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I fattori cognitivi che contribuiscono al mantenimento dell’obesità

Il mantenimento dell’Obesità e delle abbuffate è spesso dovuto a fattori cognitivi ed emotivi che sfuggono alla consapevolezza del soggetto, tra questi troviamo un’alta sensibilità al potere gratificante del cibo, scarsa pianificazione e flessibilità cognitiva, e l’incapacità nel regolare le proprie emozioni. 

Emanuela Olivetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Se l’alimentazione fosse controllata unicamente da meccanismi omeostatici, la maggior parte delle persone sarebbe al suo peso ideale e mangiare sarebbe come respirare, un compito necessario ma non eccitante. Il fatto che così non è suggerisce l’importante ruolo del sistema di ricompensa nella motivazione ad alimentarsi e aggiunge la possibilità che un consumo eccessivo di cibo possa riflettere una disfunzione proprio di tale sistema o nella interazione tra questo e il meccanismo di regolazione omeostatica (Saper et. al., 2002).

La letteratura recente sulla ricompensa e sensibilità a questa suggerisce l’esistenza di una alterazione dopaminergica, in particolare a livello mesolimbico, che potrebbe spiegare sia disturbi da uso di sostanza che la propensione a mangiare in eccesso e ad ingrassare (Devlin M. J., 2007).

 

Mantenimento dell’obesità e Disturbo da Binge Eating

Spesso associato all’aumento di peso, nonché al mantenimento dell’ obesità, in alcuni casi suo determinante, è il Disturbo da Binge Eating in cui, a ricorrenti episodi di abbuffata, caratterizzati dal mangiare in un determinato periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore di ciò che normalmente si mangerebbe nello stesso intervallo e nelle stesse circostanze, si associa la sensazione di perdita di controllo durante l’episodio stesso, in assenza di sistematiche condotte compensatorie (DSM 5 – Apa 2014).

Trattare il disturbo da binge eating e la riduzione delle abbuffate potrebbe prevenire ulteriori aumenti di peso (Yanovski, 2003), infatti in queste condizioni il dimagrimento sarebbe moderato ma sostenuto nel tempo, anche se, va specificato, la tendenza ad ingrassare non è determinata dalla frequenza ma piuttosto dalla quantità e qualità di cibo ingerito durante gli episodi di binge eating (Barnes et al., 2012).

Gli stati fisiologici associati all’equilibrio energetico (ad esempio, fame e sazietà) dovrebbero essere i maggiori determinanti del comportamento alimentare, anche se la scelta del cibo e della sua quantità possono essere fortemente influenzati dalle loro caratteristiche, come ad esempio gusto, colore e consistenza al punto che l’esposizione a stimoli alimentare altamente appetitosi può bypassare i segnali di sazietà e condurre ad una iperalimentazione.

 

Sensibilità al potere gratificante del cibo

Tra i fattori di mantenimento dell’obesità troviamo la sensibilità al cibo. Tutti gli individui reagiscono allo stesso modo di fronte a stimoli gustosi ma ciò che può variare è la sensibilità al potere gratificante del cibo (Beaver J. D. et al., 2006). Soggetti con una accresciuta sensibilità esterna al cibo (external food senitivity) presentano livelli ridotti di interazioni dinamiche tra i network responsabili dell’alimentazione. La sola vista di cibo appetitoso può indurre in questi individui un maggior incremento dei livelli soggettivi di fame anche in assenza dei relativi segnali omeostatici interni (Passamonti et al., 2009).

Tramite l’uso di risonanza magnetica funzionale -fMRI – è stato evidenziato come la vista di cibi allettanti corrisponda all’attivazione di un circuito neurale che include lo striato ventrale, l’amigdala, il mesencefalo e la regione orbitofrontale e come questo abbia un ruolo rilevante nella scelta della qualità e quantità di cibo da ingerire, in quanto ampiamente coinvolto nei meccanismi di ricompensa alimentare. La reattività di questo circuito varia al variare della sensibilità al cibo come ricompensa; individui con alti valori in questo tratto hanno esperienze più intense e frequenti di craving alimentari e sono molto più inclini a mangiare eccessivamente o a sviluppare un disordine del comportamento alimentare (Beaver J. D. et al., 2006).

 

Il ruolo delle funzioni esecutive nel mantenimento dell’obesità

Nel comprendere i meccanismi che favoriscono il mantenimento dell’obesità, le condotte alimentari disinibite e maggiori craving di cibo potrebbero essere spiegati anche da deficit a livello di funzioni esecutive (Spinella et al., 2004), un complesso sistema di competenze cruciali nella organizzazione, pianificazione ed integrazione di diversi processi cognitivi. Le funzioni esecutive sono implicate nella capacità di regolazione dei comportamenti impulsivi. Se è presente un deficit a questo livello, il processo decisionale potrebbe essere maggiormente influenzato da vantaggi diretti -cibo appetitoso – piuttosto che dai benefici legati al raggiungimento di obiettivi a lungo termine – non accumulare ulteriore peso – (Duchesne M. et al., 2010).

Questo aspetto può essere ulteriormente spiegato dalla distinzione tra processi decisionali in compiti ambigui e rischiosi. Nella condizione ambigua, la forza e la probabilità della ricompensa sono inizialmente sconosciute e vengono svelate attraverso feedback successivi alla scelta effettuata. Nella condizione di rischio invece queste informazioni sono esplicitamente disponibili. Le molte ricerche condotte su soggetti obesi e sul mantenimento dell’obesità hanno evidenziato come ci sia una preferenza proprio per questo secondo tipo di condizione, ovvero vi è la tendenza a scegliere ricompense immediate e dal valore attraente ma superficiale.

Una chiave di lettura per questo processo potrebbe essere individuata nella sensibilità alla ricompensa, per cui i comportamenti sarebbero motivati da stimoli in grado di produrre un appagamento immediato. In particolare, la sensibilità alla ricompensa ha un alto impatto sia nei compiti ambigui che rischiosi ma, mentre non ci sono differenze tra soggetti con obesità e soggetti non obesi nella condizione di scelte ambigue, è invece emersa una più spiccata tendenza dei soggetti con obesità e sovrappeso a scelte rischiose, dimostrando di essere maggiormente inclini a tollerare un minor valore di ricompensa (e quindi un rischio più alto) a patto che questa sia immediata, a fronte di una ricompensa maggiore ma posticipata (Navas J. F. et al., 2016).

 

Pianificazione e flessibilità cognitiva nel mantenimento dell’obesità

Il mangiare eccessivamente quindi non sarebbe l’unico fattore di mantenimento dell’obesità e non rappresenterebbe esclusivamente una risposta passiva ad un ambiente ricco di stimoli e ad una forte attivazione fisiologica (Duchesne M. et al., 2010), ma sarebbe anche correlato alla incapacità di posticipare la gratificazione immediata, a cui si aggiungono difficoltà di pianificazione, problem solving e una minore flessibilità cognitiva (Boeka A.T et al., 2008).

La pianificazione può essere intesa come la capacità di definire gli step che guidano e orientano i comportamenti o come l’attività simbolica che prefigura la sequenza di azioni necessarie al raggiungimento dell’obiettivo (Sannio, Fancello, Vio, Cianchetti, 2006). Se questa è carente, conseguentemente limitate saranno le possibilità di problem solving a cui il soggetto può attingere nel momento in cui si verifica un imprevisto.

Una scarsa flessibilità cognitiva potrebbe essere associata a difficoltà nello stabilire nuovi pattern di comportamento nelle attività riguardanti il cibo, aumentando la probabilità di alimentazione incontrollata o eccessiva. Una rigidità cognitiva associata a difficoltà nello shifting attentivo potrebbe essere alla base della difficoltà nel ridirezionare il fuoco attentivo da stimoli alimentari ad altre attività e potrebbe spiegare la tendenza a smettere di mangiare solo quando viene avvertita la sensazione fisica di disagio per l’eccessivo cibo ingerito (Boeka A.T et al., 2008).

 

La regolazione degli stati emotivi

La regolazione va intesa come la capacità di modulare i propri stati emotivi e di organizzare le risposte comportamentali adeguate. La prima modalità attraverso la quale questo processo prende avvio è proprio legata all’alimentazione, in un contesto in cui l’autoregolazione e la regolazione reciproca procedono in modo coordinato e l’equilibrio in questo scambio, tra madre e bambino, rappresenta la base per la differenziazione delle sensazioni fisiologiche dalle esperienze emozionali.

È un processo che origina dalla continua influenza reciproca tra le capacità innate del bambino di organizzare le risposte sensoriali provenienti dal mondo esterno ed interno e dalle ripetute interazioni con il caregiver di riferimento (Cuzzolaro M., 2009). Le capacità inizialmente possedute sono immature e limitate e le ulteriori abilità vengono trasmesse dalla madre che, rispondendo adeguatamente ai bisogni del bambino, lo aiuta nella regolazione degli stati emotivi ed affettivi.

Il riconoscimento di fame e sazietà, o di altri bisogni fisiologici, dipendono dalla combinazione specifica di una percezione interna e di una conferma esterna, che consiste in una risposta e in un riconoscimento di tipo empatico. L’evento fame-nutrimento viene quindi registrato nella memoria episodica e in quella procedurale e l’esito dell’incontro tra la percezione interna e la risposta a questa dà avvio al processo di organizzazione del sé (Lichtenberh, 1989).

Se le risposte non sono adeguate al bisogno espresso, il bambino sviluppa uno stile associato di autoregolazione caratterizzato da una aspettativa negativa rispetto ai propri sforzi (Speranza, 2001). L’allattamento e il passaggio alla alimentazione autonoma rappresentano quindi un momento di grande rilievo nella strutturazione del processo di autoregolazione e regolazione reciproca, in un contesto in cui le interazioni non sincroniche tra aspetti di regolazione fisiologica, comunicazione sociale e formazione del legame di attaccamento possono determinare disfunzioni nell’area dell’ alimentazione, che vanno dalla confusione tra stati fisiologici e stati emozionali fino alla strutturazione di disturbi alimentari (Cuzzolaro M., 2009).

 

Mantenimento dell’obesità: il rapporto tra emozioni e abbuffate

La letteratura esistente ha ben evidenziato, con riferimento al mantenimento dellobesità, l’associazione tra emozioni negative ed episodi di abbuffate compulsive. Il modello della regolazione emotiva postula che questa associazione rappresenta una relazione funzionale in cui l’episodio di binge eating è innescato da alti livelli di emozioni negative e, al tempo stesso, ha la funzione di mitigarne gli effetti.

L’abbuffata compulsiva è la strategia principalmente utilizzata nella riduzione e regolazione degli stati emotivi non desiderabili (Berge et al., 2015). In uno studio che indagava gli stati emotivi precedenti e susseguenti episodi di abbuffata nei soggetti con obesità sono state anche indagate, attraverso uno strumento self report (Positive and Negative Affect States – PANAS), undici emozioni negative ed ai soggetti è stato chiesto di valutarne l’intensità. Le emozioni sono poi state suddivise in quattro categorie: paura, ostilità, tristezza e senso di colpa. I risultati dello studio hanno dimostrato la presenza di un aumento del senso di colpa, vergogna, disgusto, insoddisfazione e rabbia verso sé stessi quattro ore prima l’episodio di binge eating e una loro significativa riduzione quattro ore dopo. L’abbuffata compulsiva ha la funzione quindi, in soggetti con obesità, di mitigare le emozioni negative, in particolare sembrerebbe funzionale ad evitare o ridurre sensi di colpa nel breve periodo, piuttosto che emozioni di paura, ostilità o tristezza (Berge et al., 2015).

Usare il cibo per gestire uno stato emotivo, come ad esempio “mangio perché ho bisogno di calmarmi” oppure “mangio perché ho bisogno di rilassarmi dopo una giornata di duro lavoro” può produrre nell’immediato un senso di benessere e rilassamento ma, se applicato con regolarità può condurre ad un abbassamento del livello di benessere psicofisico, dovuto in parte alla scarsità ed esiguità nella scelta degli stimoli gratificanti e dall’altro al non riconoscimento di stati emotivi come ad esempio ansia, tristezza e nervosismo a cui far corrispondere una risposta più adeguata del cibo alla risoluzione di eventuali problemi (Della Grave et al., 2013).

Un locus of control interno, in cui predomina la percezione che la propria vita sia regolata da qualcosa al di fuori del proprio controllo potrebbe portare a credere di non avere le risorse per controllare gli stimoli ambientali e per gestire stati emotivi negativi, che pertanto potrebbero essere vissuti come intollerabili (Montesi et al., 2016). Una più adeguata gestione dei propri stati emotivi potrebbe essere incentivata anche attraverso un aumentato senso di autoefficacia, che non coincide con la misura delle competenze possedute ma è rappresentata delle convinzioni circa la propria capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie a produrre determinati risultati (Bandura, 2000).

Una bassa autoefficacia (self-efficacy) influenza i meccanismi di autoregolazione dei processi motivazionali, tramite una minore quantità di impegno profuso in vista dell’obiettivo e diminuita capacità di perseverare e recuperare di fronte agli insuccessi e fallimenti incontrati nel percorso.

Gli effetti della psicoterapia online nel trattamento clinico della depressione

La psicoterapia online, in particolare la terapia cognitivo comportamentale, può aiutare le persone che soffrono di depressione. Questo è quanto è emerso da uno studio dell’Universita di Zurigo condotto da Birgit Wagner, Andrea B. Horn e Andreas Maercker.

 

I ricercatori clinici dell’Università di Zurigo hanno realizzato un interessante studio sperimentale volto a misurare e confrontare i risultati ottenuti con la psicoterapia online e la terapia convenzionale faccia a faccia su un gruppo di pazienti con disturbi dell’umore.

 

Psicoterapia online e depressione: la ricerca dell’Università di Zurigo

Sulla base di studi sperimentali precedenti, i ricercatori svizzeri sono partiti dall’ipotesi che le due forme di terapia fossero alla pari rispetto agli effetti terapeutici sui pazienti. I risultati dell’esperimento hanno però superato di gran lunga le aspettative dei ricercatori, infatti la psicoterapia online è risultata più efficace rispetto alla classica terapia faccia a faccia, sia nel breve che nel medio termine. Nella ricerca sono stati coinvolti sei psicologi e psicoterapeuti e 62 pazienti, la maggioranza dei quali presentava una depressione di tipo moderato.

I pazienti sono stati divisi in modo del tutto casuale in due gruppi e assegnati ad una delle due diverse modalità terapeutiche, psicoterapia online e terapia faccia a faccia. I due gruppi hanno ricevuto lo stesso ciclo di trattamento nello stesso lasso di tempo.

Il trattamento previsto consisteva in otto sessioni di psicoterapia con l’utilizzazione di diverse tecniche consolidate che derivano dalla terapia cognitivo-comportamentale e possono essere prescritte sia in forma orale che in forma scritta.

I pazienti sottoposti a psicoterapia online ricevevano dei compiti scritti predeterminati con dei feedback personalizzati da parte dei terapeuti (ad esempio rispondere a delle domande sull’immagine negativa che avevano di se stessi).

I pazienti nella condizione di terapia faccia a faccia hanno preso parte a delle sessioni di trattamento settimanale di un’ora con il loro psicologo presso il Dipartimento di Psicopatologia e Intervento Clinico presso l’Università di Zurigo. Inoltre, come i pazienti nel gruppo di psicoterapia online, hanno ricevuto dei compiti a casa.

 

I risultati

In entrambi i gruppi, i valori relativi alla depressione sono scesi in modo significativo” afferma il professor Andreas Maercker, riassumendo i risultati dello studio sperimentale. Alla fine del trattamento psicoterapico, l’uscita dallo stato depressivo è stata rilevata nel 53 per cento dei pazienti sottoposti a psicoterapia online, mentre nella terapia faccia a faccia sono tornati ad una condizione di benessere psicologico il 50 per cento dei pazienti trattati. Quest’ultima differenza fra i due gruppi non era statisticamente significativa.

Tutti i pazienti sono stati valutati anche a tre mesi dalla fine del trattamento per la depressione, e i ricercatori hanno rilevato una maggiore differenza in termini di efficacia tra i due trattamenti, infatti nella psicoterapia online ben il 57 per cento dei pazienti trattati era uscito dallo stato depressivo, mentre nella classica terapia faccia a faccia è stata rilevata una riduzione dell’efficacia, per cui solo il 42 per cento dei pazienti non mostravano più una sintomatologia di tipo depressivo. Nella psicoterapia online, i pazienti tendevano ad utilizzare i contatti con il terapeuta e i successivi compiti molto intensamente per provare a progredire e impegnarsi in modo personale. Per esempio, hanno riportato di essere soliti rileggere più e più volte la corrispondenza con il loro terapeuta.

I ricercatori hanno provato ad ipotizzare che i risultati a medio termine sono stati migliori per la psicoterapia online poichè i pazienti , avendo meno il terapeuta come guida, si sono dovute autoresponsabilizzare maggiormente, impegnarsi in prima persona per condurre il trattamento e i compiti a casa. Questo avrebbe potuto attivare un maggior senso di autoefficacia nella gestione dei pensieri negativi e sul comportamento depressivo.

Ovviamente il dibattito sull’efficacià delle modalità online di erogazione di servizi psicologici è aperto e questa ricerca non deve intendersi come esaustiva.

La SCID-5 -CV: l’intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i criteri del DSM-5

La SCID-5 -CV (Structured Clinical Interview for DSM-5- Clinical Version) è un’intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i nuovi criteri del DSM-5. Si inserisce all’interno degli strumenti clinici creati in associazione del recente DSM-5 come il PID-5 e le Scale di Valutazione del DSM-5.

 

 

La SCID-5 -CV può essere somministrata sia a pazienti psichiatrici che a soggetti appartenenti ad una popolazione generale. Risulta più adatta a individui che abbiamo superato i 18 anni di età, ma può essere svolta anche con gli adolescenti applicando alcuni accorgimenti quando si pongono le domande.

La SCID-5 può essere utilizzata per la valutazione psicodiagnostica in molteplici contesti: clinico, forense, nelle procedure di ammissione e nella ricerca.

Dal lontano 1983, anno in cui venne proposta una procedura di valutazione attraverso i criteri dell’allora DSM-III, la SCID si è evoluta e nella sua nuova veste si suddivide in tre versioni: CV (Clinical Version-Versione per il clinico); RV (Research Version-Versione per la ricerca); CT (Clinical Trial- versione per gli studi clinici).

 

La SCID-5 -CV : la versione per il clinico

Quella che qui verrà presentata è la versione per il clinico: la SCID-5 -CV.

A differenza delle altre due, in questo formato l’intervista permette di formulare diagnosi per quei disturbi che hanno un impatto sui codici diagnostici. Vengono dunque presi in considerazione quegli specificatori che incidono sulla scelta del codice. Per i disturbi che non sono presi in esame si può tuttavia proseguire con un’intervista non strutturata.

La SCID-5 -CV si concentra principalmente sull’attualità del disturbo per una sua netta pregnanza a livello terapeutico e di gestione clinica. Ciò nonostante è presente un approfondimento anamnestico nei disturbi dove è ritenuto necessario. Alla diagnosi inoltre è applicato un arco temporale di riferimento (Attuale-Storia Pregressa).

L’intervista è composta da 10 moduli indipendenti tra loro che permettono di valutare i seguenti disturbi:

La SCID-5 -CV: l' intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i criteri del DSM-5

 

Come si può notare sono esclusi i Disturbi di Personalità che, pur essendo rimasti invariati dalla precedente versione del DSM, possono essere valutati con la specifica versione aggiornata della SCID (SCID-5-PD).

 

Domande e punteggi nella SCID-5

La SCID-5 inizia con una serie di domande aperte volte a raccogliere un numero sufficiente di informazioni per formulare una diagnosi provvisoria da confermare con l’utilizzo dei moduli diagnostici specifici. Le domande hanno una sequenza atta a favorire un processo diagnostico differenziale caratteristico di un clinico esperto. L’attribuzione dei punteggi comprende la presenza o assenza dei criteri diagnostici (indipendentemente dalle risposte del paziente alle domande della SCID).

Il clinico può attribuire i seguenti punteggi:

  • “SI” qualora soddisfatto un criterio;
  • “NO” qualora non sia soddisfatto;
  • “-“ Assente/sottosoglia per un criterio sintomatologico valutato su un continuum);
  • “+” Soglia (per un criterio sintomatologico valutato su un continuum)

Al termine dell’intervista viene compilato un “Foglio riassuntivo dei punteggi diagnostici” dove vengono indicate le diagnosi DSM-5 presenti e/o pregresse del paziente. Il foglio include anche i codici diagnostici dell’ICD-10-CM. Per la definizione dei punteggi il clinico può utilizzare tutte le informazioni disponibili sul paziente: relazioni cliniche, osservazioni dei famigliari e degli amici.

Nello specifico, i tempi di somministrazione variano dai 45 ai 90 minuti e solitamente avviene in una singola sessione. La SCID-5 è, tuttavia, flessibile e adattabile alle specifiche tempistiche e necessità di somministrazione. Ad esempio, può essere somministrata anche in videoconferenza senza incorrere in riduzioni della capacità di valutare adeguatamente il soggetto.

Infine, il manuale fornisce anche una sezione con materiali per il training. Sono proposti sia casi utili per svolgere role-playing che casi per esercitazioni individuali.

Nel complesso, la SCID-5-CV si propone come uno strumento clinico duttile, accurato e concettualmente indispensabile per favorire quel processo di comunicazione diagnostico unificato tra le differenti professionalità sanitarie (psichiatra, neuropsichiatra, psicologo, psicoterapeuta, infermieri, logopedisti, psicomotricisti, ecc.).

Nondimeno la sua proceduralizzazione fornisce un ottimo materiale formativo per i giovani clinici, uno standard di psico-valutazione condivisa e una terminologia comune per favorire la collaborazione e la comprensione tra coloro che operano in contesti clinici, giuridici e di ricerca.

Un compito della psicologia nello sport

Lo sport dedica molte attenzioni allo sviluppo delle qualità fisiche e tecniche e alla prestazione ma, specie a livello giovanile, non impiega tutte le potenzialità di cui potrebbe disporre.

Vincenzo Prunelli

 

Insieme con la famiglia e la scuola, lo sport è una delle tre più potenti agenzie educative, ma non ha sviluppato metodi per formare la persona, e non rispetta i tempi dello sviluppo, che hanno necessità di tipi specifici d’insegnamento.

Vorrebbe raggiungere tutte le potenzialità dello sportivo, ma dice che cosa e come fare, e offre soluzioni uguali per tutti, e così mortifica il talento, che è diverso per ognuno. Crede che lo sviluppo dell’intelligenza dipenda dalla quantità delle conoscenze e non anche dalla libertà di creare e trovare da soli le soluzioni. E immagina che la personalità, il carattere, la capacità critica, l’iniziativa libera, le motivazioni e l’autonomia possano avere uno sviluppo autonomo o, forse, che rappresentino un pericolo per la governabilità.

 

Ciò che va corretto

Occorre cambiare molto. Innanzitutto, non voler formare troppo presto lo sportivo adulto, pronto per un agonismo subito vincente. Sembra un obiettivo legittimo, ma occorre fare alcune considerazioni. Per vincere durante la formazione, occorre prima di tutto non commettere errori, ma un giovane che non sbaglia non tenta il nuovo. Si limita a ripetere ciò che gli è richiesto, tenta di imitare il gesto ideale, quello del campione, e non arriva ai livelli dell’intelligenza dove operano creatività, iniziativa libera, originalità, intuizione e ingegno, le facoltà della mente che impiega il talento.

Spesso lo sport si ferma a una forma di addestramento, e così trasforma le sue potenzialità educative in una causa d’insicurezza. Forma uno sportivo non abituato a gestire da solo ciò che riguarda la propria funzionalità e i propri compiti e non preparato ad amministrarsi da solo, da portare per mano perché non autonomo.

Soffoca le motivazioni che, per il giovane, sono gli stimoli naturali a evolvere e migliorare. Il giovane ha bisogno del riconoscimento dell’adulto, di scoprire sempre nuove capacità per sentirsi più abile, di raggiungere i traguardi adatti alle possibilità di cui dispone e di superare la propria inferiorità nei confronti dell’adulto. Per questo ha bisogno di scoprire e sperimentare le proprie forze, liberare i propri impulsi creativi ed evolutivi, e verificare di poter accedere da solo a nuove abilità.

Lo sport vuole vincere subito, magari senza interessarsi del come e del livello della prestazione. Usa stimoli che aumentano la tensione a spese della lucidità e della padronanza della situazione, ma il compito della formazione è l’adulto che sa impiegare tutti i propri mezzi. Ha fretta, e impiega ciò che è subito utilizzabile per la prestazione, valuta il risultato e non la qualità della prestazione, usa stimoli che sul giovane non hanno effetto e cerca di incrementare il rendimento aumentando le pressioni. Tutto questo significa sostituire il gesto tecnico ancora grezzo del giovane con interventi irruenti e scorretti, e non tentare il nuovo, cioè non giocare per scoprire il talento.

 

I principi e la proposta

Il talento non si manifesta quando l’istruttore chiede esecuzioni difficili o di imitare il gesto del campione. Non è semplicemente una qualità tecnica o un’abilità fisica, ma una qualità personale che si esprime quando la situazione richiede o lascia spazio a soluzioni nuove e impreviste. Non ha senso chiedere al talento di essere più abile in ciò che fanno tutti, ma in ciò che è possibile a lui, e qui occorre andare ai livelli superiori dell’intelligenza.

Quale libertà lasciare? Al bambino basta giocare senza vincoli, perché il gioco lascia tutto lo spazio all’iniziativa libera e alla fantasia. Poco più tardi, quando è il caso di impratichirsi e dare un ordine più logico al gioco, bastano poche regole dentro le quali esercitare tutta la creatività e la fantasia. Il ragazzo, che ormai ha acquisito confidenza con il senso critico e sa impegnarsi in un lavoro, cioè a non operare più soltanto per un piacere del momento, può iniziare la formazione tecnica e fisica vera e propria.

La scoperta e l’uso del talento non sono diversi dall’apprendimento per prove ed errori. Occorre avere la libertà di tentare il nuovo per seguire un’idea o un’intuizione, mentre giocare solo per vincere impone di evitare l’errore, e per questo chiama in causa il ragionamento che è lento, obbliga a scegliere tra varie soluzioni e frena originalità, la creatività, gli automatismi e l’iniziativa immediata, essenziali nei giochi di situazione.

La “normalità” è ciò che si può essere con lo sviluppo completo delle qualità di fisico, intelletto e carattere. Non ha senso, ma soprattutto è diseducativo, chiedere più di quanto ognuno possa dare. Specie nell’infanzia, per esempio, pretendere il gesto perfetto o quello del campione, significa mortificare le motivazioni, la sicurezza di essere adeguati ai compiti e il coraggio per scoprire e sperimentare il proprio talento.

Non si può allenare solo il fisico perché, se non è la mente a gestire le qualità fisiche e tecniche, il rendimento e l’iniziativa, avremo solo un mezzo sportivo.

Infine, la formazione non termina mai, perché lo sportivo vero continua a imparare, evolvere e scoprire qualcosa di sé fino al termine dell’attività.

 

Gli obiettivi e i modi della formazione

I primi obiettivi sono la tutela dei bambini e dei giovani nella pratica dello sport e la proposta di un’educazione che li conduca verso la vita adulta.

Lo sport può essere una potente agenzia educativa, ma richiede una cultura, adeguata a tutti i livelli della pratica sportiva, che sintetizzi le potenzialità dell’educazione e dello sport. O, in altri termini, che formi lo sportivo nella sua globalità, e promuova una pratica in grado di portare ognuno alla completezza sportiva e personale possibile. La psicologia dello sport deve offrire gli strumenti scientifici e operativi a genitori, società calcistiche, istruttori e chiunque abbia un ruolo educativo e formativo nei confronti del bambino e del giovane, affinché sappiano intervenire su eventuali disagi ma, ancora di più, per accompagnare ognuno a completare lo sviluppo possibile, che è la condizione per eliminare qualsiasi disagio.

C’è chi crede che questo tipo di educazione, fondata sulla soddisfazione delle motivazioni e non sull’imposizione di sacrifici e sul castigo per gli errori e le trasgressioni, sia permissiva, ma essa prevede o, anzi, porta all’acquisizione di regole e doveri, la rinuncia a pretese e privilegi e all’impegno per fare la propria parte.

È chiaro che il fine è anche preparare il bambino alla pratica dello sport dell’adulto, ma con un evolvere dell’insegnamento e delle richieste che si adatti ai mezzi e ai caratteri specifici di ogni momento dello sviluppo.

Per portare tutti a un buon livello sarebbe sufficiente evitare gli errori, pur commessi in buona fede, che accadono nella formazione, ma per consentire a ognuno di arrivare a quello possibile alla sua dotazione, occorre creare le condizioni perché ci arrivi da solo. Occorre farlo presto e non solo nello sport, perché la vita adulta inizia nella prima infanzia o, forse meglio, alla nascita, e un brutto inizio può non essere più correggibile. E, specie nello sport, occorre considerare che il talento non si può trasmettere, e che, per non soffocarlo, occorre non sostituirlo con la richiesta di pure esecuzioni o, peggio, con la richiesta di trucchi, furbate o gesti violenti.

Ciò che vogliamo fare si può sintetizzare in un unico obiettivo: formare uno sportivo pronto ad assumere le potenzialità formative dello sport e a trasformarle in tratti stabili del carattere, che significa portare l’allievo a sviluppare tutte le proprie risorse e a utilizzarle in qualsiasi compito e attività.

E La professionalità? Lo sport è un potente strumento educativo, e la professionalità è un modo di proporsi di chi ha raggiunto la maturità personale. Lo sport che obbedisce a precise regole e ne pretende l’osservanza esige che nessuno si possa sottrarre agli impegni che gli spettano, perché allena alla libertà, all’iniziativa, alla cooperazione e alla responsabilità. Allena al coraggio, che non è temerarietà o sprezzo del pericolo, ma non tirarsi indietro di fronte al rischio di sbagliare, accettare un danno personale per un vantaggio collettivo, mettersi a disposizione del compagno in difficoltà anche a rischio di uno svantaggio personale e/o a tentare anche quando potrebbe risultare inutile.

Il ruolo della regolazione emotiva nell’utilizzo di sostanze

Regolazione emotiva e uso di sostanze: L’ uso di sostanze consente di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi. Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’ uso di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale.

Chiara Paris, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva viene definita come l’insieme di comportamenti, capacità e strategie consci e inconsci, automatici o che richiedano uno sforzo attivo nel modulare, inibire o aumentare l’esperienza e l’espressione emotiva (Calkins, 2010). Tale capacità è ritenuta, ad esempio, uno degli aspetti centrali coinvolti nel disturbo borderline di personalità (Linehan, 1993) ed ha un ruolo centrale in numerose altre psicopatologie, come il disturbo d’ansia generalizzata (Mennin et al. 2002) o il disturbo post traumatico da stress (Cloitre, 1998).

Il modo in cui si sviluppa la regolazione emotiva -ed i processi coinvolti nell’acquisizione delle competenze ad essa correlate- costituisce tuttora un interessante tema di ricerca in evoluzione; paiono tuttavia determinanti un coinvolgimento del contesto familiare e sociale, così come l’interazione tra fattori interni ed esterni, oltre a quelli motivazionali e temperamentali (Gross, 2007; Morris et al.2007). Le abilità di regolazione emotiva vengono sviluppate sin dal primo anno di età e un fallimento nelle stesse comporta difficoltà precoci che riguardano, ad esempio, l’area sociale o l’adattamento al contesto (Eisenberg & Fabes, 2006).

Diverse ricerche hanno poi associato la  mancanza di regolazione emotiva ad una maggior esposizione rispetto allo sviluppo di psicopatologie (Calkins & Dedmon, 2000; Cichetti et al. 1995) con caratteristiche anche molto dissimili tra loro, come i disturbi d’ansia (Cisler et al. 2010) o dell’alimentazione (Sassaroli et al., 2010).

Alcune concettualizzazioni della regolazione emotiva si sono occupate di sottolineare il ruolo dell’esperienza e dell’espressione delle emozioni, in particolare, il controllo di quelle negative e la riduzione dell’arousal emotivo (Kopp, 1989). Altri autori hanno invece evidenziato la natura funzionale delle emozioni, ritenendo che un’incapacità nello sperimentare e distinguere le varie emozioni sia disadattiva tanto quanto il discontrollo nella modulazione di stati negativi (Paivio & Greenberg, 1998). Gratz e Roemer (2004) hanno proposto una visione più articolata di regolazione emotiva, comprensiva di sei dimensioni separate in cui si possono manifestare delle specifiche difficoltà: mancanza di consapevolezza delle emozioni, ridotta trasparenza nella risposta emotiva, mancata accettazione della risposta emotiva, accesso limitato alle strategie di regolazione emotiva percepite come efficaci, difficoltà nel controllo degli impulsi quando si sperimentano emozioni negative e ridotte capacità nel mettere in atto comportamenti efficaci quando si sperimentano stati emotivi negativi.

 

Uso di Sostanze

Il Disturbo da Uso di Sostanze, così come concepito dal DSM-5 (2014), si caratterizza per la presenza di sintomi che includono tolleranza, astinenza, uso continuato (nonostante il desiderio di interrompere e le ormai note conseguenze negative), oltre ad una mancanza di controllo nel craving e nel successivo uso di sostanze.

La difficoltà di inquadramento delle patologie connesse all’abuso di sostanze rispetto a queste tematiche aumentano sensibilmente se si pensa che la co-occorrenza rispetto alla diagnosi di disturbo di personalità viene stimata a partire da una media del 44% per la dipendenza da alcol e del 79% in quella da oppiacei (Ball, 2005); una precedente ricerca riscontrava invece che, in generale, la maggior parte di chi abusa di sostanze (70%) rientrava anche nei criteri per la diagnosi di uno o più disturbi di personalità, prevalentemente di Cluster B e C (Rounsaville et al., 1998).

Parlare di abuso di sostanze in generale risulta particolarmente difficoltoso per diversi motivi: tra questi, il fatto che la scelta di una sostanza piuttosto che un’altra si rivela importante per delineare le caratteristiche della persona che ne fa uso e, d’altra parte, il poliabuso è diventato sempre più comune, con la dimostrazione di forti differenze, ad esempio tra chi consuma solo cocaina e chi la associa anche ad altro (McCormick et al., 1998).

 

Uso di Sostanze ed emozioni

In letteratura, dipendenza e abuso vengono spesso definiti semplicemente sulla base di criteri comportamentali, mentre meno attenzione viene posta rispetto al perché si ricorra alle sostanze.

Visti gli effetti davvero molto diversificati delle sostanze, quasi qualsiasi sensazione negativa, dalla noia all’ansia può associarsi all’abuso: la ricerca di Sanchez-Craig (1984) ha dimostrato che, su 297 episodi legati all’assunzione di alcol, l’80% aveva come scopo il bisogno di gestire diverse esperienze soggettive, come, appunto, emozioni negative. Questo dato consente peraltro di inquadrare meglio la frequente associazione tra disturbi dell’umore o d’ansia e uso di sostanze, che avrebbe proprio lo scopo di ridurre sensazioni indesiderate o abbassare il livello di attivazione (Mirin et al., 1987).

Un altro dato rilevante in questo senso è l’elevata incidenza dell’abuso di sostanze tra chi è vittima di episodi o esperienze traumatiche (Polusny e Follette, 1995).

Ricorrere alle sostanze costituisce una strategia molto efficace, anche se a breve termine, per determinare un cambiamento nell’esperienza percepita e chi abusa sembra maggiormente fiducioso negli effetti rispetto agli altri: nell’alcolismo, per esempio, il paziente assume che l’alcol aumenti le sensazioni di piacere e riduca quelle legate allo stress (Conners et al. 1986).

Concepire l’abuso di sostanze come una strategia di coping maladattiva (Gratz e Roemer, 2004) introduce l’esistenza di un evitamento esperienziale in soggetti che soffrono di questo disturbo: il comportamento impulsivo avrebbe l’obiettivo di alterare uno stato emotivo negativo attraverso una strategia di evitamento di esperienze emotive indesiderate (per es. Brown, Comtois, Linehan, 2002; Wagner e Linehan, 1999).

Una possibile conferma di questo si evince ad esempio dal fatto che i soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità e abusatori di sostanze risulterebbero più impulsivi ed avrebbero una maggiore probabilità di utilizzare strategie di fuga/evitamento rispetto ai borderline non abusatori (Kruedelbach et al., 1993). Strategie di evitamento esperienziale focalizzate sull’emozione (ad esempio, evitare di pensare ad eventi spiacevoli) risultano predittive rispetto a numerosi outcome negativi, tra cui proprio l’uso di sostanze, e un sottogruppo di chi abusa delle stesse tende a ricorrere abitualmente all’evitamento esperienziale (Hayes, 1996). In generale, questo concetto si applica sia all’utilizzo di deprimenti che di stimolanti, se si assume che l’astensione dagli stessi possa generare sensazioni avversive o di noia (Hayes, 1996). In altre parole, anche quando la persona che abusa di sostanze non comincia con il fine di un evitamento esperienziale, gli effetti dell’eccessivo utilizzo – che contemplano anche stati di umore disforico e astinenza –concorrono nel mantenimento del circolo vizioso della dipendenza (Sher, 1987).

Le sostanze consentono quindi di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi (pensiamo, ad esempio, all’effetto dell’alcol o di psicofarmaci come lo Xanax sull’ansia, oppure a quello di cocaina e metamfetamine su abbassamenti nel tono dell’umore). Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’utilizzo di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale. A rinforzarne l’utilizzo sono invece gli effetti, che in qualche modo migliorano gli stati pre-esistenti nell’assuntore. L’autore suggerisce che individui con alti livelli di aggressività e rabbia sarebbero più predisposti all’utilizzo di oppiacei o alcol per la regolazione emotiva, mentre il ricorso a cocaina e amfetamine risulterebbe più probabile in chi “reagisce” a stati depressivi (Sarnu & Maderno, 2007). Chiaramente, un comportamento di questo tipo conduce ad un inevitabile circolo vizioso legato agli effetti astinenziali della sostanza.

Alcune tra le evidenze a supporto di questa teoria sono la frequente co-occorrenza di disturbi psichiatrici, in particolare disturbi d’ansia e dell’umore, oltre alla maggior probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze in chi ha già una diagnosi psichiatrica (Kessler et al., 2005): una persona che ha già delle difficoltà nella regolazione emotiva sarà più propensa quindi a cercare ed utilizzare sostanze.

Un’altra prova a favore della teoria di Khantzian, sarebbe quella costituita dal maggior ricorso di soggetti sani (senza diagnosi di DUS) a droghe considerate legali, ad esempio il tabacco o l’alcol, in momenti emotivamente negativi.

Infine, è documentato come stati negativi –naturalmente sperimentati o indotti- causino un aumento del craving, dell’utilizzo e delle ricadute (Sinha & Li, 2007). Questo fenomeno è stato oggetto di un filone di studi che ne hanno trovato ampia conferma; per esempio, Childress e colleghi (1983) hanno dimostrato come sensazioni di ansia, depressione e rabbia costituirebbero dei trigger nel suscitare craving e astinenza in pazienti con diagnosi di dipendenza da oppiacei in fase di disintossicazione. In questo studio, si ipotizzava che determinati stati emotivi –da soli, o con altri stimoli legati alla sostanza –fossero in grado di determinare craving per l’oppiaceo, astinenza e, quindi, un potenziale utilizzo successivo. I risultati mostravano che la sola emozione negativa senza altri stimoli era in grado di elicitare sintomi astinenziali anche molto specifici; questo si determinava in particolare per stati legati a depressione e ansia, molto meno per la rabbia. Al contrario, uno stato di euforia, nonostante la forte attivazione psicofisiologica, abbassava nettamente la possibilità di provare desiderio per la droga. Altri autori hanno sostenuto queste conclusioni mostrando come l’utilizzo di strategie funzionali a livello emotivo consenta l’abbassamento del craving e quindi meno possibilità di ricaduta (O’Connell et al. 2007; Westbrook et al. 2013).

Il ruolo della disregolazione emotiva nello sviluppo del disturbo da uso di sostanze è stato confermato anche da una serie di studi longitudinali, tra i quali quelli di Mischel e colleghi (2011), che avevano sottoposto ad alcuni bambini con meno di sei anni un compito inerente la gratificazione emotiva: i partecipanti all’esperimento potevano scegliere tra un dolcetto da mangiare subito, o due dolci se avessero aspettato. I bambini che erano stati in grado di posticipare la gratificazione avevamo più abilità nella padronanza emotiva in adolescenza e meno probabilità di utilizzare cocaina in età adulta. Questo dato trova conferma nell’elevato rischio di sviluppare delle problematiche legate alle sostanze per quei soggetti che nell’infanzia hanno avuto una diagnosi di ADHD, piuttosto che di disturbo oppositivo provocatorio (August et al. 2006), problematiche peraltro accomunate da un deficit emotivo.

Anche i modelli di Beck e Ellis riservano alle emozioni un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza: alcune situazioni trigger vengono legate a specifiche reazioni emotive grazie ad un processo di condizionamento. Tali associazioni sarebbero poi facilitate ed evocate tramite pensieri disfunzionali e credenze inerenti la sostanza e il suo utilizzo (Rigliano e Bignamini, 2009).

 

Trattamento

In un’ottica trattamentale, le indicazioni in letteratura sono decisamente varie. Quasi tutte condividono l’importanza che hanno avuto i vissuti del paziente nello sviluppo del disturbo o nel determinarsi della ricaduta. Tendenzialmente, l’intervento si divide in tre fasi (disintossicazione, ricovero e prevenzione della ricaduta); limitandosi a considerare la parte inerente la competenza emotiva, numerosi approcci pongono l’obiettivo di limitare l’evitamento esperienziale tramite tecniche di gestione dell’ansia o riduzione dello stress e con la farmacoterapia; la psicoterapia cognitivo comportamentale risulta efficace, per esempio, nelle esposizioni guidate rispetto all’emotività negativa e nel rinforzo tramite l’esplorazione di quella positiva.

La CBT si concentra inoltre sull’individuazione di situazioni “a rischio” per il paziente e nell’implementazione di strategie per farvi fronte e per gestire il craving e gli stati negativi. Altri studi hanno utilizzato stimoli avversivi condizionati nella ricerca, nell’utilizzo o anche solo nell’immaginazione della sostanza, in modo da utilizzare la strategia di evitamento in favore dell’astensione (Rigliano & Bignamini, 2009).

I trattamenti basati sull’accettazione e il non giudizio, come la Mindfulness, invece tentano di alterare l’impatto che hanno emozioni e pensieri cambiando l’approccio che ha la persona con gli stessi piuttosto che ridurne direttamente l’intensità, la frequenza ecc. Ciò ha l’obiettivo di limitare agiti automatici e impulsivi e consentire una reazione diversa ad ansia, stress, dolore ecc. Le tecniche di MBTs focalizzano infatti l’attenzione del paziente sul momento presente, inclusi stati negativi o episodi di craving (Childress et al., 1983; Hayes et al., 1996; Gross, 2007).

Il dramma silenzioso del lutto prenatale: le conseguenze psicologiche nelle madri che affrontano la morte prenatale

Le emozioni più frequenti provate dopo un’esperienza di lutto prenatale  sono il senso di colpa e la vergogna, che possono indurre le coppie a non cercare conforto negli altri e a provare ancora più solitudine e smarrimento.

Rossana Piron, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Lutto prenatale: i dati recenti

Quando si parla di gravidanza, nell’immaginario collettivo siamo abituati ad associare immagini, aspettative e fantasie positive rispetto alla “dolce attesa”, che hanno tutte a che fare con la vita. Eppure, esiste una realtà molto spesso taciuta di gravidanze il cui esito provoca effetti drammatici nella vita della futura coppia genitoriale.

Secondo recenti dati ISTAT, in Italia nel 2008 ci sono stati 74117 aborti spontanei, 1866 bambini nati morti, e un’incidenza di morte intrauterina (cioè che avviene dopo la ventiduesima settimana di gestazione) di 3,5 su 1000 nati vivi (ISTAT, 2009). Secondo la rivista The Lancet, ogni giorno nel mondo 7200 mamme perdono il loro bambino a seguito della morte in utero.

In Italia la prima associazione che si è occupata di prevenzione, sostegno e cura della salute perinatale è l’associazione CiaoLapo, fondata dai coniugi Claudia Ravaldi, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, e Alfredo Vannacci, farmacologo e tossicologo. Il 30 aprile a Parma, i due fondatori hanno tenuto una giornata di formazione intitolata “Oltre il silenzio”, durante la quale hanno presentato i dati pubblicati sulla rivista The Lancet riguardo alle morti fetali nel mondo. Il 19 gennaio 2016 The Lancet ha promosso una nuova serie di articoli dal titolo Prevenire le morti in utero evitabili, mettendo in luce come il 90% dei casi potrebbero essere evitati anche in paesi con alto livello di sviluppo economico, come l’Italia.

La serie Ending Preventable Stillbirth è costituita da 5 articoli scientifici, 4 commenti e 2 report, scritta con la collaborazione di 40 paesi nel mondo, in rappresentanza di più di 100 organizzazioni. L’unica rappresentante italiana è l’associazione CiaoLapo, un dato che evidenzia come l’attenzione per questo tema sia ancora lontana sia culturalmente, che in una prospettiva di prevenzione e cura sanitaria. L’aspetto più rassicurante sul panorama italiano, è che l’Italia è uno dei Paesi ad altro sviluppo economico in cui il tasso di mortalità è diminuito maggiormente negli ultimi vent’anni.

 

Lutto prenatale: distinzione tra aborto spontaneo e morte intrauterina

La distinzione tra aborto spontaneo e morte intrauterina è di tipo temporale. Per aborto spontaneo si intende l’arresto della gravidanza prima della ventiduesima settimana di gestazione. Quando si parla di morte intrauterina, invece, si fa riferimento a quelle situazioni di arresto della gravidanza che avvengono dopo la ventiduesima settimana di gestazione; si parla di morte in utero precoce dalla ventiduesima alla ventottesima settimana, e infine di morte tardiva quando avviene dopo la ventottesima settimana.

L’aborto spontaneo è un’esperienza molto comune, avviene infatti tra il 15 e il 25% delle gravidanze. Nonostante la sua frequenza, le donne spesso non sono preparate a questa dolorosa esperienza, le cui cause sono per lo più sconosciute. Nel 2013 negli Stati Uniti è stata svolta un’indagine per valutare le credenze rispetto alla prevalenza, alle cause e agli effetti emotivi dell’aborto spontaneo (Bardos et al., 2015). Per la raccolta dei dati è stato somministrato un questionario di 33 domande, a uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 69 anni. Il numero di partecipanti è stato di 1084 persone, 45% uomini e il 55% donne. Il 15% dei partecipanti ha risposto di aver vissuto almeno un’esperienza di aborto spontaneo; tra questi, il 55% riteneva che l’aborto spontaneo fosse attribuibile a meno del 5% delle gravidanze.

Per quanto riguarda le cause, quelle ritenute più comuni includevano un evento stressante (76%), il sollevamento di un oggetto pesante (64%), l’uso precedente di contraccettivi intra-uterini (28%) o di contraccettivi orali (22%). Dal punto di vista delle conseguenze psicologiche, il 37% ha vissuto questa esperienza con la percezione di aver perso un bambino, il 47% si è sentito profondamente in colpa, il 41% ha provato solitudine e il 28% ha provato vergogna. Nei casi in cui è stata scoperta una causa, il 19% in meno ha sentito di aver fatto qualcosa di sbagliato. Anche se non ci fosse stato alcun modo per evitare l’accaduto, il 78% dei partecipanti ha dichiarato che avrebbe voluto conoscere la causa dell’avvenimento.

 

Lutto prenatale: le emozioni conseguenti la perdita

Come rilevato in questa indagine, le emozioni più frequenti provate dopo un’esperienza di lutto prenatale  sono il senso di colpa e la vergogna, che possono indurre le coppie a non cercare conforto negli altri e a provare ancora più solitudine e smarrimento.

La morte di un bambino durante la gravidanza (lutto prenatale) o subito dopo la nascita (lutto perinatale) è un’esperienza traumatica di grave entità, che può determinare nella coppia un alto rischio di insorgenza di lutto complicato o di sviluppare un disturbo psichiatrico (Paykel, 1971; Ravaldi et al., 2008). E’ esperienza comune delle coppie genitoriali in lutto, di vivere una profonda rottura esistenziale tra il “prima”(la vita in divenire) e un “dopo” (la morte del figlio atteso). Nel “dopo” i genitori vivono un’esperienza di rottura del percorso genitoriale poiché viene meno l’oggetto d’amore tanto fantasticato, così già profondamente parte del loro vissuto (Mouras et al., 2003).

In ogni momento della gravidanza si può parlare di lutto prenatale a tutti gli effetti. L’intensità del lutto prenatale infatti non è correlata all’età gestazionale, né alla presenza di patologie fetali o di incompatibilità con la vita, piuttosto è correlata al grado di investimento affettivo della coppia genitoriale. L’età del bambino non ha quindi alcuna importanza per stabilire l’entità della perdita, ma la differenza sta nell’instaurarsi della relazione di attaccamento che inizia molto prima della nascita del bambino (Righetti e Sette, 2000). Come ha spiegato Claudia Ravaldi durante la giornata di formazione di Parma, le madri non vivono solo l’esperienza del lutto ma anche una profonda ferita esistenziale, che può far generare pensieri di incapacità a generare una vita e di incuria nell’essere state in grado di proteggere il proprio bambino. Questo tipo di rimuginio, di tipo depressivo e di colpa, è maggiore nelle madri che hanno investito sulla gravidanza, come momento di realizzazione della propria esistenza (es. donne laureate, con un lavoro stabile e una famiglia).

Nel primo periodo successivo al lutto prenatale, i genitori sono spesso infastiditi da tutto ciò che ha a che fare con la genitorialità e possono mettere in atto condotte di evitamento per gestire il dolore della loro perdita, come tenersi lontani dai neonati, evitare coppie con figli piccoli o le donne in gravidanza. Le emozioni di fastidio, dolore, rabbia e invidia, fanno parte del normale processo di elaborazione della perdita e sono collegati a pensieri automatici transitori: “Perché è accaduto proprio a me?” “Perché lei che è una cattiva madre ha dei figli e io no?” . I genitori spesso vivono questi pensieri con profonda autocritica e hanno difficoltà a esprimerli perchè sono accompagnati da sentimenti di indegnità (“Ho dei pensieri mostruosi, sono una persona orribile”) (Barr e Cacciatore, 2007).

 

Le fasi del lutto prenatale

Durante la giornata di formazione di Parma sono state presentate da Claudia Ravaldi le varie fasi del lutto che corrispondono ai diversi vissuti emotivi:
– Shock: dopo la diagnosi la coppia sperimenta una fase di shock e di profonda disorganizzazione, che può durare diversi giorni e che limita la capacità di comprensione. Le emozioni più comuni in questa fase sono stordimento, incredulità, distacco emotivo, congelamento o negazione (“Forse si sono sbagliati”). Molte donne sperimentano in modo acuto la cosiddetta “Sindrome delle braccia vuote”.
– Realizzazione: è il momento in cui la coppia realizza ciò che è realmente accaduto. La profonda tristezza e il senso di colpa (“Forse non avrei dovuto fare…”) sono spesso accompagnati da un dolore fisico intenso, come dolori alle articolazioni, pressione al torace, palpitazioni.
– Protesta: in questa fase l’emozione principale è la rabbia, accompagnata da sentimenti di ingiustizia, rammarico e ricerca delle colpe. La rabbia può intensificarsi per la sensazione di perdita di controllo, per il non avere avuto possibilità di scelta o per non avere capito cosa stesse accadendo. Altri sintomi ricorrenti in questa fase sono insonnia, incubi, flash back dei momenti più traumatici (es. le parole del medico, la sala operatoria, etc..).
– Disorganizzazione: questa fase è caratterizzata da depressione, solitudine, evitamento delle situazioni che hanno a che fare con la genitorialità. Possono presentarsi difficoltà nella coppia per le modalità differenti di vivere il lutto.
– Ri-organizzazione e accettazione: la solitudine e il rammarico lasciano il posto al disgelo emotivo, alla ricerca di supporto e alla sofferenza senza angoscia. Nascono nuovi interessi e nuove abitudini.
– Ritorno all’attaccamento e al desiderio di maternità.

Quando un lutto di questo tipo colpisce una famiglia, inevitabilmente vengono coinvolte tutte le figure che gravitano attorno alla coppia genitoriale, come amici e parenti, che spesso non sanno come affrontare la situazione e come fornire un valido supporto. I contenuti e i toni hanno grande rilevanza nel mostrare empatia o al contrario distacco e indifferenza. Tentare di minimizzare, razionalizzare o appellarsi alla natura può avere effetti negativi, soprattutto nei primi mesi del lutto, e alcune frasi possono essere vissute come aggressive o inutili (Ravaldi et al., 2009).
Le frasi più comuni da evitare:
“Doveva andare così, è la natura che fa il suo corso”
“Non ti preoccupare sei giovane, andrà meglio la prossima volta”
“Si vede che non era sano, meglio così”
“Meno male che è successo ora che non ti eri ancora affezionata, dopo sarebbe stato peggio”
“Hai già un bambino a casa”
“Ne farai altri”
“Riprovateci subito”

Utilizzare semplici frasi di vicinanza, come “Mi dispiace”, “Deve essere molto doloroso”, “C’è qualcosa che posso fare per te?” permettono di comunicare rispetto, partecipazione e aprono al dialogo (Ravaldi et al., 2009).

L’elaborazione del lutto può avvenire anche dopo due anni di tempo, e alcune ricerche sottolineano che la percezione stabile di serenità avviene in media tre anni dopo la perdita (Righetti e Casadei, 2010). Per questo è difficile stabilire la differenza tra un normale processo di lutto e la presenza di lutto complicato solo su criteri temporali.

In questo lasso di tempo sarebbe importante per i genitori e per gli altri figli essere seguiti attraverso un supporto integrato, cioè dal punto di vista medico, sociale e psicologico. I gruppi di auto-mutuo aiuto si sono rivelati efficaci per lenire la drammaticità dell’evento e favorire l’elaborazione del lutto ( Bulleri e De Marco, 2013). Anche le associazioni sono un valido aiuto perché forniscono informazioni e supporto, e favoriscono la condivisione tra le coppie genitoriali che vivono la stessa condizione (Ravaldi, 2009).

Anche la psicoterapia può fornire un valido supporto per accompagnare le persone verso l’elaborazione dell’esperienza traumatica. Due esempi di protocolli specifici per il trattamento del lutto prenatale e perinatale provengono dall’EMDR e dalla Psicoterapia Sensomotoria. Entrambe si focalizzano sui disturbi post-traumatici sbloccando meccanismi disfunzionali a livello somatico, cognitivo ed emotivo (Bulleri e De Marco, 2013).

In generale, la psicoterapia non ha il potere di eliminare la sofferenza, ma può permettere ai genitori di liberarsi dai vissuti irrazionali di colpa, incapacità e incuria e da tutte le emozioni negative che ostacolano la piena risoluzione del lutto.

 

NOTA: nella prima versione di questo articolo abbiamo scritto che l’associazione CiaoLapo è l’unica in Italia a occuparsi di Lutto prenatale e perinatale. Si tratta in realtà della prima ad essersene occupata in Italia. [NdR]

Maltrattamenti e abuso: l’ascolto del minore e il trattamento dell’offender – Report dal Convegno

Si è svolto a Foggia, lo scorso 26 gennaio presso l’Hotel Cicolella, il convegno “Maltrattamenti e abuso: l’ascolto del minore e il trattamento dell’offender” organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, dedicato a Emma Francavilla, la giovane collega e consigliera dell’Ordine venuta a mancare un anno fa e che fortemente aveva voluto dedicare tutto il suo impegno per l’organizzazione di questo convegno.

 

Prima dell’avvio dei lavori, si è respirato un clima di forte commozione in sala. Si è dato voce nel “qui e ora” a un dolore condiviso e vibrante nelle parole del Presidente dell’Ordine degli Psicologi Puglia, Antonio di Gioia [blockquote style=”1″]Sono particolarmente commosso perché in questo anno la sua assenza si è sentita parecchio, si sente la sua assenza in questa sala.[/blockquote]

 

I sessione: l’ascolto del minore in sede civile-penale e modelli familiari disfunzionali

Il convegno ha offerto una giornata di formazione variegata nei contenuti e articolata nell’esposizione degli interventi, provenienti dall’ambito istituzionale e clinico, testimonianza di una costante operazione di confronto e di un sinergico impegno per la sensibilizzazione ad un fenomeno quanto mai attuale e per la soluzione delle criticità ancora esistenti.

L’attenzione dell’uditorio è nell’immediato catalizzata, da parte dal dott. Riccardo Greco, Presidente del Tribunale dei minorenni di Bari, sul disegno di legge A.C. 2953-A “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, passato alla camera e che prevede tra i vari cambiamenti la soppressione del Tribunale per i Minorenni. Un cambiamento preoccupante e che non deve passare inosservato per gli effetti regressivi sulla giustizia minorile italiana. Si parla di “disposizioni di efficienza”, che tuttavia preferiscono un alto tasso di operatori non specializzati ma coinvolti in temi delicatissimi.

Il maltrattamento, in particolare nella sua forma psicologica, rappresenta una condizione che si presta ad una minore riconoscibilità dal punto di vista giudiziario, per tale ragione la specializzazione del giudice, difensore del minore, non può essere trascurata.

Aprire una finestra sulla dimensione qualitativa e quantitativa del fenomeno è tutt’altro che semplice, esso risulta, infatti, ancora purtroppo estremamente sommerso, il suo monitoraggio avviene a partire dai dati provenienti dai servizi sociali territoriali spesso interpellati per ragioni differenti dal maltrattamento e dall’abuso. La dott.ssa Rosy Paparella, Garante Regionale dei Diritti del Minore, mette in risalto come su 25.000 minori poco più di un quinto siano stati riconosciuti come vittime di maltrattamento. Al primo posto si individuano i casi di trascuratezza in tutte le sue forme, fisica, emotiva, dell’ipercura, a seguire i casi di violenza assistita, si tratta della “forma di violenza muta, invisibile” per riportare le sue parole, i casi di violenza psicologica e fisica, all’ultimo posto le violenze sessuali.

Il dato preoccupante è che la fascia di età maggiormente coinvolta è quella dagli undici ai diciassette anni, un importante indicatore di un intervento tardivo da parte di tutti gli operatori coinvolti in questo ambito. Tale aspetto veicola la riflessione sulla necessità di una costante formazione e aggiornamento e sulla rilevanza di un intervento di prevenzione rispetto alla vittimizzazione secondaria, a cui il minore può andare incontro, ossia la difficoltà da parte delle istituzioni di gestire il fenomeno. Essa rappresenta una condizione che nel contatto diretto con i minori emerge con chiarezza.

È pertanto importante ricordare utilizzando le parole della dott.ssa Paparella che [blockquote style=”1″]L’ascolto giudiziario e terapeutico è parte di un processo di protezione del minore[/blockquote] di cui gli stessi modi e tempi, nonchè le informazioni sulle ragioni dell’ascolto, fanno parte. [blockquote style=”1″]Ascoltare il trauma è l’aspetto più predittivo che il trauma possa essere riparato.[/blockquote]

In quest’ottica un ruolo centrale è assunto anche dal rispetto della deontologia professionale, in cui ognuno procede secondo specifiche competenze e s’interfaccia con professionalità differenti, che risultano necessarie laddove manca un’adeguata formazione in quel determinato settore. Le parole dell’avvocato Katia di Cagno, Coordinatrice Commissione Minori Ordine Avvocati di Bari, sintetizzano in maniera piuttosto concreta questo presupposto [blockquote style=”1″]Vorrei far comprendere che il concetto di vittoria non é più personale quando si parla di queste materie. Io immagino sempre il bambino seduto su una sedia, invisibile. Anche quando difendiamo uno dei genitori, la nostra mente deve sempre puntare al bene di quel bambino, se presente.[/blockquote]

Il convegno si è snodato tra proposte di confronto sull’analisi del fenomeno e tipologie d’intervento. Non è mancata inoltre, l’attenzione agli indicatori di difficoltà esistenti nella gestione del maltrattamento, dell’ascolto del minore e del trattamento dell’offender, portate alla luce dalle diverse professionalità in riferimento al proprio ambito d’intervento. Il Contributo della Dott.ssa Minenna, Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni, ha introdotto una raccomandazione rispetto ai pericoli che possono insinuarsi nella confusione dei ruoli da parte dello psicologo che si trova a ricoprire un ruolo diverso da quello clinico. [blockquote style=”1″]Un errore umano per noi psicologi è quello di confondere il ruolo di psicologo con quello di giudice; il giudice onorario, infatti, è chiamato a esprimere il suo giudizio sulla base di competenze specifiche, in quel contesto non è uno psicologo. Un secondo errore è quello di voler coordinare i vari interventi ergendosi al ruolo di supervisore piuttosto che rimanere a distanza.[/blockquote]

Nell’ambito delle consulenze tecniche di ufficio la dott.ssa Simone, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, richiama l’attenzione sul ruolo dello psicologo che mette in contatto il diritto dei maggiorenni con il contesto familiare nel quale c’è un bambino che ha vissuto un dramma, un’importante operazione di sostegno per il lavoro della procura e della polizia giudiziaria che può aiutare a scongiurare il rischio dell’archiviazione di un caso e dunque di un reato che resti impunito.

In sostanza,  afferma la dott.ssa Antonietta Curci, coordinatrice Master di II livello di Psicologia Giuridica presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, [blockquote style=”1″]Ciò che fa lo psicologo è raccogliere informazioni accurate, complete e credibili rispondendo, non all’accertamento della verità, ma alla necessità di supporto all’attività giudicante.[/blockquote]

Da qui l’importanza di impiegare metodi scientifici quando l’ascolto di esperienze traumatiche s’inserisce in un procedimento giudiziario. In sede d’interrogatorio, in ambito civile o probatorio, la suggestionabilità interrogativa rappresenta un elemento di vulnerabilità, che può compromettere la veridicità di una testimonianza. Analizzare quest’aspetto consente di verificare i casi in cui l’individuo si trova ad accettare e convincersi di ricordare fatti non realmente accaduti.

In tal senso, uno strumento impiegato in ambito forense è il Gudjonsson Suggestibility Scale. Esso valuta due aspetti della suggestionablità, l’accettazione, ossia la tendenza a cedere a domande suggestive e il cambio, ossia la tendenza a cambiare le proprie risposte per far fronte a feedback negativi, oltre alla compiacenza. La GSS è composta da un breve racconto che dopo la lettura viene fatto rievocare, seguono venti domande di cui gran parte sono suggestive e viene fornito un feedback negativo sulla prestazione; si procede rileggendo al soggetto le domande per verificare se le risposte cambiano in seguito al feedback e dopo cinquanta minuti si conclude con una rievocazione differita del brano. Il monito della dott.ssa Curci è quello di procedere con attenzione, [blockquote style=”1″]La grande difficoltà che dobbiamo affrontare è quella di non far esasperare situazioni già al limite, tenendo conto di tutte le variabili che potrebbero toccare anche chi opera nel caso e non solo i protagonisti.[/blockquote]

La mattina termina con una tavola rotonda sui modelli disfunzionali familiari. Il dott. Cusano apre questo momento di confronto condividendo un caso di maltrattamento intrafamiliare conclusosi terribilmente con un uxoricidio, un momento di profonda riflessione e sgomento per platea. A seguire, l’analisi dei modelli familiari disfunzionali conduce a soffermarsi sulla correlazione tra un basso livello di cura e un alto livello di protezione come fattore di rischio per i comportamenti devianti nei minori sex offender, contributo della dott.ssa Tarricone. L’interesse verso la realtà relazionale familiare non può dunque prescindere dal riferimento al diritto alla bigenitorialità, tema pregnante ma controverso. La legge 54/2006, come fa notare la dott.ssa Montemurno, ci invita a riconoscere che [blockquote style=”1″]Essere genitori vuol dire essere un’integrità che si occupa di un minore in termini affettivi, relazionali e comportamentali [/blockquote].

Questo diritto tuttavia può essere compromesso drasticamente. In tal senso, “Sindrome da Alienazione Parentale”, si inserisce a pieno titolo come condizione di compromissione del diritto alla bigenitorialità del minore e rappresenta il tema che conclude la tavola rotonda. La PAS, nel Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali, non viene riconosciuta come una sindrome, ma rappresenta più “una problematica relazionale che riguarda tre soggetti” come fa notare la dott.ssa Parente, è una problematica molto controversa e ostacola l’accesso del minore a entrambi i genitori. Essa si caratterizza per i seguenti sintomi: la campagna di denigrazione, la razionalizzazione debole, la mancanza di ambivalenza, il fenomeno del pensatore indipendente, l’appoggio automatico al genitore alienante, l’assenza di senso di colpa, gli scenari presi a prestito, l’estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato che mettono in risalto la distruzione del legame con il genitore alienato.

 

II sessione: Il sex offender aspetti psicopatologici, processuali, di tutela giuridica e d’ intervento

Il lavoro formativo riprende a pieno ritmo nel pomeriggio con gli aspetti psicopatologici e sessuali del sex offender, un’analisi, offerta dal prof. Carabellese, che mette in risalto la non uniformità del profilo del sex offender, in cui possono essere presenti aspetti relazionali caratterizzati da un attaccamento insicuro-evitante, un quadro psicopatologico eterogeneo e disfunzioni sessuali o altri piccoli disturbi fisici. La psicopatia tuttavia, costituisce un rischio specifico di recidiva criminale, fa notare. Va ricordato inoltre, che non esiste a oggi la possibilità di fare diagnosi di abuso sessuale a partire da indicatori isolati o multipli senza la presenza di altre prove.

In una cornice in cui la scientificità delle prassi è stata più volte ribadita, l’esperienza clinica portata dalla dott.ssa Loredana Mastrorilli ha favorito un contatto più empatico con l’esperienza traumatica dell’abuso. Emblematiche sono state le sue parole

[blockquote style=”1″]Spesso la teoria è importante ma di fronte all’esperienza dolorosa fatta da un bambino, non si può usare solo ed esclusivamente un metodo scientifico. Non avrebbe successo. Senza rapporto empatico con il dolore provato dalla vittima in quel momento, non c’è possibilità di ottenere risultato e apportarle beneficio.[/blockquote]

La tutela giuridica del minore sex offender, è stato un altro importantissimo tema affrontato nel pomeriggio dal dott. Massimiliano Arena. Il suo contributo ha stimolato la riflessione sulla ricorrenza a trascurare, da parte dei tecnici stessi, le esigenze educative di fronte a reati commessi da minorenni. Il D.P.R. 448/88, fa notare, prevede un procedimento speciale [blockquote style=”1″]Che consente la sospensione del processo e la conseguente messa alla prova del minore. [/blockquote]In questo periodo è monitorata l’evoluzione del comportamento del minore e della sua personalità da parte dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e i servizi socio-assistenziali locali.

La giornata si conclude con una tavola rotonda sulle proposte progettuali promosse in favore di sex offender uomini e donne. Le dott. sse, Anna Coppola De Vanna e Marika Massara, presentano i rispettivi progetti di contrasto alla violenza di genere, rivolti agli uomini, “Dalla parte del Lupo” e “Rompere il silenzio”, finalizzati all’elaborazione dall’esperienza della violenza, alla riduzione del rischio di recidive e alla ripresa della vita sociale.

Il convegno termina con i contributi delle dott.sse Sciancalepore e Guglielmini, in cui si porta in primo piano il fenomeno delle donne abusanti, rispetto alle quali mancano ancora stime precise e studi approfonditi, ma non mancano interventi.

L’attenzione ai lavori da parte della platea è stata costante e la nutrita proposta di temi è stata una buona occasione di aggiornamento e confronto per la comprensione di un fenomeno tragicamente attuale e dalle molteplici e pericolose sfumature.

Rimuginio e ruminazione – Introduzione alla Psicologia

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari individuati come pericolosi. La ruminazione è definita, invece, come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative.

 Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Rimuginio e Ruminazione

Nel campo della psicopatologia si è soliti prestare molta attenzione a una serie di processi mentali caratterizzati da ripetitività che, alla lunga, provocano ripercussioni sullo stato emotivo e comportamentale della persona. Il pensiero ripetitivo incastra, chi lo mette in atto, in un circolo vizioso in cui l’unico esito è continuare a pensare in modo ridondante. Questa modalità di pensiero passivo e/o relativamente incontrollabile sottende emozioni diverse tra loro, come l’ansia, la rabbia e la depressione. Il pensiero ripetitivo, a seconda del tipo di emozione a cui si riferisce, assume connotazioni e significati diversi.

Le modalità di pensiero ripetitivo più frequentemente studiate sono il rimuginio, legato all’ansia, la ruminazione, legata alla depressione, e la ruminazione rabbiosa, legata alla rabbia.
In generale esistono delle caratteristiche comuni a tali modalità di pensiero, e sono:
– ripetitività, pensieri sempre uguali che si ripetono;
– negatività, pensare sempre a cose negative che potrebbero succedere o che sono accadute;
– incontrollabilità, incapacità di fermare i pensieri ripetitivi;
– contenuto prettamente verbale, sono caratterizzati più da frasi che da immagini mentali;
– astrattezza, non portano all’azione ma richiamano solo altri pensieri;
– dispendio di energie, portano a una mancanza di concentrazione su temi che non siano legati ai processi in questione.

Inizialmente, si cominciano a utilizzare le indicate modalità di pensiero credendo siano efficaci e utili per risolvere situazioni identificate come problematiche, per affrontare i problemi futuri, per percepirsi meno in colpa e cercare rassicurazioni.

 

Il rimuginio

Il rimuginio o worry  ( la traduzione migliore e tecnicamente più appropriata è “rimuginio” e non “preoccupazione”, secondo Sassaroli e Ruggiero, 2003)  è definito come una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava. Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari individuati come pericolosi. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività di una serie di pensieri considerati come incontrollabili e intrusivi, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi  che potrebbero manifestarsi in futuro.

Il rimuginio è una strategia che l’individuo adotta quando si trova in situazioni identificate come pericolose e incerte, ansiogene, per questo difficili da gestire. Il rimuginio, dunque, è utilizzato dall’individuo come modalità di fronteggiamento della situazione temuta, allo scopo di prevenirla e controllarla.

Chi rimugina ha paura e teme sempre possa avverarsi il peggio, non riesce a valutare possibili alternative per gestire la situazione temuta e pensa che il rimuginare possa portare alla soluzione del problema. Alla lunga, chi rimugina si percepisce debole, fragile, insicuro, spaventato e costantemente soggiogato dalla pericolosità del futuro, di conseguenza il rimuginio si cronicizza e diventa disfunzionale e maladattivo (Clark, & Beck, 2010).

Il rimuginio è tanto più grave e difficile da eliminare quanto più la persona attribuisce ad esso significati positivi (metacredenze positive), come pensare che rimuginare aiuti a risolvere i problemi, prepari al peggio, riduca la probabilità che accada l’evento temuto. Spesso si rimugina per sentirsi più sicuri o per analizzare al meglio un problema, chiaramente queste credenze disfunzionali legate all’utilità del rimuginio mantengono l’individuo in una condizione di ansia e in una falsa percezione di risoluzione del problema stesso (Sassaroli & Ruggiero, 2003).

Coloro che rimuginano sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004), per questo utilizzano il rimuginio come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento futuro temuto. Il non riscontrare le conseguenze temute determina, quindi, il rinforzo di tale processo di pensiero (Borkovec et al., 2004).

 

La ruminazione

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004).

Inizialmente la persona attiva la ruminazione perché crede sia una strategia consona alla gestione di una serie di accadimenti negativi, quindi la considera una soluzione efficace per il controllo della tristezza. Tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione e di valutare eventuali alternative che possano sia attivare emozioni positive sia produrre soluzioni più adeguate al raggiungimento dello scopo. L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.

 

La ruminazione rabbiosa

Nella ruminazione rabbiosa il pensiero ripetitivo è legato a un evento passato in cui si sperimenta una emozione di rabbia. Il pensiero sul passato amplifica l’intensità e la durata dell’emozione negativa, che sfocia conseguentemente nella vendetta e nell’aggressività (Sukhodolsky, 2001), quando è rivolta verso l’esterno. Se invece la ruminazione rabbiosa riguarda temi autosvalutativi, alla lunga potrebbe diventare depressione.

La ruminazione rabbiosa, dunque, svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’autocontrollo, nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi. La ruminazione rabbiosa è caratterizzata da tre processi fondamentali quali:
– pensiero ripetitivo rivolto ad esperienze passate che hanno suscitato rabbia,
– attenzione focalizzata sulle espressioni della rabbia
– il pensiero controfattuale (Sukhodolsky, Golub & Cromwell, 2001).

Di conseguenza la ruminazione, concentrandosi sugli episodi che hanno indotto rabbia, non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, gli affetti negativi e la sofferenza interferendo con il benessere psicologico dell’individuo (Watkins, Moulds, & Mackintosh, 2005).

Il fenomeno della ruminazione rabbiosa, inteso come processo cognitivo finalizzato al mantenimento delle emozioni negative di rabbia, può variare in base al contenuto dell’evento che induce rabbia e alla modalità di processamento dell’informazione proveniente dall’ambiente esterno valutata come scorretta o non adeguata. Se l’individuo attribuisce la causa del verificarsi dell’evento a fattori esterni, la ruminazione facilita la comparsa di comportamenti violenti e incrementa l’emozione di rabbia, invece se riconosce se stesso responsabile del verificarsi dell’evento la ruminazione, nonostante intensifichi gli stati emotivi di rabbia e l’attivazione fisiologica relativa alla stessa, non porta alla perdita di controllo sulle azioni, ma a una riduzione dello stato di benessere con conseguente abbassamento del tono dell’umore.

Per concludere, il rimuginio, la ruminazione e la ruminazione rabbiosa sono processi automatici in cui chi li mette in atto perde il contatto con la realtà e manifesta una serie di disagi emotivi e comportamentali (Papageorgiou & Wells, 2004).

Tuttavia essendo stili di pensiero appresi, è possibile individuare delle strategie efficaci per interromperli. Ovviamente, è necessario farsi seguire da un terapeuta in grado di indurre l’individuo alla consapevolezza del proprio funzionamento, al riconoscimento della dannosità di tali processi e di giungere al cambiamento dei pensieri che mantengono tali processi per apprenderne dei nuovi attraverso l’applicazione di interventi cognitivi o comportamentali volti a interrompere la catena dei pensieri stessi.

 

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicoterapia per gli anziani: motivazione, setting terapeutico e concettualizzazione del caso

Quando si lavora con gli anziani, ci sono alcuni temi e fattori legati all’età che possono emergere con maggiore frequenza e che, quindi, richiedono modifiche al “contenuto” della terapia. La psicoterapia per gli anziani può prevedere la rappresentazione anche grafica di quello che si andrà a svolgere permette di favorire la comprensione dei contenuti e di elaborarli con maggiore facilità; permette inoltre di ridurre l’ansia che spesso l’anziano presenta nell’affrontare qualcosa di ignoto, e che pazienti giovani/adulti e adolescenti di solito non manifestano.

Sara Ghezzer, Sara Pedroni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Premessa

I dati demografici a livello europeo mettono in evidenza un allungamento della vita media. Si prevede che entro il 2025 il 44% della popolazione avrà più di cinquant’anni. Per questo motivo la promozione della salute tra gli anziani rappresenta un investimento strategico dei governi europei. L’Italia registra un tasso di aspettativa di vita in salute di 71,2 anni, che è il più alto d’Europa. Più in generale la popolazione italiana ha beneficiato di importanti progressi per quanto riguarda la sopravvivenza: attualmente la speranza di vita alla nascita è di 78,6 anni per gli uomini e di 84,1 anni per le donne, anche se questo divario tra i sessi si sta riducendo con il passare del tempo e la forbice tenderà sempre più a ridursi.

L’incremento della vita media non riguarda solo la popolazione ultra sessantacinquenne ma anche gli “over 75 e 85”; le proiezioni demografiche mostrano un incremento dei centenari addirittura del 2% nel 2050. Tale situazione va inoltre di pari passo con la tendenza alla riduzione delle nascite, anche se i dati del 2007 evidenziano un miglioramento, sia pur parziale, della situazione.

L’evoluzione verso un progressivo allungamento della vita può essere considerata contemporaneamente un “trionfo e una sfida”, come affermano anche gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La sfida consiste nella necessità di prepararsi ad accogliere dignitosamente un numero crescente di anziani e nel garantire le condizioni necessarie a fare in modo che gli anni aggiunti possano essere vissuti attivamente e in buona salute. Si tratta di una sfida dal punto di vista sia sanitario sia economico e sociale. L’incremento della popolazione anziana a cui stiamo assistendo ci impone perciò la necessità di riflettere sulle condizioni di tale popolazione, sui suoi bisogni e sulle risposte che le comunità in cui vivono sono in grado di fornire (Delai, 2002). La salute non è un fatto privato o istituzionale, bensì un fatto che interessa l’intera comunità in cui la persona vive. Creare quindi comunità resilienti e consapevoli consente di sviluppare interventi che portino ad un benessere della popolazione e ad interventi di sviluppo che migliorino la salute.

 

Differenza tra paziente anziano e paziente giovane

Il paziente anziano si differenzia da una persona giovane adulta per modificazioni che intercorrono a livello fisico, cognitivo, esperenziale e di regolazione somatico-affettiva. L’invecchiamento può infatti essere definito come processo, o insieme di processi, che hanno luogo in un organismo vivente e che con il passare del tempo ne diminuiscono la probabilità di sopravvivenza: grazie all’allungamento della speranza di vita si è reso possibile lo studio di tali processi (De Beni, 2009). L’invecchiamento va distinto dalla malattia poiché porta con sé cambiamenti universali e non reversibili, ma non necessariamente invalidanti. Alcune modificazioni a livello cognitivo si presentano comunque anche nella persona non affetta da patologia neurodegenerativa o da condizione di Mild Cognitive Impairment (Petersen, 1999).

Le funzioni principalmente coinvolte risultano essere la working memory (Baddeley, 1974), cioè la capacità di manipolare ed elaborare attivamente un’informazione; l’attenzione selettiva, ovvero la capacità di prestare attenzione ad uno specifico stimolo inibendo gli altri (distrattori).
Le conoscenze semantiche ed episodiche rimangono invece preservate nella persona anziana in salute e sono come punti di forza anche all’interno del percorso psicoterapico. Un test di screening come il MMSE (Folstein et al 1975)(Measso et al 1993) o il MoCa (Arcara et al., 2013) può dirimere il terapeuta da eventuali dubbi di situazioni di compromissione cognitiva lieve.

Se si presentassero difficoltà in queste aree, è utile, durante la terapia, reiterare le informazioni ricevute dal paziente per favorirne la codifica, intervenendo a livello cognitivo stimolando i circuiti adibiti ai processi di memorizzazione e validando la persona.

Alle possibili difficoltà cognitive si sommano i probabili problemi di tipo sensoriale: il 50 e il 75% delle persone infatti ultra 65enni ha problemi di udito. All’interno di una psicoterapia per gli anziani tale problematica potrebbe interferire nel rapporto diadico e frustrare il paziente, abbassandone la motivazione. La valutazione adeguata della gravità del problema e l’eventuale ausilio di supporti audio potrebbe contrastare queste difficoltà.

Molto spesso, il paziente anziano interviene in terapia riportando una problematica di tipo fisico, sia essa di entità lieve o più grave. L’incidenza di malattie infatti aumenta esponenzialmente con l’età, si pensi ad esempio a difficoltà circolatorie, dolori alle articolazioni, etc.
I problemi di salute possono creare un focus importante per il paziente o limitare al contempo la messa in atto di esercizi comportamentali, come le esposizioni. È bene dunque che il terapeuta concordi con il paziente obiettivi realistici, in base alle esigenze e alle possibilità della persona anziana. Contemporaneamente può essere utile utilizzare il malessere fisico e la capacità di farvi fronte da parte della persona, come risorsa e capacità individuale, per validarla.

Molto spesso le persone tendono a svilire l’importanza della sintomatologia fisica che la persona di terza età riporta. Questo comportamento può favorire un calo dell’autostima e pensieri autosvalutativi nel paziente. Il terapeuta comprenderà come questo comportamento è senz’altro poco utile, e controproducente all’interno di un setting terapico.

 

Il setting della psicoterapia per gli anziani

Difficoltà motorie, limitazioni nella propria autonomia, variabilità del ciclo sonno-veglia sono peculiarità che possono contaminare la creazione di un buon setting terapico. Setting alternativi come la terapia a domicilio possono favorire l’aderenza del paziente al percorso piscologico. Questo intervento può essere solo momentaneo: durante un particolare periodo dell’anno (estate, inverno), a seguito di un acuirsi della situazione di salute fisica (p.e. frattura femore), o a causa di un peggioramento della situazione psicologica (p.e. episodio depressivo maggiore).

Spetta al terapeuta, in accordo con il paziente e con i suoi familiari, decidere cosa è meglio fare: in una situazione di forte depressione infatti può essere utile stimolare il paziente ad uscire, la terapia potrebbe fungere come esercizio comportamentale; ma se la persona è abulica, questo tentativo sarà per il terapeuta fallimentare sin dal principio.

Interventi di gruppo possono migliorare l’esito terapeutico per coloro che sono soli o socialmente isolati; tuttavia alcuni studi (Engels e Verney, 1997) hanno rivelato che la terapia individuale è di maggiore efficacia per l’anziano depresso rispetto al gruppo.

 

Psicoterapia per gli anziani: i disturbi dell’umore

Per trattare utilmente i disturbi dell’umore in utenti affetti da demenza è opportuno saper distinguere tra depressione e apatia. L’apatia è caratterizzata da pervasiva mancanza di motivazione e disinteresse, mentre nella depressione il paziente diventa apparentemente apatico, ma questa è una conseguenza negativa di una serie di idee e vissuti negativi di incapacità, colpa, mancanza di speranza. Nella popolazione con più di 65 anni si stima una prevalenza dello 0,9% per anno di disturbo depressivo maggiore (Djernes et al, 2006). Solitamente nell’anziano emergono pensieri negativi soprattutto riguardanti l’immagine di sé ed i mutamenti che questa immagine subisce rispetto alle modificazioni interne ed esterne legate all’età. I disturbi psichici che ne possono derivare, sotto forma di ansia e/o di depressione, possono essere considerati come l’espressione di una conflittualità che, attivata dai fattori di stress propri dell’età, si focalizza sulla divergenza crescente fra immagine ideale ed immagine reale di sé.

La clinica insegna che caratteristiche antecedenti del carattere, si possono nella vecchiaia, irrigidirsi, ad esempio un anziano, dapprima prudente, potrebbe con l’età, diventare diffidente, un anziano estroverso potrà diventare spavaldo o fastidioso, l’introverso, invece, si coarterà su di sé, concentrandosi sul proprio corpo e tenderà all’ipocondria.

Se il paziente soffre di un’alterazione del tono dell’umore di origine depressiva, la condizione deve essere considerata attentamente nella sua eziologia, per identificare il trattamento più proficuo. Si ricordi che la depressione, ha manifestazioni particolari nel malato di demenza, in quanto può essere accompagnata da ansia o comportamenti accelerati anziché rallentati come in genere avviene nell’adulto (Bordino e Iannizzi, 2001). È opportuno inserire l’intervento di psicoterapia per gli anziani con disturbo dell’umore affinché sia di ausilio anche per migliorare la partecipazione attiva del paziente a una riabilitazione psicosociale e neuropsicologica che riescano a restituire il significato alla vita dei pazienti.

 

Contenuto della psicoterapia per gli anziani e concettualizzazione del caso

Quando si lavora con gli anziani, ci sono alcuni temi e fattori legati all’età che possono emergere con maggiore frequenza e che, quindi, richiedono modifiche al “contenuto” della terapia. Laidlaw nel 2004 ha rivisitato il modello proposto da Beck (1979) andando a proporre una concettualizzazione del caso creata ad hoc per pazienti ultra 65enni.

La psicoterapia per gli anziani può prevedere la rappresentazione anche grafica di quello che si andrà a svolgere permette di favorire la comprensione dei contenuti e di elaborarli con maggiore facilità; permette inoltre di ridurre l’ansia che spesso l’anziano presenta nell’affrontare qualcosa di ignoto, e che pazienti giovani/adulti e adolescenti di solito non manifestano.
Come rappresentato nel diagramma, la concettualizzazione proposta da Laidlaw può essere definita come una rappresentazione idiosincratica dei problemi attuali del paziente, in cui sono segnalati i fattori (cognitivi, comportamentali, emotivi, interpersonali) predisponenti e di mantenimento del disturbo.

Di seguito una approfondita esplicazione: le credenze di coorte sono assunti condivisi dalla maggior parte delle persone nate in determinati contesti socio culturali e in determinati periodi storici. Tali esperienze possono aver avuto un impatto significativo nella storia di vita della persona e possono emergere anche frequentemente nel corso della terapia.

Gli investimenti di ruolo riflettono le attività e gli interessi in cui la persona è coinvolta: pare che grado di investimento e sintomatologia depressiva siano inversamente proporzionali.

I legami intergenerazionali riflettono la rete che si costruisce attorno all’anziano, con figli, nipoti, coniugi, etc. Essi possono essere una risorsa quando investono il paziente di un valore positivo, ma possono essere fonte di frustrazione e malessere quando costituiscono fonte di attrito o conflittualità.
Il contesto socio-culturale fa riferimento ai pregiudizi e agli stereotipi che la persona anziana sente su di sé. Se questi paiono persistenti e ben radicati possono favorire il disagio psichico acuendo il malessere, è quindi importante che questa componente sia indagata e smantellata fin dalle prime sedute di psicoterapia.

Per quanto riguarda la salute fisica, come accennato prima, il terapeuta dovrà sempre informarsi sulla presenza di malattie fisiche nel paziente ed esplorare la comprensione che questi ha delle sue patologie e delle conseguenze che ne derivano.

tabella

Fig.1 Case Formulation per anziani (Laidlaw et al.,2004)

La psicoterapia per gli anziani presenta dunque degli aspetti assolutamente peculiari, viste le caratteristiche della sintomatologia, la possibilità di incontrare delle resistenze culturali all’approccio psicologico e la possibile presenza di un deterioramento cognitivo. È importante che il clinico sia preparato per svolgere al meglio la diagnosi differenziale con altri disturbi e che non sottovaluti le manifestazioni fisiche dei disturbi dell’umore. Anche in caso di compromissione della cognitività, il psicoterapia per gli anziani può essere fondamentale per aumentare la compliance del paziente alle altre terapie proposte e può essere un valido aiuto per alleviare la sintomatologia di sofferenza psicologica. Naturalmente in questo caso il terapeuta dovrà adeguare le sue modalità di comunicazione alle capacità residue del paziente.

 

Misofonia: un sovraccarico dell’attività cerebrale alla base dell’eccessiva sensibilità ad alcuni rumori

Sebbene alcune persone possano trovare sgradevoli alcuni rumori, come quelli prodotti dalla masticazione o dalla respirazione, per altre persone essi risultano letteralmente insopportabili, tale condizione è detta Misofonia. In una recente ricerca è stato dimostrato che la misofonia sarebbe dovuta a un sovraccarico di informazioni elaborate da diverse connessioni cerebrali.

 

Misofonia e attività cerebrale: il ruolo del lobo frontale

Un team capeggiato dall’Università di Newcastle, ha compiuto delle scoperte riguardanti le basi fisiche e cerebrali della condizione chiamata “misofonia“, di cui sono caratterizzate le persone che hanno un vero e proprio odio per alcuni suoni, come quelli prodotti dalle azioni di mangiare, masticare, o premere ripetutamente il pulsante di una penna. Questi suoni, chiamati “suoni trigger” da chi soffre di misofonia, possono portare a risposte immediate e intense, come liti o bisogno di fuga.

Tale ricerca è stata pubblicata sulla rivista Current Biology, ed evidenzia la presenza di alcuni cambiamenti nella struttura del lobo frontale in coloro che soffrono di misofonia ed anche dei cambiamenti nell’attività cerebrale. Le analisi di brain imaging hanno anche rilevato che questi soggetti avrebbero della anomalie nei meccanismi di controllo emozionale, che causerebbero un sovraccarico nell’attività cerebrale al momento dell’esposizione ai suoni trigger.

I ricercatori hanno anche scoperto che l’attività cerebrale originerebbe da diversi pattern di connessioni al lobo frontale. Quest’ultimo è la struttura imputata normalmente alla soppressione delle reazioni anormali ai suoni. I ricercatori hanno scoperto che i suoni trigger evocherebbero, in chi soffre di misofonia, una risposta psicologica amplificata accompagnata da sintomi fisici, come battito cardiaco accelerato e sudorazione.

Il Dr. Sukhbinder Kumar, dell’Istituto di Neuroscienze all’Università di Newcastle e del Wellcome Centre for Neuroimaging allo University College di Londra (UCL), ha condotto la ricerca. Egli afferma:

Per molte persone affette da misofonia, questa è una buona notizia, perché per la prima volta abbiamo dimostrato una differenza nella struttura e nella funzionalità cerebrale in coloro che ne soffrono. I pazienti con misofonia hanno delle caratteristiche cerebrali notevolmente simili e la sindrome non è ancora riconosciuta in nessuno degli attuali sistemi diagnostici. Questo studio dimostra i cambiamenti cerebrali critici, come evidenza ulteriore necessaria a convincere la scettica comunità medica che questa è una vera e propria patologia.

 

Le differenze cerebrali nei misofoni

Servendosi  della Risonanza Magnetica (MRI), il team di ricercatori ha rilevato delle differenze fisiche nei lobi frontali tra i due emisferi cerebrali dei soggetti affetti da misofonia, con una mielinizzazione più marcata nella materia grigia della corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC). Lo studio ha anche utilizzato la Risonanza Magnetica Funzionale (f-MRI), per misurare l’attività cerebrale dei soggetti con e senza misofonia, mentre essi sentivano una serie di suoni: un suono “neutrale” (come la pioggia, un bar affollato, un bollitore); un suono spiacevole (come un bambino che piangeva o una persona che urlava); un suono “trigger” (come i rumori prodotti dalle azioni di respirare e mangiare).

L’ f-MRI ha mostrato una connessione anormale tra i lobi frontali ed un area chiamata “corteccia insulare anteriore” (AIC). Quest’area della materia grigia è situata in una piega profonda della parte laterale dei lobi cerebrali ed è conosciuta per il suo coinvolgimento nell’elaborazione delle emozioni e nell’integrazione delle informazioni sensoriali provenienti dal corpo e dal mondo esterno.

Quando sono presentati i suoni trigger, l’attività cerebrale viene incrementata in entrambe le aree, nei soggetti misofoni, mentre nei soggetti senza misofonia, l’attività incrementa nell’ AIC, ma diminuisce nelle aree frontali. I ricercatori ritengono che questo fatto rifletta la presenza di meccanismi di controllo anormali dei lobi frontali sull’attività della corteccia insulare.

Tim Griffiths, Professore di Neurologia Cognitiva all”Università di Newcastle e all’UCL, aggiunge:

Spero che questi risultati rassicureranno i misofoni. Io stesso facevo parte degli scettici, fino a che non ho visto questi pazienti nella clinica, e ho capito quanto le loro caratteristiche fossero simili. Adesso abbiamo prove a sufficienza per tracciare le basi di questo disturbo attraverso le differenze nei meccanismi di controllo cerebrale. Questo fatto suggerirà possibili manipolazioni terapeutiche ed incoraggerà la ricerca di meccanismi simili in altre condizioni associate a reazioni emotive anormali.

Un altro risvolto, quello terapeutico, è messo in evidenza dal Dr. Kumar:

La mia speranza è quella di identificare gli effetti cerebrali distintivi prodotti dai suoni trigger. Questi “segnali” potrebbero essere utilizzati all’interno di trattamenti specifici, come ad esempio il neurofeedback, in cui i soggetti possono regolare le proprie reazioni controllando l’attività cerebrale prodotta.

 

L’amore è eterno (finché dura) – Le risposte di FluIDsex

Buongiorno, Non ho il coraggio di lasciare il mio ragazzo con cui sto da 9 anni perché ci sono le feste e perché lui ha già dei suoi problemi. Poi arriva il dubbio, ma credo manchi solo il coraggio. Consigli? (Lore Lay)

 

«Come finisce un amore? – Ma allora finisce? Nessuno – salvo gli altri – lo sa mai; una specie d’innocenza nasconde la fine di questa cosa concepita, propugnata e vissuta come eterna.»

(E. Fromm)

Cara Lore Lay,

vivere un’intensa storia d’amore e sentirla vacillare dopo anni passati insieme risulta essere spesso fortemente destabilizzante sia per chi, avvertendo il disagio, sente il bisogno di agire una separazione e di dar voce alla fine del rapporto, sia per chi quella voce può soltanto ascoltarla, in quel momento.

Nel corso della sua breve domanda, Lei fa più volte riferimento al coraggio ed in particolare ad una “mancanza di coraggio” che sembra bloccarla dall’esprimere un bisogno apparentemente già identificato. Ed effettivamente è necessario essere molto coraggios* per intraprendere un doloroso percorso di consapevolezza e per, infine, dar voce alla fine di una storia d’amore importante. Tuttavia mi sorge spontaneo chiedermi (e proporrei a Lei questa riflessione) se effettivamente questa “mancanza” di coraggio sia esclusivamente legata al periodo che sta attraversando il suo ragazzo o se potrebbe essere rappresentativa di un suo più intimo bisogno di ascoltare sé stessa e rispettare i suoi tempi all’interno di questo processo difficoltoso.

L’invito, quindi, potrebbe essere quello di sfruttare questi giorni per prendersi un po’ di tempo e cercare di ascoltare con più intensità quello che La abita e, allora, poter trovare il coraggio di scegliere e di dare una direzione nuova alle vostre storie di vita.

Irene Lisa Gargano

 

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La “psicosi terrorismo”, quando i processi di pensiero inconsapevoli modulano la percezione dell’Altro

L’episodio del cinema di Torino colloquialmente etichettato come “psicosi terrorismo“. Tutti noi siamo vittime quotidiane degli automatismi di pensiero che inducono a commettere distorsioni interpretative (bias cognitivi) frutto dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La contrapposizione di un “Noi” variegato e multiforme con un “Loro” omogeneo e indifferenziato influenza la possibilità di ricorrere ad un numero assai limitato di ipotesi per leggere il comportamento dell’altro, quando ci si rapporta non come singoli ma come membri di un gruppo sociale.

La psicosi terrorismo e i pensieri automatici alla base dell’intolleranza razziale

Si continua a discutere della vicenda accaduta in un cinema torinese la sera del primo gennaio quando durante la proiezione di un film, in presenza di una madre ed una figlia maghrebine intente a scambiarsi messaggi via whatsapp, il pubblico in allerta ha abbandonato la sala. Si saprà successivamente che si trattava di donne sordomute che, nel corso di una scena erotica, hanno deciso di inviare messaggi col fine di comunicare ed ironizzare su quanto osservato.

L’intesa, lo scambio di messaggi, il “raggruppamento” di due donne musulmane in uno spazio pubblico ha allertato gli spettatori in sala al punto da indurli alla fuga e a ricorrere ai carabinieri, i quali ben presto hanno compreso il malinteso. Cerchiamo però di tracciare un percorso a ritroso e di tentare di individuare i fattori all’origine di un tale malinteso, quello che i media generalisti chiamano in po’ approssimativamente “psicosi terrorismo“.

Si è parlato di “psicosi terrorismo” e si potrebbe essere tentati dal semplificare la lettura dell’accaduto con un frettoloso quanto impreciso riferimento ad un’intolleranza razziale dilagante e generalizzata. Questo episodio potrebbe costituire, in realtà, un’occasione utile per riflettere su quanti e quali siano i processi di pensiero semi-automatici che si tramutano poi in condotte comportamentali intenzionali.

La complessità e imprevedibilità della realtà sociale ci richiede di essere interpreti abili a leggere e riconoscere i propri ed altrui stati mentali, ovvero tentare di capire quale sia l’intenzione che muove l’agire dell’altra persona. In questo caso le persone del pubblico in sala hanno letto in modo erroneo il comportamento delle due donne, attribuendo loro un’intenzione totalmente inesatta – quella di essere complici di un attacco terroristico. La teoria della mente, il lavorio quotidiano che ciascuno singolarmente svolge provando ad interpretare gli stati mentali degli altri, in altre parole questo tentativo di rappresentarsi internamente il mondo mentale altrui, risente delle modalità con cui categorizziamo gli altri agenti sociali a seconda del contesto storico-culturale nel quale viviamo. Incasellare l’altro in una specifica categoria significa spingerlo ad assumere una serie di attributi stereotipici in grado di orientare il comportamento; in questo caso le donne etichettate come musulmane hanno assorbito lo stereotipo del terrorista al punto da indurre gli spettatori alla fuga.

La realtà storica fa da sfondo costante permeando i processi di pensiero, riempiendo il contenuto delle nostre distorsioni cognitive dove mutano di volta in volta i protagonisti coinvolti (musulmani, meridionali, omosessuali, ecc.), tendenzialmente membri di un gruppo sociale diverso dal proprio che costituisce una minoranza (dove maggioranza e minoranza non si definiscono sulla base di un concetto quantitativo ma si distribuiscono lungo le polarità del potere, in primis il potere semantico di nominare o etichettare l’Altro).

I bias cognitivi e gli stereotipi sociali

Tutto il pubblico in sala è caduto nella stessa trappola? Si può parlare di un intero insieme di spettatori “razzisti”? Di sicuro possiamo affermare che tutti loro – e tutti noi – siamo vittime quotidiane degli automatismi di pensiero che inducono a commettere distorsioni interpretative (bias cognitivi) frutto dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La contrapposizione di un “Noi” variegato e multiforme con un “Loro” omogeneo e indifferenziato influenza la possibilità di ricorrere ad un numero assai limitato di ipotesi per leggere il comportamento dell’altro, quando ci si rapporta non come singoli ma come membri di un gruppo sociale.

In una condizione di incertezza diffusa gli spettatori hanno agito accodandosi al medesimo comportamento reciprocamente; l’unanimità della risposta del pubblico in sala può essere letta come una manifestazione di conformismo sociale che non ha coinvolto le due sole donne inconsapevoli di costituire una minaccia terroristica. L’ampiezza del pubblico, l’unanimità della lettura, il supporto sociale tra membri di una stessa cultura possono essere stati fattori che hanno generato il conformismo.

La teoria della mente può fallire, ciascun medesimo comportamento può essere mosso da un numero indefinito di intenzioni e la nostra capacità di lettura varia in base alle abilità metacognitive possedute, a loro volta plasmate dalla qualità degli scambi relazionali nei quali siamo immersi sin dalla prima infanzia. Il nostro Sé sociale chiede di essere considerato anche quando prendiamo in esame un processo tanto individuale come l’attribuzione degli stati mentali: le appartenenze ad un determinato gruppo alimentano bias cognitivi che costituiscono la cornice entro cui facciamo muovere i protagonisti presi in prestito dai confronti tra gruppi che il contesto storico del momento presente ci offre.

L’esercizio della consapevolezza diventa dunque una pratica fondamentale per disinnescare processi di pensiero semiautomatici che, abili nel far risparmiare energia cognitiva ricorrendo a soluzioni “preconfezionate”, diventano colpevoli di inoltrarci su strade interpretative errate. Come le neuroscienze cognitive suggeriscono, e come evidenziato da questa vicenda, l’agito rappresenta solo l’ultimo tassello di un processo che ha origine da una concatenazione di ingranaggi che operano al di fuori della nostra consapevolezza. E dall’uscire da una sala di un cinema al segnare una croce su una scheda elettorale il passo è breve.

Art Therapy: la visione di Opere d’Arte quale aiuto per la terapia in soggetti anziani depressi – Ricerca sperimentale

Nella presente ricerca sperimentale si considerano “Opera d’Arte” solamente le opere in grado di suscitare sentimenti ed emozioni positive e si è tentato di dimostrare come la semplice loro visione sia in grado di migliorare il benessere psichico di soggetti anziani depressi che le osservano. 

Lavinia Costanzo, Edmondo Pasini

 

Premesse Teoriche: anziani e depressione

Uno dei problemi dell’assistenza a soggetti anziani depressi è la difficoltà della terapia delle forme depressive che si manifestano con una sintomatologia del tutto simile a quelle giovanili; si tratta di una reazione ad una situazione esistenziale, scarsamente reagente alle comuni terapie farmacologiche, determinata dal conflitto tra le proprie aspettative di vita e il vissuto soggettivo e obiettivo della propria esistenza.

Un grado di pessimismo, più o meno accentuato, costante in moltissimi anziani depressi, è causato soprattutto dall’insicurezza del proprio futuro riguardo le personali condizioni fisiche e socio-economiche; tuttavia vogliamo sottolineare che negli anziani depressi la causa della distimia è spesso la frequente diminuzione, e possibile perdita, dei rapporti affettivi sia famigliari che sociali (Cargnello D., 2016). La vita affettiva, priva di sollecitazioni emotive positive, risulta povera, quindi insoddisfacente; si crea una solitudine affettiva causata da una condizione esistenziale che determina uno stato melanconico-depressivo.

L’importanza degli affetti è una constatazione comune e, scientificamente, è sostenuta dall’Analisi Esistenziale, o Antropoanalisi, che considera gli affetti l’elemento base per il benessere; pertanto, in una prospettiva di Igiene e Salute Mentale, occorrerebbe incrementarli. Tuttavia non è facile creare degli affetti ma si può tentare di suscitare delle emozioni positive, che sono la base degli affetti, inducendo a migliorare il sentimento del volersi bene, contrastando “l’aggressività introiettata” caratteristica della depressione.

Esistono varie modalità di “volersi bene” in modo socialmente accettato (escludendo egoismo e narcisismo accentuati per le loro componenti spesso antisociali) e, tra esse, abbiamo voluto considerare solamente il desiderio di contornarsi di “cose belle” quale una delle manifestazioni più evidenti. Infatti, senza entrare nelle discussioni filosofiche riguardo il concetto di Bellezza, possiamo limitarci a considerarla la percezione positiva (ossia che provoca una sensazione piacevole) di una realtà rispetto a un confronto cosciente o inconscio con un modello di riferimento. Lo studio del comportamento umano ci insegna che da sempre l’umanità ha desiderato contornarsi di “cose belle” e che “il concetto di Bello”, pur tenendo conto della soggettività, è universale (Klineberg O., 1940); infatti, ad esempio, in nessuna civiltà e cultura non era (e neppure ora è) considerata bella una donna con occhi piccoli, naso lungo, bocca larga, orecchie grandi.

Pertanto “Bello” sarebbe ciò che piace e, soprattutto, suscita spontaneamente, ossia senza intervento di volontà o intelligenza, un sentimento di benessere psicologico.

Oltre a bellezze naturali, quali i fiori, l’umanità sempre in tutte le culture ha ritenuto che anche alcune opere costruite dall’uomo stesso possono “essere considerate belle” e sono state definite “Opere d’Arte”. Rimanendo nel campo figurativo-oggettuale teoricamente qualsiasi manufatto umano potrebbe essere considerato “Opera d’Arte” e non essere ritenuto semplicemente un prodotto costruito su criteri tecnici per uso spesso pratico; tuttavia, abbiamo considerato semplicisticamente che possa definirsi “Opera d’Arte” qualsiasi prodotto umano che non solo dovrebbe essere giudicato bello ma, soprattutto, deve suscitare in chi lo contempla un’emozione, possibilmente positiva.

 

Art Therapy: l’effetto delle Opere d’arte sugli anziani depressi

Nel caso della presente ricerca sperimentale ci siamo riferiti all’Arte Figurativa considerando “Opera d’Arte” solamente le opere in grado di suscitare sentimenti ed emozioni positive e abbiamo tentato di dimostrare come la semplice loro visione sia in grado di migliorare il benessere psichico di coloro (in questo caso soggetti anziani) che le osservano. Se questa visione è poi accompagnata da opportuni stimoli i risultati sembrano essere ancora più immediati.

L’idea della ricerca è nata sia da personali esperienze positive con gruppi di anziani condotti a visitare musei in visite guidate e che al termine mostravano un apparente miglioramento del tono dell’umore, sia dalla constatazione che se il gruppo di visitatori era seguito da una guida non solo molto preparata, ma che per alcuni quadri si soffermava su determinati particolari descrivendo quello che riteneva potesse essere lo stato d’animo dell’artista, si otteneva un maggiore interesse, decisamente superiore a quello di visite con guide tradizionali che si soffermavano solo sul dipinto.

Infine una pregressa esperienza condotta in Australia presso la National Gallery of Victoria a Mebourne nel 2014 ha reso possibile sperimentare in prima persona un fortunato esempio di mostra il cui obiettivo era proprio quello di utilizzare l’arte a scopo terapeutico (De Botton A. e Armstrong J., 2013). Selezionando accuratamente solo alcune opere della collezione permanente del museo australiano i due filosofi e autori Alain de Botton e John Armstrong con la collaborazione di Isobel Crombie, assistente al direttore, sono riusciti a creare un percorso di mostra “auto-guidata” in cui le didascalie delle opere in questione, evidenziate da un bollino colorato, interrogavano lo spettatore e lo invitavano a riflettere su alcune questioni che riguardano la vita e le esperienze di ciascun individuo. Anziché soffermarsi sulle origini e sull’autore dell’opera l’enfasi veniva posta sulla potenzialità di quell’immagine di guidare e aiutare il pubblico ad affrontare i problemi e le ansie di tutti i giorni. Alcune delle tematiche prese in considerazione riguardavano l’angoscia e lo stress, l’incomunicabilità di coppia, l’amore e la sessualità, la solitudine e la paura della morte.

Il progetto è stato accolto con grande interesse dai media e dal pubblico e ha permesso al museo di rivitalizzare la collezione permanente e di infrangere la convinzione che ancora molti hanno entrando in un museo, di dover per forza conoscere e seguire concetti accademici e interpretazioni curatoriali per non sentirsi inadeguati e di conseguenza allontanandosi dalla vera funzione dell’arte. Una passeggiata tra i corridoi di un museo, infatti, dovrebbe prima di tutto consentire di scollegarsi dal mondo esterno e dalle sue pressioni per potersi concentrare interamente sull’esperienza che si sta vivendo, e magari risvegliare nello spettatore la sopita creatività e curiosità così presente e viva nel periodo dell’infanzia.

Una ricerca americana, condotta da Harold J. Dupuy, pare rafforzare questa convinzione sostenendo che la cultura, e in particolar modo la fruizione dell’arte, sarebbero capaci di influenzare positivamente la salute psicofisica delle persone. Contemplando un capolavoro non solo l’attività celebrale si intensificherebbe ma verrebbe anche prodotta dopamina, il neurotrasmettitore che regola l’umore, donando una sensazione di piacere. Un ulteriore studio della Norvegian University of Science and Tecnology di Trondheim in Norvegia ha dimostrato, coinvolgendo oltre cinquantamila persone, che l’osservazione di un’opera d’arte fa ridurre l’ansia e lo stress e incrementa la sensazione di soddisfazione per la propria vita.

 

Il gruppo campione

Il Gruppo Campione è stato costituito da 19 volontari anziani con età compresa tra 71 e 79 anni (15 maschi, 4 femmine), residenti in una Casa di Cura comprendete un Reparto di Soggiorno per Anziani autosufficienti. I soggetti erano tutti in possesso di titolo di studio di scuola media superiore o di laurea e considerati in condizioni fisiche più che soddisfacenti, senza problemi psichici in anamnesi.

Nessuno aveva un partner fisso e non era stato loro assolutamente possibile collocarsi presso parenti; la scelta di ritirarsi in una struttura privata era volontaria, motivata soprattutto dal disagio di essere soli durante la notte e dalla difficoltà di gestirsi in casa dopo esperienze negative con badanti. Coloro che avevano figli residenti abbastanza vicino ricevevano brevi visite quasi settimanali, mentre coloro che avevano solo nipoti o altri parenti ricevevano visite “una tantum”, mediamente ogni due o tre mesi. Quasi tutti avevano l’impressione di “essersi parcheggiati” in una casa lussuosa, dotata di quasi tutti i confort, dove, tuttavia, malgrado i tentativi del Personale di Assistenza per la socializzazione, soffrivano di solitudine e di mancanza di stimoli emotivi. In pratica, per la loro personalità formata dallo stile di vita precedente, ognuno si comportava come fosse ospite di un albergo dove non fosse necessario instaurare rapporti amichevoli con gli altri ospiti.

Il Gruppo Campione è stato scelto, infatti, tra i 63 ospiti della Casa che rispondendo ad un questionario sulle loro condizioni generali avevano segnalato di essere tendenzialmente anziani depressi, si dicevano apatici, dicevano di sentirsi piuttosto soli, malgrado potessero essere in costante compagnia e di condurre una vita noiosa. Tali autovalutazioni avevano attirato l’attenzione del personale di assistenza che, malgrado alcuni interventi, non era riuscito a modificare in modo sostanziale l’opinione del gruppo. Anche tentativi di creare “uno spirito di gruppo” non aveva dato alcun risultato, tuttavia tutti erano disponibili a partecipare alla ricerca, mossi da curiosità e da speranza di scacciare la noia.

 

Metodologia della Ricerca

Il Gruppo Campione è stato invitato a partecipare a visite di musei di quadri condotte con tre modalità differenti:

  1. Tre visite con guida tradizionale che si limitava a soffermarsi a considerare solo il quadro;
  2. Due visite con guida che, oltre a considerare il quadro, su una decina di essi si soffermava a descrivere il possibile stato d’animo e le emozioni dell’artista mentre eseguiva l’opera;
  3. Due visite con guida che si comportava come nel caso precedente, ma che chiedeva, insistendo, senza imporsi, che ognuno esprimesse le proprie emozioni alla vista del quadro. Dato fondamentale era che in questo modo il visitatore non fosse più solo spettatore, ma diventasse attore potendo esprimere i propri sentimenti.

Al termine della visita in tutti i casi ognuno doveva rispondere al seguente semplice questionario:

  • La visita al museo mi è piaciuta e vorrei ripeterla:       SI             NO
  • Nel caso abbia risposto SI:  mi è piaciuta: 1(poco);  2(abbastanza);  3(molto);  4(moltissimo)
  • Al termine della visita mi sento psicologicamente:  1(come prima);  2(poco meglio di prima);  3(decisamente meglio di prima)
  • Eventuali commenti, o suggerimenti: ……………………………….

 

Limiti della ricerca

Come tutte le ricerche sperimentali il limite della presente è rappresentato, oltre che dalla metodologia, soprattutto dalla tipologia del Gruppo Campione che è troppo esiguo (pertanto non rappresentativo di un universo statistico di anziani, soprattutto anziani depressi) e troppo omogeneo perché costituito da soggetti con elevato grado culturale, quindi presumibilmente interessati a recarsi a mostre.

 

Risultati

Art Therapy la visione di Opere dArte quale aiuto per la terapia in soggetti anziani depressi - Ricerca sperimentale

 

Specialmente dopo l’ultima visita il gruppo di anziani depressi è stato invitato a esprimere qualche commento o suggerimento, scrivendolo sul questionario.

Commenti ottenuti: a) 14 giudizi positivi che esprimevano il suggerimento di rifare visite del genere; b) di questi 14 si segnalano 3 aggiunte: 1) “era ora che si studiasse qualcosa di nuovo”; 2) “è piacevole essere interpellati e poter esprimere il proprio parere”; 3) “finalmente siamo considerati e ritorniamo protagonisti”.

 

Commento dei risultati e Considerazioni Generali

Risultati validi per il Gruppo Campione

Data l’esiguità del Gruppo Campione di anziani depressi non sono state eseguite valutazioni statistiche, tuttavia appare evidente che la semplice visita ad un museo è stata un’esperienza considerata positiva. Inoltre quando la guida si è soffermata per alcuni quadri ad esporre ipotesi riguardo lo stato d’animo dell’artista mentre seguiva la sua Opera è riuscita a suscitare un maggiore interesse e un lieve miglioramento delle condizioni psichiche; tale miglioramento è risultato notevolmente aumentato quando la guida ha coinvolto il gruppo ad esprimere i propri sentimenti, emozioni riguardo il quadro.

 

Considerazioni Generali e Suggerimenti

La visione di quadri accompagnati da una guida che abbia una conoscenza delle dinamiche emotive e sappia presentarle, sia pure come ipotesi riguardanti la vita dell’Artista, è da ritenere utile in qualsiasi situazione (musei, gallerie) poiché il visitatore non viene coinvolto solo sul piano della razionalità, ma anche dell’emotività e affettività che è il più importante per il senso di soddisfazione del visitatore, sia esso un semplice visitatore o un possibile cliente. Sarebbe, pertanto, auspicabile che le guide abbiano, oltre a una preparazione tecnica il più possibile completa riguardo “la vita del quadro” e dell’Artista, anche una preparazione psicologica di base, semplice, ma sufficiente per potere esprimere opinioni e ipotesi psicologiche.

La visione di quadri accompagnati da una guida che chieda anche che i visitatori esprimano pensieri, sentimenti, emozioni alla semplice domanda: “Lei cosa ne pensa, cosa le fa venire in mente la visione del quadro?” è una situazione sicuramente positiva da presentare ad anziani depressi e non solo che vivono in comunità. Infatti permette loro, oltre a provare emozioni nuove, di “sentirsi anche protagonisti di un evento che li riguarda e non semplici spettatori” situazione, invece, comune degli interventi programmati per migliorare le condizioni psicologiche di anziani depressi. In questo caso il quadro diventa simile a una delle tavole del T.A.T. (Thematic Appercecption Test di Murray, uno dei più importanti test proiettivi) e potere esprimere liberamente in gruppo le proprie emozioni è un’esperienza positiva, simile alla psicoterapia di gruppo, che migliora sia il proprio tono dell’umore, sia la socializzazione (nel Gruppo Campione si sono creati alcuni legami amichevoli prima inesistenti).

Si tratta di conclusioni che sono valide per il Gruppo Campione, tuttavia si può ipotizzare che si tratti di un’esperienza utile soprattutto per anziani residenti in strutture extra famigliari ai quali verrebbe proposto di partecipare, se consenzienti, a sedute di gruppo, di circa un’ora durante le quali sono proiettati una decina di quadri e si chiede loro di esprimere “tutto quanto venga loro in mente”. Si fa presente che il costo di tale esperienza è quasi zero poiché la visita al museo sarebbe sostituita da proiezioni “in loco” e limitato per le prime volte alla chiamata di una guida esperta.

Pur tenendo conto dei limiti di questa ricerca sperimentale, si può, tuttavia, concludere che la visione di qualcosa che sia ritenuta bella, nel caso specifico “un’Opera d’Arte”, sia esperienza utile per migliorare il tono dell’umore degli Anziani, soprattutto se anziani depressi e collocati in strutture comunitarie. Logicamente non si tratta di una terapia efficace per ogni forma di depressione, ma di un intervento terapeutico semplice, o anche di prevenzione, non costoso della depressione, soprattutto di quella esistenziale dovuta a solitudine. In pratica si valorizza la vita emotiva/affettiva degli anziani in tutte le situazioni esistenziali proponendo e fornendo emozioni positive, delle quali gli anziani depressi sono carenti, utili per migliorare il tono dell’umore e ristabilire un equilibrio positivo del tono psichico, affettivo ed emotivo.

Quale corollario della ricerca si sottolinea l’importanza e utilità che le guide di gallerie e musei, in qualunque campo operino, possano avere anche una preparazione umanistica con conoscenze di elementi base di psicologia. Questi strumenti potrebbero essere utili per un corretto approccio alle differenti tipologie di visitatore, in un’ottica di attenzione alle sue esigenze e di produzione e adeguata gestione dei risultati ottenuti.

 

Gli autori della ricerca: 

  • Dott. Lavinia Costanzo, Specializzata in Management delle attività artistiche e culturali, mediatore culturale e guida museale.
  • Prof. Dott. Edmondo Pasini, Spec. Psicologia e Psichiatria. Psicoterapeuta. L.D. Igiene Mentale Università di Milano.

 

Nota degli autori: Per desiderio esplicito del Gruppo Campione, geloso della propria “privacy”, al punto di affermare di essere ospite in una Casa di Cura, non in una Casa per Anziani, non è possibile citare i due musei nei quali la ricerca è stata condotta, comunque si ringraziano le Direzioni e le Guide che ne hanno permesso l’esecuzione.

Il rapporto tra la demenza di Alzheimer e la depressione negli anziani

In alcuni casi il confine tra demenza e depressione negli anziani è spesso incerto.
Sebbene la relazione tra demenza e depressione sia stata oggetto di ricerche nel campo della psichiatria geriatrica negli ultimi decenni, le considerazioni cliniche sono in continua evoluzione.

Elisabetta Pellegrini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI Bolzano

 

L’allungamento della vita e le patologie più frequenti negli anziani

Negli ultimi decenni si è assistito al progressivo aumento della durata media della vita delle persone, la fascia d’età definita anziani è andata aumentando e le problematiche legate a questa fascia della popolazione sono sempre più imponenti e importanti da tenere in considerazione sia a livello sociale che sanitario.

La conseguenza più vistosa è rappresentata dall’aumento delle persone con patologie degenerative a carico del sistema nervoso centrale, con conseguenti elevati problemi di gestione assistenziale. Molte patologie del SNC si associano ad un aumento della prevalenza della depressione.
Nell’arco degli ultimi anni c’è stato un notevole mutamento nella considerazione dei sintomi depressivi degli anziani, si è passati da una visione pessimistica che li considerava come un aspetto insito nell’invecchiamento a un approccio che li ritiene l’espressione di una patologia indipendente da esso e per la quale possono essere messi in atto interventi terapeutici efficaci (Anderson, 2001).

Il riconoscimento precoce, la diagnosi e l’inizio del trattamento della depressione negli anziani presenta varie opportunità di migliorare la qualità di vita, di prevenire la sofferenza o la morte prematura e di mantenere livelli ottimali delle funzioni e dell’autonomia.

La diagnosi di depressione sebbene venga effettuata in soggetti di ogni età la sua maggiore incidenza nella vecchiaia è spiegabile considerando i lutti, i traumi psichici e gli stress che via via si accumulano nell’arco della vita. Oltre a ciò, spesso si associano una mancanza di risorse economiche e sociali, nonché l’inevitabile declino fisico. Il deterioramento del corpo è proprio uno dei motivi più frequenti nel determinare la depressione: l’anziano fatica ad accettare la perdita dell’autonomia, l’insorgenza di malattie, la trasformazione del proprio aspetto esteriore. La depressione negli anziani spesso può manifestarsi anche in forma “mascherata” mediante l’insorgenza di una sintomatologia algica al posto di quella psichica.

Il legame tra demenza e depressione negli anziani

In alcuni casi il confine tra demenza e depressione è spesso incerto.
Sebbene la relazione tra demenza e depressione sia stata oggetto di ricerche nel campo della psichiatria geriatrica negli ultimi decenni, le considerazioni cliniche sono in continua evoluzione.

Le attuali conoscenze in quest’area sono iniziate con i lavori di Roth (1955) e Post (1962) che hanno postulato che demenza e depressione costituiscono due disturbi separati e distinti. La difficoltà nel distinguerli è stata enfatizzata da Kiloh, che ha ripreso nel 1961 il termine introdotto da Maddem (1952) di pseudodemenza con il quale descrive un quadro clinico caratterizzato da una sintomatologia sovrapponibile a quella della demenza primaria, ma in realtà secondario a depressione e solitamente reversibile.

La diagnosi di pseudodemenza si basa sull’assenza del substrato organico specifico della demenza e sulla sua reversibilità. La diagnosi differenziale tra le fasi iniziali della demenza e un disturbo depressivo ad insorgenza tardiva può risultare difficile per la contemporanea manifestazione sia di sintomi cognitivi, come deficit mnesici e la scarsa concentrazione, sia di altri sintomi, quali l’apatia, il ritiro sociale e la scarsa energia.

Più recentemente le conoscenze tra demenza e depressione propendono verso l’evidenza che la depressione con sintomi cognitivi reversibili possa costituire un prodomo per la demenza, piuttosto che un distinto e separato disturbo. Un’altra possibilità è che la depressione possa costituire un fattore di rischio per la demenza.

L’importanza della depressione in corso di demenza è sottolineata dalle sue conseguenze. Poiché la depressione costituisce una condizione potenzialmente reversibile, il suo trattamento potrebbe evitarle. Le sue conseguenze sono un peggioramento della qualità di vita, una maggior compromissione nelle attività giornaliere, una maggior predisposizione a sviluppare disturbi fisici, una precoce istituzionalizzazione e un maggior peso a carico dei caregivers.

La frequente coesistenza tra le due condizioni ha stimolato la formulazione di diverse ipotesi sulla loro possibile associazione.

Una di queste è: la depressione come espressione del processo demenziale. Secondo questa ipotesi la depressione apparirebbe non come una sindrome autonoma, patogenicamente distinta dalla demenza di Alzheimer come richiesto dalla comorbilità, ma come una costellazione di sintomi, espressione dello stesso danno biologico che sottende il processo demenziale o i meccanismi biochimici correlati. Sono state avanzate due ipotesi per spiegare la correlazione tra sintomi depressivi e sintomi cognitivi:

1. Postula che la depressione possa rappresentare un prodomo della demenza, piuttosto che un disturbo distinto, che può precedere anche di molto tempo l’esordio del deficit conclamato. In altri termini, alcuni pazienti potrebbero essere portatori di una demenza subclinica in cui la depressione transitoria agirebbe come sorta di rilevatore precoce dell’affezione sottostante. Un possibile meccanismo risiederebbe nella perdita di neuroni noradrenergici, riscontrabile sia nella demenza di Alzheimer che nella depressione.

2. La seconda ipotesi postula che la depressione agisca come fattore di rischio per un’evoluzione demenziale. All’interno di quest’ottica per spiegare l’associazione tra demenza e depressione sono state proposte diverse ipotesi che adesso prenderemo in considerazione:

  • Depressione come reazione alla compromissione cognitiva: la depressione può anche essere considerata come una reazione al processo demenziale, legata alla consapevolezza nei primi stadi della demenza da parte del soggetto delle difficoltà cognitive ingravescenti.
  • Depressione come soglia: questa ipotesi propone che la depressione non agisca direttamente sul processo patologico della demenza ma piuttosto sulla soglia per la sua manifestazione. La depressione comporta, infatti, deficit cognitivi e motivazionali che si aggiungono a quelli esistenti nelle fasi iniziali della demenza e che conducono alla manifestazione clinica di quest’ultima.
  • Depressione come fattore causale: Salpolsky et al. hanno analizzato l’aumentata attività dell’asse ipotalamo ipofisi-surrene che si verifica nei disturbi depressivi ed hanno ipotizzato che nei pazienti depressi si verifichi un alterato meccanismo di feedback, con livelli cronicamente alterati di cortisolo che possono provocare una downregulation dei glicocorticoidi a livello ippocampale con successiva atrofia dell’ippocampo stesso.
  • L’altra ipotesi è che la depressione sia un’entità clinica indipendente dal processo demenziale: per poter usare correttamente il concetto di comorbilità, le sindromi in causa devono essere reciprocamente distinguibili dal punto di vista patogenetico. Secondo alcuni autori le modificazioni neurochimiche che si accompagnano ai quadri di depressione maggiore nel contesto di una demenza primaria sono qualitativamente diverse da quelle associate alla demenza, corroborando così i criteri diagnostici del DSM-5 per depressione maggiore in demenza primaria. Alcuni autori, seguendo un criterio ex adiuvantibus, sottolineano che la sintomatologia depressiva nel demente risponde spesso all’uso della terapia antidepressiva suffragando tale ipotesi. Infatti, se i sintomi depressivi appartenessero al quadro demenziale, la risposta tenderebbe ad essere assente e solo un eventuale trattamento del disturbo cognitivo potrebbe risolvere la sindrome affettiva. È stato postulato che la depressione maggiore nella demenza di Alzheimer si associ ad una preesistente vulnerabilità al disturbo dell’umore non espressa in precedenza, slatetizzata dalle modificazioni cerebrali in corso di demenza primaria.

Certamente la depressione, sia che preceda o accompagni la demenza, è fonte di sofferenza e disabilità non solo per il paziente ma anche per il caregiver e necessita pertanto di una terapia appropriata indipendentemente dal suo possibile effetto preventivo.
Differenziare in modo chiaro depressione e demenza, come si è visto, è molto difficile perché le due sindromi presentano alcuni sintomi che si sovrappongono.

Gli elementi che differenziano la depressione dalla demenza sono il suo esordio di solito rapido e individuabile e la consapevolezza del soggetto depresso dei propri sintomi cognitivi e della loro gravità. La demenza di Alzheimer, invece esordisce progressivamente ed il paziente non è consapevole della gravità dei propri disturbi. Il paziente depresso è molto dettagliato nel presentare le proprie difficoltà e incapacità, non fa nessun tentativo per risolvere i problemi mnesici e appare triste quando si confronta con situazioni che lo mettono in difficoltà. La perdita degli interessi e l’anedonia sono globali, il rallentamento riguarda tutte le abilità e l’intensità dei disturbi lamentati non è correlata al disturbo cognitivo effettivo. Nella demenza il soggetto, invece, è poco lamentoso, tende a sminuire le proprie incapacità, cerca in ogni modo di sopperire ai deficit mnesici e rimane indifferente di fronte a situazioni che possono metterlo in difficoltà. Sono assenti i sintomi vegetativi tipici della depressione e vi è un rapporto diretto tra disturbi cognitivi manifesti e comportamento.

Per fare diagnosi differenziale è necessario valutare longitudinalmente sia i sintomi depressivi che le funzioni cognitive. Le scale più utilizzate per valutare il tono dell’umore nell’anziano sono la GDS, la HAM-D e la Cornell Depression Scale.

La diagnosi differenziale della pseudodemenza depressiva dalla demenza primaria è fondamentale in quanto la prima, se opportunamente riconosciuta, curata e trattata, costituisce solitamente un disturbo solitamente reversibile.

Mindfulness e atteggiamento mindful: un aiuto per seguire abitudini di vita più salutari

La mindfulness e in generale il possedere un atteggiamento mindful, basato sulla consapevolezza del momento presente, renderebbe le persone più propense a seguire i consigli per la salute e a cambiare il proprio stile di vita.

 

 

“150 minuti di attività fisica alla settimana riducono il rischio di cancro”

“2,000 calorie al giorno è quanto dovrebbe mangiare una persona adulta”

“Smetti di fumare, vivi più a lungo”

 

Seguire i consigli o ignorarli? Come le persone reagiscono ai messaggi di promozione della salute

Ogni giorno entriamo in contatto con innumerevoli messaggi e consigli per la salute riguardanti come essere più sani e come dare avvio a cambiamenti comportamentali, quali smettere di fumare, fare più esercizio fisico e mangiare bene, tutti parimenti benintenzionati e scientificamente provati.

Per alcune persone, però, questo tipo di messaggi, più che invogliare a vivere in modo più sano la propria vita, sollecita solo reazioni difensive e cariche di risentimento, del tipo: “smettete di essere così assillanti e lasciatemi in pace!”.

Messaggi così rilevanti a livello personale, come i consigli relativi a come migliorare la propria salute, potrebbero essere visti da alcuni come estremamente minacciosi, in quanto letti come minaccia al proprio senso di padronanza e competenza. Questa reazione, legata all’esperienza di concomitanti emozioni negative, tra cui anche il senso di colpa, porterebbe poi ad effetti controproducenti circa la ricettività a questi messaggi e quindi anche gli esiti degli stessi, fallendo quindi nel tentativo di invogliare le persone a migliorare il proprio stile di vita.

Perché per alcune persone i consigli per la salute motivano a migliorarsi fermando condotte nocive per la salute, mentre per altre sortiscono l’effetto opposto? Può la ricerca essere d’aiuto per migliorare questo tipo di messaggi affinché divengano efficaci per tutti?

 

Atteggiamento mindful e consigli per la salute: la ricerca della University of Pennsylvania

A tal proposito, recentemente, i ricercatori della Annenberg School for Communication della University of Pennsylvania a Philadelphia hanno trovato che le persone maggiormente predisposte ad assumere un atteggiamento Mindful sono anche più propense a recepire positivamente i consigli per la salute, con conseguente maggiore motivazione al cambiamento. Più nello specifico, lo studio è stato svolto da Kang e collaboratori con lo scopo di indagare il ruolo ricoperto dalla Mindfulness e da un atteggiamento Mindful all’interno delle comunicazioni legate alla salute e al benessere.

La Mindfulness viene solitamente definita come una modalità di prestare attenzione ed essere consapevoli del momento presente e dell’esperienza concomitante, assumendo un atteggiamento mindful, ovvero intenzionale e non giudicante, al fine di raggiungere un’accettazione di sé attraverso una maggiore consapevolezza di sensazioni, percezioni, impulsi, emozioni, pensieri, parole, azioni e relazioni, così come si presentano nell’hic et nunc. Tra le altre cose, questo atteggiamento mindful di prestare attenzione permette anche di cogliere prontamente il sorgere di quei pensieri negativi che contribuiscono al malessere emotivo, andando a sviluppare quelle cosiddette abilità metacognitive di esplorazione dei propri stati mentali e corporei, che portano a sempre maggiori possibilità di esplorazione, espressione e cambiamento di tali contenuti (Siegel, 2009).

Da precedenti studi era emersa la capacità della Mindfulness di favorire la messa in atto di stili di vita più sani. Ad esempio, Murphy e collaboratori (2012) hanno dimostrato l’esistenza di una forte correlazione tra questo costrutto e una serie di fattori legati ad una buona salute quali buone abitudini alimentari, migliore qualità del sonno, condurre una vita attiva dal punto di vista fisico e generale migliore salute fisica auto-percepita.

La predisposizione alla Mindfulness e a un atteggiamento Mindful sembra anche essere associata ad una migliore salute a livello cardiovascolare, in quanto preventiva rispetto ai principali fattori di rischio legati allo sviluppo di cardiopatie, quali, ad esempio, fumo, indice di massa corporea (BMI) e, ancora una volta, attività fisica (Loucks et al., 2014).

Sembra inoltre che l’assunzione di questa particolare modalità di prestare attenzione sia in grado di ridurre la messa in atto di reazioni negative di fronte a situazioni emotivamente cariche. È possibile, infatti, che l’adozione di un atteggiamento mindful attraverso modalità non-giudicanti di analisi del momento presente possa smorzare i meccanismi di rifiuto messi automaticamente in atto di fronte a consigli per la salute potenzialmente minacciosi per il proprio senso di autocontrollo e autoefficacia, andando così ad aumentare le capacità di controllo cognitivo e facilitando il cosiddetto insight metacognitivo (Kang, Gruber & Gray, 2013).

Riassumendo, possedere un tipo di consapevolezza mindful potrebbe aiutare le persone a sganciarsi da pattern di pensiero, reazione e risposta automatici, dando così modo di fermarsi e riflettere su quanto accade nel momento presente, al fine di prendere decisioni cognitivamente più ponderate e oculate.

Lo studio di Kang e collaboratori (2016) è stato quindi svolto con lo scopo di capire se il possedere una predisposizione alla Mindfulness potesse predire la tendenza a rispondere in modo affettivamente positivo ai consigli e messaggi legati all’incrementare la propria salute così come se potesse predire l’effettiva messa in atto di tali consigli, aumentando, ad esempio, il proprio livello di attività fisica. Più nello specifico, gli autori hanno testato l’esistenza di una correlazione inversa tra la predisposizione alla Mindfulness e le risposte affettive negative in seguito all’esposizione a messaggi che incoraggiavano l’attività fisica, il ruolo della predisposizione alla Mindfulness nel predire il successivo livello di attività fisica e, infine, il possibile ruolo delle risposte negative a livello affettivo nel mediare la relazione tra predisposizione a un atteggiamento Mindful e motivazione a svolgere una qualche attività fisica.

 

Metodo

Per poter far ciò, gli autori hanno coinvolto un totale di 62 persone, con un’età media di circa 33 anni e di derivazioni culturali differenti, che riportavano settimanalmente di svolgere attività fisica a livelli molto bassi. Ai soggetti partecipanti è stato inizialmente somministrato un questionario riguardante la predisposizione alla Mindfulness, per misurarne il livello, e, successivamente, è stata presentata loro una serie di messaggi riguardanti come incrementare la propria salute attraverso l’attività fisica. Nel mentre, gli sperimentatori hanno osservato le reazioni di ognuno alla presentazione di tali messaggi, rilevato il loro livello di motivazione al cambiamento e, infine, valutato quanto effettivamente tali cambiamenti siano stati intrapresi.

 

Risultati e conclusioni

Dalle analisi è così emerso che coloro i quali possedevano minore predisposizione a un atteggiamento Mindful erano anche coloro i quali si dimostravano più restii a cambiare positivamente in seguito all’esposizione ai messaggi salutistici, ai quali reagivano tendenzialmente in modo negativo, sentendosi più in colpa e reagendo in modo difensivo. Al contrario, le persone con un atteggiamento mindful più elevato tendevano a reagire in modo meno negativo, sentendosi anche meno in colpa, quando posti di fronte ai consigli sulla salute e, di conseguenza, tendevano anche ad intraprendere con maggiore probabilità dei cambiamenti positivi nel proprio stile di vita, aumentando, a distanza di un mese, il livello di attività fisica settimanale e, in generale, facendo scelte più salutari.

In conclusione, quanto emerso dallo studio di Kang e collaboratori (2016) aggiungerebbe ulteriori evidenze circa l’utilità della Mindfulness, in quanto foriera di numerosi benefici per la salute di ognuno. In questo senso, le persone possono trarre notevole giovamento dal coltivare e mettere in atto una tale modalità di prestare attenzione, soprattutto per quanto riguarda l’analisi di informazioni potenzialmente minacciose, per quanto vantaggiose, per il sé. Incorporare la pratica di questa modalità e di un atteggiamento Mindful alle già esistenti modalità di intervento, quindi, potrebbe promuovere più su larga scala e con maggiore efficacia la messa in atto di comportamenti sempre più salutari.

 

Le strutture dinamiche relazionali – La Gestalt dialogica

I flussi d’informazione psicobiologici scambiati durante la gravidanza trasmettono le “conoscenze” di base, con una modalità metabolica, ma anche simbolica (introiettiva). Il flusso dialogico attivo fin da subito, organizza le strutture mentali per lo sviluppo delle competenze relazionali, ciò che Ed Tronick chiama IRSS (Infant Regulatory Scoring System), ovvero l’espansione diadica di coscienza.

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“La relazione è un diamante: le sue parti, contemporaneamente,
riflettono luce e irradiano ombra.”

Il sé confluente e lo stile sociale

La confluenza, questo modo di esserci e di comunicare, caratterizza tutti i momenti fondamentali della nostra esistenza come: il concepimento, la gestazione, la nascita, il sesso, l’amore, la morte ecc., tutti stati esistenziali in cui i confini non sono più limiti.

Nella confluenza, la madre e il bambino durante la gravidanza, sono separati ma uniti, capaci di sentire completamente l’altro e se stessi: [blockquote style=”1″]questa capacità è alla base dell’empatia, è una qualità naturale che oggi nelle neuroscienze viene chiamata empatia incarnata.[/blockquote] (Spagnuolo Lobb, 2012).

Il feto è una creatura che sente ed apprende mentre è nell’utero ed è in grado di ricevere messaggi e di inviarne. Numerosi studi sottolineano come sullo sviluppo di un adeguato attaccamento materno-fetale influiscano i fattori psicologici e psicopatologici, non solo della madre ma anche del contesto familiare in cui essa vive. Infatti, il clima emotivo, in cui madre e feto sono inseriti, riveste notevole importanza. Lo sfondo familiare crea e trasmette un tipo di «tra» al bambino molto prima della sua nascita.

I flussi d’informazione psicobiologici scambiati durante la gravidanza trasmettono le “conoscenze” di base, con una modalità metabolica, ma anche simbolica (introiettiva). Il flusso dialogico attivo fin da subito, organizza le strutture mentali per lo sviluppo delle competenze relazionali, ciò che Ed Tronick chiama IRSS (Infant Regulatory Scoring System), ovvero l’espansione diadica di coscienza.

In terapia, tali momenti sono scanditi dallo scambio continuo tra il terapeuta e il cliente di sensazioni che costituiscono l’indicibile; questo metabolismo è fondamentale, in quanto costruisce lo sfondo creativo all’incontro che si sta co-creando, fornendo l’energia al reciproco cambiamento.

Durante una seduta un paziente riferisce:[blockquote style=”1″] potrei stare per ore in silenzio con te, perché sento, senza trovare le parole, che sto scoprendo me stesso e che in qualche modo riesco ad arrivare a te. Mi sento con te parte di un tutto, differenti ma simili. [/blockquote]Mentre diceva queste parole, un profondo silenzio ha iniziato a riempire ogni angolo dello studio; sembrava che si fosse fermato il tempo e che lo spazio non avesse più distanze. In quel momento c’erano soltanto le sensazioni, minime, ma allo stesso tempo sconfinate. Nel qui-e-ora si era instaurata una comunicazione indicibile.
È fondamentale, quindi, porre l’attenzione alle più sottili sensazioni, amplificare l’analisi del minimo contatto attraverso la narrazione, descrivere le più piccole capacità, i più lievi sussulti che la persona sta esperendo nel setting terapeutico. Questo stile confluente che si può definire sociale è il primo momento in cui l’essere umano si relaziona, sia fisicamente, che psicologicamente con l’altro, costruendo quel potenziale spazio mentale condiviso che nella sua esistenza costantemente ricercherà e accoglierà come forma relazionale.

 

Il sé simbolico e lo stile ideativo

Sia la personalità, che la coscienza, non preesistono all’attività dell’uomo, ma sono generate da questa (Vygotskij L. S., 1931). Le esperienze iniziali hanno una loro specifica valenza educativa, [blockquote style=”1″]Il bambino tra energia e senso di sé lasciando che il mondo lo plasmi […] Questa modalità di contatto si sviluppa per tutta la vita e sta alla base della capacità di apprendere.[/blockquote]

Il bambino mentre apprende il linguaggio, non introietta soltanto la parola bicchiere arricchendo il suo “vocabolario”, ma lega ad essa l’insieme di sensazioni, emozioni e immagini legate a quell’esperienza, come ad esempio il desiderio di afferrare l’oggetto, il volto della madre, la sua voce il senso di frustrazione, il suo protendersi, le tensioni corporee, gli odori, il piacere del contatto con l’oggetto, ecc. (Vigotskij, 1934). La parola che funge da attrattore, forma un «complesso» unico, divenendo il simbolo di un’esperienza relazionale complessa. Nella prospettiva psicoterapeutica, sembra quindi fondamentale riconsiderare una fenomenologia della parola e della narrazione (Husserl, 1952), ovvero come le parole prendono forma, quale ritmo dialogico si va delineando durante l’incontro, la densità dei silenzi, le pause e la ripresa del discorso, il tono, il volume ecc. L’aspetto cognitivo-verbale non può scindersi da quello sensorio-corporeo, proprio perché l’uomo con il suo pensiero ricapitola tali funzioni, operando una sintesi.

Durante una terapia un paziente disse che quando provava a ricordare un evento molto doloroso della sua primissima infanzia, la parola che più di altre gli ritornava alla mente era: “zitto!” Gli venne proposto di ripeterla con gli occhi chiusi e subito i suoi avambracci ed i polpacci gli si irrigidirono, e iniziò a sentire un peso sullo stomaco. Parlava della sensazione di nausea e d’impotenza insieme a quelle di solitudine e smarrimento. Gli venne chiesto di collegare tale vissuto ad un’immagine, e riferì che quasi immediatamente si era visto al buio e aveva sentito un odore intenso di disinfettante.

Questi vissuti furono osservati successivamente con altri pazienti, in cui la parola non rappresentava solo un vissuto cognitivo-verbale, ma sensoriale, corporeo ed immaginativo.

L’essere umano, fin da subito, attraverso il linguaggio si costruisce mentalmente come essere relazionale e l’io ed il noi divengono un binomio inscindibile.

Per questo motivo, l’unicità individuale è di fatto un’illusione, poiché nasciamo in relazione, in un costante dialogo e le nostre rappresentazioni mentali si configurano in una forma duale in continuo rapporto. La dimensione relazionale che è inscritta nel nostro DNA, attraverso il rapporto con l’altro trova la sua attuazione e la gestalt si compie.

Come l’apprendimento precede lo sviluppo, così la relazione precede il contatto: infatti, non “entriamo” in relazione per mezzo del contatto, ma faccio contatto perché vogliamo relazionarci. Con questa diversa prospettiva, l’interesse clinico si orienta sempre più all’intenzionalità relazionale, evidenziando ogni aspetto che possa costruire la dimensione dialogica necessaria alla formazione dell’insieme relazionale.

 

Il sé espressivo e lo stile estetico

[blockquote style=”1″]La capacità (del bambino ndr) di tuffarsi nel mondo, affidando la sua energia all’altro e nell’ambiente […] la capacità ed il piacere di lanciarsi nel mondo. […] Il bambino è curioso di tutto e usa la propria energia per conoscere il mondo […] Apre qualunque cosa sia chiusa, proiettando il sé dove non c’è e dove potrebbe essere. […] L’immaginazione, il coraggio della scoperta, l’uso del corpo come promotore di cambiamento.[/blockquote]

Se per il sé introiettivo la sua funzione principale è quella di apprendere “simboli condivisi” per decifrare l’esistenza, per quello proiettivo questa consiste nell’esplorare il mondo, «inventare» e plasmare, in modo antropomorfo, la realtà.

A tale prospettiva, si desidera aggiungere un concetto che si ritiene fondamentale: qualsiasi oggetto che l’uomo crea, ha una forma: linee, tratti, cerchi, quadrati, piramidi, cubi, figure “impossibili” ecc., qualcosa che ha una caratteristica “particolare” solamente umana.

Eppure l’uomo non assomiglia né a una linea, tanto meno a un cerchio, e in natura non esistono forme così “perfette”. Dove ha visto tali conformazioni, dove ha appreso questi schemi, come ha fatto la sua mente a pensarli? Considerare la proiezione come stile comunicativo, cioè come risorsa relazionale, invece che una dinamica difensiva, è stato riportato in una seduta da una paziente: […] [blockquote style=”1″]L’utilizzo del concetto di proiezione ha senso in un processo di isolamento. Cioè riconoscere qualcosa di te nell’altro non serve a farti riconoscere la proiezione punto, ma serve a rompere l’isolamento. Perché il problema delle persone è l’isolamento, no? Cioè che staccano il contatto con la realtà col quotidiano, ma riconoscere di aver fatto una proiezione ti rimette in contatto col mondo. […] Io sono arrivata a capire: cosa ci fa male? Ci fa male questo isolamento perché genera dei mostri e non sono più in contatto, quindi quando io riconosco una proiezione riconosco l’altro […]. La proiezione è un tramite, un ponte, per riconoscere l’altro. E quindi nel momento in cui io riconosco che sono come l’altro, in questo Tra, transitare da me a te e da te a me, io ridimensiono il fatto e paradossalmente creo anche se al “negativo”, un legame. Perché mi riprendo qualcosa e «tac» rifaccio contatto seppure su una cosa negativa.[/blockquote]

La proiezione vista come competenza e non più come difesa o interruzione al contatto, si rivela in tutta la sua forza comunicativa, un link relazionale. Il terapeuta per comprendere tale comportamento, deve modificare il suo approccio, ovvero intuire che lo stile proiettivo è sempre e comunque un atto estetico della persona che rivela parti di sé da cogliere e non interruzioni da osservare.
Secondo la presente prospettiva, quindi, la proiezione non è soltanto la competenza dell’uomo di creare creatività, ma è soprattutto una modalità per comprendere se stesso e gli altri, attraverso la sua attività. Potremmo affermare che il nostro sé è un nucleo creativo che irradia forme nel mondo, e grazie a ciò che continua a creare può scorgere il suo logos profondo.

 

Il sé metacognitivo e lo stile dialogico

La struttura retroflessiva è di fatto una modalità riflessiva. I simboli introiettati nella primissima infanzia (immagini, suoni, parole, sensazioni ecc.) lentamente vengono elaborati dal nostro cervello che attraverso le esperienze genera le nostre rappresentazioni mentali. Se con la proiezione “gettiamo” nell’ambiente ciò che era nel mondo in modo trasformato e rielaborato, con la retroflessione tali rappresentazioni vengono proiettate all’interno della nostra mente come immaginazione e/o dialogo interiore, determinando quello che potremmo definire la competenza della mente di auto osservarsi o metacognizioni. Tutto questo si definisce attraverso la mediazione delle sensazioni e successivamente delle emozioni che condizionano il nostro comportamento, insieme al linguaggio che orienta e organizza la nostra attività nel mondo.

Quando, ad esempio, il bambino inizia a disegnare, ci comunica cosa ha prodotto soltanto alla fine del suo lavoro; tale attività, lentamente, grazie allo sviluppo delle sue competenze comunicative, sposta la descrizione all’inizio dell’attività. Dall’affermazione iniziale: “Che bello! Ho disegnato una casa!», passa alla pianificazione: “disegnerò una casa, poi un albero, ecc”.

Le competenze narrativo-riflessive di un’attività, in altre parole la capacità di descrivere cosa “me stesso farà” attraverso un dialogo interiore, si attuano grazie alla combinazione delle competenze confluenti, proiettive e introiettive.

Tale capacità, che può apparire puramente intrapsichica, è prevalentemente sociale; gli esperimenti di L. S.Vygotskij (1934) hanno dimostrato come la produzione del linguaggio sottovoce e la loro attività durante il gioco in gruppi di bambini, cessava completamente quando questi comprendevano che il resto del gruppo non poteva capire il loro linguaggio. Senza la possibilità di essere compresi il linguaggio e l’attività che esso guida perdono di significato perché non vi è più un’intenzionalità relazionale. Ciò dimostra come il rapporto con gli altri sia fondante nell’apprendimento e nella comunicazione, nel bene e nel male. Quando pensiamo non facciamo altro che parlare a noi stessi su noi stessi, perché non possiamo non comunicare e nello stesso tempo non possiamo non stare in relazione.

Oltre ciò, in questa dinamica, il sé può «ascoltare» quali siano le istanze del proprio essere, quale «voce» e che tipo di «narrazione» l’io utilizza emergendo dal profondo. Questo momento è stato ben espresso da William James quando ci descrive la distinzione tra Io e Me, in cui il Sé come soggetto si rapporta al Sé come oggetto. Le funzioni metacognitive, in cui la mente attraverso l’autogenerazione di domande, risposte, impressioni moltiplica i suoi punti di vista e crea nuove prospettive di pensiero. Come suggerisce lo stesso Perls, tale stile si evidenzia, ad esempio, con il linguaggio attraverso l’uso del pronome personale riflessivo (mi, ti, ci, si ecc.) e nella terapia, l’osservazione delle competenze riflessive avviene, ad esempio, con il lavoro con le poliedricità e la loro armonizzazione. Tale tecnica differisce dal lavoro con le polarità e le multipolarità che, secondo questa visione, è troppo rigido e poco relazionale e divide in modo dicotomico e molto spesso arbitrariamente le parti del sé; le strutture dinamiche relazionali tendono invece a complessificare, armonizzare e condividere ogni sfaccettatura della persona inserendola in un “insieme relazionale”.

 

Il sé sincronico e lo stile trascendentale

La struttura del sé egotistico (sincronico) è il luogo della sintesi, in cui figura/sfondo, mente/corpo, possibilità/necessità, ovvero le oscillazioni del sé si armonizzano nel qui-e-ora.

Le sue potenzialità tendono costantemente alla realizzazione di questa sincronia e questa tensione, con gradi e intensità diversissimi, appartiene ad ogni essere umano, anche quando l’individuo, per ragioni innate o acquisite, non può esprimerle. Ma è un altro gap che lo stile sincronico, in combinazione con le atre strutture, può ridurre la distanza rappresentata dall’indicibile e il dicibile, ovvero lo spazio costituito tra il linguaggio ontico con quello ontologico. Le nostre intuizioni e le prime emozioni che emergono dallo sfondo delle sensazioni, non hanno parole che possano descriverle in quanto appartengono alla sfera dell’essere; quando tentiamo, attraverso il linguaggio, di descrivere questi stati d’animo, qualcosa si perde inevitabilmente. Tale «frattura», che appare insanabile, in terapia può assottigliarsi se il terapeuta e il paziente riescono ad attivare quella sintesi che soltanto il rapporto dialogico può raggiungere.

Quando in terapia riusciamo a toccare questi momenti, percepiamo una densità diversa e l’atmosfera nel campo relazionale cambia completamente: il tempo rallenta e lo spazio si dilata. È la sensibilità di entrambi e l’insieme delle competenze relazionali del terapeuta che permettono di dar vita alla più profonda empatia condivisa.

Sentire che lo sfondo del singolo può divenire una comune base trasmissibile, dà origine ad un sentimento di apertura e fiducia assoluti. È l’armonia tra la struttura dinamica del sé metabolico e quello sincronico a creare questa forma che, nella terapia, è evidenziata dall’oscillazione emotiva del sé e da come il dominio della confluenza può tradursi in parole e linguaggio.

In questo senso, la terapia gestaltica da egualitaria o simmetrica, diviene dialogica spostando il suo orizzonte dall’intenzionalità del «tra» a quello dell’«oltre», ovvero verso un punto archimedico che trascende entrambi gli interlocutori.

Infatti, se l’altro non diviene Altro, nessuno potrà superare se stesso poiché [blockquote style=”1″]senza un terzo assoluto che possa offrirsi come misura, inevitabilmente uno dei due interlocutori assumerà la funzione di misura, traducendo il discorso in termini di plagio.[/blockquote]

È proprio quando si crea questo spazio/tempo che il linguaggio ontico può trovare una connessione con quello ontologico, connettendo le sensazione e le emozioni con gli aspetti più cognitivi della persona, divenendo un linguaggio universale.

 

Conclusioni

Siamo esseri relazionali, poiché ogni individuo ha in sé l’archetipo della relazione (Jung, 1954), una gestalt primigenia che può completarsi soltanto nel rapporto con l’altro. Ciò significa che la persona non può misconoscere la sua dimensione più profonda costituita da questa icona relazionale, e l’intenzionalità che tende alla creazione di questo spazio. L’io è sempre un noi, e quando non riesce a tradurre in atto ciò che in potenza sente per l’altro, il sé diminuisce, s’immiserisce e ripiega nei propri confini.

La sofferenza non può essere considerata solo un disagio soggettivo, individuale, personale, ma soprattutto relazionale e transpersonale. Per tale ragione, parlare di «patologia» o sofferenza del campo relazionale ci pone in una prospettiva più ampia rispetto all’analisi del sintomo o del malessere individuale. La psicopatologia (es. i DDP) andrebbe riesaminata, osservando il campo condiviso co-creato e le dinamiche che si sviluppano al suo interno; le classificazioni o le catalogazioni dei sintomi, sembrano avere il principale scopo di rassicurare il professionista, pretendendo di misurare ciò che non può essere misurato: la soggettività della persona.

Come ormai appare chiaro, ciò che avviene in terapia ha un significato relazionale e va inscritto in una visione plurale e polifenomenologica. L’osservazione dell’insieme relazionale è uno delle competenze principali che il terapeuta gestaltico dovrebbe possedere, esaminando sia il «tra» condiviso, sia il paziente che il proprio sentire per comprendere le nuance esistenziali che emergono da quel campo.

Il terapeuta si inserisce così in una dinamica osservatore/osservato divenendo uno strumento relazionale in azione, un elemento trasformativo per sé e per l’altro.
Si è più volte evidenziato come ogni espressione umana sia intrinsecamente connessa al desiderio di conoscere e svelare le sue strutture profonde, partendo dalla struttura del sé simbolico, in cui l’uso del segno che diviene simbolo (parola), rappresenta il mezzo con il quale l’uomo si lega al mondo, comprende ciò che osserva e inizia il viaggio verso la conoscenza di se stesso.

Si è parlato della struttura dell’espressione, il dominio del “fare” con la produzione di “cose” con cui possiamo comprendere le forme di cui il nostro stesso io è costituito.

Quello della metacognizione, con lo sviluppo della riflessività e la generazione della mente, che si auto-osserva e si ascolta in un dialogo personalissimo, in cui l’individuo può udire la “voce” del suo intimo sé.

La struttura del sé sociale, che trova la sua sintesi nell’armonizzazione determinata dalla sincronicità, in cui il sogno primigenio, il dialogo intimo iniziato con la madre in gravidanza, lo spinge oltre se stesso e la sua esistenza, verso il significato universale della vita.

Il cambiamento di prospettiva e di approccio che si è proposto, può trasformare costruttivamente la struttura del campo: si passa da interruzione-difesa-necessità-chiusura a comunicazione-competenza-possibilità-apertura, accogliendo tutta la persona come possibilità al cambiamento.

La terapia come «situazione» relazionale per eccellenza, può divenire un contesto «paideico», in cui il dialogo si approfondisce e si amplia e l’immagine del terapeuta, che emerge da questa prospettiva, è quella di colui che, mentre è tecnicamente proteso a contribuire nel modificare i modelli di consapevolezza della persona, è estremamente attento a valorizzare le oscillazioni emotive osservate nel «tra» per facilitare la comprensione di quanto si va pazientemente co-costruendo.

Le esperienze sono un insieme di emozioni, aggregati indistricabili di sensazioni e percezioni che non possono essere sezionate e ordinate secondo un nostro vantaggio logico o ricondotte strumentalmente in cornici teoriche precostituite. “La vita è un gomitolo che qualcuno ha aggrovigliato” e l’esistenza della persona umana rappresenta un esperimento unico e irripetibile ed è proprio per tale ragione che nella realtà non potremmo mai osservare un fenomeno “ideale” da manuale.

Un approccio che cerca di imporre un ordine a priori o dei modelli, che tentano di trasformare le qualità della persona e del suo sentire in qualcosa di quantitativo misurabile, non potrà mai corrispondere all’autentica dimensione esistenziale dell’individuo.

Come possiamo pretendere di descrivere oggettivamente le emozioni quando molte di esse, come ad esempio la nausea, l’inquietudine, il tedio, il senso dell’assurdo, il rimpianto, la leggerezza del cuore, la spontaneità, sono così sottili e complesse che persino noi stessi che le proviamo, spesso non riusciamo neppure ad intercettarle e ad attribuirgli un nome?

L’osservazione costante dell’insieme relazionale, l’accettazione autentica dell’altro, la paziente e fiduciosa ricerca delle possibilità celate dietro alle difficoltà, la condivisione del silenzio, e molte altre nuance relazionali, che costituiscono la nostra base trasmissibile, sono le fondamenta di quello che si è definita: gestalt dialogica.

[blockquote style=”1″]Ci siamo sistemati un mondo in cui poter vivere – con l’ammettere corpi, linee, superfici, cause ed effetti, movimento e quiete, forma e contenuto; senza questi articoli di fede nessuno, oggi, sopporterebbe la vita! Ma con tutto ciò essi non sono ancora per nulla qualcosa di dimostrato. La vita non è un argomento: per le condizioni della vita ci potrebbe essere l’errore.[/blockquote]

Imagery. l’utilizzo delle tecniche immaginative nella psicoterapia cognitiva

Negli ultimi anni si è scoperta la pervasività dell’ imagery nei vari ambiti dell’esperienza clinica e si è anche osservato che le domande giuste permettono di scoprirne il ruolo ed il significato in vari disturbi. L’ imagery assume forme diverse a seconda del disturbo.

Claudia Soldi, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Imagery: le tecniche immaginative

Immagine è una parola dotata di molteplici significati. In questo ambito è rilevante il concetto di “rappresentazione nella mente di cosa vera o fittizia per mezzo della memoria o della fantasia”. L’immagine mentale può infatti generarsi dal recupero di immagini percettive passate, può in alternativa essere di tipo ideativo o fantastico.

Nella clinica l’ imagery comprende una fenomenologia vasta costituita da immagini letterali e metaforiche, ricordi intrusivi ed autobiografici, allucinazioni, sogni, sogni ad occhi aperti ed incubi, esperiti in ogni modalità sensoriale (Hackmann et al,2014). Con l’ imagery si manifesta un canale diverso da quello verbale/semantico e si manifesta una connessione privilegiata con le emozioni.

L’implicazione terapeutica si manifesta sia a livello di assessment che di cura. Si identificano infatti immagini mentali disturbanti dotate di emozioni e significati associati per poi mirare ad una loro modifica ed elaborazione. Si presuppone infatti che elaborando l’immagine disturbante migliori la psicopatologia associata.

 

Caratteristiche dell’ imagery

L’ imagery possiede vari aspetti che la caratterizzano:
– può essere evocata da stimoli ambientali e presentarsi con varie modalità oltre al canale visivo,
– ha una parvenza di realtà al punto che viene definita simil-esperenziale e può giungere ad agiti comportamentali apparendo in alcune situazioni angosciante e reale. Influisce sul comportamento in modo significativo portando per esempio ad evitare gli stimoli che possono generarla. Tentativi di controllarla possono essere il rimuginio, la ruminazione o la messa in atto di comportamenti di protezione,
– può essere accompagnata da emozioni intense e da credenze ritenute perfettamente valide,
– può essere positiva o negativa,
– si auto-genera cioè l’immagine viene recuperata spontaneamente e involontariamente contrariamente a situazioni in cui l’immagine può essere creata o recuperata volontariamente,
– è caratterizzata da valutazioni metacognitive cioè da significati e credenze controproducenti su di essa,
– può presentarsi con qualunque modalità sensoriale (Visiva, uditiva, gustativa, tattile, olfattiva, somatica). Nella clinica ciò si differenzia soprattutto in base al tipo di disturbo all’interno del quale si manifesta. Generalmente domina quella di tipo visivo. Nel PTSD spesso i pazienti insieme all’immagine visiva riportano anche sensazioni quali il dolore (Rothschild, 2000).

Ha un fondamentale impatto sulle emozioni, per questo motivo risultano utili trattamenti psicologici che utilizzano le tecniche immaginative. Alcuni studi si focalizzano proprio sul voler dimostrare l’impatto dell’ imagery sulle emozioni mettendola a confronto con l’elaborazione verbale ed il ruolo nelle emozioni. Questo viene studiato per esempio da Holmes e Mathews (2006) i quali in una situazione sperimentale invitano alcuni partecipanti ad immaginare un determinato evento negativo descritto ed altri a pensare solo al significato verbale di quanto descritto: sarà il primo gruppo a presentare una reazione emotiva di paura più intensa dopo essersi immaginato la scena. Vari sono gli studi volti a dimostrare ciò, ai quali stanno seguendo studi volti ad elaborare teorie del perché questo canale risulti preferenziale dal punto di vista emotivo. Studi di brain imaging per esempio, evidenziano come l’ imagery coinvolga molte delle stesse regioni neurali utilizzate dalla percezione. Hanno quindi sviluppato la teoria dell’equivalenza funzionale secondo la quale visualizzare mentalmente un oggetto produce le stesse reazioni che vederlo realmente (Kosslyn et al, 2001).

 

Applicazioni cliniche dell’imagery

Negli ultimi anni si è scoperta la pervasività dell’ imagery nei vari ambiti dell’esperienza clinica e si è anche osservato che le domande giuste permettono di scoprirne il ruolo ed il significato in vari disturbi.

L’ imagery assume forme diverse a seconda del disturbo:

In uno studio sul PTSD per esempio, è stato chiesto ad alcuni partecipanti di descrivere la qualità ed il contenuto delle loro memorie intrusive a seguito di un evento traumatico. L’ imagery più comune è quella di tipo visivo, è vivida ed angosciante, focalizzata sul rivivere piccole sensazioni o eventi che hanno preceduto l’evento traumatico portando quindi la convinzione che questo segnali ciò che sta per accadere e può giungere al flashback dissociativo (Ehlers et al, 2002),

Studi si sono focalizzati sull’approfondire il fatto che nei disturbi d’ansia e nella depressione non si manifesti imagery positiva. Proprio per questo vedremo che la terapia assume tagli differenti a seconda che si focalizzi sull’eccesso delle immagini intrusive o anche sulla carenza di imagery positiva e adattiva come in questi disturbi.

In uno studio sul disturbo ossessivo-compulsivo si è studiata la prevalenza di immagini mentali in un campione di 37 soggetti affetti da DOC. L’81% dei pazienti, intervistato, riporta immagini mentali. In questi pazienti l’ imagery intrusiva comporta maggiori rituali ed evitamenti e un più alto grado di disagio connesso ai pensieri ossessivi. Le ossessioni si presentano sotto forma di immagine (Speckens et al, 2007).

Nelle pazienti affette da Bulimia Nervosa, le immagini legate all’aspetto fisico sono più vivide e disturbanti rispetto ad un gruppo di controllo che segue una dieta (Somerville et al, 2007).
Nella Fobia Sociale i temi tipici delle immagini ricorrenti e dei ricordi ad essi associati sono l’umiliazione, la sopraffazione, la critica o il rifiuto che sono stati subiti negli anni dell’adolescenza.
Per quanto riguarda il craving e l’abuso di sostanze invece si manifestano immagini spontanee della sostanza desiderata e di come ci si sentirebbe assumendola (May et al, 2004)

 

Intervento con tecniche immaginative

L’ imagery è uno degli ambiti più innovativi della terapia cognitiva, tuttavia l’idea che l’immaginario ed il suo simbolismo, potessero essere strumento di analisi e di cura per i disturbi psichici è nota fin dall’antichità.

In terapia cognitiva, già Beck ne rimarcò l’importanza sottolineando come immagini, fantasie, ricordi e sogni sono il mezzo principale per accedere ai significati che diamo all’esperienza (Beck, 1971). Tuttavia è solo negli ultimi anni che si stanno sviluppando studi per comprenderne il processo e l’utilità. Il XXI secolo si caratterizza per una maggior trasmissibilità delle conoscenze a riguardo, con il tentativo di porre ordine a differenti tecniche inserite in modo disomogeneo all’interno dei protocolli. La ricerca evidence-based aumenta e favorisce quindi la verifica della validità delle tecniche immaginative, mostrando però allo stesso tempo controversie e giudizi differenti dal punto di vista della validità scientifica.

Oggi, le tecniche immaginative sono impiegate nella maggior parte degli orientamenti di psicoterapia attualmente più diffusi: in ambito cognitivo-comportamentale, ad esempio, la REBT, l’ACT, la Schema Therapy, la Desensibilizzazione sistematica e le tecniche di esposizione in generale. Anche nella Gestalt le tecniche immaginative hanno un ruolo molto importante, così come nella Musicoterapia Immaginativa e in altre correnti psicoterapeutiche. Ovviamente, basandosi su presupposti teorici differenti, esse sono utilizzate in modo diverso e di conseguenza diverse sono le applicazioni tecniche.

L’utilizzo dell’ imagery ha un ruolo chiave nell’aiutare i pazienti nel condividere le proprie percezioni interne, si lavora infatti con la produzione immaginaria del soggetto. Essa può essere applicata a livelli differenti: fondamentale risulta infatti considerarla come uno strumento di indagine ma anche come uno strumento di cura e distinguere fra un lavoro sull’immagine riproduttrice da uno sull’immagine creatrice.

Come già riportato, l’idea di affrontare i problemi del paziente tenendo conto non solo dell’aspetto cognitivo e comportamentale, ma dando importanza al lavoro a livello della visualizzazione mentale è presente anche all’interno delle scuole cognitivo-comportamentali. Kirchlechner riporta che [blockquote style=”1″]nel trattamento cognitivo-comportamentale le tecniche immaginative aprono la possibilità di confutare valutazioni disfunzionali peri e post-traumatiche e facilitare così l’integrazione dell’evento traumatico nella memoria autobiografica[/blockquote] (Kirchlechner et Al).

L’ imagery viene infatti applicata all’interno di svariati settori e per differenti disturbi ma, fra i disturbi, gioca un ruolo chiave per il PTSD. Studi dimostrano infatti che ci sono tecniche immaginative integrabili coi trattamenti CBT per il paziente PTSD. Si punta su due obiettivi: facilitare con l’aiuto del lavoro immaginativo una integrazione della memoria traumatica in una visione più funzionale; recuperare tramite la costruzione di immagini di rielaborazione e di superamento della situazione traumatica, una interpretazione più funzionale dell’evento e delle sue conseguenze. (Boos, 2005). Queste tecniche hanno rilevanza perché attivano quel canale visivo, che è contaminato dalle intrusioni (Boos, 2004).

In generale una terapia efficace mira a una diminuzione della frequenza e della vividezza dell’ imagery intrusiva. Scopo dell’intervento è agevolare l’elaborazione emozionale e trasformare in modo costruttivo le emozioni disturbanti. L’intervento dovrebbe quindi portare ad una riduzione del numero di intrusioni delle immagini ed allo stesso tempo a diminuire l’evitamento o i comportamenti di protezione messi in atto.

In una fase preliminare di approccio all’ imagery è fondamentale indagare le valutazioni metacognitive del paziente al riguardo. Prima di tutto risulta fondamentale riconoscere la distanza critica di ogni paziente dall’immagine: alcuni pazienti, infatti, riconoscono che l’ imagery sia solo prodotto della propria mente mentre altri pazienti la ritengono reale. Tuttavia, anche nei pazienti che riconoscono che sia solo prodotto della propria mente, possono alterarne il significato per esempio identificandola quale un segnale di una situazione da evitare. Questo aspetto di premonizione ed evitamento coinvolge trasversalmente tutti i disturbi. Le credenze metacognitive giocano un ruolo fondamentale nel mantenere l’immagine intrusiva e nel mantenere comportamenti disadattivi. In una fase preliminare è fondamentale considerare il fatto che non tutti i pazienti hanno chiaro cosa sia l’ imagery e quindi è utile aiutarlo a comprendere cosa essa sia e cosa invece non sia definibile come imagery. Alcune persone addirittura possono avere la convinzione di non essere in grado di produrre delle immagini. In tal caso alcuni esempi nella quotidianità possono aiutarlo a rendersi conto di possedere l’abilità dell’ imagery.

Hackmann et al (2014) nel loro libro ipotizzano tre aspetti fondamentali per affrontare le immagini intrusive:
Il paziente deve trovarsi in un atteggiamento metacognitivo e riflessivo. All’interno di un’adeguata cornice relazionale, il paziente deve trovarsi in una finestra emozionale non troppo intensa da non permettergli di elaborare l’informazione e non troppo debole da non permettere una riflessione critica sull’immagine. Per tali ragioni indagare se il paziente per esempio prova forte disagio nel tenere gli occhi chiusi durante alcuni interventi e spiegargli anche accuratamente che alcune tecniche possono scatenare reazioni emotive molto intense motivandolo sull’utilità di questo processo. Una strategia funzionale per gestire queste emozioni è quella di stabilire insieme al paziente un segnale che può utilizzare quando l’emozione gli appare troppo forte per interrompere il lavoro o costruire insieme al terapeuta l’immagine di un “posto sicuro” e cioè un’immagine piacevole in cui possa “rifugiarsi” quando l’emozione risulta essere troppo disturbante. Il segnale di stop stabilito prima dell’intervento è cruciale perché fondamentale è riuscire a trasmettere calore ed empatia prima e dopo l’intervento ma durante l’intervento sull’ imagery il terapeuta deve mantenere una certa distanza per facilitare al paziente la scoperta dei significati personali.

Stimolare l’ imagery disturbante favorendo quindi l’emergere dell’immagine e invitare il paziente a “stare” nell’immagine per riportare più dettagli e significati possibili. In questo modo si riesce ad accedere ad un maggior numero di informazioni quali i comportamenti disfunzionali associati ed i vari significati ad essi associati. Allo stesso tempo l’evocazione ripetuta o prolungata porta a una riduzione del disagio emotivo ad essa associato e ad un’elaborazione emozionale più completa. Si è quindi cercato di comprendere quali siano i meccanismi che portano a questa riduzione del disagio emotivo e fra questi sono stati studiati il ruolo dell’abituazione, del senso di sicurezza presente nel setting terapeutico e la possibilità di rivedervi nuovi significati o anche elementi prima generalizzati ed ora non parte del trauma.

Stimolare lo sviluppo di nuove informazioni incompatibili per avviare una modificazione di questa imagery disturbante. Qui il terapeuta ha a disposizione strategie verbali (utilizzo delle tecniche cognitive classiche a fronte dei significati attribuiti all’ imagery disturbante, aspetto frequentemente utilizzato con il disturbo PTSD), strategie in immaginazione (a fronte dell’ imagery negativa e disturbante si può lavorare tendando di ridurre l’impatto dell’ imagery negativa oppure si può lavorare alla costruzione di una nuova imagery positiva) e strategie comportamentali. Ovviamente il ruolo del terapeuta è molto diverso a seconda che si trovi in una fase di esplorazione dell’ imagery del paziente (qui il terapeuta deve agire in modo da rendere sempre più vivida l’immagine e la descrizione che fornisce il paziente con anche i significati ad essa associati) o che si trovi nella fase di trasformazione dell’imagery del paziente dove riveste un ruolo molto più attivo.

A livello di tecnica gli interventi di imagery dovrebbero essere compiuti nei primi 30 minuti della seduta per poter utilizzare il tempo successivo a disposizione per permettere al paziente di terminare la seduta non in uno stato emotivo troppo intenso ma ancorato alla realtà. Prima di utilizzare l’ imagery sono necessarie alcune sedute psicoeducazionali e motivazionali. Non vi è un numero prestabilito di sedute in cui applicare le tecniche sull’ imagery in quanto in alcuni pazienti il cambiamento è repentino mentre in altri pazienti è molto più lento. Generalmente viene fornito quale homework al paziente una registrazione della seduta con il compito di ascoltarla nuovamente a casa in quanto ciò può aiutare il paziente a far emergere nuovi ricordi e consolidare nuove prospettive.

Prima di attuare gli interventi è quindi necessario un assessment dell’ imagery in modo da ottenere informazioni specifiche e dettagliate sull’immagine ed anche sul nesso con eventuali esperienze passate. Sono vari i passaggi utili in questa fase partendo dall’aiutare il paziente a “lasciarsi andare” nello spazio sicuro dello studio per far emergere l’immagine per passare poi ad una fase in cui il paziente, ad occhi chiusi, deve cercare di descrivere nel modo più dettagliato possibile l’immagine per passare poi all’elicitazione dei significati personali presenti in questa immagine. Oltre ai significati il terapeuta pone anche attenzione sui comportamenti che generalmente questa imagery porta nel paziente ed anche a come si sta comportando in seduta per mantenere sempre monitorato il livello di attivazione emozionale. Seguendo il modello della terapia cognitiva si utilizzano queste informazioni con il fine di costruire una microformulazione utile per il terapeuta per inquadrare il caso ed utile per il pazienze per contestualizzare la sua sintomatologia ed il lavoro immaginativo. All’interno di questa micro formulazione viene prima di tutto identificata l’immagine centrale per passare poi a rappresentare, all’interno di un diagramma, le cognizioni e le emozioni ad essa associate, le conseguenze che porta (per esempio l’evitamento di alcune situazioni) e quelli che sono i fattori che la rinforzano.

Un’attenzione particolare viene posta sul nesso fra l’ imagery disturbante ed esperienze passate. Questo collegamento spesso infatti, se non identificato, non permette miglioramenti in terapia e spesso è anche molto sottovalutato dai pazienti i quali ritengono che le immagini riguardino il presente o “segnali” per il futuro, ma faticano ad associarle ad episodi del passato. La “tecnica del ponte emozionale” si dimostra molto utile proprio per permettere al paziente di collegare cosa prova e come si sente in quell’immagine e quando in passato si è sentito allo stesso modo, la tipica domanda che viene posta al paziente è se è in grado di ricordare la prima volta che si è sentito così. Fondamentale è spiegare al paziente come spesso si voglia dimenticare un ricordo doloroso ma come per poter far ciò sia importante rievocarlo ed elaborarlo e non cercare di “nasconderlo”. Spesso infatti il paziente sopprime deliberatamente ricordi che altrimenti sarebbero troppo dolorosi. Abbandonare l’evitamento dei ricordi però permette loro di rimanere consapevoli ed operare importanti modificazioni cognitive. Prima di tutto la semplice rievocazione ripetuta di un ricordo prima negato permette già da sola di scoprire come l’ansia decresca e come non si verifichino le catastrofi immaginate. Inoltre, si può lavorare sull’immagine cercando di modificarla differenziando, per esempio, ciò che è reale da ciò che viene dal passato.

Come riportato in precedenza l’imagery è un settore molto ampio dove si distingue preliminarmente fra tecniche volte a incentivare l’ imagery positiva e tecniche volte a ridurre l’impatto dell’imagery negativa. A fronte di immagini negative diurne ricorrenti fra le tecniche utilizzate ve ne sono alcune volte a far lavorare il paziente sul mostrare la differenza fra la sua imagery e la realtà. Spesso il paziente ritiene, infatti, che i due aspetti coincidano, mentre esperienze di esposizione in vivo possono aiutarlo a ragionare su questi aspetti. Il paziente può anche essere stimolato a lavorare sul fatto che queste immagini spesso sono più legate al timore delle proprie possibili reazioni che all’effettiva situazione. In una fase successiva si passa invece alla manipolazione vera e propria dell’immagine al fine di renderla meno spaventosa. Fra queste tecniche si può scegliere di ampliare il contesto dell’immagine in modo da evitare che l’immagine rappresenti solo il momento peggiore oppure ristrutturare alcuni aspetti dell’immagine, il principio base comunque in questo caso è quello d modificare un’ imagery già presente e di tipo negativo. Contrariamente si può lavorare con la generazione di immagini positive alternative. Questo è stato dimostrato empiricamente per i Disturbi d’Ansia in uno studio di Borkovec (2004). Questi disturbi sono infatti spesso centrati su una preoccupazione e visione negativa del futuro e proprio per tale ragione la creazione di immagini positive presenti in minor percentuale può essere di grande aiuto.

L’ imagery inoltre può presentarsi, oltre che in forma diurna, anche in forma notturna, disturbando e spaventando il sonno del paziente che cerca di ritardare quindi il più possibile questo momento. Qui la strategia primaria che tentano di utilizzare i pazienti è la distrazione, tuttavia questo può spesso portare ad un peggioramento dei sintomi. Come per le immagini diurne il lavoro fondamentale consiste nell’ avvicinarsi all’immagine per poterla rielaborare e non nel tentativo di evitarla.

Infine un ambito interessante dell’ imagery utile in psicoterapia cognitiva è il lavoro con le metafore. Le immagini infatti “riflettono la nostra concezione dell’esperienza di sé, degli altri e del mondo, e racchiudono il significato stesso del percorso terapeutico (Hackmann, 2014). L’ imagery metaforica può essere utile per mettere in discussione i significati personali e sperimentare nuove prospettive da applicare alla realtà.

 

Conclusioni

In conclusione il lavoro sull’ imagery rappresenta un ambito molto esteso, conosciuto da molti anni ma che solo ultimamente risulta accompagnato da studi empirici volti ad avvalorarne l’utilità e le tecniche. Con le immagini mentali si esplora un’importante attività dell’uomo che deve essere presa in considerazione nel percorso di cura per evitare di tralasciare alcuni contenuti.

Violenza di coppia tra adolescenti: correlazione con abuso di droga e tentato suicidio

Secondo una nuova ricerca sulla violenza di coppia, gli adolescenti violenti verso i loro partner sono anche più propensi a pensare o tentare il suicidio, avere un’arma con cui minacciare gli altri e abusare di droghe o alcol.

 

Gli adolescenti che sono violenti verso i loro partner sono anche più propensi a pensare o tentare il suicidio, avere un’arma, portala con sé ed utilizzarla per minacciare gli altri, abusare di droghe o alcol rispetto ai coetanei non coinvolti in relazioni sentimentali violente. Questo è ciò che è stato evidenziato da una nuova ricerca condotta presso l’Università della Georgia.

 

Violenza di coppia: lo studio dell’Università della Georgia

Lo studio, pubblicato recentemente sul Journal of Youth and Adolescence, ha seguito un gruppo di 588 studenti provenienti dalla Georgia per sette anni consecutivi durante il loro percorso evolutivo attraverso scuola media e superiore.

In questo periodo, gli studenti dovevano riferire eventuali esperienze di violenza di coppia come schiaffi, calci, pugni, graffi o spintoni agiti nei confronti del partner; se lo avessero spintonato contro un muro, gettato verso di lui un oggetto in grado di fargli del male o se avessero utilizzato un oggetto appositamente per ferirlo.

In un precedente studio, i ricercatori avevano identificato due gruppi all’interno del campione: gli studenti che non sono mai stati coinvolti in scontri violenti e violenza di coppia durante i sette anni di studio e gli studenti che presentavano una probabilità crescente di violenza. In termini numerici, due terzi degli studenti totali riferivano bassi o inesistenti livelli di violenza di coppia, in particolare fisica, all’interno della propria relazione e un terzo mostrava un aumento degli atti di aggressione fisica nei confronti del partner.

Gli studenti in questo secondo gruppo, secondo il nuovo studio, avrebbero dal doppio al triplo di probabilità maggiori di pensare o tentare il suicidio rispetto a quelli che hanno riportato bassi o inesistenti livelli di violenza fisica nella relazione sentimentale.

Più della metà degli studenti coinvolti in relazioni caratterizzate da violenza ha riferito di aver portato con sé un’arma almeno una volta durante il periodo di tempo analizzato, mentre meno di un terzo del gruppo di confronto ha riferito lo stesso.

Quasi uno su ogni due studenti coinvolti in relazioni violente ha riferito di aver minacciato qualcuno con un’arma; al contrario, meno di uno studente su cinque nel gruppo non violento ha detto di aver usato un’arma per intimidire qualcuno.

Infine, entrambi i gruppi hanno mostrato un aumento dei livelli di utilizzo di alcol e marijuana nel corso dello studio.

Tuttavia, gli studenti del gruppo violento hanno riportato livelli più elevati di utilizzo delle sostanze e un utilizzo più continuativo durante i sette anni.

 

Violenza di coppia: l’importanza di un intervento tempestivo

La violenza di coppia è un grave problema di salute pubblica, come ha sottolineato Pamela Orpinas, autore principale dello studio e professore di Promozione e Comportamento della Salute presso il College of Public Health (Università della Georgia). “E’ un fenomeno che colpisce le persone sul momento a causa dell’aggressione, ma che ha anche profonde conseguenze a lungo termine” ha aggiunto.

Questo “gruppo di comportamenti problematici” è stato evidenziato fin dal primo anno di scuola media inferiore, il che significa che era possibile riscontrare diversi livelli di violenza, uso di droghe, pensieri suicidi e presenza di un’arma già dal primo anno di svolgimento della ricerca. Questo studio dimostra pertanto che è necessario agire molto presto, ancora prima del primo anno di scuola media inferiore, attraverso programmi di prevenzione che abbiano come target questo complesso gruppo di comportamenti.

 

 

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