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Il counseling filosofico: alcune domande provocatorie

I corsi di counseling filosofico sembrano suscitare un crescente interesse, a fronte del quale sembra necessario porsi qualche interrogativo, tanto sulla legittimità dello strumento, quanto sul suo significato dal punto di vista socio-culturale.

 

Personalmente mi sento autorizzato a esprimere un’opinione in materia di counseling filosofico per aver compiuto studi sia di carattere filosofico che psicologico (sono laureato in filosofia e psicologia, ho conseguito un dottorato di ricerca in storia della scienza e ho seguito corsi di specializzazione che mi hanno condotto alla qualifica di psicoterapeuta; attualmente insegno Psicologia dinamica e Filosofia della scienza presso l’Università di Roma “Tor Vergata”).

Non è quindi un preconcetto nei confronti della filosofia a spingermi ad avanzare dubbi e obiezioni verso il counseling filosofico. Sono anzi convinto che lo studio della filosofia sarebbe imprescindibile ai fini della formazione di uno psicologo. Sono però altrettanto convinto che la filosofia di per sé non basti a formare un ‘terapeuta’, a qualunque significato si voglia piegare questo termine. Vi propongo quindi alcune questioni sulle quali ritengo importante dibattere.

 

Counseling filosofico e strumenti diagnostici

Chi fornirà al counselor gli strumenti diagnostici necessari per sapere se e come procedere al counseling?

Prima ancora di chiederci se il counselor filosofo sia in condizione di aiutare qualcuno bisogna chiedersi come possa evitare di causare dei danni. La formazione dello psicologo clinico comprende come aspetto essenziale l’acquisizione di strumenti diagnostici per accertare l’eventuale presenza di psicopatologie gravi o potenzialmente gravi a carico della persona che a lui si rivolge. Si tratta di un sapere assolutamente necessario perché, ogni volta che si instaura una relazione di aiuto, un errore può comportare dei rischi: e un errore può anche consistere nella semplice decisione di commentare quello che l’altro dice. Basta provare a interpretare troppo precocemente il contenuto di quanto vi racconta uno psicotico compensato (che non è per niente facile da individuare al primo sguardo) o un soggetto borderline.

Il rischio nel primo caso può essere un simpatico delirio (auguri di buon proseguimento!) e nel secondo caso può consistere in un altrettanto simpatico acting out, in una gradazione molto varia che può andare da un pugno in un occhio a un tentativo suicidario differito. Si tratta ovviamente di casi limite, ma situazioni nelle quali un errore diagnostico conduce a una prassi terapeutica sbagliata e di conseguenza provoca ferite psicologiche sono tutt’altro che infrequenti. Si dirà che anche gli psicologi clinici sono soggetti a errori e questo è vero. Tuttavia lo psicologo clinico segue un corso di laurea nel quale apprende strumenti diagnostici, segue un tirocinio di un anno che serve a mettere in pratica gli insegnamenti e deve superare un esame di stato che mette alla prova le sue competenze in questo stesso ambito: tra l’altro si tratta di uno degli esami di stato più selettivi che ci siano.

Lo psicoterapeuta aggiunge a questa formazione di base altri quattro anni di specializzazione. Se sbaglia chi ha una tale formazione, cosa farà chi questi strumenti non li apprende in modo approfondito e, presumibilmente, neanche superficiale? Noto per inciso che la legge (non per caso) autorizza solo gli psicologi ad applicare gli strumenti di cui sopra.

Posso essere d’accordo, in linea di principio, con chi sostiene che la malattia mentale è frutto della nostra civiltà etc., etc. Il guaio è che noi in questa civiltà ci viviamo e non possiamo prescinderne. Chi incontra uno psicotico incontra “uno psicotico”, prima che “una persona che in un contesto non dominato dalla téchnē avrebbe dei connotati umani differenti”. Provare per credere.

Qualcuno argomenta che il counseling filosofico si ponga come una forma di intervento ‘diversa’ qualitativamente dalla psicoterapia. Personalmente ritengo che difficilmente esista una terza via: o il counseling non è una relazione di aiuto o lo è. Nel primo caso non è nulla, o nulla più di una conversazione amichevole (a pagamento); nel secondo si instaura comunque una relazione di tipo transferale tra fruitore e praticante (ovvero, una relazione nella quale il primo attribuisce al secondo la capacità di capirlo e aiutarlo). E quando si instaura questo tipo di relazione, si corrono tutti i rischi che corre la clinica psicoterapeutica.

 

L’utilità del counseling filosofico

Come potrà essere utile a qualcuno il counseling filosofico?

Posto che il counselor possa non danneggiare il suo cliente, come è possibile provare che sia in grado di aiutarlo? Già sento filosofi che cominciano a mettere in questione la possibilità di parlare di verità, efficacia e così via. Non ho intenzione di proporre argomenti contro chi sostiene che (a) non c’è bisogno di prove di alcun tipo o che (b) quando si ha a che vedere con il vissuto umano soggettivo non esistono prove in senso stretto. Se il counseling filosofico si basa su un’epistemologia allegramente post-moderna, allora è semplice chiacchiera.

Vogliamo dire che sarà il mercato a fare giustizia? A prescindere dal fatto che pensare che debba essere il mercato a decidere della bontà di un sistema terapeutico mi sembra oltraggioso di per sé, di fatto nel mercato sono presenti elementi di aberrazione le psicosette: queste realtà hanno un grande successo nel mondo, anche se il successo procede di pari passo con la rovina di coloro che ne vengono risucchiati. Il mercato non ha cancellato né maghi, né astrologi ma questo non mi pare una prova a favore della magia o dell’astrologia.

Parliamo allora di prove di efficacia. All’inizio del secolo scorso la psichiatria e la psicoterapia brancolavano nel buio, e per decenni non è stato neanche pensato un progetto di ricerca per stabilire se le rispettive terapie ‘funzionassero’: si riteneva sufficiente suffragare l’efficacia dei sistemi terapeutici illustrando singoli casi clinici per i quali la terapia avesse condotto i pazienti a un miglioramento.

Oggi le cose stanno diversamente: consiglio, per informazioni al riguardo, la lettura di Psicoterapie e prove di efficacia di Roth e Fonagy (Il pensiero scientifico, Roma) e la consultazione di riviste internazionali come Psychotherapy Research. Persino la psicoanalisi, che non ha certo mai brillato per voglia di confrontarsi con il metodo scientifico, ha cercato di mettersi al passo, come testimonia l’Open Door Review of Outcome Studies in Psychoanalysis, che si trova anche su internet. Chi voglia proporre uno strumento terapeutico oggi, senza produrre nessuna prova dei suoi effetti, o ha le idee poco chiare o non è in buona fede. A maggior ragione quando non sembra esserci neanche una particolare disponibilità di resoconti di casi clinici condotti a buon esito (che, insisto, di per sé non costituiscono una prova scientifica in senso stretto, se non soddisfacendo gli standard moderni della ricerca single case).

 

Counselling filosofico: ricezione passiva o critica?

La filosofia aiuta di più attraverso la ricezione passiva delle idee o attraverso la capacità di prendere posizione critica in prima persona rispetto ai testi?

I casi sono due: o il potenziale fruitore del counseling filosofico è in grado di capire le idee filosofiche che gli verranno comunicate o non lo è. Nel primo caso mi permetto di esprimere qualche dubbio sulla possibilità che la filosofia possa in qualsiasi modo essergli di aiuto o conforto se non ex auctoritate. Nel secondo caso mi permetto di instillare nel lettore un dubbio: non sarebbe per tale fruitore più importante seguire dei corsi che gli permettano di impadronirsi della capacità di leggere i testi in prima persona, piuttosto che ascoltare qualcuno che gli fornisca un’etica già pronta, un’ontologia già pronta?

In altre parole, attraverso il counseling filosofico, la filosofia non rischia di diventare dogma, proprio il contrario di ciò che è per natura?

L’argomento, si badi, non può essere rovesciato: il testo filosofico si offre direttamente alla lettura di tutti (al di là delle difficoltà ermeneutiche), mentre il testo psicologico comunica un sapere tecnico, indirizzato fondamentalmente al tecnico (salvo quando non si tratti di un libro di pura divulgazione): non sono più i tempi di Freud.

 

La filosofia tra le professioni d’aiuto?

Ma la filosofia deve proprio “servire” a qualcosa?

Uno dei dubbi che personalmente suscita in me la nascita del counseling filosofico è legato alla possibilità che tra le motivazioni vi sia l’ansia di dimostrare che la filosofia “serve” a qualcosa in senso stretto, cioè che il sapere filosofico possa essere immediatamente utilizzabile. Siamo veramente arrivati a questo punto? Forse che la filosofia deve cercare di confrontarsi con la ricerca scientifica (tra l’altro in modo ingenuo, perché la scienza tende quando possibile alla ricerca pura, senza implicazioni e applicazioni pratiche immediate)?

Se i filosofi devono dimostrare di servire a qualcosa, allora veramente si può temere che la filosofia sia vicino alla sua fine.

In ogni caso, che speranza avranno i counselor di inserirsi sul mercato delle professioni d’aiuto?

Il numero degli psicologi e psicoterapeuti regolarmente presenti negli Albi professionali supera la somma totale delle figure professionali simili, in tutto il resto d’Europa. Che speranza abbiano i filosofi di inserirsi in questo mercato (fatti salvi i distinguo di cui sopra) è difficile dire. Il mio personale dubbio di fondo, a questo punto, è che chi veramente potrà guadagnare qualcosa dai corsi per diventare counselor saranno piuttosto i docenti che i partecipanti, e che la motivazione per la nascita di tutto il movimento sia umana, troppo umana. A mio avviso, coloro che alimentano le speranze dei laureati in filosofia proponendo corsi per diventare counselor dovrebbero fare i conti con la loro coscienza (posto che questo termine abbia ancora un significato filosofico).

 

Acufeni: Manuale di sopravvivenza secondo la terapia cognitivo comportamentale (2012) – Recensione

La Terapia Cognitivo Comportamentale insegna ai pazienti a convivere con gli acufeni. Ritengo il libro utile ai pazienti per avvicinarsi ad un trattamento basato sulla Terapia Cognitivo Comportamentale, ma prezioso anche per lo specialista che può affinare le sue tecniche e adattarle a questo specifico disagio.

 

 

L’acufene è un suono (ronzio, fischio, fruscio o simile) anche di forte intensità, che può essere percepito in una o in entrambe le orecchie, o all’interno della testa. Spesso le cause della sua insorgenza sono sconosciute e non è necessariamente associata una perdita dell’udito.

L’acufene, come potete immaginare, è un coinquilino fastidioso, si fa notare. Organizza feste con gli amici senza autorizzazione da parte nostra, allaga il bagno quando fa la doccia, non lava i piatti, entra nella nostra camera quando vogliamo stare soli. I pazienti mi dicono spesso: “no, io non voglio averlo, non voglio abituarmi, non voglio conviverci!”. Purtroppo a noi specialisti non hanno dato una bacchetta magica durante la formazione. Sarebbe bello poter pronunciare “bidibi bodibi bù” e sentirci dire “ha funzionato! Non sento più nulla!”. Il coinquilino ha fatto le valigie e ha deciso di andarsene.

I pazienti che ho visto nella mia esperienza clinica, specialmente in fase acuta (nei primi sei mesi dall’insorgenza dell’acufene), si rivolgono a diversi specialisti, anche ripetendo gli stessi controlli (vedi ad es. l’esame audiometrico) per trovare una cura semplice, veloce ed efficace per eliminare del tutto il fastidio. E la frase che mi ripetono spesso è: “il medico mi ha detto che me lo devo tenere!”. Ovvio, loro non vogliono. Questa frase è la peggiore che potevano aspettarsi. Per questo poi cambiano specialista, perché non riescono ad arrendersi a questa idea.

Mi vengono in mente le equazioni del liceo; stai lì ore nel pomeriggio a cercare di completarne una in particolare, perdi energie e tempo e poi alla fine la soluzione che leggi sul libro è: “impossibile”. Il punto qual è? Per arrivare a quella “non-soluzione” dobbiamo comunque svolgere tutta l’equazione, rifarla se il risultato non torna, magari confrontarci con i compagni di classe, sperimentare la frustrazione mettendo a dura prova le nostre abilità matematiche. A volte questo è l’acufene. Il paziente fatica tanto per cercarne la soluzione, si rivolge a tutti i centri specializzati che conosce, si informa su internet, prova a prendere farmaci o integratori, ma alla fine non la trova, o meglio, capisce che quella frase detta in malo modo dal dottore di turno è vera. Ma più che dirsi semplicemente “me lo devo tenere”, il pensiero man mano si trasforma in “ho capito che è necessario adattarmi, voglio conviverci”. Ed è in questo momento di consapevolezza che il paziente si rivolge al terapeuta. Alcune persone fin da subito sono pronte a impegnarsi e collaborano attivamente. Altre, spesso ostacolate da specifici tratti di personalità o disturbi d’ansia o dell’umore, necessitano di un lavoro più lungo e centrato sulle problematiche psicologiche/psichiatriche annesse.

 

Acufeni: manuale di sopravvivenza secondo la terapia cognitivo comportamentale

Mentre sistemo i miei libri sullo scaffale mi capita tra le mani il manuale di auto-aiuto “Acufeni: manuale di sopravvivenza” (Springer-Verlag Italia, 2012) scritto da Henry e Wilson che cerca di dare ai pazienti una risposta al problema che sia realistica e accettabile. Il manuale è basato sulla terapia cognitivo comportamentale (TCC) che è una delle poche tecniche che rientra tra le recommendations delle linee guida dell’American Academy of Otolaryngology – Head and Neck Surgery (Tunkel et al., 2014).

La Terapia Cognitivo Comportamentale insegna ai pazienti a convivere con il suono.
Ritengo il libro utile ai pazienti per avvicinarsi ad un trattamento basato sulla Terapia Cognitivo Comportamentale, ma prezioso anche per lo specialista che può affinare le sue tecniche e adattarle a questo specifico disagio.

Il manuale offre una psicoeducazione puntuale sul disturbo e descrive nel dettaglio gli esercizi pratici da svolgere. Interessanti e utili i materiali scaricabili dal sito della Springer: un file audio per il rilassamento progressivo muscolare e i moduli di monitoraggio degli esercizi proposti.
Si parte, come di consueto nella Terapia cognitivo comportamentale, dal riconoscimento dei pensieri e delle emozioni con il modello ABC e la conseguente ristrutturazione cognitiva.

Nella pratica clinica intendiamo con l’espressione “ristrutturazione cognitiva”, la modificazione del contenuto di un pensiero. Facciamo un esempio preso direttamente dal manuale. Un paziente con acufeni può pensare “gli acufeni mi impediscono di godermi la vita”. Questo è il pensiero disfunzionale, quello costruttivo è invece “a volte gli acufeni sono fastidiosi, ma molte altre cose mi danno ancora piacere”.

La ristrutturazione cognitiva a volte può funzionare, altre no. Mi è capitato di proporre esercizi simili e sentirmi dire cose del tipo: “si certo sembra facile! Voglio vedere lei a stare tutto il giorno con questo fischio!”. In questo caso è necessario intervenire prima sull’accettazione. Il paziente, come osservavo precedentemente, non vuole intervenire per convivere con gli acufeni ma vuole la sua eliminazione (ben comprensibile). E la sua mente è impegnata costantemente alla ricerca di soluzioni definitive o a raffigurarsi un futuro catastrofico. Spesso è più il tempo che il paziente passa a pensare agli acufeni, che interferiscono con le attività quotidiane e il sonno, che il suono in sé. In questo caso la terapia metacognitiva e e la mindfulness sono sicuramente strumenti più efficaci. Nell’edizione originale del 2002 non vengono trattate ma si tratta di approcci essenziali per lavorare sul processo cognitivo (sul come penso, e non sul cosa, penso) e sull’accettazione.

Il manuale prosegue poi con la descrizione delle tecniche di rilassamento e di controllo dell’attenzione. Queste ultime sono interessanti e coinvolgono gli stimoli corporei, gli stimoli esterni e anche l’immaginazione per spostare l’attenzione su qualcosa di piacevole o neutro. Uno degli esercizi di immaginazione che trovo divertente è quello di includere il suono dell’acufene in uno scenario immaginato piacevole. Per esempio mi è stato riportato da alcuni pazienti un acufene molto simile al suono delle cicale. Nello scenario in immaginazione si potrà visualizzare un bel posto immerso nella natura, in un pomeriggio estivo, seduti in giardino su una sedia a dondolo a sorseggiare una bibita fresca, il vento leggero che sentiamo tra i capelli, la luce del tramonto e appunto il suono delle cicale.

Trovo estremamente importante l’ultima parte del libro dedicata allo stile di vita. Spesso le persone con acufene modificano completamente la loro quotidianità in base al disturbo: “oggi il fischio è lieve posso uscire con le mie amiche” oppure “il ronzio è alle stelle non vado in palestra”. E’ qui che subentra l’aspetto depressivo. I piaceri di prima vengono, a volte, eliminati e alla lunga questi limiti abbassano il tono dell’umore. Non ci si sente più come prima, non ci si sente più gli stessi, ci si sente impossibilitati a fare. Una delle tecniche utilizzate nel manuale per attivare il paziente consiste, attraverso esercizi di autovalutazione, nell’individuare degli eventi piacevoli da inserire in un programma dettagliato di attività quotidiane.

 

I limiti del manuale

Il libro offre tante e diverse alternative per agire ma con i limiti classici di un libro self-help. Innanzitutto un paziente con problematiche più impegnative, come descritto precedentemente, sarà scettico e resistente nel mettere in atto gli esercizi indicati. Per tutti i lettori non esperti ritengo la lettura impegnativa, sia per la comprensione stessa del razionale sottostante, sia per la mole di materiale proposto. Mi sembra infine superfluo ribadire l’importanza di un rapporto terapeutico, di un incontro con l’altro che modula, ci fa da specchio, ci mostra un punto di vista diverso, ci offre un confronto.

Per questi motivi ritengo essenziale l’incontro con un terapeuta: il manuale può essere un valido strumento da utilizzare nel lavoro terapeutico, ma non un sostituto. Ricordando che si lavora sempre per un unico obiettivo: il coinquilino, ahimè resta, ma nelle feste che organizza ora siamo invitati e portiamo anche un po’ di birra; per l’acqua in bagno possiamo rimediare con un tappetino; lo schema con i turni per i piatti è appeso in cucina e quando siamo in camera a rilassarci appendiamo un cartello con su scritto “DO NOT DISTURB”.

Il metodo sperimentale in psicologia generale – Introduzione alla Psicologia

L’applicazione del metodo sperimentale in psicologia generale permette l’individuazione delle relazioni esistenti tra uno stimolo fisico e la percezione sensoriale da esso derivante. Questa relazione può essere studiata e verificata in laboratorio e può essere supportata da dati numeri che rappresentano il grado e l’intensità della relazione esistente tra i fenomeni osservati.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Metodo sperimentale e psicologia

Quando si parla di metodo sperimentale si è soliti riferirsi a una prassi strutturata e estremamente controllata. Essa consiste nel formulare una serie di ipotesi, che verranno poi verificate, confermate o disconfermate empiricamente, a cui eventualmente segue la generalizzazione del risultato ottenuto. Quest’ultimo può essere postulato in una legge sul funzionamento generico di un dato fenomeno oggetto di studio.

Per acquisire conoscenze attendibili e tangibili gli psicologi applicarono, e applicano tuttora, il metodo sperimentale ai fenomeni psichici. Grazie all’applicazione del metodo sperimentale in psicologia è stato possibile osservare e registrare accuratamente un evento in tutte le sue manifestazioni sia psichiche sia comportamentali.

La psicologia generale spesso è definita anche psicologia sperimentale. Essa rappresenta la branca della psicologia in cui si applica la ricerca scientifica alle funzioni psicologiche di base. Quindi lo scopo è studiare, applicando la metodologia sperimentale la mente e il comportamento.

 

Il metodo Sperimentale in psicologia generale

L’applicazione del metodo sperimentale in psicologia generale permette l’individuazione delle relazioni esistenti tra uno stimolo fisico e la percezione sensoriale da esso derivante. Questa relazione può essere studiata e verificata in laboratorio e può essere supportata da dati numeri che rappresentano il grado e l’intensità della relazione esistente tra i fenomeni osservati.

La psicologia generale diventa sperimentale, dunque, quando si avvale del metodo sperimentale (verifiche, prove, test, simulazioni…) e della statistica (psicometria), la quale permette di quantificare la grandezza di un dato fenomeno studiato. La psicologia generale è scientifica nel momento in cui studia i fenomeni mentali in maniera strutturata e seguendo la prassi tipica del metodo scientifico.

In questo ambito, dunque, l’oggetto di studio può essere il comportamento, la percezione, le emozioni, la memoria, il linguaggio, la personalità, e molte altre funzioni e processi mentali.

Applicare il metodo sperimentale in psicologia generale significa  osservare i fenomeni psichici (percezione, intelligenza, memoria, etc) e i comportamenti, da essi derivanti, in maniera oggettiva grazie all’attuazione di rigide procedure molto strutturate, tipiche del metodo sperimentale. Le diverse caratteristiche di un fenomeno psichico saranno considerate variabili e possono essere direttamente manipolate dallo sperimentatore o semplicemente osservate nell’ambiente in cui si verificano. Queste variabili in alcune condizioni è possibile tenerle sottocontrollo per garantire una accurata registrazione di quanto si riscontra in determinate circostanze in cui il fenomeno si è presentato; in altre situazioni è possibile osservarle senza manipolarle.

 

La storia della psicologia sperimentale

La psicologia sperimentale si è costituita come disciplina autonoma intorno alla seconda metà dell’Ottocento con Wilhelm Max Wundt. Per Wundt la psicologia è la scienza dell’esperienza e il metodo della psicologia deve essere quello sperimentale, basato sull’auto-osservazione o introspezione, condotta in maniera sistematica, ovvero come una ricerca scientifica.

Quindi, secondo Wundt è possibile studiare l’esperienza attraverso un processo di conoscenza sistematico volto alla comprensione degli elementi di cui è costituita, individuandone le relazioni esistenti e ricavando da essi delle regole generali che spiegano il loro funzionamento.

Nel 1873-74 fu pubblicata la prima edizione del libro “Fondamenti di psicologia fisiologica“, che può essere considerata la prima opera sistematica della psicologia scientifica moderna e nel 1879 Wundt fondò il primo laboratorio di psicologia sperimentale a Lipsia. In questo laboratorio Wundt e i suoi collaboratori eseguivano ricerche in quattro campi di indagine diversi: la psicofisiologia dei sensi, in particolare della vista e dell’udito, i tempi di reazione, la psicofisica e l’associazione mentale.

Per Wundt osservare in maniera scientifica consisteva nel determinare quando è il momento di iniziare il procedimento sperimentale, ripetere l’operazione parecchie volte e individuare le condizioni che devono essere suscettibili a manipolazione o controllate. L’oggetto della psicologia per Wundt è lo studio dell’esperienza che fa parte della coscienza intesa come prodotto mentale. Per questo, la prassi era: analizzare i processi coscienti scomponendoli nei loro elementi costitutivi o variabili, individuare le possibili connessioni tra le variabili, e formulare leggi di combinazione tra le variabili. Da qui, nasce un intero filone di ricerca sui fenomeni psichici, tra cui ricordiamo gli studi sperimentali sulla memoria messi a punto da Ebbinghaus.

Egli realizzò numerose ricerche sulla memoria grazie alle quali riuscì a formulare la “legge di Ebbinghaus”, secondo la quale esiste un rapporto costante tra il numero di informazioni da memorizzare e il tempo di apprendimento. Inoltre, egli fondò due laboratori di psicologia ed il Giornale di fisiologia e psicologia degli organi di senso, una delle prime e più importanti riviste scientifiche di psicologia. L’approccio di Ebbinghaus alla memoria è definito associazionismo e i suoi studi a tutt’oggi risultano ancora molto utilizzati.

Un altro psicologo che ha contribuito alla nascita della psicologia sperimentale è stato Theodor Gustav Fechner. Egli riuscì a individuare le leggi che governano i rapporti tra stimolo fisico e sensazione. Fechner sostenne che ciò che determina il rapporto tra la mente e il corpo può essere individuata nella relazione, intesa in termini quantitativi, tra la sensazione mentale e lo stimolo materiale. Gli effetti dell’intensità degli stimoli non sono assoluti, bensì relativi alla quantità di sensazioni esistente in quel momento. Ad esempio, se si aggiunge il suono di un campanello a uno già esistente, si ottiene un aumento di percezione sensoriale che intensifica la percezione dello stimolo.

In psicologia generale è rilevante anche il comportamentismo, approccio concettuale che dà rilevanza a ciò che è oggettivo e misurabile a livello di comportamento osservato. Il maggiore esponente del comportamentismo è Watson, che individua nel comportamento l’oggetto dell’indagine psicologica. Il comportamento può essere osservato e misurato attraverso degli esperimenti che permettono di individuare modalità di funzionamento tramite la messa a punto di uno schema del tipo stimolo-risposta (S-R). Quindi, lo scopo era individuare le leggi che regolano la relazione tra stimolo e risposta o viceversa, rendendo in questo modo scientifico lo studio del comportamento.

Le conseguenze di tale approccio sono che l’individuo può essere manipolato e costruito dal suo esterno (comportamento), persino contro la sua dignità e il suo interesse. Watson riuscì ad applicare questo meccanismo di funzionamento anche per spiegare le emozioni e i pensieri. Egli sosteneva che i desideri, i piaceri e i sentimenti erano supplementi che accompagnano il comportamento, ma non hanno un ruolo causale. Ad esempio una persona che si volta in una direzione lo fa perché stimolata da qualcosa, a livello sensoriale, di visivo, acustico, o termico, e non perché decide di girarsi in maniera volontaria.

 

Gli esperimenti e le tecniche della psicologia generale

La psicologia generale, dunque, si focalizza notevolmente sullo studio dei processi cognitivi, e quindi rappresenta il contesto epistemico principale per gli studi di psicologia sperimentale. Per questo, si svolgono di prassi numerosi esperimenti volti a percepire il funzionamento psichico attraverso compiti sperimentali, accuratamente selezionati, in grado di individuare le caratteristiche che compongono il fenomeno studiato. Si tratta di compiti riprodotti al computer e capaci di far evincere a esempio come funziona la percezione in relazione al processamento dell’informazione in ingresso. Uno dei compiti utilizzati in questo caso specifico potrebbe essere costituito dal famoso effetto stroop che consente di selezionare o escludere l’informazione saliente attraverso la stimolazione visiva di parole colorate.

In psicologia generale si utilizzano tuttora metodiche e strumenti tipici della psicologia sperimentale, come le metodologie di derivazione comportamentista (stimolo-risposta), la misurazione dei tempi di reazione o la psicofisica comportamentale.

La psicologia generale, inoltre, è sempre più influenzata delle neuroscienze, e in questo caso la ricerca utilizza sempre più di frequente le tecniche elettrofisiologiche, ad esempio i potenziali evocati evento correlato nello studio dei processi cognitivi come il linguaggio, o le neuroimmagini. Notoriamente, queste ultime sono utilizzate in neuropsicologia, ambito in cui si utilizza molto la simulazione dei processi cognitivi attraverso compiti riprodotti al computer mentre il soggetto è, per esempio, in Risonanza magnetica funzionale per registrare l’attività che si verifica in una determinata area cerebrale.

La psicologia generale, per concludere, rappresenta un ambito di studio specifico della psicologia, ovvero quello in cui si applica il metodo scientifico allo studio dei fenomeni mentali.

 

 

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

La Psicoterapia Cognitiva nel cancro: guarire l’anima al di là della chemioterapia

La psicoterapia cognitiva è stata pioniera nel stabilire diverse modalità di intervento in casi di cancro, tra le più importanti troviamo la terapia psicologica adiuvante di Moorey e Greer e l’approccio per la promozione della resilienza.

Romina Edith Monteleone – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La necessità di un approccio psicosociale alla cura dei tumori

L’approccio psiconcologico nasce alla fine degli anni Settanta seguendo quella prospettiva integrata di rete che oggi ritroviamo nei Chronic Care Model. (Biondi, 1995)

La neoplasia si costituisce, infatti, come l’elemento scatenante di una crisi globale, di una modificazione dell’ambiente psicologico e dell’ambiente sociale, tale da determinare un clima paralizzante d’isolamento e da assumere un significato di minaccia alla propria esistenza, integrità, identità e ruolo. Pazienti e operatori si trovano normalmente a confronto con i grandi dilemmi dell’esistenza che il cancro e la malattia oncologica implicano:

  • vita/morte;
  • salute/malattia;
  • piacere/sofferenza;
  • giustizia/ingiustizia;
  • condivisione/solitudine;
  • reagire/subire;
  • conoscere/scegliere di ignorare.

Di conseguenza nasce nel 1982 da parte dell’European Organization for Research and Treatment for Cancer (EORTC) il riconoscimento della necessità di un’integrazione tra variabili fisiche e variabili psicosociali nel trattamento del cancro, portando l’ oncologia sempre più al di fuori degli ospedali. Secondo tale prospettiva, anche le ricerche in campo psiconcologico, contribuiscono a rappresentare con maggiore sensibilità le reciproche influenze tra malattia organica e disagio psicologico (Age.Na.S. Agenzia Nazionale per i Servizi Sanitari Regionali, 2001)

Le tematiche psiconcologiche sono infatti presenti in tutte le fasi del percorso assistenziale, dalla prevenzione alla fine della vita e le occasioni di intervento psiconcologico possono avvenire in contesto ospedaliero, territoriale o a domicilio, con il possibile coinvolgimento di tutta la rete socio-assistenziale del paziente malato di cancro nel suo complesso.

Nell’ attualità esistono oggi tre linee di indirizzo teorico:

  1. La prima indaga sulle componenti psicosomatiche del cancro, con studi sullo stress, depressione e profilo di personalità; (Pasquini M. et al., 2006)
  2. La seconda studia le varie modalità di approccio psicoterapeutico e psicometrico e di assistenza per una migliore qualità della vita; ( Milanesi E. et al, 2005)
  3. La terza, ancora in fase di sperimentazione, è l’area della formazione, atta a ricostruire, nel quadro delle istituzioni competenti, i livelli di specializzazione, sia sotto il profilo teorico-professionale che umano, che si rendono concretamente necessari.( Janz NK et al, 2004)

 

Psicoterapia cognitiva per l’intervento in oncologia

La psicoterapia cognitiva è stata pioniera nel stabilire diverse modalità di intervento. In seguito proporremo le più innovative e quelle che hanno il supporto delle ricerche scientifiche.

Tra le ricerche più rilevanti in tema di psicoterapia cognitiva e cancro, troviamo quelle di Dunkel-Schetter e colleghi (2012), e  Egeland B, Carlson E, Sroufe A (2013) i quali hanno evidenziato in donne con cancro al seno operate e sopravvissute, una correlazione positiva tra ricerca attiva di supporto sociale (resilienza) e stile cognitivo-comportamentale di evitamento. Sempre in tema di psicoterapia cognitiva e cancro, un’indagine longitudinale precedente aveva evidenziato, nei pazienti ad alto rischio, specifici deficit di coping. Tali pazienti non mostravano in generale un maggior numero di problemi rispetto agli altri, ma modalità comportamentali inadeguate di affrontarli (repressione, passività e stoica sottomissione) ed un’incapacità a produrre una serie alternativa di strategie di adattamento. I pazienti a “basso rischio” disponevano invece di uno stile di coping flessibile e differenziato, caratterizzato da modalità di confronto, capacità di ridefinizione dei problemi e maggiore capacità di complicance con gli operatori sanitari.

Psicoterapia cognitiva e cancro: la terapia psicologica adiuvante di Moorey e Greer

Una delle più recenti applicazioni della psicoterapia cognitiva per la cura del cancro è la terapia psicologica adiuvante (Adjuvant Psychological Therapy, APT), messa a punto da Greer e Moorey in Gran Bretagna al Royal Marsden Hospital di Sutton. Viene definita adiuvante proprio perché può essere somministrata in concomitanza e come completamento del trattamento medico. La terapia psicologica adiuvante è molto efficace nel trattamento dei disturbi dell’adattamento (coping) con ansia e depressione ed è indicata per la fase iniziale del cancro e per pazienti con diagnosi recente di recidiva. Nell’applicazione della psicoterapia cognitiva per la cura del cancro di Moorey e Greer, si cerca di rilevare le differenti modalità di far fronte a eventi stressanti, studiando i fattori predittivi delle strategie di coping adeguate in relazione a componenti psicopatologici di personalità.

Un ciclo di terapia consiste in 6-12 sedute a cadenza settimanale di 50 minuti ognuna. Generalmente il setting è individuale, ma può essere previsto anche un intervento sulla famiglia al fine di migliorare la comunicazione tra i membri. Per quanto concerne i trattamento famigliare i punti da tenere in considerazione si possono riassumere in:

  • Istituzione di un sistema terapeutico multidisciplinare, caratterizzato dalla collaborazione attiva fra le diverse figure professionali e dall’integrazione fra le competenze; tale sistema dovrà interagire con quello paziente-famiglia;
  • Necessità di una buona conoscenza delle variabili “critiche” chiamate in causa nella reazione emozionale della famiglia al cancro, sulla quale si costruisce un profilo di adattamento o disadattamento alla malattia;
  • Identificazione di una figura significativa del sistema familiare o extrafamiliare sulla quale agire per l’attivazione delle funzioni di supporto (caregiver).

 

Psicoterapia cognitiva per promuovere la resilienza del malato oncologico

Un’altra importante prospettiva della psicoterapia cognitiva per la presa in cura del malato oncologico è l’analisi e la promozione del costrutto di resilienza. Per la medesima si intende dunque la capacità di una persona o di un gruppo di svilupparsi positivamente, di continuare a progettare il proprio futuro, a dispetto di avvenimenti destabilizzanti, di condizioni di vita difficili e di traumi anche severi (Aspinwall LG, Clark A (2005).

Il termine resilienza implica due aspetti: la resistenza ad un trauma, ad un avvenimento, ad uno stress riconosciuto come serio e un’evoluzione soddisfacente, socialmente accettabile; tale termine sembra dunque riferirsi ad un processo complesso risultante dall’interazione tra la persona e il suo ambiente.

La maggior parte dei ricercatori (in Costanzo ES, Lutgendorf SK, Rothrock NE, Anderson B, 2006) sembra concordare sul fatto che la resilienza si definisce meglio in termini di processo piuttosto che di risultato. Il processo di resilienza è una prospettiva che esamina il ciclo di vita e non è mai assoluta, totale, acquisita una volta per tutte, ma varia a seconda delle circostanze, della natura del trauma, del contesto, dello stadio di vita e si può esprimere in modo differente secondo le differenti culture.

Le risposte degli individui alle malattie sono chiaramente diverse a seconda delle caratteristiche di queste ultime, in relazione al tipo, alla gravità, alla durata della malattia stessa; gli aspetti cognitivi ed emotivi di questa condizione, per definizione transitoria, consistono in uno stato temporaneo di turbamento e di disorganizzazione, i cui esiti possono rivelarsi radicalmente positivi o negativi.

Tra i fattori che promuovono la resilienza si possono riscontrare:

  • La percezione del controllo personale: la percezione del controllo personale fa sì che un soggetto abbia un pensiero fortemente positivo su se stesso e sulla vita. Questi soggetti, con locus of control interno, pensano di avere il controllo sugli eventi dell’esistenza, credono di essere capaci di esercitare il controllo su molte vicende che sono considerate importanti per la loro felicità e per il loro senso di benessere. Nei confronti della malattia reagiscono in termini risolutivi e in prima persona. I pazienti risultano propositivi e collaborano con l’equipe curante aumentando così la compliance con i farmaci.
  • L’inevitabilità e la desiderabilità dei cambiamenti: i soggetti che hanno un atteggiamento positivo nei confronti dell’esistenza accettano i cambiamenti che la vita impone, li affrontano e li superano e si riadattano ad essi con plasticità e controllo allo stesso tempo, siano essi cambiamenti positivi o negativi. La sfida rappresenta per loro una vittoria sicura di fronte alla malattia che si presenta. Le esperienze passate e superate diventano un bagaglio di forze cui attingere in ogni momento; il pensiero di essere riusciti a superare ostacoli nel corso della propria vita diventa automaticamente una spinta interna.
  • La relazione con l’altro: la capacità di intrattenere relazioni è una delle componenti della resilienza. Molti studi hanno dimostrato come avere relazioni positive aiuta a far fronte e a contrastare gli effetti negativi dello stress. Sentirsi sostenuti dagli altri, anche se non sempre presenti fisicamente, favorisce il benessere sia fisico che psicologico.
  • L’autoesperienza: la consapevolezza del valore della propria esperienza aiuta a superare le difficoltà che si presentano.

La resilienza dunque è un processo, una costruzione dinamica, sempre rimessa in gioco e reinterrogata in dipendenza degli avvenimenti e delle circostanze dell’esistenza.

A livello temporale è possibile individuare tre fasi che mobilitano elementi di natura diversa e sono rilevanti nell’ottica della presa in carico terapeutica.

La prima fase riguarda le conseguenze immediate e a breve termine di un trauma, quale potrebbe essere la diagnosi di cancro. In questa fase ci troviamo di fronte alla necessità di sostenere il paziente annientato dal suo vissuto emozionale assieme alla famiglie , bruscamente disorganizzate e colpite nella loro sicurezza interna.

In questo momento è molto importante mettere in atto un’azione incentrata sull’attenzione contenitiva, sostenitrice e/o restauratrice della possibilità di pensiero e rappresentazione: ciò sarà la base per la resilienza.

La seconda fase concerne le conseguenze a medio termine di un trauma. È in questa fase che possono svilupparsi o non svilupparsi i processi di resilienza. Per aiutarli, gli interventi terapeutici dovranno inquadrarsi in una comunicazione specifica nella famiglia, la funzionalità e il sistema dei valori e delle credenze.

La terza fase è focalizzata sulla capacità di cui la famiglia ha dato prova di permettere la rinascita dei suoi membri nonostante l’esperienza vissuta ( Cyrulnik B, Malaguti E 2005).

Per concludere sarà indispensabile che l’equipe curante aiuti il paziente a:

  • Formulare un obiettivo: ogni forma di comunicazione impone la formulazione dell’obiettivo da elaborare secondo determinati criteri. L’obiettivo va formulato verbalmente in maniera positiva.
  • Manageability: l’accento va posto sulle possibilità di controllo da parte del paziente o sulla sua responsabilità. Ciò in riferimento ad: a) la sua salute, stimolando l’individuo a riflettere su che cosa può e desidera fare per se stesso e che cosa vuole controllare e come, relativamente alle sue cure; b) la sua malattia, promovendo la motivazione a fare il necessario “in maniera volontaria”, favorendo la compliance.
  • Ricevere e capire le informazioni: capire dipende molto dalla disponibilità di informazioni chiare in merito a prevenzione e terapia. Esistono in letteratura diversi studi che evidenziano gli effetti positivi che una corretta comunicazione di “cattive notizie” può avere sui malati di cancro per quanto riguarda la comprensione delle informazioni, la soddisfazione per l’assistenza ricevuta e, in generale, le modalità di adattamento alla malattia.
  • Ricercare il significato: è un processo che non ha mai fine. In questo ambito il sostegno di una rete sociale è di fondamentale importanza. Si tratta di compiere un percorso di ricerca del significato, anche nella malattia, e di collocazione all’interno della storia individuale, prima solo per se stessi, poi, successivamente, da condividere con i propri cari.

La parola cancro reca con sé ancora molti significati irrazionali, che evocano una profezia di sventura e di catastrofe esistenziali. Per molto tempo, il cancro non è stato una malattia come le altre, da curare e che può essere guarita, ma una sorta di anticamera di morte, sinonimo di grande dolore e d’incommensurabile sofferenza.

Oggi la psicoterapia cognitiva ridimensiona l’immagine della morte, l’immagine d’irrecuperabilità e d’irreversibilità che rimane intrinseco nella patologia neoplastica offrendo al paziente una la possibilità di rinascita.

Può l’attività fisica aiutare contro la depressione?

L’attività fisica può essere un fattore protettivo contro il rischio di sviluppare depressione in età infantile. I bambini che vengono coinvolti in una qualche attività fisica, sia essa a livello moderato o intenso, risultano essere meno propensi allo sviluppo di depressione, secondo quanto emerso da un recente studio svolto dai ricercatori del dipartimento di psicologia dell’Università norvegese di scienza e tecnologia (NTNU).

 

La depressione in età infantile

La capacità dell’esercizio fisico di svolgere un ruolo protettivo nei confronti dello sviluppo di una sintomatologia depressiva è da tempo nota all’interno della comunità scientifica per quanto riguarda persone adulte e adolescenti (Josefsson et al., 2014; Pereira et al., 2013). Ad esempio, Jerstad e collaboratori (2010) hanno dimostrato come lo svolgere un’attività fisica in età adolescenziale possa diminuire il rischio di futuri inasprimenti della sintomatologia depressiva così come la loro stessa comparsa in età adulta. Inoltre, la presenza di depressione in età adulta sembrerebbe scoraggiare la possibilità che una persona, in età adulta, possa intraprendere una qualche attività fisica.

Recentemente, ulteriori studi hanno rilevato la presenza di sintomi depressivi anche in bambini in età prescolare. Nonostante questo, però, la depressione in età infantile risulta essere ancora poco studiata, sia in termini di effetti che ha sul bambino sia in termini di differenze rispetto alla sintomatologia in età successive.

Per quanto riguarda questi temi, Luby e collaboratori (2003) sostengono che i clinici, e, più in generale, le figure di riferimento, dovrebbero essere ben informati circa la molteplicità di manifestazioni che può caratterizzare il disturbo depressivo in base alle diverse età di sviluppo. Più nello specifico, per quanto riguarda l’età prescolare, sembrerebbe essere caratterizzata da un nucleo di sintomi tipici e comuni anche alle età successive, in particolar modo da tristezza e/o irritabilità, associate a sintomi vegetativi e anedonia (ad es. mancanza di piacere per attività quali il gioco), ma anche da sintomi più “velati” e tipici, come le lamentele a livello fisico, indice di somatizzazione di altro tipo di disagi. In particolar modo l’anedonia sembrerebbe essere il sintomo più specifico della depressione, utilizzabile per poter operare diagnosi differenziali con altri disturbi in questa età.

 

Il trattamento della depressione in età infantile: l’importanza dell’ attività fisica

Inoltre, l’applicazione di trattamenti e procedure preventive attualmente disponibili per i bambini con depressione risulta essere efficace solo in modo esiguo e limitato, suggerendo il bisogno di ricercare interventi alternativi o complementari che ne accrescano i benefici (Michael & Crowley, 2002).

A tal proposito, Zahl e collaboratori (2017), sulla base della letteratura presente sul tema, hanno svolto una ricerca proprio con lo scopo di indagare quanto l’attività fisica possa essere di beneficio per ridurre e prevenire i sintomi depressivi anche in bambini in età prescolare.

Capire la relazione tra attività fisica e sintomi depressivi risulta essere di estrema importanza, in quanto, se l’esercizio fisico fosse realmente in grado di sortire effetti positivi in merito alla depressione, rappresenterebbe un tipo di intervento a basso rischio e basso costo di cui potenzialmente tutta la popolazione potrebbe usufruire, apportando ulteriori benefici anche a livello della salute fisica e mentale (cfr. ad es. Warburton et al., 2006).

Per poter indagare l’esistenza di una correlazione inversa tra attività fisica e depressione, gli autori dello studio hanno selezionato un gruppo di 795 bambini norvegesi di 6 anni di età e li hanno seguiti per un totale di quattro anni, eseguendo due diverse misurazioni di follow-up, una a 8 e una a 10 anni. Per quanto riguarda le misurazioni, l’utilizzo di un accelerometro ha permesso di determinare il livello di attività fisica dei partecipanti, mentre i sintomi inerenti la depressione maggiore sono stati valutati attraverso interviste cliniche fatte sia ai partecipanti sia ai loro genitori.

Le analisi hanno evidenziato come un maggiore livello di attività fisica, sia a 6 sia a 8 anni, fosse predittivo di un minor numero di sintomi depressivi due anni dopo. Al contrario di quanto rilevato per adolescenti e adulti (Jerstad et al., 2010), invece, non è emersa alcuna prova a favore del fatto che il condurre una vita sedentaria possa portare a depressione e che quest’ultima possa predire il livello di attività fisica o di sedentarietà.

In conclusione, lo studio di Zahl e collaboratori (2017), per la prima volta, ha indagato in modo oggettivo il livello di attività fisica e di sedentarietà, correlandolo al successivo sviluppo di depressione sia nella prima infanzia sia negli anni successivi. Ciò che è emerso è che, in linea con quanto già rilevato per soggetti di età maggiore, lo svolgere una qualche attività fisica fin da piccoli porti a minore sintomatologia depressiva negli anni successivi. Viceversa, la presenza di sintomi depressivi non porterebbe necessariamente a minori livelli di attività nel corso del tempo.

Per quanto l’effetto predittivo rilevato fosse, a livello quantitativo, di piccole dimensioni, i risultati confermano l’effettiva possibilità che l’attività fisica possa essere utilizzata anche nei bambini per prevenire, oltre che curare, la depressione, se non altro a livello subclinico. In ultima analisi, i bambini sembrerebbero avere un realmente bisogno di svolgere attività fisica, intesa come qualsiasi attività che li faccia un po’ sudare e li lasci senza fiato, per poter preservare e sfruttare al meglio la propria salute mentale.

Il mito della vita sessuale appagante – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Sandra: “Sono lesbica, non mi piace la penetrazione e il sesso orale non mi fa impazzire, ma non ho alcun problema nel raggiungere l’orgasmo. Anche quando parlo con le mie amiche mi accorgo di avere una vita sessuale appagante, però mi chiedo se sto sbagliando qualcosa”

 

ἡδονή (edonè) è il piacere per gli antichi greci. Non una parola come un’altra, poiché per la mitologia greca Edonè è la dea figlia di Eros e Psiche, unione quindi tra l’amore totalizzante che tutto stravolge e l’anima, intesa qui come parte più razionale che fornisce all’individuo esperienza di sé e del mondo.

 

Cara Sandra,

questa breve premessa è il mio modo per dirle che il piacere che si prova durante un rapporto sessuale è estremamente soggettivo ed è frutto di un qualcosa che va oltre alla semplice e biologica, per quanto importante, soddisfazione sessuale. Non c’è un modo giusto e univoco per raggiungere il piacere. E il sentirsi appagata dal suo personale modo di vivere la sessualità mi sembra una grande dimostrazione di consapevolezza di sé e del proprio benessere.

Valentina Orlandi

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’organizzazione delle attività ludoterapiche nei reparti pediatrici: l’esempio di una sessione ludoterapica nel reparto di Oncologia pediatrica del Policlinico Gemelli di Roma

Le attività ludoterapiche (altrimenti dette terapia del gioco o play therapy) presso i reparti pediatrici sono una risorsa importante per contribuire alla cura del bambino malato e per aumentare le sue capacità di resilienza.

Alessia Pizzimenti

 

Le attività ludoterapiche: il ruolo del gioco nei reparti pediatrici

Dal 1989, anno in cui l’Assemblea delle Nazioni Unite a New York stilò la Convenzione sui diritti del Fanciullo, è ormai assodato come diritto fondamentale dei bambini il diritto al gioco (art. 31). Tale diritto, in quanto imprescindibile, deve essere riconosciuto anche nelle strutture ospedaliere.

A livello europeo nel 1988 è con la “Carta di Leiden” dell’European Association for Children in Hospital (EACH) il gioco e lo studio vengono annoverati tra i diritti fondamentali dei bambini che vivono l’esperienza dell’ospedalizzazione. In Italia è il decreto legislativo n. 502 del 1992 che ha dato una spinta alla concreta elaborazione e diffusione della Carta dei Diritti del Bambino in Ospedale sul territorio nazionale. Nella versione del 2007 possiamo leggere:

I bambini e gli adolescenti devono avere quotidianamente possibilità di gioco, ricreazione e studio –  adatte alla loro età, sesso, cultura e condizioni di salute – in ambiente adeguatamente strutturato ed arredato e devono essere assistiti da personale specificatamente formato per accoglierli e prendersi cura di loro (Abio, SIP, 2007- art. 7).

Come si nota da questo breve excursus i legislatori hanno ben compreso l’importanza del gioco per la crescita dei bambini e se “il gioco, basato sull’intenzione di divertirsi e sullo sviluppo psicosociale, fornisce nuove sensazioni, crea e ricrea situazioni di vita giornaliere ed aiuta i bambini a scoprire il mondo” (Francioso, 2016) un’attenzione particolare deve essere posta all’organizzazione del tempo del gioco nei reparti pediatrici.

E’ infatti raccomandato che nell’organizzazione dei reparti ospedalieri dedicati ai bambini e agli adolescenti si debba prevedere uno spazio dedicato al gioco dove non vengano effettuati atti medici e/o infermieristici. Inoltre, così come per quanto riguarda i docenti in ospedale (capitolo molto interessante dell’umanizzazione delle cure ospedaliere ma che qui non tratteremo), è evidenziata l’importanza della presenza di personale debitamente formato sulle specificità del contesto ospedaliero e delle patologie. Chi si occupa di attività ludoterapiche, ovvero i ludoterapisti, operano in un reparto ospedaliero con il compito specifico di organizzare e scegliere le attività di gioco.

 

Le attività ludoterapiche in ematoncologia pediatrica

In questo scritto vogliamo puntare l’attenzione sulle attività ludoterapiche in un contesto ospedaliero specifico: l’ematoncologia pediatrica. Se ogni diagnosi di patologia in età pediatrica (anche la semplice influenza stagionale) crea una riorganizzazione dei ritmi di tutta la famiglia, la possibilità e poi la certezza di una diagnosi di cancro crea, comunque, una destabilizzazione emotiva per tutto il nucleo familiare.

Nel momento in cui la diagnosi irrompe in una famiglia, una serie di meccanismi di difesa viene messa in atto nel tentativo di “controllare” l’evoluzione della propria storia, bloccando il ciclo vitale alla fase immediatamente precedente l’insorgenza della malattia. Il tentativo, illusorio, è quello di evitare di andare verso un futuro che comporta una minaccia di morte (Paglia, 2007).

In questo contesto il gioco può diventare il contenitore espressivo delle emozioni collegate all’ospedalizzazione e alla malattia. Emozioni che possono prendere tutte le direzioni: positive e negative. Per questo parte importante della formazione dei ludoterapisti, iniziale e continua, è incentrata sulla cura della relazione e dell’incontro con l’“altro”.

Uno degli obiettivi delle attività ludoterapiche è la sintonizzazione con le emozioni dei bambini e degli adolescenti al fine di aiutarli ad elaborare i vissuti legati all’ospedalizzazione e alla malattia. Per dirlo con le parole di Zaratti i ludoterapisti

Sono persone con competenze svariate e diversificate: attori, musicisti, fumettisti, psicologi e sociologi ma […] la caratteristica che «li accomuna» ossia la sensibilità, intesa come profondità del sentire, sensibilità per cui le “cose non sono solo come appaiano (Zaratti, 2012).

Giocare e mettersi in gioco in ogni situazione purché ci siano le condizioni emotive di disponibilità e reciprocità relazionale (Bateson, 1996) è uno degli assunti di base della ludoterapia in ospedale. Per questo il modo migliore per far comprendere gli aspetti teorici delle varie attività ludoterapiche è raccontare una giornata di gioco.

 

La preparazione della Sessione di Ludoterapia

Si è nel periodo prenatalizio del 2016. Presso il reparto di Oncologia pediatrica l’associazione Sale in Zucca Onlus offre due pomeriggi a settimana di ludoterapia. Il giorno precedente all’intervento le due ludoterapiste si contattano per ragionare e riflettere sulle possibilità di gioco da proporre. Decidono di fare come attività ludoterapiche dei lavoretti manuali a tema natalizio, ma cercando qualcosa che stimoli il gioco competitivo.

Le precedenti attività ludoterapiche proposte consistevano in molti “lavoretti” di decorazione ma, pur rimanendo nel tema, si sentiva la necessità di modificare il target emotivo e rintracciare emozioni legate all’aggressività. Dopo molte idee si decide per la costruzione del calcio balilla usando come giocatori Elfi e Renne. In questa maniera il tema natalizio entrerà comunque in ospedale. E’ importante quando si organizzano le attività ludoterapiche che queste siano sintonizzate con il tempo fuori dal reparto. Nei reparti ospedalieri il tempo è scadenzato dalle indicazioni infermieristiche e mediche, la temperatura delle stanze è pressoché la stessa in tutte le stagioni, la luce preponderante è quella artificiale. In tutto questo mondo ovattato, ancor di più per le lungo degenze, le attività ludoterapiche a tema, tra cui la decorazione della sala giochi e delle stanze di degenza, riportano il tempo della vita. Tempo fatto di variazioni termiche, olfattive, visive ed emotive.

Così, se è vero che a Natale si è tutti più buoni, la bontà non implica la cancellazione delle emozioni negative. Le emozioni cosiddette negative (rabbia, invidia etc.) possono essere giocate in maniera sana attraverso la competizione sportiva. Portare la competizione sportiva in un reparto di oncologia pediatrica è arduo, ma non impossibile.

In questa cornice si inserisce l’idea della costruzione del calcio balilla fatto di Elfi contro Renne.

L organizzazione delle attivita ludoterapiche nei reparti pediatrici l esempio di una sessione ludoterapica nel reparto di Oncologia pediatrica del policlinico Gemelli di Roma - Elfi renne

Il calcio balilla Elfi contro Renne realizzato dai bambini del Reparto 

 

L’entrata nel reparto: la presentazione delle attività ludoterapiche

Per entrare in reparto e portare da subito l’aria di novità collegata alla preparazione del gioco, oltre al camice colorato le ludoterapiste indossano un cappello da Elfo e delle corna da Renna: una diviene il capitano della squadra delle Renne e l’altra degli Elfi.

Anche i collaboratori e il personale infermieristico vengono incuriositi e la consueta valutazione delle condizioni cliniche dei bambini diviene un momento divertente: chi farà parte di quale squadra? Il personale medico, infermieristico e i collaboratori del reparto sono una sorta di beneficiari secondari dell’azione del ludoterapista. Fare turni di otto ore al giorno in un reparto ospedaliero, a maggior ragione dentro l’oncologia pediatrica, espone a fonti di stress psichico ed emotivo importanti. Queste categorie di lavoratori sono esposti al rischio di burnout (Tetzlaff, 2016). Portare dall’esterno un po’ di freschezza e di novità può aiutare gli operatori sanitari a diversificare la routine e quindi contribuire alla prevenzione del burnout (Italia et al, 2008).

In questa giornata di intervento le ludoterapiste trovano una situazione clinica dei bambini costellata di tante necessità. Secondo le indicazioni delle infermiere cinque bambini potranno uscire dalla stanza. Due più grandi sono in isolamento completo, una bambina è appena entrata, trasferita dal reparto di neurochirurgia infantile.

Come indicazione di principio delle attività ludoterapiche nei reparti ospedalieri il lavoro in gruppo è sempre preferibile (Pizzimenti, Paglia, 2016). I bambini e i ragazzi tendono a stare nelle loro stanze, trascorrendo il tempo con TV, videogiochi, cellulari, tablet. Uscire dalla stanza e giocare insieme ad altri bambini permette di rintracciare la loro normalità dell’essere un bambino. E’ compito di noi ludoterapisti organizzare dei giochi che siano fruibili e gestibili dai bambini anche in presenza di impacci dovuti alle necessarie flebo, derivazioni etc.

 

La proposta ludica

Avute le indicazioni cliniche, compito del ludoterapista è valutare le disponibilità emotive al gioco dei bambini. Con questo spirito si inizia il giro delle stanze. La bambina di cinque anni è già pronta a seguirci in sala giochi, curiosa di valutare qualsiasi proposta di gioco. E’ da diverso tempo in cura presso il reparto e conosce molto bene l’associazione; nonostante la sua provenienza da un paese dell’est Europa la comprensione reciproca è ormai molto buona: fatta di sorrisi, gesti e qualche parolina.

Una ludoterapista inizia ad andare con lei in sala giochi, mentre l’altra prosegue il giro delle stanze. L’altro amico “storico” dell’associazione (un bimbo di quattro anni rumeno) è sul letto con una busta piena di supereroi. Era appena arrivato un Babbo Natale anticipato. Le ludoterapiste decidono di non disturbare il suo momento di gioco, sono presenti degli amici di famiglia. Passerà il pomeriggio in piacevole compagnia. La sua compagna di stanza è invece molto stanca e vuole solo riposare. In questa stanza si ha l’esempio concreto di due tipologie di rifiuto della proposta di gioco.

Il rifiuto della relazione è sempre un momento difficile da gestire per il ludoterapista. Quanto tempo dedicare al convincimento? Quanto insistere? In queste due situazioni la scelta è stata di accoglienza dell’autenticità del momento e di rispetto da un canto della gioia familiare, dall’altro della visibile stanchezza (Zaratti, 2012).

I bambini in ospedale si trovano molto spesso a non poter esercitare il loro diritto al rifiuto anche di pratiche dolorose o comunque fastidiose. Le proposte di gioco possono essere rifiutate! Paradossalmente questo è il modo per ridare gradi di libertà ai bambini; avendo una continuità di attività ludoterapiche in reparto e dovendo, purtroppo per loro, stare a volte dei mesi ricoverati, ci potrà essere un’altra occasione per giocare insieme.

Nelle stanze successive la situazione è diversa. Il bambino (due anni, italiano) verrà in sala giochi con la mamma al termine dell’infusione del farmaco. La bambina (quattro anni, ucraina) si è da subito intimidita e nascosta dietro al suo tablet. La comprensione linguistica è molto difficoltosa e anche la mamma parla solo la sua lingua d’origine. Non vuole uscire dalla stanza. Ma la sensazione netta della ludoterapista è di una bambina molto intimidita ma con tanta voglia di giocare.

 

La costruzione del gioco e l’improvvisazione

Si rientra in sala giochi con l’unica bimba al momento disponibile. A questo punto il nostro obiettivo diviene la costruzione del gioco spacchettando le varie parti per permettere ai bambini di partecipare al divertimento, assemblarlo in sala giochi e lasciarlo lì per future competizioni. La sala giochi sarà il punto cruciale dove si creerà la struttura del calcio balilla e si assembleranno le varie parti. Una delle capacità fondamentali di un buon ludoterapista è l’improvvisazione in base alle condizioni mediche ed emotive dei bambini che trova in reparto. La coppia dei ludoterapisti si divide: la ludoterapista junior coordina i lavori in sala giochi per costruire e colorare la base del calcio balilla. La ludoterapista senior porta il gioco nelle stanze disegnando e costruendo i vari personaggi.

Con la bambina ucraina la comunicazione è soprattutto gestuale. Grazie all’incoraggiamento della mamma segue il lavoro proposto: colorare gli Elfi. La ludoterapista disegna a specchio, colorando un Elfo davanti alla bambina, per superare la barriera linguistica grazie all’esempio concreto. Piano piano la piccola si scioglie e regala una serie di sorrisi e risate. Finiti tutti gli Elfi la ludoterapista torna in sala giochi per preparare la costruzione delle Renne.

Ci si dedica alla bambina appena arrivata in reparto, cogliendo la preoccupazione delle infermiere per una situazione familiare di difficile comprensione. Nella stanza singola la ludoterapista trova una ragazzina di undici anni, italiana ma di un’altra regione, accompagnata dalla nonna e dalla mamma. Sta a letto, con flebo e i capelli raccolti da una garza: segno evidente del passaggio dalla neurochirugia infantile. La nonna da subito dice che la bambina ha difficoltà visive importanti dovute all’intervento appena subito. Ecco che le doti di improvvisazione del ludoterapista devono nuovamente entrare in gioco.

Prima di tutto la sintonizzazione emotiva sul desiderio della bambina. Vuole giocare ed è molto interessata al disegno. La ludoterapista organizza una postazione sul letto adattando il tavolino alle possibilità di movimento della piccola paziente e si inizia. La ludoterapista avvolge la mano della bambina con la sua e insieme disegnano e colorano. La scelta del colore è sempre della bambina e c’è una continua richiesta della ludoterapista alla bambina di valutazione del risultato finale. L’obiettivo in questo caso è far percepire alla piccola paziente la sua competenza nel disegno, ridarle gradi di autonomia per lo meno decisionale e ridare ai familiari l’immagine di una ragazzina propositiva.

Il messaggio che si vuole trasmettere con l’esempio dell’attività è che anche se l’intervento chirurgico ha, al momento, diminuito alcune capacità e funzioni, con il giusto aiuto si possono raggiungere dei risultati e divertirsi. Vista l’impossibilità della bambina di fare movimenti fini delle mani, la ludoterapista userà le forbici per ritagliare i personaggi, questo tempo sarà dedicato alla chiacchiera sulla sua passione per il disegno. Quasi in sincrono gli infermieri entrano nella stanza per montare il monitoraggio con il saturimetro al dito. Subito la bimba chiede se devono fare altre punture, prontamente il personale infermieristico risponde di no.

La ludoterapista, mentre ritaglia le Renne, diventa mediatore emotivo della richiesta della bambina, mostrando curiosità per l’apparato elettromedicale e chiedendo spiegazioni agli infermieri sul suo funzionamento: come rileva la quantità di ossigeno nel sangue? Avendo la bambina undici anni potrebbe anche lei essere incuriosita e conoscendo maggiormente le macchine averne meno paura. Nel momento dell’ attività ludoterapica dedicato ad incollare i personaggi sul cartoncino la ludoterapista aiuta la bambina a mobilizzare ambedue le braccia facendo una piccola forma di riabilitazione. La bambina pigia sul cartoncino con tutta la forza che ha, con evidente soddisfazione. Ora che il lavoro è concluso la ludoterapista si congeda per andare ad assemblare il tutto.

Durante queste attività ludoterapiche, in sala giochi il clima è leggermente confusionario, come in una qualsiasi ludoteca che ospita bambini piccoli. L’obiettivo di dare normalità attraverso il gioco è raggiunto! Ci sono il bimbo di due anni con la mamma e la bimba di cinque. C’è la musica di Natale di sottofondo, i bambini che stanno finendo di dipingere la base del calcio balilla e la ludoterapista che cerca soluzioni creative per fare i supporti ai personaggi.

Alla fine con pazienza e determinazione il calcio balilla Elfi contro Renne è terminato. Per creare comunque lo spirito di un lavoro di gruppo, anche se effettuato in parte nelle stanze, si fa il giro del reparto con il risultato finale. Si presenta il gioco a tutti i bambini, dando soddisfazione del loro operato a coloro che hanno contribuito. Tutti i bambini sapranno dove trovare il nuovo gioco per sfidarsi quando vorranno.

 

Conclusione: l’importanza del gioco nel rispetto delle emozioni

Winnicott (1971) scrive

E’ nel giocare e soltanto mentre gioca che l’individuo, bambino o adulto, è in grado di essere creativo e di fare uso dell’intera personalità, ed è solo nell’essere creativo che l’individuo scopre il sé. […] Sulla base del gioco viene costruita l’intera esistenza dell’uomo come esperienza.

Per i bambini e le famiglie che devono affrontare la diagnosi e la cura di una patologia oncologica il gioco può divenire uno dei mezzi affinché questo evento di vita possa divenire esperienza. Nei reparti ematoncologici, incontrare ludoterapisti formati può fare la differenza perché permette ai bambini di giocare tutta la gamma delle emozioni presenti nel qui ed ora delle sessioni delle attività ludoterapiche.

Come si è voluto far emergere dal racconto della giornata di intervento, le variabili che i ludoterapisti devono prendere in considerazione nell’organizzazione della sessione ludica sono molteplici: mediche, infermieristiche, situazionali, emotive etc. Il punto fermo che orienta le attività ludoterapiche è la volontà di incontrare nel gioco i bambini presenti in reparto rispettando il loro mondo emotivo.

Rintracciare la normalità di un pomeriggio di gioco con i bambini avendo anche solo per pochi istanti la sensazione di trovarsi in una ludoteca qualsiasi e non in un reparto ospedaliero dà ai bambini e a tutti i presenti una “ricarica emotiva” che servirà a gestire i momenti più stressanti della degenza.

Abbiamo visto come uno dei nodi fondamentali per i ludoterapisti, dove la formazione e il contenimento emotivo sono di fondamentale importanza, è la gestione del rifiuto al gioco. Essere un ludoterapista formato e competente significa riuscire a discernere il rifiuto che va rispettato da una timidezza che va incoraggiata. E’ viaggiare sul filo del funambolo avendo come barra di equilibrio la formazione e la supervisione clinica e come rete di sostegno il compagno ludoterapista e tutto il gruppo dei colleghi. Per usare una metafora di Bateson: “Una mano non è cinque dita ma quattro relazioni” (Bateson, 1997).

Un altro elemento importante durante il gioco è la funzione di mediatore emotivo che il gioco assume e che il ludoterapista deve essere in grado di governare. Come un bravo timoniere non cerca la burrasca, ma se la incontra accompagna la barca sulle onde attraversandola o se è troppo impetuosa cambiando rotta. Fuor di metafora le emozioni che possono innescarsi durante il gioco non vanno soffocate, qualunque esse siano, ma attraverso il gioco possono essere esperite. Il raccordo con il servizio psicologico di riferimento del reparto è fondamentale per il piccolo degente per continuare l’elaborazione con altri mezzi e per il ludoterapista per avere un feedback sul suo lavoro.

Da quanto descritto ci sembra evidente come i legislatori in questo caso hanno realmente colto nel segno. Quando le varie edizioni delle Carte dei diritti dei bambini e degli adolescenti in ospedale vengono realmente applicate, la realtà di un reparto che cura i tumori in età pediatrica e le condizioni della degenza divengono più leggere e sopportabili.

Psicologia Politica: il ruolo delle emozioni degli elettori nelle scelte di voto

Psicologia politica: Analizzando le emozioni, in base all’appartenenza politica, si osserva che quasi tutte le emozioni raggiungono valori più alti negli elettori di sinistra. Gli elettori di sinistra presentano verso la politica emozioni più intense, sia positive che negative: più rabbia, più disgusto, ma anche più speranze, più passione. Secondo l’autore, un’interpretazione che si può avanzare di questo dato, è che le persone di sinistra siano più interessate alla politica della media dell’elettorato.

Romina Edith Monteleone, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Psicologia politica: il ruolo delle emozioni in ambito politico

L’interesse sul ruolo delle emozioni, in un contesto politico, inizia con Aristotele e Platone. Essi condividono l’idea che le emozioni siano una forza enigmatica che invade e mina la ragione. La premessa che le emozioni devono essere rimosse dalla formazione del giudizio politico rimane in tutta la filosofia del ‘600 fino alla fine del ‘800.

Ma cosa intendiamo quando parliamo di emozioni? Bisogna innanzitutto cercare di chiarire e specificare i diversi concetti: l’umore si differenzia dell’emozione perché essa ha una fonte esplicita; gli interessi e sentimenti sono usati come varianti del concetto di emozione dai politologi. In queste linee utilizzeremo i termini affetto/emozione e cognizione/ragione indistintamente in conformità agli impieghi in psicologia politica.

Lo studio scientifico delle emozioni inizia con Darwin e James; tuttavia è Freud, che sostiene che la civilizzazione non può aspirare ad allontanare le emozioni dalla vita quotidiana per generare un cambio radicale di prospettiva. Nel 1930 Laswell (in Marcus, 2002) seguendo la teoria psicanalitica, conduce ad una ricostruzione delle diverse fasi evolutive della vita di alcuni leader politici; essi sarebbero caratterizzati da conflitti infantili irrisolti che però proietterebbero verso oggetti sociali ed i meccanismi arcaici di difesa verrebbero razionalizzati in termini di pubblico interesse.

La teoria dell’intelligenza affettiva (AI), messa a punto dal gruppo di lavoro di Marcus (Marcus et al, 2000,2003,2005), si basa sugli studi del professore Jeffrey Gray, il quale ritiene che l’intelligenza affettiva dei soggetti, sia attivata grazie a due sistemi neuronali localizzati nel sistema limbico. Il primo sistema (Behavioral Activation System), che viene rinominato dal gruppo come Disposition System, costituisce un sistema precosciente che ha la funzione di gestire le condotte, le routine e le predisposizioni acquisite, rinforzando atteggiamenti ed abitudini. Questo sistema dà adito alle emozioni situate nel continuum felicità-tristezza. Il secondo sistema (Behavioral Inhibition System) rinominato Survelliance System, garantisce uno stato di allerta in situazioni inusuali o di minaccia, e costringe l’individuo a prestare maggior attenzione e concentrazione sull’ambiente, lo induce alla ricerca di nuova informazione e conseguentemente all’ apprendimento. Questo sistema individua emozioni situate sull’asse ansietà-calma.

Psicologia politica: come lo stato emotivo può influenzare la scelta del voto

Utilizzando il National Election Study (NES) , dal 1980 al 1996, Marcus (2000) esamina lo stato emotivo ( ansiosi/soddisfatti) degli elettori in relazione al partito politico di appartenenza ed indaga il peso che esso ha nel confronto con le policy, le caratteristiche del candidato, ed issue specifici del partito. La ricerca stabilisce che gli elettori ansiosi attribuiscono maggior importanza alle policy del partito (44% versus 8%) mentre gli elettori soddisfatti conferiscono un peso maggiore alle caratteristiche fisiche e di personalità del candidato (57% versus 27%). Questo risultato ci porta a pensare che l’esperienza affettiva degli individui possa guidare il processo di informazione politica e possa influenzare gli elementi (policy/issue del partito-caratteristiche personali del candidato) in base ai quali l’elettore orienta e costruisce la scelta del voto.

Inoltre, la teoria dell’intelligenza affettiva sostiene che quando l’ansietà è bassa, il Disposition System induce il soggetto ad un procedimento euristico. Di contro, in una situazione dove l’ambiente si presenta incerto, minaccioso, non familiare, sarebbe pericoloso per il soggetto ignorare l’informazione ed agire in base agli schemi immagazzinati nel Disposition System; di conseguenza il Survelliance System predispone l’individuo ad evitare l’uso di questi schemi a favore dell’elaborazione di nuova informazione.

Questa ipotesi è stata corroborata in diversi studi ( Marcus et al, 2005) Neely, 2007; Gross 2008,2004). Ad esempio, è stata realizzata una ricerca (Marcus et al, 2005) sull’ impatto dell’ansietà nella formazione dell’ atteggiamento verso i gruppi razzisti presenti negli Stati Uniti (Neonazisti e KKK- KU KLUX KLAN). La ricerca coinvolse 235 studenti della Università del North Texas che in una prima istanza furono sottoposti ad un pre-test: agli studenti è stato chiesto tramite un questionario di esprimere le loro opinioni sui diversi gruppi etnici (afroamericani, latini, musulmani, ebrei) per determinare la “predisposizione” di certi soggetti a simpatizzare coi citati gruppi; (152 furono identificati con un atteggiamento negativo –razzista- e 83 con un atteggiamento positivo – pro integrazione-). I ricercatori tornarono due settimane dopo, somministrarono e divisero il campione in due gruppi: al primo venne proiettato un video sugli sviluppi della cura al cancro (priming positivo, low anxiety), al secondo un video sugli effetti nocivi del fumo e fast food (priming negativo, high anxiety). In un secondo momento i soggetti vennero raggruppati e suddivisi casualmente in due gruppi.

Nell’ultima fase della ricerca, ad ogni gruppo, venne somministrato un video su una manifestazione Neo-Nazista a Denver, USA. Il video fu manipolato dai ricercatore in modo tale che il primo gruppo vedesse una manifestazione pacifica, senza polizia, con il leader che utilizzava un linguaggio non offensivo, di contro, il secondo gruppo doveva percepire una manifestazione violenta, con scontri con la polizia, ascoltando un linguaggio forte e discriminatorio da parte del leader. In seguito fu assegnato un questionario dove si chiedeva ai soggetti di manifestare il loro atteggiamento nei confronti di questa manifestazione. L’analisi di dati dimostrava che il priming era indifferente per i soggetti con predisposizioni razziste, di contro, per i soggetti non razzisti, si è riscontrato che a maggior ansietà vi è un atteggiamento meno tollerante nei confronti dei gruppi KKK. L’ansietà fa sì che i soggetti non predisposti prestino maggior attenzione al messaggio e contenuto del video e risultino, di conseguenza, meno tolleranti.

La teoria dell’intelligenza affettiva ha riscontrato grande successo tra gli studiosi, tuttavia in questi ultimi anni il gruppo della Università di Michigan (Velentino et al, 2008) ha rilevato dati contraddittori. Secondo Marcus, come abbiamo citato (Marcus et al, 2000,2003,2005) il Survelliance System garantisce uno stato di allerta in situazioni inusuali e genera nell’individuo delle emozioni situate sul continuum ansietà-calma. In questo asse emozionale, Marcus colloca affetti di rabbia, paura, depressione e avversione.

“…Thus the theory of affective intelligence provides a measurement model for each of the three negative emotions: depression, anxiety, and aversion. Also provides a substantive theory on the sources, the biology, and the impact of these emotions on judgment and behavior.” (Marcus, 2003 pagina 204).

Il gruppo del Michigan rileva che, mentre la paura-ansietà stimola l’interesse e la qualità di ricerca di informazione politica favorendo l’apprendimento e facilitando l’orientamento all’azione, di contro la rabbia e la depressione,  inibiscono questi processi.

Gli autori suggeriscono che rabbia ed ansietà derivino da diverse relazioni tra l’individuo e il suo ambiente. La rabbia si crea, solitamente, quando la persona trova l’oggetto-causa della minaccia ambientale, mentre la paura trova terreno fertile in un contesto ambientale totalmente incerto per il soggetto. Mentre l’ansietà si associa al fatto di avere il “focus” sullo stimolo minaccioso, la rabbia è collegata all’impossibilità di poter agire contro l’oggetto pericoloso.

Inoltre, secondo questi autori, Marcus lavora con gradi di ansietà che uno psicologo esperto riterrebbe “bassi”, in effetti, vi è una rilevante e corposa documentazione nell’ area della psicologia cognitiva che evidenzia che alti livelli di ansietà mettono a repentaglio le diverse componenti del processo di conoscenza o problem solving (percezione, codifica, organizzazione, immagazzinamento e recupero di stimoli).

Witte (2000) (in Valentino et al, 2008) in una ricerca di psicologia politica analizza le emozioni provocate da differenti campagne provenienti da istituti di salute americani (campagne contro il cancro, il fumo, la mala alimentazione e così via) e constata che queste campagne hanno suscitano risposte di avversione/fuga. Huddy (2005) (in Ladd, 2008) trova che i soggetti più ansiosi, dopo l’11 settembre, sebbene all’inizio della guerra contro l’Iraq fossero più attenti alle informazioni politiche, presentavano un deficit nella descrizione e nel recupero di informazioni al riguardo.

La teoria dell’intelligenza affettiva, come abbiamo sottolineato, afferma che l’ansietà interrompe gli schemi comportamentali (procedimenti euristici, identificazione col partito) sollecitando il soggetto alla ricerca di nuova informazione. Questo spiegherebbe (Martin,2004) il perché dell’utilizzo delle negative campaign: il soggetto presta attenzione alla proposta politica (policy issue) solo quando percepisce una situazione di pericolo.

Ladd & Lenz (2008) propongono due alternative alla teoria dell’intelligenza affettiva: L’effetto transfer (Affect Transfert) e l’effetto endogeno (Endogenous Affect). Il primo postula che gli affetti positivi e negativi (l’ansia) suscitati dal candidato si trasferiscono nella valutazione del medesimo, non stimolando il soggetto nella ricerca di informazioni come proponeva Marcus. La seconda alternativa (Endogenous Affect) inverte il senso della causalità: la preesistente valutazione/credenza sul candidato determina lo stato emotivo (ansietà-entusiasmo). Questa premessa è supportata dalle ricerche offerte dalla psicologia cognitiva: gli studi dimostrano come l’elaborazione dell’informazione inizi in aree cerebrali associate all’organizzazione della conoscenza e dopo, nell’eventualità, si attivano aree nel sistema limbico (come l’amigdala) dove si originano le emozioni.

“……If cognition is defined broadly to include sensory information processing, such as that occurring in the sensory thalamus and/or sensory cortex, as well as the processing that occurs in complex association areas of cortex in the frontal lobes or hippocampus, then emotional processing by the amygdala is highly dependent on cognitive processing……. The nature of cognitive-emotional interactions is one of the most debated in the psychology of emotions.” In Laad & Lenz (2008) pagina 277

La psicologia sociale, di contro, ha dimostrato negli ultimi cinquant’anni, che quando l’essere umano si pone in relazione con il proprio ambiente (fisico -sociale) e comincia a formarsi la conoscenza di esso, lo fa, non su una base descrittiva-cognitiva bensì emotiva. E questo naturalmente vale anche per la politica.

Psicologia politica: le emozioni degli elettori di destra e di sinistra

A partire da questo presupposto, Corbetta nell’ambito della psicologia politica (2004,2005,2006), si interroga sulle diverse risposte emotive tra gli elettori di sinistra e di destra nei confronti di oggetti politici. Questa ricerca si colloca all’interno dei programmi di ricerche elettorali ITANES (Italian National Election Studies) ed è stata condotta nel 2005 su un campione di 4800 persone. Nella ricerca emerge un quadro sul rapporto italiano e la politica. L’atteggiamento del cittadino medio verso la politica sembra essere assunto da una sola parola: disaffezione, ma anche di ostilità, disgusto, avversione. Il processo di distacco dalla politica non ha coinvolto tutti i cittadini nello stesso modo. La politica rimane una fonte di identificazione per una parte non trascurabile di essi. Si tratta di un atteggiamento che ha cominciato a manifestarsi ben prima della crisi di Tangentopoli agli inizi degli anni ’90. Atteggiamento che non si è limitato ad investire i partiti, ma ha coinvolto la politica nella sua totalità e le emozioni ad essa connesse.

Nell’ambito della psicologia politica analizzando le emozioni, in base all’appartenenza politica, si osserva che quasi tutte le emozioni raggiungono valori più alti negli elettori di sinistra. Gli elettori di sinistra presentano verso la politica emozioni più intense, sia positive che negative: più rabbia, più disgusto, ma anche più speranze, più passione. Secondo l’autore, un’interpretazione che si può avanzare di questo dato, è che le persone di sinistra siano più interessate alla politica della media dell’elettorato.

Per concludere questo elaborato in merito alla psicologia politica, ci auspichiamo che le ricerche sulle emozioni, come componenti dell’atteggiamento politico, da una parte si pongano di approfondire il tema della possibile diversità nell’asse destra-sinistra, dall’altra, si domandino il ruolo dell’ arousal nell’attivazione della risposta emotiva, come essa sia regolata dal contesto e come orienti l’azione dell’individuo nella scelta di voto.

Motivazioni, emozioni e relazione terapeutica – Un seminario con Giovanni Liotti a Palermo

Motivazioni ed emozioni: un rapporto intrecciato che può armonizzarsi lungo la traiettoria evolutiva tracciata dalle prime esperienze infantili oppure trovare nella relazione terapeutica un’occasione utile per riparare modelli relazionali disfunzionali, conferendo coordinazione e armonia a motivazioni ed emozioni corrispondenti, incrementando autonomia, creatività e la regolazione di emozioni, impulsi e azioni finalizzati a una meta relazionale.

 

La centralità delle motivazioni per la sopravvivenza e l’organizzazione gerarchica

Questo il filo conduttore del seminario tenuto da Gianni Liotti, Psichiatra, Psicoterapeuta e storico socio fondatore della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) che fin dall’inizio ha sottolineato come le emozioni debbano essere studiate in rapporto alle motivazioni ovvero alla probabilità, per l’essere umano, di sopravvivenza.

Le emozioni hanno un valore evoluzionistico e perseguono mete adattive. Ecco che l’invidia è un’emozione con valore evoluzionistico perché serve al miglioramento della specie”. Superando la classica visione freudiana della dicotomia istinto di vita-istinto di morte, la lezione si è subito incentrata sulle motivazioni plurime al cambiamento, secondo la teoria multi-motivazionale.

In questa visione i sistemi motivazionali si distinguono in due livelli. A livelli più arcaici troviamo innanzitutto il sistema di difesa, metodo elettivo di sopravvivenza, che determina emozioni di rabbia alla presenza di stimoli minacciosi (sistema di attacco-fuga). A livello superiore alcuni vertebrati, come gli opossum, sono in grado di simulare una falsa morte, una menzogna biologica utile per salvarsi la vita, e si può affermare che ci troviamo di fronte allo stesso meccanismo biologico operante nella depersonalizzazione”.

Sempre a livello arcaico troviamo il sistema predatorio, dove l’aggressività è legata al bisogno di cibo, che spinge all’uccisione. Arriviamo quindi ai sistemi recenti, posseduti dagli esseri umani, in particolare il sistema dell’attaccamento, che si può considerare un secondo sistema di difesa, un suo perfezionamento, poiché il piccolo umano non sa procurarsi il cibo da solo, quindi deve far ricorso alla madre. Ecco perché sosteniamo che il rapporto madre-bambino non è un rapporto d’amore, anche se forse questo potrà deludere qualcuno. Ai livelli recenti appartiene anche il gioco sociale, il sistema della competizione per il rango sociale (aggressività ritualizzata), l’affiliazione al gruppo e la cooperazione tra pari”.

Infine vi sono livelli recenti da un punto di vista evolutivo, in grado di regolare quelli più antichi, eppure più vulnerabili, come ben si osserva nel trauma che fa dissolvere il sistema di regolazione degli impulsi, scatenando tutta una serie di reazioni primitive di difesa e aggressività tipiche degli stati di allarme di fronte a un pericolo minaccioso per la propria incolumità psicofisica.

 

La centralità della relazione terapeutica e del sistema paritario collaborativo

E qui entra direttamente in gioco la relazione terapeutica, nel suo potere di riparazione del trauma e di regolazione dei moduli più bassi (sistema di difesa) attraverso la disciplina della collaborazione tra pari. “La condivisione cooperativa appresa e sperimentata in seduta è la premessa per il potenziamento della capacità di riflettere sulla propria e sull’altrui mente, contrastando il deficit di mentalizzazione tipico degli stati traumatici, permettendo così la regolazione di impulsi ed emozioni” precisa Liotti.

Sulla base dell’analisi dei dialoghi di 267 pazienti e avvalendoci del metodo AIMIT, che consente di inferire le motivazioni interpersonali attive nei parlanti sulla base di quello che dicono, è risultato che solo l’assetto motivazionale di collaborazione paritetica, fondante per un’efficace alleanza di lavoro, è in grado di migliorare la qualità delle relazioni interpersonali in seduta, favorendo il raggiungimento delle mete interpersonali e disattivando il sistema dell’accudimento che determina passività, ostacolando l’autonomia” spiega il Dr. Brasini, Psicologo Psicoterapeuta.

E aggiunge: “Un ulteriore aspetto promosso dalla collaborazione paritetica è costituito dall’organizzazione e coordinazione dei sistemi motivazionali interpersonali. Quando si riconosce l’esistenza di una meta interpersonale dominante è possibile adottare un repertorio comportamentale tipico di un’altra tendenza innata, in maniera intenzionale, al fine di raggiungere più facilmente la meta. Un esempio è quello della madre che deve dar da mangiare a suo figlio (accudimento) e utilizza il gioco dell’aeroplanino (gioco sociale), innescando un circolo virtuoso di interazione tra due sistemi motivazionali”.

Le conclusioni a cui giungono la ricerca e la pratica clinica sembrano confortanti: autonomia, organizzazione, apertura relazionale e autoregolazione emotiva come conquiste possibili, anche a dispetto della stabilità dei modelli operativi interni a partire dalle prime esperienze infantili.

Da Bowlby apprendiamo che i modelli operativi interni, ovvero le rappresentazioni mentali del mondo, di sé, della figura di accudimento e di sé-con-l’altro, non mutano nel tempo. La mancanza di fiducia, la paura, il sospetto, a fronte di un attaccamento insicuro permangono per tutta la vita. Eppure nulla è perso, perché è possibile costruirne di nuovi, attraverso la collaborazione paritetica, e la psicoterapia rappresenta un’occasione privilegiata. Ecco che un paziente borderline non darà il numero di telefono a una ragazza che gli piace perché recupera nel suo modello operativo interno traumatico l’idea di rifiuto e abbandono, e sarà sopraffatto dal conflitto desiderio-paura (disorganizzazione del comportamento per l’attivazione contemporanea di sistemi motivazionali incompatibili, attaccamento e difesa). Al ritorno dalla seduta potrà però visualizzare l’immagine del suo terapeuta di cui si fida e almeno tentare un approccio, sperimentando e incrementando le proprie capacità riflessive. Tentativi faticosi, certamente, perché i modelli infantili vengono attivati in automatico, con una via d’accesso facilitata, mentre ci vuole impegno per attivare quelli nuovi e più adattivi”.

Si riferiamo alla coazione a ripetere di freudiana memoria (come la convinzione di essere sempre rifiutati sulla base delle proprie esperienze precoci infantili) contro la possibilità di sperimentare nuovi modi di sentire e pensare per una vita più appagante, armoniosa e funzionale.

Slam Poetry: Il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Neil Hilborn

Neil Hilborn, “OCD” Il disturbo ossessivo compulsivo

Scopri di più sul Disturbo Ossessivo-Compulsivo

 

Neil Hilborn, l’autore della poesia sul disturbo ossessivo compulsivo

Neil Hilborn ha vinto il premio “College National Poetry Slam” e si è laureato con lode in scrittura creativa presso il Macalester College, negli States. Trovare il suo blog qui.

 

Gioco del calcio e funzioni cognitive: un legame vincente

Secondo un nuovo studio, la memoria di lavoro ed altre funzioni esecutive nei bambini e nei giovani, possono essere associate al successo che essi riscuotono sui campi di calcio. I ricercatori del Karolinska Institutet in Svezia, sostengono che le squadre che si focalizzano troppo sulle qualità fisiche, rischiano di lasciarsi sfuggire futuri campioni.

Le qualità necessarie per essere dei campioni nel calcio

Le qualità fisiche come dimensioni, forma e forza, insieme al controllo di palla, sono state a lungo considerate come fattori critici nella ricerca di nuovi talenti nel gioco del calcio.

Il terzo fattore, il concetto un po’ vago di “intelligenza di gioco”, definito come la capacità di essere nel posto giusto al momento giusto, è stato sempre difficile da misurare.

Nel 2012, i ricercatori del Karolinska Institutet, hanno dato una possibile spiegazione scientifica al fenomeno, legandolo alle funzioni esecutive ed hanno dimostrato che, nei giocatori adulti, queste ultime potrebbero essere associate al loro successo sul campo di gioco.

In un nuovo studio, pubblicato nella rivista scientifica “PLOS ONE”, i ricercatori hanno illustrato che le facoltà cognitive possono essere similmente quantificate e collegate a quanto i bambini ed i giovani giochino bene.

[blockquote style=”1″]E’ interessante notare che le squadre di calcio si focalizzano fortemente sulle dimensioni e la forza dei giovani giocatori [/blockquote]sostiene il Dr. Predrag Petrovic del Dipartimento di Neuroscienze Cliniche del Karolinska Institutet.

[blockquote style=”1″]I giovani giocatori che si trovano indietro con lo sviluppo fisico, hanno raramente la possibilità di essere scelti come potenziali giocatori di alto livello, e ciò comporta che i team rischiano di trascurare dei nuovi potenziali Iniesta o Xavi.[/blockquote]

 

Le funzioni esecutive e l’importanza nello sport del calcio

Le funzioni esecutive consistono in alcune funzioni cerebrali di controllo, che permettono agli essere umani di adattarsi ad un ambiente in uno stato perpetuo di cambiamento. Esse includono il pensiero creativo finalizzato al cambiamento rapido di strategie, la ricerca di soluzioni nuove ed efficaci, e la repressione di impulsi disadattivi. Queste funzioni dipendono dai lobi frontali, che continuano il loro sviluppo fino all’età di 25 anni circa.

Nello studio, i ricercatori hanno misurato alcune funzioni cognitive in 30 giocatori d’elite, di età compresa tra 12 e 19 anni, ed hanno confrontato i risultati con il numero di goal che i soggetti avevano segnato in un lasso di tempo di due anni.

Sono state scoperte forti evidenze per quanto riguarda il legame di diverse funzioni esecutive col successo sul campo di gioco, anche dopo aver controllato altri fattori che potevano influenzare la performance, soprattutto per quanto riguarda le forme più “semplici” di funzioni esecutive, come la working memory, che completa relativamente presto il suo sviluppo nel percorso di vita.

[blockquote style=”1″]Il risultato era abbastanza atteso, poiché le funzioni cognitive sono meno sviluppate nei soggetti giovani, rispetto agli adulti, fattore che si riflette probabilmente nel modo di giocare dei giovani, caratterizzato da meno passaggi che conducono al goal[/blockquote] sostiene Petrovic.

I soggetti del campione dello studio hanno anche mostrato punteggi più alti, rispetto alla media della popolazione generale della stessa età, in diversi test che misuravano le funzioni esecutive.

Un possibile sviluppo di questa ricerca, sarà quello d’indagare se queste facoltà siano ereditate o possano essere allenate, così come stabilire l’importanza di diverse funzioni esecutive nelle varie posizioni di gioco.

[blockquote style=”1″]Crediamo che i ruoli di gioco possano essere legati a diversi profili cognitivi. Credo che gli allenatori inizieranno ad utilizzare sempre di più dei test cognitivi, sia per ricercare talenti, sia per stabilire la posizione in cui essi possano giocare.[/blockquote]

La metafora come strumento di cambiamento in psicoterapia

La metafora costituisce una lente di ingrandimento messa a disposizione del paziente per vedere certi aspetti vissuti con problematicità in modo amplificato e rendendo il messaggio veicolato più potente e ricco di significati diversi. Inoltre, l’uso della metafora in terapia stimola tra terapeuta e paziente il rafforzamento del canale emotivo-affettivo creando empatia e sintonia (Brink, 1988).

Noemi Monti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

“La metafora è considerata non solo un abbellimento linguistico, ma una forma di pensiero, uno strumento che permette di categorizzare le nostre esperienze. La realtà è definita in termini metaforici e le metafore incidono sul modo di percepire, di pensare, di interagire e giocano un ruolo molto significativo nel determinare ciò che è reale per noi”.
(Lakoff e Johnson, 1998)

 

L’impiego della metafora negli approcci di psicoterapia

La metafora è parte integrante della nostra realtà quotidiana. Da anni è oggetto di studio della scienza cognitiva e della linguistica, ma non solo. Numerosi approcci terapeutici si sono interessati alla metafora come strumento di cambiamento. Il primo ad utilizzarla in modo sistematico in seduta è stato Erickson (1984), con l’obiettivo di stimolare nei pazienti il riconoscimento di un significato implicito o subliminale all’interno dei suoi racconti e dei suoi aneddoti.

Successivamente i diversi approcci psicoanalitici e l’Acceptance and Commitment Therapy hanno ripreso l’intuizione dello studioso e, adattandola al loro background teorico, hanno fatto uso in modo massiccio della metafora e delle altre figure retoriche nel loro approccio clinico.

Nella terapia cognitivo comportamentale meno attenzione è stata dedicata alla metafora: la sua modalità di utilizzo è stata maggiormente lasciata alla capacità del singolo terapeuta piuttosto che sistematizzata all’interno della terapia. Malgrado ciò già Beck e Emery (1985) utilizzarono con alcuni loro pazienti delle metafore. Una delle più note riguarda una giovane scrittrice che non riusciva più a scrivere nulla in quanto, ogni qualvolta lo faceva, il risultato non era per lei soddisfacente. A quel punto il terapeuta cercò di convincerla che l’importante, almeno all’inizio, era scrivere, indipendentemente dalla qualità letteraria raggiunta. Tale tentativo non andò a buon fine e la paziente continuava a rifiutarsi di scrivere. Allora il terapeuta provò con una metafora: “Scrivere è come pompare dell’acqua. Se una pompa non viene usata per tre anni, si accumula una grande quantità di ruggine e sporcizia. Bisogna pompare l’acqua un po’ meno per eliminare la sporcizia. Lei sta facendo qualcosa di simile. Quando comincia a pompare dopo tre anni di inattività e vede che esce un’acqua di colore marrone conclude che, non essendo limpida, non è buona e così chiude il rubinetto. Ma quello che deve fare è lasciare scorrere l’acqua finché diventa di nuovo limpida”. Dopo quel racconto la paziente, non senza qualche difficoltà, riprese a scrivere.

La metafora si struttura così come una forma del pensiero prima ancora che di linguaggio e come una forma concettuale prima ancora che espressiva.

Secondo Casonato (2003) è il modo di pensare, di immaginare la realtà e di interpretarla ed è alla base delle reazioni emotive dei comportamenti del paziente indipendentemente dalla sua struttura psichica. Ma non basta usare una metafora per ottenere un cambiamento significativo nel paziente.

L’uso della metafora è un’arte e come ogni arte richiede rigore nell’impararla e creatività nell’utilizzarla. Innanzitutto per essere efficace una metafora deve essere ben integrata nella conversazione terapeutica. Ciò implica che il suo utilizzo può avvenire quando tra terapeuta e paziente si è instaurata una buona relazione ed il terapeuta conosce gli aspetti della vita del paziente che lo caratterizzano e/o che per lui sono importanti. Non esiste un set di metafore base che funzionano, ma ogni metafora è tailor made su quel paziente. Nel caso per esempio di un paziente con la passione dell’informatica, molto utili potrebbero rivelarsi i parallelismi con quel mondo durante la seduta.

 

Le fasi per definire una metafora

Gordon (1978) individua tre fasi del processo di creazione di una metafora. In primo luogo occorre raccogliere le informazioni, ovvero indagare i soggetti coinvolti nella situazione ritenuta problematica: gli aspetti caratteristici, il tipo di azione/reazione messe in atto, gli ostacoli che impediscono al paziente di mettere in gioco un atteggiamento più funzionale.

In secondo luogo c’è la costruzione della metafora vera e propria, ossia identificare il problema del paziente, definire l’obiettivo, delineare il contesto di riferimento e generare un simbolismo e un isomorfismo in grado di generare un’esperienza vicaria funzionale all’attivazione di ristrutturazioni con conseguenti soluzioni alternative.

L’ultima fase è quella della soluzione del problema, ovvero l’applicazione della metafora negoziata e rielaborata dal paziente affinché avvenga un cambiamento. Compito della terapia è proprio quello di facilitare l’elaborazione esperienzale ed emozionale piuttosto che quella concettuale, supportando il paziente a essere consapevole della propria modalità personale di essere nel mondo e di rapportarsi (Greenberg, Rice e Elliott, 2000).

Il successo di una metafora dipende dalla sua capacità di riuscire a coinvolgere alcune componenti cognitive:
1. l’evocazione di contenuti visivi. Una metafora veicola anzitutto un’immagine. E’ come se il problema del paziente acquisisse più concretezza, più chiarezza, incarnandosi in una figura ben definita;
2. l’integrazione degli aspetti verbali e di quelli immaginativi. La capacità di integrare questi due aspetti permette, secondo Watkins (2008), di diminuire i rischi legati alla generalizzazione e alla scarsa risoluzione dei problemi. Nella letteratura sulla terapia cognitivo comportamentale è stato evidenziato come una preponderanza di elaborazione verbale porti a infruttuose ruminazioni che non consentono al paziente un’elaborazione maggiormente flessibile dei vari tipi di informazione che possiede;
3. la considerazione di più concetti contemporaneamente. La metafora stimola la capacità del soggetto di tenere in considerazione, nello stesso momento, due o più concetti diversi. Questo porta alla stimolazione del problem solving che è stimolato da una più ampia considerazione dei singoli aspetti di uno specifico problema al fine di connetterli o differenziarli;
4. la consapevolezza di punti in comune al di là delle differenze superficiali. La metafora consente di creare un ponte tra un concetto astratto e un’immagine concreta e di recuperare da quest’ultima delle percezioni e delle sensazioni “dormienti” nella memoria storica emotiva della persona;
5. l’uso flessibile di più significati. Secondo Lakoff e Johnson (1980) una stessa metafora è portatrice di più significati che diventano salienti di volta in volta rispetto a un determinato paziente e in un determinato contesto. Il rischio che lamentano gli autori, tuttavia, è che vengano compresi dai pazienti un solo significato alla volta, lasciando sullo sfondo gli altri, altrettanto importanti. Per questo suggeriscono di utilizzare più metafore per esplorare uno stesso tema piuttosto che una.

A sostegno di ciò portano la metafora della gamba rotta, particolarmente utilizzata nei pazienti che soffrono di depressione. I pazienti depressi sono comprensibilmente frustrati dai loro sintomi. Ciò che per loro è più doloroso è il continuo confronto con quando stavano meglio e il ripetersi che dopo alcune sedute di terapia dovrebbero ritornare quasi come prima. Il terapeuta allora chiede al paziente di immaginarsi di essere un maratoneta che, a causa di un infortunio, si rompe una gamba e lo invita a chiedersi se sarebbe così duro ed esigente con se stesso nel riprendere a camminare e a correre. In questo caso la metafora rende saliente il concetto di tempo di recupero necessario per guarire, ma lascia sullo sfondo l’incertezza a cui si può andare incontro in questo percorso e che può portare a vivere una situazione di smarrimento. In questo caso è utile affiancare alla metafora della gamba rotta anche quella del viaggio nel buio. L’utilizzo di più metafore deve essere fatto con molta accuratezza così da non ingenerare confusione nel paziente. Tuttavia utilizzarne diverse può anche inviare al paziente un meta-messaggio utile: ci sono modi diversi di guardare le cose.

Il coinvolgimento di tutti questi processi fa sì che la metafora costituisca una lente di ingrandimento messa a disposizione del paziente per vedere certi aspetti vissuti con problematicità in modo amplificato e rendendo il messaggio veicolato più potente e ricco di significati diversi. Inoltre, l’uso della metafora in terapia stimola tra terapeuta e paziente il rafforzamento del canale emotivo-affettivo creando empatia e sintonia (Brink, 1988). Infine è un valido strumento per l’insight in quei contesti che sfuggono alla comprensione diretta.

Pacciolla (1991) riassume le funzioni di efficacia della metafora:
– motivare, attivare un paziente deluso, scoraggiato che reputa i suoi problemi insolvibili;
– superare le difficoltà ad affrontare situazioni o temi importanti per la vita del paziente o quando si osserva una scarsa disponibilità ad accogliere le riformulazioni del terapeuta;
– affrontare il disagio che si può costituire utilizzando una comunicazione diretta;
– aumentare il grado di coinvolgimento evitando la deconcentrazione e la perdita di interesse;
– sfruttare il potere evocativo delle immagini e consentire che queste rimangano in memoria il più a lungo possibile;
– adeguarsi al linguaggio indiretto del paziente;
– vedere un problema in un contesto diverso che lascia spazio anche ad un’opportunità;
– mostrare al paziente come i suoi pensieri e i suoi comportamenti siano legati ad un certo modo di vedere le cose che potrebbe non essere né l’unico né tantomeno il più funzionale.

Quanto presentato permette di osservare una forte analogia tra l’effetto che stimola una metafora e la ristrutturazione cognitiva che si pone come uno degli elementi centrali della terapia cognitivo comportamentale. L’efficacia della metafora nel cambiamento non è dimostrata solo dalla pratica clinica ma anche da alcuni studi che hanno documentato come il cervello risponda se stimolato da una figura retorica.

Benson e Hays (2003) sostengono l’esistenza di una base neurale della metafora e che l’ascolto di una metafora lunga porti la persona ad un abbassamento del livello di attenzione con conseguente cambiamento dell’attività elettrica del cervello che passa dalle onde cerebrali beta tipiche dell’attenzione attiva alle onde alpha proprie della veglia rilassata. Tale mutamento di attività crea nel paziente uno stato di maggior apertura e minor tentativo di razionalizzare il suo vissuto problematico e consente l’integrazione degli aspetti emotivi. Erickson (1984) ha paragonato questo stato alla trance che consentiva la registrazione dei messaggi trasmessi dal proprio subconscio per la valutazione dell’esperienza complessiva.

L’utilizzo della metafora nella terapia cognitivo comportamentale

Stott, Mansell, Salkovskis, Lavender, Cartwright-Hatton (2010) hanno sintetizzato alcuni punti chiave per l’utilizzo delle metafora all’interno della terapia cognitivo comportamentale.

1. L’importanza dell’interazione terapeuta-paziente: la negoziazione e la scoperta guidata

Come anticipato, l’uso della metafora richiede un’interazione ricca e ben integrata tra paziente e terapeuta finalizzata a costruire la strada migliore per trasformare in modo funzionale la visione di sé e del mondo. Ciò implica una condivisione e discussione dei significati implicati con lo scopo di giungere ad una negoziazione della metafora da utilizzare. Una volta individuata la metafora il terapeuta deve farsi promotore della fase di scoperta guidata in cui la metafora viene destrutturata e analizzata. A volte questa fase è più complessa per il terapeuta che per il paziente in quanto la stessa metafora può essere utilizzata in circostanze differenti e per scopi differenti. A volte il percorso terapeutico viene paragonato a un viaggio e al paziente viene data una cartina al cui interno indicare tappe ed ostacoli da superare. Altre volte il terapeuta viene paragonato a un detective privato, mentre il paziente ad uno scienziato. L’idea comune è quella di scoprire qualcosa, anche se il percorso può essere arduo.

2. Il momento migliore per utilizzare la metafora

Non esiste un momento preciso per introdurre nel dialogo terapeutico una metafora. Questa può essere collocata centralmente in una terapia per stimolare il cambiamento oppure nella parte conclusiva per cristallizzarlo. In qualche caso può essere messa in campo anche all’inizio come strumento per agganciare il paziente. A tal proposito può essere utile portare ad esempio una metafora. Nell’era di Internet è esperienza abbastanza comune che i pazienti giungano in terapia sulla base di qualcosa che hanno letto sulla rete. Generalmente, della terapia cognitivo comportamentale viene apprezzata la sua pragmaticità, il suo intervenire sulla problematica dell’hic et nunc. Viene spesso obiettato che non ci si occupi della causa della sofferenza lasciando nel dubbio che sia solo un intervento superficiale e temporaneo. Quando un paziente arriva con queste osservazioni il terapeuta potrebbe portare alla sua attenzione questa metafora: “immaginiamo che lei si svegli in un letto di ospedale, confuso e stranito e con una gamba rotta. Quanto è importante che si vada a ricercare la causa di quell’infortunio per poterla curare? Il medico prima di operare, tuttavia, farà tutte le verifiche, tutti gli esami necessari per valutare l’intervento migliore. Valuterà inoltre se ci sono degli ostacoli che impediscono la guarigione e delle possibili cause di ricaduta. La terapia cognitivo comportamentale segue questo principio. Non ha senso indagare il passato, ma i riflessi che questo ha nel presente in termini di modalità del funzionamento di ciascuno di noi, così da non ricadere negli stessi problemi”. Alcuni autori obiettano che talvolta la metafora potrebbe rendere le cose più complicate anziché semplificarle e ritengono che una psicoeducazione diretta potrebbe portare a migliori risultati. L’esperienza clinica, tuttavia, suggerisce che la sofferenza in cui si trovano i pazienti potrebbe rendere difficoltoso un processo così esplicito sia dal punto di vista della comprensione cognitiva che di quella emotiva. Inoltre stimola nel paziente l’idea che non solo sia possibile pensare alle situazioni in modo più funzionale ma che si possa imparare a gestire la situazione e non solo a reagirvi. Si supera così anche l’approccio classico per cui il cambiamento terapeutico passa attraverso l’individuazione di errori logici di pensiero.

3. L’importanza di identificare e bilanciare le emozioni

Per B. Beck (1978) la metafora rappresenta un ponte, un’integrazione tra il pensiero razionale e quello emozionale. In ambito terapeutico le metafore possono essere utilizzate per trovare il giusto equilibrio tra l’elicitazione di emozioni cariche e il far sì che tali emozioni non esplodano. Molti terapeuti fanno esperienza del tentativo dei loro pazienti di razionalizzare i problemi. Così facendo in realtà è come se evitassero di pensarli in modo troppo approfondito. Spesso capita con pazienti che soffrono di attacchi di panico che talvolta sono assolutamente consapevoli del fatto che non moriranno né impazziranno. Tuttavia riferiscono che nel momento in cui l’ansia prende il sopravvento formulare questo pensiero diventa quasi impossibile. Altri pazienti cercano, nei momenti di sofferenza, di dirsi delle frasi auto-rassicuranti come: “non preoccuparti, finirà tutto, ho fatto del mio meglio”. Tutto ciò allo scopo di combattere alcune paure. Questo tuttavia conduce, come prima, ad un evitamento esperienziale che non solo mantiene, ma addirittura può aumentare il disagio del paziente, sebbene questo sia spesso convinto del contrario. L’unica strategia messa in atto dal paziente è quella di contraddire il pensiero negativo anziché attuare una ristrutturazione delle credenze. Nell’ambito delle emozioni è spesso necessario sostenere nel paziente un passaggio “dalla testa al cuore”. Per farlo il terapeuta può mimarlo toccandosi prima la fronte e poi passando la mano alla parte sinistra del cuore. Non di meno può essere utile portare le parole auto-rassicuranti del paziente in una metafora facendo in modo di vedersi in questo atteggiamento dal di fuori. Così facendo potrà capire come tale tentativo potrà, al limite, portare solo ad un miglioramento superficiale e temporaneo.

Infine si segnala che, a parere degli autori, le espressioni metaforiche mettono in luce vividamente che le emozioni positive fanno crescere, danno forza ed energia e sono utili, mentre quelle negative possono risultare dannose e per questo non vanno evitate ma gestite.
Uno dei binomi più utilizzati e frequenti in psicoterapia nell’ambito delle metafore è quello di cibo ed emozioni: “ho un peso sullo stomaco”, “mi sento avvelenato dalle loro cattiverie”. Per un terapeuta riuscire a cogliere il significato profondo di queste metafore all’interno di una seduta può essere molto prezioso.

4. La metafora come chiarificatrice del binomio emozione-cognizione

L’idea sottostante al modello di Beck (1976) è che le reazioni emotive delle persone siano funzionali alla modalità in cui esse organizzano la realtà e attribuiscono significato ad eventi e situazioni. E’ il significato che si attribuisce agli eventi ad elicitare certe emozioni piuttosto che gli eventi stessi. Le emozioni appartengono a un particolare tipo di interpretazioni. Si mette in luce perciò l’importanza della specificità emozione-cognizione. Tale specificità è ben illustrata dalla metafora di Salkovskis (1996) in cui racconta di tre uomini che incapparono, una mattina, in un escremento di cane. Malgrado la situazione fosse la stessa, le reazioni furono diverse. Il primo iniziò a pensare che capitano tutte a lui e che è una persona molto sfortunata. Il secondo cominciò a chiedersi se fosse più opportuno andare a casa e cambiarsi le scarpe arrivando in ritardo al lavoro e col rischio perciò di perderlo oppure andare al lavoro ed essere redarguito dal capo per mancanza di igiene personale rischiando, ancora una volta di perderlo. Il terzo invece si disse semplicemente “meno male che non ho messo i sandali stamattina” e passò oltre. Questa metafora veicola due importanti concetti. Il primo è che la terapia cognitivo comportamentale non ha come obiettivo quello di indurre i pazienti a pensare più razionalmente né tantomeno positivamente. Il secondo è che ci sono diversi modi di vedere una determinata situazione o problema. Spesso invece nei pazienti vi è la convinzione che quello che provano o sentono sia il riflesso diretto di quello che vivono.

5. La metafora a supporto delle spiegazioni alternative alle situazioni

La metafora può supportare il paziente nel dare spiegazioni alternative alle situazioni vissute, spiegazioni che non vanno necessariamente nell’ottica di essere rassicuranti. Per accettare una spiegazione alternativa e per farla sua (soprattutto se si tratta di credenze disfunzionali) il paziente deve avere a disposizione innanzitutto una spiegazione comprensibile e chiara. Proviamo a spiegarlo con una metafora. Una donna trova sul cellulare del compagno dei messaggi con la sua migliore amica in cui si danno un appuntamento. La donna chiede immediatamente spiegazioni a entrambi ed entrambi la rassicurano dicendo che tra di loro non c’era alcuna relazione. Di questa spiegazione però non è soddisfatta e continua a nutrire dubbi e preoccupazioni. Anzi, le rassicurazioni sembrano aver peggiorato la situazione. I dubbi e le preoccupazioni svaniscono quando scopre che gli incontri clandestini sono finalizzati all’organizzazione di una festa a sorpresa per lei. Ecco la spiegazione alternativa chiara e convincente. Persons e Tompkins (2007) suggeriscono che la metafora può supportare la formulazione di spiegazioni alternative e consente al paziente di farlo in un ambiente immaginario e, per questo, protetto. La formulazione del problema e delle sue alternative è centrale nella terapia cognitivo comportamentale. Bieling e Kuyken (2003) suggeriscono che “la riformulazione della situazione può essere definita come un set coerente di inferenze che spiegano i fattori che causano e mantengono i problemi presenti nella persona”. Butler (1998) sostiene che nella formulazione dei problemi del paziente può essere utile disegnare con lui concretamente una mappa in cui indicare gli obiettivi da raggiungere e gli ostacoli che potrebbero esserci. Terapeuta e paziente in questa visione sono esploratori e la mappa può essere all’inizio parziale e incompleta. Man mano che il percorso di terapia procederà si andrà a perfezionare le tappe e a condividere in maniera più puntuale ostacoli, problemi e alternative. Questa prospettiva veicola nel paziente un approccio di empowerment aiutandolo sempre più a gestire le situazioni in prima persona anziché reagirvi facendo attenzione ad essere sempre allineati ai suoi valori.

6. Ognuno ha la giusta metafora

Un importante compito del terapeuta è quello di selezionare la o le metafora/e che siano significative per il paziente ovvero sufficienti ad assicurare l’elaborazione e la comprensione del suo vissuto. Non capita raramente che i pazienti sostituiscano le metafore proposte dal terapeuta con altre ritenute più salienti. Questo atteggiamento dovrebbe essere incoraggiato perché pone le basi per il terreno comune su cui lavorare in seduta. Il terapeuta può tuttavia aggiungere alla metafora del paziente alcuni elementi che ritiene importanti per una corretta comprensione e valutazione.

Inoltre deve supportare il paziente nell’individuare gli elementi centrali della metafora e collegarli agli aspetti problematici specifici per quel paziente. L’ultimo passo è quello di supportare il paziente nel testare la validità delle implicazioni che la metafora/situazione ha e le conseguenze sulla sua vita. La stimolazione di tale consapevolezza potrebbe portare il paziente ad aumentare la sua comprensione delle vicende del passato e a condurre veri e propri esperimenti comportamentali per verificare la bontà delle spiegazioni alternative trovate. Ciò inoltre fornisce un utile supporto al passaggio “dalla testa al cuore” cui si è fatto cenno prima.

Oltre ai punti chiave per utilizzare una metafora nella terapia cognitivo comportamentale occorre tenere presente anche alcune caratteristiche fondamentali.

Innanzitutto deve essere immediatamente disponibile alla comprensione dalla persona a cui è proposta. Ciò implica che la scelta della metafora dovrebbe, preferibilmente, basarsi sul background della persona e i suoi interessi. In alternativa si possono scegliere metafore aventi a che fare con esperienze “largamente diffuse”: ad esempio il terapeuta può utilizzare l’espressione scoppio di pianto per rendere più comprensibile la sensazione di perdere del controllo. Scoppiare in pianto può essere sintomo di sopraffazione ma non è in alcun modo irreversibile. E’ questa non irreversibilità che permette al paziente di dare un senso nuovo alla sua esperienza.

La scelta della metafora, inoltre, deve essere in linea con la cultura di chi si ha di fronte ed il suo sistema di valori. Talvolta vengono utilizzate delle metafore “universali” ad esempio quelle che riguardano i temi evoluzionistici. Oppure si possono utilizzare delle metafore molto concrete che si riferiscono, a titolo esemplificativo, animali, piante e costruzioni. In ogni caso non necessariamente la metafora per essere compresa deve essere sperimentata effettivamente. Un esempio di metafora transculturale è quella del market cinese. Ci si può immaginare di acquistare dei prodotti in un negozio conosciuto e degli altri in un negozio cinese in cui non ci si è mai recati. L’esperienza soggettiva può essere molto diversa. Tuttavia una disamina più attenta può consentire di cogliere degli elementi molto simili: tutti si recano in un negozio per comprare e vendere. Ciò che cambia sono i dettagli. Così la fobia sociale in Gran Bretagna è la stessa di quella presente in Giappone. Quello che è differente sono i valori socio culturali di riferimento.

L’umorismo in terapia

Infine, una delle caratteristiche delle metafore è che esse, talvolta, possono assumere la forma di barzellette e storie umoristiche. L’umorismo in terapia deve essere utilizzato molto prudentemente per evitare che il paziente si possa sentire deriso o non compreso adeguatamente. Per questo occorre che siano valutati due fattori chiave: il contesto in cui l’umorismo è usato e la relazione terapeutica. Se contesto e bontà della relazione terapeutica lo consentono una metafora in chiave umoristica può avere un’ottima efficacia.

Ci sono due tipi di umorismo. Il primo è l’umorismo cosiddetto accidentale in cui il paziente è divertito da qualcosa che il terapeuta ha detto. In tali circostanze è utile, una volta concluso il momento divertente, chiedere al paziente che cosa abbia trovato di comico, anche se spesso ciò rovina la battuta. Altre volte invece le metafore umoristiche possono essere maggiormente deliberate. Ad esempio, nel caso di un paziente con tematiche ossessive che si lava molte volte al giorno le mani per paura di contaminare gli altri facendosi portatore di germi letali, il terapeuta, dopo aver raggiunto una buona alleanza, potrebbe suggerirgli di candidarsi per lavorare con i servizi segreti mettendo così a disposizione la sua grande capacità di mettere in pericolo e addirittura uccidere una persona semplicemente non lavandosi le mani e passandogli qualcosa. Il paziente, generalmente, troverà divertente questo parallelismo. La metafora lo aiuterà a capire che le persone spesso si sentono responsabili di ciò che non sono e di ciò che non controllano. Lo humour può cristallizzare questo messaggio.

Come anticipato in premessa – e confermato da McMullen (2008) – lo studio della metafora in psicoterapia non è approfondito quanto il suo utilizzo. Ciò viene imputato al fatto che ogni metafora ha un significato troppo specifico per ciascun paziente e quindi diviene complesso generalizzare la sua efficacia in uno studio ampio. Malgrado ciò, una ricerca di Casonato (2003) ha riscontrato una maggiore efficacia della terapia laddove si faccia un utilizzo significativo di questa figura retorica. Ci si auspica quindi per il futuro un numero più ampio di studi che possano anche determinare una correlazione significativa tra caratteristiche del paziente, tipi di metafora usata e loro efficacia.

 

Che vuoi che sia (2016): riflessioni sull’intimità 2.0

Che valore scegliamo oggi di dare alla nostra intimità? E’ uno dei temi principali sollevati nel nuovo film Che vuoi che sia di Edoardo Leo in compagnia di Anna Foglietta.

 

In Che vuoi che sia una giovane coppia molto affiatata e alla ricerca di una difficile realizzazione professionale, per una serie fortuita di circostanze, si trova a vivere una situazione in cui è costretta a riflettere sul valore sacrificale della propria intimità di coppia (sessuale e non solo) in cambio di una possibile e cospicua somma di denaro che consentirebbe loro di allontanare le paure e le difficoltà economiche legate a comuni progetti di vita, ovvero fare un figlio e metter su famiglia.

 

Che vuoi che sia: stiamo perdendo la nostra intimità?

La trama del film Che vuoi che sia si sviluppa ai giorni nostri, in una società ormai modificata dall’esistenza dei social, in cui le regole dei rapporti umani e lavorativi sembrano essersi evoluti trasformando le relazioni e la percezione di noi stessi in maniera radicale e spesso disorientante, specie per le (un po’ più) vecchie generazioni. Ci troviamo a riflettere su come uno degli aspetti e valori determinati e determinanti della personalità dell’essere umano, come appunto l’ intimità, rischi di finire inconsapevolmente promosso (o forse declassato e umanamente impoverito) a strumento indirizzato alla ricerca dell’affermazione e del riconoscimento all’interno dei nuovi parametri dettati dalla social society. Insomma: allarme! La nostra intimità si sta evolvendo o semplicemente la stiamo perdendo? Se mai dovesse accadere, ci siamo domandati su quali aspetti basilari della nostra identità, nonché meccanismi regolatori delle relazioni interpersonali stiamo agendo e a cui rischiamo di rinunciare?

C’è chi afferma che il desiderio di intimità è un valore innato insito nell’essere umano e del tutto legato alla promozione del benessere. E’ stato dimostrato che persone che vivono relazioni intime hanno meno probabilità di sviluppare sintomi psicologici, un tasso di mortalità più basso, meno incidenti, e sono addirittura a minor rischio di sviluppare malattie rispetto a quelli che non hanno relazioni intime (Prager, 1995).

Per Levine (1981) l’ intimità psicologica è la “colla delle relazioni importanti”. Problemi di intimità sono strettamente collegati a molti disturbi di salute mentale (Fisher & Stricker, 1982). Il modo in cui l’ intimità facilita lo sviluppo di una sana salute psicologica è ben spiegato in uno dei più completi modelli socio-psicologici (Reis & Shaver, 1988) il quale considera ed unisce coerentemente una varietà di prospettive: nel bambino sviluppo di competenza, padronanza ed autostima attraverso una esplorazione favorita (Ainsworth et al. 1978), cooperazione e sviluppo dell’identità (Sullivan, 1953), creatività ed integrazione emotiva (Erikson, 1950). Questo modello ha dato seguito ad una serie di studi successivi sull’argomento dove  l’ intimità è sempre considerata un importante elemento alla base di una fondamentale funzione interpersonale.

 

Intimità: cos’è e quali sono le sue funzioni?

La visione del film Che vuoi che sia, stimola la riflessione: ma cos’è realmente l’ intimità? Come si determina in noi? E soprattutto a quali funzioni attende nella nostra vita (singola, di coppia e relazionale in genere)?

Fermarmi a riflettere su alcune questioni sollevate dal film Che vuoi che sia ha fatto sì che mi rendessi conto di quanto complessa e articolata fosse la questione e quanti aspetti del nostro vivere quotidiano fossero collegati ad essa senza che ne avessimo sempre la piena consapevolezza.

Prima ancora della riflessione sull’ intimità mossa da Che vuoi che sia, mi viene in mente Neil Patrick Harris alias Barney Stinson, nella serie televisiva How I met your mother, che impersona una delle figure narcisistiche più simpatiche ed azzeccate che abbia mai visto. Nell’interpretazione di tale ruolo, l’evitamento della vicinanza profonda, il totale apparente disinteresse ed una smarrita empatia col prossimo sono praticamente le principali peculiarità che caratterizzano il personaggio, il quale tuttavia, pronuncia una delle affermazioni più sensate che abbia mai sentito sul concetto di intimità:

La mia regola aurea è: mai offrire una cena a qualcuno per ottenere un sì! Cenare con una persona è un’attività molto intima, che richiede un grado di comunicazione e anche di contatto visivo che il sesso non ha! Io sarò anche antiquato ma devo andare a letto con una ragazza almeno tre volte prima di un’eventuale cena con lei.

Se riflettiamo su queste parole forse ha senso domandarsi: è possibile vivere in modo soggettivo l’ intimità stabilendo consapevolmente o meno gli ambiti della nostra esistenza che riteniamo più nostri, riservati e che per qualche motivo non riusciamo a condividere facilmente con tutti?

Forse sì e questo ci complicherebbe non di poco la possibilità di ragionarci sopra, ma se cerchiamo di definirla ulteriormente, osservando i vari modi in cui essa viene vissuta, forse riusciremmo a trovare delle caratteristiche trasversali a tutti in grado di semplificare sicuramente la sua comprensione.

Un mio paziente una volta mi disse, senza preoccuparsi di nasconderne l’entusiasmo, di identificarsi e di ammirare molto il personaggio di Barney Stinson. Forse non era affatto un caso che egli, al pari del personaggio, riuscisse ad intrattenere con estrema facilità e disinvoltura rapporti con differenti partner, in tali situazioni, non necessariamente di natura occasionale, egli si sentiva affermato, sicuro di se, della sua prestanza e della propria fisicità, ma nonostante ciò, aveva sempre il suo momento di fuga: avveniva, successivamente al momento dell’orgasmo, che scattasse il piano di ritiro strategico, dove un repertorio di scuse, recitato durante la raccolta degli abiti, gli garantivano il raggiungimento della porta in tempi sempre brevissimi.

Può non essere affatto un caso che, in sessuologia clinica, nella curva della risposta sessuale (Master e Johnson 1954), la fase della risoluzione (successiva all’orgasmo) sia anche definita fase dell’ intimità, dove la vicinanza percepita con l’altro è maggiore. Liberi dalle tensioni precedenti, ci si sente più esposti e vulnerabili, è quello il momento, in cui ci si copre o si va a fumare una sigaretta oppure si resta nudi e abbandonati a piacevoli coccole. Per il clinico questo costituisce un potente marker sul grado di intimità della coppia, che si manifesta non solo in camera da letto.

Naturalmente il mio paziente non percepiva  consapevolmente quel senso di fragilità ed esposizione che viveva in quella fase; per lui i rapporti finivano lì, il resto era superfluo. Il successivo incontro con una persona diversa dalle solite gli ha permesso di alterare il copione ed esplorare aspetti differenti della relazione, permettendogli di scoprire che l’ebrezza di essere un fantastico amante è solo una parte parte possibile del rapporto e che le “coccole” non sono poi affatto male se ci si riesce ad abbandonare ad esse, ma ancor più che le sue fragilità percepite, come la possibilità che l’altro scorga dei difetti fisici, non sono causa certa di rifiuto, ma anzi possono costituire oggetti di interesse dell’altro verso di noi. Resta quindi da capire cosa di noi (e per noi) è intimo e come far entrare gli altri in questa nostra dimensione.

L’ intimità è un luogo segreto dell’anima con una piccola porta che non apriamo quasi mai a nessuno.
Lì nascondiamo i bisogni più intensi, la responsabilità delle nostre scelte macchiate dai veri dolori e tutto ciò che ci ha reso davvero così.
Se non ti è stato permesso di aprire quella porta non prenderti mai diritti che non hai sulle persone perché delle persone sai molto meno di quel che pensi.
Solo varcando quella porta le conoscerai davvero.
E non la puoi forzare, si apre da sé ed è molto lenta ad aprirsi, potrai spazientirti e decidere di andare.
Però sarà il regalo più grande che potrai ricevere, perché al suo interno c’è la più profonda e chiara rivelazione di cosa sia l’amore. (Massimo Bisotti “Il quadro mai dipinto”)

L’ intimità è appunto quella situazione di fiducia e abbandono verso l’altro in cui ci si sente esposti nelle peculiarità personali più profonde, sia nei pregi che nei difetti, accettando quel senso di fragilità senza percepirne il disagio, in una modalità che non si riesce a condividere certamente con chiunque e ancor meno applicando varie regole consapevoli di farlo.

Affinché questo stato interpersonale sia accessibile in modo sano, è assolutamente necessario, che la persona abbia una percezione definita di se stesso sia a livello di personalità sia di autonomia di quello che è il proprio spazio intimo.

Eduard T Hall (1963) parlando di prossemica, individua l’esistenza di uno spazio intimo (0-45 cm) entro il quale si comunica il sentirsi a proprio agio o meno con persone che riusciamo a sentire vicine e simili a noi. Se osserviamo delle persone interagire in una stanza potremmo farci un’idea sul grado di intimità che esse condividono, ma capire cosa determina e come si struttura quell’ intimità è cosa assai più  complessa che va oltre il solo spazio e la fisicità, in quanto, come nel caso del paziente appena citato, si tratta di un vero e proprio processo che avviene principalmente nella nostra mente. Una dimensione che si esplora e si costruisce nel tempo, in un rito relazionale che non è mai semplice e non è mai per tutti. Che cosa avviene in noi mentre si struttura questa percezione?

Come i protagonisti di Che vuoi che sia, tutti noi abbiamo esperienze variabili del nostro vissuto di intimità. C’è sicuramente chi la determina più sulla fisicità e chi più su un piano di esperienze condivise o magari entrambe, in ogni caso, affinché l’ intimità e la percezione che abbiamo di essa possa determinarsi in noi, è necessario aver sviluppato una buona conoscenza di se stessi e dei confini entro i quali ci si sente definiti.

Quanto detto finora ispirandoci alla clinica, ci invita a riflettere su un possibile paradosso che tende ad apparire più evidente alla presenza di uno stato di malessere della persona, quando la propria intimità non è né percepita né definita, rischiando di vivere una situazione intima senza intimità, una sorta di scissione. Come ad esempio avviene nel caso di una paziente che incontra l’ennesimo “uomo della sua vita” e viene travolta in una relazione sessuale dove le cinquanta sfumature di grigio sbiadiscono al confronto, con assoluta naturalezza e spontaneità, pensando di dare tutto di se stessa, aprirsi anima e corpo ma, giunto il momento in cui lui per strada le afferra la mano per passeggiare in un luogo affollato, lei va nel panico e nello smarrimento più totale generando una reazione di fuga.

 

Che vuoi che sia (2016), TRAILER:

 

L’ intimità e i Social Network

Questa capacità di scissione trova proprio un terreno fertile per svilupparsi nel mondo del web come accade ad esempio al mio paziente che, dopo una vita schiva e ritirata, caratterizzata da poche relazioni interpersonali all’insegna dell’insicurezza e della timidezza, per sfuggire alla noia ed alla solitudine della pensione, decide di intrattenere delle chat definite come “sexting” con perfette sconosciute inviando e ricevendo foto intime, assolutamente ignaro del fatto che la moglie possa ritenerlo un vero tradimento. Accade che un individuo con un tratto di personalità evitante che inizia a desiderare il contatto e la relazione con il prossimo, ritenendosi del tutto inadeguato ed esposto a critiche (per lui intollerabili) e sfavorito da scarse risorse relazionali, individua come risorsa personale app e social network, dove riesce a scavalcare questo gap interpersonale così ostico che noi terapeuti conosciamo abbastanza bene. Ma possiamo considerare questa strategia una risorsa o una soluzione? In modo del tutto assoluto no.

E’ chiaro che il concetto di intimità è assai più complesso di quanto possa sembrare: essa può essere scissa nei suoi vari aspetti i quali vengono selettivamente tenuti riservati o esposti e condivisi in base alle difficoltà  o necessità, oppure può abitare posti diversi nella nostra mente a seconda di ciò che siamo, della nostra esperienza e dell’identità in cui ci definiamo.

E’ giusto domandarsi se i social network riescono a darci la possibilità di vivere la nostra intimità in un modo differente dal passato o semplicemente, amplificano quelle nostre possibili difficoltà che abbiamo nel viverla, riconoscerla e svilupparla, sfalsando la nostra percezione di essa e del nostro spazio intimo?

Che vuoi che sia è la frase che provano a ripetersi i protagonisti del film per dare forza alla tentazione. Frase che potrebbe anche ripetersi (forse) uno dei migliaia di bei ragazzi e ragazze che sempre più, consapevoli del proprio aspetto gradevole, decidono di investire su di esso evitando il percorso iniziale di provini, raccomandazioni ecc. promuovendosi su Instagram in cerca di notorietà condividendo foto in situazioni di “sexy intimità quotidiana”. E’ ormai una regola di mercato per molti di loro, raggiunti i 100k di follower, vedersi giungere proposte commerciali per indossare il vestito o l’occhiale di marca in cambio di un cachet da fare invidia ad un professionista. Certo questa è una nuova forma di lavoro, dove il prodotto in vendita sa poco di valore artistico. E’ semplicemente la seminudità ad attirare l’attenzione o in qualche modo, oltre ad un ovvio senso del bello estetico, c’è una componente che rende interessante e desiderabile l’ intimità altrui?

Oppure il semplice desiderio di protagonismo e condivisione su Facebook che diviene più forte della riservatezza stessa come se fosse di interesse nazionale che il cane di qualcuno posa sotto l’albero di Natale indossando un orrendo maglione con la renna.

Sembrerebbe che se non sappiamo viverla allora decidiamo di venderla oppure ci accontentiamo di sbirciare quella degli altri reale o falsa che sia.

 

Che vuoi che sia: riscoperta dell’ intimità nella minaccia della perdita

La coppia del film Che vuoi che sia, all’inizio forse inconsapevolmente, ha una strutturazione molto forte di quella che è la loro intimità, lo spettatore lo vedrà nel loro modo di comunicare attraverso paradossi che lascerebbero disorientato qualsiasi ascoltatore, ma loro sanno molto bene il significato di un “non ti amo” “non mi manchi per niente”. La tentazione inflitta, definita da centinaia di migliaia di persone pronte a pagare per vederli in camera da letto preferendoli di gran lunga all’ormai troppo facile e svalutato vecchio buon porno d’autore, però metterà a dura prova tutto questo alterando in parte equilibri fondamentali di relazione. I tentativi di ridefinizione cognitiva (“che vuoi che sia” appunto) per accettare il cambiamento saranno tanti, ma proprio quando si avrà la percezione forte di quello a cui si sta realmente rinunciando quasi di fronte al fatto compiuto, qualcosa di “sano” scatterà aiutandoli a ristabilire le loro priorità e ad esplorare risorse alternative alla facilissima via di guadagno e soluzione assaporata e quasi intrapresa.

Accade spesso che già nella prima telefonata in cui si richiede una terapia di coppia, uno dei due possa dire frasi del tipo “…credo che io e mia moglie abbiamo un concetto di intimità differente…” ma quando chiedo in seduta se è sempre stato così ad una coppia che sta insieme da tempo, non si esita mai a rispondere di no, allora io mi limito a commentare “allora cerchiamo di ritrovare una dimensione di intimità che possiate nuovamente condividere…” .

Mi rendo conto mentre scrivo queste righe di quanto mi stia esponendo al rischio di apparire bacchettone: “Che vuoi che sia” appunto, una frase con la quale si cerca ti togliere valore a qualcosa, sminuire una sensazione di pancia che sta li, spinge ed ha qualcosa di importante da dire.

Che vuoi che sia è una piacevole commedia italiana che ci fa riflettere su questo aspetto apparentemente scindibile, vendibile e a volte invisibile della nostra intimità ma in senso più generale più delle nostra stessa esistenza, che può divenire un valore commerciale di facile vendita e distribuzione, una sorta di rivisitazione del Faust dove in vendita era l’anima. Forse proprio questo aspetto dello scibile umano è oggi ad esser richiamato, il vendere qualcosa di noi, magari di non visibile, di apparentemente rinunciabile, per qualcosa apparentemente di maggior valore, come fama, denaro, successo.

Anche Bart Simpson (citazione ancor più colta di Goethe) in una puntata della serie decide di vendere la propria anima per 5 dollari, scrivendola su un foglietto, facendo tra l’altro un pessimo affare, ma ben presto, vivendo piccoli ed insignificanti disagi, si accorgerà a cosa ha realmente rinunciato. Come magari potrebbe accadere in una coppia partendo da quel momento in cui l’altro si inizia a percepire un po’ più lontano.

L’ intimità è una dimensione interna a noi che iniziamo a sviluppare fin dalla nascita e va via via definendosi mentre viviamo esperienze relazionali. Le emozioni che proviamo al contatto con gli altri ci fanno capire quanto possa essere piacevole o spiacevole una maggiore vicinanza o lontananza con gli altri. Presto afferriamo il concetto che non è possibile trovarci a nostro agio gestendo un’equidistanza con tutti, ma la differenziazione di questo diventa un potente meccanismo regolatore delle relazioni che stabiliamo.

Tutto questo in noi è frutto di un lungo processo di definizione della persona e della sua personalità. Il primo step è sicuramente lo sviluppo di un proprio spazio intimo. Questo ci permetterà di percepire i confini che segnano l’intimità anche delle altre persone.

Tutto questo processo di strutturazione dell’ intimità naturalmente, come altri aspetti di definizione della persona, passa attraverso le influenze dei processi educativi, familiari e sociali.

Avverrà naturalmente che più avremo delineate queste dimensioni più potremo sperimentarci nella sensazione del far entrare qualcuno nel nostro spazio intimo per poi accedere alla dimensione in cui si crea suo spazio intimo condiviso e strutturato assieme all’altro.

Una coppia che ha attraversato queste fasi in maniera abbastanza competa avrà sicuramente la percezione (consapevole o non consapevole di tale spazio intimo), avvertirà una stanza mentale di rifugio e condivisione, una sorta di gelosia ed istinto protettivo verso di essa, un qualcosa che se protetta e alimentata in modo sano potrà costituire una delle sue più grandi risorse anche nei momenti di crisi.

Un’altra riflessione mossa dal film Che vuoi che sia è: cosa perderemmo quindi se rinunciassimo all’ intimità senza saperlo? Un livello di interazione molto potente, che si realizza anche nella stanza della terapia dove una persona pian piano affida e condivide la sua storia, le sue emozioni ed i suoi pensieri a qualcuno libera da un giudizio, acquisendo sicurezza, condivisione, conforto e cooperazione in un processo di relazione complesso ed orientato alla promozione del suo benessere.  Un aspetto della mia vita e del mio lavoro, quindi se qualcuno dovesse domandarmi che valore io do all’ intimità la mia risposta può essere soltanto una: infinito e guai a chi me la tocca!

Abbraccialo per me (2016). Un film di Vittorio Sindoni – Recensione

Abbraccialo per me: In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Abbraccialo per me (2016) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #38

Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

Un  film  di  Vittorio  Sindoni  con  Stefania  Rocca,  Vincenzo  Amato, Moise Curia, Giulia Bertini, Pino Caruso.

Trama

Il film Abbraccialo per meè dedicato a tutte le persone che soffrono di disabilità mentale e alle loro famiglie che accanto a loro subiscono falso pietismo o indifferenza in attesa di cure e strutture che gli diano una speranza di vita migliore”.

Francesco vive in un piccolo centro con una madre iperprotettiva, che ha riorganizzato la propria vita intorno alle sue “stranezze”. Quando il disturbo mentale di Ciccio diventa sempre più evidente sarà costretta a prenderne atto. L’equilibrio familiare salta e il padre del ragazzo, dispotico, assente e anaffettivo abbandona moglie e figli al loro destino. La sorella di Francesco riuscirà a trovare una soluzione che permetterà al fratello di ricevere cure adeguate.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DI ABBRACCIALO PER ME:

 

Motivi d’interesse

In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Quando Basaglia, dopo anni di lotte riuscì a far approvare la L. 180/1978 nel nostro paese si aprì la possibilità di curare la malattia mentale in un clima di umanizzazione, con l’obiettivo principale della recovery e dell’inclusione dei pazienti nel contesto comunitario di appartenenza, fuori dai manicomi, istituzioni totali più simili a lager che a luoghi di cura.

La riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale e il superamento della logica manicomiale rappresentava una svolta importante. L’intervento terapeutico e riabilitativo non era più impostato sulla medicalizzazione del paziente ma si apriva ai contributi della psichiatria sociale, alle forme di supporto territoriale, alle potenzialità delle strutture intermedie, e alla psicoterapia nei servizi pubblici.

La legge riconosceva, inoltre, il diritto ai malati di avere una vita di qualità nel contesto d’appartenenza, senza più essere soggetti a “deportazioni” forzate dai luoghi e dagli ambienti familiari.

A distanza di una quarantina d’anni i drammi che vivono tante famiglie sembrano cancellare gli avanzamenti che in una stagione storica ben precisa sono stati compiuti. L’intervento pubblico è sempre più asfittico, le risorse impegnate sempre più ristrette e la speranza di avere cure adeguate porta sempre più malati a rivolgersi al privato.

Nelle pieghe di una burocrazia malata, di norme e strutture carenti, di risorse impiegate male e spesso dissipate e malversate si intrecciano tragedie e disastri. Gli esempi da citare sarebbero tanti e percorrono l’intera penisola da Torino dove si muore in strada per un Trattamento Sanitario Obbligatorio a Salerno dove si muore legati ad un letto di contenzione in SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura).

Certo, negli ultimi anni si sono fatti notevoli progressi nella cura delle malattie mentali, ma chi usufruisce di quelle cure previste dalle linee guida e dai protocolli che le istituzioni e le associazioni scientifiche hanno messo a punto e che dovrebbero rappresentare interventi d’elezione e buone pratiche da adottare in termini universalistici?

Il film di Sidoni coinvolge e denuncia: le responsabilità degli operatori, le fragilità famigliari e personali, l’atteggiamento espulsivo e marginalizzante della comunità, ma dà anche speranza nella possibilità di ricevere aiuto. E’ possibile che quella diversità, che poi tutti affrontiamo come possiamo, che quelle stranezze, che anche ognuno di noi si porta dentro, possano essere comprese, accolte e magari anche trattate quando assumono connotati maladattivi in strutture che facciano del rispetto della dignità umana e della compassione i capisaldi di un percorso di cura anche tecnicamente appropriato.

Il film commuove, ci fa provare tristezza e rabbia, c’è disperazione e speranza e in definitiva ciò che emerge è la difficoltà di affrontare la complessità della psicopatologia. In questa situazione così problematica è la sorella di Francesco, Tania che mantiene la lucidità necessaria – l’amore incondizionato e cieco della madre è disastroso e patogeno – per trovare una soluzione che chiude il film con la speranza che nonostante non sia mai facile fronteggiare la malattia mentale, parafrasando Basaglia e un film di Giulio Manfredonia “si può fare”.

La denuncia di situazioni che tanti vivono quotidianamente in silenzio è l’occasione per ricordare che il problema va affrontato senza pregiudizi e con il coinvolgimento ampio di tutti, perché il livello di una civiltà si misura da come sono trattati i soggetti più svantaggiati e bisognosi.

 

Indicazioni di utilizzo

E’ un’ottima base di riflessione e discussione per promuovere un atteggiamento più aperto e meno stigmatizzante nei confronti della malattia mentale e per coinvolgere le istituzioni pubbliche e sollecitare una maggiore sensibilità a questi problemi da affrontare senza smantellare l’impostazione della L. 180/1978 che ha reso il nostro paese uno dei più avanzati nel campo della salute mentale.

Sintomi di depressione o ansia nei caregiver di persone malate

Attualmente, sono più di 34 milioni le persone che negli Stati Uniti si occupano dei loro cari malati. Uno studio condotto presso l’Università di Medicina del Missouri ha rivelato che quasi un quarto dei caregiver soffre di depressione, mentre un terzo soffre di un disturbo d’ansia. Quindi, alla luce di questi risultati i ricercatori raccomandano ai caregiver di sottoporsi periodicamente a controlli per poter identificare tempestivamente i primi segnali di scompenso.

 

Depressione o ansia nei caregiver di familiari ammalati

[blockquote style=”1″]La tristezza e la preoccupazione verso un familiare ammalato o in fin di vita sono sentimenti attesi e spesso presenti, mentre depressione o ansia sono sintomi differenti e non dovrebbero essere presenti [/blockquote] afferma la Dottoressa Debra Parker-Oliver, principale ricercatore dello studio.

La Dr.ssa Parker-Oliver e i suoi colleghi hanno condotto questo studio, valutando gli stati di ansia e di depressione di circa 395 caregiver e hanno scoperto che circa il 23 per cento di loro soffre di una depressione moderata o grave, mentre al 33 per cento è stato diagnosticato un disturbo d’ansia.

[blockquote style=”1″]Più i caregiver sono giovani, più alte sono le probabilità che essi siano depressi o ansiosi. Ma non solo, si è anche scoperto che i livelli depressivi sono più alti se ci si occupa di un parente affetto dal morbo di Alzheimer.[/blockquote]

 

L’importanza di uno sguardo alla famiglia del paziente ammalato

Secondo la ricercatrice, queste situazioni vengono molto sottovalutate perché gli operatori sanitari tendono a concentrarsi più sul paziente malato invece che prendere in esame un quadro più generale, ovvero tutta la famiglia. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di una malattia che impatta non solo sul paziente, ma anche sui caregiver e su tutto il sistema famigliare.

La Dr.ssa Parker-Oliver conclude affermando che strumenti di valutazione per la depressione e l’ansia sono ampiamente accessibili e una diagnosi precoce potrebbe migliorare le condizioni di vita e il benessere dei caregiver.

La valutazione e il trattamento del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva

La terapia per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato è costituita dal trattamento della sintomatologia del Disturbo da Stress Post Traumatico ampliato con alcune componenti specifiche per il lutto traumatico.

 

Il Disturbo da Lutto Persistente Complicato (DLPC) viene definito dal DSM 5 (APA, 2014) come la  condizione in cui alla perdita di una persona con cui si ha una relazione stretta, l’individuo, manifesta una compromissione psicosociale significativa, anche dopo 12 mesi negli adulti e dopo 6 mesi nei bambini. Tale disagio clinico è dovuto o a una persistente nostalgia della persona persa (Criterio B1), o a un profondo e non gestibile dolore (Criterio B2), o a una forte preoccupazione per la persona deceduta (Criterio B4) o per il modo in cui la persona è deceduta (Criterio B4).

Nonostante si stia registrando un sempre più crescente interesse per bambini e adolescenti colpiti da morte inaspettate e o violente dei propri cari, gli strumenti diagnostici a disposizione per la valutazione di Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva sono ancora pochi.

 

Strumenti diagnostici per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato

Come è sempre consigliato nell’assessment in età evolutiva, anche nella valutazione iniziale del Disturbo da Lutto Persistente Complicato si dovrebbe includere una valutazione del funzionamento passato e attuale del bambino e della famiglia. In aggiunta, dovrebbero essere valutati l’esperienza e le percezioni del bambino circa il decesso della persona amata, i sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico manifestati dal bambino, e l’influenza di questi sintomi sull’abilità di iniziare il normale processo di elaborazione del lutto (Cohen, Mannarino, Greenberg, Padlo & Shipley, 2002).

E’ necessario premettere che, se per l’infanzia e per l’età adulta il materiale è ampio, per l’adolescenza, proprio per le sue caratteristiche di instabilità e varianza, gli strumenti sono pochi e poco affidabili.

 

Test di assessment specifici: la sintomatologia traumatica in età evolutiva

Gli strumenti psicodiagnostici disponibili in lingua italiana e standardizzati per la popolazione italiana in tema di disturbi post-traumatici, purtroppo, sono piuttosto carenti e ancor di più per quanto riguarda l’età evolutiva. Tra gli strumenti di valutazione dei sintomi presentati in adolescenza in conseguenza a un trauma abbiamo:

  • Trauma Symptom Checklist for Children (TSCC)

Il TSCC (Briere, Elliott, Harris & Cotman, 1995) è uno strumento di self report sul distress post-traumatico e sulla connessa sintomatologia psicologica. È indicato per la valutazione dei minori, dagli 8 ai 16 anni, che hanno sperimentato eventi traumatici, compresi abuso fisico e sessuale durante l’infanzia, vittimizzazioni da parte dei pari (per esempio aggressioni fisiche o sessuali), gravi perdite, nonché l’aver assistito a violenze su altri ed essere stati coinvolti in disastri naturali. Diversamente dai test più specifici, il TSCC valuta le risposte dei bambini a eventi traumatici aspecifici in relazione a differenti domini sintomatologici.

Il TSCC è disponibile in due versioni: quella completa composta da 54 item in cui sono inclusi 10 item che sondano sintomi e preoccupazioni sessuali e la versione alternativa (TSCC-A) con 44 item che non contiene riferimenti a temi sessuali.

Presenta anche due misure di validità per valutare la minimizzazione o l’esagerazione dei sintomi. E’ formato da 6 scale cliniche:

  1. Ansia: ansia generalizzata, iperattivazione e paure specifiche; episodi di ansia fluttuante e un senso di pericolo incombente
  2. Depressione: sentimenti di tristezza, infelicità e solitudine; episodi di crisi di pianto; pensieri depressivi come senso di colpa e autodenigrazione; autolesionismo e tendenze suicidarie
  3. Rabbia: pensieri, sentimenti e comportamenti connotati da rabbia, compresi il sentirsi furiosi, sentirsi cattivi e sentire di odiare gli altri; avere difficoltà nello smorzare la rabbia; voler uralre o far male alle persone; litigare e lottare
  4. Stress post-traumatico (PTS): sintomi post-traumatici, compresi pensieri intrusivi, sensazioni e ricordi di eventi passati dolorosi; incubi; paure e evitamento cognitivo di sentimenti dolorosi.
  5. Dissociazione (DIS): sintomatologia dissociativa, compresa derealizzazione; mente vuota; stordimento emozionale; sensazione di far finta di essere qualcun altro o da qualche altra parte; sogni a occhi aperti; problemi di memoria e evitamento dissociativo. Ha due subscale: DIS-A (Dissociazione Aperta)e DIS-F (Fantasia)
  6. Interessi sessuali: pensieri o sensazioni sessuali che sono atipici quando appaiono prima del previsto e più frequentemente del normale; conflitti sessuali; risposte negative a stimoli sessuali e paura di essere sessualmente sfruttati. Ha due subscale: IS-P (Preoccupazioni sessuali) e IS-D (Distress sessuale)

 

  • Impact of Event Scale – 8 item Child/Adolescent Scale (IES-8)

Si tratta delle versione rivista del più diffuso test psicodiagnostico per la valutazione dei disturbi post-traumatici dagli 8 anni (Horowitz, Wilner & Alvarez, 1979).

La Children and War Foundation ha creato una scala simile, CRIES-13, costituita da 13 item nella forma completa e da 8 item nella forma ridotta, utilizzata come strumento di screening disponibile in 27 lingue diverse, ma senza validazione statistica.

Entrambe le scale valutano gli effetti del trauma nei successivi 7 giorni.

 

  • Child Behavior Checklist – scala DSPT

Nel 2001 sono state aggiunte alla CBCL due ulteriori scale specifiche, una per la valutazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e una per il DSPT. Tuttavia, la DSPT scale non sembra presentare una buona validità statistica (es. Loeb, Stettler, Gavila, Stein & Chinitz, 2011).

 

Test di assessment specifici: valutare il Disturbo da Lutto Persistente Complicato

Per la valutazione specifica del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva pochi studi hanno sviluppato strumenti psicodiagnostici standardizzati (Cohen & Mannarino, 2010; Mannarino & Cohen, 2011). Attualmente vi è un unico strumento diagnostico con validità statistica per la valutazione dei sintomi connessi specificatamente alla morte di un proprio caro per l’età evolutiva:

 

  • Expanded Grief Inventory (EGI)

Questo strumento (Layne, Savjak, Saltzman & Pynoos, 2001) è costituito da 28 item che valutano la sintomatologia e le caratteristiche sia del lutto non complicato che del Disturbo da Lutto Persistente Complicato dai 7 ai 17 anni. Rileva 3 fattori principali:

1. Connessione positiva: la capacità del bambino di avere ricordi e pensieri positivi circa il defunto
2. Lutto complicato esistenziale: valuta il vissuto di vuoto causato dal decesso
3. Evitamento e intrusioni traumatiche: i sintomi intrusivi traumatici nell’abilità del bambino di ricordare o avere sentimenti positivi circa il defunto.

Questo strumento esiste solo nella versione in lingua inglese.

 

  • Characteristics, Attributions and Responses to Exposure to Death – Youth version (CARED-Y)

È un test composto da 39 item che fornisce informazioni sugli aspetti peritrauma del decesso della persona così come informazioni sulla relazione del bambino con il defunto e la sua partecipazione al funerale (Brown, Amaya-Jackson, Cohen, Handel, Thiel de Bocanegra, et al., 2008).

 

Principi di trattamento psicoterapeutico per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato: TF-CBT e TG-CBT

Il trattamento del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva proposto in letteratura è quello che segue la Traumatic Grief Cognitive Behavioral Therapy (TG-CBT) (es. Mannarino & Cohen, 2011), derivante dalla Trauma-Focused Cognitive Behavioral Therapy (TF-CBT) (es. Cohen et al., 2006; Cohen Mannarino & Deblinger 2012; Cohen, Mannarino, Kliethermes & Murray, 2012; Mannarino & Cohen, 2011). In specifico, la terapia per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato è costituita dal trattamento della sintomatologia del Disturbo da Stress Post Traumatico (TF-CBT) ampliato con alcune componenti specifiche per il lutto traumatico (TG-CBT) (vedi Tabella 1).

 

Tabella 1: Componenti del trattamento secondo il TG-TBC (es. Cohen, Mannarino & Deblinger, 2006).

La TF-CBT è un modello di trattamento empiricamente basato rivolto al sostegno di bambini e dei loro genitori nell’affrontare le conseguenze di un’esperienza traumatica. Questo percorso terapeutico è un approccio che, attraverso diversi componenti, integra tra loro interventi sulla sintomatologia traumatica, sulla famiglia, sull’empowerment con principi derivanti dall’approccio cognitivo-comportamentale, dalla teoria dell’attaccamento, dallo sviluppo neurobiologico. Il fine è di seguire al meglio le peculiari necessità del bambino traumatizzato e della sua famiglia (Cohen et al., 2006). In specifico, la TF-CBT è rivolta al trattamento dei sintomi da DSPT, depressione e ansia e le condizioni a questi connesse.

La TF-CBT e, conseguentemente, la TG-CBT presentano le seguenti caratteristiche fondamentali:

  • Strutturata su componenti interconnesse tra loro, che sviluppano capacità centrali partendo da abilità già consolidate
  • Basata sul Rispetto per l’individuo, la famiglia, la religione, i valori culturali
  • Adattabilità, il terapeuta dev’essere creativo e flessibile
  • Coinvolgimento della famiglia, è uno dei cardini principali della terapia. Uno degli obiettivi è quello di incrementare e migliorare le interazioni e la comunicazione tra bambino e genitore. Tuttavia, con gli adolescenti è importante anche incoraggiare l’indipendenza e l’autonomia dalle figure genitoriali
  • Relazione terapeutica basata su fiducia, accettazione, empatia che ha come obiettivo quello di ridare ottimismo, fiducia, autostima nel bambino traumatizzato
  • Promozione della self-efficacy, incluso autoregolazione delle emozioni, del comportamento e dei pensieri.

Per questi approcci terapeutici è centrale la creazione di una salda e solida alleanza terapeutica tra bambino e terapeuta. I bambini traumatizzati spesso hanno difficoltà a fidarsi delle altre persone, quindi, parte della terapia dev’essere specificatamente e direttamente dedicata alla costruzione di una buona relazione terapeutica, attraverso l’ascolto attivo, l’empatia e la trasmissione di un reale interessamento per il bambino, i suoi pensieri, le sue emozioni e la sua vita.

Questi due percorsi terapeutici sono entrambi costituiti da diversi elementi, dieci per la TF-CBT e quattro per la GF-CBT, che non sono sequenziali tra loro ma sono da presentare come interconnessi e con estrema adattabilità a seconda delle caratteristiche specifiche del singolo bambino, della famiglia e degli individuali progressi nella terapia.

 

Principi di trattamento farmacologico

In letteratura, non risulta alcuno studio che abbia indagato il trattamento farmacologico specifico per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato. Dato che la sintomatologia propria del Disturbo da Lutto Persistente Complicato copre in parte la sintomatologia manifestata con il Disturbo da Stress Post Traumatico, verrà di seguito riportato il trattamento farmacologico inerente questo disturbo.

La farmacologia per il Disturbo da Stress Post Traumatico in età evolutiva ha avuto scarso supporto empirico. In generale, i dati indicano che la farmacoterapia ha successo solo se affiancata da un percorso psicoterapeutico e che solo un intervento multimodale che combina TCC, interventi ambientali e farmacoterapia in casi di forte sintomatologia ansiosa risulti efficace (Kodish, Rockhill & Varley, 2011).

In età evolutiva la farmacoterapia dovrebbe essere selezionata in base a 3 principi (Kaminer, Seedat & Stein, 2005):

  1. Avere come obiettivo i sintomi disabilitanti,
  2. Migliorare la qualità della vita permettendo uno sviluppo e una crescita normale nel lungo-termine,
  3. Facilitare il processo di psicoterapia.

Secondo gli studi presenti in letteratura, si utilizzano principalmente due classi di psicofarmaci per trattare il Disturbo da Stress Post Traumatico in età pediatrica: i famarci adrenergici e gli inibitori della ricaptazione della serotonina (es. Kodish, et al., 2011).

I farmaci adrenergici riducono l’attivazione fisiologica e sono risultati efficaci nel trattamento dell’iperattivazione, dell’impulsività e  della riesperienza del trauma tipici del Disturbo da Stress Post Traumatico (es. Perry, 1994; Harmon & Riggs, 1996; Famularo, Kinscherff & Fenton, 1988).

Gli Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono ampiamente utilizzati per trattare il Disturbo da Stress Post Traumatico negli adulti e alcuni dati suggeriscono la loro efficacia anche in infanzia e adolescenza (Rupp Anxiety Group, 2001). Inoltre, anche per i limitati effetti collaterali, questo tipo di farmaci è indicato da utilizzare come terapia di prima linea nei casi di Disturbo da Stress Post Traumatico in età evolutiva (Kaminer, et al., 2005).

Non vi sono sufficienti prove empiriche dell’efficacia di antidepressivi triciclici (TCAs), inibitori della monoamino ossidasi (MAOIs) e benzodiazepine (BZD) per il trattamento in età pediatrica del Disturbo da Stress Post Traumatico (Kaminer, et al., 2005).

 

Efficacia della terapia

Il trattamento proposto dalla TF-CBT ha il più ampio supporto empirico tra tutti i trattamenti sviluppati per i bambini traumatizzati (es. Bisson, Ehlers, Matthews, Pilling, Richards, et al., 2007; Cohen, Deblinger, Mannarino & Steer, 2004; Cohen, et al., 2006; Cohen, Mannarino & Iyengar, 2011; Cohen, Mannarino & Staron, 2006; Deblinger, Mannarino, Cohen & Steer, 2006; Deblinger, Mannarino, Cohen, Runyon & Steer, 2011; Dorsey, Cox, Conover & Berliner, 2011; Dorsey & Deblinger, 2012; Jaycox, Cohen, Mannarino, Walker, Langley, et al, 2010; Lyons, Weiner & Scheider, 2006; Mannarino & Cohen, 2011; Mannarino, Cohen, Deblinger, Runyon, Steer, 2012; Silverman, Ortiz, Viswesvaran, Burns, Kolko, et al., 2008).

Cohen e colleghi (2004) dimostrarono che i bambini assegnati al protocollo della TF-CBT mostrarono miglioramenti significativamente maggiori circa i sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico, depressione, problemi comportamentali, sentimenti di vergogna, e attribuzioni disfunzionali connesse al trauma e i loro genitori riportarono miglioramenti significativamente maggiori nella sofferenza legata all’abuso, nella depressione, nelle capacità genitoriali e al supporto genitoriale, rispetto a bambini e genitori dello stesso centro seguiti con un’altra forma di terapia. Inoltre, i miglioramenti venivano mantenuti fino a 1 anno dalla fine della terapia (Deblinger, et al., 2006).

Recentemente, è stata indagata l’efficacia del trattamento con bambini dai 4 agli 11 anni (Deblinger, et al., 2011). Non solo è stata confermata l’efficacia del protocollo, ma sono stati anche evidenziati i benefici del formato in 8 sessioni con l’utilizzo della tecnica del “racconto del trauma” (Trauma Narrative) nell’aiutare i bambini a superare la paura e l’ansia generalizzata (Deblinger, et al., 2011). I dati inoltre suggeriscono che le componenti volte a strutturare le abilità e le componenti rivolte ai genitori, in particolare, erano forse quelle più importanti nel risolvere i problemi comportamentali (Deblinger, et al., 2011; Deblinger, et al., 1996).

Recentemente è stata valutata anche l’efficacia di questo protocollo con i bambini esposti a violenza sessuale. I dati dimostrarono che, rispetto ai bambini assegnati alle cure abituali, quelli assegnati al programma TF-CBT esibirono una significativa riduzione di Disturbo da Stress Post Traumatico e ansia connessi alla violenza subita (Cohen, et al., 2011).

Studi recenti hanno documentato ulteriormente i benefici del TF-CBT per bambini che hanno subito un lutto traumatico (Cohen, et al., 2006), bambini traumatizzati dagli eventi dell’11 settembre (CATS Consortium, 2010), bambini sopravvissuti all’uragano Katrina (Jaycox, et al., 2010), bambini provieniti da popolazioni con una frequente esposizione a eventi traumatici, compresi bambini in affidamento (Dorsey, et al., 2011; Lyons, et al., 2006) e bambini esposti a violenza e perdite traumatiche nei paesi in via di sviluppo (Dorsey, et al., 2011; Murray, et al., 2011).

La mole di questi dati e altri conferma l’efficacia della TF-CBT nel trattare i bambini che soffrono di Disturbo da Stress Post Traumatico e le difficoltà emotive e comportamentali connesse (Bisson, et al., 2007; Saunders, et al., 2004; Silverman, et al., 2008).

Una nuova tecnica per comprendere la complessa bellezza del cervello che dorme

I ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH) hanno sviluppato un nuovo approccio per analizzare l’ attività cerebrale durante il sonno, che promette di dare una rappresentazione più dettagliata e accurata dei cambiamenti neurofisiologici che avvengono mentre si dorme. All’interno di un report pubblicato sulla rivista Physiology, il team di ricerca ha descritto come l’applicazione di una tecnica chiamata Analisi Spettrale con metodo Multitaper dell’elettroencefalogramma (EEG) fornisca raffigurazioni obiettive e ad alta risoluzione dell’ attività cerebrale durante il sonno, che sono più informative e più facili da definire rispetto agli approcci precedenti.

 

Gli studi neuropsicologici precedenti sul sonno

Le analisi cliniche del sonno si sono storicamente concentrate nell’identificare e tracciare i pattern comuni dell’attività cerebrale: le “fasi del sonno”; un processo lungo e perlopiù soggettivo. A partire dalla fine del 1930, la stadiazione del sonno è stata effettuata utilizzando macchine per EEG che riportavano su fogli di carta tracce di 30 secondi dell’attività cerebrale. Un tecnico esperto prendeva poi ogni foglio – quasi 1.000 in una registrazione di 8 ore – e decideva in quale fase del sonno il paziente si trovasse mediante ispezione visiva delle tracce.

Quasi 80 anni dopo, dopo un affinamento delle diverse fasi e la computerizzazione delle tracce, il processo di stadiazione è rimasto praticamente invariato, richiedendo ancora molto tempo e rimanendo qualitativo. Di conseguenza, i tecnici preposti alla lettura, anche se esperti, concordano ancora solo il 75-80% delle volte. La progressione di diverse fasi del sonno durante una notte, definita ipnogramma, è ancora usata come descrittore primario dell’architettura del sonno ed è uno strumento importante, dato che i numerosi “segni e scarabocchi” delle onde cerebrali diventano indiscernibili ad occhio nudo su grandi scale temporali.

Durante il sonno, il cervello è impegnato in una sinfonia di attività che coinvolgono l’interazione dinamica di diverse reti corticali e sub-corticali” ha affermato Michael Prerau del Dipartimento di Anestesia al MGH, autore principale del report. “A causa dei vincoli pratici e delle prassi ormai consolidate, le attuali tecniche cliniche semplificano notevolmente il modo in cui il sonno è descritto, causando la perdita di un’enorme quantità di informazioni. Abbiamo quindi voluto identificare un modo più completo di caratterizzare l’ attività cerebrale durante il sonno, facile da capire e veloce da imparare, ma solido e basato su principi matematici”.

 

L’analisi spettrale per studiare l’ attività cerebrale durante il sonno

L’approccio dei ricercatori fornisce un cambiamento di paradigma che permette di allontanarsi dalla stadiazione soggettiva del sonno e di sfruttare la ricchezza di informazioni oggettive contenute nei dati EEG. L’analisi spettrale permette di suddividere un segnale ad onda nelle sue diverse oscillazioni, proprio come un prisma suddivide la luce bianca nei suoi colori componenti. Nell’EEG, queste oscillazioni rappresentano l’attività di network cerebrali specifici durante il sonno e la veglia. “A un livello fondamentale, l’attività cerebrale è veramente organizzata in termini di oscillazioni e onde” ha spiegato l’autore senior Patrick Purdon. “L’analisi spettrale analizza i segnali in termini di queste onde, il che lo rende lo strumento adatto – e per certi versi lo strumento perfetto – per lo scopo. Purdon ha sottolineato anche che l’analisi tradizionale del sonno è essenzialmente una forma rudimentale di analisi spettrale, basata sul riconoscimento delle proprietà delle diverse onde attraverso l’occhio.

L’analisi spettrale potrebbe non essere stata adottata precedentemente per lo scoring del sonno poiché le principali tecniche per la stima spettrale dell’EEG producevano valutazioni imprecise, rendendo l’interpretazione dello spettrogramma difficile. Di conseguenza, i ricercatori hanno utilizzato il metodo multitaper, una tecnica con ridotta interferenza e maggiore precisione, che esegue una traccia di come la frequenza e l’intensità delle oscillazioni cambiano nel tempo, fornendo ulteriori informazioni su quali reti siano attive in ​​diversi punti durante il sonno.

In futuro, il team di ricerca si concentrerà sullo sviluppo di metriche quantitative robuste basate sullo spettrogramma. “Andando avanti, questo approccio migliorato permetterà agli scienziati di meglio caratterizzare la complessa eterogeneità osservata nel sonno normale e, infine, di supportare la diagnostica del sonno e dei disturbi ad esso correlati” ha affermato Prerau.

 

I sogni della sinistra spiegati con i sogni della destra, e viceversa

“La sinistra non può essere solo l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo”

 

Pubblichiamo qualche considerazione psicologica -da non prendere troppo sul serio- sul conflitto psicologico delle persone di sinistra. Gli ultimi sviluppi di ieri del congresso del partito democratico sembrano confermare questo disagio psicologico. È l’eterna tensione della mente umana tra ideale e reale. Tra come pensiamo che le cose siano e come riteniamo debbano essere. Dove sia la ragione, non osiamo dirlo. Giunto sulla soglia dell’opinione politica lo psicologo ammutolisce, conscio di avere probabilmente già parlato troppo di problemi che vanno ben al di là delle sue competenze. Buona lettura.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata sabato 18 Febbraio su Linkiesta.

 

In questi giorni di travaglio e possibili scissioni nel corpo della sinistra, torna in mente una frase rivelatoria di pochi mesi fa di Nichi Vendola: “La sinistra non può essere solo l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo“. In questa frase c’è tutto il dramma psicologico di una persona di sinistra. Un ammorbidente non ha personalità, la personalità è tutta della lavatrice. Non basta tamponare gli aspetti negativi del liberismo, ragiona Vendola, occorre fare una politica di sinistra. La domanda è: esiste una lavatrice di sinistra? Ovvero, esiste un modo di produrre ricchezza che sia di sinistra oppure la sinistra può solo limitarsi a ridistribuirla, la ricchezza?

Domanda da economisti a cui gli psicologi non oserebbero rispondere. Eppure, anche da incompetenti, ci si può chiedere se la sinistra riformista –l’unica che abbia davvero governato democraticamente- non sia nata proprio dalla presa d’atto che, da sinistra, la ricchezza può essere ridistribuita ma non creata. Marxisticamente, pare proprio che il modo di produzione rimanga nelle mani del capitale, e la sinistra si limiti ad ammorbidire le vesti che rotolano vorticosamente nella lavatrice liberista.I tentativi di creare la ricchezza in maniera radicalmente egualitaria hanno creato disastri, non solo di inefficienza ma perfino di ingiustizia. I mezzi di produzione conquistati nel nome del popolo, lontani dall’essere stati condivisi con il popolo (qualunque cosa esso sia), sono finiti nelle mani di stati nominalmente comunisti e gestiti dispoticamente, creando la paradossale somiglianza tra regimi rivoluzionari e il modo di produzione “asiatico”, il modo di produzione che Marx attribuiva alle reazionarie economie imperiali pre-moderne, scomparse in occidente ma ancora in vigore in Asia ai tempi di Marx.

E ancora in vigore ai nostri tempi, in realtà. Colpisce infatti leggere che la Cina ha liberalizzato da meno di un anno il mercato del sale dopo 2700 anni di ininterrotto controllo centralizzato del prezzo o che le liberalizzazioni abbiano costretto il governo cinese a introdurre il diritto privato romano, tra l’altro con la consulenza di Oliviero Diliberto. Segnali strani, segnali che il maoismo era in continuità con l’economia centralizzata e marxisticamente “asiatica” e dispotica dell’Impero cinese. Mentre, a quanto pare, diritto romano e libero mercato vanno insieme da un paio di millenni e questa strana coppia solo da pochissimo ha fatto amicizia con Confucio e Mao. Che poi le presentazioni le faccia Diliberto ci dice quanto sia strana la vita.

Accettare di essere solo un ammorbidente nella lavatrice della vita non deve essere facile. Vorremmo modificare l’assetto del mondo, fermarne la caotica entropia, e dobbiamo accontentarci di mettere delle toppe. Piuttosto deprimente, e non molto di sinistra. Vi è un happiness gap tra il pessimismo più o meno realistico dei conservatori e l’ottimismo della volontà delle persone di sinistra. Ottimismo che può funzionare quando ci sono le risorse per agire e modificare la realtà, come forse è accaduto dopo il boom economico del dopoguerra che rese possibili le rivoluzioni sociali degli anni ’60. Un po’ più difficile farlo ora, tempi in cui le vacche sono dimagrite e i sogni del faraone sono tristi da interpretare. Giuseppe si preparò, riempiendo previdentemente i depositi di grano, noi forse un po’ meno, magari troppo occupati ad ammorbidire ma nella maniera sbagliata, senza mettere da parte le provviste per l’inverno.

Dall’altra parte, l’uomo di destra non se la passa meglio. Incattivito da una realtà più aspra dei suoi più pessimistici pensieri, sembra quasi spaventato dai fantasmi che egli stesso ha evocato. Altro è giocare al raffinato dandismo del cattiverio di destra, altro è invece trovarsi tra i piedi i populismi veri e non l’horror intrigante dei libri di storia in cui tutto è solo spavento e favola ma non realtà.

I sogni diventano incubi se si avverano troppo e troppo a lungo ci siamo compiaciuti di svolgere ruoli immaginari. Sotto l’ombrello del capitalismo keinesiano ci siamo sentiti protetti e abbiamo recitato molteplici parti immaginarie: quella dei comunisti immaginari, quella dei fascisti immaginari e, ultimamente, perfino quella dei liberisti immaginari. Il futuro sembra diverso e somiglia a un risveglio amaro.

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