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Psicologia Politica: il ruolo delle emozioni degli elettori nelle scelte di voto

Psicologia politica: Analizzando le emozioni, in base all’appartenenza politica, si osserva che quasi tutte le emozioni raggiungono valori più alti negli elettori di sinistra. Gli elettori di sinistra presentano verso la politica emozioni più intense, sia positive che negative: più rabbia, più disgusto, ma anche più speranze, più passione. Secondo l’autore, un’interpretazione che si può avanzare di questo dato, è che le persone di sinistra siano più interessate alla politica della media dell’elettorato.

Romina Edith Monteleone, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Psicologia politica: il ruolo delle emozioni in ambito politico

L’interesse sul ruolo delle emozioni, in un contesto politico, inizia con Aristotele e Platone. Essi condividono l’idea che le emozioni siano una forza enigmatica che invade e mina la ragione. La premessa che le emozioni devono essere rimosse dalla formazione del giudizio politico rimane in tutta la filosofia del ‘600 fino alla fine del ‘800.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di emozioni? Bisogna innanzitutto cercare di chiarire e specificare i diversi concetti: l’umore si differenzia dell’emozione perché essa ha una fonte esplicita; gli interessi e sentimenti sono usati come varianti del concetto di emozione dai politologi. In queste linee utilizzeremo i termini affetto/emozione e cognizione/ragione indistintamente in conformità agli impieghi in psicologia politica.

Lo studio scientifico delle emozioni inizia con Darwin e James; tuttavia è Freud, che sostiene che la civilizzazione non può aspirare ad allontanare le emozioni dalla vita quotidiana per generare un cambio radicale di prospettiva. Nel 1930 Laswell (in Marcus, 2002) seguendo la teoria psicanalitica, conduce ad una ricostruzione delle diverse fasi evolutive della vita di alcuni leader politici; essi sarebbero caratterizzati da conflitti infantili irrisolti che però proietterebbero verso oggetti sociali ed i meccanismi arcaici di difesa verrebbero razionalizzati in termini di pubblico interesse.

La teoria dell’intelligenza affettiva (AI), messa a punto dal gruppo di lavoro di Marcus (Marcus et al, 2000,2003,2005), si basa sugli studi del professore Jeffrey Gray, il quale ritiene che l’intelligenza affettiva dei soggetti, sia attivata grazie a due sistemi neuronali localizzati nel sistema limbico. Il primo sistema (Behavioral Activation System), che viene rinominato dal gruppo come Disposition System, costituisce un sistema precosciente che ha la funzione di gestire le condotte, le routine e le predisposizioni acquisite, rinforzando atteggiamenti ed abitudini. Questo sistema dà adito alle emozioni situate nel continuum felicità-tristezza. Il secondo sistema (Behavioral Inhibition System) rinominato Survelliance System, garantisce uno stato di allerta in situazioni inusuali o di minaccia, e costringe l’individuo a prestare maggior attenzione e concentrazione sull’ambiente, lo induce alla ricerca di nuova informazione e conseguentemente all’ apprendimento. Questo sistema individua emozioni situate sull’asse ansietà-calma.

Psicologia politica: come lo stato emotivo può influenzare la scelta del voto

Utilizzando il National Election Study (NES) , dal 1980 al 1996, Marcus (2000) esamina lo stato emotivo ( ansiosi/soddisfatti) degli elettori in relazione al partito politico di appartenenza ed indaga il peso che esso ha nel confronto con le policy, le caratteristiche del candidato, ed issue specifici del partito. La ricerca stabilisce che gli elettori ansiosi attribuiscono maggior importanza alle policy del partito (44% versus 8%) mentre gli elettori soddisfatti conferiscono un peso maggiore alle caratteristiche fisiche e di personalità del candidato (57% versus 27%). Questo risultato ci porta a pensare che l’esperienza affettiva degli individui possa guidare il processo di informazione politica e possa influenzare gli elementi (policy/issue del partito-caratteristiche personali del candidato) in base ai quali l’elettore orienta e costruisce la scelta del voto.

Inoltre, la teoria dell’intelligenza affettiva sostiene che quando l’ansietà è bassa, il Disposition System induce il soggetto ad un procedimento euristico. Di contro, in una situazione dove l’ambiente si presenta incerto, minaccioso, non familiare, sarebbe pericoloso per il soggetto ignorare l’informazione ed agire in base agli schemi immagazzinati nel Disposition System; di conseguenza il Survelliance System predispone l’individuo ad evitare l’uso di questi schemi a favore dell’elaborazione di nuova informazione.

Questa ipotesi è stata corroborata in diversi studi ( Marcus et al, 2005) Neely, 2007; Gross 2008,2004). Ad esempio, è stata realizzata una ricerca (Marcus et al, 2005) sull’ impatto dell’ansietà nella formazione dell’ atteggiamento verso i gruppi razzisti presenti negli Stati Uniti (Neonazisti e KKK- KU KLUX KLAN). La ricerca coinvolse 235 studenti della Università del North Texas che in una prima istanza furono sottoposti ad un pre-test: agli studenti è stato chiesto tramite un questionario di esprimere le loro opinioni sui diversi gruppi etnici (afroamericani, latini, musulmani, ebrei) per determinare la “predisposizione” di certi soggetti a simpatizzare coi citati gruppi; (152 furono identificati con un atteggiamento negativo –razzista- e 83 con un atteggiamento positivo – pro integrazione-). I ricercatori tornarono due settimane dopo, somministrarono e divisero il campione in due gruppi: al primo venne proiettato un video sugli sviluppi della cura al cancro (priming positivo, low anxiety), al secondo un video sugli effetti nocivi del fumo e fast food (priming negativo, high anxiety). In un secondo momento i soggetti vennero raggruppati e suddivisi casualmente in due gruppi.

Nell’ultima fase della ricerca, ad ogni gruppo, venne somministrato un video su una manifestazione Neo-Nazista a Denver, USA. Il video fu manipolato dai ricercatore in modo tale che il primo gruppo vedesse una manifestazione pacifica, senza polizia, con il leader che utilizzava un linguaggio non offensivo, di contro, il secondo gruppo doveva percepire una manifestazione violenta, con scontri con la polizia, ascoltando un linguaggio forte e discriminatorio da parte del leader. In seguito fu assegnato un questionario dove si chiedeva ai soggetti di manifestare il loro atteggiamento nei confronti di questa manifestazione. L’analisi di dati dimostrava che il priming era indifferente per i soggetti con predisposizioni razziste, di contro, per i soggetti non razzisti, si è riscontrato che a maggior ansietà vi è un atteggiamento meno tollerante nei confronti dei gruppi KKK. L’ansietà fa sì che i soggetti non predisposti prestino maggior attenzione al messaggio e contenuto del video e risultino, di conseguenza, meno tolleranti.

La teoria dell’intelligenza affettiva ha riscontrato grande successo tra gli studiosi, tuttavia in questi ultimi anni il gruppo della Università di Michigan (Velentino et al, 2008) ha rilevato dati contraddittori. Secondo Marcus, come abbiamo citato (Marcus et al, 2000,2003,2005) il Survelliance System garantisce uno stato di allerta in situazioni inusuali e genera nell’individuo delle emozioni situate sul continuum ansietà-calma. In questo asse emozionale, Marcus colloca affetti di rabbia, paura, depressione e avversione.

“…Thus the theory of affective intelligence provides a measurement model for each of the three negative emotions: depression, anxiety, and aversion. Also provides a substantive theory on the sources, the biology, and the impact of these emotions on judgment and behavior.” (Marcus, 2003 pagina 204).

Il gruppo del Michigan rileva che, mentre la paura-ansietà stimola l’interesse e la qualità di ricerca di informazione politica favorendo l’apprendimento e facilitando l’orientamento all’azione, di contro la rabbia e la depressione,  inibiscono questi processi.

Gli autori suggeriscono che rabbia ed ansietà derivino da diverse relazioni tra l’individuo e il suo ambiente. La rabbia si crea, solitamente, quando la persona trova l’oggetto-causa della minaccia ambientale, mentre la paura trova terreno fertile in un contesto ambientale totalmente incerto per il soggetto. Mentre l’ansietà si associa al fatto di avere il “focus” sullo stimolo minaccioso, la rabbia è collegata all’impossibilità di poter agire contro l’oggetto pericoloso.

Inoltre, secondo questi autori, Marcus lavora con gradi di ansietà che uno psicologo esperto riterrebbe “bassi”, in effetti, vi è una rilevante e corposa documentazione nell’ area della psicologia cognitiva che evidenzia che alti livelli di ansietà mettono a repentaglio le diverse componenti del processo di conoscenza o problem solving (percezione, codifica, organizzazione, immagazzinamento e recupero di stimoli).

Witte (2000) (in Valentino et al, 2008) in una ricerca di psicologia politica analizza le emozioni provocate da differenti campagne provenienti da istituti di salute americani (campagne contro il cancro, il fumo, la mala alimentazione e così via) e constata che queste campagne hanno suscitano risposte di avversione/fuga. Huddy (2005) (in Ladd, 2008) trova che i soggetti più ansiosi, dopo l’11 settembre, sebbene all’inizio della guerra contro l’Iraq fossero più attenti alle informazioni politiche, presentavano un deficit nella descrizione e nel recupero di informazioni al riguardo.

La teoria dell’intelligenza affettiva, come abbiamo sottolineato, afferma che l’ansietà interrompe gli schemi comportamentali (procedimenti euristici, identificazione col partito) sollecitando il soggetto alla ricerca di nuova informazione. Questo spiegherebbe (Martin,2004) il perché dell’utilizzo delle negative campaign: il soggetto presta attenzione alla proposta politica (policy issue) solo quando percepisce una situazione di pericolo.

Ladd & Lenz (2008) propongono due alternative alla teoria dell’intelligenza affettiva: L’effetto transfer (Affect Transfert) e l’effetto endogeno (Endogenous Affect). Il primo postula che gli affetti positivi e negativi (l’ansia) suscitati dal candidato si trasferiscono nella valutazione del medesimo, non stimolando il soggetto nella ricerca di informazioni come proponeva Marcus. La seconda alternativa (Endogenous Affect) inverte il senso della causalità: la preesistente valutazione/credenza sul candidato determina lo stato emotivo (ansietà-entusiasmo). Questa premessa è supportata dalle ricerche offerte dalla psicologia cognitiva: gli studi dimostrano come l’elaborazione dell’informazione inizi in aree cerebrali associate all’organizzazione della conoscenza e dopo, nell’eventualità, si attivano aree nel sistema limbico (come l’amigdala) dove si originano le emozioni.

“……If cognition is defined broadly to include sensory information processing, such as that occurring in the sensory thalamus and/or sensory cortex, as well as the processing that occurs in complex association areas of cortex in the frontal lobes or hippocampus, then emotional processing by the amygdala is highly dependent on cognitive processing……. The nature of cognitive-emotional interactions is one of the most debated in the psychology of emotions.” In Laad & Lenz (2008) pagina 277

La psicologia sociale, di contro, ha dimostrato negli ultimi cinquant’anni, che quando l’essere umano si pone in relazione con il proprio ambiente (fisico -sociale) e comincia a formarsi la conoscenza di esso, lo fa, non su una base descrittiva-cognitiva bensì emotiva. E questo naturalmente vale anche per la politica.

Psicologia politica: le emozioni degli elettori di destra e di sinistra

A partire da questo presupposto, Corbetta nell’ambito della psicologia politica (2004,2005,2006), si interroga sulle diverse risposte emotive tra gli elettori di sinistra e di destra nei confronti di oggetti politici. Questa ricerca si colloca all’interno dei programmi di ricerche elettorali ITANES (Italian National Election Studies) ed è stata condotta nel 2005 su un campione di 4800 persone. Nella ricerca emerge un quadro sul rapporto italiano e la politica. L’atteggiamento del cittadino medio verso la politica sembra essere assunto da una sola parola: disaffezione, ma anche di ostilità, disgusto, avversione. Il processo di distacco dalla politica non ha coinvolto tutti i cittadini nello stesso modo. La politica rimane una fonte di identificazione per una parte non trascurabile di essi. Si tratta di un atteggiamento che ha cominciato a manifestarsi ben prima della crisi di Tangentopoli agli inizi degli anni ’90. Atteggiamento che non si è limitato ad investire i partiti, ma ha coinvolto la politica nella sua totalità e le emozioni ad essa connesse.

Nell’ambito della psicologia politica analizzando le emozioni, in base all’appartenenza politica, si osserva che quasi tutte le emozioni raggiungono valori più alti negli elettori di sinistra. Gli elettori di sinistra presentano verso la politica emozioni più intense, sia positive che negative: più rabbia, più disgusto, ma anche più speranze, più passione. Secondo l’autore, un’interpretazione che si può avanzare di questo dato, è che le persone di sinistra siano più interessate alla politica della media dell’elettorato.

Per concludere questo elaborato in merito alla psicologia politica, ci auspichiamo che le ricerche sulle emozioni, come componenti dell’atteggiamento politico, da una parte si pongano di approfondire il tema della possibile diversità nell’asse destra-sinistra, dall’altra, si domandino il ruolo dell’ arousal nell’attivazione della risposta emotiva, come essa sia regolata dal contesto e come orienti l’azione dell’individuo nella scelta di voto.

Motivazioni, emozioni e relazione terapeutica – Un seminario con Giovanni Liotti a Palermo

Motivazioni ed emozioni: un rapporto intrecciato che può armonizzarsi lungo la traiettoria evolutiva tracciata dalle prime esperienze infantili oppure trovare nella relazione terapeutica un’occasione utile per riparare modelli relazionali disfunzionali, conferendo coordinazione e armonia a motivazioni ed emozioni corrispondenti, incrementando autonomia, creatività e la regolazione di emozioni, impulsi e azioni finalizzati a una meta relazionale.

 

La centralità delle motivazioni per la sopravvivenza e l’organizzazione gerarchica

Questo il filo conduttore del seminario tenuto da Gianni Liotti, Psichiatra, Psicoterapeuta e storico socio fondatore della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) che fin dall’inizio ha sottolineato come le emozioni debbano essere studiate in rapporto alle motivazioni ovvero alla probabilità, per l’essere umano, di sopravvivenza.

Le emozioni hanno un valore evoluzionistico e perseguono mete adattive. Ecco che l’invidia è un’emozione con valore evoluzionistico perché serve al miglioramento della specie”. Superando la classica visione freudiana della dicotomia istinto di vita-istinto di morte, la lezione si è subito incentrata sulle motivazioni plurime al cambiamento, secondo la teoria multi-motivazionale.

In questa visione i sistemi motivazionali si distinguono in due livelli. A livelli più arcaici troviamo innanzitutto il sistema di difesa, metodo elettivo di sopravvivenza, che determina emozioni di rabbia alla presenza di stimoli minacciosi (sistema di attacco-fuga). A livello superiore alcuni vertebrati, come gli opossum, sono in grado di simulare una falsa morte, una menzogna biologica utile per salvarsi la vita, e si può affermare che ci troviamo di fronte allo stesso meccanismo biologico operante nella depersonalizzazione”.

Sempre a livello arcaico troviamo il sistema predatorio, dove l’aggressività è legata al bisogno di cibo, che spinge all’uccisione. Arriviamo quindi ai sistemi recenti, posseduti dagli esseri umani, in particolare il sistema dell’attaccamento, che si può considerare un secondo sistema di difesa, un suo perfezionamento, poiché il piccolo umano non sa procurarsi il cibo da solo, quindi deve far ricorso alla madre. Ecco perché sosteniamo che il rapporto madre-bambino non è un rapporto d’amore, anche se forse questo potrà deludere qualcuno. Ai livelli recenti appartiene anche il gioco sociale, il sistema della competizione per il rango sociale (aggressività ritualizzata), l’affiliazione al gruppo e la cooperazione tra pari”.

Infine vi sono livelli recenti da un punto di vista evolutivo, in grado di regolare quelli più antichi, eppure più vulnerabili, come ben si osserva nel trauma che fa dissolvere il sistema di regolazione degli impulsi, scatenando tutta una serie di reazioni primitive di difesa e aggressività tipiche degli stati di allarme di fronte a un pericolo minaccioso per la propria incolumità psicofisica.

 

La centralità della relazione terapeutica e del sistema paritario collaborativo

E qui entra direttamente in gioco la relazione terapeutica, nel suo potere di riparazione del trauma e di regolazione dei moduli più bassi (sistema di difesa) attraverso la disciplina della collaborazione tra pari. “La condivisione cooperativa appresa e sperimentata in seduta è la premessa per il potenziamento della capacità di riflettere sulla propria e sull’altrui mente, contrastando il deficit di mentalizzazione tipico degli stati traumatici, permettendo così la regolazione di impulsi ed emozioni” precisa Liotti.

Sulla base dell’analisi dei dialoghi di 267 pazienti e avvalendoci del metodo AIMIT, che consente di inferire le motivazioni interpersonali attive nei parlanti sulla base di quello che dicono, è risultato che solo l’assetto motivazionale di collaborazione paritetica, fondante per un’efficace alleanza di lavoro, è in grado di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali in seduta, favorendo il raggiungimento delle mete interpersonali e disattivando il sistema dell’accudimento che determina passività, ostacolando l’autonomia” spiega il Dr. Brasini, Psicologo Psicoterapeuta.

E aggiunge: “Un ulteriore aspetto promosso dalla collaborazione paritetica è costituito dall’organizzazione e coordinazione dei sistemi motivazionali interpersonali. Quando si riconosce l’esistenza di una meta interpersonale dominante è possibile adottare un repertorio comportamentale tipico di un’altra tendenza innata, in maniera intenzionale, al fine di raggiungere più facilmente la meta. Un esempio è quello della madre che deve dar da mangiare a suo figlio (accudimento) e utilizza il gioco dell’aeroplanino (gioco sociale), innescando un circolo virtuoso di interazione tra due sistemi motivazionali”.

Le conclusioni a cui giungono la ricerca e la pratica clinica sembrano confortanti: autonomia, organizzazione, apertura relazionale e autoregolazione emotiva come conquiste possibili, anche a dispetto della stabilità dei modelli operativi interni a partire dalle prime esperienze infantili.

Da Bowlby apprendiamo che i modelli operativi interni, ovvero le rappresentazioni mentali del mondo, di sé, della figura di accudimento e di sé-con-l’altro, non mutano nel tempo. La mancanza di fiducia, la paura, il sospetto, a fronte di un attaccamento insicuro permangono per tutta la vita. Eppure nulla è perso, perché è possibile costruirne di nuovi, attraverso la collaborazione paritetica, e la psicoterapia rappresenta un’occasione privilegiata. Ecco che un paziente borderline non darà il numero di telefono a una ragazza che gli piace perché recupera nel suo modello operativo interno traumatico l’idea di rifiuto e abbandono, e sarà sopraffatto dal conflitto desiderio-paura (disorganizzazione del comportamento per l’attivazione contemporanea di sistemi motivazionali incompatibili, attaccamento e difesa). Al ritorno dalla seduta potrà però visualizzare l’immagine del suo terapeuta di cui si fida e almeno tentare un approccio, sperimentando e incrementando le proprie capacità riflessive. Tentativi faticosi, certamente, perché i modelli infantili vengono attivati in automatico, con una via d’accesso facilitata, mentre ci vuole impegno per attivare quelli nuovi e più adattivi”.

Si riferiamo alla coazione a ripetere di freudiana memoria (come la convinzione di essere sempre rifiutati sulla base delle proprie esperienze precoci infantili) contro la possibilità di sperimentare nuovi modi di sentire e pensare per una vita più appagante, armoniosa e funzionale.

Slam Poetry: Il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Neil Hilborn

Neil Hilborn, “OCD” Il disturbo ossessivo compulsivo

Scopri di più sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo

 

Neil Hilborn, l’autore della poesia sul disturbo ossessivo compulsivo

Neil Hilborn ha vinto il premio “College National Poetry Slam” e si è laureato con lode in scrittura creativa presso il Macalester College, negli States. Trovare il suo blog qui.

 

Gioco del calcio e funzioni cognitive: un legame vincente

Secondo un nuovo studio, la memoria di lavoro ed altre funzioni esecutive nei bambini e nei giovani, possono essere associate al successo che essi riscuotono sui campi di calcio. I ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia, sostengono che le squadre che si focalizzano troppo sulle qualità fisiche, rischiano di lasciarsi sfuggire futuri campioni.

Le qualità necessarie per essere dei campioni nel calcio

Le qualità fisiche come dimensioni, forma e forza, insieme al controllo di palla, sono state a lungo considerate come fattori critici nella ricerca di nuovi talenti nel gioco del calcio.

Il terzo fattore, il concetto un po’ vago di “intelligenza di gioco”, definito come la capacità di essere nel posto giusto al momento giusto, è stato sempre difficile da misurare.

Nel 2012, i ricercatori del Karolinska Institutet, hanno dato una possibile spiegazione scientifica al fenomeno, legandolo alle funzioni esecutive ed hanno dimostrato che, nei giocatori adulti, queste ultime potrebbero essere associate al loro successo sul campo di gioco.

In un nuovo studio, pubblicato nella rivista scientifica “PLOS ONE”, i ricercatori hanno illustrato che le facoltà cognitive possono essere similmente quantificate e collegate a quanto i bambini ed i giovani giochino bene.

[blockquote style=”1″]E’ interessante notare che le squadre di calcio si focalizzano fortemente sulle dimensioni e la forza dei giovani giocatori [/blockquote]sostiene il Dr. Predrag Petrovic del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche del Karolinska Institutet.

[blockquote style=”1″]I giovani giocatori che si trovano indietro con lo sviluppo fisico, hanno raramente la possibilità di essere scelti come potenziali giocatori di alto livello, e ciò comporta che i team rischiano di trascurare dei nuovi potenziali Iniesta o Xavi.[/blockquote]

 

Le funzioni esecutive e l’importanza nello sport del calcio

Le funzioni esecutive consistono in alcune funzioni cerebrali di controllo, che permettono agli essere umani di adattarsi ad un ambiente in uno stato perpetuo di cambiamento. Esse includono il pensiero creativo finalizzato al cambiamento rapido di strategie, la ricerca di soluzioni nuove ed efficaci, e la repressione di impulsi disadattivi. Queste funzioni dipendono dai lobi frontali, che continuano il loro sviluppo fino all’età di 25 anni circa.

Nello studio, i ricercatori hanno misurato alcune funzioni cognitive in 30 giocatori d’elite, di età compresa tra 12 e 19 anni, ed hanno confrontato i risultati con il numero di goal che i soggetti avevano segnato in un lasso di tempo di due anni.

Sono state scoperte forti evidenze per quanto riguarda il legame di diverse funzioni esecutive col successo sul campo di gioco, anche dopo aver controllato altri fattori che potevano influenzare la performance, soprattutto per quanto riguarda le forme più “semplici” di funzioni esecutive, come la working memory, che completa relativamente presto il suo sviluppo nel percorso di vita.

[blockquote style=”1″]Il risultato era abbastanza atteso, poiché le funzioni cognitive sono meno sviluppate nei soggetti giovani, rispetto agli adulti, fattore che si riflette probabilmente nel modo di giocare dei giovani, caratterizzato da meno passaggi che conducono al goal[/blockquote] sostiene Petrovic.

I soggetti del campione dello studio hanno anche mostrato punteggi più alti, rispetto alla media della popolazione generale della stessa età, in diversi test che misuravano le funzioni esecutive.

Un possibile sviluppo di questa ricerca, sarà quello d’indagare se queste facoltà siano ereditate o possano essere allenate, così come stabilire l’importanza di diverse funzioni esecutive nelle varie posizioni di gioco.

[blockquote style=”1″]Crediamo che i ruoli di gioco possano essere legati a diversi profili cognitivi. Credo che gli allenatori inizieranno ad utilizzare sempre di più dei test cognitivi, sia per ricercare talenti, sia per stabilire la posizione in cui essi possano giocare.[/blockquote]

La metafora come strumento di cambiamento in psicoterapia

La metafora costituisce una lente di ingrandimento messa a disposizione del paziente per vedere certi aspetti vissuti con problematicità in modo amplificato e rendendo il messaggio veicolato più potente e ricco di significati diversi. Inoltre, l’uso della metafora in terapia stimola tra terapeuta e paziente il rafforzamento del canale emotivo-affettivo creando empatia e sintonia (Brink, 1988).

Noemi Monti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

“La metafora è considerata non solo un abbellimento linguistico, ma una forma di pensiero, uno strumento che permette di categorizzare le nostre esperienze. La realtà è definita in termini metaforici e le metafore incidono sul modo di percepire, di pensare, di interagire e giocano un ruolo molto significativo nel determinare ciò che è reale per noi”.
(Lakoff e Johnson, 1998)

 

L’impiego della metafora negli approcci di psicoterapia

La metafora è parte integrante della nostra realtà quotidiana. Da anni è oggetto di studio della scienza cognitiva e della linguistica, ma non solo. Numerosi approcci terapeutici si sono interessati alla metafora come strumento di cambiamento. Il primo ad utilizzarla in modo sistematico in seduta è stato Erickson (1984), con l’obiettivo di stimolare nei pazienti il riconoscimento di un significato implicito o subliminale all’interno dei suoi racconti e dei suoi aneddoti.

Successivamente i diversi approcci psicoanalitici e l’Acceptance and Commitment Therapy hanno ripreso l’intuizione dello studioso e, adattandola al loro background teorico, hanno fatto uso in modo massiccio della metafora e delle altre figure retoriche nel loro approccio clinico.

Nella terapia cognitivo comportamentale meno attenzione è stata dedicata alla metafora: la sua modalità di utilizzo è stata maggiormente lasciata alla capacità del singolo terapeuta piuttosto che sistematizzata all’interno della terapia. Malgrado ciò già Beck e Emery (1985) utilizzarono con alcuni loro pazienti delle metafore. Una delle più note riguarda una giovane scrittrice che non riusciva più a scrivere nulla in quanto, ogni qualvolta lo faceva, il risultato non era per lei soddisfacente. A quel punto il terapeuta cercò di convincerla che l’importante, almeno all’inizio, era scrivere, indipendentemente dalla qualità letteraria raggiunta. Tale tentativo non andò a buon fine e la paziente continuava a rifiutarsi di scrivere. Allora il terapeuta provò con una metafora: “Scrivere è come pompare dell’acqua. Se una pompa non viene usata per tre anni, si accumula una grande quantità di ruggine e sporcizia. Bisogna pompare l’acqua un po’ meno per eliminare la sporcizia. Lei sta facendo qualcosa di simile. Quando comincia a pompare dopo tre anni di inattività e vede che esce un’acqua di colore marrone conclude che, non essendo limpida, non è buona e così chiude il rubinetto. Ma quello che deve fare è lasciare scorrere l’acqua finché diventa di nuovo limpida”. Dopo quel racconto la paziente, non senza qualche difficoltà, riprese a scrivere.

La metafora si struttura così come una forma del pensiero prima ancora che di linguaggio e come una forma concettuale prima ancora che espressiva.

Secondo Casonato (2003) è il modo di pensare, di immaginare la realtà e di interpretarla ed è alla base delle reazioni emotive dei comportamenti del paziente indipendentemente dalla sua struttura psichica. Ma non basta usare una metafora per ottenere un cambiamento significativo nel paziente.

L’uso della metafora è un’arte e come ogni arte richiede rigore nell’impararla e creatività nell’utilizzarla. Innanzitutto per essere efficace una metafora deve essere ben integrata nella conversazione terapeutica. Ciò implica che il suo utilizzo può avvenire quando tra terapeuta e paziente si è instaurata una buona relazione ed il terapeuta conosce gli aspetti della vita del paziente che lo caratterizzano e/o che per lui sono importanti. Non esiste un set di metafore base che funzionano, ma ogni metafora è tailor made su quel paziente. Nel caso per esempio di un paziente con la passione dell’informatica, molto utili potrebbero rivelarsi i parallelismi con quel mondo durante la seduta.

 

Le fasi per definire una metafora

Gordon (1978) individua tre fasi del processo di creazione di una metafora. In primo luogo occorre raccogliere le informazioni, ovvero indagare i soggetti coinvolti nella situazione ritenuta problematica: gli aspetti caratteristici, il tipo di azione/reazione messe in atto, gli ostacoli che impediscono al paziente di mettere in gioco un atteggiamento più funzionale.

In secondo luogo c’è la costruzione della metafora vera e propria, ossia identificare il problema del paziente, definire l’obiettivo, delineare il contesto di riferimento e generare un simbolismo e un isomorfismo in grado di generare un’esperienza vicaria funzionale all’attivazione di ristrutturazioni con conseguenti soluzioni alternative.

L’ultima fase è quella della soluzione del problema, ovvero l’applicazione della metafora negoziata e rielaborata dal paziente affinché avvenga un cambiamento. Compito della terapia è proprio quello di facilitare l’elaborazione esperienzale ed emozionale piuttosto che quella concettuale, supportando il paziente a essere consapevole della propria modalità personale di essere nel mondo e di rapportarsi (Greenberg, Rice e Elliott, 2000).

Il successo di una metafora dipende dalla sua capacità di riuscire a coinvolgere alcune componenti cognitive:
1. l’evocazione di contenuti visivi. Una metafora veicola anzitutto un’immagine. E’ come se il problema del paziente acquisisse più concretezza, più chiarezza, incarnandosi in una figura ben definita;
2. l’integrazione degli aspetti verbali e di quelli immaginativi. La capacità di integrare questi due aspetti permette, secondo Watkins (2008), di diminuire i rischi legati alla generalizzazione e alla scarsa risoluzione dei problemi. Nella letteratura sulla terapia cognitivo comportamentale è stato evidenziato come una preponderanza di elaborazione verbale porti a infruttuose ruminazioni che non consentono al paziente un’elaborazione maggiormente flessibile dei vari tipi di informazione che possiede;
3. la considerazione di più concetti contemporaneamente. La metafora stimola la capacità del soggetto di tenere in considerazione, nello stesso momento, due o più concetti diversi. Questo porta alla stimolazione del problem solving che è stimolato da una più ampia considerazione dei singoli aspetti di uno specifico problema al fine di connetterli o differenziarli;
4. la consapevolezza di punti in comune al di là delle differenze superficiali. La metafora consente di creare un ponte tra un concetto astratto e un’immagine concreta e di recuperare da quest’ultima delle percezioni e delle sensazioni “dormienti” nella memoria storica emotiva della persona;
5. l’uso flessibile di più significati. Secondo Lakoff e Johnson (1980) una stessa metafora è portatrice di più significati che diventano salienti di volta in volta rispetto a un determinato paziente e in un determinato contesto. Il rischio che lamentano gli autori, tuttavia, è che vengano compresi dai pazienti un solo significato alla volta, lasciando sullo sfondo gli altri, altrettanto importanti. Per questo suggeriscono di utilizzare più metafore per esplorare uno stesso tema piuttosto che una.

A sostegno di ciò portano la metafora della gamba rotta, particolarmente utilizzata nei pazienti che soffrono di depressione. I pazienti depressi sono comprensibilmente frustrati dai loro sintomi. Ciò che per loro è più doloroso è il continuo confronto con quando stavano meglio e il ripetersi che dopo alcune sedute di terapia dovrebbero ritornare quasi come prima. Il terapeuta allora chiede al paziente di immaginarsi di essere un maratoneta che, a causa di un infortunio, si rompe una gamba e lo invita a chiedersi se sarebbe così duro ed esigente con se stesso nel riprendere a camminare e a correre. In questo caso la metafora rende saliente il concetto di tempo di recupero necessario per guarire, ma lascia sullo sfondo l’incertezza a cui si può andare incontro in questo percorso e che può portare a vivere una situazione di smarrimento. In questo caso è utile affiancare alla metafora della gamba rotta anche quella del viaggio nel buio. L’utilizzo di più metafore deve essere fatto con molta accuratezza così da non ingenerare confusione nel paziente. Tuttavia utilizzarne diverse può anche inviare al paziente un meta-messaggio utile: ci sono modi diversi di guardare le cose.

Il coinvolgimento di tutti questi processi fa sì che la metafora costituisca una lente di ingrandimento messa a disposizione del paziente per vedere certi aspetti vissuti con problematicità in modo amplificato e rendendo il messaggio veicolato più potente e ricco di significati diversi. Inoltre, l’uso della metafora in terapia stimola tra terapeuta e paziente il rafforzamento del canale emotivo-affettivo creando empatia e sintonia (Brink, 1988). Infine è un valido strumento per l’insight in quei contesti che sfuggono alla comprensione diretta.

Pacciolla (1991) riassume le funzioni di efficacia della metafora:
– motivare, attivare un paziente deluso, scoraggiato che reputa i suoi problemi insolvibili;
– superare le difficoltà ad affrontare situazioni o temi importanti per la vita del paziente o quando si osserva una scarsa disponibilità ad accogliere le riformulazioni del terapeuta;
– affrontare il disagio che si può costituire utilizzando una comunicazione diretta;
– aumentare il grado di coinvolgimento evitando la deconcentrazione e la perdita di interesse;
– sfruttare il potere evocativo delle immagini e consentire che queste rimangano in memoria il più a lungo possibile;
– adeguarsi al linguaggio indiretto del paziente;
– vedere un problema in un contesto diverso che lascia spazio anche ad un’opportunità;
– mostrare al paziente come i suoi pensieri e i suoi comportamenti siano legati ad un certo modo di vedere le cose che potrebbe non essere né l’unico né tantomeno il più funzionale.

Quanto presentato permette di osservare una forte analogia tra l’effetto che stimola una metafora e la ristrutturazione cognitiva che si pone come uno degli elementi centrali della terapia cognitivo comportamentale. L’efficacia della metafora nel cambiamento non è dimostrata solo dalla pratica clinica ma anche da alcuni studi che hanno documentato come il cervello risponda se stimolato da una figura retorica.

Benson e Hays (2003) sostengono l’esistenza di una base neurale della metafora e che l’ascolto di una metafora lunga porti la persona ad un abbassamento del livello di attenzione con conseguente cambiamento dell’attività elettrica del cervello che passa dalle onde cerebrali beta tipiche dell’attenzione attiva alle onde alpha proprie della veglia rilassata. Tale mutamento di attività crea nel paziente uno stato di maggior apertura e minor tentativo di razionalizzare il suo vissuto problematico e consente l’integrazione degli aspetti emotivi. Erickson (1984) ha paragonato questo stato alla trance che consentiva la registrazione dei messaggi trasmessi dal proprio subconscio per la valutazione dell’esperienza complessiva.

L’utilizzo della metafora nella terapia cognitivo comportamentale

Stott, Mansell, Salkovskis, Lavender, Cartwright-Hatton (2010) hanno sintetizzato alcuni punti chiave per l’utilizzo delle metafora all’interno della terapia cognitivo comportamentale.

1. L’importanza dell’interazione terapeuta-paziente: la negoziazione e la scoperta guidata

Come anticipato, l’uso della metafora richiede un’interazione ricca e ben integrata tra paziente e terapeuta finalizzata a costruire la strada migliore per trasformare in modo funzionale la visione di sé e del mondo. Ciò implica una condivisione e discussione dei significati implicati con lo scopo di giungere ad una negoziazione della metafora da utilizzare. Una volta individuata la metafora il terapeuta deve farsi promotore della fase di scoperta guidata in cui la metafora viene destrutturata e analizzata. A volte questa fase è più complessa per il terapeuta che per il paziente in quanto la stessa metafora può essere utilizzata in circostanze differenti e per scopi differenti. A volte il percorso terapeutico viene paragonato a un viaggio e al paziente viene data una cartina al cui interno indicare tappe ed ostacoli da superare. Altre volte il terapeuta viene paragonato a un detective privato, mentre il paziente ad uno scienziato. L’idea comune è quella di scoprire qualcosa, anche se il percorso può essere arduo.

2. Il momento migliore per utilizzare la metafora

Non esiste un momento preciso per introdurre nel dialogo terapeutico una metafora. Questa può essere collocata centralmente in una terapia per stimolare il cambiamento oppure nella parte conclusiva per cristallizzarlo. In qualche caso può essere messa in campo anche all’inizio come strumento per agganciare il paziente. A tal proposito può essere utile portare ad esempio una metafora. Nell’era di Internet è esperienza abbastanza comune che i pazienti giungano in terapia sulla base di qualcosa che hanno letto sulla rete. Generalmente, della terapia cognitivo comportamentale viene apprezzata la sua pragmaticità, il suo intervenire sulla problematica dell’hic et nunc. Viene spesso obiettato che non ci si occupi della causa della sofferenza lasciando nel dubbio che sia solo un intervento superficiale e temporaneo. Quando un paziente arriva con queste osservazioni il terapeuta potrebbe portare alla sua attenzione questa metafora: “immaginiamo che lei si svegli in un letto di ospedale, confuso e stranito e con una gamba rotta. Quanto è importante che si vada a ricercare la causa di quell’infortunio per poterla curare? Il medico prima di operare, tuttavia, farà tutte le verifiche, tutti gli esami necessari per valutare l’intervento migliore. Valuterà inoltre se ci sono degli ostacoli che impediscono la guarigione e delle possibili cause di ricaduta. La terapia cognitivo comportamentale segue questo principio. Non ha senso indagare il passato, ma i riflessi che questo ha nel presente in termini di modalità del funzionamento di ciascuno di noi, così da non ricadere negli stessi problemi”. Alcuni autori obiettano che talvolta la metafora potrebbe rendere le cose più complicate anziché semplificarle e ritengono che una psicoeducazione diretta potrebbe portare a migliori risultati. L’esperienza clinica, tuttavia, suggerisce che la sofferenza in cui si trovano i pazienti potrebbe rendere difficoltoso un processo così esplicito sia dal punto di vista della comprensione cognitiva che di quella emotiva. Inoltre stimola nel paziente l’idea che non solo sia possibile pensare alle situazioni in modo più funzionale ma che si possa imparare a gestire la situazione e non solo a reagirvi. Si supera così anche l’approccio classico per cui il cambiamento terapeutico passa attraverso l’individuazione di errori logici di pensiero.

3. L’importanza di identificare e bilanciare le emozioni

Per B. Beck (1978) la metafora rappresenta un ponte, un’integrazione tra il pensiero razionale e quello emozionale. In ambito terapeutico le metafore possono essere utilizzate per trovare il giusto equilibrio tra l’elicitazione di emozioni cariche e il far sì che tali emozioni non esplodano. Molti terapeuti fanno esperienza del tentativo dei loro pazienti di razionalizzare i problemi. Così facendo in realtà è come se evitassero di pensarli in modo troppo approfondito. Spesso capita con pazienti che soffrono di attacchi di panico che talvolta sono assolutamente consapevoli del fatto che non moriranno né impazziranno. Tuttavia riferiscono che nel momento in cui l’ansia prende il sopravvento formulare questo pensiero diventa quasi impossibile. Altri pazienti cercano, nei momenti di sofferenza, di dirsi delle frasi auto-rassicuranti come: “non preoccuparti, finirà tutto, ho fatto del mio meglio”. Tutto ciò allo scopo di combattere alcune paure. Questo tuttavia conduce, come prima, ad un evitamento esperienziale che non solo mantiene, ma addirittura può aumentare il disagio del paziente, sebbene questo sia spesso convinto del contrario. L’unica strategia messa in atto dal paziente è quella di contraddire il pensiero negativo anziché attuare una ristrutturazione delle credenze. Nell’ambito delle emozioni è spesso necessario sostenere nel paziente un passaggio “dalla testa al cuore”. Per farlo il terapeuta può mimarlo toccandosi prima la fronte e poi passando la mano alla parte sinistra del cuore. Non di meno può essere utile portare le parole auto-rassicuranti del paziente in una metafora facendo in modo di vedersi in questo atteggiamento dal di fuori. Così facendo potrà capire come tale tentativo potrà, al limite, portare solo ad un miglioramento superficiale e temporaneo.

Infine si segnala che, a parere degli autori, le espressioni metaforiche mettono in luce vividamente che le emozioni positive fanno crescere, danno forza ed energia e sono utili, mentre quelle negative possono risultare dannose e per questo non vanno evitate ma gestite.
Uno dei binomi più utilizzati e frequenti in psicoterapia nell’ambito delle metafore è quello di cibo ed emozioni: “ho un peso sullo stomaco”, “mi sento avvelenato dalle loro cattiverie”. Per un terapeuta riuscire a cogliere il significato profondo di queste metafore all’interno di una seduta può essere molto prezioso.

4. La metafora come chiarificatrice del binomio emozione-cognizione

L’idea sottostante al modello di Beck (1976) è che le reazioni emotive delle persone siano funzionali alla modalità in cui esse organizzano la realtà e attribuiscono significato ad eventi e situazioni. E’ il significato che si attribuisce agli eventi ad elicitare certe emozioni piuttosto che gli eventi stessi. Le emozioni appartengono a un particolare tipo di interpretazioni. Si mette in luce perciò l’importanza della specificità emozione-cognizione. Tale specificità è ben illustrata dalla metafora di Salkovskis (1996) in cui racconta di tre uomini che incapparono, una mattina, in un escremento di cane. Malgrado la situazione fosse la stessa, le reazioni furono diverse. Il primo iniziò a pensare che capitano tutte a lui e che è una persona molto sfortunata. Il secondo cominciò a chiedersi se fosse più opportuno andare a casa e cambiarsi le scarpe arrivando in ritardo al lavoro e col rischio perciò di perderlo oppure andare al lavoro ed essere redarguito dal capo per mancanza di igiene personale rischiando, ancora una volta di perderlo. Il terzo invece si disse semplicemente “meno male che non ho messo i sandali stamattina” e passò oltre. Questa metafora veicola due importanti concetti. Il primo è che la terapia cognitivo comportamentale non ha come obiettivo quello di indurre i pazienti a pensare più razionalmente né tantomeno positivamente. Il secondo è che ci sono diversi modi di vedere una determinata situazione o problema. Spesso invece nei pazienti vi è la convinzione che quello che provano o sentono sia il riflesso diretto di quello che vivono.

5. La metafora a supporto delle spiegazioni alternative alle situazioni

La metafora può supportare il paziente nel dare spiegazioni alternative alle situazioni vissute, spiegazioni che non vanno necessariamente nell’ottica di essere rassicuranti. Per accettare una spiegazione alternativa e per farla sua (soprattutto se si tratta di credenze disfunzionali) il paziente deve avere a disposizione innanzitutto una spiegazione comprensibile e chiara. Proviamo a spiegarlo con una metafora. Una donna trova sul cellulare del compagno dei messaggi con la sua migliore amica in cui si danno un appuntamento. La donna chiede immediatamente spiegazioni a entrambi ed entrambi la rassicurano dicendo che tra di loro non c’era alcuna relazione. Di questa spiegazione però non è soddisfatta e continua a nutrire dubbi e preoccupazioni. Anzi, le rassicurazioni sembrano aver peggiorato la situazione. I dubbi e le preoccupazioni svaniscono quando scopre che gli incontri clandestini sono finalizzati all’organizzazione di una festa a sorpresa per lei. Ecco la spiegazione alternativa chiara e convincente. Persons e Tompkins (2007) suggeriscono che la metafora può supportare la formulazione di spiegazioni alternative e consente al paziente di farlo in un ambiente immaginario e, per questo, protetto. La formulazione del problema e delle sue alternative è centrale nella terapia cognitivo comportamentale. Bieling e Kuyken (2003) suggeriscono che “la riformulazione della situazione può essere definita come un set coerente di inferenze che spiegano i fattori che causano e mantengono i problemi presenti nella persona”. Butler (1998) sostiene che nella formulazione dei problemi del paziente può essere utile disegnare con lui concretamente una mappa in cui indicare gli obiettivi da raggiungere e gli ostacoli che potrebbero esserci. Terapeuta e paziente in questa visione sono esploratori e la mappa può essere all’inizio parziale e incompleta. Man mano che il percorso di terapia procederà si andrà a perfezionare le tappe e a condividere in maniera più puntuale ostacoli, problemi e alternative. Questa prospettiva veicola nel paziente un approccio di empowerment aiutandolo sempre più a gestire le situazioni in prima persona anziché reagirvi facendo attenzione ad essere sempre allineati ai suoi valori.

6. Ognuno ha la giusta metafora

Un importante compito del terapeuta è quello di selezionare la o le metafora/e che siano significative per il paziente ovvero sufficienti ad assicurare l’elaborazione e la comprensione del suo vissuto. Non capita raramente che i pazienti sostituiscano le metafore proposte dal terapeuta con altre ritenute più salienti. Questo atteggiamento dovrebbe essere incoraggiato perché pone le basi per il terreno comune su cui lavorare in seduta. Il terapeuta può tuttavia aggiungere alla metafora del paziente alcuni elementi che ritiene importanti per una corretta comprensione e valutazione.

Inoltre deve supportare il paziente nell’individuare gli elementi centrali della metafora e collegarli agli aspetti problematici specifici per quel paziente. L’ultimo passo è quello di supportare il paziente nel testare la validità delle implicazioni che la metafora/situazione ha e le conseguenze sulla sua vita. La stimolazione di tale consapevolezza potrebbe portare il paziente ad aumentare la sua comprensione delle vicende del passato e a condurre veri e propri esperimenti comportamentali per verificare la bontà delle spiegazioni alternative trovate. Ciò inoltre fornisce un utile supporto al passaggio “dalla testa al cuore” cui si è fatto cenno prima.

Oltre ai punti chiave per utilizzare una metafora nella terapia cognitivo comportamentale occorre tenere presente anche alcune caratteristiche fondamentali.

Innanzitutto deve essere immediatamente disponibile alla comprensione dalla persona a cui è proposta. Ciò implica che la scelta della metafora dovrebbe, preferibilmente, basarsi sul background della persona e i suoi interessi. In alternativa si possono scegliere metafore aventi a che fare con esperienze “largamente diffuse”: ad esempio il terapeuta può utilizzare l’espressione scoppio di pianto per rendere più comprensibile la sensazione di perdere del controllo. Scoppiare in pianto può essere sintomo di sopraffazione ma non è in alcun modo irreversibile. E’ questa non irreversibilità che permette al paziente di dare un senso nuovo alla sua esperienza.

La scelta della metafora, inoltre, deve essere in linea con la cultura di chi si ha di fronte ed il suo sistema di valori. Talvolta vengono utilizzate delle metafore “universali” ad esempio quelle che riguardano i temi evoluzionistici. Oppure si possono utilizzare delle metafore molto concrete che si riferiscono, a titolo esemplificativo, animali, piante e costruzioni. In ogni caso non necessariamente la metafora per essere compresa deve essere sperimentata effettivamente. Un esempio di metafora transculturale è quella del market cinese. Ci si può immaginare di acquistare dei prodotti in un negozio conosciuto e degli altri in un negozio cinese in cui non ci si è mai recati. L’esperienza soggettiva può essere molto diversa. Tuttavia una disamina più attenta può consentire di cogliere degli elementi molto simili: tutti si recano in un negozio per comprare e vendere. Ciò che cambia sono i dettagli. Così la fobia sociale in Gran Bretagna è la stessa di quella presente in Giappone. Quello che è differente sono i valori socio culturali di riferimento.

L’umorismo in terapia

Infine, una delle caratteristiche delle metafore è che esse, talvolta, possono assumere la forma di barzellette e storie umoristiche. L’umorismo in terapia deve essere utilizzato molto prudentemente per evitare che il paziente si possa sentire deriso o non compreso adeguatamente. Per questo occorre che siano valutati due fattori chiave: il contesto in cui l’umorismo è usato e la relazione terapeutica. Se contesto e bontà della relazione terapeutica lo consentono una metafora in chiave umoristica può avere un’ottima efficacia.

Ci sono due tipi di umorismo. Il primo è l’umorismo cosiddetto accidentale in cui il paziente è divertito da qualcosa che il terapeuta ha detto. In tali circostanze è utile, una volta concluso il momento divertente, chiedere al paziente che cosa abbia trovato di comico, anche se spesso ciò rovina la battuta. Altre volte invece le metafore umoristiche possono essere maggiormente deliberate. Ad esempio, nel caso di un paziente con tematiche ossessive che si lava molte volte al giorno le mani per paura di contaminare gli altri facendosi portatore di germi letali, il terapeuta, dopo aver raggiunto una buona alleanza, potrebbe suggerirgli di candidarsi per lavorare con i servizi segreti mettendo così a disposizione la sua grande capacità di mettere in pericolo e addirittura uccidere una persona semplicemente non lavandosi le mani e passandogli qualcosa. Il paziente, generalmente, troverà divertente questo parallelismo. La metafora lo aiuterà a capire che le persone spesso si sentono responsabili di ciò che non sono e di ciò che non controllano. Lo humour può cristallizzare questo messaggio.

Come anticipato in premessa – e confermato da McMullen (2008) – lo studio della metafora in psicoterapia non è approfondito quanto il suo utilizzo. Ciò viene imputato al fatto che ogni metafora ha un significato troppo specifico per ciascun paziente e quindi diviene complesso generalizzare la sua efficacia in uno studio ampio. Malgrado ciò, una ricerca di Casonato (2003) ha riscontrato una maggiore efficacia della terapia laddove si faccia un utilizzo significativo di questa figura retorica. Ci si auspica quindi per il futuro un numero più ampio di studi che possano anche determinare una correlazione significativa tra caratteristiche del paziente, tipi di metafora usata e loro efficacia.

 

Che vuoi che sia (2016): riflessioni sull’intimità 2.0

Che valore scegliamo oggi di dare alla nostra intimità? E’ uno dei temi principali sollevati nel nuovo film Che vuoi che sia di Edoardo Leo in compagnia di Anna Foglietta.

 

In Che vuoi che sia una giovane coppia molto affiatata e alla ricerca di una difficile realizzazione professionale, per una serie fortuita di circostanze, si trova a vivere una situazione in cui è costretta a riflettere sul valore sacrificale della propria intimità di coppia (sessuale e non solo) in cambio di una possibile e cospicua somma di denaro che consentirebbe loro di allontanare le paure e le difficoltà economiche legate a comuni progetti di vita, ovvero fare un figlio e metter su famiglia.

 

Che vuoi che sia: stiamo perdendo la nostra intimità?

La trama del film Che vuoi che sia si sviluppa ai giorni nostri, in una società ormai modificata dall’esistenza dei social, in cui le regole dei rapporti umani e lavorativi sembrano essersi evoluti trasformando le relazioni e la percezione di noi stessi in maniera radicale e spesso disorientante, specie per le (un po’ più) vecchie generazioni. Ci troviamo a riflettere su come uno degli aspetti e valori determinati e determinanti della personalità dell’essere umano, come appunto l’ intimità, rischi di finire inconsapevolmente promosso (o forse declassato e umanamente impoverito) a strumento indirizzato alla ricerca dell’affermazione e del riconoscimento all’interno dei nuovi parametri dettati dalla social society. Insomma: allarme! La nostra intimità si sta evolvendo o semplicemente la stiamo perdendo? Se mai dovesse accadere, ci siamo domandati su quali aspetti basilari della nostra identità, nonché meccanismi regolatori delle relazioni interpersonali stiamo agendo e a cui rischiamo di rinunciare?

C’è chi afferma che il desiderio di intimità è un valore innato insito nell’essere umano e del tutto legato alla promozione del benessere. E’ stato dimostrato che persone che vivono relazioni intime hanno meno probabilità di sviluppare sintomi psicologici, un tasso di mortalità più basso, meno incidenti, e sono addirittura a minor rischio di sviluppare malattie rispetto a quelli che non hanno relazioni intime (Prager, 1995).

Per Levine (1981) l’ intimità psicologica è la “colla delle relazioni importanti”. Problemi di intimità sono strettamente collegati a molti disturbi di salute mentale (Fisher & Stricker, 1982). Il modo in cui l’ intimità facilita lo sviluppo di una sana salute psicologica è ben spiegato in uno dei più completi modelli socio-psicologici (Reis & Shaver, 1988) il quale considera ed unisce coerentemente una varietà di prospettive: nel bambino sviluppo di competenza, padronanza ed autostima attraverso una esplorazione favorita (Ainsworth et al. 1978), cooperazione e sviluppo dell’identità (Sullivan, 1953), creatività ed integrazione emotiva (Erikson, 1950). Questo modello ha dato seguito ad una serie di studi successivi sull’argomento dove  l’ intimità è sempre considerata un importante elemento alla base di una fondamentale funzione interpersonale.

 

Intimità: cos’è e quali sono le sue funzioni?

La visione del film Che vuoi che sia, stimola la riflessione: ma cos’è realmente l’ intimità? Come si determina in noi? E soprattutto a quali funzioni attende nella nostra vita (singola, di coppia e relazionale in genere)?

Fermarmi a riflettere su alcune questioni sollevate dal film Che vuoi che sia ha fatto sì che mi rendessi conto di quanto complessa e articolata fosse la questione e quanti aspetti del nostro vivere quotidiano fossero collegati ad essa senza che ne avessimo sempre la piena consapevolezza.

Prima ancora della riflessione sull’ intimità mossa da Che vuoi che sia, mi viene in mente Neil Patrick Harris alias Barney Stinson, nella serie televisiva How I met your mother, che impersona una delle figure narcisistiche più simpatiche ed azzeccate che abbia mai visto. Nell’interpretazione di tale ruolo, l’evitamento della vicinanza profonda, il totale apparente disinteresse ed una smarrita empatia col prossimo sono praticamente le principali peculiarità che caratterizzano il personaggio, il quale tuttavia, pronuncia una delle affermazioni più sensate che abbia mai sentito sul concetto di intimità:

La mia regola aurea è: mai offrire una cena a qualcuno per ottenere un sì! Cenare con una persona è un’attività molto intima, che richiede un grado di comunicazione e anche di contatto visivo che il sesso non ha! Io sarò anche antiquato ma devo andare a letto con una ragazza almeno tre volte prima di un’eventuale cena con lei.

Se riflettiamo su queste parole forse ha senso domandarsi: è possibile vivere in modo soggettivo l’ intimità stabilendo consapevolmente o meno gli ambiti della nostra esistenza che riteniamo più nostri, riservati e che per qualche motivo non riusciamo a condividere facilmente con tutti?

Forse sì e questo ci complicherebbe non di poco la possibilità di ragionarci sopra, ma se cerchiamo di definirla ulteriormente, osservando i vari modi in cui essa viene vissuta, forse riusciremmo a trovare delle caratteristiche trasversali a tutti in grado di semplificare sicuramente la sua comprensione.

Un mio paziente una volta mi disse, senza preoccuparsi di nasconderne l’entusiasmo, di identificarsi e di ammirare molto il personaggio di Barney Stinson. Forse non era affatto un caso che egli, al pari del personaggio, riuscisse ad intrattenere con estrema facilità e disinvoltura rapporti con differenti partner, in tali situazioni, non necessariamente di natura occasionale, egli si sentiva affermato, sicuro di se, della sua prestanza e della propria fisicità, ma nonostante ciò, aveva sempre il suo momento di fuga: avveniva, successivamente al momento dell’orgasmo, che scattasse il piano di ritiro strategico, dove un repertorio di scuse, recitato durante la raccolta degli abiti, gli garantivano il raggiungimento della porta in tempi sempre brevissimi.

Può non essere affatto un caso che, in sessuologia clinica, nella curva della risposta sessuale (Master e Johnson 1954), la fase della risoluzione (successiva all’orgasmo) sia anche definita fase dell’ intimità, dove la vicinanza percepita con l’altro è maggiore. Liberi dalle tensioni precedenti, ci si sente più esposti e vulnerabili, è quello il momento, in cui ci si copre o si va a fumare una sigaretta oppure si resta nudi e abbandonati a piacevoli coccole. Per il clinico questo costituisce un potente marker sul grado di intimità della coppia, che si manifesta non solo in camera da letto.

Naturalmente il mio paziente non percepiva  consapevolmente quel senso di fragilità ed esposizione che viveva in quella fase; per lui i rapporti finivano lì, il resto era superfluo. Il successivo incontro con una persona diversa dalle solite gli ha permesso di alterare il copione ed esplorare aspetti differenti della relazione, permettendogli di scoprire che l’ebrezza di essere un fantastico amante è solo una parte parte possibile del rapporto e che le “coccole” non sono poi affatto male se ci si riesce ad abbandonare ad esse, ma ancor più che le sue fragilità percepite, come la possibilità che l’altro scorga dei difetti fisici, non sono causa certa di rifiuto, ma anzi possono costituire oggetti di interesse dell’altro verso di noi. Resta quindi da capire cosa di noi (e per noi) è intimo e come far entrare gli altri in questa nostra dimensione.

L’ intimità è un luogo segreto dell’anima con una piccola porta che non apriamo quasi mai a nessuno.
Lì nascondiamo i bisogni più intensi, la responsabilità delle nostre scelte macchiate dai veri dolori e tutto ciò che ci ha reso davvero così.
Se non ti è stato permesso di aprire quella porta non prenderti mai diritti che non hai sulle persone perché delle persone sai molto meno di quel che pensi.
Solo varcando quella porta le conoscerai davvero.
E non la puoi forzare, si apre da sé ed è molto lenta ad aprirsi, potrai spazientirti e decidere di andare.
Però sarà il regalo più grande che potrai ricevere, perché al suo interno c’è la più profonda e chiara rivelazione di cosa sia l’amore. (Massimo Bisotti “Il quadro mai dipinto”)

L’ intimità è appunto quella situazione di fiducia e abbandono verso l’altro in cui ci si sente esposti nelle peculiarità personali più profonde, sia nei pregi che nei difetti, accettando quel senso di fragilità senza percepirne il disagio, in una modalità che non si riesce a condividere certamente con chiunque e ancor meno applicando varie regole consapevoli di farlo.

Affinché questo stato interpersonale sia accessibile in modo sano, è assolutamente necessario, che la persona abbia una percezione definita di se stesso sia a livello di personalità sia di autonomia di quello che è il proprio spazio intimo.

Eduard T Hall (1963) parlando di prossemica, individua l’esistenza di uno spazio intimo (0-45 cm) entro il quale si comunica il sentirsi a proprio agio o meno con persone che riusciamo a sentire vicine e simili a noi. Se osserviamo delle persone interagire in una stanza potremmo farci un’idea sul grado di intimità che esse condividono, ma capire cosa determina e come si struttura quell’ intimità è cosa assai più  complessa che va oltre il solo spazio e la fisicità, in quanto, come nel caso del paziente appena citato, si tratta di un vero e proprio processo che avviene principalmente nella nostra mente. Una dimensione che si esplora e si costruisce nel tempo, in un rito relazionale che non è mai semplice e non è mai per tutti. Che cosa avviene in noi mentre si struttura questa percezione?

Come i protagonisti di Che vuoi che sia, tutti noi abbiamo esperienze variabili del nostro vissuto di intimità. C’è sicuramente chi la determina più sulla fisicità e chi più su un piano di esperienze condivise o magari entrambe, in ogni caso, affinché l’ intimità e la percezione che abbiamo di essa possa determinarsi in noi, è necessario aver sviluppato una buona conoscenza di se stessi e dei confini entro i quali ci si sente definiti.

Quanto detto finora ispirandoci alla clinica, ci invita a riflettere su un possibile paradosso che tende ad apparire più evidente alla presenza di uno stato di malessere della persona, quando la propria intimità non è né percepita né definita, rischiando di vivere una situazione intima senza intimità, una sorta di scissione. Come ad esempio avviene nel caso di una paziente che incontra l’ennesimo “uomo della sua vita” e viene travolta in una relazione sessuale dove le cinquanta sfumature di grigio sbiadiscono al confronto, con assoluta naturalezza e spontaneità, pensando di dare tutto di se stessa, aprirsi anima e corpo ma, giunto il momento in cui lui per strada le afferra la mano per passeggiare in un luogo affollato, lei va nel panico e nello smarrimento più totale generando una reazione di fuga.

 

Che vuoi che sia (2016), TRAILER:

 

L’ intimità e i Social Network

Questa capacità di scissione trova proprio un terreno fertile per svilupparsi nel mondo del web come accade ad esempio al mio paziente che, dopo una vita schiva e ritirata, caratterizzata da poche relazioni interpersonali all’insegna dell’insicurezza e della timidezza, per sfuggire alla noia ed alla solitudine della pensione, decide di intrattenere delle chat definite come “sexting” con perfette sconosciute inviando e ricevendo foto intime, assolutamente ignaro del fatto che la moglie possa ritenerlo un vero tradimento. Accade che un individuo con un tratto di personalità evitante che inizia a desiderare il contatto e la relazione con il prossimo, ritenendosi del tutto inadeguato ed esposto a critiche (per lui intollerabili) e sfavorito da scarse risorse relazionali, individua come risorsa personale app e social network, dove riesce a scavalcare questo gap interpersonale così ostico che noi terapeuti conosciamo abbastanza bene. Ma possiamo considerare questa strategia una risorsa o una soluzione? In modo del tutto assoluto no.

E’ chiaro che il concetto di intimità è assai più complesso di quanto possa sembrare: essa può essere scissa nei suoi vari aspetti i quali vengono selettivamente tenuti riservati o esposti e condivisi in base alle difficoltà  o necessità, oppure può abitare posti diversi nella nostra mente a seconda di ciò che siamo, della nostra esperienza e dell’identità in cui ci definiamo.

E’ giusto domandarsi se i social network riescono a darci la possibilità di vivere la nostra intimità in un modo differente dal passato o semplicemente, amplificano quelle nostre possibili difficoltà che abbiamo nel viverla, riconoscerla e svilupparla, sfalsando la nostra percezione di essa e del nostro spazio intimo?

Che vuoi che sia è la frase che provano a ripetersi i protagonisti del film per dare forza alla tentazione. Frase che potrebbe anche ripetersi (forse) uno dei migliaia di bei ragazzi e ragazze che sempre più, consapevoli del proprio aspetto gradevole, decidono di investire su di esso evitando il percorso iniziale di provini, raccomandazioni ecc. promuovendosi su Instagram in cerca di notorietà condividendo foto in situazioni di “sexy intimità quotidiana”. E’ ormai una regola di mercato per molti di loro, raggiunti i 100k di follower, vedersi giungere proposte commerciali per indossare il vestito o l’occhiale di marca in cambio di un cachet da fare invidia ad un professionista. Certo questa è una nuova forma di lavoro, dove il prodotto in vendita sa poco di valore artistico. E’ semplicemente la seminudità ad attirare l’attenzione o in qualche modo, oltre ad un ovvio senso del bello estetico, c’è una componente che rende interessante e desiderabile l’ intimità altrui?

Oppure il semplice desiderio di protagonismo e condivisione su Facebook che diviene più forte della riservatezza stessa come se fosse di interesse nazionale che il cane di qualcuno posa sotto l’albero di Natale indossando un orrendo maglione con la renna.

Sembrerebbe che se non sappiamo viverla allora decidiamo di venderla oppure ci accontentiamo di sbirciare quella degli altri reale o falsa che sia.

 

Che vuoi che sia: riscoperta dell’ intimità nella minaccia della perdita

La coppia del film Che vuoi che sia, all’inizio forse inconsapevolmente, ha una strutturazione molto forte di quella che è la loro intimità, lo spettatore lo vedrà nel loro modo di comunicare attraverso paradossi che lascerebbero disorientato qualsiasi ascoltatore, ma loro sanno molto bene il significato di un “non ti amo” “non mi manchi per niente”. La tentazione inflitta, definita da centinaia di migliaia di persone pronte a pagare per vederli in camera da letto preferendoli di gran lunga all’ormai troppo facile e svalutato vecchio buon porno d’autore, però metterà a dura prova tutto questo alterando in parte equilibri fondamentali di relazione. I tentativi di ridefinizione cognitiva (“che vuoi che sia” appunto) per accettare il cambiamento saranno tanti, ma proprio quando si avrà la percezione forte di quello a cui si sta realmente rinunciando quasi di fronte al fatto compiuto, qualcosa di “sano” scatterà aiutandoli a ristabilire le loro priorità e ad esplorare risorse alternative alla facilissima via di guadagno e soluzione assaporata e quasi intrapresa.

Accade spesso che già nella prima telefonata in cui si richiede una terapia di coppia, uno dei due possa dire frasi del tipo “…credo che io e mia moglie abbiamo un concetto di intimità differente…” ma quando chiedo in seduta se è sempre stato così ad una coppia che sta insieme da tempo, non si esita mai a rispondere di no, allora io mi limito a commentare “allora cerchiamo di ritrovare una dimensione di intimità che possiate nuovamente condividere…” .

Mi rendo conto mentre scrivo queste righe di quanto mi stia esponendo al rischio di apparire bacchettone: “Che vuoi che sia” appunto, una frase con la quale si cerca ti togliere valore a qualcosa, sminuire una sensazione di pancia che sta li, spinge ed ha qualcosa di importante da dire.

Che vuoi che sia è una piacevole commedia italiana che ci fa riflettere su questo aspetto apparentemente scindibile, vendibile e a volte invisibile della nostra intimità ma in senso più generale più delle nostra stessa esistenza, che può divenire un valore commerciale di facile vendita e distribuzione, una sorta di rivisitazione del Faust dove in vendita era l’anima. Forse proprio questo aspetto dello scibile umano è oggi ad esser richiamato, il vendere qualcosa di noi, magari di non visibile, di apparentemente rinunciabile, per qualcosa apparentemente di maggior valore, come fama, denaro, successo.

Anche Bart Simpson (citazione ancor più colta di Goethe) in una puntata della serie decide di vendere la propria anima per 5 dollari, scrivendola su un foglietto, facendo tra l’altro un pessimo affare, ma ben presto, vivendo piccoli ed insignificanti disagi, si accorgerà a cosa ha realmente rinunciato. Come magari potrebbe accadere in una coppia partendo da quel momento in cui l’altro si inizia a percepire un po’ più lontano.

L’ intimità è una dimensione interna a noi che iniziamo a sviluppare fin dalla nascita e va via via definendosi mentre viviamo esperienze relazionali. Le emozioni che proviamo al contatto con gli altri ci fanno capire quanto possa essere piacevole o spiacevole una maggiore vicinanza o lontananza con gli altri. Presto afferriamo il concetto che non è possibile trovarci a nostro agio gestendo un’equidistanza con tutti, ma la differenziazione di questo diventa un potente meccanismo regolatore delle relazioni che stabiliamo.

Tutto questo in noi è frutto di un lungo processo di definizione della persona e della sua personalità. Il primo step è sicuramente lo sviluppo di un proprio spazio intimo. Questo ci permetterà di percepire i confini che segnano l’intimità anche delle altre persone.

Tutto questo processo di strutturazione dell’ intimità naturalmente, come altri aspetti di definizione della persona, passa attraverso le influenze dei processi educativi, familiari e sociali.

Avverrà naturalmente che più avremo delineate queste dimensioni più potremo sperimentarci nella sensazione del far entrare qualcuno nel nostro spazio intimo per poi accedere alla dimensione in cui si crea suo spazio intimo condiviso e strutturato assieme all’altro.

Una coppia che ha attraversato queste fasi in maniera abbastanza competa avrà sicuramente la percezione (consapevole o non consapevole di tale spazio intimo), avvertirà una stanza mentale di rifugio e condivisione, una sorta di gelosia ed istinto protettivo verso di essa, un qualcosa che se protetta e alimentata in modo sano potrà costituire una delle sue più grandi risorse anche nei momenti di crisi.

Un’altra riflessione mossa dal film Che vuoi che sia è: cosa perderemmo quindi se rinunciassimo all’ intimità senza saperlo? Un livello di interazione molto potente, che si realizza anche nella stanza della terapia dove una persona pian piano affida e condivide la sua storia, le sue emozioni ed i suoi pensieri a qualcuno libera da un giudizio, acquisendo sicurezza, condivisione, conforto e cooperazione in un processo di relazione complesso ed orientato alla promozione del suo benessere.  Un aspetto della mia vita e del mio lavoro, quindi se qualcuno dovesse domandarmi che valore io do all’ intimità la mia risposta può essere soltanto una: infinito e guai a chi me la tocca!

Abbraccialo per me (2016). Un film di Vittorio Sindoni – Recensione

Abbraccialo per me: In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Abbraccialo per me (2016) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #38

Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

Un  film  di  Vittorio  Sindoni  con  Stefania  Rocca,  Vincenzo  Amato, Moise Curia, Giulia Bertini, Pino Caruso.

Trama

Il film Abbraccialo per meè dedicato a tutte le persone che soffrono di disabilità mentale e alle loro famiglie che accanto a loro subiscono falso pietismo o indifferenza in attesa di cure e strutture che gli diano una speranza di vita migliore”.

Francesco vive in un piccolo centro con una madre iperprotettiva, che ha riorganizzato la propria vita intorno alle sue “stranezze”. Quando il disturbo mentale di Ciccio diventa sempre più evidente sarà costretta a prenderne atto. L’equilibrio familiare salta e il padre del ragazzo, dispotico, assente e anaffettivo abbandona moglie e figli al loro destino. La sorella di Francesco riuscirà a trovare una soluzione che permetterà al fratello di ricevere cure adeguate.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DI ABBRACCIALO PER ME:

 

Motivi d’interesse

In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Quando Basaglia, dopo anni di lotte riuscì a far approvare la L. 180/1978 nel nostro paese si aprì la possibilità di curare la malattia mentale in un clima di umanizzazione, con l’obiettivo principale della recovery e dell’inclusione dei pazienti nel contesto comunitario di appartenenza, fuori dai manicomi, istituzioni totali più simili a lager che a luoghi di cura.

La riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale e il superamento della logica manicomiale rappresentava una svolta importante. L’intervento terapeutico e riabilitativo non era più impostato sulla medicalizzazione del paziente ma si apriva ai contributi della psichiatria sociale, alle forme di supporto territoriale, alle potenzialità delle strutture intermedie, e alla psicoterapia nei servizi pubblici.

La legge riconosceva, inoltre, il diritto ai malati di avere una vita di qualità nel contesto d’appartenenza, senza più essere soggetti a “deportazioni” forzate dai luoghi e dagli ambienti familiari.

A distanza di una quarantina d’anni i drammi che vivono tante famiglie sembrano cancellare gli avanzamenti che in una stagione storica ben precisa sono stati compiuti. L’intervento pubblico è sempre più asfittico, le risorse impegnate sempre più ristrette e la speranza di avere cure adeguate porta sempre più malati a rivolgersi al privato.

Nelle pieghe di una burocrazia malata, di norme e strutture carenti, di risorse impiegate male e spesso dissipate e malversate si intrecciano tragedie e disastri. Gli esempi da citare sarebbero tanti e percorrono l’intera penisola da Torino dove si muore in strada per un Trattamento Sanitario Obbligatorio a Salerno dove si muore legati ad un letto di contenzione in SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura).

Certo, negli ultimi anni si sono fatti notevoli progressi nella cura delle malattie mentali, ma chi usufruisce di quelle cure previste dalle linee guida e dai protocolli che le istituzioni e le associazioni scientifiche hanno messo a punto e che dovrebbero rappresentare interventi d’elezione e buone pratiche da adottare in termini universalistici?

Il film di Sidoni coinvolge e denuncia: le responsabilità degli operatori, le fragilità famigliari e personali, l’atteggiamento espulsivo e marginalizzante della comunità, ma dà anche speranza nella possibilità di ricevere aiuto. E’ possibile che quella diversità, che poi tutti affrontiamo come possiamo, che quelle stranezze, che anche ognuno di noi si porta dentro, possano essere comprese, accolte e magari anche trattate quando assumono connotati maladattivi in strutture che facciano del rispetto della dignità umana e della compassione i capisaldi di un percorso di cura anche tecnicamente appropriato.

Il film commuove, ci fa provare tristezza e rabbia, c’è disperazione e speranza e in definitiva ciò che emerge è la difficoltà di affrontare la complessità della psicopatologia. In questa situazione così problematica è la sorella di Francesco, Tania che mantiene la lucidità necessaria – l’amore incondizionato e cieco della madre è disastroso e patogeno – per trovare una soluzione che chiude il film con la speranza che nonostante non sia mai facile fronteggiare la malattia mentale, parafrasando Basaglia e un film di Giulio Manfredonia “si può fare”.

La denuncia di situazioni che tanti vivono quotidianamente in silenzio è l’occasione per ricordare che il problema va affrontato senza pregiudizi e con il coinvolgimento ampio di tutti, perché il livello di una civiltà si misura da come sono trattati i soggetti più svantaggiati e bisognosi.

 

Indicazioni di utilizzo

E’ un’ottima base di riflessione e discussione per promuovere un atteggiamento più aperto e meno stigmatizzante nei confronti della malattia mentale e per coinvolgere le istituzioni pubbliche e sollecitare una maggiore sensibilità a questi problemi da affrontare senza smantellare l’impostazione della L. 180/1978 che ha reso il nostro paese uno dei più avanzati nel campo della salute mentale.

Sintomi di depressione o ansia nei caregiver di persone malate

Attualmente, sono più di 34 milioni le persone che negli Stati Uniti si occupano dei loro cari malati. Uno studio condotto presso l’Università di Medicina del Missouri ha rivelato che quasi un quarto dei caregiver soffre di depressione, mentre un terzo soffre di un disturbo d’ansia. Quindi, alla luce di questi risultati i ricercatori raccomandano ai caregiver di sottoporsi periodicamente a controlli per poter identificare tempestivamente i primi segnali di scompenso.

 

Depressione o ansia nei caregiver di familiari ammalati

[blockquote style=”1″]La tristezza e la preoccupazione verso un familiare ammalato o in fin di vita sono sentimenti attesi e spesso presenti, mentre depressione o ansia sono sintomi differenti e non dovrebbero essere presenti [/blockquote] afferma la Dottoressa Debra Parker-Oliver, principale ricercatore dello studio.

La Dr.ssa Parker-Oliver e i suoi colleghi hanno condotto questo studio, valutando gli stati di ansia e di depressione di circa 395 caregiver e hanno scoperto che circa il 23 per cento di loro soffre di una depressione moderata o grave, mentre al 33 per cento è stato diagnosticato un disturbo d’ansia.

[blockquote style=”1″]Più i caregiver sono giovani, più alte sono le probabilità che essi siano depressi o ansiosi. Ma non solo, si è anche scoperto che i livelli depressivi sono più alti se ci si occupa di un parente affetto dal morbo di Alzheimer.[/blockquote]

 

L’importanza di uno sguardo alla famiglia del paziente ammalato

Secondo la ricercatrice, queste situazioni vengono molto sottovalutate perché gli operatori sanitari tendono a concentrarsi più sul paziente malato invece che prendere in esame un quadro più generale, ovvero tutta la famiglia. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di una malattia che impatta non solo sul paziente, ma anche sui caregiver e su tutto il sistema famigliare.

La Dr.ssa Parker-Oliver conclude affermando che strumenti di valutazione per la depressione e l’ansia sono ampiamente accessibili e una diagnosi precoce potrebbe migliorare le condizioni di vita e il benessere dei caregiver.

La valutazione e il trattamento del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva

La terapia per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato è costituita dal trattamento della sintomatologia del Disturbo da Stress Post Traumatico ampliato con alcune componenti specifiche per il lutto traumatico.

 

Il Disturbo da Lutto Persistente Complicato (DLPC) viene definito dal DSM 5 (APA, 2014) come la  condizione in cui alla perdita di una persona con cui si ha una relazione stretta, l’individuo, manifesta una compromissione psicosociale significativa, anche dopo 12 mesi negli adulti e dopo 6 mesi nei bambini. Tale disagio clinico è dovuto o a una persistente nostalgia della persona persa (Criterio B1), o a un profondo e non gestibile dolore (Criterio B2), o a una forte preoccupazione per la persona deceduta (Criterio B4) o per il modo in cui la persona è deceduta (Criterio B4).

Nonostante si stia registrando un sempre più crescente interesse per bambini e adolescenti colpiti da morte inaspettate e o violente dei propri cari, gli strumenti diagnostici a disposizione per la valutazione di Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva sono ancora pochi.

 

Strumenti diagnostici per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato

Come è sempre consigliato nell’assessment in età evolutiva, anche nella valutazione iniziale del Disturbo da Lutto Persistente Complicato si dovrebbe includere una valutazione del funzionamento passato e attuale del bambino e della famiglia. In aggiunta, dovrebbero essere valutati l’esperienza e le percezioni del bambino circa il decesso della persona amata, i sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico manifestati dal bambino, e l’influenza di questi sintomi sull’abilità di iniziare il normale processo di elaborazione del lutto (Cohen, Mannarino, Greenberg, Padlo & Shipley, 2002).

E’ necessario premettere che, se per l’infanzia e per l’età adulta il materiale è ampio, per l’adolescenza, proprio per le sue caratteristiche di instabilità e varianza, gli strumenti sono pochi e poco affidabili.

 

Test di assessment specifici: la sintomatologia traumatica in età evolutiva

Gli strumenti psicodiagnostici disponibili in lingua italiana e standardizzati per la popolazione italiana in tema di disturbi post-traumatici, purtroppo, sono piuttosto carenti e ancor di più per quanto riguarda l’età evolutiva. Tra gli strumenti di valutazione dei sintomi presentati in adolescenza in conseguenza a un trauma abbiamo:

  • Trauma Symptom Checklist for Children (TSCC)

Il TSCC (Briere, Elliott, Harris & Cotman, 1995) è uno strumento di self report sul distress post-traumatico e sulla connessa sintomatologia psicologica. È indicato per la valutazione dei minori, dagli 8 ai 16 anni, che hanno sperimentato eventi traumatici, compresi abuso fisico e sessuale durante l’infanzia, vittimizzazioni da parte dei pari (per esempio aggressioni fisiche o sessuali), gravi perdite, nonché l’aver assistito a violenze su altri ed essere stati coinvolti in disastri naturali. Diversamente dai test più specifici, il TSCC valuta le risposte dei bambini a eventi traumatici aspecifici in relazione a differenti domini sintomatologici.

Il TSCC è disponibile in due versioni: quella completa composta da 54 item in cui sono inclusi 10 item che sondano sintomi e preoccupazioni sessuali e la versione alternativa (TSCC-A) con 44 item che non contiene riferimenti a temi sessuali.

Presenta anche due misure di validità per valutare la minimizzazione o l’esagerazione dei sintomi. E’ formato da 6 scale cliniche:

  1. Ansia: ansia generalizzata, iperattivazione e paure specifiche; episodi di ansia fluttuante e un senso di pericolo incombente
  2. Depressione: sentimenti di tristezza, infelicità e solitudine; episodi di crisi di pianto; pensieri depressivi come senso di colpa e autodenigrazione; autolesionismo e tendenze suicidarie
  3. Rabbia: pensieri, sentimenti e comportamenti connotati da rabbia, compresi il sentirsi furiosi, sentirsi cattivi e sentire di odiare gli altri; avere difficoltà nello smorzare la rabbia; voler uralre o far male alle persone; litigare e lottare
  4. Stress post-traumatico (PTS): sintomi post-traumatici, compresi pensieri intrusivi, sensazioni e ricordi di eventi passati dolorosi; incubi; paure e evitamento cognitivo di sentimenti dolorosi.
  5. Dissociazione (DIS): sintomatologia dissociativa, compresa derealizzazione; mente vuota; stordimento emozionale; sensazione di far finta di essere qualcun altro o da qualche altra parte; sogni a occhi aperti; problemi di memoria e evitamento dissociativo. Ha due subscale: DIS-A (Dissociazione Aperta)e DIS-F (Fantasia)
  6. Interessi sessuali: pensieri o sensazioni sessuali che sono atipici quando appaiono prima del previsto e più frequentemente del normale; conflitti sessuali; risposte negative a stimoli sessuali e paura di essere sessualmente sfruttati. Ha due subscale: IS-P (Preoccupazioni sessuali) e IS-D (Distress sessuale)

 

  • Impact of Event Scale – 8 item Child/Adolescent Scale (IES-8)

Si tratta delle versione rivista del più diffuso test psicodiagnostico per la valutazione dei disturbi post-traumatici dagli 8 anni (Horowitz, Wilner & Alvarez, 1979).

La Children and War Foundation ha creato una scala simile, CRIES-13, costituita da 13 item nella forma completa e da 8 item nella forma ridotta, utilizzata come strumento di screening disponibile in 27 lingue diverse, ma senza validazione statistica.

Entrambe le scale valutano gli effetti del trauma nei successivi 7 giorni.

 

  • Child Behavior Checklist – scala DSPT

Nel 2001 sono state aggiunte alla CBCL due ulteriori scale specifiche, una per la valutazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e una per il DSPT. Tuttavia, la DSPT scale non sembra presentare una buona validità statistica (es. Loeb, Stettler, Gavila, Stein & Chinitz, 2011).

 

Test di assessment specifici: valutare il Disturbo da Lutto Persistente Complicato

Per la valutazione specifica del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva pochi studi hanno sviluppato strumenti psicodiagnostici standardizzati (Cohen & Mannarino, 2010; Mannarino & Cohen, 2011). Attualmente vi è un unico strumento diagnostico con validità statistica per la valutazione dei sintomi connessi specificatamente alla morte di un proprio caro per l’età evolutiva:

 

  • Expanded Grief Inventory (EGI)

Questo strumento (Layne, Savjak, Saltzman & Pynoos, 2001) è costituito da 28 item che valutano la sintomatologia e le caratteristiche sia del lutto non complicato che del Disturbo da Lutto Persistente Complicato dai 7 ai 17 anni. Rileva 3 fattori principali:

1. Connessione positiva: la capacità del bambino di avere ricordi e pensieri positivi circa il defunto
2. Lutto complicato esistenziale: valuta il vissuto di vuoto causato dal decesso
3. Evitamento e intrusioni traumatiche: i sintomi intrusivi traumatici nell’abilità del bambino di ricordare o avere sentimenti positivi circa il defunto.

Questo strumento esiste solo nella versione in lingua inglese.

 

  • Characteristics, Attributions and Responses to Exposure to Death – Youth version (CARED-Y)

È un test composto da 39 item che fornisce informazioni sugli aspetti peritrauma del decesso della persona così come informazioni sulla relazione del bambino con il defunto e la sua partecipazione al funerale (Brown, Amaya-Jackson, Cohen, Handel, Thiel de Bocanegra, et al., 2008).

 

Principi di trattamento psicoterapeutico per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato: TF-CBT e TG-CBT

Il trattamento del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva proposto in letteratura è quello che segue la Traumatic Grief Cognitive Behavioral Therapy (TG-CBT) (es. Mannarino & Cohen, 2011), derivante dalla Trauma-Focused Cognitive Behavioral Therapy (TF-CBT) (es. Cohen et al., 2006; Cohen Mannarino & Deblinger 2012; Cohen, Mannarino, Kliethermes & Murray, 2012; Mannarino & Cohen, 2011). In specifico, la terapia per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato è costituita dal trattamento della sintomatologia del Disturbo da Stress Post Traumatico (TF-CBT) ampliato con alcune componenti specifiche per il lutto traumatico (TG-CBT) (vedi Tabella 1).

 

Tabella 1: Componenti del trattamento secondo il TG-TBC (es. Cohen, Mannarino & Deblinger, 2006).

La TF-CBT è un modello di trattamento empiricamente basato rivolto al sostegno di bambini e dei loro genitori nell’affrontare le conseguenze di un’esperienza traumatica. Questo percorso terapeutico è un approccio che, attraverso diversi componenti, integra tra loro interventi sulla sintomatologia traumatica, sulla famiglia, sull’empowerment con principi derivanti dall’approccio cognitivo-comportamentale, dalla teoria dell’attaccamento, dallo sviluppo neurobiologico. Il fine è di seguire al meglio le peculiari necessità del bambino traumatizzato e della sua famiglia (Cohen et al., 2006). In specifico, la TF-CBT è rivolta al trattamento dei sintomi da DSPT, depressione e ansia e le condizioni a questi connesse.

La TF-CBT e, conseguentemente, la TG-CBT presentano le seguenti caratteristiche fondamentali:

  • Strutturata su componenti interconnesse tra loro, che sviluppano capacità centrali partendo da abilità già consolidate
  • Basata sul Rispetto per l’individuo, la famiglia, la religione, i valori culturali
  • Adattabilità, il terapeuta dev’essere creativo e flessibile
  • Coinvolgimento della famiglia, è uno dei cardini principali della terapia. Uno degli obiettivi è quello di incrementare e migliorare le interazioni e la comunicazione tra bambino e genitore. Tuttavia, con gli adolescenti è importante anche incoraggiare l’indipendenza e l’autonomia dalle figure genitoriali
  • Relazione terapeutica basata su fiducia, accettazione, empatia che ha come obiettivo quello di ridare ottimismo, fiducia, autostima nel bambino traumatizzato
  • Promozione della self-efficacy, incluso autoregolazione delle emozioni, del comportamento e dei pensieri.

Per questi approcci terapeutici è centrale la creazione di una salda e solida alleanza terapeutica tra bambino e terapeuta. I bambini traumatizzati spesso hanno difficoltà a fidarsi delle altre persone, quindi, parte della terapia dev’essere specificatamente e direttamente dedicata alla costruzione di una buona relazione terapeutica, attraverso l’ascolto attivo, l’empatia e la trasmissione di un reale interessamento per il bambino, i suoi pensieri, le sue emozioni e la sua vita.

Questi due percorsi terapeutici sono entrambi costituiti da diversi elementi, dieci per la TF-CBT e quattro per la GF-CBT, che non sono sequenziali tra loro ma sono da presentare come interconnessi e con estrema adattabilità a seconda delle caratteristiche specifiche del singolo bambino, della famiglia e degli individuali progressi nella terapia.

 

Principi di trattamento farmacologico

In letteratura, non risulta alcuno studio che abbia indagato il trattamento farmacologico specifico per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato. Dato che la sintomatologia propria del Disturbo da Lutto Persistente Complicato copre in parte la sintomatologia manifestata con il Disturbo da Stress Post Traumatico, verrà di seguito riportato il trattamento farmacologico inerente questo disturbo.

La farmacologia per il Disturbo da Stress Post Traumatico in età evolutiva ha avuto scarso supporto empirico. In generale, i dati indicano che la farmacoterapia ha successo solo se affiancata da un percorso psicoterapeutico e che solo un intervento multimodale che combina TCC, interventi ambientali e farmacoterapia in casi di forte sintomatologia ansiosa risulti efficace (Kodish, Rockhill & Varley, 2011).

In età evolutiva la farmacoterapia dovrebbe essere selezionata in base a 3 principi (Kaminer, Seedat & Stein, 2005):

  1. Avere come obiettivo i sintomi disabilitanti,
  2. Migliorare la qualità della vita permettendo uno sviluppo e una crescita normale nel lungo-termine,
  3. Facilitare il processo di psicoterapia.

Secondo gli studi presenti in letteratura, si utilizzano principalmente due classi di psicofarmaci per trattare il Disturbo da Stress Post Traumatico in età pediatrica: i famarci adrenergici e gli inibitori della ricaptazione della serotonina (es. Kodish, et al., 2011).

I farmaci adrenergici riducono l’attivazione fisiologica e sono risultati efficaci nel trattamento dell’iperattivazione, dell’impulsività e  della riesperienza del trauma tipici del Disturbo da Stress Post Traumatico (es. Perry, 1994; Harmon & Riggs, 1996; Famularo, Kinscherff & Fenton, 1988).

Gli Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono ampiamente utilizzati per trattare il Disturbo da Stress Post Traumatico negli adulti e alcuni dati suggeriscono la loro efficacia anche in infanzia e adolescenza (Rupp Anxiety Group, 2001). Inoltre, anche per i limitati effetti collaterali, questo tipo di farmaci è indicato da utilizzare come terapia di prima linea nei casi di Disturbo da Stress Post Traumatico in età evolutiva (Kaminer, et al., 2005).

Non vi sono sufficienti prove empiriche dell’efficacia di antidepressivi triciclici (TCAs), inibitori della monoamino ossidasi (MAOIs) e benzodiazepine (BZD) per il trattamento in età pediatrica del Disturbo da Stress Post Traumatico (Kaminer, et al., 2005).

 

Efficacia della terapia

Il trattamento proposto dalla TF-CBT ha il più ampio supporto empirico tra tutti i trattamenti sviluppati per i bambini traumatizzati (es. Bisson, Ehlers, Matthews, Pilling, Richards, et al., 2007; Cohen, Deblinger, Mannarino & Steer, 2004; Cohen, et al., 2006; Cohen, Mannarino & Iyengar, 2011; Cohen, Mannarino & Staron, 2006; Deblinger, Mannarino, Cohen & Steer, 2006; Deblinger, Mannarino, Cohen, Runyon & Steer, 2011; Dorsey, Cox, Conover & Berliner, 2011; Dorsey & Deblinger, 2012; Jaycox, Cohen, Mannarino, Walker, Langley, et al, 2010; Lyons, Weiner & Scheider, 2006; Mannarino & Cohen, 2011; Mannarino, Cohen, Deblinger, Runyon, Steer, 2012; Silverman, Ortiz, Viswesvaran, Burns, Kolko, et al., 2008).

Cohen e colleghi (2004) dimostrarono che i bambini assegnati al protocollo della TF-CBT mostrarono miglioramenti significativamente maggiori circa i sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico, depressione, problemi comportamentali, sentimenti di vergogna, e attribuzioni disfunzionali connesse al trauma e i loro genitori riportarono miglioramenti significativamente maggiori nella sofferenza legata all’abuso, nella depressione, nelle capacità genitoriali e al supporto genitoriale, rispetto a bambini e genitori dello stesso centro seguiti con un’altra forma di terapia. Inoltre, i miglioramenti venivano mantenuti fino a 1 anno dalla fine della terapia (Deblinger, et al., 2006).

Recentemente, è stata indagata l’efficacia del trattamento con bambini dai 4 agli 11 anni (Deblinger, et al., 2011). Non solo è stata confermata l’efficacia del protocollo, ma sono stati anche evidenziati i benefici del formato in 8 sessioni con l’utilizzo della tecnica del “racconto del trauma” (Trauma Narrative) nell’aiutare i bambini a superare la paura e l’ansia generalizzata (Deblinger, et al., 2011). I dati inoltre suggeriscono che le componenti volte a strutturare le abilità e le componenti rivolte ai genitori, in particolare, erano forse quelle più importanti nel risolvere i problemi comportamentali (Deblinger, et al., 2011; Deblinger, et al., 1996).

Recentemente è stata valutata anche l’efficacia di questo protocollo con i bambini esposti a violenza sessuale. I dati dimostrarono che, rispetto ai bambini assegnati alle cure abituali, quelli assegnati al programma TF-CBT esibirono una significativa riduzione di Disturbo da Stress Post Traumatico e ansia connessi alla violenza subita (Cohen, et al., 2011).

Studi recenti hanno documentato ulteriormente i benefici del TF-CBT per bambini che hanno subito un lutto traumatico (Cohen, et al., 2006), bambini traumatizzati dagli eventi dell’11 settembre (CATS Consortium, 2010), bambini sopravvissuti all’uragano Katrina (Jaycox, et al., 2010), bambini provieniti da popolazioni con una frequente esposizione a eventi traumatici, compresi bambini in affidamento (Dorsey, et al., 2011; Lyons, et al., 2006) e bambini esposti a violenza e perdite traumatiche nei paesi in via di sviluppo (Dorsey, et al., 2011; Murray, et al., 2011).

La mole di questi dati e altri conferma l’efficacia della TF-CBT nel trattare i bambini che soffrono di Disturbo da Stress Post Traumatico e le difficoltà emotive e comportamentali connesse (Bisson, et al., 2007; Saunders, et al., 2004; Silverman, et al., 2008).

Una nuova tecnica per comprendere la complessa bellezza del cervello che dorme

I ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH) hanno sviluppato un nuovo approccio per analizzare l’ attività cerebrale durante il sonno, che promette di dare una rappresentazione più dettagliata e accurata dei cambiamenti neurofisiologici che avvengono mentre si dorme. All’interno di un report pubblicato sulla rivista Physiology, il team di ricerca ha descritto come l’applicazione di una tecnica chiamata Analisi Spettrale con metodo Multitaper dell’elettroencefalogramma (EEG) fornisca raffigurazioni obiettive e ad alta risoluzione dell’ attività cerebrale durante il sonno, che sono più informative e più facili da definire rispetto agli approcci precedenti.

 

Gli studi neuropsicologici precedenti sul sonno

Le analisi cliniche del sonno si sono storicamente concentrate nell’identificare e tracciare i pattern comuni dell’attività cerebrale: le “fasi del sonno”; un processo lungo e perlopiù soggettivo. A partire dalla fine del 1930, la stadiazione del sonno è stata effettuata utilizzando macchine per EEG che riportavano su fogli di carta tracce di 30 secondi dell’attività cerebrale. Un tecnico esperto prendeva poi ogni foglio – quasi 1.000 in una registrazione di 8 ore – e decideva in quale fase del sonno il paziente si trovasse mediante ispezione visiva delle tracce.

Quasi 80 anni dopo, dopo un affinamento delle diverse fasi e la computerizzazione delle tracce, il processo di stadiazione è rimasto praticamente invariato, richiedendo ancora molto tempo e rimanendo qualitativo. Di conseguenza, i tecnici preposti alla lettura, anche se esperti, concordano ancora solo il 75-80% delle volte. La progressione di diverse fasi del sonno durante una notte, definita ipnogramma, è ancora usata come descrittore primario dell’architettura del sonno ed è uno strumento importante, dato che i numerosi “segni e scarabocchi” delle onde cerebrali diventano indiscernibili ad occhio nudo su grandi scale temporali.

Durante il sonno, il cervello è impegnato in una sinfonia di attività che coinvolgono l’interazione dinamica di diverse reti corticali e sub-corticali” ha affermato Michael Prerau del Dipartimento di Anestesia al MGH, autore principale del report. “A causa dei vincoli pratici e delle prassi ormai consolidate, le attuali tecniche cliniche semplificano notevolmente il modo in cui il sonno è descritto, causando la perdita di un’enorme quantità di informazioni. Abbiamo quindi voluto identificare un modo più completo di caratterizzare l’ attività cerebrale durante il sonno, facile da capire e veloce da imparare, ma solido e basato su principi matematici”.

 

L’analisi spettrale per studiare l’ attività cerebrale durante il sonno

L’approccio dei ricercatori fornisce un cambiamento di paradigma che permette di allontanarsi dalla stadiazione soggettiva del sonno e di sfruttare la ricchezza di informazioni oggettive contenute nei dati EEG. L’analisi spettrale permette di suddividere un segnale ad onda nelle sue diverse oscillazioni, proprio come un prisma suddivide la luce bianca nei suoi colori componenti. Nell’EEG, queste oscillazioni rappresentano l’attività di network cerebrali specifici durante il sonno e la veglia. “A un livello fondamentale, l’attività cerebrale è veramente organizzata in termini di oscillazioni e onde” ha spiegato l’autore senior Patrick Purdon. “L’analisi spettrale analizza i segnali in termini di queste onde, il che lo rende lo strumento adatto – e per certi versi lo strumento perfetto – per lo scopo. Purdon ha sottolineato anche che l’analisi tradizionale del sonno è essenzialmente una forma rudimentale di analisi spettrale, basata sul riconoscimento delle proprietà delle diverse onde attraverso l’occhio.

L’analisi spettrale potrebbe non essere stata adottata precedentemente per lo scoring del sonno poiché le principali tecniche per la stima spettrale dell’EEG producevano valutazioni imprecise, rendendo l’interpretazione dello spettrogramma difficile. Di conseguenza, i ricercatori hanno utilizzato il metodo multitaper, una tecnica con ridotta interferenza e maggiore precisione, che esegue una traccia di come la frequenza e l’intensità delle oscillazioni cambiano nel tempo, fornendo ulteriori informazioni su quali reti siano attive in ​​diversi punti durante il sonno.

In futuro, il team di ricerca si concentrerà sullo sviluppo di metriche quantitative robuste basate sullo spettrogramma. “Andando avanti, questo approccio migliorato permetterà agli scienziati di meglio caratterizzare la complessa eterogeneità osservata nel sonno normale e, infine, di supportare la diagnostica del sonno e dei disturbi ad esso correlati” ha affermato Prerau.

 

I sogni della sinistra spiegati con i sogni della destra, e viceversa

“La sinistra non può essere solo l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo”

 

Pubblichiamo qualche considerazione psicologica -da non prendere troppo sul serio- sul conflitto psicologico delle persone di sinistra. Gli ultimi sviluppi di ieri del congresso del partito democratico sembrano confermare questo disagio psicologico. È l’eterna tensione della mente umana tra ideale e reale. Tra come pensiamo che le cose siano e come riteniamo debbano essere. Dove sia la ragione, non osiamo dirlo. Giunto sulla soglia dell’opinione politica lo psicologo ammutolisce, conscio di avere probabilmente già parlato troppo di problemi che vanno ben al di là delle sue competenze. Buona lettura.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata sabato 18 Febbraio su Linkiesta.

 

In questi giorni di travaglio e possibili scissioni nel corpo della sinistra, torna in mente una frase rivelatoria di pochi mesi fa di Nichi Vendola: “La sinistra non può essere solo l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo“. In questa frase c’è tutto il dramma psicologico di una persona di sinistra. Un ammorbidente non ha personalità, la personalità è tutta della lavatrice. Non basta tamponare gli aspetti negativi del liberismo, ragiona Vendola, occorre fare una politica di sinistra. La domanda è: esiste una lavatrice di sinistra? Ovvero, esiste un modo di produrre ricchezza che sia di sinistra oppure la sinistra può solo limitarsi a ridistribuirla, la ricchezza?

Domanda da economisti a cui gli psicologi non oserebbero rispondere. Eppure, anche da incompetenti, ci si può chiedere se la sinistra riformista –l’unica che abbia davvero governato democraticamente- non sia nata proprio dalla presa d’atto che, da sinistra, la ricchezza può essere ridistribuita ma non creata. Marxisticamente, pare proprio che il modo di produzione rimanga nelle mani del capitale, e la sinistra si limiti ad ammorbidire le vesti che rotolano vorticosamente nella lavatrice liberista.I tentativi di creare la ricchezza in maniera radicalmente egualitaria hanno creato disastri, non solo di inefficienza ma perfino di ingiustizia. I mezzi di produzione conquistati nel nome del popolo, lontani dall’essere stati condivisi con il popolo (qualunque cosa esso sia), sono finiti nelle mani di stati nominalmente comunisti e gestiti dispoticamente, creando la paradossale somiglianza tra regimi rivoluzionari e il modo di produzione “asiatico”, il modo di produzione che Marx attribuiva alle reazionarie economie imperiali pre-moderne, scomparse in occidente ma ancora in vigore in Asia ai tempi di Marx.

E ancora in vigore ai nostri tempi, in realtà. Colpisce infatti leggere che la Cina ha liberalizzato da meno di un anno il mercato del sale dopo 2700 anni di ininterrotto controllo centralizzato del prezzo o che le liberalizzazioni abbiano costretto il governo cinese a introdurre il diritto privato romano, tra l’altro con la consulenza di Oliviero Diliberto. Segnali strani, segnali che il maoismo era in continuità con l’economia centralizzata e marxisticamente “asiatica” e dispotica dell’Impero cinese. Mentre, a quanto pare, diritto romano e libero mercato vanno insieme da un paio di millenni e questa strana coppia solo da pochissimo ha fatto amicizia con Confucio e Mao. Che poi le presentazioni le faccia Diliberto ci dice quanto sia strana la vita.

Accettare di essere solo un ammorbidente nella lavatrice della vita non deve essere facile. Vorremmo modificare l’assetto del mondo, fermarne la caotica entropia, e dobbiamo accontentarci di mettere delle toppe. Piuttosto deprimente, e non molto di sinistra. Vi è un happiness gap tra il pessimismo più o meno realistico dei conservatori e l’ottimismo della volontà delle persone di sinistra. Ottimismo che può funzionare quando ci sono le risorse per agire e modificare la realtà, come forse è accaduto dopo il boom economico del dopoguerra che rese possibili le rivoluzioni sociali degli anni ’60. Un po’ più difficile farlo ora, tempi in cui le vacche sono dimagrite e i sogni del faraone sono tristi da interpretare. Giuseppe si preparò, riempiendo previdentemente i depositi di grano, noi forse un po’ meno, magari troppo occupati ad ammorbidire ma nella maniera sbagliata, senza mettere da parte le provviste per l’inverno.

Dall’altra parte, l’uomo di destra non se la passa meglio. Incattivito da una realtà più aspra dei suoi più pessimistici pensieri, sembra quasi spaventato dai fantasmi che egli stesso ha evocato. Altro è giocare al raffinato dandismo del cattiverio di destra, altro è invece trovarsi tra i piedi i populismi veri e non l’horror intrigante dei libri di storia in cui tutto è solo spavento e favola ma non realtà.

I sogni diventano incubi se si avverano troppo e troppo a lungo ci siamo compiaciuti di svolgere ruoli immaginari. Sotto l’ombrello del capitalismo keinesiano ci siamo sentiti protetti e abbiamo recitato molteplici parti immaginarie: quella dei comunisti immaginari, quella dei fascisti immaginari e, ultimamente, perfino quella dei liberisti immaginari. Il futuro sembra diverso e somiglia a un risveglio amaro.

I fattori cognitivi che contribuiscono al mantenimento dell’obesità

Il mantenimento dell’Obesità e delle abbuffate è spesso dovuto a fattori cognitivi ed emotivi che sfuggono alla consapevolezza del soggetto, tra questi troviamo un’alta sensibilità al potere gratificante del cibo, scarsa pianificazione e flessibilità cognitiva, e l’incapacità nel regolare le proprie emozioni. 

Emanuela Olivetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Se l’alimentazione fosse controllata unicamente da meccanismi omeostatici, la maggior parte delle persone sarebbe al suo peso ideale e mangiare sarebbe come respirare, un compito necessario ma non eccitante. Il fatto che così non è suggerisce l’importante ruolo del sistema di ricompensa nella motivazione ad alimentarsi e aggiunge la possibilità che un consumo eccessivo di cibo possa riflettere una disfunzione proprio di tale sistema o nella interazione tra questo e il meccanismo di regolazione omeostatica (Saper et. al., 2002).

La letteratura recente sulla ricompensa e sensibilità a questa suggerisce l’esistenza di una alterazione dopaminergica, in particolare a livello mesolimbico, che potrebbe spiegare sia disturbi da uso di sostanza che la propensione a mangiare in eccesso e ad ingrassare (Devlin M. J., 2007).

 

Mantenimento dell’obesità e Disturbo da Binge Eating

Spesso associato all’aumento di peso, nonché al mantenimento dell’ obesità, in alcuni casi suo determinante, è il Disturbo da Binge Eating in cui, a ricorrenti episodi di abbuffata, caratterizzati dal mangiare in un determinato periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore di ciò che normalmente si mangerebbe nello stesso intervallo e nelle stesse circostanze, si associa la sensazione di perdita di controllo durante l’episodio stesso, in assenza di sistematiche condotte compensatorie (DSM 5 – Apa 2014).

Trattare il disturbo da binge eating e la riduzione delle abbuffate potrebbe prevenire ulteriori aumenti di peso (Yanovski, 2003), infatti in queste condizioni il dimagrimento sarebbe moderato ma sostenuto nel tempo, anche se, va specificato, la tendenza ad ingrassare non è determinata dalla frequenza ma piuttosto dalla quantità e qualità di cibo ingerito durante gli episodi di binge eating (Barnes et al., 2012).

Gli stati fisiologici associati all’equilibrio energetico (ad esempio, fame e sazietà) dovrebbero essere i maggiori determinanti del comportamento alimentare, anche se la scelta del cibo e della sua quantità possono essere fortemente influenzati dalle loro caratteristiche, come ad esempio gusto, colore e consistenza al punto che l’esposizione a stimoli alimentare altamente appetitosi può bypassare i segnali di sazietà e condurre ad una iperalimentazione.

 

Sensibilità al potere gratificante del cibo

Tra i fattori di mantenimento dell’obesità troviamo la sensibilità al cibo. Tutti gli individui reagiscono allo stesso modo di fronte a stimoli gustosi ma ciò che può variare è la sensibilità al potere gratificante del cibo (Beaver J. D. et al., 2006). Soggetti con una accresciuta sensibilità esterna al cibo (external food senitivity) presentano livelli ridotti di interazioni dinamiche tra i network responsabili dell’alimentazione. La sola vista di cibo appetitoso può indurre in questi individui un maggior incremento dei livelli soggettivi di fame anche in assenza dei relativi segnali omeostatici interni (Passamonti et al., 2009).

Tramite l’uso di risonanza magnetica funzionale -fMRI – è stato evidenziato come la vista di cibi allettanti corrisponda all’attivazione di un circuito neurale che include lo striato ventrale, l’amigdala, il mesencefalo e la regione orbitofrontale e come questo abbia un ruolo rilevante nella scelta della qualità e quantità di cibo da ingerire, in quanto ampiamente coinvolto nei meccanismi di ricompensa alimentare. La reattività di questo circuito varia al variare della sensibilità al cibo come ricompensa; individui con alti valori in questo tratto hanno esperienze più intense e frequenti di craving alimentari e sono molto più inclini a mangiare eccessivamente o a sviluppare un disordine del comportamento alimentare (Beaver J. D. et al., 2006).

 

Il ruolo delle funzioni esecutive nel mantenimento dell’obesità

Nel comprendere i meccanismi che favoriscono il mantenimento dell’obesità, le condotte alimentari disinibite e maggiori craving di cibo potrebbero essere spiegati anche da deficit a livello di funzioni esecutive (Spinella et al., 2004), un complesso sistema di competenze cruciali nella organizzazione, pianificazione ed integrazione di diversi processi cognitivi. Le funzioni esecutive sono implicate nella capacità di regolazione dei comportamenti impulsivi. Se è presente un deficit a questo livello, il processo decisionale potrebbe essere maggiormente influenzato da vantaggi diretti -cibo appetitoso – piuttosto che dai benefici legati al raggiungimento di obiettivi a lungo termine – non accumulare ulteriore peso – (Duchesne M. et al., 2010).

Questo aspetto può essere ulteriormente spiegato dalla distinzione tra processi decisionali in compiti ambigui e rischiosi. Nella condizione ambigua, la forza e la probabilità della ricompensa sono inizialmente sconosciute e vengono svelate attraverso feedback successivi alla scelta effettuata. Nella condizione di rischio invece queste informazioni sono esplicitamente disponibili. Le molte ricerche condotte su soggetti obesi e sul mantenimento dell’obesità hanno evidenziato come ci sia una preferenza proprio per questo secondo tipo di condizione, ovvero vi è la tendenza a scegliere ricompense immediate e dal valore attraente ma superficiale.

Una chiave di lettura per questo processo potrebbe essere individuata nella sensibilità alla ricompensa, per cui i comportamenti sarebbero motivati da stimoli in grado di produrre un appagamento immediato. In particolare, la sensibilità alla ricompensa ha un alto impatto sia nei compiti ambigui che rischiosi ma, mentre non ci sono differenze tra soggetti con obesità e soggetti non obesi nella condizione di scelte ambigue, è invece emersa una più spiccata tendenza dei soggetti con obesità e sovrappeso a scelte rischiose, dimostrando di essere maggiormente inclini a tollerare un minor valore di ricompensa (e quindi un rischio più alto) a patto che questa sia immediata, a fronte di una ricompensa maggiore ma posticipata (Navas J. F. et al., 2016).

 

Pianificazione e flessibilità cognitiva nel mantenimento dell’obesità

Il mangiare eccessivamente quindi non sarebbe l’unico fattore di mantenimento dell’obesità e non rappresenterebbe esclusivamente una risposta passiva ad un ambiente ricco di stimoli e ad una forte attivazione fisiologica (Duchesne M. et al., 2010), ma sarebbe anche correlato alla incapacità di posticipare la gratificazione immediata, a cui si aggiungono difficoltà di pianificazione, problem solving e una minore flessibilità cognitiva (Boeka A.T et al., 2008).

La pianificazione può essere intesa come la capacità di definire gli step che guidano e orientano i comportamenti o come l’attività simbolica che prefigura la sequenza di azioni necessarie al raggiungimento dell’obiettivo (Sannio, Fancello, Vio, Cianchetti, 2006). Se questa è carente, conseguentemente limitate saranno le possibilità di problem solving a cui il soggetto può attingere nel momento in cui si verifica un imprevisto.

Una scarsa flessibilità cognitiva potrebbe essere associata a difficoltà nello stabilire nuovi pattern di comportamento nelle attività riguardanti il cibo, aumentando la probabilità di alimentazione incontrollata o eccessiva. Una rigidità cognitiva associata a difficoltà nello shifting attentivo potrebbe essere alla base della difficoltà nel ridirezionare il fuoco attentivo da stimoli alimentari ad altre attività e potrebbe spiegare la tendenza a smettere di mangiare solo quando viene avvertita la sensazione fisica di disagio per l’eccessivo cibo ingerito (Boeka A.T et al., 2008).

 

La regolazione degli stati emotivi

La regolazione va intesa come la capacità di modulare i propri stati emotivi e di organizzare le risposte comportamentali adeguate. La prima modalità attraverso la quale questo processo prende avvio è proprio legata all’alimentazione, in un contesto in cui l’autoregolazione e la regolazione reciproca procedono in modo coordinato e l’equilibrio in questo scambio, tra madre e bambino, rappresenta la base per la differenziazione delle sensazioni fisiologiche dalle esperienze emozionali.

È un processo che origina dalla continua influenza reciproca tra le capacità innate del bambino di organizzare le risposte sensoriali provenienti dal mondo esterno ed interno e dalle ripetute interazioni con il caregiver di riferimento (Cuzzolaro M., 2009). Le capacità inizialmente possedute sono immature e limitate e le ulteriori abilità vengono trasmesse dalla madre che, rispondendo adeguatamente ai bisogni del bambino, lo aiuta nella regolazione degli stati emotivi ed affettivi.

Il riconoscimento di fame e sazietà, o di altri bisogni fisiologici, dipendono dalla combinazione specifica di una percezione interna e di una conferma esterna, che consiste in una risposta e in un riconoscimento di tipo empatico. L’evento fame-nutrimento viene quindi registrato nella memoria episodica e in quella procedurale e l’esito dell’incontro tra la percezione interna e la risposta a questa dà avvio al processo di organizzazione del sé (Lichtenberh, 1989).

Se le risposte non sono adeguate al bisogno espresso, il bambino sviluppa uno stile associato di autoregolazione caratterizzato da una aspettativa negativa rispetto ai propri sforzi (Speranza, 2001). L’allattamento e il passaggio alla alimentazione autonoma rappresentano quindi un momento di grande rilievo nella strutturazione del processo di autoregolazione e regolazione reciproca, in un contesto in cui le interazioni non sincroniche tra aspetti di regolazione fisiologica, comunicazione sociale e formazione del legame di attaccamento possono determinare disfunzioni nell’area dell’ alimentazione, che vanno dalla confusione tra stati fisiologici e stati emozionali fino alla strutturazione di disturbi alimentari (Cuzzolaro M., 2009).

 

Mantenimento dell’obesità: il rapporto tra emozioni e abbuffate

La letteratura esistente ha ben evidenziato, con riferimento al mantenimento dellobesità, l’associazione tra emozioni negative ed episodi di abbuffate compulsive. Il modello della regolazione emotiva postula che questa associazione rappresenta una relazione funzionale in cui l’episodio di binge eating è innescato da alti livelli di emozioni negative e, al tempo stesso, ha la funzione di mitigarne gli effetti.

L’abbuffata compulsiva è la strategia principalmente utilizzata nella riduzione e regolazione degli stati emotivi non desiderabili (Berge et al., 2015). In uno studio che indagava gli stati emotivi precedenti e susseguenti episodi di abbuffata nei soggetti con obesità sono state anche indagate, attraverso uno strumento self report (Positive and Negative Affect States – PANAS), undici emozioni negative ed ai soggetti è stato chiesto di valutarne l’intensità. Le emozioni sono poi state suddivise in quattro categorie: paura, ostilità, tristezza e senso di colpa. I risultati dello studio hanno dimostrato la presenza di un aumento del senso di colpa, vergogna, disgusto, insoddisfazione e rabbia verso sé stessi quattro ore prima l’episodio di binge eating e una loro significativa riduzione quattro ore dopo. L’abbuffata compulsiva ha la funzione quindi, in soggetti con obesità, di mitigare le emozioni negative, in particolare sembrerebbe funzionale ad evitare o ridurre sensi di colpa nel breve periodo, piuttosto che emozioni di paura, ostilità o tristezza (Berge et al., 2015).

Usare il cibo per gestire uno stato emotivo, come ad esempio “mangio perché ho bisogno di calmarmi” oppure “mangio perché ho bisogno di rilassarmi dopo una giornata di duro lavoro” può produrre nell’immediato un senso di benessere e rilassamento ma, se applicato con regolarità può condurre ad un abbassamento del livello di benessere psicofisico, dovuto in parte alla scarsità ed esiguità nella scelta degli stimoli gratificanti e dall’altro al non riconoscimento di stati emotivi come ad esempio ansia, tristezza e nervosismo a cui far corrispondere una risposta più adeguata del cibo alla risoluzione di eventuali problemi (Della Grave et al., 2013).

Un locus of control interno, in cui predomina la percezione che la propria vita sia regolata da qualcosa al di fuori del proprio controllo potrebbe portare a credere di non avere le risorse per controllare gli stimoli ambientali e per gestire stati emotivi negativi, che pertanto potrebbero essere vissuti come intollerabili (Montesi et al., 2016). Una più adeguata gestione dei propri stati emotivi potrebbe essere incentivata anche attraverso un aumentato senso di autoefficacia, che non coincide con la misura delle competenze possedute ma è rappresentata delle convinzioni circa la propria capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie a produrre determinati risultati (Bandura, 2000).

Una bassa autoefficacia (self-efficacy) influenza i meccanismi di autoregolazione dei processi motivazionali, tramite una minore quantità di impegno profuso in vista dell’obiettivo e diminuita capacità di perseverare e recuperare di fronte agli insuccessi e fallimenti incontrati nel percorso.

Gli effetti della psicoterapia online nel trattamento clinico della depressione

La psicoterapia online, in particolare la terapia cognitivo comportamentale, può aiutare le persone che soffrono di depressione. Questo è quanto è emerso da uno studio dell’Universita di Zurigo condotto da Birgit Wagner, Andrea B. Horn e Andreas Maercker.

 

I ricercatori clinici dell’Università di Zurigo hanno realizzato un interessante studio sperimentale volto a misurare e confrontare i risultati ottenuti con la psicoterapia online e la terapia convenzionale faccia a faccia su un gruppo di pazienti con disturbi dell’umore.

 

Psicoterapia online e depressione: la ricerca dell’Università di Zurigo

Sulla base di studi sperimentali precedenti, i ricercatori svizzeri sono partiti dall’ipotesi che le due forme di terapia fossero alla pari rispetto agli effetti terapeutici sui pazienti. I risultati dell’esperimento hanno però superato di gran lunga le aspettative dei ricercatori, infatti la psicoterapia online è risultata più efficace rispetto alla classica terapia faccia a faccia, sia nel breve che nel medio termine. Nella ricerca sono stati coinvolti sei psicologi e psicoterapeuti e 62 pazienti, la maggioranza dei quali presentava una depressione di tipo moderato.

I pazienti sono stati divisi in modo del tutto casuale in due gruppi e assegnati ad una delle due diverse modalità terapeutiche, psicoterapia online e terapia faccia a faccia. I due gruppi hanno ricevuto lo stesso ciclo di trattamento nello stesso lasso di tempo.

Il trattamento previsto consisteva in otto sessioni di psicoterapia con l’utilizzazione di diverse tecniche consolidate che derivano dalla terapia cognitivo-comportamentale e possono essere prescritte sia in forma orale che in forma scritta.

I pazienti sottoposti a psicoterapia online ricevevano dei compiti scritti predeterminati con dei feedback personalizzati da parte dei terapeuti (ad esempio rispondere a delle domande sull’immagine negativa che avevano di se stessi).

I pazienti nella condizione di terapia faccia a faccia hanno preso parte a delle sessioni di trattamento settimanale di un’ora con il loro psicologo presso il Dipartimento di Psicopatologia e Intervento Clinico presso l’Università di Zurigo. Inoltre, come i pazienti nel gruppo di psicoterapia online, hanno ricevuto dei compiti a casa.

 

I risultati

In entrambi i gruppi, i valori relativi alla depressione sono scesi in modo significativo” afferma il professor Andreas Maercker, riassumendo i risultati dello studio sperimentale. Alla fine del trattamento psicoterapico, l’uscita dallo stato depressivo è stata rilevata nel 53 per cento dei pazienti sottoposti a psicoterapia online, mentre nella terapia faccia a faccia sono tornati ad una condizione di benessere psicologico il 50 per cento dei pazienti trattati. Quest’ultima differenza fra i due gruppi non era statisticamente significativa.

Tutti i pazienti sono stati valutati anche a tre mesi dalla fine del trattamento per la depressione, e i ricercatori hanno rilevato una maggiore differenza in termini di efficacia tra i due trattamenti, infatti nella psicoterapia online ben il 57 per cento dei pazienti trattati era uscito dallo stato depressivo, mentre nella classica terapia faccia a faccia è stata rilevata una riduzione dell’efficacia, per cui solo il 42 per cento dei pazienti non mostravano più una sintomatologia di tipo depressivo. Nella psicoterapia online, i pazienti tendevano ad utilizzare i contatti con il terapeuta e i successivi compiti molto intensamente per provare a progredire e impegnarsi in modo personale. Per esempio, hanno riportato di essere soliti rileggere più e più volte la corrispondenza con il loro terapeuta.

I ricercatori hanno provato ad ipotizzare che i risultati a medio termine sono stati migliori per la psicoterapia online poichè i pazienti , avendo meno il terapeuta come guida, si sono dovute autoresponsabilizzare maggiormente, impegnarsi in prima persona per condurre il trattamento e i compiti a casa. Questo avrebbe potuto attivare un maggior senso di autoefficacia nella gestione dei pensieri negativi e sul comportamento depressivo.

Ovviamente il dibattito sull’efficacià delle modalità online di erogazione di servizi psicologici è aperto e questa ricerca non deve intendersi come esaustiva.

La SCID-5 -CV: l’intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i criteri del DSM-5

La SCID-5 -CV (Structured Clinical Interview for DSM-5- Clinical Version) è un’intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i nuovi criteri del DSM-5. Si inserisce all’interno degli strumenti clinici creati in associazione del recente DSM-5 come il PID-5 e le Scale di Valutazione del DSM-5.

 

 

La SCID-5 -CV può essere somministrata sia a pazienti psichiatrici che a soggetti appartenenti ad una popolazione generale. Risulta più adatta a individui che abbiamo superato i 18 anni di età, ma può essere svolta anche con gli adolescenti applicando alcuni accorgimenti quando si pongono le domande.

La SCID-5 può essere utilizzata per la valutazione psicodiagnostica in molteplici contesti: clinico, forense, nelle procedure di ammissione e nella ricerca.

Dal lontano 1983, anno in cui venne proposta una procedura di valutazione attraverso i criteri dell’allora DSM-III, la SCID si è evoluta e nella sua nuova veste si suddivide in tre versioni: CV (Clinical Version-Versione per il clinico); RV (Research Version-Versione per la ricerca); CT (Clinical Trial- versione per gli studi clinici).

 

La SCID-5 -CV : la versione per il clinico

Quella che qui verrà presentata è la versione per il clinico: la SCID-5 -CV.

A differenza delle altre due, in questo formato l’intervista permette di formulare diagnosi per quei disturbi che hanno un impatto sui codici diagnostici. Vengono dunque presi in considerazione quegli specificatori che incidono sulla scelta del codice. Per i disturbi che non sono presi in esame si può tuttavia proseguire con un’intervista non strutturata.

La SCID-5 -CV si concentra principalmente sull’attualità del disturbo per una sua netta pregnanza a livello terapeutico e di gestione clinica. Ciò nonostante è presente un approfondimento anamnestico nei disturbi dove è ritenuto necessario. Alla diagnosi inoltre è applicato un arco temporale di riferimento (Attuale-Storia Pregressa).

L’intervista è composta da 10 moduli indipendenti tra loro che permettono di valutare i seguenti disturbi:

La SCID-5 -CV: l' intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i criteri del DSM-5

 

Come si può notare sono esclusi i Disturbi di Personalità che, pur essendo rimasti invariati dalla precedente versione del DSM, possono essere valutati con la specifica versione aggiornata della SCID (SCID-5-PD).

 

Domande e punteggi nella SCID-5

La SCID-5 inizia con una serie di domande aperte volte a raccogliere un numero sufficiente di informazioni per formulare una diagnosi provvisoria da confermare con l’utilizzo dei moduli diagnostici specifici. Le domande hanno una sequenza atta a favorire un processo diagnostico differenziale caratteristico di un clinico esperto. L’attribuzione dei punteggi comprende la presenza o assenza dei criteri diagnostici (indipendentemente dalle risposte del paziente alle domande della SCID).

Il clinico può attribuire i seguenti punteggi:

  • “SI” qualora soddisfatto un criterio;
  • “NO” qualora non sia soddisfatto;
  • “-“ Assente/sottosoglia per un criterio sintomatologico valutato su un continuum);
  • “+” Soglia (per un criterio sintomatologico valutato su un continuum)

Al termine dell’intervista viene compilato un “Foglio riassuntivo dei punteggi diagnostici” dove vengono indicate le diagnosi DSM-5 presenti e/o pregresse del paziente. Il foglio include anche i codici diagnostici dell’ICD-10-CM. Per la definizione dei punteggi il clinico può utilizzare tutte le informazioni disponibili sul paziente: relazioni cliniche, osservazioni dei famigliari e degli amici.

Nello specifico, i tempi di somministrazione variano dai 45 ai 90 minuti e solitamente avviene in una singola sessione. La SCID-5 è, tuttavia, flessibile e adattabile alle specifiche tempistiche e necessità di somministrazione. Ad esempio, può essere somministrata anche in videoconferenza senza incorrere in riduzioni della capacità di valutare adeguatamente il soggetto.

Infine, il manuale fornisce anche una sezione con materiali per il training. Sono proposti sia casi utili per svolgere role-playing che casi per esercitazioni individuali.

Nel complesso, la SCID-5-CV si propone come uno strumento clinico duttile, accurato e concettualmente indispensabile per favorire quel processo di comunicazione diagnostico unificato tra le differenti professionalità sanitarie (psichiatra, neuropsichiatra, psicologo, psicoterapeuta, infermieri, logopedisti, psicomotricisti, ecc.).

Nondimeno la sua proceduralizzazione fornisce un ottimo materiale formativo per i giovani clinici, uno standard di psico-valutazione condivisa e una terminologia comune per favorire la collaborazione e la comprensione tra coloro che operano in contesti clinici, giuridici e di ricerca.

Un compito della psicologia nello sport

Lo sport dedica molte attenzioni allo sviluppo delle qualità fisiche e tecniche e alla prestazione ma, specie a livello giovanile, non impiega tutte le potenzialità di cui potrebbe disporre.

Vincenzo Prunelli

 

Insieme con la famiglia e la scuola, lo sport è una delle tre più potenti agenzie educative, ma non ha sviluppato metodi per formare la persona, e non rispetta i tempi dello sviluppo, che hanno necessità di tipi specifici d’insegnamento.

Vorrebbe raggiungere tutte le potenzialità dello sportivo, ma dice che cosa e come fare, e offre soluzioni uguali per tutti, e così mortifica il talento, che è diverso per ognuno. Crede che lo sviluppo dell’intelligenza dipenda dalla quantità delle conoscenze e non anche dalla libertà di creare e trovare da soli le soluzioni. E immagina che la personalità, il carattere, la capacità critica, l’iniziativa libera, le motivazioni e l’autonomia possano avere uno sviluppo autonomo o, forse, che rappresentino un pericolo per la governabilità.

 

Ciò che va corretto

Occorre cambiare molto. Innanzitutto, non voler formare troppo presto lo sportivo adulto, pronto per un agonismo subito vincente. Sembra un obiettivo legittimo, ma occorre fare alcune considerazioni. Per vincere durante la formazione, occorre prima di tutto non commettere errori, ma un giovane che non sbaglia non tenta il nuovo. Si limita a ripetere ciò che gli è richiesto, tenta di imitare il gesto ideale, quello del campione, e non arriva ai livelli dell’intelligenza dove operano creatività, iniziativa libera, originalità, intuizione e ingegno, le facoltà della mente che impiega il talento.

Spesso lo sport si ferma a una forma di addestramento, e così trasforma le sue potenzialità educative in una causa d’insicurezza. Forma uno sportivo non abituato a gestire da solo ciò che riguarda la propria funzionalità e i propri compiti e non preparato ad amministrarsi da solo, da portare per mano perché non autonomo.

Soffoca le motivazioni che, per il giovane, sono gli stimoli naturali a evolvere e migliorare. Il giovane ha bisogno del riconoscimento dell’adulto, di scoprire sempre nuove capacità per sentirsi più abile, di raggiungere i traguardi adatti alle possibilità di cui dispone e di superare la propria inferiorità nei confronti dell’adulto. Per questo ha bisogno di scoprire e sperimentare le proprie forze, liberare i propri impulsi creativi ed evolutivi, e verificare di poter accedere da solo a nuove abilità.

Lo sport vuole vincere subito, magari senza interessarsi del come e del livello della prestazione. Usa stimoli che aumentano la tensione a spese della lucidità e della padronanza della situazione, ma il compito della formazione è l’adulto che sa impiegare tutti i propri mezzi. Ha fretta, e impiega ciò che è subito utilizzabile per la prestazione, valuta il risultato e non la qualità della prestazione, usa stimoli che sul giovane non hanno effetto e cerca di incrementare il rendimento aumentando le pressioni. Tutto questo significa sostituire il gesto tecnico ancora grezzo del giovane con interventi irruenti e scorretti, e non tentare il nuovo, cioè non giocare per scoprire il talento.

 

I principi e la proposta

Il talento non si manifesta quando l’istruttore chiede esecuzioni difficili o di imitare il gesto del campione. Non è semplicemente una qualità tecnica o un’abilità fisica, ma una qualità personale che si esprime quando la situazione richiede o lascia spazio a soluzioni nuove e impreviste. Non ha senso chiedere al talento di essere più abile in ciò che fanno tutti, ma in ciò che è possibile a lui, e qui occorre andare ai livelli superiori dell’intelligenza.

Quale libertà lasciare? Al bambino basta giocare senza vincoli, perché il gioco lascia tutto lo spazio all’iniziativa libera e alla fantasia. Poco più tardi, quando è il caso di impratichirsi e dare un ordine più logico al gioco, bastano poche regole dentro le quali esercitare tutta la creatività e la fantasia. Il ragazzo, che ormai ha acquisito confidenza con il senso critico e sa impegnarsi in un lavoro, cioè a non operare più soltanto per un piacere del momento, può iniziare la formazione tecnica e fisica vera e propria.

La scoperta e l’uso del talento non sono diversi dall’apprendimento per prove ed errori. Occorre avere la libertà di tentare il nuovo per seguire un’idea o un’intuizione, mentre giocare solo per vincere impone di evitare l’errore, e per questo chiama in causa il ragionamento che è lento, obbliga a scegliere tra varie soluzioni e frena originalità, la creatività, gli automatismi e l’iniziativa immediata, essenziali nei giochi di situazione.

La “normalità” è ciò che si può essere con lo sviluppo completo delle qualità di fisico, intelletto e carattere. Non ha senso, ma soprattutto è diseducativo, chiedere più di quanto ognuno possa dare. Specie nell’infanzia, per esempio, pretendere il gesto perfetto o quello del campione, significa mortificare le motivazioni, la sicurezza di essere adeguati ai compiti e il coraggio per scoprire e sperimentare il proprio talento.

Non si può allenare solo il fisico perché, se non è la mente a gestire le qualità fisiche e tecniche, il rendimento e l’iniziativa, avremo solo un mezzo sportivo.

Infine, la formazione non termina mai, perché lo sportivo vero continua a imparare, evolvere e scoprire qualcosa di sé fino al termine dell’attività.

 

Gli obiettivi e i modi della formazione

I primi obiettivi sono la tutela dei bambini e dei giovani nella pratica dello sport e la proposta di un’educazione che li conduca verso la vita adulta.

Lo sport può essere una potente agenzia educativa, ma richiede una cultura, adeguata a tutti i livelli della pratica sportiva, che sintetizzi le potenzialità dell’educazione e dello sport. O, in altri termini, che formi lo sportivo nella sua globalità, e promuova una pratica in grado di portare ognuno alla completezza sportiva e personale possibile. La psicologia dello sport deve offrire gli strumenti scientifici e operativi a genitori, società calcistiche, istruttori e chiunque abbia un ruolo educativo e formativo nei confronti del bambino e del giovane, affinché sappiano intervenire su eventuali disagi ma, ancora di più, per accompagnare ognuno a completare lo sviluppo possibile, che è la condizione per eliminare qualsiasi disagio.

C’è chi crede che questo tipo di educazione, fondata sulla soddisfazione delle motivazioni e non sull’imposizione di sacrifici e sul castigo per gli errori e le trasgressioni, sia permissiva, ma essa prevede o, anzi, porta all’acquisizione di regole e doveri, la rinuncia a pretese e privilegi e all’impegno per fare la propria parte.

È chiaro che il fine è anche preparare il bambino alla pratica dello sport dell’adulto, ma con un evolvere dell’insegnamento e delle richieste che si adatti ai mezzi e ai caratteri specifici di ogni momento dello sviluppo.

Per portare tutti a un buon livello sarebbe sufficiente evitare gli errori, pur commessi in buona fede, che accadono nella formazione, ma per consentire a ognuno di arrivare a quello possibile alla sua dotazione, occorre creare le condizioni perché ci arrivi da solo. Occorre farlo presto e non solo nello sport, perché la vita adulta inizia nella prima infanzia o, forse meglio, alla nascita, e un brutto inizio può non essere più correggibile. E, specie nello sport, occorre considerare che il talento non si può trasmettere, e che, per non soffocarlo, occorre non sostituirlo con la richiesta di pure esecuzioni o, peggio, con la richiesta di trucchi, furbate o gesti violenti.

Ciò che vogliamo fare si può sintetizzare in un unico obiettivo: formare uno sportivo pronto ad assumere le potenzialità formative dello sport e a trasformarle in tratti stabili del carattere, che significa portare l’allievo a sviluppare tutte le proprie risorse e a utilizzarle in qualsiasi compito e attività.

E La professionalità? Lo sport è un potente strumento educativo, e la professionalità è un modo di proporsi di chi ha raggiunto la maturità personale. Lo sport che obbedisce a precise regole e ne pretende l’osservanza esige che nessuno si possa sottrarre agli impegni che gli spettano, perché allena alla libertà, all’iniziativa, alla cooperazione e alla responsabilità. Allena al coraggio, che non è temerarietà o sprezzo del pericolo, ma non tirarsi indietro di fronte al rischio di sbagliare, accettare un danno personale per un vantaggio collettivo, mettersi a disposizione del compagno in difficoltà anche a rischio di uno svantaggio personale e/o a tentare anche quando potrebbe risultare inutile.

Il ruolo della regolazione emotiva nell’utilizzo di sostanze

Regolazione emotiva e uso di sostanze: L’ uso di sostanze consente di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi. Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’ uso di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale.

Chiara Paris, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva viene definita come l’insieme di comportamenti, capacità e strategie consci e inconsci, automatici o che richiedano uno sforzo attivo nel modulare, inibire o aumentare l’esperienza e l’espressione emotiva (Calkins, 2010). Tale capacità è ritenuta, ad esempio, uno degli aspetti centrali coinvolti nel disturbo borderline di personalità (Linehan, 1993) ed ha un ruolo centrale in numerose altre psicopatologie, come il disturbo d’ansia generalizzata (Mennin et al. 2002) o il disturbo post traumatico da stress (Cloitre, 1998).

Il modo in cui si sviluppa la regolazione emotiva -ed i processi coinvolti nell’acquisizione delle competenze ad essa correlate- costituisce tuttora un interessante tema di ricerca in evoluzione; paiono tuttavia determinanti un coinvolgimento del contesto familiare e sociale, così come l’interazione tra fattori interni ed esterni, oltre a quelli motivazionali e temperamentali (Gross, 2007; Morris et al.2007). Le abilità di regolazione emotiva vengono sviluppate sin dal primo anno di età e un fallimento nelle stesse comporta difficoltà precoci che riguardano, ad esempio, l’area sociale o l’adattamento al contesto (Eisenberg & Fabes, 2006).

Diverse ricerche hanno poi associato la  mancanza di regolazione emotiva ad una maggior esposizione rispetto allo sviluppo di psicopatologie (Calkins & Dedmon, 2000; Cichetti et al. 1995) con caratteristiche anche molto dissimili tra loro, come i disturbi d’ansia (Cisler et al. 2010) o dell’alimentazione (Sassaroli et al., 2010).

Alcune concettualizzazioni della regolazione emotiva si sono occupate di sottolineare il ruolo dell’esperienza e dell’espressione delle emozioni, in particolare, il controllo di quelle negative e la riduzione dell’arousal emotivo (Kopp, 1989). Altri autori hanno invece evidenziato la natura funzionale delle emozioni, ritenendo che un’incapacità nello sperimentare e distinguere le varie emozioni sia disadattiva tanto quanto il discontrollo nella modulazione di stati negativi (Paivio & Greenberg, 1998). Gratz e Roemer (2004) hanno proposto una visione più articolata di regolazione emotiva, comprensiva di sei dimensioni separate in cui si possono manifestare delle specifiche difficoltà: mancanza di consapevolezza delle emozioni, ridotta trasparenza nella risposta emotiva, mancata accettazione della risposta emotiva, accesso limitato alle strategie di regolazione emotiva percepite come efficaci, difficoltà nel controllo degli impulsi quando si sperimentano emozioni negative e ridotte capacità nel mettere in atto comportamenti efficaci quando si sperimentano stati emotivi negativi.

 

Uso di Sostanze

Il Disturbo da Uso di Sostanze, così come concepito dal DSM-5 (2014), si caratterizza per la presenza di sintomi che includono tolleranza, astinenza, uso continuato (nonostante il desiderio di interrompere e le ormai note conseguenze negative), oltre ad una mancanza di controllo nel craving e nel successivo uso di sostanze.

La difficoltà di inquadramento delle patologie connesse all’abuso di sostanze rispetto a queste tematiche aumentano sensibilmente se si pensa che la co-occorrenza rispetto alla diagnosi di disturbo di personalità viene stimata a partire da una media del 44% per la dipendenza da alcol e del 79% in quella da oppiacei (Ball, 2005); una precedente ricerca riscontrava invece che, in generale, la maggior parte di chi abusa di sostanze (70%) rientrava anche nei criteri per la diagnosi di uno o più disturbi di personalità, prevalentemente di Cluster B e C (Rounsaville et al., 1998).

Parlare di abuso di sostanze in generale risulta particolarmente difficoltoso per diversi motivi: tra questi, il fatto che la scelta di una sostanza piuttosto che un’altra si rivela importante per delineare le caratteristiche della persona che ne fa uso e, d’altra parte, il poliabuso è diventato sempre più comune, con la dimostrazione di forti differenze, ad esempio tra chi consuma solo cocaina e chi la associa anche ad altro (McCormick et al., 1998).

 

Uso di Sostanze ed emozioni

In letteratura, dipendenza e abuso vengono spesso definiti semplicemente sulla base di criteri comportamentali, mentre meno attenzione viene posta rispetto al perché si ricorra alle sostanze.

Visti gli effetti davvero molto diversificati delle sostanze, quasi qualsiasi sensazione negativa, dalla noia all’ansia può associarsi all’abuso: la ricerca di Sanchez-Craig (1984) ha dimostrato che, su 297 episodi legati all’assunzione di alcol, l’80% aveva come scopo il bisogno di gestire diverse esperienze soggettive, come, appunto, emozioni negative. Questo dato consente peraltro di inquadrare meglio la frequente associazione tra disturbi dell’umore o d’ansia e uso di sostanze, che avrebbe proprio lo scopo di ridurre sensazioni indesiderate o abbassare il livello di attivazione (Mirin et al., 1987).

Un altro dato rilevante in questo senso è l’elevata incidenza dell’abuso di sostanze tra chi è vittima di episodi o esperienze traumatiche (Polusny e Follette, 1995).

Ricorrere alle sostanze costituisce una strategia molto efficace, anche se a breve termine, per determinare un cambiamento nell’esperienza percepita e chi abusa sembra maggiormente fiducioso negli effetti rispetto agli altri: nell’alcolismo, per esempio, il paziente assume che l’alcol aumenti le sensazioni di piacere e riduca quelle legate allo stress (Conners et al. 1986).

Concepire l’abuso di sostanze come una strategia di coping maladattiva (Gratz e Roemer, 2004) introduce l’esistenza di un evitamento esperienziale in soggetti che soffrono di questo disturbo: il comportamento impulsivo avrebbe l’obiettivo di alterare uno stato emotivo negativo attraverso una strategia di evitamento di esperienze emotive indesiderate (per es. Brown, Comtois, Linehan, 2002; Wagner e Linehan, 1999).

Una possibile conferma di questo si evince ad esempio dal fatto che i soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità e abusatori di sostanze risulterebbero più impulsivi ed avrebbero una maggiore probabilità di utilizzare strategie di fuga/evitamento rispetto ai borderline non abusatori (Kruedelbach et al., 1993). Strategie di evitamento esperienziale focalizzate sull’emozione (ad esempio, evitare di pensare ad eventi spiacevoli) risultano predittive rispetto a numerosi outcome negativi, tra cui proprio l’uso di sostanze, e un sottogruppo di chi abusa delle stesse tende a ricorrere abitualmente all’evitamento esperienziale (Hayes, 1996). In generale, questo concetto si applica sia all’utilizzo di deprimenti che di stimolanti, se si assume che l’astensione dagli stessi possa generare sensazioni avversive o di noia (Hayes, 1996). In altre parole, anche quando la persona che abusa di sostanze non comincia con il fine di un evitamento esperienziale, gli effetti dell’eccessivo utilizzo – che contemplano anche stati di umore disforico e astinenza –concorrono nel mantenimento del circolo vizioso della dipendenza (Sher, 1987).

Le sostanze consentono quindi di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi (pensiamo, ad esempio, all’effetto dell’alcol o di psicofarmaci come lo Xanax sull’ansia, oppure a quello di cocaina e metamfetamine su abbassamenti nel tono dell’umore). Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’utilizzo di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale. A rinforzarne l’utilizzo sono invece gli effetti, che in qualche modo migliorano gli stati pre-esistenti nell’assuntore. L’autore suggerisce che individui con alti livelli di aggressività e rabbia sarebbero più predisposti all’utilizzo di oppiacei o alcol per la regolazione emotiva, mentre il ricorso a cocaina e amfetamine risulterebbe più probabile in chi “reagisce” a stati depressivi (Sarnu & Maderno, 2007). Chiaramente, un comportamento di questo tipo conduce ad un inevitabile circolo vizioso legato agli effetti astinenziali della sostanza.

Alcune tra le evidenze a supporto di questa teoria sono la frequente co-occorrenza di disturbi psichiatrici, in particolare disturbi d’ansia e dell’umore, oltre alla maggior probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze in chi ha già una diagnosi psichiatrica (Kessler et al., 2005): una persona che ha già delle difficoltà nella regolazione emotiva sarà più propensa quindi a cercare ed utilizzare sostanze.

Un’altra prova a favore della teoria di Khantzian, sarebbe quella costituita dal maggior ricorso di soggetti sani (senza diagnosi di DUS) a droghe considerate legali, ad esempio il tabacco o l’alcol, in momenti emotivamente negativi.

Infine, è documentato come stati negativi –naturalmente sperimentati o indotti- causino un aumento del craving, dell’utilizzo e delle ricadute (Sinha & Li, 2007). Questo fenomeno è stato oggetto di un filone di studi che ne hanno trovato ampia conferma; per esempio, Childress e colleghi (1983) hanno dimostrato come sensazioni di ansia, depressione e rabbia costituirebbero dei trigger nel suscitare craving e astinenza in pazienti con diagnosi di dipendenza da oppiacei in fase di disintossicazione. In questo studio, si ipotizzava che determinati stati emotivi –da soli, o con altri stimoli legati alla sostanza –fossero in grado di determinare craving per l’oppiaceo, astinenza e, quindi, un potenziale utilizzo successivo. I risultati mostravano che la sola emozione negativa senza altri stimoli era in grado di elicitare sintomi astinenziali anche molto specifici; questo si determinava in particolare per stati legati a depressione e ansia, molto meno per la rabbia. Al contrario, uno stato di euforia, nonostante la forte attivazione psicofisiologica, abbassava nettamente la possibilità di provare desiderio per la droga. Altri autori hanno sostenuto queste conclusioni mostrando come l’utilizzo di strategie funzionali a livello emotivo consenta l’abbassamento del craving e quindi meno possibilità di ricaduta (O’Connell et al. 2007; Westbrook et al. 2013).

Il ruolo della disregolazione emotiva nello sviluppo del disturbo da uso di sostanze è stato confermato anche da una serie di studi longitudinali, tra i quali quelli di Mischel e colleghi (2011), che avevano sottoposto ad alcuni bambini con meno di sei anni un compito inerente la gratificazione emotiva: i partecipanti all’esperimento potevano scegliere tra un dolcetto da mangiare subito, o due dolci se avessero aspettato. I bambini che erano stati in grado di posticipare la gratificazione avevamo più abilità nella padronanza emotiva in adolescenza e meno probabilità di utilizzare cocaina in età adulta. Questo dato trova conferma nell’elevato rischio di sviluppare delle problematiche legate alle sostanze per quei soggetti che nell’infanzia hanno avuto una diagnosi di ADHD, piuttosto che di disturbo oppositivo provocatorio (August et al. 2006), problematiche peraltro accomunate da un deficit emotivo.

Anche i modelli di Beck e Ellis riservano alle emozioni un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza: alcune situazioni trigger vengono legate a specifiche reazioni emotive grazie ad un processo di condizionamento. Tali associazioni sarebbero poi facilitate ed evocate tramite pensieri disfunzionali e credenze inerenti la sostanza e il suo utilizzo (Rigliano e Bignamini, 2009).

 

Trattamento

In un’ottica trattamentale, le indicazioni in letteratura sono decisamente varie. Quasi tutte condividono l’importanza che hanno avuto i vissuti del paziente nello sviluppo del disturbo o nel determinarsi della ricaduta. Tendenzialmente, l’intervento si divide in tre fasi (disintossicazione, ricovero e prevenzione della ricaduta); limitandosi a considerare la parte inerente la competenza emotiva, numerosi approcci pongono l’obiettivo di limitare l’evitamento esperienziale tramite tecniche di gestione dell’ansia o riduzione dello stress e con la farmacoterapia; la psicoterapia cognitivo comportamentale risulta efficace, per esempio, nelle esposizioni guidate rispetto all’emotività negativa e nel rinforzo tramite l’esplorazione di quella positiva.

La CBT si concentra inoltre sull’individuazione di situazioni “a rischio” per il paziente e nell’implementazione di strategie per farvi fronte e per gestire il craving e gli stati negativi. Altri studi hanno utilizzato stimoli avversivi condizionati nella ricerca, nell’utilizzo o anche solo nell’immaginazione della sostanza, in modo da utilizzare la strategia di evitamento in favore dell’astensione (Rigliano & Bignamini, 2009).

I trattamenti basati sull’accettazione e il non giudizio, come la Mindfulness, invece tentano di alterare l’impatto che hanno emozioni e pensieri cambiando l’approccio che ha la persona con gli stessi piuttosto che ridurne direttamente l’intensità, la frequenza ecc. Ciò ha l’obiettivo di limitare agiti automatici e impulsivi e consentire una reazione diversa ad ansia, stress, dolore ecc. Le tecniche di MBTs focalizzano infatti l’attenzione del paziente sul momento presente, inclusi stati negativi o episodi di craving (Childress et al., 1983; Hayes et al., 1996; Gross, 2007).

Il dramma silenzioso del lutto prenatale: le conseguenze psicologiche nelle madri che affrontano la morte prenatale

Le emozioni più frequenti provate dopo un’esperienza di lutto prenatale  sono il senso di colpa e la vergogna, che possono indurre le coppie a non cercare conforto negli altri e a provare ancora più solitudine e smarrimento.

Rossana Piron, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Lutto prenatale: i dati recenti

Quando si parla di gravidanza, nell’immaginario collettivo siamo abituati ad associare immagini, aspettative e fantasie positive rispetto alla “dolce attesa”, che hanno tutte a che fare con la vita. Eppure, esiste una realtà molto spesso taciuta di gravidanze il cui esito provoca effetti drammatici nella vita della futura coppia genitoriale.

Secondo recenti dati ISTAT, in Italia nel 2008 ci sono stati 74117 aborti spontanei, 1866 bambini nati morti, e un’incidenza di morte intrauterina (cioè che avviene dopo la ventiduesima settimana di gestazione) di 3,5 su 1000 nati vivi (ISTAT, 2009). Secondo la rivista The Lancet, ogni giorno nel mondo 7200 mamme perdono il loro bambino a seguito della morte in utero.

In Italia la prima associazione che si è occupata di prevenzione, sostegno e cura della salute perinatale è l’associazione CiaoLapo, fondata dai coniugi Claudia Ravaldi, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, e Alfredo Vannacci, farmacologo e tossicologo. Il 30 aprile a Parma, i due fondatori hanno tenuto una giornata di formazione intitolata “Oltre il silenzio”, durante la quale hanno presentato i dati pubblicati sulla rivista The Lancet riguardo alle morti fetali nel mondo. Il 19 gennaio 2016 The Lancet ha promosso una nuova serie di articoli dal titolo Prevenire le morti in utero evitabili, mettendo in luce come il 90% dei casi potrebbero essere evitati anche in paesi con alto livello di sviluppo economico, come l’Italia.

La serie Ending Preventable Stillbirth è costituita da 5 articoli scientifici, 4 commenti e 2 report, scritta con la collaborazione di 40 paesi nel mondo, in rappresentanza di più di 100 organizzazioni. L’unica rappresentante italiana è l’associazione CiaoLapo, un dato che evidenzia come l’attenzione per questo tema sia ancora lontana sia culturalmente, che in una prospettiva di prevenzione e cura sanitaria. L’aspetto più rassicurante sul panorama italiano, è che l’Italia è uno dei Paesi ad altro sviluppo economico in cui il tasso di mortalità è diminuito maggiormente negli ultimi vent’anni.

 

Lutto prenatale: distinzione tra aborto spontaneo e morte intrauterina

La distinzione tra aborto spontaneo e morte intrauterina è di tipo temporale. Per aborto spontaneo si intende l’arresto della gravidanza prima della ventiduesima settimana di gestazione. Quando si parla di morte intrauterina, invece, si fa riferimento a quelle situazioni di arresto della gravidanza che avvengono dopo la ventiduesima settimana di gestazione; si parla di morte in utero precoce dalla ventiduesima alla ventottesima settimana, e infine di morte tardiva quando avviene dopo la ventottesima settimana.

L’aborto spontaneo è un’esperienza molto comune, avviene infatti tra il 15 e il 25% delle gravidanze. Nonostante la sua frequenza, le donne spesso non sono preparate a questa dolorosa esperienza, le cui cause sono per lo più sconosciute. Nel 2013 negli Stati Uniti è stata svolta un’indagine per valutare le credenze rispetto alla prevalenza, alle cause e agli effetti emotivi dell’aborto spontaneo (Bardos et al., 2015). Per la raccolta dei dati è stato somministrato un questionario di 33 domande, a uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 69 anni. Il numero di partecipanti è stato di 1084 persone, 45% uomini e il 55% donne. Il 15% dei partecipanti ha risposto di aver vissuto almeno un’esperienza di aborto spontaneo; tra questi, il 55% riteneva che l’aborto spontaneo fosse attribuibile a meno del 5% delle gravidanze.

Per quanto riguarda le cause, quelle ritenute più comuni includevano un evento stressante (76%), il sollevamento di un oggetto pesante (64%), l’uso precedente di contraccettivi intra-uterini (28%) o di contraccettivi orali (22%). Dal punto di vista delle conseguenze psicologiche, il 37% ha vissuto questa esperienza con la percezione di aver perso un bambino, il 47% si è sentito profondamente in colpa, il 41% ha provato solitudine e il 28% ha provato vergogna. Nei casi in cui è stata scoperta una causa, il 19% in meno ha sentito di aver fatto qualcosa di sbagliato. Anche se non ci fosse stato alcun modo per evitare l’accaduto, il 78% dei partecipanti ha dichiarato che avrebbe voluto conoscere la causa dell’avvenimento.

 

Lutto prenatale: le emozioni conseguenti la perdita

Come rilevato in questa indagine, le emozioni più frequenti provate dopo un’esperienza di lutto prenatale  sono il senso di colpa e la vergogna, che possono indurre le coppie a non cercare conforto negli altri e a provare ancora più solitudine e smarrimento.

La morte di un bambino durante la gravidanza (lutto prenatale) o subito dopo la nascita (lutto perinatale) è un’esperienza traumatica di grave entità, che può determinare nella coppia un alto rischio di insorgenza di lutto complicato o di sviluppare un disturbo psichiatrico (Paykel, 1971; Ravaldi et al., 2008). E’ esperienza comune delle coppie genitoriali in lutto, di vivere una profonda rottura esistenziale tra il “prima”(la vita in divenire) e un “dopo” (la morte del figlio atteso). Nel “dopo” i genitori vivono un’esperienza di rottura del percorso genitoriale poiché viene meno l’oggetto d’amore tanto fantasticato, così già profondamente parte del loro vissuto (Mouras et al., 2003).

In ogni momento della gravidanza si può parlare di lutto prenatale a tutti gli effetti. L’intensità del lutto prenatale infatti non è correlata all’età gestazionale, né alla presenza di patologie fetali o di incompatibilità con la vita, piuttosto è correlata al grado di investimento affettivo della coppia genitoriale. L’età del bambino non ha quindi alcuna importanza per stabilire l’entità della perdita, ma la differenza sta nell’instaurarsi della relazione di attaccamento che inizia molto prima della nascita del bambino (Righetti e Sette, 2000). Come ha spiegato Claudia Ravaldi durante la giornata di formazione di Parma, le madri non vivono solo l’esperienza del lutto ma anche una profonda ferita esistenziale, che può far generare pensieri di incapacità a generare una vita e di incuria nell’essere state in grado di proteggere il proprio bambino. Questo tipo di rimuginio, di tipo depressivo e di colpa, è maggiore nelle madri che hanno investito sulla gravidanza, come momento di realizzazione della propria esistenza (es. donne laureate, con un lavoro stabile e una famiglia).

Nel primo periodo successivo al lutto prenatale, i genitori sono spesso infastiditi da tutto ciò che ha a che fare con la genitorialità e possono mettere in atto condotte di evitamento per gestire il dolore della loro perdita, come tenersi lontani dai neonati, evitare coppie con figli piccoli o le donne in gravidanza. Le emozioni di fastidio, dolore, rabbia e invidia, fanno parte del normale processo di elaborazione della perdita e sono collegati a pensieri automatici transitori: “Perché è accaduto proprio a me?” “Perché lei che è una cattiva madre ha dei figli e io no?” . I genitori spesso vivono questi pensieri con profonda autocritica e hanno difficoltà a esprimerli perchè sono accompagnati da sentimenti di indegnità (“Ho dei pensieri mostruosi, sono una persona orribile”) (Barr e Cacciatore, 2007).

 

Le fasi del lutto prenatale

Durante la giornata di formazione di Parma sono state presentate da Claudia Ravaldi le varie fasi del lutto che corrispondono ai diversi vissuti emotivi:
– Shock: dopo la diagnosi la coppia sperimenta una fase di shock e di profonda disorganizzazione, che può durare diversi giorni e che limita la capacità di comprensione. Le emozioni più comuni in questa fase sono stordimento, incredulità, distacco emotivo, congelamento o negazione (“Forse si sono sbagliati”). Molte donne sperimentano in modo acuto la cosiddetta “Sindrome delle braccia vuote”.
– Realizzazione: è il momento in cui la coppia realizza ciò che è realmente accaduto. La profonda tristezza e il senso di colpa (“Forse non avrei dovuto fare…”) sono spesso accompagnati da un dolore fisico intenso, come dolori alle articolazioni, pressione al torace, palpitazioni.
– Protesta: in questa fase l’emozione principale è la rabbia, accompagnata da sentimenti di ingiustizia, rammarico e ricerca delle colpe. La rabbia può intensificarsi per la sensazione di perdita di controllo, per il non avere avuto possibilità di scelta o per non avere capito cosa stesse accadendo. Altri sintomi ricorrenti in questa fase sono insonnia, incubi, flash back dei momenti più traumatici (es. le parole del medico, la sala operatoria, etc..).
– Disorganizzazione: questa fase è caratterizzata da depressione, solitudine, evitamento delle situazioni che hanno a che fare con la genitorialità. Possono presentarsi difficoltà nella coppia per le modalità differenti di vivere il lutto.
– Ri-organizzazione e accettazione: la solitudine e il rammarico lasciano il posto al disgelo emotivo, alla ricerca di supporto e alla sofferenza senza angoscia. Nascono nuovi interessi e nuove abitudini.
– Ritorno all’attaccamento e al desiderio di maternità.

Quando un lutto di questo tipo colpisce una famiglia, inevitabilmente vengono coinvolte tutte le figure che gravitano attorno alla coppia genitoriale, come amici e parenti, che spesso non sanno come affrontare la situazione e come fornire un valido supporto. I contenuti e i toni hanno grande rilevanza nel mostrare empatia o al contrario distacco e indifferenza. Tentare di minimizzare, razionalizzare o appellarsi alla natura può avere effetti negativi, soprattutto nei primi mesi del lutto, e alcune frasi possono essere vissute come aggressive o inutili (Ravaldi et al., 2009).
Le frasi più comuni da evitare:
“Doveva andare così, è la natura che fa il suo corso”
“Non ti preoccupare sei giovane, andrà meglio la prossima volta”
“Si vede che non era sano, meglio così”
“Meno male che è successo ora che non ti eri ancora affezionata, dopo sarebbe stato peggio”
“Hai già un bambino a casa”
“Ne farai altri”
“Riprovateci subito”

Utilizzare semplici frasi di vicinanza, come “Mi dispiace”, “Deve essere molto doloroso”, “C’è qualcosa che posso fare per te?” permettono di comunicare rispetto, partecipazione e aprono al dialogo (Ravaldi et al., 2009).

L’elaborazione del lutto può avvenire anche dopo due anni di tempo, e alcune ricerche sottolineano che la percezione stabile di serenità avviene in media tre anni dopo la perdita (Righetti e Casadei, 2010). Per questo è difficile stabilire la differenza tra un normale processo di lutto e la presenza di lutto complicato solo su criteri temporali.

In questo lasso di tempo sarebbe importante per i genitori e per gli altri figli essere seguiti attraverso un supporto integrato, cioè dal punto di vista medico, sociale e psicologico. I gruppi di auto-mutuo aiuto si sono rivelati efficaci per lenire la drammaticità dell’evento e favorire l’elaborazione del lutto ( Bulleri e De Marco, 2013). Anche le associazioni sono un valido aiuto perché forniscono informazioni e supporto, e favoriscono la condivisione tra le coppie genitoriali che vivono la stessa condizione (Ravaldi, 2009).

Anche la psicoterapia può fornire un valido supporto per accompagnare le persone verso l’elaborazione dell’esperienza traumatica. Due esempi di protocolli specifici per il trattamento del lutto prenatale e perinatale provengono dall’EMDR e dalla Psicoterapia Sensomotoria. Entrambe si focalizzano sui disturbi post-traumatici sbloccando meccanismi disfunzionali a livello somatico, cognitivo ed emotivo (Bulleri e De Marco, 2013).

In generale, la psicoterapia non ha il potere di eliminare la sofferenza, ma può permettere ai genitori di liberarsi dai vissuti irrazionali di colpa, incapacità e incuria e da tutte le emozioni negative che ostacolano la piena risoluzione del lutto.

 

NOTA: nella prima versione di questo articolo abbiamo scritto che l’associazione CiaoLapo è l’unica in Italia a occuparsi di Lutto prenatale e perinatale. Si tratta in realtà della prima ad essersene occupata in Italia. [NdR]

Maltrattamenti e abuso: l’ascolto del minore e il trattamento dell’offender – Report dal Convegno

Si è svolto a Foggia, lo scorso 26 gennaio presso l’Hotel Cicolella, il convegno “Maltrattamenti e abuso: l’ascolto del minore e il trattamento dell’offender” organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, dedicato a Emma Francavilla, la giovane collega e consigliera dell’Ordine venuta a mancare un anno fa e che fortemente aveva voluto dedicare tutto il suo impegno per l’organizzazione di questo convegno.

 

Prima dell’avvio dei lavori, si è respirato un clima di forte commozione in sala. Si è dato voce nel “qui e ora” a un dolore condiviso e vibrante nelle parole del Presidente dell’Ordine degli Psicologi Puglia, Antonio di Gioia [blockquote style=”1″]Sono particolarmente commosso perché in questo anno la sua assenza si è sentita parecchio, si sente la sua assenza in questa sala.[/blockquote]

 

I sessione: l’ascolto del minore in sede civile-penale e modelli familiari disfunzionali

Il convegno ha offerto una giornata di formazione variegata nei contenuti e articolata nell’esposizione degli interventi, provenienti dall’ambito istituzionale e clinico, testimonianza di una costante operazione di confronto e di un sinergico impegno per la sensibilizzazione ad un fenomeno quanto mai attuale e per la soluzione delle criticità ancora esistenti.

L’attenzione dell’uditorio è nell’immediato catalizzata, da parte dal dott. Riccardo Greco, Presidente del Tribunale dei minorenni di Bari, sul disegno di legge A.C. 2953-A “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, passato alla camera e che prevede tra i vari cambiamenti la soppressione del Tribunale per i Minorenni. Un cambiamento preoccupante e che non deve passare inosservato per gli effetti regressivi sulla giustizia minorile italiana. Si parla di “disposizioni di efficienza”, che tuttavia preferiscono un alto tasso di operatori non specializzati ma coinvolti in temi delicatissimi.

Il maltrattamento, in particolare nella sua forma psicologica, rappresenta una condizione che si presta ad una minore riconoscibilità dal punto di vista giudiziario, per tale ragione la specializzazione del giudice, difensore del minore, non può essere trascurata.

Aprire una finestra sulla dimensione qualitativa e quantitativa del fenomeno è tutt’altro che semplice, esso risulta, infatti, ancora purtroppo estremamente sommerso, il suo monitoraggio avviene a partire dai dati provenienti dai servizi sociali territoriali spesso interpellati per ragioni differenti dal maltrattamento e dall’abuso. La dott.ssa Rosy Paparella, Garante Regionale dei Diritti del Minore, mette in risalto come su 25.000 minori poco più di un quinto siano stati riconosciuti come vittime di maltrattamento. Al primo posto si individuano i casi di trascuratezza in tutte le sue forme, fisica, emotiva, dell’ipercura, a seguire i casi di violenza assistita, si tratta della “forma di violenza muta, invisibile” per riportare le sue parole, i casi di violenza psicologica e fisica, all’ultimo posto le violenze sessuali.

Il dato preoccupante è che la fascia di età maggiormente coinvolta è quella dagli undici ai diciassette anni, un importante indicatore di un intervento tardivo da parte di tutti gli operatori coinvolti in questo ambito. Tale aspetto veicola la riflessione sulla necessità di una costante formazione e aggiornamento e sulla rilevanza di un intervento di prevenzione rispetto alla vittimizzazione secondaria, a cui il minore può andare incontro, ossia la difficoltà da parte delle istituzioni di gestire il fenomeno. Essa rappresenta una condizione che nel contatto diretto con i minori emerge con chiarezza.

È pertanto importante ricordare utilizzando le parole della dott.ssa Paparella che [blockquote style=”1″]L’ascolto giudiziario e terapeutico è parte di un processo di protezione del minore[/blockquote] di cui gli stessi modi e tempi, nonchè le informazioni sulle ragioni dell’ascolto, fanno parte. [blockquote style=”1″]Ascoltare il trauma è l’aspetto più predittivo che il trauma possa essere riparato.[/blockquote]

In quest’ottica un ruolo centrale è assunto anche dal rispetto della deontologia professionale, in cui ognuno procede secondo specifiche competenze e s’interfaccia con professionalità differenti, che risultano necessarie laddove manca un’adeguata formazione in quel determinato settore. Le parole dell’avvocato Katia di Cagno, Coordinatrice Commissione Minori Ordine Avvocati di Bari, sintetizzano in maniera piuttosto concreta questo presupposto [blockquote style=”1″]Vorrei far comprendere che il concetto di vittoria non é più personale quando si parla di queste materie. Io immagino sempre il bambino seduto su una sedia, invisibile. Anche quando difendiamo uno dei genitori, la nostra mente deve sempre puntare al bene di quel bambino, se presente.[/blockquote]

Il convegno si è snodato tra proposte di confronto sull’analisi del fenomeno e tipologie d’intervento. Non è mancata inoltre, l’attenzione agli indicatori di difficoltà esistenti nella gestione del maltrattamento, dell’ascolto del minore e del trattamento dell’offender, portate alla luce dalle diverse professionalità in riferimento al proprio ambito d’intervento. Il Contributo della Dott.ssa Minenna, Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni, ha introdotto una raccomandazione rispetto ai pericoli che possono insinuarsi nella confusione dei ruoli da parte dello psicologo che si trova a ricoprire un ruolo diverso da quello clinico. [blockquote style=”1″]Un errore umano per noi psicologi è quello di confondere il ruolo di psicologo con quello di giudice; il giudice onorario, infatti, è chiamato a esprimere il suo giudizio sulla base di competenze specifiche, in quel contesto non è uno psicologo. Un secondo errore è quello di voler coordinare i vari interventi ergendosi al ruolo di supervisore piuttosto che rimanere a distanza.[/blockquote]

Nell’ambito delle consulenze tecniche di ufficio la dott.ssa Simone, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, richiama l’attenzione sul ruolo dello psicologo che mette in contatto il diritto dei maggiorenni con il contesto familiare nel quale c’è un bambino che ha vissuto un dramma, un’importante operazione di sostegno per il lavoro della procura e della polizia giudiziaria che può aiutare a scongiurare il rischio dell’archiviazione di un caso e dunque di un reato che resti impunito.

In sostanza,  afferma la dott.ssa Antonietta Curci, coordinatrice Master di II livello di Psicologia Giuridica presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, [blockquote style=”1″]Ciò che fa lo psicologo è raccogliere informazioni accurate, complete e credibili rispondendo, non all’accertamento della verità, ma alla necessità di supporto all’attività giudicante.[/blockquote]

Da qui l’importanza di impiegare metodi scientifici quando l’ascolto di esperienze traumatiche s’inserisce in un procedimento giudiziario. In sede d’interrogatorio, in ambito civile o probatorio, la suggestionabilità interrogativa rappresenta un elemento di vulnerabilità, che può compromettere la veridicità di una testimonianza. Analizzare quest’aspetto consente di verificare i casi in cui l’individuo si trova ad accettare e convincersi di ricordare fatti non realmente accaduti.

In tal senso, uno strumento impiegato in ambito forense è il Gudjonsson Suggestibility Scale. Esso valuta due aspetti della suggestionablità, l’accettazione, ossia la tendenza a cedere a domande suggestive e il cambio, ossia la tendenza a cambiare le proprie risposte per far fronte a feedback negativi, oltre alla compiacenza. La GSS è composta da un breve racconto che dopo la lettura viene fatto rievocare, seguono venti domande di cui gran parte sono suggestive e viene fornito un feedback negativo sulla prestazione; si procede rileggendo al soggetto le domande per verificare se le risposte cambiano in seguito al feedback e dopo cinquanta minuti si conclude con una rievocazione differita del brano. Il monito della dott.ssa Curci è quello di procedere con attenzione, [blockquote style=”1″]La grande difficoltà che dobbiamo affrontare è quella di non far esasperare situazioni già al limite, tenendo conto di tutte le variabili che potrebbero toccare anche chi opera nel caso e non solo i protagonisti.[/blockquote]

La mattina termina con una tavola rotonda sui modelli disfunzionali familiari. Il dott. Cusano apre questo momento di confronto condividendo un caso di maltrattamento intrafamiliare conclusosi terribilmente con un uxoricidio, un momento di profonda riflessione e sgomento per platea. A seguire, l’analisi dei modelli familiari disfunzionali conduce a soffermarsi sulla correlazione tra un basso livello di cura e un alto livello di protezione come fattore di rischio per i comportamenti devianti nei minori sex offender, contributo della dott.ssa Tarricone. L’interesse verso la realtà relazionale familiare non può dunque prescindere dal riferimento al diritto alla bigenitorialità, tema pregnante ma controverso. La legge 54/2006, come fa notare la dott.ssa Montemurno, ci invita a riconoscere che [blockquote style=”1″]Essere genitori vuol dire essere un’integrità che si occupa di un minore in termini affettivi, relazionali e comportamentali [/blockquote].

Questo diritto tuttavia può essere compromesso drasticamente. In tal senso, “Sindrome da Alienazione Parentale”, si inserisce a pieno titolo come condizione di compromissione del diritto alla bigenitorialità del minore e rappresenta il tema che conclude la tavola rotonda. La PAS, nel Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali, non viene riconosciuta come una sindrome, ma rappresenta più “una problematica relazionale che riguarda tre soggetti” come fa notare la dott.ssa Parente, è una problematica molto controversa e ostacola l’accesso del minore a entrambi i genitori. Essa si caratterizza per i seguenti sintomi: la campagna di denigrazione, la razionalizzazione debole, la mancanza di ambivalenza, il fenomeno del pensatore indipendente, l’appoggio automatico al genitore alienante, l’assenza di senso di colpa, gli scenari presi a prestito, l’estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato che mettono in risalto la distruzione del legame con il genitore alienato.

 

II sessione: Il sex offender aspetti psicopatologici, processuali, di tutela giuridica e d’ intervento

Il lavoro formativo riprende a pieno ritmo nel pomeriggio con gli aspetti psicopatologici e sessuali del sex offender, un’analisi, offerta dal prof. Carabellese, che mette in risalto la non uniformità del profilo del sex offender, in cui possono essere presenti aspetti relazionali caratterizzati da un attaccamento insicuro-evitante, un quadro psicopatologico eterogeneo e disfunzioni sessuali o altri piccoli disturbi fisici. La psicopatia tuttavia, costituisce un rischio specifico di recidiva criminale, fa notare. Va ricordato inoltre, che non esiste a oggi la possibilità di fare diagnosi di abuso sessuale a partire da indicatori isolati o multipli senza la presenza di altre prove.

In una cornice in cui la scientificità delle prassi è stata più volte ribadita, l’esperienza clinica portata dalla dott.ssa Loredana Mastrorilli ha favorito un contatto più empatico con l’esperienza traumatica dell’abuso. Emblematiche sono state le sue parole

[blockquote style=”1″]Spesso la teoria è importante ma di fronte all’esperienza dolorosa fatta da un bambino, non si può usare solo ed esclusivamente un metodo scientifico. Non avrebbe successo. Senza rapporto empatico con il dolore provato dalla vittima in quel momento, non c’è possibilità di ottenere risultato e apportarle beneficio.[/blockquote]

La tutela giuridica del minore sex offender, è stato un altro importantissimo tema affrontato nel pomeriggio dal dott. Massimiliano Arena. Il suo contributo ha stimolato la riflessione sulla ricorrenza a trascurare, da parte dei tecnici stessi, le esigenze educative di fronte a reati commessi da minorenni. Il D.P.R. 448/88, fa notare, prevede un procedimento speciale [blockquote style=”1″]Che consente la sospensione del processo e la conseguente messa alla prova del minore. [/blockquote]In questo periodo è monitorata l’evoluzione del comportamento del minore e della sua personalità da parte dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e i servizi socio-assistenziali locali.

La giornata si conclude con una tavola rotonda sulle proposte progettuali promosse in favore di sex offender uomini e donne. Le dott. sse, Anna Coppola De Vanna e Marika Massara, presentano i rispettivi progetti di contrasto alla violenza di genere, rivolti agli uomini, “Dalla parte del Lupo” e “Rompere il silenzio”, finalizzati all’elaborazione dall’esperienza della violenza, alla riduzione del rischio di recidive e alla ripresa della vita sociale.

Il convegno termina con i contributi delle dott.sse Sciancalepore e Guglielmini, in cui si porta in primo piano il fenomeno delle donne abusanti, rispetto alle quali mancano ancora stime precise e studi approfonditi, ma non mancano interventi.

L’attenzione ai lavori da parte della platea è stata costante e la nutrita proposta di temi è stata una buona occasione di aggiornamento e confronto per la comprensione di un fenomeno tragicamente attuale e dalle molteplici e pericolose sfumature.

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