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Il ruolo delle distorsioni cognitive nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia 

Trasmissione intergenerazionale dell’ansia: come dimostrano ormai numerosi studi, i figli di genitori ansiosi hanno una maggior probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia, in età di sviluppo o successivamente in età adulta.

 

La trasmissione intergenerazionale dell’ansia

Secondo il modello cognitivista della psicopatologia, i disturbi d’ansia sono attribuibili ad errori di ragionamento sistematici che occorrono nella valutazione degli eventi esterni o mentali. Tali errori di ragionamento sistematici, in età adulta così come nei bambini e negli adolescenti causano risposte emotive coerenti con essi, ad esempio l’ansia.

Come dimostrano ormai numerosi studi, i figli di genitori ansiosi hanno una maggior probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia, in età di sviluppo o successivamente in età adulta. Ad esempio la meta analisi di Micco e colleghi (2009) ha evidenziato come i figli di genitori con una diagnosi di disturbo d’ansia abbiano il doppio delle probabilità di sviluppare un disturbo d’ansia rispetto ai figli di genitori con altri disturbi psicologici (ad esempio depressione o abuso di sostanze), e il quadruplo delle probabilità rispetto a bambini che hanno genitori senza alcun disturbo psicopatologico.

Non sono ancora chiari i fattori che portano a tale trasmissione intergenerazionale dell’ansia. Per molti anni si è sopravvalutata l’influenza di fattori genetici ed ereditari ma gli studi più recenti evidenziano come tali fattori spieghino soltanto in parte tale tendenza: seppure l’ereditarietà genetica contribuisca a predisporre l’individuo in termini di vulnerabilità ai sintomi d’ansia, il peso dei fattori ambientali sembra essere maggiore.

Nello studio su coppie di gemelli di Gregory ed Heley (2007), ad esempio, è stato evidenziato come soltanto un terzo della varianza nell’ansia infantile sia spiegata da fattori genetici, mentre i restanti due terzi siano attribuibili ad influenze ambientali. Con riferimento a quest’ultimo ambito di fattori, numerosi sono stati i tentativi teorici e sperimentali di individuazione dei meccanismi di trasmissione intergenerazionale dell’ansia: attaccamento, stile parentale, esperienze di apprendimento e distorsioni nell’elaborazione dell’informazione. Ad esempio, con riferimento alla teoria dell’attaccamento, sono stati condotti studi sperimentali in cui sono state riscontrate delle relazioni forti tra un comportamento di cura sensibile della figura di riferimento e la sicurezza di attaccamento dei bambini e, al contrario, un attaccamento di tipo insicuro nei genitori e nei bambini sembra essere associato all’ansia infantile.

Rispetto allo stile parentale diversi studi evidenziano come uno stile genitoriale controllante sia associato ad ansia nei bambini (Wood, McLeod, Sigman, Hwang, & Chu, 2003; McLeod, Wood & Weisz, 2006). Rapee (2005) ha teorizzato questa relazione causale ipotizzando che l’iper-controllo genitoriale possa trasmettere ripetutamente al bambino due messaggi: 1) il mondo è pericoloso; 2) non hai la capacità di affrontare efficacemente situazioni nuove e/o pericolose. Secondo l’autore inoltre il comportamento controllante può ridurre le esperienze del bambino di padroneggiamento indipendente efficace e rafforzare la dipendenza dagli altri e il dubbio rispetto alle proprie capacità.

In linea con questa ipotesi è uno studio di Thirlwall e Creswell, del 2010, su un campione non clinico di 24 madri con i loro figli di 4/5 anni di età, in cui le autrici ipotizzavano che quando le madri adottano comportamenti più controllanti (e meno favorenti l’autonomia), i bambini mostrano maggiori livelli di ansia in un nuovo compito, leggermente stressante, e questo effetto viene moderato dall’ansia di tratto del bambino. Ai bambini, con il supporto delle madri, era stato chiesto di preparare e successivamente tenere due brevi discorsi, sulla famiglia e su un giorno divertente. Le madri erano state formate da uno psicologo per tenere in alcuni casi con il figlio, durante la preparazione del discorso, un comportamento iper-controllante e in altri casi un comportamento maggiormente favorente l’autonomia del bambino. Tutte le interazioni tra madri e bambini e i discorsi dei bambini sono stati videoregistrati e successivamente codificati da psicologi, con il metodo del doppio cieco (gli psicologi coinvolti esaminavano o i discorsi o le interazioni e non avevano informazioni circa le ipotesi dello studio). Lo studio ha evidenziato che nei casi in cui le madri adottavano un comportamento controllante durante l’interazione con i figli, questi ultimi esprimevano un maggior numero di predizioni negative rispetto alla loro performance prima di consegnare i loro discorsi e riportavano sentimenti meno positivi sul compito. Tale relazione era moderata dall’ansia di tratto del bambino. Inoltre, i bambini con una più elevata ansia di tratto mostravano un significativo aumento nell’ansia durante la presentazione del discorso.

Alcuni autori (Creswell e coll,, 2010) hanno proposto un modello di comprensione delle relazioni dinamiche esistenti tra diversi fattori coinvolti nella trasmissione intergenerazionale dell’ansia, sostenendo che le distorsioni cognitive dei genitori ansiosi interagirebbero con i loro stili parentali, portando i loro figli a sviluppare a loro volta distorsioni cognitive che li predisporrebbero al successivo sviluppo di disturbi d’ansia. Le distorsioni cognitive dei genitori condizionano secondo gli autori il loro comportamento con i bambini secondo un duplice percorso: da un lato, in modo diretto, trasferendo verbalmente le distorsioni cognitive (ad esempio contrassegnando un certo stimolo come pericoloso) e con le reazioni emotive di ansia e paura che verranno poi apprese dai figli; dall’altro lato, in modo indiretto, andando ad influenzare le loro stesse aspettative rispetto a come i loro figli risponderanno ad un determinato stimolo percepibile come minaccioso. Tali aspettative si manifestano attraverso comportamenti che limitano l’autonomia di bambini impedendogli di esplorare i contesti e gli stimoli percepiti come minacciosi dai loro genitori, e quindi si confermano le loro credenze di pericolosità e minaccia. Le aspettative dei genitori rispetto alle reazioni dei figli di fronte ad uno stimolo minaccioso plasmerebbero altresì secondo gli autori le loro comunicazioni ai bambini circa le loro capacità di coping (le loro capacità di affrontarli efficacemente). Il risultato di tali comunicazioni dirette ed indirette sarebbe lo sviluppo di distorsioni dell’informazione nei bambini, ad esempio la tendenza ad interpretare sistematicamente stimoli ambigui come minacciosi e quella a sottostimare le proprie capacità di coping.

Rispetto al ruolo svolto dalle distorsioni cognitive di madri e figli nello sviluppo di ansia nei bambini, nello Studio di Podina e colleghi (2013) a 423 madri e ai loro figli sono stati somministrati dei questionari di valutazione dell’ansia (Il Social Phobia Inventory alle madri, lo screen for child anxiety disorder ai bambini). In seguito sono state proposte ai bambini delle situazioni ipotetiche, che potevano essere interpretate come minacciose o come non minacciose, ad esempio “Sei a casa di un amico e i loro genitori sembrano essere molto arrabbiati), i bambini dovevano scegliere tra due alternative quella che più vicina al loro modo di interpretare la situazione ad esempio: 1) Hanno avuto una lite e sono arrabbiati tra di loro o 2) Non vogliono che tu sia qua e sono arrabbiati con te. Allo stesso modo, per misurare gli errori di ragionamento delle madri, sono state loro proposte dodici situazioni ambigue in relazione alle quali, similmente alla procedura usata con i figli, dovevano scegliere tra due possibili interpretazioni, quella più vicina al loro modo di interpretare la situazione. I risultati di tale studio mostravano come le interpretazioni negative delle madri mediassero in modo significativo la relazione tra ansia sociale materna e ansia nei bambini. Similmente, le interpretazioni negative dei bambini mediavano la relazione tra ansia sociale dei genitori e ansia nei bambini. Si è verificato inoltre come le interpretazioni negative delle madri fossero in correlazione diretta con le interpretazioni negative dei bambini.

 

Conclusioni e possibilità di intervento per interrompere la trasmissione intergenerazionale dell’ansia

Tutti gli studi presentati hanno importanti implicazioni cliniche, sottolineando l’importanza di intervenire sui diversi fattori coinvolti quando si trattano i disturbi d’ansia in età evolutiva, ad esempio con una terapia di stampo cognitivista standard per quanto riguarda le distorsioni cognitive delle madri e quelle dei bambini, con un parallelo lavoro sulla qualità della relazione di attaccamento e proponendo training di sostegno e sviluppo alla genitorialità alle coppie di genitori coinvolti.

Valore atteso e rischio nel processo decisionale: quali i correlati neuronali?

Affrontare un processo decisionale, dal più banale al più complesso, richiede la capacità di anticipare e soppesare adeguatamente le possibili conseguenze delle proprie scelte. Dalla neurofisiologia alle neuroscienze cognitive, numerosi ricercatori sono oggi in cerca dei sistemi cerebrali che prendono parte all’elaborazione della grandezza e della probabilità degli esiti, e che spingono il decisore ad accettare o rifiutare le opzioni proposte.

Raffaele Guido – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

La vita di ciascuno di noi è costellata di situazioni in cui è necessario scegliere tra varie alternative: che si tratti del colore di un vestito o dell’apertura o meno di un mutuo, ogni via percorsa e ogni processo decisionale porta a conseguenze differenti. È, quindi, auspicabile essere in possesso oltre che di una buona capacità previsionale, anche di un metodo oggettivo per il calcolo del valore delle opzioni da esaminare.

 

La teoria delle decisioni

Questa necessità ha dato vita alla teoria delle decisioni, che, fin dagli albori, ha cercato di sostituire  ad ogni alternativa disponibile un numero, in modo da semplificare il processo decisionale alla sola scelta dell’opzione col valore più alto.

La prima formulazione della teoria delle decisioni risale al XVII secolo, quando Pascal e Fermat cercano di formalizzare in linguaggio matematico le proprie aspettative circa l’occorrenza di eventi. Tale iniziativa ottiene una eco considerevole nell’aristocrazia del tempo, fortemente interessata sia a migliorare i propri risultati nel gioco d’azzardo, che ad assicurare i preziosi carichi in partenza, con grandi rischi, dai porti europei. Le fondamenta della teoria si basano sull’intuizione che due elementi siano essenziali per determinare le nostre scelte: quanto ardentemente si desideri qualcosa (il valore v) e quante probabilità si abbiano di ottenerla (la probabilità p). Per la teoria delle decisioni risulta quindi possibile misurare e confrontare il valore delle diverse alternative attraverso la semplice moltiplicazione del valore v con la probabilità p, ottenendo il cosiddetto valore atteso (EV dall’inglese expected value). Chiave di volta di questo costrutto teorico risulta, quindi, la scelta dell’opzione con il più alto valore atteso.

L’uomo “in carne ed ossa”, però, non segue rigorosamente questi dettami nel processo decisionale tra più opzioni. La teoria razionale si basa sulla massimizzazione del valore atteso, atteggiamento adottato non così frequentemente quanto si creda.

Già a cavallo tra XVII e XVIII secolo, infatti, Bernoulli e Huygens si accorgono di quanto sia ampia la distanza tra aspettative razionali e reale comportamento umano, sottolineando in particolare la naturale propensione delle persone all’avversione al rischio. Per esempio, la maggioranza della gente preferisce la certezza di ricevere un pagamento di 49 euro piuttosto che scommettere sull’eventuale vincita di 100 euro con una probabilità del 50%, nonostante il valore atteso della seconda opzione sia superiore a quello della prima. Nella prima metà del 1700, quindi, la teoria viene riformulata con l’introduzione del concetto di utilità (U), un valore dalla forte connotazione soggettiva (chiameremo questa teoria EUT, dall’inglese expected utility theory). La differenza rispetto al “valore” descritto sopra è sottile, ma cruciale. La funzione dell’utilità, infatti, presenta incrementi non lineari a seconda del livello di ricchezza iniziale: ad esempio, un aumento da 0 a 10 euro ha un impatto maggiore di uno tra 100 e 110. Tali incrementi, inoltre, sono associati a livelli di utilità differenti in base al patrimonio di cui si dispone: maggiore è quest’ultimo, minore sarà l’effetto dell’incremento monetario (Fig.1).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali _ FIGURA 1

Fig. 1 – Rappresentaziona grafica dell’andamento dell’utilità in funzione dei guadagni

 

L’accorgimento teorico permette quindi di salvare sia l’aspetto razionale del decisore, sia l’applicazione realistica della teoria agli effettivi comportamenti.

 

La teoria della scelta razionale

Infatti, la nozione di utilità porterà, due secoli dopo, a quella che ancora oggi è considerata la teoria della scelta razionale nell’economia neoclassica. Questa svolta si verifica nella prima metà del ‘900, quando Von Neumann e Morgenstern, un fisico e un economista, partendo dalle basi teoriche fin qui descritte, costruiscono un modello normativo del comportamento razionale, che preveda anche la valutazione di alternative in condizioni di rischio o di incertezza. Questo modello riconosce all’attore del processo decisionale, intento a selezionare l’opzione con la più alta utilità attesa, la capacità di stimare le probabilità di stati del mondo, trattandoli secondo le regole del calcolo delle probabilità (e in particolare, nella loro teoria con una visione frequentista della probabilità). Tale modello si fonda su alcuni assiomi che caratterizzano la razionalità delle scelte di un ipotetico decisore, e che si basano soprattutto sulla coerenza nelle sue preferenze.

 

La teoria del prospetto

Nel 1979 Amos Tversky e Daniel Kahneman espongono, in un articolo divenuto poi un classico, la “teoria del prospetto” (dall’originale inglese “Prospect Theory”). Trenta pagine scarse, ma che nel 2002 frutteranno il premio Nobel a Kahneman, e che sin da subito bastano a scuotere il mondo dell’economia neoclassica, puntando i riflettori su una serie di sistematiche violazioni della EUT nella descrizione dei comportamenti umani. La caduta del costrutto teorico della EUT equivale alla fine del dominio dell’iper-razionale “Homo Oeconomicus” e lascia spazio a decisioni influenzate da considerazioni cognitive non razionali (oggi, come vedremo, ne conosciamo i risvolti emotivi) ma decisamente più realistiche.

Tra gli apporti teorici più innovativi della teoria del Prospetto vanno sicuramente menzionati l’effetto di incorniciamento e l’avversione alla perdita. Il primo, meglio noto come “framing effect”, dimostra come descrizioni alternative di un problema decisionale possano mettere in luce aspetti differenti dei risultati e condurre, quindi, a preferenze diverse. Con avversione alla perdita definiamo, invece, la tendenza a preferire l’evitamento di una perdita all’acquisizione di un guadagno. Alcuni studi suggeriscono che la perdita abbia un impatto psicologico doppio rispetto al guadagno (Kahneman D. e Tversky A., 1984).

Ne segue, quindi, che due diverse modalità di esporre un problema decisionale, pur logicamente equivalenti, conducono gli individui a scelte differenti a causa della loro maggiore sensibilità alle perdite, rispetto ai guadagni. Tutto ciò porta gli attori del processo decisionale a valutazioni differenti del rischio di una situazione, con una tendenza a comportamenti “conservatori” in condizioni di vincita e “avventurieri” in condizioni di perdita.

 

Il rischio nel processo decisionale

In particolare dagli studi di Kahneman e Tvesky emergono quattro possibili attitudini al rischio, ovvero comportamenti che tendiamo ad attuare in quelle situazioni in cui sono note le probabilità di un’eventuale vincita o perdita e in cui ci si discosta regolarmente dalle predizioni basate sulle regole del valore atteso. Tali attitudini sono suffragate da una grossa mole di osservazioni sperimentali.

Andremo adesso a vedere nello specifico queste quattro situazioni, ma prima è necessaria una precisazione. Le scommesse sono principalmente di due tipi, pure e miste. La scommessa pura offre $x con una probabilità p e 0 con una probabilità 1-p. Una scommessa mista offre invece due esiti: nel primo l’opportunità di vincere x con una probabilità p (e quindi di non vincere nulla con una probabilità 1-p), nel secondo la possibilità di perdere y con una probabilità m (e ovviamente di non perdere nulla con una probabilità 1-m). Le scommesse miste, quindi, espongono potenzialmente a un rischio più alto, ma le probabilità degli esiti sono comunque note.

Con l’espressione C(x,p)=$q, si indica che q è la quantità di denaro che in media un campione rappresentativo della popolazione ritiene ugualmente attraente ad una vincita x con probabilità p.

Utilizzando tali definizioni le quattro attitudini citate in precedenza possono essere espresse come segue:

  • (a) C($100,0.05)=$14
  • (b) C($100,0.95)=$78
  • (c) C($-100,0.05)=$-8
  • (d) C($-100,0.95)=$-84

Vediamo in che modo queste equivalenze violano i dettami della EUT.

(a) indica che 14 dollari rappresenta il quantitativo di denaro ritenuto in media ugualmente attraente a una scommessa che offra la possibilità di vincere 100 dollari con una probabilità del 5%. Tuttavia, la EUT prevede che:

EV(a)=100*0.05=5

Nella sostanza un’offerta sicura di 14 dollari non dovrebbe solo eguagliare la scommessa, ma addirittura essere molto più desiderabile. In questo caso di potenziale guadagno ,quindi, la somma ritenuta equa è superiore al suo reale valore atteso. Bisogna capire perché la EUT non sia in grado di generare delle corrette previsioni sul valore atteso e spiegare il fondamentale apporto teorico della PT in questo senso. Poniamo che $14 sia C (sta per certezza) e la scommessa in (a) sia S (scommessa). La predizione del valore atteso è che C>S, ovvero che 14 dollari dovrebbero essere sempre preferiti alla scommessa in (a). Ciò che invece osserviamo è che C=S, ovvero che si tenda a essere indifferenti nella scelta tra una e l’altra, senza una reale preferenza. Sono due le potenziali ipotesi che entrano in gioco nella spiegazione del fenomeno: la prima è che C sia sottostimata e la seconda è che S sia invece sovrastimata. La sottostima di C spiegherebbe la propensione al rischio dei soggetti, ma per poter sostenere appieno questa ipotesi è necessario che sia soddisfatta almeno una tra due condizioni: o vi sia una qualche distorsione soggettiva delle probabilità in gioco oppure un effetto dato dalla concavità della funzione dell’utilità attesa.

La prima condizione è facilmente trascurabile, essendo l’impatto delle probabilità praticamente nullo in caso di certezza del risultato. La seconda d’altro canto predice il fenomeno opposto: la somma di 14$ dollari dovrebbe sempre essere preferita alla scommessa in (a). Ricordiamo infatti che una funzione concava prevede che un aumento da 0 a 14 abbia un peso maggiore di un aumento da 86 a 100. Le previsioni teoriche della EUT sono quindi in disaccordo coi fatti. Nel dominio dei guadagni ci si aspetta infatti un comportamento di avversione al rischio, qui vediamo esattamente il contrario: con basse probabilità di guadagno si osserva una marcata propensione al rischio.

Esclusa quindi la prima ipotesi, è necessario testare anche la seconda, la sovrastima di S. Nuovamente vanno prese in considerazione le due condizioni già vagliate per C: l’effetto della funzione concava dell’utilità o l’eventuale distorsione della percezione soggettiva delle probabilità. Come nel caso precedente, la concavità della funzione spinge verso l’esito opposto, attribuendo un peso maggiore agli incrementi più vicini allo zero. Va quindi presa in considerazione la percezione soggettiva delle probabilità, che risultano, in questo caso, sovrastimate. In situazioni di rischio moderato, rimanendo nel dominio del potenziale guadagno, i soggetti tendono ad attribuire a probabilità basse (per esempio 0.05) un impatto psicologico maggiore rispetto a quello del loro equivalente previsto dalla EUT.

In parole povere si sentono fortunati e spronati a rischiare. Quanto appena analizzato presenta delle somiglianze con il caso (c). In questa situazione, nel dominio delle potenziali perdite, dovremmo preferire l’accettazione della scommessa, come si evince da EV=-100$*0.05=-5$, piuttosto che una perdita sicura di 8 dollari. La convessità della funzione del valore atteso per le perdite non è da annoverare tra le possibili spiegazioni poiché tende a privilegiare l’accettazione della scommessa, che presenta un valore ponderato più basso (-5$), rispetto alla sicura sottrazione di 8$. L’ipotesi più plausibile è che, nel processo decisionale, un’eventuale distorsione nella percezione delle probabilità contrasti con il comportamento di propensione al rischio, atteso in questo contesto dalla EUT.

L’aspetto comune ai due contesti è la valutazione di probabilità molto basse, che vengono sistematicamente sovrastimate dalla maggior parte dei soggetti. Tale sovrastima agisce in direzione opposta alla funzione del valore atteso, concava nel dominio dei guadagni e convessa in quello delle perdite, generando, contrariamente alle attese, un comportamento di propensione al rischio in caso di potenziali guadagni poco probabili e di avversione al rischio in condizioni di possibili perdite, anch’esse scarsamente probabili.

Passiamo ad analizzare il caso (b), che presenta aspetti diversi rispetto ai due precedenti. Nel primo, infatti, la somma dell’equivalente certo (78$) è più bassa del potenziale valore della scommessa: EV=100$*0.95=95$. La possibilità, anche se minima (5%) di non vincere, spinge i soggetti ad accettare una somma meno rilevante, generando un comportamento di avversione al rischio nel dominio delle vincite. A differenza di (a) e (c), in (b) l’andamento concavo della funzione del valore atteso può giustificare la sovrastima del valore di C, agendo, come vedremo anche in (d), in sinergia con la sottostima della probabilità di S. In (d), infine, si ritiene equo un valore certo (-84$) più basso del valore della scommessa S: EV(d)=-100$*0.95=95. In questo caso interviene, quindi, un effetto di sottostima della probabilità di S.

Le osservazioni da (a) a (d) costituiscono quattro diverse attitudini al rischio: vi è una marcata propensione al rischio nel caso di guadagni poco probabili (a) o perdite altamente probabili (d), mentre si tende a preferire un comportamento di avversione al rischio qualora si faccia fronte a guadagni molto probabili (b) o perdite scarsamente probabili (c).

Alla luce di tali considerazioni la PT introduce due nuove variabili nella canonica equazione del valore di una scommessa che offra x con probabilità p ( e nulla con probabilità 1-p):

V(x,p)=v(x)*w(p)

Dove v rappresenta il valore soggettivo di x, quindi descrive la funzione valore (Fig.2) e w misura l’impatto della probabilità p sul grado di attrazione di un’opzione e determina la cosiddetta “funzione di ponderazione” (Fig.3) ( dall’inglese weighting function).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 2

Fig.2 – Concava per i guadagni e convessa per le perdite

 

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 3

Fig.3 – Dalla curva ad S invertita si nota la sovrastima di probabilità basse e la sottostima di probabilità medio-basse fino all’annullamento della distorsione con P=1

 

La forma della weighting function descrive al meglio le quattro diverse attitudini appena viste. La curva tende ad essere concava verso zero (impossibilità) e convessa verso uno (certezza). Ciò sta ad indicare che probabilità basse vengono costantemente sovrastimate, come accade in (a) e (c) e che probabilità medie o tendenti ad uno sono di norma sottostimate, come osservato in (b) e (d). Restando nel dominio dei guadagni, notiamo che la curva della weighting function presenta una pendenza maggiore andando da 0.99 verso 1 rispetto all’incremento che va, per esempio, da 0.10 a 0.11. Infine si può notare come la funzione valore sia più ripida nel dominio delle perdite che in quello delle vincite: ciò indica che nelle cosiddette scommesse miste (in cui si può contemporaneamente perdere e vincere una data somma), si riscontreranno alti livelli di accettazione delle stesse qualora le vincite offerte superino di almeno 2.25 volte le possibili perdite.

L’innovazione cardine della PT è, in sintesi, quella di aver fornito un quadro teorico in grado di descrivere e prevedere accuratamente il reale comportamento di qualsiasi agente in procinto di scegliere tra varie opzioni, accantonando il mito dell’essere umano iper-razionale.

Una così efficace predizione dei comportamenti di scelta da parte della PT, ha spinto la ricerca a cercare di identificare traccia di eventuali correlati neurali nel processo decisionale delle stesse variabili della teoria del Prospetto.

 

Le basi cerebrali del processo decisionale

Ricapitolando, affrontare i processi decisionali della vita quotidiana, dai più banali ai più complessi, richiede la capacità di anticipare e soppesare adeguatamente le possibili conseguenze delle proprie scelte.

Sin dalla sua origine, la Teoria della decisione ha previsto che questa anticipazione coinvolga innanzitutto, come variabili decisionali basilari, la grandezza (magnitude) di ciò che vogliamo, la probabilità di ottenerlo, e il loro prodotto, il valore atteso. Proprio quest’ultimo, “sintesi pesata” del valore degli esiti e della loro probabilità, costituisce nella teoria normativa del processo decisionale, il criterio guida basilare per la scelta ottimale. Non stupisce, quindi, che tali parametri, e la loro elaborazione, siano divenuti oggetto di studio di molti settori delle neuroscienze. Dalla neurofisiologia alle neuroscienze cognitive, numerosi ricercatori sono oggi in cerca dei sistemi cerebrali che prendono parte all’elaborazione della grandezza e della probabilità degli esiti, e che spingono infine il decisore ad accettare o rifiutare le opzioni proposte, modulando quindi quei comportamenti di approccio vs. evitamento che costituiscono le modalità basilari del comportamento umano.

Nell’ampia letteratura di studi sulle basi cerebrali del processo decisionale, è centrale in questo senso quel sottogruppo di studi che hanno indagato la cosiddetta “decision utility”, ossia la pura anticipazione degli esiti senza l’aspettativa della conoscenza immediata degli stessi. Oggetto principale di questi studi, infatti, è proprio l’anticipazione delle variabili di base, ossia guadagni e perdite.

In estrema sintesi, i risultati di questi studi hanno mostrato che l’anticipazione di esiti positivi è associata all’attività dello striato ventrale (Tobler et al., 2005), mentre l’anticipazione di eventuali perdite è associata a un’attivazione dell’amigdala (Canessa et al., 2009, 2011; Yacubian et al., 2006), ma senza una visione unanime. Uno studio, in particolare, suggerisce che l’anticipazione delle perdite sia associata alla deattivazione di quelle stesse aree mesocorticolimbiche coinvolte nella valutazione delle vincite (una risposta “bidirezionale”), senza tuttavia alcuna attivazione specifica di regioni “emotive” come insula e amigdala (Tom et al., 2007).

 

I correlati neurali del valore atteso e del rischio nel processo decisionale

Per approfondire le conoscenze sui correlati neurali del processo decisionale, ci siamo concentrati sull’anticipazione del valore atteso e del rischio, variabili sovraordinate e più complesse rispetto a guadagni e perdite, ma comunque cruciali ai fini dell’esito del processo decisionale. 56 soggetti hanno partecipato ad un “gambling task” che richiede l’anticipazione di guadagni e perdite di reali somme di denaro. Il compito consisteva nell’accettare o rifiutare, durante sessioni di risonanza magnetica funzionale attraverso la pressione di due tasti, una scommessa “mista”, cioè composta sia da una lotteria “vincente”, che avrebbe potuto portare alla vincita di una somma di denaro M+ con probabilità P+ (o a nessuna vincita con la probabilità complementare 1-P), che da una lotteria “perdente”, che avrebbe potuto portare alla perdita di una differente somma di denaro M- con probabilità P- (o a nessuna perdita con probabilità 1-P-). Le due lotterie venivano presentate simultaneamente in video, l’una sopra l’altra.

Inoltre, in linea con la complessità delle analisi neurofisiologiche sul profilo di scarica di singoli neuroni (es. Padoa-Schioppa e Assad, 2006; Rolls et al., 2008), si è indagata sia una componente lineare, ovvero quelle regioni cerebrali in cui l’attività aumenta linearmente all’aumentare di rischio e valore atteso, che una componente quadratica, per individuare quelle aree cerebrali che mostrano un’attività massima per valori intermedi dei parametri in esame, e minima per valori estremi.

L’esistenza di profili di attività “lineare” e “quadratica” riflette plausibilmente sotto-tipi differenti di elaborazione del segnale. E, in particolare, una relazione quadratica tra stimolo e attività cerebrale suggerisce una forma di valutazione delle variabili decisionali in cui i valori estremi vengono sistematicamente accettati o rifiutati (perché di più facile valutazione), mentre l’attività massima legata a valori intermedi, rispecchia il tentativo di dirimere un conflitto decisionale da parte di queste regioni. Alla luce di queste considerazioni, i nostri risultati mostrano un mosaico di regioni cerebrali che sembrano specificamente coinvolte nell’elaborazione del valore atteso dell’opzione di scelta, del suo rischio intrinseco ed infine nella scelta finale di accettazione vs. rifiuto.

In particolare, l’elaborazione del valore atteso riflette attivazioni cerebrali che crescono linearmente con esso in un ampio insieme di regioni, e precisamente striato ventrale bilaterale, talamo, area supplementare motoria, e la parte dorsale della corteccia del cingolo anteriore. Alla luce delle conoscenze disponibili (Croxson et al., 2009), è plausibile un quadro del processo neurale sottostante in cui valori attesi più elevati, associati ad una più intensa anticipazione di una gratificazione, hanno maggior probabilità di condurre all’implementazione di programmi di approccio alla posta in palio (mediata dall’area supplementare motoria), in seguito ad analisi costi-benefici favorevoli mediate dalla corteccia del cingolo anteriore.

L’analisi della componente quadratica del valore atteso mette in luce, invece, un interessamento della corteccia orbitofrontale, che mostra un’attività massima per valori intermedi, ossia quelli nei quali la differenza tra potenziali guadagni e perdite è ridotta. Come accennato in precedenza, e in linea con precedenti dati neurofisiologici (Padoa- Schioppa, 2009, 2011), questo dato mette in luce l’elaborazione di un conflitto tra criteri di scelta differenti. Un valore atteso molto elevato o estremamente negativo, infatti, richiede un minimo carico cognitivo per, rispettivamente, accettare o rifiutare la scommessa. Al diminuire della differenza tra possibili vincite e perdite, invece, aumentano la difficoltà e, al contempo, l’importanza di un’attenta valutazione a carico della corteccia orbitofrontale (Fig.4).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 4

Fig.4 – Regioni coinvolte nell’elaborazione del valore atteso:in giallo la componente lineare, in verde quella quadratica

 

Queste considerazioni possono probabilmente essere estese alla curva di risposta quadratica dell’elaborazione del rischio, che coinvolge il network esecutivo (Fig.5).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 5

Fig.5 Regioni attive durante l’elaborazione del rischio

 

Per valori di rischio intermedi, infatti, il controllo cognitivo richiesto per il processo decisionale è maggiore, rispetto a valori estremi associati, rispettivamente, al rifiuto del rischio (e quindi al rifiuto) per valori molto alti o all’accettazione del rischio (e quindi della scommessa) per valori di rischio molto bassi. Infine, un’ulteriore segregazione si osserva per i sistemi cerebrali che sottendono il processo di selezione dell’azione, ossia la scelta finale di accettazione vs. rifiuto.

Questo contrasto, che segna la fase finale della catena “stimolo-risposta” nel compito decisionale qui usato, evidenzia ancora una volta una netta distinzione tra sotto-processi differenti quali quelli che sottendono comportamenti di approccio vs. evitamento (Fig.6).

Valore atteso e rischio nel processo decisionale quali i correlati neuronali_FIGURA 6

Fig.6 Aree coinvolte nell’elaborazione della risposta: in magenta accettazione, in blu rifiuto

 

In particolare, l’accettazione della scommessa attiva strutture frontomediali quali la porzione anteriore della corteccia del cingolo media e l’area supplementare motoria, già associate ad analisi costi-benefici (Croxson et al., 2009). All’opposto, il rifiuto della scommessa coinvolge strutture somatosensoriali nel giro postcentrale e limbiche (ippocampo e l’amigdala), che plausibilmente riflettono la generazione di segnali avversativi e di “pericolo” (LeDoux, 2012). In estrema sintesi, questi dati sembrano suggerire la necessità di riconsiderare il coinvolgimento della corteccia orbitofrontale nel processo decisionale.

Il ruolo di questa regione, a lungo ritenuta il “direttore d’orchestra” del comportamento umano (Goldberg, 2004) può oggi essere ri-descritto in termini più specifici, e in particolare nell’integrazione dei parametri decisionali basilari quali vincite e perdite (si veda anche Basten et al.,2010) Tale integrazione, però, confluisce in una funzione di risposta cerebrale quadratica (e non lineare) di valutazione del valore atteso. Un altro dato cruciale è rappresentato dal fatto che, se la corteccia orbitofontale integra e gestisce conflitti tra differenti criteri decisionali, la scelta finale sembra, invece coinvolgere altre regioni, coinvolte nel controllo cognitivo e nell’implementazione dell’azione. Del resto, quell’ampio settore di studio che indaga la presa di decisione in termini computazionali, nell’ottica della Teoria dell’apprendimento del rinforzo, afferma ormai senza alcun dubbio che “decidere” equivale a “selezionare un’azione”, e che i sistemi motivazionali localizzati nello striato costituiscono un’interfaccia tra percezione e azione, volta a massimizzare le gratificazioni minimizzando, al contempo, le punizioni (Rolls, 2008).

È ancora lunga la strada che ci separa dalla piena comprensione dei meccanismi che sono alla base del processo decisionale nell’uomo. Qualcuno può considerare lo studio di poche variabili e della loro integrazione come un approccio troppo semplicistico, rispetto alla complessità del tema trattato.

Come diceva, però, Jean Perrin “compito della scienza è sostituire invisibili semplici a visibili complessi” e in questo atto non bisogna intravedere un’opera di riduzionismo, bensì un tentativo di portare alla luce, attraverso l’individuazione dei costituenti primitivi, i meccanismi cognitivi e cerebrali del processo decisionale. Processi che, con il procedere della ricerca, scopriamo sempre più emotivi e sempre meno ”freddamente razionali” come amiamo credere.

Le fiabe per insegnare le regole. Un aiuto per grandi e piccini (2016), di Elisabetta Maùti – Recensione

Anche i più piccini devono comprendere le regole, a partire da quelle più semplici come lavarsi o salutare, e il libro di Elisabetta Maùti, Le fiabe per insegnare le regole, ha un preciso scopo: far sì che gli adulti riescano a far apprendere le regole ai bambini tramite un metodo piacevole, ossia mediante il racconto delle fiabe.

 

Mamma mi racconti una storia?”.

Quante volte un genitore si è sentito ripetere una frase del genere da parte di suo figlio? E con pazienza o con piacere il genitore in questione apre il libro di fiabe e inizia a raccontare quella favola che al suo bambino piacerà.

Talvolta farà affidamento sulla propria memoria, raccontando quella storia che conosce bene, magari la stessa che gli veniva raccontata da piccolo affinché potesse prender sonno la sera. “Cappuccetto Rosso”, “Biancaneve”, “Riccioli d’Oro”. Questi solo alcuni dei titoli delle fiabe più famose che vengono narrate ai bambini.

 

Perché si raccontano le fiabe?

Ma qual è l’obiettivo del raccontare una favola?

Sicuramente far felice il bambino, il quale sarà gratificato della compagnia di mamma o di papà che per vari minuti si siederanno accanto a lui dedicandogli del tempo.

Ma la verità è che le fiabe hanno uno scopo ben chiaro. Innanzitutto devono parlare il linguaggio dei piccoli, nel senso che l’adulto ha il compito di adattare tutti i termini in questione affinché il bambino possa comprenderli; senza dimenticare che è richiesto anche un certo coinvolgimento da parte del narratore, facendo sì che il bimbo non si annoi nell’ascolto. Tutto ciò consentirà di mettere in stretto contatto empatico genitore e figlio in un’attività piacevole.

E una volta che ciò è avvenuto perché non far sì che la favola in questione non rappresenti un mezzo volto a far imparare le regole al proprio figlio?

 

Le fiabe per insegnare le regole di Elisabetta Maùti

Il libro di Elisabetta Maùti, Le fiabe per insegnare le regole, ha un preciso scopo: far sì che gli adulti riescano a far apprendere le regole ai bambini tramite un metodo piacevole, ossia mediante il racconto delle fiabe.

I bambini apprendono le regole osservando, talvolta per imitazione. Oppure ascoltando le indicazioni dei propri adulti di riferimento. Ma qualcosa può sempre sfuggire, o invece venire interpretata nel modo sbagliato, soprattutto quando si tratta di bambini molto piccoli.

È fondamentale che i bimbi apprendano determinate regole fin da subito, specialmente quelle che riguardano la propria incolumità.

Ma fino a che punto l’adulto che dirige autorevolmente il bambino verrà ascoltato e preso in considerazione? Spesso i bambini fanno di testa loro. Talvolta si è costretti a utilizzare le famose punizioni affinché i piccoli rispettino le regole. E ciò sicuramente non è piacevole, né per i grandi né per i piccini.

Elisabetta Maùti, con il suo libro Le fiabe per insegnare le regole ci addestra al fine di farci usare un metodo alternativo ma soprattutto divertente.

Nel testo troviamo un buon numero di fiabe per insegnare le regole simpatiche e di facile interpretazione.

Il libro è diviso in capitoli a seconda della fascia d’età del bambino. Anche i più piccini devono comprendere le regole, a partire da quelle più semplici come lavarsi, salutare, dire grazie.

Tesoro di mamma stasera ti racconto una bella favoletta: la fiaba della manina maleducata”. Il bambino sarà stupito di fronte ad un titolo simile, mai sentito prima, sicuramente sarà curioso. E il genitore ha un ottimo trucchetto per fargli conoscere e rispettare le regole.

Sono molte le storie contenute in Le fiabe per insegnare le regole, ed ognuna può essere adattata al bambino di riferimento: il genitore può scegliere di raccontare le storia che maggiormente rispecchia le proprie esigenze.

Se ad esempio bambino ha problemi con le regole della scuola, vi sono varie favole che riguardano la risoluzione di problematiche di questo tipo: andare a scuola senza far capricci, fare i compiti, rispettare le maestre, socializzare nel giusto modo con i compagni.

Le fiabe per insegnare le regole si presenta come un buon rimedio per il bambino ma anche un’ottima guida per il genitore. Elisabetta Maùti ci permette di esplorare il mondo delle regole infantili in maniera completa, consentendo anche all’adulto di riflettere su quelle regole a cui magari potrebbe aver dato meno importanza.

I genitori spesso insistono affinché il proprio figlio non faccia capricci e sia quieto. Ma hanno mai pensato a quanto sia altresì importante preparare il bambino ad affrontare al meglio imprevisti e novità? O far superare al bambino delle fobie, come ad esempio la paura del buio?

Un accenno importante lo merita l’ultima parte del libro: il capitolo dedicato alle favole per pensare. Esse hanno lo scopo di aiutare il bambino a cambiare il suo punto di vista e a guidarlo verso dei ragionamenti evoluti.

Si tratta di fiabe rivolte a bambini che hanno specifiche difficoltà, come ad esempio disabilità, fobie, problemi dell’emotività. La lettura di determinate storie potrebbe aiutarli nel guadagnare la fiducia in se stessi e incrementare la loro autostima. Anche in questo caso la fiaba aiuta a sviluppare le condotte appropriate, stavolta facendo capire al bambino che tutto si risolve, sbagliare è umano, l’importante è reagire adeguatamente, c’è una regola anche per quello.

E una volta chiuso il libro anche l’adulto si sentirà coinvolto. Sarebbe assurdo non esserlo a seguito di una lettura così. Tutti noi siamo stati bambini e abbiamo ascoltato le fiabe. Per quanto mi riguarda leggere il libro di Elisabetta Maùti è stato quasi un proiettarmi nella mia infanzia, dove ascoltavo appassionatamente le fiabe che mi venivano raccontate e i personaggi continuavano a vivere nella mia fantasia anche dopo il racconto.

Perché la favola è creatività, divertimento, immaginazione, ma soprattutto è creazione di un legame tra adulto e bambino che farà sì che tra di essi possa crearsi il corretto clima conoscitivo ed educativo.

La percezione d’intelligenza nei bambini: questione di genere?

In una ricerca pubblicata sulla rivista Science sull’intelligenza nei bambini, è stato scoperto che bambine dell’età di 6 anni iniziano a credere che alcune attività non siano adatte a loro, poiché esse pensano di non essere abbastanza intelligenti per svolgerle. La ricerca suggerisce che i bambini americani crescono con stereotipi culturali riguardo all’intelligenza, fin dalla più tenera età. Sfortunatamente, questi stereotipi si basano sull’idea che le donne non siano intelligenti quanto gli uomini.

 

Intelligenza nei bambini e stereotipi culturali

Se pensassimo a personaggi intelligenti di libri o di show televisivi, ci verrebbero in mente persone come Sherlock Holmes, Mr. Spock, Sheldon Cooper, o altri uomini. Esistono sicuramente delle eccezioni, come Hermione Granger in “Harry Potter” o Lisa Simpson. Tuttavia, la maggior parte delle volte, i nostri stereotipi culturali promuovono l’idea che essere intellettualmente dotati sia una qualità che appartiene agli uomini.

Anche se i genitori non sostengono esplicitamente questo stereotipo, le evidenze suggeriscono che esso condiziona le loro aspettative sui figli. Un report del 2014 ha dimostrato che i genitori Americani digitassero su Google la domanda “Mio figlio è un genio?” più di due volte più spesso di quanto digitassero la domanda “Mia figlia è un genio?”.

Di contro, domande riguardo all’aspetto fisico erano relativamente più comuni per quanto riguarda le figlie femmine: i genitori digitavano “Mia figlia è in sovrappeso?” il 70% circa più spesso rispetto a quanto digitassero “Mio figlio è in sovrappeso?”.

Tuttavia, in realtà, i bambini sarebbero più propensi ad essere in sovrappeso rispetto alle bambine. E anche se i professori, così come i genitori, tendono a credere che i bambini abbiano il più delle volte un “talento naturale”, in realtà le bambine vanno mediamente meglio a scuola.

Ci si è chiesti allora, se le bambine crescano con un’idea sulla propria intelligenza, simile a quella che hanno genitori e insegnanti.

 

Gli studi sugli stereotipi sull’intelligenza nei bambini

In una recente ricerca condotta dallo psicologo Lin Bian, sono stati studiati 400 bambini di età compresa tra 5 e 7 anni, reclutati, in molti anni, da una comunità di classe media e vicina all’Università dell’Illinois.

In uno studio, a 96 bambini (metà maschi e metà femmine) erano raccontate due storie su una persona il cui genere non era specificato. Era detto ai soggetti che una storia riguardava una persona “molto, ma molto intelligente“, e l’altra riguardava una persona “molto, molto gentile”. In seguito, ai bambini erano mostrati quattro disegni (due maschi e due femmine) e veniva chiesto loto di indicare quale di loro potesse essere la persona di ciascuna storia.

All’età di 5 anni, i maschi e le femmine erano ugualmente propensi ad associare l’intelligenza nei bambini al loro genere di appartenenza, ma questa tendenza cambiava rapidamente. All’età di 6 anni, le bambine erano significativamente meno propense ad associare l’intelligenza al proprio genere. Molte di loro sceglievano un personaggio maschile per identificare la persona molto intelligente descritta nelle storie, più di quanto lo facessero i bambini.
Queste risposte erano date indipendentemente dall’etnia di appartenenza e non sembrava variare a seconda dell’educazione genitoriale e del reddito familiare.

Quando veniva chiesto ai soggetti quale dei quattro bambini in figura, due maschi e due femmine, andasse meglio a scuola, le femmine indicavano più frequentemente altre femmine. In altre parole, le bambine ritenevano che le femmine andassero meglio dei maschi a scuola, ma questo fatto non cambiava le loro credenze su chi fosse più intelligente.

La ricerca suggerisce anche che questi stereotipi potrebbero avere effetti duraturi. Una volta interiorizzati, essi potrebbero iniziare ad orientare gli interessi delle bambine lontano da cose considerate “non alla propria portata”.

In un’altra parte della ricerca, a 64 bambini di 6 e 7 anni di età (metà maschi e metà femmine), erano mostrati due giochi da tavolo sconosciuti e veniva detto loro che erano adatti solo a bambini che fossero molto intelligenti, o solo a bambini che mettessero molto impegno nello svolgerli. In seguito, venivano poste ai soggetti quattro domande per misurare il loro grado d’interesse nei giochi.

Quando veniva detto ai bambini che i giochi erano per persone molto intelligenti, le femmine mostravano un interesse e una motivazione minori rispetto ai maschi. Il risultato non era dovuto alla natura stessa dei giochi: quando, infatti, i giochi venivano descritti in maniera esattamente uguale, ma veniva detto ai bambini che erano adatti a persone che s’impegnavano molto, le femmine risultavano interessate esattamente quanto i maschi.

La differenza tra bambini e bambine di 6 anni, appare quindi essere legata all’emergere di stereotipi: è stato scoperto che i bambini di 5 anni, sia maschi che femmine, in cui le credenze riguardo all’intelligenza non erano ancora differenziate, risultavano essere ugualmente interessati ai giochi per bambini molto intelligenti.

 

Le conseguenze degli stereotipi sull’intelligenza nei bambini

Più avanti, queste differenti percezioni nei bambini potrebbero comportare delle conseguenze. Infatti, in un articolo pubblicato sulla stessa rivista nel 2015, è stato scoperto che le donne sono sottorappresentate nei campi in cui per fare carriera è richiesta intelligenza, come le scienze e l’ingegneria.

Come provvedere? La psicologa Carol Dwech sostiene che enfatizzare l’importanza dell’apprendimento e dei tentativi, piuttosto che delle abilità innate, potrebbe orientare le donne contro questi stereotipi. Altre ricerche indicano che fornire alle donne modelli femminili di successo, potrebbe indirizzarle positivamente, potenziandone la motivazione e proteggendole dall’idea di non essere intellettualmente competitive.

Da cosa nascono le paure per l’altro sesso? – Le risposte di fluIDsex

Da cosa nascono le paure per l’altro sesso?

Circe

 

Cara Circe,

le persone che riportano paure nei confronti dell’altro sesso, molto spesso fanno riferimento a timori più specifici, come per esempio paura del rifiuto, paura o estrema timidezza nell’intavolare conversazioni o nell’avere rapporti sessuali. In generale, sembrerebbe che questi timori siano legati ad ansie sociali o relazionali. Chi prova queste paure, di solito è attratto ma al tempo stesso non riesce a superare un inspiegabile timore al semplice confronto con il sesso in questione; un po’ come l’attrazione/paura che, nell’Odissea, Euriloco prova nei confronti della bella maga Circe (come il suo nome ci ricorda).

In termini medici, viene usato il termine Sexophobia o Heterophobia per descrivere una serie di sintomi ansiogeni legati proprio alla paura per il sesso opposto. Le cause di queste paure, come per la maggior parte delle fobie, andrebbero ricercate dalla combinazione di fattori ambientali e fattori genetici/ereditari.

Nonostante l’origine di questa fobia particolare non sia stata ben delineata, vorrei proporle di soffermarci sulla semantica: spesso sentiamo espressioni come “il genere opposto” o “l’altro sesso”, ma esiste davvero un genere “opposto”? In cosa consiste questa opposizione? E quando parliamo di altro sesso, a quale stiamo facendo riferimento? Comunemente tendiamo ad avere una visione binaria dei generi: ne esistono due ed essi sono diametralmente diversi, MASCHIO/FEMMINA.

Mi domando quindi, se queste paure, ansie e contrasti non possano derivare dalla definizione stessa a cui le categorie sono soggette? La stessa psicologia sociale ha riscontrato che basti una semplice divisione categoriale “Noi/Voi” per generare discriminazioni e contrasti fra due gruppi (Tajfel,1978).

Ironicamente, l’origine di queste paure potrebbero proprio essere quei libri di autoaiuto che perpetrano stereotipi come: “le donne vengono da Venere e gli uomini da Marte”.

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Ma quanto sono stato bravo?! Come si valuta l’efficacia di uno psicoterapeuta?

In primo luogo dobbiamo tenere distinto il campo della valutazione dell’ efficacia in psicoterapia da quello della sensazione di efficacia. Se il primo è molto studiato anche perché coinvolge importanti aspetti economici (ad es. assicurativi) e si cerca di andare verso una sempre maggiore oggettività, il secondo merita più attenzione soprattutto come acquisizione di consapevolezza del terapeuta sui propri criteri interni che necessariamente finiscono per influenzare il suo operato.

 

Valutare la propria efficacia in psicoterapia

Se devo costruire una sedia la risposta è facile e dipende dal collaudo: se regge ho fatto un buon lavoro, altrettanto se devo montare un mobile di Ikea e alla fine non avanzano pezzi. Fin qui, almeno in apparenza, il compito di valutare la propria efficacia, che sia più o meno connessa nella mente del soggetto al valore personale, sembra piuttosto facile e sposta immediatamente il problema sulla valutazione del risultato, per cui si tratta di stabilire i criteri molteplici per definire una buona sedia o una buona scrivania.

Più complesso è fare la stessa valutazione rispetto ad una psicoterapia per due motivi. Il primo è che il risultato ( riduzione dei sintomi e/o benessere del paziente) è decisamente più impalpabile di una sedia e difficile la messa a punto di strumenti di misura. Il secondo è che trattandosi di un lavoro tra due persone il risultato dipende da entrambi.

Questa seconda constatazione può portare all’estremo a due posizioni opposte. Da un lato in terapeuti affetti da sicumera perniciosa ad attribuire la responsabilità delle difficoltà e degli insuccessi al paziente grazie a quel costrutto salva stima, non a caso condiviso da quasi tutti gli approcci, che è “la resistenza”, il cui utilizzo può diventare iatrogeno scaricando colpe sul paziente. Dall’altro in terapeuti iperresponsabili a ritenere che aver attivato una resistenza nel paziente è comunque segno di non averne previsto adeguatamente il funzionamento il che è compito precipuo del terapeuta. Questi terapeuti pensano di essere o, peggio, che si potrebbe e dovrebbe essere onnipotenti trascurando il fatto che l’ora di terapia è soltanto uno dei fatti che capitano al paziente durante la settimana e infinite sono le altre perturbazioni che possono attivare o impedire un cambiamento.

Fin qui ci siamo mossi nel dominio della valutazione reale di efficacia della psicoterapia che è ormai da anni oggetto di studio e dibattito nel mondo della psicoterapia dopo l’avvento della evidence-based medicine (EBM). Talmente vasto l’argomento che ce ne distanziamo immediatamente per rifugiarci in un molto più ristretto e “intimistico” argomentino che riguarda “la sensazione soggettiva di efficacia”. Ci chiediamo cosa ci faccia a volte dire “ oggi ho fatto proprio un buon lavoro” e ci accompagni fino a casa soddisfatti e desiderosi di ampliare la nostra attività ed altre volte ci faccia sentire “ di essere un disastro, di aver danneggiato il paziente” impegnandoci nottetempo in defaticanti rimuginii sul senso della nostra professione e sulla necessità di rilevare il negozio di frutta e verdura sottocasa per occuparsi più di broccoli e rape che di cristiani.

Credo che questo vissuto, positivo o negativo che sia, abbia ben poco a che fare con l’efficacia reale e quindi possa essere studiato distintamente da essa.

E’ esperienza comune avere netta l’impressione di aver risolto brillantemente un importante nodo problematico del paziente e di ritrovarselo di fronte tale e quale senza neppure una scalfittura mentre eravamo ancora impegnati nel complimentarci con noi stessi per la genialata.

Di contro talvolta i pazienti ci ringraziano per un nostro intervento che reputano decisivo nel loro cambiamento e che ricordano minuziosamente tanto lo ritengono significativo mentre noi non ne abbiamo alcuna memoria.

 

Distinguere la valutazione di efficacia in psicoterapia dalla sensazione di efficacia

Dunque in primo luogo dobbiamo tenere distinto il campo della valutazione di efficacia da quello della sensazione di efficacia che riguarda queste poche righe. Se il primo è molto studiato anche perché coinvolge importanti aspetti economici ( ad es. assicurativi) e si cerca di andare verso una sempre maggiore oggettività, il secondo merita più attenzione soprattutto come acquisizione di consapevolezza del terapeuta sui propri criteri interni che necessariamente finiscono per influenzare il suo operato. Una ricerca descrittiva avrebbe, a mio avviso, lo scopo di sollecitare questo tema all’attenzione del formatore e del supervisore.

Per dare il buon esempio cerco di elencare cosa mi fa sperimentare la soddisfazione di aver fatto un buon lavoro in seduta o meno, consapevole che ciò nei contenuti specifici vale solo per me mentre il metodo può essere utile per tutti. Da qui in avanti dunque mi riferisco a me stesso e mi rendo conto di quanto questi criteri siano perniciosi. Comunque meglio saperlo che lasciarli agire indisturbati.

In primo luogo è importante l’impressione di aver capito, di aver risolto un rompicapo. Lo stesso piacere lo provo nel trovare la soluzione ad un problema di matematica, un indovinello complicato o nell’individuare l’assassino in un giallo. Per me è una vera goduria quando si fa luce, quando tutto torna, quando finalmente ho capito. Mi rendo conto che tale vissuto è molto simile all’eureka dell’esordio delirante e che per non rinunciare a questo piacere epistemico rischio di trascurare i dati incongruenti che rovinerebbero la festa. Per non imbrattare la limpidezza della soluzione metto sotto al tappeto quanto mi costringerebbe ad una spiegazione meno semplice ed elegante ma più complessa e vera.

In secondo luogo mi sembra importante che il paziente stia bene o meglio non soffra nel tempo che sta con me. Quanto questa attenzione a non provocargli disagio immediato sia dannosa mi sembra inutile argomentare, basterà pensare ai disastri che causerebbe un chirurgo mosso dalla stessa preoccupazione. Forse per dare dignità teorica a questo atteggiamento sono anche vistosamente contrario all’idea di molti terapeuti e anche pazienti che una psicoterapia per essere efficace e profonda debba comportare lacrime e sangue. In proposito ricordo come la stessa convinzione in campo medico porti spesso a preferire la terapia iniettiva rispetto a quella orale anche quando ciò non ha alcun razionale e addirittura le aziende farmaceutiche aggiungono sostanze urticanti nelle fiale secondo la regola della fata turchina a Pinocchio che “la medicina se è cattiva e fa male vuol dire che è efficace”.

In terzo luogo, attenzione perché questo è gravissimo e pericolosissimo, mi sembra importante e credo di darmi da fare perché si realizzi che il paziente mi trovi simpatico, in gamba e, in estrema sintesi, mi voglia bene. E’ facile spacciare ciò come l’attenzione alla creazione di una positiva relazione terapeutica e avere il consenso in quanto ciò compare sempre tra gli obiettivi terapeutici ma se devo essere sincero credo che la mia motivazione sia prevalentemente autoreferenziale. Voglio intendere che lo farei anche se fossi alla cassa del negozio di frutta e verdura che prima o poi mi deciderò a rilevare dai pakistani sotto casa.

E’ interessante notare quanto poco conti nella mia sensazione di essere stato bravo la riduzione sintomatologica a meno che il pazienti non me la riferisca con gratitudine. Sembra infatti che basta che capisco, loro non soffrono e ci stiamo simpatici che tutto va bene. Sulla riduzione sintomatologica, il primo motivo per cui viene in terapia devo mettere consapevolmente l’attenzione perché spesso il paziente continua a portare ciò che non va, poco importa se comunque è ridotto rispetto ad un tempo.

Attendere con interesse la prossima seduta e magari lavorarci mentalmente per prepararla al meglio è indicatore del fatto che con quel paziente mi sento bravo perché se vogliamo come topini da esperimento, premere spesso la leva di quel paziente vuol dire che esso ci da una gratificazione validando la nostra identità professionale.

Se al contrario facciamo novene perché non venga e alla notizia di una buca esultiamo scompostamente con lingue di Menelik e nacchere evidentemente quel paziente ci rimanda che non siamo bravi terapeuti.

Se poi, piuttosto che liquidare la faccenda dicendoci che “è un paziente non collaborativo, traboccante di resistenze”, ci dicessimo che lui fa solo la sua parte da matto potremmo prendere in considerazione l’ipotesi che magari davvero non siamo con lui stati bravi e potremmo vedere perché.

Ansia, paura e rischio di infarto: quale relazione?

Ansia e rischio di infarto: Ma perché il paziente, tra tanti timori, “sceglie” di concentrare tutta la sua attenzione sul cuore? Perché teme proprio che il suo cuore possa essere vittima dei pensieri ansiogeni? Esiste effettivamente un legame tra e ansia e rischio di infarto o malattie cardiache?

Claudia Rizza, Claudia Tropeano OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Paura, ansia e il timore del rischio di infarto

Pz: “Dottoressa è da circa sei mesi che mi sento preoccupato per la mia salute. Mi capita infatti di continuare a pensare che il mio cuore non funzioni bene soprattutto da quando a mio padre è stato diagnosticata un’insufficienza della valvola mitralica”.
T: Mi racconta un episodio in cui ha pensato che il suo cuore non funzionasse bene?
Pz: mi capita durante la giornata, senza un motivo preciso, di avvertire delle vampate di calore, mi tremano le mani, sudo e il cuore mi batte alla velocità della luce. A quel punto penso… anzi, sono convinto, che mi sta per venire un infarto e mi sento ancora peggio.
T: in questa situazione che mi ha appena descritto, come si sente? che emozione prova?
Pz: ho paura che il mio cuore stia impazzendo e che da un momento all’altro possa smettere di battere…è tremendo…sono anche andato a farmi visitare da più cardiologi che hanno escluso il rischio di infarto ma io sono perennemente in ansia. Questa cosa mi spaventa, non riesco a sopportarlo…dottoressa, si può morire di ansia?

Con questa richiesta di aiuto, il paziente esprime una grande paura associata ad una sintomatologia chiara sperimentata dapprima sul corpo per poi essere alimentata da una serie di pensieri che stanno condizionando il normale svolgimento della sua vita. Il paziente teme che, da un momento all’altro, il suo cuore “possa smettere di battere” e che, improvvisamente, possa presentarsi il rischio di infarto interpretando in maniera allarmata alcuni sintomi corporei specifici.

In questo articolo abbiamo intenzione di comprendere l’effettiva possibilità che tale paura si possa verificare focalizzando l’attenzione su quella letteratura scientifica e medica che correla ansia e il rischio di infarto o malattie cardiache.

L’infarto miocardico acuto è una sindrome clinica che si verifica conseguentemente all’occlusione di un ramo arterioso delle coronarie e che determina la morte (necrosi) delle cellule miocardiche a causa dell’assenza di ossigeno. L’ infarto miocardico è caratterizzato da un senso di oppressione e da una sensazione di forte peso a livello retrosternale; alcuni possono sentire il dolore irradiarsi verso la spalla e al braccio sinistro, alla bocca dello stomaco o al collo e alla mandibola. Talvolta può essere associato a dispnea, sudorazione e senso di nausea. Ciò che è importante ricordare è che nell’attacco anginoso che segnala l’infarto, il senso di oppressione percepita dal paziente è atroce e si ha la sensazione di morte imminente che perdura per circa 15-30 minuti (Goldberger, 1993).

Quindi, alla luce delle informazioni sopraccitate e analizzando i dati che il ‘nostro’ paziente ci riferisce, appare opportuno focalizzare l’attenzione su alcuni aspetti:

  • le visite mediche. Il paziente ha eseguito differenti visite mediche specialistiche (“sono anche andato a farmi visitare da più cardiologi” ) i quali hanno escluso il rischio di infarto o malattie cardiovascolari. Questo aspetto è da non sottovalutare perché permette a noi clinici di fare una diagnosi differenziale e di lavorare cognitivamente riducendo al minimo i dubbi.
  • la sintomatologia. Il paziente non sperimenta angina e, malgrado i sintomi presentati siano simili a quelli cardiaci, essi non sembrano possedere la stessa intensità che contraddistingue l’infarto. Oltre a ciò, vengono riferite convinzioni e pensieri che alimentano i sintomi fisici (..sono convinto che corra il rischio di infarto e mi sento ancora peggio) e che sembrano quasi dissolversi improvvisamente senza che l’infarto si sia mai effettivamente verificato.
  • l’origine del problema. Se proviamo a prestare attenzione alle parole iniziali, notiamo subito il tentativo del paziente di individuare l’origine del problema (“da quando a mio padre è stato diagnosticata…”) che è diventato, per il paziente, fonte di minaccia alla propria sopravvivenza nonché oggetto del suo rimuginio ansioso.

Avendo escluso la possibilità medica che possa essere esposto a rischio di infarto cardiovascolare, ciò che il paziente ci porta in seduta è una sintomatologia ansiosa che necessita di un intervento clinico accurato. Egli parla di “preoccupazioni e paure” che, sebbene abbiano in comune alcuni aspetti, si differenziano per altri.

 

Paura e ansia: la sovrastima dei pericoli e la terribilizzazione delle emozioni

Paura e ansia sono in qualche modo “imparentate” le une con le altre e si caratterizzano: da un aspetto cognitivo, che riguarda la percezione di pericolo incombente, e da una reazione somatica specifica.

La paura ci segnala un pericolo reale e imminente che sta minacciando un nostro scopo e, pertanto, necessita che tutto il corpo sia preparato ad affrontarlo: il cuore batte più velocemente, la frequenza respiratoria aumenta, l’apparato digerente si blocca e il sangue si dirige verso le estremità del corpo.

Le reazioni fisiche, pur essendo uguali a quelle dell’ansia, quando proviamo paura si presentano in modo più intenso e assumono un carattere di emergenza di fronte ad un oggetto specifico (Lorenzini e Sassaroli, 1987,1991,1992).

L’ansia è dovuta all’interpretazione della realtà intesa come minacciosa e della percezione di incapacità di fronteggiamento degli eventi. Questi due aspetti espongono maggiormente l’individuo a sperimentare ansia, a mantenere uno stato di allerta e di ipervigilanza allo scopo di “scandagliare” l’ambiente nel tentativo di individuare anche solo il più piccolo segnale di pericolo. L’attenzione rivolta all’ambiente esterno è selettiva: la nostra mente è più predisposta ad individuare e a sovrastimare i segnali negativi e a trascurare completamente quei segnali positivi che invece potrebbero rassicurarci (Butler, Mathews, 1983; Clark, 1988; Ehlers, 1992). E’ come se il paziente ansioso iniziasse ad esplorare l’ambiente esterno e, per ogni dettaglio che compone quell’ambiente, vedesse lampeggiare il segnale (sia esterno che interno) di pericolo e di morte imminente accompagnato da un pensiero tipo: “ è terribile, non sono capace di affrontarlo”. Tale pensiero, altro non fa che incrementare i sintomi fisici dell’ansia e condizionare il modo con cui interpretiamo l’ambiente esterno che verrà percepito in modo sempre più pericoloso. Si verifica un errore metacognitivo che consiste nell’interpretare un’ attivazione emotiva come un pericolo reale piuttosto che come un segnale di allarme semplicemente percepito. Questo è quello che ci permette di discriminare tra ansia, intesa come emozione adattiva, e un disturbo d’ansia (Lorenzini, Sassaroli 2000;Sassaroli et al., 2006).

L’errore metacognitivo non basta per comprendere come si sviluppa un sintomo ansioso. Un paziente chiede una consulenza psicologica non dopo aver sperimentato un solo episodio di ansia, ma dopo aver acquisito una ‘ lunga esperienza’ che lo conduce, poi, a sentirsi inefficace di fronte agli eventi percependoli sempre più minacciosi.

 

Il rimuginio: un meccanismo di mantenimento dell’ansia

Un fenomeno mentale che accompagna l’ansia e che contribuisce al suo mantenimento è il rimuginio. Tale termine, introdotto da Borkovec (Borkovec, Inz, 1990; Borkovec et al 1993), è la continua autoripetizione del timore del danno che viene interpretato come irreparabile, incontrollabile e che viene rappresentato mentalmente in forma verbale e astratta. Nel rimuginio (worry) si assiste ad una predominanza del pensiero verbale negativo dove, il soggetto, tende a prevedere gli eventi futuri in termini catastrofici coinvolgendo poco l’immaginazione concreta e futura (Freeston, Dugas, Ladoucer, 1996, Molina, Borkovec, Peasley, 1998).

Infatti, quando si rimugina, non ci si limita solo a preoccuparsi e a pensare in forma verbale agli scenari negativi che potrebbero verificarsi ma si è impegnati in un’attività impegnativa e dispendiosa, il rimuginio appunto. E’ come se si continuasse a ripetersi mentalmente che “le cose non stanno andando bene, che qualcosa non va, che da un momento all’altro potrebbe accadere qualcosa di terribile, definitivo e irreversibile e che non sarò in grado di gestire tali eventi nefasti”. L’esito di tale distorsione del processo interpretativo si traduce nel comportamento di fuga o di evitamento che ha l’effetto immediato di ridurre i sintomi ansiosi ma che, a lungo termine, alimenta la convinzione di pericolosità dell’ambiente e di reale inefficacia nel fronteggiamento.

 

Le credenze patologiche dell’ansia

L’analisi sulle credenze psicopatologiche dell’ansia ci permettono di identificare i contenuti disfunzionali sottesi ai disturbi e comprendere meglio che cosa effettivamente il paziente teme. Nello specifico, le principali credenze cognitive sono (Sassaroli et al, 2006):
– timore eccessivo del danno e tendenza alla previsione negativa o pensiero catastrofico, ovvero la tendenza dei pazienti ad immaginare conseguenze negative e ad interpretare il mondo esterno come pericoloso;
– timore dell’errore o perfezionismo patologico, definito come la preferenza a prestare attenzione agli errori piuttosto che ai risultati positivi e a temere che, in seguito a tale errore, si manifesti una catastrofe;
– intolleranza dell’incertezza, ovvero la tendenza a non poter sopportare la presenza del dubbio o della possibilità di non conoscere esattamente tutti i possibili scenari che potrebbero presentarsi;
– autovalutazione negativa definita come la valutazione in termini negativi delle proprie capacità di fronteggiamento e la derivante situazione catastrofica come esito delle proprie fragilità.
– bisogno di controllo e l’illusione di poter prevedere esattamente come andrà il futuro (anche attraverso il rimuginio);
– intolleranza delle emozioni, definita come la tendenza ad interpretare ogni stato emotivo come negativa o perché sottolinea la convinzione di fragilità/incapacità o perché ritenuta prova dell’imminente catastrofe;
– eccessivo senso di responsabilità, ovvero la tendenza ad interpretare in maniera catastrofica e a porsi come unici responsabili di tale situazione.

Secondo Sassaroli et al (2006), il pensiero catastrofico, sebbene sia un costrutto ampio e vago, rappresenta lo stato ansioso mentre l’intolleranza dell’incertezza, il perfezionismo e il bisogno di controllo riproducono in maniera più dettagliata e sovraordinata la gerarchia dell’ansia. Ciò che invece alimenta e cronicizza il disturbo ansioso sono l’autovalutazione negativa e l’intolleranza delle emozioni, così come riscontrabile nello stralcio del nostro colloquio.

 

L’imprevedibile ci fa paura

Ritornando per un momento al nostro caso, che cosa spaventa il nostro paziente? Nell’ansia, così come nella paura, ciò che viene minacciato è uno scopo ma, cosa è considerato davvero minaccioso?
Kelly (1955) sostiene che è minaccioso ciò che è imprevedibile e che l’ansia segnala la presenza di eventi che si verificano al di là dei propri sistemi di costrutti. L’imprevedibile fa paura perché non si riesce ad immaginare una vita così diversa da come normalmente la viviamo. Questo significa che anche solo pensare alla possibilità di avere un problema al cuore, che è l’organo deputato alla vita, spaventa molto e immaginiamo che la nostra vita possa essere compromessa alla sola idea di pensarlo danneggiato.
L’ignoto fa paura, ma non è detto che l’oggetto della nostra paura sia veramente così terribile.
La medicina ci dimostra quotidianamente che è possibile continuare a svolgere la vita normalmente pur avendo le arterie danneggiate o dopo aver sostituito una valvola cardiaca.

Un altro aspetto che terrorizza il paziente è la sensazione di impotenza e di imprevedibilità di fronte all’evento. L’idea che possa accadere qualcosa di spiacevole e che, malgrado i tentativi di previsione, esso sfugga dal nostro controllo, genera e alimenta la sensazione di minaccia percepita che si traduce con un ipermonitoraggio dei segnali corporei ed esterni. Il continuo ipercontrollo, nell’illusione che possa servire ad evitare l’evento temuto, impedisce l’accettazione che questo possa effettivamente verificarsi (Sassaroli et al., 2006).

In tutti i casi e indipendentemente dal fatto che l’evento minaccioso sia poco prevedibile o incontrollabile, ciò che spaventa il paziente è l’esito finale, è il non riuscire a rappresentare se stessi subito dopo che l’evento terrificante sia accaduto (Sassaroli et al., 2006). Quindi, quando il paziente arriva in seduta, egli porta con sé un bagaglio ricco di preoccupazioni e timori legati alla possibilità di non poter riuscire a sopravvivere alla catastrofe imminente.

 

Il collegamento tra ansia e il rischio di infarto o malattie cardiache

Ma perché il ‘nostro’ paziente, tra tanti timori, “sceglie” di concentrare tutta la sua attenzione sul cuore? Perché teme proprio che il suo cuore possa essere vittima dei pensieri ansiogeni? Esiste effettivamente un legame tra e ansia e rischio di infarto o malattie cardiache?

La risposta è rintracciabile in alcuni studi fisiopatologici che potrebbero essere alla base dell’associazione tra ansia e rischio di infarto o patologie cardiovascolari (Molinari et al., 2007).

Nello specifico:

– la trombogenesi: I soggetti sani sottoposti a condizioni di stress mentale mostrano livelli più alti di catecolamine (epinefrina e norepinefrina) comportando un conseguente aumento di attivazione piastrinica e di coagulazione. Quindi, elevati livelli di ansia possono concorrere all’aggregazione piastrinica e alla formazione di trombi (Frasure-Smith, Lesperance e Talajic, 1995; Markovitz e Matthews, 1991).

– l’aritmogenesi: L’aumento dell’attivazione simpatica, che può essere causata anche dall’ansia, può portare ad un aumento dell’aritmia cardiaca in pazienti già cardiopatici. I risultati delle ricerche evidenziano inoltre che le situazioni di stress mentale nei pazienti aventi già patologia cardiaca li espongono maggiormente ad aritmia ventricolare rispetto ai periodi non stressanti (Gavazzi, Zotti e Rondanelli, 1986);

– l’aumento della richiesta miocardica di ossigeno: Lo stress aumenta la frequenza cardiaca e altera l’equilibrio tra la quantità di ossigeno richiesta dal cuore e quella fornita dal sistema circolatorio (Rozanski, Krantz e Bairey, 1991). Nei pazienti con patologia cardiaca si assiste ad un aumento della resistenza vascolare presente sia durante uno sforzo fisico sia durante il periodo di stress mentale, quale potrebbe essere quello dato dagli stati d’ansia (Goldberg et al., 1996);

– l’ ischemia miocardica (Krantz et al., 1996; Mittleman, Maclure, Sherwood et al, 1995). Mittleman e coll. (1995) hanno riscontrato che i pazienti che hanno avuto un infarto miocardico acuto erano più ansiosi immediatamente prima del verificarsi dell’episodio rispetto a quanto riscontrato nelle 24-26 ore successive (Mittleman et al., 1995). Inoltre, un’ulteriore ricerca ha dimostrato che l’ansia può causare rapidi cambiamenti della pressione sanguigna, una conseguente rottura delle placche arteriosclerotiche e un aumento della richiesta di ossigeno da parte del cuore (Rubzansky, Lawachi, Weiss et al, 1998);

– l’anormalità del sistema nervoso autonomo. La funzione cardiaca è regolata da due componenti del sistema nervoso autonomo ovvero il sistema nervoso simpatico e il sistema nervoso parasimpatico (Kamarck e Jennings, 1991; Krantz, Kop, Santiago et al, 1996). Gli agenti fisiologici dello stress attivano il sistema nervoso simpatico, provocando il rilascio di due catecolamine: l’epinefrina e la norepinefrina. In situazioni di distress e di alti livelli di ansia si assiste ad un eccessivo rilascio di catecolamine, sia nelle persone sane che in quelle con patologia cardiaca che arrivano direttamente al cuore. Nei pazienti cardiopatici, sottoposti a stress mentale, è stata riscontrata una positiva correlazione tra i livelli di epinefrina nel plasma e i cambiamenti della frequenza, della gittata cardiaca e della pressione sanguigna (Goldberg, Becker, Bonsall et al, 1996). Inoltre, tra i pazienti con disturbi cardiaci che hanno avuto almeno un infarto miocardico acuto, coloro che presentano livelli di ansia più elevati mostrano livelli maggiori di norepinefrina nel sangue rispetto alla popolazione di controllo (Kamarck e Jennings,1991; Krantz, Kop, Santiago et al, 1996). L’attivazione del sistema nervoso simpatico e dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene sembra essere coinvolta in condizioni ansiose e costituisce un significativo fattore di rischio di infarto per pazienti che hanno avuto episodi di infarto miocardico acuto (Sirois e Burg, 2003).

Un ulteriore modello fisiopatologico per spiegare la relazione tra fattori psicologici acuti, episodici e cronici e la malattia coronaria è stato fornito da Kop (1999). Secondo tale modello, l’ansia stimola l’attività del sistema nervoso autonomo che, a sua volta, stimola la produzione di catecolamine, aumentando la frequenza cardiaca e la pressione sanguigna, restringendo le arterie coronariche, e, conseguentemente, aumentando la richiesta cardiaca, l’attività delle piastrine, la coagulazione del sangue e l’infiammazione. Tutte queste variazioni a cascata portano ad avere una maggiore probabilità di sviluppare trombi e aritmie, o un’ alterazione del battito cardiaco, ad un aumento della domanda di ossigeno da parte del miocardio, ad ischemia miocardica e ad una ridotta funzione ventricolare (Molinari et al., 2007);

Avendo preso in esame gli aspetti fisiopatologici è possibile comprendere come esista una correlazione tra ansia e rischio di infarto. Tale associazione è stata indagata in letteratura, tenendo in mente due grandi filoni: il primo prende in esame l’ansia come un fattore predisponente per le malattie cardiologiche; il secondo, invece, considera pazienti cardiopatici e il ruolo dell’ansia come precipitante nella manifestazione di recidive di malattia.

Nel primo caso gli studi eziologici eseguiti su pazienti sani hanno dimostrato come una varietà di disturbi d’ansia (come ad esempio gli attacchi di panico e l’ansia fobica), siano in grado di predire casi di mortalità dovuti a patologie cardiovascolari e gli episodi di infarto miocardico acuto nel corso di lunghi periodi di follow-up (20 anni). Questa relazione è risultata essere indipendente dall’impatto di altri importanti fattori di rischio di infarto cardiovascolare tradizionali (Eaker, Pinsky e Castelli, 1992; Haines, James e Meade, 1987; Kawachi, Coldtiz, Ascherio et al, 1994; Kawachi, Sparrow, Vokonas et al, 1994).

Il secondo filone di studi ha preso in esame pazienti aventi già una diagnosi di malattia cardiaca. Alcuni studi prognostici si sono occupati dell’associazione tra l’ansia ed il rischio di infarto nei pazienti che avevano già una diagnosi di patologia cardiovascolare ma i risultati appaiono, però, contrastanti. Alcune ricerche hanno dimostrato che un elevato livello di ansia prediceva successivi episodi cardiaci, mentre altre non hanno evidenziato alcuna associazione; alcune ricerche hanno addirittura mostrato che l’ansia era associata a maggiori probabilità di sopravvivenza (Molinari et al, 2007).

Nonostante queste contraddizioni, dovute alla specificità delle patologie cardiache considerate dai diversi studi, grande è l’accordo relativo al fatto che l’ansia costituisca, primariamente, un ostacolo per la guarigione fisica. La ricerca di Moser e Dracup (1996) ha dimostrato che i disturbi d’ansia, in seguito all’episodio di infarto, sono associati ad un gran numero di complicanze durante il periodo di ricovero in ospedale quali aritmia letale, ischemia permanente e recidiva dell’infarto. Inoltre, in questi casi, i pazienti con più elevati livelli di ansia trascorrono periodi più lunghi in ospedale o nelle unità di riabilitazione cardiologica (Lane, Carroll, Ring et al, 2001; Legault, Joffe e Armstrong, 1992).

Altre ricerche dimostrano come l’ansia sia un fattore predittivo del rischio di infarto e altri eventi coronarici futuri e dei tempi di sopravvivenza a seguito dell’infarto (Denollet e Brutsaert, 1998; rasureSmith et al., 1995; Thomas, Friedman, Wimbush et al, 1997). Inoltre, i pazienti con cardiopatia coronarica che riportano ansia patologica soffrono di un maggior numero di sintomi a prescindere dalla loro condizione fisica e, oltre a ciò, si avvalgono di un maggior numero di risorse volte alla cura della salute riferendo una più bassa qualità della vita (Brown, Melville, Gray et al, 1999; Lane et al., 2001;Mayou, 2000; Sullivan, La Croix, Baum et al, 1997; Sullivan, LaCroix, Spertus et al,2000).

I pazienti con patologie cardiovascolari e alti livelli di ansia, riprendono le loro attività lavorative meno frequentemente rispetto ai pazienti non ansiosi e, inoltre, presentano maggiori problemi nel riprendere l’attività sessuale a seguito di un episodio acuto (Rosal, Downing, Littman e Ahern, 1994).

L’ansia costituisce un ostacolo anche per l’adattamento psicosociale alla malattie cardiovascolari, impedendo al paziente di aderire al trattamento e quindi di prendersi cura di sé: i pazienti ansiosi risultano scarsamente in grado di apprendere le nuove informazioni riguardanti i cambiamenti legati allo stile di vita, non riuscendo, così a tradurle in effettivi cambiamenti e, ciò li espone maggiormente a rischi di recidiva di malattia (Moser e Dracup, 1996; Rose, Conn e Rodeman, 1994). La condizione d’ansia prolungata e cronica possono condurre i pazienti a soffrire della cosiddetta “invalidità cardiaca”. Questo termine viene utilizzato per descrivere un sottoinsieme di pazienti con malattie cardiovascolari il cui grado di debilitazione o disabilità in seguito alla diagnosi o ad un episodio acuto, non può essere spiegato dalla gravità della loro condizione fisica (Sykes, Evans, Boyle et al, 1989; Sullivan et al., 1997; Sullivan et al., 2000).

Una recente revisione della letteratura ha concluso che i disturbi relativi ad ansia, depressione e ostilità sono molto associati fra loro e possono essere considerati, nel loro insieme, dei fattori di rischio di infarto o  malattie cardiovascolari (Suls e Bunde, 2005). Precedentemente anche la revisione effettuata su studi prospettici (Rutledge, Hogan, 2002) aveva evidenziato come i fattori di ansia, depressione e rabbia fossero collegati, al netto dell’effetto delle variabili di tipo biomedico, con le diverse malattie cardiovascolari, anche l’ipertensione.

Recentemente Tully et al. (2013) hanno dimostrato come il disturbo d’ansia generalizzato (GAD) non è secondo alla depressione come motivo di richiesta di supporto psicologico nei pazienti con patologie cardiache. In particolare, diversi studi hanno rilevato che l’ansia è comune tra gli individui affetti da malattie cardiovascolari e anche tra i pazienti ricoverati in riabilitazione cardiaca a seguito di un evento dove il tasso di prevalenza è compreso fra il 70% e l’80% tra i pazienti che soffrono di un episodio cardiaco acuto, e persiste in maniera cronica in circa il 20-25% degli individui con patologie cardiovascolari che abbiano avuto o meno un episodio cardiaco acuto.

Moser e Dracup (1996) hanno sottolineato che nei pazienti con infarto miocardico, un tasso fra il 10% e il 26% manifesta livelli di ansia più elevati rispetto a quelli di pazienti con diagnosi di disturbo psichiatrico. Un’ulteriore più recente ricerca ha rilevato che la prevalenza di ansia a seguito di infarto del miocardio è maggiore nelle donne rispetto agli uomini, riscontrando questa differenza in diversi gruppi culturali, appartenenti sia al mondo occidentale che asiatico (Moser, Dracup, Doering et al., 2003).

Elisabeth J. Martens e collaboratori del Dipartimento di Psicologia Medica presso l’Università di Tilburg in Olanda (2010) hanno, infine, di recente descritto che i pazienti con malattia coronarica stabile e disturbo d’ansia generale presentavano un 74% di rischio di infarto o altri eventi cardiovascolari, come ictus e morte, nettamente maggiore rispetto a quelli con sola malattia coronarica.

 

Concludendo: il legame tra ansia e rischio di infarto

L’ansia può essere una reazione normale ad un evento traumatico quale può essere un evento cardiaco, ma nei casi in cui raggiunge livelli estremi o persiste nel tempo può avere conseguenze molto negative per la salute fisica e mentale (Molinari et al, 2007).Tali risultati, di certo, devono condurre a riconoscere i disturbi d’ansia come un importante fattore di rischio di infarto cardiovascolare modificabile ed essere di monito al clinico per non trascurare l’indagine emotiva e relativa allo stato dell’umore dei propri pazienti nella sua pratica professionale.

L’ansia, come abbiamo visto, è un emozione naturale che garantisce la sopravvivenza in quanto ‘sorella’ della paura. Ma non per questo va sottovalutata. Se i livelli di preoccupazione raggiungono livelli elevati e se si mettono in atto degli evitamenti nel tentativo di riduzione della sintomatologia, questi, con il tempo, limitano notevolmente la vita del soggetto costringendolo poi a dover alzare sempre di più la posta in gioco per far fronte alla minaccia che vede presentarsi di giorno in giorno. Tale percezione della minaccia accompagnata anche dall’idea di non riuscire a gestire quanto sta accadendo, mina notevolmente l’autostima della persona e a sentirsi preoccupato e senza via di fuga. Ridurre i livelli di intensità dell’ansia rendendola tollerabile è fondamentale anche per far sì che il disturbo d’ansia non diventi un fattore precipitante nella malattia cardiovascolare.

Pertanto, imparando a riconoscerla, a denominarla e a comprendere le sue componenti, sarà possibile ipotizzare un intervento cognitivo- comportamentale efficace per il suo trattamento.

 

 

Qualcuno volò sul nido del cuculo: la rivoluzione psichiatrica di Basaglia – Recensione del film

Qualcuno volò sul nido del cuculo ” è un film del 1975 diretto da Milos Forman e tratto dal romanzo di Ken Kesey in seguito all’esperienza come volontario nell’ospedale Veterans Administration di Palo Alto, California. Con visione poco distaccata descriveva nel romanzo Qualcuno volò sul nido del cuculo l’orrore degli ospedali psichiatrici. Nel film la cruda realtà lancia un messaggio di speranza e libertà, che troverà realizzazione in Italia nel 1978, con la legge 180 di Franco Basaglia.

 

Franco Basaglia: biografia

Franco Basaglia nacque a Venezia, l’11 marzo 1924. Dopo aver conseguito la maturità classica, si iscrisse alla facoltà di Medicina e chirurgia dell’Università di Padova. Laureatosi nel 1949, si specializzò, nel 1953, in malattie nervose e mentali. Lo stesso anno sposò Franca Ongaro, con la quale ebbe due figli e stabilì inoltre una collaborazione anche professionale, soprattutto nella stesura di libri e saggi.

Nel 1958 ottenne la libera docenza in Psichiatria. In quel tempo prestava la sua attività lavorativa a Padova, dove era assistente presso la Clinica di malattie nervose e mentali. Pro-rettore dell’ateneo padovano era all’epoca Massimo Crepet, pioniere della medicina del lavoro ed amico personale di Basaglia, il quale già allora veniva visto, come una ‘testa calda’ .

Nel 1961, questo stato di cose indusse Basaglia a rinunciare alla carriera universitaria e ad andare a Gorizia, dove aveva vinto un concorso per la Direzione dell’Ospedale psichiatrico. L’impatto con la realtà del manicomio fu durissimo. Nel manicomio c’erano cancelli, inferriate, porte e finestre sempre chiuse; catene, lucchetti e serrature ovunque. Le terapie più comuni erano la segregazione nei letti di contenzione, la camicia di forza, il bagno freddo, l’elettroshock, la lobotomia (asportazione dei lobi parietali).

Per Basaglia questo metodo non era rilevante ai fini di guarigione, indipendenza e percorso di ogni singolo malato. Per poter affrontare degnamente la malattia mentale dunque, si convinse che ogni pregiudizio terapeutico doveva essere sospeso. Solo in questo modo il malato poteva cominciare un percorso che portasse ovunque ma non li…in una situazione di immobilità inutile. Sartre, Foucault e Goffman furono la sua ispirazione soprattutto nella critica all’impostazione psichiatrica.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DI QUALCUNO VOLÒ SUL NIDO DEL CUCULO:

 

La rivoluzione psichiatrica di Basaglia e la denuncia della psichiatria esistente nel film Qualcuno volò sul nido del cuculo

Nel manicomio di Gorizia erano ricoverati circa 650 pazienti: con la direzione Basaglia cominciò, una vera e propria rivoluzione. Vennero eliminati tutti i tipi di contenzione fisica e le terapie di elettroshock, furono aperti i cancelli, facendo si che i malati potessero passeggiare nel parco e consumare i pasti all’aperto ecc. Per i pazienti non dovevano esserci più solo terapie farmacologiche, ma anche rapporti umani rinnovati con il personale della ‘comunità”. I pazienti dovevano essere trattati come uomini.

Nel 1969 lo psichiatra lasciò Gorizia e, dopo due anni passati a Parma alla direzione dell’ospedale di Colorno, nell’agosto del 1971, divenne direttore del manicomio di Trieste, il San Giovanni, dove c’erano quasi milleduecento malati. Basaglia istituì subito, all’interno dell’ospedale psichiatrico, laboratori di pittura e di teatro. Nacque anche la cooperativa dei pazienti, che così cominciavano a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti.
Questa volta però Basaglia sentiva il bisogno di andare oltre la trasformazione della vita all’interno dell‘ospedale psichiatrico: il manicomio andava chiuso ed al suo posto andava costruita una rete di servizi esterni, per provvedere all’assistenza della persone affette da disturbi mentali.

La psichiatria, non aveva compreso fino ad allora i problemi del malato mentale, non aveva attuato nessun percorso né riabilitativo né assistenziale o rivolto a guarigione alcuno aveva solo creato un recipiente dove contenere chi soffriva di malattia mentale. Nel 1973 Trieste venne designata “zona pilota” per l’Italia nella ricerca dell’Oms sui servizi di salute mentale. Nello stesso anno Basaglia fondò il movimento Psichiatria Democratica.

Nel gennaio 1977, in una affollatissima conferenza stampa, Franco Basaglia e Michele Zanetti, presidente della Provincia di Trieste, annunciarono la chiusura del San Giovanni entro l’anno e l’anno successivo, il 13 maggio 1978, fu approvata in Parlamento la Legge 180 di riforma psichiatrica.

Nel 79 Basaglia fece un viaggio in Brasile, dove incontrò psichiatri, psicologi, infermieri e studenti, ai quali, attraverso una serie di seminari raccolti poi nel volume “Conferenze brasiliane”, riferì l’esperienza nei manicomi.

La psichiatria democratica doveva allora andare oltre la chiusura dei manicomi ed affrontare quel disagio sociale attraverso il quale miseria, indigenza, tossicodipendenza, emarginazione, delinquenza, conducono alla follia.

Nel novembre del 1979 Basaglia lasciò la direzione di Trieste e si trasferì a Roma, dove assunse l’incarico di coordinatore dei servizi psichiatrici della Regione Lazio. La situazione psichiatrica romana era allora rappresentata da un manicomio enorme e da innumerevoli case di cura private.
Nella primavera del 1980 però un tumore al cervello in pochi mesi lo portò alla morte, avvenuta il 29 agosto 1980.

[blockquote style=”1″]E’ nel silenzio di questi sguardi che egli si sente posseduto, perduto nel suo corpo, alienato, ristretto nelle sue strutture temporali, impedito di ogni coscienza intenzionale. Egli non ha più in sé alcun intervallo: non c’è distanza fra lui e lo sguardo d’altri, egli è oggetto per altri tanto da arrivare ad essere una composizione a più piani di sé, posseduto dall’altro in tutti i piani possibili del suo volto e in tutte le possibili immagini che di volta in volta possono derivare dai vari atteggiamenti che si possono cogliere. Il corpo perché sia vissuto è dunque nella relazione di una particolare distanza dagli altri, distanza che può essere annullata o aumentata a seconda della nostra capacità di opporci. Noi desideriamo che il nostro corpo sia rispettato; tracciamo dei limiti che corrispondono alle nostre esigenze, costruiamo un’abitazione al nostro corpo.[/blockquote]

[blockquote style=”1″]Un malato di mente entra nel manicomio come ‘persona’ per diventare una ‘cosa’. Il malato di mente non è una cosa ma una persona che deve essere aiutata a riprendere in mano la sua vita là dov’è possibile![/blockquote]

Molti film sono stati realizzati sull’argomento ma credo che ancora oggi “ Qualcuno volò sul nido del cuculo ” rimanga il film che meglio racconta una realtà che comunque non si è chiusa nel 1978, ma che continua ad esistere forse trattata con la dignità che merita.

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio: gli interventi comportamentali

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP) è caratterizzato da un pattern ricorrente di comportamenti ostili, negativistici, provocatori verso le figure di autorità con irritabilità e scoppi d’ira tali da compromettere la sfera scolastica, familiare e relazionale.

 

Introduzione: chi sono i bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio?

Chi sono i bambini provocatori? Spesso, nella pratica clinica per i professionisti, nel contesto scolastico per gli insegnanti, capita di venire in contatto con bambini particolarmente vendicativi, facilmente irritabili e che sfidano gli adulti. Il Disturbo Oppositivo Provocatorio (DOP), infatti, è caratterizzato da un pattern ricorrente di comportamenti ostili, negativistici, provocatori verso le figure di autorità con irritabilità e scoppi d’ira tali da compromettere la sfera scolastica, familiare e relazionale. I genitori di questi bambini ne sanno qualcosa.

I comportamenti messi in atto possono portare a delle reazioni disfunzionali da parte delle figure educative, reazioni dettate dall’impulsività che non fanno altro che alimentare un circolo vizioso che, di fatto, continua a rinforzare gli atteggiamenti negativi e crea nel bambino con Disturbo Oppositivo Provocatorio della sofferenza. Infatti si tratta di bambini che spesso non hanno amici, sono l’incubo dei loro insegnanti e ricevono da parte dei genitori un enorme quantitativo di punizioni e rimproveri. La loro autostima è molto bassa e l’idea che hanno di se stessi è estremamente svalutante.

Cosa fare dunque per aiutarli e per non arrivare all’esasperazione? Di seguito si riportano alcune strategie per intervenire efficacemente su i comportamenti-problema dei bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio.

 

Gli Interventi in caso di Disturbo Oppositivo Provocatorio

L’Osservazione

Il primo intervento da mettere in atto, al fine di comprendere in maniera individualizzata i comportamenti del bambino, è l’osservazione. Attraverso griglie appositamente strutturate, il clinico potrà registrare frequenza, intensità e durata di ogni comportamento in un contesto naturale per il bambino, come la propria abitazione o la scuola. Contestualmente, con l’aiuto dell’esperienza di insegnanti e genitori, si effettuerà l’analisi funzionale dei comportamenti-problema tramite il modello ABC. In una scheda verranno annotati gli antecedenti di tale comportamento, il comportamento nello specifico e le conseguenze in modo tale da individuare gli elementi sui quali intervenire.

Le terapie comportamentali

Per sostituire i comportamenti disadattivi dei bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio con comportamenti funzionali o per procedere con l’instaurazione del processo del rispetto delle regole possono essere utili le terapie comportamentali. Ne esistono di diverse tipologie a seconda dell’obiettivo che si vuole raggiungere o dei comportamenti che si vogliono rinforzare. Si riportano di seguito le strategie più comuni:

  • La token economy

La token economy è un sistema strutturato di rinforzi positivi per incrementare i comportamenti adeguati.

Tramite un accordo preliminare fra clinico, genitore e bambino si utilizzano dei gettoni che il bambino con Disturbo Oppositivo Provocatorio dovrà “collezionare” per arrivare ad un premio finale. L’uso dei gettoni favorisce il monitoraggio dei comportamenti che si vuole cambiare, e per tale motivo, sono previsti dei rinforzi di intermezzo quando i gettoni raggiungono una determinata quota. La durata complessiva di questa metodologia è limitata e deve essere sostenuta da un intervento clinico individualizzato in quanto il rinforzo fornito è estrinseco e pre-determinato.

  • Il rinforzo dei comportamenti adeguati

Questa strategia consiste nel fare focus sui comportamenti adeguati del bambino con Disturbo Oppositivo Provocatorio, anziché su quelli disfunzionali, e ad incentivarli rinforzandoli positivamente. Una variante di questo rinforzo prevede di rinforzare in egual modo anche i comportamenti incompatibili con il comportamento-problema.

  • Il time-out

Il time out è una metodologia da utilizzare con estrema cautela e solo nei casi in cui è assolutamente necessario bloccare un comportamento aggressivo. Consiste nel porre il bambino, per un tempo non superiore ai 3-4 minuti, in uno stato di isolamento nel quale egli non può sperimentare alcun tipo di rinforzo. Gli spazi devono essere asettici, come una sedia e un punto ben definito della casa, ma mai disturbanti per il bambino (stanze buie o simili). Si consiglia inoltre di non superare mai il limite di tempo consigliato per evitare che la metodologia diventi controproducente.

 

Disturbo Oppositivo Provocatorio: consigli pratici per i genitori

Infine è doveroso riportare alcuni consigli pratici che i genitori di bambini con Disturbo Oppositivo Provocatorio possono mettere in atto per meglio gestire i comportamenti-problema:

  • Rimproverare sempre privatamente, mai pubblicamente;
  • Disorientare il bambino con azioni impreviste in modo tale da affrontare gli atteggiamenti provocatori con comportamenti stravaganti;
  • Premiare i comportamenti positivi;
  • Sostituire le punizioni (obblighi) con le perdite di “privilegi”;
  • Non utilizzare mai punizioni che prevedono la violenza fisica;
  • Essere sempre coerenti;
  • Rimuovere il rinforzo che deriva dall’attenzione ai comportamenti teatrali del bambino ignorandoli;
  • Essere chiari quando si fanno i complimenti (per esempio anziché dire “Oggi sei stato bravo”  preferire formule più concrete come “Oggi hai aiutato la nonna ad apparecchiare la tavola. Bravo!”)

Il legame tra split brain e “coscienza divisa”: un’evidenza smentita?

Un nuovo studio contraddice l’evidenza consolidata che il cosiddetto “split brain” produca nei pazienti una “coscienza divisa”. Invece, i ricercatori dello studio, condotto da Yair Pinto, psicologo dell’Università di Amsterdam, hanno rilevato forti evidenze che mostrano che, nonostante questa operazione produca da una scarsa a un’assente comunicazione tra l’emisfero destro e sinistro, lo split brain non provoca due percezioni coscienti indipendenti in un solo cervello.

 

Split brain: il cervello diviso dopo la resezione del corpo calloso

Split brain” è un termine utilizzato per descrivere il risultato di una resezione del corpo calloso, una procedura chirurgica che è stata eseguita per la prima volta negli anni ’40 per alleviare le forme di epilessia gravi nei pazienti. Durante questa procedura, il corpo calloso, un fascio di fibre neurali che connette gli emisferi destro e sinistro, viene sezionato per prevenire il diffondersi dell’attività epilettica tra le due metà. Se da un lato questa procedura è nella maggioranza dei casi utile ad alleviare l’epilessia, dall’altro lato essa elimina anche la possibilità che i due emisferi cerebrali comunichino, così da avere come risultato un “cervello diviso” (da qui “split brain“).

Questa condizione è stata resa celebre dal lavoro del premio Nobel Roger Sperry e di Michael Gazzaniga. Nello svolgimento del proprio lavoro, Sperry e Gazzaniga hanno scoperto che i pazienti con “split brain“, potevano rispondere solo con la mano destra a stimoli all’interno del campo visivo destro e viceversa. Questo fatto è stato utilizzato come prova per affermare che la resezione del corpo calloso causasse una consapevolezza separata per ciascun emisfero.

Per la propria ricerca, Pinto e altri ricercatori hanno condotto una serie di test su due pazienti che erano stati sottoposti ad una resezione del corpo calloso. In uno dei test, i pazienti erano posti di fronte ad uno schermo e gli erano mostrati vari oggetti disposti in diverse posizioni. Ai pazienti quindi veniva chiesto di confermare se un oggetto comparisse e di indicare la sua posizione. In un altro test, essi dovevano denominare correttamente l’oggetto che avevano visto, un compito di nota difficoltà per i pazienti in condizione di split brain.

 

Ma lo split brain implica davvero una coscienza divisa?

[blockquote style=”1″]Il nostro obiettivo principale era di determinare se i pazienti avrebbero avuto performances migliori rispondendo con la mano sinistra, rispetto alla mano destra, a stimoli nel loro campo visivo sinistro e viceversa[/blockquote] afferma Pinto, professore di Psicologia Cognitiva.

[blockquote style=”1″]Questa domanda era basata sulla nozione da manuale che esistano due agenti coscienti e indipendenti: uno che processa il campo visivo sinistro e controlla la mano sinistra, l’altro che processa il campo visivo destro e controlla la mano destra.[/blockquote]

Con stupore dei ricercatori, i pazienti riuscivano a rispondere agli stimoli in tutto il campo visivo con tutti i tipi di risposta: mano destra, mano sinistra e verbalmente.

Pinto afferma: [blockquote style=”1″]I pazienti potevano indicare accuratamente se un oggetto fosse presente nel campo visivo sinistro e definire con precisione la sua posizione, anche quando rispondevano con la mano destra o a livello verbale. Questo a dispetto del fatto che i loro emisferi cerebrali potessero comunicare difficilmente tra loro e farlo alla velocità di trasmissione di circa 1 bit al secondo, che è meno di una normale conversazione. Ero così sorpreso che ho deciso di ripetere gli esperimenti diverse altre volte con tutti i tipi di controllo.[/blockquote]

Secondo Pinto, i risultati evidenziano chiaramente l’unità della consapevolezza nei pazienti con “split-brain“.

[blockquote style=”1”]L’opinione affermata dei pazienti con split-brain, implica che le connessioni che trasmettono un’enorme quantità di informazioni siano indispensabili per una “coscienza unificata cioé, un agente consapevole in un solo cervello. I nostri risultati, tuttavia, svelano che anche quando i due emisferi sono completamente isolati l’uno dall’altro, l’intero cervello è ancora capace di produrre un solo agente conscio.[/blockquote]

Nell’immediato futuro Pinto condurrà delle ricerche su altri pazienti con resezione del corpo calloso, per appurare se questi risultati potranno essere replicati. Il fenomeno, infatti, è sempre più raro ma rappresenta l’unico modo per comprendere cosa accada quando dei sistemi cerebrali importanti non comunicano più gli uni con gli altri.

Anziani alla guida: e se avessi l’Alzheimer?

Dato l’espandersi dell’uso delle autovetture come mezzi di trasporto e data una società come quella italiana con la presenza di 13,4 milioni di ultra sessantacinquenni, risulta necessario domandarsi quali provvedimenti sia necessario intraprendere con un così alto numero di anziani alla guida.

Sciore Roberta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

Nella nostra società, guidare è un’attività caratterizzante dell’autonomia e della dinamicità di ciascun cittadino adulto. Tale rilevanza è dimostrata dall’importante numero di patenti di guida richieste ogni anno in Italia e dalla presenza, sempre maggiore, di autoveicoli a due o a quattro ruote, circolanti  nel nostro territorio.

L’espansione di tale comune modalità di trasporto alimenta un dibattito affine a più discipline sul giudizio di idoneità dei profili dei conducenti degli autoveicoli. In particolare, in una società come quella italiana che in linea con le altre nazioni europee, vede la propria popolazione invecchiare progressivamente, data la presenza di 13,4 milioni di ultra sessantacinquenni pari al 22% dell’intera popolazione (DATI ISTAT 2014), risulta necessario domandarsi quali provvedimenti sia necessario intraprendere con un così alto numero di anziani alla guida.

In tal senso, i temi chiave di preoccupazione non dovrebbero essere circoscritti allo stabilire un’età limite indifferenziata per tutti ma dovrebbe procedere verso una valutazione multidimensionale delle abilità fisiche e cognitive di ciascun driver.

 

Anziani alla guida: quali rischi per la capacità di guida?

La capacità di guida viene definita infatti come una “competenza di alto livello” che richiede la simultaneità di attivazione di più funzioni intellettive quali: l’attenzione selettiva nel direzionarsi verso stimoli rilevanti, la reattività nel rispondere ai mutevoli cambiamenti provenienti dall’ambiente e la capacità di prevedere i pericoli (Adler et al., 2006).

Sono numerosi i fattori e le patologie conclamate presenti in misura predominante nelle persone anziane che possono minare tale competenza di alto livello, con rischio aumentato di sinistrosità stradale superiore a 1,5 per le persone malate rispetto alla popolazione sana.

Tra le più frequenti si possono trovare: le patologie neurologiche, le patologie psichiatriche, le apnee del sonno, i problemi di abuso di alcol o droghe ed il diabete mellito, così come anche i più generici deficit visivi, i disturbi del movimento o i problemi cardiovascolari che possono rappresentare un possibile rischio di compromissione dell’idoneità degli anziani alla guida (Charlthon et al., 2004).

Tra queste patologie, quelle neurologiche di tipo dementigeno risultano particolarmente predisponenti ad un rischio incrementale di incorrere in un incidente stradale, poiché determinano, nelle persone affette in misura variabile ma ingravescente e deterministica, una diminuzione nella risposta motoria e nella velocità di elaborazione (Duchek et al., 2003, Brown et al., 2005, Perkinson et al., 2005).

Avere una guida sicura significa poter svolgere movimenti abituali, divenuti con il tempo automatici (come ad esempio cambiare le marce o armeggiare con i pedali dell’acceleratore o della frizione), ma anche avere la prontezza di rispondere ai mutevoli cambiamenti che l’ambiente propone, aggiornando le informazioni in corso di elaborazione in tempi brevi e con una complessità variabile.

Guidare bene richiede pertanto buone capacità cognitive di memoria e di apprendimento le quali sono soggette a diminuzione di potenzialità nelle persone con demenza. Si è stimato quindi che gli anziani alla guida, con una diagnosi di deterioramento cognitivo, hanno una probabilità di essere coinvolti in un incidente stradale di  2-2,5 volte superiore ai propri coetanei sani (Hogan et al., 2008).

 

Alzheimer e guida: quando avviene il ritiro della patente?

Tuttavia, una diagnosi di Alzheimer non può e non deve essere subito considerata un marker discriminatorio per il ritiro immediato della patente. Come dimostrato dalla ricerca un po’ datata ma significativa  di Cox et al., del 1998, in cui è stata comparata la capacità di guida degli anziani tra popolazione sana e con Alzheimer, le persone con deterioramento cognitivo alla guida possono avere performance molto diversificate seppur globalmente peggiori rispetto alle persone sane.

In particolare, comparando prove effettuate mediante l’ausilio di un simulatore di guida, si è riscontrato che rispetto agli anziani sani, gli anziani con demenze andavano con il loro veicolo virtuale più volte fuori strada; guidavano per più tempo più lentamente rispetto ai limiti di velocità; non si fermavano agli stop ed impiegavano di più per stabilire le precedenze nella svolta a sinistra.

Tali errori presenti in pattern differenziali nel gruppo con patologia, confermavano non solo una pervasività della malattia diversa nei partecipanti con demenza, ma anche un’importante disomogeneità nei profili di guida. Questi risultati supportano l’idea che una diagnosi di Alzheimer non necessiti di un immediato ritiro della licenza di guida ma mette in allerta rispetto all’imprescindibile bisogno di approfondimento diagnostico caso per caso.

 

Anziani alla guida: i test di valutazione cognitiva

Inoltre, la demenza è una patologia neurodegenerativa in evoluzione continua per cui tale accertamento delle capacità psicofisiche degli anziani alla guida deve essere stabilito in una timeline definita di monitoraggio continuo. Molto spesso, nell’esplicare questa prassi valutativa degli anziani alla guida, vengono utilizzati test brevi di valutazione cognitiva globale come il Mini Mental State Examination (Folstein et.al., 1975), ma tale procedura rischia di essere poco sensibile nella valutazione dell’idoneità e della sicurezza alla guida (Crizzle et. al., 2012).

Anche le guidelines di altri paesi, come quelle proposte dall’American Medical Association (AMA) e dalla Canadian Medical Association (CMA), suggeriscono che anche altri test di valutazione globale, quali il test dell’orologio (Tuokko et al., 1995) o il Trial Making Test B (Givagnoli et al., 1996), apparentemente più complessi, non risultano essere esaustivi per tale compito.

Tali linee guida, supportate da dati significativi come quelli riportati dallo studio di Roy e Molnar del 2013, indicano che nessuno di questi strumenti ha sufficiente sensibilità e profondità da risultare predittivi delle capacità degli anziani alla guida e dell’abilità di conduzione di un autoveicolo.

Se i test di valutazione globale non risultano essere indicativi di una buona prassi valutativa dell’idoneità alla guida, si potrebbe partire, come è stato fatto in letteratura, dal considerare quelli che sono i maggiori errori commessi durante la guida dalle persone con demenza ed individuare quali sono le funzioni cognitive ad essi collegati.

 

I contributi dalla letteratura scientifica

I due importanti lavori di Uc et al., 2005 e di Rizzo et al.,1993, hanno permesso di confrontare anziani alla guida sani con persone con demenza di tipo Alzheimer ed  hanno identificato per questa attività errori importanti riconducibili ai domini cognitivi delle abilità visuo-spaziali e dell’attenzione nei campioni con patologia. Inoltre, questi studiosi hanno riscontrato nello specifico un deficit nel Useful Field of View (UFOV) (Ball et al., 1988) che è un compito che indaga l’attenzione visuo-spaziale. Tale task risulta essere strettamente correlato non solo ai generici errori su strada, ma ad un rischio incrementale di imbattersi in incidenti stradali.

Dopo aver descritto la natura multifattoriale dell’abilità di guida, definito i domini cognitivi specifici coinvolti e deficitari nei driver con Alzheimer e sottolineato i limiti dell’uso esclusivo di test di valutazione globale in tale contesto, potrebbe risultare chiarificatore indagare la forza dell’associazione tra tali indicatori del comportamento di guida e strumenti neuropsicologici, applicati nei contesti valutativi riferiti alle abilità visuo-spaziali ed attentive.

Tale finalità la troviamo in un recente studio di Yamin, Strinchombe e Gagnon del 2015. In particolare, questi autori hanno voluto esaminare il ruolo dell’attenzione, delle abilità visuo-spaziali e della cognizione globale nel predire il comportamento di anziani alla guida con diagnosi di Alzheimer moderato, mediante l’ausilio di un simulatore di guida. A questo studio, hanno partecipato 41 anziani con più di 65 anni con regolare patente di guida: metà di questi (gruppo sperimentale) avevano una diagnosi di Alzheimer moderato mentre gli altri, con funzionamento cognitivo nella norma, sono stati inseriti nel gruppo di controllo.

Coloro che appartenevano al gruppo sperimentale sono stati sottoposti alla Global Deterioration Rating Scale (Reisberg et al., 1982)  al fine di verificare se si trovassero ad una fase moderata della malattia, mentre per tutti è stato fatto il Mini Mental State Examination (Folstein et al., 1975) come screening d’inclusione. Le sessioni specifiche per la ricerca hanno previsto l’utilizzo della Mattis Dementia Rating Scale (DRS-2) (Jurica et al., 2001)  per il funzionamento globale, il Visual Object and Space Percepetion Test (VOSP) (Warrington et al., 1991) per le abilità visuo-spaziale, il test of Everyday Attention (TEA) (Robertson et al., 1994) e l’Useful Field of View (UFOV) (Ball et al., 1988), per l’attenzione.

I due gruppi hanno inoltre partecipato ad una sessione di guida simulata in cui veniva chiesto loro di guidare come erano soliti fare nella vita reale, rispettando le regole e i segnali stradali. Come atteso, i risultati hanno mostrato che i drivers con demenza hanno una performance con il simulatore di guida più povera rispetto agli anziani sani. In particolare, le persone con deterioramento cognitivo rispettavano meno i limiti di velocità ed i semafori e mantenevano con maggiore difficoltà il margine della strada.

Tale diversificazione di risultati ovviamente si riscontra anche nelle prove cognitive in cui gli anziani sani hanno ottenuto punteggi significativamente più alti. L’obiettivo fondamentale di questo studio è stato quello di valutare il contributo dei test neuropsicologici nel predire  il comportamento di guida nelle persone con demenza.

Di conseguenza, gli autori hanno calcolato il coefficiente di Pearson  tra i punteggi di ciascun test neuropsicologico e due indicatori presi dalla performance di guida simulata: il numero degli incidenti e il totale degli errori. I risultati non hanno mostrato nessuna relazione significativa tra i test di funzionamento globale (MMSE e DRS) e le misure di guida simulata. Al contrario, correlazioni significative con gli indicatori di guida sono stati trovati per le misure visuo-spaziali (VOSP) ed attentive (TEA ed UFOV).

Gli esiti hanno quindi mostrato come nessuna delle misure di funzionamento globale sono risultate significativamente correlate con la performance di guida negli anziani con demenza. Dati i risultati, il funzionamento cognitivo è legato alla guida anche se questa ricerca riporta come solo alcune delle abilità cognitive risultano essere maggiormente salienti per tale pratica (attenzione e capacità visuo-spaziale). I test di funzionamento globale come il MMSE, spesso molto usato nei servizi pubblici, risultano non essere sufficientemente sensibili ad individuare abilità fondamentali nella guida ed oggetto di deterioramento nelle persone con demenza.

Nel dettaglio, questo importante contributo sottolinea come negli anziani alla guida nonostante l’ Alzheimer, i deficit nelle abilità visuo-spaziali sono correlati con possibili incidenti stradali simulati. Questo può accadere poiché evitare un incidente richiede una rapida percezione degli stimoli, una veloce elaborazione delle informazioni ed un’appropriata risposta motoria: tutto questo spesso in contesti di guida complessi.

A queste complicazioni, a causa della patologia neurodegenerativa, si sommano le difficoltà nel recupero delle eventuali informazioni necessarie e pertinenti alle decisioni di guida, dovute a problemi nella memoria e alla aggiuntiva complessità di implementare le risposte elaborate, a causa dei deficit a carico delle funzioni esecutive.

In questo studio emerge inoltre come l’attenzione sia determinante nell’idoneità di guida. Questa infatti risulta essere strettamente correlata nei partecipanti con demenze al numero di errori totali commessi nella prova di guida simulata. Nel dettaglio proprio il test TEA mostra con quest’ultimi una correlazione importante, a sostegno dell’idea che sia proprio l’attenzione sostenuta ad avere un ruolo chiave nella sicurezza degli anziani alla guida ed è pertanto questo aspetto della cognizione da considerare centrale nei giudizi di idoneità nei drivers con deterioramento cognitivo.

 

Conseguenze psicologiche e sociali del ritiro della patente sugli anziani

Le conclusioni di questo recente studio identificano i deficit attentivi e visuo-spaziali e non i punteggi nei test di funzionamento globali, come marker predittivi degli errori alla guida negli anziani con demenza. Pertanto, un’esaustiva valutazione cognitiva dell’idoneità di guida può passare solo per la costruzione di protocolli neuropsicologici che approfondiscano tali domini cognitivi e non si fermino a punteggi globali non sensibili e poco indicativi della reale sicurezza.

Un iter valutativo così progettato deve essere di tipo multidirezionale poiché deve andare a quantificare sia i deficit presenti, mediante protocolli e test, sia le risorse di rete di supporto al paziente, optando per dei colloqui con i familiari ma sfruttando anche la conoscenza del territorio.

Questo approccio non riduttivo garantirebbe sicurezza per il malato e per gli altri, serenità per la famiglia e qualora fosse possibile, stabilire prima il momento di recesso dalla guida. Tale modus operandi  potrebbe permettere di trovare, in maniera concordata con il malato, modalità di trasporto alternative all’autovettura. Pertanto, l’importanza dell’autonomia e l’inclusione sociale delle persone con demenza devono essere riconosciute come aspetti fondamentali nella concettualizzazione del paziente.

Tale rilevanza deve investire non solo i professionisti che si occupano degli aspetti valutativi dell’idoneità di guida, ma anche l’opinione pubblica, i familiari e chi non affronta tutti i giorni queste difficoltà. La persona a cui viene tolta la patente si trova ad avere da un giorno all’altro un’indipendenza ridotta, una mobilità limitata che gli rende affannoso svolgere le attività essenziali per se o per la propria famiglia. Le conseguenze di questa decisione possono portare l’anziano a limitare le attività sociali e ricreative. Questi cambiamenti possono condurre a modificare il senso di identità personale, la soddisfazione per la propria vita ed il ruolo che la persona si sentiva di ricoprire all’interno della comunità di riferimento.

Tra le conseguenze psicologiche, a volte invasive, che possono far seguito al ritiro della patente di guida, ci può essere la comparsa di una vera e propria sintomatologia depressiva. In uno studio Ragland et.al, nel 2005,  hanno trovato la presenza di depressione clinicamente significativa in anziani a cui era stata tolta la patente tre anni prima e la pervasività di questa era maggiore in coloro per cui la guida aveva rappresentato un pilastro nella loro vita come ad esempio ex autisti di autobus o piloti. Bisogna inoltre sottolineare come lo studio considerato non era specifico per anziani con demenza.

Pertanto particolare attenzione deve essere data al contributo di questo studio in una popolazione con patologia dementigena, in cui la presenza di depressione è spesso presente ed oggetto di indagine diagnostica. Sicuramente l’autonomia data dall’utilizzo dell’autoveicolo rappresenta un punto di forza supportivo per il mantenimento di un possibile equilibrio psichico ed emozionale degli anziani alla guida.

Quindi un accurato esame neuropsicologico ampliamente argomentato precedentemente deve essere accompagnato da un accertamento motivazionale e valutativo dell’importanza che per quella persona riveste la possibilità di guidare, nei limiti sempre del mantenimento della sicurezza propria e degli altri. Anche la presenza di un coniuge o di  una persona vicina che guida e che propone la propria disponibilità, non sembra attenuare l’impatto emotivo forte causato dal ritiro della patente (Stearns, Sussman, e Skinner, 2004).

Il quadro psicologico già molto labile della persona con demenza viene aggravato dalle diminuite competenze che questi anziani sani hanno di far fronte alla incipiente scarsa autostima e alla crescente dipendenza. La persona con demenza può anche negare la propria difficoltà di guida: può non riconoscere il reale pericolo. Questa forma di negazione può far seguito anche al ritiro della licenza e può essere causa di forti conflitti con il caregiver di riferimento.

Pertanto potrebbe essere una buona prassi che il clinico spieghi al paziente, nel momento della comunicazione del giudizio di idoneità, le motivazioni che hanno portato ad esprimersi negativamente, favorendo in questo modo l’accettazione della decisione e della complessa situazione della malattia. Inoltre, il ritiro della patente di guida può influenzare il caregiver del malato di Alzheimer in altri modi. In primis i familiari si trovano spesso in un vuoto assistenziale per cui devono personalmente organizzare i viaggi, soprattutto quelli frequenti per le necessità sanitarie. Inoltre può accadere che il familiare non abbia lui la patente di guida e che fino a quel momento era il proprio coniuge a garantire il trasporto, per cui è il caregiver stesso, spesso improvvisamente, ad aver perso la mobilità personale se non è presente nel nucleo un altro adulto idoneo.

Quando le persone con deterioramento cognitivo smettono di guidare, per la maggior parte dipendono infatti dai propri parenti, solo una percentuale molto piccola utilizza i mezzi pubblici (Adler et al., 2006). Questo accade soprattutto in contesti, come quello italiano, in cui le città sono complesse, con molto traffico e in cui ancora non c’è una mentalità di pianificazione di una urbanistica protesica per persone con limitate possibilità di movimentazione autonoma, causate da deficit fisici e/o cognitivi.

Questi sono gli aspetti neuropsicologici e psicosociali salienti relativi all’idoneità di guida nella persona anziana con demenza. Tali peculiarità rendono la decisione di ritiro della patente per i professionisti un momento molto delicato e complesso. Solamente un’ adeguata preparazione e competenza da parte dell’equipè di clinici, coinvolta nella gestione di questo momento di transizione,  può rendere quello che apparentemente viene visto come una decisione di  limitazione una possibilità di cambiamento di stile di vita e di gestione diversificata delle risorse di rete presenti per la persona con morbo di Alzheimer, per la famiglia che se ne prende cura e per il contesto sociale più ampio.

Social network, qualità della vita e rischio di mortalità

I soggetti che hanno più amici e più legami sociali tendono a vivere più a lungo, questo sarà vero anche per chi fa un largo uso dei Social Network?

 

I soggetti, che hanno più amici e più legami sociali nell’ambito della comunità in cui risiedono, tendono a vivere più a lungo. Ricerche compiute a tal proposito hanno spiegato questa correlazione, asserendo che un maggiore supporto sociale, unito ad un coinvolgimento diretto nella comunità di appartenenza, ha degli effetti positivi sullo stato di salute individuale. Attualmente, molte persone coltivano le loro amicizie attraverso i social network. Frequentemente, i contatti sociali che avvengono attraverso i social network sono seguiti da occasioni nelle quali le persone si incontrano realmente ed instaurano fra loro delle vere e proprie amicizie. Ciò determina un miglioramento della qualità della vita e una diminuzione del rischio di mortalità. Se, però, i social network sono usati in maniera passiva, come se si guardasse la televisione, e questo non determina un incremento delle amicizie reali, i riverberi sulla salute dell’individuo sono negativi.

Keywords: social network, interazioni sociali, amicizie, rischio di mortalità.

 

Legami sociali e impatto sulla salute

I soggetti che hanno più amici e più legami sociali nell’ambito della comunità in cui risiedono, tendono a vivere più a lungo.

Ricerche compiute a tal proposito hanno spiegato questa correlazione, asserendo che un maggiore supporto sociale, unito ad un coinvolgimento diretto nella comunità di appartenenza, ha degli effetti positivi sullo stato di salute individuale (Holt-Lunstad, Smith e Layton, 2010): infatti, aumenta le difese immunitarie (Cohen, Doyle, Skoner, Rabin e Gwaltney, 1997) e riduce la frequenza delle infiammazioni (Loucks, Berkman, Gruenewald e Seeman, 2006).

Solitamente accade che le persone, che sono più integrate a livello sociale, abbiano uno stile di vita più salutare, con abitudini virtuose nel campo della salute. Le ricerche svolte fino ad ora, finalizzate a indagare gli aspetti sopra delineati, hanno studiato gli effetti delle interazioni sociali che avvengono di persona nel contesto di vita quotidiana.

 

Gli effetti dei Social Network sul benessere delle persone

In realtà, attualmente, molte persone coltivano le loro amicizie attraverso i social network.

Frequentemente, i contatti sociali che avvengono attraverso i social network sono seguiti da occasioni nelle quali le persone si incontrano realmente ed instaurano fra loro delle vere e proprie amicizie (Rainie e Wellman, 2012). Ciò determina un miglioramento della qualità della vita e una diminuzione del rischio di mortalità.

Se, però, i social network sono usati in maniera passiva, come se si guardasse la televisione, e questo non determina un incremento delle amicizie reali, i riverberi sulla salute dell’individuo sono negativi. A stabilire questo è stato uno studio statunitense, compiuto da ricercatori di varie università (Università della California, Northeastern University di Boston, Università di Harvard e Università di Yale) in collaborazione con il social network Facebook (Hobbs, Burke, Christakis, Fowler, 2016).

 

Gli effetti di Facebook sulla salute

Per giudicare gli effetti sulla salute delle interazioni sociali, che avvengono attraverso i social network, si è seguita l’attività su Facebook di dodici milioni di persone per sei mesi.

Fra di esse, è stato formato un gruppo sperimentale che è stato comparato con un gruppo di controllo, tratto dalla popolazione su larga scala, costituito da persone con le stesse caratteristiche del gruppo sperimentale, che non avevano interazioni sociali tramite Facebook.

È stato fatto, successivamente, un follow-up a distanza di due anni per stabilire se ci fosse stato un decremento della mortalità nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Nel gruppo di individui che utilizzava il social network Facebook si è trovata una diminuzione di mortalità, relativa, per esempio, al diabete, alle infezioni, all’infarto e alle malattie cardiovascolari.

In conclusione, la ricerca ha stabilito che le interazioni sociali che avvengono anche attraverso i social network riducono il rischio di mortalità.

CrossFit e Terapia Metacognitiva Interpersonale: la metacognizione favorisce l’accesso alle parti sane nello sport

La Terapia Metacognitiva Interpersonale è un modello teorico cognitivo comportamentale di “terza ondata” che da diversi anni sta contribuendo al modo di fare terapia oggi. Le peculiarità del modello della terapia metacognitiva interpersonale nascono dalla necessità di dotarsi di strumenti di intervento per pazienti con specifiche caratteristiche che ne rendevano difficile il trattamento con i metodi cognitivi standard finora presenti (Semerari, 1999). Come può essere utile nell’ambito del Crossfit?

 

La relazione mente-corpo: gli effetti benefici dello sport e del Crossfit

Mi trovo nello spogliatoio dopo un denso allenamento di CrossFit, letteralmente madido di sudore e a corto di fiato, osservo le mani arrossate ed ancora sporche di magnesio, il mio corpo inizia a rilassarsi dopo un intenso stato di sforzo e tensione producendo una sensazione difficile da definire, ma mi accorgo che sto sorridendo. Mente e corpo sono come allineate in una sorta di stato di energica quiete. Mi sento soddisfatto e ripenso a quel momento in cui, un’ora prima, dopo aver finito di lavorare, avevo combattuto con il solito “no dai oggi non vado, sono stanco…” ed invece ora mi sento pieno di energia, i pensieri di una giornata lavorativa sembrano più lontani ed i buoni propositi e le idee si accendono sulla mia testa come la lampadina di Archimede della Disney. Qualcosa ha funzionato bene! Non è il primo allenamento che faccio e so per certo che mi porterò questa bella sensazione anche a casa.

Il mio solito vizio, quello del pensare, diventa tentatore e la piacevole condizione in cui mi trovo lascia intuire che possa trattarsi di riflessioni produttive alle quali decido di cedere volentieri, assecondando il desiderio di capire qualcosa di più su questo stato che sto vivendo:
Come ci sono arrivato a questa condizione di benessere? Cosa e come ha funzionato in me, nella mia mente e nel mio corpo per portarmi ad attivare questa energia fisica e mentale? Se riuscissi a comprendere di più di questa mia relazione positiva mente-corpo, potrei migliorarla e magari portarla anche in altri ambiti della mia vita?” e sopratutto “C’è un modo per condividere e trasmettere questa modalità di accesso al benessere agli altri?

In tutto questo la sensazione positiva aumenta… Certo di non essere in una fase maniacale e tanto meno di vivere la sgradevole sensazione che è tipica del rimuginare, mi sento come il surfista che ha agganciato l’onda e seguo questo contatto con quello che ho da tempo imparato a riconoscere come “la mia parte sana”: una parte di me che ho iniziato a sentire, riconoscere ed alimentare in altri contesti, un’attivazione della mia mente che si è affinata (e continuo ad affinare) e alla quale ho saputo individuare adesso un nuovo accesso attraverso la modalità con cui sto vivendo il CrossFit. Mi rendo conto di aver vissuto l’esperienza dell’allenamento applicando in modo piuttosto automatico uno schema consolidato già in altre circostanze. Rifletto sul fatto che se questo è vero, allora è possibile anche un percorso al contrario, ovvero, se avessi per la prima vota imparato ad applicare delle giuste strategie mentali in un momento stressante o difficile del mio allenamento, probabilmente avrei potuto applicare le stesse strategie mentali anche in altre situazioni problematiche della mia quotidianità.

 

Come resistere alla procrastinazione dello sport

Ripercorro e ridefinisco cosa mi è appena accaduto. Paradossalmente l’applicazione di un sano funzionamento inizia ancora fuori dalla palestra. Dopo un’intera giornata passata seduto in poltrona impegnato in un lavoro puramente intellettivo, sono arrivato all’orario in cui mi ero preposto di andare ad allenarmi. La percezione iniziale del mio corpo è di stanchezza e mancanza di energia, certo non sono sfinito, ma neanche pronto per la maratona di New York. Immediatamente la mia mente va all’allenamento che probabilmente dovrò fare, trazioni alla sbarra, bilancieri da sollevare e chissà quanti addominali, il senso di affaticamento stranamente si fa più intenso senza apparente motivo ed inizio a sentirmi orientato verso la procrastinazione.

Le scuse sono fluenti: borsone da preparare, tragitto da compiere ecc. Il tutto devo dire abbastanza convincente e condito da una dose di ansia che non guasta mai (credo anche di aver visto il divano con il telecomando in grembo ammiccarmi). Mi sono sentito così altre volte? Certo! Ogni volta in cui devo fare qualcosa e non mi sento all’altezza di uno standard che mi sono prefissato. Quindi non fatico a riconoscere che si è attivato un mio schema di funzionamento del tutto orientato alla prestazione che tende a farmi trascurare un elemento assolutamente fondamentale: il fatto che mi piace allenarmi e anche molto!

Riporto la mente sugli aspetti piacevoli dell’allenamento a cui sto per rinunciare, a quei gesti di movimento e libertà in cui mi sento attivato, allo stato di attivazione di forza ed energia ed alla sensazione piacevole del migliorare a poco a poco nelle capacità di eseguire un esercizio ed alla resistenza che, pur non occorrendomi per raggiungere nessun podio, migliora di volta in volta contribuendo sicuramente a strutturare una percezione di me soddisfacente. In questo shift di pensieri in cui immagino una situazione alternativa, inizio a percepire qualcosa di diverso nel mio corpo, il borsone da preparare non è più un loop di rimuginii, ma è qualcosa che sto facendo senza quasi rendermene conto. Questa oscillazione tra aspetti perfezionistici che tendono a farmi procrastinare o evitare ed aspetti legati alla ricerca del piacere fine a se stesso si ripeterà per tutto l’allenamento, ma ormai il filo mentale in cui è definito l’accesso e l’utilizzo della seconda opzione è ormai definito. Insomma, aver individuato e padroneggiato un mio schema mi sta conducendo ad uno stato di benessere e allontanando da un altro senz’altro più negativo.

 

Terapia Metacognitiva Interpersonale: un modello cognitivo di terza ondata

La base teorica dalla quale ha origine questo funzionamento è la Terapia Metacognitiva Interpersonale (TMI) (Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013).
La Terapia Metacognitiva Interpersonale è un modello teorico cognitivo comportamentale di “terza ondata” che da diversi anni sta contribuendo al modo di fare terapia oggi. Le peculiarità del modello della terapia metacognitiva interpersonale nascono dalla necessità di dotarsi di strumenti di intervento per pazienti con specifiche caratteristiche che ne rendevano difficile il trattamento con i metodi cognitivi standard finora presenti (Semerari, 1999).

Ciò che viene preso in considerazione è l’aspetto metacognitivo della persona che risulta carente. Elementi della disfunzione metacognitiva sono, tra gli altri, una difficoltà nel riuscire a percepire e comprendere i propri stati interni (pensieri, emozioni e motivazioni) e quelli altrui e di conseguenza la difficoltà di padroneggiarli, al fine di promuovere il benessere nella propria vita e nelle relazioni interpersonali.

Un altro assunto di base peculiare della Terapia Metacognitiva Interpersonale è che i soggetti si orientano nel mondo e nelle relazioni in base a schemi interpersonali specifici, ovvero strutture cognitivo-affettivo-somatiche attraverso le quali attribuiscono significato a come gli altri risponderanno ai propri desideri e quali reazioni essi stessi avranno a tali risposte. Il desiderio (wish) è la base dalla quale nasce e si sviluppa lo schema di funzionamento di un soggetto secondo la terapia metacognitiva interpersonale. In ambito clinico, ricostruire e riflettere su certi schemi aiuta a comprendere come essi, qualora disfunzionali, possano guidare le azioni determinando sofferenza o blocchi nella sua vita relazionale.

Naturalmente non sono il primo a portare queste riflessioni fuori da un setting terapeutico standard. Con la sua capacità di intervenire su aspetti funzionali della personalità, la Terapia Metacognitiva Interpersonale si è già dimostrata un utile strumento nei contesti agonistici sportivi (Galasso, 2015 ), dove è stato riscontrato che gli atleti spesso necessitano, oltre che di interventi con tecniche standard di tipo cognitivo comportamentale (riduzione dello stress e dell’ansia agonistica, ottimizzazione delle abilità attentive, ecc.) anche di interventi su “aspetti di sofferenza soggettiva riconducibili alle caratteristiche di personalità dell’atleta”.

 

Comprendere gli schemi disfunzionali che si attivano secondo la Terapia Metacognitiva Interpersonale

In un contesto oggettivamente stressante come la dimensione agonistica infatti, è molto più probabile che uno schema disfunzionale, se presente anche sotto soglia, emerga. Nella mia esperienza personale, mi trovo a riflettere su funzionamenti non legati a situazioni patologiche, ma in cui agisco degli schemi di personalità che, se non orientati in direzioni più funzionali, contribuirebbero senz’altro a stati emotivi distanti da quelli appartenenti ad una situazione di benessere.

Il mio schema si è attivato addirittura prima di iniziare l’allenamento: desidero allenarmi ed avere una buona forma fisica (wish di successo ed affermazione) ma provo uno stato di ansia in quanto, la percezione errata che ho del mio stato fisico e l’alto standard di allenamento che mi prospetto, mi fanno percepire un possibile stato di fallimento e la mia risposta è la tendenza alla procrastinazione che, se dovessi assecondare, mi porterebbe alla conseguenza di sentirmi fallimentare e poco tenace. Ebbene si, mi ritrovo a fare i conti con il mio perfezionismo: non mi sento abbastanza rispetto le mie aspettative e sono tentato di rinunciare al mio desiderio. Il mio senso di agency è a rischio!

Recupero dalla mia memoria episodica, “mi sono sentito già altre volte in questo modo?” Assolutamente si! E’ un mio schema di funzionamento con il quale ormai ho sufficiente familiarità, presente nei miei allenamenti e perfino ora che sono alla tastiera nello scrivere questo articolo! So benissimo che per orientare questo processo verso le mie parti sane dovrò, mettere da parte le mie possibili risposte disfunzionali (es. procrastinare), dare delle giuste interpretazioni agli stati somatici ed emotivi che percepisco ed utilizzare le giuste strategie per raggiungere il mio scopo, ma sopratutto trovare un modo per accedere alle mie risorse nel qui e ora.

Perché è utile considerare tale assunto? Utilizzare una chiave di lettura metacognitiva dell’esperienza sportiva di un individuo ci permette anzitutto di andare ad individuare aspetti della personalità che, se compresi e condivisi, rendono tale contesto un’occasione di promozione di consapevolezza del proprio funzionamento di personalità e delle proprie risorse personali. Inoltre, una persona impegnata nella pratica sportiva, può trovarsi in una condizione in cui sia la sua mente che i suoi muscoli sono sottoposti ed impegnati in una interazione molto intensa e piuttosto unica. In tale condizione, orientare sul piano della consapevolezza e della metacognizione con la giusta tecnica (esercizi di focalizzazione e di autoriflessività in presa diretta e discussioni a posteriori) può presentare un’ottima occasione per individuare e sviluppare risorse individuali (fisiche e mentali) magari normalmente assopite.

A questo punto il contesto sportivo diventa un valido campo per riconoscere e coltivare risorse dell’individuo che altrimenti sarebbero più difficili da individuare e la psicologia, e ancor più le tecniche della Terapia Metacognitiva Interpersonale, offrono un valido strumento per amplificare e sfruttare al meglio gli aspetti potenzialmente sani già presenti nell’esperienza sportiva. Individuate le risorse e rafforzata la modalità di accesso ad esse, sarà quindi più semplice raggiungere i risultati sperati contribuendo anche ad aumentare il senso di autoefficacia della persona coinvolta.

Allo stesso tempo, anche se questo può non considerarsi il target principale della mia idea, è utile considerare che, anche in assenza di una patologia psichica conclamata, in molte persone si attivano processi mentali disfunzionali. Tali processi, qualora attivi, potrebbero sia impedire il vivere lo sport in modo sano, sia alimentare sofferenza. Se dovesse esser presente un disagio psichico “sotto soglia” che agisce sulla base di uno schema potenzialmente disfunzionale, la Terapia Metacognitiva Interpersonale applicata al contesto sportivo può offrire una valida occasione per individuarlo e creare una buona opportunità per un lavoro di prevenzione del disagio e favorire una ridefinizione alternativa di tale schema per una crescita e sviluppo personale.

Attraverso l’aumento della metacognizione secondo la Terapia Metacognitiva Interpersonale è quindi possibile amplificare gli aspetti positivi dell’esperienza focalizzandosi su di essi. In parallelo, individuare eventuali schemi interpersonali dominanti presenti, offre una valida occasione per un intervento volto a comprendere come tali schemi, non necessariamente maladattivi in sé, ostacolino l’esperienza sportiva e riducano il benessere e il piacere che ne derivano.

In un suo articolo Salvatore (2015) metteva in evidenza come, attraverso l’uso della disciplina delle arti marziali, con un giusto allenamento, è possibile guidare un soggetto ad avere un’esperienza somatica di cui è possibile conservarne memoria, andando così a modificare in positivo l’immagine di sé. Inoltre, attraverso la narrazione di un caso clinico Salvatore illustrava come gli schemi di una persona possono modificarsi funzionalmente attraverso un “approccio basato sulla corporeità”.

 

La Terapia Metacognitiva Interpersonale nel CrossFit

Il CrossFit è un potente campo esperienziale in quanto disciplina che racchiude diversi aspetti: resistenza cardiovascolare-respiratoria, resistenza energetica, forza, flessibilità, potenza, velocità, coordinazione, agilità, equilibrio e precisione. Insomma una bella prova per corpo e mente!
La terapia metacognitiva interpersonale nell’ambito del Crossfit si è strutturato in un workshop della durata di circa tre ore.

Nello step iniziale del mio lavoro nell’ambito del Crossfit ho utilizzato la Terapia Metacognitiva Interpersonale per rintracciare ed esplorare gli stati mentali dello sportivo attraverso un rapporto narrativo del vissuto durante un allenamento. A tale scopo, in accordo con il coach, ho preparato una sessione di allenamento (workout of the day – WOD) in grado di generare un alto livello di stress nella prestazione. Il WOD è composto da una serie di esercizi e di ripetizioni alternate tra loro, concentrate nell’arco di circa 20 minuti che, per terminare con successo in questa finestra temporale, richiedono una buona forma fisica.

Prima dell’esecuzione del WOD al trainer viene esposto un breve discorso psicoeducazionale in cui si introducono gli stati emotivi. Lo scopo è di favorire un migliore processo di monitoraggio emozionale. Al trainer viene poi assegnato il compito di prestare attenzione ai propri vissuti emotivi e dialoghi interiori durante la sessione, insomma stimolare una presa di coscienza sul fatto che ogni nostro vissuto nel mondo è accompagnato da un vissuto personale del nostro mondo interiore.

Partita la sessione, in collaborazione con il Coach, abbiamo osservato in tempo reale i comportamenti non verbali (espressioni facciali ecc.) e le difficoltà di esecuzione dell’esercizio in quel determinato momento.

Al termine dell’allenamento è stato fatto un circle time dove, chi se la sentiva, poteva rispondere a domande come: “Qual’è stato il momento più difficile? Che cosa hai provato in quel momento?” oppure “In un centro momento ti ho visto in difficoltà sull’esercizio, sei in grado di dirmi che emozioni stavi provando in quel momento?” e via dicendo. In alcuni casi si arriva a ottenere una vera e propria narrazione completa dell’episodio.

Grazie a questa procedura, sono emersi vari contenuti emotivi. Uno dei più frequenti era l’ansia legata sia alla prestazione che al timore di un possibile giudizio negativo. Gli episodi raccontati sono stati esplorati cercando di rintracciare al loro interno il desiderio/motivazione/meta del soggetto per comprendere, come da nostra intenzione iniziale, cosa lo spingesse a compiere l’attività sportiva del Crossfit e, soprattutto, quale schema sottendesse l’attività. Proseguendo ho cercato quindi di identificare le risposte alle difficoltà vissute e le risorse personali che il soggetto attivava per superarle.

Indagando i desideri che guidavano gli schemi, i partecipanti hanno riportato: il bisogno che il loro valore personale venisse riconosciuto dagli altri; il desiderio di affermarsi, avere successo e di migliorare o mantenere la propria posizione nella gerarchia sociale; il desiderio di appartenere al gruppo.

Un altro aspetto interessante è dato dal fatto che sono emerse anche motivazioni relative all’utilizzo del CrossFit come strategia di secondo livello per il fronteggiamento del rimuginio ansioso che, altrimenti, occuperebbe in maniera preminente la maggior parte della giornata del soggetto: “vengo qui perché il senso di fatica mi aiuta a non pensare costantemente agli esami e a tutte le cose che devo fare”. Quest’ultima farebbe pensare ad una strategia sotto soglia tendente all’over-training, in quanto il soggetto non fa esercizio perché lo trova piacevole e né lo utilizza come strategia di mastery che gli consentirebbe, una volta scaricata la tensione e presa distanza dal rimuginio, di guadagnare uno stato di umore migliore. Questa è una delle possibili condotte nell’attività sportiva (non solo nel Crossfit) che andrebbe approfondita col soggetto in separata sede.

Le strategie di fronteggiamento delle difficoltà emerse durante il training di Crossfit che risultavano utilizzate più di frequente erano: rimuginio con contenuti ansiosi (ad esempio “adesso non ce la faccio”), perfezionismo (“non devo sbagliare nulla”) e autocritica (“farò schifo”). Alcuni soggetti tentavano, attraverso l’esercizio, di indursi uno stato simil dissociativo, una sorta di stato di flow (flusso) (Mihaly Csiksgentmihalyi 1975), uno stato chiamato anche di trance agonistica potenzialmente distraente, dove l’individuo perde la nozione di tutto ciò che lo circonda arrivando ad essere totalmente immerso e focalizzato sul compito e dissociato dal contesto. Questo aspetto meriterebbe essere maggiormente indagato in esperienze successive.

Nella sessione del circle time ho presentato e messo in evidenza come certe strategie autoprodotte non possano fornire i risultati sperati. Ad esempio sul desiderio di riconoscimento “devo essere perfetto e fare meglio degli altri perché voglio essere da esempio” questo aumenta i livelli di ansia proiettandomi a pensare più su come sarò visto dagli altri (spostando l’attenzione all’esterno) che come devo gestire il mio corpo e le sue risorse durante l’esercizio, aumentando probabilmente la possibilità di sbaglio e riducendo l’accesso alle risorse interne di cui potrei necessitare. E’ facile che, in tali situazioni, l’emozione dell’ansia orienti il corpo a tenere un tono muscolare più rigido ed un tipo di respirazione meno orientata sul diaframma con oggettive conseguenze sull’esercizio.

Il tipo di intervento fatto nel circle time relativo a tali schemi emersi si è rivelato fondamentale: ogni volta che emergeva o veniva riconosciuto un desiderio all’interno di un episodio narrativo, questo veniva inizialmente validato, spostando così l’attenzione dall’autocritica, dallo scarso senso di autoefficacia e quindi da un rimuginio conseguente, e successivamente veniva aiutato il soggetto ad orientarsi verso l’importanza della ricerca di una migliore strategia di esecuzione presentando i vantaggi di una giusta respirazione e di una buona focalizzazione sul corpo.

Salvatore nel suo articolo sottolinea che “il tramite principale tra corporeità, lo sviluppo delle capacità autoregolatorie e le potenzialità interiori della persona, è la respirazione”.

Proprio allo scopo di aiutare il trainer a sviluppare o aumentare la sua capacità di focalizzarsi sull’esercizio nel presente ed entrare in contatto col proprio stato corporeo, al fine di regolare i propri stati emotivi ed i livelli di stress attivati, è stata fatta una sessione di esperienza guidata utilizzando un esercizio di respirazione. I soggetti hanno potuto sperimentare l’esperienza di uno stato mentale focalizzato dove, eventuali distrazioni, rimuginii ecc., venivano “lasciati scorrere” per poi tornare a riportare la concentrazione sul compito e quindi sul proprio corpo, ovvero respirare.

Nella parte successiva del workshop è stato proposto un altro WOD, questa volta lo scopo era di rendere applicabile la modalità di focalizzazione sul corpo e sul compito appena esplorata. Il trainer era guidato quindi a percepire le sensazioni positive sperimentate durante l’allenamento e prendere una “distanza fluttuante dai pensieri negativi” di cui si era discusso nel circle time e sui quali si aveva maggiore consapevolezza.

I risultati di quest’ultima sessione sono stati infine indagati attraverso un altro circletime: i soggetti hanno dichiarato tutti di aver provato un vantaggio nell’esecuzione degli esercizi utilizzando la tecnica di focalizzazione sul presente, avendo maggiore consapevolezza delle proprie risorse disponibili e riuscendo ad avere più energia e precisione nell’esecuzione degli esercizi.

Un dato importante, osservato dal Coach è stato che il gruppo, nonostante fosse composto da atleti di differente livello, ha eseguito una performance molto omogenea riguardo i tempi di esecuzione. Questo potrebbe avere una rilevanza in quanto una delle grandi potenzialità del CrossFit è di riuscire a stimolare l’interazione ed il bisogno di aiutare gli altri, cooperare per il raggiungimento di fini comuni. L’ipotesi è che la condivisione in gruppo degli schemi interpersonali possa aver fatto percepire il compagno più vicino, soprattutto nell’individuazione e la condivisione dei wish comuni emersi nel circle time, predisponendo ad una maggiore collaborazione, un aspetto che ci promettiamo di approfondire senz’altro in futuro.

Aspetto fondamentale ai fini della nostra indagine è il fatto che, ogni qualvolta si domandasse al trainer, a partire dalla narrazione raccolta e ricostruito lo schema attivo, se era in grado di riconoscere questa modalità in altri aspetti della sua vita, la risposta era sempre affermativa ed accompagnata da una espressione di stupore.

Es. “Quindi quando stai eseguendo un esercizio e ti trovi in difficoltà, provi ansia perché non stai riuscendo ad eseguirlo perfettamente come ti aspettavi e senti minacciate le tue capacità. A quel punto cominci a rimuginare e perdi concentrazione. Ti capita in altri momenti della tua vita?
Si praticamente in tutto
Mi faresti un altro esempio?
Nello studio, mi capita di non riuscire a comprendere una cosa o provare difficoltà e rimugino tantissimo perdendo concentrazione

Questo conferma l’ipotesi iniziale che prevedeva l’applicazione di schemi personali dei soggetti all’interno dell’attività sportiva.

Ciò che emerge da tale esperienza ci indica sicuramente una notevole potenzialità di applicazione dei principi della Terapia Metacognitiva Interpersonale come strumento di promozione del benessere nel contesto del Crossfit, guidando lo sportivo ad una maggiore consapevolezza di se stesso e aumentando gli effetti già benefici dello sport. Grazie a questo lavoro integrato tra lo psicologo e il Coach nel Crossfit, è possibile non solo promuovere gli stati positivi, aumentare la capacità di vivere nel presente l’attività sportiva riducendo l’uso di strategie maladattive di gestione del malessere e frustrazione psicologica, ma anche aumentare la consapevolezza generale del proprio funzionamento interpersonale ed esportare le conoscenze su come padroneggiare i meccanismi mentali attivi nell’esercizio anche nella vita quotidiana, così come si è potuto apprendere negli esercizi corporei.

Un feedback raccolto da alcuni partecipanti agli incontri, di cui è bene tener conto, consiste nel fatto che non tutti arrivano a compiere tale esperienza aspettandosi di entrare in contatto con consapevolezze di se stessi a volte così profonde e questo a volte è stato destabilizzante generando atteggiamenti di chiusura. Inoltre è importante specificare che questo tipo di intervento, pur consentendo l’accesso a risorse personali del soggetto, tende ad essere più orientato agli stati interni che su aspetti meramente legati alla prestazione sportiva in assoluto e non solo del Crossfit.

L’applicazione delle strategie della Terapia Metacognitiva Interpersonale nel contesto di allenamento del CrossFit si è quindi rivelata un’interessante risorsa al fine di migliorare l’esperienza dello sportivo, aggiungendo così un tassello in un quadro di promozione di benessere della persona che si propone di arricchirsi con ulteriori sviluppi in tale direzione.

 

Captain Fantastic (2016) e il dilemma dello stile educativo – Recensione del film

Captain Fantastic, pellicola diretta da Matt Ross, mette in scena la storia della famiglia Cash, una brigata di adolescenti e bambini capitanati dal padre Ben, impegnato in uno stile educativo piuttosto rigido ed esigente coi suoi figli.

Guglielmo D’Allocco

 

Lo stile educativo in Captain Fantastic

Captain Fantastic, pellicola diretta da Matt Ross, mette in scena la storia della famiglia Cash, una brigata di adolescenti e bambini capitanati da un magistrale Viggo Mortensen che veste i panni del padre Ben, un “Capitano” impegnato quotidianamente nell’impartire un’educazione piuttosto rigida ed esigente ad un gruppo di ragazzi divenuti improvvisamente orfani di madre.

Captain Fantastic inizia a prendere forma dalla prima scena in cui la famiglia Cash è impegnata in una battuta di caccia stile sioux con tanto di pugnali e assalto a mani nude alla preda; si tratta, forse, della faccia più estrema dello stile educativo che questo padre americano, lontano ideologicamente dalla politica consumistica e capitalistica occidentale, adotta con la sua prole stimolandola, costantemente, ad un contatto quanto più armonioso possibile con la terra e il cosmo intero.

La brigata Cash vive nella foresta come conseguenza del ricovero della madre, affetta da disturbo bipolare e ben presto suicida; ciò che stupisce della figura del padre è una costante abnegazione al concetto di verità e una assertività che non risparmia, nel riportare spiegazioni e fatti accaduti (compresa la tragedia della perdita della madre), neanche i più piccoli della cucciolata, Zaja e Nai.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM

 

Captain Fantastic e le difficoltà genitoriali

Pur lasciando emergere una serie di contraddizioni e di eccessi, che Captain Fantastic non risparmia di mettere velatamente in luce, la figura di questo “capitano fantastico” interpretato da Mortensen fa emergere anche delle sfaccettature che stimolano una riflessione sull’attuale difficoltà riscontrata nelle famiglie contemporanee circa l’adozione di uno stile educativo efficace.

Ben Cash riesce, malgrado un atteggiamento hippie facilmente attaccabile e alibi servito su un piatto d’argento per chi storce il naso in maniera pregiudizievole verso l’anticonformismo (basti pensare alla figura del nonno che considera Mortensen il peggiore guaio mai capitato alla sua famiglia e a sua figlia), a rappresentare una guida per i suoi figli e a stimolarli costantemente, adottando quasi in maniera ortodossa lo stile maieutico, a far emergere il proprio punto di vista e le proprie idee senza che, in maniera pigra, possano essere i concetti generali e mutuati dal pensiero comune a parlare per bocca loro.

La famiglia di Captain Fantastic si ritroverà ben presto, vista la volontà di voler far rispettare le ultime volontà della madre in merito al fatto di voler essere cremata, a dover fare un’incursione in quel mondo che rappresenta una vera e propria nemesi rispetto al modo in cui sono cresciuti, e sarà proprio il mischiarsi con l’opposto a far vacillare la solidità della scialuppa del capitano Ben.

Una serie di eventi, dalla volontà del giovane Bodevan di andare al college all’incidente di Vespyr, costringeranno Ben a dover fare i conti con gli angoli più spigolosi di questa sua modalità forse troppo alternativa di allevare i suoi figli.

Ciò che rasserena di più, volgendo al termine di Captain Fantastic, è il forte attaccamento che, al di là delle lusinghe e del benessere tutto ad un tratto offerto ai giovani, unisce ancora di più i figli ad un padre che sceglierà (di qui la maturità di mettere in discussione gli aspetti rischiosi di uno stile educativo considerato vincente) di apportare qualche modifica al suo “allenamento” mantenendo quella stessa identità che ha permesso ai 6 ragazzi di voler continuare a vivere uno stile di vita improntato ai più genuini e autentici valori morali.

Vergognarsi del proprio corpo può peggiorare la salute dei pazienti obesi

Le persone che combattono l’obesità devono affrontare contemporaneamente la tendenza ad essere giudicate in modo stereotipato come persone pigre, incompetenti, non attraenti, prive di forza di volontà e colpevoli del loro peso in eccesso. Il dolore di questi messaggi può contribuire e aumentare il rischio di malattie cardiovascolari e metaboliche negli obesi, secondo un nuovo studio pubblicato sul giornale Obesity, rivista scientifica della Obesity Society, guidata da un gruppo di ricercatori della Scuola di Medicina di Perelman all’Università della Pennsylvania.

 

 

Il vissuto di vergogna nei pazienti obesi

Il team di ricerca guidato da Rebecca Pearl, assistente alla cattedra di “Psicologia in Psichiatria”, in collaborazione con i colleghi del centro di Penn per il Peso e i Disturbi Alimentari ha scoperto che, al di là degli effetti già riscontrati dell’indice di massa corporea (BMI) e della depressione sul tasso di rischio di sviluppo di malattie cardiovascolari e metaboliche, livelli più elevati di interiorizzazione di pregiudizi sul peso aumentano tale rischio.

[blockquote style=”1″]C’è un malinteso comune secondo cui lo stigma dell’obesità potrebbe contribuire a motivare gli individui obesi a perdere peso e migliorare la loro salute[/blockquote] ha detto Pearl.

In realtà, secondo lo studio, l’effetto è esattamente opposto: quando le persone provano vergogna a causa del loro peso hanno più probabilità di evitare l’esercizio fisico e consumare più calorie per affrontare questo stress, a causa di una risposta fisiologica allo stress stesso, che induce un aumento dei livelli di infiammazione e di cortisolo che può degenerare appunto in comportamenti non salutari.
In questa ricerca è stata identificata una relazione significativa tra l’internalizzazione dei pregiudizi riguardanti il peso e la presenza di una diagnosi di sindrome metabolica, un indicatore di cattiva salute.

 

L’interiorizzazione dei pregiudizi e la presenza di sindromi metaboliche

Il team ha esaminato 159 adulti obesi che sono stati arruolati in un ampio studio clinico finanziato da Eisai Pharmaceutical Co atto a testare gli effetti di farmaci dimagranti – la maggioranza dei partecipanti erano donne afroamericane, un gruppo tipicamente sottorappresentato nella ricerca sui pregiudizi riguardanti il peso. Tutti i partecipanti hanno completato alcuni questionari atti a valutare i livelli di depressione e internalizzazione dei pregiudizi, prima di qualsiasi somministrazione farmacologica. L’internalizzazione dei pregiudizi riguardanti il peso si verifica quando le persone riferiscono a se stesse gli stereotipi negativi sul peso, come ad esempio ritenere di essere pigri o poco attraenti perché obesi, e si svalutano a causa del loro sovrappeso.

I partecipanti sono stati sottoposti a visita medica, che ha determinato la presenza di una sindrome metabolica, un insieme di fattori di rischio, come alti livelli di trigliceridi, pressione sanguigna elevata e ampia circonferenza della vita, che sono tutti associati a malattie cardiache, diabete di tipo 2 e numerosi altri problemi di salute obesità-correlati.

Inizialmente, non è stata osservata alcuna relazione tra internalizzazione dei pregiudizi e sindrome metabolica, analizzando i dati in un’ottica demografica, ovvero per età, peso o razza . Tuttavia, quando i soggetti sono stati stratificati in due gruppi in base all’entità dell’internalizzazione dei pregiudizi, quelli con elevati livelli di interiorizzazione avevano il triplo delle probabilità di avere una sindrome metabolica e sei volte più probabilità di avere alti livelli di trigliceridi rispetto ai partecipanti con bassi livelli di interiorizzazione.

[blockquote style=”1″]Gli operatori sanitari, i media e il pubblico in generale devono essere consapevoli che senso di colpa e vergogna nei pazienti obesi non sono uno strumento efficace per promuovere la perdita di peso e possono, al contrario, contribuire a cattive condizioni di salute se i pazienti interiorizzano questi messaggi pregiudizievoli[/blockquote] ha affermato il co-autore Tom Wadden, professore di “Psicologia in Psichiatria” e direttore del Centro di Penn. Gli addetti ai lavori giocano un ruolo fondamentale nel ridurre questa interiorizzazione trattando i pazienti con rispetto, discutendo del loro peso con sensibilità e senza giudizi, e dando loro sostegno e incoraggiamento.

 

L’Analisi comportamentale applicata (ABA): approfondimenti e alcune precisazioni per evitare fraintendimenti

Aba: analisi comportamentale applicata per il trattamento dell’autismo

Paolo Moderato,  IESCUM – ABAI Italian Chapter

 

L’analisi comportamentale applicata, in inglese Applied Behavior Analysis – ABA, è diventata popolare anche in Italia negli ultimi 15-20 anni. La popolarità, si sa, oltre a vantaggi, porta anche alcuni svantaggi, tra cui, in campo scientifico, un forte rischio di banalizzazione e parecchi fraintendimenti. L’ABA, potremmo dire, è vittima della sua efficacia, poiché questa ampia popolarità le deriva dai brillanti risultati delle sue applicazioni nel campo dell’autismo.

Per molti (troppi) anni l’autismo è stato considerato un disturbo originato da una patologia della relazione affettiva madre-bambino, “curabile” con lunghi anni di psicoanalisi. Grazie alle ricerche eziopatogenetiche di Michel Rutter e Lorna Wing, e ai primi protocolli applicativi di Ivar Lovaas, negli anni Ottanta l’impostazione diagnostica e terapeutica è radicalmente cambiata, consentendo l’applicazione di quei principi scientifici che anni di ricerca sui processi di apprendimento avevano scoperto.

 

L’analisi del comportamento (Behavior Analysis): la teoria da cui deriva l’ABA

Per non banalizzare l’ABA, considerandola, come alcuni fanno, una tecnica o un metodo per la cura dell’autismo, sebbene efficace ma in ogni caso un metodo fra i tanti, bisogna fare un passo indietro. L’analisi comportamentale applicata o ABA, come dice il termine, è un’applicazione, quindi implica l’esistenza di un livello superiore di teoria. Questo livello è rappresentato dall’analisi del comportamento, la Behavior Analysis, presentata In Scienza e Comportamento Umano (Skinner, 1953, ed .it. 1971), cioè la scienza che studia alcune particolari interazioni tra un organismo e il suo ambiente, interazioni che definiamo come psicologiche. Verbal Behavior (Skinner, 1957, ed. it. 1975 ) rappresenta i fondamenti per lo studio del comportamento verbale e per le future applicazioni, Contingencies of Reinforcement (Skinner 1969) costituisce l’apertura allo studio del comportamento governato da regole.

Va sottolineato che oggetto di studio dell’analisi del comportamento non è il comportamento in sé, ma le interazioni dinamiche che hanno luogo tra individuo e ambiente in un determinato contesto o setting. Queste interazioni sono studiate seguendo il metodo delle scienze naturali che si è rivelato così utile per la conoscenza del mondo materiale: il termine comportamentismo definisce questa opzione epistemica, relativa alla filosofia della scienza, cioè che è possibile utilizzare il metodo delle scienze naturali anche per la conoscenza del mondo immateriale psicologico.

Per fare un’analogia con il mondo della materia: il metodo galileiano rappresenta l’opzione epistemica, come si può conoscere il mondo, la fisica rappresenta la scienza di base che studia la materia per comprenderne il funzionamento, l’ingegneria, nelle sue varie forme, rappresenta l’applicazione dei principi scoperti dalla fisica ai fini produttivi, di utilità sociale, terapeutici (pensiamo alla diagnostica per immagini) e così via.

 

L’applicazione dell’ ABA in vari ambiti

Allo stesso modo l’analisi del comportamento costituisce la disciplina che studia i processi di base della psicologia umana, utilizzando metodologie sperimentali note come paradigmi di analisi del comportamento. In questo modo è stato possibile derivare alcuni principi, leggi generali che governano le interazioni umane. I principi sperimentali dell’apprendimento sono stati poi declinati in procedure applicative: l’ABA rappresenta l’intero corpus di queste procedure, che possono trovare applicazione in diversi ambiti.

Ad esempio in campo organizzativo (OBM e Performance Analysis), in campo ergonomico (Behavior Ergonomics), nel campo decisionale e delle scelte (Behavioral Economics), in campo clinico (Clinical Behavior Analysis, ACT e FAP), in campo educativo (Instructional Technology) e in campo riabilitativo (EIBI, Early Intensive Behavior Intervention, ESDM, Early Start Denver Model, MIPIA, Modello Italiano Precoce e Intensivo per l’Autismo). Per tornare all’analogia con la Fisica, i principi o leggi della fisica trovano applicazione tecnologica nell’ingegneria meccanica, idraulica, chimica, delle costruzioni, elettronica, informatica, gestionale e così via.

Ecco perché parlare di ABA come metodo o tecnica di cura per l’autismo è riduttivo, fuorviante e concettualmente sbagliato.

 

L’elaborazione acustica in neonati a rischio familiare per disturbi del linguaggio e dell’apprendimento

Recenti studi suggeriscono che la velocità di elaborazione degli stimoli acustici in bambini di pochi mesi sarebbe legata allo sviluppo delle successive abilità linguistiche e, in particolare, bambini provenienti da famiglie con storie di disturbi specifici del linguaggio (DSL) e disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) processano più lentamente gli stimoli acustici rispetto ai bambini di controllo.

Chiara Sebastiano, Roberta Pisani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Prevedere le abilità linguistiche dei bambini a partire dall’elaborazione precoce dei suoni

Grazie allo sviluppo di nuovi metodi di ricerca, è possibile studiare le patologie in modo sempre più approfondito e precoce. Poiché la plasticità cerebrale e la capacità di “recupero” è massima nei primi anni di vita dei bambini, individuare dei marcatori di rischio precoci per le patologie è sempre più importante così da poter fare una più efficace prevenzione. Recenti studi suggeriscono che la velocità di elaborazione degli stimoli acustici in bambini di pochi mesi sarebbe legata allo sviluppo delle successive abilità linguistiche e, in particolare, bambini provenienti da famiglie con storie di disturbi specifici del linguaggio (DSL) e disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) processano più lentamente gli stimoli acustici rispetto ai bambini di controllo.

Lo sviluppo infantile consiste in un graduale processo di accrescimento di competenze cognitivo-linguistiche, socio-emozionali e senso-motorie tra loro interconnesse. Tale processo è sottoposto all’influenza ambientale che, grazie alla plasticità del sistema nervoso centrale, agisce sulle condizioni biologiche individuali.

 

Il linguaggio e le fasi di acquisizione

Il linguaggio verbale è una importante capacità cognitiva indispensabile per comunicare con gli altri e intimamente legata al modo in cui pensiamo e comprendiamo il mondo (Hoff, 2003; Saffran e Schwartz, 2003). Il linguaggio è la facoltà, peculiare ed esclusiva degli esseri umani, di comunicare, esprimere e rappresentare a se stessi e agli altri la propria realtà interiore e la realtà esteriore, per mezzo di una lingua storico-culturale, cioè per mezzo di un sistema di suoni articolati distintivi e per mezzo di segni grafici. Il bambino impara a parlare in un periodo relativamente breve, nei primi tre anni di vita. I neonati, fin dai primi mesi di vita, sono impegnati nella costruzione delle categorie fonemiche della propria lingua madre, processo che si completa entro la fine del primo anno di vita (Kuhl, 2004 citato in Cantiani, 2013). Sono dunque in grado di discriminare tra categorie fonetiche diverse, ad esempio le occlusive sonore (b, d, g) da quelle sorde (p, t, k); si tratta di un’abilità che non essendo influenzata né dall’età né dall’esperienza, non può che derivare da una dotazione innata che, tra l’altro, consente al bambino di riconoscere la lingua parlata da altri tipi di suoni, fin dalla più tenera età (Schaffer, 1984).

Nel corso dello sviluppo dell’acquisizione del linguaggio, si riconoscono quattro stadi di sviluppo (Oller, 1980).

– Lo stadio fonatorio: va dalla nascita fino ai due mesi di età ed è caratterizzato dalla produzione di suoni quasi vocali, pianto riflesso e suoni vegetativi (ruttini, colpi di tosse, deglutizioni).

– Lo stadio primitivo fonatorio: la maggior parte dei bambini attraversa un periodo -che va dal secondo al quarto mese- in cui avviene la produzione sequenziale di suoni che sono quasi vocali e protoconsonanti.

– Lo stadio di espansione: va dal quarto all’ottavo mese, è presente una serie più lunga di sillabe, suoni vocalici e consonantici prolungati. A questa fase appartiene la comparsa del babbling, chiamato anche “lallazione” ossia la produzione di una sequenza di sillabe di tipo consonante-vocale che si ripetono identiche o che possono variare, con un’organizzazione ritmica e temporale simile a quella del parlato adulto (Oller, Wieman, Doyle e Ross, 1976).

– Lo stadio canonico: va dai cinque ai dodici mesi e rappresenta il culmine del processo della buona formazione sillabica, compaiono i primi suoni simili a parole o proto-parole che assumono un significato specifico quando vengono utilizzate consistentemente in determinati contesti (Ciceri, 2008). L’età di comparsa delle prime parole varia considerevolmente,ma in generale si colloca tra undici e tredici mesi di età. Nella fase iniziale (12-16 mesi circa) l’ampiezza del vocabolario si attesta in media sulle 50 parole; la fase successiva (17-24 mesi) si caratterizza per una maggiore rapidità nell’acquisire nuove parole e può assumere la forma di una esplosione del vocabolario (Goldfield e Reznick, 1990), in questa fase il ritmo di espansione è di 5 o più nuove parole (fino anche a 40) per settimana, cosicché alla fine del periodo in questione il vocabolario complessivo si attesta mediamente sulle 300 parole, ma può raggiungere anche 600 parole (Camaioni e Di Blasio, 2007).

Il periodo critico per l’acquisizione del linguaggio va dai due anni alla pubertà: si può apprendere la lingua materna anche dopo, ma in modo difficoltoso e incompleto; infatti, se i bambini non sono esposti al linguaggio nei periodi critici avranno successivamente difficoltà a superare questa mancanza (Bortfeld e Whitehurst, 2001; Bruer, 2001; Newport, Bavelier e Neville, 2001).

 

I disturbi specifici dell’apprendimento e del linguaggio

Le ultime ricerche scientifiche evidenziano come i primi anni di sviluppo siano fondamentali per il futuro benessere, anche nell’ambito della salute mentale: in quest’ottica diviene cruciale orientare la ricerca verso l’individuazione di “marcatori di rischio” neuropsicologici e neurofisiologici nei primi mesi di vita dei neonati (Cantiani et al., 2013). In particolare questo articolo si focalizza su alcuni progetti di ricerca elaborati per evidenziare i marcatori neuropsicologici e neurofisiologici dei DSA e Disturbi specifici del linguaggio, con notevoli vantaggi sia sul fronte dell’individuazione dei fattori di rischio, sia, di conseguenza, per lo sviluppo di efficaci programmi di prevenzione da applicare ai neonati a rischio. Infatti, grazie alla plasticità cerebrale dei bambini nei primi anni di vita, tanto più sarà precoce l’intervento, tanto più sarà efficace.

I DSA e i Disturbi specifici del linguaggio sono entrambi definiti “specifici” perché le difficoltà a cui portano non dipendono da deficit sensoriali o neurologici o da disabilità intellettiva. Inoltre, come ampiamente evidenziato dalla letteratura si manifestano frequentemente in comorbilità, e tale fenomeno viene anche osservato nella pratica clinica: circa un terzo dei bambini con Disturbi specifici del linguaggio sviluppano dislessia (disturbo specifico di apprendimento della lettura) a partire dalla scuola elementare (Catts et al., 2005.; Bishop e Snowling, 2004; Van Alphen et al., 2004; McArthur et al., 2000). Inoltre questi due disturbi spesso si presentano in più membri della stessa famiglia, suggerendo un’eziologia genetica (Plomin e Kovas, 2005).
Studi epidemiologici italiani rivelano che, in età evolutiva, i Disturbi specifici del linguaggio hanno una prevalenza intorno al 5-6% (Fabrizi, Sechi, Levi; 1991), i DSA del 4% circa (Stella, 2003).

Il disturbo del linguaggio si manifesta con difficoltà persistenti nell’acquisizione o nell’uso di diverse modalità di linguaggio (scritto, parlato, gestuale) dovute a deficit della comprensione o produzione che comprendono: 1. Lessico ridotto, 2. Limitata strutturazione delle frasi, 3. Compromissione delle capacità discorsive (DSM-5, APA, 2013).

Il disturbo specifico di apprendimento si manifesta invece con difficoltà di apprendimento e nell’uso di abilità scolastiche, tali difficoltà persistono per almeno sei mesi nonostante la messa in atto di interventi mirati. Può essere compromessa la lettura (dislessia), l’espressione scritta (disortografia) o il calcolo (discalculia). In particolare la dislessia si riferisce ad un pattern di difficoltà di apprendimento, caratterizzato da problemi con il riconoscimento accurato o fluente delle parole, con scarse capacità di decodifica o spelling (DSM-5, APA, 2013).

 

Le cause dei disturbi specifici del linguaggio e dell’apprendimento

Alla base dello sviluppo del linguaggio e dell’apprendimento e dei suoi disturbi viene evidenziato l’effetto di diversi geni in interazione con fattori di tipo ambientale; questi ultimi risultano essenziali nel modulare l’espressione genetica dei disturbi del linguaggio e dell’apprendimento (Plomin e Kovas, 2005).

Tra i fattori ambientali descritti troviamo lo stato socio-economico della famiglia, l’età e la scolarità dei genitori, alcuni eventi critici nel periodo pre-peri/natale quali ad esempio rischio di aborto, fumo materno in gravidanza, parto cesareo, nascita prematura/basso peso alla nascita.

Esistono poi abilità neurofisiologiche e neuropsicologiche di base sottostanti all’acquisizione e alle difficoltà di linguaggio e dell’apprendimento; tra queste, il presente articolo si focalizza sulle abilità di elaborazione acustica.

Recenti ricerche hanno mostrato che adulti con disturbi del linguaggio (Heath et al., 1999; Oram Cardy et al., 2005) e bambini in età scolare (Tallal, 2004; MacArthur & Bishop, 2001) hanno difficoltà a decodificare stimoli uditivi in rapida successione. Ad esempio è emersa una compromissione nella discriminazione di sillabe che si succedono rapidamente (vedi Tallal 1998 per una review); inoltre tali difficoltà sono state riscontrate anche nella percezione di segnali uditivi rapidi di tipo non linguistico che si verificano entro decine di millisecondi (Benasich & Tallal 2002).Ciò fa ipotizzare la presenza di un’anomalia di base nella elaborazione acustica dei suoni (Lehongre et al., 2011), abilità che sembrerebbe quindi avere un ruolo cruciale nella costruzione del linguaggio (Choudhury & Benasich, 2011).

Citando Benasich e Tallal (2002) [blockquote style=”1″]Se i deficit di elaborazione trovati in bambini e adulti con disturbi specifici del linguaggio (DSL) precedono lo sviluppo di un disturbo della lettura o del linguaggio (invece di derivare da un uso errato del sistema fonologico), dovrebbe essere possibile individuare questi deficit nella prima infanzia esaminando la soglia infantile della elaborazione acustica rapida e determinando in seguito prospetticamente la relazione della soglia con lo sviluppo del linguaggio successivo e la sua compromissione.[/blockquote]

Lo strumento di indagine più utilizzato per indagare l’elaborazione acustica è quello dei potenziali evento correlati (ERP), misurati con l’elettroencefalografia(EEG). L’utilizzo di tale tecnica, essendo non invasiva, è ottimale su neonati con pochi mesi di vita e permette di misurare l’elaborazione acustica in modo passivo. Il paradigma utilizzato in questo tipo di studi generalmente prevede un campione di bambini di pochi mesi di vita i quali vengono esposti a una serie di stimoli acustici in un paradigma oddball. Questo paradigma prevede stimoli standard ai quali si alternano stimoli devianti che hanno lo scopo di elicitare potenziali evocati (ERP); di particolare interesse è la componente negativa denominata Mismatch Response, la quale viene elicitata senza che il soggetto presti attivamente attenzione agli stimoli e fornisce una misura delle abilità di discriminazione acustica.

Benasich e Tallal (2002) hanno condotto per la prima volta uno studio longitudinale per indagare se l’elaborazione acustica in bambini con pochi mesi di vita (circa 7,5) fosse legata allo sviluppo delle successive abilità linguistiche. I bambini sono stati divisi in due gruppi: bambini di controllo senza una storia familiare Disturbi specifici del linguaggio (FH-) e bambini provenienti da famiglie con una storia familiare di Disturbi specifici del linguaggio (FH+). Come le autrici si aspettavano, i risultati hanno mostrato che la soglia psicofisiologica al test di elaborazione acustica non verbale correlava con gli outcomes linguistici a 24 mesi: in generale, bambini con una soglia più alta (quindi un’elaborazione acustica più lenta) risultavano avere in seguito anche outcomes linguistici più poveri. Inoltre dai risultati è emersa una significativa differenza anche riguardo ai due gruppi di bambini: i bambini nati in famiglie con storie di Disturbi specifici del linguaggio hanno una soglia mediamente più alta rispetto ai bambini senza storia familiare.

Esistono numerosi altri studi che confermano la relazione predittiva tra le abilità di elaborazione acustica in bambini con pochi mesi di vita e con familiarità per i Disturbi specifici del linguaggio e lo sviluppo delle successive abilità linguistiche (Benasich et al., 2006; Choudhury & Benasich, 2003; Choudhury & Benasich 2011) e con familiarità per la dislessia (Leppanen et al., 2010; van der Leij et al., 2013). La ricerca è stata replicata anche da uno studio italiano di Cantiani e colleghi (2016), indagando oltre all’elaborazione acustica dei cambiamenti nella frequenza degli stimoli – come negli studi precedentemente citati- anche cambiamenti nella durata (per la quale tuttavia non sono emersi forti risultati).

Dallo studio è emerso che i risultati che riguardano la frequenza confermano quanto emerso nei precedenti studi (Benasich et al., 2006; Choudhury & Benasich, 2011), fornendo ulteriori dati cross-linguistici a supporto dell’ipotesi; inoltre, sempre in accordo con i risultati delle precedenti ricerche, è stato riscontrato che i bambini con un’elaborazione più rapida e con un’ampiezza maggiore dei potenziali evocati hanno una produzione di parole maggiore a 20 mesi; infine è emerso che il gruppo dei bambini a rischio per i disturbi del linguaggio e della lettura (FH+) mostrano un’ampiezza minore dell’onda Mismatch Response rispetto ai bambini di controllo.

La direzione di questi studi suggerisce che l’elaborazione acustica potrebbe essere un endofenotipo sottostante ai disturbi specifici del linguaggio e della lettura. La misurazione della soglia attraverso la metodologia EEG potrebbe quindi rappresentare un valido strumento per individuare un fattore di rischio precoce per lo sviluppo di questi disturbi e permettere quindi di attuare interventi di prevenzione più tempestivi e efficaci.

Una metafora dei nostri tempi: il peso del bicchiere d’acqua

Troppo stressati? Situazioni familiari o lavorative che mettono a dura prova i vostri nervi? Un’idea fissa vi impedisce di riposare? Pensateci, ma non troppo. Sembra esser questo il senso della storia del professore che un giorno si presenta a lezione con un bicchiere d’acqua tra le mani e, tra lo stupore e la sorpresa generale, domanda ai suoi studenti quale fosse il suo peso. Ricevendo le risposte più diverse e stravaganti.

Maurizio Bifulco, Eugenia C. Bifulco
Dipartimento di Medicina, Chirurgia e Odontoiatria “Scuola Medica Salernitana”, Università di Salerno, Baronissi (Sa)
CORPOREA- Fondazione Idis- Città della Scienza, Napoli.

 

La metafora del bicchiere d’acqua per pesare le preoccupazioni e il rimuginio

[blockquote style=”1″]Il peso assoluto del bicchiere d’acqua è del tutto irrilevante[/blockquote] li interrompe il professore.

[blockquote style=”1″]Ciò che conta davvero è per quanto tempo lo tenete sollevato! Sollevatelo per un minuto, e non avrete problemi! Sollevatelo per un’ora, e il braccio vi farà male. Sollevatelo per un’intera giornata e il braccio vi si paralizzerà! In nessun caso, il peso del bicchiere è cambiato! Eppure, più il tempo passa, più il bicchiere vi sembrerà pesante. Ecco, le preoccupazioni sono come questo bicchiere d’acqua: piccole o grandi che siano, ciò che conta è il tempo che dedichiamo loro. Se ad esse dedichiamo il tempo minimo indispensabile, la nostra mente non ne risentirà. Se, invece, ci pensiamo più volte durante la giornata, la nostra mente comincerà ad essere stanca e inquieta. Se, infine, pensiamo continuamente alle nostre preoccupazioni, la nostra mente si paralizzerà.[/blockquote]

Detto per inciso, si allude qui al sopravvenire di forme e modi di pensiero come il rimuginìo e la ruminazione. Il primo caratterizzato da schemi iterativi come credenze, immagini avversive e assunti disfunzionali consistenti in minacce e pericoli incombenti su diversi ambiti di significato (Beck & Clark, 2010), la cui percezione rende più acuta la consapevolezza della propria incapacità di farvi fronte, con l’innalzarsi dei livelli d’ansia che impongono strategie di coping come la soppressione del pensiero e la ricerca continua di rassicurazioni (Borkovec, 1994).

Il secondo, la ruminazione, che spinge la mente a focalizzarsi su un unico argomento, solitamente di natura regressiva (Gabbard, Del Corno & Lingiardi, 2010). Per tornare alla nostra storia, il professore concluse il proprio racconto esortando i suoi studenti a ricercare la serenità, imparando a dedicare alle preoccupazioni il minor tempo possibile, concentrandosi solo sui propri desideri e progetti e niente altro. In definitiva, a mettere giù il bicchiere d’acqua!

Quella del bicchiere d’acqua è una riflessione leggera e ironica, non certo banale, sul peso delle preoccupazioni e delle angosce che assediano la nostra esistenza quotidiana. Ciò che conta davvero, infatti, non è il numero di eventi che possono condizionare le nostre scelte, ma il modo in cui le leggiamo e le interpretiamo. In altre parole, non sono i contenuti cognitivi a generare emozioni come ansia e tristezza, quanto il tempo che vi dedichiamo. Proprio come un bicchiere d’acqua che, sebbene scarsamente pieno, metterà a dura prova la nostra resistenza muscolare se lo terremo sollevato per ore. La sua è un’utile metafora per i nostri tempi, che ripropone un’evidenza nota fin dalla notte dei tempi, ma troppo spesso ignorata. Cioè che l’ansia, proprio come la paura, è una reazione fisiologica di difesa o di attacco dell’organismo ad eventi esterni percepiti come pericolosi (LeDoux, 2015).

Entrambi rappresentano meccanismi adattivo-evolutivi finemente regolati, indispensabili per la sopravvivenza della nostra specie. La fuga o la difesa rappresentano armi a nostra disposizione per identificare situazioni o persone potenzialmente pericolose; anche se queste, come tali, in relazione alla loro funzione specifica, devono essere istantanee, in grado di innescare azioni tempestive e risolutive di fronte a insidie e pericoli (Gazzaniga, Ivry & Mangun, 2009). Al contrario, le condizioni d’ansia e preoccupazione finiscono per occupare un posto diverso, trasformandosi nell’oggetto più visitato dai pensieri, così presenti nel vissuto da impedire un normale svolgimento dei nostri compiti nell’ordinario fluire della vita.

Questo non vuol dire che sia necessario lasciarsi andare agli eventi del mondo che ci circonda: vuol dire diventare consapevoli che i fatti sono anche espressione dei significati e delle interpretazioni che noi assegniamo loro. Soprattutto, che le nostre condotte e i nostri stati emotivi sono, non di rado, l’esito di un fatto accaduto associato alle nostre interpretazioni (Rachman, 1997). Ogni nostra reazione è, infatti, condizionata da queste interpretazioni, dai comportamenti e dalle nostre conseguenti risposte emotive. Per non lasciarsi sopraffare occorre imparare a conferire a ciascuna vicenda la necessaria attenzione. Lo stesso può essere fatto a proposito di quelle circostanze in cui, pur se in qualche misura giustificata da precedenti negative esperienze, si sperimenta il timore del fallimento e dell’insuccesso (Mancini & Gangemi, 2002). “Non ce la faccio” è l’espressione più tipica che caratterizza questi momenti e che, proprio per la sua presenza ingombrante, impedisce il più delle volte l’azione che genera il cambiamento. La chiave di volta è nel concentrarsi su ciò che si può e si deve fare, più che su quel che non si vuole che accada (Johnson-Laird, Mancini & Gangemi, 2006). Come un cane che si morde la coda, o meglio per il cosiddetto ‘effetto Pigmalione’, la profezia che si autorealizza, si finirà per persuadersi della inevitabilità delle cose, ritrovandocisi per davvero.

 

Quando il ragionamento è utile e quando ci danneggia

Naturalmente va detto che, sebbene il ragionamento sia stato a lungo considerato fondamento della razionalità – costituito da entità oggettive, indipendenti da chi le pensa e diverse dalle rappresentazioni soggettive – non vi è alcuna evidenza che sia una facoltà superiore della mente. Originariamente, ratio indica proprio la capacità di scegliere i mezzi più adatti a perseguire uno scopo. Qualcosa, cioè, non di razionale in sé, ma solo relativo a uno scopo (Simon, 1983). In questo senso, l’orizzonte della razionalità è ben più ampio di quello della logica formale tradizionalmente intesa. Tra la logica e la ricerca di mezzi e condotte più idonee per la sopravvivenza vi è una stretta relazione. Gli sviluppi recenti delle scienze cognitive hanno rimesso in questione questa idea di razionalità (Gigerenzer, 2009). Si è visto cioè che, nelle nostre azioni, intervengono fattori extracognitivi come la valutazione emotiva del rischio, la perseveranza, il timore per le conseguenze di un’azione, la tolleranza alle frustrazioni, il coraggio, l’autostima e così via.

Se non ripensassimo tutto questo, anche alla luce delle evidenze neuroscientifiche, ogni descrizione di noi stessi e della nostra vita psichica continuerebbe a essere approssimativa. Tramontata la stagione che considerava la razionalità (espressione della corteccia cerebrale) come il vertice assoluto della vita psichica, oggi questa (e di conseguenza l’unità dell’Io) ci appare come un prisma dalle molteplici facce: un insieme di stati fisiologici e di identità transitorie e fluttuanti (Scott, 1995). I nostri stessi giudizi razionali e morali, da sempre considerati fulcro della nostra soggettività, appaiono movimenti di superficie di attività profonde, complesse e instabili.

Nei prossimi anni saremo chiamati a farci seriamente i conti con il mistero ancora insoluto del corpo, proprio come dovremo rifare i conti con la nostra soggettività. Questa non vive, secondo la bella immagine di Frege su un’isola deserta in un mare di ghiacci, molto prima dell’uomo. Non è indipendente dalle attività di pensiero. Essa nasce nel corpo. È il corpo a conferirle l’identità, che è ben più fluttuante e precaria di quanto non si sia ammesso sin qui. Il sentimento che abbiamo di ‘essere un soggetto’ è ritmato da discontinuità, intermittenze, variazioni (Oliverio, 2009). La stessa distinzione tra mondo esterno (cui attribuiamo una realtà viva) e mondo interiore (cui attribuiamo un’esistenza soggettiva) è una costruzione della mente, non un dato di natura (Gazzaniga, 2013). La consapevolezza di questa pluralità originaria non è solo la premessa per la cura del nostro disagio, ma ci consente di affrontare la paura della morte, guarire le nostre ferite e vivere pienamente il nostro presente.

 

Ringraziamenti

Si ringraziano il prof. Paolo Valerio e il Dott. Mauro Maldonato per la revisione critica dell’articolo.

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