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Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno (2015) – Recensione

I professionisti alla ricerca di un manuale che rappresenti un’utile guida al trattamento dei disturbi del sonno dovrebbero consultare Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno, il manuale illustra una grande varietà di protocolli in modo molto preciso, dettagliato ma per nulla dispersivo.

Marina Morgese – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Disturbi del sonno: introduzione

Così come mangiare e respirare, anche dormire ha un ruolo di primaria importanza nella vita degli esseri viventi. Basti pensare alla nostra ultima notte insonne e alla successiva giornata lavorativa, alla stanchezza provata e trascinata fino a tardi e all’unico pensiero fisso che da mattina a sera ci ha accompagnato “Non vedo l’ora di rimettermi a letto!”.

Adesso immaginiamo che questa situazione non avvenga solo per una notte, ma continui nella notte successiva, riproponendosi ancora nelle nottate a seguire e così via, il tutto mentre le giornate che viviamo si arricchiscono così di stanchezza, irritabilità, scarsa concentrazione e depressione.

Vi sono poi le situazioni contrarie: una lunga nottata di sonno non basta, è difficile staccarsi dal letto, viene invece più facile richiudere gli occhi e nuovamente cadere tra le braccia di Morfeo e lasciar vivere la vita agli altri.

Purtroppo questi due poli opposti, insonnia e ipersonnia, rappresentano due tra i più diffusi disturbi del sonno che portano molto spesso i pazienti a richiedere un consulto medico e/o psichiatrico. Ma non sono gli unici.  Altre lamentele comuni riguardano la sensazione di eccessiva sonnolenza diurna o i disturbi e le difficoltà durante il sonno, come ad esempio il sonnambulismo.

Trattasi ovviamente di problemi per nulla banali: i disturbi del sonno e della veglia portano a un rischio più elevato di patologie mediche e psichiatriche e a una compromissione generale del lavoro e dei rapporti sociali.

 

Fasi del sonno

Oltre alla veglia, il sonno umano comprende due fasi: la fase REM (Rapid Eye Movement) e la fase non-REM (NREM). Questi due stadi si alternano ciclicamente nel corso di un episodio di sonno.

Le caratteristiche di ogni fase sono ben definibili: nel sonno non-REM vi è un basso tono muscolare e attività psicologica minima; nella fase REM i muscoli sono atonici e comincia l’attività onirica.

Il sonno di un adulto presenta un’alternanza regolare di fasi non-REM e REM costituita da cicli di durata simile tra loro. Dopo essersi addormentato, il soggetto passa dallo stadio 1 del sonno non-REM allo stadio 2, per poi passare allo stadio 3 o allo stadio 4 e quindi, tra i 70 e i 90 minuti dopo l’addormentamento, si verifica la prima fase di sonno REM che dura circa 15 minuti. Alla fine della prima fase di sonno REM si conclude il primo ciclo che dura all’incirca dagli 80 ai 100 minuti.

Dopo questo primo ciclo, ve ne sono altri di durata pressoché simile, ma con un leggero aumento di durata del sonno REM (a scapito soprattutto degli stadi 3 e 4 del sonno NREM).

Durante la notte, in conclusione, il sonno REM costituisce circa il 25% della durata totale del sonno. È possibile che tra i vari cicli vi siano momenti di veglia. Il periodo di sonno viene rappresentato graficamente mediante gli ipnogrammi che illustrano il succedersi delle fasi di veglia e sonno in rapporto al tempo. Una più recente classificazione degli stadi del sonno ha abolito la distinzione tra stadio 3 e 4, accorpandoli in un unico stadio di sonno profondo, denominato N3 (Carskadon M.A. e Dement W.C. 2011).

 

Classificazione dei disturbi del sonno

Per classificare i disturbi del sonno, si fa spesso riferimento, oltre che al DSM, al “The International Classification of Sleep Disorders” (ICSD). La seconda edizione dell’ICSD divide i disturbi del sonno in:

  • Dissonie: di queste fanno parte i Disturbi Del Sonno Intrinseci tra cui l’Insonnia (insonnia psicofisiologica; insonnia paradossale; insonnia idiopatica) e l’eccessiva sonnolenza (narcolessia; ipersonnia ricorrente; ipersonnia idiopatica; ipersonnia da post-trauma; disturbi della respirazione: apnea del sonno; disturbi di movimento: sindrome delle gambe senza riposo, movimenti limbici periodici). Nelle dissonnie rientrano anche i Disturbi Del Sonno Estrinseci, come per esempio l’igiene del sonno inadeguata, l’insonnia dovuta ad altitudine, l’insonnia dovuta ad allergia e l’insonnia dovuta a dipendenza da alcool. Anche i Disturbi Del Ritmo Circadiano Del Sonno rientrano nelle dissonie, tra questi troviamo il disturbo da jet lag, da fase ritardata/avanzata del sonno (disturbo frequente negli adolescenti e nei giovani adulti) e il disturbo del sonno dovuto a orari di lavoro irregolari o notturni.
  • Parasonnie: in queste rientrato i Disturbi Del Risveglio (risvegli confusionali, sonnambulismo, terrori notturni), i Disturbi Associati Alla Transizione Tra Sonno E Veglia (tra cui movimenti ritmici, soliloquio, crampi alle gambe notturni), le Parasonnie Associate Con La Fase Rem (come per esempio incubi e paralisi del sonno) e, infine, altre parasonnie (tra cui enuresi e bruxismo)
  • Disturbi associati con altro disturbo mentale o medico
  • Disturbi del sonno poposti

Nel 2014, la pubblicazione dell’ICSD 3 ha inserito alcuni cambiamenti nella classificazione, proponendo così sei principali divisioni cliniche:

  1. L’insonnia
  2. Disturbi respiratori legati al sonno
  3. Disturbi centrali di ipersonnolenza
  4. I disturbi del ritmo circadiano sonno-veglia
  5. Parasonnie
  6. Disturbi del movimento legati al sonno

Inoltre è stata inclusa un’ulteriore categoria chiamata “Altri Disturbi del Sonno” allo scopo di permettere al medico di assegnare un codice a condizioni che, per motivi diversi, potrebbe non adattarsi alle sei categorie di cui sopra (Zucconi M. e Ferri R., 2014).

 

Disturbi del sonno: uno sguardo all’ insonnia

L’ insonnia è caratterizzata da una persistente difficoltà di inizio, durata, consolidamento e qualità del sonno. Il disturbo è presente nonostante l’opportunità di ottenere condizioni e quantità adeguate di sonno e determina una serie di conseguenze diurne negative. Così, l’insonnia è composta da tre tratti generali:

  1. L’opportunità di condizioni di sonno adeguato
  2. La persistenza del disturbo del sonno
  3. L’associazione tra disturbo del sonno e disfunzionalità diurne.

I sintomi notturni comprendono difficoltà di inizio e/o mantenimento del sonno, sonno leggero e non ristorativo (e.g., Morin & Espie, 2004), mentre i sintomi diurni comprendono sonnolenza, difficoltà di concentrazione, calo del tono dell’umore, irritabilità, difficoltà sociali/occupazionali o in altre aree importanti del funzionamento (ICSD-2, 2005).

L’insonnia è spesso associata ad altre condizioni psicopatologiche, prima tra tutte la depressione ma anche ai disturbi d’ansia. Harvey in uno studio del 2011 ha riscontrato delle comorbilità anche con fobia sociale, disturbo da attacchi di panico, autismo e disturbi dell’alimentazione.

 

Modelli di spiegazione dell’ insonnia

Tra i fattori di mantenimento dell’ insonnia, oltre a quelli predisponenti (quali familiarità e caratteristiche individuali) e precipitanti (stress, lutti, preoccupazioni), vi sono anche fattori perpetuanti quali comportamenti e credenze disfunzionali relative al sonno (Spielman, 1986; Spielman e Glovinsky, 1991).

Vi sono diversi modelli in letteratura che spiegano il mantenimento dell’ insonnia.

Il modello dell’ insonnia di Morin (1993) vede nell’arousal la caratteristica principale dell’ insonnia: l’eccessivo arousal infatti è un fattore causale dell’ insonnia, che al tempo stesso lo rinforza. Accadrebbe così che un eccessivo arousal porta a “disturbare” la naturale sequenza rilassamento, sonnolenza e addormentamento. Col passare delle notti insonni, inoltre, la persona potrebbe pian piano associare il momento dell’andare a letto (o anche la stessa camera da letto) con l’ansia e la paura di non dormire bene, creando così un effetto di condizionamento negativo. In questo modo la persona si dispone a letto con apprensione, si sforzerà a dormire a tutti i costi avviando così una sorta di ansia da prestazione per il sonno. Le conseguenze diurne (irritabilità, fatica, ecc) portano ad un aumento dei pensieri negativi riguardanti il sonno e di come la propria situazione sia irrimediabile. E’ ben evidente come la condizione di insonnia e pensieri disfunzionali venga a costituire un pericolo circolo vizioso.

Secondo Espie e collaboratori (2006), il sonno è un processo automatico. Chi dorme senza problemi si addormenta in modo spontaneo, senza controllo e senza pensarci troppo. L’automaticità del sonno è dunque la parte centrale del modello di Espie: tale automaticità invece viene persa quando la persona presta attenzione in modo selettivo al sonno e si sforza a tutti i costi di dormire. Secondo gli autori, quindi, i tre elementi cognitivi principali che portano al’insonnia sono: attenzione selettiva, intenzione esplicita e sforzo.

Secondo Harvey (2002, 2005), l’insonnia può essere spiegata tramite una serie di processi cognitivi attivi sia di giorno che di notte: (a) le persone che soffrono di insonnia sono più preoccupate nel pre-addormentamento, presentando pensieri intrusivi spiacevoli; (b) la preoccupazione e la conseguente ruminazione aumentano il livello di arousal; (c) l’eccessiva ansia porta il soggetto a monitorare continuamente tutti quegli stimoli interni ed esterni che potrebbero ostacolare un buon sonno, aumentando la probabilità di trovare dei reali stimoli minacciosi; (d) le persone danno grande importanza al disturbo notturno e alle conseguenze diurne, aumentando così l’ ansia di cui al primo punto; (e) le convinzioni disfunzionali e i comportamenti messi in atto per rimediare all’insonnia, altro non fanno che incrementare ulteriormente il disturbo.

 

Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno: recensione

I professionisti alla ricerca di un manuale che rappresenti un’utile guida al trattamento dei disturbi del sonno dovrebbero consultare Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno, manuale a cura di Michael Perlis, Mark Aloia e Brett Kuhn (edizione Italiana curata da Davide Coradeschi, traduzione di Laura Palagini), Giovanni Fioriti Edizioni.

Il manuale conta quasi 400 pagine, ed è diviso in tre grandi aree:

  • Parte I. Medicina comportamentale dei disturbi del sonno (BSM): protocolli per il trattamento dell’insonnia.
  • Parte II. Medicina comportamentale dei disturbi del sonno (BSM): protocolli per la terapia e il miglioramento dell’aderenza al trattamento dei disturbi intrinseci del sonno
  • Parte III. Medicina comportamentale dei disturbi del sonno (BSM): protocolli per il trattamento dei disturbi del sonno in età pediatrica.

Il vantaggio pratico del manuale è quello di illustrare una grande varietà di protocolli in modo molto preciso, dettagliato ma per nulla dispersivo. La chiarezza di ogni capitolo è garantita da una scaletta standard: nome del protocollo; indicazioni generali (es. insonnia); indicazioni specifiche (es. tipo o sottotipo); controindicazioni; razionale dell’intervento; descrizione della procedura; possibili modificazioni o varianti; evidenze scientifiche sull’efficacia della terapia; letture consigliate.

Il manuale diviene, organizzato in questo modo, di facile consultazione per il clinico che intende applicare uno dei protocolli descritti nella propria pratica clinica.

La seconda parte del manuale, seguendo sempre la stessa organizzazione sovra menzionata, si concentra su altri disturbi del sonno, in particolare disturbo delle apnee ostruttive e narcolessia. Vengono proposti, nella fattispecie, protocolli di intervento utili ai pazienti che, per via delle apnee ostruttive, sono costretti a ventilazione meccanica a pressione positiva continua delle vie aeree (CPAP), terapia non sempre ben accetta dai pazienti, né quindi adeguatamente osservata. I protocolli esposti mirano principalmente a migliorare l’adattamento del paziente alla CPAP.

Anche la terza parte del manuale è ricca di spunti clinici, illustrando protocolli per il trattamento dei disturbi del sonno in età pediatrica e adolescenziale: non solo insonnia ma anche sonnambulismo, enuresi notturna, terrore notturno e il disturbo da incubi in età adolescenziale.

Si evince dunque come Trattamenti comportamentali per i disturbi del sonno rappresenti un libro che ogni clinico, ricercatore o studente dovrebbe possedere nella propria libreria.

I disturbi del sonno rappresentano un insieme di disturbi molto vario e complesso, cosa che dovrebbe spronare ogni professionista a informarsi e formarsi al meglio relativamente ai diversi trattamenti. E’ premura anche degli autori del libro sottolineare come sia consigliabile, oltre allo studio dei protocolli proposti e alla consultazione del manuale, effettuare dei periodi di formazione, training e supervisione.

Imagery nella cura del trauma e della dissociazione

L’ Imagery è uno strumento a disposizione del terapeuta, utile in diverse tipologie d’intervento, che vanno dalla psicologia sportiva al trattamento di pazienti traumatizzati che presentano la dissociazione.

Mazzucco Luca, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Imagery: che cos’è

Kosslyn, Ganis e Thompson (2001) definiscono l’ imagery come una “esperienza quasi-sensoriale e quasi-percettiva che avviene in assenza di stimolo esterno”, un’esperienza che, oltre all’emergere delle immagini mentali, permette la generazione di correlati emotivi e cognitivi, tanto da risultare “simil-esperienziale” (Conway, 2001).

Già nel 1929, Einstein osservava “L’immaginazione è più importante della conoscenza”, mentre Beck (2014) ha affermato “Nello sviluppare una teoria cognitiva della psicopatologia mi sono inizialmente basato sulla capacità dei miei pazienti di condividere le proprie percezioni interne, attività decisamente favorita dall’ imagery”.

Due aspetti risultano fondamentali nell’uso della tecnica immaginativa con i pazienti in terapia:

  • individualizzare le caratteristiche della tecnica in funzione delle peculiarità del paziente
  • porre estrema attenzione alle possibili conseguenze iatrogene di un uso errato della tecnica stessa, come ad esempio l’involontaria creazione di immagini minacciose.

 

Dissociazione strutturale della personalità

Secondo la quinta edizione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM-5), i criteri diagnostici caratteristici della presenza di un Disturbo dissociativo dell’identità (DID), riguardano la “presenza di due o più stati di personalità distinti” che portano a “una marcata discontinuità del senso di sé e della consapevolezza delle proprie azioni, accompagnata da correlate alterazioni dell’affettività, del comportamento, della coscienza, della memoria, della percezione, della cognitività e/o del funzionamento senso-motorio” e “ricorrenti vuoti nella rievocazione di eventi quotidiani, di importanti informazioni personali e/o di eventi traumatici non riconducibili a normale dimenticanza”.

Sempre il DSM-5 riporta: “Il disturbo dissociativo dell’identità è associato a esperienze opprimenti, eventi traumatici e/o abusi nell’infanzia … l’abuso interpersonale fisico e sessuale è associato a un maggior rischio di disturbo dissociativo e sottolinea che la gravità del DID aumenta in presenza di “Abusi continuativi, nuovi traumi nel corso della vita, comorbilità con disturbi mentali ed età del soggetto”.

Ancora il DSM-5 riporta: “Molti individui con disturbo dissociativo dell’identità manifestano un disturbo in comorbilità. Se non vengono valutati e trattati specificatamente per il disturbo dissociativo, questi individui spesso ricevono trattamenti prolungati solo per la diagnosi in comorbilità, con una ridotta risposta generale al trattamento e conseguenti demoralizzazione e disabilità”. In linea con tale posizione, Van der Hart, Steele e Boon (2011) affermano: “I disturbi in comorbilità al DID, tipicamente si risolvono quando si chiarisce il loro collegamento con la sottostante dissociazione della personalità”.

Prendendo spunto dal lavoro di Pierre Janet (1907) e in sintonia con le indicazioni presenti nel DSM-5, Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) propongono il concetto di “ Dissociazione Strutturale della Personalità” e ipotizzano che essa derivi da un “deficit delle capacità integrative” del soggetto, dal quale avrebbero origine “parti dissociate separate da barriere psicobiologiche, che impediscono la comunicazione tra di esse”.

Ford (2009) propone la dissociazione come un tentativo di mantenere la propria integrità che avviene abbandonando la self-regulation a favore della self-preservation.

In pratica, il soggetto che si trova ad affrontare un’esperienza talmente “minacciosa” da non poter essere integrata, va incontro alla formazione di parti dissociate della propria personalità. Si tratta di una strategia che permette il superamento momentaneo del trauma, ma che spesso si cronicizza e si trasforma in una “strategia di sopravvivenza, una possibilità di andare avanti nella vita quotidiana, evitando di venire schiacciati da esperienze, presenti o passate, insopportabili” (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006).

Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) ipotizzano due tipi distinti di parti dissociate di personalità:

  • “apparently normal part of the personality” (ANP), funzionante nella quotidianità, in grado di comunicare con l’ambiente in cui il soggetto vive, ma che evita ogni possibile collegamento al trauma;
  • “emotional part of the personality” (EP), bloccata al tempo del trauma, ancora alle prese con la necessità di difendersi. Si attiva quando il soggetto incontra “trigger” che richiamano l’esperienza traumatica, prende il controllo della persona e la spinge a rispondere alle minacce ed ai pericoli, reali o temuti, usando le stesse modalità che erano state utilizzate durante l’evento traumatico.

Questo spiegherebbe perché “le persone con disturbi della dissociazione presentano problematiche che interferiscono con l’essere presenti. Solo quando il passato sarà dietro di loro, potranno essere presenti” (Van der Hart, Steele & Boon, 2011).

I sintomi della dissociazione possono essere ricondotti a quattro gruppi fondamentali (Van der Hart, Steele, Boon & Brown, 1993):

  • sintomi negativi (perdita di funzionalità, come afonia, amnesia, paralisi, ecc.)
  • sintomi positivi (intrusivi, come flashback o il “sentire delle voci”)
  • psicoformi (come amnesia, voci, ecc.)
  • somatoformi (come anestesia, tic, sensazioni corporee legate al trauma, ecc.)

 

Anp, Ep e reti neurali

Vari studi eseguiti su pazienti traumatizzati esposti a stimoli che rievocavano le loro esperienze traumatiche (Liberzon & Phan, 2003; Schmahl, Elzinga & Vermetten, 2008) hanno rilevato l’attività di diverse aree cerebrali coinvolte nell’attivazione legate al riconoscimento e al controllo delle emozioni. In particolare:

  • strutture corticali (corteccia prefrontale mediale e cingolo anteriore)
  • strutture sottocorticali (amigdala ed insula)

Studi neurali volti a valutare le singole parti dissociate, ANP e EP (Nijenhuis & Den Boer, 2007), hanno rilevato che:

  • l’attivazione corticale si verifica soprattutto quando il soggetto si trova in “modalità ANP”
  • l’attività sottocorticale è invece caratteristica della “modalità EP”

Si tratta di risultati che confermerebbero la teoria della dissociazione strutturale di personalità di Van der Hart e collaboratori (2006), dimostrando come i soggetti, quando si trovano in “modalità ANP”, non riconoscevano l’evento come rilevante per loro (lo avevano cioè dissociato), mentre rivivevano le emozioni traumatizzanti quando si trovavano in “modalità EP”, ma non riuscivano a dare un significato alla loro esperienza emotiva.

 

Dissociazione e intervento terapeutico trifasico

Secondo numerosi autori (Brown, Scheflin & Hammond, 1998; Chu, 2011; Courtois, 2010; International Society for the Study of Trauma and Dissociation, 2011; Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006) l’intervento terapeutico riguardante i PTSD (semplici o complessi), i  Disturbi da stress estremo non altrimenti specificati (DESNOS), il Disturbo borderline di personalità correlato a traumi e il Disturbo dissociativo dell’identità (DID), deve seguire 3 fasi specifiche, che si susseguono in un processo a spirale, nel quale le diverse fasi possono alternarsi e riprendere da capo. Ad esempio è molto probabile che in fase 3 emergano nuovi ricordi traumatici che richiedono di ripartire dalla fase 1 del trattamento.

 

Imagery e intervento trifasico nella dissociazione della personalità

I pazienti che presentano disturbi dissociativi complessi sono caratterizzati da una grande capacità di coinvolgimento immaginativo e tutte le parti dissociative della personalità sono spesso assorbite in esperienze di immaginazione. Tale capacità, secondo vari autori (Ogden, Minton & Pain, 2006; Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006), rappresenta un’importante opportunità terapeutica. L’ imagery assume infatti un ruolo centrale in ogni singola fase dell’intervento, permettendo a ANP e EP di entrare in contatto tra di loro e con il mondo esterno, all’interno di un contesto “sicuro” come quello terapeutico.

 

Imagery e fase 1

Nella fase 1 del trattamento dei disturbi dissociativi di personalità, l’obiettivo riguarda:

  • la messa in sicurezza del paziente
  • la sua stabilizzazione
  • la riduzione della dissociazione
  • lo sviluppo di skill che gli permettano di affrontare più efficacemente la vita di tutti i giorni.

Una volta garantita la sicurezza fisica e psicologica del paziente, inizia un lento processo di ri-stabilizzazione in cui ci si focalizza sul raggiungimento di numerosi obiettivi, come ad esempio la gestione del sonno, il controllo degli impulsi, la funzione riflessiva, la gestione delle energie fisiche e mentali, le capacità relazionali.

Un aspetto centrale di tale fase terapeutica, in cui il ruolo dell’ imagery risulta fondamentale, è rappresentato dalla identificazione empatica delle parti di personalità dissociate e dalla costruzione di una reciproca relazione cooperativa. Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) evidenziano come, dal momento in cui i pazienti realizzano tale suddivisione della propria personalità, vi sia una sensibile riduzione dei sintomi ansiosi.

Il lavoro del terapeuta, in tale fase, è focalizzato essenzialmente sulla relazione con la ANP che avrà il compito di interagire con le EP. In tal modo, i risultati riportati da Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) dimostrano come i pazienti stessi riescano a individuare l’immagine delle loro EP, che riguardano, nella grande maggioranza dei casi, parti correlate agli eventi traumatici come, ad esempio:

  • Parti giovani e bambine (tipiche di traumi nell’infanzia), che vivono nell’età del trauma, esprimono sentimenti come solitudine, dipendenza, consolazione, sfiducia, rifiuto e possono essere descritte dai pazienti come “un bimbo piangente rannicchiato in un angolo”
  • Parti che aiutano, descritte come somiglianti a una persona gentile del passato, tentativo del soggetto di consolare e confortare se stesso
  • Parti che imitano l’aggressore, descritte come somiglianti a persone maltrattanti del passato, caratterizzate da rabbia e collera e vissute da altre parti come terrorizzanti
  • Parti che provano vergogna, descritte ad esempio come timorose di farsi vedere, concentrate su un senso di colpa che le fa sentire responsabili del trauma.

Un secondo passaggio, in cui l’ imagery è centrale in fase 1, riguarda la possibilità di fornire alle diverse EP uno speciale equipaggiamento di protezione (Van der Hart, Steele & Boon, 2011). Il terapeuta invita il paziente ad immaginare un negozio in cui sono esposti vari tipi di protezione, capaci di difendere da tutti i possibili stressor. Ogni EP può scegliere e indossare la propria specifica protezione e tenerla a disposizione in situazioni future ri-attivanti.

A questo punto, ogni EP deve essere protetta dal mondo esterno e, a volte, dalle altre parti dissociate. La tecnica del “luogo sicuro” permette alla ANP di sviluppare, insieme alle diverse EP, delle specifiche aree protette. In previsione di eventi minacciosi (esterni o interni) l’ANP informerà la EP che potrebbe essere coinvolta, invitandola preventivamente a trovare riparo. Sarà la stessa ANP a comunicare che il pericolo è passato e aiutare la EP a tornare allo scoperto. Il terapeuta guida il paziente a identificare il proprio (o i propri) luoghi sicuri, lasciandolo libero di immaginare ogni più piccolo particolare (es. un’isola deserta, un bunker, una casa su un albero, …). Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) sottolineano il ruolo strategico che il “luogo sicuro” può assumere con pazienti che pensano al suicidio o ad azioni autolesive. In questo caso la ANP invita la EP fonte dell’acting-out a restare nella propria area di sicurezza fino all’incontro con il terapeuta.

Altro utilizzo terapeutico dell’ imagery in fase 1 riguarda l’individuazione, da parte del paziente, di un “contenitore in cui custodire le memorie traumatiche” (una cassaforte, un file dati, un videotape …), il cui accesso potrà avvenire unicamente tramite una doppia chiave (o password) in possesso del paziente e del terapeuta ed accessibile quindi solamente durante la seduta terapeutica.

Il momento centrale della fase 1 riguarda la possibilità di far incontrare, accettare e cooperare le diverse parti. Fondamentale in questo passaggio risulta la capacità del paziente di immaginare un “meeting place”, dove tutte le parti convergono e possono negoziare i diversi obiettivi e i vari modi per raggiungerli in modo sicuro. Anche in questo caso sarà l’ANP a coordinare gli interventi e a interfacciare la relazione bidirezionale tra terapeuta ed EP.

 

Imagery e fase 2

Nella fase 2 del trattamento dei disturbi dissociativi di personalità, l’obiettivo riguarda l’integrazione delle memorie traumatiche, processo che deve prevedere due momenti ben definiti (Van der Hart, Nijenhuis & Steele, 2006):

  1. Sintesi, che comporta la condivisione tra ANP(s) e EP(s) dei principali elementi riguardanti l’evento traumatico e richiede la rievocazione narrativa autobiografica (simbolico verbale) di quanto successo
  2. Realizzazione, relativa alla collocazione temporale dell’evento all’interno della propria storia di vita

Tale processo permette al soggetto di realizzare che il momento attuale è diverso da quello del trauma, ma anche che il trauma è parte della sua vita e che è quindi naturale che vi siano alcune conseguenze.

Anche in questo caso, l’ imagery costituisce uno strumento fondamentale a disposizione del terapeuta, che inviterà le parti dissociate pronte ad affrontare l’evento traumatico ad incontrarsi in uno specifico “meeting place”, mentre le altre parti, che necessitano ancora di maggiore tempo per avvicinarsi ai ricordi traumatici, resteranno nei loro luoghi sicuri o potranno iniziare a partecipare attraverso una finestra nascosta, dietro una barriera protettiva, o ad ascoltare tramite speciali interfoni, ma sempre in condizioni di sicurezza. Alla fine di ogni incontro, tutte le parti potranno tornare nei loro luoghi sicuri ed eventualmente confortarsi a vicenda.

Si può trattare di un percorso lungo e laborioso, dove ogni parte dissociata diventa sempre più integrata nel gruppo e oggetto dei processi di sintesi e realizzazione e dove la capacità immaginativa del paziente deve essere continuamente variata e modulata verso lo scopo finale. Uno stralcio tratto da Van der Hart, Nijenhuis e Steele (2006) può illustrare la procedura di fase 2: “Steve aveva cinque EP, una delle quali era estremamente terrorizzata dall’idea di ricordare il brutale abuso fisico. Il terapeuta invitò Steve, come ANP e le altre quattro EP a condividere i ricordi dolorosi, mentre l’EP spaventata andò nel suo luogo sicuro a prova di rumore. La sintesi guidata migliorò il livello mentale di tutte le parti coinvolte, che furono in seguito capaci di aiutare l’EP spaventata a diventare più orientata sul presente e a realizzare gradualmente cosa era successo”.

 

Imagery e fase 3

In alcuni casi, i processi di Sintesi e Realizzazione delle memorie traumatiche, eseguiti in fase 2, possono avere già favorito la re-integrazione della personalità del paziente (tutte le parti si fondono in un’unica personalità), obiettivo della fase 3. Ma, quasi sempre, tale obiettivo richiede tempi piuttosto lunghi con un continuo lavoro di condivisione. Anche in questo caso, mediante la tecnica di imagery il terapeuta può guidare il paziente a eseguire il processo di fusione, invitandolo a immaginare le parti che si abbracciano o danzano insieme, come nel caso riportato in Van der Hart (2012): “Mary who loved swimming imagined that the parts ready to become one simultaneously dived into a swimming pool, then under the surface swimming toward and embracing each other. When they emerged from the water, they had become one”.

La fase 3 include, spesso, anche la necessità di prendere atto di quanto di doloroso è accaduto. Van der Hart (2012) sottolinea l’utilità dell’ imagery nell’aiutare il paziente ad affrontare tale passaggio, ad esempio “immaginando un rituale solenne di addio al proprio perpetratore”.

Sempre in fase 3, il paziente deve affrontare anche il ritorno alla “normalità”, al dover affrontare situazioni critiche. Tramite l’immaginazione guidata, il terapeuta può aiutare il soggetto a visualizzarsi in tali situazioni e ad affrontarle scoprendo nuove possibilità e nuove abilità (Van der Hart, 2012).

Esposizione a videogiochi violenti e aggressività: un legame smentito

In uno studio recente, pubblicato sulla rivista “Frontiers in Psychology”, il Dr. Gregor Szycik, della “Hannover Medical School”, e colleghi, hanno investigato gli effetti a lungo termine della pratica di videogiochi violenti.

 

Il collegamento tra l’esposizione a videogiochi violenti e l’aggressività: gli studi

Il collegamento tra l’esposizione alla violenza tramite film o videogiochi violenti e l’aumento di aggressività e violenza nella vita reale, è stato a lungo discusso e analizzato, fin da quando questa tipologia di mezzi d’intrattenimento ha iniziato ad esistere. Benché molti dei collegamenti ipotizzati siano derivati da forme di “isteria” dell’opinione pubblica, questa questione ha realmente riguardato numerosi studi scientifici. Studi precedenti hanno dimostrato che i soggetti che giocano frequentemente a videogiochi violenti, potrebbero essere “desensibilizzati” riguardo a stimoli emozionali come la violenza, e dimostrerebbero una minore empatia e un’aggressività più marcata.

Tuttavia, la maggioranza di questi studi ha indagato solo gli effetti a breve termine della pratica di videogiochi violenti; in essi i soggetti giocavano subito prima o durante l’esperimento. Vi sono effettivamente pochi studi che si sono concentrati, invece, sugli effetti a lungo termine.
In uno studio recente, pubblicato sulla rivista “Frontiers in Psychology”, il Dr. Gregor Szycik, della “Hannover Medical School”, e colleghi, hanno investigato gli effetti a lungo termine della pratica di videogiochi violenti.
[blockquote style=”1″]La domanda di ricerca è partita dal fatto che la popolarità e la qualità di questi videogiochi stanno aumentando e, in secondo luogo, ci stiamo confrontando ogni giorno con un numero sempre maggiore di pazienti che utilizzano i videogiochi in maniera problematica e compulsiva [/blockquote]sostiene Szycik.

Nel suo studio, i soggetti erano tutti uomini, poiché la maggior parte delle persone che giocano a videogames violenti e mettono in atto comportamenti aggressivi, sono uomini. Tutti i giocatori dovevano aver giocato ad un videogioco di sparatutto in prima persona, come “Call of Duty” o “Counterstrike”, per almeno due ore al giorno nei quattro anni precedenti allo studio, anche se la media effettiva dei partecipanti era di quattro ore al giorno. I giocatori erano confrontati con un gruppo di controllo che non aveva esperienza con videogiochi violenti e che, in generale, non giocava regolarmente ai videogiochi.

Per evitare gli effetti a breve termine della pratica di gioco, i giocatori dovevano astenersi dal gioco per un minimo di tre ore prima dell’inizio dell’esperimento, anche se la maggior parte di essi non ha giocato per un tempo maggiore.
Per valutare l’empatia e l’aggressività dei soggetti, i partecipanti hanno risposto a questionari psicologici. Dopodiché, mentre erano sottoposti ad una risonanza magnetica, era mostrata loro una serie di immagini per provocare delle risposte emozionali ed empatiche. Quando apparivano le immagini, era loro chiesto come si sarebbero potuti sentire nelle situazioni raffigurate.
Utilizzando le scansioni ottenute tramite l’fMRI, i ricercatori hanno misurato l’attivazione di regioni cerebrali specifiche, per confrontare le risposte di giocatori e non giocatori.

 

Risultati: non emergono differenze in termini di aggressività ed empatia tra chi gioca ai videogiochi e chi no

I questionari non hanno rilevato differenze nelle misure di aggressività ed empatia tra giocatori e non giocatori. Questo risultato è stato confermato dai dati prodotti dall’fMRI, che hanno dimostrato che entrambi i gruppi, giocatori e non giocatori, avrebbero risposte neurali simili alle immagini elicitanti emozioni. Questi risultati hanno sorpreso i ricercatori, poiché sono risultati essere contrari alla loro ipotesi di partenza, e suggeriscono che gli effetti negativi dei videogiochi violenti sulla percezione o sul comportamento potrebbero essere di breve durata.

I ricercatori suggeriscono che potrebbero essere necessarie altre ricerche.
[blockquote style=”1″]Speriamo che lo studio incoraggi altri ricercatori a focalizzare la propria attenzione sui possibili effetti a lungo termine dei videogiochi sul comportamento umano[/blockquote] sostiene Szycik.

[blockquote style=”1″]Questo studio ha utilizzato immagini elicitanti emozioni. Il passo successivo potrebbe essere quello di analizzare dati raccolti con stimolazioni più valide, come l’utilizzo di video per provocare risposte emozionali.[/blockquote]

Utilizzo del disegno nel percorso diagnostico e terapeutico nell’età evolutiva

L’utilizzo del disegno come mezzo per comprendere meglio il mondo del bambino ha una lunga e articolata tradizione; si parte da Tardieu nel 1872 che fu tra i primi a studiarli, passando per Freud e Jung che vi leggevano delle conferme alle loro teorie (Lis, 1998).

Valentina Lucca, OPEN SCHOOL  “Studi Cognitivi” di Bolzano

Alessandro Failo

 

 

Sappiamo tutti che il primo dono che i bambini portano a casa dall’asilo per i genitori sono i loro scarabocchi che vengono attaccati amorevolmente sul frigo di genitori orgogliosi. Il disegno però, oltre che delicato ricordo, può essere considerato anche una porta privilegiata per il mondo interno del bambino. L’utilizzo del disegno come mezzo per comprendere meglio il mondo del bambino ha una lunga e articolata tradizione; si parte da Tardieu nel 1872 che fu tra i primi a studiarli, passando per Freud e Jung che vi leggevano delle conferme alle loro teorie (Lis, 1998).

Nel 1926 Florence Goodenough, creò uno schema di codifica che viene tuttora utilizzato e che correlava le caratteristiche del bambino ad un quoziente intellettivo; ella infatti sostenne che il disegno della figura umana acquisisce sempre più particolari man mano che il bambino diviene più maturo dal punto di vista cognitivo (Lis, 1998).

Da allora si sono susseguite molte interpretazioni e diversi metodi di scoring sia nel disegno libero – ad es. la tecnica dello scarabocchio di Winnicott (Günter, 2008) che nelle varie modalità strutturate (ad es. disegno della figura umana, della famiglia, dell’albero, della casa).

Il valore proiettivo dei disegni dei bambini per misurare l’intelligenza e i disturbi psicologici o emotivi è stato simultaneamente supportato e cambiato nel corso degli anni (Gross e Hayane, 1999).

Fasi del disegno

Il bambino attraversa diversi stadi nell’avvicinamento all’espressione grafica, secondo una prospettiva che segue le fasi indicate dalla teoria piagetana (Malchiodi, 2000).

Il primo stadio è quello degli scarabocchi, che accompagnano il bambino dall’esplorazione sensomotoria, dove tutto è potenzialmente una superficie disegnabile, e si prolunga fino alla formazione del pensiero simbolico che arriva intorno ai 3 anni.

Cosa possiamo osservare nel bambino che disegna i suoi primi scarabocchi?

-L’impugnatura, che viene acquisita intorno ai 3 anni,

-il punto di partenza da dove parte a disegnare e che secondo alcune interpretazioni potrebbe indicare una maggiore e minore inibizione nell’affrontare la realtà,

-lo spazio: quanto ne viene occupato,

-la pressione che ci comunica la carica vitale e la sua capacità di affrontare gli avvenimenti.

Il secondo stadio è quello delle forme, che si realizza intorno ai 3 e 4 anni. In questa fase i bambini cominciano ad attribuire un significato di storie ai loro disegni; in questo senso possiamo avere bambini più interessati all’aspetto grafico e altri più interessati alla narrazione (Gardner, 1980 in Serraglio, 2011).

In questo stadio si possono notare le preferenze per alcune forme rispetto ad altre e l’attribuzione di diversi vissuti che verrebbero associati alla prevalenza di alcune linee grafiche rispetto ad altre.

Nel terzo stadio, che corrisponde al periodo preoperatorio (4-7 anni) viene approfondito e migliorato il disegno della figura umana nella lettura dei quali significati si rimanda al test che presuppone questo compito.

Nel quarto stadio (lo schema visivo), tra i 6 e i 9 anni migliorano le capacità grafiche, e si sviluppano schematismi e simboli; nello stadio successivo (il realismo) il bambino cerca di riprendere la realtà nel suo disegno.

Tipologia di studi sul disegno

Al di là di quelle che sono le varie fasi di acquisizione, è utile fare chiarezza su quali siano i quadri concettuali dentro i quali si muovono gli studi psicologici sul disegno. Bombi e Tambelli (2001) hanno identificato tre ampi filoni tradizionali:

  1. a) la ricerca tra disegno e stadi di sviluppo del pensiero,
  2. b) disegno del bambino come arte,
  3. c) l’indagine delle relazioni tra disegno e assetto della personalità.

Il primo filone, che possiamo considerare all’interno della corrente di pensiero stadiale piagetiana, tenta di comprendere soprattutto le regolarità evolutive del disegno, inteso come mezzo di rappresentazione che si muove in termini di stadi, quindi al crescere dell’età si possono riscontrare differenze via via più adeguate di rappresentazione. Il bambino quindi non riproduce esattamente la realtà, ma deve utilizzare la mediazione di un “modello interno” che è vincolato a sua volta alle sue capacità intellettuali che quindi cambiano da un’età all’altra. Il disegno così concepito, diventa dunque un indicatore della capacità cognitiva del bambino.

Il secondo approccio, si richiama alla teoria della Gestalt in cui vengono sottolineate le caratteristiche innate di alcuni principi estetici (simmetria e buona forma). Questa visione, a differenza di quella stadiale, considera alcuni “difetti” del disegno elementi in sè significativi positivi, come ad esempio il cercare di aumentare la rilevanza di un particolare (una testa grande) o rendere più efficace l’azione in corso (la mano che raccoglie qualcosa).

Nel terzo ambito, quello dell’indagine della personalità, il disegno è inteso come rivelatore della personalità infantile, quindi utilizzabile sia ai fini valutativi che a quelli terapeutici. L’attività grafica, all’interno della prospettiva psicoanalitica è quindi spontanea e, insieme al gioco, è per il bambino una modalità utile per narrare gli aspetti emotivi di se stesso. Sono perciò strumenti di espressione della sfera inconscia al pari del linguaggio, delle libere associazioni e dei sogni per l’adulto.

Limiti e perplessità

Lo status scientifico dei test grafici, inteso come attendibilità e replicabilità, è ancora oggi ampiamente dibattuto (Gross & Hayne H, 1998; Motta, Little, Tobim, 1993).

Tuttavia esiste un’evidente discrepanza tra l’ambito della ricerca e quello della pratica clinica: se le proprietà psicometriche indicano che non hanno una buona generalizzibilità e validità, dall’altra l’utilizzo da parte dei clinici per avvalorare altre ipotesi è ancora molto popolare (Lilienfield et al., 2000; Roberti, 2013).

Approccio psicodinamico al disegno

All’interno dell’ottica della corrente psicodinamica, il disegno, seppur rappresentando soggetti diversi, è una tecnica proiettiva che ha avuto grande popolarità partendo dagli anni ’50 e ’60.

È da sottolineare che la difficoltà nel poter dare un giudizio sulla validità di questo tipo di strumenti diagnostici deriva dal fatto che la maggior parte degli studi sono stati condotti da clinici di stampo psicoanalitico o da ricercatori empirici molto critici, quindi appartenenti a fazioni diametralmente opposte (Lis ,1998).

La teoria di attribuire un significato proiettivo al disegno parte dall’ osservazione fatta dalla Goodenough secondo la quale oltre a poter ricavare un quoziente di età mentale, dal disegno del bambino si possono anche intravedere dei tratti di personalità. A perseguire questa ipotesi  furono in particolare Buck (1948) e Machover (1949).

L’assunto teorico di base è che il disegno della figura umana rappresenta l’espressione di sé, o del corpo, nell’ambiente, e l’immagine composita che costituisce la figura disegnata è intimamente legata al Sé in tutte le sue ramificazioni” (Machover, 1949, 1951 in Lis,1998, p.43).

Anche secondo Hammer (1958), il disegno della figura umana riflette l’autostima e l’organizzazione di sé ma “per quanto riguarda i bambini è necessario ricordare che essi tendono a rappresentare il loro vissuto attuale e, a seconda della fase evolutiva, lo stato delle loro identificazioni con le figure genitoriali, intorno a cui ruota il mondo affettivo” (Piperno e Lucarelli, 2008 in Roberti, 2013 p.25)

Il disegno quindi assumerebbe dei significati che aiuterebbero a leggere la struttura psicologica del bambino.

L’approccio cognitivista al disegno

Se proviamo ad osservare il disegno come una forma di problem solving possiamo inquadrarlo all’interno di una prospettiva più “cognitiva”, dando però meno importanza alla concezione stadiale di sviluppo e considerando il disegno guidato parzialmente da una progettualità consapevole (Pinto e Bombi, 1999; Davis, 1983; in Bombi e Tambelli, 2001).

Bombi e Tambelli (2001) sottolineano che in questo approccio “è cresciuto l’interesse per le circostanze che facilitano il disegnare, così come la consapevolezza che ogni disegno è il risultato congiunto del livello evolutivo del bambino, del messaggio che egli intende affidare al foglio e delle circostanze in cui il disegno viene disegnato” (Bombi e Tambelli, 2001, p.9).

I principali test proiettivi grafici utilizzati dagli psicologi italiani

1) Test della figura umana

Nel test della figura umana viene richiesto al bambino di disegnare una figura umana (la consegna differisce sensibilmente in base a quale autore si intende seguire per la codifica) ed è un disegno molto utilizzato nell’ambito clinico da psicologi anche di diverse scuole. Dopo che il bambino ha disegnato la prima figura umana,  a volte, gli viene chiesto di disegnarne una seconda, di sesso opposto. Non costituisce di per sé uno strumento diagnostico di personalità e tanto meno uno strumento per valutare l’intelligenza del bambino.

Quello che si può valutare nel disegno è il grado di evoluzione intellettiva in riferimento alla completezza del disegno, mettendo in relazione lo sviluppo psicomotorio con quello di funzioni specifiche del sistema nervoso (Roberti, 2013). Oltre al disegno, viene proposta al bambino una breve inchiesta che aiuta il clinico a contestualizzare il disegno  e diviene conferma delle caratteristiche che vi sono disegnate.

Alcuni clinici preferiscono lasciare al bambino l’utilizzo della gomma, perché soprattutto in ambito cognitivo, viene osservato il processo attraverso cui il bambino giunge al disegno mentre in ambito psicodinamico, la gomma non è permessa.

Un’interessante metodo di scoring per l’analisi del disegno della persona è il DAP:SPED, proposto da Naglieri, McNeish, & Bardos (1991) che insieme a quello di Koppitz (1966) più conosciuto in Italia rispetto al precedente, hanno dimostrato avere una maggior affidabilità. I 51 item del DAP:SPED che aiutano ad analizzare il disegno possono essere utilizzati nei disegni di ragazzi dai 6 ai 17 anni ed è un metodo molto utilizzato nei paesi anglossassoni.

Secondo Naglieri, la tecnica del disegno della figura umana fornisce una misura della capacità non verbale utilizzando un formato divertente e utile per la valutazione dei bambini piccoli e senza la componente di velocità di alcuni dei test WISC–R.

 

2) Test della famiglia

Il Disegno della Famiglia viene considerato anch’esso un test proiettivo  grafico che permette di indagare la rappresentazione e l’interazione delle figure famigliari secondo la visione del bambino. Anche qui la consegna varia sensibilmente in base al sistema di codifica che si sceglie di seguire ma in generale viene chiesto di disegnare “una“ famiglia laddove la scelta di disegnare la propria o una inventata, o una estranea acquisisca già di per sé un significato.

Il disegno viene poi affiancato da delle domande che aiutano a capire anche i significati e le emozioni associate ai personaggi del disegno.

Una variabile particolare del disegno della famiglia è il disegno della famiglia cinetica (Kinetic Family Drawings K-F-D) sviluppato da Burns e Kaukman (1970) e ha come caratteristica quello di invitare a disegnare la propria famiglia mentre compie un’azione, dando così “maggiore spazio alla proiezione rispetto al disegno statico della famiglia, poiché induce a  rappresentare particolari dell’ambiente fisico e naturale in cui vive e da questi elementi e dal tipo di azione che ogni personaggio compie si possono ricavare informazioni più precise sul modo in cui l’autore del disegno percepisce e si pone in relazione con ogni componente della famiglia” (Roberti, 2014, p.16).

 

3) Test dell’albero

Ultimo test proiettivo grafico di cui vogliamo parlare è il test dell’albero, ideato da Jucker ed elaborato da Koch (1949, tr.it 1958). La consegna data al bambino è quella di disegnare su un foglio un albero da frutto, e in secondo luogo si chiede di disegnare un albero totalmente diverso dal primo.

L’ipotesi alla base di tale metodo è che l’albero rimandi simbolicamente all’uomo per l’analogia con la posizione eretta per cui vi sarebbe un’ identificazione con la persona che lo disegna. Questo test diviene quindi un utile complemento, al disegno della persona: in questo modo unendo i due proiettivi si possono ottenere delle inferenze maggiori.

 

Conclusioni

Come abbiamo visto in queste righe, gli approcci al disegno possono essere molto diversificati e questo pregiudica anche il tipo di significati che possono essere colti nei tratti grafici.

Siccome però, il disegno è uno strumento molto utilizzato e anche apprezzato dai bambini perché rivolge loro una richiesta che si sentono in grado di esaudire, riteniamo importante condividere alcuni elementi che, anche senza indagare i significati proiettivi, possono essere utili nell’assessment dell’età evolutiva.

  • Dimensione rispetto al foglio che riflette l’esplorazione nello spazio
  • Pressione: livello di energia presente nel tratto
  • Tratto: a seconda di un tratto più o meno lungo si potrà notare il comportamento del bambino
  • Numero di dettagli
  • Posizione del disegno sul foglio
  • Movimento
  • Ombreggiatura
  • Presenza di uno sfondo
  • Utilizzo dei colori.

Calo delle nascite: frutto dell’antica modernità

Il calo delle nascite, che secondo l’ISTAT ha toccato nuove profondità nel 2016, ha un’origine meno recente di quel che si potrebbe credere. Il ritardo del matrimonio e la pianificazione delle gravidanze sono frutti della modernità, ma non della modernità recente e consumistica, ma di quella più antica iniziata già nel seicento in Olanda e poi proseguita nei secoli successivi in Inghilterra, in Europa e nel mondo.

Articolo di Giovanni Maria Ruggiero, una prima versione è stata pubblicata su Linkiesta, 11 marzo 2017

 

Una modernità antica, che precede la rivoluzione industriale e che è stata chiamata la “rivoluzione industriosa” dall’economista olandese Jan De Vries. Già allora si piantarono i semi che oggi diradano le nascite. In quei secoli si diffuse una visione attiva della vita che poneva il lavoro e non la natura al centro della vita dell’uomo e della donna, che proponeva una gestione razionale e calcolata e non istintiva del tempo, che promuoveva un aumento dei consumi e della produzione di beni voluttuari grazie alla invenzione di nuove attività lavorative di tipo artigianale che andavano al di là della produzione agricola di cibo.

Erano soprattutto le donne a intraprendere queste nuove attività lavorative, a trasformare le antiche mansioni del cucito e del ricamo in una prima industrializzazione artigianale e familiare, in una sorta di proto-femminismo della prima modernità. Si diffuse anche una propaganda moralizzatrice –intenzionalmente religiosa ma dagli effetti laici e secolari, come vedremo- contro l’alcolismo e in favore dell’igiene, dell’autocontrollo soprattutto sessuale, della cura dei figli e del risparmio.

L’autocontrollo sessuale della prima modernità fu il primo passo verso l’odierna diminuzione delle nascite. Non fu affatto frutto di una pressione sociale dall’alto, non fu affatto ispirata dalle istituzioni religiose e aristocratiche dell’antico regime. Papi, re e imperatori, preti e funzionari erano stati sempre disinteressati alle abitudini sessuali dei loro sudditi e fedeli e condividevano con loro un libertinismo spontaneo e naturale. Un po’ iniziarono i pastori luterani e calvinisti a esercitare un invito all’autocontrollo che comprese anche l’area sessuale.

Ma fu soprattutto la gente, la gente comune che si astenne sempre di più, iniziando la lunga risacca di quasi quattro secoli di denatalità che oggi raggiunge nuovi abissi. E perché iniziò ad astenersi? Suonerà strano al nostro orecchio sessualmente liberato, ma i primi moderni si astennero proprio per essere più liberi. Liberi dalla schiavitù della prole infinita, liberi di non diventare proletariato schiavo della povertà, liberi di lavorare e di realizzarsi nel lavoro e di produrre i primi beni di consumo, le prime comodità: alcolici, vestiti, mobili, sedie, pipe e sigari, piatti e posate, candele e poi lampade, finestre, infissi e serramenti, modanature, specchi, tovaglie, argenteria varia e varia chincaglieria, tappeti e tende, zuccheriere e caffettiere e tanti, tanti altri oggetti quotidiani che resero la vita più comoda e più industriosa come mai prima, appunto.

Astenersi dal sesso e fare meno figli significava poter pianificare meglio la propria vita, programmare una carriera lavorativa e costruirsi una vita individuale e soprattutto individualistica. Questa prima diminuzione delle nascite passò inosservata. Perché? Perché al tempo stesso migliorano enormemente le condizioni igieniche e quindi crollò la mortalità infantile, cosicché per un paio di secoli la popolazioni occidentali continuarono a crescere, malgrado il diminuire delle nascite. Meno nati, ma anche meno morti tra i bambini.

Nel frattempo le ondate dello sviluppo industriale si susseguivano. Alla rivoluzione industriosa seguì quella industriale vera e propria, poi le successive rivoluzioni tecnologiche e delle comunicazioni: motore a vapore, motore a scoppio, telegrafo, telefono, e il treno e produzione industriale di massa. Cresceva l’alfabetizzazione, l’acculturazione e la consapevolezza individuale di massa.

E a questo punto si aprì una strana parentesi. Quale parentesi? Nel tardo ottocento ci fu un intervallo neo-patriarcale, curiosamente da molti attribuito alla Chiesa Cattolica, che invece c’entrava poco o nulla. C’entrava invece –suona ancora più strano- la modernità borghese sempre più laica e secolarizzata. Dopo l’industriosità artigianale delle donne e dopo lo sfruttamento industriale del lavoro minorile e femminile del primo ottocento esplose una nuova prosperità pre-consumista che risospinse momentaneamente le donne in casa per una cinquantina d’anni, fino alla prima guerra mondiale almeno. Può sembrare una regressione, ma era invece frutto anche di una inaudita prosperità economica che consentiva alla famiglia borghese di vivere –e vivere bene- col solo lavoro del capofamiglia.

Ma non si trattava solo di benessere, ma di una nuova cultura emotiva e psicologica, frutto di una nuova consapevolezza e conoscenza dell’infanzia e delle cure che occorre dare ai bambini. Trascurati e perfino maltrattati per millenni, i bambini furono scoperti nell’ottocento. In quel secolo fu inventata l’infanzia come età debole e vulnerabile da proteggere.

Nei secoli precedenti l’infanzia era stata protetta solo con il numero, il grande numero dei figli fatti di cui pochi raggiungevano l’età adulta. Nell’ottocento –in cui malgrado le apparenze i figli diminuiscono ma riescono finalmente a sopravvivere quasi tutti al massacro della mortalità infantile – i fanciulli per la prima volta sono protetti con la cura e l’amore.

I romanzi di Dickens diffondono una nuova sensibilità verso i bambini e le bambine maltrattate. Mentre nel Satyricon di Petronio si parla con noncuranza dello schiavetto usato dai protagonisti per i loro giochi sessuali (ci avete mai fatto caso, a quel bambino schiavo sballottato come un oggetto per pagine e pagine? Come abbiamo fatto a non commuoverci? Il cuore di pietra del paganesimo ce l’ha fatta sotto il naso?); mentre nel Lazarillo de Tormes un altro ragazzino sopravvive tranquillo a incredibili avventure (e già va meglio, già c’è una nuova attenzione per il bimbo); in Dickens finalmente ci si commuove per le vicissitudini di Oliver Twist, di Davide Copperfield e soprattutto di Amy Dorritt, una bambina, qualcosa di mai visto in letteratura.

La parentesi neo-patriarcale del tardo ottocento potrà pure essere stancamente interpretata come un ritorno al potere maschile dopo il caotico “liberi tutti!” della rivoluzione industriale, oppure no. Oppure è anch’essa un passo avanti: le donne tornano in casa, ma il loro essere casalinghe è una scoperta dei bambini, dei figli, esseri prima mai visti. E questi figli e figlie cominciano a essere amati e curati in una misura mai avvenuta, e diventano un tesoro da proteggere. Si comincia a pensare sempre di più che essere genitori è una responsabilità, una grande responsabilità. Ci si mettono poi anche la psicoanalisi e la psicologia a rendere tutti sempre più consapevoli di quale grave compito sia essere genitori. E l’ansia sale. E la natalità scende.

Passano altri cinquant’anni, passano due guerre mondiali e arrivano altre rivoluzioni sociali e non solo. Rivoluzioni forse in contrasto con le epoche precedenti, ma anche in continuità. Le donne escono di nuovo fuori di casa, ma non è la prima volta che accade, come ci piace credere. Come nel periodo precedente, quando le guerre napoleoniche e la rivoluzione industriale avevano tenuto gli uomini lontano dal focolare consentendo alle donne di accedere all’ambiente del lavoro, anche in questo caso due guerre e il diffondersi di nuove occasioni di lavoro sempre più abbondanti consentono alle donne di liberarsi. Dopo l’incubazione al caldo della crescente prosperità degli anni ’50 del novecento, l’esplosione della ricchezza diffusa degli anni ’60 consente una definitiva liberazione sociale e sessuale. L’incremento di sensibilità verso i bambini raggiunge nuovi traguardi e si unisce –paradossalmente- a un incremento di individualismo e di fame di divertimento che rendono il fare figli un atto sempre più pensato e pianificato.

E poi c’è il sesso. Fino a quel momento temuto e allontanato come una trappola, con la contraccezione il sesso finalmente diventa anch’esso un bene voluttuario, un consumo e un consumismo, in continuità con la produzione industriale di beni voluttuari iniziata in Olanda tre secoli prima. Si può infine abbandonare la repressione sessuale e liberarsi anche in quella dimensione, ricordandoci però che l’autocontrollo repressivo era stato abbracciato trecento anni prima come mezzo di libertà individualistica e borghese. Prima della pillola, il sesso era immediatamente gravidanza e quindi solo un enorme ostacolo per la realizzazione personale. Ora invece ci si può scatenare ed esplode un po’ tutto: la musica esplode, esplodono le anche di Elvis Presley, esplodono le urla delle adolescenti allo Shea Stadium dove cantano i Beatles.

Insomma, i contrari si toccano. La lunga espansione demografica dell’ottocento nascondeva già un calo delle nascite e preparava l’inverno delle culle di oggi, l’astinenza sessuale dell’ottocento era stata il terreno di coltura della liberazione individualistica e sessuale degli anni ’60.

Ciò che non cambiava e non cambia è la nuova, enorme sensibilità verso i bambini. Sesso come bene di consumo e bambini da curare perfettamente senza possibilità di errore rendono ormai la riproduzione un evento sempre più complesso e angosciante per gli aspiranti genitori dello stanco Occidente. Il calo delle nascite colpisce in particolare l’Europa meridionale, ma non risparmia l’Europa nordica e le coste degli Stati Uniti. Solo la Francia è in precario pareggio grazie ai migranti, peraltro rapidissimi a inaridire la loro fertilità appena approdano sulle nostre rive. Le grandi pianure interne degli Stati Uniti per ora continuano a figliare, forse grazie soprattutto agli ispanici. L’Oriente del Giappone e della Corea è anch’esso incapace di prolificare e un po’ dappertutto il rapporto con la maternità ormai è un film horror.

È un paradosso che, mentre la popolazione mondiale non è mai stata così numerosa, ci si debba al tempo stesso preoccupare di un futuro senza bambini con milioni di vecchi letteralmente privi di assistenza, privi di un numero sufficiente di giovani nipoti in grado di averne cura. Basteranno le badanti? O ci faremo fuori tutti, teneri vecchietti, in una festa mondiale dell’eutanasia? La singolare convergenza di attenzione estrema all’infanzia e di desiderio individualistico hanno prodotto questa strana crisi, in cui ci si deve preoccupare di tutto e del contrario di tutto: sovrappopolazione e denatalità. È la modernità, e non puoi farci nulla.

Intersessualità: la sofferenza di chi non si sente né femmina né maschio

Intersessualità e DSD: per definizione una persona con DSD (Disorders of Sex Development), vive una condizione in cui vi è incongruenza tra anatomia sessuale interna ed esterna, o sviluppo di genitali ambigui, o anomalie nello sviluppo delle gonadi, o sviluppo incompleto dell’anatomia sessuale, oppure anomalie a livello cromosomico sessuale.

 

La persona intervistata non ama la definizione DSD (Disorders of Sex Development) , preferisce venga usato il termine ombrello “intersessualità” in quanto “disturbo dello sviluppo sessuale” la fa sentire patologizzata, mentre “intersessualità” sottolinea una condizione: la propria.

S. non ama le definizioni in generale; sono proprio le definizioni ad averla fatta sentire imprigionata per una vita intera. Sentiva di continuo la necessità di doversi definire, eppure non trovava uno spazio nel quale rientrare.

Oggi, per convenzione, accetta che si parli di lei al femminile, ma non si sente né donna né uomo.

S. ha una tormentata storia alle spalle. È nata negli anni Settanta e da un punto di vista sessuale disponeva di cromosomi XY, organi genitali esterni femminili e gonadi ritenute nell’addome. Si ricorda che durante i primi anni della sua vita spesso era dal pediatra, come molti altri bambini, ma all’età di tre anni successe qualcosa di anomalo: subì un intervento chirurgico di asportazione di alcune parti del suo corpo. Ricorda come traumatico il ritrovarsi nuda su un lettino, circondata da diversi medici intenti a studiarla. Negli anni successivi torna ogni sei mesi in ospedale per dei controlli ed a undici anni inizia una terapia ormonale.

Durante l’infanzia e la prima adolescenza S. è convinta di essere una bambina, anche se qualcosa non le torna, e spesso si sente strana e diversa rispetto agli altri. All’età di diciannove anni ha il suo primo rapporto sessuale, durante il quale prova un dolore indescrivibile e da lì a breve si ritrova in ospedale. Questa volta viene sottoposta ad un intervento per la “riabilitazione sessuale dei suoi organi”, un intervento dolorosissimo seguito da una serie di esercizi che S. avrebbe dovuto svolgere con dei dilatatori vaginali. Eppure quando torna a casa i dilatatori spariscono e S. ipotizza che i suoi genitori non fossero così d’accordo con quel tipo di ginnastica; forse non erano pronti a pensare alla vita relazionale e sessuale della loro figlia.

 

Intersessualità e vita sessuale: le linee guida per il trattamento dei Disorders of Sex Development

Nonostante in passato, in casi di intersessualità, l’equipe si focalizzava maggiormente sull’estetica dei genitali per rendere le ricostruzioni il più possibili aderenti alla norma, oggi dovrebbe esserci una maggiore attenzione al benessere sessuale, componente essenziale per un benessere generale della persona. Le linee guida per il trattamento dei Disorders of Sex Development in età infantile, redatte originariamente in USA nel 2006 e tradotti ed adattati nella versione italiana nel 2012 a cura dell’Associazione Italiana Sindrome Insensibilità Androgeni (AISIA) invitano i genitori, nonostante l’argomento “vita sessuale dei propri figli” possa metterli in difficoltà, a valutare l’importanza di questo aspetto sin dalla prima infanzia per fare in modo che i propri figli crescano percependosi come soggetti sessualmente sani e possano stringere relazioni intime, anch’esse determinate da una buona percezione di se stessi.

A questo proposito S. racconta di come questo aspetto, ovvero poter avere relazioni romantiche e sessuali, sia quello per lei più difficile al momento: «Se dovessi pensare ad un miracolo ovvio che vorrei indietro la mia sensibilità clitoridea perché finisco sempre con il chiedermi “Come sarebbe se tutto fosse normale?”. E così provo rabbia, dolore e vergogna».

Racconta inoltre che non le piace essere toccata: «faccio fatica anche con i due baci sulle guance o con gli abbracci. E ci sono anche parti del mio corpo che non mostrerei mai, come la schiena e le spalle. Non mi vedrai mai con una canottiera».

Ammette che dopo varie fatiche, ora accetta un po’ di più il proprio corpo e non ha intenzione di sottoporsi ad altri interventi chirurgici, nonostante l’accettazione sia un processo tuttora in atto: «Accetto che la mia sessualità sia vissuta in modo particolare, ma comprendo anche che le altre persone, miei eventuali partner, la vivono in modo diverso da me. A breve inizierò anche una terapia in Svizzera per procedere nell’accettazione corporea e scoprire come gradire il contatto fisico anche a livello di zone non per forza erogene».

 

Crescere nella vergogna e nel dubbio

Fino al momento in cui non c’è stato quell’intervento chirurgico d’urgenza in seguito al suo primo rapporto sessuale S. non riceve alcuna informazione da medici o dai genitori rispetto alla sua condizione.

Le linee guida per il trattamento dei Disorders of Sex Development in età infantile sottolineano diverse volte l’importanza di mettere il soggetto a conoscenza della propria condizione, aiutando i genitori a comunicare in modo efficace a seconda dell’età del figlio. Il soggetto deve sentire di poter domandare e poter esprimere le proprie preoccupazioni. Inoltre più esso sarà informato più sarà educato a prendere autonomamente decisioni su se stesso, con il supporto costante dell’equipe pluriprofessionale e dei genitori.

Un ulteriore punto sul quale le linee guida insistono molto è l’elaborazione della vergogna che quasi sempre i pazienti e le loro famiglie provano per l’ambiguità sessuale. Entrando a contatto con il mondo esterno le sfide aumentano e gli operatori che hanno contribuito alla stesura del manuale indicano quanto sia «indispensabile dedicare del tempo a parlare dello sviluppo del senso di vergogna, da considerare del tutto naturale, e del modo in cui quest’ultimo possa essere rielaborato. In caso contrario, questo sentimento negativo tende ad essere amplificato e ad influenzare tutte le scelte future riguardanti il bambino. È importante evitare di trasmettere l’idea secondo cui ogni reazione negativa possa essere eliminata con interventi chirurgici o altre terapie. La vergogna fa paura e può causare isolamento, specialmente quando non si parla d’altro o quando, al contrario, non se ne parla affatto. L’unico modo per affrontarla al meglio è parlarne apertamente e in modo diretto».

È stato dimostrato come una rete di supporto costruita con altre persone che hanno vissuto un’esperienza simile ha aiutato spesso a superare la vergogna e la riluttanza nel parlare della propria condizione.

S. vive la sua infanzia e la sua adolescenza con i genitori ed il fratello. «Per vergogna i miei genitori non volevano se ne parlasse con nessuno e mi imponevano continuamente il genere femminile. Eppure io sentivo di avere anche un’altra parte».

«Ricordo mio padre come molto severo. Dovevo essere una femmina e non potevo replicare. Mia madre, vecchio stampo, mi invitava a fare i lavori domestici, quelli ritenuti femminili, ed io ad una certa età ho iniziato a riderci sopra, rispondendole che non potevo farli perché in fondo non ero proprio una femmina. Mia madre non rideva affatto di questi giochi, evitava totalmente l’argomento. Si arrabbiavano se non ero la bambina ideale da vestitino e gonnellina».

La madre si vergogna ancora se sua figlia parla della sua storia a qualcuno, ma ora S. afferma: «ho iniziato a pensare che la vita è mia ed è importante uscire dalla vergogna. Ho iniziato un po’ di attivismo con orgoglio. Mia madre però non è ancora pronta a questo ed io ora accetto i suoi tempi. In adolescenza invece ero arrabbiatissima con i miei e ricordo di aver iniziato a “farmi” per questo motivo. Oggi invece penso diversamente, non sono più arrabbiata e penso ai miei genitori che quando sono nata avevano circa vent’anni e si sono solamente affidati ad altri. Sfido qualsiasi genitore ad esser nei loro panni, mi sono chiesta anche io cosa avrei fatto di diverso da loro».

Con il fratello attualmente non parla più: «sicuramente non sarà stato facile starmi vicino in certi momenti. Da tossicodipendente ne ho fatte tante, eppure credo che ci sia qualcosa sotto per cui lui non mi voglia parlare. Così un giorno stavo leggendo un libro su due gemelli dal titolo “Bruce, Brenda e David” e la storia racconta di quando ad uno dei due neonati, durante la circoncisione, viene erroneamente amputato il pene. In seguito a questo incidente si decide che Bruce diventerà Brenda e verrà cresciuto da bambina. L’ultimo capitolo di questo libro parla di come il fratello ha vissuto questa esperienza ed io, dopo averlo letto, ho pensato a mio fratello. Ho capito come anche per lui la mia condizione poteva essere vissuta con difficoltà a causa di tutte le attenzioni dei nostri genitori rivolte quasi sempre solo a me».

 

Sogni e propositi

L’accettazione di S. da parte di S. è un processo ancora in atto, nel quale si impegna quotidianamente, affidandosi a diversi professionisti.

Ha diversi propositi per il suo futuro. Vorrebbe evitare che altre persone passino certe sofferenze: «creerò un’associazione e forse scriverò anche un libro. Il mio obiettivo è che i genitori dei bambini intersex di oggi siano più informati nel prendere decisioni, o meglio, che non ne prendano affatto. Vorrei che si evitasse l’interventismo a meno che non ce ne sia assoluto bisogno. Questa sarà la mia battaglia.

Vorrei che non si provasse più vergogna per non poter essere né un maschio né una femmina, e che non si ragionasse più in termini binari, perché noi persone intersessuali siamo la dimostrazione che il binarismo non esiste per natura».

Le linee guida riportano una letteratura a dimostrazione del fatto che bambini cresciuti con anatomia genitale ambigua non sono maggiormente soggetti allo sviluppo di problemi psicopatologici, rispetto al resto della popolazione. Nonostante queste pubblicazioni siano datate, non ci sono prove che dimostrino la necessità di ricorrere a chirurgia estetica riparativa e precoce per una normalizzazione genitale. Inoltre, secondo il principio della riduzione della vergogna, investire su una serie di interventi normativi non può far altro che ledere il messaggio di accettazione incondizionata che si vorrebbe accompagnasse il soggetto nell’arco della sua esistenza.

S. conclude: «Mi auguro che nessuno provi nemmeno l’1% di quel che ho passato io, sia fisicamente che a livello di comprensione. Ci vuole tanto tempo per capire chi si è ed io sto ancora cercando di capirlo passo dopo passo».

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Differenze di potere nelle relazioni: un danno maggiore per le donne

All’interno delle relazioni eterosessuali, le differenze di potere sono comuni, ma secondo uno studio condotto all’università di Buffalo, avere meno potere ha più grandi ripercussioni sulle donne che sugli uomini.

 

La percezione di potere nelle relazioni di coppia: lo studio

Tra gli adolescenti e i giovani adulti, le relazioni costituiscono un aspetto complesso e significativo, dando alle persone l’opportunità di sviluppare capacità come l’attenzione verso i bisogni degli altri, la sensibilità e abilità relazionali e comunicative.

Nelle relazioni, il potere, inteso come la rispettiva abilità dei partner di influenzarsi reciprocamente e di dirigere in qualche misura la relazione, è un elemento complesso e fondamentale che riguarda diversi domini, come la sessualità, la gestione della parte economica, i legami affettivi extrafamiliari, etc.

Uno studio, condotto da un gruppo di ricerca dell’università di Buffalo, ha cercato di indagare la percezione di potere e le sue conseguenze, in 114 soggetti, 59 uomini e 55 donne, con una media d’età di circa 22 anni.

I risultati, pubblicati sulla rivista The Journal of Sex research, suggeriscono “un sano scetticismo per quanto riguarda ciò che classifichiamo come uguaglianza di genere“, sostiene Laina Bay-Cheng, professoressa associata alla UB School of Social Work ed esperta nella sessualità di giovani donne. “Questa ricerca confuta l’assunzione che l’uguaglianza di genere sia stata raggiunta e che non dovremmo più temere la misoginia“.

La ricerca ha previsto lo studio quantitativo e qualitativo di 395 relazioni eterosessuali. Bay-Cheng ha sviluppato un nuovo metodo di ricerca, sviluppando un database online in cui i soggetti, oltre alle informazioni anagrafiche (riguardanti l’età, il sesso, il proprio status socioeconomico ecc.), erano tenuti a compilare un calendario digitale, riportando le proprie esperienze sessuali dall’adolescenza e dalla prima età adulta. Il calendario poteva essere compilato mese per mese.

Per ogni relazione i soggetti avevano la possibilità di categorizzarla indicandone la natura (suddivisa poi in due gruppi: relazioni romantiche o relazioni casuali) e di indicare quanto la reputassero intima, stabile e piacevole fisicamente attraverso la risposta ad alcune domande, ad esempio “Quanto reputi stabile la tua relazione?” (su una scala likert che andava da “Per nulla stabile” a “Molto stabile”).

Per valutare la percezione di potere, era posta ai soggetti una singola domanda: “Com’era bilanciato il potere nella coppia?”. I partecipanti potevano rispondere su un continuum a tre punti (“Il mio partner aveva più potere“; “Il potere era bilanciato”; “Io avevo più potere“).
Nel calendario, inoltre, i partecipanti potevano inserire sia testo che altro genere di materiale, come file audio, immagini o emoji, per descrivere a livello qualitativo le proprie relazioni.

 

I risultati: l’uguaglianza di genere esiste davvero nelle coppie?

Abbiamo ottenuto dati vari e diversi“, sostiene la Bay-Cheng. “I partecipanti, piuttosto che cerchiare un numero su una scala di qualche questionario, hanno avuto la possibilità di esprimere loro stessi nei modi e nei tempi che volevano, ed in seguito “sfogliare” i loro calendari ed avere una prospettiva differente riguardo alle loro storie sessuali e a come queste fossero collegate ad altre parti della vita. I soggetti ci hanno detto quanto potesse essere significativa questa possibilità di riflessione“.

Le analisi, sia quantitative che qualitative, hanno dimostrato che i partecipanti percepivano le relazioni in cui erano dominanti o condividevano il potere, come più intime e stabili rispetto a quelle in cui si sentivano subordinati.

Il genere fungeva da moderatore, per cui le donne valutavano le relazioni in cui si sentivano subordinate come meno intime e più instabili, rispetto agli altri tipi di relazione, mentre la valutazione degli uomini non variava, in media, nelle diverse condizioni di potere percepito.

A livello qualitativo, inoltre, è stato dimostrato che lo sbilanciamento di potere sarebbe più problematico per le donne: di 17 relazioni in cui uno dei due partner risultava essere abusante o controllante, 15 erano riportate da donne.

Bay-Cheng sostiene che le dinamiche sottostanti le relazioni richiedano un esame minuzioso e che l’affermazione spesso pronunciata che le donne abbiano superato la disuguaglianza rispetto agli uomini, si disgreghi velocemente quando la si esamina nel dettaglio.

Dovremmo guardare più da vicino le relazioni e le esperienze reali e smettere di utilizzare dei segnali superficiali come prova dell’uguaglianza di genere“, sostiene la Bay-Cheng. “Quando sono gli uomini ad essere subordinati in una relazione, questo fatto non li preoccupa molto; essi non percepiscono la relazione come meno intima o stabile rispetto alle relazioni in cui si percepiscono dominanti. Ma per le giovani donne, avere meno potere in una relazione è una condizione associata ad una diminuzione dell’intimità e della stabilità che si associa ad un maggior rischio di abuso.E’ sensato ipotizzare che l’ineguaglianza in una relazione non danneggi troppo gli uomini, poiché essi sono già inseriti in un sistema più ampio che li privilegia“.

Le relazioni che si sviluppano lungo il cammino verso l’età adulta sono eventi fondamentali. E’ da queste esperienze precoci che le persone imparano come stare in una relazione e quali sono gli effetti dipendenti dalla natura e dalla qualità di queste esperienze – sia positivi che negativi – che possono avere delle ripercussioni per tutta la vita.

Disturbo esplosivo intermittente (IED) e l’abuso di sostanze

Secondo uno studio condotto dalla University of Chicago, le persone che soffrono del disturbo esplosivo intermittente (IED)– disturbo del comportamento caratterizzato da espressioni estreme di rabbia, spesso incontrollabili, che sono sproporzionate rispetto alla situazione- hanno un rischio cinque volte maggiore rispetto al resto della popolazione di fare abuso di sostanze quali alcol e altre sostanze stupefacenti.

 

Il disturbo esplosivo intermittente, la disregolazione emotiva e l’abuso di alcol e sostanze

Il disturbo esplosivo intermittente, colpisce ben 16 milioni di americani, in comorbidità con altre patologie quali il disturbo bipolare o la schizofrenia. Questo disturbo è spesso diagnosticato nella prima adolescenza, intorno agli 11 anni di età.

Nello studio pubblicato a Febbraio 2017 sul Journal of Clinical Psychiatry, la Dr.ssa Emil Coccaro e i suoi colleghi hanno analizzato i dati relativi alla salute mentale di un campione di oltre 9200 soggetti che presentavano il disturbo esplosivo intermittente. In questo esperimento è stata misurata nel dettaglio la disregolazione emotiva e si è osservato come la disregolazione emotiva possa portare alla manifestazione di comportamenti aggressivi o di agiti impulsivi.

I ricercatori dunque hanno dimostrato che più aumentavano i comportamenti aggressivi più i soggetti abusavano di alcol o droghe. Inoltre, il disturbo esplosivo intermittente è assolutamente acutizzato dall’assunzione di alcol o di droghe, portando in questo caso a un circolo vizioso che si auto-alimenta e ha come conseguenza la messa in atto di comportamenti sempre più aggressivi.
Quindi, un trattamento mirato ad appianare i comportamenti aggressivi potrebbe impedire o ritardare l’abuso di sostanze nei giovani.

La Dr.ssa Coccaro sostiene, inoltre, che questa patologia non è ancora considerata come un problema psichico, ma esclusivamente legato al comportamento disadattivo sviluppato nel corso della loro vita.

Per concludere, la Dr.ssa Coccaro ha aggiunto che un intervento psicologico precoce, quale ad esempio un trattamento farmacologico o la terapia cognitiva, possa essere efficace per prevenire o quantomeno ritardare il problema dell’abuso di sostanze legato alla diagnosi di disturbo esplosivo intermittente.

La teoria della mente – Introduzione alla Psicologia

La Teoria della Mente (ToM) consiste nella capacità cognitiva di riuscire a rappresentare gli stati mentali propri e altrui, ovvero credenze, desideri, emozioni, per spiegare e prevedere la messa in atto di comportamenti. Si tratta di una capacità cognitiva innata in ogni essere umano, il cui sviluppo è influenzato dal contesto culturale e dalle capacità intellettive presentate dall’individuo.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Storia della Teoria della Mente

Premack e Woodruff (1978) per primi parlarono di Theory of Mind  ovvero la capacità di comprendere uno stato mentale di un individuo partendo del comportamento manifesto. Essi osservarono per la prima volta questa abilità negli scimpanzé che erano in grado di prevedere il comportamento di un uomo in situazioni finalizzate a uno scopo. Quindi, la Teoria della Mente è una abilità evolutasi negli ominidi in risposta all’ambiente sociale e alle situazioni che si presentano, diventando sempre più eterogenea in ambiti dissimili.

Naturalmente, trattandosi di un’attitudine ogni individuo presenterà una Teoria della Mente più o meno sviluppata a seconda delle proprie risorse cognitive e delle capacità relazionali.  Inoltre, ognuno potrebbe essere in grado di avere una rappresentazione della mente dell’altro anche non avendo dati comportamentali, ma basandosi su una serie di percezioni sensoriali che consentono, in ogni caso, di inferire un funzionamento cognitivo, quindi di avere ben presente come quella persona potrebbe comportarsi in alcune circostanze.

 

I modelli teorici della Teoria della Mente

Esistono tre principali modelli teorici relativi alla Teoria della Mente:

1) “Teoria della Teoria”, secondo Gopnik e Wellman l’attività mentale si basa su conoscenze che avvengono empiricamente e il bambino le acquisisce nel corso dello sviluppo imparando a discriminare le situazioni reali da quelle ipotetiche. In questo modo, si sviluppa una teoria della Teoria della Mente che gli permette di inferire rappresentazioni mentali e di costruire una propria rappresentazione del mondo. Le rappresentazioni mentali sono definite meta-rappresentazioni.

2) “Teoria Modulare”, si definisce “modulare” in quanto legato alla teoria della mente modulare di Fodor , secondo cui la mente umana è costituita da moduli specializzati, geneticamente determinati e funzionanti autonomamente. Per questo esiste un modulo  in cui è processata la Teoria della Mente (Theory of Mind-Module), che trae informazioni utili dall’ambiente sociale. Il ToM-Module è in grado di separare le informazioni contestuali rilevanti da quelle irrilevanti, aumentando così la probabilità di una corretta inferenza degli stati mentali altrui. Lo sviluppo di questa abilità dipenderebbe principalmente dalla maturazione neurologica delle strutture cerebrali coinvolte, mentre l’esperienza ne determinerebbe l’utilizzo della stessa.

3) “Teoria della Simulazione”, secondo Goldman e collaboratori l’attività mentale si basa sulla capacità di riuscire a provare lo stesso stato emotivo dell’altro. Inferire gli stati mentali altrui consisterebbe nel simulare il mondo ponendosi nella prospettiva dell’altro, sperimentandone i diversi stati mentali che ne derivano per poi poterli ripetere o condividere.

 

Evoluzione della Teoria della Mente

La Teoria della Mente si sviluppa in diverse fasi della vita di una persona. Secondo Tomasello (1999) la comprensione dei fenomeni mentali deriva dall’intenzionalità, processo che si manifesta intorno all’anno di vita del bambino, ovvero nel momento in cui la propria attenzione si dirige consapevolmente verso una azione. Tale capacità si evidenzia attraverso l’imitazione del comportamento dell’adulto, riproducendone un meccanismo simile a quello osservato ma con delle aggiunte proprie.

A dodici-tredici mesi dalla nascita il bambino è in grado di riconoscere e distinguere le espressioni del volto e il loro significato emotivo; a due-tre anni è in grado di comprendere gli stati mentali non epistemici, come desideri, emozioni, intenzioni e i giochi di finzione in cui si simula il funzionamento di qualche oggetto, per esempio imitare con due dita un telefono o una pistola. Infine, intorno ai quattro anni di età, si espleta a pieno la Teoria della Mente. Infatti, si manifesta la capacità di comprendere stati mentali epistemici e di prevedere il comportamento proprio e altrui.

Secondo Fonagy, possedere una buona capacità riflessiva implementa la probabilità che il bambino possa sviluppare un attaccamento sicuro e un’adeguata capacità di mentalizzazione, ovvero possedere una rappresentazione della mente dell’altro. Una relazione di attaccamento sicuro permette di esplorare e di rappresentare adeguatamente la mente del caregiver e, quindi, di conseguenza consente di capire e interpretare adeguatamente gli stati mentali altrui.
Qualora il bambino non sviluppi un attaccamento di tipo sicuro si potrebbe verificare un deficit in termini di Teoria della Mente che si manifesterebbe attraverso la sofferenza psichica.

Inoltre, secondo Baron-Cohen lo sviluppo dell’individuo avviene in base alla progressiva maturazione biologica delle strutture cerebrali, per questo determinati assetti caratteriali derivano da particolari corredi genetici che nell’interazione con l’ambiente esterno portano al manifestarsi di particolari rappresentazioni mentali.

 

Le basi neurobiologiche della Teoria della Mente

Gli studi di neuroimaging funzionale e quelli condotti su lesioni cerebrali hanno aiutato a localizzare i circuiti cerebrali alla base della Teoria della Mente.

Esperimenti eseguiti sui  macachi hanno rivelato che i neuroni nel solco temporale posteriore (STS) si accendono selettivamente quando le scimmie osservano la direzione dello sguardo di altre scimmie. Inoltre, questi neuroni si attivano anche quando queste scimmie osservano un’azione diretta ad uno scopo (Gallese e Goldman, 1998). Studi di imaging funzionale hanno rivelato, inoltre, che negli umani si attiva un’area omologa del lobo temporale nell’osservare oggetti finalizzati a uno scopo.

Il lobo temporale, inoltre, contiene anche i neuroni specchio che si attivano sia durante l’esecuzione di un movimento di un arto, a esempio, sia durante la semplice osservazione dello stesso movimento compiuto da un’altra persona. Non solo, i neuroni specchio si attivano anche quando si osserva o si prova la stessa emozione dell’altro. La scoperta dei neuroni specchio permette di capire come si possono imitare non solo le azioni degli altri ma anche gli stati mentali. Per avere una buona Teoria della Mente è inoltre necessario imitare sia lo stato emotivo sia differenziare tra quello che si priva in prima persona da quanto provato da altri.

Recenti studi di risonanza magnetica funzionale fanno rilevare che la Teoria della Mente è divisa da altre funzioni cognitive, poiché espressa da una rete neurale che collega  la corteccia pre-frontale mediale e la corteccia cingolata (MPFC), la corteccia cingolata posteriore e le regioni temporo-parietali bilaterali.

 

Psicopatologia e Teoria della Mente

Aspetti deficitari della Teoria della Mente si riscontra in differenti quadri psicopatologici e si manifesta grazie a una diversa gamma di anomalie comportamentali.  A esempio:

Disturbi autistici  e schizofrenici

In pazienti affetti da tali patologie è presente un deficit specifico nella comprensione delle credenze che regolano il comportamento, non imputabile a difficoltà linguistiche, ignoranza della causalità o incapacità di sequenziamento. Si è ipotizzato che bambini affetti da disturbi dello spettro autistico non sviluppino una Teoria della Mente o presentino difficolta’ in relazione a tale ambito, di conseguenza non ci sarebbe un meccanismo meta-rappresentazionale sottostante la costruzione di una Teoria della Mente e per questo mostrerebbero deficit nella messa in atto di comportamenti.

Disturbi di Personalità

Le persone che manifestano disturbi di personalità possiedono deficit di mentalizzazione e per questo carenti nell’attuazioni di comportamenti adeguati allo scopo. Inoltre,  la capacità di mentalizzazione risulta compromessa in una percentuale significativa di soggetti che hanno vissuto un’esperienza traumatica, soprattutto nell’infanzia. Inoltre, scarse capacità di mentalizzazione, inducono il soggetto a regredire a livello mentale a uno stadio di sviluppo precedente (Fonagy et al., 2000).

 

Testare la Teoria della Mente

Il  gold standard dei test per valutare la comprensione degli stati mentali altrui è il  false-belief task, utilizzato in adolescenza e infanzia soprattutto nell’autismo e nella schizofrenia Esso consiste nel valutare se un soggetto è in grado di capire che gli altri possono avere delle credenze errate rispetto ad un evento di cui lui ha una conoscenza corretta. Tale test è utile per verificare le false credenze da cui il soggetto deve trarre conclusioni, su una situazione, prevedendo lo stato mentale di un altro individuo che compie un’azione, e le convinzioni che si possiedono sui comportamenti o stati emotivi di un’altra persona.

Un altro strumento di valutazione della Teoria della Mente è il test Sally and Anne caratterizzato da una situazione in cui il soggetto deve distinguere tra il sapere che un oggetto è stato nascosto da uno dei due personaggi (Anne) in assenza dell’altro (Sally) e uno dei due personaggi (Sally) non abbia questa conoscenza.

Inoltre, Baron-Cohen e collaboratori hanno sviluppato un test, l’Eye Test, in cui il compito dei soggetti è di inferire lo stato mentale altrui osservando lo sguardo di un’altro soggetto. Un ultimo esempio è il Theory Of Mind Picture Sequencing Task, ideato da Brune, che utilizza come materiale di somministrazione 6 storie, ognuna composta da 4 vignette da riordinare. Le vignette sono presentate coperte e in ordine sparso. Al soggetto esaminato è richiesto di scoprirle e riordinarle nel minore tempo possibile per formare una sequenza di eventi che abbia un senso logico.

 

Teoria della Mente e familiarità

La Teoria della Mente deriva anche dal tipo di relazione instaurata con la figura di riferimento. Le interazioni genitore-bambino, specialmente con la madre, indubbiamente svolgono un ruolo fondamentale nello sviluppo cognitivo e sociale del bambino. Quindi, una buona relazione genera una buona Teoria della Mente. Inoltre, i deficit riscontrabili a carico della Teoria della Mente sono tratti presenti sia nei pazienti, sia nei familiari degli stessi, e frequentemente si manifestano attraverso un disagio mentale.

 

Trattamenti riabilitativi della teoria della mente

E’ possibile riabilitare la Teoria della Mente grazie all’acquisizione di competenze psico-sociali attraverso trattamenti che si focalizzano su i deficit funzionali presentati dal paziente, che a loro volta sono associati a deficit cognitivi. Fondamentale durante questo processo è riuscire ad attribuire e riconoscere gli stati mentali degli altri e tarare il proprio funzionamento emotivo rispetto a quello altrui.

Esistono anche tecniche riabilitative, come ad esempio il Metacognitive Training (MCT), che si concentrano maggiormente sui meccanismi cognitivi deficitari derivanti dalla percezione e dall’interpretazione dei segnali ambientali. Il Metacognitive Training si basa su due componenti fondamentali: la knowledge translation, in cui si rilevano gli errori cognitivi e la loro relazione con la patologia, e la dimostrazione delle conseguenze negative che derivano dagli errori cognitivi, parte composta da esercizi focalizzati sui singoli deficit cognitivi presentati. Ai pazienti è insegnato a riconoscere e confutare gli errori attraverso l’uso di strategie alternative che consentono di giungere a delle conclusioni senza rimanere schiavi di trappole mentali. Si tratta principalmente di un approccio gruppale in cui il paziente riceve e vive esperienze correttive in un ambiente supportato e protetto.

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Traumi infantili, psicopatologia genitoriale e disturbi bipolari

Fra le patologie psichiatriche il disturbo bipolare è un disturbo affettivo complesso dall’origine multifattoriale. Fra i fattori eziopatogenetici, un posto di rilievo è occupato dalla componente genetica. Numerose ricerche hanno riscontrato che eventi traumatici accaduti durante l’infanzia sono associati ad un incremento del rischio di sviluppare un disturbo bipolare ad esordio precoce. 

 

 

Disturbo bipolare: tra i fattori di rischio la componente genetica e i maltrattamenti infantili

Fra le patologie psichiatriche il disturbo bipolare è un disturbo affettivo complesso dall’origine multifattoriale. Fra i fattori eziopatogenetici, come diverse ricerche dimostrano (Kerner, 2014; Craddock e Sklar, 2013), un posto di rilievo è occupato dalla componente genetica.

A questo proposito, il fattore genetico predispone ad una forma di vulnerabilità: infatti, nella famiglia del paziente affetto da disturbo bipolare si riscontra una maggiore tendenza ad ammalarsi di qualche psicopatologia, come il disturbo bipolare stesso, la sindrome depressiva unipolare, le sindromi ansiose, le dipendenze patologiche, la sindrome da deficit dell’attenzione con iperattività e le sindromi psicotiche (Bergink et al., 2016). I pazienti affetti da disturbo bipolare frequentemente riferiscono di aver avuto un’infanzia travagliata, costellata da una serie di eventi avversi.

Numerose ricerche (Daruy – Filho et al., 2011; El Kiss et al., 2013; Larsson et al., 2013; Agnes-Blais e Danese, 2016) hanno riscontrato che eventi traumatici accaduti durante l’infanzia sono associati ad un incremento del rischio di sviluppare un disturbo bipolare ad esordio precoce, con notevole probabilità di suicidio ed evoluzione psicotica.

Queste ricerche hanno utilizzato come strumento d’indagine le interviste semistrutturate o la raccolta delle storie di vita raccontate dai pazienti stessi. Altri studi (Gilman et al., 2015), basati sull’analisi di intere popolazioni, hanno evidenziato che esiste un incremento di rischio per i disturbi bipolari, allorquando si verificano la perdita precoce di un genitore e dei maltrattamenti subiti nell’età evolutiva.

La ricerca danese sul disturbo bipolare e gli eventi di vita avversi

Una recente ricerca danese (Università di Aarhus e di Aalborg) e olandese (Dipartimento di Psichiatria dell’Università di Rotterdam e Scuola di Medicina dell’Università di Utrecht) (Bergink et al., op. cit.) ha voluto indagare il peso esercitato sia dagli eventi avversi accaduti nelle prime fasi della vita che dalla psicopatologia dei genitori nell’insorgenza del disturbo bipolare. In altre parole, la ricerca ha voluto analizzare le correlazioni esistenti fra eventi di vita avversi, accaduti prima dei 15 anni di età, storia psichiatrica della famiglia e patologia bipolare.

Lo studio ha considerato come eventi di vita avversi le seguenti condizioni: disgregazione della coppia parentale, malattie fisiche di uno o di entrambi i genitori, disoccupazione del padre o della madre, detenzione di uno dei genitori, perdita di un genitore ed eventuale adozione da parte di un’altra famiglia.

La ricerca ha utilizzato informazioni provenienti dal Registro Nazionale Danese, che riguardava i nati in Danimarca dal 1980 al 1998, circa 980.554 persone. Questi individui sono stati monitorati dall’età minima di 15 anni ad un’età massima di 34 anni. Di questi soggetti, 2235 hanno sviluppato un disturbo bipolare.

Nell’infanzia di questi soggetti affetti da disturbo bipolare si è riscontrato nel 47,8 % la disgregazione della coppia genitoriale, nel 19,4 % una patologia psichiatrica di uno o di entrambi i genitori e nel 19,1 % una malattia fisica del padre o della madre.

In conclusione, la ricerca ha stabilito che la disgregazione della famiglia insieme alla patologia (psichiatrica o fisica) dei genitori, durante l’infanzia, possono essere dei fattori di rischio per la comparsa del disturbo bipolare nell’età adulta.

I cellulari e quella dolorosa sensazione di vuoto – Commento all’intervista del comico Louis C.K.

A volte accade di ascoltare una storia di persone lontane anni luce dal mondo della psicologia che riescono a cogliere alcuni aspetti chiave su cui noi “specialisti della salute mentale” dibattiamo da anni, oggi volevo condividere le parole non banali del comico Louis C.K.  

 

A volte accade di ascoltare una storia o una particolare esperienza di persone lontane anni luce dal mondo della psicologia che riescono a cogliere alcuni aspetti chiave su cui noi “specialisti della salute mentale” dibattiamo da anni e che, almeno personalmente, ci insegnano e ci fanno riflettere più di tanti manuali.

Anni fa scrissi di un’intervista del calciatore Rino Gattuso che mi rimase nel cuore, nella quale descriveva quale fosse per lui il problema secondario. Ovviamente non lo chiamava così, ma la sua genuina descrizione e valutazione delle proprie emozioni fu ancora più interessante per me, prima della finale dei mondiali.

Oggi volevo condividere le parole non banali di un comico, Louis C.K.  (nome d’arte di Louis Székelye, attore e comico statunitense) espresse in una sua intervista in “Late Night with Conan O’Brien”. I comici sono spesso maestri nel descrivere l’uomo comune, con le sue ansie e le sue fragilità; di conseguenza, ascoltare le loro parole può diventare uno stimolo per riflettere su temi anche di carattere prettamente psicologico.

Ma cosa dice di così particolare questo Luis C.K.? Parla essenzialmente di aspetti educativi, lui padre di due figlie, e di come l’utilizzo di smartphone sia un ostacolo per la crescita di bambini piccoli, che, a causa dell’uso smodato del cellulare, perdono di vista l’esperienza diretta con i propri pari.

 

Louis C.K. : lo smartphone come evitamento della tristezza

Inoltre Louis C.K. sottolinea come lo smartphone possa diventare uno strumento di controllo per non accedere a una sensazione di vuoto, comune e temuta da tutti gli esseri umani.

Attenzione, sta parlando un comico statunitense ma usa parole che non possono passare inosservate a uno psicoterapeuta cognitivo comportamentale. Louis C.K. parla in un certo senso di stati dolorosi, “quella consapevolezza di essere solo”, di quella modalità di stare lontano dall’emozione di tristezza che accompagna tale consapevolezza attraverso l’utilizzo di smartphone; spesso col rischio, in macchina, di causare un incidente, perché, come dice Louis C.K., “le persone preferiscono rischiare di uccidere qualcuno e rovinarsi la vita pur di non rimanere soli per un secondo, che è una cosa tanto difficile”. Luis ha anche una soluzione, non certo nuova per noi ma ugualmente e forse ancora più interessante; la descrive mentre racconta un episodio a lui accaduto recentemente.

Era in macchina e, ascoltando una canzone di Bruce Springsteen, viene invaso da memorie passate di quando era giovane che generano un momento di forte nostalgia; Louis pensa:“ora inizio a mandare 50 messaggi”, con lo scopo di fronteggiare questa tristezza nascente. Invece Louis C.K. fa qualcosa di diverso; nelle nostre psicoterapie, ciò rappresenta spesso un momento chiave del percorso perché ha l’obiettivo di modificare le strategie spesso faticose e disfunzionali portate avanti da anni per evitare quello stato doloroso, aiutando la persona ad accedervi per poter provare a tollerarlo.

Dicevamo: cosa fa Louis C.K.? Non fa nulla e lo racconta così, descrivendo i suoi pensieri in quei momenti “Sai che c’è di nuovo? Non farlo, sii triste e basta. Lascia libera la tristezza, non evitarla. Fatti investire dalla nostalgia come un camion”. Così Louis ha fatto. Ha accostato e si è permesso di piangere “come un bambino”.

Quale giudizio rispetto a questa sua reazione? “E’ stato bellissimo. La tristezza è poetica. E’ una fortuna vivere momenti tristi”, giusto per non farci mancare anche il riferimento al problema secondario. Poi quella tristezza ha fatto spazio alla felicità, a pensieri allegri che sono potuti emergere solo grazie al permesso di provare quella tristezza, transitoria e a suo modo bellissima.

Ci sono tantissimi spunti, certo a volte caricaturali, da questa intervista che racconta una storia su uno stato doloroso e sul modo diverso in cui una persona lo ha gestito. Tutto questo partendo dalla curiosità di ascoltare esperienze che nulla hanno a che vedere con contesti clinici.

 

GUARDA IL VIDEO DELL’INTERVISTA DI LOUIS C.K. AL “LATE NIGHT WITH CONAN O’BRIEN”

(Video sottotitolato in italiano qui)

La regolazione emozionale: basi neurali coinvolte e benessere psicologico

Con il termine regolazione emozionale si intende quell’insieme di processi attraverso i quali gli individui regolano i propri stati emotivi. Le emozioni sono necessarie alla sopravvivenza, tuttavia non sempre mantengono il loro ruolo adattivo e diventano problematiche nel momento in cui eccedono per intensità o durata, si manifestano in contesti inadeguati o in modo imprevedibile.

Stefania Luchesa, Annalisa Bertoldi, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Che cos’è la regolazione emozionale

Gli individui rispondono all’inadeguatezza delle reazioni emotive adottando strategie in grado di modificare flessibilmente l’esperienza emotiva. Gli aspetti del processo emotivo in cui l’uomo può intervenire alternandone la natura sono la comparsa, la durata, il contenuto e la qualità dell’esperienza.

Negli ultimi anni l’interesse nei confronti della capacità di regolazione emotiva è notevolmente cresciuto e diversi studiosi si sono occupati degli aspetti adattivi o disfunzionali e del substrato neurale ad essa associato.

James J. Gross, professore di psicologia all’università di Stannford, noto per le numerose ricerche condotte nell’ambito della regolazione emozionale, propone un modello che descrive le emozioni come un processo dinamico flessibile e multicomponenziale, definendo tre aspetti in particolare. In primo luogo il processo generativo delle emozioni si configura come un meccanismo dinamico a carattere ricorsivo costituito da feedback che dalla risposta emotiva tornano alla fase di selezione della situazione, influenzando ogni fase del processo e conseguentemente influenzando le seguenti risposte emotive.

Il secondo aspetto fondamentale riguarda il tempo della regolazione, sia essa focalizzata sull’antecedente (Antecedent-Focused Regulation) o sulla risposta (Response-Focused Regulation). Infine, la regolazione può verificarsi parallelamente in diverse fasi del processo, così ciò che facciamo per regolare le nostre emozioni spesso include multipli meccanismi che intervengono contemporaneamente. Gross (1998a 1998b; 2002) definisce col termine regolazione emozionale la serie di processi eterogenei tramite cui gli individui riescono a regolare le proprie emozioni. Nello specifico individua cinque tipologie di regolazione emozionale, distinte in base al momento all’interno del processo di generazione dell’emozione in cui intervengono. Partendo dalla situazione, si individuano i seguenti processi: selezione della situazione, modificazione della situazione, distribuzione dell’attenzione, modifica cognitiva, modulazione della risposta. I primi quattro sono focalizzati sull’antecedente poiché si verificano prima della risposta emotiva, mentre l’ultimo è centrato sulla risposta poiché si verifica dopo che essa è stata generata.

Tra gli autori principali che si sono interessati alla regolazione emotiva vi è Frijda, che con il termine control precedence o precedenza di controllo indica l’attivazione dell’organismo attraverso risposte affettive, cognitive, fisiologiche e comportamentali per gestire in via prioritaria la situazione emotigena, ponendo in secondo piano le azioni in corso. La capacità di regolazione delle emozioni è essenziale per interagire adeguatamente con l’ambiente e diviene automatica all’aumentare del livello di interiorizzazione della norma. Frijda sostiene l’ipotesi per cui le risposte emotive siano frutto di un meccanismo generativo che si autoregola e tutte le fasi del processo generativo delle emozioni possano essere, monitorate, valutate e modulate, sia in modo consapevole che non. Dunque la risposta emotiva manifesta, o esplicita, si configura in una forma diversa da quella che avrebbe avuto in assenza dei meccanismi regolatori che hanno svolto la funzione di mediatori. E’ tuttavia da ricordare che il lavoro di rivalutazione è stato parzialmente compiuto per l’individuo dalla sua stessa cultura e ciò tendenzialmente aumenta il potere adattivo delle emozioni da noi esperite.

 

Le strategie di regolazione emozionale

Diverse sono le strategie adottate dagli individui per modulare i propri stati emotivi: tra le principali si distinguono la rivalutazione (reappraisal), il distacco e la soppressione espressiva.

Il concetto di reappraisal nasce con Lazarus negli anni 60, nell’ambito di ricerca su stress e coping. Lazarus sostiene il ruolo di mediatore cognitivo del processo di valutazione che media fra lo stimolo stressante (stressor) e l’effetto esercitato sull’individuo o, in altri termini, fra le domande dell’ambiente e gli interessi dell’individuo. Con il termine reappraisal si intende dunque una modificazione del significato attribuito ad un evento emotigeno alla luce di informazioni o di considerazioni acquisite o formulate prima, durante o dopo il suo accadere. Dal punto di vista clinico le principali scale che valutano il reappraisal sono la Positive reappraisal contenuta nel WCQ (Ways of Coping Questionnaire di Folkman e Lazarus, 1988) e la Positive reinterpretation and growth del COPE (Carver, Scheier e Weintraub, 1989).

Tra le altre modalità di regolazione, il distacco conduce invece ad una percezione degli eventi come non riguardanti direttamente se stessi. Il distacco può manifestarsi in un appiattimento delle sensazioni provate (numbness) e in un senso di derealizzazione. L’esempio tipico è rappresentato dalla macchina che sbanda o da un evento traumatico come la morte di un compagno. La sensazione è quella che l’evento stia capitando a qualcun altro, nel primo caso tuttavia dopo la fase di appiattimento emotivo segue un periodo di profonda paura che può protrarsi anche una volta cessato il pericolo, mentre nel secondo caso il lutto si manifesta con un appiattimento delle emozioni che perdura nel tempo. Il distacco, tuttavia, può manifestarsi anche in maniera più moderata, come rivalutazione volontaria o come conseguenza di un atteggiamento osservatore. Tale condizione è evidente quando gli individui adottano un atteggiamento umoristico per far fronte alle situazioni angoscianti (Frijda 1986).

Tra le strategie di regolazione emozionale vi sono anche quelle focalizzate sull’espressione dell’emozione, sia essa relativa alla risposta emozionale che alla comunicazione verbale della stessa. Si tratta dunque di un’inibizione conscia del comportamento espressivo-emozionale in corso ed è una modalità di regolazione focalizzata sulla risposta.

 

Le basi neurali della regolazione emozionale

Le emozioni sono state a lungo trascurate dalle neuroscienze cognitive, ma grazie al diffondersi delle tecniche non invasive di neuroimaging  è stato possibile studiare i centri nervosi coinvolti nelle varie risposte emotive e descrivere con accuratezza quali siano le strutture attive in corrispondenza di determinate emozioni o strategie regolative.

In particolare, studi recenti condotti con l’analisi di connettività funzionale hanno mostrato che la capacità dell’uomo di produrre un comportamento emotivo appropriato implica l’attivazione di due circuiti paralleli. Da un lato, esiste una via che coinvolge sia strutture sottocorticali (amigdala, insula, striato e ippocampo) che corticali (corteccia prefrontale laterale e mediana, corteccia cingolata anteriore e corteccia orbitofrontale), la quale sembra implicata nei processi automatici di regolazione emozionale. Dall’altro lato, esiste una via che coinvolge soltanto le strutture corticali (corteccia prefrontale laterale e mediana e corteccia cingolata anteriore), la quale sembra implicata nei processi volontari di regolazione emozionale e nell’adattamento del comportamento alle diverse situazioni.

La scoperta di quest’ultima via si è rivelata fondamentale ai fini della messa a punto di procedure che possono consentire alle persone di giungere ad un maggiore controllo delle proprie emozioni. Un esempio di tali procedure è rappresentato dal neurofeedback, nel quale un individuo viene messo nella condizione di osservare su uno schermo la propria attività cerebrale mentre vive una certa emozione e viene poi addestrato a ridurre gradualmente l’attività della regione coinvolta nell’emozione stessa.

La meta-analisi di Kohn e colleghi del 2013 ci consente inoltre un’immediata comprensione delle principali regioni cerebrali attive durante la regolazione emozionale: risultano attivi bilateralmente il giro frontale inferiore e la regione anteriore dell’insula, l’area supplementare motoria (SMA), la pre-SMA fino al giro cingolato medio anteriore, il giro precentrale bilaterale ed il giro frontale medio bilaterale. Infine altre attivazioni sono state riscontrate in corrispondenza della corteccia temporale media sinistra e dei giri angolari bilaterali.

Nel dettaglio, la corteccia prefrontale dorsolaterale (DLPFC) è ritenuta un’area importante per la regolazione durante lo stadio della generazione emotiva e per la modulazione di una vasta gamma di reazioni comportamentali. La corteccia prefrontale ventrolaterale (VLPFC)  gioca un ruolo significativo nella generazione e nella valutazione delle emozioni e degli affetti (Ochsner and Gross, 2005; Phillips et al., 2008) e appare in stretta associazione con due particolari tipologie di processi emotivi: la cognizione sociale e l’inibizione dell’azione. Il giro cingolato medio anteriore è coinvolto in compiti di memoria, linguaggio e inibizione dell’azione e ricopre un ruolo cruciale nel controllo motorio intenzionale (Hoffstaedter et al., 2012) e nel comportamento legato all’emozione.

Anche l’area supplementare motoria si attiva in corrispondenza della regolazione emozionale, essa in particolare è associata al comportamento motorio cognitivo ed esecutivo. Il giro angolare è correlato alla cognizione sociale ed è generalmente riconosciuto come una corteccia associativa per i processi semantici, la memoria episodica, l’aritmetica mentale e i processi cognitivi auto-rilevanti. Infine vi è il giro temporale superiore che computa processi  integrativi multimodali di ordine superiori, influenza l’attività dell’amigdala ed è implicato nei compiti di cognizione sociale (Muller et al., 2012). Il giro temporale superiore gioca un ruolo importante nella verbalizzazione delle scene sociali o dell’immaginazione mentale ed è inoltre in una posizione particolare che consente, grazie alle proiezioni all’amigdala, di modulare l’eccitazione (arousal) affettiva.

Gli autori distinguono il processo di regolazione in tre fasi a seconda del tipo di elaborazione condotta sullo stimolo emotivo. In particolare, la prima fase è costituita dalla valutazione affettiva, la seconda dai processi iniziali regolatori che rispondono al bisogno di modulare l’eccitazione emozionale generata dallo stimolo emotivo, la terza dalla regolazione vera e propria che da origine ad un nuovo stato emotivo regolato. Per quanto riguarda il primo stadio sono principalmente coinvolte le strutture subcorticali come l’amigdala e lo striato ventrale, che giocano un ruolo importante nei processi di generazione dell’emozione e proiettano l’eccitazione affettiva attraverso l’insula anteriore e il giro cingolato medio anteriore alla corteccia prefrontale ventrolaterale VLPFC).

Quest’ultima è implicata perlopiù nella fase di valutazione e nei processi regolatori iniziali ed è fondamentale per la segnalazione della necessità di regolazione che comunica attraverso il giro del cingolo medio anteriore e le connessioni anatomiche dirette con la corteccia prefrontale dorso laterale (DLPFC). La DLPFC, a sua volta, consente l’esecuzione di “freddi” processi regolatori, che elaborano le informazioni dalla VLPFC e le trasmettono ad una rete neurale implicata nel controllo motorio. Gli autori sottolineano, il duplice ruolo svolto della VLPFC che non solo contribuisce al processo di formazione, ma è anche coinvolta nella rivalutazione dell’attività affettiva delle regioni subcorticali ed è per questo implicata anche nelle fasi di regolazione. Infine nell’ultimo stadio sono coinvolte principalmente le aree pre-motorie, il giro angolare, il giro temporale superiore che conducono alla ricostruzione della scena emotiva ovvero all’esecuzione della regolazione. Tale processo può a sua volta influenzare l’attività dello striato ventrale e dell’amigdala sia direttamente che attraverso il giro cingolato medio anteriore.

 

Regolazione emozionale e salute

La capacità di adottare strategie efficaci di regolazione emozionale è considerata un aspetto fondamentale per l’adattamento, il funzionamento sociale e il benessere psicologico degli individui. Nessuna modalità di regolazione è adattiva di per sé, ma la sua funzionalità è legata agli scopi personali e al contesto in cui si manifestano determinate risposte emotive. I disordini che coinvolgono la sfera della regolazione comportano l’uso di strategie disadattive e sono alla base di molti sintomi psicopatologici. Gli stati emotivi inoltre hanno una forte influenza su altre funzioni complesse cerebrali, comprese le facoltà nervose alla base delle decisioni razionali e dei giudizi interpersonali che orientano i comportamenti sociali. Per questi motivi l’interesse nei confronti della regolazione è cresciuto negli ultimi anni e ha condotto alla realizzazione di diversi studi per il miglioramento delle tecniche psicoterapeutiche e per l’incremento della conoscenza sulla cognizione sociale.

La capacità di regolare gli stati emotivi procede di pari passo con i tratti di personalità: gli individui affrontano i sentimenti in base a quanto è loro consentito, ovvero in base alla capacità di autocontrollo, al desiderio di sicurezza o di stimolazione, alla capacità di tollerare le situazioni stressanti. Per semplificare è possibile mettere a confronto due strategie regolative, ovvero la rivalutazione cognitiva e la soppressione espressiva.

In primo luogo, la rivalutazione cognitiva avviene nelle fasi iniziali del processo emotivo e comporta un impiego di risorse cognitive limitato poiché consente di modificare la sequenza emozionale prima che le tendenze alla risposta si siano completamente formate. La soppressione espressiva avviene invece nella fase finale e richiede uno sforzo cognitivo maggiore. Gli individui che adottano la strategia della soppressione espressiva percepiscono un senso di incongruenza tra ciò che provano e ciò che esprimono e ciò che comporta a lungo andare un forte senso di inautenticità associato a sentimenti negativi verso il sé e all’estraniazione dagli altri. Gli studi che hanno indagato le differenze tra le due strategie sopracitate, sottolineano la connotazione negativa della soppressione espressiva. Essa infatti, come indica il termine stesso, riduce il comportamento espressivo tuttavia non l’esperienza soggettiva e comporta un aumento di attivazione fisiologica. La rivalutazione cognitiva invece limita sia il comportamento espressivo che l’esperienza soggettiva delle emozioni negative e non induce aumenti nell’attivazione fisiologica.

Per descrivere le differenze tra le due strategie è utile fare riferimento ai quattro domini principali della salute psicologica, ovvero l’affetto, la cognizione, il funzionamento sociale e il benessere. Per quanto riguarda la prima dimensione, l’uso frequente della strategia di rivalutazione cognitiva è associato a un maggior numero di esperienze emotive positive e un minor numero di esperienze e espressioni negative. L’adozione frequente della strategia di soppressione espressiva non riduce invece la negatività dell’emozione, bensì la aumenta a causa della percezione del senso di inautenticità ed è inoltre associata ad una minore esperienza ed espressione emotiva positiva.

Dal punto di vista cognitivo, come già anticipato, la soppressione si traduce in un consumo superiore di risorse rispetto alla rivalutazione poiché interviene alla fine del processo emotivo. Per quanto riguarda la sfera sociale, gli individui che sopprimono con alta frequenza le espressioni emotive tendenzialmente evitano le relazioni, non condividono esperienze intime positive o negative e di conseguenza hanno meno legami affettivi profondi e meno supporto sociale. Al contrario gli individui che utilizzano la rivalutazione cognitiva condividono le proprie emozioni positive o negative e sono alla ricerca di legami affettivi, che non sono superiori per quantità ma per qualità. Infine, le differenze riscontrate nel dominio del benessere psicologico sono chiaramente identificabili: la rivalutazione è considerata la promotrice del benessere psicologico, in quanto diminuisce l’impatto negativo degli eventi avversi e produce un effetto protettivo contro la depressione, aumentando la soddisfazione della vita e dell’autostima. La soppressione è invece associata a conseguenze avverse quali emozioni negative, minor supporto sociale, rischio di depressione e bassi livelli di soddisfazione.

Le differenze individuali nella capacità di regolazione emozionale non sono da considerare come tratti immutabili, piuttosto come acquisizioni sociali sensibili agli sviluppi individuali. Un fattore determinante è costituito dall’educazione genitoriale che può incoraggiare l’utilizzo di strategie regolative adeguate come la rivalutazione cognitiva, o contribuire alla formazione di una visione evitante delle emozioni che devono essere minimizzate o non espresse. Il periodo dall’infanzia all’età adulta è importante per la formazione delle differenze individuali, sembra infatti che la capacità di regolare i propri stati emotivi possa migliorare con l’età e sia soggetta a costante apprendimento. Nell’ottica di Gross e John il progredire dell’età, associato all’aumento delle esperienze di vita, è conseguentemente legato all’incremento di consapevolezza circa i costi e i benefici delle differenti forme di regolazione emozionale, per cui l’abilità di regolare le emozioni sarebbe soggetta a costante mutamento nel corso della vita (Gross & John, 2002).

Il suicidio nel Disturbo dello Spettro Autistico: review della letteratura

Sembrebbe che soggetti con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico possano tentare o commettere un suicidio specialmente quando hanno in concomitanza sintomi depressivi. Depressione, problemi comportamentali e bullismo sono tra gli stress psicologici più predittivi di ideazione suicidaria o tentativo di suicidio.

Ignazio Maniscalco – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

Disturbo dello Spettro Autistico e suicidio: introduzione

Il nuovo Manuale Diagnostico-Statistico delle Malattie Mentali (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, Edition 5; DSM-5; APA, 2013), propone il disturbo dello spettro autistico (Autism Spectrum Disorder; ASD) come la sola diagnosi per la precedente categoria diagnostica dei Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (Pervasive Developmental Disorder) nella precedente edizione (DSM-IV-TR; APA, 2002), come anche l’eliminazione della Sindrome di Asperger (Asperger Syndrome; AS).

Questo cambiamento enfatizza il concetto dimensionale del quadro clinico delle aree neurocognitive interessate (comunicazione sociale e inflessibilità mentale). Questa nuova classificazione è basata su evidenze empiriche che la maggior parte dei soggetti affetti incontra i criteri diagnostici del disturbo autistico (Belinchon M, et al, 2003; Howlin P, 2003). La prevalenza del disturbo dello spettro autistico negli adulti è stimato essere circa 0,98% (Brugha TS, et al, 2011), la quale è abbastanza simile a quella riscontrata nella popolazione infantile (Baird G, et al, 2006).

Vi è un rinnovato interesse nell’importanza di studiare e valutare il rischio suicidario. La American Psychiatric Association ha sviluppato alcune linee guida per prevenire e valutare il rischio suicidario; nel DSM-5, la presenza o assenza di rischio suicidario dovrebbe essere valutato come un sesto asse (“V 02 Suicidal Behaviour Disorder”) (APA, 2013; Oquendo MA, et al, 2009; Garcia-Nieto R, et al, 2012).

Nella popolazione generale, il suicidio è classificato come una delle prime cause di morte in adolescenti ed il trend è in crescita (Hawton K, et al, 2012).

 

La depressione nel Disturbo dello Spettro Autistico

Gli studi confermano l’alto rischio di comorbidità del Disturbo dello Spettro Autistico con la depressione in particolare i soggetti ad alto funzionamento (high functioning autism spectrum disorders; HFASD) (Simonoff E, et al, 2008; Whitehouse AJO, et al, 2009; White SW, et al, 2009; Wing L, 1996; Kanner L, 1943; Wing L, 1981; Gillberg C, et al, 2000; Ghaziuddin E, et al, 1998; Kanne SM, et al, 2009; Ghaziuddin M, et al, 2002; Barnhill, et al, 2001; Leyfer OT, et al, 2006; Mayes SD, et al, 2011; Mayes SD, et al, 2011a; Green J, et al, 2000; Hurtig T, et al, 2009; Kim JA, et al, 2000; Meyer JA, et al, 2006).

Studi suggeriscono un’aumentata prevalenza di disturbi affettivi tra i parenti di primo grado dei soggetti autistici (Ingersoll B, et al, 2011; Micali N, et al, 2004), suggerendo talaltro una possibile interazione di fattori neurochimici condivisi (Cook EH, et al, 1994).

In aggiunta, questi problemi potrebbero influenzare negativamente la famiglia, producendo un’incremento dello stress e dei conflitti nei caregivers (Cappe E, et al, 2009).

Ricerche suggeriscono che tale condizione può esacerbare i sintomi nucleari dell’autismo, compremettendo la qualità di vita e il livello funzionale a lungo termine (Matson JL, et al, 2007). Infatti i soggetti ad alto funzionamento, che raggiungono elevati livelli cognitivi e capacità di introspezione, potrebbero presentare maggior rischio di depressione nella fascia di età adolescenziale, dovuto al fatto che sono più consapevoli delle loro difficoltà nelle relazioni sociali (Belinchon M, et al, 2003; Howlin P, 2003). Questo fattore potrebbe ipotizzare un aumento dei casi di suicidio in quella fascia di età (De-la-Iglesia M, et al, 2015).

Ghaziuddin e collaboratori (Ghaziuddin M, et al, 2002) hanno discusso che la risposta autistica ad eventi negativi con sintomi depressivi è probabilmente derivata dal fatto che i pazienti autistici sono geneticamente predisposti alla depressione (Mazzone L, et al, 2012). Comunque non ci sono ancora studi sistematici che hanno confermato l’ipotesi che l’insorgenza di depressione sia mediata da fattori genetici.

Sulla base delle risposte date da parte di 89 genitori di bambini con diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico di età compresa tra 5 e 17 anni, Stratis e Lecavalier (Stratis EA, et al, 2013) hanno trovato che adolescenti con alti livelli di comportamento rituale tendevano a mostrare maggiori sintomi depressivi.

 

Il ruolo della neurobiologia e della neurogenetica

Una correlazione tra Disturbo dello Spettro Autistico e depressione è stata dimostrata dallo studio di Smoller e colleghi (Smoller JW, et al, 2013; Cook EHJ, et al, 1994). Tali dati potrebbero essere in accordo con l’evidenza da studi di genetica che ha esaminato loci genetici di rischio (Ijichi S, et al, 2013; Betancur C, 2011), che hanno dimostrato degli effetti condivisi tra autismo, ADHD, schizofrenia, disturbo bipolare e depressione maggiore (Smoller JW, et al, 2013).

È ben risaputo che la serotonina è coinvolta sia nella depressione che nell’autismo. Diversi dati mostrano che cambiamenti dei livelli serotoninergici possono influenzare mediante diversi meccanismi (Kepser LJ, et al, 2015).

 

Il bullismo come evento stressante

Un evento stressante a rischio per i soggetti affetti da disturbo dello Spettro Autistico è l’abuso e maltrattamento da parte del gruppo dei pari. Alcuni studi hanno dimostrato una correlazione tra questa varibile con con sintomi depressivi, ansiosi, sentimenti di solitudine e suicidio (Hawker DSJ, et al, 2000).

Il bullismo frequentemente coinvolge bambini affetti da disturbo dello Spettro Autistico (Cappadocia MC, et al, 2012; Van Roekel E, et al, 2010; Carter S, 2009; Wainscot JJ, et al, 2008). In uno studio, 34 genitori di bambini autistici di età compresa tra 5 e 21 anni, hanno indicato che circa il 65% dei figli era vittima di bullismo (Carter S, 2009); in uno studio condotto da Mayes e collaboratori (Mayes SD, et al, 2013), che ha studiato un campione di 791 bambini autistici, il 57% delle madri ha riportato che i propri figli erano vittima di bullismo. Ricerche condotte da Wainscot e collaboratori (Wainscot JJ, et al, 2008) hanno trovato simili tassi tra 57 giovani adulti affetti da autismo ad alto funzionamento. Altri studio hanno registrato tassi del 75% tra adolescenti affetti da autismo ad alto funzionamento (Little L, 2001).

Molti autori tentano di spiegare la correlazione tra gli alti tassi di bullismo con alcuni sintomi cardini o sintomi associati al disturbo dello Spettro Autistico. Per esempio le difficoltà nelle interazioni sociali e nella comunicazione o il rischio di essere oggetto di giochi dovuti alla loro rigidità (comportamenti ripetitivi, interessi ristretti), mancanza di assertività, reazioni intense comportamentali ed emotive, eccentricità, difficoltà con alcune capacità intellettive. Cappadocia e collaboratori (Cappadocia MC, et al, 2012) hanno trovato associazioni dirette tra bullismo ed alcuni comportamenti che possono essere osservati nell’autismo (comportamento stereotipato, auto-lesività, difficoltà comunicative ed ipersensibilità), come pure sintomi ansiosi ed iperattività, in un campione di 192 genitori di bambini affetti da autismo di età compresa tra 5 e 21 anni (di cui il 54% era affetto da autismo ad alto funzionamento).

 

Studi su Disturbo dello Spettro Autistico e suicidio

Diversi studi hanno riportato che molti individui con autismo manifestano comportamenti suicidari (Wolff S, et al, 1995; Balfe M, et al, 2010; Raja M, et al, 2011; Cassidy S, et al, 2014; Hannon G, et al, 2013; Kato K, et al, 2013). Studi sistematici, su soggetti autistici, focalizzanti i comportamenti suicidari sono rari e sono stati condotti in campioni di popolazione piccole (Fitzgerald M, 2007; Barry-Walsh JB, et al, 2004; Frazier JA, et al, 2002). Il rischio di suicidio nell’autismo è sottostimato; questo potrebbe derivare dal basso tasso di suicidio riuscito nella popolazione pediatrica e pre-adolescienziale e dal fatto che l’autismo rappresenta una delle diagnosi più misconosciute della psichiatria degli adulti (Hannon G, et al, 2013; Fitzgerald M, 2007).

Le caratteristiche patognonomiche del disturbo dello Spettro Autistico potrebbero mascherare i sintomi che indicherebbero un rischio immediato di suicidio; come alterazioni della comunicazione e dell’interazione sociale, comportamenti bizzarri, deficit cognitivi (Raja M, et al, 2011). Alcuni studi indicano che soggetti adulti affetti da autismo, hanno maggiori tassi di suicidio riuscito al primo tentativo (Kato K, et al, 2013), in quanto eseguiti con metodi violenti (impiccagione, arma da fuoco o avvelenamento).

Tra i pochi studi epidemiologici sul suicidio e autismo, si evidenzia lo studio di Balfe e Tantam (Balfe M, et al, 2010). Loro hanno studiato 42 adolescenti e adulti affetti da disturbo dello Spettro Autistico ad alto funzionamento (età media, 26.21 anni) ed hanno trovato un tasso di tentativo di suicidio del 15%. Storch e collaboratori hanno riportato un tasso del 11% tra 102 preadolescenti ed adolescenti, di età compresa tra 7 e 16 anni affetti da autismo ad alto funzionamento, in cui era presente depressione e disturbo post-traumatico da stress in comorbidità (Storch EA, et al, 2013).

Raja e collaboratori hanno riportato dati simili, studiando 26 soggetti adulti autistici in comorbidità con disturbo psicotico, riportando un tasso di suicidio del 7.7% (2 casi), 3.8% di tentativo di suicidio (1 caso), 3.8% di autolesionismo (1 caso), e 30.8% (8 casi) di ideazione suicidaria (Raja M, et al, 2011). In riferimento all’ideazione suicidaria, Shtayermman (Shtayermman O, 2007) ha trovato un tasso del 50% (5 casi) in adolescenti e giovani adulti autistici; mentre Wing (Wing L, 1981) ha indicato che nel 18.75% (3 casi) del campione di soggetti autistici ha dimostrato ideazione suicidaria o tentativo di suicidio. L’ideazione suicidaria è significativamente presente nella popolazione pediatrica autistica (Gadow KD, et al, 2012).

In studi in cui il Disturbo dello Spettro Autistico viene diagnosticato in popolazioni caratterizzate da soggetti ammessi in ospedale dopo tentativo di suicidio; si evidenzia lo studio di Høg e collaboratori che ha studiato una popolazione di 126 bambini, nel quale nel 97% (123 casi) erano diagnosticati con almeno una diagnosi psichiatrica, in cui tra loro, 7 bambini presentavano autismo in comorbidità con psicosi [Høg V, et al, 2002].

In uno studio retrospettivo, Mikami e collaboratori hanno trovato che dei 94 adolescenti ospedalizzati per un tentativo di suicidio, il 12.8% (12 casi) presentavano Disturbo dello Spettro Autistico (Mikami K, et al, 2009). Tra questi, 5 soggetti dei 12 pazienti (42%) aveva un’anamnesi positiva per precedenti tentativi di suicidio.

In uno studio simile, Kato e collaboratori (Kato K, et al, 2013) ha studiato 587 soggetti giovani adulti ed ha trovato che il 7.3% (43 casi) presentavano Disturbo dello Spettro Autistico. In tutti questi studi, la prevalenza in soggetti autistici era maggiore rispetto alla popolazione generale.

Sembrebbe dunque che soggetti con diagnosi di autismo ad alto funzionamento possano tentare o commettere un suicidio specialmente quando hanno in concomitanza sintomi depressivi. Mayes e collaboratori hanno concluso (Mayes SD, et al, 2013), che depressione, problemi comportamentali e bullismo sono tra gli stress psicologici più predittivi di ideazione suicidaria o tentativo di suicidio.

Il tasso di ideazione suicidaria e di tentativo di suicidio era 28 volte più elevato in bambini e adolescenti (fino a 16 anni) con Disturbo dello Spettro Autistico rispetto ai controlli. I ricercatori hanno concluso che certe variabili demografiche (età superiore a 10, sesso maschile, razza afro-americana o ispanica, professione del padre poco remunerativa e storia di bullismo) sono dei fattori di rischio suicidario in soggetti affetti da Disturbo dello Spettro Autistico; mentre tra i fattori comportamentali, disubbidienza, ribellione, aggressività, impulsività, depressione e disregolazione emotiva (esplosivo, irritabile) sono maggiormente correlati al comportamento suicidario (Mayes SD, et al, 2013).

In uno studio condotto da McDermott e collaboratori hanno riportato che il tasso relativo di autolesionismo o tentativo di suicidio era molto più elevato tra i bambini affetti da autismo rispetto a quelli senza diagnosi di autismo, che sono stati ammessi in un dipartimento di emergenza (RR = 7.62, 95% intervallo di confidenza = 1.65–35.21) (McDermott S, et al, 2008).

Altri studi hanno evidenziato una correlazione negativa tra gravità dell’autismo e livelli di ideazione suicidaria (Shtayermman O, 2007).

Inflessibilità cognitiva, disregolazione emotiva (Rydén E, et al, 2008; Semrud-Clikeman M, et al, 2010), difficoltà nell’identificare sentimenti stressanti (Samson A, et al, 2012) potrebbero contribuire all’insorgere dell’ ideazione o del comportamento suicidario. Similmente, soggetti con tratti autistici lievi o atipici paradossalmente potrebbero manifestare un’incrementata suicidalità, la quale è esacerbata da sentimenti di disperazione relativi alla discrepanza tra alta domanda di adattamento sociale e competenze interpersonali.

Nello studio condotto da Takara e collaboratori (Takara K, et al, 2014), l’agitazione era il più influente fattore di tentativo di suicidio tra tutti i soggetti depressi e la sua incidenza era estremamente più elevata tra i soggetti che hanno tentato il suicidio affetti da autismo. Alcuni studi hanno dimostrato che l’agitazione era uno dei più importanti manifestazioni dell’autismo visitati nei dipartimenti di emergenza (Bradley E, et al, 2005; McGonigle JJ, et al, 2014).

Kato e collaboratori hanno suggerito che soggetti autistici tendono a scegliere metodi più letali, a causa della loro inferiore immaginazione ed al loro diminuito controllo degli impulsi rispetto alla popolazione generale (Kato K, et al, 2013).

Billstedt e collaboratori (Billstedt E, et al, 2005) hanno riportato che circa la metà dei soggetti con Disturbo dello Spettro Autistico o tratti autistici atipici avevano manifestato gradi moderati o gravi di autolesionismo in un follow-up di 13–22 anni.

In uno studio su tassi di ideazione suicidaria e di tentativo di suicidio mediante valutazione dei genitori, hanno dimostrato tassi significativamente maggiori in bambini affetti da Disturbo dello Spettro Autistico (14%) rispetto a bambini controllo (0,5%) (Mayes SD, et al, 2013). Uno studio su 102 giovani soggetti con autismo in comorbidità con disturbi d’ansia, il tasso di ideazione suicidaria e di tentativo di suicidio, era dell’11% (Storch EA, et al, 2013). Uno studio condotto su 42 soggetti adulti affetti da sindrome di Asperger, il tasso di ideazione suicidaria era di 40% e il tasso di tentativo di suicidio di 15% (Balfe M, et al, 2010). In 26 pazienti adulti psichiatrici con disturbo dello spettro autistico, il 30,8% presentava ideazione suicidaria e due sono morti per suicidio (Raja M, et al, 2011).

Tradire con l’immaginazione – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Mi sto chiedendo se sia giusto o sbagliato, nonostante una persona sia fidanzata, avere delle fantasie principalmente sessuali su altre persone, persone dalle quali magari si era attratti in passato, ma non per forza. Inoltre mi chiedo se sia giusto non cedere a queste tentazioni se per caso si presentassero in modo più concreto e resistervi. Insomma in che modo ci si deve comportare? (Yoyo)

 

 

Caro Yoyo,

l’immaginazione è forse l’ultimo spazio di autentica intimità che ci è concesso negli anni dominati dai social media. Invece di chiederci se sia giusto o sbagliato avere fantasie sessuali su persone diverse dal proprio/dalla propria partner dovremmo chiederci qual è il rapporto tra questa dimensione immaginativa così intima e la nostra vita amorosa.

La risposta alla sua domanda quindi non può essere univoca, ma deve tenere conto di diversi fattori, primo fra tutti il benessere psicologico della coppia e degli individui che la compongono. Pertanto, caro Yoyo, la invito a riflettere su come i pensieri che ha esposto la fanno sentire. Teme che la solidità del rapporto possa essere minata in qualche modo dalle sue fantasie, o al contrario crede che trovando sfogo in esse sarà meno propenso a tradire realmente? Le sue fantasie sessuali influenzato il desiderio sessuale verso il suo partner? Se sì, in che modo?

Avere fantasie sessuali su persone diverse dal proprio/dalla propria partner è un fenomeno piuttosto frequente (anche se non tutti sono disposti ad ammetterlo!), altra cosa è come ci comportiamo quando l’occasione di essere infedeli si fa più concreta. Prima di essere avventato rifletta bene sui suoi desideri e se lo ritiene opportuno ne parli apertamente con la sua/il suo partner.

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Ipocondria: efficacia di un trattamento cognitivo comportamentale online

Una ricerca condotta in Svezia ha dimostrato l’efficacia di una terapia cognitivo comportamentale online per persone con diagnosi di ipocondria.

 

L’efficacia della terapia cognitivo comportamentale online per l’ ipocondria

L’ipocondria è caratterizzata da una forte ansia per il proprio stato di salute. L’aspetto principale dell’ipocondria è che la paura o la convinzione ingiustificate di avere una malattia persistono nonostante le rassicurazioni mediche.

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) ha dimostrato di essere efficace per l’ipocondria, ma, come sottolineano i ricercatori svedesi, a causa della cronica scarsità di terapeuti nel settore sanitario pubblico, non sempre risulta disponibile, quindi, potrebbe essere molto utile sviluppare nuove modalità di trattamento.

In questo studio è stata valutata l’efficacia di una terapia cognitivo comportamentale online per l’ipocondria con la guida via e-mail di uno psicologo.

Lo studio randomizzato ha messo a confronto un trattamento di terapia cognitivo comportamentale online di 12 settimane gestito da uno psicologo tramite e-mail, con un gruppo di controllo, che, per tutta la durata della ricerca, non ha preso parte a nessun tipo di trattamento.
Allo studio, hanno partecipato 81 persone con diagnosi di ipocondria secondo i criteri del DSM-IV, che sono state divise in modo del tutto casuale in uno dei due gruppi di ricerca.
Al termine delle 12 settimane anche il gruppo di controllo ha avuto accesso al trattamento per l’ipocondria.

I partecipanti allo studio sono stati inviati da psichiatri e medici di base, sono state escluse persone con malattie somatiche gravi, con storia di psicosi o di disturbo bipolare, persone con alti livelli di depressione, persone con ideazione suicidaria, con disturbi di personalità e infine persone che presentavano abuso di sostanze.

Le valutazioni, comprese le interviste diagnostiche eseguite da uno psicologo clinico, sono state condotte prima del trattamento, immediatamente dopo il trattamento e a 6 mesi dalla fine. Tutte le valutazioni iniziali di selezione dei pazienti sono state effettuate da psichiatri e psicologi in presenza, mentre, quasi tutte le misure di outcome, sono state somministrate dallo psicologo online.

Il trattamento utilizzato ha fatto riferimento al modello cognitivo-comportamentale per l‘ipocondria. Inoltre, gli psicologi , hanno previsto una formazione mindfulness per insegnare ai partecipanti ad osservare le proprie sensazioni corporee senza cercare di controllarle.

Il trattamento previsto era sostanzialmente di auto-aiuto, somministrato tramite una specifica piattaforma gestita da uno psicologo online.
Ogni modulo è stato dedicato ad un tema specifico e comprendeva i relativi esercizi.

La durata del trattamento cognitivo-comportamentale era di 12 settimane e, durante questo periodo, i partecipanti hanno avuto la possibilità di contattare a loro discrezione lo psicologo online. Il ruolo dello psicologo è stato principalmente quello di fornire un feedback riguardo i compiti e di garantire l’accesso ai moduli di trattamento successivi; tuttavia, i partecipanti potevano contattare lo psicologo online, in qualsiasi momento. Durante la fase di trattamento, i partecipanti hanno anche avuto la possibilità di accedere ad un forum di discussione online che ha permesso il contatto anonimo con gli altri partecipanti.

Dopo il trattamento, 27 dei 40 partecipanti (67,5%) che avevano ricevuto la terapia cognitivo comportamentale online non hanno più soddisfatto i criteri diagnostici per l’ipocondria. Nel gruppo di controllo soltanto 2 dei 41 partecipanti (4,9%) non ha più soddisfatto criteri diagnostici per l’ipocondria secondo il DSM-IV.
A 6 mesi di follow-up i miglioramenti sono stati mantenuti, con 32 su 40 partecipanti al gruppo CBT basato su internet (80%) che non hanno più soddisfatto i criteri diagnostici per l’ipocondria.

Questa ricerca suggerisce che una terapia cognitivo comportamentale online può essere considerato un’alternativa efficace ed efficiente al classico trattamento per l’ipocondria e suggeriscono di continuare gli studi in questa direzione.

 

Il bullismo: strategie d’intervento per aiutare i bambini a difendersi

Sarebbe opportuno pensare al bullismo come fosse un grande recipiente contenente un ampio spettro di comportamenti che condizionano negativamente i pensieri, i sentimenti e le relazioni sociali di chi lo subisce.

 

Introduzione: bullismo o conflitto tra coetanei?

Sarebbe opportuno cominciare a pensare al termine “bullismo”come fosse un grande recipiente contenente un ampio spettro di comportamenti che condizionano negativamente i pensieri, i sentimenti e le relazioni sociali di chi lo subisce. Demarcare la linea fra il classico conflitto fra coetanei ed il bullismo spesso non è così facile per insegnanti e genitori che si trovano nella posizione d’aiuto per eccellenza.

Un comportamento che mira chiaramente a provocare del danno al bambino non andrebbe classificato come forma di un normale conflitto.

Per dirla con le parole di Olweus, uno dei massimi esperti in materia, “uno studente è oggetto di bullismo, ovvero è prevaricato e vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni”(Olweus, 1996).

Di seguito vengono riportati gli strumenti necessari per riconoscere il bullismo ed intervenire in modo efficace.

 

Bullismo o Bullismi?

Quando si pensa al bullismo la prima immagine che ci viene in mente è quello del ragazzino debole che viene picchiato da compagnetto gradasso di turno, ma il bullismo fisico è solo uno dei modi in cui si manifesta questa piaga sociale. Non per questo dobbiamo pensare che sia anche il più facile di cui accorgersi.

Rientra fra il bullismo fisico il fenomeno dello “swirling”, cioè la pratica di spingere la testa del malcapitato dentro al gabinetto. Purtroppo è più diffusa di quello che si possa pensare, in quanto molto umiliante, ma i bambini che lo subiscono non riportano segni sul corpo che rendono il riconoscimento del bullismo immediato. La stessa cosa vale per le continue spinte per terra.

Tuttavia esistono modi ancora più subdoli di cui si avvalgono i bulli. Fra questi rientra il bullismo verbale, estremamente dannoso per l’autostima dei bambini. Si tratta di comportamenti che hanno come scopo l’umiliazione e l’annullamento della vittima mediante insulti, pettegolezzi infondati lasciati circolare intenzionalmente, derisioni continue e ripetute, osservazioni malevole dai toni razzisti o indirizzati verso difetti fisici.

Infine è utile fare focus anche sul bullismo relazionale, cioè quel bullismo volto all’isolamento della vittima, escludendola da tutti i gruppi sociali, facendogli trovare scritte minacciose sul banco, non rivolgendogli la parola trascinando nello stesso comportamento l’intero gruppo, guardandola in maniera schifata e rendendola oggetto di offese molto gravi (ad esempio “Ti odiano tutti”; “ucciditi”; “sarebbe stato meglio per tutti se non fossi mai nato”, etc.).

In quest’ultima categoria rientra anche il cyberbullismo che ricalca le stesse dinamiche ma in maniera ancora più efferata in quanto digitale e impersonale.

 

Come riconoscere le caratteristiche tipiche del bullismo?

Olweus descrive 3 caratteristiche tipiche del comportamento da bullo e i protagonisti che vengono coinvolti in questa dinamica sociale. Per quanto riguarda le caratteristiche esse sono:

  • L’  intenzionalità: il comportamento ha come preciso scopo il creare nocumento all’altra persona;
  • La sistematicità: il fenomeno si ripete nel tempo con caratteristiche di costanza e perseveranza;
  • L’ asimmetria di potere: nella relazione il bullo si trova in una situazione privilegiata di “forza” mentre la vittima è costretta a subire in quanto, per diversi motivi,  incapace di difendersi. (Olweus, 1993; Coie e Dodge, 1998; Smith et al.,1999).

Per quanto riguarda lo scenario, le figure coinvolte sono:

  • Il bullo:  E’ caratterizzato da marcata aggressività verso gli altri (indipendentemente che siano coetanei o adulti), da scarsa empatia ed è mosso da una marcata necessità di dominio sugli altri ( Coie et al., 1991; Boulton e Underwood, 1992).
  • La vittima: Di solito è caratterizzata da ansia, insicurezza e uno scarso senso di autostima e autoefficacia. Ciò implica una visione negativistica di sé e delle proprie competenze (Olweus, 1993; Perry, Kusel e Perry, 1988; Kochenderfer e Ladd, 1997).
  • Gli spettatori o pubblico: si tratta di coloro che, pur non essendo coinvolti direttamente nel fenomeno, ne sono consapevoli. Osservano le dinamiche senza intervenire in alcun modo nell’aiutare la vittima.

 

Consigli pratici per genitori

Infine è doveroso riportare alcuni consigli pratici che i genitori di bambini che affrontano questo problema possono mettere in atto per meglio consigliare i loro figli per gestire la situazione senza rischiare di comprometterla. Infatti spesso i genitori si chiedono “come dovrebbe reagire mio figlio?”:

  • Non avere reazioni violente a scopo di vendetta, di solito non sono utili e portano ad un peggioramento della situazione;
  • Sforzarsi di mantenere la calma. I bulli hanno come scopo provocare la reazione di umiliazione e il soddisfacimento di questo loro bisogno li porta alla reiterazione del comportamento. Il non ottenimento di questa reazione potrebbe farli desistere;
  • Ricordarsi che non si è soli. Il bullismo non è una cosa che la vittima deve affrontare da sola, riguarda anche i genitore e l’istituzione scolastica. Dunque non bisogna aver paura di parlarne con quanti più adulti di riferimento possibili;
  • Evitare di frequentare gli stessi posti del bullo e cercare di essere quanto più possibile sempre in compagnia e mai soli;
  • Quando si risponde al bullo farlo sempre in modo determinato, fermo ed assertivo. Non rispondere in modo aggressivo, ma nemmeno in modo sottomesso;
  • Cercare di volgere a vostro favore i commenti negativi del bullo;
  • Coltivare quante più amicizie possibili dentro e fuori la scuola. Avere degli amici che vi vogliono bene e che sono dalla vostra parte vi aiuterà a non cedere emotivamente;
  • A volte, in qualche caso, l’autoironia si dimostra essere nostra alleata. Qualche bullo potrebbe apprezzare il vostro senso dell’umorismo e lasciarvi in pace. Ovviamente ciò è differente per ogni caso, quindi valutate bene la persona con cui avete a che fare prima di farne una strategia d’utilizzo.

L’ alleanza terapeutica nel trattamento del disturbo borderline di personalità

Nella relazione con pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità, la flessione dell’ alleanza terapeutica raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo terapeutico: rievocare tale obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza.

Maddalena Goffredo – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Milano

 

L’ alleanza terapeutica, nonostante sia soltanto una delle variabili della relazione clinica, è probabilmente la più importante ai fini dell’efficacia terapeutica ( Lingardi, 2002, Nocross, 2011, Safran, Muran, 2000).

Essa rappresenta, infatti, il fattore terapeutico aspecifico, ovvero non correlato all’uso di tecniche proprie di specifici orientamenti e modelli psicoterapeutici, con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).

Diversi autori hanno tentato di dare una definizione specifica del costrutto. In questo articolo tenterò di descriverla e definirla attraverso la rassegna dei vari studi condotti su di essa, nello specifico condotti nelle terapie del disturbo borderline di personalità, il quale risulta essere, per le sue varie caratteristiche, il più vulnerabile alla formazione delle rotture dell’ alleanza terapeutica e delle interruzioni di trattamenti terapeutici (né seguirà una descrizione nella seconda parte dell’articolo).

 

Alleanza terapeutica: definizioni e caratteristiche

Bordin (1979) definisce l’ alleanza terapeutica sulla base dell’esistenza di tre componenti:  l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta, la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento e il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto. Considera il terzo elemento, il legame affettivo quindi, come costitutivo dell’ alleanza terapeutica, e fattore aspecifico di grande efficacia clinica.

Secondo l’autore esso emerge dall’interazione tra due variabili principali: da un lato i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, d’altro lato le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’ alleanza terapeutica e nella conduzione di una terapia avente buon esito; la condivisione degli obiettivi e la chiarezza, circa i diversi compiti del terapeuta e del paziente, assumono maggiore importanza rispetto al legame emotivo, nell’empirismo collaborativo di Beck (1976).

Safran e Segal (1990), come Bordin (1979), hanno indirizzato il loro lavoro alla descrizione del terzo fattore della definizione di Bordin (1979), definendolo  come una qualità dinamica della relazione che il terapeuta deve controllare costantemente in quanto in continua oscillazione. Gli autori propongono di analizzare i marcatori interpersonali insieme agli atteggiamenti problematici del paziente, riconcettualizzando il caso perché così facendo il terapeuta cognitivista può accorgersi che l’atteggiamento problematico del paziente dipende dal riemergere di schemi cognitivi interpersonali poco adattivi, che coinvolgono lo scambio col terapeuta (concetto sovrapponibile con il ciclo interpersonale problematico di Semerari, 2000).

La prospettiva cognitiva evoluzionista, che cerca di colmare la mancanza di una teoria della relazione interpersonale e delle motivazioni umane alla relazione (Gilbert,1989; Liotti, 1994/2005), vede nella relazione terapeutica lo scopo di strumento conoscitivo e di processo che cura, sulla base dei SMI (Sistemi Motivazionali Interpersonali). La relazione clinica diventa quindi la sede in cui terapeuta e paziente esplorano gli stati d’animo e i processi di pensiero di entrambi i membri, con lo scopo di aumentare le capacità metacognitive del paziente.

L’incremento di queste capacità permette al paziente di riflettere sui propri contenuti mentali. Secondo questa prospettiva il motore dell’ incrementata capacità è il sistema motivazionale cooperativo, che favorisce la condivisione dell’attenzione per lo stesso oggetto, cioè gli stati mentali di entrambi i partecipanti.

È importante sottolineare che questa prospettiva distingue le dinamiche transferali dall’ alleanza terapeutica. Le dinamiche transferali emergono, secondo questo modello, nelle fasi in cui il paziente percepisce un maggior senso di vulnerabilità e necessita di un maggior sostegno da parte del terapeuta, attivando il sistema di attaccamento motivazionale. L’ alleanza terapeutica invece è coordinata dall’attivazione del sistema motivazionale cooperativo.

L’atteggiamento collaborativo si fonda su strutture di memoria meno problematiche di quelle dell’attaccamento e quando attive nei momenti di alleanza, durante lo scambio clinico, permettono, oltre alla condivisione di obiettivi, anche l’esplorazione congiunta delle difficoltà attuali del paziente. In sintesi, l’ alleanza terapeutica è comprensibile in termini di attivazione del sistema cooperativo in entrambi  i membri della diade terapeutica, mentre le sue flessioni e le sue fratture sono dovute soprattutto all’attivazione, nel paziente, del sistema di attaccamento e dei MOI insicuri e disorganizzati a esso coordinati (e di accudimento conseguente nel terapeuta).

 

Alleanza terapeutica e attaccamento

L’influenza dello stile di attaccamento è stata confermata da numerosi studi tra cui quello di Eames e Roth (2000), dal quale si evince come nei pazienti con stile disorganizzato o invischiato le terapie presentavano frequenti rotture dell’ alleanza, di cui si discuterà in seguito (Liotti, Monticelli 2014).

Si evince quindi che in un contesto terapeutico, ogni volta che nel dialogo clinico affiorino memorie e aspettative di difficoltà e dolore mentale, sia inevitabile l’attivazione del sistema di attaccamento. Il rapporto clinico tra psicoterapeuta e paziente si presenta dunque frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982).

Il paziente, in almeno alcuni momenti del dialogo clinico, racconta la propria sofferenza, paura o angoscia e lo stato mentale che accompagna questa narrazione implica pressoché sempre l’attivazione del sistema motivazionale di attaccamento appunto. Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (MOI degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Se da un lato ciò comporta una minaccia all’ alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da MOI insicuri o disorganizzati, dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’ attaccamento nel dialogo clinico, è una condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014).

 

Disturbi di personalità e fratture dell’ alleanza terapeutica

Diverse ricerche hanno studiato l’andamento dell’ alleanza terapeutica, soprattutto nei trattamenti dei disturbi di personalità, confermando l’ipotesi iniziale che la definiva come un processo dinamico che può ridursi nelle fasi intermedie della terapia. Questo perché probabilmente durante queste fasi emergono le problematiche interpersonali dei pazienti più gravi che possono compromettere la qualità della relazione terapeutica appunto.

I dati di ricerca longitudinali sono compatibili con l’impressione dei clinici che l’andamento dell’ alleanza terapeutica nel corso del processo terapeutico sia spesso imprevedibile, oscillante tra momenti di grande intesa e altri di perdita di sintonizzazione tra paziente e terapeuta (Horvath, Greenbrg, 1994; Horvath, Marx, 1991; Safran, Crock, McMain, 1990).

Un momento importante della relazione terapeutica è la riparazione delle fratture dell’ alleanza che può essere un fattore terapeutico di importanza fondamentale non solo perché permette la prosecuzione del trattamento, ma anche perché avvia il cambiamento in senso adattivo degli schemi interpersonali più problematici del paziente.

Questi schemi emergono infatti con particolare chiarezza nei momenti in cui l’ alleanza terapeutica è minacciata, e spesso sono identificabili soltanto in questi momenti diventando oggetto di correzione terapeutica solo all’interno della relazione in corso fra paziente e terapeuta.

Come precedentemente accennato, entrambi i membri della diade terapeutica, con la loro storia, le loro caratteristiche di personalità e funzionamento influenzano la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza terapeutica. Tra le caratteristiche del paziente ci sono la capacità di mentalizzare, la motivazione alla terapia, le aspettative di cambiamento, le qualità generali delle relazioni interpersonali, la gravità del disturbo e gli stili di attaccamento. Sono molto significativi e concordanti i dati degli studi sulla relazione tra gravità del disturbo di personalità e fragilità dell’ alleanza (Lingiardi, Croce, Fossati et al. , 2000)

I risultati di questi studi supportano le ipotesi secondo cui gli indicatori precoci di alleanza terapeutica si rivelano utili predittori del dropout. L’obiettivo principale di questa ricerca era quello di segnalare ai clinici che trattano con pazienti con disturbi di personalità l’utilità del costrutto di alleanza terapeutica. L’interruzione prematura del trattamento psicoterapico è frequente nei disturbi gravi di personalità. Una nuova direzione di indagine sul dropout è legata all’ipotesi che un fenomeno così complesso come l’abbandono della psicoterapia dipenda dalle caratteristiche della relazione terapeutica, come interazione reale e processo relazionale (Horvath, 1996). L’ alleanza terapeutica sembra, quindi, un costrutto promettente nell’indagine sul dropout.

 

Disturbo borderline di personalità e alleanza terapeutica

Fino ad oggi però sono state condotte poche ricerche sul ruolo che potrebbero giocare le caratteristiche di personalità, i sintomi psicopatologici, i meccanismi di difesa, sul processo di formazione di alleanza, specialmente con pazienti con disturbo borderline di personalità.

In particolare il trattamento con pazienti con disturbo borderline di personalità è particolarmente difficoltoso per via delle problematiche relazioni che interferiscono con la costruzione e il mantenimento dell’ alleanza. Gli studi retrospettivi mostrano infatti un’alta percentuale di dropout in fase iniziale della terapia.

Non di rado gli stati mentali relativi alla disorganizzazione dell’attaccamento (Liotti, 1994,/2005, 2007; Liotti, Farina, 2011; Main, kaplan, Cassidy, 1985) sono alla base di sviluppi psicopatologici in particolare dello spettro Borderline/dissociativo(Liotti, farina, 2011).

Soprattutto in questi casi il comportamento del terapeuta viene spesso assimilato alla rappresentazione di un genitore da un lato spaventato, gravemente trascurante, oppure ostile e violento, e dall’altro fonte potenziale di aiuto e conforto. Si può dedurre che il paziente teme allora simultaneamente di perdere la vicinanza emotiva del terapeuta e di mantenere un vicinanza percepita come pericolosa (paura senza sbocco, Main, Hesse, 1990). Questo conflitto si manifesta in terapia nei confronti del terapeuta il quale sarà oggetto di idealizzazione e svalutazioni da parte del paziente, di fobie opposte e simultanee delle emozioni di attaccamento provate (paura della vicinanza e paura dell’abbandono), il paziente spesso potrebbe attribuire alla vicinanza emotiva significati distorti come persecutori, sentimenti di impotenza propria e attribuiti al terapeuta che conducono a considerare inutile la terapia, e potrebbero emergere condotte paradossali di sollecitudine accudente rivolte al terapeuta.

Lo stato mentale del paziente relativo all’ attaccamento al terapeuta è stato indagato con uno strumento derivato dall’ AAI (Adult Attachment Interview), la Patient – Therapist Adult Attacchment Interview (PT – AAI: Diamond, Stovall-McClough, Clarkin et al.,2003). Le valutazioni al PT – AAI dopo un anno dall’inizio della terapia sono state confrontate con quelle dell’AAI dopo un anno dall’inizio del trattamento. In tutti i casi, tranne uno, lo stato mentale del paziente riguardante l’attaccamento al terapeuta concorda con uno o più aspetti dello stato mentale riguardante l’attaccamento alle figure genitoriali.

Questi dati confermano l’ipotesi di Bowlby (1969) che sostiene che quando si attivano nel paziente, all’interno della relazione terapeutica, bisogni di vicinanza e protezione, emergono anche i MOI (Modelli Operativi Interni) dei suoi originari attaccamenti, cioè le strutture di memoria e aspettative costruite durante l’interazione con le figure di attaccamento (FDA) nell’infanzia.

Se si confrontano i dati di Diamond , Stovall –McClough, Clarkin e collaboratori (2003) con quelli dello studio di Bradley, Heim e Westen (2005), è facile concludere che l’emergere dei MOI dell’attaccamento originario del paziente all’interno della relazione terapeutica è foriero di problemi della rottura dell’alleanza. Infatti il tranfert del paziente corrisponde in maniera sorprendete, secondo i dati di Bradley e,Heim e Westen (2005) al controtasfert del terapeuta, e le configurazioni di trasfert- controtasfert identificate nella ricerca appaiono molto lontane dal garantire le condizioni di sicurezza, reciproca fiducia e collaborazione caratteristiche dell’ alleanza terapeutica. Diventa così comprensibile il dato di ricerca, ripetutamente confermato, che l’ alleanza terapeutica e il modo di riparane le rotture sono fortemente influenzati dal tipo di attaccamento del paziente.

Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie controllanti rendono difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e collaborazione tipico delle relazioni di aiuto efficaci (Liotti, Farina, 2011).

L’attaccamento disorganizzato è frequentemente correlato alla psicopatologia in generale e al Disturbo Borderline di Personalità con stati dissociativi in particolare, come è stato precedentemente accennato; nelle terapie con questi pazienti il rischio di rotture dell’ alleanza terapeutica anche gravi, fino all’interruzione del trattamento è elevato.

 

Emozioni e relazioni nel Disturbo Borderline di Personalità

La diagnosi del Disturbo Borderline di Personalità (DBP), prevista nel DSM-V fornisce ai clinici una descrizione del disturbo che non si discosta eccessivamente dalla diagnosi del DSM IV, ma che garantisce, grazie alla sua metodologia dimensionale, la possibilità di stabilire la “gravità” del disturbo e delle aree specifiche dalle quali è caratterizzato.

Il Disturbo Borderline di Personalità è caratterizzato da modalità di pensiero e comportamento disadattivi che si manifestano in modo pervasivo, rigido e apparentemente permanente.

Queste modalità di pensiero coinvolgono diverse sfere di vita e le persone con questo disturbo spesso ne sono poco consapevoli, faticano a vedere che il loro modo di pensare e agire è problematico o se ne accorgono solo in parte.

Ulteriori caratteristiche del Disturbo Borderline di Personalità sono la variabilità e l’eterogeneità, nessun tratto è sempre presente, periodi di sofferenza oscillano con fasi di benessere e buon adattamento sociale e un quadro clinico grave può cambiare rapidamente per un efficace intervento terapeutico o per un evento favorevole  (Semerari, Di Maggio, 2003). Tuttavia il Disturbo Borderline di Personalità ha due nuclei portanti, il primo legato alla regolazione delle emozioni, il secondo alla sfera delle relazioni.

Il Disturbo Borderline di Personalità è stato ed è tuttora oggetto di studio di diversi autori e sono stati ideati appropriati approcci e protocolli psicoterapici.

Secondo Kernberg (1995), il soggetto con Disturbo Borderline di Personalità presenta un deficit di integrazione che lo caratterizza attraverso oscillazioni opposte delle rappresentazioni di sé e dell’oggetto visto come o tutto positivo o tutto negativo, o buono o cattivo che causa inoltre l’instabilità dell’immagine di sé e delle relazioni interpersonali.

Chi soffre di Disturbo Borderline di Personalità presenta inoltre un deficit di mentalizzazione  (descritto precedentemente nella teoria dell’attaccamento e dei SMI di Liotti): il bambino è alle prese con Figure Di Attaccamento (FDA) spaventate e spaventanti e tende quindi a costruirsi una memoria della rappresentazione dell’altro come responsabile persecutorio della paura sperimentata e del sé come vittima. Contemporaneamente però può percepire la FDA come salvatore che lo conforta, ma anche come vittima da confortare. La problematicità di queste rappresentazioni non sta soltanto nell’incompatibilità dei ruoli, quanto nel loro presentarsi simultaneamente e nel loro succedersi caotico. Il discorso del paziente è infatti confuso, oscilla da un argomento all’altro senza che sia possibile identificare un tema sovraordinato che dia senso a quanto detto e guidi il comportamento in modo coerente. Il senso di inferiorità si alterna alla rabbia e al timore per il giudizio negativo, ruoli seduttivi si alternano a immagini di competizione, memorie piacevoli si alternano con l’idea di un futuro vuoto.

Linehan (1993) identifica come nucleo disfunzionale del Disturbo Borderline di Personalità la disregolazione emotiva e gli aspetti di padroneggiamento degli stati interni, noto come deficit di regolazione emotiva. Secondo l’autrice i border sono caratterizzati da una forte vulnerabilità emotiva e da una difficoltà a regolare le emozioni, reagiscono intensamente e rapidamente di fronte a stimoli emotivi anche minimi e a causa della disregolazione sono incapaci, una volta attivata l’emozione, di compiere operazioni necessarie per ridurne l’intensità e ritornare al tono emotivo di base.

Tra le cause di sviluppo della disregolazione emotiva, secondo l’autrice, ci sarebbe la crescita in un ambiente invalidante dove la comunicazione interiore riceve risposte caotiche, inappropiate ed estreme. Anche l’autrice come Kernbreg (1995), riconduce la stessa stabilità del senso di sé al susseguirsi di stati mentali caotici ma tutti di intensità estrema. Nel modello della Linehan la disregolazione emotiva rappresenta l’elemento patogenetico fondamentale del Disturbo Borderline di Personalità ed è in grado di spiegarne gli aspetti fondamentali: i comportamenti impulsivi, il disturbo d’identità e il caos interpersonale, l’affettività disregolata.

Come ha scritto Linehan (1993) “la bravura del terapeuta sta nel scorgere un raggio di sole senza negare l’oscurità del paesaggio”. È fondamentale sottolineare e non sottovalutare le molte risorse personali e relazionali di cui dispongono i pazienti borderline. Essi sono capaci di instaurare, pur nella loro caoticità, relazioni intense e significative (Semerari, Dimaggio, 2003). Possono instaurare cicli interpersonali positivi in cui ottenere validazione e accettazione di sé e un senso di aiuto protezione e conforto; grazie a queste capacità si può ipotizzare l’attivazione di un potenziale circuito terapeutico in cui un senso di sé positivo emerge all’interno di una relazione di fiducia attraverso cicli validanti e cicli protettivi. Il problema è che questi cicli tendono ad essere brevi, fragili ed esposti a fratture di invalidazione proprio a causa del deficit di metarappresentazione che fa sì che l’investimento sull’altro sia scarsamente realistico, idealizzato, carico di aspettative eccessive che possono essere facilmente invalidate.

Si evince quindi che nella relazione terapeutica con questi pazienti, la flessione dell’ alleanza, raggiunge spesso l’estremo della rottura e dell’interruzione prematura del trattamento. In questo momento diviene fondamentale l’aver concordato l’obiettivo durante le fasi iniziali del trattamento come sostenuto da diversi autori. Rievocare l’obiettivo potrebbe essere un tentativo di riparazione dell’ alleanza terapeutica. Nello specifico, il contratto è l’estensione di quello che si definisce progetto di cura, ma ne differisce in modo sostanziale perché è elaborato insieme al paziente e posizionato al livello effettivo della possibile motivazione verso il cambiamento (M. Sanza, 2015).

Infatti l’atto in sé di chiamare in causa la persona nel definire gli obiettivi del proprio percorso di cura determinerebbe un immediato coinvolgimento di entrambi gli attori nella relazione terapeutica: il terapeuta (o l’equipe) diverrebbe esperto dei processi di cambiamento, lasciando alla persona il ruolo di principale esperto di sé, della propria storia e delle proprie problematiche; una dimensione maggiormente simmetrica, cooperativa e collaborativa (come la definisce Liotti, 2008) pertanto, senza implicare con ciò un disconoscimento della diversità dei ruoli e delle relative differenti responsabilità. Interrogarsi e condividere gli obiettivi a breve e medio termine del trattamento diverrebbe, così, un processo che responsabilizza il paziente riducendo il rischio della delega e favorendo l’ancoraggio delle aspettative ad un piano il più possibile realistico, predefinito, negoziato e verificabile nel tempo.

Un tale coinvolgimento attivo della persona potrebbe avere quindi una valenza di per sé terapeutica in riferimento, ad esempio, alla potenzialità di incrementare il senso di autodeterminazione ed i bisogni di autonomia del paziente stesso, influenzandone positivamente la motivazione. La prassi del contratto terapeutico può essere uno strumento per incrementare il senso di empowerment dei pazienti nei confronti della propria salute, uno dei fattori più frequentemente associati alla compliance ed alla buona riuscita dei trattamenti.

 

L’ alleanza terapeutica nella Terapia Dialettico Comportamentale

Anche l’ideatrice del protocollo “Terapia Dialettico Comportamentale dedicato al trattamento dei pazienti con disturbo Borderline di Personalità, M.Marsha Linehan, sottolinea l’importanza della relazione forte e salda che il terapeuta deve instaurare con il paziente partendo dalla definizione del patto iniziale. Questo è essenziale poiché a volte la relazione con il terapeuta è l’unico rinforzo efficace con un soggetto borderline nella gestione e nel cambiamento del suo comportamento.

Con i pazienti ad elevato rischio suicidario, ad esempio, l’autrice vede nella relazione con il terapeuta, a volte, l’unica cosa che lo tiene in vita nei momenti di crisi acuta. La Terapia Dialettico Comportamentale si basa sulla premessa per cui l’esperienza di sentirsi accettati e accuditi e validati ha una valore di per sé (Linehan, 1989). Nella Terapia Dialettico Comportamentale in particolare, mentre all’inizio il paziente può credere che se fosse guarito avrebbe perso il terapeuta, quest’ultimo può applicare la tecnica del ricatto, e esplicita che nel caso in cui non migliorasse perderebbe il terapeuta ancora più velocemente in quanto “la prosecuzione di una terapia inefficace è un comportamento antietico”.

La tipica sequenza di eventi nella terapia del Disturbo Borderline di Personalità prevede difficoltà iniziale del paziente a fidarsi del terapeuta, a chiedergli aiuto e a raggiungere un equilibrio ottimale tra dipendenza e indipendenza. È probabile infatti che inizialmente il paziente mostrerà una scarsa fiducia nel terapeuta, rinuncerà a contattarlo telefonicamente, anche quando sarebbe opportuno farlo e tenderà a oscillare tra un atteggiamento di estrema dipendenza da un lato e di assoluta indipendenza dall’altro. Durante le fasi iniziali della terapia pertanto, gran parte del lavoro terapeutico è finalizzato a rinforzare la capacità di chiedere aiuto al terapeuta quando non riesce ad affrontare efficacemente la situazione.

Tuttavia se tale capacità non viene estesa all’ambiente circostante, al di fuori del contesto terapeutico, e se al paziente non viene insegnato ad aiutare sé stesso e a tranquillizzarsi da solo, la conclusione della terapia rappresenterà un evento altamente traumatico. Il processo di transizione dalla fiducia del terapeuta alla fiducia in se stesso e negli altri deve iniziare sin da subito. L’obiettivo finale è imparare a confidare in sé stessi e nelle proprie forze e il rispetto di sé con il superamento dei sentimenti di vergogna e odio. A volte il riemergere di intensi sentimenti di vergogna, o delle angosce legate alla conclusione della terapia, può essere tale da precipitare una regressione a comportamenti della fase iniziale o a reazioni di stress.

Il processo terapeutico parte quindi dallo sviluppo di un contratto terapeutico collaborativo: preparare il paziente ad una vita senza Terapia Dialettico Comportamentale, creando un’atmosfera emotiva in cui il paziente si senta sicuro di interagire apertamente e che lo protegga per quanto possibile da reazioni emotive incontrollabili una volta terminata la seduta. Un compito essenziale durante le sedute dedicate alla contrattazione del patto è costituito dall’instaurazione di una positiva relazione interpersonale. Queste sedute offrono al terapeuta e al paziente l’opportunità di esplorare problemi che possano interferire con l’ alleanza terapeutica. Compito del terapeuta è trasmettere competenza efficacia e credibilità. Un genuino interesse verso il paziente come persona piuttosto che solo come cliente o soggetto di una ricerca.

La terapia del borderline in sintesi, come tutte le terapie, si basa su alcuni principi fondamentali, tra i quali la fiducia che il paziente prova nei confronti del terapeuta, nessuna terapia infatti potrà funzionare se il paziente non ha fiducia nel terapeuta. Ciò significa che la relazione deve essere al centro dell’interesse del terapeuta.

Non si può però sottovalutare l’ipercoinvolgimento a cui i terapeuti sono sottoposti nelle terapie con questi pazienti e spesso ciò è difficile da sopportare per un singolo terapeuta. Ecco perché anche Liotti (2001) ritiene necessaria la presenza di un secondo terapeuta con cui il paziente è meno coinvolto, essa favorisce l’elaborazione delle rappresentazioni non integrate che minacciano la prima relazione. Infatti dato l’impegno, la disponibilità e la tensione emotiva che queste terapie richiedono esse possono portare il terapeuta ad una condizione di insopportabilità.

Il poter condividere il carico con altri e l’aver definito il patto e i confini del setting con il paziente, sono due importanti fattori che proteggono i trattamenti dal più maligno dei rischi: il rifiuto del terapeuta. Relativamente a questo è esplicativo ciò che Semerari scrive: “Non c’è crisi peggiore dell’ alleanza di quella in cui il terapeuta non desidera più fare terapia” (Semerari, 2003)

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia (2017) di Goleman D., Bennett L., Barlow Z. – Recensione del nuovo libro sull’ intelligenza ecologica

Lo studioso statunitense Daniel Goleman introduce in Coltivare l’intelligenza emotiva, Come educare all’ecologia, testo del quale è coautore, oltre ai costrutti di intelligenza emotiva e intelligenza sociale, una terza forma di intelligenza, collegata alla prima, l’ intelligenza ecologica.

 

 

Nonostante la sensibilità ecologica sia più diffusa, al giorno d’oggi, di quanto non lo fosse in passato, manca spesso la consapevolezza del fatto che il nostro agire quotidiano, inteso come “il nostro coinvolgimento nei sistemi energetici dell’agricoltura, dell’industria, del commercio e dei trasporti”, può incidere in positivo o in negativo sul benessere dell’ecosistema terrestre.

Lo studioso statunitense Daniel Goleman, noto per aver promosso l’importanza di una corretta educazione all’ intelligenza emotiva, introduce, in Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, testo del quale è coautore, oltre ai costrutti di intelligenza emotiva e intelligenza sociale, una terza forma di intelligenza, collegata alla prima, l’ intelligenza ecologica; se l’ intelligenza sociale ed emotiva incrementano l’abilità di vedere la realtà adottando la prospettiva altrui e di empatizzare, l’ intelligenza ecologica  si identifica con l’applicare queste capacità alla comprensione dei sistemi naturali e fonde le capacità cognitive con l’ empatia.

 

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia – L’integrazione tra intelligenza emotiva ed intelligenza ecologica

Il testo Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si pone l’obiettivo di presentare un modello educativo fondato sull’integrazione di intelligenza emotiva, sociale ed ecologica; questi tre tipi di intelligenza rappresentano dimensioni interconnesse dell’intelligenza umana che “si espande verso l’esterno: partendo da sé stessi si procede sia verso gli altri che verso tutti i sistemi viventi”. Le intelligenze sono, inoltre, in un rapporto dinamico tra loro: alimentandone e promuovendone una si possono incrementare anche le altre.

Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si compone di una serie di storie di buone pratiche educative, raccontate attraverso la voce dei protagonisti; si tratta storie, tratte dalla realtà americana contemporanea, che narrano dell’importanza di salvaguardare l’ambiente e la natura intesa come fonte di vita, contrastando le iniziative che, al contrario, creano, in nome di interessi economici, un danno all’ecosistema.

Gli autori del libro si propongono, attraverso queste storie, di illustrare in quali modi sia possibile attuare una forma di “Eco istruzione” finalizzata ad incrementare l’ intelligenza ecologica; è possibile individuare varie modalità, il cui minimo denominatore comune è caratterizzato dalla presenza di una dimensione affettiva e di una dimensione cognitiva.

La dimensione affettiva si identifica con il provare “empatia verso tutte le forme di vita”, promuovendo  un senso di responsabilità e di cura che non riguarda, quindi, solo gli esseri umani, ma che viene esteso a tutte le forme di vita; la dimensione cognitiva ha a che vedere con la comprensione di come i sistemi viventi siano interconnessi gli uni con gli altri.

Gli autori di Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia si muovono dal presupposto che la promozione di una sensibilità ecologica debba avvenire nelle scuole, ad opera degli educatori, andando ad intervenire sui sistemi di apprendimento; lo scopo di tale pratica educativa si identifica con il coltivare, nei giovani, la capacità di comprendere le relazioni tra le proprie azioni e il mondo naturale di cui sono parte.

La finalità di questo processo è quella di rendere le persone “eco istruite”; l’ Eco-istruzione, che ha delle ricadute a livello di azioni nel sociale, si configura come un percorso mediante il quale gli educatori e gli studenti si allenano insieme ad analizzare e comprendere i problemi ecologici cui è necessario fare fronte e ad individuare soluzioni creative. In questo modo, le comunità scolastiche possono rappresentare ambienti formativi in cui gli studenti vengono incoraggiati a tradurre in azioni e in impegno concreto le proprie aspirazioni, dando un contributo che va ad intervenire in modo attivo e responsabile sulla realtà.

In questo quadro è importante sottolineare che il creare un rapporto equilibrato con la natura passa attraverso la presa di coscienza del fatto ognuno di noi ha la possibilità, attraverso le proprie azioni, di esercitare un impatto negativo o, al contrario, estremamente positivo; in altre parole, abbiamo modo di intervenire attivamente sulla realtà che ci circonda.

Si tratta di un atteggiamento, quello promosso in Coltivare l’intelligenza emotiva. Come educare all’ecologia, che favorisce un presa di responsabilità rispetto ai problemi, contrastando la passività e l’indifferenza, e stimolando, di contro, una modalità di partecipazione attiva; ciò crea i presupposti affinché gli studenti apprendano come “ridurre la dipendenza dal petrolio della loro scuola, scoprire come le loro vite sono interconnesse con persone che vivono accanto ai siti di trivellazione mineraria nelle montagne, migliorare la resilienza delle zone naturali intorno ai bacini idrici, o permettere che più persone abbiano accesso ad alimenti sani”, allenandosi ad essere protagonisti del mondo cui tutti apparteniamo e agendo in modo da promuovere un miglioramento delle condizioni di vita proprie ed altrui.

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