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Rimuginio e ruminazione – Introduzione alla Psicologia

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari individuati come pericolosi. La ruminazione è definita, invece, come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative.

 Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Rimuginio e Ruminazione

Nel campo della psicopatologia si è soliti prestare molta attenzione a una serie di processi mentali caratterizzati da ripetitività che, alla lunga, provocano ripercussioni sullo stato emotivo e comportamentale della persona. Il pensiero ripetitivo incastra, chi lo mette in atto, in un circolo vizioso in cui l’unico esito è continuare a pensare in modo ridondante. Questa modalità di pensiero passivo e/o relativamente incontrollabile sottende emozioni diverse tra loro, come l’ansia, la rabbia e la depressione. Il pensiero ripetitivo, a seconda del tipo di emozione a cui si riferisce, assume connotazioni e significati diversi.

Le modalità di pensiero ripetitivo più frequentemente studiate sono il rimuginio, legato all’ansia, la ruminazione, legata alla depressione, e la ruminazione rabbiosa, legata alla rabbia.
In generale esistono delle caratteristiche comuni a tali modalità di pensiero, e sono:
– ripetitività, pensieri sempre uguali che si ripetono;
– negatività, pensare sempre a cose negative che potrebbero succedere o che sono accadute;
– incontrollabilità, incapacità di fermare i pensieri ripetitivi;
– contenuto prettamente verbale, sono caratterizzati più da frasi che da immagini mentali;
– astrattezza, non portano all’azione ma richiamano solo altri pensieri;
– dispendio di energie, portano a una mancanza di concentrazione su temi che non siano legati ai processi in questione.

Inizialmente, si cominciano a utilizzare le indicate modalità di pensiero credendo siano efficaci e utili per risolvere situazioni identificate come problematiche, per affrontare i problemi futuri, per percepirsi meno in colpa e cercare rassicurazioni.

 

Il rimuginio

Il rimuginio o worry  ( la traduzione migliore e tecnicamente più appropriata è “rimuginio” e non “preoccupazione”, secondo Sassaroli e Ruggiero, 2003)  è definito come una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava. Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari individuati come pericolosi. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività di una serie di pensieri considerati come incontrollabili e intrusivi, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi  che potrebbero manifestarsi in futuro.

Il rimuginio è una strategia che l’individuo adotta quando si trova in situazioni identificate come pericolose e incerte, ansiogene, per questo difficili da gestire. Il rimuginio, dunque, è utilizzato dall’individuo come modalità di fronteggiamento della situazione temuta, allo scopo di prevenirla e controllarla.

Chi rimugina ha paura e teme sempre possa avverarsi il peggio, non riesce a valutare possibili alternative per gestire la situazione temuta e pensa che il rimuginare possa portare alla soluzione del problema. Alla lunga, chi rimugina si percepisce debole, fragile, insicuro, spaventato e costantemente soggiogato dalla pericolosità del futuro, di conseguenza il rimuginio si cronicizza e diventa disfunzionale e maladattivo (Clark, & Beck, 2010).

Il rimuginio è tanto più grave e difficile da eliminare quanto più la persona attribuisce ad esso significati positivi (metacredenze positive), come pensare che rimuginare aiuti a risolvere i problemi, prepari al peggio, riduca la probabilità che accada l’evento temuto. Spesso si rimugina per sentirsi più sicuri o per analizzare al meglio un problema, chiaramente queste credenze disfunzionali legate all’utilità del rimuginio mantengono l’individuo in una condizione di ansia e in una falsa percezione di risoluzione del problema stesso (Sassaroli & Ruggiero, 2003).

Coloro che rimuginano sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004), per questo utilizzano il rimuginio come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento futuro temuto. Il non riscontrare le conseguenze temute determina, quindi, il rinforzo di tale processo di pensiero (Borkovec et al., 2004).

 

La ruminazione

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004).

Inizialmente la persona attiva la ruminazione perché crede sia una strategia consona alla gestione di una serie di accadimenti negativi, quindi la considera una soluzione efficace per il controllo della tristezza. Tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione e di valutare eventuali alternative che possano sia attivare emozioni positive sia produrre soluzioni più adeguate al raggiungimento dello scopo. L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.

 

La ruminazione rabbiosa

Nella ruminazione rabbiosa il pensiero ripetitivo è legato a un evento passato in cui si sperimenta una emozione di rabbia. Il pensiero sul passato amplifica l’intensità e la durata dell’emozione negativa, che sfocia conseguentemente nella vendetta e nell’aggressività (Sukhodolsky, 2001), quando è rivolta verso l’esterno. Se invece la ruminazione rabbiosa riguarda temi autosvalutativi, alla lunga potrebbe diventare depressione.

La ruminazione rabbiosa, dunque, svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’autocontrollo, nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi. La ruminazione rabbiosa è caratterizzata da tre processi fondamentali quali:
– pensiero ripetitivo rivolto ad esperienze passate che hanno suscitato rabbia,
– attenzione focalizzata sulle espressioni della rabbia
– il pensiero controfattuale (Sukhodolsky, Golub & Cromwell, 2001).

Di conseguenza la ruminazione, concentrandosi sugli episodi che hanno indotto rabbia, non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, gli affetti negativi e la sofferenza interferendo con il benessere psicologico dell’individuo (Watkins, Moulds, & Mackintosh, 2005).

Il fenomeno della ruminazione rabbiosa, inteso come processo cognitivo finalizzato al mantenimento delle emozioni negative di rabbia, può variare in base al contenuto dell’evento che induce rabbia e alla modalità di processamento dell’informazione proveniente dall’ambiente esterno valutata come scorretta o non adeguata. Se l’individuo attribuisce la causa del verificarsi dell’evento a fattori esterni, la ruminazione facilita la comparsa di comportamenti violenti e incrementa l’emozione di rabbia, invece se riconosce se stesso responsabile del verificarsi dell’evento la ruminazione, nonostante intensifichi gli stati emotivi di rabbia e l’attivazione fisiologica relativa alla stessa, non porta alla perdita di controllo sulle azioni, ma a una riduzione dello stato di benessere con conseguente abbassamento del tono dell’umore.

Per concludere, il rimuginio, la ruminazione e la ruminazione rabbiosa sono processi automatici in cui chi li mette in atto perde il contatto con la realtà e manifesta una serie di disagi emotivi e comportamentali (Papageorgiou & Wells, 2004).

Tuttavia essendo stili di pensiero appresi, è possibile individuare delle strategie efficaci per interromperli. Ovviamente, è necessario farsi seguire da un terapeuta in grado di indurre l’individuo alla consapevolezza del proprio funzionamento, al riconoscimento della dannosità di tali processi e di giungere al cambiamento dei pensieri che mantengono tali processi per apprenderne dei nuovi attraverso l’applicazione di interventi cognitivi o comportamentali volti a interrompere la catena dei pensieri stessi.

 

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicoterapia per gli anziani: motivazione, setting terapeutico e concettualizzazione del caso

Quando si lavora con gli anziani, ci sono alcuni temi e fattori legati all’età che possono emergere con maggiore frequenza e che, quindi, richiedono modifiche al “contenuto” della terapia. La psicoterapia per gli anziani può prevedere la rappresentazione anche grafica di quello che si andrà a svolgere permette di favorire la comprensione dei contenuti e di elaborarli con maggiore facilità; permette inoltre di ridurre l’ansia che spesso l’anziano presenta nell’affrontare qualcosa di ignoto, e che pazienti giovani/adulti e adolescenti di solito non manifestano.

Sara Ghezzer, Sara Pedroni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Premessa

I dati demografici a livello europeo mettono in evidenza un allungamento della vita media. Si prevede che entro il 2025 il 44% della popolazione avrà più di cinquant’anni. Per questo motivo la promozione della salute tra gli anziani rappresenta un investimento strategico dei governi europei. L’Italia registra un tasso di aspettativa di vita in salute di 71,2 anni, che è il più alto d’Europa. Più in generale la popolazione italiana ha beneficiato di importanti progressi per quanto riguarda la sopravvivenza: attualmente la speranza di vita alla nascita è di 78,6 anni per gli uomini e di 84,1 anni per le donne, anche se questo divario tra i sessi si sta riducendo con il passare del tempo e la forbice tenderà sempre più a ridursi.

L’incremento della vita media non riguarda solo la popolazione ultra sessantacinquenne ma anche gli “over 75 e 85”; le proiezioni demografiche mostrano un incremento dei centenari addirittura del 2% nel 2050. Tale situazione va inoltre di pari passo con la tendenza alla riduzione delle nascite, anche se i dati del 2007 evidenziano un miglioramento, sia pur parziale, della situazione.

L’evoluzione verso un progressivo allungamento della vita può essere considerata contemporaneamente un “trionfo e una sfida”, come affermano anche gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La sfida consiste nella necessità di prepararsi ad accogliere dignitosamente un numero crescente di anziani e nel garantire le condizioni necessarie a fare in modo che gli anni aggiunti possano essere vissuti attivamente e in buona salute. Si tratta di una sfida dal punto di vista sia sanitario sia economico e sociale. L’incremento della popolazione anziana a cui stiamo assistendo ci impone perciò la necessità di riflettere sulle condizioni di tale popolazione, sui suoi bisogni e sulle risposte che le comunità in cui vivono sono in grado di fornire (Delai, 2002). La salute non è un fatto privato o istituzionale, bensì un fatto che interessa l’intera comunità in cui la persona vive. Creare quindi comunità resilienti e consapevoli consente di sviluppare interventi che portino ad un benessere della popolazione e ad interventi di sviluppo che migliorino la salute.

 

Differenza tra paziente anziano e paziente giovane

Il paziente anziano si differenzia da una persona giovane adulta per modificazioni che intercorrono a livello fisico, cognitivo, esperenziale e di regolazione somatico-affettiva. L’invecchiamento può infatti essere definito come processo, o insieme di processi, che hanno luogo in un organismo vivente e che con il passare del tempo ne diminuiscono la probabilità di sopravvivenza: grazie all’allungamento della speranza di vita si è reso possibile lo studio di tali processi (De Beni, 2009). L’invecchiamento va distinto dalla malattia poiché porta con sé cambiamenti universali e non reversibili, ma non necessariamente invalidanti. Alcune modificazioni a livello cognitivo si presentano comunque anche nella persona non affetta da patologia neurodegenerativa o da condizione di Mild Cognitive Impairment (Petersen, 1999).

Le funzioni principalmente coinvolte risultano essere la working memory (Baddeley, 1974), cioè la capacità di manipolare ed elaborare attivamente un’informazione; l’attenzione selettiva, ovvero la capacità di prestare attenzione ad uno specifico stimolo inibendo gli altri (distrattori).
Le conoscenze semantiche ed episodiche rimangono invece preservate nella persona anziana in salute e sono come punti di forza anche all’interno del percorso psicoterapico. Un test di screening come il MMSE (Folstein et al 1975)(Measso et al 1993) o il MoCa (Arcara et al., 2013) può dirimere il terapeuta da eventuali dubbi di situazioni di compromissione cognitiva lieve.

Se si presentassero difficoltà in queste aree, è utile, durante la terapia, reiterare le informazioni ricevute dal paziente per favorirne la codifica, intervenendo a livello cognitivo stimolando i circuiti adibiti ai processi di memorizzazione e validando la persona.

Alle possibili difficoltà cognitive si sommano i probabili problemi di tipo sensoriale: il 50 e il 75% delle persone infatti ultra 65enni ha problemi di udito. All’interno di una psicoterapia per gli anziani tale problematica potrebbe interferire nel rapporto diadico e frustrare il paziente, abbassandone la motivazione. La valutazione adeguata della gravità del problema e l’eventuale ausilio di supporti audio potrebbe contrastare queste difficoltà.

Molto spesso, il paziente anziano interviene in terapia riportando una problematica di tipo fisico, sia essa di entità lieve o più grave. L’incidenza di malattie infatti aumenta esponenzialmente con l’età, si pensi ad esempio a difficoltà circolatorie, dolori alle articolazioni, etc.
I problemi di salute possono creare un focus importante per il paziente o limitare al contempo la messa in atto di esercizi comportamentali, come le esposizioni. È bene dunque che il terapeuta concordi con il paziente obiettivi realistici, in base alle esigenze e alle possibilità della persona anziana. Contemporaneamente può essere utile utilizzare il malessere fisico e la capacità di farvi fronte da parte della persona, come risorsa e capacità individuale, per validarla.

Molto spesso le persone tendono a svilire l’importanza della sintomatologia fisica che la persona di terza età riporta. Questo comportamento può favorire un calo dell’autostima e pensieri autosvalutativi nel paziente. Il terapeuta comprenderà come questo comportamento è senz’altro poco utile, e controproducente all’interno di un setting terapico.

 

Il setting della psicoterapia per gli anziani

Difficoltà motorie, limitazioni nella propria autonomia, variabilità del ciclo sonno-veglia sono peculiarità che possono contaminare la creazione di un buon setting terapico. Setting alternativi come la terapia a domicilio possono favorire l’aderenza del paziente al percorso piscologico. Questo intervento può essere solo momentaneo: durante un particolare periodo dell’anno (estate, inverno), a seguito di un acuirsi della situazione di salute fisica (p.e. frattura femore), o a causa di un peggioramento della situazione psicologica (p.e. episodio depressivo maggiore).

Spetta al terapeuta, in accordo con il paziente e con i suoi familiari, decidere cosa è meglio fare: in una situazione di forte depressione infatti può essere utile stimolare il paziente ad uscire, la terapia potrebbe fungere come esercizio comportamentale; ma se la persona è abulica, questo tentativo sarà per il terapeuta fallimentare sin dal principio.

Interventi di gruppo possono migliorare l’esito terapeutico per coloro che sono soli o socialmente isolati; tuttavia alcuni studi (Engels e Verney, 1997) hanno rivelato che la terapia individuale è di maggiore efficacia per l’anziano depresso rispetto al gruppo.

 

Psicoterapia per gli anziani: i disturbi dell’umore

Per trattare utilmente i disturbi dell’umore in utenti affetti da demenza è opportuno saper distinguere tra depressione e apatia. L’apatia è caratterizzata da pervasiva mancanza di motivazione e disinteresse, mentre nella depressione il paziente diventa apparentemente apatico, ma questa è una conseguenza negativa di una serie di idee e vissuti negativi di incapacità, colpa, mancanza di speranza. Nella popolazione con più di 65 anni si stima una prevalenza dello 0,9% per anno di disturbo depressivo maggiore (Djernes et al, 2006). Solitamente nell’anziano emergono pensieri negativi soprattutto riguardanti l’immagine di sé ed i mutamenti che questa immagine subisce rispetto alle modificazioni interne ed esterne legate all’età. I disturbi psichici che ne possono derivare, sotto forma di ansia e/o di depressione, possono essere considerati come l’espressione di una conflittualità che, attivata dai fattori di stress propri dell’età, si focalizza sulla divergenza crescente fra immagine ideale ed immagine reale di sé.

La clinica insegna che caratteristiche antecedenti del carattere, si possono nella vecchiaia, irrigidirsi, ad esempio un anziano, dapprima prudente, potrebbe con l’età, diventare diffidente, un anziano estroverso potrà diventare spavaldo o fastidioso, l’introverso, invece, si coarterà su di sé, concentrandosi sul proprio corpo e tenderà all’ipocondria.

Se il paziente soffre di un’alterazione del tono dell’umore di origine depressiva, la condizione deve essere considerata attentamente nella sua eziologia, per identificare il trattamento più proficuo. Si ricordi che la depressione, ha manifestazioni particolari nel malato di demenza, in quanto può essere accompagnata da ansia o comportamenti accelerati anziché rallentati come in genere avviene nell’adulto (Bordino e Iannizzi, 2001). È opportuno inserire l’intervento di psicoterapia per gli anziani con disturbo dell’umore affinché sia di ausilio anche per migliorare la partecipazione attiva del paziente a una riabilitazione psicosociale e neuropsicologica che riescano a restituire il significato alla vita dei pazienti.

 

Contenuto della psicoterapia per gli anziani e concettualizzazione del caso

Quando si lavora con gli anziani, ci sono alcuni temi e fattori legati all’età che possono emergere con maggiore frequenza e che, quindi, richiedono modifiche al “contenuto” della terapia. Laidlaw nel 2004 ha rivisitato il modello proposto da Beck (1979) andando a proporre una concettualizzazione del caso creata ad hoc per pazienti ultra 65enni.

La psicoterapia per gli anziani può prevedere la rappresentazione anche grafica di quello che si andrà a svolgere permette di favorire la comprensione dei contenuti e di elaborarli con maggiore facilità; permette inoltre di ridurre l’ansia che spesso l’anziano presenta nell’affrontare qualcosa di ignoto, e che pazienti giovani/adulti e adolescenti di solito non manifestano.
Come rappresentato nel diagramma, la concettualizzazione proposta da Laidlaw può essere definita come una rappresentazione idiosincratica dei problemi attuali del paziente, in cui sono segnalati i fattori (cognitivi, comportamentali, emotivi, interpersonali) predisponenti e di mantenimento del disturbo.

Di seguito una approfondita esplicazione: le credenze di coorte sono assunti condivisi dalla maggior parte delle persone nate in determinati contesti socio culturali e in determinati periodi storici. Tali esperienze possono aver avuto un impatto significativo nella storia di vita della persona e possono emergere anche frequentemente nel corso della terapia.

Gli investimenti di ruolo riflettono le attività e gli interessi in cui la persona è coinvolta: pare che grado di investimento e sintomatologia depressiva siano inversamente proporzionali.

I legami intergenerazionali riflettono la rete che si costruisce attorno all’anziano, con figli, nipoti, coniugi, etc. Essi possono essere una risorsa quando investono il paziente di un valore positivo, ma possono essere fonte di frustrazione e malessere quando costituiscono fonte di attrito o conflittualità.
Il contesto socio-culturale fa riferimento ai pregiudizi e agli stereotipi che la persona anziana sente su di sé. Se questi paiono persistenti e ben radicati possono favorire il disagio psichico acuendo il malessere, è quindi importante che questa componente sia indagata e smantellata fin dalle prime sedute di psicoterapia.

Per quanto riguarda la salute fisica, come accennato prima, il terapeuta dovrà sempre informarsi sulla presenza di malattie fisiche nel paziente ed esplorare la comprensione che questi ha delle sue patologie e delle conseguenze che ne derivano.

tabella

Fig.1 Case Formulation per anziani (Laidlaw et al.,2004)

La psicoterapia per gli anziani presenta dunque degli aspetti assolutamente peculiari, viste le caratteristiche della sintomatologia, la possibilità di incontrare delle resistenze culturali all’approccio psicologico e la possibile presenza di un deterioramento cognitivo. È importante che il clinico sia preparato per svolgere al meglio la diagnosi differenziale con altri disturbi e che non sottovaluti le manifestazioni fisiche dei disturbi dell’umore. Anche in caso di compromissione della cognitività, il psicoterapia per gli anziani può essere fondamentale per aumentare la compliance del paziente alle altre terapie proposte e può essere un valido aiuto per alleviare la sintomatologia di sofferenza psicologica. Naturalmente in questo caso il terapeuta dovrà adeguare le sue modalità di comunicazione alle capacità residue del paziente.

 

Misofonia: un sovraccarico dell’attività cerebrale alla base dell’eccessiva sensibilità ad alcuni rumori

Sebbene alcune persone possano trovare sgradevoli alcuni rumori, come quelli prodotti dalla masticazione o dalla respirazione, per altre persone essi risultano letteralmente insopportabili, tale condizione è detta Misofonia. In una recente ricerca è stato dimostrato che la misofonia sarebbe dovuta a un sovraccarico di informazioni elaborate da diverse connessioni cerebrali.

 

Misofonia e attività cerebrale: il ruolo del lobo frontale

Un team capeggiato dall’Università di Newcastle, ha compiuto delle scoperte riguardanti le basi fisiche e cerebrali della condizione chiamata “misofonia“, di cui sono caratterizzate le persone che hanno un vero e proprio odio per alcuni suoni, come quelli prodotti dalle azioni di mangiare, masticare, o premere ripetutamente il pulsante di una penna. Questi suoni, chiamati “suoni trigger” da chi soffre di misofonia, possono portare a risposte immediate e intense, come liti o bisogno di fuga.

Tale ricerca è stata pubblicata sulla rivista Current Biology, ed evidenzia la presenza di alcuni cambiamenti nella struttura del lobo frontale in coloro che soffrono di misofonia ed anche dei cambiamenti nell’attività cerebrale. Le analisi di brain imaging hanno anche rilevato che questi soggetti avrebbero della anomalie nei meccanismi di controllo emozionale, che causerebbero un sovraccarico nell’attività cerebrale al momento dell’esposizione ai suoni trigger.

I ricercatori hanno anche scoperto che l’attività cerebrale originerebbe da diversi pattern di connessioni al lobo frontale. Quest’ultimo è la struttura imputata normalmente alla soppressione delle reazioni anormali ai suoni. I ricercatori hanno scoperto che i suoni trigger evocherebbero, in chi soffre di misofonia, una risposta psicologica amplificata accompagnata da sintomi fisici, come battito cardiaco accelerato e sudorazione.

Il Dr. Sukhbinder Kumar, dell’Istituto di Neuroscienze all’Università di Newcastle e del Wellcome Centre for Neuroimaging allo University College di Londra (UCL), ha condotto la ricerca. Egli afferma:

Per molte persone affette da misofonia, questa è una buona notizia, perché per la prima volta abbiamo dimostrato una differenza nella struttura e nella funzionalità cerebrale in coloro che ne soffrono. I pazienti con misofonia hanno delle caratteristiche cerebrali notevolmente simili e la sindrome non è ancora riconosciuta in nessuno degli attuali sistemi diagnostici. Questo studio dimostra i cambiamenti cerebrali critici, come evidenza ulteriore necessaria a convincere la scettica comunità medica che questa è una vera e propria patologia.

 

Le differenze cerebrali nei misofoni

Servendosi  della Risonanza Magnetica (MRI), il team di ricercatori ha rilevato delle differenze fisiche nei lobi frontali tra i due emisferi cerebrali dei soggetti affetti da misofonia, con una mielinizzazione più marcata nella materia grigia della corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC). Lo studio ha anche utilizzato la Risonanza Magnetica Funzionale (f-MRI), per misurare l’attività cerebrale dei soggetti con e senza misofonia, mentre essi sentivano una serie di suoni: un suono “neutrale” (come la pioggia, un bar affollato, un bollitore); un suono spiacevole (come un bambino che piangeva o una persona che urlava); un suono “trigger” (come i rumori prodotti dalle azioni di respirare e mangiare).

L’ f-MRI ha mostrato una connessione anormale tra i lobi frontali ed un area chiamata “corteccia insulare anteriore” (AIC). Quest’area della materia grigia è situata in una piega profonda della parte laterale dei lobi cerebrali ed è conosciuta per il suo coinvolgimento nell’elaborazione delle emozioni e nell’integrazione delle informazioni sensoriali provenienti dal corpo e dal mondo esterno.

Quando sono presentati i suoni trigger, l’attività cerebrale viene incrementata in entrambe le aree, nei soggetti misofoni, mentre nei soggetti senza misofonia, l’attività incrementa nell’ AIC, ma diminuisce nelle aree frontali. I ricercatori ritengono che questo fatto rifletta la presenza di meccanismi di controllo anormali dei lobi frontali sull’attività della corteccia insulare.

Tim Griffiths, Professore di Neurologia Cognitiva all”Università di Newcastle e all’UCL, aggiunge:

Spero che questi risultati rassicureranno i misofoni. Io stesso facevo parte degli scettici, fino a che non ho visto questi pazienti nella clinica, e ho capito quanto le loro caratteristiche fossero simili. Adesso abbiamo prove a sufficienza per tracciare le basi di questo disturbo attraverso le differenze nei meccanismi di controllo cerebrale. Questo fatto suggerirà possibili manipolazioni terapeutiche ed incoraggerà la ricerca di meccanismi simili in altre condizioni associate a reazioni emotive anormali.

Un altro risvolto, quello terapeutico, è messo in evidenza dal Dr. Kumar:

La mia speranza è quella di identificare gli effetti cerebrali distintivi prodotti dai suoni trigger. Questi “segnali” potrebbero essere utilizzati all’interno di trattamenti specifici, come ad esempio il neurofeedback, in cui i soggetti possono regolare le proprie reazioni controllando l’attività cerebrale prodotta.

 

L’amore è eterno (finché dura) – Le risposte di FluIDsex

Buongiorno, Non ho il coraggio di lasciare il mio ragazzo con cui sto da 9 anni perché ci sono le feste e perché lui ha già dei suoi problemi. Poi arriva il dubbio, ma credo manchi solo il coraggio. Consigli? (Lore Lay)

 

«Come finisce un amore? – Ma allora finisce? Nessuno – salvo gli altri – lo sa mai; una specie d’innocenza nasconde la fine di questa cosa concepita, propugnata e vissuta come eterna.»

(E. Fromm)

Cara Lore Lay,

vivere un’intensa storia d’amore e sentirla vacillare dopo anni passati insieme risulta essere spesso fortemente destabilizzante sia per chi, avvertendo il disagio, sente il bisogno di agire una separazione e di dar voce alla fine del rapporto, sia per chi quella voce può soltanto ascoltarla, in quel momento.

Nel corso della sua breve domanda, Lei fa più volte riferimento al coraggio ed in particolare ad una “mancanza di coraggio” che sembra bloccarla dall’esprimere un bisogno apparentemente già identificato. Ed effettivamente è necessario essere molto coraggios* per intraprendere un doloroso percorso di consapevolezza e per, infine, dar voce alla fine di una storia d’amore importante. Tuttavia mi sorge spontaneo chiedermi (e proporrei a Lei questa riflessione) se effettivamente questa “mancanza” di coraggio sia esclusivamente legata al periodo che sta attraversando il suo ragazzo o se potrebbe essere rappresentativa di un suo più intimo bisogno di ascoltare sé stessa e rispettare i suoi tempi all’interno di questo processo difficoltoso.

L’invito, quindi, potrebbe essere quello di sfruttare questi giorni per prendersi un po’ di tempo e cercare di ascoltare con più intensità quello che La abita e, allora, poter trovare il coraggio di scegliere e di dare una direzione nuova alle vostre storie di vita.

Irene Lisa Gargano

 

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La “psicosi terrorismo”, quando i processi di pensiero inconsapevoli modulano la percezione dell’Altro

L’episodio del cinema di Torino colloquialmente etichettato come “psicosi terrorismo“. Tutti noi siamo vittime quotidiane degli automatismi di pensiero che inducono a commettere distorsioni interpretative (bias cognitivi) frutto dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La contrapposizione di un “Noi” variegato e multiforme con un “Loro” omogeneo e indifferenziato influenza la possibilità di ricorrere ad un numero assai limitato di ipotesi per leggere il comportamento dell’altro, quando ci si rapporta non come singoli ma come membri di un gruppo sociale.

La psicosi terrorismo e i pensieri automatici alla base dell’intolleranza razziale

Si continua a discutere della vicenda accaduta in un cinema torinese la sera del primo gennaio quando durante la proiezione di un film, in presenza di una madre ed una figlia maghrebine intente a scambiarsi messaggi via whatsapp, il pubblico in allerta ha abbandonato la sala. Si saprà successivamente che si trattava di donne sordomute che, nel corso di una scena erotica, hanno deciso di inviare messaggi col fine di comunicare ed ironizzare su quanto osservato.

L’intesa, lo scambio di messaggi, il “raggruppamento” di due donne musulmane in uno spazio pubblico ha allertato gli spettatori in sala al punto da indurli alla fuga e a ricorrere ai carabinieri, i quali ben presto hanno compreso il malinteso. Cerchiamo però di tracciare un percorso a ritroso e di tentare di individuare i fattori all’origine di un tale malinteso, quello che i media generalisti chiamano in po’ approssimativamente “psicosi terrorismo“.

Si è parlato di “psicosi terrorismo” e si potrebbe essere tentati dal semplificare la lettura dell’accaduto con un frettoloso quanto impreciso riferimento ad un’intolleranza razziale dilagante e generalizzata. Questo episodio potrebbe costituire, in realtà, un’occasione utile per riflettere su quanti e quali siano i processi di pensiero semi-automatici che si tramutano poi in condotte comportamentali intenzionali.

La complessità e imprevedibilità della realtà sociale ci richiede di essere interpreti abili a leggere e riconoscere i propri ed altrui stati mentali, ovvero tentare di capire quale sia l’intenzione che muove l’agire dell’altra persona. In questo caso le persone del pubblico in sala hanno letto in modo erroneo il comportamento delle due donne, attribuendo loro un’intenzione totalmente inesatta – quella di essere complici di un attacco terroristico. La teoria della mente, il lavorio quotidiano che ciascuno singolarmente svolge provando ad interpretare gli stati mentali degli altri, in altre parole questo tentativo di rappresentarsi internamente il mondo mentale altrui, risente delle modalità con cui categorizziamo gli altri agenti sociali a seconda del contesto storico-culturale nel quale viviamo. Incasellare l’altro in una specifica categoria significa spingerlo ad assumere una serie di attributi stereotipici in grado di orientare il comportamento; in questo caso le donne etichettate come musulmane hanno assorbito lo stereotipo del terrorista al punto da indurre gli spettatori alla fuga.

La realtà storica fa da sfondo costante permeando i processi di pensiero, riempiendo il contenuto delle nostre distorsioni cognitive dove mutano di volta in volta i protagonisti coinvolti (musulmani, meridionali, omosessuali, ecc.), tendenzialmente membri di un gruppo sociale diverso dal proprio che costituisce una minoranza (dove maggioranza e minoranza non si definiscono sulla base di un concetto quantitativo ma si distribuiscono lungo le polarità del potere, in primis il potere semantico di nominare o etichettare l’Altro).

I bias cognitivi e gli stereotipi sociali

Tutto il pubblico in sala è caduto nella stessa trappola? Si può parlare di un intero insieme di spettatori “razzisti”? Di sicuro possiamo affermare che tutti loro – e tutti noi – siamo vittime quotidiane degli automatismi di pensiero che inducono a commettere distorsioni interpretative (bias cognitivi) frutto dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La contrapposizione di un “Noi” variegato e multiforme con un “Loro” omogeneo e indifferenziato influenza la possibilità di ricorrere ad un numero assai limitato di ipotesi per leggere il comportamento dell’altro, quando ci si rapporta non come singoli ma come membri di un gruppo sociale.

In una condizione di incertezza diffusa gli spettatori hanno agito accodandosi al medesimo comportamento reciprocamente; l’unanimità della risposta del pubblico in sala può essere letta come una manifestazione di conformismo sociale che non ha coinvolto le due sole donne inconsapevoli di costituire una minaccia terroristica. L’ampiezza del pubblico, l’unanimità della lettura, il supporto sociale tra membri di una stessa cultura possono essere stati fattori che hanno generato il conformismo.

La teoria della mente può fallire, ciascun medesimo comportamento può essere mosso da un numero indefinito di intenzioni e la nostra capacità di lettura varia in base alle abilità metacognitive possedute, a loro volta plasmate dalla qualità degli scambi relazionali nei quali siamo immersi sin dalla prima infanzia. Il nostro Sé sociale chiede di essere considerato anche quando prendiamo in esame un processo tanto individuale come l’attribuzione degli stati mentali: le appartenenze ad un determinato gruppo alimentano bias cognitivi che costituiscono la cornice entro cui facciamo muovere i protagonisti presi in prestito dai confronti tra gruppi che il contesto storico del momento presente ci offre.

L’esercizio della consapevolezza diventa dunque una pratica fondamentale per disinnescare processi di pensiero semiautomatici che, abili nel far risparmiare energia cognitiva ricorrendo a soluzioni “preconfezionate”, diventano colpevoli di inoltrarci su strade interpretative errate. Come le neuroscienze cognitive suggeriscono, e come evidenziato da questa vicenda, l’agito rappresenta solo l’ultimo tassello di un processo che ha origine da una concatenazione di ingranaggi che operano al di fuori della nostra consapevolezza. E dall’uscire da una sala di un cinema al segnare una croce su una scheda elettorale il passo è breve.

Art Therapy: la visione di Opere d’Arte quale aiuto per la terapia in soggetti anziani depressi – Ricerca sperimentale

Nella presente ricerca sperimentale si considerano “Opera d’Arte” solamente le opere in grado di suscitare sentimenti ed emozioni positive e si è tentato di dimostrare come la semplice loro visione sia in grado di migliorare il benessere psichico di soggetti anziani depressi che le osservano. 

Lavinia Costanzo, Edmondo Pasini

 

Premesse Teoriche: anziani e depressione

Uno dei problemi dell’assistenza a soggetti anziani depressi è la difficoltà della terapia delle forme depressive che si manifestano con una sintomatologia del tutto simile a quelle giovanili; si tratta di una reazione ad una situazione esistenziale, scarsamente reagente alle comuni terapie farmacologiche, determinata dal conflitto tra le proprie aspettative di vita e il vissuto soggettivo e obiettivo della propria esistenza.

Un grado di pessimismo, più o meno accentuato, costante in moltissimi anziani depressi, è causato soprattutto dall’insicurezza del proprio futuro riguardo le personali condizioni fisiche e socio-economiche; tuttavia vogliamo sottolineare che negli anziani depressi la causa della distimia è spesso la frequente diminuzione, e possibile perdita, dei rapporti affettivi sia famigliari che sociali (Cargnello D., 2016). La vita affettiva, priva di sollecitazioni emotive positive, risulta povera, quindi insoddisfacente; si crea una solitudine affettiva causata da una condizione esistenziale che determina uno stato melanconico-depressivo.

L’importanza degli affetti è una constatazione comune e, scientificamente, è sostenuta dall’Analisi Esistenziale, o Antropoanalisi, che considera gli affetti l’elemento base per il benessere; pertanto, in una prospettiva di Igiene e Salute Mentale, occorrerebbe incrementarli. Tuttavia non è facile creare degli affetti ma si può tentare di suscitare delle emozioni positive, che sono la base degli affetti, inducendo a migliorare il sentimento del volersi bene, contrastando “l’aggressività introiettata” caratteristica della depressione.

Esistono varie modalità di “volersi bene” in modo socialmente accettato (escludendo egoismo e narcisismo accentuati per le loro componenti spesso antisociali) e, tra esse, abbiamo voluto considerare solamente il desiderio di contornarsi di “cose belle” quale una delle manifestazioni più evidenti. Infatti, senza entrare nelle discussioni filosofiche riguardo il concetto di Bellezza, possiamo limitarci a considerarla la percezione positiva (ossia che provoca una sensazione piacevole) di una realtà rispetto a un confronto cosciente o inconscio con un modello di riferimento. Lo studio del comportamento umano ci insegna che da sempre l’umanità ha desiderato contornarsi di “cose belle” e che “il concetto di Bello”, pur tenendo conto della soggettività, è universale (Klineberg O., 1940); infatti, ad esempio, in nessuna civiltà e cultura non era (e neppure ora è) considerata bella una donna con occhi piccoli, naso lungo, bocca larga, orecchie grandi.

Pertanto “Bello” sarebbe ciò che piace e, soprattutto, suscita spontaneamente, ossia senza intervento di volontà o intelligenza, un sentimento di benessere psicologico.

Oltre a bellezze naturali, quali i fiori, l’umanità sempre in tutte le culture ha ritenuto che anche alcune opere costruite dall’uomo stesso possono “essere considerate belle” e sono state definite “Opere d’Arte”. Rimanendo nel campo figurativo-oggettuale teoricamente qualsiasi manufatto umano potrebbe essere considerato “Opera d’Arte” e non essere ritenuto semplicemente un prodotto costruito su criteri tecnici per uso spesso pratico; tuttavia, abbiamo considerato semplicisticamente che possa definirsi “Opera d’Arte” qualsiasi prodotto umano che non solo dovrebbe essere giudicato bello ma, soprattutto, deve suscitare in chi lo contempla un’emozione, possibilmente positiva.

 

Art Therapy: l’effetto delle Opere d’arte sugli anziani depressi

Nel caso della presente ricerca sperimentale ci siamo riferiti all’Arte Figurativa considerando “Opera d’Arte” solamente le opere in grado di suscitare sentimenti ed emozioni positive e abbiamo tentato di dimostrare come la semplice loro visione sia in grado di migliorare il benessere psichico di coloro (in questo caso soggetti anziani) che le osservano. Se questa visione è poi accompagnata da opportuni stimoli i risultati sembrano essere ancora più immediati.

L’idea della ricerca è nata sia da personali esperienze positive con gruppi di anziani condotti a visitare musei in visite guidate e che al termine mostravano un apparente miglioramento del tono dell’umore, sia dalla constatazione che se il gruppo di visitatori era seguito da una guida non solo molto preparata, ma che per alcuni quadri si soffermava su determinati particolari descrivendo quello che riteneva potesse essere lo stato d’animo dell’artista, si otteneva un maggiore interesse, decisamente superiore a quello di visite con guide tradizionali che si soffermavano solo sul dipinto.

Infine una pregressa esperienza condotta in Australia presso la National Gallery of Victoria a Mebourne nel 2014 ha reso possibile sperimentare in prima persona un fortunato esempio di mostra il cui obiettivo era proprio quello di utilizzare l’arte a scopo terapeutico (De Botton A. e Armstrong J., 2013). Selezionando accuratamente solo alcune opere della collezione permanente del museo australiano i due filosofi e autori Alain de Botton e John Armstrong con la collaborazione di Isobel Crombie, assistente al direttore, sono riusciti a creare un percorso di mostra “auto-guidata” in cui le didascalie delle opere in questione, evidenziate da un bollino colorato, interrogavano lo spettatore e lo invitavano a riflettere su alcune questioni che riguardano la vita e le esperienze di ciascun individuo. Anziché soffermarsi sulle origini e sull’autore dell’opera l’enfasi veniva posta sulla potenzialità di quell’immagine di guidare e aiutare il pubblico ad affrontare i problemi e le ansie di tutti i giorni. Alcune delle tematiche prese in considerazione riguardavano l’angoscia e lo stress, l’incomunicabilità di coppia, l’amore e la sessualità, la solitudine e la paura della morte.

Il progetto è stato accolto con grande interesse dai media e dal pubblico e ha permesso al museo di rivitalizzare la collezione permanente e di infrangere la convinzione che ancora molti hanno entrando in un museo, di dover per forza conoscere e seguire concetti accademici e interpretazioni curatoriali per non sentirsi inadeguati e di conseguenza allontanandosi dalla vera funzione dell’arte. Una passeggiata tra i corridoi di un museo, infatti, dovrebbe prima di tutto consentire di scollegarsi dal mondo esterno e dalle sue pressioni per potersi concentrare interamente sull’esperienza che si sta vivendo, e magari risvegliare nello spettatore la sopita creatività e curiosità così presente e viva nel periodo dell’infanzia.

Una ricerca americana, condotta da Harold J. Dupuy, pare rafforzare questa convinzione sostenendo che la cultura, e in particolar modo la fruizione dell’arte, sarebbero capaci di influenzare positivamente la salute psicofisica delle persone. Contemplando un capolavoro non solo l’attività celebrale si intensificherebbe ma verrebbe anche prodotta dopamina, il neurotrasmettitore che regola l’umore, donando una sensazione di piacere. Un ulteriore studio della Norvegian University of Science and Tecnology di Trondheim in Norvegia ha dimostrato, coinvolgendo oltre cinquantamila persone, che l’osservazione di un’opera d’arte fa ridurre l’ansia e lo stress e incrementa la sensazione di soddisfazione per la propria vita.

 

Il gruppo campione

Il Gruppo Campione è stato costituito da 19 volontari anziani con età compresa tra 71 e 79 anni (15 maschi, 4 femmine), residenti in una Casa di Cura comprendete un Reparto di Soggiorno per Anziani autosufficienti. I soggetti erano tutti in possesso di titolo di studio di scuola media superiore o di laurea e considerati in condizioni fisiche più che soddisfacenti, senza problemi psichici in anamnesi.

Nessuno aveva un partner fisso e non era stato loro assolutamente possibile collocarsi presso parenti; la scelta di ritirarsi in una struttura privata era volontaria, motivata soprattutto dal disagio di essere soli durante la notte e dalla difficoltà di gestirsi in casa dopo esperienze negative con badanti. Coloro che avevano figli residenti abbastanza vicino ricevevano brevi visite quasi settimanali, mentre coloro che avevano solo nipoti o altri parenti ricevevano visite “una tantum”, mediamente ogni due o tre mesi. Quasi tutti avevano l’impressione di “essersi parcheggiati” in una casa lussuosa, dotata di quasi tutti i confort, dove, tuttavia, malgrado i tentativi del Personale di Assistenza per la socializzazione, soffrivano di solitudine e di mancanza di stimoli emotivi. In pratica, per la loro personalità formata dallo stile di vita precedente, ognuno si comportava come fosse ospite di un albergo dove non fosse necessario instaurare rapporti amichevoli con gli altri ospiti.

Il Gruppo Campione è stato scelto, infatti, tra i 63 ospiti della Casa che rispondendo ad un questionario sulle loro condizioni generali avevano segnalato di essere tendenzialmente anziani depressi, si dicevano apatici, dicevano di sentirsi piuttosto soli, malgrado potessero essere in costante compagnia e di condurre una vita noiosa. Tali autovalutazioni avevano attirato l’attenzione del personale di assistenza che, malgrado alcuni interventi, non era riuscito a modificare in modo sostanziale l’opinione del gruppo. Anche tentativi di creare “uno spirito di gruppo” non aveva dato alcun risultato, tuttavia tutti erano disponibili a partecipare alla ricerca, mossi da curiosità e da speranza di scacciare la noia.

 

Metodologia della Ricerca

Il Gruppo Campione è stato invitato a partecipare a visite di musei di quadri condotte con tre modalità differenti:

  1. Tre visite con guida tradizionale che si limitava a soffermarsi a considerare solo il quadro;
  2. Due visite con guida che, oltre a considerare il quadro, su una decina di essi si soffermava a descrivere il possibile stato d’animo e le emozioni dell’artista mentre eseguiva l’opera;
  3. Due visite con guida che si comportava come nel caso precedente, ma che chiedeva, insistendo, senza imporsi, che ognuno esprimesse le proprie emozioni alla vista del quadro. Dato fondamentale era che in questo modo il visitatore non fosse più solo spettatore, ma diventasse attore potendo esprimere i propri sentimenti.

Al termine della visita in tutti i casi ognuno doveva rispondere al seguente semplice questionario:

  • La visita al museo mi è piaciuta e vorrei ripeterla:       SI             NO
  • Nel caso abbia risposto SI:  mi è piaciuta: 1(poco);  2(abbastanza);  3(molto);  4(moltissimo)
  • Al termine della visita mi sento psicologicamente:  1(come prima);  2(poco meglio di prima);  3(decisamente meglio di prima)
  • Eventuali commenti, o suggerimenti: ……………………………….

 

Limiti della ricerca

Come tutte le ricerche sperimentali il limite della presente è rappresentato, oltre che dalla metodologia, soprattutto dalla tipologia del Gruppo Campione che è troppo esiguo (pertanto non rappresentativo di un universo statistico di anziani, soprattutto anziani depressi) e troppo omogeneo perché costituito da soggetti con elevato grado culturale, quindi presumibilmente interessati a recarsi a mostre.

 

Risultati

Art Therapy la visione di Opere dArte quale aiuto per la terapia in soggetti anziani depressi - Ricerca sperimentale

 

Specialmente dopo l’ultima visita il gruppo di anziani depressi è stato invitato a esprimere qualche commento o suggerimento, scrivendolo sul questionario.

Commenti ottenuti: a) 14 giudizi positivi che esprimevano il suggerimento di rifare visite del genere; b) di questi 14 si segnalano 3 aggiunte: 1) “era ora che si studiasse qualcosa di nuovo”; 2) “è piacevole essere interpellati e poter esprimere il proprio parere”; 3) “finalmente siamo considerati e ritorniamo protagonisti”.

 

Commento dei risultati e Considerazioni Generali

Risultati validi per il Gruppo Campione

Data l’esiguità del Gruppo Campione di anziani depressi non sono state eseguite valutazioni statistiche, tuttavia appare evidente che la semplice visita ad un museo è stata un’esperienza considerata positiva. Inoltre quando la guida si è soffermata per alcuni quadri ad esporre ipotesi riguardo lo stato d’animo dell’artista mentre seguiva la sua Opera è riuscita a suscitare un maggiore interesse e un lieve miglioramento delle condizioni psichiche; tale miglioramento è risultato notevolmente aumentato quando la guida ha coinvolto il gruppo ad esprimere i propri sentimenti, emozioni riguardo il quadro.

 

Considerazioni Generali e Suggerimenti

La visione di quadri accompagnati da una guida che abbia una conoscenza delle dinamiche emotive e sappia presentarle, sia pure come ipotesi riguardanti la vita dell’Artista, è da ritenere utile in qualsiasi situazione (musei, gallerie) poiché il visitatore non viene coinvolto solo sul piano della razionalità, ma anche dell’emotività e affettività che è il più importante per il senso di soddisfazione del visitatore, sia esso un semplice visitatore o un possibile cliente. Sarebbe, pertanto, auspicabile che le guide abbiano, oltre a una preparazione tecnica il più possibile completa riguardo “la vita del quadro” e dell’Artista, anche una preparazione psicologica di base, semplice, ma sufficiente per potere esprimere opinioni e ipotesi psicologiche.

La visione di quadri accompagnati da una guida che chieda anche che i visitatori esprimano pensieri, sentimenti, emozioni alla semplice domanda: “Lei cosa ne pensa, cosa le fa venire in mente la visione del quadro?” è una situazione sicuramente positiva da presentare ad anziani depressi e non solo che vivono in comunità. Infatti permette loro, oltre a provare emozioni nuove, di “sentirsi anche protagonisti di un evento che li riguarda e non semplici spettatori” situazione, invece, comune degli interventi programmati per migliorare le condizioni psicologiche di anziani depressi. In questo caso il quadro diventa simile a una delle tavole del T.A.T. (Thematic Appercecption Test di Murray, uno dei più importanti test proiettivi) e potere esprimere liberamente in gruppo le proprie emozioni è un’esperienza positiva, simile alla psicoterapia di gruppo, che migliora sia il proprio tono dell’umore, sia la socializzazione (nel Gruppo Campione si sono creati alcuni legami amichevoli prima inesistenti).

Si tratta di conclusioni che sono valide per il Gruppo Campione, tuttavia si può ipotizzare che si tratti di un’esperienza utile soprattutto per anziani residenti in strutture extra famigliari ai quali verrebbe proposto di partecipare, se consenzienti, a sedute di gruppo, di circa un’ora durante le quali sono proiettati una decina di quadri e si chiede loro di esprimere “tutto quanto venga loro in mente”. Si fa presente che il costo di tale esperienza è quasi zero poiché la visita al museo sarebbe sostituita da proiezioni “in loco” e limitato per le prime volte alla chiamata di una guida esperta.

Pur tenendo conto dei limiti di questa ricerca sperimentale, si può, tuttavia, concludere che la visione di qualcosa che sia ritenuta bella, nel caso specifico “un’Opera d’Arte”, sia esperienza utile per migliorare il tono dell’umore degli Anziani, soprattutto se anziani depressi e collocati in strutture comunitarie. Logicamente non si tratta di una terapia efficace per ogni forma di depressione, ma di un intervento terapeutico semplice, o anche di prevenzione, non costoso della depressione, soprattutto di quella esistenziale dovuta a solitudine. In pratica si valorizza la vita emotiva/affettiva degli anziani in tutte le situazioni esistenziali proponendo e fornendo emozioni positive, delle quali gli anziani depressi sono carenti, utili per migliorare il tono dell’umore e ristabilire un equilibrio positivo del tono psichico, affettivo ed emotivo.

Quale corollario della ricerca si sottolinea l’importanza e utilità che le guide di gallerie e musei, in qualunque campo operino, possano avere anche una preparazione umanistica con conoscenze di elementi base di psicologia. Questi strumenti potrebbero essere utili per un corretto approccio alle differenti tipologie di visitatore, in un’ottica di attenzione alle sue esigenze e di produzione e adeguata gestione dei risultati ottenuti.

 

Gli autori della ricerca: 

  • Dott. Lavinia Costanzo, Specializzata in Management delle attività artistiche e culturali, mediatore culturale e guida museale.
  • Prof. Dott. Edmondo Pasini, Spec. Psicologia e Psichiatria. Psicoterapeuta. L.D. Igiene Mentale Università di Milano.

 

Nota degli autori: Per desiderio esplicito del Gruppo Campione, geloso della propria “privacy”, al punto di affermare di essere ospite in una Casa di Cura, non in una Casa per Anziani, non è possibile citare i due musei nei quali la ricerca è stata condotta, comunque si ringraziano le Direzioni e le Guide che ne hanno permesso l’esecuzione.

Il rapporto tra la demenza di Alzheimer e la depressione negli anziani

In alcuni casi il confine tra demenza e depressione negli anziani è spesso incerto.
Sebbene la relazione tra demenza e depressione sia stata oggetto di ricerche nel campo della psichiatria geriatrica negli ultimi decenni, le considerazioni cliniche sono in continua evoluzione.

Elisabetta Pellegrini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI Bolzano

 

L’allungamento della vita e le patologie più frequenti negli anziani

Negli ultimi decenni si è assistito al progressivo aumento della durata media della vita delle persone, la fascia d’età definita anziani è andata aumentando e le problematiche legate a questa fascia della popolazione sono sempre più imponenti e importanti da tenere in considerazione sia a livello sociale che sanitario.

La conseguenza più vistosa è rappresentata dall’aumento delle persone con patologie degenerative a carico del sistema nervoso centrale, con conseguenti elevati problemi di gestione assistenziale. Molte patologie del SNC si associano ad un aumento della prevalenza della depressione.
Nell’arco degli ultimi anni c’è stato un notevole mutamento nella considerazione dei sintomi depressivi degli anziani, si è passati da una visione pessimistica che li considerava come un aspetto insito nell’invecchiamento a un approccio che li ritiene l’espressione di una patologia indipendente da esso e per la quale possono essere messi in atto interventi terapeutici efficaci (Anderson, 2001).

Il riconoscimento precoce, la diagnosi e l’inizio del trattamento della depressione negli anziani presenta varie opportunità di migliorare la qualità di vita, di prevenire la sofferenza o la morte prematura e di mantenere livelli ottimali delle funzioni e dell’autonomia.

La diagnosi di depressione sebbene venga effettuata in soggetti di ogni età la sua maggiore incidenza nella vecchiaia è spiegabile considerando i lutti, i traumi psichici e gli stress che via via si accumulano nell’arco della vita. Oltre a ciò, spesso si associano una mancanza di risorse economiche e sociali, nonché l’inevitabile declino fisico. Il deterioramento del corpo è proprio uno dei motivi più frequenti nel determinare la depressione: l’anziano fatica ad accettare la perdita dell’autonomia, l’insorgenza di malattie, la trasformazione del proprio aspetto esteriore. La depressione negli anziani spesso può manifestarsi anche in forma “mascherata” mediante l’insorgenza di una sintomatologia algica al posto di quella psichica.

Il legame tra demenza e depressione negli anziani

In alcuni casi il confine tra demenza e depressione è spesso incerto.
Sebbene la relazione tra demenza e depressione sia stata oggetto di ricerche nel campo della psichiatria geriatrica negli ultimi decenni, le considerazioni cliniche sono in continua evoluzione.

Le attuali conoscenze in quest’area sono iniziate con i lavori di Roth (1955) e Post (1962) che hanno postulato che demenza e depressione costituiscono due disturbi separati e distinti. La difficoltà nel distinguerli è stata enfatizzata da Kiloh, che ha ripreso nel 1961 il termine introdotto da Maddem (1952) di pseudodemenza con il quale descrive un quadro clinico caratterizzato da una sintomatologia sovrapponibile a quella della demenza primaria, ma in realtà secondario a depressione e solitamente reversibile.

La diagnosi di pseudodemenza si basa sull’assenza del substrato organico specifico della demenza e sulla sua reversibilità. La diagnosi differenziale tra le fasi iniziali della demenza e un disturbo depressivo ad insorgenza tardiva può risultare difficile per la contemporanea manifestazione sia di sintomi cognitivi, come deficit mnesici e la scarsa concentrazione, sia di altri sintomi, quali l’apatia, il ritiro sociale e la scarsa energia.

Più recentemente le conoscenze tra demenza e depressione propendono verso l’evidenza che la depressione con sintomi cognitivi reversibili possa costituire un prodomo per la demenza, piuttosto che un distinto e separato disturbo. Un’altra possibilità è che la depressione possa costituire un fattore di rischio per la demenza.

L’importanza della depressione in corso di demenza è sottolineata dalle sue conseguenze. Poiché la depressione costituisce una condizione potenzialmente reversibile, il suo trattamento potrebbe evitarle. Le sue conseguenze sono un peggioramento della qualità di vita, una maggior compromissione nelle attività giornaliere, una maggior predisposizione a sviluppare disturbi fisici, una precoce istituzionalizzazione e un maggior peso a carico dei caregivers.

La frequente coesistenza tra le due condizioni ha stimolato la formulazione di diverse ipotesi sulla loro possibile associazione.

Una di queste è: la depressione come espressione del processo demenziale. Secondo questa ipotesi la depressione apparirebbe non come una sindrome autonoma, patogenicamente distinta dalla demenza di Alzheimer come richiesto dalla comorbilità, ma come una costellazione di sintomi, espressione dello stesso danno biologico che sottende il processo demenziale o i meccanismi biochimici correlati. Sono state avanzate due ipotesi per spiegare la correlazione tra sintomi depressivi e sintomi cognitivi:

1. Postula che la depressione possa rappresentare un prodomo della demenza, piuttosto che un disturbo distinto, che può precedere anche di molto tempo l’esordio del deficit conclamato. In altri termini, alcuni pazienti potrebbero essere portatori di una demenza subclinica in cui la depressione transitoria agirebbe come sorta di rilevatore precoce dell’affezione sottostante. Un possibile meccanismo risiederebbe nella perdita di neuroni noradrenergici, riscontrabile sia nella demenza di Alzheimer che nella depressione.

2. La seconda ipotesi postula che la depressione agisca come fattore di rischio per un’evoluzione demenziale. All’interno di quest’ottica per spiegare l’associazione tra demenza e depressione sono state proposte diverse ipotesi che adesso prenderemo in considerazione:

  • Depressione come reazione alla compromissione cognitiva: la depressione può anche essere considerata come una reazione al processo demenziale, legata alla consapevolezza nei primi stadi della demenza da parte del soggetto delle difficoltà cognitive ingravescenti.
  • Depressione come soglia: questa ipotesi propone che la depressione non agisca direttamente sul processo patologico della demenza ma piuttosto sulla soglia per la sua manifestazione. La depressione comporta, infatti, deficit cognitivi e motivazionali che si aggiungono a quelli esistenti nelle fasi iniziali della demenza e che conducono alla manifestazione clinica di quest’ultima.
  • Depressione come fattore causale: Salpolsky et al. hanno analizzato l’aumentata attività dell’asse ipotalamo ipofisi-surrene che si verifica nei disturbi depressivi ed hanno ipotizzato che nei pazienti depressi si verifichi un alterato meccanismo di feedback, con livelli cronicamente alterati di cortisolo che possono provocare una downregulation dei glicocorticoidi a livello ippocampale con successiva atrofia dell’ippocampo stesso.
  • L’altra ipotesi è che la depressione sia un’entità clinica indipendente dal processo demenziale: per poter usare correttamente il concetto di comorbilità, le sindromi in causa devono essere reciprocamente distinguibili dal punto di vista patogenetico. Secondo alcuni autori le modificazioni neurochimiche che si accompagnano ai quadri di depressione maggiore nel contesto di una demenza primaria sono qualitativamente diverse da quelle associate alla demenza, corroborando così i criteri diagnostici del DSM-5 per depressione maggiore in demenza primaria. Alcuni autori, seguendo un criterio ex adiuvantibus, sottolineano che la sintomatologia depressiva nel demente risponde spesso all’uso della terapia antidepressiva suffragando tale ipotesi. Infatti, se i sintomi depressivi appartenessero al quadro demenziale, la risposta tenderebbe ad essere assente e solo un eventuale trattamento del disturbo cognitivo potrebbe risolvere la sindrome affettiva. È stato postulato che la depressione maggiore nella demenza di Alzheimer si associ ad una preesistente vulnerabilità al disturbo dell’umore non espressa in precedenza, slatetizzata dalle modificazioni cerebrali in corso di demenza primaria.

Certamente la depressione, sia che preceda o accompagni la demenza, è fonte di sofferenza e disabilità non solo per il paziente ma anche per il caregiver e necessita pertanto di una terapia appropriata indipendentemente dal suo possibile effetto preventivo.
Differenziare in modo chiaro depressione e demenza, come si è visto, è molto difficile perché le due sindromi presentano alcuni sintomi che si sovrappongono.

Gli elementi che differenziano la depressione dalla demenza sono il suo esordio di solito rapido e individuabile e la consapevolezza del soggetto depresso dei propri sintomi cognitivi e della loro gravità. La demenza di Alzheimer, invece esordisce progressivamente ed il paziente non è consapevole della gravità dei propri disturbi. Il paziente depresso è molto dettagliato nel presentare le proprie difficoltà e incapacità, non fa nessun tentativo per risolvere i problemi mnesici e appare triste quando si confronta con situazioni che lo mettono in difficoltà. La perdita degli interessi e l’anedonia sono globali, il rallentamento riguarda tutte le abilità e l’intensità dei disturbi lamentati non è correlata al disturbo cognitivo effettivo. Nella demenza il soggetto, invece, è poco lamentoso, tende a sminuire le proprie incapacità, cerca in ogni modo di sopperire ai deficit mnesici e rimane indifferente di fronte a situazioni che possono metterlo in difficoltà. Sono assenti i sintomi vegetativi tipici della depressione e vi è un rapporto diretto tra disturbi cognitivi manifesti e comportamento.

Per fare diagnosi differenziale è necessario valutare longitudinalmente sia i sintomi depressivi che le funzioni cognitive. Le scale più utilizzate per valutare il tono dell’umore nell’anziano sono la GDS, la HAM-D e la Cornell Depression Scale.

La diagnosi differenziale della pseudodemenza depressiva dalla demenza primaria è fondamentale in quanto la prima, se opportunamente riconosciuta, curata e trattata, costituisce solitamente un disturbo solitamente reversibile.

Mindfulness e atteggiamento mindful: un aiuto per seguire abitudini di vita più salutari

La mindfulness e in generale il possedere un atteggiamento mindful, basato sulla consapevolezza del momento presente, renderebbe le persone più propense a seguire i consigli per la salute e a cambiare il proprio stile di vita.

 

 

“150 minuti di attività fisica alla settimana riducono il rischio di cancro”

“2,000 calorie al giorno è quanto dovrebbe mangiare una persona adulta”

“Smetti di fumare, vivi più a lungo”

 

Seguire i consigli o ignorarli? Come le persone reagiscono ai messaggi di promozione della salute

Ogni giorno entriamo in contatto con innumerevoli messaggi e consigli per la salute riguardanti come essere più sani e come dare avvio a cambiamenti comportamentali, quali smettere di fumare, fare più esercizio fisico e mangiare bene, tutti parimenti benintenzionati e scientificamente provati.

Per alcune persone, però, questo tipo di messaggi, più che invogliare a vivere in modo più sano la propria vita, sollecita solo reazioni difensive e cariche di risentimento, del tipo: “smettete di essere così assillanti e lasciatemi in pace!”.

Messaggi così rilevanti a livello personale, come i consigli relativi a come migliorare la propria salute, potrebbero essere visti da alcuni come estremamente minacciosi, in quanto letti come minaccia al proprio senso di padronanza e competenza. Questa reazione, legata all’esperienza di concomitanti emozioni negative, tra cui anche il senso di colpa, porterebbe poi ad effetti controproducenti circa la ricettività a questi messaggi e quindi anche gli esiti degli stessi, fallendo quindi nel tentativo di invogliare le persone a migliorare il proprio stile di vita.

Perché per alcune persone i consigli per la salute motivano a migliorarsi fermando condotte nocive per la salute, mentre per altre sortiscono l’effetto opposto? Può la ricerca essere d’aiuto per migliorare questo tipo di messaggi affinché divengano efficaci per tutti?

 

Atteggiamento mindful e consigli per la salute: la ricerca della University of Pennsylvania

A tal proposito, recentemente, i ricercatori della Annenberg School for Communication della University of Pennsylvania a Philadelphia hanno trovato che le persone maggiormente predisposte ad assumere un atteggiamento Mindful sono anche più propense a recepire positivamente i consigli per la salute, con conseguente maggiore motivazione al cambiamento. Più nello specifico, lo studio è stato svolto da Kang e collaboratori con lo scopo di indagare il ruolo ricoperto dalla Mindfulness e da un atteggiamento Mindful all’interno delle comunicazioni legate alla salute e al benessere.

La Mindfulness viene solitamente definita come una modalità di prestare attenzione ed essere consapevoli del momento presente e dell’esperienza concomitante, assumendo un atteggiamento mindful, ovvero intenzionale e non giudicante, al fine di raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza di sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni, così come si presentano nell’hic et nunc. Tra le altre cose, questo atteggiamento mindful di prestare attenzione permette anche di cogliere prontamente il sorgere di quei pensieri negativi che contribuiscono al malessere emotivo, andando a sviluppare quelle cosiddette abilità metacognitive di esplorazione dei propri stati mentali e corporei, che portano a sempre maggiori possibilità di esplorazione, espressione e cambiamento di tali contenuti (Siegel, 2009).

Da precedenti studi era emersa la capacità della Mindfulness di favorire la messa in atto di stili di vita più sani. Ad esempio, Murphy e collaboratori (2012) hanno dimostrato l’esistenza di una forte correlazione tra questo costrutto e una serie di fattori legati ad una buona salute quali buone abitudini alimentari, migliore qualità del sonno, condurre una vita attiva dal punto di vista fisico e generale migliore salute fisica auto-percepita.

La predisposizione alla Mindfulness e a un atteggiamento Mindful sembra anche essere associata ad una migliore salute a livello cardiovascolare, in quanto preventiva rispetto ai principali fattori di rischio legati allo sviluppo di cardiopatie, quali, ad esempio, fumo, indice di massa corporea (BMI) e, ancora una volta, attività fisica (Loucks et al., 2014).

Sembra inoltre che l’assunzione di questa particolare modalità di prestare attenzione sia in grado di ridurre la messa in atto di reazioni negative di fronte a situazioni emotivamente cariche. È possibile, infatti, che l’adozione di un atteggiamento mindful attraverso modalità non-giudicanti di analisi del momento presente possa smorzare i meccanismi di rifiuto messi automaticamente in atto di fronte a consigli per la salute potenzialmente minacciosi per il proprio senso di autocontrollo e autoefficacia, andando così ad aumentare le capacità di controllo cognitivo e facilitando il cosiddetto insight metacognitivo (Kang, Gruber & Gray, 2013).

Riassumendo, possedere un tipo di consapevolezza mindful potrebbe aiutare le persone a sganciarsi da pattern di pensiero, reazione e risposta automatici, dando così modo di fermarsi e riflettere su quanto accade nel momento presente, al fine di prendere decisioni cognitivamente più ponderate e oculate.

Lo studio di Kang e collaboratori (2016) è stato quindi svolto con lo scopo di capire se il possedere una predisposizione alla Mindfulness potesse predire la tendenza a rispondere in modo affettivamente positivo ai consigli e messaggi legati all’incrementare la propria salute così come se potesse predire l’effettiva messa in atto di tali consigli, aumentando, ad esempio, il proprio livello di attività fisica. Più nello specifico, gli autori hanno testato l’esistenza di una correlazione inversa tra la predisposizione alla Mindfulness e le risposte affettive negative in seguito all’esposizione a messaggi che incoraggiavano l’attività fisica, il ruolo della predisposizione alla Mindfulness nel predire il successivo livello di attività fisica e, infine, il possibile ruolo delle risposte negative a livello affettivo nel mediare la relazione tra predisposizione a un atteggiamento Mindful e motivazione a svolgere una qualche attività fisica.

 

Metodo

Per poter far ciò, gli autori hanno coinvolto un totale di 62 persone, con un’età media di circa 33 anni e di derivazioni culturali differenti, che riportavano settimanalmente di svolgere attività fisica a livelli molto bassi. Ai soggetti partecipanti è stato inizialmente somministrato un questionario riguardante la predisposizione alla Mindfulness, per misurarne il livello, e, successivamente, è stata presentata loro una serie di messaggi riguardanti come incrementare la propria salute attraverso l’attività fisica. Nel mentre, gli sperimentatori hanno osservato le reazioni di ognuno alla presentazione di tali messaggi, rilevato il loro livello di motivazione al cambiamento e, infine, valutato quanto effettivamente tali cambiamenti siano stati intrapresi.

 

Risultati e conclusioni

Dalle analisi è così emerso che coloro i quali possedevano minore predisposizione a un atteggiamento Mindful erano anche coloro i quali si dimostravano più restii a cambiare positivamente in seguito all’esposizione ai messaggi salutistici, ai quali reagivano tendenzialmente in modo negativo, sentendosi più in colpa e reagendo in modo difensivo. Al contrario, le persone con un atteggiamento mindful più elevato tendevano a reagire in modo meno negativo, sentendosi anche meno in colpa, quando posti di fronte ai consigli sulla salute e, di conseguenza, tendevano anche ad intraprendere con maggiore probabilità dei cambiamenti positivi nel proprio stile di vita, aumentando, a distanza di un mese, il livello di attività fisica settimanale e, in generale, facendo scelte più salutari.

In conclusione, quanto emerso dallo studio di Kang e collaboratori (2016) aggiungerebbe ulteriori evidenze circa l’utilità della Mindfulness, in quanto foriera di numerosi benefici per la salute di ognuno. In questo senso, le persone possono trarre notevole giovamento dal coltivare e mettere in atto una tale modalità di prestare attenzione, soprattutto per quanto riguarda l’analisi di informazioni potenzialmente minacciose, per quanto vantaggiose, per il sé. Incorporare la pratica di questa modalità e di un atteggiamento Mindful alle già esistenti modalità di intervento, quindi, potrebbe promuovere più su larga scala e con maggiore efficacia la messa in atto di comportamenti sempre più salutari.

 

Le strutture dinamiche relazionali – La Gestalt dialogica

I flussi d’informazione psicobiologici scambiati durante la gravidanza trasmettono le “conoscenze” di base, con una modalità metabolica, ma anche simbolica (introiettiva). Il flusso dialogico attivo fin da subito, organizza le strutture mentali per lo sviluppo delle competenze relazionali, ciò che Ed Tronick chiama IRSS (Infant Regulatory Scoring System), ovvero l’espansione diadica di coscienza.

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“La relazione è un diamante: le sue parti, contemporaneamente,
riflettono luce e irradiano ombra.”

Il sé confluente e lo stile sociale

La confluenza, questo modo di esserci e di comunicare, caratterizza tutti i momenti fondamentali della nostra esistenza come: il concepimento, la gestazione, la nascita, il sesso, l’amore, la morte ecc., tutti stati esistenziali in cui i confini non sono più limiti.

Nella confluenza, la madre e il bambino durante la gravidanza, sono separati ma uniti, capaci di sentire completamente l’altro e se stessi: [blockquote style=”1″]questa capacità è alla base dell’empatia, è una qualità naturale che oggi nelle neuroscienze viene chiamata empatia incarnata.[/blockquote] (Spagnuolo Lobb, 2012).

Il feto è una creatura che sente ed apprende mentre è nell’utero ed è in grado di ricevere messaggi e di inviarne. Numerosi studi sottolineano come sullo sviluppo di un adeguato attaccamento materno-fetale influiscano i fattori psicologici e psicopatologici, non solo della madre ma anche del contesto familiare in cui essa vive. Infatti, il clima emotivo, in cui madre e feto sono inseriti, riveste notevole importanza. Lo sfondo familiare crea e trasmette un tipo di «tra» al bambino molto prima della sua nascita.

I flussi d’informazione psicobiologici scambiati durante la gravidanza trasmettono le “conoscenze” di base, con una modalità metabolica, ma anche simbolica (introiettiva). Il flusso dialogico attivo fin da subito, organizza le strutture mentali per lo sviluppo delle competenze relazionali, ciò che Ed Tronick chiama IRSS (Infant Regulatory Scoring System), ovvero l’espansione diadica di coscienza.

In terapia, tali momenti sono scanditi dallo scambio continuo tra il terapeuta e il cliente di sensazioni che costituiscono l’indicibile; questo metabolismo è fondamentale, in quanto costruisce lo sfondo creativo all’incontro che si sta co-creando, fornendo l’energia al reciproco cambiamento.

Durante una seduta un paziente riferisce:[blockquote style=”1″] potrei stare per ore in silenzio con te, perché sento, senza trovare le parole, che sto scoprendo me stesso e che in qualche modo riesco ad arrivare a te. Mi sento con te parte di un tutto, differenti ma simili. [/blockquote]Mentre diceva queste parole, un profondo silenzio ha iniziato a riempire ogni angolo dello studio; sembrava che si fosse fermato il tempo e che lo spazio non avesse più distanze. In quel momento c’erano soltanto le sensazioni, minime, ma allo stesso tempo sconfinate. Nel qui-e-ora si era instaurata una comunicazione indicibile.
È fondamentale, quindi, porre l’attenzione alle più sottili sensazioni, amplificare l’analisi del minimo contatto attraverso la narrazione, descrivere le più piccole capacità, i più lievi sussulti che la persona sta esperendo nel setting terapeutico. Questo stile confluente che si può definire sociale è il primo momento in cui l’essere umano si relaziona, sia fisicamente, che psicologicamente con l’altro, costruendo quel potenziale spazio mentale condiviso che nella sua esistenza costantemente ricercherà e accoglierà come forma relazionale.

 

Il sé simbolico e lo stile ideativo

Sia la personalità, che la coscienza, non preesistono all’attività dell’uomo, ma sono generate da questa (Vygotskij L. S., 1931). Le esperienze iniziali hanno una loro specifica valenza educativa, [blockquote style=”1″]Il bambino tra energia e senso di sé lasciando che il mondo lo plasmi […] Questa modalità di contatto si sviluppa per tutta la vita e sta alla base della capacità di apprendere.[/blockquote]

Il bambino mentre apprende il linguaggio, non introietta soltanto la parola bicchiere arricchendo il suo “vocabolario”, ma lega ad essa l’insieme di sensazioni, emozioni e immagini legate a quell’esperienza, come ad esempio il desiderio di afferrare l’oggetto, il volto della madre, la sua voce il senso di frustrazione, il suo protendersi, le tensioni corporee, gli odori, il piacere del contatto con l’oggetto, ecc. (Vigotskij, 1934). La parola che funge da attrattore, forma un «complesso» unico, divenendo il simbolo di un’esperienza relazionale complessa. Nella prospettiva psicoterapeutica, sembra quindi fondamentale riconsiderare una fenomenologia della parola e della narrazione (Husserl, 1952), ovvero come le parole prendono forma, quale ritmo dialogico si va delineando durante l’incontro, la densità dei silenzi, le pause e la ripresa del discorso, il tono, il volume ecc. L’aspetto cognitivo-verbale non può scindersi da quello sensorio-corporeo, proprio perché l’uomo con il suo pensiero ricapitola tali funzioni, operando una sintesi.

Durante una terapia un paziente disse che quando provava a ricordare un evento molto doloroso della sua primissima infanzia, la parola che più di altre gli ritornava alla mente era: “zitto!” Gli venne proposto di ripeterla con gli occhi chiusi e subito i suoi avambracci ed i polpacci gli si irrigidirono, e iniziò a sentire un peso sullo stomaco. Parlava della sensazione di nausea e d’impotenza insieme a quelle di solitudine e smarrimento. Gli venne chiesto di collegare tale vissuto ad un’immagine, e riferì che quasi immediatamente si era visto al buio e aveva sentito un odore intenso di disinfettante.

Questi vissuti furono osservati successivamente con altri pazienti, in cui la parola non rappresentava solo un vissuto cognitivo-verbale, ma sensoriale, corporeo ed immaginativo.

L’essere umano, fin da subito, attraverso il linguaggio si costruisce mentalmente come essere relazionale e l’io ed il noi divengono un binomio inscindibile.

Per questo motivo, l’unicità individuale è di fatto un’illusione, poiché nasciamo in relazione, in un costante dialogo e le nostre rappresentazioni mentali si configurano in una forma duale in continuo rapporto. La dimensione relazionale che è inscritta nel nostro DNA, attraverso il rapporto con l’altro trova la sua attuazione e la gestalt si compie.

Come l’apprendimento precede lo sviluppo, così la relazione precede il contatto: infatti, non “entriamo” in relazione per mezzo del contatto, ma faccio contatto perché vogliamo relazionarci. Con questa diversa prospettiva, l’interesse clinico si orienta sempre più all’intenzionalità relazionale, evidenziando ogni aspetto che possa costruire la dimensione dialogica necessaria alla formazione dell’insieme relazionale.

 

Il sé espressivo e lo stile estetico

[blockquote style=”1″]La capacità (del bambino ndr) di tuffarsi nel mondo, affidando la sua energia all’altro e nell’ambiente […] la capacità ed il piacere di lanciarsi nel mondo. […] Il bambino è curioso di tutto e usa la propria energia per conoscere il mondo […] Apre qualunque cosa sia chiusa, proiettando il sé dove non c’è e dove potrebbe essere. […] L’immaginazione, il coraggio della scoperta, l’uso del corpo come promotore di cambiamento.[/blockquote]

Se per il sé introiettivo la sua funzione principale è quella di apprendere “simboli condivisi” per decifrare l’esistenza, per quello proiettivo questa consiste nell’esplorare il mondo, «inventare» e plasmare, in modo antropomorfo, la realtà.

A tale prospettiva, si desidera aggiungere un concetto che si ritiene fondamentale: qualsiasi oggetto che l’uomo crea, ha una forma: linee, tratti, cerchi, quadrati, piramidi, cubi, figure “impossibili” ecc., qualcosa che ha una caratteristica “particolare” solamente umana.

Eppure l’uomo non assomiglia né a una linea, tanto meno a un cerchio, e in natura non esistono forme così “perfette”. Dove ha visto tali conformazioni, dove ha appreso questi schemi, come ha fatto la sua mente a pensarli? Considerare la proiezione come stile comunicativo, cioè come risorsa relazionale, invece che una dinamica difensiva, è stato riportato in una seduta da una paziente: […] [blockquote style=”1″]L’utilizzo del concetto di proiezione ha senso in un processo di isolamento. Cioè riconoscere qualcosa di te nell’altro non serve a farti riconoscere la proiezione punto, ma serve a rompere l’isolamento. Perché il problema delle persone è l’isolamento, no? Cioè che staccano il contatto con la realtà col quotidiano, ma riconoscere di aver fatto una proiezione ti rimette in contatto col mondo. […] Io sono arrivata a capire: cosa ci fa male? Ci fa male questo isolamento perché genera dei mostri e non sono più in contatto, quindi quando io riconosco una proiezione riconosco l’altro […]. La proiezione è un tramite, un ponte, per riconoscere l’altro. E quindi nel momento in cui io riconosco che sono come l’altro, in questo Tra, transitare da me a te e da te a me, io ridimensiono il fatto e paradossalmente creo anche se al “negativo”, un legame. Perché mi riprendo qualcosa e «tac» rifaccio contatto seppure su una cosa negativa.[/blockquote]

La proiezione vista come competenza e non più come difesa o interruzione al contatto, si rivela in tutta la sua forza comunicativa, un link relazionale. Il terapeuta per comprendere tale comportamento, deve modificare il suo approccio, ovvero intuire che lo stile proiettivo è sempre e comunque un atto estetico della persona che rivela parti di sé da cogliere e non interruzioni da osservare.
Secondo la presente prospettiva, quindi, la proiezione non è soltanto la competenza dell’uomo di creare creatività, ma è soprattutto una modalità per comprendere se stesso e gli altri, attraverso la sua attività. Potremmo affermare che il nostro sé è un nucleo creativo che irradia forme nel mondo, e grazie a ciò che continua a creare può scorgere il suo logos profondo.

 

Il sé metacognitivo e lo stile dialogico

La struttura retroflessiva è di fatto una modalità riflessiva. I simboli introiettati nella primissima infanzia (immagini, suoni, parole, sensazioni ecc.) lentamente vengono elaborati dal nostro cervello che attraverso le esperienze genera le nostre rappresentazioni mentali. Se con la proiezione “gettiamo” nell’ambiente ciò che era nel mondo in modo trasformato e rielaborato, con la retroflessione tali rappresentazioni vengono proiettate all’interno della nostra mente come immaginazione e/o dialogo interiore, determinando quello che potremmo definire la competenza della mente di auto osservarsi o metacognizioni. Tutto questo si definisce attraverso la mediazione delle sensazioni e successivamente delle emozioni che condizionano il nostro comportamento, insieme al linguaggio che orienta e organizza la nostra attività nel mondo.

Quando, ad esempio, il bambino inizia a disegnare, ci comunica cosa ha prodotto soltanto alla fine del suo lavoro; tale attività, lentamente, grazie allo sviluppo delle sue competenze comunicative, sposta la descrizione all’inizio dell’attività. Dall’affermazione iniziale: “Che bello! Ho disegnato una casa!», passa alla pianificazione: “disegnerò una casa, poi un albero, ecc”.

Le competenze narrativo-riflessive di un’attività, in altre parole la capacità di descrivere cosa “me stesso farà” attraverso un dialogo interiore, si attuano grazie alla combinazione delle competenze confluenti, proiettive e introiettive.

Tale capacità, che può apparire puramente intrapsichica, è prevalentemente sociale; gli esperimenti di L. S.Vygotskij (1934) hanno dimostrato come la produzione del linguaggio sottovoce e la loro attività durante il gioco in gruppi di bambini, cessava completamente quando questi comprendevano che il resto del gruppo non poteva capire il loro linguaggio. Senza la possibilità di essere compresi il linguaggio e l’attività che esso guida perdono di significato perché non vi è più un’intenzionalità relazionale. Ciò dimostra come il rapporto con gli altri sia fondante nell’apprendimento e nella comunicazione, nel bene e nel male. Quando pensiamo non facciamo altro che parlare a noi stessi su noi stessi, perché non possiamo non comunicare e nello stesso tempo non possiamo non stare in relazione.

Oltre ciò, in questa dinamica, il sé può «ascoltare» quali siano le istanze del proprio essere, quale «voce» e che tipo di «narrazione» l’io utilizza emergendo dal profondo. Questo momento è stato ben espresso da William James quando ci descrive la distinzione tra Io e Me, in cui il Sé come soggetto si rapporta al Sé come oggetto. Le funzioni metacognitive, in cui la mente attraverso l’autogenerazione di domande, risposte, impressioni moltiplica i suoi punti di vista e crea nuove prospettive di pensiero. Come suggerisce lo stesso Perls, tale stile si evidenzia, ad esempio, con il linguaggio attraverso l’uso del pronome personale riflessivo (mi, ti, ci, si ecc.) e nella terapia, l’osservazione delle competenze riflessive avviene, ad esempio, con il lavoro con le poliedricità e la loro armonizzazione. Tale tecnica differisce dal lavoro con le polarità e le multipolarità che, secondo questa visione, è troppo rigido e poco relazionale e divide in modo dicotomico e molto spesso arbitrariamente le parti del sé; le strutture dinamiche relazionali tendono invece a complessificare, armonizzare e condividere ogni sfaccettatura della persona inserendola in un “insieme relazionale”.

 

Il sé sincronico e lo stile trascendentale

La struttura del sé egotistico (sincronico) è il luogo della sintesi, in cui figura/sfondo, mente/corpo, possibilità/necessità, ovvero le oscillazioni del sé si armonizzano nel qui-e-ora.

Le sue potenzialità tendono costantemente alla realizzazione di questa sincronia e questa tensione, con gradi e intensità diversissimi, appartiene ad ogni essere umano, anche quando l’individuo, per ragioni innate o acquisite, non può esprimerle. Ma è un altro gap che lo stile sincronico, in combinazione con le atre strutture, può ridurre la distanza rappresentata dall’indicibile e il dicibile, ovvero lo spazio costituito tra il linguaggio ontico con quello ontologico. Le nostre intuizioni e le prime emozioni che emergono dallo sfondo delle sensazioni, non hanno parole che possano descriverle in quanto appartengono alla sfera dell’essere; quando tentiamo, attraverso il linguaggio, di descrivere questi stati d’animo, qualcosa si perde inevitabilmente. Tale «frattura», che appare insanabile, in terapia può assottigliarsi se il terapeuta e il paziente riescono ad attivare quella sintesi che soltanto il rapporto dialogico può raggiungere.

Quando in terapia riusciamo a toccare questi momenti, percepiamo una densità diversa e l’atmosfera nel campo relazionale cambia completamente: il tempo rallenta e lo spazio si dilata. È la sensibilità di entrambi e l’insieme delle competenze relazionali del terapeuta che permettono di dar vita alla più profonda empatia condivisa.

Sentire che lo sfondo del singolo può divenire una comune base trasmissibile, dà origine ad un sentimento di apertura e fiducia assoluti. È l’armonia tra la struttura dinamica del sé metabolico e quello sincronico a creare questa forma che, nella terapia, è evidenziata dall’oscillazione emotiva del sé e da come il dominio della confluenza può tradursi in parole e linguaggio.

In questo senso, la terapia gestaltica da egualitaria o simmetrica, diviene dialogica spostando il suo orizzonte dall’intenzionalità del «tra» a quello dell’«oltre», ovvero verso un punto archimedico che trascende entrambi gli interlocutori.

Infatti, se l’altro non diviene Altro, nessuno potrà superare se stesso poiché [blockquote style=”1″]senza un terzo assoluto che possa offrirsi come misura, inevitabilmente uno dei due interlocutori assumerà la funzione di misura, traducendo il discorso in termini di plagio.[/blockquote]

È proprio quando si crea questo spazio/tempo che il linguaggio ontico può trovare una connessione con quello ontologico, connettendo le sensazione e le emozioni con gli aspetti più cognitivi della persona, divenendo un linguaggio universale.

 

Conclusioni

Siamo esseri relazionali, poiché ogni individuo ha in sé l’archetipo della relazione (Jung, 1954), una gestalt primigenia che può completarsi soltanto nel rapporto con l’altro. Ciò significa che la persona non può misconoscere la sua dimensione più profonda costituita da questa icona relazionale, e l’intenzionalità che tende alla creazione di questo spazio. L’io è sempre un noi, e quando non riesce a tradurre in atto ciò che in potenza sente per l’altro, il sé diminuisce, s’immiserisce e ripiega nei propri confini.

La sofferenza non può essere considerata solo un disagio soggettivo, individuale, personale, ma soprattutto relazionale e transpersonale. Per tale ragione, parlare di «patologia» o sofferenza del campo relazionale ci pone in una prospettiva più ampia rispetto all’analisi del sintomo o del malessere individuale. La psicopatologia (es. i DDP) andrebbe riesaminata, osservando il campo condiviso co-creato e le dinamiche che si sviluppano al suo interno; le classificazioni o le catalogazioni dei sintomi, sembrano avere il principale scopo di rassicurare il professionista, pretendendo di misurare ciò che non può essere misurato: la soggettività della persona.

Come ormai appare chiaro, ciò che avviene in terapia ha un significato relazionale e va inscritto in una visione plurale e polifenomenologica. L’osservazione dell’insieme relazionale è uno delle competenze principali che il terapeuta gestaltico dovrebbe possedere, esaminando sia il «tra» condiviso, sia il paziente che il proprio sentire per comprendere le nuance esistenziali che emergono da quel campo.

Il terapeuta si inserisce così in una dinamica osservatore/osservato divenendo uno strumento relazionale in azione, un elemento trasformativo per sé e per l’altro.
Si è più volte evidenziato come ogni espressione umana sia intrinsecamente connessa al desiderio di conoscere e svelare le sue strutture profonde, partendo dalla struttura del sé simbolico, in cui l’uso del segno che diviene simbolo (parola), rappresenta il mezzo con il quale l’uomo si lega al mondo, comprende ciò che osserva e inizia il viaggio verso la conoscenza di se stesso.

Si è parlato della struttura dell’espressione, il dominio del “fare” con la produzione di “cose” con cui possiamo comprendere le forme di cui il nostro stesso io è costituito.

Quello della metacognizione, con lo sviluppo della riflessività e la generazione della mente, che si auto-osserva e si ascolta in un dialogo personalissimo, in cui l’individuo può udire la “voce” del suo intimo sé.

La struttura del sé sociale, che trova la sua sintesi nell’armonizzazione determinata dalla sincronicità, in cui il sogno primigenio, il dialogo intimo iniziato con la madre in gravidanza, lo spinge oltre se stesso e la sua esistenza, verso il significato universale della vita.

Il cambiamento di prospettiva e di approccio che si è proposto, può trasformare costruttivamente la struttura del campo: si passa da interruzione-difesa-necessità-chiusura a comunicazione-competenza-possibilità-apertura, accogliendo tutta la persona come possibilità al cambiamento.

La terapia come «situazione» relazionale per eccellenza, può divenire un contesto «paideico», in cui il dialogo si approfondisce e si amplia e l’immagine del terapeuta, che emerge da questa prospettiva, è quella di colui che, mentre è tecnicamente proteso a contribuire nel modificare i modelli di consapevolezza della persona, è estremamente attento a valorizzare le oscillazioni emotive osservate nel «tra» per facilitare la comprensione di quanto si va pazientemente co-costruendo.

Le esperienze sono un insieme di emozioni, aggregati indistricabili di sensazioni e percezioni che non possono essere sezionate e ordinate secondo un nostro vantaggio logico o ricondotte strumentalmente in cornici teoriche precostituite. “La vita è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato” e l’esistenza della persona umana rappresenta un esperimento unico e irripetibile ed è proprio per tale ragione che nella realtà non potremmo mai osservare un fenomeno “ideale” da manuale.

Un approccio che cerca di imporre un ordine a priori o dei modelli, che tentano di trasformare le qualità della persona e del suo sentire in qualcosa di quantitativo misurabile, non potrà mai corrispondere all’autentica dimensione esistenziale dell’individuo.

Come possiamo pretendere di descrivere oggettivamente le emozioni quando molte di esse, come ad esempio la nausea, l’inquietudine, il tedio, il senso dell’assurdo, il rimpianto, la leggerezza del cuore, la spontaneità, sono così sottili e complesse che persino noi stessi che le proviamo, spesso non riusciamo neppure ad intercettarle e ad attribuirgli un nome?

L’osservazione costante dell’insieme relazionale, l’accettazione autentica dell’altro, la paziente e fiduciosa ricerca delle possibilità celate dietro alle difficoltà, la condivisione del silenzio, e molte altre nuance relazionali, che costituiscono la nostra base trasmissibile, sono le fondamenta di quello che si è definita: gestalt dialogica.

[blockquote style=”1″]Ci siamo sistemati un mondo in cui poter vivere – con l’ammettere corpi, linee, superfici, cause ed effetti, movimento e quiete, forma e contenuto; senza questi articoli di fede nessuno, oggi, sopporterebbe la vita! Ma con tutto ciò essi non sono ancora per nulla qualcosa di dimostrato. La vita non è un argomento: per le condizioni della vita ci potrebbe essere l’errore.[/blockquote]

Imagery. l’utilizzo delle tecniche immaginative nella psicoterapia cognitiva

Negli ultimi anni si è scoperta la pervasività dell’ imagery nei vari ambiti dell’esperienza clinica e si è anche osservato che le domande giuste permettono di scoprirne il ruolo ed il significato in vari disturbi. L’ imagery assume forme diverse a seconda del disturbo.

Claudia Soldi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Imagery: le tecniche immaginative

Immagine è una parola dotata di molteplici significati. In questo ambito è rilevante il concetto di “rappresentazione nella mente di cosa vera o fittizia per mezzo della memoria o della fantasia”. L’immagine mentale può infatti generarsi dal recupero di immagini percettive passate, può in alternativa essere di tipo ideativo o fantastico.

Nella clinica l’ imagery comprende una fenomenologia vasta costituita da immagini letterali e metaforiche, ricordi intrusivi ed autobiografici, allucinazioni, sogni, sogni ad occhi aperti ed incubi, esperiti in ogni modalità sensoriale (Hackmann et al,2014). Con l’ imagery si manifesta un canale diverso da quello verbale/semantico e si manifesta una connessione privilegiata con le emozioni.

L’implicazione terapeutica si manifesta sia a livello di assessment che di cura. Si identificano infatti immagini mentali disturbanti dotate di emozioni e significati associati per poi mirare ad una loro modifica ed elaborazione. Si presuppone infatti che elaborando l’immagine disturbante migliori la psicopatologia associata.

 

Caratteristiche dell’ imagery

L’ imagery possiede vari aspetti che la caratterizzano:
– può essere evocata da stimoli ambientali e presentarsi con varie modalità oltre al canale visivo,
– ha una parvenza di realtà al punto che viene definita simil-esperenziale e può giungere ad agiti comportamentali apparendo in alcune situazioni angosciante e reale. Influisce sul comportamento in modo significativo portando per esempio ad evitare gli stimoli che possono generarla. Tentativi di controllarla possono essere il rimuginio, la ruminazione o la messa in atto di comportamenti di protezione,
– può essere accompagnata da emozioni intense e da credenze ritenute perfettamente valide,
– può essere positiva o negativa,
– si auto-genera cioè l’immagine viene recuperata spontaneamente e involontariamente contrariamente a situazioni in cui l’immagine può essere creata o recuperata volontariamente,
– è caratterizzata da valutazioni metacognitive cioè da significati e credenze controproducenti su di essa,
– può presentarsi con qualunque modalità sensoriale (Visiva, uditiva, gustativa, tattile, olfattiva, somatica). Nella clinica ciò si differenzia soprattutto in base al tipo di disturbo all’interno del quale si manifesta. Generalmente domina quella di tipo visivo. Nel PTSD spesso i pazienti insieme all’immagine visiva riportano anche sensazioni quali il dolore (Rothschild, 2000).

Ha un fondamentale impatto sulle emozioni, per questo motivo risultano utili trattamenti psicologici che utilizzano le tecniche immaginative. Alcuni studi si focalizzano proprio sul voler dimostrare l’impatto dell’ imagery sulle emozioni mettendola a confronto con l’elaborazione verbale ed il ruolo nelle emozioni. Questo viene studiato per esempio da Holmes e Mathews (2006) i quali in una situazione sperimentale invitano alcuni partecipanti ad immaginare un determinato evento negativo descritto ed altri a pensare solo al significato verbale di quanto descritto: sarà il primo gruppo a presentare una reazione emotiva di paura più intensa dopo essersi immaginato la scena. Vari sono gli studi volti a dimostrare ciò, ai quali stanno seguendo studi volti ad elaborare teorie del perché questo canale risulti preferenziale dal punto di vista emotivo. Studi di brain imaging per esempio, evidenziano come l’ imagery coinvolga molte delle stesse regioni neurali utilizzate dalla percezione. Hanno quindi sviluppato la teoria dell’equivalenza funzionale secondo la quale visualizzare mentalmente un oggetto produce le stesse reazioni che vederlo realmente (Kosslyn et al, 2001).

 

Applicazioni cliniche dell’imagery

Negli ultimi anni si è scoperta la pervasività dell’ imagery nei vari ambiti dell’esperienza clinica e si è anche osservato che le domande giuste permettono di scoprirne il ruolo ed il significato in vari disturbi.

L’ imagery assume forme diverse a seconda del disturbo:

In uno studio sul PTSD per esempio, è stato chiesto ad alcuni partecipanti di descrivere la qualità ed il contenuto delle loro memorie intrusive a seguito di un evento traumatico. L’ imagery più comune è quella di tipo visivo, è vivida ed angosciante, focalizzata sul rivivere piccole sensazioni o eventi che hanno preceduto l’evento traumatico portando quindi la convinzione che questo segnali ciò che sta per accadere e può giungere al flashback dissociativo (Ehlers et al, 2002),

Studi si sono focalizzati sull’approfondire il fatto che nei disturbi d’ansia e nella depressione non si manifesti imagery positiva. Proprio per questo vedremo che la terapia assume tagli differenti a seconda che si focalizzi sull’eccesso delle immagini intrusive o anche sulla carenza di imagery positiva e adattiva come in questi disturbi.

In uno studio sul disturbo ossessivo-compulsivo si è studiata la prevalenza di immagini mentali in un campione di 37 soggetti affetti da DOC. L’81% dei pazienti, intervistato, riporta immagini mentali. In questi pazienti l’ imagery intrusiva comporta maggiori rituali ed evitamenti e un più alto grado di disagio connesso ai pensieri ossessivi. Le ossessioni si presentano sotto forma di immagine (Speckens et al, 2007).

Nelle pazienti affette da Bulimia Nervosa, le immagini legate all’aspetto fisico sono più vivide e disturbanti rispetto ad un gruppo di controllo che segue una dieta (Somerville et al, 2007).
Nella Fobia Sociale i temi tipici delle immagini ricorrenti e dei ricordi ad essi associati sono l’umiliazione, la sopraffazione, la critica o il rifiuto che sono stati subiti negli anni dell’adolescenza.
Per quanto riguarda il craving e l’abuso di sostanze invece si manifestano immagini spontanee della sostanza desiderata e di come ci si sentirebbe assumendola (May et al, 2004)

 

Intervento con tecniche immaginative

L’ imagery è uno degli ambiti più innovativi della terapia cognitiva, tuttavia l’idea che l’immaginario ed il suo simbolismo, potessero essere strumento di analisi e di cura per i disturbi psichici è nota fin dall’antichità.

In terapia cognitiva, già Beck ne rimarcò l’importanza sottolineando come immagini, fantasie, ricordi e sogni sono il mezzo principale per accedere ai significati che diamo all’esperienza (Beck, 1971). Tuttavia è solo negli ultimi anni che si stanno sviluppando studi per comprenderne il processo e l’utilità. Il XXI secolo si caratterizza per una maggior trasmissibilità delle conoscenze a riguardo, con il tentativo di porre ordine a differenti tecniche inserite in modo disomogeneo all’interno dei protocolli. La ricerca evidence-based aumenta e favorisce quindi la verifica della validità delle tecniche immaginative, mostrando però allo stesso tempo controversie e giudizi differenti dal punto di vista della validità scientifica.

Oggi, le tecniche immaginative sono impiegate nella maggior parte degli orientamenti di psicoterapia attualmente più diffusi: in ambito cognitivo-comportamentale, ad esempio, la REBT, l’ACT, la Schema Therapy, la Desensibilizzazione sistematica e le tecniche di esposizione in generale. Anche nella Gestalt le tecniche immaginative hanno un ruolo molto importante, così come nella Musicoterapia Immaginativa e in altre correnti psicoterapeutiche. Ovviamente, basandosi su presupposti teorici differenti, esse sono utilizzate in modo diverso e di conseguenza diverse sono le applicazioni tecniche.

L’utilizzo dell’ imagery ha un ruolo chiave nell’aiutare i pazienti nel condividere le proprie percezioni interne, si lavora infatti con la produzione immaginaria del soggetto. Essa può essere applicata a livelli differenti: fondamentale risulta infatti considerarla come uno strumento di indagine ma anche come uno strumento di cura e distinguere fra un lavoro sull’immagine riproduttrice da uno sull’immagine creatrice.

Come già riportato, l’idea di affrontare i problemi del paziente tenendo conto non solo dell’aspetto cognitivo e comportamentale, ma dando importanza al lavoro a livello della visualizzazione mentale è presente anche all’interno delle scuole cognitivo-comportamentali. Kirchlechner riporta che [blockquote style=”1″]nel trattamento cognitivo-comportamentale le tecniche immaginative aprono la possibilità di confutare valutazioni disfunzionali peri e post-traumatiche e facilitare così l’integrazione dell’evento traumatico nella memoria autobiografica[/blockquote] (Kirchlechner et Al).

L’ imagery viene infatti applicata all’interno di svariati settori e per differenti disturbi ma, fra i disturbi, gioca un ruolo chiave per il PTSD. Studi dimostrano infatti che ci sono tecniche immaginative integrabili coi trattamenti CBT per il paziente PTSD. Si punta su due obiettivi: facilitare con l’aiuto del lavoro immaginativo una integrazione della memoria traumatica in una visione più funzionale; recuperare tramite la costruzione di immagini di rielaborazione e di superamento della situazione traumatica, una interpretazione più funzionale dell’evento e delle sue conseguenze. (Boos, 2005). Queste tecniche hanno rilevanza perché attivano quel canale visivo, che è contaminato dalle intrusioni (Boos, 2004).

In generale una terapia efficace mira a una diminuzione della frequenza e della vividezza dell’ imagery intrusiva. Scopo dell’intervento è agevolare l’elaborazione emozionale e trasformare in modo costruttivo le emozioni disturbanti. L’intervento dovrebbe quindi portare ad una riduzione del numero di intrusioni delle immagini ed allo stesso tempo a diminuire l’evitamento o i comportamenti di protezione messi in atto.

In una fase preliminare di approccio all’ imagery è fondamentale indagare le valutazioni metacognitive del paziente al riguardo. Prima di tutto risulta fondamentale riconoscere la distanza critica di ogni paziente dall’immagine: alcuni pazienti, infatti, riconoscono che l’ imagery sia solo prodotto della propria mente mentre altri pazienti la ritengono reale. Tuttavia, anche nei pazienti che riconoscono che sia solo prodotto della propria mente, possono alterarne il significato per esempio identificandola quale un segnale di una situazione da evitare. Questo aspetto di premonizione ed evitamento coinvolge trasversalmente tutti i disturbi. Le credenze metacognitive giocano un ruolo fondamentale nel mantenere l’immagine intrusiva e nel mantenere comportamenti disadattivi. In una fase preliminare è fondamentale considerare il fatto che non tutti i pazienti hanno chiaro cosa sia l’ imagery e quindi è utile aiutarlo a comprendere cosa essa sia e cosa invece non sia definibile come imagery. Alcune persone addirittura possono avere la convinzione di non essere in grado di produrre delle immagini. In tal caso alcuni esempi nella quotidianità possono aiutarlo a rendersi conto di possedere l’abilità dell’ imagery.

Hackmann et al (2014) nel loro libro ipotizzano tre aspetti fondamentali per affrontare le immagini intrusive:
Il paziente deve trovarsi in un atteggiamento metacognitivo e riflessivo. All’interno di un’adeguata cornice relazionale, il paziente deve trovarsi in una finestra emozionale non troppo intensa da non permettergli di elaborare l’informazione e non troppo debole da non permettere una riflessione critica sull’immagine. Per tali ragioni indagare se il paziente per esempio prova forte disagio nel tenere gli occhi chiusi durante alcuni interventi e spiegargli anche accuratamente che alcune tecniche possono scatenare reazioni emotive molto intense motivandolo sull’utilità di questo processo. Una strategia funzionale per gestire queste emozioni è quella di stabilire insieme al paziente un segnale che può utilizzare quando l’emozione gli appare troppo forte per interrompere il lavoro o costruire insieme al terapeuta l’immagine di un “posto sicuro” e cioè un’immagine piacevole in cui possa “rifugiarsi” quando l’emozione risulta essere troppo disturbante. Il segnale di stop stabilito prima dell’intervento è cruciale perché fondamentale è riuscire a trasmettere calore ed empatia prima e dopo l’intervento ma durante l’intervento sull’ imagery il terapeuta deve mantenere una certa distanza per facilitare al paziente la scoperta dei significati personali.

Stimolare l’ imagery disturbante favorendo quindi l’emergere dell’immagine e invitare il paziente a “stare” nell’immagine per riportare più dettagli e significati possibili. In questo modo si riesce ad accedere ad un maggior numero di informazioni quali i comportamenti disfunzionali associati ed i vari significati ad essi associati. Allo stesso tempo l’evocazione ripetuta o prolungata porta a una riduzione del disagio emotivo ad essa associato e ad un’elaborazione emozionale più completa. Si è quindi cercato di comprendere quali siano i meccanismi che portano a questa riduzione del disagio emotivo e fra questi sono stati studiati il ruolo dell’abituazione, del senso di sicurezza presente nel setting terapeutico e la possibilità di rivedervi nuovi significati o anche elementi prima generalizzati ed ora non parte del trauma.

Stimolare lo sviluppo di nuove informazioni incompatibili per avviare una modificazione di questa imagery disturbante. Qui il terapeuta ha a disposizione strategie verbali (utilizzo delle tecniche cognitive classiche a fronte dei significati attribuiti all’ imagery disturbante, aspetto frequentemente utilizzato con il disturbo PTSD), strategie in immaginazione (a fronte dell’ imagery negativa e disturbante si può lavorare tendando di ridurre l’impatto dell’ imagery negativa oppure si può lavorare alla costruzione di una nuova imagery positiva) e strategie comportamentali. Ovviamente il ruolo del terapeuta è molto diverso a seconda che si trovi in una fase di esplorazione dell’ imagery del paziente (qui il terapeuta deve agire in modo da rendere sempre più vivida l’immagine e la descrizione che fornisce il paziente con anche i significati ad essa associati) o che si trovi nella fase di trasformazione dell’imagery del paziente dove riveste un ruolo molto più attivo.

A livello di tecnica gli interventi di imagery dovrebbero essere compiuti nei primi 30 minuti della seduta per poter utilizzare il tempo successivo a disposizione per permettere al paziente di terminare la seduta non in uno stato emotivo troppo intenso ma ancorato alla realtà. Prima di utilizzare l’ imagery sono necessarie alcune sedute psicoeducazionali e motivazionali. Non vi è un numero prestabilito di sedute in cui applicare le tecniche sull’ imagery in quanto in alcuni pazienti il cambiamento è repentino mentre in altri pazienti è molto più lento. Generalmente viene fornito quale homework al paziente una registrazione della seduta con il compito di ascoltarla nuovamente a casa in quanto ciò può aiutare il paziente a far emergere nuovi ricordi e consolidare nuove prospettive.

Prima di attuare gli interventi è quindi necessario un assessment dell’ imagery in modo da ottenere informazioni specifiche e dettagliate sull’immagine ed anche sul nesso con eventuali esperienze passate. Sono vari i passaggi utili in questa fase partendo dall’aiutare il paziente a “lasciarsi andare” nello spazio sicuro dello studio per far emergere l’immagine per passare poi ad una fase in cui il paziente, ad occhi chiusi, deve cercare di descrivere nel modo più dettagliato possibile l’immagine per passare poi all’elicitazione dei significati personali presenti in questa immagine. Oltre ai significati il terapeuta pone anche attenzione sui comportamenti che generalmente questa imagery porta nel paziente ed anche a come si sta comportando in seduta per mantenere sempre monitorato il livello di attivazione emozionale. Seguendo il modello della terapia cognitiva si utilizzano queste informazioni con il fine di costruire una microformulazione utile per il terapeuta per inquadrare il caso ed utile per il pazienze per contestualizzare la sua sintomatologia ed il lavoro immaginativo. All’interno di questa micro formulazione viene prima di tutto identificata l’immagine centrale per passare poi a rappresentare, all’interno di un diagramma, le cognizioni e le emozioni ad essa associate, le conseguenze che porta (per esempio l’evitamento di alcune situazioni) e quelli che sono i fattori che la rinforzano.

Un’attenzione particolare viene posta sul nesso fra l’ imagery disturbante ed esperienze passate. Questo collegamento spesso infatti, se non identificato, non permette miglioramenti in terapia e spesso è anche molto sottovalutato dai pazienti i quali ritengono che le immagini riguardino il presente o “segnali” per il futuro, ma faticano ad associarle ad episodi del passato. La “tecnica del ponte emozionale” si dimostra molto utile proprio per permettere al paziente di collegare cosa prova e come si sente in quell’immagine e quando in passato si è sentito allo stesso modo, la tipica domanda che viene posta al paziente è se è in grado di ricordare la prima volta che si è sentito così. Fondamentale è spiegare al paziente come spesso si voglia dimenticare un ricordo doloroso ma come per poter far ciò sia importante rievocarlo ed elaborarlo e non cercare di “nasconderlo”. Spesso infatti il paziente sopprime deliberatamente ricordi che altrimenti sarebbero troppo dolorosi. Abbandonare l’evitamento dei ricordi però permette loro di rimanere consapevoli ed operare importanti modificazioni cognitive. Prima di tutto la semplice rievocazione ripetuta di un ricordo prima negato permette già da sola di scoprire come l’ansia decresca e come non si verifichino le catastrofi immaginate. Inoltre, si può lavorare sull’immagine cercando di modificarla differenziando, per esempio, ciò che è reale da ciò che viene dal passato.

Come riportato in precedenza l’imagery è un settore molto ampio dove si distingue preliminarmente fra tecniche volte a incentivare l’ imagery positiva e tecniche volte a ridurre l’impatto dell’imagery negativa. A fronte di immagini negative diurne ricorrenti fra le tecniche utilizzate ve ne sono alcune volte a far lavorare il paziente sul mostrare la differenza fra la sua imagery e la realtà. Spesso il paziente ritiene, infatti, che i due aspetti coincidano, mentre esperienze di esposizione in vivo possono aiutarlo a ragionare su questi aspetti. Il paziente può anche essere stimolato a lavorare sul fatto che queste immagini spesso sono più legate al timore delle proprie possibili reazioni che all’effettiva situazione. In una fase successiva si passa invece alla manipolazione vera e propria dell’immagine al fine di renderla meno spaventosa. Fra queste tecniche si può scegliere di ampliare il contesto dell’immagine in modo da evitare che l’immagine rappresenti solo il momento peggiore oppure ristrutturare alcuni aspetti dell’immagine, il principio base comunque in questo caso è quello d modificare un’ imagery già presente e di tipo negativo. Contrariamente si può lavorare con la generazione di immagini positive alternative. Questo è stato dimostrato empiricamente per i Disturbi d’Ansia in uno studio di Borkovec (2004). Questi disturbi sono infatti spesso centrati su una preoccupazione e visione negativa del futuro e proprio per tale ragione la creazione di immagini positive presenti in minor percentuale può essere di grande aiuto.

L’ imagery inoltre può presentarsi, oltre che in forma diurna, anche in forma notturna, disturbando e spaventando il sonno del paziente che cerca di ritardare quindi il più possibile questo momento. Qui la strategia primaria che tentano di utilizzare i pazienti è la distrazione, tuttavia questo può spesso portare ad un peggioramento dei sintomi. Come per le immagini diurne il lavoro fondamentale consiste nell’ avvicinarsi all’immagine per poterla rielaborare e non nel tentativo di evitarla.

Infine un ambito interessante dell’ imagery utile in psicoterapia cognitiva è il lavoro con le metafore. Le immagini infatti “riflettono la nostra concezione dell’esperienza di sé, degli altri e del mondo, e racchiudono il significato stesso del percorso terapeutico (Hackmann, 2014). L’ imagery metaforica può essere utile per mettere in discussione i significati personali e sperimentare nuove prospettive da applicare alla realtà.

 

Conclusioni

In conclusione il lavoro sull’ imagery rappresenta un ambito molto esteso, conosciuto da molti anni ma che solo ultimamente risulta accompagnato da studi empirici volti ad avvalorarne l’utilità e le tecniche. Con le immagini mentali si esplora un’importante attività dell’uomo che deve essere presa in considerazione nel percorso di cura per evitare di tralasciare alcuni contenuti.

Violenza di coppia tra adolescenti: correlazione con abuso di droga e tentato suicidio

Secondo una nuova ricerca sulla violenza di coppia, gli adolescenti violenti verso i loro partner sono anche più propensi a pensare o tentare il suicidio, avere un’arma con cui minacciare gli altri e abusare di droghe o alcol.

 

Gli adolescenti che sono violenti verso i loro partner sono anche più propensi a pensare o tentare il suicidio, avere un’arma, portala con sé ed utilizzarla per minacciare gli altri, abusare di droghe o alcol rispetto ai coetanei non coinvolti in relazioni sentimentali violente. Questo è ciò che è stato evidenziato da una nuova ricerca condotta presso l’Università della Georgia.

 

Violenza di coppia: lo studio dell’Università della Georgia

Lo studio, pubblicato recentemente sul Journal of Youth and Adolescence, ha seguito un gruppo di 588 studenti provenienti dalla Georgia per sette anni consecutivi durante il loro percorso evolutivo attraverso scuola media e superiore.

In questo periodo, gli studenti dovevano riferire eventuali esperienze di violenza di coppia come schiaffi, calci, pugni, graffi o spintoni agiti nei confronti del partner; se lo avessero spintonato contro un muro, gettato verso di lui un oggetto in grado di fargli del male o se avessero utilizzato un oggetto appositamente per ferirlo.

In un precedente studio, i ricercatori avevano identificato due gruppi all’interno del campione: gli studenti che non sono mai stati coinvolti in scontri violenti e violenza di coppia durante i sette anni di studio e gli studenti che presentavano una probabilità crescente di violenza. In termini numerici, due terzi degli studenti totali riferivano bassi o inesistenti livelli di violenza di coppia, in particolare fisica, all’interno della propria relazione e un terzo mostrava un aumento degli atti di aggressione fisica nei confronti del partner.

Gli studenti in questo secondo gruppo, secondo il nuovo studio, avrebbero dal doppio al triplo di probabilità maggiori di pensare o tentare il suicidio rispetto a quelli che hanno riportato bassi o inesistenti livelli di violenza fisica nella relazione sentimentale.

Più della metà degli studenti coinvolti in relazioni caratterizzate da violenza ha riferito di aver portato con sé un’arma almeno una volta durante il periodo di tempo analizzato, mentre meno di un terzo del gruppo di confronto ha riferito lo stesso.

Quasi uno su ogni due studenti coinvolti in relazioni violente ha riferito di aver minacciato qualcuno con un’arma; al contrario, meno di uno studente su cinque nel gruppo non violento ha detto di aver usato un’arma per intimidire qualcuno.

Infine, entrambi i gruppi hanno mostrato un aumento dei livelli di utilizzo di alcol e marijuana nel corso dello studio.

Tuttavia, gli studenti del gruppo violento hanno riportato livelli più elevati di utilizzo delle sostanze e un utilizzo più continuativo durante i sette anni.

 

Violenza di coppia: l’importanza di un intervento tempestivo

La violenza di coppia è un grave problema di salute pubblica, come ha sottolineato Pamela Orpinas, autore principale dello studio e professore di Promozione e Comportamento della Salute presso il College of Public Health (Università della Georgia). “E’ un fenomeno che colpisce le persone sul momento a causa dell’aggressione, ma che ha anche profonde conseguenze a lungo termine” ha aggiunto.

Questo “gruppo di comportamenti problematici” è stato evidenziato fin dal primo anno di scuola media inferiore, il che significa che era possibile riscontrare diversi livelli di violenza, uso di droghe, pensieri suicidi e presenza di un’arma già dal primo anno di svolgimento della ricerca. Questo studio dimostra pertanto che è necessario agire molto presto, ancora prima del primo anno di scuola media inferiore, attraverso programmi di prevenzione che abbiano come target questo complesso gruppo di comportamenti.

 

 

Beyond the playful: pokemon go among captology, positive technology and emotional intelligence

All of us, maybe with a few exceptions, are familiar with the phenomenon of Pokemon Go. Since its appearance in the main stores for smartphones (Apple and Android), this app has spread like wildfire around the globe. The mass media, along with new media, continue to bombard us with information about the game, with both positive and negative feedback. Even now, as I am writing, people keep talking about it. How can a videogame have so success? And then, which purpose does it have? To have a good time and enough?

 

The Augmented Reality

For those who do not know, Pokemon Go is nothing a simply videogame, but an augmented reality videogame. For augmented reality or computer-mediated reality, we refer to the enrichment of human sensory perception by means of information, typically handled and conveyed electronically, which would not be perceptible with the five senses. The items that increase the reality can be added with a mobile device such as a smartphone, with the use of a PC with a webcam or other sensors, with vision (for example projection goggles on the retina), listening (headphones) and manipulation (gloves) devices that add media information to a daily-basis perceived reality.

In Virtual Reality (VR), usually the information added or subtracted electronically is overwhelming, to the point that people are immersed in a situation where natural perceptions of many of the five senses do not seem to even be present anymore and are replaced by others. However, in Augmented Reality (AR), one continue to live the common physical reality, but has additional or manipulated information about the reality itself.

After all, the distinction between VR and AR is contrived: the mediated reality, in fact, can be considered as a continuum, in which VR and AR are adjacent and are not simply two opposite concepts. The augmented reality is nothing more than a mixed reality, born from the idea of merging virtual reality with actual locations.

 

The Psychology of Videogames

Although Pokemon Go is a distinctive video game, it remains, after all, a videogame. There are different and diversified types of video games, constantly subject to changes and upgrades. It would be too simplistic to think of the game only as a form of simple entertainment (Bittanti, 2004). By doing so, one may not understand its real meaning and value of its use. An increasing number of titles are used for educational purposes or in support of the learning processes. In addition video games that aim to the promotion of physical and psychological wellbeing of people are growing more and more.

Examples include the popular Wii Sports and Wii fit from Nintendo, meant to promote the body’s fun and useful use for burning calories, or the famous (in the US) Virtual Iraq to treat veterans from Post-Traumatic Stress Disorder. This video game, created ad hoc for the occasion and based on the video game Full Spectrum Warrior, allowed the survivors to live again the war that obsessed them in a both virtual and safe form. The software has proved effective with four survivors, including a 21-year soldier who had attended numerous scenes of suicide bombs. When it comes to videogames, however, we cannot avoid to think of (but this does not apply to everyone) negative background’s considerations. The most common thoughts are the following:

Violent video games, violent people. The video game as a tool to influence both the emotions and behavior. This conception states that the behaviors observed in video games and played by the users, can then be replayed in the reality. It entails negative consequences if we consider that many of the actions and attitudes found in videogames are morally objectionable or dangerous. A great example is given by the well known (especially by young gamers) Grand Theft Auto or GTA. Stop playing games and go out. The video game as something that isolates and makes people lazy. How often do we happen to be so entranced by what happens on the screen that we forget, even for long hours, all the rest? The game is seen as something that brings laziness, that forces you to stand still and that, in relation to it, may lead to misconducts on the alimentary, physical and hygienic point of view. It can also bring out the idea of a social withdrawal, almost as if you would prefer to relate to fictional characters of the game rather than real people.

Much better a good book. The video game as a tool to detach from reality. This concept gives the game the dangerous ability to substitute the real experience, imprisoning the user in fantasy worlds that, in extreme cases, would one no longer be able to distinguish from the reality.

 

The Captology

What stated so far should not make us forget the existence of the other side of the coin of a video game. As mentioned at the beginning of the article there are even video games that, in the light of psychophysical, pedagogical and educational objectives, can positively influence people’s behavior. And this happens also thanks to their strong “persuasive” power.

The captology, and Wikipedia helps us here, is the study of computers (hardware and software) as persuasive technologies. This recent area of research explores the space between persuasion (influence, motivation, behavior change, and so on), and computer technology. This includes the design, research and analysis of interactive computing products, such as the Web, computer software, specialized devices, etc., created in order to change attitudes or behaviors of people. B.J. Fogg, Director of the persuasive technology lab at Stanford University, coined the term captology in 1996, derived from the acronym CAPT (Computers As Persuasive Technologies). The field of captology, where the art of persuasion and computer science overlap, is growing fast: every day new software applications, including web sites and mobile applications, are designed to change what people think and do. Social networks, such as Facebook and Twitter, are now powerful means of mass persuasion. Persuasion, in the sense of captology, refers to any attempt to provoke “intentionally”, through human-computer interaction, a given “volunteer” change in ideas and behaviors, without making use of deceit or coercion. In this sense, those changes that, despite occurring as a result of human-computer interaction, were not desired and intentionally planned by the designer, are excluded from captology’s investigation.

What about Pokemon Go with captology? Leaving the game aside for a moment, the mobile device provides a unique opportunity for persuasion. The smartphone remains in close contact with people all day long. This constant presence gives rise to two factors that contribute to creating opportunities for persuasion, which are defined by Fogg himself: the kairos factor (kairos indicates the appropriate time to send a message) and comfort factor. Mobile technology makes it easier to be able to intervene at the best time to persuade, and this because it is a type of technology designed to be always with you.

The origin of kairos dates back to ancient Greece. The Greeks had two words to define the time: chronos and kairos. While chronos determine a sequential time, kairos refers to the right moment, an istant in which an event of significance happens.

Fogg theorized about kairos that: “the portable systems of the future will be able to identify the appropriate time and will influence more effectively than they do today. When they will be able to know the user’s goal, his habits, location and activity of the time, these mobile systems will be able to determine when the subject is more prepared to be persuaded through forms of reminders, suggestions or simulation”. What stated may also be related to the product developed by Niantic, the software development company based in San Francisco, California. Too many factors confirm the presence of the principle of kairos in Pokemon Go. One for all, perhaps the most obvious (and for some, however, will not be so easy to understand) is to suddenly see a Pokemon coming out in front of you during your own research. The tip given by the appearance of the imaginary creatures as we explore the different territorial areas is in effect part of kairos. As a result, you increase the persuasive power of the game. Remaining on the subject of kairos, there are other important aspects worth noting in Pokemon Go. For examples there are the messages that appear when the GPS signal is not detected, the detection of our virtual person on the “map” while we’re playing.

We can then observe that, after downloading the game on an Apple device, we are asked to accept notifications. The warning that appears is as follows: Pokemon Go would like to send you notifications. Notifications may include warnings, sounds, badge configurable icons in settings. All these signals and devices increase persuasion, in our case, of the augmented reality in the videogame. After kairos, another element to consider is the comfort factor. Mobile technology facilitates the interaction between man and machine, further heightening the potential for persuasion. The mobile device is virtually always at hand and responds immediately, without long waiting times (barring unforeseen circumstances due to hardware or software technology) to upload or download information.

Other factors support this principle; they relate to Pokemon Go, confirming what said before. These factors are defined as the principle of mobile simplicity, the principle of social confrontation and the principle of competition. The principle of mobile simplicity, briefly, states that any application, if easy to use, will have a greater persuasive potential. The principle of social comparison instead emphasizes how people will be more motivated to keep a certain behavior if they can compare their performance with that of others, especially with that of others like themselves. Finally, the principle of competition addresses how information technology can motivate customers to adopt a certain attitude or behavior, taking advantage of the natural tendency of people to be competitive.

How can these aspects be applied to the videogame? Well, if we reflect in retrospect, we can see that (apart from problems due to server down or difficulties related to the hardware of your mobile) interacting with the software of the Niantic is easy and immediate. Just literally one click to catch Pokemon and entering the game is very quick. Catching the Pokemon and collecting them all has become a goal that every player wants to accomplish and in doing so people tend to compete with other players. Eventually, to consolidate the competition, there is the comparison of the Pokedex. How many have you caught? How many have I caught myself? Every Pokemon is leveling up the players’ score, who can educate and empower the Pokémon for future battles. Future upgrades promised by the game developer’s House, such as the inclusion of new Pokémon (including the rare ones), will result in a significant increase in persuasions of the game.

The captology behind the phenomenon of Niantic’s success, it is also confirmed not only by the theory, but also by facts and evidence. Such as the case of Tom Currie, a 24-year-old New Zealander who decided that his free hours were no longer enough. And for this reason he abandoned his job. Companies like SimilarWeb, born for data analysis, showed how the users of the game connect on average 33 minutes each day. Information recently circulated on the net by Sensor Tower confirmed that the level of total downloads of the application Niantic having only recently passed the touched 75 million share already. The title was also awarded the Niantic record of “fastest title” to have reached the threshold of 50 million downloads, well in advance of Color Switch, second application hosted in the ranking published by Sensor Tower.

 

The Positive Tecnology

Closing the part regarding captology, I would try now, in terms of potential persuasion, to include Pokemon Go between the positive technologies. In the history of human-computer interaction, it is possible to identify a constant trend: making interaction with new media as close as possible to what each of us has within a real-world environment. This made the technological content as an experience, increasing its impact on people’s daily lives. In that way, however can this transformation be beneficial to people’s welfare? How can I use the experiential dimension of technology to promote the personal and social growth?

The attempt to provide an answer to these questions comes from an emerging discipline, the Positive Technology (PT), which can be defined as “a scientific approach application that uses technology to change the characteristics of our personal experience-structuring increasing or replacing it with synthetic environments-in order to improve the quality of our personal experience, and to increase individuals, organizations and companies” (Riva, Banos, Botella, Wiederhold, & Gaggioli, 2012). In fact, the PT is based on various experiential technologies: smartphones and tablets, serious gaming, virtual reality and augmented reality. The positive psychology can suggest how to develop technological applications and systems that lead to positive emotions, promote personal growth and provide a contribution to social and cultural development. Martin Seligman, considered a pioneer of the movement of positive psychology, has identified three pillars of positive life in his book titled Authentic Happiness.

The first pillar, called the pleasant life, is accessible through the involvement in fulfilling and satisfying activities and use of their abilities and talents. The second pillar, the engaged life, is accessible through the involvement in fulfilling and satisfying activities and use of their abilities and talents. The last pillar, know as the meaningful life is accessible through participation in activities aimed at broader objectives of individual ones.
More recently, Seligman has introduced the PERMA, acronym of the five pillars of wellbeing: positive emotion, engagement, social relationships, meaning and realization (Seligman, 2002).

In line with this perspective, Keyes and Lopez have proposed that positive operation is given by the combination of three high levels of well-being: the emotional, psychological and social levels (Keyes & Lopez, 2002).
Starting from these thoughts, Positive Technology is divided into three different areas: the Hedonic technologies used to induce positive and pleasant experiences, the Eudemonic technologies used to assist individuals in achieving engaging and self-realizing experiences, the Interpersonal/Social technologies technologies used to assist and improve social inclusion and/or social connections between individuals, groups and organizations.

 

The Benefits of Pokemon Go

An article in the July 14, 2016 Panorama.it gives us a hand in confirming what just stated. The article takes us back a reflection of Dr. John Grohol, an expert in the study of the impact of technology on human behavior, mental health and founder of Psych Central, a large network on the internet that contains researches, ideas, and supporting materials about mental disorders. Here is an excerpt of what is being reported: “…the challenge, for anyone who is depressed, is increasing the motivational levels to get out of the house, which, until then, are non-existent. We would need to go out and breathe some fresh air, maybe take a shower or a bath. They seem stupid things, but are extremely difficult to deal with for those who are anxious or depressed. Therefore, I think the impact of the game can really lead to substantial benefits”. Continue the same Grohol: “Science is very clear on this point: the more you do physical activity, the more you will lower the levels of depression. This is a very powerful tool, with a remarkable effect”.

However, how then can Pokemon Go would help you get away from a mindset of apathy and despair? First of all, the app focuses heavily on interaction with the outside world more than focusing only on the character that one leads. In this way it encourages toward knowledge of buildings and historic sites (the so-called “Pokéstop“) and contact with other players on the map. In addition, the mere fact of having to come out to progress through the game is already a first step toward opening to the unknown outside that world that is so scary. Of course, it would not be correct to consider this game as a treatment for anxiety and depression, but it is definitely a good tool to give an impetus.

A further example of the usefulness of video game, as a positive technology, comes from the story of C.S. Mott Children’s Hospital in the United States. In this children’s Hospital of Michigan, people are using a very special therapy, which have to do with the popular application. This application is in fact used as therapy at the children’s Hospital. The little patients have the opportunity to take advantage of Pokemon GO, running around in the trees in search of their favorite monsters. Children with a wide range of medical conditions (cancer patients, autism spectrum disorder and hyperlexia, etc..) are encouraged to use Pokemon within public spaces of the hospital. The use of the same application, although in rather unusual terms, is aimed at improving the conditions of children and socialize more easily. The movement, helps children from the physical point of view, not making the limbs atrophy, whereas, socializing with others, makes them feel less alone and ease anxiety and depression.

 

Emotional intelligence in Pokemon GO

There is still a positive global phenomenon in the contrivance of Niantic I want to talk about. This feature is related to future updates that are declared by John Hanke, CEO of Niantic (the company that together with Nintendo and The Pokemon Company has created the fun video game). Hanke, during the interview, focused on the interaction between coaches, declaring that, despite this feature is still not in use, it will be a central element of the game.

Among the changes that will be introduced, as we have just said, there is the change of Pokemon, but this will not be the only feature to be introduced in future updates of Pokemon GO. The other novelty could cover the challenges between coaches, even outside the gym. In fact, the new Multiplayer mode of Pokemon GO, the other coaches might appear on the game map, and open a challenge. In this way, you can keep your Pokemon even when you are not in the gym. I am convinced that, as a psychologist, future upgrades as stated by CEO of Niantic, will contribute to increase emotional intelligence of its players.

For those who are clueless about the subject, the american psychologist Daniel Goleman has made the Emotional Intelligence construct (EQ), which identifies a particular type of intelligence related to the proper use of emotions. According to Goleman, developing this kind of intelligence can be a determining factor in achieving people’s personal and professional achievements. If properly managed, it can help us to communicate effectively, to be able to self motivate, to better react to stimuli from the environment. Goleman’s model outlines five main EQ constructs (often referred to by different authors with different terminology):

Self-awareness. The ability to recognize an emotion as it “happens” is the key to your EQ. Developing self-awareness requires tuning in to your true feelings. If you evaluate your emotions, you can manage them.
Self-regulation. You often have little control over when you experience emotions. You can, however, use a number of techniques to alleviate and regulate negative emotions such as anger, anxiety or depression.
Empathy. The ability to recognize how people feel is important to success in your life and career. The more skillful you are at discerning the feelings behind others’ signals the better you can control the signals you send them.
Motivation. To motivate yourself for any achievement requires clear goals and a positive attitude. Achievement drive, commitment, initiative and optimism are the bases of motivation.
Social skills. The development of good interpersonal skills is tantamount to success in your life and career. So, people skills are even more important now because you must possess a high EQ to better understand, empathize and negotiate with others.

Emotional intelligence applied to this game will be due when, with the promised update from Niantic, people will be able to challenge individual players outside of gyms. Why saying this? The answer is very simple. With the new upgrade of the application there will indeed be duels between real coaches. During the fight, the player, without even realizing, will try to put himself in the shoes of his opponent to try to understand the game plan and why he chose that particular type of Pokemon. He will also try to understand what moves he will use it and how his opponent will behave. The game strategy to win against the opponents will, ultimately, develop the ability of mentalizing the player himself. This is, and remains, however, my inference. Only the time will confirm if what I am saying now will come true or not.

 

Conclusion

In conclusion, the success of Pokemon Go is known to all. So successful, for better or for worse, will lead undoubtedly to a greater spread of augmented reality game. In addition to the continual upgrades that there will be in the future.

Quella strana sensazione… Il fenomeno Not Just Right Experience: quale relazione con il Disturbo Ossessivo Compulsivo?

Il fenomeno Not just right experience (NJRE) viene definito come una sensazione soggettiva, relativa al fatto che un’esperienza venga percepita come “non completamente soddisfacente” o che le cose vengano percepite come “non a posto” e potrebbe avere una relazione con il disturbo ossessivo compulsivo.

Irene Puppi – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze

 

L’individuo che fa esperienza della Not just right experience si sente spinto ad agire per modificare l’ambiente circostante con lo scopo di diminuire il disagio conseguente a tale sensazione. Il disagio che ne deriva risulterebbe infatti dalla discordanza tra le performance dell’individuo o lo stato reale delle cose, e i propri standard (Mancini, Gangemi, Perdighe & Marini, 2008).

Già nel 1903 Janet nella sua opera “Les obsessions et la psycastènie” parlò di “un senso interno di imperfezione” e descrisse tale esperienza come “la percezione che le azioni compiute non siano realizzate completamente o che non producano un adeguato senso di soddisfazione” (in Pitman, 1987a, p. 226).

 

Not just right experience e disturbo ossessivo-compulsivo

Diversi studi (Coles, Frost, Heimberg & Rhéaume, 2003; Coles, Heimbergh, Frost & Steketee, 2005; Ghisi et al., 2010; Sica et al., 2015) hanno indagato questo fenomeno rilevando una forte associazione tra Not just right experience e i sintomi ossessivo-compulsivi e in alcuni casi individuando un ruolo cruciale della Not just right experience nell’eziologia e mantenimento del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC).

Pitman (1987b), nella teorizzazione del modello cibernetico, ipotizza lo sviluppo del Disturbo Ossessivo Compulsivo a partire da un disaccordo tra le proprie aspettative (input interni) e le esigenze ambientali. I rituali compulsivi, in tale prospettiva, vengono interpretati come la risposta dell’individuo a tale discrepanza, come un tentativo di diminuire la distanza tra aspettative interne e stimoli esterni.

Tale discrepanza viene sperimentata proprio come una sensazione che le cose non siano esattamente giuste, non siano corrette, non siano just right.

Summerfeldt e colleghi hanno invece ipotizzato alla base del Disturbo Ossessivo Compulsivo la presenza di una sensazione sovrapponibile alla Not just right experience e che loro chiamano “senso d’incompletezza”. Secondo le loro ricerche, vi sono alcune dimensioni sottostanti al Disturbo Ossessivo Compulsivo, quali: l’ansia anticipatoria, la sensibilità al potenziale pericolo e un’esagerata tendenza all’evitamento di questo. Non tutti gli individui però combaciano con questo profilo e spesso alcuni pazienti descrivono piuttosto un senso d’insoddisfazione del loro stato attuale e una spinta a correggere una profonda sensazione di imperfezione.

Sulla base delle ricerche di Rasmussen & Eisen (1992), Summerfeldt e collaboratori (2004) hanno quindi costruito un modello dimensionale del Disturbo Ossessivo Compulsivo. Essi propongono l’esistenza di due dimensioni ortogonali, l’evitamento del pericolo e l’incompletezza, che in combinazione potrebbero essere alla base della maggior parte delle manifestazioni di questo disturbo.

 

Compulsioni, not just right experience e decision making

Il costrutto Not just right experience si ritrova inoltre nelle teorie che, alla base del mantenimento dei comportamenti compulsivi, individuano la presenza di deficit nei meccanismi di stop e di decision making.

Per Wahl e collaboratori (2008), la difficoltà nell’interrompere i comportamenti compulsivi consisterebbe proprio in un problema di decision making, ossia riguardante la decisione se “sia stato fatto abbastanza”. Ad esempio un paziente che si lava le mani compulsivamente non ha dubbi sul fatto di averle lavate e sulla durata dell’azione, ma ha piuttosto il dubbio sul fatto di averle “lavate abbastanza” (Wahl et al., 2008). Secondo questa teoria il termine di un comportamento compulsivo sarebbe perciò preceduto da uno stato soggettivo particolare, un senso di soddisfazione o completezza (una sensazione di “just right”) in cui l’individuo sente di aver completato un’azione e decide di fermarsi.

 

Gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi: correlazione con la Not just right experience

Altri dati a favore dell’ipotesi di una stretta associazione tra Not just right experience e Disturbo Ossessivo Compulsivo provengono dagli studi di Leckman e collaboratori (1995) e di Ferrão (2012), secondo i quali la Not just right experience sarebbe associata a una maggior gravità dei sintomi ossessivo-compulsivi.

Coles e collaboratori (2003) rilevarono inoltre una maggior correlazione tra la Not just right experience e alcuni quadri sintomatologici del Disturbo Ossessivo Compulsivo come ad esempio checking, ordering e doubting, e una più debole con washing, obssessing, hoarding e neutralizing.

Oltre a considerare le manifestazioni del Disturbo Ossessivo Compulsivo che mostrano maggiore correlazione con la Not just right experience, sono degne di merito anche quelle che mostrano una correlazione minore ma pur sempre rilevante. Per esempio il washing, potrebbe innescarsi da un tentativo di ridurre la probabilità di un eventuale temuto contagio, oppure da un tentativo di raggiungere una sensazione di “just right” (Feinstein, Faloon, Petkova & Liebowitz, 2003).

Coerentemente a tale ipotesi, il lavoro di Tallis (1996) ipotizzò che proprio il secondo tipo di washing potesse essere più strettamente correlato con la Not just right experience. In conclusione, è possibile che una maggiore precisione nel definire le motivazioni sottostanti la sintomatologia, possa rivelare delle correlazioni più precise tra i vari sintomi del Disturbo Ossessivo Compulsivo e la Not just right experience, nonché aiutare a comprendere  maggiormente l’eterogeneità di questo disturbo (Pietrafesa & Coles, 2009).

Le compulsioni, tipicamente concettualizzate come un tentativo di ridurre l’ansia diminuendo la probabilità di conseguenze minacciose per l’individuo, all’interno di tale cornice teorica vengono perciò ridefinite come un tentativo di diminuire l’ansia derivata dalla Not just right experience. Ad esempio, controllare che gli infissi delle finestre siano chiusi è comunemente ritenuto un comportamento che ha lo scopo di avere la conferma di aver chiuso correttamente le finestre e conseguentemente prevenire un eventuale furto o l’entrata di estranei in casa, ma in realtà la stessa compulsione, potrebbe essere innescata da un desiderio di alleviare una sensazione di disagio dovuta al fatto che in quel momento qualcosa nelle vicinanze non sia “a posto”.

In uno studio del 2005, Coles e colleghi hanno inoltre rilevato che le Not just right experiences possono essere indotte anche sperimentalmente e sono un fenomeno naturale che accade comunemente a tutte le persone, ma ciò che distingue tra pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo e non, sarebbe la reazione dell’individuo alle esperienze di Not just right (ossia il disagio provato e l’urgenza di fare qualcosa durante l’esperienza, che risulterebbe maggiore nei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo).

 

La Ricerca: quale relazione tra Not just right experience e Disturbo Ossessivo Compulsivo

Alla luce di questi studi il presente lavoro di ricerca, sviluppato come tesi di laurea magistrale, si propone di dare un piccolo contributo alla conoscenza del fenomeno della Not just right experience.

Si ipotizza quindi una relazione tra Not just right experience e Disturbo Ossessivo Compulsivo attraverso uno studio di induzione sperimentale e automonitoraggio in un campione di 106 studenti universitari.

In una prima fase sono stati somministrati dei questionari al fine di indagare la prevalenza delle Not just right experiences, alcuni domini psicopatologici (depressione, ansia, worry) e le caratteristiche ossessivo-compulsive. Nelle fasi successive sono state invece analizzate le differenze tra i soggetti nell’esperire tale sensazione, sia in ambito d’induzione sperimentale sia in una situazione naturale.

 

Obiettivi e ipotesi

A partire dai risultati di precedenti ricerche (Coles et al., 2003, 2005), che dimostrerebbero la presenza di una stretta associazione tra il costrutto Not just right experience e il Disturbo Ossessivo Compulsivo rispetto ad altre psicopatologie (ansia, depressione, worry), in questo studio si vuole verificare se:

  • Il costrutto di Not just right experience sia specifico per il Disturbo Ossessivo Compulsivo; si ipotizza perciò di rilevare associazioni positive tra i punteggi ottenuti al NJRE-Q-R e quelli ottenuti ai questionari che indagano le caratteristiche ossessivo compulsive (OCI, OBQ, MPS), e di rilevare associazioni più deboli tra Not just right experience e i test (BAI, BDI-II, PSWQ) che indagano gli altri domini psicopatologici (ansia, depressione, worry,).
  • In ambito d’induzione di laboratorio, gli individui che al NJRE-Q-R hanno riportato un elevato livello di Not just right experience esperiscano maggior disagio e spinta a modificare gli stimoli sperimentali rispetto agli individui con un basso livello di Not just right experience.
  • In una situazione naturale, gli individui con elevata Not just right experience riportano maggior disagio e urgenza di modificare l’ambiente durante un’esperienza di Not just right rispetto a individui con bassa Not just right experience.

 

Metodologia

Partecipanti

Alla ricerca hanno preso parte 106 studenti della Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Padova. Il campione è stato suddiviso in due gruppi sulla base del valore mediano ottenuto alla NJRE Severity Scale che è risultato uguale a 16. I partecipanti che avevano ottenuto un punteggio superiore sono stati inseriti nel gruppo con elevata Not just right experience mentre quelli con un punteggio inferiore nel gruppo con ridotta Not just right experience.

 

Strumenti

Gli strumenti utilizzati nella ricerca sono stati:

  • Una batteria di test composta da:
  1. Beck Anxiety Inventory (BAI; Beck, Epstein, Brown, & Steer, 1988)
  2. Multidimensional Perfectionism Scale (MPS; Hewitt & Flett, 1991, 2004)
  3. Obsessive Beliefs Questionnaire (OBQ; Obsessive Compulsive Cognitions Working Group, 1997)
  4. Obsessive Compulsive Inventory (OCI; Foa, Kozak, Salkovskis, Coles, & Amir, 1998)
  5. NJRE Questionaire-Revised (NJRE-Q-R; Coles et al., 2005)
  6. Beck Depression Inventory (BDI-II;  Beck, Steer & Brown, 1996)
  7. Penn State Worry Questionnaire (PSWQ; Meyer, Miller, Metzger & Borkovec, 1990)
  • Un’intervista creata ad hoc per la ricerca divisa in due parti: la prima parte è composta da domande che indagano le considerazioni dell’individuo rispetto alla batteria di test (lo scopo è di tenere il soggetto all’interno del laboratorio e celare le finalità dell’esperimento); la seconda parte è costituita da alcune domande riguardanti l’induzione di Not just right experience in laboratorio. Le domande, alcune associate ad analogo-visivo, permettono di quantificare alcuni parametri (come l’intensità del disagio, l’urgenza a modificare l’ambiente, la responsabilità percepita), durante la Not just right experience indotta sperimentalmente.
  • Un diario di automonitoraggio da compilare a casa.

 

Procedura:

La ricerca era costituita da tre fasi sperimentali:

  • Compilazione della batteria di test
  • Intervista ed esperimento di induzione di NJRE in laboratorio
  • Compilazione di un diario di automonitoraggio per una settimana

La prima fase sperimentale consisteva nella somministrazione agli studenti della batteria composta dai 7 questionari. Ogni partecipante si è poi presentato in laboratorio nei giorni successivi per sottoporsi all’esperimento. È importante sottolineare come gli studenti all’inizio non fossero a conoscenza di come in realtà si sarebbe svolta la ricerca dopo la fase di compilazione della batteria, ma erano solo stati informati che in laboratorio avrebbero risposto a un’intervista strutturata riguardante le loro impressioni sulla batteria di test. In questa seconda fase, ogni studente è stato fatto accomodare nel laboratorio che, a scopo di ricerca, era stato allestito con particolari stimoli sperimentali (un pennarello sul pavimento, un portapenne rovesciato, due penne incrociate senza tappo, una scrivania storta) potenzialmente in grado di indurre una sensazione di Not just right experience.

Una volta entrato in laboratorio ogni partecipante è stato fatto sedere dalla parte opposta della scrivania rispetto allo sperimentatore per essere sottoposto all’intervista che comprendeva alcune domande rispetto alla batteria di test (lo scopo era di tenere il partecipante all’interno del laboratorio e di celare il reale scopo dell’esperimento). Dopo circa dieci minuti dall’inizio dell’intervista, lo sperimentatore si assentava lasciando il partecipante da solo. Durante questo intervallo di tempo l’individuo era libero di osservare il laboratorio e gli stimoli sperimentali e quindi di spostarli o modificarli nel caso lo infastidissero. Passati due minuti lo sperimentatore rientrava e sottoponeva al partecipante la seconda parte dell’intervista riguardante l’induzione di Not just right experience (ad esempio veniva valutato il grado di disagio indotto dagli stimoli) e gli eventuali comportamenti o modifiche messe in atto. Al termine della seconda parte dell’intervista (della durata di 10 minuti), a ogni partecipante veniva illustrato il vero scopo della ricerca e consegnato un diario di automonitoraggio da compilare nel corsa della settimana successiva (dove inserire le Not just right experiences esperite naturalmente indicandone la durata, l’intensità del disagio e l’urgenza di far qualcosa). Alla fine della settimana di automonitoraggio, i partecipanti riconsegnavano il diario presso il laboratorio.

 

Risultati e Conclusioni

Per quanto riguarda la prima ipotesi, secondo la quale il costrutto Not just right experience è specifico per il Disturbo Ossessivo Compulsivo, i risultati emersi dalle analisi hanno rilevato la presenza di un’associazione tra Not just right experience e Disturbo Ossessivo Compulsivo, anche dopo aver controllato le variabili quali depressione, ansia e worry; infatti all’aumentare del livello di Not just right experience aumenta anche la gravità delle caratteristiche ossessivo-compulsive. In particolar modo sono emerse associazioni più forti con il checking mentre associazioni più deboli con il washing, doubting, ordering e hoarding confermando parzialmente quanto emerso dagli studi di Coles e colleghi (2003). Inoltre è stata riscontrata la presenza di associazioni tra il Not just right experience e ansia, depressione e worry.

Rispetto alla seconda ipotesi, secondo la quale in ambito d’induzione di laboratorio chi ha elevati livelli di Not just right experience esperisce maggior disagio e spinta a modificare gli stimoli sperimentali rispetto a chi ha bassi livelli di Not just right experience, è stato osservato che il 33,98% del campione ha notato la presenza degli stimoli e ha provato una corrispondente sensazione di disagio e fastidio e il 26,21% ha compiuto un’azione per modificare l’ambiente sperimentale. Analizzando la presenza di differenze tra i due gruppi (Alto/Basso Not just right experience), nell’osservazione degli stimoli sperimentali e dei comportamenti emessi, i risultati però non hanno mostrato differenze statisticamente significative. Anche per quanto riguarda le sensazioni associate all’induzione (come ad esempio il grado di disagio provato di fronte agli stimoli che dovevano indurre una Not just right experience o la difficoltà nell’allontanare il pensiero dello stimolo disturbante), indagate mediante la seconda parte dell’intervista, non sono state riscontrate differenze statisticamente significative tra i due gruppi.

Questi risultati possono essere spiegati considerando il ruolo della responsabilità. Molto probabilmente, come osservato da Coles e collaboratori (2005), la responsabilità percepita dall’individuo può moderare la relazione tra Not just right experience e le reazioni associate ad esse (come ad esempio il disagio e l’impulso ad agire). Tale spiegazione è supportata anche dai modelli cognitivo-comportamentali (Salkovskis, 1985; Salkovskis et al., 2000), che affermano come sia proprio la valutazione della responsabilità, in relazione ai pensieri intrusivi, a determinare la reazione associata ad essi. Il campione di studenti ha infatti percepito una scarsa responsabilità durante l’induzione (se si osservano i valori medi del grado di responsabilità percepita durante l’induzione, questi sono molto bassi) dovuta probabilmente al contesto artificiale del laboratorio.

Per quanto riguarda la terza ipotesi, le persone con elevati livelli di Not just right experience hanno riportato valori medi di disagio, urgenza e durata maggiori durante le esperienze di Not just right, rispetto alle persone caratterizzate da bassi livelli di Not just right experience. Inoltre la presenza di questi risultati in un campione non clinico, suggerisce che le esperienze di Not just right siano comuni anche nella popolazione normale e, quindi, esperibili naturalmente nella vita quotidiana (Ghisi et al., 2010).

Dalle analisi dei risultati sono inoltre emerse delle associazioni tra alcuni domini cognitivi del Disturbo Ossessivo Compulsivo e le caratteristiche delle Not just right experiences, e nello specifico tra: la numerosità delle Not just right experiences con “perfezionismo” e “sovrastima del pericolo”; l’urgenza di agire con “perfezionismo”, “responsabilità per danno”, “sovrastima del pericolo” e “fusione pensiero e azione”; e infine il disagio con la “sovrastima del pericolo” e “fusione pensiero e azione”.

In conclusione, è possibile affermare che il fenomeno Not just right experience sia strettamente collegato con le caratteristiche sintomatologiche ossessivo-compulsive, e studi futuri potrebbero includere il fenomeno Not just right experience, all’interno dei fattori di vulnerabilità del Disturbo Ossessivo Compulsivo (Sica et al., 2013, 2015; Taylor et al., 2014). Ulteriori ricerche potrebbero inoltre indagare i substrati neuronali implicati sia nelle compulsioni effettuate per evitare una minaccia, sia in quelle effettuate con lo scopo di raggiungere uno stato di “just right” in quanto, se fossero mediate da differenti substrati, potremo avere importanti ricadute a livello del trattamento farmacologico (Ghisi et al., 2010).

Infine da un punto di vista clinico, la conferma di un ruolo fondamentale del Not just right experience nel Disturbo Ossessivo Compulsivo, metterebbe in discussione le abituali strategie terapeutiche (es. esposizione e prevenzione della risposta, ERP), in quanto proprio nei pazienti con Disturbo Ossessivo Compulsivo e con elevata Not just right experience, si è rilevata una minor risposta a questo tipo di trattamento (Foa, Abramowitz, Franklin & Kozak, 1999; Summerfeldt, 2004).

Sarà ora di infrangere qualche tabù? Gli effetti terapeutici degli allucinogeni e delle sostanze psicoattive

Hofmann lavorò a fondo per analizzare l’ LSD, i suoi effetti e i possibili danni collaterali, prima che quest’ultima diventasse una droga illegale. Studiò i principi di altre due droghe sintetiche messicane usate in contesti cerimoniali e religiosi, (il fungo teonanacati e il convolvolo magico ololiuqui); le ricerche evidenziarono lo stretto legame tra la struttura chimica di questi principi attivi isolati dalle due piante e quindi di origine naturale e dell’LSD, dimostrando, secondo lui, la “bontà” di queste sostanze (Hofmann, 1958).

Silvia Pomi, Giorgia Righi, OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Allucinogeni: cosa sono e quali effetti generano

Allucinogeni, dal verbo latino alucinàri, allucinàri ovvero ingannarsi, derivante dalla radice greca alùo, alùsso, vaneggiare, esser fuori di sé, è un termine che racchiude vari gruppi eterogenei di sostanze capaci di alterare in modo netto le percezioni, i pensieri e le sensazioni. Sono sostanze, per lo più di origine vegetale, ancora oggi usate in cerimonie medico-magico-religiose presso le culture tradizionali, soprattutto dell’America Latina. Attualmente, a fianco di quelle naturali, si usano anche sostanze allucinogene semisintetiche (LSD) o sintetiche.

Allucinogeni sono gli psichedelici veri e propri come l’LSD, la mescalina, il DMT (dimetiltriptamina) o la psilocibina, i dissociativi come la ketamina, il PCP (fenciclidina) e i delirogeni (spesso anche velenosi) come lo stramonio comune o l’atropa belladonna (Rotella, 1977).
A differenza di altre sostanze psicoattive, come oppiacei e stimolanti, queste sostanze non si limitano ad amplificare gli stati usuali della mente ma inducono esperienze qualitativamente diverse da quelle della coscienza ordinaria. Queste esperienze sono spesso paragonate a stati di coscienza non-ordinari, come la trance, la meditazione, e i sogni.

[blockquote style=”1″]È considerata allucinogena la proprietà d’una sostanza (naturale o di sintesi) che, agendo sui recettori del sistema nervoso centrale (SNC), provoca delle alterazioni psicosensoriali nelle percezioni, principalmente a carico della sfera visiva e nei processi del pensiero, dell’emozione e della coscienza di durata e intensità variabile a seconda del tipo, della quantità e della modalità d’assunzione della sostanza, fino a raggiungere delle vere e proprie allucinazioni “isolate” dal contesto ambientale.[/blockquote] (Hollister, 1968)

I “funghi magici” (contenenti psilocibina e la psilocina) sono utilizzati da secoli da diverse tribù indigene nordamericane e l’uso cerimoniale risale almeno al tempo degli Aztechi e dei Maya. La loro importanza culturale è riflessa nel nome azteco dei funghi (teonanàcatl, carne degli dei). Tuttavia, in mancanza di riscontri, la scienza ufficiale ne ha per secoli disconosciuto l’esistenza (Schultes, 1940).
Si è dovuto aspettare Wasson (1958) e il suo fortunato incontro con una sciamana, per avere la certezza della loro esistenza e una descrizione dettagliata del loro uso e dei loro effetti.

 

LSD: la droga degli hippy e gli impieghi in psichiatria

La dietilammide-25 dell’acido lisergico (LSD) fu invece scoperta nel 1938 da Albert Hofmann, chimico della società farmaceutica Sandoz, nell’ambito di una ricerca sui derivati dell’acido lisergico, il nucleo dei principi attivi della Claviceps purpurea (“segale cornuta”, fungo parassita della segale). Le sue proprietà allucinogene, e la sua straordinaria potenza (l’LSD è attivo a dosi di milionesimi di grammo) furono scoperte per caso, a seguito dell’involontaria ingestione di una piccola quantità da parte dello stesso Hofmann.

Hofmann lavorò a fondo per analizzare l’LSD, i suoi effetti e i possibili danni collaterali, prima che quest’ultima diventasse una droga illegale. Studiò i principi di altre due droghe sintetiche messicane usate in contesti cerimoniali e religiosi, (il fungo teonanacati e il convolvolo magico ololiuqui); le ricerche evidenziarono lo stretto legame tra la struttura chimica di questi principi attivi isolati dalle due piante e quindi di origine naturale e dell’LSD, dimostrando, secondo lui, la “bontà” di queste sostanze (Hofmann, 1958).

Durate gli anni Sessanta l’LSD fece la sua comparsa nel panorama delle droghe, divenendo per un certo periodo di tempo, soprattutto negli Stati Uniti, una delle droghe di più largo consumo. A questo si aggiunse che l’LSD divenne una droga di culto degli hippy e di altri movimenti che contestavano il sistema. Questo e l’inquietante azione psichica che provocava, portò alla messa al bando totale dell’LSD e delle sostanze affini. (Hoffman, 1979). La produzione, il possesso, il consumo e il suo impiego in psichiatria divennero reati perseguibili.
Questo divieto dura tuttora. L’uso terapeutico venne quindi interrotto e a detta di Hofmann fino ad allora non vi erano stati pericoli dimostrati del suo utilizzo in contesto psichiatrico.

Nei primi quindici anni dalla sua scoperta, l’LSD venne impiegata esclusivamente in psichiatria e nella ricerca biologica.

La prima ricerca sistematica con LSD su soggetti umani è stata condotta presso una clinica psichiatrica dell’Università di Zurigo; Stoll pubblicò i suoi risultati nel 1947; gli esperimenti coinvolsero individui sani e schizofrenici e vennero utilizzate dosi minime (tra 0,02 e 0,13 mg) di acido lisergico. La ricerca evidenziò l’emergere di stati mentali marcatamente euforici; l’effetto straordinario e profondo dell’LSD veniva messo in relazione all’attività di sostanze presenti in quantità minime nell’organismo, considerate responsabili di alcuni disordini mentali. Un altro aspetto affrontato in questa prima pubblicazione riguardava la possibilità di utilizzare questa potente sostanza psicoattiva come strumento di ricerca psichiatrica (Stoll, 1947).

L’impiego dell’LSD in psicoterapia si basava principalmente secondo Hofmann su effetti psichici quali alterazione della normale visione del mondo, trasformazione e disintegrazione profonde. Un’altra caratteristica significativa da lui individuata era la possibilità che contenuti d’esperienza rimossi e da lungo tempo dimenticati tornassero di nuovo alla coscienza.[blockquote style=”1″] Qualora la psicoanalisi cercasse di rintracciare eventi traumatici nella vita del paziente, questi potrebbero diventare accessibili al trattamento terapeutico[/blockquote] (Hofmann, 1979).

Hofmann affermava che numerosi casi individuali esaminati in contesto analitico sotto l’azione di LSD riferivano di esperienze infantili rievocate con estrema chiarezza. Non si trattava del normale ricordo di, ma del rivivere un’esperienza passata.
Secondo lo studioso i benefici che questo farmaco apportavano in psicoanalisi e in psicoterapia derivavano da proprietà diametralmente opposte a quelle dei cosiddetti psicofarmaci ansiolítici: [blockquote style=”1″]Mentre gli ansiolitici tendono a coprire i problemi e i conflitti del paziente, riducendone la gravità e l’importanza, l’LSD, al contrario, li fa vivere in maniera più intensa[/blockquote] (Hofmann, 1979).

Hofmann inoltre aveva analizzato l’impiego dell’LSD nelle ricerche sperimentali sulla natura delle psicosi. Questo interesse nasceva dalla similitudine osservata tra gli straordinari stati psichici prodotti sperimentalmente dall’LSD in soggetti sani e le molteplici manifestazioni di certi disturbi mentali. Nei primi tempi della ricerca sull’LSD, veniva spesso sostenuto che l’alterazione indotta da questo farmaco avesse a che fare con una «psicosi modello». L’ipotesi fu comunque abbandonata, perché estese indagini comparative evidenziarono delle diversità essenziali tra le manifestazioni psicotiche e l’esperienza con LSD. Tuttavia, grazie a questo «modello» è stato possibile studiare le deviazioni dalle normali condizioni psichiche e mentali, e osservare le modificazioni biochimiche ed elettrofisiologiche associate a queste (Hofmann, 1979).
Dopo oltre trent’anni dalla morte di Hofmann, l’acido lisergico, considerato da lui stesso il suo “bambino difficile”, il più famoso tra tutti gli allucinogeni, ritorna nei laboratori di ricerca.

In diverse nazioni quali Gran Bretagna, Svizzera e Stati Uniti, ad oggi sono riprese le ricerche per capire le potenzialità terapeutiche di ayahuasca, mescalina, ma soprattutto LSD.
Tanti sono gli ostacoli.
Lo psichiatra James Rucker del King’s College di Londra ha scritto sul British Medical Journal [blockquote style=”1″]le sostanze psichedeliche dovrebbero essere riclassificate dal punto di vista legislativo affinché i ricercatori possano studiarle.[/blockquote]

Centinaia di ricerche hanno dimostrato l’utilità di LSD e psilocibina per molti disturbi psichiatrici come problemi di sviluppo della personalità, comportamenti recidivi e ansia esistenziale. Gli allucinogeni [blockquote style=”1″]hanno più restrizioni di eroina e cocaina, ma non è dimostrato che creino dipendenza e ci sono poche prove che siano dannosi in contesti controllati[/blockquote] (Rucker, 2015).

 

La somministrazione dell’ LSD ai malati terminali

Uno degli impieghi medicinali dell’LSD che tocca questioni etiche fondamentali, concerne la sua somministrazione alle persone in fin di vita. Questa pratica nacque nelle cliniche americane, quando alcuni medici si accorsero che gli stati particolarmente gravi di sofferenza nei malati di cancro, su cui gli antidolorifici convenzionali non sortivano più alcun effetto, potevano essere alleviati o addirittura soppressi tramite la somministrazione di piccole dosi di LSD. Ciò non implica ovviamente un’azione analgesica classica.

[blockquote style=”1″]La diminuzione della sensibilità al dolore può verificarsi perché i pazienti sotto l’effetto di LSD vivono uno stato di dissociazione psichica dal corpo che impedisce al dolore l’accesso alla loro consapevolezza.[/blockquote] (Dutton, 1977).

Recentemente lo psichiatra Peter Gasser (2014) ha studiato gli effetti dell’LSD sui malati terminali; i risultati mostrano una diminuzione dei livelli di ansia e paura di morire. [blockquote style=”1″]I rimpianti, le emozioni dolorose di quest’ultima fase della vita sono svanite [/blockquote]riferiscono i pazienti della ricerca. Gasser et al. (2014) stanno conducendo test con Lsd e psilocibina per trattare depressione, cefalea a grappolo, disturbi ossessivi compulsivi e disturbi post-traumatici da stress.

Ross, Bossis e Guss (2015) della New York University hanno mostrato che una sola dose di psilocibina fornisce una diminuzione immediata di ansia e depressione in pazienti oncologici e i benefici si protraggono per mesi.

La Multidisciplinary Association For Psychedelic Studies (MAPS) è l’associazione americana (Sarasota, Florida 1986) che sostiene, finanzia, pubblica informazioni, scientificamente provate, sull’argomento. Anche Amanda Feilding, contessa di Wemyss and March, attraverso la Beckley Foundation (Oxford, 1998) promuove la ricerca.

Grazie a questa fondazione sono stati finanziati diversi studi sull’LSD Di Robin Carhart-Harris (2016) del centro di neuropsicofarmacologia dell’Imperial College di Londra.

 

Studi sugli impieghi dell’ LSD

Il ricercatore inglese è stato tra i primi ricercatori a somministrare psilocibina nel trattamento della cefalea a grappolo. Robin Carhart-Harris (2016) si è dato una spiegazione sul perché l’utilizzo di queste sostanze sia efficace: [blockquote style=”1″]La depressione e le dipendenze poggiano su schemi e modelli rinforzati dell’attività cerebrale e gli psichedelici introducono un relativo caos: in pratica questi schemi si disintegrano sotto l’effetto della sostanza allucinogena. Un po’ come quando si scuote una di quelle palle di vetro con dentro la neve finta. In passato ci sono stati casi di psicosi indotte da sostanze psichedeliche, soprattutto quando venivano assunte per uso ricreazionale e non terapeutico né controllato. Non è mai successo negli studi più attuali.[/blockquote]

Il ricercatore lancia poi la provocazione: [blockquote style=”1″]Gli psichedelici fanno paura perché rivelano la mente e le persone temono di sapere quello che c’è nella propria mente?[/blockquote] (Carhart-Harris, 2016).

In uno studio della durata di 12 mesi su 10 pazienti, Gasser et al. (2014) hanno cercato di indagare, attraverso la somministrazione dello STAI (State-Trait Anxiety Inventory,1989) e di un’intervista semi strutturata (che misurano rispettivamente l’intensità dell’ansia e la qualità della vita), l’effetto dell’LSD e i cambiamenti psicologici sul lungo periodo. Gli autori hanno potuto rilevare che l’LSD, somministrata in un setting psicoterapeutico controllato, può essere sicura e generare benefici duraturi nei pazienti.

Osorio et al. (2015) in un studio in un reparto psichiatrico ospedaliero, hanno cercato di valutare gli effetti di una singola dose di AYA (ayahuasca) in sei volontari con un episodio depressivo. Sono state osservate riduzioni statisticamente significative (fino al 82%) nei punteggi di depressione al primo, settimo e 21 giorno dopo la somministrazione di AYA, misurata con l’ Hamilton Rating Scale for Depression (HAM-D), il Montgomery-Asberg Depression Rating Scale ( MADRS), e il Brief Psychiatric Rating Scale (BPRS).
Questi risultati suggeriscono che l’ayahuasca ha effetti rapidi ansiolitici e antidepressivi nei pazienti con un disturbo depressivo.

Perfino in Norvegia, Paese in cui la legislazione anti-droga è rigidissima, il neuroscienziato della Norwegian University of Science and Technology Pal-Orjan Johansen ha fondato EmmaSofia, movimento per la riabilitazione e la produzione di ecstasy e psilocibina, il cui nome tiene insieme l’iniziale di Mdma e la traduzione greca di sapienza.

Il lavoro pubblicato sul Journal of Psychopharmacology (2012) ha esaminato i dati di sei studi e più di 500 pazienti scoprendo un “significativo effetto benefico” sull’abuso di alcol, durato diversi mesi dopo l’assunzione dell’Lsd.

I ricercatori hanno analizzato studi condotti sulla sostanza tra il 1966 e il 1970. I pazienti erano tutti coinvolti in programmi di trattamento dell’alcolismo, ma alcuni hanno ricevuto una singola dose di Lsd compresa tra 210 e 800 microgrammi, altri no. Nel gruppo dei pazienti che avevano preso l’allucinogeno il 59% ha mostrato ridotti livelli di abuso di alcol rispetto al 38% dell’altro gruppo. Questo effetto è stato mantenuto per sei mesi dopo aver assunto il farmaco, ma è scomparso dopo un anno. Quelli che avevano preso Lsd hanno anche riportato livelli più alti di astinenza. Gli autori del rapporto sottolineano che [blockquote style=”1″]una singola dose di Lsd ha un effetto significativamente positivo sull’abuso di alcol: dosi più regolari potrebbero portare a benefici più duraturi. Data l’evidenza di un effetto benefico sull’alcolismo, è sconcertante che questo approccio terapeutico sia stato ampiamente trascurato.[/blockquote]

Vollenveider (2010) in un suo articolo rifletteva su come, dopo una pausa di quasi 40 anni di ricerca sugli effetti delle droghe psichedeliche, i recenti progressi della ricerca sull’LSD, psilocibina e ketamina abbiano portato ad un rinnovato interesse per il potenziale clinico di queste sostanze psichedeliche nel trattamento di vari disturbi psichiatrici. Numerose recenti ricerche di neuroimaging e su base comportamentale hanno mostrato che le sostanze psichedeliche modulano i circuiti neurali che sono stati implicati in disturbi dell’umore e affettivi e possono ridurre i sintomi clinici ad essi associati.

Recenti studi clinici hanno prodotto nuovi importanti risultati per quanto riguarda la psicofarmacologia di queste sostanze. L’utilizzo delle tecnologie di neuro-imaging moderne e delle tecniche elettrofisiologiche sta cominciando a svelare come gli allucinogeni funzionino nel cervello; nuove ricerche stanno dimostrando l’efficacia terapeutica di queste sostanze (Halberstadt, 2015).

McCall (1982) verificò come basse dosi di LSD (dietilammide-25 acido lisergico) iniettate per via endovenosa, sopprimono la ricaptazione di serotonina nei neuroni del nucleo dorsale del rafe del ratto. L’effetto inibitorio dell’LSD sembra mediato quindi dai neuroni serotoninergici, mentre i neuroni del prosencefalo che ricevono un importante contributo serotoninergico sono relativamente insensibili a LSD. Altri allucinogeni (psilocina, dimethyltryptamine, e 5-methoxydimethyltryptamine) inibiscono la ricaptazione di serotonina nel nucleo del rafe rispetto ai neuroni postsinaptici del prosencefalo.

Secondo le analisi fatte da Delgrado et al (1998), il sistema del neurotrasmettitore serotonina (5-HT) è implicato nella fisiopatologia di diverse patologie neuropsichiatriche, in particolare ad esempio nel disturbo ossessivo-compulsivo (OCD). Il blocco di ricaptazione della serotonina sembra essere un importante evento neurobiologico iniziale nel meccanismo di azione terapeutica dei farmaci per i disturbi ossessivo-compulsivi. Tuttavia, per ragioni che continuano ad essere poco note, il miglioramento clinico dopo l’inizio del trattamento con inibitori della ricaptazione della serotonina può richiedere da otto a 12 settimane, e la maggior parte dei pazienti non migliora completamente. Dati recenti suggeriscono che l’attivazione della 5-HT può essere importante per il miglioramento dei sintomi OCD. Secondo Delgrado (1998), l’attivazione dei recettori 5-HT da parte degli allucinogeni può portare alla riduzione acuta di sintomi del disturbo ossessivo compulsivo.

La ricerca di Gonzales e Sealfon (2009) sulle sostanze psichedeliche come LSD e le droghe dissociative come la fenciclidina (PCP), ha mostrato che gli effetti di queste droghe assomigliano ad alcuni dei sintomi principali della schizofrenia. Alcuni farmaci antipsicotici atipici sono stati identificati grazie alla loro elevata affinità con i recettori serotoninergici, che sembra siano anche il bersaglio degli allucinogeni. Il complesso recettore di serotonina-glutammato nei neuroni piramidali corticali è stato identificato come possibile obiettivo sia delle sostanze psichedeliche che dei farmaci antipsicotici. Recenti risultati sul meccanismo di risposta ad allucinogeni e farmaci antipsicotici, possono portare all’unificazione di serotonina e glutammato come ipotesi neurochimiche della schizofrenia.

Lambe e collaboratori invece (2007) hanno dimostrato che gli allucinogeni psichedelici e la dopamina hanno effetti opposti sul glutammato extracellulare nella corteccia prefrontale; i ricercatori hanno ipotizzato che queste due famiglie di farmaci psicoattivi avrebbero effetti opposti sulle attività di rete corticale.

In Italia, in un’intervista, Claudio Mencacci (2016), direttore del Dipartimento di Neuroscienze e Salute Mentale dell’Azienda Ospedaliera Fatebenefratelli di Milano, afferma: [blockquote style=”1″]La ricerca va ripresa e non deve avere confini. Bisogna però tenere conto del fatto che ad oggi queste ricerche riguardano numeri davvero esigui; sono necessarie valutazioni con casistiche più ampie. Le ultime ricerche suggeriscono esiti positivi nel trattamento di alcuni disturbi come l’angoscia di morire nei malati terminali, i disturbi ossessivo-compulsivi, le dipendenze da alcol e le problematiche post-traumatiche da stress. C’è un problema etico di fondo. La ripresa degli studi non deve essere letta come un semaforo verde per l’impiego ricreazionale di queste sostanze.[/blockquote]

Oggi le ricerche sono condotte in condizioni protette, che consentono di mantenere una vigilanza sui potenziali effetti negativi; è quindi interessante che siano stati ottenuti esiti positivi e duraturi con poche somministrazioni. Gli stessi ricercatori però non sono ancora in grado di dare una spiegazione convincente sul perché questo accada.

Terapia della Gestalt e Gestalt Dialogica: il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento della personalità?

In questi ultimi anni, riesaminando la teoria della terapia della Gestalt, ci si è posti la domanda se un approccio stadiale fosse ancora contemporaneo e soprattutto se potesse rispondere alle seguenti istanze: il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento e l’accrescimento della personalità umana?

L’uomo è spirito. Ma che cos’è lo spirito? Lo spirito è L’io. […] L’uomo è una sintesi dell’infinito e del finito, del temporale e dell’eterno, di possibilità e necessità, insomma, una sintesi.

(Kierkegaard S.)

Ogni cosa realizzata dall’uomo rappresenta una sintesi, e non c’è novità più vitale nel mondo che la sua presenza creativa attraverso la sua attività.

 

In questi ultimi anni, riesaminando la teoria della terapia della Gestalt, descritta nel suo testo fondamentale del 1951 da Perls F., Hefferline R. F. e Goodman P., ci si è posti la domanda se un approccio stadiale, focalizzato essenzialmente sul confine di contatto tra organismo e ambiente, fosse ancora contemporaneo e soprattutto se potesse rispondere alle seguenti istanze: il contatto è sufficiente a determinare il cambiamento e l’accrescimento della personalità umana? Che differenze ci sono tra “contatto” e “relazione” e in che rapporto sono tra loro?

Verificando in questi ultimi anni i numerosi casi clinici osservati durante le psicoterapie, si è giunti alla convinzione che l’approccio stadiale, le interruzioni al contatto e il concetto stesso di contatto, non potevano chiarire molti comportamenti dell’individuo e soprattutto non erano in grado di cogliere tutta la freschezza creativa che possiede la persona, le sue risorse e la sua competenza trasformativa che soltanto la relazione con l’altro può attivare.

Per giungere a tali considerazioni, si è seguito il criterio che tuttora si crede essere il più puntuale e rigoroso possibile, ovvero esporre le integrazioni teoriche attraverso i casi clinici, così da coniugare la teoria con la prassi terapeutica, per elaborare un metodo il più possibile analitico ed esplicativo.

 

Terapia della Gestalt: da una teoria stadiale ad una visione dinamica

La terapia della Gestalt del PHG (sono le iniziali degli autori del già menzionato testo: Teoria e pratica della terapia della Gestalt) considera il sé come la funzione di stabilire contatto col presente reale e transitorio. Il sé, quindi, non è né una forma rigida né tanto meno un’istanza psichica, ma una funzione. Infatti, l’attività del sé è un processo temporale inserito in stadi che vanno dal contatto preliminare al contatto, e dal contatto finale al post-contatto.

Durante questo processo, il sé può interrompere il contatto creativo con l’ambiente attraverso la confluenza, l’introiezione, la proiezione, la retroflessione e l’egotismo.

Per chiarire il più possibile il funzionamento dell’organismo in situazione, la terapia della gestalt introduce tre tipicità particolari che il sé utilizza ogni qualvolta vuole soddisfare degli scopi speciali. Tali funzioni sono: l’Es, l’Io e la Personalità.

L’Es rappresenta, nello stadio iniziale, lo sfondo costituito dalle eccitazioni organiche, la percezione indistinta dell’ambiente, le primissime sensazioni che collegano l’organismo al suo ambiente. Stiamo parlando degli aspetti corporei e sensoriali, perlopiù inconsapevoli, nello stadio del rilassamento.

La funzione dell’Io è quella d’identificare o di alienare le varie possibilità, intensificando o riducendo il contatto e mobilizzando le risorse necessarie per aggredire l’ambiente.

La Personalità è l’ultima tipicità del sé e rappresenta gli atteggiamenti assunti nei rapporti interpersonali ed è l’assunzione di ciò che l’individuo è. La visione stadiale appena descritta, con la perdita delle funzioni dell’Io e le modalità di interruzione al contatto, spesso in terapia non trova un’applicazione coerente ed efficacie, in quanto la relazione è imprevedibile e difficilmente ordinabile in stadi prestabiliti.

Anche per tale ragione, a questa visione, si è pensato di integrare una prospettiva evolutivo/dinamica con le strutture relazionali.

Tali strutture (il sé metabolico, simbolico, espressivo, metacognitivo e sincronico) sono continuamente in interazione tra loro, non sono stadi che si attivano appena quello precedente ha completato la sua maturazione, ma l’evoluzione avviene in una crescita globale e armonica. Le strutture dinamiche del sé si mescolano e si combinano tra loro creando altre strutture, senza un ordine prestabilito, ma secondo il contesto e l’interazione tra l’individuo e il suo ambiente. Usando una metafora, tale armonizzazione è come quella che accade tra i colori e i suoni, che tendono ad accordarsi o legarsi tra loro poiché questa è la loro natura, una natura relazionale. Ogni colore ha una sua identità, ma è nello stesso tempo il risultato dell’insieme di altri colori. Il singolo elemento esiste per dare forma al tutto, il quale a sua volta tende a realizzare la sua forma poiché è il tutto che determina le parti.

 

Contatto e relazione nella terapia della Gestalt

Leggendo il testo fondamentale della terapia della Gestalt, già menzionato, la parola contatto si ripete per 456 volte, quella organismo/ambiente 346, mentre il termine relazione soltanto 36. Senza dubbio, il contatto è un momento topico per la terapia della Gestalt, ma come vedremo in seguito, tale esperienza non è in grado da sola a spiegare lo sviluppo poliedrico e polifonico del sé ( il termine polifonico è una creazione di Margherita Spagnuolo Lobb, che descrive lo sviluppo dei domini come la complessità che anima il fare contatto nel presente attraverso diverse competenze armonizzate tra loro).

Se per il PHG l’unità di misura è il contatto, secondo la presente prospettiva essa è rappresentata dalla relazione. Che differenza c’è tra «contatto» e «relazione»? Perché l’essere umano è relazionale? Da dove ha origine l’intenzionalità relazionale, la tensione al «tra»? Cosa avviene e cosa diviene l’essere umano in rapporto con l’altro? Cosa ci rende persone, ovvero esseri pensanti capaci di discernere?

Per cercare di rispondere a tali questioni ci si potrà avvalere del noto avvenimento di Victor, il ragazzo selvaggio dell’Aveyron alla periferia di Parigi nel 1800.

Victor rappresenta un caso davvero molto raro ed interessante di un essere umano cresciuto senza nessun tipo di relazione con i propri simili. Affidato alle cure di Jean Itard, un medico francese, che tentò attraverso un programma di rieducazione di introiettare nel ragazzo quei tratti culturali tipicamente umani (come il linguaggio e saper discernere tra bene e male) che non poteva aver appreso senza la relazione con altri esseri umani. Dopo circa cinque anni di tentativi, Itard fu costretto ad abbandonare l’impresa e Victor non imparò mai a parlare.

Questo particolarissimo evento ci mostra chiaramente che il contatto con l’ambiente non basta a determinare il salto evolutivo necessario allo sviluppo delle nostre funzioni psichiche superiori. L’ambiente ci stimola ad un tipo di adattamento molto limitato rispetto a quello offerto dalla relazione con l’altro, poiché è soltanto la relazione a tradurre in atto ciò che nel nostro profondo è ancora in potenza. Il rapporto con l’ambiente non è sufficiente a determinare la crescita esponenziale che può trasformate un essere vivente in persona con una cultura e una storia.

La differenza tra contatto e relazione è immensa: il primo è in grado di far sviluppare le nostre capacità fisiologiche, conducendoci sulla soglia dell’intelletto, ma è la relazione a fornire l’energia necessaria per superare la nostra stessa soggettività, attivando la creatività del pensiero umano.

 

Segno, simbolo e pensiero

Quali sono le radici del pensiero e come si sviluppa la mente creativa? Osserviamo, ad esempio, il bambino di alcuni mesi: egli vede per la prima volta un oggetto, lo indica spontaneamente alla madre, con la tensione del braccio e delle dita della mano, perché lo vuole raggiungere.

L’intenzionalità, la coscienza “rivolta a …” è già presente, ma le sue conoscenze sono ancora incomplete. Lui vede l’oggetto di fronte a sé, ma questo ancora non ha un senso, poiché non ha nome. L’oggetto concreto – il bicchiere per esempio– rappresenta la cosa in sé, qualcosa che ancora non può essere concepito dal bambino perché non è concepibile; il piano della conoscenza si rivoluziona quando l’adulto indicando o prendendo l’oggetto, gli assegna un nome: bicchiere. La cosa in sé diviene la cosa per l’altro (per la madre), e lo rende conoscibile al bambino per mezzo di una etichetta verbale. L’oggetto-bicchiere si unisce così al segno-parlato che l’adulto ha prodotto, rendendolo identificabile. Ma è soltanto nell’ultimo passaggio, in cui la cosa per l’altro diviene la cosa per sé, cioè quando il bambino introietta la parola pronunciata dalla madre, che ciò che era esterno e senza significato, diviene interno e simbolico (sìmbolo s. m., dal lat. symbŏlus e symbŏlum, gr. σύμβολον «accostamento», «segno di riconoscimento», «simbolo», der. di συμβάλλω «mettere insieme, far coincidere»; comp. di σύν «insieme» e βάλλω «gettare»), psicologico e pensabile. In questa fase, il bambino non solo incomincia ad acquisire un codice linguistico, ma interiorizza simboli (vocaboli) contenenti un frame, un’icona relazionale. Per usare una metafora, possiamo immaginarci la parola come un treno con tanti vagoni di cui uno di essi è sempre costituito dalla relazione.

Ciò che si vuole dire è che la crescita della persona e delle sue funzioni psichiche superiori può avvenire solo in relazione con un altro essere umano e soltanto il rapporto intersoggettivo può attivare gli aspetti peculiari che gli sono propri; la creatività, che permette all’individuo, in modo deliberato e completamente affrancato da necessità vitali, di produrre difficoltà e problematicità per bisogni di fatto “non-bisogni”, non è determinata dal contatto con l’ambiente, ma dalla relazione con un proprio simile. Ogni essere vivente ha come scopo quella di adattarsi al proprio ambiente per sopravvivere, ma soltanto il soggetto umano può mettere in atto comportamenti creativi che non hanno nulla a che fare con tali necessità. Egli crea per il piacere di creare, e tali attività sono il mezzo per comprendere se stesso e la sua esistenza.

I contatti creati dall’interazione con l’ambiente esterno (problematicità oggettive), derivanti dai nostri bisogni primari, ci permettono di adattarci al contesto, ma quelli che si attuano in rapporto a rappresentazioni mentali, cioè a “problemi” creati ad hoc ed esclusivamente umani, s’instaurano soltanto con il rapporto con l’altro, attivando le strutture dinamiche relazionali che, grazie al costante rapporto intersoggettivo, divengono sempre più complesse.

L’edificazione di questi ultimi determina lo sviluppo degli altri, in un rapporto evolutivo, in cui quelli “inferiori e più vecchi nella storia dello sviluppo non vengono messi da parte, ma continuano a funzionare in un contesto più comprensivo, come istanze subordinate sottoposte al dominio di quelle superiori” (Vygotskij L. S., 1931, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori), specializzandosi sempre più.

È la relazione che precede il contatto, non viceversa: il rapporto intersoggettivo dà origine allo sviluppo di particolari capacità adattive che, esperienza dopo esperienza, si “complessificano” fino a trasformarsi completamente.

Il contatto avrebbe in sé un valore secondario, se non ci fosse la relazione umana, tale da trasformarlo da semplice adattamento in “molecola creativa” relazionale. In conclusione, per quanto riguarda l’individuo il processo adattivo e quello creativo sono capacità separate e con uno sviluppo altrettanto indipendente; il primo, come per tutte le altre specie viventi è determinato dal contatto con l’ambiente, l’altro dalla relazione con un altro essere umano.

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­­La stimolazione cerebrale non invasiva può alleviare la sintomatologia bulimica

Recentemente, i ricercatori del King’s College di Londra hanno messo in luce come i principali sintomi legati alla Bulimia Nervosa si riducano notevolmente grazie alla stimolazione elettrica non invasiva (tDCS) di determinate aree del cervello.

 

La bulimia nervosa

La bulimia nervosa è un disturbo del comportamento alimentare per cui una persona affetta ingerisce una quantità eccessiva di cibo, definita abbuffata, per poi ricorrere a diverse condotte di eliminazione, come autoinduzione di vomito, utilizzo di lassativi o intenso esercizio fisico, nel tentativo di non metabolizzare quanto mangiato. Generalmente, alle abbuffate si alternano periodi di rigide restrizioni alimentari, fino al digiuno, motivate da un voler tenere sotto controllo il proprio peso; a questo tipo di comportamento, però, conseguono ulteriori abbuffate e così via in un circolo vizioso che, nel tempo, diviene a tal punto compulsivo da essere, per certi aspetti, paragonabile ad una dipendenza.

In linea di principio, quindi, tre sono gli aspetti che caratterizzano una persona affetta da bulimia nervosa: la persona deve avere frequenti abbuffate, durante le quali mangia grandi quantità di cibo in presenza di un senso di perdita di controllo; la persona in seguito deve ricorrere a uno o più metodi estremi di controllo del peso e, infine, la persona deve sovrastimare l’importanza della propria forma fisica o peso corporeo, giudicando se stessa in larga parte nei termini della propria capacità di controllare forma e peso del corpo (Fairburn, 1996).

Tipicamente, la bulimia nervosa si sviluppa durante l’adolescenza e riguarda più comunemente le donne. Secondo alcuni dati, infatti, l’1-2% delle donne soddisferebbe i criteri per la bulimia nervosa in un qualche periodo della propria vita. Oltre a riguardare la sfera dell’alimentazione, inoltre, questo disturbo porta molto spesso ad ulteriori disturbi sia mentali, come depressione e ansia, sia fisici, come insufficienza cardiaca e renale, fino a portare a morte prematura in circa il 4% delle persone affette.

 

Il trattamento della bulimia nervosa

A livello terapeutico, la psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) è considerata essere il trattamento d’elezione nella cura della bulimia nervosa, per quanto spesso venga messa in atto parallelamente ad una terapia farmacologica con antidepressivi. Nonostante questo, però, una buona percentuale di pazienti con bulimia nervosa non risulta essere responsiva alla psicoterapia, anche per questioni di compliance riguardanti l’assunzione di farmaci.

Nel tentativo di aumentare l’efficacia di questo tipo di trattamenti, la comunità scientifica è, negli ultimi anni, alla ricerca di nuove alternative di cura, facendo riferimento anche a tecnologie di derivazione neuroscientifica, proprio con lo scopo di trovare terapie specifiche che possano essere in grado di agire in modo specifico sulle basi neurali dei disturbi dell’alimentazione, che si ritiene essere legate all’autocontrollo e all’elaborazione della ricompensa. Ad esempio, l’essere di cattivo umore potrebbe portare ad una abbuffata andando ad alterare il valore del cibo come ricompensa e diminuendo il grado di autocontrollo. Infatti, all’interno della letteratura scientifica sono presenti evidenze circa l’esistenza di un’associazione tra la bulimia nervosa e l’alterazione in regioni cerebrali implicate proprio nei processi di autocontrollo (Marsh et al., 2009); è quindi possibile che un intervento volto a normalizzare l’attività in queste aree possa apportare dei benefici a livello della sintomatologia bulimica.

 

La stimolazione cerebrale nella cura dei sintomi della bulimia nervosa

A tal proposito, recentemente, Kekic e collaboratori hanno condotto una ricerca con lo scopo di indagare se la stimolazione elettrica della Corteccia Prefrontale Dorsolaterale (DLPFC), notoriamente coinvolta nei processi di autocontrollo e di elaborazione della ricompensa, potesse apportare dei benefici nella sintomatologia di pazienti affetti da bulimia nervosa.

Per poter far ciò, gli autori hanno utilizzato la tDCS (stimolazione transcranica a corrente diretta), una tecnica di facile applicazione che permette di stimolare diverse parti del cervello in modo non invasivo, indolore e senza effetti collaterali significativi (le percezioni più frequenti sono lieve pizzicorio, prurito e calore all’inizio della stimolazione nei punti in cui sono posizionati gli elettrodi). La stimolazione consiste in una corrente elettrica continua a bassa intensità (1-2 mA), non percepita dalla persona, per periodi prolungati di tempo (5-30 minuti). La corrente viene applicata allo scalpo tramite una coppia di elettrodi (uno eccitatorio, anodo, e uno inibitorio, catodo) e permette così di influenzare l’eccitabilità corticale, e quindi l’attività neuronale, della regione posta sotto gli elettrodi stessi. Estremamente rilevante a livello clinico è il fatto che, ripetendo la stimolazione più volte nel corso del tempo, si può dar luogo a modificazioni dell’attività cerebrale in modo stabile e duraturo (Bolognini et al., 2009).

Studi precedenti avevano già dimostrato come la stimolazione anodica (eccitatoria) della DLPFC, destra o sinistra, e catodica (inibitoria) dell’area controlaterale riducessero il rischio di comportamento impulsivo durante compiti di presa di decisione (Fecteau et al., 2007). Ulteriori ricerche hanno anche messo in luce come la stimolazione magnetica transcranica ripetuta (rTMS) applicata alla DLPFC riducesse, dopo una sola sessione, il desiderio di cibo (definito craving, analogamente alle dipendenze) e il numero di abbuffate nelle 24 ore successive in persone affette da bulimia nervosa (Van den Eynde et al., 2010). Inoltre, la stimolazione con tDCS a livello della DLPFC ha collezionato negli anni una serie di riscontri positivi per quanto riguarda il trattamento di pazienti obesi, con anoressia nervosa e anche con binge eating disorder (Sauvaget et al., 2015; Kekic et al., 2014; Khedr et al., 2014).

 

Effetto della stimolazione transcranica sui pazienti affetti da bulimia nervosa

Per poter indagare per la prima volta in modo specifico l’effetto della tDCS su pazienti affetti da bulimia nervosa, Kekic e collaboratori (2017) hanno coinvolto un campione di 39 adulti affetti da bulimia nervosa, sottoponendoli a tre diverse sessioni di stimolazione, a 48 ore di distanza l’una dall’altra, in ordine randomizzato, controbilanciato e utilizzando una procedura in doppio cieco: anodica destra/catodica sinistra, anodica sinistra/catodica destra e sham. I soggetti partecipanti sono stati inoltre valutati con batterie neurocognitive e psicologiche sia prima sia dopo ogni sessione per valutare i livelli di autostima e autocontrollo, il desiderio di abbuffarsi e il grado di preoccupazioni riguardo al peso, alla forma corporea e alla quantità di cibo consumato. Un’ulteriore misurazione è stata fatta relativamente alla frequenza dei comportamenti bulimici nelle 24 ore successive al trattamento.

Dalle analisi è emerso che la stimolazione elettrica cerebrale su pazienti con bulimia nervosa porta, in confronto alla stimolazione sham, ad una diminuzione del bisogno di abbuffarsi e ad un aumento dei livelli di autocontrollo. Più nello specifico, dopo la stimolazione con tDCS è stato possibile rilevare una diminuzione del 31% dei punteggi riguardanti le scale sul bisogno di abbuffarsi. Per quanto riguarda l’autocontrollo, poi, i partecipanti sono stati sottoposti ad un compito decisionale di tipo economico, nel quale veniva chiesto loro di scegliere tra il ricevere immediatamente una piccola quantità di denaro e il ricevere dopo tre mesi una grande quantità di denaro. Dopo le sessioni tDCS, non sham, i soggetti risultavano essere più propensi a posporre la gratifica, scegliendo quella differita nel tempo e dimostrando così un miglioramento a livello della presa di decisioni, più controllate e lungimiranti.

 

La riduzione dei sintomi della bulimia nervosa tramite stimolazione cerebrale

In conclusione, quanto emerso dallo studio suggerisce che le tecniche di stimolazione cerebrale non invasiva siano effettivamente in grado di diminuire, se non sopprimere, il bisogno di abbuffarsi, riducendo anche la gravità dei tipici sintomi della bulimia nervosa, per lo meno in modo temporaneo. Secondo gli autori, questo sarebbe possibile grazie all’aumento dei livelli di controllo cognitivo, dato dalla stimolazione della DLPFC, che permetterebbe di controbilanciare gli aspetti compulsivi che caratterizzano questo tipo di disturbo alimentare.

Inoltre, questa nuova prospettiva terapeutica per il trattamento della bulimia nervosa risulta essere estremamente vantaggiosa e di facile applicabilità. La tDCS, infatti, è una delle tecniche di stimolazione cerebrale tra le più economiche e facilmente trasportabili. Questo apre così anche la strada alla possibilità di un futuro trattamento per la bulimia nervosa auto-somministrabile dai pazienti stessi in parallelo ad interventi psicoterapeutici.

Per quanto lo studio di Kekic e collaboratori sia stato il primo ad indagare gli effetti della stimolazione tramite tDCS in pazienti con bulimia nervosa e per quanto, quindi, i risultati ottenuti siano ancora di entità modesta e necessitino di ulteriori conferme, in generale quanto emerso mostra chiaramente un miglioramento a livello della sintomatologia bulimica e delle abilità decisionali dopo solo una sessione di stimolazione. Gli autori ritengono quindi che l’implementazione dello studio svolto, coinvolgendo un campione di persone più ampio e utilizzando sessioni di trattamento multiple effettuate lungo un prolungato periodo di tempo, potrebbe portare, con buone probabilità, a miglioramenti più solidi e consistenti.

Il Disturbo D’ansia Sociale: la Validazione Italiana Della Liebowitz Social Anxiety Scale (Lsas) – Partecipa alla ricerca

L’ansia sociale è una condizione che ognuno di noi vive quotidianamente, ma quando diventa invalidante e non ci permette di vivere la vita al meglio delle nostre possibilità diventa un vero e proprio disturbo, il disturbo d’ansia sociale.

 

Caratteristiche del disturbo d’ansia sociale

Il disturbo d’ansia sociale (prima chiamato fobia sociale) è molto comune tra la popolazione. Secondo alcuni studi, la percentuale di persone che ne soffre va dal 3% al 13% e sembra insorgere più frequentemente tra le donne che tra gli uomini. L’età di esordio si colloca generalmente durante l’adolescenza o nella prima età adulta.

Questo disturbo si caratterizza per la paura marcata e persistente di una situazione sociale, prevista o da affrontare, in cui si è esposti al giudizio degli altri, come ad esempio parlare in pubblico. Nelle situazioni sociali temute, gli individui con disturbo d’ansia sociale sono preoccupati di apparire imbarazzati e, soprattutto, sono timorosi che gli altri li giudichino ansiosi, deboli o stupidi. Possono quindi temere di parlare in pubblico per la preoccupazione di dimenticare improvvisamente quello che devono dire o per la paura che gli altri notino il tremore delle mani o della voce, oppure possono provare ansia estrema quando conversano con gli altri per paura di apparire loro poco chiari o, ancora, quando si trovano a magiare, bere o scrivere in pubblico per timore che gli altri possano vedere, ad esempio, le loro mani tremare.

Spesso le persone con problematiche di ansia sociale, al fine di abbassare i livelli d’ansia, evitano le situazioni temute, ma tale comportamento è un rinforzatore molto potente e mantiene il disturbo. Inoltre mettono in atto comportamenti protettivi quali mettersi le mani sul viso per nascondere il rossore o indossare maglioni per evitare che si noti la sudorazione sulla camicia. Queste strategie sono controproducenti e mantengono il circolo vizioso del disturbo d’ansia sociale.

 

Disturbo d’ansia sociale: la ricerca per la validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS)

Il nostro gruppo di lavoro in collaborazione con IPSICO – Istituto di Psicologia Psicoterapia Cognitivo Comportamentale e l’Associazione Italiana per i Disturbi dell’Ansia Sociale (AIDAS) sta conducendo una ricerca, coordinata dal Dott. Nicola Marsigli, che ha un duplice obiettivo: promuovere la conoscenza del disturbo d’ansia sociale e dei suoi possibili trattamenti da un lato, aiutare a ridurre i pregiudizi che lo accompagnano all’interno della società dall’altro.

Per questo conduciamo con impegno attività di ricerca scientifica al fine di ampliare la conoscenza del disturbo e contribuire alla messa a punto di trattamenti sempre più efficaci.

Attualmente il progetto di cui ci occupiamo riguarda la rilevazione delle emozioni e dei pensieri tipici delle persone con disturbo d’ansia sociale. Stiamo procedendo infatti, alla validazione italiana della Liebowitz Social Anxiety Scale (LSAS), un breve questionario, sviluppato da Michael Liebowitz (da cui abbiamo ottenuto l’autorizzazione a procedere), utile alla diagnosi di disturbo d’ansia sociale.

Se vuole aiutarci in questa ricerca basta cliccare qui e sarà indirizzato ad un questionario completamente anonimo su come si sente abitualmente. Qualora volesse partecipare la ringraziamo per il suo contributo sia a nome del nostro gruppo sia da parte dell’intera comunità scientifica.

Se ha più di 18 anni soffre di un disturbo di ansia sociale o di una forte timidezza, e di conseguenza si riconosce in quanto potrà leggere in questa pagina, la invitiamo a partecipare all’indagine dedicandoci 20 minuti di tempo nel rispondere a una serie di questionari online, totalmente anonimi, cui potrà accedere cliccando qui:

https://it.surveymonkey.com/r/validazionelsas

 

Liberi di essere felici: credere nel libero arbitrio porta ad essere più felici

Le ricerche dimostrano che credere nel libero arbitrio è connesso al sentirsi più felici e questo avverrebbe non solo nelle popolazioni occidentali, ma anche in quelle orientali, suggerendo che il fenomeno possa essere considerato universalmente valido e non legato a differenze culturali.

 

Si è più felici se si crede nel libero arbitrio

Per libero arbitrio si intende, a livello teorico, l’abilità di poter fare scelte in completa autonomia, senza permettere che l’esito di queste scelte possa essere influenzato, se non totalmente deciso, da eventi passati. Credere nel libero arbitrio, quindi, comporta anche il credere che le persone possano agire liberamente per perseguire i propri obiettivi e migliorare la qualità della propria vita.

Per felicità si considera, invece, una generale sensazione di benessere percepita a livello soggettivo. Secondo Li e collaboratori (2017), autori di un recente articolo sul tema, credere nel libero arbitrio potrebbe portare ad un incremento di questa sensazione di benessere attraverso due diversi meccanismi. Infatti, il possedere questa credenza potrebbe portare, da un lato, ad un maggior livello di autonomia percepita e, dall’altro, al voler esercitare maggior autocontrollo, prendendo in mano la propria vita e impegnandosi per fare del proprio meglio.

Precedentemente, già molti altri studi avevano dimostrato quanto effettivamente risulti essere utile nella vita di tutti i giorni credere nell’esistenza del libero arbitrio, piuttosto che nel determinismo. Ad esempio, Vohs & Schooler (2009) hanno mostrato a livello empirico come le persone sembrino avere la tendenza a comportarsi in modo migliore quando credono di avere libero arbitrio, ovvero quando credono di potersi comportare liberamente; al contrario, la sfiducia nel libero arbitrio produrrebbe una sorta di segnale implicito inerente la futilità di fare lo sforzo di comportarsi correttamente, in quanto sarebbe già stato tutto stabilito a priori in base alle esperienze passate. Il credere nel determinismo, insomma, ridurrebbe la sensazione di responsabilità individuale.

Analogamente, Baumeister e colleghi (2009) hanno notato che il credere nell’effettiva esistenza del libero arbitrio possa essere cruciale nel motivare le persone a controllare i propri impulsi ad agire egoisticamente e in modo aggressivo, in quanto questo richiederebbe un notevole sforzo di volontà e di auto-controllo.

Se una persona crede fermamente di poter agire con libertà e senza restrizioni per ottenere quanto desidera, sarà anche più facile che essa deliberatamente si sforzi e si controlli per poter ottenere ciò nel miglior modo possibile; comportamento, questo, che inevitabilmente porterà al successo, innalzando così, come conseguenza ultima, anche il livello di benessere personalmente percepito.

Per quanto gli studi svolti nel tentativo di indagare il legame tra libero arbitrio e felicità siano ancora limitati, essi mostrano proprio l’esistenza di una correlazione positiva tra questi due costrutti (Crescioni et al., 2016), suggerendo così quanto credere nel libero arbitrio possa essere fondamentale anche a livello emotivo e personale, oltre che comportamentale.

 

Il legame tra felicità e libero arbitrio può variare a seconda delle culture?

Purtroppo però, gli studi relativi al tema si sono esclusivamente limitati a prendere in considerazione l’effetto che le credenze sul libero arbitrio hanno su popolazioni occidentali, precisamente utilizzando campioni americani.

Sarebbe quindi estremamente interessante indagare se questa correlazione sia valida anche per altre popolazioni, ovvero se possa considerarsi una caratteristica generale inerente la natura umana o se, al contrario, sia specifica della cultura occidentale contemporanea.

Secondo diversi studi, e anche secondo il sapere comune, infatti, le culture occidentali concettualizzano il libero arbitrio in modo differente rispetto a quelle orientali. Più nello specifico, all’interno della cultura occidentale, di stampo più individualista, si tende ad attribuire maggiore importanza alla libertà individuale, alle scelte personali e all’indipendenza. Al contrario, nelle culture orientali, di norma più collettiviste, vi è la tendenza a dare più valore alle norme sociali, agli obiettivi comunitari e all’interdipendenza, lasciando meno spazio a concetti quali la libertà personale, e quindi il libero arbitrio (Nisbett, 2010). È perciò possibile che anche gli outcome comportamentali derivati dal credere al libero arbitrio, invece che al determinismo, si differenzino in base alla cultura di appartenenza.

Proprio a tal proposito, Li e collaboratori (2017) hanno recentemente svolto due studi con lo scopo di indagare l’associazione tra libero arbitrio e benessere soggettivo all’interno di una popolazione di cultura orientale. Per poter fare ciò hanno coinvolto, nel complesso, più di 2,000 studenti cinesi, con un’età media di 16 anni, chiedendo loro di completare diverse misurazioni riguardanti il libero arbitrio e il benessere soggettivo, inteso sia a livello cognitivo (soddisfazione della vita) sia a livello affettivo (emozioni positive e negative).

Dalle analisi gli autori hanno potuto notare come più dell’80% degli adolescenti riportasse di credere nell’esistenza del libero arbitrio, nonostante l’appartenenza ad una cosiddetta cultura collettivista, e come questo sembri essere associato ad una maggiore soddisfazione della propria vita, alla tendenza a provare maggiori emozioni positive e minori emozioni negative, soprattutto se comparata con la credenza nel determinismo.

Sembra quindi che, in generale, per quanto non si possa ancora parlare di legami di tipo causale, chi riporta di credere nell’esistenza del libero arbitrio, tende a considerarsi anche più felice, andando a replicare quanto rilevato per le popolazioni occidentali e suggerendo, quindi, che questa credenza possa considerarsi una caratteristica universale del genere umano.

Come concludono gli autori, il libero arbitrio non può più essere considerato come un mero concetto filosofico fatto solo per dibattiti teorici ed astratti, ma è un concetto che influenza quotidianamente la vita di ognuno di noi.

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