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Come salvarsi dall’impero del misero benessere? – Riflessioni sul vivere quotidiano

Un sistema impazzito, il nostro, che lascia poche vie d’uscita a chi vorrebbe cambiare la propria vita, un sistema che ruba il tempo e i valori per produrre ricchezza, ricchezza che altro non è se non schiavitù mascherata da libertà.

 

Una grande stanza, sessanta persone. La consegna del direttore della sessione formativa che sto per descrivere è di rimanere in silenzio e camminare, a passi lenti, e intanto osservare intorno ed osservarsi dentro. Su sessanta persone solo due, sguardo nello sguardo, resistono per diversi minuti senza mai perdersi. Per altri tenere lo sguardo fisso nell’altro anche solo per due secondi diventa faticoso, impossibile. Il silenzio sembra spogliarci dalle maschere che ci costruiamo con le parole, ed ogni sguardo che incrociamo sembra vada dritto nel nostro punto più sensibile, a fare luce là dove vogliamo che resti l’ombra.

Quello che ho appena descritto è uno degli esercizi di riscaldamento relazionale, che avviene nella prima fase degli incontri di gruppo condotti utilizzando i Metodi Attivi.

I Metodi Attivi sono una metodologia derivante dallo Psicodramma Classico, costituita da tutti quegli approcci esplorativi e quei linguaggi espressivi che privilegiano il fare anziché il pensare, l’azione invece che la parola, il sentire i propri vissuti piuttosto che il racconto degli stessi. Il pensiero e la parola subentrano solo in un secondo momento per integrare a livello cognitivo, il vissuto emotivo sperimentato durante la messa in scena delle proprie esperienze di vita.

La metodologia dei Metodi Attivi viene utilizzata prevalentemente nel lavoro di gruppo e in differenti contesti, da quello terapeutico a quello educativo e formativo. In questo caso specifico, i Metodi Attivi facevano parte di un programma di formazione rivolto agli educatori membri di un’ Associazione di volontariato internazionale che ha utilizzato questo metodo per esplorare il tema del viaggio.

Quando il direttore dà la consegna di iniziare a camminare più velocemente e di continuare a guardare gli altri, sembra che le resistenze interiori si plachino e l’esercizio diventa un puro movimento fine a se stesso. La velocità rende impossibile il contatto visivo tra le persone, porta tutti a scontrarsi senza guardarsi, la stanza diventa un non luogo caotico intriso di solitudine.

Collego la sensazione a quella che si può provare quando si corre per prendere la prima metro disponibile, scontrando centinaia di persone che vanno velocemente nella direzione opposta per arrivare puntuali al lavoro; oppure a quella che si può sentire nei centri commerciali osservando gli sguardi della gente che affondano nelle vetrine piene di luci e ultime offerte; o nelle palestre, dove i tapis roulant a schiera sono tutto il giorno calpestati dalla gente che una accanto all’altra corre, coi piedi sul tappeto da corsa e lo sguardo altrove alla ricerca di una meta che non si raggiunge mai.

Tutta la vita di corsa, il tempo che non basta, i giorni che si accavallano senza lasciare traccia; gli impegni da incastrare come pezzi di un puzzle senza disegno; le scadenze da rispettare, gli aperitivi sociali, quelli dove si beve per dimenticare la stanchezza; e poi l’appuntamento Yoga poche ore a settimana per prendere un po’ di fiato prima di tornare in apnea, per dirsi che anche se poco quel tempo può bastare per vivere con maggiore consapevolezza.

Intanto a casa le baby sitters riempiono i vuoti affettivi dei figli per come sanno e per come possono; i dog sitters portano a spasso i cani degli altri, le badanti diventano per i genitori anziani più familiari dei figli.

Un sistema impazzito che lascia poche vie d’uscita a chi vorrebbe cambiare la propria vita, un sistema che ruba il tempo e i valori per produrre ricchezza, ricchezza che altro non è se non schiavitù mascherata da libertà.

Qualcuno ha provato a ribellarsi, a fuggire dal potere del consumismo e del capitalismo, dall’ipocrisia delle finte relazioni che tentano invano di coprire il vuoto della solitudine creato dal sistema.

Jon Krakauer racconta nel suo libro Into the Wild – Nelle Terre selvagge la storia vera di Christopher McCandless, giovane Americano che subito dopo essersi laureato abbandona la ricca famiglia e si mette in viaggio a piedi per raggiungere l’Alaska, decidendo di vivere in assoluta libertà e nell’amore per il prossimo. Ciò che scrive in uno dei libri che stava leggendo prima di morire avvelenato da una bacca è “Happiness is only real when shared”.

Anche nel film da poco uscito in Italia Captain Fantastic Matt Ross racconta di un padre fuori dagli schemi che ha vissuto in isolamento con la sua famiglia nei boschi della costa nord-occidentale degli Stati Uniti per oltre dieci anni lontano dalla società consumistica, per poi rivedere le sue ideologie e trasferirsi in una fattoria vicina alla città, dove i figli possono frequentare regolarmente la scuola.

Ma per non andare molto lontano basta pensare ai tanti italiani che si sono riuniti a formare delle comunità basate sulla sostenibiltà ambientale e sull’autosufficienza alimentare nel tentativo di dare vita a nuove forme di convivenza con l’obiettivo di ricostruire il tessuto familiare, culturale e sociale disgregato dal sistema postmoderno e globalizzato. All’interno di questi “ecovillaggi”, dalla Sicilia al Nord Italia, i membri cercano di soddisfare le proprie esigenze lavorative, espressive, educative e affettive avendo come modello comune la sostenibilità ecologica, economica, spirituale e socioculturale.

Ma può una scelta così radicale permettere all’uomo di raggiungere il suo agognato benessere? Fino a che punto questo sottosistema può difendersi dalla società globalizzata senza rischiare l’implosione e l’incomunicabilità con l’esterno?

Uno studio effettuato da generazioni di ricercatori dell’Università di Harvard con a capo lo psichiatra Robert Waldinger, pubblicato sulla rivista scientifica Psychological Science, rivela ciò che avvicina maggiormente l’uomo al suo benessere fisico e psichico, ossia la creazione e il mantenimento delle connessioni sociali che devono essere, più che numerose, qualitativamente buone. L’esperienza della solitudine per molte persone è risultata essere tossica per la loro salute, così come tossico è risultato vivere in un clima familiare litigioso e caotico.

Insomma, secondo quanto affermato da Robert Waldinger nella sua Ted Talk, l’elisir di lunga vita è risultato essere la capacità di avere relazioni sane e profonde non solo con i propri familiari ma anche con i colleghi di lavoro e gli amici.


Robert Walding: What makes a good life? Lessons from the longest study on happiness


Ma per ritornare al punto iniziale, come si può riuscire a curare maggiormente le relazioni se siamo assorbiti dalla velocità di un sistema che ci ruba pure il tempo di respirare? E se decidessimo di fuggire dal sistema, quanto ciò aumenterebbe il rischio di sentire addosso una solitudine ancora più grande?

Non esiste una risposta univoca che vada bene per tutti, a ognuno di noi la responsabilità della ricerca del proprio vero benessere.

La relazione terapeutica: strada maestra verso il cambiamento – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Al di là della diagnosi categoriale quello che ci è utile è una descrizione del funzionamento del soggetto che è unico ed originale anche se alcuni aspetti delle sue condotte sono riconducibili alle categorie diagnostiche. Lui è molto di più.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – La relazione terapeutica (Nr. 20)

 

Una volta fatta una ipotesi sul suo funzionamento gli va restituita allo scopo di riaggiustarla insieme, come il sarto che prova il vestito e poi  insieme vedono le modifiche da fare.

Si può mostrare inoltre al soggetto come ha appreso quella modalità di perseguire  gli scopi per lui importanti ed anche perché quest’ultimi sono tali. Infine gli si può far valutare i costi di una simile strategia, soprattutto se rigida e senza alternative sottolineando contemporaneamente il ruolo adattivo e di salvavita che ha avuto nel contesto di apprendimento, ma che ora la guerra è finita e il panorama cambiato.

Il processo di cambiamento – che può essere graduale e/o minor se si colloca a livello delle strategie di perseguimento o  rivoluzionario e/o maior se coinvolge gli scopi – lo si attua con tutte le tecniche a disposizione (la cassetta degli attrezzi) cognitivo comportamentali e non solo, avendo come obiettivo di esplorare con lui territori prima off limits ampliando dunque i gradi di libertà del sistema ad entrambi i livelli (scopi e strategie).

La strada maestra comunque è l’atteggiamento di fondo da tenere nei suoi confronti che definirei come “percepirlo e trattarlo come non si è mai permesso di essere per consentirglielo”. Credo che questa percezione di come l’altro avrebbe potuto e forse voluto essere e non è stato sia decisiva e deve essere sincera; poi tutto il resto protocolli, tecniche ecc. segue di conseguenza.

L’importante è procedere con un idea in testa sul cambiamento che si vuole ottenere, il resto viene da sé.

Ad esempio se voglio che aumenti l’autostima, l’atteggiamento sarà genericamente validante e incoraggiante. Se voglio che smetta di costringersi ad essere il migliore per essere considerato, lo coccolerò quando sta in difficoltà. Due esempi fuori contesto, dunque più freddi e chiari.

Se voglio  tornare a casa devo rappresentarmi questo desiderio. Poi scegliere l’autobus, la metropolitana, i piedi o il taxi dipenderà dalla distanza, da me in quel preciso giorno, dal tempo e dalle risorse. Se voglio conquistare una donna (uomo) il protocollo non è standard manco per Salvkovsky, e dipende da come è lei (o meglio da come penso che sia), da come sono le condizioni esterne al momento, da come sono io. L’importante non è avere la ricetta giusta ma un metodo per la correzione degli errori che certamente ci saranno e in terapia questo metodo di aggiustamento della mira è la condivisione col paziente.

Questo discorsetto mi pare relativizzi molto le diagnosi, i protocolli e le tecniche (tutto quello che da certezze sob!) e valorizzi la formulazione del caso e l’atteggiamento nella relazione terapeutica.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

L’uso di cocaina nei padri potrebbe influenzare negativamente le funzioni mnemoniche dei figli maschi

Uso di cocaina ed effetti sui figli: I padri che fanno uso di cocaina al momento di concepire un figlio potrebbero mettere i propri figli a rischio di sviluppare disturbi dell’apprendimento e perdita di memoria

 

L’uso di cocaina da parte dei padri e gli effetti sui figli maschi

I risultati di uno studio condotto sugli animali, sono stati pubblicati sulla rivista Molecular Psychiatry da un team di ricercatori della “Perelman School of Medicine” nell’Università della Pennsylvania. I ricercatori sostengono che i risultati mostrino che l’abuso di droga dei padri – fattore separato dall’ormai ben conosciuto effetto dell’uso della cocaina nelle madri – potrebbe avere degli effetti sui figli maschi, nello specifico sullo sviluppo cognitivo.

Lo studio, condotto da Mathieu Wimmer, PhD, ricercatore nel laboratorio di R.Christopher Pierce, PhD, professore di Neuroscienze psichiatriche alla Perelman School of Medicine dell’Università della Pennsylvania, ha dimostrato che i figli dei padri che fanno uso di cocaina prima del concepimento avrebbero difficoltà nello sviluppo di nuovi ricordi. I risultati hanno evidenziato che i figli – ma non le figlie – di ratti maschi a cui era stata somministrata cocaina per un periodo esteso di tempo, non riuscivano a ricordare il posizionamento di item nelle zone a loro vicine e presentavano un danneggiamento nella plasticità dell’ippocampo, una regione cerebrale critica per l’apprendimento e per l’esplorazione spaziale negli uomini e nei roditori.

[blockquote style=”1″]I risultati suggeriscono che i figli di uomini che presentano una dipendenza da cocaina potrebbero essere a rischio di sviluppare disturbi dell’apprendimento[/blockquote] sostiene il Dr. R. Christopher Pierce, professore di neuroscienze Psichiatriche alla Perelman School of Medicine all’Università della Pennsylvania.

Neuropsicologia: come spiegare gli effetti sui figli dell’uso di cocaina dei padri

Pierce e i suoi colleghi ipotizzano che alla radice del problema possano esserci i meccanismi epigenetici, definiti come  le modificazioni che variano l’espressione genica senza una variazione della sequenza del DNA, come i tratti ereditari.  Il DNA è strettamente avvolto a proteine basiche chiamate “istoni”, come un filo attorno ad una bobina, e vi interagisce chimicamente, determinando la differente espressione dei geni, in un processo epigenetico.

La ricerca mostra che l’uso di cocaina nei padri comporterebbe cambiamenti cerebrali nei figli maschi, agendo così sull’espressione di geni importanti per la costruzione dei ricordi. Nei ratti i cui padri avevano assunto cocaina, si rilevava un esaurimento della D-Serina, una molecola essenziale per la memoria; il ripristino nei livelli di D-Serina nell’ippocampo dei figli, migliorava le abilità di apprendimento negli animali.

In collaborazione col Dott. Benjamin Garcia, professore di Biochimica e Biofisica all’Istituto Epigenetico della Perelman School of Medicine, gli autori hanno dimostrato che l’abuso di cocaina nei padri altererebbe ampiamente i segnali chimici sugli istoni nelle regioni cerebrali dei figli, anche qualora la progenie non sia stata mai esposta alla cocaina. Le modificazioni chimiche conseguenti avrebbero l’effetto di favorire la produzione dell’enzima “D-amminoacido ossidasi”, che comporta il deterioramento della D-serina. Gli autori sostengono che sia proprio l’incremento di questo enzima, causato dai cambiamenti nei processi epigenetici, a causare i problemi di memoria nei figli dei ratti dipendenti dalla cocaina.

[blockquote style=”1″]Abbiamo un interesse sostanziale nello studio dello sviluppo della D-Serina e i composti correlati tollerati dall’uomo, come le terapie per le dipendenze. L’abilità della D-serina di ribaltare gli effetti negativi dell’uso parentale di cocaina sull’apprendimento, aggiunge potenziale rilevanza clinica alla ricerca[/blockquote] sostiene Pierce.

Il disputing logico-empirico di Aaron T. Beck – Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Con il disputing empirico di Aaron T. Beck il terapeuta chiama il paziente a riflettere su come egli immagina concretamente che avvengano gli eventi negativi, e su quali prove concrete e tratte dalla sua esperienza quotidiana si basano questi pensieri catastrofici.

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico di Beck

Psicoterapia: Il Disputing Logico-Empirico alla Beck – Parte 2

Disputing alla Beck #3: individuare gli Errori Logici – Psicoterapia –

Dilemma-Focused Intervention (DFI) per il trattamento della depressione

Il Dilemma-Focused Intervention (DFI) si caratterizza come uno specifico modulo di trattamento da impiegare all’interno di una più ampia cornice teorica di riferimento; sebbene non sia pensato come trattamento specifico per la depressione unipolare, recenti evidenze scientifiche ne hanno dimostrato l’efficacia clinica.

 

Il Dilemma-Focused Intervention (DFI) si caratterizza come uno specifico modulo di trattamento da impiegare all’interno di una più ampia cornice teorica di riferimento (ad es., terapia cognitivo-comportamentale, teoria dei costrutti personali, etc.) utile per tutti quei disturbi che contemplano al loro interno almeno un dilemma personale, identificato per mezzo di una Griglia di Repertorio. Sebbene non sia pensato come trattamento specifico per la depressione unipolare, recenti evidenze scientifiche ne hanno dimostrato l’efficacia clinica.

La volontà dell’autore di questo articolo è fornire una traduzione comprensibile della manualizzazione del Dilemma-Focused Intervention per il trattamento della depressione unipolare (Feixas & Compañ, 2016). Dopo una breve presentazione della Teoria dei Costrutti Personali e delle sue tecniche, si presenterà step by step la procedura clinica del Dilemma-Focused Intervention.

 

Le origini del Dilemma-Focused Intervention: la Teoria dei Costrutti Personali

I fondamenti teorici del Dilemma-Focused Intervention derivano dalla Teoria dei Costrutti Personali (PCT), proposta da George Kelly. Secondo questa teoria, ogni persona interpreta (costruisce) in modo diverso i fenomeni, in accordo con il proprio sistema di costrutti, e l’accesso diretto alla realtà non è possibile. L’attività umana, quindi, è concepita come un processo globale di costruzione di significati: ogni persona, infatti, è concepita come uno scienziato laico che elabora svariate teorie col proposito di dare una spiegazione alle proprie esperienze; tali teorie sono continuamente testate e, al bisogno, riviste. Ogni comportamento, in questo senso, si configura come un esperimento che valida o invalida le teorie personali del soggetto. Le teorie hanno il valore di anticipare le ricorrenze della vita per farvi fronte nella maniera più adattiva possibile.

Secondo la Teoria dei Costrutti Personali, il sistema cognitivo consiste di costrutti personali bipolari, che riflettono le distinzioni che la persona fa sulla base delle somiglianze o differenze notate nella sua esperienza (i.e., “caldo-freddo”; “amichevole-non amichevole”; “depresso-allegro”). I costrutti personali sono organizzati in un network di significati gerarchizzati; quelli ad un livello più alto costituiscono il senso di sé o identità e sono interconnessi con i costrutti più periferici ad un più basso livello gerarchico.

Secondo questa prospettiva, perciò, l’identità garantisce il senso della continuità di noi stessi indipendentemente dal passare del tempo e del mutare delle situazioni, come anche il senso di unicità dell’esistenza umana. Per questo motivo un cambiamento nei costrutti core spesso elicita la resistenza dell’individuo, reazione che rappresenta un tentativo fisiologico di mantenere il proprio sistema di costrutti inalterato ed evitare così di intaccare la continuità del senso di identità personale.

Un altro aspetto chiave della Teoria dei Costrutti Personali è l’enfasi sugli aspetti relazionali della costruzione di significato. Infatti, anche i costrutti connessi agli aspetti più intimi di una persona sono parte di un contesto culturale e relazionale. Le persone, appunto, attribuiscono particolari significati ad ognuna delle loro interazioni con gli altri e nel contesto clinico emerge l’importanza di esplorare il significato personale relato agli altri. In questa visione, accade spesso che l’essere umano, nel momento in cui opera una decisione, debba risolvere dei conflitti tra la visione di sé e i propri valori personali. Tali conflitti possono risolversi o generare uno stato tensione psicologica.

La Teoria dei Costrutti Personali concepisce i conflitti cognitivi come dilemmi che la persona affronta e deve risolvere in una maniera coerente con il suo senso di identità personale. Essa distingue tra costrutti dilemmatici e dilemmi implicativi. I primi sono quelli che non offrono un chiaro percorso d’azione. Secondo la Teoria dei Costrutti Personali, la persona seleziona il polo del costrutto che assicura maggiore prevedibilità. Alle volte, però, entrambi i poli assicurano vantaggi e svantaggi, tali per i quali la persona finisce per bloccarsi e non agire.

I dilemmi implicativi sono invece quei conflitti cognitivi nei quali il sintomo è associato a dimensioni della costruzione di sé positive. Il cambiamento desiderato (ad es., smettere di essere depresso e diventare una persona felice) in quella costruzione implica, perciò, un cambiamento non desiderato verso un altro costrutto associato a caratteristiche positive di sé (ad es., smettere di essere una persona generosa e diventare egoista). Quando tali dilemmi si presentano, la persona spesso si blocca poiché, muoversi nella direzione del cambiamento desiderato (ad es., diventare felice) implicherebbe il cambiamento non desiderato (ad es., diventare egoisti). Questo tipo di conflitto coinvolge il senso di identità personale e spiega l’insorgenza di sintomi clinicamente rilevanti e la resistenza al trattamento.

La tecnica delle Griglie di Repertorio (RGT, Repertory Grid Technique) è uno strumento derivato dalla Teoria dei Costrutti Personali che consente l’identificazione dei conflitti cognitivi. Essa permette la valutazione del concetto di sé e della struttura cognitiva della persona, basandosi sulla costruzione che la persona stessa dà di sé.

Partendo dall’idea di essere umano “costruttore di significati”, è chiaro che i sintomi hanno un senso per il paziente. Per questo motivo la terapia esplora e tenta di comprendere questi significati (e i conflitti di identità in essi inclusi), nel tentativo di scoprire insieme al paziente costruzioni alternative – ma ugualmente coerenti con il suo senso di identità – che generano minore sofferenza.

 

La depressione secondo la Teoria dei Costrutti Personali

Secondo Kelly la depressione si sostanzia in un’estrema costrizione del campo percettivo attuata al fine di minimizzare il rischio di invalidazione personale. Infatti, quando un costrutto core, cioè relato all’identità del soggetto, è a rischio di invalidazione la persona riduce la disponibilità a fare esperienza (ad es., dormendo la maggior parte del tempo, evitando di svolgere attività o di incontrare altre persone, etc.) nel tentativo di proteggere quel significato, di evitare lo stress e il dispiacere derivante dalla perdita dello stesso.

Precedenti studi hanno già rintracciato una chiara correlazione tra la presenza di dilemmi e sintomi depressivi e, sebbene la presenza di dilemmi non è specifica per la depressione, essi sembrano giocare un ruolo importante in questo disturbo. Partiamo dall’idea che la presenza di dilemmi personali è legata alle incongruenze o alla frammentazione del sistema cognitivo. Queste incongruenze possono ostacolare la flessibilità del sistema e la capacità di agire in modo soddisfacente nel contesto interpersonale, favorendo stress emotivo o la sofferenza.

L’intervento descritto in questo manuale persegue l’obiettivo di esplorare i significati personali per risolvere i dilemmi e incoraggiare lo sviluppo di un sistema di costrutti più armonico e flessibile, permettendo al paziente di risolvere i sintomi. Infatti, spingere la persona al cambiamento rischierebbe di elicitare una resistenza a questo tentativo. Invece, focalizzarsi sulle implicazioni del cambiamento e mantenendo la coerenza con il senso di identità del soggetto, permette di instaurare una migliore alleanza terapeutica e di stabilire un punto di partenza migliore per il cambiamento. La terapia è concepita, quindi, come una delicata rinegoziazione dei significati personali del paziente.

Per ciò che riguarda il trattamento della depressione, il Dilemma-Focused Intervention offre al paziente una spiegazione di tutto rispetto riguardo la persistenza dei suoi sintomi in relazione ai dilemmi all’interno del suo sistema di costrutti. Il meccanismo centrale della terapia coinvolgerebbe da una parte il chiarimento della natura del dilemma e dall’altra l’integrazione delle due facce dello stesso. Tutto l’approccio si basa sull’idea che il cambiamento è possibile quando il sistema di significati del paziente è armonizzato; il potere di cambiare è quindi lasciato nelle mani del paziente. La terapia perciò procede in un clima di astensione di giudizio e senza optare per un cambiamento in particolare. Tutto ciò viene fatto sulla base dell’idea che l’unico in grado di valutare e successivamente riconsiderare i propri significati è il paziente stesso.

 

Dilemma-Focused Intervention e assessment dei dilemmi

Il Dilemma-Focused Intervention prevede una valutazione iniziale focalizzata sul sistema di costrutti del paziente, che ne indaga il contenuto e la struttura. Possono essere impiegati questionari come il CORE-OM e altri strumenti self-report. La tecnica usata per l’assessment del sistema di costrutti è la Tecnica delle Griglie di Repertorio o RGT, una intervista semi-strutturata nella quale vengono elicitati i costrutti bipolari (ad es., “depresso-felice”) in relazione a persone significative (i.e., gli elementi); tali costrutti sono trascritti sulla griglia nel modo in cui vengono espressi dal paziente e tra gli elementi compare sempre l’idea attuale e quella ideale di sé.

In seguito ogni elemento è valutato in relazione ai costrutti, utilizzando una scala Likert a 7 punti. Il risultato di questo procedimento è una matrice che riflette la valutazione della persona degli elementi in accordo con i suoi costrutti; la matrice può essere soggetta ad analisi statistiche che restituiscono una serie di indici – come l’indice di discrepanza con il sé ideale e l’isolamento sociale percepito – per sintetizzare le informazioni emerse dalla griglia.

Riguardo l’identificazione dei dilemmi personali, i costrutti dilemmatici sono quelli che ricevono un punteggio di 4 sulla scala Likert, in quanto per il paziente nessuno dei poli del costrutto è veramente desiderabile o magari lo sono entrambi. Per identificare i dilemmi implicativi si possono usare dei software come Gridcor. Attraverso questo programma, inizialmente si identificano i costrutti congruenti – ossia quelli dove la persona percepisce uno scarto minore tra i sé attuale e quello ideale – e discrepanti – dove invece il sé attuale e ideale si pongono ai poli opposti – ed in seguito, quando emerge una correlazione positiva (r > 0.35) tra i punteggi di un costrutto congruente e quelli di uno discrepante, possiamo parlare di un dilemma implicativo. Tale correlazione, infatti, stabilisce che un cambiamento in un costrutto discrepante genera un cambiamento indesiderato in un costrutto congruente.

Facciamo un esempio per meglio comprendere cosa siano i costrutti congruenti e discrepanti (vedi Tabella 1.1). Un paziente descrive se stesso come “generoso”; il polo opposto individuato per “generoso” è “egoista”. Allo stesso tempo, il paziente si definisce “depresso” (sé attuale) e vorrebbe diventare una persona “felice” (sé ideale).

L’associazione tra questi due costrutti, però, implica che per diventare una persona più felice (cambiamento desiderato) la persona necessariamente debba accettare un cambiamento indesiderato nell’altro costrutto, ossia diventare una persona egoista. Per evitare ciò e mantenere un’immagine positiva di sé, il paziente in qualche modo “decide” di sacrificare la sua felicità al fine di non diventare egoista. Questo porta però a stress ed infelicità.

 

Dilemma-Focused Intervention (DFI) per il trattamento della depressione unipolare -Tab 1

Tabella 1.1. I rispettivi poli dei costrutti dell’esempio sovracitato.

 

Procedure e tecniche impiegate nel Dilemma-Focused Intervention

Esistono svariate tecniche utilizzabili nel Dilemma-Focused Intervention, e sono:

  • Identificazione delle figure prototipiche del dilemma: queste figure possono essere trovate tra gli elementi inclusi nella RGT, osservando i punteggi attribuiti. Le figure prototipiche sono gli altri significativi che ben rappresentano le due posizioni opposte del dilemma. Per ciò che riguarda i dilemmi implicativi, da una parte viene assegnato un punteggio ad uno o più elementi per quanto riguarda il polo congruente del costrutto congruente e il polo attuale del costrutto discrepante (nell’esempio in Tabella 1.1 “generoso” e “depresso”), dall’altra parte, vengono assegnati punteggi per quanto riguarda il polo non desiderato del costrutto congruente e il polo desiderato del costrutto discrepante (nell’esempio “egoista” e “felice”). Mentre il primo set di elementi rappresenta la posizione attuale del paziente, il secondo incarna le implicazioni del cambiamento. Per i costrutti dilemmatici, le figure prototipiche sarebbero quelle valutate dal paziente con i punteggi più estremi ad entrambi i poli. Stando all’esempio, il paziente dovrebbe individuare un altro significativo generoso ma depresso e un altro significativo egoista ma felice. Questa procedura permette di esemplificare il dilemma e renderlo più evidente al paziente, utilizzando persone a lui vicine.
  • Tecnica della bacchetta magica: è utilizzata nella fase iniziale per esplorare il dilemma e renderlo esplicito nella conversazione. Questa tecnica è utile a capire se il cambiamento – nel costrutto discrepante – è veramente desiderabile e sarà davvero positivo per il paziente. Per fare ciò, il terapeuta chiede al paziente se è davvero pronto per il cambiamento e, immaginando che abbia una bacchetta magica che lo realizzi, lo invita ad esplicitare alcune implicazioni negative insieme alle risorse necessarie per farvi fronte. In questa maniera, la natura dilemmatica del cambiamento emerge completamente agli occhi del paziente e del terapeuta.
  • Auto-caratterizzazione: questa tecnica prevede che il paziente fornisca i propri costrutti ma in forma narrativa. Nel dettaglio, egli è invitato a scrivere una descrizione di sé utilizzando la terza persona, come se il racconto fosse scritto da un caro amico. L’auto-caratterizzazione generalmente è assegnata al paziente alla fine della prima seduta per poi essere discussa insieme all’inizio della seconda.
  • Laddering up: tecnica introdotta da Hinkle, con l’obiettivo di esplorare le implicazioni sovraordinate ad un dato costrutto. Il terapeuta qui identifica un costrutto personale del paziente e gli chiede di indicare il polo di quel costrutto che reputa desiderabile, in seguito gli chiede perché quel determinato polo sia più desiderabile dell’altro. Nel Dilemma-Focused Intervention i costrutti investigati sono quelli coinvolti nel dilemma. Un esempio potrebbe essere: “Perché è meglio essere felice invece che depresso?”. La tecnica è portata avanti fino a che non si riescono ad individuare ulteriori implicazioni sovraordinate.
  • Laddering down: questa tecnica, invece, punta ad individuare le implicazioni subordinate di ogni polo di un dato costrutto. E’ molto utile per evitare fraintendimenti tra terapeuta e paziente e utilizzata soprattutto per esplorare quelle etichette verbali che sembrano troppo astratte, generali, vaghe o ambigue (ad es., “felice-infelice”). Esempi pratici di come metterla in atto potrebbero essere domande quali: “Che tipo di persona è una persona felice?” o “Che tipo di caratteristiche ha una persona che è felice?”.
  • Laddering dialettico: è basato sul laddering up, ed è molto utile quando un paziente non è in grado di identificare una chiara preferenza per i due poli di un costrutto. Nel Dilemma-Focused Intervention è il caso dei costrutti dilemmatici. L’obiettivo qui è riconciliare i poli in una sintesi o integrazione di più alto livello. Ad esempio, al paziente che propone il costrutto dilemmatico “dà tutto – tiene tutto per sé”, il terapeuta potrebbe suggerire l’etichetta “estremista” che contiene entrambi i poli proposti e per la quale il polo opposto potrebbe essere “moderato”; così facendo magari il paziente saprebbe preferire il polo “moderato” e farebbe evolvere il costrutto dilemmatico in uno nuovo rispetto al quale ha una chiara preferenza per uno dei due poli.
  • Ricostruzione del Cerchio dell’Esperienza: nella terza seduta del Dilemma-Focused Intervention si utilizza tecnica definita Cerchio dell’Esperienza, utile a ricostruire l’immediata esperienza del paziente esaminando le sue costruzioni in un dato corso d’azione. Il Cerchio dell’Esperienza descrive il nostro modo di agire come in un continuo esperimento dove le nostre costruzioni vengono testate ed eventualmente revisionate. La prima fase, quella delle anticipazioni, contempla tutti quei pensieri non propriamente consci o espliciti riguardo ciò che succederà. Segue la fase degli investimenti, dove i contenuti possono essere elicitati con domande quali: “Fino a che punto questa situazione/evento è importante per me?”. La fase successiva è quella dell’incontro con l’evento; segue poi la fase di valutazione rispetto a cosa è successo per capire se l’anticipazione è stata confermata o disconfermata (fase della conferma/disconferma). L’ultimo step prevede la revisione delle costruzioni, se necessaria. Dal momento che questo ciclo può essere bloccato in ogni fase, dando origine ad una varietà di problemi e sintomi che il paziente porta in terapia, è utile analizzarlo per identificare i significati personali che entrano in gioco e rilevare al suo interno sia le limitazioni che le alternative possibili. Il Dilemma-Focused Intervention usa questa tecnica partendo dal dilemma preso in analisi. Nella fase delle anticipazioni e degli investimenti, infatti, emergono i significati personali del paziente, oggetto di analisi in terapia.
  • Analisi delle implicazioni relazionali del dilemma: il Dilemma-Focused Intervention prevede un’analisi del ruolo degli altri significativi – solitamente dei membri della famiglia – nella creazione e nel mantenimento del dilemma investigato. L’obiettivo è rendere consapevole il paziente di come queste persone possano influenzare la costruzione della sua realtà in modo da stimolare costruzioni alternative e meno dipendenti da queste figure. Si parla di complici, quando gli altri significativi trattano il paziente in una maniera che valida la sua posizione attuale all’interno del dilemma e lo invalidano quando egli tenta di cambiare posizione (polo) o ruolo nella relazione.
  • Ricostruzione storica del dilemma: come molte scuole di pensiero, anche il Dilemma-Focused Intervention tenta di investigare il passato del paziente per identificare situazioni passate e scoprire la ragione delle sue costruzioni attuali; tuttavia è assente l’obiettivo di trovare il “colpevole” e di focalizzare la terapia sul passato. In altre parole, ripercorrere i traguardi del passato aiuterebbe a capire come il dilemma fu “logico” in un dato contesto del passato del paziente, una manovra che Kelly chiava time binding. Questa tecnica facilita la ricerca di nuove costruzioni più adatte al presente. Nel Dilemma-Focused Intervention la ricostruzione storica del dilemma è stimolata da un compito chiamato “capitoli dell’autobiografia”. Esso consiste nel chiedere al paziente di scrivere il titolo di una serie di capitoli, con relativo intervallo di tempo che comprendono, che raccontino la sua storia. Inoltre, il paziente deve dare un titolo anche al capitolo relativo al futuro, dove il dilemma sarà risolto. In seguito, tali capitoli sono discussi in terapia e al paziente è chiesto di identificare la sua posizione nel dilemma in ogni capitolo.
  • Rappresentazione drammatica del dilemma: si basa sulla tecnica della Terapia della Gestalt, a sua volta influenzata da Jacob Levy Moreno, ideatore dello psicodramma. Nella rappresentazione drammatica del dilemma vengono impiegate due sedie, ognuna rappresentante un polo del dilemma. Il paziente deve ripetutamente sedersi prima sull’una (polo attuale del costrutto discrepante connesso al polo congruente del costrutto congruente) e poi sull’altra (polo desiderato del costrutto discrepante connesso al polo non desiderato del costrutto congruente) per esprimere a parole “le ragioni”, del dilemma con l’obiettivo di integrarle.
  • Proiezione nel futuro: spesso il paziente è rimasto intrappolato a lungo nel dilemma in questione, a tal punto da sperimentare difficoltà anche solo ad immaginare una vita senza quel dilemma. Nel Dilemma-Focused Intervention ai pazienti viene chiesto di immaginare come sarebbe la loro vita senza quel dilemma e di descrivere specifiche situazioni dove questo è di fatto risolto. Particolare attenzione è rivolta alle implicazioni relazionali della risoluzione del dilemma e alla coerenza di questo cambiamento con la propria identità.

 

Riguardo la relazione terapeutica

La Teoria dei Costrutti Personali favorisce l’instaurarsi di una relazione terapeutica cooperativa tra due esperti in due campi differenti: il paziente è esperto nei contenuti (i.e., temi, obiettivi, progetti ed esperienze), mentre il terapeuta è esperto nei processi di costruzione di significato e nella loro influenza sulle emozioni e le azioni, nelle dinamiche di cambiamento ed in particolare nella terapia come un processo e un contesto.

Per quanto riguarda la comunicazione adottata, il terapeuta raramente è direttivo o prescrittivo; il suo atteggiamento riflette piuttosto la curiosità rispetto al mondo del cliente, ai suoi personali e spesso idiosincratici significati. Il terapeuta può invitare il cliente a considerare le implicazioni di diverse modalità di costruire un evento, ma non giudica mai le prese di posizioni del paziente.

Settimana mondiale del Cervello – Bologna 13-19 Marzo

Un evento patrocinato da State of Mind:

Settimana mondiale del Cervello – Bologna 13-19 Marzo

 

Dal 13 al 19 marzo 2017 anche in Italia si celebra il cervello

Una settimana dedicata alla sensibilizzazione di giovani, adulti e anziani sull’importanza della conoscenza del più complicato e sconosciuto organo del nostro corpo: il cervello. È la Settimana Mondiale del Cervello, campagna coordinata dalla European Dana Alliance for the Brain in Europa e dalla Dana Alliance for Brain Initiatives negli Stati Uniti che quest’anno si svolge tra il 13 e il 19 marzo. L’iniziativa coinvolge come ogni anno psicologi, neuroscienziati e altri professionisti del settore della salute. In Italia l’evento è animato da Hafricah.NET, portale di divulgazione neuroscientifica e partner ufficiale della Dana Foundation, con il patrocinio del Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi e di moltissime istituzioni pubbliche e private.

Tra il 13 e il 19 marzo tutto lo stivale – isole comprese – sarà animato da una serie di eventi completamente gratuiti a tema cervello che testimoniano l’entusiasmo di singoli professionisti, associazioni, centri di ricerca, cultori della materia, appassionati, pazienti, insegnanti. In programma oltre trecento appuntamenti in più di centocinquanta città italiane: laboratori interattivi, screening, mostre, cineforum, dibattiti, tour guidati nei centri di ricerca e tanto altro.

L’obiettivo è rendere accessibili ai cittadini i dati della ricerca neuroscientifica, per sensibilizzare al mantenimento di una buona salute cerebrale e all’assunzione di corrette abitudini quotidiane, indispensabili per prevenire malattie.

Il calendario è costantemente in evoluzione sul sito www.settimanadelcervello.it e sulla pagina Facebook “Settimana Mondiale del Cervello”.

Per maggiori informazioni è possibile contattare il comitato scientifico – Hafricah.NET

www.hafricah.net

[email protected]

tel. 0909575428 – 3668933240

Settimana Mondiale del Cervello - Bologna 13-19 Marzo 2017

Settimana Mondiale del Cervello - Bologna 13-19 Marzo 2017 - 2

Stili di vita, benessere e apprendimento scolastico: una ricerca esplorativa

Stili di vita, benessere e apprendimento scolastico: una ricerca esplorativa

R. Carnevale¹, C. Sidoti², I. Pernetti³

(1- Laboratorio Apprendimento e ASL TO4; 2- Matematica Statistica Torino; 1- Matematica Statistica Torino; 3-  Istituto Comprensivo Ciriè 1 -TO)

 

Abstract

La letteratura e il lavoro in ambito clinico ed educativo con bambini e ragazzi che presentano difficoltà evidenziano come il benessere scolastico sia un costrutto complesso che coinvolge fattori diversi, dalle abitudini motorie, al ritmo sonno-veglia, agli aspetti emotivi, motivazionali e relazionali, con un forte legame al processo di apprendimento.

La presente ricerca, con un approccio sistemico, mette in relazione e analizza alcuni di questi aspetti attraverso tre punti di vista.

Il campione è infatti costituito da studenti, genitori e insegnanti di scuola primaria (III, IV e V) e secondaria di primo grado (I e II) della provincia di Torino. Sono stati somministrati questionari differenziati per le diverse categorie di partecipanti, appositamente costruiti, tenendo conto della letteratura e dell’osservazione sul campo, unitamente al QBS – Bambini/Ragazzi (Tobia e Marzocchi, 2015) e alla raccolta dei dati delle singole pagelle di fine anno scolastico. Dai risultati è possibile trarre alcune implicazioni a livello clinico ed educativo.

 

L’ideazione suicida e il rischio di suicidio nel Morbo di Parkinson

E’ stato riscontrato come comportamenti suicidari possano essere più comuni in alcune malattie neurologiche, tuttavia sono pochi gli studi che hanno esaminato l’ ideazione suicida e il rischio di suicidio nel morbo di Parkinson.

Maria Pia Totaro – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Il suicidio è una delle principali cause di morte in tutto il mondo. Secondo il National Comorbidity Survey, l’incidenza stimata nell’arco di vita relativamente a ideazione suicida e tentativi di suicidio nella popolazione generale è rispettivamente del 13,5% e del 4,6%.

 

Ideazione suicida, tentato suicidio e suicidio completato

Comportamenti e pensieri suicidi possono essere classificati come ideazione suicida, tentativi di suicidio, e suicidio completato, i primi due sono tra i fattori di rischio più importanti per un suicidio completato.

L’ ideazione suicida è definita come pensieri relativi al porre fine intenzionalmente alla propria vita, senza l’agire. Il tentato suicidio è l’autolesione con il desiderio di porre fine alla propria vita, che non dia luogo alla morte. I fattori di rischio modificabili per il comportamento suicida comprendono: disturbi dell’umore (ad esempio, la depressione maggiore), abuso di sostanze o alcolismo, patologie croniche comuni (ad esempio, il dolore, insufficienza cardiaca, e bronco pneumopatia cronica ostruttiva), e la mancanza di legami sociali, mentre i fattori di rischio immutabili comprendono il sesso maschile e l’aumentare dell’età.

 

Rischio di suicidio nel Morbo di Parkinson

La prevalenza dell’ ideazione suicida negli anziani varia ampiamente, da meno dell’1% al 17%. In uno studio  che ha coinvolto persone anziane senza disturbi mentali diagnosticati, il 4% ha ritenuto che la vita non è degna di essere vissuta, il 28% ha desideri di morte, il 9% ha pensato  di impadronirsi della propria vita, e il 2% ha seriamente pensato al suicidio entro 1 mese dall’ intervista.

E’ stato riscontrato come comportamenti suicida possano essere più comuni in alcune malattie neurologiche, come il morbo di Huntington,  la sclerosi multipla, e lesioni traumatiche del midollo spinale, tuttavia sono pochi gli studi che hanno esaminato il rischio di  suicidio nel morbo di Parkinson. Il Morbo di Parkinson è un disturbo neuropsichiatrico e neurodegenerativo progressivo. Esso è stato conosciuto principalmente come un disturbo motorio, con tremore, bradicinesia, rigidità e instabilità posturale nelle sue caratteristiche dominanti. Inoltre è stata evidenziata la presenza di sintomi psichiatrici non motori  che spesso insorgono durante il cronicizzarsi della malattia.

La presente rassegna si è proposta di investigare il comportamento suicida nei soggetti affetti da Morbo di Parkinson. In particolare Kummer e colleghi (2009) hanno indagato circa la frequenza dell’ ideazione suicida e  i tentativi di suicidio in pazienti con Morbo di Parkinson, non colpiti da demenza e senza disturbi del controllo degli impulsi o in fase di stimolazione subtalamica.

Il campione è stato costituito da 90 pazienti ambulatoriali con malattia di Parkinson clinicamente definita, reclutati  dal Movement Disorders Clinic del Federal University di Minas Gerais, Belo Horizonte, Brasile.

Dai risultati è stato riscontrato che il 14,4% dei pazienti con Morbo di Parkinson ha avuto un’ ideazione suicida nell’ultimo mese. La frequenza di ideazione suicida nel campione sembra essere superiore a quella emersa in generale o nella popolazione anziana. Un aspetto degno di nota emerso dallo studio è stato che nessun paziente ha mai tentato il suicidio.

Esso ha anche  suggerito che il comportamento suicida potrebbe essere maggiore nei pazienti con malattia di Parkinson più giovani e nei pazienti con esordio più precoce della malattia. Di conseguenza, nel presente studio, il rischio di suicidio nel morbo di Parkinson è risultato essere associato ad un età inferiore e alla minore età di insorgenza della malattia.

Tali evidenze hanno fornito un ulteriore sostegno a precedenti analisi. Lo studio di Nazem e colleghi (2008) ha analizzato il rischio di suicidio in un campione di 116 pazienti con Morbo di Parkinson e intatto funzionamento cognitivo globale. I risultati hanno riscontrato  l’insorgenza di un attiva ideazione suicida o di morte in quasi un terzo dei pazienti parkinsoniani (30% del campione) e di una rara presenza di tentativi di suicidio (4,3% del campione).

 

Ideazione suicida e Morbo di Parkinson: variabili psichiche e neurologiche associate

Kummer e colleghi (2009) hanno inoltre  proposto di valutare quale delle possibili variabili (neurologiche e psichiatriche) associate con l’ ideazione suicida potrebbero meglio prevederla. La depressione maggiore è stata il principale fattore predittivo di ideazione suicida. Tuttavia, nonostante l’alta prevalenza di disturbi depressivi e ideazione suicida nel Morbo di Parkinson, il comportamento suicida non è comune. Una spiegazione di questo ha proposto che la depressione nella malattia di Parkinson potrebbe essere generalmente meno severa. Tuttavia, i disturbi depressivi nella malattia di Parkinson non sembrano essere di solito lievi e l’ ideazione suicida è associata alla gravità dei sintomi depressivi.

Un tale riscontro sembra supportare studi precedenti, come Nuzem e colleghi (2008) e la loro evidenza di come complicanze non motorie, in particolare i sintomi depressivi, sono risultati strettamente legati alla presenza di ideazione suicida o di morte. Tale analisi ha inoltre riscontrato come altre complicazioni psichiatriche quali una storia di comportamenti da disturbo del controllo degli impulsi durante il Morbo di Parkinson e un’ attuale psicosi, sembrano svolgere un ruolo nella comparsa di ideazione suicida o di morte.

In termini di variabili demografiche e correlati del morbo di Parkinson questo studio non ha riscontrato  associazioni ad un’ ideazione suicida o di morte, supportando l’ipotesi  che i sintomi e disturbi psichiatrici  siano i maggiori contribuenti all’ ideazione suicida e di morte nella popolazione parkinsoniana.

Anche se il tentato suicidio e il suicido completato si sono dimostrati  essere relativamente poco comuni nei pazienti parkinsoniani, l’insorgenza di un suicidio attivo o di ideazione di morte in tale popolazione è degno di nota e clinicamente significativo. Pertanto, i pazienti con la malattia di Parkinson e presenza di ideazione suicida dovrebbero essere ulteriormente valutati  per quanto riguarda la depressione e  altri disturbi psichiatrici, e quindi poi trattati prontamente qualora siano riscontrati alcuni sintomi.

La tDCS nel trattamento dei sintomi cognitivi dei pazienti con Sclerosi Multipla

Secondo un nuovo studio pubblicato sulla rivista “Neuromodulation: Technology at the Neural Interface”, i pazienti con sclerosi multipla presenterebbero migliori abilità di problem solving e più rapidi tempi di risposta a seguito di un training effettuato con la cosiddetta “stimolazione transcranica a corrente diretta” (tDCS).

 

La stimolazione transcranica a corrente diretta (tDCS) per il trattamento della sclerosi multipla

La Sclerosi Multipla è la malattia neurologica progressiva più diffusa tra gli adulti in età lavorativa, il 70% dei quali si trova ad essere affetto da problematiche cognitive che includono un’elaborazione delle informazioni più lenta e difficoltà di memoria e problem solving. Altri sintomi comuni della malattia includono stanchezza e problemi sensoriali, motori e nel tono dell’umore.

Negli ultimi anni, si stanno diffondendo gli studi che indagano l’utilità di tecniche innovative per il trattamento dei sintomi correlati alle patologie neurologiche progressive. Una di queste è la cosiddetta “Stimolazione Transcranica a Corrente Diretta” (tDCS).

La tDCS, è una tecnica in cui viene applicata corrente elettrica a basso voltaggio attraverso degli elettrodi posizionati sul cranio, disposti attraverso una cuffia. La stimolazione produce dei cambiamenti nell’eccitabilità neuronale permettendo ai neuroni di “scaricare” più facilmente, fatto che aumenta le connessioni cerebrali e velocizza l’apprendimento che si verifica durante la riabilitazione.

Un nuovo studio, condotto da alcuni ricercatori del NYU Langone’s Multiple Sclerosis Comprehensive Care Center, ha evidenziato che i soggetti con Sclerosi Multipla che hanno utilizzato la tDCS mentre eseguivano un training cognitivo di giochi al computer per l’incremento delle abilità di elaborazione delle informazioni, mostravano miglioramenti significativi nelle misure cognitive, rispetto ai soggetti che eseguivano lo stesso training senza stimolazione. I soggetti, inoltre, hanno svolto il training cognitivo e la tDCS nella propria abitazione.

Secondo gli autori dello studio, la possibilità di consentire ai pazienti di partecipare al trattamento senza ripetute visite al clinico, le quali potrebbero costituire una difficoltà crescente per le persone affette da Sclerosi Multipla all’aggravarsi della sintomatologia, potrebbe produrre un miglioramento della qualità della vita dei soggetti.

[blockquote style=”1″]La nostra ricerca evidenzia che la tDCS, eseguita a distanza tramite un protocollo di trattamento controllato, potrebbe fornire una valida nuova opzione di trattamento per i pazienti con sclerosi multipla che non possono trarre giovamento per alcuni dei loro sintomi cognitivi [/blockquote] sostiene Leigh E. Charvet, Phd, professore associato di neurologia e direttore di ricerca al NYU Langone’s Multiple Sclerosis Comprehensive Care Center.

[blockquote style=”1″]Molte cure della Sclerosi Multipla sono finalizzate alla prevenzione dei focolari della malattia, ma questi farmaci non forniscono aiuto per quanto riguarda la gestione dei sintomi quotidiani, specialmente i problemi cognitivi. Speriamo che la tDCS colmerà questo importante gap e contribuirà a migliorare la qualità della vita delle persone con Sclerosi Multipla.[/blockquote]

Lo studio con tDCS somministrata a pazienti con sclerosi multipla

Nello studio, è stata applicata la tDCS alla corteccia cerebrale pre-frontale dorsolaterale, un’area cerebrale collegata con  senso di stanchezza, depressione e funzioni cognitive.

A 25 soggetti è stata fornita una cuffia di elettrodi che essi hanno imparato a mettere tramite l’aiuto del team di ricerca. In ciascuna sessione un tecnico contattava ogni partecipante attraverso una videochiamata, dando a ciascuno un codice per accedere a un tastierino elettronico che dava inizio alla sessione di tDCS per controllare la somministrazione. In seguito, durante la stimolazione, i partecipanti giocavano ad una versione ideata dai ricercatori di giochi al computer di training cognitivo che coinvolgevano aree cerebrali riguardanti l’elaborazione delle informazioni, l’attenzione e la memoria di lavoro.

Il gruppo di partecipanti a cui era applicata la tDCS, svolgeva 10 sessioni di training, e i ricercatori confrontavano i suoi risultati con quelli di 20 partecipanti con Sclerosi Multipla che svolgevano 10 sessioni di giochi di training cognitivo senza tDCS.

E’ stato scoperto che i soggetti del gruppo trattato con la tDCS mostravano maggiori miglioramenti, attraverso misurazioni di elevata sensibilità e basate su rilevazioni al computer dell’ attenzione complessa (Attenzione Selettiva, Attenzione Divisa e Attenzione Sostenuta) e nei tempi di risposta nei diversi trial, rispetto al gruppo che non era trattato con la tDCS. Inoltre, i miglioramenti crescevano con l’aumento del numero di sessioni, dimostrando che la tDCS potrebbe avere benefici cumulativi.

Tuttavia, sono necessarie altre ricerche per stabilire quanto durino questi effetti dopo le sessioni finali.

Il gruppo che ha partecipato al training cognitivo con la tDCS, non ha tuttavia mostrato una differenza statisticamente significativa dal gruppo che eseguiva solo il training, quando si rilevavano i cambiamenti con misurazioni neuropsicologiche standard e meno sensibili, come il test “Brief International Cognitive Assessment in Multiple Sclerosis” (BICAMS) o attraverso rilevazioni al computer riguardanti l’attenzione di base (Arousal).  Secondo il Dr. Charvet, questi risultati suggeriscono che i cambiamenti cognitivi apportati dalla tDCS potrebbero richiedere più sessioni di trattamento per comportare miglioramenti significativi osservabili nel funzionamento quotidiano.

I ricercatori stano reclutando soggetti per dei trial clinici ulteriori di 20 sessioni di tDCS e un protocollo di ricerca randomizzato che prevede la somministrazione di un placebo, per ricercare ulteriori prove dei vantaggi della tDCS. Al NYU Langone si sta portando avanti anche un’altra ricerca per testare l’utilizzo della tDCS per altre malattie neurologiche, incluso il morbo di Parkinson.

 

I genitori che non accettano l’orientamento sessuale dei figli e le conseguenze sulla salute mentale

In uno studio condotto in America, nel 2014, da J. A. Puckett, E. N. Woodward, E. H. Mereish e D.W. Pantalone si esplora l’associazione tra la reazione dei genitori al coming out dei propri figli e l’omofobia interiorizzata, il supporto sociale e la salute mentale di questi.

 

Le persone con orientamento sessuale minoritario, rispetto alle persone con orientamento eterosessuale, riportano in media alti livelli di disagio psicologico (depressione, ansia e tentativi suicidari) e alti rischi di sviluppare disturbi cardiovascolari, alto colesterolo e tumori. Come possono essere spiegate queste disparità di salute in base all’orientamento sessuale?

I partecipanti allo studio sono un gruppo di 241 adulti statunitensi (51% F; 43,2% M; 2,1% Genderqueer; 1,7% Male to Female; 0,8% Female to Male; 1,2% altro – 71,8% omosessuali; 21,2% queer; 2,1% bisessuali; 5% altro).

Lo strumento utilizzato è un’intervista online, composta da sei questionari autosomministrati sulla reazione dei genitori nella settimana in cui hanno detto loro del proprio orientamento sessuale, sull’omofobia interiorizzata, sulla percezione del supporto sociale ricevuto, sull’ansia, sui sintomi depressivi e sull’ideazione suicidaria.

Dallo studio risultano confermate entrambe le ipotesi ad esso sottese:

1.     I partecipanti che hanno percepito i propri genitori come rifiutanti durante il loro coming out hanno riportato più alti livelli di sofferenza psicologica.

2.     L’omofobia interiorizzata ed il supporto sociale mediano l’associazione tra il rifiuto genitoriale ed il disagio psicologico.

Tornando ora alla domanda principale: come possono essere spiegate le disparità nella salute in base all’orientamento sessuale?

La risposta sta nello stress a cui sono sottoposte queste persone: omofobia o bifobia interiorizzata, stigma, occultamento della propria sessualità ed esperienze di eterosessimo vanno ad influire sulla salute fisica e mentale dei soggetti con orientamento non eterosessuale.

Nonostante lo studio sia stato condotto a distanza di anni dal coming out e accomunando i diversi sotto gruppi di orientamento sessuale (ad esempio lesbiche o gay, o bisessuali e queer), dati i risultati emersi i professionisti della salute dovrebbero lavorare sul decremento dell’omofobia interiorizzata, analizzando come i famigliari ed alte figure di riferimento hanno invece contribuito al potenziamento di questo aspetto. Inoltre non è da escludere l’utilità di una terapia famigliare per accompagnare durante il processo di coming out, decrementando il rifiuto genitoriale.

In base ai risultati, il benessere di una persona con orientamento sessuale minoritario può esser favorito grazie ad un lavoro incentrato sull’omofobia interiorizzata e sul supporto sociale.

 

Greta Riboli

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

ll trattamento del disturbo di panico: il confronto tra la classica terapia vis à vis con un trattamento online

I ricercatori di un’università svedese hanno effettuato uno studio randomizzato sul trattamento del disturbo di panico, confrontando l’efficacia di una classica terapia cognitivo-comportamentale vis à vis, con un programma di auto-aiuto online per persone con diagnosi di disturbo da attacchi di panico.

 

Lo scopo della ricerca è stato quello di confrontare due diverse modalità di trattamento per il disturbo di panicocon o senza agorafobia.

I ricercatori, hanno messo a confronto gli effetti di una terapia vis à vis ad orientamento cognitivo-comportamentale (10 sedute individuali, a cadenza settimanale) con un programma di auto-aiuto online seguito dallo psicologo via e-mail.

I risultati suggeriscono che il programma di auto-aiuto, con l’aggiunta di un contatto con uno psicologo online via e-mail, può essere altrettanto efficace della tradizionale terapia cognitivo-comportamentale individuale .

 

Trattamento del disturbo di panico: il confronto tra terapia on line e terapia vis à vis

Lo studio ha coinvolto 49 pazienti con disturbo da attacchi di panico distribuiti, in modo del tutto casuale, nei due gruppi di trattamento. I due diversi trattamenti sono stati effettuati in studi controllati separati con lista d’attesa non trattata.

I due tipi di trattamento del disturbo di panico, con lo psicologo online e con lo psicologo vis à vis, sono stati manualizzati e suddivisi in 10 moduli: (1-2) psicoeducazione e socializzazione, (3) gestione della respirazione e dell’iperventilazione, (4-5) ristrutturazione cognitiva, (6-7) esposizione introcettiva, (8-9) esposizione in vivo, e, infine, (10) prevenzione delle ricadute.

Nel gruppo online, ogni modulo è stato convertito in pagine web e i partecipanti sono stati invitati a prendere parte ad gruppo di discussione online creato ad hoc, in cui, di volta in volta, si è discusso di un determinato argomento scelto preventivamente dagli psicologi.

I vari messaggi sono stati letti e commentati dagli altri partecipanti e nel gruppo si è creata un’atmosfera di sostegno e aiuto reciproco.

Gli psicologi, hanno fornito di volta in volta un feedback via e-mail sui compiti effettuati generalmente entro 36 ore dall’invio dei messaggi.

I pazienti del gruppo di terapia in vivo hanno seguito 10 sedute individuali con una cadenza settimanale della durata di 45-60 minuti. Ai pazienti, tra una seduta e l’altra, è stato chiesto di fare dei compiti a casa, identici a quelli somministrati al gruppo online. Inoltre, ogni sessione è stata registrata e i pazienti sono stati invitati ad ascoltare le sessioni per consolidarne l’apprendimento.

Dopo un mese dalla fine del trattamento per il disturbo di panico, l’80% dei partecipanti del gruppo online e il 67% del gruppo in presenza non ha più soddisfatto i criteri per il disturbo da attacchi di panico secondo i criteri del DSM-IV. Ad un anno di distanza la percentuale era del 92% per i partecipanti seguiti dagli psicologi online e del 88% nel gruppo di persone seguite dagli psicologi in presenza .

Tuttavia, in ciascuno dei due gruppi, il 20% dei partecipanti che non rispondevano più ai criteri di disturbo da attacchi di panico avevano ancora alcuni problemi residuali (vale a dire, attacchi di panico occasionali, brevi o di bassa intensità).

I risultati del presente studio suggeriscono che, un trattamento di auto-aiuto seguito da uno psicologo via e-mail può essere altrettanto efficace di 10 sedute di terapia cognitivo-comportamentale in presenza.

Oltre alla possibile riduzione dei costi, uno dei vantaggi nell’utilizzare un trattamento del disturbo di panico di auto-aiuto seguito da uno psicologo online, è la possibilità di trattare persone che altrimenti non cercherebbero un supporto; pensiamo per esempio alle persone con agorafobia grave che spesso presentano una forte paura di lasciare le loro case per affrontare un trattamento con uno psicologo.

I risultati di questo studio forniscono prove per l’utilizzo e lo sviluppo di programmi di auto-aiuto seguiti da uno psicologo online.

Servo e padrone: cercare la liberazione nel proprio carceriere

Chi sei per me: salvatore o persecutore? È tutto mosso dalla paura e dal bisogno di conforto. Se nella tua storia a fronte della paura hai conosciuto quelle risposte: frusta o indifferenza, riconoscerai con facilità chi le sa somministrare e in lui spererai di trovare la salvezza.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 05/02/2017 su il Corriere della Sera

 

The Dark Knight, che parli Joker: “Tu non riesci proprio a lasciarmi andare, vero? Ecco cosa succede quando una forza inarrestabile incontra un oggetto inamovibile… Tu non mi uccidi per un malriposto ipocrita moralismo. E io non ti ucciderò perché sei troppo divertente. Credo che io e te siamo destinati a lottare per sempre”. Citando il paradosso dell’onnipotenza, Joker si rivolge a Batman che lo tiene appeso a testa in giù sull’abisso.

In quel momento Batman lo domina, ha potere di vita e di morte, ma le parole di Joker sono sagge: hanno bisogno l’uno dell’altro, incubo e succube, dominato e dominatore. Il filo che lega schiavo e padrone è noto. Il padrone, certo, teme il sottomesso, ma solo se crede che abbia i mezzi per detronizzarlo; se si sente sicuro continua a comandare con naturalezza.

Per Max Mosley non era così. Figlio di fascisti antisemiti – alle loro nozze partecipò Hitler – è stato pilota e poi boss della Formula 1. Nel 2008 il mondo intero lo scopre protagonista di un’orgia sadomaso. Cinque prostitute vestite da naziste o da detenute dei lager lo spidocchiano, frustano e poi si cambia, tocca a lui stare in piedi. Era figlio di sostenitori del dominio razziale, leader di un’organizzazione di potenza economica gigantesca, dove immagino provasse un certo gusto nel gestire il potere, eppure gli era necessario inscenare il teatro della propria umiliazione. Padrone per discendenza, godeva nel tornare schiavo.

Nella mente, cosa unifica i poli di questa simmetria perversa, e cosa porta all’interno di una relazione a trovarsi catturati da questa ossessiva messinscena? Di varie strade, la prima, quella più chiara allo psicologo, nasce dall’abuso. I nostri pazienti, vittime di maltrattamenti fisici o psicologici, riproducono nella vita adulta il copione che Stephen Karpman definì triangolo drammatico. Sono stati vittima, alla mercé di un persecutore ed erano alla disperata ricerca di un salvatore onnipotente. Succede se i genitori ti picchiano, violentano, tiranneggiano, ti trascurano fino al punto della non-esistenza. I tre ruoli si stampano nella mente del bambino e diventano la chiave che, da adulto, utilizzerà per decidere cosa aspettarsi dalle relazioni.

Ci amiamo? Allora chi sei per me: salvatore o persecutore? È tutto mosso dalla paura e dal bisogno di conforto. Se nella tua storia a fronte della paura hai conosciuto quelle risposte: frusta o indifferenza, riconoscerai con facilità chi le sa somministrare e in lui spererai di trovare la salvezza. Un paradosso beffardo: cercare la liberazione nel proprio carceriere, avere bisogno delle chiavi che ci liberino e implorarle speranzose proprio a chi ci aveva sbattuto nelle segrete.

Ma attenzione, la mente gioca scherzi strani. Quel bambino non impara solamente a essere vittima. Sperimentando giorno dopo giorno una relazione d’abuso, impara che il mondo è fatto di chi infligge dolore e chi lo subisce e sviluppa la fantasia che arrivi il Cavaliere Oscuro che protegge e riscatta. Da adulto il ruolo in cui ricadrà con più facilità, in piena coscienza, sarà quello di vittima. Ma automaticamente, senza premeditazione, ribalterà con tocco magico i ruoli. La donna maltrattata, pur pensandosi colei che subisce, troverà il modo di vessare l’altro. È un bolero inesorabile, che tante volte osservo nelle relazioni di coppia malate.

Anni fa curai una donna giovane, intelligente, acuta. Era incinta di un compagno che la amava e accudiva, ma era ossessionata dal ricordo dell’ex che più volte l’aveva picchiata, lasciata e poi ricercata e poi insultata e ancora picchiata. Non era lui che la perseguitava, niente stalker nel quartiere. Era lei che lo sognava, lo desiderava, apriva Facebook angosciata che un’altra le avesse sottratto il posto. Capire il perché del suo comportamento fu facile. Già dopo una seduta le suggerii che non fosse davvero innamorata dell’ex, ma ossessionata da un fantasma al quale prestava un volto. Le chiesi chi fosse l’attore della tragedia originale, non con queste parole naturalmente, il linguaggio dello psicoterapeuta deve essere semplice. Si ricordò del padre che la minacciava che avrebbe sfondato la porta se lei non si fosse consegnata spontaneamente alla punizione. Non riesco a sopprimere l’immagine di Jack Nicholson in Shining: Wendy? Sono a casa.

Una volta svelato chi era davvero che la tormentava, si rese conto che tante volte lei stessa aggrediva l’ex – che questo non sia mai giustificazione per chi commette violenza – e, con sua grande sorpresa, scoprì di tiranneggiare con richieste rabbiose e impossibili da soddisfare il nuovo compagno. Il quale, da buona pietra inamovibile, non faceva una piega e continuava ad amarla. Sorrise all’idea di sapersi persecutrice. In un anno smise di premere replay e cambiò film. So che dopo anni sta ancora insieme al nuovo compagno e hanno avuto tre figli. Non ha mai più cercato lupi cattivi.

C’è un’altra strada che porta al continuo scambio dei ruoli tra servo e padrone. Nasce direttamente dai rapporti di potere. Immaginate un genitore tirannico e allo stesso tempo disattento, che vi fa la morale e biasima ogni vostro gesto spontaneo. È possibile che veniate su preda di una frustrazione cronica ma incapaci di agire, ribellarvi e mandare al diavolo tutti per seguire la vostra strada. Nelle relazioni adulte vi vedrete tra le mani di un prepotente e il vostro comportamento sarà apparentemente sottomesso. Ma la voglia di resistere non si spegne mai, solo, la mettete in atto attraverso una sequela di rifiuti, dimenticanze, sottili sabotaggi, velate critiche mai ammesse a palmi aperti. Subite e infliggete stilettate quotidiane in un quadro in cui vi dipingete carcerati, ma lo spettatore vi vede nel costume di aguzzino.

In entrambi i percorsi, abuso e silenziosa lotta per il comando, l’unica strada proibita è quella della liberazione. È per questo che il Cavaliere Oscuro non lascia morire Joker e lo tiene appeso alla corda e Joker lo insegue per ghignargli beffardo in faccia. L’uno attore del teatro dell’altro, vittima, carnefice e salvatore e chi apparirà al prossimo giro della slot machine?

 

Crea consapevolmente! Il legame tra la pratica di Mindfulness e la creatività

Sempre più spesso la creatività è un requisito per trovare lavoro, o per migliorare il proprio; e se ci fosse un modo per aumentare le nostre capacità creative? Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questo modo potesse essere la pratica di Mindfulness.

Marta Venturini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Sempre più spesso essere creativi è un requisito per trovare lavoro, o per migliorare il proprio. Il saper trovare facilmente soluzioni creative a problemi di tutti i giorni in ufficio, a casa, a scuola può dare la cosiddetta “marcia in più”, e se ci fosse un modo per aumentare le nostre capacità creative, probabilmente un certo numero di persone desidererebbe quantomeno tentare. Alcuni ricercatori hanno ipotizzato che questo modo potesse essere la pratica di Mindfulness. Tuttavia, i punti di contatto tra pratica di mindfulness e creatività sono oggetto di studio molto recente. Allo stesso modo, anche l’influenza che la pratica di Mindfulness può esercitare sul pensiero creativo non è ancora del tutto chiara. Con il presente articolo vorrei offrire una breve rassegna di studi che hanno come argomento il collegamento tra pratica di Mindfulness e creatività.

 

Pratica di Mindfulness e creatività: quale punto di connessione?

Prima di iniziare, è bene introdurre alcuni concetti. La Mindfulness è ormai un argomento molto conosciuto e discusso all’interno della comunità scientifica, soprattutto da parte di esperti in psicologia e psicoterapia cognitivo-comportamentale, grazie al lavoro di Jon Kabat-Zinn, che nel 1979 concepì un tipo di intervento chiamato “Mindfulness Based Stress Reduction” (MBSR) e successivamente la “Mindfulness Based Cognitive Therapy for Depressive Relapse Prevention” (MBCT) (Zindel, Segal, Williams, & Teasdale, 2014).

Per quanto riguarda la creatività, sembra non esserci, al momento, una definizione condivisa tra gli esperti nel settore. Horan (2009) propose la propria, come “l’intenzione di trascendere barriere informative”. Secondo Torrance (1988), la creatività sarebbe invece l’attitudine a pensare fuori dagli schemi, a trovare soluzioni a problemi di varia natura senza utilizzare conoscenze pregresse (Torrance, 1988; in Sternberg, 2006). Infine, nell’enciclopedia Treccani (versione online), la definizione di creatività dal punto di vista psicologico verte sui concetti di pensiero divergente e di risoluzione di problemi attraverso l’insight. In ogni definizione vi è una componente intenzionale, originale, e chiaramente qualcosa che implichi produzione di nuovo materiale.

Il materiale creativo può essere reale, fisico, come un’opera d’arte, un racconto scritto, ma può essere anche un’idea, come nei casi di problem solving creativo e di insight. Tali processi di pensiero sono caratterizzati dal trovare soluzioni fuori dagli schemi, il primo, e trovare soluzioni per le quali apparentemente non si può dare una spiegazione razionale, il secondo (Ostafin & Kassman, 2012).

A partire da queste definizioni è possibile trovare un punto di connessione con la Mindfulness: la “mente del principiante”, alla quale Jon Kabat-Zinn sprona a tornare e che chi fa pratica di Mindfulness tenta di coltivare, è di natura simile a quella creativa, che trova soluzioni senza necessariamente utilizzare conoscenze già acquisite, quindi uscendo dagli schemi appresi attraverso l’esperienza: questo aspetto della creatività è definito dagli esperti “pensiero divergente” (Colzato, Ozturk, & Hommel, 2012).

 

Pratica di Mindfulness e creatività: gli insight problems

Uno studio grazie al quale è stato messo in luce il legame tra pratica di Mindfulness e creatività è quello realizzato da Ostafin & Kassman (2012). Gli autori introducono la loro ipotesi ricordando che uno degli obiettivi principali di chi fa pratica di Mindfulness è quello di diminuire il potere dell’influenza dei pensieri abituali sul proprio modo di agire. Dato che essere creativi significa soprattutto pensare fuori dai propri schemi abituali, si può ipotizzare che la pratica di Mindfulness possa facilitare la risoluzione di problemi poco ordinari, per i quali è richiesto pensiero creativo.

Ciò che è ritenuto come problema che richiede soluzioni creative è quel tipo di problemi chiamati “insight problems”, ovvero, come dicono gli autori, quei problemi che si risolvono con un “Aha!”. Questo tipo di soluzione creativa non è logica come nei problemi “non-insight”, quindi non viene raggiunta a piccoli passi attraverso la suddivisione del problema in sotto-problemi. Al contrario, chi risolve insight problems non è del tutto consapevole di come abbia trovato la soluzione.

Per il primo studio, gli autori utilizzarono la “Mindful Attention Awareness Scale” (MAAS; Brown & Ryan, 2003) per valutare la “consapevolezza mindfulness di tratto”, e tre problemi precedentemente utilizzati in letteratura per valutare la modalità di risoluzione insight. Inoltre, due ulteriori problemi vennero inclusi per valutare la capacità di risoluzione non-insight (per maggiori dettagli, vedere Ostafin & Kassman, 2012). Questa fase vide coinvolto un campione di studenti universitari, non meditatori e che non avevano partecipato a training di Mindfulness.

Sorprendentemente, i risultati confermano l’ipotesi che persone con una più alta consapevolezza di tratto fossero anche più creative nella risoluzione di problemi insight, ma non di quelli non-insight.

Nel secondo studio presentato nel manoscritto, Ostafin & Kassman (2102) decisero di introdurre una breve pratica di Mindfulness per il gruppo sperimentale, di valutare la “consapevolezza mindfulness” sia “di tratto” che “di stato”, ma anche di controllare una variabile che potenzialmente si inserisce nel rapporto tra Mindfulness e creatività. Tale variabile è l’associazione tra pratica e sentimenti positivi. Valutarono quindi i sentimenti positivi attraverso il “Self-assessment manikin” (SAM, Bradley & Lang, 1994; in Ostafin & Kassman, 2012). I partecipanti eseguirono inoltre gli stessi problemi presentati precedentemente.

I risultati replicarono il primo studio, aggiungendo un ulteriore miglioramento per il gruppo sperimentale che aveva fatto esperienza di una breve pratica di meditazione. La “consapevolezza mindfulness di tratto” risultò positivamente correlata alla capacità di risolvere problemi insight, indipendentemente dalla presenza di sentimenti positivi. Per quanto riguarda invece i problemi non-insight, la loro risoluzione non fu influenzata dalle misure di consapevolezza.

 

Diversi tipi di meditazione portano allo sviluppo di differenti aspetti del pensiero creativo?

Nello stesso anno, Colzato, Ozturk e Hommel (2012) studiarono la relazione tra la capacità creativa dei partecipanti, la meditazione basata sull’Attenzione Focalizzata, e quella basata sul Monitoraggio Aperto (Mindfulness).

Ipotizzarono che le due modalità meditative potessero mediare diversamente due aspetti del pensiero creativo: il pensiero divergente e quello convergente. Il pensiero divergente, già brevemente descritto, è il processo mentale più spontaneo per arrivare a soluzioni creative; il pensiero convergente, invece, si può avere quando viene risolto un problema grazie ad un ragionamento molto logico e focalizzato. Ad esempio, quando nei quiz televisivi viene presentata una lista di parole (“Orario”, “Agenda”, “Lavoro”) ed il partecipante deve trovarne una quarta che colleghi semanticamente le altre (“Appuntamento”).

Colzato et al. (2012) studiarono un gruppo di 19 persone, praticanti Meditazione con Attenzione Focalizzata o con Monitoraggio Aperto (Mindfulness). Il disegno sperimentale prevedeva che tutti i partecipanti prendessero parte a tre sessioni in tre settimane, ognuna delle quali poteva essere, in ordine casuale, di meditazione focalizzata, meditazione aperta o un esercizio di immaginazione (utilizzata come seduta di controllo o baseline).

In seguito, ai partecipanti veniva chiesto di completare due compiti: “Remote association task” ed “Alternate uses task”, che hanno come oggetto di studio, rispettivamente, il pensiero convergente ed il pensiero divergente. Il RAT è un test che si basa sulla capacità accennata precedentemente, ovvero di individuare un termine che collega concettualmente altri termini (ad esempio “granita”, “pattini” ed “acqua” sono collegati da “ghiaccio”). Il AUT invece prevede che al partecipante vengano mostrati diversi oggetti di uso quotidiano: lo scopo è trovare quanti più utilizzi possibili per uno stesso oggetto. In seguito alle 3 sessioni veniva misurata la percezione dell’umore (migliorato o non migliorato). Il RAT veniva analizzato in termini di risposte corrette, mentre per quanto riguarda l’AUT, venivano analizzati diversi aspetti delle risposte fornite dai partecipanti: Originalità, Fluenza, Flessibilità ed Elaborazione. La previsione degli autori era che la capacità di pensiero creativo convergente e divergente aumentassero, rispettivamente, in seguito a Meditazione con Attenzione Focalizzata e con Monitoraggio Aperto (Mindfulness).

Mentre per quanto riguarda il AUT, tre misure su quattro furono influenzate positivamente a seguito della Meditazione con Monitoraggio Aperto (Mindfulness), questo non si verificò per la Meditazione con Attenzione Focalizzata, che non cambiò significativamente la prova di RAT. Tuttavia, entrambi i tipi di meditazione influenzarono positivamente l’umore. Gli autori proposero che questa variabile potesse aver interferito con il pensiero convergente, in quanto è stato riportato in letteratura che l’umore positivo scaturito dalla meditazione (di qualsiasi tipo) agirebbe positivamente sul pensiero divergente ma non su quello convergente, che ne verrebbe alcune volte addirittura ostacolato.

Quello che si può dedurre dopo aver letto i due studi qui riportati (Ostafin & Kassman, 2012; Colzato et al., 2012) è che l’aspetto divergente del pensiero creativo sia effettivamente stimolato da modalità di meditazione di tipo aperto, non giudicante, come la Mindfulness. Quanto all’influenza che può avere il tono dell’umore in questa relazione, non c’è ancora consenso, ma dati neuropsicologici dimostrano che l’umore migliori progressivamente con la pratica di Mindfulness (Horan, 2009).

 

Neuropsicologia della meditazione e della creatività

Nel 2009 Horan pubblicò un interessante articolo riguardo ai parallelismi tra meditazione e creatività, dal punto di vista neuropsicologico. Questo articolo, oltre a fornire una spiegazione esaustiva delle componenti neurofisiologiche associate alla meditazione ed alla creatività, ci offre una base scientifica sul potenziale collegamento fra le due.

L’articolo in questione è relativo alle basi neuropsicologiche di diversi tipi di meditazione, tra i quali è inclusa la Mindfulness. Come scrive l’autore, chi fa pratica di Mindfulness assume un atteggiamento distaccato e non giudicante sui pensieri e sulle sensazioni che prova.

L’ipotesi sulla quale Horan basa la propria ricerca è che trascendenza ed integrazione siano meccanismi neuropsicologici che accomunano meditazione e creatività. Nella definizione kantiana, trascendentale sarebbe la conoscenza di qualcosa della quale non abbiamo mai avuto esperienza. Horan ritiene che lo slegarsi dalle limitazioni informative, e quindi trascendere idee e percezione, stia alla base della creatività (Horan, 2007). Le barriere informative verrebbero successivamente trasformate grazie all’integrazione di nuova conoscenza con quella che già esiste, all’interno di un contesto informativo noto.

Horan (2009) ci offre una rassegna di studi, pubblicati in letteratura, che si basano prevalentemente sull’uso dell’elettroencefalografia (EEG) come tecnica di registrazione di segnali neurofisiologici. Questi registrano e localizzano l’attività neurale associata al processo creativo o a diversi tipi di meditazione. La sua ipotesi è che sia nella creatività sia nella meditazione sia implicato un certo grado di intenzionalità a trascendere le barriere dell’informazione che noi abbiamo già, ed integrare queste esperienze di trascendenza con la realtà che viviamo. Attraverso la sua rassegna di letteratura l’autore vuole validare l’ipotesi secondo la quale la creatività sarebbe supportata dalla pratica di meditazione, in quanto entrambe sarebbero attività attentive.

Horan (2009) prende in considerazione diversi tipi di meditazione: Meditazione Mindfulness (sia Zen che Vipassana), Meditazione di Concentrazione e Meditazione Trascendentale (o Combinata). L’autore elenca una serie di cambiamenti nell’attività neurale dei meditatori, esperti e non esperti. Tra questi, è stata registrata una sincronizzazione delle onde alfa su gran parte della corteccia, che potrebbe essere la base neurale di quello stato di consapevolezza attento ma rilassato presente sia nella pratica di Mindfulness che nel processo creativo. Anche l’attività delle onde delta sembra giocare un ruolo importante sia nella Mindfulness che nella creatività, in quanto è stata associata alle reazioni emotive alle novità, tra le quali emerge soprattutto la sorpresa, ai momenti di insight creativo, ed alle attività che richiedono flessibilità cognitiva.

La flessibilità cognitiva, come riportato da Greenberg, Reiner e Meiran (2012), è associata alla creatività e può essere migliorata attraverso la pratica di Mindfulness. Attraverso il loro lavoro, gli autori dimostrarono che meditatori esperti erano meno “accecati dall’esperienza passata”, quindi trovavano più frequentemente la soluzione migliore, ovvero la più semplice, rispetto a non-meditatori al “Water jar task” (Luchins, 1942; Schultz & Searleman, 1998; in Greenberg et al., 2012). Allo stesso modo, anche persone non esperte, che però seguivano un training di alcune settimane, risultavano più cognitivamente flessibili rispetto al gruppo di controllo (Esperimento 2).

Come scrivono Ostafin e Kassman (2012), “le soluzioni di ieri potrebbero non applicarsi ai problemi di oggi”. La conoscenza pregressa non sempre aiuta a risolvere i problemi, e questo riguarda soprattutto gli “insight problems”.

 

Pratica di Mindfulness e creatività: l’importanza dell’atteggiamento da principianti

La potenzialità maggiore della pratica di Mindfulness risiede nel cambiamento rispetto al nostro approcciarci al mondo esterno ed interno. Assumendo un atteggiamento da principianti veniamo più facilmente in contatto con le novità proposte dal mondo, con curiosità ed apertura. Parafrasando una frase di Jon Kabat-Zinn (2014), chi ha una vita troppo legata alle conoscenze apprese in passato, difficilmente si farà stupire dalla dimensione dell’ignoto e farà un salto nella creatività, nell’immaginazione, nelle arti. La fissità della conoscenza pregressa agirebbe quindi come una sorta di paraocchi, o filtro, tra la nostra mente e l’esperienza. La centralità dello sforzo ad essere (o ritornare) principianti appare quindi un forte collegamento tra la pratica di Mindfulness e lo sviluppo di creatività ed immaginazione.

Negli studi che propongono una correlazione positiva tra pratica di Mindfulness e creatività, solitamente nella forma del problem solving creativo, è bene tenere sempre presente il fatto che la correlazione non significhi causalità. Potrebbe essere infatti che persone più creative siano più inclini alla consapevolezza sviluppata nel training di meditazione Zen, che assumano quasi naturalmente un atteggiamento da principianti nei confronti del mondo o che riescano ad integrare con poco sforzo la realtà esperita con il piano di conoscenza trascendentale.

Sicuramente il lavoro di ricerca in questo campo è solo all’inizio, ma sembra molto promettente e ricco di potenziali applicazioni sia in ambito quotidiano che in ambito clinico.

Il concetto di “casa” per gli studenti dopo la laurea

Uno studio condotto dalla University of British Columbia ha cercato di capire come gli studenti si muovono e percepiscono la loro casa dopo la laurea.

 

Le scelte degli studenti dopo la laurea: chi torna in patria e chi resta fuori casa

[blockquote style=”1″]Molte ricerche tendono a concentrarsi su quali poli universitari gli studenti scelgono per andare a studiare, ma pochi studi si pongono domande su dove vanno gli stessi studenti dopo la laurea. Questo studio dimostra quanto sia complessa le decisione del post laurea per gli studenti[/blockquote] ha affermato Cary Wu, autore dello studio.

Il Dr. Wu ha esaminato i dati delle interviste di oltre 200 studenti provenienti da più di 50 paesi che hanno studiato alla UBC tra il 2006 e il 2013. Studiando i dati che aveva a disposizione ha notato che gli studenti percepivano la loro casa universitaria in quattro modi differenti: come ospite, come ancestrale, come cosmopolita o come nebulosa. Questi diversi modi di percepire casa hanno influenzato le loro decisioni sul post laurea.

Secondo il Dr Wu, di solito tendiamo a pensare che le persone si allontanino dalla loro casa sulla base di un singolo fattore, come una allettante offerta di lavoro o un obbligo di famiglia. In realtà queste non sono motivazioni sufficienti.

Dallo studio infatti è emerso che, se gli studenti concepivano la loro casa universitaria come “ospite”, la loro idea era quella di rimanere. Dei 232 studenti intervistati, il 16% di loro ha deciso di fermarsi in Canada, citando legami emotivi, relazioni interpersonali, familiari ecc. In sintesi, quanto più gli studenti si sentono accolti, più alte sono le probabilità che scelgano di fermarsi in quel posto anche dopo la loro laurea.

Se la casa universitaria è vista come ancestrale, il piano degli studenti è quello di rientrare nei loro paesi di origine. E’ come se questi ragazzi avessero sempre avuto un profondo desiderio di ritornare nella loro casa d’origine, infatti circa il 27% degli studenti ha dichiarato di voler tornare a casa, soprattutto quelli provenienti dagli USA, Francia e Australia. Dopo la laurea hanno preso la decisione di rientrare in “patria”. Per alcuni studenti provenienti dalla Cina e dal Giappone, la decisione di tornare a casa è stata in parte a causa di barriere linguistiche, sociali e culturali.

Quasi il 57% degli studenti sono aperti a qualsiasi piano di migrazione. Il Dr. Wu ha detto che molti studenti prima di studiare in Canada, hanno vissuto in altri due/tre paesi diversi. Questi, secondo lo studioso, sono coloro che considerano la casa come cosmopolita perché sono in grado di sentirsi a proprio agio in qualsiasi posto.

Gli studenti che vedono la loro casa universitaria come una nebulosa, ovvero come poco chiara o come se fosse avvolta dalla nebbia dell’incertezza, hanno difficoltà ad inserirsi in qualsiasi luogo vivendo in una costante confusione causata dalla mancanza di radici.

Secondo la Dr.ssa Rima Wilkes, sociologa presso la UBC, lo studio dimostra che gli studenti non sono un gruppo monolitico e che le loro idee di casa sono diverse, così come diverse sono le persone e le esperienze che vivono.

Locus of control – Introduzione alla Psicologia

Le modalità messe in atto da una persona per poter controllare gli eventi di vita sono definite locus of control, luogo da cui si esercita il controllo.

 

Il locus of control: che cos’è e la distinzione tra locus of control interno ed esterno

Il Controllo è un concetto molto utilizzato in psicologia e psicopatologia. Esistono persone che pensano di controllare qualsiasi cosa, altre, invece, credono di essere controllati da situazioni che si verificano all’esterno. In generale, controllare significa dirigere le proprie azioni per influenzare gli esiti di un determinato accadimento. Spesso la parola controllo è preceduta da un’ altra: Locus o luogo,  che tradotto significa il posto attraverso il quale si definisce il controllo. Ognuno di noi possiede un Locus of Control, che può essere interno o esterno.

Coloro che basano il loro successo lavorativo e credono di avere pieno controllo della loro vita hanno un locus of control interno. Al contrario, le persone che attribuiscono il loro successo o il fallimento a cause esterne hanno un locus of control esterno.

In sostanza, il locus of control rappresenta l’atteggiamento mentale grazie al quale si riescono a influenzare le proprie azioni e i risultati che ne derivano.

Chi mostra un locus of control esterno percepisce gli eventi come imprevedibili,  dipende dagli altri, ha bassa autostima, scarsa autoefficacia e attribuisce i propri insuccessi al destino o agli altri.

Al contrario chi ha un locus of control interno mostra conoscenze e skill che consento di affrontare al meglio le situazioni e i problemi, pensano di poter raggiungere gli obiettivi prefissati, credono nelle loro capacità e non temono la fatica.

 

Storia

Rotter nel 1954 teorizzò il concetto di Locus of Control, definendolo un costrutto unidimensionale caratterizzato da due poli, l’ interiorità e l’esteriorità, posti lungo un continuum. Coloro che presentano un locus of control interno tendono ad attribuire i risultati ottenuti a capacità personali, sono certi di possedere competenze altamente specifiche che li rende in grado di raggiungere standard molto elevati e ritengono i risultati delle loro azioni derivanti dalle proprie abilità. Inoltre, credono che ogni azione ha delle conseguenze, per questo per cambiare gli esiti  sostengono sia necessario esercitare un controllo serrato.

Al contrario, chi presenta un locus of control esterno ritiene che le conseguenze di alcune azioni siano dovute a circostanze esteriori, per questo le cose che accadono nella vita sono fuori dal loro controllo e le azioni messe in atto sono il risultato di fattori non gestibili, come il destino e la fortuna. Queste persone tendono a incolpare gli altri piuttosto che se stessi per i risultati ottenuti. Quindi, chi ha un locus interno considera l’interiorità come  legata esclusivamente a una serie di abilità personali e se volesse ottenere risultati dovrebbe mettere in atto  sforzo e sacrificio, mentre chi ha un locus esterno sostiene che gli accadimenti siano gestiti e regolati dal fato e quindi siano fuori dal proprio controllo.

Le modalità di attribuzione di controllo si ripercuotono evidentemente sulla motivazione al successo e sulla gestione delle emozioni. Infatti, coloro che presentano un locus of control interno sono più inclini all’ansia mentre coloro che mostrano un locus of control esterno potrebbero manifestare principalmente depressione.

 

Locus of control: non più un costrutto categoriale ma dimensionale

L’ unidimensionalità del costrutto di Locus of Control, successivamente, è stato contestato da Levenson che sostenne l’esistenza di dimensioni separate tra loro e non più poli opposti di un continuum. Quindi, non più un costrutto categoriale, ma dimensionale. Partendo da questo presupposto teorico Bernand Weiner ha aggiunto alla teoria dell’attribuzione di Rotter, i seguenti due criteri:

1) la stabilità, ovvero quanto risultano durature nel tempo le cose ottenute;

2) la controllabilità, che può essere alta se dovuta alle proprie competenze, o bassa se dipende da fattori come la fortuna, le azioni degli altri, il destino, etc.

L’interazione tra i due criteri porterebbe a considerare le situazioni esterne come prevedibili [stabili] e controllabili, ottenendo in questo modo un controllo anche su situazioni apparentemente non gestibili.

Esistono, inoltre, persone con un locus of control che è una via di mezzo tra interno ed esterno. Tali individui mostrano una combinazione tra i due tipi di locus of control e sono spesso indicati come bi-loci. Essi sono capaci di gestire lo stress e far fronte alle difficoltà in maniera più efficiente ed efficace,  poiché mostrano una maggiore flessibilità nello spostarsi dall’esterno all’interno e viceversa. Le persone che possono contare sul duplice locus of control sono in grado di assumersi  maggiori responsabilità e raggiungono gli obiettivi con minori disagi emotivi.

Chiaramente, il tipo di locus of control di ciascuno risulta essere influenzato della personalità, della cultura e dalla famiglia di origine, oltre che da una serie di rinforzi positivi o negativi che si verificano durante la vita.

 

La famiglia d’origine

Lo sviluppo del locus of control deriva  dallo stile familiare e dal tipo di risorse interiori di cui ciascuno dispone.  Molte persone che presentano un locus of control interno sono cresciute con famiglie che pongono particolare attenzione all’impegno, all’istruzione, alla responsabilità e alla costanza nel raggiungere un obiettivo. Solitamente i genitori di queste persone ricompensavano i loro figli nel momento in cui riuscivano a raggiungere i risultati prefissati. Diversamente, chi ha un locus of control esterno proviene da famiglie che esercitano un basso controllo e non considerano centrale l’assunzione di responsabilità. Chiaramente col passare del tempo, e coll’avvicendarsi di situazioni di vita, è possibile che il locus si possa modificare.

 

Gestione dello stress

Per quanto riguarda il benessere psicofisico e la gestione dello stress, si è osservato che con una percezione di controllo interno è più facile fronteggiare lo stress in modo adeguato e adottare uno stile di pensiero che influenzi l’attuazione di comportamenti volti a raggiungere gli obiettivi. Di conseguenza, la reazione emotiva che ne deriva è funzionale al conseguimento dello scopo. Al contrario un controllo esterno potrebbe risultare utile a minimizzare la propria responsabilità in caso di incidenti: attribuire la responsabilità di un evento negativo a una fonte esterna permette di minimizzare l’emozione di colpa. Quindi, pensare che l’accaduto sia colpa del destino o di persone esterne, è in questo senso funzionale al benessere individuale perchè preserva dal rimuginio e permette di canalizzare le energie mentali nell’affrontare al meglio le conseguenze.

In generale, pensare di poter controllare gli eventi o ritenere che non si possa esercitare alcun tipo di controllo porta a mettere in atto comportamenti diversi e più o meno funzionali al proprio benessere. Chi ha un locus of control interno si sentirà maggiormente responsabile delle sue azioni e avrà maggiori possibilità di successo perché consapevole di avere una serie di caratteristiche e abilità, quindi assumerà una posizione attiva nell’affrontare i problemi. Invece, l’atteggiamento di un individuo con un locus of control esterno sarà passivo rispetto agli accadimenti e più orientato all’accettazione, anche quando potrebbe intervenire efficacemente nel modificarli.

 

Relazioni interpersonali

Nelle relazioni interpersonali, è adattivo possedere un locus of control interno piuttosto che esterno, perchè consente di porsi nei confronti dell’altro in modo collaborativo e volto al raggiungimento dello scopo. Si tratta di individui fiduciosi, ottimisti e pronti a prestare soccorso, se necessario. Le persone che, al contrario, mostrano un locus esterno hanno la percezione di essere prevalentemente controllati da chi sentono più forte di loro, nei confronti del quale mostrano spesso un atteggiamento di sottomissione, hanno sfiducia in loro stessi, nelle proprie capacità e presentano umore basso.

In ogni caso, non esistono soggetti che hanno esclusivamente un locus of control esterno o interno. Per questo, in un sistema di credenze equilibrato e adattivo, funzionale al benessere dell’individuo, sarebbe auspicabile possedere un mix di loci, interno o esterno, adattabili alle diverse situazioni che si verificano.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Disturbo da ansia di malattia: diagnosi, fattori predisponenti e trattamento

La caratteristica centrale del disturbo da ansia di malattia è la paura di avere un grave malattia fisica; essa insorge a causa di una errata interpretazione di sintomi fisici minori, come una normale sensazione fisiologica, una disfunzione benigna o un disagio corporeo non indicato, generalmente, come indice di malattia (APA, 2013).

Martina Pigionatti, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Cos’è il Disturbo da Ansia di Malattia?

La preoccupazione inerente la propria salute si manifesta, saltuariamente, nella vita della maggior parte delle persone, ma quando essa diventa così persistente da compromettere il normale funzionamento sociale, lavorativo e interpersonale potrebbe trattarsi di un disturbo da sintomi somatici, in particolare di Disturbo da Ansia di Malattia.

La caratteristica centrale di questo disturbo è la paura di avere un grave malattia fisica; essa insorge a causa di una errata interpretazione di sintomi fisici minori, come una normale sensazione fisiologica, una disfunzione benigna o un disagio corporeo non indicato, generalmente, come indice di malattia (APA, 2013). Tale preoccupazione rimane inalterata nonostante la persona si sottoponga a numerosi controlli medici, i quali spesso escludono la presenza della malattia temuta. Le rassicurazioni mediche e gli esami clinici negativi non riescono a placare quest’ansia e, spesso, rischiano addirittura di aumentarla.

Se, invece, è presente una condizione medica specifica, l’individuo affetto dal Disturbo da Ansia di Malattia nutrirà comunque un’ansia e una preoccupazione palesemente eccessive e sproporzionate rispetto alla gravità della diagnosi. Le persone che soffrono di questo disturbo si allertano rapidamente riguardo la malattia: basta sentire una notizia legata alla salute in televisione o leggerla su un quotidiano, oppure venire a conoscenza del fatto che altri abbiano contratto quella malattia. Inoltre, questi individui eseguono innumerevoli check fisici, in cerca dei sintomi indicatori di malattia, o svolgono ripetute ricerche su quest’ultima, soprattutto mediante l’utilizzo di internet. Tali comportamenti non fanno altro che alimentare la credenza centrale del disturbo.

Nella maggior parte dei casi, ciò che maggiormente spaventa questi soggetti non è l’idea della morte, quanto l’immaginare le conseguenze della malattia in termini di disabilità e sofferenza.

Il disturbo può manifestarsi in differenti modalità: alcuni individui cercheranno incessantemente rassicurazioni da parte di famigliari e amici, ma soprattutto di specialisti medici; altri soggetti eviteranno qualsiasi contatto con operatori sanitari, arrivando a trascurare la propria salute, poiché spaventati da ogni elemento che possa far loro sorgere o aumentare il pensiero di malattia (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

Questi pazienti difficilmente si rivolgono a specialisti della salute mentale, è molto più probabile incontrarli in strutture mediche poiché, appunto, sono convinti di avere una malattia fisica. Accedono ripetutamente a visite specialistiche, consultando più medici per lo stesso problema, rimanendo però insoddisfatti delle cure ricevute e maturando la convinzione che esse siano inutili, che i medici non li prendano seriamente e che nessuno possa realmente aiutarli.

Alcune persone riconoscono che le loro paure sono eccessive, mentre altre rimangono convinte della fondatezza delle loro convinzioni.

Il Disturbo da Ansia di Malattia genera grandi sofferenze sia in chi ne soffre, sia nelle persone che stanno loro accanto, compromettendo le attività della vita quotidiana, interferendo con le relazioni interpersonali e famigliari, danneggiando le prestazioni lavorative e riducendo le proprie funzionalità fisiche e psichiche.

 

Criteri Diagnostici per il Disturbo da Ansia di Malattia

Fino a qualche anno fa, tale problematica era inserita nel DSM-IV-TR nei Disturbi Somatoformi ed era classificata come Ipocondria (APA, 2001). Il termine “ipocondria” ha però assunto, negli ultimi anni, implicazioni negative e, molto spesso, viene rifiutato da chi ne soffre: l’ipocondriaco viene spesso associato a un “malato immaginario”, senza però considerare la sofferenza e la disperazione che effettivamente provano questi individui (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011). Inoltre, essendo sempre più chiare le analogie fra ipocondria e disturbi ansiosi,  nella 5° edizione del Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders (APA, 2013) si è preferito utilizzare la denominazione di Disturbo da Ansia da Malattia. Esso è attualmente inserito nella sezione “Disturbo da sintomi somatici e disturbi correlati”.

Secondo l’attuale concettualizzazione il disturbo è caratterizzato da:

  1. Preoccupazione di avere o contrarre una grave malattia.
  2. I sintomi somatici non sono presenti o, se presenti, sono di lieve intensità. Se è presente un’altra condizione medica o vi è rischio elevato di svilupparla, la preoccupazione è chiaramente eccessiva o sproporzionata.
  3. È presente un elevato livello di ansia riguardante la salute e l’individuo si allarma facilmente riguardo il proprio stato di salute.
  4. L’individuo attua eccessivi comportamenti correlati alla salute o presenta un evitamento disadattivo.
  5. La preoccupazione per la salute è presente da almeno 6 mesi, ma la specifica patologia temuta può cambiare nel corso di tale periodo di tempo.
  6. La preoccupazione riguardante la malattia non è meglio spiegata da un altro disturbo mentale.

Il manuale, inoltre, distingue tra due sottocategorie:

–              Tipo richiedente l’assistenza: l’assistenza medica è richiesta frequentemente.

–              Tipo evitante l’assistenza: l’assistenza medica è richiesta raramente.

 

Prevalenza e Costi del Disturbo da Ansia di Malattia

Per molto tempo è stato difficile stimare con precisione la prevalenza del disturbo in quanto gli studi di ricerca venivano generalmente condotti in contesti psichiatrici piuttosto che nell’ambito medico (sia specialistico che di base), ambienti dove è molto più facile incontrare questi pazienti.

Inoltre, preoccupazioni eccessive sulla propria salute sono presenti periodicamente nel corso della vita del 10-20% delle persone sane (Kellner, 1987).

Tuttavia alcuni studi indicano che la prevalenza del disturbo varia dallo 0,8% al 8,5% (Farabelli et al., 1997; Altamura et al., 1998; Creed e Barsky, 2004).

Altre stime riguardanti la prevalenza del disturbo si basano su quelle del DSM-IV-TR per la diagnosi di Ipocondria e indicano una presenza del disturbo nella popolazione generale che varia dal 1,3 al 10% (APA, 2013).

Il Disturbo da Ansia di Malattia colpisce indifferentemente maschi e femmine, in una fascia di età compresa tra i 20 e i 30 anni (APA, 2013).

Come precedentemente affermato, il Disturbo da Ansia di Malattia provoca notevole sofferenza nei pazienti, i quali si dirigono sempre più sovente a specialisti dell’ambito medico, nonostante i risultati delle visite non confermino le loro paure; essi, essendo sovrautilizzatori del sistema sanitario, comportano costi economici notevolmente elevati (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

 

Fattori predisponenti e precipitanti del Disturbo da Ansia di Malattia

Esistono alcune situazioni che possono elicitare lo svilupparsi del Disturbo da Ansia di Malattia:

–              Fattori genetici: non vi sono ricerche che dimostrino con certezza una trasmissione genetica del disturbo. Tuttavia, alcuni studi hanno dimostrato che, fra i parenti di pazienti ipocondriaci, si rileva, con elevata frequenza, la presenza di disturbi somatoformi, Disturbo d’Ansia Generalizzata e Disturbo Ossessivo-Compulsivo (Fallon et al., 2000; Bienvenu et al., 2000).

–              Fattori ambientali: è stato evidenziato che alcuni contesti famigliari, caratterizzati da elevati livelli di stress, conflitti e abusi, aumentino la vulnerabilità personale a sviluppare disturbi d’ansia, fra i quali il Disturbo da Ansia di Malattia (APA, 2013). Inoltre, i genitori che esprimono preoccupazioni o timori eccessivi riguardo la salute portano i figli ad adottare le loro strategie di coping disfunzionali, accrescendo la probabilità di acquisizione del disturbo (Barsky et al., 2001). Infine, la presenza di esperienze traumatiche relative a morti o gravi malattie di amici e/o famigliari correla positivamente col manifestarsi di questa patologia.

Anche i media possono scatenare l’esordio del disturbo o esacerbare le paure di chi già ne soffre, attraverso la divulgazione di informazioni riguardanti gravi malattie o pandemie, delineate come qualcosa di oscuro e inevitabile, che possono colpire casualmente chiunque (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

–              Fattori biologici: recenti studi hanno dimostrato la presenza di deficit neurochimici simili sia nell’Ipocondria che nei disturbi d’ansia e dell’umore (Brondino et al., 2008).

 

Trattamento del Disturbo da Ansia di Malattia

Per il trattamento del Disturbo da Ansia di Malattia la letteratura è esigua, numerosissimi sono invece gli studi riguardanti l’efficacia di interventi per l’Ipocondria.

Essi indicano la terapia cognitivo-comportamentale come trattamento d’elezione per il disturbo, comprovandone l’efficacia e la stabilità nel tempo (Seiwright et al., 2008; Greeven et al., 2009; Hedman et al., 2010; Torsello  e Dell’Erba, 2014). Tali interventi prevedono l’attuazione di un protocollo standardizzato comprendente, in breve:

–              una fase iniziale di assessment in cui vengono indagati comportamenti e cognizioni disfunzionali, i quali vengono attivati di fronte a uno stimolo critico e che sono implicati nella formazione e nel mantenimento del disturbo;

–              una fase di psicoeducazione del disturbo e di condivisione del modello cognitivo-comportamentale della patologia;

–              interventi cognitivi atti a ristrutturare i pensieri disfunzionali che alimentano la preoccupazione per la salute e i comportamenti associati; tali interventi hanno, inoltre, la funzione di mettere un freno a quei meccanismi cognitivi implicati nel mantenimento del disturbo (come ad esempio il rimuginio).

–              interventi comportamentali per estinguere le condotte problematiche e interrompere i circoli viziosi che intercorrono tra cognizione e comportamento; essi si basano prevalentemente sulla tecnica di esposizione e prevenzione alla risposta;

–              una fase finale di prevenzione delle ricadute e follow-up per controllare la stabilità degli esiti a distanza di tempo.

In letteratura, inoltre, sono presenti alcuni recenti studi che attestano l’efficacia di interventi cognitivi basati sulla mindfulness nel trattamento nel Disturbo da Ansia di Malattia (Lovas e Barsky, 2010; Surawy et al., 2014); essi, al protocollo sopra citato, aggiungono fasi di meditazione mindfulness e training attentivi che agiscono su rimuginio e ruminazione presenti nel disturbo.

Altri recenti studi affermano che la Terapia Metacognitiva si sta dimostrando utile al trattamento della patologia (Bailey e Wells, 2015; Caselli, 2016). Tale intervento si focalizza sulle meta-credenze, quali il rimuginio, considerate come fattore di rischio primario della malattia.

Infine, non vi sono dati in letteratura relativi a trattamenti farmacologici efficaci per il trattamento del Disturbo da Ansia di Malattia; tuttavia  i farmaci dovrebbero essere prescritti, in aggiunta al trattamento psicoterapeutico e in caso di necessità, per ridurre alcuni sintomi e disturbi in comorbilità (Leveni, Lussetti e Piacentini, 2011).

Psicoterapia del trauma e pratica clinica. Corpo, neuroscienze e Gestalt – Recensione

Il testo ruota intorno a tre perni: fenomenologia, teoria del campo e dialogo. I tre aspetti sono ben strutturati e metodologicamente spiegati dall’autrice la quale oltre che al bagaglio esperienziale e culturale del suo approccio terapeutico, si avvale anche degli influssi di varie epistemologie (psicoterapia sensomotoria, Daniel Siegel, Philip Bromberg).

 

La suddivisione del libro in 3 parti

L’asse portante risulta suddiviso, così, in tre sezioni.

Nella prima parte vengono enunciate con un linguaggio chiaro e scorrevole i principi cardini della teoria della Gestalt; l’autrice, infatti, riporta la teoresi dell’approccio (concetto di Gestalt, figura-sfondo) accompagnando la spiegazione con dei microesempi che rendono la lettura complessa e coinvolgente.

La seconda parte esemplifica gli aspetti fenomenologici  del pensiero traumatico al fine di fornirne una descrizione accurata e di catturare l’interesse non solo  del lettore “tecnico”, bensì anche del lettore “amatoriale”.

Nella terza parte, l’autrice illustra il lavoro terapeutico sia dal punto di vista della vittima traumatizzata  sia di quella del terapeuta.

Il testo, quindi,  si presta a qualsivoglia occhio per la chiarezza dei contenuti e la pregnanza dell’argomento. Le tematiche trattate, nonostante la loro architettura complessa e variegata, riescono a creare un contesto dove sia il lettore “tecnico” che  il lettore “amatoriale” possano immergersi nei meandri dell’epigenesi del trauma e dei suoi correlati.

 

Le storie narrate e la dissociazione

Esemplificativi i casi clinici presentati; infatti raccontano storie di soggetti vittime di traumi complessi  e del loro percorso di cura, connubio perfetto di aspetti tecnici e connotazioni emotive. Interessante e innovativo il modello sulla dissociazione che consente di poter viaggiare lungo il continuum  che va dalla dissociazione intesa come meccanismo difensivo al disturbo dissociativo in sé e alle sue declinazioni cliniche.

Consigliata la lettura e l’utilizzo del testo come possibile spunto e dispositivo per la comprensione e cura di questa specifica categoria di utenti.

L’agopuntura come sostegno al trattamento di dolore cronico e depressione

L’ agopuntura aiuta e potenzia l’efficacia dei trattamenti medici standard, diminuendo la gravità di patologie quali dolore cronico e depressione, secondo quanto emerso da recenti studi. Recentemente, i ricercatori dell’Università inglese di York hanno dimostrato quanto effettivamente possa essere utile l’utilizzo dell’agopuntura, e non solo grazie ad un mero effetto placebo.

 

Un programma di studi sulle pratiche a sostegno dei pazienti con patologie fisiche e mentali

Lo studio, svolto dal professor MacPherson, del Department of Health Sciences, in collaborazione con un team di studiosi inglesi ed americani, è parte del Programme Grants for Applied Research (PGfAR) del National Institute for Health Research (NIHR), programma messo in atto con lo scopo di produrre risultati empirici con applicazioni pratiche immediate che possano andare a beneficio dei pazienti con patologie mentali e fisiche. Lo scopo ultimo del programma è proprio quello di promuovere la salute della popolazione inglese, cercando di prevenire lo sviluppo di patologie e la gestione del disagio nel modo più ottimale, promuovendo la messa in atto di una serie di ricerche indipendenti.

 

L’agopuntura e le dispute sull’efficacia

L’agopuntura è una pratica di derivazione cinese volta alla promozione della salute e del benessere dell’individuo tramite l’inserimento di piccoli aghi in specifiche parti del corpo. In Italia l’agopuntura rientra tra le cosiddette “medicine e pratiche non convenzionali” ritenute rilevanti dal punto di vista sociale (FNOMCeO, 2002) e può essere praticata solo da medici e veterinari laureati, in quanto considerata un atto eminentemente medico. Nonostante alcune proposte di legge risalgano già al 1987, solo nel 2013, nella conferenza permanente Stato-Regioni, è stato emanato un accordo che regolamenta la qualità della formazione e della pratica dell’agopuntura, riconoscendo legalmente la professione di medico agopuntore e istituendo elenchi dei professionisti esercenti l’agopuntura presso gli Ordini dei medici chirurghi e degli odontoiatri (Regioni, Conferenza Stato, 2013).

Per anni, l’utilizzo dell’agopuntura è stato oggetto di accese dispute e perplessità riguardanti, tra l’altro, il consentirne o meno un accesso più ampio, soprattutto a fronte dell’aumento della pratica stessa come intervento medico. A tal proposito, nell’intento di dipanare una volta per tutte la diffidenza nei confronti di questa tecnica, la ricerca di MacPherson e collaboratori è stata svolta proprio allo scopo di raccogliere dati provenienti da trial clinici altamente controllati e validati, che fornissero un insieme di prove sufficientemente convincenti a favore dell’effettiva utilità dell’agopuntura a livello clinico e terapeutico, dando così modo ai professionisti della salute di prendere decisioni scientificamente validate.

Infatti, per quanto l’agopuntura risulti essere una pratica largamente utilizzata, soprattutto per la cura del dolore cronico, le prove scientifiche in merito risultano essere ancora abbastanza disomogenee e frammentarie. Fin dalla fine del XX si è assistito ad una proliferazione di ricerche empiriche volte ad analizzarne rigorosamente l’efficacia, le quali hanno però portato a risultati fra loro contrastanti, acuendo le controversie soprattutto per quanto riguarda l’efficacia della pratica a livello clinico e quanto possa essere vantaggiosa in termini di rapporto tra costi e benefici. Inoltre, dal momento che ancora molto poco si sa circa i meccanismi sottostanti il funzionamento dell’agopuntura, si è spesso pensato che potesse riguardare l’induzione di un mero effetto placebo (Ernst et al., 2007).

Proprio a tal proposito, il National Council Against Health Fraud (NCAHF) nel 1991 ha pubblicato uno studio che avrebbe dimostrato la mancanza di comprovata validità dell’agopuntura come modalità di trattamento. Nei vent’anni precedenti, infatti, la ricerca avrebbe “fallito nel dimostrare che l’agopuntura sia efficace contro qualunque malattia” e gli effetti percepiti dopo un trattamento sarebbero “probabilmente causati da una combinazione di aspettative, suggestione, revulsione, condizionamento e altri meccanismi psicologici”. Per quanto siano passati più di vent’anni da questa pubblicazione, la confusione, frequente precursore della denigrazione, e la controversia in merito all’utilizzo e all’efficacia di questa pratica resta tuttora ampia, anche a causa della messa in discussione dell’accuratezza di molti degli studi svolti (Ernst, 2006).

 

Una review sull’efficacia dell’agopuntura nel trattamento di dolore cronico e depressione

Ad ogni modo, approfittando della presenza di una vasta letteratura sul tema e selezionando solamente quella più rigorosa e validata, MacPherson e collaboratori hanno implementato una review proprio con lo scopo di analizzare i risultati di trial clinici, nello specifico 29, riguardanti il trattamento di pazienti tramite agopuntura e cure mediche standard. All’interno dei trial, i pazienti, affetti da dolore cronico, venivano trattati con una combinazione di agopuntura e cure tradizionali e confrontati con coloro i quali erano trattati solo in modo standard (ad es. farmaci anti-infiammatori, fisioterapia) o con un’agopuntura di tipo fittizio (sham). Nel complesso, i trial hanno coinvolto un totale di circa 18,000 pazienti affetti da dolore cronico di tipo muscoloscheletrico al collo o alla zona lombare, osteoartrite alle ginocchia o dolori alla testa, come emicranie e mal di testa.

Dall’analisi dei trial è stato possibile notare come l’aggiunta di sedute di agopuntura ai trattamenti tradizionali, in confronto alla somministrazione dei trattamenti in modo isolato, portasse ad una significativa riduzione della gravità e dell’intensità del dolore percepito nella zona lombare o alle ginocchia e del numero di mal di testa e cefalee.

Dalle analisi è anche emerso come l’agopuntura sembri effettivamente essere economicamente vantaggiosa, anche nel ridurre e alleviare il dolore e la disabilità date dall’artrite cronica (osteoartrite alle ginocchia), che, conseguentemente, andrebbe a diminuire notevolmente anche i livelli di dipendenza dei pazienti dall’assunzione di farmaci anti-infiammatori, assunti, spesso in quantità sempre maggiori, nel tentativo di controllare il dolore.

Infine, per quanto l’efficacia dell’agopuntura sia stata spesso almeno parzialmente associata al cosiddetto effetto placebo (Ernst et al., 2007; Linda, 1991), gli autori hanno messo in luce come l’uso dell’agopuntura nel trattamento del dolore cronico sembri essere in grado di portare ad una riduzione della sofferenza in modo significativamente più marcato ed ingente rispetto a quanto avverrebbe con l’uso di placebo (agopuntura sham).

In aggiunta a quanto emerso per il dolore cronico, il gruppo di ricerca ha implementato un ulteriore trial clinico focalizzato sull’uso dell’agopuntura nel trattamento della depressione. Questo nuovo studio, svolto nel nord dell’Inghilterra, ha coinvolto un totale di 755 pazienti depressi, sottoponendo gli stessi a sedute di agopuntura o di counseling e confrontandone l’efficacia con quella di trattamenti diversi, come l’assunzione di farmaci antidepressivi.

Analizzando i dati di quest’ultimo trial, è stato possibile notare come sia l’uso dell’agopuntura sia la fruizione di incontri di counseling sembrino essere in grado di ridurre in modo significativo la gravità dei sintomi depressivi, con una persistenza di tali benefici in media fino a 12 mesi dopo la fine del trattamento, indipendentemente da quale dei due fosse stato fatto.

Gli autori affermano che questa ricerca, la più ampia che sia mai stata svolta sul tema, può potenzialmente apportare una buona mole di dati affidabili in grado di dimostrare non solo come l’agopuntura e il counseling siano in grado di aiutare efficacemente i pazienti con episodi depressivi, ma anche come i miglioramenti ottenuti da questi trattamenti sembrino essere sufficientemente stabili anche ad un anno di distanza.

Studi empirici di questo tipo, che mostrano l’esistenza e la fruibilità di terapie alternative ed efficaci, possono risultare estremamente utili e preziose soprattutto per quanto riguarda la prassi clinica. Infatti, ad esempio, il trattamento d’elezione per la depressione comprende solitamente, soprattutto a livello di assistenza primaria, l’utilizzo di terapie farmacologiche, a volte senza nemmeno un sostegno psicoterapeutico adeguato. In circa la metà dei pazienti trattati, però, questo si rivela essere inefficace ai fini di un miglioramento, sia per resistenza al trattamento a livello fisico sia per mancanza di compliance del paziente stesso.

 

Conclusioni: l’efficacia dell’agopuntura nel trattamento di dolore cronico e depressione

In conclusione, quanto emerso, per quanto necessiti di ulteriori conferme empiriche, potrebbe considerarsi un significativo passo in avanti per quanto riguarda il trattamento di dolore cronico e depressione, chiarendo, per lo meno in parte, le annose controversie sul tema e permettendo così anche a pazienti e a professionisti della salute di fare scelte più consapevoli circa l’utilizzo dell’agopuntura. Il trattamento tramite agopuntura di dolore cronico e depressione, infatti, risulta essere vantaggioso non solo a livello di bilancio tra costi e benefici, ma anche nella riduzione sostanziale dei livelli di dolore cronico e depressione e nel miglioramento dell’umore, limitando anche la presenza di eventuali effetti collaterali, causati invece frequentemente dai farmaci (NIH, 1997).

Infine, i ricercatori hanno evidenziato come possa risultare estremamente interessante approfondire e studiare in modo più mirato i meccanismi potenzialmente sottostanti l’efficacia dell’agopuntura, in particolar modo a livello neuroendocrino. Ad esempio, Goldman e collaboratori (2010) hanno dimostrato come l’agopuntura sembrerebbe agire a livello cerebrale favorendo il rilascio di adenosina, un neuromodulatore con proprietà anti-nocicettive e analgesiche. Questo tipo di alterazione metabolica sarebbe potenzialmente in grado di spiegare anche perché questa pratica porti a benefici apparentemente stabili nel tempo.

Nel complesso, l’agoupuntura risulta un sostegno valido nel trattamento di dolore cronico e depressione.

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