo-comportamentale tra i banchi di scuola: l’ Educazione Razionale Emotiva nel contesto scolastico

Uno dei primi approcci preventivi, che è stato poi ampiamente applicato all’interno del contesto scolastico, è quello dell’ Educazione Razionale Emotiva, essa è una strategia preventiva che mira a favorire il benessere emotivo del bambino e dell’adolescente.

Maddalena Malanchini – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Contesto scolastico e sviluppo della persona

La scuola rappresenta per il bambino un “luogo di vita” in quanto contribuisce fortemente alla crescita e sviluppo della persona. Non si limita a dare un’istruzione, ma consente anche di comunicare e di costruire insieme, condividendo un percorso di vita (Oliverio, 2000).

Gli anni della scolarizzazione costituiscono un importante momento per lo sviluppo delle competenze sociali. Attraverso le relazioni con i coetanei, i bambini e gli adolescenti hanno l’opportunità di acquisire molte abilità, che possono essere apprese soltanto all’interno di questa specifica tipologia di rapporto: la capacità di leggere gli stati emotivi, le intenzioni e le motivazioni degli altri, le modalità di interazione, il rispetto e le regole della convivenza sociale (Schaffer, 1998).

Il contesto scolastico ha come compito principale quello di favorire l’adattamento degli alunni, e per fare questo deve aiutarli a rispondere sia alle sfide connesse all’apprendimento, sia a quelle legate alla gestione del proprio comportamento e alla costruzione delle relazioni con i pari, promuovendo lo sviluppo di abilità di tipo emotivo e sociale (Marini & Menesini, 2012).

 

I programmi di promozione della salute mentale nel contesto scolastico

Pertanto il contesto scolastico viene sempre più visto come un valido punto d’accesso per proporre interventi precoci e progetti di prevenzione per i ragazzi (Mifsud & Rapee, 2005). Infatti la presenza di programmi di promozione della salute mentale appositamente sviluppati per l’ambito scolastico determina un aumento delle opportunità di prevenzione e delle possibilità di accesso sia alle cure di base sia a servizi specialistici per i bambini che presentano difficoltà psicopatologiche. Inoltre tali programmi contribuiscono a ridurre il bisogno di interventi psichiatrici in fase acuta e smorzano lo stigma associato al trattamento (Armbruster, 2002).

Soprattutto in Paesi come gli Stati Uniti o l’Australia, la scuola è stata utilizzata come contesto preferenziale per intervenire con bambini e adolescenti a vari livelli: dalla promozione della salute, alla prevenzione primaria, fino alla presenza più recente dei servizi di salute mentale all’interno delle scuole; le diverse tipologie di programmi hanno condotto ad esiti positivi (Mifsud & Rapee, 2005).

Tuttavia ci sono alcune difficoltà riguardo all’implementazione dei programmi per il benessere psicologico all’interno del contesto scolastico, prima di tutto la fatica a collaborare tra personale scolastico e personale sanitario (Waxman et al. 1999) e la scarsa valutazione dell’efficacia degli interventi (Rones & Hoagwood, 2000; Evans, 1999).

Per questo motivo è importante che gli interventi proposti nelle scuole siano prima di tutto interventi dei quali è stata testata l’efficacia e che contengano all’interno degli stessi una parte dedicata alla valutazione degli esiti, al fine di proporre interventi sempre più ad hoc.

 

L’ Educazione Razionale Emotiva tra le materie scolastiche

Uno dei primi approcci preventivi, che è stato poi ampiamente applicato all’interno del contesto scolastico, è quello dell’ Educazione Razionale Emotiva (ERE). La prima sperimentazione avvenne negli anni ‘70 presso la scuola privata “The Living School”, che era presente all’interno dell’Istitute for Rational Emotive Therapy di New York di Albert Ellis, dove l’ Educazione Razionale Emotiva era considerata una normale materia curriculare al pari delle altre. Questa esperienza durò circa un decennio, dopodiché si decise di promuovere l’applicazione dell’ Educazione Razionale Emotiva anche in altre scuole dello Stato di New York e degli stati limitrofi. Negli anni ‘80 Mario Di Pietro e collaboratori hanno iniziato ad adattare l’ Educazione Razionale Emotiva al contesto scolastico italiano (Di Pietro & Dacomo, 2007).

L’ Educazione Razionale Emotiva è una strategia preventiva che mira a favorire il benessere emotivo del bambino e dell’adolescente; può essere intesa sia come prevenzione primaria che secondaria, in quanto interviene prima che si manifestino forme di disagio oppure sulle iniziali manifestazioni di malessere. E’ un percorso didattico derivato dalla Terapia Razionale-Emotiva, che si concretizza in un lavoro di “Alfabetizzazione Emozionale”, allo scopo di insegnare l’ “ABC” delle emozioni a bambini e ragazzi e in particolare il collegamento tra pensieri e emozioni, per favorire reazioni emotive equilibrate e funzionali (AA VV, 2013).

Una peculiarità dell’ Educazione Razionale Emotiva rispetto ad altri programmi che lavorano sulla dimensione emotiva, è l’accento posto sull’apprendimento di abilità metacognitive: mira a sviluppare la capacità di comprendere i meccanismi cognitivi che sono alla base dell’emozione, in modo da poter agire su di essi e quindi operare una trasformazione delle reazioni emotive spiacevoli e disfunzionali (Di Pietro & Dacomo, 2007).

 

Obiettivi ed efficacia della Educazione Razionale Emotiva nel contesto scolastico

Nel dettaglio, gli obiettivi con i bambini della scuola primaria comprendono: il riconoscimento corretto delle emozioni, l’espansione del vocabolario emotivo, la distinzione tra emozioni utili e dannose, la differenza tra pensieri e stati emotivi, l’individuazione del proprio “dialogo interno” in situazioni emotivamente connotate, il legame tra pensieri ed emozioni e l’apprendimento di un repertorio di pensieri utili. Con i ragazzi della scuola secondaria, oltre a questi obiettivi di base, si mira anche a sviluppare una maggiore competenza metacognitiva: riconoscere le principali categorie di pensieri dannosi (pretese assolute, valutazioni catastrofiche, bassa tolleranza alla frustrazione, valutazioni globali di sé o degli altri), le caratteristiche che rendono un pensiero dannoso e imparare a trasformare tali pensieri (Di Pietro & Dacomo, 2007; AA VV, 2013).

Essendo ormai applicata da qualche decennio, sono stati svolti studi relativi all’efficacia dell’ Educazione Razionale Emotiva, che dimostrano come sia maggiormente adatta per prevenire ed agire sulle problematiche di tipo internalizzato, quali ansia, paura, tristezza, fragilità dell’autostima, rispetto ai disturbi esternalizzanti (Di Pietro & Dacomo, 2007).

In particolare, una review di 21 studi sull’efficacia dell’ Educazione Razionale Emotiva applicata in vari contesti ha sottolineato come nell’88% delle ricerche si notava una diminuzione dei punteggi relativi all’irrazionalità, nell’80% degli studi risultava diminuire l’ansia e nel 71% emergeva un aumento dei punteggi della dimensione “locus of control interno”. Inoltre nel 50% degli studi risultava che l’ Educazione Razionale Emotiva era efficace sulla dimensione dell’autostima e sui problemi comportamentali (Hajzler & Bernard, 1991). Recenti studi sottolineano come l’ Educazione Razionale Emotiva possa essere applicata anche per la prevenzione di nuove forme di malessere tra gli adolescenti, come il Gioco d’Azzardo Patologico, purché debitamente riadattata e abbinata alla divulgazione di informazioni specifiche sulla patologia (Todirita & Lupo, 2013).

 

Programmi per la gestione dell’ansia nel contesto scolastico

Di recente è cresciuto l’interesse per l’applicazione di programmi specifici per la gestione dell’ansia all’interno del contesto scolastico, sia in termini di prevenzione che di intervento precoce su situazioni a rischio (Misfud & Rapee, 2005).

Uno studio che ha valutato l’efficacia di un programma di prevenzione primaria per i disturbi d’ansia in infanzia è quello condotto da Lowry-Webster e collaboratori, che ha coinvolto in prima persona gli insegnanti, i quali hanno svolto il programma all’interno delle ore curricolari. I risultati sono stati incoraggianti, seppur limitati: i sintomi ansiosi mostravano un decremento significativo secondo una delle due scale di rilevazione utilizzate (Spence Children’s Anxiety Scale), ma non secondo l’altra (Revised Manifest Anxiety Scale) (Lowry-Webster et al., 2001).

Per quanto riguarda gli interventi precoci con gli alunni a rischio di sviluppare un disturbo d’ansia, è stato svolto uno studio controllato su ben 1.786 studenti dai 7 ai 14 anni, selezionati in quanto avevano ottenuto alti punteggi per sintomatologia ansiosa ma non per comportamenti dirompenti o difficoltà di apprendimento, in base al giudizio dei loro docenti. Il trattamento è stato erogato a scuola e consisteva in 10 sessioni per ciascun ragazzo e 3 incontri individuali per i genitor (Dadds et al., 1997). Al re-test non era emersa alcuna differenza significativa tra il gruppo sperimentale che aveva ricevuto il trattamento e il gruppo di controllo; tuttavia, il follow-up a sei mesi ha rilevato che il 16% del gruppo trattato presentava un disturbo d’ansia contro il 54% del gruppo di controllo. Stranamente le differenze si sono appianate al follow-up di dodici mesi, ma sono poi riemerse al follow up di due anni (Dadds et al., 1999).

Una ricerca successiva di Misfud e Rapee ha tentato di applicare il modello di intervento del “Cool Kids Program” per la riduzione dei sintomi ansiosi all’interno del contesto scolastico (Misfud & Rapee, 2005). Il Cool Kids Program è un modello cognitivo-comportamentale che deriva da precedenti programmi per il trattamento dei disturbi d’ansia e prevede una serie di attività da svolgere con il bambino (10 sessioni, comprendenti 37 attività) e con i genitori (altrettanti 10 moduli). Il programma comprende una fase di psicoeducazione sulla natura dell’ansia, una fase di ristrutturazione cognitiva per combattere i pensieri ansiosi, un’esposizione graduale agli stimoli che elicitano nel soggetto risposte ansiose e lo sviluppo di abilità complementari quali abilità sociali, assertività, gestione delle prepotenze subite (Lyneham et al., 2014).

La ricerca è stata svolta su una popolazione di 425 bambini tra gli 8 e gli 11 anni a rischio di sviluppare un disturbo d’ansia e appartenenti a una condizione socio-economica svantaggiosa; il campione è stato suddiviso tra gruppo sperimentale e gruppo di controllo (questi ultimi assegnati a una lista di attesa). I bambini sottoposti al Cool Kids Program hanno partecipato a 8 sessioni in piccoli gruppi, condotte dagli psicologi e dai docenti insieme; i genitori in parallelo hanno partecipato a due incontri formativi. I risultati hanno dimostrato che i bambini assegnati alla condizione sperimentale hanno riportato una riduzione significativa nei sintomi ansiosi, rispetto a coloro assegnati alla lista d’attesa; tali differenze si sono mantenute a distanza di quattro mesi, sia secondo i punteggi dei questionari somministrati ai ragazzi che dei questionari compilati dai docenti (Misfud & Rapee, 2005).

Per quanto riguarda i Disturbi Esternalizzanti, caratterizzati da aggressività, problemi nella concentrazione, impulsività e iperattività, sono stati messi a punto programmi di prevenzione e di intervento specifici. E’ facile capire infatti come bambini con alti livelli di aggressività espressa e di problemi di condotta creino maggiori difficoltà di gestione nel contesto scolastico, possano impattare sull’ambiente di apprendimento dei propri compagni e sui loro stessi risultati accademici (Kupersmidt et al.,2000). Inoltre i comportamenti aggressivi e dirompenti (ad esempio un atteggiamento di sfida nei confronti dell’autorità, mentire, imbrogliare) possono compromettere seriamente il benessere emotivo e relazionale degli alunni e turbare il clima della classe (Barth et al., 2004).

Ci sono evidenze che insegnanti supportivi, che impiegano di frequente i rinforzi positivi (come la lode), strategie di insegnamento proattive e che evitano una disciplina rigida, possano giocare un ruolo estremamente importante nel promuovere lo sviluppo di abilità emotive e sociali e nel prevenire l’insorgenza di problemi comportamentali nei bambini (Burchinal et al., 2000).

Gli interventi di prevenzione nel contesto scolastico, il cui scopo è diminuire la prevalenza di comportamenti antisociali nei giovani, sono stati quotati come un modalità di intervento efficace e che minimizza i costi (Jenson, 2006; Powell et al, 2011). Le ricerche condotte a cavallo tra la fine degli anni ‘90 e l’inizio del XXI secolo hanno dimostrato che l’applicazione di strategie cognitive in classe può diminuire la presenza di comportamenti dirompenti e aggressivi e rinforzare le competenze sociali e i comportamenti prosociali (Daunic et al., 2006; Mytton et al., 2006).

Infatti molti programmi preventivi utilizzano un modello di intervento cognitivo-comportamentale che si focalizza sulla modificazione dei processi socio-cognitivi distorti o deficitari dei bambini: in particolare, le distorsioni nel ricordo e nella percezione dei comportamenti degli altri, l’eccessiva rilevanza assegnata alle soluzioni non verbali dirette all’azione, la scarsa rilevanza data alle soluzioni verbali assertive durante la risoluzione di un problema. Tali programmi hanno come obiettivo anche il potenziamento delle competenze sociali ed emotive degli alunni, per migliorare le loro competenze relazionali e di auto-regolazione (Eyberg e al., 2008).

 

I protocolli clinici riadattati per il contesto scolastico

Al fine di metter in atto programmi sempre più efficaci, alcuni psicologi clinici e ricercatori hanno cercato di riadattare al contesto scolastico interventi inizialmente sviluppati e attuati in contesti clinici, inizialmente come programmi di trattamento precoce per gli studenti a rischio, ma poi sempre più come programmi di prevenzione universale per tutta la classe (Misfud & Rapee, 2005).

Un esempio è il programma “The Incredible Years Program” di Webster-Stratton e collaboratori, originariamente sviluppato per il trattamento di bambini dai 3 ai 7 anni con diagnosi di Disturbo Oppositivo Provocatorio o con un esordio precoce di Disturbo della Condotta, che è stato riadattato da Barrera e collaboratori in modo tale che gli insegnanti potessero utilizzarlo come intervento precoce di prevenzione universale all’interno delle classi (Barrera et al.,2002).

Un altro programma che è stato di recente applicato nel contesto scolastico è il “Coping Power Program” (CPP) di J. Lochman e collaboratori. Il Coping Power Program è un modello multi-sistemico e multi-modale per il trattamento di minori con Disturbi del Comportamento di età compresa tra gli 8 e 16 anni, che prevede un percorso per i figli (che si sviluppa in 34 sessioni di gruppo) e uno per i genitori (che si articola in 16 sessioni). Originariamente sviluppato per i contesti clinici, può essere applicato anche in ambito preventivo (Lochman et al.,2012; Muratori et al., 2011, 2015). E’ un programma evidence-based, che ha dato prove di efficacia nel ridurre i comportamenti aggressivi e l’abuso di sostanze nei ragazzi anche a distanza di tre anni (Lochman e Wells, 2002) e che è stato tradotto e debitamente riadattato al contesto culturale italiano (Muratori et al., 2015).

Il Coping Power Program si focalizza sullo stabilire regole di gruppo e rinforzi contingenti, generare soluzioni alternative, considerare le conseguenze di soluzioni alternative relative a situazioni sociali problematiche, gestire e fronteggiare la rabbia (utilizzando auto-istruzioni ed esercizi di rilassamento), identificare in modo accurato le situazioni sociali in cui vengono messi in atto atteggiamenti provocatori, aumentare le abilità sociali, scoprire modalità più funzionali per entrare a fare parte di nuovi gruppi di coetanei, utilizzare modalità positive come la negoziazione e la cooperazione nelle interazioni con i pari (Muratori et al., 2015).

Uno studio del 2015 di Muratori et al., svolto nel contesto toscano, ha applicato per la prima volta il Coping Power Program come intervento preventivo di classe all’interno di due scuole primarie. Sono state coinvolte in totale nove classi, di cui cinque sono state assegnate casualmente al Coping Power Program e quattro al gruppo di controllo. La versione di classe del Coping Power Program è stata debitamente riadattata e ha previsto 24 sessioni della durata di 60-75 minuti, con frequenza settimanale in orario curricolare. Ha coinvolto tutti gli alunni invece di un piccolo gruppetto di essi con problemi di aggressività conclamata, come previsto invece dal protocollo originale, anche a partire dall’idea che i bambini che avrebbero mostrato alti livelli di coinvolgimento nel programma sarebbero potuti essere modelli positivi per i coetanei maggiormente reattivi (Muratori et al., 2015).

Per misurare l’efficacia del programma è stato utilizzato il Questionario sui Punti di Forza e di Debolezza (SDQ) – Versione Insegnante di Goodmann (Goodman, 1997), somministrato prima dell’inizio dell’intervento e un mese dopo il termine dello stesso. Il questionario SDQ consente di raccogliere informazioni sul minore riguardo alle seguenti aree: iperattività e problemi di attenzione, problemi di condotta, difficoltà emotive, comportamenti prosociali, rapporti con i pari; inoltre raggruppa le cinque sottoscale su una scala totale di stress globale.

I risultati dello studio mostrano una diminuzione dei punteggi per l’indice totale di difficoltà e per la scala iperattività/disattenzione all’interno delle classi appartenenti al gruppo sperimentale, così come un aumento dei punteggi della scala relativa al comportamento prosociale; tali modificazioni dei punteggi non sono state riscontrate invece nelle classi appartenenti al gruppo di controllo (Muratori et al., 2015).

In uno studio successivo sono stati analizzati gli effetti a medio termine, con un follow up a distanza di un anno. Dai risultati emerge che le classi che hanno ricevuto il Coping Power Program presentano una probabilità significativamente inferiore di mostrare problemi di iperattività e/o disattenzione e presentano una minor occorrenza di comportamenti problematici; inoltre tali classi hanno mostrato un miglioramento significativo dei voti scolastici. Pertanto i risultati mostrano che la versione riadattata del Coping Power Program, come programma di prevenzione universale, produce cambiamenti positivi per quanto riguarda le difficoltà comportamentali dei bambini e ciò può determinare un importante effetto generalizzato sul rendimento scolastico (Muratori et al., in press).

A fronte delle ricerche sopracitate, è importante sottolineare come i programmi di prevenzione e di intervento sulle principali manifestazioni psicopatologiche in età evolutiva attuati in contesto scolastico non possano sostituire il bisogno di trattamenti specifici in ambito clinico per i bambini e i ragazzi che presentano disturbi conclamati (Misfud & Rapee, 2005). Tuttavia gli interventi sia di prevenzione primaria (promozione del benessere) sia di prevenzione secondaria (screening diagnostico e interventi precoci) consentono di raggiungere un’ampia fetta di popolazione in età evolutiva, in modo che insegnanti, educatori, psicologi scolastici possano intervenire precocemente, abbattendo i costi e la durata dei trattamenti e riducendo il disagio esperito dai minori e dalle famiglie.

Le persone attraenti vengono pagate di più? Sfatata la teoria del Beauty Premium

Recentemente, Kanazawa, in collaborazione con Still, dell’università del Massachusetts a Boston, ha evidenziato, grazie come l’ammontare dello stipendio di ognuno è influenzato da fattori che vanno oltre il mero aspetto fisico di una persona e che anche le diverse caratteristiche che, in termini di differenze individuali, rendono una persona unica rispetto alle altre, giocano un ruolo importante. 

Più nello specifico, la ricerca, pubblicata dal Journal of Business and Psychology, ha messo in luce come siano le persone più intelligenti ed in salute, con anche più alti livelli di Coscienziosità ed Estroversione e minori tratti di Nevroticismo, a percepire salari più ingenti.

 

Secondo gli studi precedenti chi è più attraente guadagna di più: il Beauty Premium

Tradizionalmente, gli economisti hanno largamente argomentato e documentato l’esistenza del cosiddetto “Beauty premium”, contrapponendolo all’ “Ugliness penalty”, per quanto riguarda l’ammontare dello stipendio. Indagini basate sulla popolazione americana e canadese, ad esempio, avrebbero mostrato come le persone fisicamente attraenti guadagnino generalmente di più rispetto ad un cittadino medio, mentre, dall’altro lato, le persone esteticamente non piacevoli guadagnino meno (Fletcher, 2009; Judge et al., 2009). Inoltre, anche avvocati o laureati con Master of Business Administration (MBA) apparentemente intraprendono carriere migliori e guadagnano di più se fisicamente più attraenti (Biddle & Hamermesh, 1998; Frieze et al., 1991).

Il nuovo studio non conferma i risultati sulla correlazione tra aspetto fisico e successo economico

Nel loro studio, Kanazawa & Still hanno analizzato i dati provenienti da un campione rappresentativo della popolazione americana, che era già stato reclutato all’interno dello studio longitudinale Add Health (National Longitudinal Survey of Adolescent Health) e già valutato in modo preciso ed esaustivo per quanto riguarda l’aspetto fisico lungo un periodo di tempo di tredici anni.

Dalle analisi è emerso che le persone non vengono necessariamente discriminate sulla base dell’aspetto fisico. Ciò ha permesso agli autori di criticare e sfatare la teoria del “Beauty premium”. Infatti, nel momento in cui nelle analisi venivano considerati fattori legati alle differenze individuali quali salute, intelligenza e caratteristiche personologiche (cfr. Five Factor Model, Costa & Widiger, 1994), la correlazione tra l’aspetto fisico e il successo economico veniva a decadere.

È, inoltre, emerso per la prima volta un cosiddetto effetto di “Ugliness premium”, grazie al quale sembra che le persone veramente non attraenti guadagnino molto di più rispetto a quelle solo relativamente poco attraenti. Ulteriori indagini sono necessarie per comprendere la natura peculiare delle persone veramente non attraenti, in quanto contraria alle relazioni emerse tra bellezza, salute e intelligenza.

L’idea di bellezza e il rapporto con l’estroversione e il successo economico

L’idea sottostante quanto rilevato dagli autori è che la bellezza a livello di aspetto fisico, più che essere meramente una questione superficiale perché la bellezza sta solo “negli occhi di chi guarda”, può essere visto come un aspetto oggettivo e quantificabile caratterizzante una persona, tanto quanto può esserlo il peso o l’altezza. In questo senso, l’aspetto esteriore verrebbe considerato come un indice di benessere a livello genetico ed evolutivo, correlato con il livello di salute in età adulta (Thornhill, & Gangestad, 1993), nonché come un indice generale di intelligenza (Kanazawa, 2011).

In questo senso, Kanazawa postula che in una persona le caratteristiche di personalità più adattive potrebbero emergere come risultato di una tendenza intrinsecamente umana a rispondere ad un certo tipo di caratteristiche fenotipiche stabili, come, ad esempio, l’aspetto fisico. In altri termini, secondo questa teoria, bambini fisicamente attraenti sarebbero più propensi ad esperire nel corso della propria infanzia feedback positivi derivanti da interazioni interpersonali e, così facendo, a sviluppare personalità più estroverse e propositive rispetto a quanto non accada a bambini fisicamente meno belli (Lukaszewski & Roney, 2011).

Quindi, i lavoratori più in salute, più intelligenti e con caratteristiche di personalità favorevoli sarebbero autenticamente più produttivi e, di conseguenza, guadagnerebbero anche di più, facendo così sembrare, ad un livello più superficiale, che siano le persone esteticamente più attraenti a guadagnare di più. Questo è proprio ciò che è emerso dallo studio di Kanazawa & Still: l’effetto del “Beauty premium” sull’ammontare dello stipendio si annulla nel momento in cui vengono considerate variabili intervenienti quali salute, benessere e personalità. Il “Beauty premium” e l’ “Ugliness penalty” tanto sostenuti dalla comunità scientifica, pertanto, sarebbero solo fenomeni illusori, emersi in studi in cui non sono stati presi in considerazione tratti correlati all’aspetto fisico: le persone più attraenti guadagnerebbero di più non perché meramente più attraenti, ma perché più in salute, più intelligenti, estroversi e coscienziosi.

100 cose da sapere per volare sereni: come affrontare il volo senza paura – Recensione

Alcune ricerche riportano che almeno il 10% della popolazione mondiale ha giurato che non volerà mai più! Nei paesi sviluppati, tra il 2 e il 3 per cento delle persone soffrono di un’intensa e irrazionale paura di volare. Questo disturbo è chiamato aerofobia o aviofobia e colpisce sia chi non ha mai volato sia chi vola spesso o chi raramente. Si può sperimentare durante tutta la durata del viaggio o solo in alcuni momenti ad esempio al decollo o in fase di atterraggio.

Peter: “Vieni con me!”

Wendy: “io…non so volare”.

Peter: “ te lo insegno io e ti insegno anche a cavalcare i venti e via che si va…”

Dal film di P. J. Hogan

 

“Volare per te è una prova di coraggio? O hai deciso che non volerai mai, punto e basta!”

Allora t’ invitiamo a compilare il test che gli autori (un pilota e uno psicoterapeuta) hanno ideato appositamente e posto tra le prime pagine.

Valutate la vostra paura e scoprite a quale profilo appartenete:

A: volo perché devo

B: che ansia volare!

C: Odio volare!

D : Non volerò mai e poi mai!

 

Poi mettetevi comodi sulla vostra poltrona …per ora e iniziate la lettura di questo agevole ed accurato manuale per affrontare la vostra paura del volo.

Per prima cosa scoprirete che non siete gli unici a soffrirne.

 

La paura di volare, i sintomi associati e il bisogno di controllo

Alcune ricerche riportano che almeno il 10% della popolazione mondiale ha giurato che non volerà mai più!

Nei paesi sviluppati, tra il 2 e il 3 per cento delle persone soffrono di un’intensa e irrazionale paura di volare.

Questo disturbo è chiamato aerofobia o aviofobia e colpisce sia chi non ha mai volato sia chi vola spesso o chi raramente.

Si può sperimentare durante tutta la durata del viaggio o solo in alcuni momenti ad esempio al decollo o in fase di atterraggio.

Tra i sintomi si sperimenta un aumento della pressione sanguigna, tachicardia, iperventilazione, disturbi gastrici e attacchi di panico.

Chi ne soffre di solito sa bene che l’aereo è uno dei mezzi di trasporto più sicuri, ma non è in grado di liberarsi della paura di un incidente, in verità ciò che si teme è la paura di perdere il controllo su se stessi. Già perché staccarsi da terra e affidare totalmente la propria vita nelle mani di uno sconosciuto, seppure esperto pilota, è davvero arduo!

Soprattutto per coloro a cui piace programmare tutto e prevedere anche gli imprevisti, in modo da sapere esattamente cosa accadrà momento per momento.

Volare, non avere la terra sotto ai piedi, è per molti perdere totalmente il controllo di sé e questo è davvero spaventante.

Come fare allora? Si può andare in vacanza in Italia, è tanto bella e non è necessario prendere l’aereo…si può rinunciare ad alcune sfide professionali che implichino trasferte oltre oceano…… Diventa più difficile quando è proprio necessario prendere un aereo : per obbligo lavorativo o per amore!

Questo libro è quel che fa per voi, vi può aiutare.

 

Ciò che accade al cervello quando si prova ansia e alcuni suggerimenti per superare la paura di volare

Alberto Pellai e Giuseppe Lapenta hanno studiato e descritto per voi strategie per gestire efficacemente la vostra paura di volare.

Il testo illustra cosa succede nel nostro cervello (anzi nel vostro cervello, perché chi scrive adora viaggiare e volare!) quando sperimentate paura, ansia, panico o fobia. Come il cervello vi fa sperimentare queste emozioni, quali ordini impartisce al resto del corpo e voi quali pensieri fate, cosa vi dite nella vostra testa. Scoprirete che alcuni pensieri innescano la paura di volare ed altri ancora la mantengano, nonostante sappiate che è statisticamente più pericoloso viaggiare in auto che in aereo, che i piloti sono bene addestrati e che il loro primo obiettivo è la sicurezza.

Nel testo troverete tutto quello che è utile sapere sul funzionamento dell’aereo e sull’equipaggio e delle figure professionali addette alla sicurezza del volo. Non solo il pilota dunque ma anche chi atterra controlla i vostri bagagli per la vostra sicurezza.

E poi ancora vi saranno illustrate tutte le fasi di un volo: prima del volo, l’imbarco, il rullaggio, il decollo, la salita, la discesa e avvicinamento e atterraggio e infine parcheggio e sbarco.

Una parte di questo che ho trovato molto utile e chi vi raccomando riguarda la preparazione al viaggio. Occorre preparare la valigia qualche giorno prima per decidere con calma quali pensieri mettere (pensieri razionali e calmanti) e quali pensieri togliere (irrazionali e spaventanti). Occorre anche arrivare con largo anticipo all’aereoporto : “datevi il  tempo di vivere tutte le fasi della partenza con sufficiente dose di tranquillità e rilassatezza. Questo permetterà alla mente di rimanere nel “qui ed ora” (…) non dimenticate che l’ansia è scatenata da un surplus di stress.”

Gli autori hanno pensato a canzoni, musiche e film adatti al tema del volo ed altri suggerimenti per gestire la vostra ansia.

E se ora vi state chiedendo:

“ E se un fulmine colpisce l’aereo?

E se il carburante finisce?”. Non preoccupatevi troverete anche queste risposte!

Allacciatevi la cintura e buona lettura!

 

Psicologia del lavoro: di cosa si occupa lo psicologo in azienda

La Psicologia del lavoro, delle organizzazioni e delle risorse umane è una branca della psicologia legata all’ambito lavorativo.  Essa si occupa delle relazioni tra i diversi soggetti lavorativi e dei contesti organizzativi, evidenziando i fattori personali, interpersonali e situazionali che agiscono nella costruzione delle relazioni individuali e collettive.

 

La psicologia del lavoro studia il comportamento delle persone in una determinata situazione lavorativa e nello svolgimento della loro attività professionale. L’obiettivo della psicologia del lavoro è promuovere in maniera specifica il benessere lavorativo.

Lo psicologo del lavoro, dunque, svolge diversi compiti all’interno di una azienda, tutti volti al raggiungimento del  benessere aziendale e individuale che andrà ad incidere su un migliore rendimento lavorativo. Lavorare come psicologi del lavoro significa applicare i modelli e le teorie della psicologia all’ambiente di lavoro per garantire delle buone condizioni psicologiche e promuovere l’identità lavorativa del cliente attraverso il career counseling.

Lo psicologo del lavoro, nello specifico, si occupa di selezione del personale, formazione e sviluppo, orientamento, consulenza per la carriera, marketing, sviluppo di competenze e apprendimenti lavorativi, analisi dei fattori di ostacolo alle prestazioni efficaci e sicure e di relazione fra dipendente e azienda.

 

Lo psicologo aziendale

La psicologia del lavoro in ambito aziendale si occupa di una vasta gamma di funzioni. Gli psicologi delle organizzazioni  o aziendali analizzano e migliorano il funzionamento dei gruppi di lavoro e delle relazioni tra gruppi,  intervengono sulla leadership per individuare l’efficacia dell’azione direttiva, contribuiscono all’ incremento della qualità delle relazioni sindacali e dei processi di negoziazione, esaminano ed intervengono sui fattori psicosociali che influenzano il funzionamento organizzativo, cooperano affinché i processi di cambiamento organizzativo abbiano un sostenibile impatto sulla vita delle persone, contribuiscono all’arricchimento dei sistemi di comunicazione interna ed esterna, etc.

Lo psicologo all’interno di una azienda valuta la situazione attuale e il potenziale dei soggetti lavorativi che la costituiscono. In questo modo esamina l’efficacia nella messa in atto di una serie di strategie future e interviene su eventuali errori che potrebbero causare, nel tempo, danni economici o relazionali.

 

Psicologia del lavoro: formazione e selezione del personale

Lo psicologo del lavoro notoriamente svolge la selezione del personale, individuando soggetti con competenze specifiche in grado di ricoprire un determinato ruolo all’interno di una azienda. Quindi, individua curriculum vitae di persone che mostrano abilità adatte allo svolgimento del ruolo preposto e, per questo, cerca sempre di identificare e unire adeguatamente caratteristiche personologiche e professionali che possano garantire stabilità e successo all’organizzazione.

Lo psicologo, per svolgere il suo compito, utilizza strumenti quali interviste e questionari grazie ai quali è possibile valutare tutti coloro che intendono entrare a far parte di una determinata azienda. Inoltre, adopera i seguenti strumenti per realizzare sondaggi in merito all’efficacia di un prodotto o per individuare la presenza di eventuali disagi. Lo psicologo aziendale, però, non svolge solo questa funzione, infatti, è in grado di motivare e condurre efficacemente un gruppo al raggiungimento degli obiettivi prefissati oltre a occuparsi di formazione, rivolgendosi sia al personale interno all’organizzazione, sia a tutti coloro che gravitano intorno all’azienda a diverso titolo. La formazione professionale, attualmente, è fondamentale non solo per quel che riguarda le nuove metodologie utilizzabili sul campo, ma anche nella prevenzione di fenomeni quali il mobbing o il bullismo. Quindi, lo psicologo si occupa anche di prevenzione e sicurezza in quanto, oltre ai rischi fisici, ogni azienda e tutti i suoi dipendenti sono soggetti ai rischi psicosociali, tra cui lo stress lavoro-correlato, che nel tempo induce a un basso rendimento lavorativo e conseguenti perdite economiche.

Inoltre, errori dovuti alla comunicazioni tra le diverse componenti aziendali potrebbero arrecare disagi, per questo lo psicologo valuta e analizza le comunicazioni interne, tra i dipendenti, ed esterne, rivolte alla clientela, prestando attenzione sia alla modalità di interazione con l’utenza che alla pubblicità. Egli, inoltre, analizza il contesto sociale in cui agisce l’azienda, e pone particolare attenzione alle esigenze e agli interessi dei dipendenti. Di conseguenza, lo psicologo deve pianificare accuratamente gli obiettivi a breve e lungo termine da raggiungere.

 

Psicologia del lavoro: il coaching aziendale

La psicologia del lavoro si occupa anche di coaching aziendale che consiste nell’affiancare gli individui per aiutare un singolo, o un gruppo, a raggiungere il massimo livello delle proprie capacità prestazionali. Per ottenere questo obiettivo è necessario definire le aree in cui intervenire e gli obiettivi da perseguire. Il coaching aziendale e manageriale può essere richiesto da qualunque professionista per migliorare le proprie performance nella vita professionale e rappresenta inoltre un veicolo di cambiamento e di crescita che permette di ottenere risultati immediati ed estremamente produttivi per un’azienda.

 

Le soft skill aziendali

Le soft skill sono delle competenze, definite appunto “soft” prettamente inerenti il funzionamento psicologico e si differenziano da quelle che sono le competenze “hard”, ovvero competenze specifiche e tecniche di una determinata mansione lavorativa.

Le soft skill possono essere divise in diverse categorie:

–  ragionamento: riguarda le capacità di problem solving, analisi e sintesi, la comunicazione e la gestione dei rapporti interpersonali, la collaborazione e la negoziazione;

– iniziativa: si riferisce alla proattività, orientamento al risultato, pianificazione, organizzazione, gestione del tempo e delle priorità, decisioni;

– manageriali: si rivolgono alla gestione e motivazione dei collaboratori e alle capacità di delega o di utilizzo delle proprie competenze.

Esistono inoltre delle competenze trasversali, che abilitano all’utilizzo delle soft skill e sono: flessibilità, tolleranza allo stress, tensione al miglioramento continuo, innovazione.

Nello specifico il compito dello psicologo aziendale è anche quello di promuovere e individuare le competenze di una azienda per raggiungere gli obiettivi con il minimo sforzo e il massimo rendimento. Per questo sono necessari soggetti con competenze sempre più specifiche e affinate per ricoprire i possibili ruoli in una data organizzazione.

 

Gruppo, dinamiche relazionali e organizzazione

In una azienda è importante il clima che si respira in relazione al tipo di gruppo di lavoro che si crea. Quindi, comprendere il clima organizzativo e strutturale dell’azienda è utile per interpretare e sviluppare profondi cambiamenti strutturali rispetto alle personalità degli individui facenti parte dell’azienda.

Sicuramente capire quali sono le caratteristiche di comunicazione e sviluppo del gruppo aiuta a individuare le strategie di funzionamento più idonee. Di conseguenza, è indispensabile valutare, con appositi strumenti, le dinamiche relazionali e le affinità elettive che si instaurano.

I gruppi possono avere caratteristiche diverse che impattano differentemente sul benessere aziendale. Se si creano gruppi coesi e coinvolgenti si ottiene una buona unità interna derivante dalla presenza di mediazione, disponibilità, flessibilità, equità e riconoscimento, tutte caratteristiche che facilitano il  perseguimento di un obiettivo lavorativo.

Se invece si creano gruppi che presentano pressione, stress, poca chiarezza comunicativa si potrebbe manifestare uno stato di malessere, frutto di dinamiche di opposizione come l’insofferenza, il logoramento, il fastidio e l’equivoco, che potrebbero portare l’azienda al default.

In tal senso, lo scopo della psicologia del lavoro è migliorare l’interazione tra gruppi e risolvere dinamiche gruppali non funzionali al raggiungimento dello scopo e opposte alla mission dell’azienda.

 

Psicologia del lavoro: la gestione della leadership

Altro aspetto di cui si occupa la psicologia del lavoro è la leadership. Lo scopo è individuare la giusta strategia attuativa che possa facilitare l’interazione tra i dipendenti per raggiungere senza ostacoli gli obiettivi previsti dalla struttura.  Per realizzare tutto questo è necessario ottenere una buona integrazione tra i gruppi e una adeguata comunicazione tra le diverse componenti.

Esistono molti stili di Leadership che dipendono dalle caratteristiche di personalità integrate ad aspetti professionali posseduti da colui che ricopre questo ruolo. Stili diversi di leadership portano a strategie aziendali differenti e a gruppi con caratteristiche particolari. Chiaramente, una Leadership motivante, creativa e coinvolgente potrebbe portare entusiasmo e fervore tra i dipendenti che lavorerebbero con maggiore interesse. Al contrario, una leadership invischiate o opportunistica potrebbe ottenere un basso consenso tra i dipendenti, diventando istigante e auto-distruttiva non trasmettendo fiducia al gruppo poiché incapace di difendersi dalle oppressioni.

E’ necessario precisare che utilizzare uno stile di leadership oppure un altro non può essere accidentale, ma dipende dalle diverse dinamiche di gruppo che si creano all’interno dell’azienda. Quindi, ogni leadership deve essere considerata come adeguata a quel gruppo, per questo le strategie devono essere scelte in maniera mirata, considerando le diverse componenti e volgendo anche uno sguardo all’esterno ovvero alla collettività. Ogni stile, se è utile per l’interno potrebbe essere dannoso per la personalità collettiva e viceversa.

La psicologia del lavoro, dunque, interviene sulla leadership individuando la strategia migliore atta a facilitare l’interazione tra le diverse parti per favorire il benessere aziendale e di conseguenza lavorativo.

Aspetti e conseguenze psicologiche nelle malattie dermatologiche della pelle: focus sulla Psoriasi

La psoriasi è da tempo riconosciuta per la sua connessione con effetti potenzialmente negativi sulla salute mentale. Quantificare il rapporto tra la psoriasi e le principali conseguenze psicologiche è importante al fine di identificare di quali disturbi di salute mentale i pazienti affetti da psoriasi possono essere particolarmente suscettibili. La psoriasi è spesso associata, oltre che a un disagio psicologico, anche alla presenza di stress cronico. Allo stress dunque è riconosciuto un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento di numerosi disturbi dermatologici.

Genoveffa Malizia, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Psicodermatologia: la relazione tra mente e corpo

Le diverse patologie che coinvolgono la pelle possono avere delle ripercussioni sia sul piano psicologico sia sul piano sociale, pertanto risulta necessario tenere conto di questi aspetti tanto nella diagnosi, quanto nel trattamento e nella prognosi. (Mercan & Altunay, 2006).

In psicodermatologia, una disciplina che ha come oggetto di studio la relazione tra sistema nervoso, cognizioni, emozioni, personalità ed aspetti biologici e patologici, il nucleo fondante è la connessione cervello-pelle con linee di ricerca finalizzate alla determinazione dei risultati dell’interazione tra questi due organi (Jafferany, 2007)

Il primo lavoro che compare in letteratura su questo argomento è stato proposto da  Ingram (1933), il quale considera la pelle come un’estensione della mente e si spinge ad affermare, che tra gli esami che si propongono di indagare la personalità debba esserci anche un esame delle condizioni esterne della pelle.

A livello clinico più di un terzo dei pazienti dermatologici presentano condizioni alle quali sono spesso associati fattori di natura psicologica (Savin & Cotterill, 1992).

I dermatologi infatti, ricorrono spesso, per i loro pazienti, a consultazioni psichiatriche, essendoci prove a favore che i fattori psicologici possano giocare un ruolo di fondamentale importanza in malattie croniche come la psoriasi (Capoore et al., 1998; Humphreys & Humphreys, 1998; Attah Johnson & Mostaghimi, 1995).

Grazie anche all’affermarsi del modello bio-psico-sociale, l’attenzione dei ricercatori si è spostata su altri aspetti più prettamente di interesse della psicologia come le strategie di coping, le configurazioni di personalità, gli stili di vita, la percezione della malattia ed infine il produttivo filone di ricerca riguardante la qualità della vita.

Nel corso degli anni si sono succedute alcune proposte di classificazione dei disturbi psicodermatologici. Non essendoci ancora un accordo univoco sulla nosografia di seguito verranno presentate quelle più significative.

Koo & Lee (2003) propongono una classificazione che prevede:

  • Disturbi psicofisiologici: condizioni in cui il ruolo dei fattori psicosociali è rilevante e concorre all’esordio e/o al mantenimento del disturbo (es. Psoriasi, dermatite atopica).
  • Disturbi Psichiatrici con sintomi dermatologici: problemi a carico della pelle insorgono a causa del disturbo mentale (es. dermatiti in pazienti con disturbo ossessivo compulsivo).
  • Disturbi dermatologici con sintomi psichiatrici: questa categoria include pazienti che sviluppano una sintomatologia psichiatrica dal momento che sono affetti da una patologia dermatologica.

Locala (2009) invece integra la proposta di classificazione precedente, utilizzando però una prospettiva più psicologica/psichiatrica, che prevede:

  • Fattori psicosociali che influenzano malattie dermatologiche (es. psoriasi).
  • Disturbi psichiatrici primari che si manifestano attraverso sintomi o lamentele cutanee (es. tricotillomania).
  • Disturbi psichiatrici secondari emergenti dall’affrontare malattie cutanee (es. sintomi ansiosi e /o depressivi).
  • Disturbi psichiatrici in comorbilità con disturbi della pelle.

L’ipotesi di partenza è che i pazienti con psoriasi abbiano un maggior rischio di diagnosi clinica di depressione, ansia, e tentato suicidio o ideazione suicidaria  rispetto alla popolazione generale.

 

Caratteristiche della psoriasi e il suo impatto sulla qualità della vita

La psoriasi è una malattia infiammatoria cronica a carico della pelle, non contagiosa, che colpisce il 1,5-3% della popolazione (Griffiths & Barker, 2007), sia uomini che donne. Coinvolge infatti 130 milioni di persone nel mondo, 2 milioni solo in Italia (ADIPSO, Associazione Difesa Psoriasici), e può insorgere a tutte le età, ma in genere (nel 75% dei casi) il suo esordio avviene prima dei 40 anni.

Questa patologia si manifesta con la comparsa di placche eritematose (rosse), squamose ed argentee, dovute ad un aumento anomalo della produzione di cellule dello strato più esterno della pelle, in genere distribuite simmetricamente sui gomiti, ginocchia, cuoio capelluto e talvolta sulle unghie, ma tutte le zone della cute possono esserne interessate. Nel 20% dei pazienti le lesioni sono diffuse a vaste aree della superficie corporea e nel 10-15% coesiste un’artropatia che causa dolore ed incapacità a svolgere le normali attività quotidiane assumendo così una funzione invalidante (Schon et al., 2005).

L’evoluzione generale della malattia è imprevedibile, ha un andamento cronico-recidivante, nel quale si alternano spontaneamente a fasi di riacutizzazione, un miglioramento e talvolta anche persistenti remissioni.

La psoriasi è anche da tempo riconosciuta per la sua connessione con effetti potenzialmente negativi sulla salute mentale. Quantificare il rapporto tra la psoriasi e le principali conseguenze psicologiche è importante al fine di identificare di quali  disturbi di salute mentale i pazienti affetti da psoriasi possono essere particolarmente suscettibili.

La psoriasi è spesso associata, oltre che a un disagio psicologico, anche alla presenza di stress cronico. Allo stress dunque è riconosciuto un ruolo importante nella genesi e nel mantenimento di numerosi disturbi dermatologici (Al’badie, Kent & Grawkrodger, 1995).

In due dei più imponenti studi, che hanno coinvolto circa 6000 soggetti psoriasici in Norvegia, Zachariae et al. (2002) e Zachariae et al. (2004), hanno esaminato il ruolo dello stress nell’esordio della patologia: il 66% dei soggetti esaminati riferiva un peggioramento dei sintomi psoriasici in concomitanza con l’aumento dello stress percepito. Inoltre, la maggior parte dei soggetti che riferivano di essere “stress-reactors” erano femmine e presentavano una maggiore gravità della sintomatologia, alti livelli di connessione stress-psoriasi e un peggioramento nella qualità della vita.

La patologia però sottopone costantemente il soggetto a stress distruggendo le quotidiane routine con una conseguente ridotta capacità di perseguire valori e obiettivi di vita provocando un effetto negativo sulla qualità sulla vita (Choi & Koo, 2003; Kiebert et al., 2002; Husted et al., 2001; Krueger et al., 2001; Rapp, et al., 1999; Finaly & Coles, 1995).

La psoriasi incide infatti negativamente sulla qualità di vita delle persone che ne sono colpite, soprattutto nelle forme più estese o in quei casi dove le lesioni sono in zone del corpo esposte come le mani e la faccia, o particolari come la zona genitale (Mease & Menter, 2006).

Il dolore cutaneo colpisce circa il 42% dei pazienti mentre il disagio cutaneo circa il 37% (Yosipovitch, et al., 2000; McKenna, et al., 1997). Il dolore e il disagio cutaneo interferiscono negativamente con funzioni come il sonno, l’umore e la qualità di vita (Ljosaa, et al., 2010).

Purtroppo, la Psoriasi è anche una patologia incurabile e ha una caratteristica recidivante, per cui molti pazienti soffrono e vivono esperienze di vita fortemente stressanti e connesse a stress psicologico; di conseguenza riferiscono una pessima qualità di vita comparabile a quella di altri disturbi cronici. La credenza principale di una sottopopolazione di pazienti psoriasici è quella secondo cui la psoriasi sia appunto esacerbata dallo stress psicologico (Fordham, Griffiths & Bundy, 2012).

Notoriamente stimoli di diversa natura quali traumi fisici, infezioni od eventi psicologicamente stressanti sono in grado di agire come fattori inducenti la comparsa o l’aggravamento della psoriasi.

Sebbene nella gran parte dei casi la psoriasi è una malattia che di per sé  non rappresenta un rischio per la vita, l’impatto sulla sfera psicosociale è di grande rilevanza ed è paragonabile a quello prodotto da altre malattie come artrite reumatoide, cancro e patologie cardiache croniche (Van de Kerkhof  et al. 2002)

 

Ipotesi eziologiche della psoriasi: aspetti neurobiologici, fattori temperamentali e gli stressors

Sul piano patogenetico la psoriasi viene considerata una patologia determinata dall’interazione tra fattori genetici predisponenti e fattori ambientali scatenanti/aggravanti, come traumi, infezioni, radiazioni solari, farmaci e stress psicologico, capaci di innescare una reazione immunologica specifica prevalentemente mediata da linfociti T, con conseguente disregolazione dell’equilibrio citochinico (Di Nuzzo, Zanni & De Panfilis, 2007; Fabbri, 2004; Fabbri, Leigheb & Gelmetti, 2010).

La causa esatta di questo processo è ancora sconosciuta, tuttavia si sottolinea il ruolo di alcuni fattori genetici e ambientali (Ryan, 2010).

Diversi sono invece gli autori che hanno cercato di chiarire quale possa essere il ruolo delle caratteristiche temperamentali e di personalità sulla genesi, sviluppo e mantenimento delle malattie dermatologiche.

Le caratteristiche di personalità, ed in particolare quelle temperamentali, potrebbero giocare un ruolo importante nell’espressione di patologie dermatologiche.

Kilic et al., (2008), seguendo un approccio alla psoriasi di tipo bio-psico-sociale, hanno evidenziato elevati punteggi di una componente temperamentale, l’evitamento del danno, e bassi punteggi in una componente caratteriale, l’autodirezionalità. I risultati di questo studio delineerebbero il soggetto psoriasico a livello temperamentale come un soggetto inibito, schivo, preoccupato che i propri comportamenti possano avere delle conseguenze negative, mentre a livello caratteriale si distinguerebbe per avere un basso livello di accettazione di sé e un comportamento poco orientato al perseguimento di obiettivi.

A tal proposito, Janowski & Steuden (2008) ipotizzarono che la gravità della patologia, in questo caso la psoriasi, con il peggioramento del grado di qualità della vita percepita, potesse essere influenzata dal temperamento. Incrociando i dati risultanti da una misurazione dei tratti temperamentali, dell’indice PASI (Psoriasis Area and Severity Index) e da un questionario sulla qualità della vita (HRQL) essi dimostrarono che tratti temperamentali quali la perseveranza, l’attività, la reattività emozionale, la vivacità, la tolleranza risultano avere un effetto mediatore soprattutto sulla valutazione (appraisal) e sulla gestione (coping) dello stress. In sostanza l’effetto che la patologia viene ad avere sulla qualità della vita dipenderebbe sostanzialmente dalle diverse configurazioni temperamentali.

Il significato dello stress nello studio di tale patologia potrebbe essere quello delineato dalla consistente mole di ricerche effettuate che lo definiscono lungo tre categorie generali:

1) stressful life events: ad esempio, cambiamenti nell’assetto lavorativo, grave malattia personale, problemi finanziari;

2) stress psicologico e caratteristiche di personalità disadattive;

3) mancanza di supporto sociale (Gupta et al., 1989).

Verhoeven et al. (2009) hanno evidenziato una associazione significativa tra stress e gravità della patologia: in questo studio prospettico su 62 soggetti psoriasici, gli autori hanno sottolineato come elevati livelli di stressor quotidiani sembrano essere connessi ad un aumento nella gravità della patologia quattro settimane dopo l’evento stesso. Concludendo, lo stress potrebbe peggiorare la gravità di una psoriasi già in atto e agire anche influenzando negativamente l’aderenza ai trattamenti e l’outcome.

Le diverse rassegne della letteratura evidenziano che questa relazione è di tipo multifattoriale.

La psoriasi, ad esempio, potrebbe portare a sintomatologie depressive a causa della sua stigmatizzazione nei contesti sociali e sintomi quali ansia e depressione potrebbero essere la causa della psoriasi stessa (Szumański & Kokoszka,2001).

 

Psoriasi e comorbidità psichiatrica

Strategie di Coping

Diversi ricercatori si sono occupati di indagare se esistano delle particolari cognizioni che possano influenzare sia le strategie di coping sia l’outcome di pazienti psoriasici. La cornice teorica in cui si sono mossi la maggior parte degli autori è quella della self-regulation theory proposta da Leventhal et Al., (1980), la quale ipotizza che le persone, nel tentativo di affrontare una malattia cronica, cerchino di creare un sistema coerente di percezioni rispetto alla malattia e a loro stessi attraverso la costruzione attiva di rappresentazioni cognitive della patologia.

Queste rappresentazioni poi generano comportamenti, adattivi o meno, ed emozioni nella gestione della malattia che a loro volta vengono valutati dal soggetto in base ai loro effetti, il quale decide se utilizzarli in futuro in un meccanismo di autoregolazione.

La capacità di coping risulta infatti molto importante in questi pazienti: in quelli che utilizzano strategie di coping dannose come il nascondere le lesioni cutanee, evitare le altre persone e dire a se stessi che “gli altri non mi capiscono” si osserva una marcata riduzione della qualità di vita. Essa è migliore, invece, nei pazienti che parlano agli altri della propria patologia, in particolare spiegando che non è contagiosa (Choi et Al., 2005). Cercare supporto sociale, esprimere le proprie emozioni, cercare delle distrazioni e credere nella controllabilità e curabilità della propria patologia sono infatti meccanismi di coping associati ad un migliore funzionamento del soggetto (Scharloo, et Al., 1998; O’Leary CJ, et Al.,2004).

Per quanto riguarda il coping, Fortune et al. (2002) hanno utilizzato il Coping Orientations for Problems Experienced (COPE) per valutare le strategie di coping più frequentemente utilizzate da soggetti con psoriasi. Il coping sembra essere un fattore di mediazione tra la percezione della malattia e l’esito dei trattamenti. I risultati hanno evidenziato che le strategie di coping sono un importante fattore di rischio per l’insorgenza di una sintomatologia ansiosa (strategie focalizzate sull’emozione, sull’evitamento) e depressiva (distanziamento). Influiscono anche sulla preoccupazione ossessiva di questi soggetti circa la loro patologia (worrying). Altri studiosi hanno invece evidenziato che la negazione, il distacco comportamentale e l’abuso di sostanze e alcol (misurati con il Brief COPE) sono dei fattori di rischio per l’insorgenza di una sintomatologia psicopatologica in questi soggetti (Finzi et al., 2007). Le risorse soggettive per affrontare patologie croniche come quelle cutanee si suddividono in risorse personali, relativamente costanti, e fattori sociali che esercitano la loro influenza sui tentativi di ciascun individuo di fronteggiare lo stress.

Quindi il supporto sociale (che secondo lo studio di Jankovic, 2009, è un fattore protettivo), le strategie di coping in generale, autostima ed autoefficacia, ottimismo, assertività, Locus of control, sono tutti fattori importanti nel processo di accettazione di una patologia cronica (Kupfer et al., 2003).

Alcuni studi hanno, infatti, evidenziato come questi soggetti non solo devono essere in grado di gestire la cronicità della loro patologia, ma spesso si trovano a dover affrontare anche problemi legati allo stress, alle relazioni sociali e alla regolazione ed espressione delle proprie emozioni (Naldi et al., 2001).

Le influenze personali, i tratti di personalità, il modo soggettivo di affrontare gli eventi stressanti (coping) ed il deficitario riconoscimento delle proprie emozioni (alessitimia), sembrano fattori di rischio che influenzano l’insorgenza, il mantenimento e l’esacerbazione di tale patologia.

 

Aspetti emotivi della psoriasi

Le emozioni che molto spesso vengono sperimentate dagli psoriasici sono: depressione, vergogna, preoccupazione, rabbia e irritazione; i problemi funzionali riportati più spesso sono: “la malattia mi impedisce di lavorare e avere hobbies”, “ha un impatto sulla mia vita sociale” e “ha un effetto sulle mie relazioni” (Ginsburg & Link, 1989). Lo stigma viene definito come un marchio biologico o sociale che esclude la persona dal contesto sociale, screditandola e turbandone le interazioni con gli altri (Jones, Farina, Hastorf, Markus & Miller, 1984). In tutto questo, la vergogna assume quindi un ruolo importante e infatti è una delle emozioni più frequentemente sperimentate dai soggetti psoriasici, soprattutto tra le donne e nei soggetti con una psoriasi di lunga durata.

I sentimenti di vergogna possono avere un’influenza forte sulla vita sociale, riducendo le opportunità lavorative e relazionali; ad esempio possono essere compromesse le relazioni sessuali, e i sintomi di malessere in generale possono persistere nonostante un evidente miglioramento clinico della psoriasi (Sampogna, Gisondi, Tabolli & Abeni, 2007).

Un’altra emozione analizzata da Sampogna et al. (2012) è la rabbia, che sembra essere un fattore di rischio significativo per l’insorgenza in questi pazienti di disturbi cardiovascolari ed è spesso associata anche ad una sintomatologia depressiva. Come tratto di personalità, la rabbia può intaccare la capacità dei soggetti psoriasici di far fronte allo stress (Diong & Bishop, 1999).

Alti livelli di rabbia, infatti, sembrano aumentare la probabilità di avere un esordio precoce della psoriasi (Gupta et al., 1996).

Un altro sintomo maggiormente esperito dagli psoriasici è la preoccupazione patologica (pathological worrying), che nella sua forma più estrema può avere un effetto significativo e dannoso sull’outcome dei pazienti (Fortune et al., 2003; Fortune et al., 2002). La preoccupazione degli psoriasici per un peggioramento della patologia dermatologica è molto frequente nelle donne e nei pazienti con una psoriasi grave. Quindi, la rabbia, la vergogna e la preoccupazione eccessiva portano con sé un’alta probabilità di problemi clinicamente significativi. Per questo dovrebbero essere presi in dovuta considerazione nella fase di valutazione dei pazienti psoriasici, che per questo potrebbero ricevere maggiore attenzione clinica e di conseguenza beneficiare di interventi psicologici aggiuntivi prima e durante il trattamento medico.

 

Aspetti Psicologici della psoriasi

La psoriasi è infatti correlata con problemi psicologici quali bassa stima di sé, una distorta immagine di sé e del proprio corpo, disfunzioni sessuali, ansia, depressione e ideazione suicidaria.

Gli individui affetti da psoriasi, infatti, sperimentano ogni giorno situazioni di stigmatizzazione sociale e di rifiuto con un effetto profondo sull’immagine di sé, sulla fiducia in se stessi e sul senso di benessere in generale. Inoltre, in molti studi differenti, i pazienti con psoriasi riferiscono sentimenti di imbarazzo e vergogna e mostrano alti livelli di rabbia rispetto alla popolazione generale (Conrad et al., 2008; Magin, Adams, Heading, Pond & Smith, 2009). Queste emozioni spesso sfociano in veri e propri cambiamenti nel comportamento, quali l’evitamento di contesti pubblici o di situazioni in cui la pelle potrebbe essere esposta: in questo modo riducono la possibilità di una vita sociale e inibiscono le relazioni con gli altri.

Nei soggetti affetti da psoriasi il ruolo degli schemi cognitivi ed emotivi maladattivi è stato spesso collegato a un’alta comorbilità psichiatrica e a stress psicologico: alcuni di questi schemi (vulnerabilità al pericolo e difettosità) sembrano predire la comparsa di sintomi d’ansia e depressione e isolamento sociale, indipendentemente dall’età o dalla durata della patologia, per questo si è ipotizzato l’inserimento di una schema-focused therapy nel trattamento degli psoriasici. (Mizara, Papadopoulos & McBride, 2012).

La comorbilità psichiatrica sembra essere molto frequente nei soggetti con psoriasi e, tra i vari disturbi mentali, la depressione maggiore sembra essere quella più sperimentata, soprattutto se si pensa che il legame tra psoriasi e depressione non è solo di tipo psicopatologico, ma anche biologico (circolo vizioso: alterazione della psoriasi-alterazione della qualità di vita-depressione); è stato comunque evidenziato che un miglioramento nella psoriasi non determina, nonostante questo legame, un miglioramento dei sintomi depressivi. Inoltre, è noto che i pazienti depressi abbiano una cattiva compliance al trattamento (Misery, 2012).

Per valutare la gravità della malattia, è necessario utilizzare un indice che tenga conto sia dello stato fisico del paziente sia di quello psicologico ( Gupta et Al., 1989; Serville, 1977). Gli indici validati più frequentemente utilizzati nella pratica clinica per misurare la gravità della psoriasi in termini di coinvolgimento fisico sono l’indice di superficie corporea ( Marks R, Barton S, Shuttleworth D, Finlay AY, 1989) , il PASI (Psoriasis Area and Severity Index), Van de Kerkhof, 1977.

Alcuni degli strumenti per la valutazione degli impatti psicologici e sociali della psoriasi sono l’Hospital Anxiety and Depression Scale (Lewis G, Wesley S, 1990) l’Illness Perception Questionnaire (Weinmann J, Petrie KJ, Moss-Morris R, Horne R, 1996), Psoriasis Disability Index (Finlay AY, Kelly SE, 1987), Dermatology Life Quality Index (Finlay AY, Khan GK, 1994) e il CES-D che valuta gli aspetti Depressivi (Radloff LS., 1977).

I pazienti psoriasici sono dunque particolarmente vulnerabili a una sintomatologia depressiva a causa dello stress causato dalla loro disabilità, e sembra probabile che una malattia cronica e grave tale come la psoriasi può portare a un disturbo depressivo maggiore ( Gupta et Al, 1998). Tuttavia, uno studio ha dimostrato che i dermatologi hanno la tendenza a sottostimare la presenza di comorbilità psichiatrica tra i loro pazienti (Wessely SC, Lewis GH.,1989; Sampogna F, Picardi A, et Al., 2003)

Nel 1993, Gupta et al. hanno riportato una correlazione statisticamente significativa tra la gravità della psoriasi e la gravità della depressione. Nel 1998, gli stessi autori (Gupta  et al., 1998) hanno osservato che, rispetto ad altri gruppi di pazienti dermatologici, i pazienti psoriasici mostrano alti punteggi di depressione, una prevalenza di ideazione suicidaria del 2,5% in pazienti ambulatoriali e del 7,2% in pazienti ricoverati. La prevalenza di ideazione suicidaria in pazienti psoriasici è superiore a quella riportata in altri studi su pazienti di medicina generale (Cooper-Patrick L.,1994;Olfson et al.,1996). In una precedente relazione, si è osservato che la psoriasi ha un maggiore effetto avverso sulla qualità della vita nei pazienti più giovani rispetto  ai loro colleghi più anziani, mentre la sintomatologia depressiva sembrava essere anche più diffusa tra le donne ( Gupta et al.,1995). In questi casi, il trattamento con farmaci antidepressivi può anche essere utile nella gestione complessiva della psoriasi (Gupta et al.,2001).

Recentemente, i risultati di un ampio studio europeo che coinvolge 18.000 pazienti ha dimostrato che la psoriasi influisce negativamente sulla vita di molti pazienti con un impatto significativo su tutte le attività di vita quotidiana (Dubertret L., 2003)

La comorbilità psicologica dunque può influire negativamente sul decorso della malattia, ed è probabile che i pazienti con psoriasi trarrebbero benefici se si affiancasse alle cure mediche dermatologiche anche il trattamento psicologico della depressione. È essenziale considerare l’associazione di depressione e psoriasi nella gestione complessiva della malattia.

 

Conclusioni

Le patologie dermatologiche risentono dunque delle dimensioni emotive del soggetto e vari eventi di vita possono determinare un notevole disagio psicologico e ripercussioni emotive soprattutto in soggetti particolarmente sensibili. Alcuni studi hanno dimostrato che l’espressività della patologia dermatologica potrebbe dipendere dalla differente modalità di interpretazione degli eventi e dalla particolare sensibilità allo stress, oltre che da una maggiore difficoltà ad esprimere i propri sentimenti e le emozioni (Savron, Montanaro, Landi & Bartolucci, 2001).

La maggior parte dei pazienti riporta esperienze negative con il personale medico a causa di una cattiva comprensione da parte dei dermatologi degli aspetti psicologici (importantissimi invece per i pazienti) che la psoriasi implica. I pazienti ritengono, infatti, che il personale medico sia insensibile alla loro sofferenza emotiva, che banalizzi la loro condizione e che dia poco tempo alle informazioni specifiche. Molti psoriasici percepiscono i medici come tecnici sanitari che prescrivono loro solo il trattamento adatto alla loro condizione fisica e non tengono conto degli aspetti emotivi o sociali ad essa connessi (Magin et al., 2009).

Feldman, Behnam, Behnam & Koo (2005) ritengono che coinvolgere i pazienti nella gestione della malattia faccia parte integrante del processo di cura, e educare i medici a riconoscere il disagio psicologico potrebbe essere un passo in avanti verso un trattamento di tipo multidimensionale nella cura della Psoriasi (Evers et al., 2005).

Una buona relazione medico-paziente, una buona soddisfazione per il trattamento e per la qualità delle cure ricevute sono associate ad alti livelli di aderenza ai trattamenti (Altobelli, et al., 2012; Ribera, et al., 2011; Gokdemir, et al., 2008; Atkinson, et al., 2004; Renzi, et al., 2002).

Prescrivere terapie in linea con le preferenze del paziente potrebbe migliorare la sua relazione con il personale medico e portare ad un approccio personale ed individualizzato (Bewley & Page, 2011).

Inoltre, per una maggiore compliance bisognerebbe aumentare la consapevolezza del paziente sulla relazione tra psoriasi, disturbi mentali e disagio psicologico (es. abuso di sostanze; Hayes & Koo, 2010).

Il ruolo che lo psicologo potrebbe avere – attuando in questo modo un’effettiva presa in carico globale del paziente – potrebbe svolgersi nell’aiutare il soggetto a riconoscere eventuali cognizioni distorte, percezioni rigide di malattia e strategie di coping disadattive, nonché aiutarlo a fronteggiare le emozioni negative attraverso interventi che spaziano dalla psico-educazione alla vera e propria psicoterapia. Inoltre potrebbe affiancare il medico aiutandolo a curare quegli aspetti comunicativi indispensabili per creare una buona relazione medico-paziente indispensabile per creare una alleanza terapeutica funzionale.

È stato riscontrato, infatti, che i pazienti psoriasici che hanno seguito un approccio integrato (Psoriasis Symptom Management Programme – PSMP: è un programma di gestione di tipo cognitivo-comportamentale) per sei settimane, dopo sei settimane di follow up hanno evidenziato un miglioramento nei sintomi psoriasici, nei sintomi ansiosi e depressivi e nello stress percepito (Fortune et al., 2002).

Christine Bundy ha effettuato una revisione degli interventi psicologici disponibili per le persone  affette da psoriasi. La terapia cognitivo comportamentale condotta a livello individuale, online o in gruppo è sicuramente il trattamento più studiato. È  risultato evidente che una terapia cognitivo comportamentale focalizzata sulle emozioni ha un effetto positivo sulla psoriasi, sullo stress e sulla qualità di vita individuale (Zachariae et al., 1996; Fortune et al., 2002, 2004; Bundy et al., 2013).

Quindi il successo terapeutico si trova in un approccio di valutazione globale del paziente, grazie alla collaborazione dei diversi professionisti  che collaborano per colmare il divario tra la valutazione mentale e fisica nella pratica clinica quotidiana.

La pica: un disturbo dalle voglie alimentari insolite

La pica, anche denominato allotriofagia, è un disturbo del comportamento alimentare caratterizzato dall’ingestione continuata nel tempo di sostanze non nutritive (terra sabbia, carta, gesso, legno, cotone, etc.). L’ingestione di sostanze non alimentari si deve protrarre per un periodo di almeno un mese ed è inappropriata rispetto al livello di sviluppo (generalmente in bambini più grandi di 18- 24 mesi).

Monica Mascolo e Valeria Mancini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI DI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Pica: in cosa consiste

Il termine pica deriva dal latino (gazza), un uccello che si caratterizza per la sua tendenza a rubare oggetti non commestibili e a mangiarli (Iorio, Prisco & Iorio, 2014).

La pica viene inserita nel DSM-5 all’interno della categoria diagnostica dei Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione. Secondo la definizione del DSM-5 i disturbi alimentari sono caratterizzati da comportamenti inerenti l’alimentazione che portano ad un alterato consumo o assorbimento di cibo tali da compromettere significativamente la salute fisica o il funzionamento psicosociale (American Psychiatric Association, 2014).

Spesso sono in comorbilità con altri disturbi psichiatrici come la depressione, l’abuso di sostanze e i disturbi d’ansia. Nei disturbi alimentari sono frequenti le complicanze fisiche che comportano un rischio di morte 12 volte maggiore di quello riscontrabile in soggetti sani confrontabili per età.

La diagnostica della pica non è applicabile a individui appartenenti a culture che accettano tale pratica, a bambini o adulti affetti da disabilità intellettiva, disturbo dello spettro autistico, schizofrenia o altra condizione medica, ad eccezione dei casi in cui il comportamento d’ingestione è sufficientemente grave da giustificare ulteriore attenzione clinica. La sindrome interessa talvolta anche le donne incinte, le quali desiderano cibi inappropriati, come per esempio carne cruda e ghiaccio.

Alla base della pica vi è quasi sempre un’anemia da carenza di ferro, e il disturbo regredisce con la correzione della carenza o, nel caso delle donne incinte, col termine della gravidanza.
Le persone che soffrono di pica potrebbero incorrere nel rischio dell’ingestione accidentale di veleni.
L’ingestione di sostanze bizzarre o inusuali inoltre provocherebbe problemi intestinali, ulcera, infezioni polmonari ricorrenti, anemia, ecc.. (Gupta & Gupta, n.d.).

Tale comportamento è stato osservato con minore frequenza negli uomini rispetto alle donne e sembra diminuire con l’età (Iorio, Prisco & Iorio, 2014), mentre è difficile stabilirne l’incidenza, perché si tratta di un disturbo raro nella popolazione generale.
C’è poca coerenza nella definizione della pica, nella classificazione delle sostanze ingerite, nell’individuazione delle caratteristiche principali dei praticanti, nel consigliare il trattamento, o nei risultati messi in luce (Lacey, 1990).
Quindi, la sistemazione nosografica della pica è incerta e suscettibile di opinioni differenti e poco esplorato appare il profilo psicopatologico.

 

Pica: definizione e criteri diagnostici

Non esiste una definizione univoca di pica, la più utilizzata è quella di Taber (Lacey, 1990), che definisce la pica come un comportamento alimentare che si manifesta con un desiderio di ingerire materiale normalmente non considerato come cibo, ad esempio, l’amido, l’argilla, la cenere, i pastelli, il cotone, l’erba, i mozziconi di sigaretta, il sapone, il legno, la carta, o il gesso. Questa condizione viene riscontrata in gravidanza, nella clorosi, nell’isteria, nell’elmintiasi, e in certe psicosi. L’importanza di questa condizione, la cui causa è sconosciuta, deriva dalla tossicità del materiale ingerito, ad esempio, la vernice che contiene il piombo, o dall’ingestione di materiali al posto di nutrienti essenziali (Clayton, 1985).

Nel DSM-5 la pica è inserita nel capitolo “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione”, mentre in precedenza nel DSM-IV-TR veniva classificata all’interno dei “Disturbi della nutrizione e dell’alimentazione dell’infanzia o della prima fanciullezza”. I criteri del DSM-IV per la pica sono stati rivisti per chiarezza e per indicare che la diagnosi può essere fatta per le persone di ogni età.

Prendendo in considerazione la definizione del DSM-5, la caratteristica fondamentale della pica è la persistente ingestione di una o più sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili per un periodo di almeno un mese (Criterio A), che risulti sufficientemente grave da giustificare attenzione clinica. Di solito le sostanze ingerite tendono a variare con l’età dell’individuo e con la disponibilità delle sostanze stesse, e possono comprendere carta, sapone, stoffa, capelli, lana, terra, gesso, talco in polvere, vernice, gomma, metallo, ciottoli, carbone, cenere, creta, amido o ghiaccio.

E’ stato incluso il termine non commestibile perché la diagnosi di pica non viene applicata all’ingestione di prodotti dietetici che hanno un apporto calorico minimo. Solitamente non vi è avversione per il cibo in generale. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili deve essere inappropriata rispetto allo stadio di sviluppo (Criterio B) e non deve far parte di una pratica culturalmente sancita o socialmente normata (Criterio C). E’ stato suggerito nei bambini un minimo di 2 anni di età per una diagnosi di pica al fine di escludere quel gesto, evolutivamente fisiologico, di portare alla bocca oggetti che possono essere ingeriti. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili può essere una manifestazione associata ad altri disturbi mentali (per es., disabilità intellettiva [disturbo dello sviluppo intellettivo], disturbo dello spettro dell’autismo, schizofrenia). Se il comportamento d’ingestione si manifesta esclusivamente nel contesto di un altro disturbo mentale, si dovrebbe porre una diagnosi separata di pica solo se il comportamento d’ ingestione è sufficientemente grave da giustificare ulteriore attenzione clinica (Criterio D). Si parla di pica in remissione, se successivamente alla precedente piena soddisfazione dei criteri per la pica, i criteri non sono stati soddisfatti per un consistente periodo di tempo (American Psychiatric Association, 2014).

A seconda della sostanza ingerita la pica cambia il suo nome: la geofagia (ingestione di vari tipi di terra), la xilofagia (ingestione di legno), la tricofagia (ingestione di capelli o lana), la litofagia (ingestione di pietre), la acufagia (ingestione di oggetti acuti), la coniofagia (ingestione di polvere), la stactofagia (ingestione di cenere da sigaretta), l’amilofagia (ingestione di amido), etc.

 

Eziologia della pica

Per i bambini, che imparano a conoscere il mondo, mettendo le cose in bocca, la pica è davvero abbastanza comune.
Dal punto di vista evolutivo, i neonati hanno un periodo di crescita in cui mettono in bocca tutto ciò che trovano. Quando un bambino ha superato questo stadio dello sviluppo e comincia improvvisamente a mangiare prodotti non alimentari, ci può essere un problema, in questo caso bisogna individuare la causa ed eliminarla.

Sebbene l’eziologia esatta della pica non è nota, ci sono alcune ipotesi riguardo ad essa: fattori organici, psicodinamici, socioeconomici e culturali. La maggior parte delle ipotesi ha ampiamente accettato argomenti della teoria orientati verso la carenza nutrizionale come causa della pica (Bhatia & Kaur, 2014).

Le teorie presumibilmente dietro la pica quindi sono due: una teoria nutrizionale e una teoria fisiologica. La teoria nutrizionale suggerisce che gli enzimi del cervello che regolano l’appetito, alterati da una carenza di ferro o zinco, innescano voglie specifiche. Tuttavia, gli elementi non alimentari di solito non soddisfano la carenza di minerali nel corpo della persona. La teoria fisiologica dichiara che mangiare l’argilla o la sporcizia contribuisce ad alleviare la nausea, a controllare la diarrea, all’aumento della salivazione, ad eliminare le tossine e ad alterare l’odore o la percezione del sapore durante la gravidanza (Advani, Kochhar, Chachra & Dhawan, 2014).

Le altre cause possono essere la carenza di ferro, zinco, calcio e altre sostanze nutritive (tiamina, niacina, vitamine del gruppo B e C). La pica si presenta in modo variabile nei pazienti affetti da carenza di ferro. Alcuni studi hanno dimostrato che alcuni bambini con carenza di ferro che in correlazione presentavano il disturbo pica, dopo il trattamento con il ferro presentavano remissione del disturbo: in un primo studio Lanzkowsky riferisce la remissione di pica nei bambini in seguito al trattamento con ferro per via intramuscolare (Lanzkowsky, 1959; citato in Ahmed, Gaboli & Attalla, 2015); la remissione da pica è stata dimostrata da MacDonald e Marshall nei bambini con anemia da carenza di ferro quando veniva somministrata la terapia di ferro (MacDonald e Marshall, 1964; citato in Ahmed et al., 2015). In Sudan l’anemia sideropenica è stata osservata nel 50% dei bambini che avevano pica; la pica si è risolta nel 90% di quelli trattati con la terapia di ferro (Altohami AE, Università della Scienza e della tecnologia, il Sudan, comunicazione personale; citato in Ahmed et al., 2015).

La fisiopatologia esatta della sindrome non è nota.
I pazienti consumano elementi insoliti, come l’amido da lavanderia, il ghiaccio e il terreno argilloso. Sia l’argilla che l’amido possono vincolare il ferro nel tratto gastrointestinale, aggravando la carenza. Un drammatico esempio dei problemi prodotti dal consumo di argilla si è verificato nel 1960 con le segnalazioni della carenza di ferro nei bambini lungo il confine tra l’Iran e la Turchia (Say, Ozsoylu & Berkel, 1969; citato in Advani et al., 2014). Questi bambini avevano altre anomalie, tra cui una peculiare massiccia epato-splenomegalia, una scarsa guarigione delle ferite e una diatesi emorragica. Presumibilmente, i bambini avevano inizialmente una semplice carenza di ferro associata a pica, tra cui la geofagia. Il terreno contiene composti che trattengono sia il ferro che lo zinco. La secondaria carenza di zinco è causata dall’epatomegalia e da altre anomalie insolite.

Un’altra causa che può essere associata con questa malattia è l’alto livello di piombo. L’esposizione al piombo è un problema per molti bambini che vivono o sono ospiti per lunghi periodi di tempo in case più vecchie che hanno la vernice a base di piombo. Queste sono state costruite soprattutto prima del 1970 e la vernice al piombo è stata bandita nel 1978. Tuttavia, altre fonti di piombo comprendono alcuni tipi di farmaci e alcuni tipi di ceramiche. L’ingestione di vernice è più frequente tra i bambini appartenenti ad un basso status socioeconomico ed è associata alla mancanza di supervisione da parte dei genitori.

Anche gli eventi traumatici sono associati con lo sviluppo della pica. Eventi comuni che potrebbero causare l’insorgere della pica includono la separazione dei genitori, la negligenza dei genitori, la mancanza d’interazione genitore-figlio e gli abusi sui minori.
Nonostante la grande varietà di teorie, nessuna di loro spiega tutte le forme di pica (Advani et al., 2014).

La pica può avere una base psicologica e può anche cadere nello spettro dei disturbi ossessivo-compulsivi, dove essa assume la forma di un comportamento compulsivo. Le persone con questo disturbo talvolta sviluppano il disturbo come meccanismo di coping (vale a dire la capacità di fronteggiare situazioni difficili). La pica ha una maggiore incidenza nella popolazione umana con una diagnosi di fondo che coinvolge il funzionamento mentale, queste diagnosi sono: condizioni psichiatriche come la schizofrenia, lo sviluppo di disturbi mentali tra cui l’autismo e le condizioni con ritardo mentale. Queste condizioni non sono caratterizzate dalla carenza di ferro, che supporta la componente psicologica nella causa della pica (Firyal, 2007). Le persone con disabilità dello sviluppo hanno questo disturbo a causa della loro incapacità di discriminare i prodotti alimentari e non alimentari.

Le tradizioni culturali e religiose possono anche svolgere un ruolo nel comportamento della pica. In molte zone rurali dell’India, le femmine gravide consumano fango, argilla, cenere, calce, carbone e mattoni in risposta alle voglie. Le sostanze non alimentari si ritiene che abbiano effetti positivi sulla salute e spirituali. Nel Nord dell’India le voglie delle sostanze della pica sono utilizzate come mezzo per predire il sesso del nascituro, se una donna desidera fortemente la cenere, le persone credono che lei avrà una femmina, mentre se desidera fortemente la polvere indica che lei avrà un maschio (Jeffrey, Jeffery & Lion, 1982; citato in Bhatia, Kaur, 2014). Tra alcuni afroamericani del sud, l’ingestione di un particolare tipo di argilla bianca si crede promuova la salute e riduca la nausea mattutina durante la gravidanza (Firyal, 2007).

 

Manifestazioni cliniche

Sebbene in alcuni casi siano stati riferiti deficit di vitamine o di sali minerali (per es. zinco, ferro), spesso non si riscontrano anomalie biologiche specifiche. In alcuni casi, la pica giunge all’attenzione clinica solo in seguito a complicazioni mediche generali: problemi meccanici all’intestino; ostruzione intestinale come conseguenza di bezoario; perforazione intestinale; infezioni come toxoplasmosi o toxocariosi conseguenti all’ingestione di feci o sporcizia; avvelenamento conseguente all’ingestione di vernice a base di piombo (American Psychiatric Association, 2014).

Maravilla e Berk presentano quattro effetti correlati alla pica: (a) la tossicità intrinseca delle sostanze, come avviene nell’intossicazione da piombo; (b) l’impatto fisiologico ostruttivo, come è stato dimostrato con la geofagia, la tricofagia, e la litofagia; (c) le calorie in eccesso, come potrebbe verificarsi con l’amilofagia o qualsiasi sostanza ad alto contenuto calorico; e (d) la privazione calorica, come potrebbe verificarsi con la pagofagia o qualsiasi altra sostanza che è scarsa o vuota di calorie, ma piena di proprietà (Lacey, 1990).

I pazienti con pica che hanno carenza di ferro, mostrano pallore e l’assottigliamento delle unghia che diventano concave e hanno le estremità sollevate, fenomeno noto come il curvamento (a forma di cucchiaio) delle unghie. Le piccole elevazioni sulla lingua possono essere appiattite e si possono avere erosioni superficiali e fessurazioni agli angoli della bocca, che segnalano spesso carenza di riboflavina.

In alcuni casi sono evidenti anomalie dentali come l’abrasione del dente e la perdita dei denti. Masticare pietre e mattoni può portare al logoramento dei denti (Advani et al., 2014). Gli alimenti della pica in genere non possiedono alcun valore calorico. I bambini nati da madri che praticano la pica durante la gravidanza possono avere un basso peso alla nascita, essere prematuri, nascere con anomalie fisiche e persino la morte è segnalata tra questi neonati (Bhatia et al., 2014).

Le complicazioni variano, a seconda del tipo di pica. La geofagia ha potenziali effetti collaterali che colpiscono più frequentemente l’intestino e le budella. Le complicazioni possono includere: costipazione, crampi, dolore, ostruzione causata dalla formazione di una massa indigesta, perforazione da oggetti appuntiti come rocce o ghiaia, e la contaminazione e l’infezione da parassiti terricoli.

L’amilofagia di solito comporta il consumo di amido di mais e, meno frequentemente l’amido di riso. L’alto contenuto calorico dell’amido può causare eccessivo aumento di peso, mentre allo stesso tempo conseguente malnutrizione, dal momento che l’amido fornisce calorie “vuote” mancanti di vitamine e minerali. L’amilofagia durante la gravidanza può simulare il diabete gestazionale nella sua presentazione e anche nei suoi potenziali effetti dannosi sul feto. La pica che coinvolge l’ingestione di sostanze come vernici a base di piombo o carta contenente mercurio può causare sintomi di avvelenamento tossico. Il consumo compulsivo di una sostanza anche apparentemente innocua come il ghiaccio (pagofagia) può avere effetti collaterali negativi, tra cui il diminuito assorbimento dei nutrienti nell’intestino (Dugan, 2006; citato in Firyal, 2007).

Rispetto al funzionamento sociale, la pica raramente è la sola causa di compromissione dello stesso. La pica si verifica spesso insieme ad altri disturbi associati alla compromissione del funzionamento sociale (American Psychiatric Association, 2014).

La pica non può essere diagnosticata mediante un esame, ma dopo una valutazione da parte del medico, sulla base di una serie di fattori.
Potrebbero essere consigliate analisi del sangue e altri esami di laboratorio per accertare un’eventuale carenza di zinco o ferro, poiché queste carenze possono indurre talvolta la pica, ma anche per evidenziare un’anemia sottostante e per accertare le eventuali complicazioni risultanti dalla pica, come infezioni, parassiti, ostruzioni gastrointestinali e avvelenamento.

 

Sviluppo e decorso della pica

L’esordio della pica può verificarsi in età infantile, in adolescenza oppure in età adulta, nonostante sia riportato più comunemente l’esordio in età infantile. La pica può verificarsi in bambini con sviluppo altrimenti normale, mentre negli adulti sembra verificarsi con maggiore probabilità in un contesto di disabilità intellettiva o di altri disturbi mentali. L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili può manifestarsi anche durante la gravidanza, quando possono insorgere desideri incontrollati specifici (per es., gesso o ghiaccio).

La diagnosi di pica, durante la gravidanza, risulta appropriata solo se tali desideri incontrollati portano all’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili nella misura in cui l’ingestione di tali sostanze costituisce un potenziale rischio medico. Il decorso del disturbo può essere protratto e provocare emergenze mediche (per es., ostruzione intestinale, forte perdita di peso, avvelenamento). In base alle sostanze ingerite, il disturbo può essere potenzialmente fatale (American Psychiatric Association, 2014).

 

Prevalenza

I tassi di prevalenza della pica non sono chiari (American Psychiatric Association, 2014).

La prevalenza esatta della Pica è spesso sotto riportata dal momento che molte persone possono essere in imbarazzo ad ammettere queste insolite abitudini alimentari e possono nasconderle ai loro medici. Anche se la pica è osservata a tutte le età e in entrambi i sessi, essa è molto prevalente tra i bambini e le femmine. La pica è considerata non patologica fino a 2 anni di età perché i bambini hanno l’abitudine di esplorare le cose mettendole in bocca.

La pica è anche comunemente osservata nei bambini con disabilità dello sviluppo (ritardo mentale, autismo, etc) (Bhatia & Kaur, 2014). Tra gli individui con disabilità intellettiva, la prevalenza del disturbo sembra aumentare con la gravità della condizione (American Psychiatric Association, 2014). Si riscontra nelle donne durante la gravidanza; tuttavia non ci sono molti studi a riguardo del decorso della pica nel periodo del post partum (American Psychiatric Association, 2014). La geofagia è la forma più comune di pica in persone che vivono in condizioni di povertà (Gupta & Gupta, n.d.).

 

Diagnosi differenziale

L’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili può manifestarsi durante il decorso di altri disturbi mentali (per es., disturbo dello spettro dell’autismo, schizofrenia) e nella sindrome di Kleine-Levin. In questi casi si dovrebbe porre una diagnosi aggiuntiva di pica solo se il comportamento d’ingestione è sufficientemente persistente e grave da giustificare ulteriore attenzione clinica.

  • Anoressia nervosa. La pica può essere distinta dagli altri disturbi della nutrizione e dell’alimentazione in base al consumo di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili. E’ importante notare, tuttavia, che alcune manifestazioni dell’anoressia nervosa comprendono l’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili, come fazzoletti di carta, quale mezzo per tentare di controllare l’appetito. In questi casi, se l’ingestione di sostanze senza contenuto alimentare, non commestibili è utilizzata primariamente come mezzo per controllare il peso, allora la diagnosi primaria dovrebbe essere quella di anoressia nervosa.
  • Disturbo fittizio. Alcuni individui con disturbo fittizio possono ingerire intenzionalmente oggetti estranei come parte del pattern di falsificazione di sintomi fisici. In questi casi, vi è un elemento d’inganno coerente con l’induzione intenzionale di lesioni o malattie.
  • Autolesività senza intenti suicidari e comportamenti autolesivi senza intenti suicidari nei disturbi di personalità. Alcuni individui possono deglutire oggetti potenzialmente dannosi (per es. spilli, aghi, coltelli) all’interno di un contesto di pattern comportamentali disadattivi associati a disturbi di personalità oppure ad autolesività senza intenti suicidari (American Psychiatric Association, 2014).

 

Comorbilità con la pica

I disturbi più comunemente in comorbilità con la pica sono il disturbo dello spettro autistico e la disabilità intellettiva (disturbo dello sviluppo intellettivo); in misura minore, schizofrenia e disturbo ossessivo-compulsivo. La pica può essere associata alla tricotillomania (disturbo da strappamento di peli) e disturbo da escoriazione (stuzzicamento della pelle). Nelle manifestazioni in comorbilità, i capelli o la pelle vengono solitamente ingeriti. La pica può anche essere associata a disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo, soprattutto in individui con una forte componente sensoriale inerente allo loro sintomatologia. Qualora sia noto che un individuo è affetto da pica, la valutazione dovrebbe comprendere la considerazione della possibilità di complicazioni gastrointestinali, avvelenamento, infezioni e deficit nutrizionale (American Psychiatric Association, 2014).

 

Trattamento della pica

La pica regredisce spontaneamente nella maggior parte dei casi. Non esiste un trattamento specifico per questo disturbo.
Il piano di trattamento deve concentrarsi sui fattori che concorrono alla pica e affrontare i problemi psicologici sottostanti (Bhatia & Kaur, 2014). Quindi il medico potrebbe chiedere un consulto psicologico per determinare se il paziente è affetto da disturbo ossessivo-compulsivo o da altri problemi psicologici, che potranno essere risolti con una psicoterapia e opportuni farmaci (Holm, 2012).

Dal momento che la pica può essere acquisita nel contesto culturale, alle persone colpite può essere suggerita la psicoterapia cognitiva-comportamentale (Bhatia & Kaur, 2014).

Una recente ricerca suggerisce che i farmaci migliorando l’attività dopaminergica possono rivelarsi utili. E’ stato dimostrato che gli SSRI sono efficaci.
Eventuali carenze nutrizionali hanno bisogno di essere affrontate e corrette. L’emergenza medica come l’avvelenamento da piombo o l’emergenza chirurgica come l’ostruzione intestinale devono essere trattate di conseguenza (Bhatia & Kaur, 2014).
Esistono alcune conferme scientifiche dell’utilità di un semplice integratore multivitaminico per trattare alcuni di questi casi (Pace & Toyer, 2000; citato in Holm, 2012).

Se la causa è la carenza di ferro o zinco dovrebbero essere dati opportuni integratori. Anche se il solfato ferroso è spesso raccomandato per il trattamento della carenza di ferro, frequenti problemi con il farmaco, tra cui disturbi gastrointestinali, gonfiore e altri disagi, rendono questo inaccettabile per molti pazienti. Il gluconato ferroso, che è approssimativamente equivalente a costo, produce meno problemi ed è preferibile come trattamento iniziale della carenza di ferro. Integratori di acido ascorbico aumentano l’assorbimento del ferro.

 

Conclusioni

La pica è un disturbo relativo alla condotta alimentare, caratterizzato dalla necessità persistente di ingerire sostanze non nutritive per un periodo di almeno 1 mese. Le sostanze ingerite tendono a variare con l’età dell’individuo, i bambini piccoli di solito ingeriscono vernice, intonaco, spago, capelli o tessuto, mentre i bambini più grandi possono ingerire sterco di animali, sabbia, insetti, foglie o ciottoli. Gli adolescenti e gli adulti possono mangiare argilla o terra (American Psychiatric Association, 2000).

La letteratura suggerisce che questo disturbo è un problema comune sia nei bambini che negli adulti.
La pica può essere associata a ritardo mentale, essere causata da un deficit vitaminico o di sali minerali (ferro, zinco, calcio), viene riscontrata nelle donne gravide e in certe società la pica è una pratica culturale e non è considerata patologica. Di solito un individuo giunge ad attenzione clinica solo in seguito a complicanze mediche generali (per es. problemi meccanici all’intestino; ostruzione intestinale come conseguenza di bezoario; perforazione intestinale; infezioni come toxoplasmosi o toxocariosi conseguenti all’ingestione di feci o sporcizia; avvelenamento conseguente all’ingestione di vernice a base di piombo) (American Psychiatric Association, 2014).

La prevalenza esatta della pica è sconosciuta perché il disturbo non viene riconosciuto da chi ne soffre e molte persone sono imbarazzate ad ammettere queste insolite abitudini alimentari ai loro medici. Essa si riscontra più frequentemente nei bambini piccoli e nelle donne. Sono necessari studi più completi circa la prevalenza e l’incidenza di tale disturbo.

Anche l’eziologia esatta di questo disturbo è ancora sconosciuta. Ci sono numerose ipotesi che spiegano il fenomeno, che vanno dalle cause psicosociali a quelle di origine puramente bio-chimica. La maggior parte di esse si orienta verso la carenza nutrizionale come causa.
Considerando che esistono varie spiegazioni della pica, fisiologiche, psicologiche e sociologiche, ed ognuna di esse si concentra su un aspetto particolare di questo disturbo, risulta necessario che i meccanismi di causalità della pica vengano studiati più accuratamente, per arrivare ad una spiegazione esaustiva.

Riguardo al trattamento, non ne esiste uno specifico. La pica regredisce spontaneamente nella maggior parte dei casi. Quando la pica è dovuta alla carenza di sali minerali, può essere superata reintegrando nell’organismo queste sostanze, mentre se è legata a un disturbo psichiatrico, va combattuta insieme alla patologia maggiore.

Le terapie per la pica dovrebbero essere esplorate in modo sistematico per determinare l’adeguatezza e l’efficacia delle risposte farmacologiche, così come delle terapie meno invasive (Lacey, 1990).

L’entità della letteratura sulla pica è così frammentata che è difficile trovare una sintesi precisa di questa condizione. C’è poca coerenza nella definizione della pica, nella classificazione delle sostanze ingerite, nell’individuazione delle caratteristiche principali dei praticanti, nel consigliare il trattamento, o nei risultati messi in luce (Lacey, 1990).

Risulta evidente il bisogno di effettuare ulteriori ricerche, per una completa panoramica di questo disturbo.

Ansia da prestazione musicale: i fattori che incidono sull’ansia dei musicisti

L’ansia da prestazione musicale Music performance Anxiety – è un fenomeno complesso determinato da fattori personali e contestuali che interagiscono dinamicamente tra loro, producendo una pluralità di manifestazioni somatico-comportamentali e vissuti ansiogeni estremamente soggettivi (Kenny, 2011).

Dott.ssa Sarah Ferrando, Dott.ssa Giulia Perasso, Dott. Jacopo De Angelis

 

Ansia da prestazione musicale: in cosa consiste

L’ ansia da prestazione musicale può essere disposta lungo un continuum, che va da una semplice e basilare forma di arousal, in grado di mobilitare le risorse psicofisiche per preparare l’organismo a sostenere al meglio la performance, ad una forma ansiosa più grave con veri e propri attacchi di panico (Hansell & Damour, 2007). In questo caso può conseguire la sospensione di ogni attività concertistica, con grande sofferenza interiore, senso di alienazione e sconfitta per il musicista.

Il fenomeno è caratterizzato da una reazione multidimensionale, somatica, cognitiva e comportamentale, dovuta ad un’iperattivazione del sistema nervoso automatico nel contesto di una performance in presenza del pubblico (Wilson & Roland, 2002). Per questo motivo il DSM – Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (DSM V, 2013) – categorizza l’ ansia da prestazione musicale come un sottotipo di fobia sociale, senza dedicare una specifica sezione a questa particolare declinazione sintomatologica.

L’ ansia da prestazione musicale presenta inoltre un decorso e una severità sintomatologica del tutto soggettiva, imponendo al soggetto una presa di coscienza profonda delle proprie vulnerabilità ed un’interpretazione più autentica e matura dei propri vissuti. Il musicista viene cioè stimolato a sviluppare nuove e funzionali strategie di coping e di regolazione delle emozioni.

Il linguaggio musicale, inoltre, è connotato immaginativamente ed emotivamente. Presenta cioè un contenuto simbolico ed emotivo, che può consentire al musicista l’immedesimazione immediata e inconscia con il suo ritmo, generando una connessione profonda denominata esperienza del “flow musicale” (Wrigley & Emmerson, 2013), che può essere considerata antitesi rispetto alla fenomenologia dell’ ansia da prestazione musicale.

 

Le variabili dell’ansia per la prestazione musicale

Nell’ambito della performance sportiva, la ricerca ha guardato alla comparazione tra ansia da performance in sport di squadra e individuali (Zamani & Morandi, 2009) ed approfondito il rapporto tra ansia e competizione (Horikawa & Yagi, 2012; Parnabas & Mahamood, 2010). Cosa sappiamo invece della performance musicale in connessione col fenomeno ansioso? Dalla letteratura scientifica, si può ricavare una prima panoramica delle variabili indagate con differenti metodologie, laddove, il principale strumento ad oggi utilizzato risulta essere il Kenny Music Performance and Anxiety Inventory – K-MPAI- (Kenny, David & Oates, 2004) e la sua versione per adolescenti, il Music Performance Anxiety Inventory – Adolescents -MPAI-A- (Osborne & Kenny, 2005).

  • Parametri fisiologici. Gruzelier e collaboratori (2013) utilizzando il monitoraggio dei parametri fisiologici che riflettono la variabilità della frequenza cardiaca (HRV), hanno misurato la risposta fisiologica di una pianista professionista durante la performance. Le condizioni di alto e basso stress sono state manipolate incrociando la presenza o assenza del pubblico, con diversi gradi di difficoltà esecutiva del brano. I risultati mostrano come i livelli di stress fluttuino in relazione alla maggior richiesta cognitiva e tecnica del programma, e alla valutazione dell’audience.
  • Difficoltà del compito e genere musicale suonato. Un altro aspetto indagato dalle ricerche sull’ ansia da prestazione musicale è il livello di difficoltà e stress causato dalle richieste del compito e, andando più nello specifico dal margine di improvvisazione consentito, insito nel genere musicale suonato. Nussek e collaboratori (2015) hanno ottenuto risultati interessanti riguardo al possibile sviluppo e decorso dell’ ansia da prestazione musicale. Misurando i livelli dell’ansia in musicisti classici e pop di differenti età, a confronto, i livelli di ansia da prestazione musicale sono risultati più alti per musicisti classici tra i 7 e i 16 anni, rispetto a musicisti più anziani. Per i musicisti pop, gli effetti sono risultati invertiti. Vellers e collaboratori (2015) hanno indagato, invece, l’effetto del genere musicale (rock classico, occidentale, cristiana contemporanea e rock metal) sulla frequenza cardiaca, osservando una correlazione tra aumento dei battiti e massa corporea, tipo di strumento e predominante componente ritmica nella musica, supportando l’ipotesi di un differente impatto cognitivo e somatico del genere musicale.
  • Presenza dell’audience. Quanto può influire la presenza del pubblico sulla performance del musicista in termini di ansia? Uno studio di Shoda e collaboratori (2015) ha indagato se gli artisti riescano a offrire risultati performativi migliori in presenza del pubblico, se sperimentino cioè un effetto facilitante in termini di esposizione sociale. Analizzando i parametri interpretativi della durata ed espressione dinamica nella registrazione di un brano pianistico, rispettivamente con e senza audience, la presenza del pubblico risulta alzare il livello qualitativo ed emotivo dell’esecuzione. Nello stesso tempo, però, l’audience induce i pianisti a ridurre il livello di individualità nelle scelte interpretative per evitare i rischi, preferendo variazioni espressive più contenute. Questo studio risulta essere in linea con la teoria pulsionale di Zajonc (1965), secondo la quale la presenza fisica di membri della propria specie provoca un incremento psicofisiologico che stimola l’attivazione di modelli abituali di comportamento e risposte dominanti. Se funzionali, porta all’effetto di facilitazione sociale, se disfunzionale a quello di inibizione. Inoltre, la presenza sociale favorisce l’esecuzione di compiti più semplici ostacolando invece i compiti complessi. Questo dato potrebbe spiegare la scelta dei pianisti dell’esperimento di Shoda di rinunciare agli aspetti più estremi delle loro scelte interpretative.
  • Attaccamento. Kenny e Holmes (2015) hanno indagato come traumi relazionali dovuti a pattern di attaccamento disfunzionali trovino espressione attraverso sintomi che sottostanno alle più severe forme di ansia per la prestazione musicale (dissociazione, depersonalizzazione, frammentazione del pensiero, sovraccarico cognitivo, somatizzazioni). Kenny ha suddiviso tali sintomatologie in tre sottotipi di ansia per la prestazione musicale: focalizzata, associata ad attacchi di panico e depressione, e quella con fobia sociale. In senso lato, nella genesi dell’ ansia per la prestazione musicale, l’ipereccitazione fisiologica attira l’attenzione del musicista verso le proprie percezioni interne sottraendola sia all’espressività emozionale che alla gestione della performance, compromettendo il processo esecutivo e comunicativo.
  • Personalità. Il rapporto tra personalità dei musicisti e ansia da performance musicale è stato studiato da Patston e Osborne (2015). Gli autori hanno indagato la relazione tra ansia per la prestazione musicale e perfezionismo in età scolare tra studenti di musica, rilevando che esiste una forte e stabile correlazione tra ansia da prestazione musicale e perfezionismo (soprattutto relativo agli errori esecutivi e alle aspettative genitoriali) nella fascia compresa tra 10 e 17 anni, destinata ad aumentare con l’età e l’esperienza, specialmente nel genere femminile, in cui si è registrato un incremento più rapido e intenso.

In conclusione, la natura multidimensionale dell’ ansia per la prestazione musicale, costrutto relativamente recente poiché definito ed operazionalizzato soltanto nel 2002 (Wilson & Roland, 2002), incoraggia svariate future direzioni nell’ambito della ricerca, che considerino variabili cognitive, percettive, descrittive, esperienziali e di personalità.

Il disagio relativo a questa fenomenologia è infatti diffuso e comune a numerosi talenti del panorama musicale contemporaneo e non, quali per esempio Luciano Pavarotti, Ella Fitzgerald, Enrico Caruso, Barbra Streisand, Leopold Godovsky, Artur Rubinstein, Brian Wilson, Vladimir Horovitz, Sergei Rachmaninoff, Glenn Gould e persino Fryderyk Chopin.

In una lettera a Liszt, infatti, quest’ultimo descriveva così il proprio vissuto di ansia da performance musicale:

“Non sono fatto per i concerti. La folla mi fa paura, mi sento paralizzato da quegli sguardi curiosi, ammutolito da quei visi estranei. Dare concerti invece è affare vostro perché se non vincete il vostro pubblico avete tanta forza d’accopparlo.”

Credenze sulle emozioni e regolazione emotiva: un legame orientato da scopi

Recentemente è stato pubblicato un articolo sulla relazione tra credenze sulle emozioni e strategie di regolazione emotiva (Trincas, Bilotta e Mancini, 2016). In generale, ciò che si osserva dai risultati è che le credenze sulle emozioni sono associate a specifici processi di regolazione emotiva.

 

Le convinzioni sulle emozioni possono influenzare le strategie di regolazione emotiva

La rilevanza di questo studio sta nell’osservazione secondo cui il tipo di regolazione emotiva a cui ricorrono le persone può dipendere da come la persona valuta le proprie emozioni e, quindi, dalle convinzioni riguardo alle reazioni emotive. In altre parole, se la regolazione emotiva risulta inefficace non necessariamente ciò dipende da un deficit di regolazione emotiva, piuttosto potrebbe dipendere da specifiche valutazioni attuate dall’individuo, in linea con scopi specifici.

Tale osservazione è in linea con l’attuale prospettiva funzionalista (Philipott, 2013) che riconsidera e disconferma la prospettiva secondo cui la psicopatologia sarebbe caratterizzata da deficit di regolazione emotiva. Piuttosto, mette in luce l’idea che le diverse strategie di Regolazione emotiva non possono essere definite adattive e disadattive a priori, ma vanno considerate sulla base della specifica funzione che svolgono, delle credenze, degli scopi che l’individuo intende ottenere, e del contesto specifico in cui vengono messe in atto (psicopatologico o meno).

Tale prospettiva è sostenuta da diverse evidenze empiriche. Per esempio, vi sono casi in cui la rivalutazione cognitiva può non essere adattiva se comporta l’esclusione di valutazioni realistiche della situazione. Tali valutazioni realistiche potrebbero infatti implicare emozioni negative e risultare sgradevoli, tuttavia potrebbero essere utili da considerare al fine di modificare una situazione negativa. Per esempio, nei borderline la continua rivalutazione positiva di una situazione di abuso potrebbe contribuire al mantenimento dell’abuso (Chapman et al., 2013). Oppure il controllo emotivo, una strategia di Regolazione Emotiva presumibilmente disadattiva, potrebbe essere adattiva in situazioni di urgenza in cui l’azione deve essere eseguita senza l’interferenza di emozioni che potrebbero innescare tendenze all’azione non adatte in quel contesto e inadeguate per il raggiungimento di uno scopo a breve termine (Philippot, 2013). Ancora, l’inibizione della paura o del disgusto potrebbero essere necessarie per fornire una prima assistenza alle vittime gravemente ferite in un incidente d’auto, mentre la spontanea tendenza all’azione innescata da queste emozioni potrebbe essere quella di fuga dalla situazione.

Allo stesso modo, le convinzioni che le persone hanno riguardo alle proprie reazioni emotive possono influire sulla scelta delle strategie da utilizzare per regolarle. A tal proposito, questo studio mette in rilievo diversi risultati. Per esempio, la paura delle emozioni e la convinzione che le emozioni siano incontrollabili, irrazionali e dannose sono associate alla tendenza ad avere reazioni negative secondarie, alla mancanza di consapevolezza emotiva, e a difficoltà a mettere in atto comportamenti diretti ad uno scopo. In particolare, la credenza che le emozioni siano incontrollabili si associa alla tendenza alla ruminazione e all’evitamento emotivo, e a scarsa capacità di accettazione, di rivalutazione cognitiva e di problem-solving.

Inoltre, la paura di specifiche emozioni (umore depresso, ansia, rabbia e emozioni positive) si associa specificatamente a diversi tipi di Regolazione Emotiva. Per esempio convinzioni negative sull’umore depresso e sull’ansia sembrano associate ad un’eccessiva tendenza alla ruminazione e all’evitamento emotivo, e a difficoltà di regolazione emotiva. Mentre il controllo emotivo si associa alla credenza che rabbia ed emozioni positive possano avere conseguenze sul controllo delle proprie azioni, e a difficoltà nel controllo degli impulsi.

 

La regolazione emotiva e comportamentale in funzione dei propri obiettivi e valori

In linea con questi risultati, gli autori ritengono che queste specifiche associazioni possano essere spiegate dall’idea che le persone regolano il proprio comportamento in funzione di specifici obiettivi e valori (Carver e Sheier, 1998), quindi le strategie di Regolazione Emotiva sarebbero orientate da specifici scopi. Per esempio, la ruminazione potrebbe essere vista come un tentativo di trovare una soluzione in risposta alla paura di essere sopraffatto dalla depressione; l’evitamento emotivo potrebbe essere una strategia orientata dalla convinzione che l’ansia sia incontrollabile e motivata dallo scopo di evitare la perdita di controllo. Inoltre, il controllo di emozioni positive o della rabbia potrebbe essere una strategia motivata dalla paura di perdere il controllo di sé e dallo scopo di evitare un giudizio negativo, o di causare un danno ad altri. Questi risultati sono in linea con diverse evidenze empiriche (Campbell-Sills e Barlow, 2007; Papageorgiou e Wells, 2001; Gross e Thompson, 2007).

Un altro risultato interessante è l’associazione tra la tendenza ad avere una reazione negativa secondaria alla propria sofferenza o disagio emotivo, e la credenza che le emozioni siano irrazionali. In altre parole, la convinzione di irrazionalità delle emozioni si associa a sensazioni di colpa, vergogna, imbarazzo e debolezza in reazione alla propria esperienza emotiva. Secondo una prospettiva clinica, se un individuo crede che le emozioni siano irrazionali, possiamo immaginare che l’esperienza emotiva possa essere un evento negativo, perchè potrebbe per esempio portare la persona a giudicarsi come irrazionale. Per cui, tale esperienza potrebbe influire negativamente sul concetto di sè determinando un problema secondario. Questa osservazione sostiene l’idea che le credenze sulle emozioni possono determinare una risposta emotiva secondaria che può mantenere o incrementare la reazione primaria e i conseguenti tentativi di regolazione (Ellis, 2003; Clark e Beck, 2010; Greenberg e Safran, 1990; Hayes et al., 2006).

Considerare un’emozione come pericolosa o inaccettabile, può influire sul modo in cui la persona regola i propri stati emotivi. Per esempio, una persona che soffre di ansia sociale tende a preoccuparsi delle conseguenze negative che la propria ansia potrebbe avere nel contesto sociale; per esempio, si preoccupa di essere considerata una stupida. Da una prospettiva clinica, tale valutazione può essere considerata responsabile della persistenza dell’ansia (problema primario; Clark e Beck, 2010). In linea con ciò, diversi autori sottolineano l’importanza della valutazione secondaria nell’incrementare e mantenere le manifestazioni psicopatologiche.

Per esempio, Ellis (1986) e De Silvestri (1990) ritengono che il giudizio riguardo ad una reazione emotiva o comportamentale può generare una sofferenza ancora maggiore. A tal proposito, un recente studio dimostra che la riduzione del problema secondario attraverso specifiche tecniche cognitive si associa ad una riduzione dell’attivazione psicofisiologica in risposta a stimoli fobigeni di diversa natura (Couyoumdjian et al., 2016).

L’interpretazione dei propri sintomi, inoltre, può portare ad un processo denominato autoinvalidazione ricorsiva (Garnder, Mancini e Semerari, 1988), attraverso il quale si vanno ad intaccare i costrutti centrali legati alla visione di sè; questo processo sembra essere determinante nello sviluppo e nel mantenimento della sintomatologia.

In sintesi, sulla base di questi risultati, si ritiene che le credenze su specifiche emozioni possono influire sulla scelta e sul mantenimento di differenti strategie di Regolazione Emotiva. E’ stato dimostrato che la regolazione del comportamento è orientata da scopi personali e valori (Carver & Sheier, 1998), per cui si ipotizza che lo stesso valga per la regolazione emotiva. Si assume quindi che anche la Regolazione Emotiva sia motivata da scopi personali associati a specifiche credenze. Per esempio, una persona potrebbe voler controllare l’ansia allo scopo di dimostrare di essere forte, o razionale, o capace di gestire le proprie reazioni. Diverse persone possono avere scopi differenti, quindi la stessa strategia di Regolazione Emotiva può risultare adattiva in alcuni casi e disadattiva in altri (Chapman et al., 2013). Si vedano per esempio alcuni studi in cui si osserva come strategie di Regolazione Emotiva considerate adattive (come il reappraisal) siano presenti in misura eccessiva nel Disturbo Borderline di Personalità (Chapman et al., 2013). Questi dati sarebbero in parte contrari all’idea che il DBP sia caratterizzato da deficit di Regolazione emotiva.

Concludendo, questi dati possono avere importanti implicazioni cliniche per l’eziologia e il trattamento dei disturbi mentali, in particolare per le difficoltà di gestione emotiva. Tra l’altro, le credenze sulle emozioni sono oggetto di intervento delle psicoterapie cognitivo comportamentali. Per questi motivi, sarebbe necessario sviluppare studi sperimentali che chiariscano le credenze e gli scopi specifici alla base dei diversi stili di regolazione emotiva al fine di comprendere meglio i meccanismi specifici che orientano la regolazione emotiva.

La personalità rimane davvero stabile nel tempo?

Il più lungo studio prospettico sulla personalità ha mostrato che non sembra esservi alcuna correlazione tra le misurazioni fatte a 14 anni e quelle a 77. È davvero così?

 

Gli studi precedenti dimostrano la stabilità della personalità

Immaginate di essere arrivati all’età di 77 anni e di ricevere la notizia dell’organizzazione di una rimpatriata con i vecchi compagni di scuola che non vedete da quando avevate 14 anni. Ovviamente sarete tutti cambiati molto nel corso del tempo, ma cosa dire a proposito della personalità? In linea di massima saranno tutti rimasti uguali a com’erano all’epoca o, al contrario, saranno irriconoscibili?

Diversi studi presenti in letteratura hanno messo in luce come molti tratti di personalità sembrino presentare una certa stabilità differenziale nel corso del tempo, anche a distanza di decenni. Queste ricerche si sono generalmente occupate dello studio dei diversi tratti di personalità e di come questi si possano modificare nel corso del tempo a partire dall’ adolescenza fino alla mezza età o dalla mezza età fino ad età più avanzate.

Per quanto i tratti di personalità mostrino in media un certo grado di cambiamento nell’arco di vita, l’essere umano sembrerebbe presentare a livello di differenze individuali una sostanziale stabilità (Hampson & Goldberg, 2006; Caspi et al., 2005; Roberts & DelVecchio, 2000).
Ad esempio, Hampson & Goldberg (2006), e successivamente anche Edmonds e collaboratori (2013), hanno rilevato la presenza di stabilità, anche se con differenze a livello dei singoli tratti, per quanto riguarda la personalità valutata nell’infanzia e quella valutata quarant’anni dopo. Per quanto riguarda la personalità in età successive, Leon e collaboratori (1979) hanno valutato diversi tratti (utilizzando l’MMPI, Minnesota Multiphasic Personality Inventory) in un campione di adulti di circa cinquant’anni d’età e, successivamente, hanno correlato quanto emerso con i dati ottenuti con lo stesso campione circa trent’anni dopo, rilevando, ancora una volta, l’esistenza di una sostanziale stabilità nelle misurazioni.

In generale, quindi, sia gli studi riguardanti la prima metà della vita di un essere umano sia quelli riguardanti i periodi successivi, sembrerebbero confermare la presenza di una buona dose di stabilità per quanto riguarda la personalità di ognuno. Sembrerebbe quindi plausibilmente lecito aspettarsi che questo costrutto rimanga stabile, per lo meno in parte, nel corso dell’intero arco di vita, quindi, ad esempio, tra l’adolescenza e la tarda età.

 

La ricerca longitudinale che mette in discussione i risultati precedenti

Recentemente però, Harris e collaboratori dell’università di Edimburgo hanno concluso una ricerca longitudinale, durata più di 63 anni, che suggerirebbe, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare, la presenza di un grado di stabilità quasi nullo per quanto riguarda la personalità intesa in senso generale. Gli autori, infatti, non hanno riscontrato alcuna correlazione tra le misurazioni fatte quando i partecipanti avevano 14 anni e quelle successive, fatte all’età di 77 anni. La personalità nel corso della tarda età sembrerebbe quindi essere decisamente diversa rispetto a quanto non fosse durante l’adolescenza.

Per poter far ciò, gli autori, nel 1950, hanno coinvolto un gruppo di insegnanti, chiedendo loro di valutare la personalità di un totale di 1,208 quattordicenni scozzesi, selezionati a partire da un più ampio campione di persone nate nel 1936, già reclutate dallo Scottish Council for Research in Education (SCRE) per lo Scottish Mental Survey sull’intelligenza, e valutate più o meno annualmente fino all’età di 27 anni (Deary et al., 2009). Più nello specifico, agli insegnanti era stato chiesto di valutare i ragazzi su sei diversi aspetti della personalità (Sicurezza di sé, Determinazione, Stabilità emotiva, Coscienziosità, Originalità e Desiderio di distinguersi) lungo una scala Likert a cinque punti. Comprensibilmente, queste sei caratteristiche non vengono considerate dagli autori una valutazione completa ed esaustiva della personalità, ma anzi, poiché moderatamente correlate tra loro, vengono esaminate come parte di un fattore sovraordinato (a sua volta parte del più generale costrutto “personalità”), definito “Affidabilità” (Deary et al., 2009), comparabile con ciò a cui attualmente si fa riferimento con il termine di “Coscienziosità” (per un approfondimento, cfr. Costa & Widiger, 1994).

Successivamente, poi, nel 2012, gli autori hanno ricontattato 635 dei partecipanti allo studio, dei quali 174 hanno accettato di partecipare ad una nuova valutazione costituita da un insieme di questionari e da un’intervista telefonica (alla quale hanno partecipato solamente in 131) riguardante i test cognitivi precedentemente inviati. Per quanto riguarda la personalità, la valutazione nel follow-up è stata formulata in modo analogo rispetto a quella precedentemente fatta dagli insegnanti. Ai partecipanti è stato inoltre chiesto di completare ulteriori misurazioni riguardanti intelligenza e benessere generale e di coinvolgere un proprio conoscente stretto affinché la valutazione della personalità potesse essere fatta anche in terza persona (affidabilità sé-altri).

Dalle analisi dei dati, al contrario di quanto atteso, è stato possibile rilevare una generale mancanza di correlazione tra le misurazioni raccolte ai 14 anni dei partecipanti e quelle raccolte ai 77, sia per quanto riguarda quelle auto-compilate sia per quelle compilate da terzi. La mancanza di correlazione permane sia considerando i singoli fattori sia considerando il costrutto sovraordinato. In aggiunta, per quanto la variabile Affidabilità sia risultata essere positivamente correlata con l’indice di benessere generale nell’età più avanzata, non è emerso alcun legame tra l’Affidabilità valutata a 14 anni e il livello di benessere successivo. Anche quest’ultimo dato risulta essere discordante rispetto a quanto emerso da studi precedenti che, invece, avevano messo in luce come un maggior punteggio relativo alla coscienziosità fosse associato a maggiori livelli di benessere nei decenni successivi (ad es. Gale et al., 2013).

 

La personalità dell’adolescenza non è conforme a quella dell’età avanzata

Da quanto emerso sembrerebbe quindi non essere poi così inverosimile pensare che la personalità che ci caratterizzerà in età avanzata non avrà praticamente nulla a che vedere con quella caratterizzante la nostra adolescenza. Non a caso, sia l’adolescenza sia la prima età adulta vengono considerati come periodi altamente caratterizzati da sviluppi e modifiche, anche a livello di personalità, e, parimenti, anche la tarda età porta con sé notevoli possibilità di sviluppo. Si può quindi affermare che i partecipanti allo studio abbiano attraversato tutti i principali momenti di cambiamento, compresi gli aggiustamenti più fini e sfumati a livello di personalità che possono avvenire lungo tutto l’arco di vita.

Gli autori concludono quindi che più tempo si lascia passare tra due diverse misurazioni della personalità e minore sarà la relazione tra di essi, fino ad arrivare ad un momento in cui, superati i 63 anni di distanza, la relazione può addirittura divenire nulla.

 

I limiti della ricerca

Per quanto i risultati dello studio di Deary e collaboratori (2016) possano essere interessanti e degni di nota, soprattutto perché in direzione contraria rispetto a quanto ci si aspetterebbe sulla base degli studi precedentemente svolti sul tema, però, sarebbero sicuramente necessarie ulteriori conferme in merito. È infatti possibile muovere qualche critica nei confronti del disegno sperimentale che potrebbe, per lo meno in parte, minare l’affidabilità di quanto ottenuto dagli autori.

Ad esempio, se da un lato l’aver considerato uno span temporale così vasto possa sicuramente essere un valore aggiunto alla ricerca, dall’altro non si può non pensare al fatto che in più di sessant’anni le teorie riguardanti la personalità siano profondamente cambiate. A tal proposito, la comunità scientifica attualmente ritiene, quasi in modo unanime, che la personalità possa essere concettualizzata al meglio facendo riferimento al Five Factor Model, che definisce il costrutto come formato da cinque diversi tratti. All’inizio della ricerca di Harris e collaboratori negli anni ’50, però, questo modello non era ancora stato formulato e questa mancanza potrebbe plausibilmente spiegare il perché dell’assenza di correlazione emersa tra le misurazioni: se la valutazione fosse stata fatta in modo meno superficiale e più completo, con riferimento a teorie più recenti ed accreditate, forse sarebbe potuto emergere qualche legame.

Inoltre, la valutazione iniziale fatta dagli insegnanti potrebbe essere solo parzialmente veritiera e affidabile, dal momento che gli insegnanti conoscono un singolo aspetto della vita dei propri alunni, quello accademico (non a caso, la valutazione fatta è risultata correlare in modo significativo con gli indici di intelligenza). Infine, anche l’alto grado di drop out riscontrato all’interno del campione potrebbe aver contribuito alla creazione di un esito falsamente negativo.

Alla luce delle limitazioni riscontrate a livello metodologico, si può affermare che i dati siano nel complesso, per quanto interessanti, di difficile interpretazione e che quindi sia sicuramente necessario svolgere ulteriori indagini, più controllate e attendibili, prima di poter concludere che la personalità sia o meno stabile nel corso del tempo.

Degno di nota, però, è infine uno studio svolto da Milojev & Sibley (2014) in Nuova Zelanda, che, valutando la personalità attraverso il Five Factor Model (con l’aggiunta di un sesto tratto, Onestà-Umiltà), ha permesso di identificare come effettivamente nel corso di vita (tra i 20 e gli 80 anni) si vada incontro a notevoli variazioni nella stabilità dei diversi aspetti della personalità, raggiungendo il massimo della stabilità durante la mezza età e declinando verso l’età più avanzata. Cercando di guardare oltre le limitazioni dello studio di Harris e collaboratori, quindi, la mancanza di correlazione tra le due valutazioni della personalità potrebbe forse essere almeno in parte spiegata dalla mancanza di stabilità che caratterizza le due fasce d’età considerate.

I nuovi Webinar dell’Ordine Psicologi Lombardia

Diagnosi terminabile o interminabile – Le matrici culturali della diagnosi

Dialogo con Pietro Barbetta

Dia-gnosis, sembra significare un attraversamento, una “conoscenza tra”, in inglese c’è un termine intraducibile: in-between. La diagnosi in questo senso implica l’abbandono di una stato di sicurezza per entrare in un indagine di sé che comporta il dubbio, la cura di sé. Questo il senso della diagnosi in psicologia. In medicina la diagnosi è invece una procedura per trasformare i sintomi in segni che compongano un quadro diagnostico già conosciuto, sul quale agire attraverso una cura. Non c’è dunque un solo significato di “diagnosi”, si tratta di un termine polisemico. Sarebbe un errore contrapporsi alla concezione diagnostica medica, al contrario si tratta di riconoscere che l’evidence based medecine ha portato enormi vantaggi alla cura/prevenzione delle malattie più gravi.

Tuttavia la psicologia e la psicoterapia usano il termine diagnosi con un significato differente, si richiamano cioè al senso originario del termine: conoscere attraverso, abbandonare la conoscenza di sé per praticare la cura di sé.

Per questa ragione da oltre vent’anni lavoro sui molteplici significati della diagnosi in un campo, quella della psicoterapia, dove la diagnosi non può che essere terreno di condivisione e non sfocia necessariamente in una categoria prestabilita. In altri termini, le stesse categorie diagnostiche sono prodotti storico-culturali collocati nel tempo. Dall’antica Melanconia del genio, così bene rappresentata da Dürer, ai contemporanei “spettri” che si aggirano per il DSM-5.

 

Pietro Barbetta, psicologo e psicoterapeuta, è direttore del Centro Milanese di Terapia della Famiglia, insegna Teorie psicodinamiche all’Università di Bergamo, membro di World Association for Cultural Psychiatry (WACP) e di International Society for Psychological and Social Approach to Psychosis (ISPS), tiene seminari presso altre Scuole di specializzazione in psicoterapia a orientamento psicoanalitico e sistemico ed è autore della rubrica “clinica” per Doppiozero. Ha lavorato in vari paesi europei, nord e sudamericani. Ha curato Le radici culturali della diagnosi (Meltemi, Roma) e, con Enrico Valtellina, Louis Wolfson Cronache da un pianeta infernale (manifestolibri, Roma). Ha scritto Anoressia e isteria (Cortina, Milano), Figure della relazione (ETS, Pisa), Lo schizofrenico della famiglia (Meltemi, Roma), I linguaggi dell’isteria (Mondadori Università, Milano), Follia e creazione (Mimesis, Milano), La follia rivisitata (Mimesis, Milano).

 

COME PARTECIPARE?

Iscrivetevi per assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo il 14 Marzo alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/5672283011997589761 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per problemi o informazioni scrivere a [email protected]

BROCHURE – Webinar Barbetta

 


Prendersi cura delle persone omosessuali – Tra ideologie riparative e valori affermativi

Relatore: Dott. Jimmy Ciliberto

Nonostante i manuali diagnostici internazionali abbiano espunto l’omosessualità dal novero dei disturbi mentali da decenni, ancora molti – troppi –psicologi e psicoterapeuti continuano a considerarla come una patologia, il sintomo di uno sviluppo disfunzionale o, alla meglio, un orientamento sessuale non patologico, ma comunque meno desiderabile di quello eterosessuale.

Durante l’incontro cercheremo di delineare alcune linee guida che, a prescindere dall’orientamento teorico di riferimento, sono fondamentali per potersi muovere all’interno del paradigma scientifico – che dovrebbe fungere da cornice condivisa – nell’ottica di una posizione che garantisca l’accoglienza della domanda e l’aderenza ad una pratica scientifica. A partire da una chiarificazione dei costrutti di base, e con un continuo riferimento alla pratica clinica e non, evidenzieremo le differenze tra ideologie riparative e valori affermativi.

 

Jimmy Ciliberto è psicologo e psicoterapeuta sistemico relazionale, didatta del Centro Milanese di Terapia della famiglia, Coordinatore Redazionale della Rivista Connessioni, Membro del Consiglio Direttivo della Società Italiana di Ricerca e Terapia Sistemica, Socio Fondatore e Vice Presidente della Società Italiana per lo Studio delle Identità Sessuali. Da anni, tra i suoi ambiti di approfondimento, si occupa del tema delle identità sessuali, dal punto di vista della riflessione teorica e clinica. Tra le sue pubblicazioni “Curare i gay? Oltre l’ideologia riparativa dell’omosessualità” (con Rigliano, P. e Ferrari, F.), Omosessualità: dal conflitto inter-gruppi al conflitto intra-individuale. Riflessioni per una risoluzione sistemica (con Rigliano, P. e Ferrari, F.); Eterosessismo e omofobia in psicoterapia: il Modello di Milano (con Ferrari, F.); Internalized Homophobia, Identity Dynamics, Gender Typization. Hypothesizing a Third Gender Role (con Ferrari, F.

 

COME PARTECIPARE?

Iscrivetevi ad assistere dal vivo attraverso il modulo apposito, vi aspettiamo l’11 APRILE alle 20.45 presso la Casa della Psicologia in Piazza Castello 2 a Milano.

Se volete partecipare online iscrivetevi cliccando sul seguente link https://attendee.gotowebinar.com/register/1219720515564015617 e collegatevi alle 21.00 sulla piattaforma gotowebinar di OPL.

Per problemi o informazioni scrivere a [email protected]

BROCHURE – Webinar Ciliberto

Il trattamento dei disturbi dissociativi e di personalità – Recensione di Saverio Ruberti

Antonella Ivaldi approfondisce in modo lucido e competente le difficoltà che ogni clinico incontra nella cura dei gravi disturbi di personalità, proponendo un modello d’intervento fondato sull’attenzione alla qualità del rapporto con il paziente.

Dott. Saverio Ruberti

 

La prospettiva psicoanalitica e quella cognitivo-evoluzionista in un’ottica di integrazione

L’autrice prende le mosse, nei primi capitoli, da un approfondimento teorico delle motivazioni psicologiche alla relazione, confrontando i due principali paradigmi scientifici attuali sul tema dei sistemi motivazionali: quello psicoanalitico di Joseph Lichtenberg e quello cognitivo-evoluzionista di Giovanni Liotti. La descrizione delle due prospettive e il confronto fra esse vengono affidati anche a questi stessi autori che le hanno concepite e formalizzate, i quali contribuiscono alla stesura del terzo capitolo del volume.

Tale scelta fa raggiungere alla prima parte del libro, dedicata ai fondamenti teorici dell’intervento, un livello particolare di completezza e chiarezza. Vengono infatti trattati temi di psicologia evoluzionistica e di etologia umana che, per quanto centrali per la comprensione delle dinamiche cliniche, raramente sono approfonditi nei testi di psicoterapia. Il confronto fra le prospettive scientifiche di Lichtenberg e Liotti, fra l’altro, fa comprendere quanta riflessione congiunta e sinergia possa essere raggiunta fra ottiche differenti quando ciascuno assume una posizione di interesse scientifico genuino per le posizioni dell’altro, senza inutili agonismi e contrapposizioni di “scuola” e senza nemmeno scadere nell’eclettismo superficiale e approssimativo. Questo aspetto è prezioso nel nostro periodo storico, in cui soltanto un impegno di ricerca rigoroso e coordinato fra approcci psicoterapeutici diversi può aiutarci a comprendere i reali punti di forza e di efficacia della psicoterapia, aiutandola a conquistare la dignità scientifica e gli strumenti concettuali adeguati per fronteggiare le frequenti sopravvalutazioni dell’efficacia delle cure (quasi) esclusivamente farmacologiche. Il libro di Antonella Ivaldi costituisce un contributo potente in questa direzione.

 

I pazienti difficili, il vissuto traumatico e l’attaccamento disorganizzato

La parte centrale del volume si sofferma sulle importanti criticità relazionali dei cosiddetti pazienti difficili, le stesse che compromettono drammaticamente le loro vite e di frequente ostacolano il percorso di cura, rendendo straordinariamente faticoso il lavoro del terapeuta. Le radici di quelle difficoltà vengono ricercate con attenzione nelle storie di sviluppo traumatico e attaccamento disorganizzato che molto spesso si ritrovano nelle vite di quei pazienti, e nelle correlate problematiche cliniche di dissociazione, impulsività, disregolazione emotiva e deficit metacognitivi.

In quest’ottica, prende progressivamente corpo un ampio riesame del tema del trauma nei suoi aspetti psicologici, relazionali e anche psicofisiologici. Viene inoltre sviluppato questo argomento verso una dimensione più clinica, descrivendo come le più recenti teorie sul trauma abbiano influenzato i sistemi diagnostici e i vari modelli d’intervento. Fra questi vengono esposti quelli di provata efficacia e più tesi a valorizzare le componenti relazionali del processo terapeutico, indipendentemente dall’orientamento cognitivo-comportamentale o psicodinamico.

 

Il modello RE.MO.TA relazionale e multi-motivazionale

Nell’ultima sezione del volume si entra ulteriormente nel vivo del trattamento e dell’operatività clinica e viene proposto un originale modello clinico d’intervento, che Antonella Ivaldi ci descrive a partire dal racconto delle sue esperienze cliniche e di ricerca che  glielo hanno fatto concepire e formalizzare.

Il modello, che la Ivaldi definisce relazionale/multi-motivazionale, porta il nome di RE.MO.TA, acronimo dell’espressione relational/multi-motivational therapeutic approach. Prevede l’utilizzo e l’integrazione armonica di diversi indirizzi teorici, realizzata in un contesto di lavoro privato e ambulatoriale che consenta al terapeuta di raccordarsi con le risorse disponibili dei pazienti: sociali e familiari.

Il processo di RE.MO.TA si sviluppa in un percorso di co-terapia in cui si alternano una fase di terapia individuale (centrata sulla cura dell’alleanza terapeutica e sul lavoro con le emozioni attraverso l’empatia e l’attenzione alla comunicazione corporea) e una fase di terapia di gruppo. Con questa modalità l’autrice cerca di costruire una continua dialettica tra i singoli e l’insieme. Normalmente l’intervento inizia con la sola terapia individuale e si conclude con il solo trattamento di gruppo, mentre lo stesso terapeuta partecipa a entrambi i momenti. Alcune pagine delineano e documentano in modo chiaro, sia sul piano scientifico sia su quello dell’esemplificazione clinica, con quali dinamiche il passaggio dal setting individuale a quello di gruppo promuova le capacità riflessive e metacognitive del paziente.

Nelle sue considerazioni sull’efficacia dell’intervento di gruppo Antonella Ivaldi descrive e valorizza la predisposizione innata all’affiliazione, ripercorrendone la storia di sistema motivazionale in passato talvolta trascurato (a differenza dei più citati sistemi d’attaccamento e della cooperazione fra pari) nella sua funzione adattiva e nel suo ruolo generativo di sicurezza sociale e benessere relazionale. In quest’operazione l’autrice traccia un breve ma chiarissimo excursus storico che parte dal lavoro di Trigant Burrow, il quale già negli anni ’20 parlava di tendenza primaria aggregativa, e arriva fino al più recente e straordinario contributo di Michael Tomasello sull’ultrasocialità umana.

 

Conclusioni: un libro di approfondimento sulle recenti acquisizioni scientifiche

Non manca, nella parte finale del lavoro, una bella riflessione di Giovanni Fassone sulla valutazione dell’efficacia dei vari modelli d’intervento, che mette in luce la sua importanza ma al contempo ne sottolinea la complessità, segnalando la grande difficoltà a produrre in psicoterapia disegni sperimentali realmente corretti e rigorosi.

In sintesi, il libro di Antonella Ivaldi affronta in modo chiaro e diretto i problemi fondamentali della psicoterapia contemporanea, armonizzando l’approfondimento delle acquisizioni scientifiche più recenti con le problematiche tecniche dell’intervento. In esso si avverte costantemente un’autentica integrazione fra il “sapere” dell’autrice (la sua solida conoscenza scientifica) e il suo “saper fare” (la sua concreta competenza professionale).

Ne deriva un’opera che accompagna con grande equilibrio il lettore nella comprensione di un capitolo complesso della psicopatologia, facendolo muovere più volte dalla dimensione teorica a quella clinica (e viceversa), attraverso continue esemplificazioni e descrizioni di casi, descritti fra l’altro con grande sensibilità, che rendono semplici da capire anche i passaggi teorici più delicati.

Il libro sa rivolgersi a clinici differenti, sia in termini di orientamento sia in termini di maturità ed esperienza: l’allievo in formazione vi troverà un’esposizione chiara dei princìpi e delle tecniche dell’intervento su disturbi difficili da curare, per il terapeuta esperto rappresenterà un’occasione preziosa di aggiornamento e arricchimento.

Curare l’insonnia con la terapia cognitivo comportamentale

La terapia cognitiva comportamentale dell’ insonnia (Cognitive-Behaviour Therapy for Insomnia – CBT-I) è la terapia non farmacologica più indicata per favorire la riduzione dei sintomi dell’ insonnia cronica. La terapia cognitivo comportamentale migliora il sonno nel 75-80% dei soggetti con insonnia e favorisce nel 90% dei casi la riduzione o l’eliminazione dell’uso di farmaci ipnoinducenti. Si tratta di un intervento psicologico strutturato che integra diverse tecniche di significativa efficacia secondo le moderne ricerche sperimentali e, diversamente dai trattamenti farmacologici, non ha effetti collaterali e mantiene il miglioramento dei sintomi nel tempo.

 

 

L’ insonnia come sindrome da sforzo di addormentamento (“sleep effort syndrome”)

L’Organizzazione Mondiale della Sanità definisce l’ insonnia come un disturbo dell’addormentamento e della continuità del sonno oppure come un sonno non ristoratore presente per almeno tre notti alla settimana, associati a sensazioni di fatica, stanchezza o inefficienza diurna (WHO, 1992).
Quando l’ insonnia ha una durata inferiore a un mese è definita acuta e generalmente è considerata transitoria perché è causata da fattori precipitanti ben definiti come eventi di vita stressanti, patologie algiche acute o uso di sostanze (Perlis et al., 2012).

La terapia cognitivo comportamentale è particolarmente indicata per il trattamento dell’ insonnia cronica, che è invece caratterizzata da sintomi che perdurano per più di un mese, tipicamente per sei mesi o più (Perlis et al., 2012).

Secondo il Modello dei tre fattori di Spielman e colleghi (1987a) l’ insonnia tende a cronicizzarsi in relazione alla combinazione di più fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti.

I fattori predisponenti comprendono fattori biologici (elevati livelli di arousal), psicologici (tendenza ad essere eccessivamente rimuginativi) e sociali (abitudini di sonno del compagno di letto, pressione sociale o orari lavorativi).

I fattori precipitanti comprendono tutti gli eventi di vita che possono scatenare un quadro d’ insonnia acuta. Alcuni esempi sono l’insorgenza di una malattia medica o psichiatrica, eventi vitali stressanti, modificazioni nello stile di vita o nel lavoro.

Infine i fattori perpetuanti comprendono le credenze negative sul proprio sonno, la paura e l’ansia rispetto al pensiero di non riuscire a dormire e quei comportamenti disfunzionali messi in atto per compensare l’ insonnia ma che non fanno altro che mantenere il problema. Ad esempio l’uso di alcool, effettuare sonnellini o estendere il tempo trascorso a letto. Ognuna di queste strategie può avere un effetto positivo a breve termine ma ha effetti negativi a lungo termine.

L’alcool può aiutare nella fase di addormentamento ma favorisce il rischio che si verifichino risvegli mattutini precoci. La tendenza ai sonnellini durante il giorno può incrementare il quantitativo di sonno ottenuto durante le 24 h ma potrebbe favorire un sonno superficiale durante la notte. Estendere le ore di sonno potrebbe incrementare le opportunità di dormire ma allo stesso tempo incrementa il tempo che si trascorre a letto in uno stato di veglia e ciò può favorire un sonno frammentato e un’ insonnia favorita da condizionamenti ambientali (Perlis et al., 2012).

Molte persone imparano a convivere con le conseguenze dell’ insonnia applicando tali “strategie di compensazione”, comportamenti che al momento possono sembrare benefici ma che a lungo termine favoriscono il mantenimento del disturbo. Ognuno di questi comportamenti rappresenta lo sforzo da parte degli insonni di incrementare le possibilità di dormire ma sembrerebbe che sia proprio tale sforzo a mantenere l’ insonnia.

La cosiddetta “sleep effort syndrome” (la sindrome da sforzo di addormentamento) è causata dalla preoccupazione per il sonno, cui seguono tutti i comportamenti disfunzionali con cui si cerca di controllare il sonno stesso, come cercare di dormire ad ogni costo (Morin & Espie, 2003). Il sonno è un processo fisiologico involontario, per cui tutti i tentativi di tenerlo sotto controllo non fanno che peggiorare i quadri d’ insonnia, determinando una disregolazione dell’omeostasi del sonno. Ciò favorisce un peggioramento della continuità del sonno determinando un allungamento della Latenza di Sonno (tempo di addormentamento) e un incremento del Tempo di Veglia Infrasonno (Perlis et al., 2012).

Per tale motivo la terapia cognitivo comportamentale si rivela così efficace con i soggetti insonni, in quanto non mira unicamente a favorire un aumento del tempo totale di sonno o a ridurre la latenza del tempo di addormentamento, ma piuttosto permette di modificare le credenze errate sul sonno e i comportamenti disfunzionali associati che fungono da fattore di mantenimento del disturbo stesso.

La terapia cognitivo comportamentale in dettaglio

I protocolli di trattamento della terapia cognitivo comportamentale descritti in letteratura (Perlis et al., 2012, 2015) si svolgono nell’ambito di 6-8 sedute che prevedono una fase di Valutazione Iniziale, in cui si valutano mediante questionari alcune caratteristiche psicologiche e comportamentali della persona che soffre di insonnia e la si sottopone a esami strumentali come la polisonnografia, la fase di Terapia cognitivo comportamentale vera e propria ovvero l’utilizzo integrato di diverse tecniche (interventi psicoeducativi cognitivi e comportamentali) e una fase di Valutazione Finale dove si analizzano i guadagni della terapia cognitivo comportamentale e si discute sulla prevenzione delle ricadute.

Le sedute hanno la durata di 30-90 minuti in base alla fase del trattamento della terapia cognitivo comportamentale e possono essere svolte in gruppo individualmente o combinando i due approcci.

È consigliabile iniziare con i primi 2 o 3 incontri individuali, dedicare invece le sedute intermedie ad un approccio di gruppo e infine le ultime fasi della terapia cognitivo comportamentale nuovamente ad un approccio individuale.

Valutazione Iniziale

Alcune delle scale di autovalutazione dei disturbi del sonno che possono essere somministrate sono le seguenti:

Insomnia Severity Index (ISI), che valuta la gravità dell’ insonnia (Morin, 1993).
Sleep Hygiene Practice Scale (SHPS), che valuta l’indice di igiene del sonno (Lacks, 1987).
Pittsburgh Sleep Quality Index (PSQI), che valuta l’indice della qualità del sonno ovvero la gravità globale dei disturbi del sonno (Buysse et al., 1989).
Epworth Spleepiness Scale (ESS), che valuta la sonnolenza diurna (Johns, 1991).
Dysfunctional beliefs and Attitudes about Sleep (DBAS), che valuta la presenza di credenze disfunzionali sul riposo notturno (Coradeschi et al., 2000).

In questa fase è fondamentale eseguire anche una registrazione poligrafica dinamica del sonno (polisonnografia) della durata di 24 o 48 ore. La polisonnografia (PSG) infatti fornisce una misurazione obiettiva dei disturbi del sonno e quantitativa dell’attività cerebrale e somatica durante il sonno non ottenibile con altre tecniche di studio del sonno.

Inizio della terapia cognitivo comportamentale

Nell’ambito della prima seduta di terapia cognitivo comportamentale, il terapeuta presenterà al paziente i risultati della polisonnografia e dei test di autovalutazione somministrati in precedenza.

Successivamente verrà raccolta la storia clinica del paziente che sarà poi istruito alla compilazione dei diari del sonno, in modo da registrare i propri sintomi per un periodo di una o due settimane. Al paziente verrà applicato inoltre un actigrafo al polso da indossare nel medesimo periodo, uno strumento che, attraverso la registrazione dell’attività motoria, può individuare se il paziente è in fase di veglia o di sonno. È importante confrontare queste due diverse tipologie di registrazione perché l’actigrafo offre una visione obiettiva della continuità del sonno che paragonata alla descrizione soggettiva del paziente (diari del sonno) consente di individuare la presenza del Disturbo da Mispercezione del Sonno (una condizione in cui il soggetto pensa di non dormire).

Attraverso l’uso di un diario del sonno (o dell’actigrafo) si possono valutare tutte le variabili di continuità del sonno come la Latenza del Sonno (LS), il Numero di Risvegli Notturni (NR), il Tempo di Veglia Infrasonno (TVI) e il Tempo Totale di Sonno (TTS), che consentono al clinico di avere una misura quotidiana della severità dell’ insonnia del paziente e di identificare quei comportamenti che la mantengono (Perlis et al., 2012).

Durante questa prima seduta, sarà necessario effettuare un inquadramento diagnostico più ampio che tenda a valutare anche la presenza di disturbi d’ansia e dell’umore o di altri disturbi psicologici che possono determinare i problemi del sonno. Il terapeuta, se lo riterrà necessario, potrà somministrare ulteriori test utili alla valutazione dell’ansia e della depressione o della personalità.

Alcuni dei test utilizzati per valutare la presenza di disturbi d’ansia e dell’umore o di altri disturbi psicologici sono:

Beck Depression Inventory (BDI), che valuta la presenza di disturbi depressivi (Beck et al., 1961).
State Trait Anxiety Inventory (STAI) che valuta la presenza di disturbi d’ansia (Spielberger, Gorsuch, Lushene, Vagg, & Jacobs, 1983).
Millon Clinical Multiaxial Inventory- III (MCMI-III), che indaga i profili di personalità (Millon, 1997).
Symptom Checklist-90-R (SCL-90-R), che valuta un ampio spettro di problemi psicologici e di sintomi psicopatologici (Derogatis, 1994).

Infine il clinico descriverà in dettaglio il protocollo, la metodologia della terapia cognitivo comportamentale e il programma relativo.
Nelle sedute successive mantenendo un atteggiamento collaborativo ed empatico, terapeuta e paziente lavoreranno insieme applicando differenti tecniche, seguendo l’ordine qui descritto, integrandole man mano che si procede, o anche riservando particolare importanza ad alcune piuttosto che ad altre al fine di individualizzare l’intervento.
In questa sede sono riportate le tecniche più utilizzate descritte in letteratura:

Tecnica del controllo dello stimolo

La Tecnica del Controllo dello Stimolo (SCT) è indicata per il trattamento dell’ insonnia acuta e cronica (Perlis et al., 2015).
Il razionale della SCT, descritta per la prima volta da Bootzin (1972), deriva dalle teorie dell’apprendimento in cui l’addormentamento viene concettualizzato come un comportamento strumentale all’ottenimento di un rinforzo positivo (ad esempio il sonno) (Bootzin, 1977; Bootzin et Nicassio, 1978). Segnali esterni e interni all’individuo associati all’addormentamento diventano stimoli discriminativi per l’ottenimento di un rinforzo (Blampied et Bootzin, 2012). Di conseguenza le difficoltà nell’addormentamento potrebbero essere legate a un inadeguato controllo di tali stimoli (Perlis et al, 2015).

Risultano importanti inoltre fattori legati al condizionamento pavloviano secondo cui risposte emozionali si possono associare a determinate situazioni stimolo. Il letto e la camera possono così diventare segnali che elicitano stress e frustrazione legata ai tentativi fallimentari di prendere sonno (Bootzin et Nicassio, 1978).

D’altro canto stimoli interni come l’iperattività cognitiva, l’ansia anticipatoria e l’arousal psicofisiologico, possono divenire essi stessi segnali per un ulteriore incremento del livello di attivazione e quindi esacerbare le difficoltà del sonno (Bootzin e Epstein, 2000).
Obiettivo primario di questa seduta è quello di descrivere al paziente l’approccio SCT, la sua efficacia e fornirgli una panoramica del programma.
In questa seduta è prevista anche una componente psicoeducativa in cui si spiega al paziente la teoria del modello dell’ insonnia e le sue caratteristiche.

Sarà inoltre presentata al paziente una lista d’istruzioni previste dalla SCT e ognuna di queste sarà discussa insieme al terapeuta. Si tratta di istruzioni comportamentali (non sempre di facile intuizione per i non esperti in materia) che la persona che soffre di insonnia quasi certamente non rispetta, soprattutto perché non conosce le conseguenze delle strategie compensatorie che al contrario ha sempre messo in atto e che nel qui e ora apportano un beneficio. Difatti le istruzioni suggeriscono di andare a letto solo quando si avverte sonnolenza allo scopo di imparare gradualmente a riconoscere i segnali di sonnolenza che provengono dal corpo (senza andare a letto indipendentemente da ciò). Altra indicazione è quella di utilizzare il letto e la camera da letto solamente per dormire o per le attività sessuali, evitando altri tipi di attività, in modo da rafforzare l’associazione letto-camera e sonno e attenuare quella tra letto-camera e insonnia (per tale motivo ogni attività diversa va effettuata in un’altra camera). Se ci si accorge di non riuscire ad addormentarsi per più di 10-15 minuti è molto importante non rimanere nel letto. È quindi necessario alzarsi e recarsi in un’altra stanza e svolgere attività piacevoli come guardare un film o leggere un libro (non c’è alcun divieto a lasciarsi coinvolgere troppo nelle attività mentre si è svegli durante la notte, bisogna però fare attenzione al problema dell’esposizione alla luce che può provocare degli spostamenti di fase). Infine le ultime due istruzioni della SCT suggeriscono di impostare la sveglia mattutina sempre allo stesso orario indipendentemente da quanto si è riusciti a dormire la notte precedente (per regolarizzare il ritmo circadiano) e di non effettuare sonnellini durante il giorno (il razionale è quello di utilizzare la deprivazione di sonno legata alla notte precedente, per incrementare la spinta omeostatica al sonno e rendere più rapido l’addormentamento la notte successiva).

È evidente dunque come la SCT si proponga di rafforzare l’associazione tra letto, camera e il processo di addormentamento, indebolendo il legame tra tali stimoli ambientali e i comportamenti caratterizzati dall’elevazione dell’arousal. Obiettivo ulteriore risulta quello di ripristinare i ritmi sonno-veglia allo scopo di mantenere i miglioramenti ottenuti (Bootzin et al., 2010).

Tecnica della restrizione del sonno

La Tecnica della Restrizione del Sonno (SRT) è indicata per i disturbi dell’addormentamento e del mantenimento del sonno (Perlis et al., 2015).
La SRT ha lo scopo di restringere il tempo che il paziente trascorre a letto (TTL) aumentando la spinta omeostatica al sonno, attraverso uno stato di parziale deprivazione di sonno, regolarizzando e risincronizzando allo stesso tempo il ritmo sonno-veglia.
Il TTL dovrebbe così arrivare a coincidere con il Tempo Totale di Sonno (TTS).

Per raggiungere tale obiettivo il clinico lavora con il paziente per stabilire un orario specifico di risveglio mattutino e per spostare in avanti l’orario di recarsi a letto in modo da far coincidere il TTL con il TTS, misurato attraverso l’utilizzo dei diari del sonno.
Questa forma di lieve deprivazione di sonno favorisce una riduzione della Latenza di Sonno (LS) e un miglioramento del Tempo di Veglia Infrasonno (TVI).

Di fatto nelle prime fasi i pazienti hanno un tempo di sonno ridotto rispetto al proprio ma si tratta di un sonno più consolidato. Appena i dati misurati con i diari del sonno evidenziano un miglioramento dell’Efficienza di Sonno (EF >90%) si può gradualmente incrementare di 15 min il TTL (Spielman et al., 1987b).

La SRT agisce dunque migliorando la qualità e la continuità del sonno, riducendo la qualità di sonno superficiale e il tempo di addormentamento. Inoltre migliorano progressivamente anche i comportamenti e le credenze che tendono a perpetuare l’ insonnia. La RST agisce infine riducendo direttamente il cosidetto iperarousal che è uno dei fattori predisponenti l’ insonnia.

 

Igiene del sonno

L’educazione all’Igiene del Sonno è indicata in tutte le tipologie d’ insonnia e sembra avere un ruolo determinante nell’incrementare il Tempo Totale di Sonno (TTS). Viene prescritta per correggere una serie di comportamenti che possono influenzare la qualità e la quantità di sonno (Perlis et al., 2015).
Il primo passo di questo intervento è quello di consegnare ai pazienti una lista con le norme di Igiene del Sonno. Successivamente saranno discussi in gruppo i vari item fornendo per ciascuno la motivazione razionale all’utilizzo.

Si deve a Peter Hauri la codifica delle regole fondamentali di questa tecnica, il quale affermava che [blockquote style=”1″]l’educazione all’igiene del sonno ha l’obiettivo di informare il paziente su quelli che sono i comportamenti che caratterizzano lo stile di vita (alimentazione, attività fisica, uso di sostanze psicoattive) o i fattori ambientali (luce, rumore, temperatura) che possono interferire con il sonno o promuoverlo[/blockquote] (Hauri, 2004).

Tali regole hanno un significato preciso e dovrebbero aiutare il paziente a comprendere maggiormente i meccanismi che regolano il ritmo sonno-veglia (se necessario, in questa seduta il terapeuta fornirà ai pazienti informazioni sugli stadi del sonno, sulle loro caratteristiche e funzioni).
L’educazione all’igiene del sonno è maggiormente d’aiuto quando è calibrata sull’analisi comportamentale delle abitudini sonno-veglia di ogni singolo paziente. Una volta discusso sulla modalità di applicazione delle varie regole, i pazienti saranno dunque invitati a stilare una lista di cose da fare sulla base di quanto discusso (ad esempio comprare delle nuove coperte, cambiare le finestre ecc.) (Perlis et al., 2015).

Attraverso l’igiene del sonno si cerca non solo di ottimizzare i risultati della terapia cognitivo comportamentale dell’ insonnia ma anche di rendere il paziente meno vulnerabile alle ricadute.

 

Tecniche di rilassamento e mindfulness

Il Training di Rilassamento è indicato in pazienti che caratterizzano la loro insonnia come “incapacità a rilassarsi” e che lamentano elevati livelli di arousal cognitivo e somatico (Perlis et al., 2015). Tutte le tecniche che ricadono nella categoria “rilassamento” presentano come comune denominatore l’elicitazione di una “risposta di rilassamento” ovvero una condizione di calma sia fisiologica che esperienziale (Benson, 1975).

Le tecniche di rilassamento tendono a ridurre i livelli di attivazione somatica e cognitiva che interferiscono con il sonno. Non è importante il tipo di metodo utilizzato quanto la regolarità della pratica. Normalmente si consiglia di effettuare le pratiche di rilassamento almeno due volte nelle 24 ore: una seduta durante il giorno e una la sera prima di coricarsi.

Il rilassamento può essere applicato anche durante la notte se il paziente non riesce a riprendere sonno dopo un risveglio. Il paziente dovrebbe dedicare circa 5-10 minuti a ogni pratica di rilassamento (Perlis et al., 2015).

Il rilassamento può essere indotto fondamentalmente mediante le seguenti tecniche:
– La respirazione diaframmatica, utilizzata per indurre una forma di respirazione più lenta, profonda e meccanicamente determinata, proveniente dall’addome piuttosto che dal torace.
– Il rilassamento muscolare progressivo (PMR), utilizzato per diminuire la tensione muscolare, che prevede l’alternanza di contrazione e rilassamento dei vari gruppi muscolari (Jacobson, 1929). I pazienti vengono istruiti a confrontare le sensazioni che derivano dalla tensione muscolare a quelle del successivo rilassamento.

I soggetti vengono invitati a praticare una o entrambe le tecniche a domicilio, due volte al giorno, una durante la giornata e l’altra a letto prima dell’addormentamento.

La Mindfulness può essere particolarmente utile per trattare lo stress e le intense risposte emotive associate all’ insonnia cronica. La caratteristica principale della mindfulness è l’osservazione non giudicante dei pensieri, comportamenti, sensazioni fisiche ed emozioni che costituiscono l’esperienza presente del paziente. Gli esercizi di mindfulness si fondano sui principi dell’“accettazione” e del “lasciare andare” nel contesto delle risposte emotive negative dovute alle difficoltà di sonno.

Tale tecnica si basa essenzialmente sul raggiungimento della “consapevolezza” dei propri pensieri, delle proprie azioni e motivazioni. È una tecnica con cui si cerca di raggiungere la “concentrazione”, momento per momento, al fine di raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza della propria esperienza che comprende: sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni (Kabat-Zinn et al., 1992).

Nello specifico la tecnica è costituita da due componenti: la prima cerca di regolare l’attenzione così da focalizzarla sull’esperienza attuale (attenzione consapevole, intenzionale e non giudicante alla propria esperienza nel momento in cui essa viene vissuta), la seconda componente cerca di ottenere un orientamento esperienziale aperto all’“accettazione”.

Si tratta dunque di coltivare la capacità di accogliere i propri stati mentali, superare la tendenza all’evitamento esperienziale, caratterizzato da atteggiamenti di rifiuto nei confronti dei propri pensieri, emozioni e sensazioni fisiche. Più che una tecnica di rilassamento, questo approccio è considerato una forma di “training mentale” che riduce la vulnerabilità nella risposta allo stress (Perlis et al., 2012).

 

Tecnica dell’intenzione paradossale

La tecnica dell’Intenzione Paradossale (PI) è indicata per le forme di insonnia in cui vi sia una significativa preoccupazione per la perdita di sonno e le sue conseguenze diurne (Perlis et al. 2015). La PI si pone l’obiettivo di ridurre l’ansia da prestazione (l’incapacità dei cattivi dormitori di riuscire ad ottenere un buon sonno) e con essa il rimuginio e le preoccupazioni per il proprio riposo notturno.
L’utilizzo della PI nel trattamento dell’ insonnia si deve a Viktor Frankl (1955) e successivamente a Michael Ascher e colleghi (1978-1979).

Il punto di partenza è cercare di capire insieme ai pazienti cosa vuol dire avere un “sonno normale” ed essere un “buon dormitore”(Espie, 1991).
Servendosi dell’umorismo e dell’ironia, che sembrano avere un’azione decatastrofizzante, è utile spiegare ai pazienti che i cosiddetti “buoni dormitori” possono essere definiti come quelle persone che dormono in base alle proprie esigenze, che non pensano al sonno o ai suoi disturbi e che non sono preoccupati se non dormono. È fondamentale in questa fase far comprendere ai pazienti che il sonno, essendo un processo naturale, non può essere controllato dai propri pensieri (Espie, 1991).

I pazienti saranno dunque invitati a compilare delle scale di valutazione delle convinzioni sul sonno (ad esempio la Scala di Glasgow per lo sforzo di dormire), come se dovesse compilarla un buon dormitore (Broomfield & Espie, 2005).

La PI ha dunque lo scopo di sviluppare l’abilita di cambiare prospettiva rispetto al sonno, invitando il paziente ad entrare nei pensieri di un buon dormitore per immaginare cosa farebbe al suo posto. I pazienti dovrebbero essere quindi invitati a sospendere tutti quei comportamenti disfunzionali riguardo al sonno (come ad esempio sforzarsi di dormire) poiché perpetuano l’ insonnia stessa.

 

Terapia cognitiva per il trattamento dell’insonnia

La Terapia Cognitiva comportamentale è particolarmente indicata per i pazienti preoccupati delle potenziali conseguenze dell’ insonnia (credenze disfunzionali sul sonno) o che riferiscono la presenza di idee intrusive, ansia e eccessivo timore di non dormire (Perlis et al. 2012, 2015).

L’obiettivo della Terapia cognitivo comportamentale è quello di modificare le convinzioni, gli atteggiamenti, le aspettative e le attribuzioni relative al sonno nei pazienti insonni. Gli insonni sembrano possedere alcune distorsioni cognitive che contribuiscono ad alimentare e perpetuare l’ insonnia.

La premessa della terapia cognitivo comportamentale è che l’interpretazione di una data situazione (es. sonnolenza) può elicitare risposte emozionali di tonalità negativa (es. paura, ansia) che interferiscono con il sonno. Per esempio, quando una persona non riesce a dormire e inizia a temere le conseguenze diurne della mancanza di sonno si può creare un circolo vizioso che alimenta l’ insonnia stessa. Ciò può favorire la comparsa di emozioni a contenuto negativo come l’ansia o la paura che perpetuano a loro volta l’ insonnia.

Nell’ambito di questa seduta il terapeuta può mostrare al paziente lo schema del modello concettuale del mantenimento dell’ insonnia ideato da Morin nel 1993. Si tratta di un modello microanalitico dell’ insonnia cronica che dimostra come le credenze disfunzionali e le abitudini rispetto al sonno possono contribuire e perpetuare l’ insonnia (Morin 1993).

A questo punto il terapeuta, servendosi delle medesime procedure cliniche della Terapia Cognitiva comportamentale per i disturbi d’ansia e dell’umore (ad esempio lo strumento ABC), può guidare il paziente ad identificare e modificare le distorsioni cognitive e le credenze disfunzionali riguardo al sonno, tanto da interrompere il circolo vizioso che autoalimentandosi perpetua l’ insonnia (Morin , 1993, Morin & Espie, 2003).

 

Esperimenti comportamentali nell’ambito della terapia cognitivo comportamentale dell’insonnia

Gli Esperimenti Comportamentali hanno lo scopo di modificare le convinzioni disfunzionali riguardo al sonno, per cercare di sviluppare pensieri e comportamenti più funzionali, e di incrementare le conoscenze sui processi cognitivi e comportamentali che possono perpetuare l’ insonnia, per poterli modificare (Perlis et al. 2015).

Una volta identificati i processi di pensiero o le convinzioni errate, terapeuta e paziente potranno individuare insieme le modalità per costruire l’esperimento da condurre.

Ad esempio l’esperimento della “paura di sonno insufficiente”, in cui il paziente ha la credenza errata “per funzionare bene durante il giorno devo dormire almeno 8 ore, se dormo meno di 8 ore ci saranno delle serie conseguenze della mia salute e non riuscirò a fare niente”. In questo caso l’esperimento da effettuare è quello della restrizione del sonno, ovvero ridurre la durata del sonno del paziente durante la notte dell’esperimento in modo da fargli esperire che il giorno seguente, nonostante la sonnolenza, sarà in grado di svolgere tutte le sue attività. Di fatto l’obiettivo dell’esperimento è proprio quello di creare sperimentalmente una notte di sonno insufficiente (es. 6 ore e mezza) per valutare quali sono le conseguenze diurne e quali sono le modalità per affrontarle. In tal modo si riduce la dimensione catastrofica dei pensieri riguardo alle conseguenze diurne dell’ insonnia.

 

Valutazione Finale dopo la terapia cognitivo comportamentale

I principali obiettivi di questa seduta sono quelli di verificare insieme al paziente i guadagni clinici della terapia cognitivo comportamentale, individuare le strategie per mantenerli e discutere sulla prevenzione delle ricadute.

Le norme di Igiene del Sonno per la cura dell’insonnia

Mantenere una buona igiene del sonno è il primo passo per la cura dell’insonnia. È noto che il sonno è influenzato dal nostro stile di vita e da vari fattori ambientali. Nella letteratura scientifica è documentato che nella maggior parte delle insonnie le norme di igiene del sonno non sono rispettate e ciò costituisce un fattore di cronicizzazione e/o peggioramento del disturbo. È altrettanto documentato che la correzione di comportamenti erronei e l’applicazione in modo costante e sistematico delle norme di igiene del sonno, favorisce l’attenuazione dell’insonnia (Perlis et al., 2015)

 

 

Le norme dell’ igiene del sonno

L’educazione all’ igiene del sonno è una vera e propria tecnica che i clinici che si occupano di medicina del sonno applicano all’interno di protocolli di trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia (Cognitive-Behaviour Therapy for Insomnia – CBT-I).
È importante ricordare tuttavia che il fatto di rispettare una o tutte le regole non elimina il problema dell’insonnia che necessita invece di un trattamento CBT-I integrato.

Le norme di Igiene del Sonno sono una serie di comportamenti che fisiologicamente favoriscono un buon sonno notturno. Sono indicate per tutte le tipologie di insonnia e in particolare per i quadri di insonnia in cui la persona presenta abitudini di vita disfunzionali e un ambiente non idoneo all’ addormentamento e al mantenimento del sonno (Perlis et al., 2012, 2015). Vediamole nel dettaglio:

1: Dormire solo quanto è necessario per sentirsi riposati il giorno successivo

Trascorrere molto tempo a letto contribuisce a rendere il sonno frammentato e leggero, mentre restringere il tempo che si sta a letto aiuta il sonno a diventare più continuativo e profondo. Ci si dovrebbe svegliare alla stessa ora ogni giorno senza preoccuparsi di quanto si è dormito la notte precedente.

2: Svegliarsi alla stessa ora ogni giorno, 7 giorni su 7

Svegliarsi al mattino sempre allo stesso orario favorisce anche un orario di addormentamento regolare e permette all’orologio biologico di regolarizzarsi. Si tratta di una sorta di allenamento, il nostro corpo deve essere allenato, deve imparare quando dormire e quando stare sveglio. Andare a letto e alzarsi sistematicamente al suono della sveglia, seguendo un programma fisso, è la condizione migliore per avere effetti di condizionamento tali che, quando è l’ora, il nostro corpo saprà che è il momento giusto per addormentarsi o per svegliarsi.

3: Effettuare regolarmente attività fisica

Cercare di effettuare attività fisica, tranne nelle tre ore precedenti all’orario di addormentamento, favorisce un sonno profondo. La cosa interessante è che non sembra essere l’esercizio fisico di per sé ad essere utile ma piuttosto il concomitante aumento della temperatura corporea. Sembra che quando la temperatura corporea aumenta si abbia poi una brusca diminuzione quando si va a dormire ed è questo fenomeno che ha poi a che fare con la promozione del sonno ad onde lente (sonno profondo). Ci sono studi che mostrano infatti che anche un bagno caldo 1-2 ore prima di andare a letto ha effetti simili sul sonno. Inoltre prendersi un momento di decompressione, come il bagno caldo, è un ottimo rituale per mettere la giornata appena trascorsa “a dormire” e andare a dormire anche noi.

4: Assicurarsi di avere una camera da letto comoda, buia e silenziosa.

Un ambiente comodo, buio e silenzioso riduce la probabilità di svegliarsi durante la notte.
La luce o il rumore, anche se non sono in grado di determinare un risveglio, disturbano la qualità del sonno.

5: Assicurarsi che la temperatura della camera da letto durante la notte sia confortevole.

Ricordiamoci questo slogan: “IL SONNO AMA IL FREDDO”. La regola generale è che ogni temperatura estrema è distruttiva per il sonno. Ci sono dati che suggeriscono che dormire in un ambiente freddo facilita il sonno. Ovviamente è importante che non sia un ambiente eccessivamente freddo, bisogna mantenere la stanza tra i 16-23 gradi.

6: Consumare i pasti regolarmente e non recarsi a letto se affamati

La fame potrebbe disturbare il sonno. Uno spuntino leggero verso l’ora di andare a letto, specie a base di carboidrati (pane, cracker, cereali e frutta), può facilitare il sonno ma bisogna evitare i grassi o i cibi pesanti che possono causare un riflusso gastrico e risvegli notturni.

7: Evitare di bere troppo la sera

Ridurre l’assunzione di bevande prima di recarsi a letto minimizza il rischio di risvegli notturni (per andare in bagno).

8: Eliminare i prodotti che contengono caffeina

Questa è la regola più esagerata. Il problema non è la caffeina ma è quanto e quando assumerla. Bisogna utilizzare la caffeina in modo terapeutico: in particolare la mattina per affrontare meglio la giornata ma anche il pomeriggio per combattere la stanchezza. Dipende dalla propria sensibilità, l’importante è evitarla nelle 6 ore che precedono l’andare a letto.

9: Evitare di assumere alcolici, specialmente la sera

L’alcol è la pillola per dormire migliore del mondo e anche la peggiore. Per le persone che si sentono tese a fine giornata il trucco è l’alcol, perché ha un effetto rilassante, ha proprietà ansiolitiche e può promuovere direttamente il sonno. “Ma ciò che l’alcol dà, se lo riprende”, ha un emivita relativamente breve e provoca poi un brusco incremento della vigilanza e un rebound dell’insonnia, oltre ad avere un effetto disidratante che può determinare il risveglio. Dunque modeste quantità di alcol possono essere assunte per rilassarsi, ma bere per dormire non aiuterà a mantenere un sonno equilibrato, ci si addormenterà svegliandosi però prestissimo.

10: Evitare di fumare, fumare può disturbare il sonno

La nicotina è uno stimolante, quindi fumare la sera renderà più difficile addormentarsi.

11: Evitare di portarsi “i propri problemi a letto”

L’ideale è lasciare al giorno il problema delle “cose da fare”. Pensare insistentemente a importanti questioni a letto innesca un circolo vizioso di preoccupazioni e un eccessivo stato di vigilanza (arousal) che conduce a un’incapacità di addormentarsi.

12: Evitare di “sforzarsi” di dormire

Da un lato è ovvio che è semplicemente impossibile imporre a se stessi di rilassarsi e di essere “inconsapevoli”. Il paradosso è che non si può essere rilassati se ci si sta sforzando, tendando di dormire. Il sonno non può essere imposto con uno sforzo di volontà. Se non si riesce a dormire è opportuno uscire dalla camera per fare qualcosa di diverso 
e di piacevole
 e tornare a letto solo se assonnati.

13: Mettere la sveglia in una posizione tale da evitare di vederla.

Una volta impostata la sveglia non c’è alcuna necessità di vedere l’ora durante la notte, anzi guardare l’orologio può procurare preoccupazione e frustrazione che possono interferire con il sonno.

14: Evitare di effettuare pisolini

Se si dorme durante il giorno resta meno sonno disponibile per la notte. Se ciò accade, dato che il tempo di sonno deve rimanere costante, si dovrà ridurre il tempo di sonno notturno. Sicuramente brevi pisolini, meno di un’ora, hanno effetti più riposanti ma la cosa migliore è comunque non effettuare alcun pisolino diurno.

Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia

Il core anxiety workshop fa parte della serie di corsi forniti dal Beck Institute di Filadelfia, l’Istituto dove Aaron Beck, sua figlia Judith e altri membri del loro staff insegnano la terapia cognitivo-comportamentale da decenni. Partecipare è stata un’occasione di aggiornamento e di verifica. La conoscenza delle basi fondamentali non va data per scontata, anzi rischia di deteriorarsi con il tempo facendosi sostituire da idiosincrasie personali. Con questo spirito abbiamo partecipato al corso sull’ansia del Beck Institute.

Giovanni Maria Ruggiero e Diego Sarracino

 

È durata tre giorni pieni dalle 9.00 alle 16.00, in cui la principale didatta era Amy Wenzel. Anzi, quasi l’unica. Non ha insegnato per sole due ore nel pomeriggio del secondo giorno dove è stata sostituita da Aaron Beck in persona, vecchio e fisicamente debole –la sua voce era sottile- ma lucido e presentissimo. Al suo fianco c’era Judith Beck, ma il suo aiuto si riduceva a ripetere le parole pronunciate a voce troppo bassa. Per due ore Beck ha risposto a domande libere dei presenti e poi ha supervisionato un collega.

Judith & Aaron Beck

Di Beck parleremo dopo. Per ora descriviamo il training, ottimamente condotto da Amy Wenzel, efficiente e chiara. Rispetto al training della terapia cognitiva dell’Istituto di Albert Ellis, si confermano somiglianze e differenze. Anche la terapia di Beck si concentra sui pensieri e li considera come chiave per il cambiamento. Però li analizza e li tratta in maniera diversa.

La tecnica di Beck è meno concentrata sulla situazione specifica e sui pensieri momentanei e più su scenari ricorrenti e legati ai sintomi: le situazioni pubbliche per l’ansia sociale, le condizioni di vulnerabilità per il panico, la contaminazione e i dubbi per il disturbo ossessivo. L’individuazione dei pensieri automatici obbedisce alla regola di cercare le previsioni negative dannose: se parlo in pubblico non sarò preso sul serio, se sono su un mezzo di trasporto avrò un attacco di panico, se ho il dubbio di aver lasciato la porta aperta allora devo controllare, e così via.

Un tempo la teoria di Beck era focalizzata solo su questi pensieri. I nostri disturbi emotivi dipendono da pensieri errati che interpretano male la realtà prevedendo rischi che non esistono. Mi butteranno fuori dalla festa (ansia sociale), morirò d’infarto (panico) o mi ammalerò (disturbo ossessivo).

Con il tempo Beck si rese conto che i fatti temuti dai pazienti erano più soggettivi, più attinenti alla visione di sé: ho l’ansia (o la depressione) perché sono timido, fragile, inferiore, sporco e contaminato, abbandonato e non amato. E altro ancora. È la self-efficacy teorizzata e studiata da Bandura che è deficitaria in questi soggetti.

Tuttavia, pur avendo introdotto questo aspetto soggettivo sul sé, Beck -rispetto a Ellis e ai costruttivisti- rimane un autore che da meno peso alla soggettività del paziente. Anche la visione di sé negativa generata dagli errori di pensiero ha un suo aspetto oggettivo: mi vedo male perché mi vedo poco efficace, non in grado di incidere sulla realtà. Non si tratta di un giudizio, ma di una constatazione intenzionalmente oggettiva, seppure errata.

La terapia diventa un paziente lavoro di raccolta delle prove a favore e contro di questo pensiero negativo. Perché ti ritieni poco adatto alle situazioni sociali? Come definisci una serata fallita? Raccontami cosa hai fatto, con chi hai parlato e se davvero nessuno aveva voglia di interagire con te. E poi, con quanta gente hai tentato a tua volta di relazionarti, di parlare?

Tutto questo condotto con estrema calma. Una terapia del genere, tutta focalizzata sulle prove di fatto (che probabilità ci sono di aver lasciato il rubinetto aperto? E di poter in tal modo allagare l’appartamento?) può sembrare estremamente razionalistica e distanziante. E lo è. Lo stile di Beck e dei suoi allievi però è, al contrario, paziente e validante. Il terapista non sfida mai il paziente, semmai lo incoraggia con un lento lavorio, insistente ma cortese e capace di fermarsi quando necessario, di incoraggiamento all’uso di un pensiero razionale.

L’analisi termina con la descrizione di un quadro realistico dei rischi temuti dal paziente, quadro che è poi confrontato con lo scenario peggiore e con quello migliore, sempre con l’ottimistica fiducia che quello migliore risulterà quello più vicino a quello realistico. Il tutto condotto con un sereno e quieto ottimismo, ottimismo che si può definire la nota caratterizzante della relazione terapeutica secondo Beck.

Abilità relazionale che però è definita da Beck e dai suoi seguaci con un termine meno pomposo di quello di “relazione”, ovvero semplicemente good-practice. La buona pratica, le abilità di base che dovrebbero essere acquisite in partenza e non essere concepite come una sorta di coronamento di un complesso percorso di iniziazione alle terapie più sofisticate e complesse.

 

Esposizione comportamentale e gestione della seduta secondo Beck

Conclusa la ristrutturazione cognitiva, si procede all’esposizione comportamentale a cui è stata dedicata un’intera giornata e che è stata davvero spiegata in maniera esauriente. Ogni esercizio specifico per il singolo disturbo è stato descritto con abbondanza di particolari. Forse è stata la componente più istruttiva del corso.

Accanto alla componente comportamentale è stata formativa anche la parte dedicata alla gestione della seduta. Una serie di accorgimenti e trucchi che rendono possibile l’esecuzione di quei protocolli che sono la dannazione del terapista medio. La costruzione del modello psicopatologico e del piano terapeutico, la sua condivisione esplicita con il paziente a ogni seduta, la valutazione dei progressi a ogni seduta: tutto questo consente al terapista di stare nei binari del protocollo senza fare violenza al paziente, anzi condividendo in maniera realmente e non astrattamente cooperativa il lavoro.

Aaron T. Beck supervisione sul paziente difficile - Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia
Un “paziente difficile”: supervisione con Aaron Beck

Naturalmente le obiezioni sono molte, a iniziare da quella classica sul cosiddetto paziente difficile. E questo è stato proprio il tema della supervisione con Beck. Un collega ha portato un paziente difficile, colui che respinge ogni tentativo di ristrutturazione e ogni invito all’esposizione comportamentale. Beck lo ha trattato richiamandosi agli obiettivi del contratto terapeutico e, con la sua imperturbabile pazienza, lo ha invitato a pensare se davvero ritenesse impossibile intervenire volontariamente sui sintomi. Infatti generalmente la difficoltà con questi pazienti è la loro convinzione che gli stati emotivi siano incontrollabili e quindi impermeabile alla ristrutturazione cognitiva.

La risposta di Beck è in fondo metacognitiva: da dove nasce questa convinzione? E questa convinzione ti aiuta ad affrontare in maniera proattiva i sintomi? Una volta motivato il paziente a contrastare i suoi sintomi, Beck lo incoraggia a tenere maggiormente in mente gli obiettivi della terapia e la possibilità di cambiare e perseguire il processo di cura.

 

Foto di gruppo al Beck Institute di Philadelphia - Il corso sull’ansia al Beck Institute di Filadelfia
Core Anxiety Workshop 2017 – The Beck Institute

Convegno sul Femminicidio a Firenze – Sabato 25 Marzo a Firenze

Convegno Femminicidio Firenze - 25 Marzo 2017Convegno Femminicidio Firenze - 25 Marzo 2017 - 2

Convegno Femminicidio Firenze 25 Marzo 2017 – BROCHURE


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Numeri e mappe ti rendono nervoso? Potrebbe essere colpa dei geni!

Ansia spaziale e matematica: I nostri geni giocano un ruolo fondamentale nel determinare quanto ci sentiamo ansiosi nell’affrontare compiti spaziali o matematici, come ad esempio leggere una cartina geografica o risolvere un problema di geometria.

 

Ansia spaziale e matematica e le possibilità di fallire

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori del King’s College di Londra le abilità spaziali sono importanti nella vita di tutti i giorni e sono strettamente connesse al successo nelle professioni STEM (acronimo inglese che sta per Scienza, Tecnologia, Ingegneria -Engineering in inglese- e Matematica). Tuttavia, le persone presentano una forte variabilità individuale e i ricercatori ritengono che questo sia dovuto in parte all’ansia. Allo stesso modo, l’ ansia spaziale e matematica si pensa possa compromettere il successo in tale disciplina in ambito scolastico e scoraggiare le persone dall’usare le abilità matematiche nella vita di tutti i giorni.

Indagare i fattori genetici e ambientali che sottendono l’ansia è un primo passo necessario nell’identificazione di geni specifici che rendono certe persone più ansiose di altre. Se geni e ambienti che contribuiscono ad una specifica forma d’ansia, come ad esempio l’ansia spaziale, sono differenti da quelli che contribuiscono ad altre forme d’ansia, come quella matematica, ciò suggerisce che esse dovrebbero essere trattate in modo differente per ottenere risultati positivi.

 

Neuropsicologia: le differenze di ansia spaziale e matematica nei gemelli

Nello studio pubblicato su Scientific Reports, i ricercatori hanno valutato l’ansia all’interno di un campione di più di 1400 gemelli di età compresa tra 19 e 21 anni appartenenti al Twins Early Development Study (TEDS), uno dei principali studi longitudinali condotti su gemelli, il cui fondamentale contributo scientifico è riconosciuto a livello mondiale.

I ricercatori hanno identificato numerose differenti forme di ansia: generale, matematica e spaziale, quest’ultima indagata in compiti di navigazione nello spazio e in compiti di rotazione visuospaziale/visualizzazione. Tutte le forme di ansia identificate mostrano una sostanziale componente genetica, in cui il DNA spiega più di un terzo della differenza individuale tra soggetti. Le condizioni di crescita non condivise, invece, spiegano il resto della variabilità dell’ansia spaziale; si tratta di ambienti e condizioni che i gemelli cresciuti nella medesima famiglia non hanno condiviso, come ad esempio differenti attività extracurriculari, insegnanti e amici. Ad esempio, condizioni e ambienti non condivisi come la guida, l’andare in bicicletta o giocare a videogiochi potrebbero essere particolarmente rilevanti per l’ansia spaziale.

Lo studio ha inoltre dimostrato che le persone che sono ansiose nello svolgere compiti di navigazione nello spazio non lo sono necessariamente quando affrontano compiti di rotazione/visualizzazione, come lo è ad esempio il completamento di un complesso puzzle. Lo stesso meccanismo è stata evidenziato per quanto riguarda l’ansia matematica e quella generale, dimostrando che chi sperimenta ansia spaziale non necessariamente tende ad essere una persona ansiosa in generale o a sperimentare ansia in altre attività STEM come lo sono ad esempio quelle matematiche.

I ricercatori hanno inoltre riscontrato un piccola ma significativa differenza di genere all’interno del campione: le donne risultano più ansiose degli uomini in tutte le aree indagate. Questo secondo i ricercatori potrebbe essere dovuto alla maggiore propensione femminile a svelare i propri sentimenti d’ansia oppure all’ansia generata dallo stereotipo secondo cui le discipline STEM sono “cose da uomini”.

Margherita Malanchini dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze (IoPPN) al King’s College di Londra ha affermato: [blockquote style=”1″]I nostri risultati hanno implicazioni molto importanti, dal momento che suggeriscono che alcuni degli stessi geni contribuiscono all’ansia in differenti aree, ma che molti di loro sono specifici per ciascun dominio. Isolare con esattezza specifici geni per l’ansia potrebbe aiutare ad identificare i bambini più a rischio fin da fasi precoci dello sviluppo, e di conseguenza intervenire e prevenire lo sviluppo dell’ansia in questi diversi contesti. Ad esempio, per i bambini a più alto rischio di ansia matematica, interventi che mirino ad accrescere la motivazione e forniscano feedback positivi potrebbero essere d’aiuto riducendo l’ansia e migliorando la performance in tale disciplina.[/blockquote]

Asexuality identification scale (AIS): un nuovo strumento per misurare l’asessualità

Kinsey, cercando di classificare gli orientamenti sessuali, riconobbe l’esistenza di persone con asessualità. Più tardi, in Bogaert, l’ asessualità venne definita come “non aver mai provato attrazione o desiderio sessuale nei confronti di alcuno”.

Mara Compagnoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano 

 

In biologia e discipline correlate, la parola asessuale descrive organismi che non usano il sesso per riprodursi. Nonostante questo, l’ asessualità è stata la forma predominante di riproduzione per la maggior parte del tempo che la vita è esistita sulla terra e ancora esiste in organismi biologicamente semplici.

Tuttavia, anche alcuni animali complessi, di grandi dimensioni ma filogeneticamente più anziani (come lo squalo), sono in grado di riprodursi in modo asessuato. Nella maggior parte degli animali filogeneticamente più giovani (inclusi gli esseri umani) invece, non esiste la capacità di riprodursi asessualmente; la riproduzione avviene solo attraverso un abbinamento di geni provenienti da varianti maschili e femminili. Nonostante questo, all’interno delle specie che si riproducono sessualmente, come i mammiferi, esistono prove che ci mostrano come una percentuale di animali non provi alcun interesse o attrazione verso i potenziali partner sessuali e vengano quindi definiti asessuali.

 

Come definire al meglio l’ asessualità?

Quando possiamo definire una persona come asessuale?

Il mondo non è diviso in pecore e capre. Non tutte le cose sono bianche o nere. È fondamentale nella tassonomia che la natura raramente ha a che fare con categorie discrete. Soltanto la mente umana inventa categorie e cerca di forzare i fatti in gabbie distinte. Il mondo vivente è un continuum in ogni suo aspetto. Prima apprenderemo questo a proposito del comportamento sessuale umano, prima arriveremo ad una profonda comprensione delle realtà del sesso (Alfred Kynsey, Il comportamento sessuale dell’uomo, 1948)

Alfred Kinsey, biologo e sessuologo statunitense, inventò un sistema di classificazione degli orientamenti sessuali nell’essere umano: la scala Kinsey (in inglese, Kinsey scale o Heterosexual-Homosexual Rating Scale). Essa rappresenta uno dei primi tentativi, se non l’unico in ambito scientifico moderno, di introdurre il concetto di una sessualità umana le cui sfaccettature non siano rappresentate a compartimenti stagni, ma secondo un criterio di gradualità anche nel medesimo individuo, a seconda delle circostanze ambientali e legate all’età.

Kinsey, cercando di classificare gli orientamenti sessuali tramite questa scala, riconobbe l’esistenza di persone asessuali (o non sessuali) che non si conformavano al suo modello unidimensionale, defininedoli “Xs” (Kinsey et al., 1948; Kinsey, Pomeroy, Martin, & Gebhard, 1953).

Più tardi, in Bogaert (2004), l’ asessualità venne definita come “non aver mai provato attrazione o desiderio sessuale nei confronti di alcuno”.

Questa definizione è in parte emersa in anni recenti in risposta a lavori empirici e teorici sull’ asessualità e in parte a seguito di recenti studi sull’orientamento sessuale. C’è da dire che questa è attualmente una definizione in linea con AVEN (Asexual Visibility and Education Network), la più influente comunità online con sito internet e forum dedicato all’ asessualità.

Una coerenza con le idee di AVEN non fornisce alcuna particolare giustificazione logica per l’uso di questa definizione, ma è da notare come la stessa venga fatta risuonare da un certo numero di leader asessuali influenti.

Gli AVENite (membri di AVEN) hanno infatti inventato e diffuso un “lessico dell’ asessualità generale” che viene utilizzato all’interno della comunità on line; questo elenco di parole, seguite da una definizione, sembra essere stato creato per rendere più facile la comprensione del fenomeno per chi ci si avvicina per la prima volta o comunque è interessato all’argomento e per familiari, amici, partner di persone asessuali.

Alcuni esempi di seguito:

  • Anti-sessuale: Essere contrari alla sessualità, o l’aggettivo che descrive le persone che lo sono. Una persona anti-sessuale potrebbe o no essere asessuale, l’anti-sessualità non è esclusiva degli asessuali né è condivisa da tutti gli asessuali. Atteggiamenti di manifesta antisessualità sono sconsigliati all’interno di AVEN.
  • Asessuale: Una persona che non prova attrazione sessuale verso alcun genere/sesso. Da non confondere con: asessuato.
  • Asessuato: Una persona priva di organi genitali. Sinonimo di “sexless”. Da non confondere con: asessuale.
  • Asex, Ace, A: abbreviazioni usate da persone che si identificano asessuali. Gli assi (traduzione dell’inglese “ace”) sono simboli spesso condivisi all’interno della comunità asessuale: per alcuni asessuali l’asso di picche (“ace of spades”) simboleggia gli aromantici, l’asso di cuori (“ace of hearts”) i romantici.
  • Asexy: Termine informale per asessuale; qualcuno o qualcosa reso più attraente dalla sua mancanza di sessualità.
  • Attrazione sessuale primaria: Premessa: la distinzione tra attrazione (romantica o sessuale) primaria e secondaria fa parte del modello di Rabger, tuttora in discussione e spesso contestato. Instantanea attrazione sessuale basata su informazioni subito accessibili come ad esempio l’aspetto fisico o l’odore/profumo che può portare o no a eccitazione sessuale.
  • Attrazione sessuale secondaria: Premessa: la distinzione tra attrazione (romantica o sessuale) primaria e secondaria fa parte del modello di Rabger, tuttora in discussione e spesso contestato. Attrazione sessuale basata sulla profondità di un legame emotivo in un rapporto inter-personale o di coppia.
  • Autosessuale: Una persona che prova attrazione sessuale solo verso se stessa.
  • AVENite: Un membro di AVEN.
  • Celibato/Castità: La scelta di non intraprendere attività sessuale (può essere sia per asessuali che per sessuali).
  • Demisessuale: Una persona che prova attrazione sessuale solo verso persone con cui ha formato un legame più forte, spesso romantico. I demisessuali solitamente provano attrazione sessuale secondaria, ma non provano attrazione sessuale primaria (cfr. rispettive definizioni).
  • Desiderio sessuale primario: Desiderio di intraprendere attività sessuale per motivi di piacere. “Attività sessuale” non è intesa solo come sesso, ma può includere altre attività come, ad esempio, la masturbazione o alcuni preliminari.
  • Desiderio sessuale secondario: Desiderio di intraprendere attività sessuale per motivi diversi dal piacere, ad esempio per formare un legame emotivo con il partner. “Attività sessuale” non è intesa solo come sesso, ma può includere altre attività come, ad esempio, la masturbazione o alcuni preliminari.
  • Gray – A: Una persona che sta nella cosiddetta “area grigia” tra l’ asessualità e la sessualità.
  • Queerplatonic: (non tradotto) termine usato per descrivere una relazione (e i partners presenti in essa) che è principalmente aromantica ma che ha un rapporto emotivo più profondo di un’amicizia.
  • Repulso: (traduzione letterale di “repulsed” ma insoddisfacente per il linguaggio quotidiano) 1) termine usato da alcune persone asessuali per indicare che trovano il sesso disgustoso o ripugnante; 2) può anche essere inteso nel senso che queste persone sono disgustate dall’idea del sesso in generale. Non implica né esclude che queste persone possano essere anche anti-sessuali.
  • Semisessuale: Una persona che appartiene alla sfera gray-a e che in genere è senza libido, ma se sviluppa una connessione emotiva e/o un’attrazione sessuale per qualcuno può provare libido.
  • Sensuale: termine usato per descrivere il contatto fisico e/o una sensazione di piacere provata attraverso il contatto fisico che può essere sessuale o no. Ad esempio abbracci, coccole, a volte baci, ecc..
  • Sessuale: Una persona che prova attrazione sessuale, una persona che non è asessuale (es. un eterosessuale, omosessuale, bisessuale, pansessuale ecc.).
  • Sex-Negative: (non tradotto) Atteggiamento negativo nei confronti del sesso, ma che non sfocia nella discriminazione di chi è sessuale o sessualmente attivo.
  • Sex-positive: (non tradotto) Termine usato da alcuni membri della comunità asessuale per indicare che non gli importa né gli dà fastidio se e come le persone fanno sesso finché è consensuale. Il termine indica una mentalità che può appartenere anche a persone non asessuali.
  • Squish: (non tradotto) Una cotta/crush aromantica, un desiderio di costruire una relazione platonica con qualcuno, ad esempio un rapporto di amicizia molto profonda o una relazione queerplatonica.

Una definizione di asessualità che si incentra su una mancanza di attrazione sessuale non implica necessariamente che una persona asessuata non abbia mai fatto o non farà mai un’esperienza sessuale e non dovrebbe necessariamente includere persone che scelgono la castità (ad esempio prima del matrimonio) o il celibato ecclesiastico, dato che questi individui sono comunque attratti dagli altri sessualmente.

Inoltre, avere una mancanza di attrazione sessuale non significa che gli asessuali non possano avere un’attrazione romantica nei confronti di altri individui. Per questo è importante fare una distinzione tra attrazione romantica (sentimenti di infatuazione attaccamento emotivo) e sessuale (lussuria, desiderio, richiamo verso gli altri). Il presupposto tradizionale è che una implichi l’altra ma non è sempre così. In altre parole, conoscere l’ asessualità migliora la nostra comprensione della sessualità, dal momento che le persone asessuali portano alla luce come le inclinazioni romantiche possano essere “disaccoppiate” dalle inclinazioni sessuali.

Bogaert (2006b) ha sostenuto che l’attrazione sessuale ”soggettiva” è la componente psicologica più rilevante nel definire l’orientamento sessuale, compreso un orientamento asessuale. Il termine “soggettivo” infatti, si riferisce alla propria esperienza interiore o mentale e non include obbligatoriamente l’eccitazione fisiologica/attrazione.

Tuttavia, dato che l’attrazione sessuale (soggettiva) definisce senza dubbio l’orientamento sessuale, o è il nucleo psicologico di orientamento sessuale, se una persona manca di attrazione (soggettiva) nei confronti degli altri, allora l’ asessualità può essere definibile come categoria unica separata all’interno di un quadro di orientamento sessuale. Quindi, utilizzando un modello simile a quello di Storms (1979), l’ asessualità è costruibile come la quarta categoria di orientamento sessuale, quella che attesta il basso o nullo erotismo (soggettivo), o quella avente un orientamento verso nessuno dei due sessi (vedi Figura 1).

 

Asexuality identification scale ais un nuovo strumento per misurare l'asessualità

Figura 1. Modello dell’orientamento sessuale basato sull’attrazione verso i sessi (Storms, 1980).

 

Un possibile argomento contro la costruzione dell’ asessualità come categoria separata di orientamento sessuale è che l’ asessualità potrebbe essere causata da un processo biologico atipico (es. bassi livelli ormonali, meccanismi prenatali atipici ecc…); e, se questi processi biologici venissero alterati, allora verrebbe alla luce il vero orientamento sessuale (eterosessuale, omosessuale, bisessuale) della persona “asessuale”. A questo punto, si potrebbe anche sostenere che sia sbagliato, o come minimo prematuro, indicare che una persona asessuale appartenga a un’unica categoria di orientamento sessuale che differisce dalle tre designazioni tradizionali.

Però, questo ragionamento può contenere un errore logico, perché le origini dell’ asessualità non dovrebbero essere confuse con la fenomenologia dell’ asessualità. Inoltre, più in generale, non dovremmo confondere le origini della sessualità con la fenomenologia dell’orientamento sessuale.

 

Asexuality Identification Scale

L’ asessualità è stata quindi spesso descritta come una mancanza di attrazione sessuale e, secondo gli ultimi studi, sta diventando sempre più evidente che circa l’1% della popolazione adulta si definisca asessuale. Alcune ricerche inoltre, indicano l’ asessualità come un vero e proprio orientamento sessuale.

L’ asessualità deve essere distinta dall’astensione sessuale, che è piuttosto una scelta comportamentale, a volte legata alla religione. L’orientamento sessuale, a differenza del comportamento, è contraddistinto dalla reiterazione e dalla persistenza dello stesso nel tempo. Alcuni individui asessuali intercorrono comunque in rapporti sessuali, nonostante non ne sentano il desiderio.

Nelle passate ricerche non si è mai trovato un valido strumento per misurare l’ asessualità, soprattutto a causa delle limitazioni nel reclutare un numero sufficiente e vario di campioni: la maggior parte degli studi si sono basati solo sul reclutamento di campioni all’interno delle comunità asessuali on line.

Un recente studio compiuto da Yule, Brotto e Gorzalka (Università di British Columbia) nel 2014 ha lo scopo di sviluppare e validare un questionario self-report per valutare il grado di asessualità di un individuo.

Il questionario intende fornire uno strumento valido di misura dell’ asessualità indipendentemente dal fatto che l’individuo si auto indentifichi come asessuale.

Questo strumento è stato creato passando attraverso più fasi:

  • Sviluppo e gestione di domande aperte (209 partecipanti: 139 asessuati e 70 sessuati);
  • Gestione e analisi dei risultanti 111 items (917 partecipanti: 165 asessuati e 752 sessuati);
  • Gestione e analisi di 37 items conservati (1.242 partecipanti: 316 asessuata e 926 sessuale);
  • Analisi della validità dei rimanenti items.

Nella prima fase sono stati utilizzati due campioni di persone (asessuale e sessuato) e sottoposti a otto domande aperte che servissero per individuare i temi principali della fase successiva:

  1. How would you define/describe asexuality? (Come definiresti/descriveresti l’asessualità?)
  2. How would you define/describe sexual attraction? (Come definiresti/descriveresti l’attrazione sessuale?)
  3. How would you define/describe sexual desire? (Come definiresti/descriveresti il desiderio sessuale?)
  4. How would you define/describe romantic attraction? (Come definiresti/descriveresti l’attrazione romantica?)
  5. What are some factors that initially led you to consider yourself as an asexual?/What are some factors that might lead you to think that someone is asexual? (Quali sono i fattori che inizialmente ti hanno portato a considerarti come un asessuale? / Quali sono i fattori che potrebbero portarti a pensare che qualcuno è asessuale?
  6. How would you distinguish asexuality from a sexual dysfunction such as sexual desire disorder? (Come distingueresti l’asessualità da una disfunzione del desiderio sessuale?)
  7. How might you describe your sexuality BEFORE you came across the term “asexual”?/How might you describe your sexuality? (Come potresti descrivere la tua sessualità PRIMA di imbatterti nel termine “asessuale”?/Come potresti descrivere la tua sessualità?)
  8. What questions would you use (without describing or using the term “asexual”) to identify an individual who might be asexual but has not yet come across the term? (Quali domande useresti (senza descrivere o usare il termine “asessuale”) per identificare un individuo che potrebbe essere asessuale ma non conosce questo termine?)

Le risposte a queste domande aperte sono state poi esaminate per individuare i temi prevalenti e per costruire 111 items a scelta multipla che costituiscono  l’AIS-111 e che riguardano: desiderio/attrazione sessuale, masturbazione, fantasie sessuali, erotismo, ansia correlata al sesso, attività sessuale, identità sessuale, disgusto nei confronti del sesso, eccitazione sessuale, incapacità di relazionarsi con la sessualità altrui, disinteresse nei confronti del sesso, religione, evitamento del sesso, sesso all’interno di una relazione, attrazione romantica e intimità.

Ogni item viene conteggiato su una scala Likert a 5 punti e in modo che gli alti punteggi riflettano esperienze più tipiche di individui asessuali piuttosto che sessuali.

L’analisi è stata effettuata su un campione vario, che prescinde dal genere e dall’orientamento sessuale dichiarato, sebbene più donne che uomini sembrino definirsi asessuali.

C’è però la possibilità che alcuni partecipanti a questo studio che si sono identificati come “sessuali”, per varie ragioni (tra le quali il non essere a conoscenza della definizione/categoria “asessuale”) , dovrebbero in realtà far parte degli asessuali. Questo significa che il campione utilizzato per questo studio comprende anche persone che non sanno dell’esistenza dell’ asessualità.

La risultante Asexuality Identification Scale (AIS) è un breve questionario, composto da 12 items, valido e affidabile strumento self-report per la valutazione dell’ asessualità. È uno strumento facile da usare ed è capace di discriminare gli individui asessuati dai sessuati.

Il totale dei punteggi viene calcolato sommando le risposte a tutte e 12 le domande. Punteggi più alti indicano una maggiore tendenza all’ asessualità.

È stato proposto un punteggio cut-off di 40/60 in modo che, quei partecipanti che avranno ottenuto un punteggio pari o superiore a 40 sulla Asexuality Identification Scale, saranno quelli che probabilmente proveranno mancanza di attrazione sessuale. L’ultima domanda è senza punteggio.

In conclusione, la speranza di Yule, Brotto e Gorzalka è che l’ Asexuality Identification Scale si riveli utile per consentire anche ad altri ricercatori di reclutare campioni sempre più rappresentativi di popolazione asessuale, permettendo così una maggiore comprensione dell’ asessualità.

Dilemma-Focused Intervention: applicazioni cliniche per il trattamento della depressione

Il Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione prevede 8 sedute di terapia individuale. Ogni seduta ha un determinato contenuto che viene presentato al paziente; il terapeuta valuta la disponibilità del paziente a lavorare su quel contenuto chiedendo esplicitamente il permesso di farlo e, nel caso il paziente manifesti una resistenza in merito, negozia delle alternative.

 

In questo secondo articolo tenteremo di offrire al lettore una panoramica quanto più chiara ed esaustiva possibile riguardo la specifica applicazione del Dilemma-Focused Intervention (DFI) nel trattamento della depressione unipolare. Per una trattazione più generale dei concetti chiave e delle tecniche del Dilemma Focused Intervention si veda l’articolo precedente.

 

Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione unipolare

Il Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione prevede 8 sedute di terapia individuale (7+1 di approfondimento facoltativa, se sono emersi degli aspetti che meritano una sessione extra) da condurre dopo 7 sedute di terapia di gruppo a stampo cognitivo-comportamentale e alla fine una seduta di gruppo per terminare il processo terapeutico. Le sessioni durano un’ora e sono portate avanti settimanalmente.

Ogni seduta ha un determinato contenuto che viene presentato al paziente; il terapeuta valuta la disponibilità del paziente a lavorare su quel contenuto chiedendo esplicitamente il permesso di farlo e, nel caso il paziente manifesti una resistenza in merito, negozia delle alternative. Le sedute cominciano sempre con la revisione dei compiti a casa, assegnati nella seduta precedente. Fatto ciò si chiede se durante la settimana è emerso qualche aspetto che in qualche modo concerne il dilemma in esame. Successivamente, viene presentato il contenuto della seduta corrente.

 

Seduta 1: presentazione del dilemma

L’obiettivo della prima seduta è individuare il dilemma ed esplorarlo in relazione alla richiesta terapeutica del paziente. Innanzitutto però sarà necessario presentare alcuni aspetti della relazione terapeutica e come l’intervento è strutturato. Inoltre è necessario:

  • Valutare come si sente il paziente, i cambiamenti che potrebbero essere avvenuti dalla fine della terapia di gruppo e i fattori coinvolti.
  • Cominciare a stabilire una buona alleanza terapeutica.
  • Spiegare la differenza con la terapia di gruppo appena terminata.
  • Valutare le aspettative del paziente in relazione alla terapia.

Gran parte della seduta consiste nella presentazione dei dilemmi al paziente, basandosi sull’esplorazione delle figure prototipiche. Ciò viene fatto:

  1. Presentando i costrutti discrepanti implicati nei dilemmi e/o i costrutti dilemmatici
  2. Selezionando i costrutti discrepanti/dilemmatici sui quali lavorare
  3. Esplorando il dilemma focalizzandosi sulle figure prototipiche; questo viene fatto intavolando una ipotetica conversazione nella quale le due parti del dilemma si confrontano
  4. Presentando il dilemma come un obiettivo di lavoro nella terapia

Alla fine della seduta il terapeuta chiede al paziente una autocaratterizzazione come compito a casa.

 

Seduta 2: elaborazione del dilemma

Durante questa seduta di Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione si continua ad esplorare il dilemma, le sue sfumature, i dettagli rilevanti per la persona nel tentativo di comprendere le implicazioni dello stesso. La prima parte della seduta, come al solito, è dedicata alla revisione del compito a casa, in questo caso dell’autocaratterizzazione, con particolare attenzione agli elementi del dilemma emersi. Nel dettaglio, del racconto si considera:

  • La lettura empatica: attraverso questi occhi come vede il mondo una persona?
  • Prima parte del racconto: spesso è possibile trovare dei costrutti congruenti che sono parte del dilemma e tendono ad essere più nucleari per il paziente.
  • Termini o temi ripetuti: indicano un maggiore peso nel sistema di costrutti dell’individuo. Il terapeuta deve porre maggiore attenzione a quelli che si riferiscono ad entrambi i poli del dilemma.
  • Analisi delle cause: qualora il terapeuta incontrasse delle spiegazioni causali del dilemma è bene che le consideri

Per esplorare le implicazioni del dilemma, si possono impiegare le seguenti tecniche:

  • Laddering up: utile con i dilemmi implicativi (polo discrepante).
  • Laddering down: appropriato quando l’etichetta del dilemma ha un elevato livello di astrazione e il nostro obiettivo è sapere quale significato concreto la persona dà a quel termine. Utile anche con i costrutti dilemmatici, per capire perché entrambi i poli sono considerati positivi o negativi.
  • Laddering dialettico: molto utile quando si lavora con un costrutto dilemmatico.
  • ABC di Tschudi: questa tecnica è appropriata per esplorare sia il costrutto discrepante nel dilemma implicativo che il costrutto dilemmatico.

 

Seduta 3: ricostruzione dell’esperienza immediata

L’obiettivo di questa seduta di Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione è di fissare la nozione di dilemma e osservarne l’impatto nella vita di tutti i giorni del paziente. Per fare ciò, il terapeuta procede alla ricostruzione dell’esperienza immediata basandosi sul dilemma e seguendo questi steps:

  1. Si seleziona un episodio recente dove il dilemma si è presentato.
  2. Dopo un’ampia descrizione del paziente il terapeuta chiede altri dettagli rispetto a come il paziente si è sentito in quel momento, cosa stava pensando, cosa stava facendo, etc.
  3. Si esplorano con attenzione i momenti in cui le emozioni si sono presentate (esplicitamente o implicitamente), al fine di creare una connessione tra queste e i significati attribuiti dal paziente alla situazione.
  4. Si esplora l’esperienza del dilemma in questa situazione: come si manifesta il costrutto congruente, la qualità dell’esperienza e delle emozioni che compaiono, etc.
  5. Si cerca di ottenere tutto ciò nel tentativo di evidenziare i significati nella costruzione dell’esperienza del paziente, le sue anticipazioni che guidano l’azione e come vengono invalidate dall’esperienza, con le emozioni negative – o positive nel caso di validazione – che ne conseguono.

Alla fine della seduta viene proposto l’homework della settimana, ossia osservare altre situazioni dove si manifesta il dilemma, con attenzione rivolta ai pensieri, le emozioni e le azioni associate.

 

Seduta 4: implicazioni relazionali del dilemma

Nella quarta seduta di Dilemma-Focused Intervention si esplora come le relazioni del paziente con depressione influenzano il suo modo di costruire la realtà, con particolare attenzione al dilemma, e come si potrebbero generare costruzioni alternative indipendentemente da queste figure. Per fare ciò, vengono esplorate le implicazioni del dilemma attraverso le seguenti fasi:

  1. Si chiede al paziente di descrivere nel dettaglio un episodio recente dove il dilemma si è presentato.
  2. Si chiede al paziente di descrivere le persone coinvolte nell’episodio, specialmente quelle che, in maniera diretta o indiretta, bloccano il cambiamento (ad es., T: “Pensa che questa persona abbia qualcosa a che fare con il dilemma su cui stiamo lavorando?”). Se il paziente è d’accordo, il terapeuta può definire queste figure “complici del dilemma” e chiedergli, secondo lui o lei, qual è il peso di queste persone della costruzione dilemmatica.
  3. Successivamente sono identificate nella griglia del paziente quelle persone che contemporaneamente occupano il polo desiderato e il polo congruente. Qualora non fossero presenti nella griglia, si chiede al paziente quale persona di sua conoscenza potrebbe ricoprire questo ruolo. In seguito il terapeuta chiede al paziente come queste persone reagirebbero in una situazione del genere. L’idea è quella di generare costruzioni alternative a quelle del dilemma che possano aiutare a far fronte alla situazione in un modo differente.

Durante la seduta il terapeuta chiede al paziente se desidererebbe interagire in maniera differente con le persone che, in una maniera o nell’altra, validano la costruzione dilemmatica, magari agendo come le persone identificate come efficienti in questo caso.

Alla fine della seduta, viene chiesto al paziente di scrivere dei capitoli, preceduti da un titolo per ognuno, relativi alla sua storia di vita, spiegando che ci si lavorerà nella seduta successiva, dedicata appunto alla ricostruzione storica del dilemma. Oltre ai capitoli relativi al passato viene richiesta la stesura di un capitolo rivolto al futuro, dove il paziente si immagina in una vita senza il dilemma.

 

Seduta 5: ricostruzione storica del dilemma

L’obiettivo che ci poniamo in questa seduta di Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione è comprendere l’evoluzione storica del sistema di costruzioni del paziente e la sua coerenza nel tempo, identificando l’esordio e il modo diverso in cui è stato vissuto negli anni. Ciò può essere fatto seguendo questi step:

  1. Prendere in esame i capitoli della vita del paziente, magari facendo domande quali: “Perché hai dato questo titolo al capitolo X? Che significato ha nella tua vita?”. Il capitolo relativo al futuro viene preso in esame per ultimo.
  2. Per ogni capitolo chiedere al paziente di posizionarsi rispetto ai costrutti implicati nel dilemma.
  3. Indagare anche la posizione che i “complici del dilemma” hanno ricoperto nel tempo e come hanno reagito alle variazioni nel comportamento che il paziente ha messo in atto durante la sua storia.
  4. Prendere in esame il capitolo dedicato al futuro senza scendere nei dettagli (si amplierà il discorso relativo alla proiezione nel futuro in un’altra seduta), poiché l’obiettivo è osservare la coerenza di questo capitolo con il passato del paziente.

Al termine della seduta viene assegnata il compito a casa, ossia la ricostruzione storica del dilemma (non della vita in generale) preso in esame.

 

Seduta 6: integrazione del dilemma

La seduta 6 punta a chiarire entrambe le parti del dilemma per raggiungere un’integrazione, un accordo.

Si comincia, come al solito, esaminando l’homework assegnato, in questo caso chiedendo al paziente come si è sentito nel scriverlo, su cosa ha riflettuto per farlo, etc.

Spesso si utilizza la tecnica delle due sedie per sviluppare un dialogo tra le due parti del Sé del paziente che costituiscono il dilemma (la parte che desidera cambiare e quella che non vuole o ha paura di farlo) e raggiungere un accordo.

 

Seduta 7: proiettarsi nel futuro e vivere senza il dilemma

In questa seduta prevista dal Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione verranno esplorati i possibili scenari futuri e coerenti con il senso dell’identità del paziente che non comprendono il dilemma oggetto della terapia. Ciò viene fatto in quanto spesso i pazienti hanno vissuto così a lungo con il proprio dilemma o i propri sintomi da faticare a liberarsene o ad immaginare una vita futura che non li comprenda. Non sarà tanto importante stabilire “come” il dilemma verrà risolto, ma piuttosto immaginare come sarà la vita del paziente dopo la risoluzione. Vengono riportati alcuni esempi di domande che possono essere poste al paziente in questo caso:

  • “Che cosa farebbe in maniera diversa?”
  • “Come reagiranno le persone per Lei importanti a questo cambiamento?”
  • “Quali cose invece non cambieranno?”

Una volta delineata un’immagine relativa al futuro del paziente, si esplorano quegli aspetti della vita che sono già cambiati in vista di un’esistenza senza quel dilemma e come ciò è potuto accadere. In seguito, si analizza come estendere i cambiamenti ad altre situazioni.

 

Trattamento della depressione: CBT e Dilemma-Focused Intervention a confronto – Studio

Uno studio ha cercato di capire quale trattamento fosse più efficace per la depressione maggiore e la distimia, scegliendo tra due alternative. A fronte di una comune e preliminare partecipazione a 7 sedute di terapia di gruppo a stampo cognitivo-comportamentale (CBT), 128 partecipanti erano poi trattati con sedute di terapia focalizzata sui dilemmi (Dilemma-Focused Intervention), altri invece con il classico protocollo CBT. L’esperimento includeva 3 mesi di follow-up e garantiva gli standard di un randomized-controlled trial (RCT), tipologia che assicura elevata attendibilità dei risultati.

Le analisi statistiche hanno evidenziato un’eguale efficacia del protocollo CBT e di quello Dilemma-Focused Intervention nel ridurre la sintomatologia depressiva e lo stress psicologico derivante da essa. Queste conclusioni non minano l’utilità della Dilemma-Focused Intervention, poiché dimostrano che è efficace almeno quanto la CBT classica, ossia la terapia che oggi garantisce i migliori risultati nel trattamento della depressione. Il Dilemma-Focused Intervention, infatti, può rappresentare una valida alternativa alla CBT per quei pazienti che non gradiscono le modalità di quest’ultima. Gli studi futuri avranno l’onere di confermare o screditare questi risultati.

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