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Demenza: il modello della cura centrata sulla persona (PCC) elaborato da Tom Kitwood

Il modello di approccio psicosociale Person–Centred Care (PCC) elaborato da Tom Kitwood (1997) rappresenta una svolta fondamentale nella gestione di servizi sociali e sanitari, in particolare per quanto riguarda le persone con demenza.

Toigo Miriam, Bassan Serena – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Bolzano

 

Tom Kitwood propone alcuni concetti chiave partendo dall’idea che nella cura della demenza il compito principale è mantenere la personhood (l’essere persona nel suo senso più completo: avere sentimenti, emozioni, una personalità, una cultura…), nonostante il decadimento delle funzioni cognitive (Faggian et al., 2013):

  • Riconoscere che l’individuo è sempre una persona nonostante la malattia e che come tale può ancora vivere la propria vita e avere relazioni
  • È necessario impostare la cura partendo dalla storia di vita della persona
  • È importante permettere alla persona di compiere delle scelte e rispettarle
  • Tenere presente che la persona può ancora fare tanto, focalizzarsi sulle abilità residue e non tenere conto solo delle capacità compromesse a causa della malattia

Oltre alla compromissione neurologica, che rimane la causa principale della demenza, esistono molti altri fattori che influenzano la quotidianità della persona con demenza e su come agisce, sente e pensa.

 

La demenza come interazione di cinque fattori

La patologia dementigena è rappresentabile in una formula arricchita che è il frutto dell’interazione di cinque fattori principali:

  • Dementia = NI + H + B + P + SP

Dove:

  1. NI (Neurological Impairment) si riferisce a Compromissione Neurologica. La compromissione neurologica associata alla demenza, ovvero le alterazioni strutturali e funzionali dei sistemi neuronali. È importante avere una consapevolezza della sintomatologia così da poter pianificare interventi di supporto e di cura adeguati, che siano protesici, ma che non compromettano le abilità residue.
  2. H (Health and Physical Fitness) si riferisce a Salute e stato fisico. Problemi di natura fisica (ad esempio infezioni urinarie o polmonari, disidratazione, squilibri ormonali e così via…), difficoltà sensoriali e il dolore sono tra i fattori che causano stati confusionali acuti. Inoltre rappresentano una delle principali fonti di malessere nella persona con demenza, la quale spesso ha difficoltà nel comunicarlo chiaramente e adotta dei comportamenti alternativi (es. aggressività, agitazione…) per cercare di esprimere un disagio che non trova risoluzione.  Un buon ambiente di cura dovrebbe avere una particolare sensibilità nel cogliere queste sfumature e dovrebbe interrogarsi sempre su ciò che osserva, così da poter generare interventi più mirati ed efficaci.
  3. B (Biography – Life history) si riferisce a Biografia e storia di vita della persona. La possibilità di dare un senso all’esperienza del “qui e ora” è connessa a quella di poter fare riferimento a esperienze di vita passate della persona. La conoscenza approfondita dell’anziano e della sua storia possono essere particolarmente utili sia per trovare un canale di comunicazione efficace sia per aiutare il personale a impostare un piano assistenziale quanto più adattato possibile alla persona.
  4. P (Personality) si riferisce a Personalità, inclusi temperamento, abilità, stili di coping e difese psicologiche. Conoscere i punti di forza e di debolezza della persona ci aiuta a capire come la stessa affronterà la propria condizione di demenza. Risalire, anche grazie al contributo dei familiari a chi era, che gusti aveva, qual era lo stile di vita e il suo “carattere” ci aiuta a comprendere in maniera più adeguata e a dare continuità alla persona che conosciamo nel “qui ed ora” (Kar, 2009).
  5. SP (Social Psychology) si riferisce a Psicologia sociale. Il modo in cui ci relazioniamo può in generale creare benessere oppure malessere negli altri, con le persone con demenza è ancora più vero poiché sta a chi si prende cura trovare un canale comunicativo efficace che riesca a superare i limiti linguistico-espressivi posti dalla malattia e che sia capace di trasmettere accettazione, conforto e rassicurazione. Tom Kitwood definisce psicologia sociale maligna (PSM) come l’insieme di tutti quei comportamenti svalutanti nei confronti della persona; d’altra parte esistono anche tutta una serie di comportamenti che si focalizzano sulla valorizzazione della persona (Positive Person Work, PPW).

Le manifestazioni e la progressione della demenza sono influenzate da tutti questi fattori; in quest’ottica, data l’estrema variabilità in tutte e cinque le aree descritte, non esiste allora una demenza, ma tante demenze quante sono le persone malate di demenza.

 

La Cura Centrata sulla Persona di Tom Kitwood

La Cura Centrata sulla Persona attribuisce però una rilevanza maggiore proprio alla persona, piuttosto che alla demenza. Gli aspetti chiave di questo approccio sono riassunti nel modello cosiddetto VIPS, dove l’acronimo si riferisce alle seguenti variabili:

  • Cura Centrata sulla Persona = V + I + P + S
  1. Valorizzare la persona con demenza e chi si prende cura di lei, affermare il valore assoluto della persona con demenza indipendentemente dall’età o dalle capacità cognitive.
  2. Trattare le persone come Individui, riconoscere l’unicità della persona con demenza.
  3. Guardare il mondo dalla Prospettiva della persona con demenza. Essere capaci di riconoscere che ogni esperienza personale ha una sua validità psicologica e che l’empatia rispetto a tale prospettiva ha un proprio potenziale terapeutico.
  4. Le persone con demenza necessitano di un ambiente Sociale positivo che compensi i deficit, offra opportunità di crescita personale e in cui possano sperimentare benessere.

L’acronimo VIPS, che sta anche per “Very Important Persons” è un modo efficace per sposare l’attenzione da aspetti organizzativi alla persona stessa, intesa come unica e speciale.

Tom Kitwood nel suo libro Dementia Reconsidered (1997) descrive cinque bisogni psicologici fondamentali di ogni essere umano, che confluiscono nel bisogno centrale di Amore: comfort, identità, attaccamento, occupazione e inclusione.

Demenza il modello della cura centrata sulla persona PCC elaborato da Tom Kitwood - FIG 1
Il Fiore di Kitwood

 

Tom Kitwood individua 17 categorie definite personal detractions (PD), che insieme formano la psicologia sociale maligna (PSM). Ci sono poi altre 17 categorie di positive events (PE), che insieme formano il positive person work (PPW) (Bissolo et al., 2013).

 

Demenza il modello della cura centrata sulla persona (PCC) elaborato da Tom Kitwood - FIG 2
Tabella: Categorie Di Psm – Categorie Di Ppw

 

Il comfort nel modello di Tom Kitwood

Tom Kitwood definisce il comfort come la capacità di essere vicini ad un’altra persona attraverso la tenerezza, la sicurezza, il calore. Le persone con demenza attraversano spesso momenti difficili. Tali disagi sono legati sia all’età, che alla perdita delle proprie abilità e funzioni, per questo soprattutto chi soffre di demenza ha un grande bisogno di continuo conforto. La vicinanza sincera di un’altra persona aiuta infatti a sentirsi più fiduciosi, più rilassati, meno spaventati di quello che potrebbe accadere.

  • PD 1 = Intimidazione è PE 1 = Calore

Spesso le persone fragili non si espongono e non esprimono il proprio parere per timore di non essere ascoltate o perché ricevono dei segnali, anche inconsapevoli, di intimidazione. Dimostrare affetto, calore e genuino interesse per la persona è consigliabile per promuovere il benessere della persona.

  • PD = 2 Rifiuto è PE 2 = Holding

Il rifiuto consiste nel negare l’attenzione o rifiutare il soddisfacimento di un bisogno evidente. La persona fragile deve poter sentirsi al sicuro da un abbandono e accettata in ogni circostanza, anche nei momenti di aggressività o irritabilità (che possono essere l’unico mezzo di comunicazione che la persona ha per riferire un malessere/disagio).

  • PD 3 = Non assecondare i ritmi è PE 3 = Assecondare i ritmi

Le persone con demenza hanno più difficoltà delle altre persone ad elaborare le informazioni. E’ importante allora che sia la persona che si prende cura ad adattarsi al ritmo di chi la riceve, in modo da promuovere un comportamento che favorisca un’atmosfera rilassata e rassicurante.

 

L’Identità

Secondo Tom Kitwood l’identità è “sapere chi si è, sia a livello cognitivo che emotivo” (Kitwood, 1997, p. 83). E’ in altre parole un senso di continuità tra la persona che si è stata in passato e quella nel tempo presente. Permettere a chi riceve la cura di essere liberamente se stesso è essenziale nell’approccio di Cura Centrata sulla Persona. È altresì importante favorire i fattori che possano consentirgli di comunicare il suo autentico modo di essere.

  • PD 4 = Infantilizzazione è PE 4 = Rispetto

La cura di un anziano con demenza comprende anche lo svolgimento di operazioni assistenziali simili a quelle di un genitore: lavare, cambiare, nutrire. E’ importante approcciarsi sì con affetto, ma con la consapevolezza che la sfera adulta è presente sempre e in ogni caso nella persona.

  • PD = Etichettare è PE 5 = Accettazione

Classificare le informazioni, anche le persone, in base alle loro caratteristiche è una naturale tendenza dell’uomo. Purtroppo nelle realtà assistenziali ciò non porta sempre beneficio, poiché a volte, anche in maniera non intenzionale, si perde di vista la persona (es. “è un Alzheimer”). Chi si prende cura dovrebbe riflettere su questi processi, così da poter accettare più autenticamente la persona con demenza.

  • PD 6 = Denigrazione è PE 6 = Celebrazione

Chi si prende cura dovrebbe quanto più possibile sostenere l’autostima della persona al centro della cura, dare importanza ad ogni iniziativa intrapresa ed essere sempre ben concentrata sull’impegno del superamento delle varie fasi di un processo, non sul risultato finale.

 

L’attaccamento

Tom Kitwood riconosce la necessità dell’uomo di formare legami di attaccamento. Secondo lo studioso ciò è ancor più evidente in momenti di vita densi di incertezze, come nella demenza. Un buon ambiente di cura dovrebbe pertanto garantire alla persona fragile, che spesso prova ansia e paura verso ciò che la circonda, l’appagamento del bisogno di contatto, di rassicurazione, di vicinanza in ogni momento, soprattutto quando è in difficoltà.

  • PD 7 = Accusa è PE 7 = Dare riscontro e riconoscimento

Quando ci si prende cura di una persona con demenza non è sempre facile comprendere le ragioni che stanno alla base di un certo comportamento. Dare riscontro significa impegnarsi e fare il possibile per cercare di comprendere una giustificazione ragionevole per un dato comportamento.

  • PD 8 = Inganno è PE 8 = Genuinità

Tom Kitwood descrive l’inganno come l’insieme di azioni, scuse, menzogne fornite ad una persona con l’obiettivo di convincerla a fare qualcosa che consapevolmente non farebbe e col fine di forzarla ad adeguarsi alle decisioni degli altri. Al contrario la genuinità, l’essere un autentico sostegno, promuovere una piena accettazione del loro modo di vedere le cose, delle loro sensazioni, percezioni e sentimenti è un modo più rispettoso di prendersi cura delle persone con demenza.

  • PD 9 = Disconferma, rifiuto è PE 9 = Validazione, conferma

Il processo di disconferma avviene quando una persona non è più messa nelle condizioni di autodeterminarsi e di poter decidere per se stessa. Il termine validazione nasce con Naomi Feil, il suo significato letterale è servirsi dell’empatia per “rendere qualcuno forte o sicuro di sé”. Nel contesto della demenza, validare significa accettare la verità soggettiva della persona, dare riscontro e riconoscere la realtà delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, mettendo volutamente in secondo piano la componente cognitiva. (Kitwood, 1997).

 

L’occupazione

L’occupazione è il bisogno psicologico presente in ogni uomo che permette di sviluppare la percezione di essere capace e impegnata. Tale necessità è presente in maniera importante anche nelle persone fragili. Purtroppo comunemente l’occupazione viene considerata in funzione di un progetto che porta ad un risultato finale. È importante allora soddisfare il bisogno di occupazione personalizzando le attività e adattandole alle capacità della persona al centro della cura. Più si hanno informazioni sui suoi interessi, sulle sue preferenze, sulla sua biografia, più sarà verosimile riuscire nell’intento.

  • PD 10 = Esautorazione è PE 10 = Conferire potere

Esautorare significa togliere potere, privare una persona delle proprie competenze (es. sostituirsi alla persona impedendo il mantenimento di abilità residue). Una buona riflessività in chi si prende cura deve permette l’implementazione di tutte quelle azioni che permettano alla persona di sperimentarsi e sentirsi ancora fiduciosa nelle proprie capacità.

  • PD 11 = Imposizione è PE 11 = Facilitazione

Talvolta, anche inconsapevolmente, si compiono delle sopraffazioni relazionali verso altre persone. In questi casi la volontà degli altri è negata. Permettere di avere la possibilità di scelta e fornire un aiuto nel completare le parti mancanti per la realizzazione di un’azione dà valore alla persona, poiché consente di mantenere il contatto con il passato e sostiene la personhood.

  • PD 12 = Intrusione è PE 12 = Agevolare

L’intrusione si verifica ogni qualvolta si interrompe un’attività o ci si intromette in maniera inopportuna in una situazione che porta benessere alla persona, ad esempio quando ci si trova a cantare insieme accompagnati da una chitarra. È importante che chi si prende cura riesca a conciliare le priorità dei compiti quotidiani con il beneficio che la persona ricava dall’impegnarsi in una certa attività.

  • PD 13 = Oggettificazione è PE 13 = Collaborazione

Ognuno di noi ha il diritto di essere coinvolto attivamente in ciò che ci riguarda, anche in condizioni di fragilità. E’ sempre opportuno dare chiare informazioni (es. sull’azione che andrà svolta), questo atteggiamento restituisce dignità e rispetto a chi riceve la cura.

 

L’inclusione

Sentirsi parte di un gruppo è un bisogno fondamentale dell’uomo. Nella demenza questa necessità è però spesso difficilmente appagabile. Tom Kitwood riconosce invece l’importanza di sostenere la personhood di ogni persona, nonostante le difficoltà presenti. Egli propone anche di essere più riflessivi nel tentare di cogliere e soddisfare il bisogno di inclusione, che nelle persone con demenza si manifesta con struggente intensità.

  • PD 14 = Stigmatizzazione è PE 14 = Riconoscimento

Stigmatizzare significa classificare una persona partendo da un pregiudizio. Tutti gli anziani sono vittime di questo processo, infatti spesso vengono considerati a priori incapaci, malati, dipendenti, ancora prima che abbiano l’occasione di mostrare qualità positive e pregi. Chi si prende cura dovrebbe mantenere un atteggiamento aperto e andare incontro alla persona senza pregiudizi, dovrebbe in altre parole riconoscerla autenticamente (es. salutarla chiamandola per nome, essere disposti davvero ad ascoltare con attenzione quello che ha da dire, guardarla negli occhi quando le si parla…).

  • PD 15 = Ignorare è PE 15 = Includere

Ignorare una persona significa escluderla da una situazione e di conseguenza provocarle un dolore profondo. È una condizione spiacevole e frustrante, che mortifica e lascia una sensazione di esclusione in chi riceve la cura. Sarebbe allora importante lavorare su se stessi per riuscire a sviluppare una certa sensibilità che impedisca il più possibile il verificarsi di queste situazioni.

  • PD 16 = Esilio è PE 16 = Appartenenza

Esiliare significa allontanare volutamente una persona da una situazione, poiché non la si giudica adatta o non sufficientemente capace. Secondo Tom Kitwood infatti un buon luogo di cura dovrebbe fare in modo che ogni persona si senta accettata in ogni momento, a prescindere dalle sue abilità.

  • PD 17 = Derisione è PE 17 = Divertimento

La persona con demenza spesso è la protagonista di comportamenti insoliti. Chi si prende cura dovrebbe allenarsi a ridere con la persona, anziché ridere della persona. Creare un’atmosfera di divertimento condiviso è benefico per tutti, è un buon modo anche per diminuire la distanza tra chi si prende cura e chi la riceve.

È importante infine tenere bene a mente che le persone con demenza provano emozioni, hanno e cercano di esprimere i propri bisogni e le proprie volontà come qualsiasi altra persona. La differenza sta nel fatto che nella demenza non è possibile raggiungere la risposta a tali esigenze in autonomia. È interessante però sapere che la capacità di apprendere nuove tracce emotive è conservata anche nella demenza, questo significa che anche queste persone riescono ad associare emozioni positive o negative a certi stimoli, quali ad esempio un volto (Evans-Roberts, Turnbull, 2011).

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale (2016) – Recensione del libro

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale è un denso contributo teorico e metodologico in cui esperienze e prospettive si fondono nel tentativo di dare coerenza, organicità e concretezza a un numero considerevole di indagini, teorie e tecniche che riguardano i gruppi.

 

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale, scritto da Antonio Lo Iacono (psicologo del lavoro e psicoterapeuta)  e Pietro Milazzo (psicologo clinico, psicoterapeuta, gruppo analista) è un denso contributo teorico e metodologico in cui esperienze e prospettive si fondono nel tentativo di dare coerenza, organicità e concretezza a un numero considerevole di indagini, teorie e tecniche che riguardano i gruppi.

 

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale: il valore terapeutico del gruppo

La sua forma è stata concepita per accompagnare il lettore lungo un itinerario in prima battuta esperienziale, vivo e intenso, in modo da facilitare, in seguito, una curiosa attenzione a ripercorrere temporalmente gli sviluppi del gruppo nelle sue varianti aggregative e trasformative.

La presentazione suggella la nascita del gruppo ed è seguita dalla sua strutturazione. In questo processo generativo si sperimenta il contatto con le parti più distanti di sé, il timore di essere esclusi, i propri confini e le proiezioni, l’efficacia della comunicazione interpersonale e l’empatia, la condivisione e lo scambio, la narrazione della storia di gruppo, la difesa della sua omeostasi emotiva. La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale risulta un lavoro interessante quanto suggestivo in cui si utilizza il potenziale evolutivo e creativo, nonché di esplorazione e terapeutico del gioco.

In questa corrente di emozioni si procede “navigando a vista”, per usare un’espressione di Lo Iacono e ci s’imbatte nella possibilità di conoscere e entrare in contatto con il corpo, lo psicodramma, il sogno, la fiaba. Si offrono occasioni di sciogliere conflitti e tensioni che dimorano nel corpo attraverso la bioenergetica, drammatizzare aspetti della propria esistenza per un migliore stato personale e relazionale, dare voce a contenuti onirici intrapersonali e interpersonali che riflettono stati affettivi multiformi, migliorare le capacità di problem solving con la fiaba.

Il conduttore investito di gratificazioni e responsabilità guida il gruppo sfruttando il rumore e il silenzio, l’agire e il fermarsi nell’avvicendarsi di trame relazionali, affettive e trasformative. Il suo lavoro assomiglia a quello di uno scultore, fa notare l’autore de La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale, impegnato a togliere l’eccesso e nasce dall’integrazione di molti ruoli, che vanno dall’animatore all’interprete.

Le origini, le peculiarità, gli effetti del gruppo e le sue molteplici tipologie chiudono La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale con una varietà di prospettive teoriche e proposte metodologiche che incoraggiano a lavorare con i gruppi.

Questi ultimi, nati da un iniziale bisogno di cacciare, difendersi e garantire la continuazione della specie, hanno risposto alla necessità sempre crescente di una raffinata differenziazione, propria di organizzazioni complesse dagli esiti fausti e infausti.

Il loro utilizzo per finalità terapeutiche è attribuito a Joseph Pratt che intorno al 1905 impiegò il setting gruppale con pazienti tubercolotici, poco meno di un ventennio più tardi l’ambiente scientifico viene stimolato dalle ricerche di Moreno, Lewin, Bion Foulkes. I gruppi nascenti, sotto la spinta di nuovi studi, non rispondono solo a finalità terapeutiche ma anche di ricerca, educazione e apprendimento. Da una contenuta dimensione di partecipanti, che accomuna la maggior parte dei gruppi, ci s’imbatte in realtà più ampie, come i gruppi allargati di Ancona, nei quali la stessa eterogeneità è il motore del cambiamento. I gruppi costituiscono inoltre, lo spazio in cui il sogno rappresenta pensieri connessi con l’ambiente sociale e su cui il socialdreaming sposta il focus attenzionale. Si apprende dal gruppo e con il gruppo, si fa ricerca ricorrendo ad esso e pianificando a partire da esso l’intervento con il focus group e i gruppi di training.

Per concludere, la visione multifocale proposta da La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale coinvolge e confonde, persino potrei dire scoraggia quella sicurezza che si cela dietro la necessità di guardare la realtà gruppale da un unico punto di vista. Essa costituisce un coraggioso impegno a guidare il lettore verso una comprensione arcaica dello stare in gruppo, a patto che ci si faccia condurre verso il non consueto; una tappa che nel professionista in divenire, stimolato da una curiosità permanente, conduttore e non solo di gruppi, mi sembra necessaria.

Intervista a Paola Matera, la dottoressa che canta ai malati

Qualche tempo fa un collega mi ha segnalato alcuni articoli apparsi su testate nazionali online riguardanti una dottoressa ospedaliera e cantante che si esibisce in corsia per alleviare la sofferenza dei suoi pazienti. La dottoressa si chiama Paola Matera e svolge la sua attività clinica presso l’Ospedale di Biella.

 

La notizia mi ha ovviamente incuriosito, ma è stato dopo aver visto il video strepitoso in cui canta in impeccabile camice bianco, accompagnata da un fisarmonicista,  Che sarà (brano scritto da Jimmy Fontana e cantato in italiano dai Ricchi e Poveri e in spagnolo da Josè Feliciano) per un gruppo di pazienti, che è arrivato irrefrenabile l’impulso ad intervistarla (dopo averle chiesto l’amicizia su Facebook ovviamente).

 

Intervista alla Dott.ssa Paola Matera

I (Intervistatore): Ciao Paola. Ci racconti la tua storia? Quando nasce la tua passione per la musica? E per la medicina?

PM (Paola Matera): Fin da piccola amavo la musica: le mie sorelle suonavano il pianoforte, mio padre la chitarra, io adoravo cantare, essere al centro dell’attenzione….ho iniziato per gioco a suonare il pianoforte ma per una bambina molto attiva era un sacrificio stare ore a esercitarmi…infatti a 10 anni ho smesso e ho dedicato il mio tempo allo studio della chitarra classica e del flauto (come nella maggior parte delle ragazzine della mia età) visto che non avevo grande passione per gli strumenti musicali. A 13 anni ho abbandonato lo studio della musica, anche se a 19 ho ricominciato a cantare in un coro polifonico della chiesa vicino casa. Successivamente mi sono iscritta alla facoltà di medicina e non ho più potuto seguire la mia passione per il canto, rimandando di qualche anno ciò che sarebbe inevitabilmente avvenuto.

 

I: Quali sono i tuoi gusti musicali?

PM: Amo tutta la musica ben eseguita, da circa due anni porto in giro uno spettacolo con le canzoni di De Andrè, riscuotendo molto successo, ho fondato una compagnia teatrale  e ci esibiamo per raccolte fondi per le associazioni onlus e per chi vuole ascoltare i successi del Faber. Personalmente amo le voci femminili, ho una voce da contralto e per sei mesi ho approcciato la musica jazz con scarsi risultati….io amo cantare live, con ogni genere di strumento: chitarra, tastiere e violino. Amo Giorgia perché trovo sia tecnicamente perfetta, ma ascolto vari generi di musica (sono cresciuta con il rock anni ’70 e i Dire Straits)

 

I: Ho letto che hai avuto problemi di salute e che la musica ti ha aiutato a superare un momento difficile. Ti senti di raccontarci come sono andate le cose?

PM: Nel 2000 vengo ricoverata d’urgenza per una vasculite che ha devastato il mio fisico. Ho subìto diversi interventi demolitivi, mi hanno sottoposto a terapia decisamente pesanti e il mio fisico dopo 3 mesi di degenza ospedaliera ne ha risentito moltissimo. Ho perso 25 kg, e tutta la massa muscolare…le uniche distrazioni erano le visite di mia madre e delle mie sorelle. In quel periodo mia sorella mi portò una radio, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia e fu così. Al mio ritorno a casa, ho iniziato a iscrivermi a un corso di canto dedicando tempo al mio fisico e alla mia anima devastata da quella esperienza terribile…..il mio rientro a casa non era così scontato, in quanto avevo grosse possibilità di non farcela. Ma grazie all’amore della mia famiglia, alla mia caparbietà e alla Musica (mia alleata da sempre) sono tornata a vivere una seconda volta e ho dedicato più tempo allo studio del canto, educando la mia voce come se fosse uno strumento musicale. Da allora non ho più smesso: ho vinto la mia timidezza e ho affrontato il pubblico, dapprima nei locali Karaoke, in seguito come cantante in una cover band anni ’60-70.

 

I: Come e da chi è nata l’idea di cantare in corsia?

PM: Ho voluto portare la musica in ospedale memore della mia esperienza di paziente, ho proposto alla direzione generale dapprima l’inserimento di un pianoforte nell’ingresso dell’ospedale e successivamente ho introdotto la musica nei reparti di Geriatria, pediatria, fisiatria e psichiatria. Ho coinvolto i miei numerosi amici artisti che hanno accettato di esibirsi a turno nei vari reparti a titolo gratuito, riscuotendo grande successo…abbiamo portato un po’ di serenità ai pazienti, spesso concentrati sui loro malanni, sulle loro disgrazie. Abbiamo regalato spensieratezza perché quando sì è ricoverati spesso si perde la speranza, si ha il timore di essere abbandonati e di non fare più ritorno a casa dai propri cari.

L’INTERVISTA CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

intervista a paola matera la dottoressa che canta ai malati andrea cavallo

La dott.ssa Paola Matera si esibisce in corsia accompagnata dal pianista Andrea Cavallo

 

I: Come è stata accolta l’idea dai pazienti? E dai colleghi?

PM: I pazienti hanno risposto in modo eccellente dapprima con sospetto, poi cantando insieme a noi hanno coinvolto parenti e personale. Ho cantato le canzoni che spesso loro richiedevano, scegliendo il repertorio in base all’età dei pazienti coinvolti.

Mi hanno trasmesso tenerezza, i loro sorrisi mi hanno riscaldato il cuore. Una paziente al termine di un concerto mi ha detto: “Pensi che adesso non sento più il dolore al ginocchio” Obiettivo raggiunto. Sono certa che questo sia solo l’inizio, mi hanno contattato colleghi da altri ospedali dove stanno tentando di inserire la Cantoterapia nei reparti come terapia da associare ai farmaci e al supporto psicologico. Non ho avuto esperienze personali nel campo psichiatrico, ma nel mio nosocomio da due anni viene effettuata un’ora alla settimana di lettura ad alta voce presso l’ SPDC con risultati eccellenti.

 

I: Sei al corrente di esperienze simili alla vostra in altri ospedali in Italia e all’estero?

PM: Ho conosciuto telefonicamente la dott.sa Mirella De Fonzo che ha scritto numerosi saggi sulla Cantoterapia in Italia.

 

I: Progetti per il futuro?

PM: La mia speranza è che nel prossimo futuro ogni struttura ospedaliera possa avvalersi della musica e del canto non solo per curare i pazienti ma anche i dipendenti stessi che spesso sono sottoposti a turni pesanti dal punto di vista fisico ma soprattutto umano.

Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: dalla definizione di stupro ai date rapes

La violenza sessuale risulta essere il reato in assoluto meno denunciato; secondo le stime, i casi di violenza sessuale che arrivano nelle stanze delle questure sarebbero solo una minima percentuale che oscilla dal 1% al 28% di quelle realmente subite dalle donne.

 

Violenza sessuale: uno sguardo ai dati

La violenza sessuale risulta essere il reato in assoluto meno denunciato; secondo le stime degli studiosi che si sono occupati di questa problematica i casi di violenza sessuale che arrivano nelle stanze delle questure sarebbero solo una minima percentuale che oscilla, a seconda del metodo usato per rilevare i dati, dal 1% al 28% di quelle realmente subite dalle donne (U.S. Federal Bureau of Investigation, 1978; Koss, Dinero, Seibel, Cox, 1988; Ontario Women’s Directorate, 1992;  Rennison, 1999; McGregor, Wiebe, Marion e Livingstone, 2000; Istat, 1997, 2004).

In Italia la prima grande indagine sulla sicurezza dei cittadini è stata condotta nel 1997 dall’Istituto Nazionale di Statistica – ISTAT – (Sabbatini, 1998). Da tale indagine è emerso che 714.000 donne hanno subito uno stupro o un tentativo di violenza sessuale nell’arco della vita, di queste 185.000 nei tre anni precedenti l’indagine. Solo il 18% delle violenze sessuali è ad opera di estranei e solo l’11,6% degli stupri avviene per strada. La maggior parte delle aggressioni avvengono nella propria casa o in quella di amici o conoscenti; la maggior parte degli stupratori sono amici, conoscenti, fidanzati, parenti o colleghi di lavoro. Del totale delle donne intervistate che hanno dichiarato di aver subito una violenza sessuale nell’arco della vita, l’82% non ha denunciato il fatto, tale percentuale scende al 4% nel caso che l’autore della violenza sia un conoscente.

L’ultima indagine ISTAT (2004) ha sostanzialmente confermato l’andamento di questi dati: la percentuale di violenze sessuali ad opera di estranei continua ad attestarsi al 18%, ma quella delle vittime che hanno denunciato l’accaduto scende al 7,4%. Il dato risulta particolarmente allarmante se si tiene conto che le donne definiscono la violenza subita come “grave” (84,7%) e “molto grave” (57,6%) ma nonostante ciò, quasi un terzo delle intervistate dichiara di non aver mai parlato a nessuno, nemmeno a livello di confidenza personale, della violenza sessuale subita.

 

Cos’è lo stupro

Lo stupro secondo la legislazione italiana

In Italia, dal 1966 la violenza sessuale non si configura più come un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, bensì fra i delitti contro la persona, in particolare nel titolo dove sono disciplinati i delitti contro la libertà personale.

Con la legge n. 66/96, il nuovo reato di violenza sessuale congloba fattispecie prima distinte (violenza carnale, congiunzione carnale commessa con abuso delle qualità di pubblico ufficiale, atti di libidine violenta).

Diversamente dalla normativa previgente, il reato di violenza sessuale diventa una violazione del diritto della libera espressione della propria sessualità, indipendentemente dalle modalità con cui la condotta criminale si è manifestata. Il codice Rocco prevedeva, infatti, la distinzione tra violenza carnale e atti di libidine violenta: nella violenza carnale rientrava ogni fatto per il quale l’organo genitale del soggetto attivo o del soggetto passivo, era introdotto parzialmente o totalmente nel corpo dell’altro, gli atti di libidine consistevano in quegli atti che, pur diversi dalla penetrazione, si concretizzavano in ogni forma di contatto corporeo causante “manifestazione di ebbrezza sessuale”. Con la nuova legge del 1996, ogni atto sessuale, se imposto ad un soggetto dissenziente, comprime la libertà personale di quest’ultimo e comporta reato unico di violenza sessuale.

Oggi il procedimento giudiziale non necessita più dell’esatta ricostruzione dei fatti per accertare se vi sia stata o no penetrazione. Quello che è invece fondamentale è la “quantità” di violenza, intendendo in particolare quella  esercitata sul corpo di una persona non consenziente.

La normativa non spiega bene cosa si debba intendere per “atto sessuale”, generalmente è considerato atto sessuale il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona, con una zona genitale, anale od orale del partner. Altrimenti l’atto viene definito libidinoso, ma non sessuale (Cappai, 1997).

 

Cambiamenti storici della concezione di stupro

L’aggressione sessuale può includere un’ampia gamma di comportamenti, che vanno da baciare, accarezzare e molestare, fino al vero proprio stupro o tentativo di stupro. E’ un evento in cui non c’è il consenso della vittima, implica l’uso della forza, o la minaccia dell’uso della forza, in cui ci sia il tentativo, o l’effettiva, penetrazione nella vagina, o nella bocca, o nel retto della vittima.

La definizione tradizionale di stupro, derivata dal British Common Law, non contemplava la violenza su uomini e bambini, riguarda solo la penetrazione vaginale da parte del pene, esclude le violenze da parte del proprio marito e prevede un’estrema resistenza da parte della vittima, implicando, quindi, l’uso della forza.

Lo stupro da parte del proprio marito non veniva considerato, in quanto la donna con il matrimonio diventava una sua proprietà, l’uomo pertanto non poteva essere incolpato di un crimine contro se stesso.

Negli anni sessanta, la definizione legale di stupro è stata riformulata grazie all’influenza dei movimenti femministi che auspicavano ad un linguaggio privo di differenze di genere e al riconoscimento dello stupro come crimine violento e, non solo, come una forma di appagamento di un impulso sessuale.

Negli anni ottanta, il concetto di stupro è stato nuovamente riformato, includendo la possibilità di violenza sessuale da parte del marito e vietando l’inclusione della storia personale della vittima nel corso del procedimento giudiziario (tutti i 50 Stati Usa hanno riformulato il concetto di stupro). Il termine di “uso della forza”, è stato sostituito con quello di “non consensuale”.

 

Stupro e guerra

Lo stupro è un atto di violenza, aggressione, dominio, nonché un atto sessuale.

I Crociati, nei loro sacri pellegrinaggi per liberare Gerusalemme dai musulmani tra l’XI e il XII secolo, violentavano le donne mentre attraversavano l’Europa; i tedeschi commisero stupri mentre avanzavano in Belgio durante la prima guerra mondiale; le forze statunitensi stuprarono donne e bambine durante i rastrellamenti e le distruzioni dei villaggi vietnamiti; i soldati irakeni hanno stuprato e brutalizzato le donne durante l’occupazione del Kuwait nel 1990; i soldati maschi, nelle basi di addestramento dell’esercito statunitense, hanno stuprato donne soldato sotto il loro comando.

Nel giugno del 1996, un tribunale delle Nazioni Unite ha annunciato il rinvio a giudizio di otto soldati e poliziotti serbo-bosniaci, per lo stupro di donne musulmane durante la guerra in Bosnia del 1992-1993. Ciò che di notevole ha questa azione è che, per la prima volta, l’aggressione sessuale è stata trattata separatamente come crimine di guerra. In precedenza, come nel processo di Norimberga che giudicò i crimini di guerra nazisti durante la seconda guerra mondiale, lo stupro non veniva specificamente menzionato.

Lo stupro di guerra sarà portato d’ora in avanti all’attenzione della comunità internazionale.

 

Relazione vittima-aggressore nella definizione di stupro

La relazione fra la vittima di violenza sessuale e l’aggressore, è risultata essere uno dei fattori più importanti, usati sia dalla vittima che dagli altri in generale, per definire il contatto sessuale come stupro o come comportamento consensuale; ad es. Koss et al. (1988) hanno messo in luce come le vittime di persone conosciute difficilmente etichettano la loro esperienza come “stupro”.

La violenza sessuale è più facilmente definita tale quando l’aggressore è uno estraneo; inoltre quando l’assalitore è uno sconosciuto, la vittima ha maggiore probabilità di reagire fisicamente e ha quindi maggiori probabilità di riportare ferite fisiche, tutti fattori che incidono sulla decisione di denuncia (Ruback e Ivie, 1988).

 

Acquaitance, date rape e vittimizzazione nello stupro

Esistono vari tipi di violenza sessuale, distinguibili in base al contesto in cui sono collocati.

Sul piano scientifico è stata la ricerca di Mary Koss e di Cheryl Oros (1982) che ha fatto emergere l’esistenza di quelli che sono stati definiti dalla letteratura “acquaitance rapes” e “date rapes”, termini che stanno ad indicare rispettivamente quelle violenze sessuali in cui lo stupratore è un conoscente della donna o che avvengono in occasione di un appuntamento romantico.

La violenze sessuali di questo genere sono molto più numerose degli stupri da parte di estranei, anche se molto più difficilmente arrivano a conoscenza dell’opinione pubblica.

Le vittime dello stupro “da appuntamento” tendono ad essere incolpate per la violenza sessuale subita e anche a incolpare se stesse, più di quanto non facciano le donne violentate da estranei; in fondo, le vittime, si sono associate di loro spontanea volontà agli uomini che poi le hanno violentate.

Questi fenomeni sono rimasti per anni nell’ombra a causa del silenzio delle vittime: silenzio che numerose ricerche hanno imputato principalmente al mancato riconoscimento dell’esperienza come una violenza sessuale da parte della donna stessa (Pitts e Schwartz, 1993; Kahn, Mathie e Torgler, 1994; Smith, 1994; Finkelson e Oswalt, 1995; Linden, 1999; McGregor et al., 2000; Boundurant, 2001; Fischer, Daigle, Cullen e Turner, 2003; Kahn, Jackson, Kully, Badger, Halvorsen, 2003).

In molti casi, le stesse vittime mostrano resistenza ad etichettare la propria esperienza come stupro e si riferiscono ad essa come “sesso non voluto” anche se, dai loro racconti, emerge che esse avevano chiaramente espresso il loro rifiuto ad un rapporto sessuale, spesso opponendo anche qualche forma di resistenza fisica (Kahn et al., 2003).

 

Il roipnol come droga dello stupro

Uno sviluppo recente relativo allo stupro “da appuntamento” è il ricorso al tranquillante ROIPNOL. Questo farmaco, completamente inodore e insapore, può essere facilmente aggiunto a una bibita e, se ingerito, fa perdere i sensi e rende confuso il ricordo di quanto accade. I violentatori si servono del ROIPNOL  per violentare le donne con cui escono. Nell’agosto del 1996, fu approvata una legge federale, negli Stati Uniti, che prevedeva la possibilità di aggiungere fino a un massimo di vent’anni a una pena detentiva per stupro e per altri reati violenti nel caso in cui fosse stato utilizzato questo tipo di farmaco.

 

La violenza sessuale su uomini

Per quanto concerne la violenza sessuale su vittime maschili, una ricerca piuttosto recente (Pino e Meier, 1999) sostiene che questo tipo di violenze, generalmente considerate una degenerazione degli ambienti carcerari o omosessuali, è sottovalutata e non vi viene prestata la dovuta attenzione. Gli uomini non solo sono culturalmente meno abituati ad esternare le proprie emozioni ma, siccome i casi di denuncia sono quasi inesistenti, non hanno neanche la possibilità di identificarsi con le altre vittime.

La ricerca è stata effettuata utilizzando i dati del National Sample Rape Subset  del National Crime Victimization Survey, prendendo in considerazione gli anni tra 1979 ed il 1987 (897 casi di cui 81 uomini).

Gli uomini hanno meno probabilità di subire violenza sessuale all’interno delle mura domestiche, mentre hanno maggiore probabilità di essere violentati durante il giorno, da più di un assalitore, in un’area pubblica e da una persona sconosciuta.

Le donne hanno più probabilità di riportare ferite e di subire penetrazione anale o vaginale; per le donne, inoltre, lo stupro può andare più facilmente incontro ad altre complicazioni: una gravidanza, disturbi del comportamento sessuale, malattie a trasmissione sessuale, disfunzioni sessuali e Disturbo da Stress Post-Traumatico.

 

Leggi anche:

  (parte 2): come e perché agisce lo stupratore?

(parte 3): perché il silenzio? Il senso di colpa nelle vittime di violenza

(Parte 4) Effetti dello stupro sulle vittime

Psicoterapia: le donne vogliono parlare, gli uomini vogliono una soluzione rapida

Un recente studio ha riscontrato che donne e uomini tendono a perseguire differenti obiettivi durante il percorso psicoterapico. In generale, le donne vogliono avere tempo per parlare dei loro sentimenti, mentre gli uomini mirano a sistemare in fretta le cose.

 

Uomini e donne: cosa si aspettano dalla psicoterapia

La ricerca, condotta dalla Dott.ssa Katie Holloway dell’Università di Portsmouth (Inghilterra) e colleghi, è stata presentata in occasione dell’annuale conferenza tenuta dal dipartimento di Psicologia Clinica della British Psychological Society a Liverpool.

I ricercatori hanno chiesto a 20 terapeuti esperti (psicologi clinici, counselor e psicoterapeuti) se nell’esercizio della loro professione avessero riscontrato differenze di genere nei loro pazienti, in qualche aspetto del loro lavoro. Ciascun terapeuta ha identificato differenze tra uomini e donne in uno o più aspetti della terapia, e il risultato complessivo suggerisce che, in generale, gli uomini cercano una soluzione rapida ai loro problemi, mentre le donne vogliono parlare dei loro sentimenti.

Un risultato interessante è che l’80% circa del terapeuti ha mostrato una certa riluttanza nel parlare direttamente di differenze di genere nei bisogni dei loro pazienti. Questo potrebbe essere dovuto alla cultura generale del mondo accademico, dove discussioni sulle similarità tra generi sono ritenute più accettabili rispetto alle discussioni sulle differenze di genere, come ha suggerito il Dr. John Barry della University College London (Inghilterra). Egli ha anche aggiunto che, tuttavia, il trattamento psicologico potrebbe essere più efficace per gli uomini se tenesse più in considerazione le differenze di genere.

 

Gli orientamenti psicoterapici richiesti da uomini e donne

In un secondo studio presentato in concomitanza alla conferenza, Louise Liddon della Northumbria University (Newcastle, Inghilterra) e colleghi hanno chiesto a 347 persone di condividere con loro quale tipo di terapia avrebbero voluto fare in caso di necessità.
Uomini e donne del campione di studio, metà dei quali hanno riferito di aver seguito alcune forme di terapia, hanno mostrato alcune similitudini nelle loro preferenze, ma anche alcune differenze chiave. Ad esempio, gli uomini tendevano a preferire una terapia che implica dare e ricevere consigli all’interno di un gruppo informale. Le donne, invece, tendevano a preferire psicoterapie dinamiche, dove la discussione si focalizza su sentimenti ed eventi passati.

Sono emerse, inoltre, interessanti differenze nelle strategie di coping: le donne utilizzano più degli uomini il cibo come conforto, mentre gli uomini usano sesso e pornografia per il medesimo scopo, più delle donne.

[blockquote style=”1″]Nonostante il fatto che gli uomini commettano il suicidio dalle tre alle quattro volte in più rispetto alle donne, gli uomini non ricercano aiuto psicologico così tanto[/blockquote] ha affermato Barry. Questo potrebbe essere dovuto al fatto che i tipi di trattamento offerti sono meno appetibili per gli uomini poiché molti di essi consistono più nel parlare dei problemi che nel sistemarli.

I pericoli della natura

La paura degli eventi naturali un tempo era qualcosa di più della paura. Era panico e terrore, un sentimento di ordine cosmico. Il panico era terrore dell’ira degli dei, non paura di terremoti, frane, slavine, inondazioni. Malgrado si tratti di un’emozione, il panico ha più i caratteri di un fatto esterno che di interiore. Già il timore di Dio era passato a essere stato interiore, non panico. Il panico è un’emozione esterna, in cui la minaccia è terrificante perché l’individuo sente messo a rischio il suo senso di protezione e di sicurezza.

Gli esseri umani creano legami sociali molto profondi che connotano il loro luogo di vita e di crescita, la loro tana, in termini non solo di protezione ma anche di relazione con gli altri membri della famiglia e del clan. Il nostro senso di cura e sicurezza è così sviluppato che la minaccia a esso genera uno stato di disorientamento così intenso da essere percepito non come paura interna, ma come panico, possessione esterna da parte di un dio o un essere demoniaco.

Non basta. Quando i legami familiari e sociali sono saldi e sicuri, questi alimentano la salute psicologica degli esseri umani per tutta la vita. La carenza di questi legami invece genera sentimenti di desolazione e infelicità, mentre il ricongiungimento genera un senso di conforto e sicurezza. Insomma, il panico non ha molto a che vedere con la paura, perché sono diversi i circuiti neurali ed è diversa la reazione.

La paura, a differenza del panico, è percezione di un pericolo specifico che non mette rischio il nostro senso di protezione e di cura. Di fronte a pericoli specifici, che non mettono a rischio la nostra sicurezza, abbiamo a disposizione la fuga oppure possiamo perfino contrattaccare. Così si spiega la capacità della paura di rovesciarsi in rabbia, e viceversa. Non così il panico, per il quale non c’è fuga ne attacco. C’è la paralisi terrifica, il raggelamento delle funzioni vitali, il freezing, nel quale godiamo di una flebile speranza di sopravvivenza. In quelle condizioni di rallentamento delle funzioni vitali, sopravvivere diventa leggermente più facile.

Con la modernità il nostro controllo sulla natura è enormemente aumentato. Questa ossessione del controllo, che pure ci ha liberati dalla paura e tanti benefici ci ha portato in termini di sicurezza e benessere, genera però una curiosa incapacità di comprendere i nostri limiti e la nostra vulnerabilità. Pare che negli Stati Uniti i programmi di meteorologia dominino il palinsesto, in una lotta infinita tra disastri imprevedibili e volontà ferrea di prevedere tutto, compreso l’imprevisto dei terremoti.

Questo progresso ci permette di pensare pensieri diversi. La natura non ci fa più paura. O meglio non ci ispira più terrore. E quando leggiamo sui giornali di disastri naturali, non proviamo più il panico reverente che si deve alla natura, ma fastidio, il fastidio che si riserva alle cose che non sono andate come avremmo desiderato.

Questo però a patto di non essere li, di fronte al disastro. Di non essere a Rigopiano davanti alla slavina che rotola spaventosa giù dalla montagna o in Giappone durante lo Tsunami. In quel caso non cambia la nostra reazione al pericolo naturale: torna il panico terrificante.  Solo le vittime tornano a contatto con il sentimento di potenza della natura di fronte alla quale siamo indifesi.

Non così noi, affaccendati lettori di giornali nei caffè cittadini. La notizia del disastro si trasforma in un ennesimo dibattito tra esseri umani inclini alla chiacchiera, tutti espertissimi di sicurezza, di protezione civile e di organizzazione dei soccorsi. Eppure tutta questa razionalità malposta, se schiva l‘esperienza cosmica del panico e del terrore della natura, finisce per sfociare in un’altra esperienza altrettanto arcaica: la ricerca del colpevole, del capro espiatorio su cui caricare la colpa del disastro e da espellere dal gruppo sociale. Curioso ping pong tra razionalità e riti arcaici. E così si dibatte infinitamente di responsabilità e si imbastiscono innumerevoli processi.

I social media e il loro utilizzo notturno: gli effetti negativi

Secondo una nuova ricerca, un ragazzo su cinque si sveglia nel mezzo della notte per inviare o controllare un messaggio proveniente da qualche social media. Questa iper-attività notturna porta questi ragazzi ad esser sempre più stanchi e poco reattivi nelle attività scolastiche rispetto ai loro coetanei che la notte preferiscono dormire senza interrompere il loro riposo, e potrebbe compromettere la loro felicità e il loro benessere.

 

L’utilizzo notturno dei social media e gli effetti che ne derivano

Sono stati reclutati oltre 900 alunni, di età compresa tra i 12 e i 15 anni ed è stato chiesto loro di compilare un questionario su quanto spesso si svegliano nel cuore della notte per usare i social media. E’ stato chiesto loro anche quanto sono felici dei vari aspetti della loro vita, compresa la vita scolastica, le amicizie e quanto sono soddisfatti del loro aspetto fisico.

1 ragazzo su 5 ha affermato che “quasi sempre” si sveglia di notte per verificare se ha ricevuto un messaggio da una ragazza. Tutti quei ragazzi che hanno ammesso di svegliarsi nella notte, o comunque in un momento che non corrisponde all’ora della sveglia mattutina per utilizzare i social media, hanno constatato che erano costantemente stanchi a scuola rispetto ai loro coetanei che hanno affermato di avere un sonno continuo senza risvegli.
Inoltre, quegli stessi studenti che hanno ammesso di essere sempre stanchi a scuola sono, in media, meno felici rispetto ai loro coetanei.

Questa ricerca mostra che un significativo numero di ragazzi affermano che molto spesso si recano a scuola con una sensazione di stanchezza, e questi sono gli stessi giovani che hanno livelli più bassi di benessere.

Circa un terzo dei ragazzi intervistati si svegliano almeno una volta a settimana nel cuore della notte per controllare eventuali messaggi. L’utilizzo, sempre più massiccio, dei social media invade sempre più quello che per decenni è stato definito il “santuario” della camera da letto.

I risultati di questo studio supportano le crescenti preoccupazioni circa l’utilizzo notturno dei social media. Tuttavia, a causa della complessa gamma di possibili cause e spiegazioni per il quale i ragazzi hanno questa sensazione di stanchezza a scuola, saranno necessari ulteriori studi prima di giungere a conclusioni definitive.

Al di là dell’amore e dell’odio per il cibo (2003) di Giorgio Nardone – Recensione del libro

Un piccolo libro, quello di Giorgio Nardone, che non conta nemmeno 100 pagine ma riesce ad aprire strade del sapere di oltre 100 anni fa partendo da un importante precisazione: nessun autore può illudersi riguardo al fatto di essere stato il primo a pensare qualcosa, poiché come ci ricorda Goethe “tutti i pensieri intelligenti sono già stati pensati, occorre solo tentare di ripensarli”.

 

Ogni capitolo, ogni paragrafo è aperto da una frase di un letterato, di un filosofo, di un maestro antico che sembra descrivere quel meccanismo, quell’emozione che sottende a quello specifico disturbo del comportamento alimentare.

 

Giorgio Nardone e la Terapia Strategica

Giorgio Nardone rappresenta uno dei maggiori esponenti delle Terapia Strategica, ovvero l’arte di risolvere complicati problemi mediante apparenti facili soluzioni in breve tempo, e ce la spiega nel suo libro con un tuffo nel passato.

Lo storiografo Plutarco narra che in una città greca avvenne una situazione: tante giovani donne si suicidavano senza alcuna apparente motivazione. A nulla servirono i controlli dei parenti e le varie misure di sicurezza. Allora venne chiesto aiuto ad un vecchio saggio della zona che suggerì di emanare un decreto secondo cui ogni giovane donna suicida sarebbe stata esposta nuda sino alla putrefazione del corpo nella piazza della città. Non ci furono più suicidi, questo saggio aveva colto il funzionamento di un comportamento patologico e la sua “prescrizione terapeutica” lo aveva rovesciato su se stesso, conducendolo alla sua autodistruzione. Davvero straordinario questo passo per carpire qualcosa di illuminante che era già nelle mani del passato e che, oggi rappresenta il fulcro degli interventi strategici.

Questo approccio va a focalizzarsi su come le patologie si mantengono attraverso quella complessa rete di interazioni tra i soggetti e la loro realtà che si svolge al presente, per cui la ricostruzione delle cause nel passato resta uno sfondo utile solo ai fini conoscitivi ma non terapeutici.

 

La classificazione dei disturbi alimentari proposta da Giorgio Nardone

Originale la classificazione che Giorgio Nardone fa dei disturbi alimentari che non vuole rappresentare una diversa nosografia psichiatrica ma il frutto della ricerca-intervento effettuata su una numerosa casistica.

Giorgio Nardone ci presenta un’immagine delle componenti fondamentali che spesso guidano al costituirsi delle patologie alimentari, attraverso un affascinante passo di Voltaire:

La fame è un inizio di dolore che ci invita a nutrirci, la noia è un dolore che ci costringe a impegnarci in qualche attività, l’amore è un bisogno, se non soddisfatto diviene doloroso. L’eccesso è pernicioso in ogni campo: nell’astinenza come nella ghiottoneria, nell’economia come nella libertà.

Il libro comincia con la classificazione della Bulimia caratterizzata dall’irrefrenabile compulsione a mangiare, dovuta non tanto alla fame quanto al desiderio di ingerire cibo. Vengono distinte tre aree:

  • La bulimia boteriana: individui obesi a tal punto da apparire come i dipinti di Botero. Di solito sono ben adattati al loro problema, è come se avessero ceduto nel tempo alla loro condizione mettendo da parte ogni sogno di desiderabilità estetica, arrivano in terapia solo in quanto costretti da gravi problemi di salute.
  • La bulimia effetto “carciofo”: il loro sovrappeso rappresenta una sorta di protezione da sofferte problematiche affettivo-relazionali, la costante lotta con diete e bilance catalizza la loro completa attenzione, tenendoli al sicuro dagli altri problemi.
  • La bulimia jo-jo: perpetua alternanza tra controllo e perdita di controllo, il loro umore è fortemente influenzato dal successo o insuccesso nella gestione del rapporto col cibo e con la loro immagine estetica.

In tutti i casi ciò che aumenta la sintomatologia bulimica è proprio il cercare di reprimerla, il loro sforzo verso la direzione del controllo li conduce all’effetto contrario. Come sempre l’autore ce lo spiega bene attraverso delle famose parole di O.Wilde “il miglior modo per superare una tentazione è cedervi”.

Da qui quella che sembra una sorta di magia: “Puoi mangiare tutto quello che vuoi nei tre pasti, ma al di fuori di essi tutto ciò che mangi, lo devi mangiare cinque volte”. Il mago strategico sta assecondando l’inclinazione della patologia per poi dirottarla in direzione del cambiamento, suggerisce al soggetto di evitare controllo o limitazione del suo irrefrenabile impulso, ma al tempo stesso gli prescriverà di assumere la regola di mangiare cinque volte tanto ogni cosa inghiottita al di fuori dei pasti.

Questo è un esempio della tecnica studiata proprio per i casi di bulimia, utilizza la logica dello stratagemma di “far salire il nemico in soffitta e poi togliere la scala” unita a quello dello “spegnere il fuoco aggiungendo tanta legna”.

Giorgio Nardone passa poi all’anoressia, caratterizzata da un processo di astinenza dal cibo fino ad arrivare ad un vero e proprio rifiuto di esso. La tendenza all’astinenza non è rivolta solo al cibo ma anche nei confronti di ogni altra sensazione piacevole, è come se mettessero su di loro un’armatura che le protegge dalle sensazioni che le spaventano, ma al tempo stesso le imprigiona.

Questo processo viene paragonato ad un percorso ascetico che allontana pian piano dalle sensazioni terrene, non è un caso che sante come Santa Caterina fossero anoressiche, in loro ascesi religiosa e ascesi anoressica si sono alimentate a vicenda. In queste situazioni hanno un ruolo fondamentale i familiari i cui tentativi di intervento decisamente ragionevoli, non calzano con l’irragionevolezza del problema. Spesso se nella famiglia ci sono più figli , l’essere “malati” rappresenta un vero e proprio vantaggio, per cui la guarigione diventa un pericolo da combattere. Anche in questi casi le prescrizioni appaiono illogiche in quanto si legano perfettamente con la logica anoressica, stupiscono soprattutto le famiglie e forse anche ai lettori.

Un’altra interessante classificazione è quella della sindrome da vomito, che nella letteratura specialistica è contemplata solo come una variante dell’anoressia o della bulimia. Le ricerche sui tanti casi hanno permesso la definizione di questa nuova forma di disturbo alimentare che, si distingue dagli altri per le sue specifiche caratteristiche di compulsione rituale basate sulla ricerca di estremo piacere.

Ciò che ancora la differenzia dalle altre patologie è il fatto che venga a costituirsi come una sorta di perversione, basata sul piacere di mangiare e vomitare: ossia un vero e proprio rituale erotico, piuttosto che un comportamento guidato dal bisogno di essere magri. Anche qui Giorgio Nardone ci apre un varco curiosando sulla vita di un illustre filoso dell’edonismo: Epicureo. Pare che lui si abbuffasse e vomitasse due volte al giorno per pura ricerca del piacere, cosi come alternava periodi di alimentazione a pane e acqua per potersi godere di più le successive abbuffate e vomitate, tanto da affermare che “principio e radice di ogni bene è il piacere del ventre”. Come per l’anoressia è importante entrare nella non ordinaria logica che guida le percezioni e le reazioni del soggetto, per poter poi introdurre in modo strategico quei piccoli perturbamenti in grado di innescare la reazione a catena del cambiamento.

La logica che guida in questo caso gli interventi strategici è: il limite di un piacere è rappresentato da un piacere più grande o dalla sua trasformazione in sgradevole tortura.

Vengono descritti nella classificazione anche altri disturbi come il binge-eating , l’ortoressia e altre fissazioni alimentari, ma per tutti i disturbi elencati di grande interesse è la lettura dei casi e la risoluzione strategica di essi.

Per me che non sono una psicologa ad orientamento strategico è stato molto coinvolgente questo libro, apre nuove strade connettendole sempre al passato, ci mostra nuove foglie senza mai dimenticare quali siano le radici. Come sappiamo nella pratica strategica non basta solo dare prescrizioni, l’abilità del terapeuta sta nell’usare le parole, le intonazioni, i movimenti del corpo per influire sul comportamento degli altri. Una sorta di magia ipnotica.

Vortioxetina: benefici ed effetti collaterali del nuovo farmaco antidepressivo

Nel mese di settembre 2013 un nuovo antidepressivo, la vortioxetina, è stato approvato dalla Food and Drug Administation negli Stati Uniti con il nome commerciale di Brintellix®.

 

Vortioxetina: dosaggi e tipologia del farmaco

La dose di partenza raccomandata è di 10 mg/die da assumere per bocca una volta al giorno senza preferenze sull’orario di somministrazione.

La dose può essere aumentata fino a 20 mg/die, ma dosi di 5 mg si sono rivelate efficaci in soggetti intolleranti a dosaggi maggiori.

Dopo la scoperta dei triciclici e degli inibitori delle monoamminoossidasi, sono state sviluppate ed approvate nel tempo nuove classi di antidepressivi, come gli SSRI (inibitori del reuptake della serotonina), gli SNRI (inibitori della serotonina e della noradrenalina), il bupropione (dopamina e noradrenalina), la mirtazapina (adrenalina, noradrenalina, serotonina ed istamina) e ultimamente l’agomelatina (melatonina) in Europa.

La vortioxetina è considerato un antidepressivo multimodale: agisce come antagonista sui recettori 5-HT3A e 5-HT7, agonista parziale sui recettori 5-HT1B ed agonista sui 5-HT1A determinando una potente inibizione del reuptake della serotonina.

I dati pre-clinici suggeriscono che questi multipli ed unici effetti su diversi recettori della serotonina determinano un aumento della trasmissione regionale della noradrenalina, dopamina e del glutammato.

La vortioxetina è metabolizzata da diversi enzimi epatici (ad esempio CYP2D6, CYP2C9, CYP3A4/5, CYP2A6 e CYP2C19) ed i livelli ematici non sembrano essere condizionati in maniera significativa dall’assunzione concomitante di altri farmaci.

L’emivita è di circa 57 ore ed i sintomi da sospensione dopo aver dimenticato una dose o dopo un’interruzione brusca del trattamento sono infrequenti.

 

Vortioxetina: benefici ed effetti collaterali

Gli effetti collaterali più frequentemente riportati sono stati nausea (10-20%), cefalea (15%), diarrea (7-11%), xerostomia ed iperidrosi (meno frequenti).

I benefici dall’utilizzo di questo farmaco sarebbero una scarsa sonnolenza ed insonnia, una scarsa tendenza all’aumento ponderale e minori effetti collaterali sulla sfera sessuale rispetto ai serotoninergici.

L’efficacia e la sicurezza della vortioxetina sono state studiate in numerosi studi randomizzati in doppio cieco versus placebo, con una durata della terapia di 6-8 settimane.

Una meta-analisi della vortioxetina negli adulti con disturbo depressivo maggiore dimostra che gli effetti terapeutici sono dose-dipendenti.

Inoltre, l’efficacia e la sicurezza di vortioxetina al dosaggio di10 mg/die sono state studiate in trials controllati randomizzati, anche se sono necessari altri studi per validare i risultati ottenuti.

 

Conclusioni

In conclusione, la vortioxetina costituisce una valida ed innovativa opzione terapeutica nel trattamento della depressione maggiore, soprattutto nei casi che non rispondono in modo soddisfacente ad altri farmaci antidepressivi.

Alla fine del mese di dicembre 2015 la vortioxetina ha avuto l’approvazione per la commercializzazione dalla Commissione Europea.

In Italia il farmaco è in commercio dal 12 maggio 2016 con lo stesso nome (Brintellix®) nelle formulazioni in compresse da 5 mg (classe A), 10 mg (classe A) e 20 mg (classe C).

Abbraccialo per me di Vittorio Sindoni (2016) – Cinema e Psicologia

Il film Abbraccialo per me si colloca nel filone della commedia italiana drammatica di argomento psichiatrico che conta ormai diversi esempi interessanti, a partire da Si può fare di Giulio Manfredonia fino al più recente (e bellissimo) La pazza gioia di Paolo Virzì.

 

Abbraccialo per me: la trama

La storia si svolge in un piccolo paese della Sicilia e ha come protagonista una famiglia piccolo borghese (padre madre e due figli) che si trova alle prese con una grave malattia mentale del primogenito Ciccio. Il protagonista passa ben presto dai disturbi della condotta a presentare una franca sintomatologia psicotica con allucinazioni visive e uditive.

La mentalità chiusa e antiquata dei compaesani rende la gestione del disagio molto difficile e la famiglia si trova a lottare ben presto con l’ignoranza e lo stigma nei confronti della malattia.

 

Abbraccialo per me – TRAILER:

 

Abbraccialo per me: considerazioni psicologiche sulle dinamiche familiari

La madre (Stefania Rocca) recita bene la parte di una madre iperprotettiva e per certi aspetti psicotizzante, che ama il figlio tantissimo ma non riesce ad aiutarlo nel suo processo di autonomizzazione. Quello del legame simbiotico madre-figlio è un quadro assolutamente verosimile nella psicosi, che si incontra spesso in ambito clinico.

Il padre, molto può duro e pragmatico entra invece spesso in conflitto con Ciccio e la malattia rappresenterà il fattore precipitante di una grave crisi famigliare. Le figure curanti nel film risultano per lo più incapaci di rispondere ai bisogni della famiglia e c’è sicuramente un atteggiamento di denuncia verso una psichiatria solo biologica che usa i farmaci per alleviare il sintomo senza curare la persona e il suo contesto.

Ci sono brutti ricoveri in brutti ospedali, effetti collaterali dei farmaci, fino all’accenno alla famigerata cardiotossicità dei neurolettici (argomento molto attuale nella psichiatria dei nostri giorni). Purtroppo, soprattutto in certe zone più culturalmente arretrate del nostro paese, situazioni come queste sono ancora presenti e per questo il film può lasciare l’amaro in bocca e fare arrabbiare anche gli operatori che lo guardano. Viene da chiedersi, ma siamo messi proprio così male (nessuna psicoeducazione, nessun lavoro con i famigliari, nessun accenno alla riabilitazione…)?. Sembra una situazione di cinquant’anni fa, ma è tristemente realistica. Nel finale spunta fuori una comunità dal volto più umano, che concede un barlume di speranza troppo debole rispetto al disastro precedente.

 

Conclusioni

Nel film c’è un accenno alla musica come strumento riabilitativo soprattutto sul piano sociale (Ciccio suona la batteria e questo gli permette di stare e suonare insieme ai suoi coetanei). C’è anche qualche concessione alla retorica, come la scena in cui viene suonata la famosa canzone di Cristicchi Ti regalerò una rosa, che rimane sempre un gran pezzo, ma rischia di diventare un po’ ridondante in un film che parla di follia. Sicuramente un film che vale la pena vedere, a condizione che non si pensi che la salute mentale funzioni sempre così (male) e non ci si arrenda al pessimismo distruttivo.

Psicodinamica del trauma: i contributi psicoanalitici sugli eventi traumatici

Psicodinamica del trauma: L’osservazione psicoanalitica ha da sempre ritenuto i traumi psichici come fattori rilevanti sia per la diagnosi che per la terapia dei disturbi psichici. Il Manuale Diagnostico Psicodinamico (PDM; AA.VV., 2006/2008), infatti, nella sezione dedicata ai traumi psichici e ai disturbi post-traumatici da stress include maggior materiale di quello presente nella sezione dedicata agli altri disturbi mentali, proprio per la rilevanza delle esperienze traumatiche nell’eziopatologia psichica.

 

Psicodinamica del trauma: il trauma come lacerazione dell’Io

Con Al di là del principio di piacere (Freud, 1920) il concetto di trauma come “corpo estraneo” nel tessuto psichico, espresso da Freud nel 1895, viene sviluppato da un punto di vista psico-economico. Secondo Freud, l’evento traumatico è connotato da un’eccitazione talmente elevata da rendere inefficace la barriera antistimolo, pertanto l’individuo non può elaborare psichicamente l’evento. Si parla, quindi, di trauma quando l’Io non è in grado di mobilitare un controinvestimento all’iper-eccitazione esterna o di legarla all’investimento pulsionale (Mangini, 2001). Nel 1926, Freud, in Inibizione, sintomo e angoscia definisce, infatti, l’essenza del trauma in una sensazione di impotenza dell’Io di fronte ad eccitamenti interni o esterni; con l’evento traumatico si ha, quindi, la lacerazione della capacità difensiva dell’Io (Freud, 1964). Per la psicodinamica del trauma, quindi, il trauma può essere dovuto anche a cause interne, quando un avvenimento non traumatico di per sé genera una particolare reazione. Questa posizione è da ricondurre al passaggio dalla teoria della seduzione infantile all’idea delle fantasie sessuali infantili. In realtà, purtroppo, la ricerca epidemiologica ha poi evidenziato quanto siano frequenti i traumi sessuali infantili (Herman, 1981).

 

Psicodinamica del trauma: la nevrosi traumatica e la psiconevrosi

Come già detto, Freud in un primo momento con il termine “trauma” si è riferito ad un accadimento esterno. In seguito distingue la nevrosi traumatica, generata da un evento esterno che provoca una reazione di shock, dalla psiconevrosi. Nel caso della nevrosi traumatica si ha una rottura dello scudo protettivo di fronte ad un afflusso di stimoli pericolosi, davanti ai quali l’individuo è impreparato. Freud propone, quindi, che l’essenza del trauma sia un incremento di stimolazione che trova l’apparato psichico impreparato a gestirlo e a lavorare nel modo consueto (Freud, 1915-17).

La psiconevrosi si caratterizza, invece, per l’assenza di un evento esterno traumatizzante. I meccanismi difensivi, in questo caso, sono mobilitati di fronte ad un pericolo interno, ad una percezione di impotenza, di pericolo e possibile dolore. Sarebbe, quindi, il principio di piacere (evitamento del dispiacere) a generare la psiconevrosi (Freud, 1926). Sempre usando la metafora dello scudo protettivo, nel caso della psiconevrosi la rottura sarebbe parziale, mentre nel caso della nevrosi traumatica si ha una totale rottura dello scudo protettivo.

Nel 1926 Freud afferma, però, che [blockquote style=”1″]L’essenza di una situazione traumatica è l’esperienza d’impotenza di una parte dell’ego di fronte ad un accumulo di eccitazione che origina o esternamente o internamente all’individuo[/blockquote] (p.81). La nevrosi traumatica sembra, quindi, perdere l’entità nosologica, come sottolineato da diversi autori (Baranger, Baranger, & Mom, 1988; Blum, 1996; Zepf & Zepf, 2008). Quello che caratterizza la nevrosi traumatica è la perdita di una misura di significato (van der Kolk et al., 1996/2004). L’esperienza di perdita di significato sarebbe simile all’esperienza della nascita, in cui il bambino si trova invaso da stimoli a cui non può attribuire un significato. La corteccia cerebrale del nascituro, in particolare la corteccia frontale, non è, infatti, ancora sufficientemente mielinizzata e non è quindi possibile una rappresentazione psichica dell’esperienza (Cortina, 2001).

Nella psiconevrosi, quindi, l’apparato psichico si mobilita, tramite i meccanismi di difesa, di fronte ad un anticipatorio segnale d’ansia; nella nevrosi traumatica l’apparato psichico si trova invece sovrastato e non può prevenire la situazione traumatica.
La rottura dello scudo protettivo sarebbe, quindi, una metafora dello stato di inabilità delle funzioni dell’Io in seguito ad un “trauma distruttivo”. L’Io non mobilita le proprie difese a causa di un’iperstimolazione, ma in occasione di affetti spiacevoli. Di fronte ad un trauma distruttivo la prima esperienza è di eccitazione, non di ansia.

 

Psicodinamica del trauma: la coazione a ripetere e l’incomunicabilità del trauma

La ricerca psicoanalitica ha anche evidenziato la tendenza delle persone traumatizzate a ripetere l’esperienza (coazione a ripetere). Questo fenomeno può essere ricondotto a ciò che è la componente essenziale del trauma: il vissuto di impotenza. La persona può, quindi, inconsapevolmente tentare di rivivere il trauma per viversi finalmente come “potente” di fronte ad esso. I sintomi intrusivi, caratterizzati da sogni e dal “rivivere l’esperienza” servirebbero proprio a fare sentire l’individuo in grado di gestire la situazione traumatica (Zepf & Zepf, 2008). Secondo Freud, la coazione a ripetere era dovuta alla pulsione di morte ma, molti autori, oggi sostengono che è una conseguenza dell’introiezione dell’aggressore (Bonomi, 2002; Boulanger, 2002; Frankel, 2002; Stern, 2002). L’introiezione ha una natura aggressiva, in quando l’altro viene ucciso, nel senso che “scompare come parte della realtà esterna” (Ferenzci, 1932, p.162). L’introiezione sarebbe, infatti, la causa della sintomatologia depressiva, di quella psicosomatica e dei sensi di colpa che spesso prova la vittima (Auerhahn & Peskin, 2003; Blum, 2003; Boulanger, 2002; Grubrich-Simitis, 1984; Hoppe, 1968).

Con lo sviluppo delle teorie della relazione oggettuale, il focus dell’attenzione si è spostata dall’Io, che non riesce a gestire il sovra-eccitamento, alla relazione oggettuale. Secondo questo modello, il nucleo problematico dell’esperienza traumatica consiste nella sua natura di esperienza difficilmente comunicabile: [blockquote style=”1″]una catastrofica solitudine, un abbandono interno attraverso cui il Sé non solo viene paralizzato nelle sue possibilità d’azione, ma annichilito, e a ciò si associano angoscia di morte, odio, vergogna e disperazione.[/blockquote] (Bohleber, 2007, p.381). La caratteristica dell’esperienza traumatica è quindi l’incomunicabilità e la possibilità di legare l’esperienza psichica attraverso il suo significato.

Riprendendo i risultati delle ricerche cognitive di van der Kolk (1994), secondo cui la stimolazione estrema isola i ricordi in singoli elementi (visivi, somatosensitivi, affettivi e sensoriali) che, seppur mantenuti in memoria, in tale forma non possono essere integrati in un ricordo narrativo, Bohleber (2007) descrive il punto di vista di molti psicoanalisti, secondo cui un contenuto traumatico non-simbolico e non-mutabile, sarebbe causato da un Sé inattivo nel momento dell’esperienza traumatica. Tale concezione del ricordo traumatico è però disconfermata dall’esistenza di traumi estremi che non danno origine ad amnesia psicogena.

Secondo Bohleber, quindi, è più plausibile la tesi secondo cui le esperienze traumatiche, e i loro ricordi, non hanno un funzionamento dinamico specifico, ma limitato; in altre parole, sono soggette ad una riformulazione ma in forma limitata, andando a formare un rete psico-associativa, ma in forma di corpo estraneo dissociato. Il ricordo traumatico, quindi, secondo Bohleber subisce le stesse modificazioni del materiale non-traumatico ma non riceve codifica.

Il trattamento in fasi per la psicopatologia conseguente a sviluppo traumatico

Trauma: Con il termine sviluppo traumatico ci si riferisce a un tipo di storia di sviluppo che si verifica in contesti nei quali gli eventi traumatici tendono a ricorrere. Recenti studi epidemiologici dimostrano come i traumi cumulativi dell’infanzia siano strettamente correlati agli esiti psicopatologici in età adulta, i cui sintomi sembrerebbero appartenere ad un’unica sindrome il cui fondamento psicopatologico sarebbe costituito da processi mentali dissociativi (van der Kolk et al, 2005; Liotti e Farina, 2011b; Mears, 2012).

 

Il trauma

È possibile distinguere due tipologie di trauma: il trauma psicologico e il trauma complesso.

Con trauma psicologico ci si riferisce a una minaccia alla vita o all’incolumità propria o di altri, anche nella forma indiretta della trascuratezza durante l’infanzia e delle forme più gravi di misattunement comunicativo. Emozioni di intensità estrema, perdita di controllo, impotenza sono importanti aspetti della definizione di trauma psicologico (Liotti e Farina, 2011b).

Una frase di Herman (1992a) esplicita perfettamente tali concetti: “Il trauma psichico è il dolore degli impotenti. Nel momento del trauma, la vittima è resa inerme da una forza soverchiante”.

Con il concetto di trauma complesso si fa rifermento invece ad esperienze traumatiche cumulative di cui è prevedibile il ripetersi per lunghi archi di tempo ma a cui è impossibile sottrarsi. Esempi evidenti sono i traumi intrafamiliari a cui è esposto il bambino che vive in famiglie maltrattanti o neglecting.

 

Il concetto di dissociazione come tipica risposta al trauma

È noto che il trauma attiva arcaici meccanismi di difesa dalle minacce ambientali (in un primo momento immobilità tonica o freezing e successivamente immobilità cataplettica dopo le reazioni di attacco-fuga) provocando il distacco dall’usuale esperienza di sé e del mondo esterno e conseguenti sintomi dissociativi. Tale distacco sembra implicare una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive; si verifica quindi una dis-integrazione della memoria dell’evento traumatico rispetto al flusso continuo dell’autocoscienza e della costruzione di significati. Da questa esperienza deriva la molteplicità non integrata degli stati dell’io che caratterizza la dissociazione patologica (Liotti e Farina, 2011a).

Molto interessanti sono tre contributi della letteratura scientifica contemporanea allo studio della fenomenologia dissociativa.
 Primo fra questi è quello di Holmes e collaboratori (2005) che distinguono due differenti tipi di sintomi dissociativi: i fenomeni di detachment e quelli di compartmentalization.

I primi corrispondono alle esperienze di distacco da sé e dalla realtà (alienazione) e consistono nei sintomi come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’anestesia emotiva transitoria (emotional numbing), déjà vu, esperienze di autoscopia (out of body experiences); tipicamente attivate da emozioni dirompenti provocate da esperienze minacciose ed estreme (Lanius et al., 2010a).

I secondi emergono invece dalla compartimentazione di funzioni normalmente integrate come la memoria, l’identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari e corrispondono a sintomi come le amnesie dissociative, l’emersione delle memorie traumatiche, la dissociazione somatoforme, l’alterazione del controllo delle emozioni e dell’unità dell’identità (personalità multiple alternanti) (Liotti e Farina, 2011a).

I sintomi da compartimentazione, diversamente da quelli di distacco che possono essere esperiti da chiunque in situazioni estreme, sono tipicamente conseguenze dello sviluppo traumatico e sembrano alterare la struttura stessa della personalità dell’individuo (Chu, 2010; Classen et al., 2006; Lanius et al., 2010a; Liotti e Farina, 2011b).

Il secondo contributo teorico-clinico dimostra come la dis-integrazione delle funzioni psichiche correlata al trauma, provoca con frequenza disturbi somatoformi quali dismorfismi, somatizzazioni, sintomi pseudo-neurologici, sindromi dolorose in assenza di lesioni organiche, disfunzioni sessuali (Brown et al., 2007; Farina et al., 2011; Harden, 1997; Nijenhuis, 2009; Nijenhuis et al., 2003; Sar et al., 2004; Spinhoven et al., 2004).
A tal proposito colpisce il profondo concetto espresso nella frase “the body keeps the score” di van der Kolk (1994) come a dire che il nostro corpo è testimone e contenitore delle esperienze traumatiche.

Il terzo contributo mette in rilievo gli elementi comuni tra dissociazione e deficit di mentalizzazione. Le capacità metacognitive sarebbero estremamente sensibili sia all’effetto dirompente delle emozioni che ne alterano la normale operatività, che alle esperienze traumatiche infantili che ne compromettono lo sviluppo (Liotti e Prunetti, 2010).

 

I sistemi motivazionali interpersonali (SMI) coinvolti nella risposta al trauma

Due sistemi psicobiologici sembrano inevitabilmente coinvolti nella risposta al trauma: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento.
La disorganizzazione dell’attaccamento infatti può essere spiegata dal conflitto tra questi due sistemi motivazionali interpersonali (SMI).
 Questi due SMI in situazioni di pericolo, come l’esposizione ad un evento traumatico, agiscono in sinergia: nel momento in cui la protezione è garantita, il sistema di attaccamento si attiva con successo inibendo quello di difesa; in caso contrario l’attivazione del sistema di difesa sarà abnormemente protratta provocando l’alterazione della regolazione delle emozioni e dei significati personali, nonché sintomi dissociativi e la formazione di Modelli Operativi Interni (MOI) insicuri o meglio multipli caratterizzanti l’attaccamento disorganizzato.

Nello specifico, secondo la teoria polivagale di Porges (2001) le operazioni del sistema di difesa impegnano il sistema ortosimpatico (mobilizzazione, hyperarousal) e due diversi nuclei del sistema vagale, situati nel tronco encefalico e controllati da “neurorecettori” sensibili a informazioni di pericolo-sicurezza: il Nucleo vagale dorsale (immobilizzazione, hypoarousal) e il Nucleo vagale ventrale (inibisce il sistema di difesa, crea una “finestra” di arousal ottimale e permette l’impegno sociale). L’attività del sistema di difesa coinvolge dunque profonde modificazioni dell’esperienza soggettiva a livello senso-motorio, che si riflettono nei processi di costruzione di significato.

Appare chiaro dunque come nell’attaccamento disorganizzato il sistema di difesa e quello di attaccamento entrino in conflitto, creando una situazione di fright without solution (paura senza sbocco). Di conseguenza la Figura di Attaccamento (FdA) è tanto fonte quanto soluzione della paura del bambino e viene rappresentata allo stesso tempo come vulnerabile, minacciosa e protettiva. Analoga è la rappresentazione di sé: salvatore, persecutore e vittima della FdA, ma anche salvato da essa. Emerge dunque una frammentazione delle rappresentazioni di sé-con-l’altro (compartimentazione) e un’esperienza cosciente di tipo dissociativo (alienazione).

Ma il dato scientifico ancor più interessante riguarda lo sviluppo intorno ai 3-6 anni di età delle cosiddette strategie controllanti, create per proteggersi, nella relazione, da caos, impotenza e paura che caratterizzano la disorganizzazione (Liotti e Farina, 2011b).
Mediante la strategia controllante-punitiva i bambini cercano di organizzare i comportamenti di relazione col caregiver attraverso atteggiamenti ostili, coercitivamente dominanti o sottilmente umilianti. Risulta evidente come in questo caso si attivi il sistema motivazionale di rango al posto del sistema di attaccamento (Solomon, George, 2011).

Nella strategia controllante-accudente il bambino mostra, al contrario, condotte apertamente consolatorie e protettive nei confronti del genitore vulnerabile e palesemente sofferente per traumi o lutti irrisolti. In tal caso, appare chiaro come si attivi il sistema di accudimento in sostituzione del sistema di attaccamento (attaccamento invertito) (Solomon, George, 2011).
Infine, esisterebbero altre possibili varianti in cui è il sistema sessuale a vicariare le funzioni del sistema di attaccamento e altre in cui la strategia controllante-accudente richiede l’assunzione di un ruolo subordinato nel sistema di rango (Liotti, 2011).

Tali strategie controllanti possano essere considerate delle strategie “difensive”, poiché riducono la possibilità che il MOI disorganizzato emerga alla coscienza nella maggior parte delle situazioni quotidiane che possono risvegliare il sistema di attaccamento, preservando in tal modo il bambino dall’esperienza dissociativa. Tuttavia, di fronte a un’intensa attivazione del sistema di attaccamento, si assiste ad un collasso delle strategie difensive e al riemergere del MOI frammentato e drammatico e quindi della dissociazione (Liotti, 2004, 2011).

Gli eventi che inducono il collasso delle strategie controllanti sono gli antecedenti relazionali della comparsa di sintomi dissociativi nell’adulto che viene da una storia di attaccamento disorganizzato e di trauma complesso.

 

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) e il Disturbo Borderline di Personalità (DBP)

Una delle categorie diagnostiche proposte per definire il nucleo fondamentale del disturbo che consegue a uno sviluppo traumatico è il quadro clinico del Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) descritto da van der Kolk e colleghi nel 2005 che comprende sette gruppi di sintomi: alterazione della regolazione delle emozioni e degli impulsi, sintomi dissociativi e difficoltà di attenzione, somatizzazioni, alterazioni nella percezione e rappresentazione di sé, alterazioni nella percezione delle figure maltrattanti, disturbi relazionali, alterazioni nei significati personali.

Anche il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), il cui quadro clinico è caratterizzato da gravi difficoltà relazionali, dipendenza, impulsività, deficit nella regolazione delle emozioni e problemi dell’identità, è stato ampiamente associato al trauma relazionale precoce e al successivo sviluppo traumatico (Gunderson, 2009). Autori come Herman e van der Kolk tendono infatti a considerare il DBP sostanzialmente assimilabile al DPTSc.

Alcuni studiosi ipotizzano che sia proprio il disturbo dell’identità, assimilabile a una sorta di alterazione dissociativa con perdita di una visione unitaria di sé, accompagnata da esperienze di vuoto e di dolorosa incoerenza personale, l’aspetto centrale del DBP. Secondo questi autori la dis-integrazione delle funzioni mentali superiori, provocata da traumi relazionali precoci durante lo sviluppo (che si aggiungono alla predisposizione genetica) è la caratteristica centrale del DBP e della sua complessa sintomatologia (Bateman e Fonagy 2004, Farina e Liotti 2013). A sostenere questa ipotesi, tra gli altri, è lo psichiatra e psicanalista australiano Russell Meares che nel 2012 gli ha dedicato in modo esplicito il suo ultimo libro: A dissociation model of Borderline Personality Disorder (tradotto in Italia nel 2014 per Raffaello Cortina Editore).

 

L’alleanza terapeutica e le fasi del trattamento

La terapia del trauma complesso è stata definita da James Chu come “un viaggio sulle montagne russe”, talmente stressante da poter a volte provocare nel terapeuta una sindrome traumatica secondaria.

Come è ampiamente descritto nel manuale Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa scritto da Giovanni Liotti e Benedetto Farina nel 2011 ed edito da Raffaello Cortina, obiettivo primario dello psicoterapeuta sarà dunque quello di monitorare l’attivazione del sistema di attaccamento in terapia e quello di aggirare le strategie controllanti messe in atto dal paziente.

Per perseguire tali obiettivi è necessario costruire prontamente un’alleanza terapeutica basata sul sistema motivazionale della cooperazione e in seguito riparare altrettanto prontamente le probabili rotture di tale alleanza. Solo successivamente si potrà procedere alle altre necessarie operazioni terapeutiche, che gli studiosi Liotti e Farina (2011b) concettualizzano come un processo in fasi.

Le fasi della terapia sono essenzialmente tre, ciascuna propedeutica alla successiva:
– costruzione dell’alleanza terapeutica e stabilizzazione dei sintomi,
– lavoro sulle memorie traumatiche e integrazione degli stati dell’io dissociati,
– assistenza nell’esercizio delle capacità acquisite durante la vita quotidiana.

Risulta evidente l’importanza che riveste la fase della costruzione dell’alleanza terapeutica, imprescindibile per la cura dei pazienti con storie di sviluppo traumatico. A sostegno di tutto ciò ricordiamo il concetto espresso da Alexander (1946) su una solida alleanza terapeutica che permette di esporre il paziente ad un’esperienza emozionale e relazionale correttiva.

Tuttavia sono proprio i sintomi del DPTSc a costituire i maggiori ostacoli a un’adeguata relazione di cura. Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie controllanti, infatti, rendono assai difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e di collaborazione tipico delle relazioni d’aiuto efficaci. La capacità del paziente con trauma evolutivo di affidarsi con continuità a una relazione di cura è sicuramente compromessa dalle memorie di relazioni traumatiche che il paziente rivive durante l’interazione col terapeuta. Inoltre, le strategie controllanti e la dis-integrazione mentale conseguente al loro collasso, nonché il riaffiorare del MOI disorganizzato, pongono seri ostacoli al tentativo del clinico di mantenere l’alleanza (Liotti e Farina, 2011b).

Per limitare l’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento, il terapeuta dovrebbe provvisoriamente accettare le strategie controllanti che permettono un dialogo non disorganizzato e successivamente ricercare un’alleanza terapeutica fondata sull’attivazione del sistema motivazionale cooperativo. Inoltre il terapeuta esperto, grazie alla consapevolezza del proprio stato emotivo, al controllo metacognitivo delle sue reazioni e alla conoscenza del modello esplicativo, può evitare la ripetizione confermante di schemi esperienziali relativi ai MOI patogeni del paziente.

 

La stabilizzazione dei sintomi, il lavoro sulle memorie traumatiche e l’integrazione

All’interno della prima fase, mentre il clinico pone massima attenzione alla relazione terapeutica, non può trascurare i sintomi perturbanti tipici dei pazienti con DPTSc. La richiesta di cura di questi pazienti spesso è motivata da sintomi opprimenti e invalidanti quali insonnia, ansia, panico, reazioni fobiche, depressione, comportamenti parasuicidari o idee di suicidio, comportamenti autolesivi, pattern ossessivo-compulsivi, disturbi del comportamento alimentare, uso di sostanze, sintomi dissociativi di detachment, flashback e altri disturbi mnestici (Liotti e Farina, 2011b). È necessario quindi dedicarsi tempestivamente alla stabilizzazione di questi sintomi, trattandoli anche con terapie farmacologiche o con Tecniche Cognitivo-Comportamentali (TCC). Scopo di questo intervento sarebbe quello di sostenere la fiducia che il paziente ripone nella possibilità di una risoluzione del complesso malessere che lo affligge e di mostrargli che non si è impotenti neppure di fronte a sindromi così complesse.

Una volta ottenuta una sufficiente stabilizzazione dei sintomi è possibile dare inizio alla seconda fase della terapia centrata sull’esame più attivo e attento dei ricordi traumatici, che talvolta il paziente ha già riportato spontaneamente durante la prima fase, e poi sull’integrazione. È importante ricordare come le memorie traumatiche comportino di regola l’incompleta integrazione del ricordo nel flusso continuo dell’autocoscienza, a causa dei processi dissociativi di detachment e compartimentazione, e come la conseguenza della dis-integrazione di tali memorie influenzi il comportamento e le reazioni emotive dei pazienti, disorganizzandoli, senza che essi ne siano pienamente consapevoli (Liotti e Farina, 2011b).

Lo scopo del trattamento delle memorie traumatiche non è quello di far emergere un contenuto rimosso, ma piuttosto quello di ricostruire l’interezza degli eventi vissuti, di associare le diverse componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica, cognitiva), assimilarle e permetterne l’integrazione nella narrazione autobiografica del paziente al fine di evitare o mitigarne l’effetto disorganizzante.

Il clinico esperto sa che questo lavoro di integrazione deve essere necessariamente preceduto dal lavoro sulla regolazione delle intense e soverchianti emozioni provocate dalle memorie traumatiche. Per fare ciò, il terapeuta dispone, oltre che dei risultati raggiunti nella prima fase (migliore mentalizzazione, maggior controllo e maggior senso di sicurezza), di alcune tecniche specifiche, come quelle di validazione e di Mindfulness impiegate dalla terapia dialettico-comportamentale (Linehan, 1993), le terapie Sensomotorie e l’EMDR. In generale, è necessario che il terapeuta favorisca l’esposizione graduale del paziente agli stati mentali associati al trauma e lo aiuti a riconoscerli, sperimentarli progressivamente, per poi comunicarlo verbalmente durante le sedute. Diversi specialisti ritengono utile in questa fase del trattamento l’uso di terapie farmacologiche per mitigare l’intensità delle reazioni emotive e migliorarne la regolazione (Miti & Onofri, 2011; van der Hart et al., 2006).

Una volta stabilita con il paziente una buona alleanza, aver condiviso gli obiettivi da perseguire insieme nel percorso terapeutico e sperimentato l’aumento delle capacità metacognitive e di controllo degli stati emotivi, è possibile procedere alla rievocazione guidata delle memorie traumatiche.

Prima operazione sarà dunque quella di ricostruire la funzione janetiana di presentificazione (distinzione tra passato e presente), ricostruendo con il paziente i confini temporali dell’evento da condividere in seduta (Liotti e Farina, 2011b). Successivamente si potrà procedere all’integrazione delle differenti componenti dell’evento: le emozioni e le sensazioni corporee, le immagini mentali, i significati generali e specifici derivanti dall’accaduto.

Per far ciò è possibile utilizzare oltre alla tecnica EMDR, la tecnica cognitivo-comportamentale ABC con lo scopo di permettere al paziente di ricostruire in maniera integrata le componenti frammentate delle proprie vicende traumatiche. A tal punto, dopo che i ricordi hanno assunto l’integrità e la sintesi necessarie, è possibile avviare la scoperta guidata dei significati generali dell’evento accaduto in passato, in modo tale che il paziente impari ad agire sulla realtà presente con nuove strutture cognitive senza essere disturbato dall’effetto disorganizzante del ricordo traumatico.

Per integrazione e sintesi personale si intende dunque la capacità di costruire strutture di significato che, distinguendoli e contestualizzandoli, connettono fra loro i diversi stati dell’io. L’integrazione può avvenire (spontaneamente e non) grazie all’incremento delle capacità metacognitive del paziente all’interno di un lungo lavoro psicoterapeutico. Infatti, l’integrazione degli stati dell’io dissociati richiede necessariamente un contesto interpersonale unitario in cui l’interlocutore esperto si accorga della loro esistenza e separatezza dalla coscienza e dalla memoria, segnalandola (esplicitamente o implicitamente) al paziente.

Infine, il ruolo del clinico nella terza fase del protocollo terapeutico sarà quello di confermare, sostenere e promuovere le nuove capacità del paziente dialogando sul modo con cui lo stesso le esercita nella vita quotidiana.

Come il ritmo respiratorio influenza emozione e cognizione

Un recentissimo studio, pubblicato su Journal of Neuroscience, ha mostrato per la prima volta come il respiro influenzi memoria ed emozioni. In particolare, il ritmo del respiro crea un’attività elettrica nel cervello che influenza positivamente il giudizio emotivo e il richiamo alla memoria.

 

La connessione tra la respirazione e le aree cerebrali coinvolte nella memoria e nelle emozioni

La scoperta, ad opera di un gruppo di ricercatori della Northwestern University, è stata fatta grazie ad uno studio condotto su 7 pazienti con epilessia, in attesa di intervento neurochirurgico; per individuare l’origine delle loro crisi convulsive è stata condotta un’indagine con EEG intracranica. Ciò ha consentito di osservare che i segnali elettrici registrati mostravano delle oscillazioni dell’attività cerebrale legati alla respirazione. In particolare, quest’attività veniva rilevata nelle aree cerebrali coinvolte nella memoria, nelle emozioni e nell’elaborazione degli stimoli olfattivi.

Una delle principali scoperte dello studio, afferma l’autore principale dello studio Christina Zelano, riguarda la forte differenza individuata nell’attività cerebrale dell’amigdala e dell’ippocampo durante la fase inspiratoria rispetto a quella espiratoria. Durante l’inspirazione vengono stimolati i neuroni della corteccia olfattiva, dell’amigdala e dell’ippocampo.

Questa scoperta ha portato gli scienziati a chiedersi se le funzioni cognitive in genere associate a queste aree del cervello – in particolare le aree deputate al ricordo e all’elaborazione della paura – potrebbero anche essere influenzate dalla respirazione. L’amigdala è strettamente legata ai processi di elaborazione emotiva, in particolare all’emozione di paura. I ricercatori hanno chiesto a 60 soggetti di prendere rapide decisioni su delle espressioni emotive, registrando nel frattempo il ritmo respiratorio. Alla presentazione di immagini di volti che esprimevano paura o sorpresa, i soggetti dovevano indicare, nel minor tempo possibile, l’emozione espressa dai volti. Quando le espressioni facciali venivano osservate durante l’inspirazione, i soggetti riconoscevano le espressioni di paura più in fretta rispetto a quando incontravano le stesse espressioni durante l’espirazione. Questo non avveniva per le espressioni di sorpresa.

In una fase dell’esperimento volto ad indagare la funzione della memoria, ai soggetti venivano mostrate sullo schermo di un computer delle immagini raffiguranti diversi oggetti. Successivamente veniva chiesto loro di ricordarle. I ricercatori hanno osservato che il richiamo è migliore se le immagini venivano incontrate durante l’inspirazione.
Gli effetti osservati sembrano però essere specifici della respirazione nasale.

 

La connessione tra respirazione, paura e risposta al pericolo

Tali scoperte hanno importanti implicazioni in quanto una respirazione rapida conferisce un vantaggio nel momento in cui ci si trova in condizioni di pericolo. Nelle situazioni di panico il ritmo del respiro diventa più rapido; ciò consente all’individuo di avere proporzionalmente più momenti di inspirazione di quelli che si avrebbero in uno stato di calma. La risposta innata del nostro corpo alla paura con la respirazione veloce potrebbe avere un impatto positivo sulla funzione cerebrale e tradursi in tempi di risposta più rapidi a segnali di pericolo dell’ambiente.

Inoltre, la respirazione può essere attivamente usata per promuovere la sincronia oscillatoria e ottimizzare i processi di elaborazione delle informazioni e mediare i comportamenti goal-directed.

Il senso di alienazione nella schizofrenia

La sensazione di alienazione nella schizofrenia si ha quando la realtà attorno al proprio sé assume una forma, una dimensione e un significato che solo il paziente vede e riconosce; questa sensazione di alienazione nella schizofrenia spesso spinge il paziente stesso ad allontanarsi e a ritirarsi dal contesto sociale.

Silvia Vitaloni, Eleonora Girani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La schizofrenia è considerata ad oggi la malattia mentale maggiormente invalidante per l’uomo e si caratterizza principalmente per il disturbo del pensiero. I sintomi della schizofrenia vengono suddivisi in sintomi positivi, che includono i deliri e le allucinazioni, ed in sintomi negativi, quali l’apatia, la carenza d’iniziativa, la povertà dell’eloquio, il ritiro sociale e la trascuratezza.

Secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono circa 24 milioni le persone che nel mondo soffrono di schizofrenia a un qualunque livello e dal punto di vista epidemiologico i dati raccolti evidenziano come l’età media di insorgenza sia di 22-23 anni con un ritardo medio nelle donne di ¾ anni, e che le forme ad esordio tardivo (oltre i 40 anni) risultano quasi esclusivamente femminili (Rajiv T. et all, 2008).

 

Cinque forme di schizofrenia

La diagnosi di schizofrenia è molto delicata soprattutto per le implicazioni che un’etichetta di questo tipo ha per la persona interessata sul piano medico, familiare, professionale e sociale. Con la chiusura dei manicomi, grazie alla legge Basaglia del 1978 e il ridimensionamento degli ospedali psichiatrici, ad oggi, affianco alla dimensione farmacologica necessaria per questa tipologia di pazienti viene spesso associata una psicoterapia individuale e famigliare (Benedetti, 1988). Ad oggi si distinguono cinque forme di schizofrenia in base al corollario sintomatologico (Kay, Stanley R, et all 1997):

  1. Paranoide, ad esordio più tardivo e con prognosi maggiormente favorevole si configura per un disturbo del comportamento e del pensiero caratterizzati principalmente da deliri e allucinazioni strutturati a contenuto persecutorio; l’affettività e le funzioni cognitive risultano tendenzialmente preservate.
  2. Disorganizzato, ha un esordio precoce e una prognosi negativa, si caratterizza per un deterioramento in tutte le aree (comportamento, pensiero e affettività); la presenza dei deliri e allucinazioni risulta disorganizzata nel contenuto e piuttosto mutevole.
  3. Catatonico, agitazione e posture di tipo catatonico.
  4. Indifferenziato, ovvero comprende tutte le forme di schizofrenia non classificabili nelle categorie precedenti.
  5. Residuo, sono presenti sintomi residui, in assenza di deliri, allucinazioni, incoerenza e comportamento disorganizzato (Kay, Stanley R, et all 1997).

 

La schizofrenia e il rapporto con mondo esterno: i meccanismi di rispecchiamento e simulazione

È necessario considerare la lente con la quale i pazienti con diagnosi di schizofrenia accedono e si approcciano al mondo e come a volte si verifichi una sensazione di alienazione nella schizofrenia: in condizioni normali non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni, o sensazioni esperite dai nostri simili, in quanto godiamo di quella che definisco una “consonanza intenzionale” col mondo degli altri (Gallese 2003, 2006a, 2007).

Ciò è reso possibile non solo dal fatto che con gli altri condividiamo le modalità di azioni, sensazioni o emozioni, ma anche condividiamo alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni. Quando ci troviamo di fronte all’altro ne esperiamo direttamente i caratteri di umanità. Assegniamo in modo implicito all’altro lo status di soggetto diverso da noi che guardando a sé da dietro le spalle condivide con noi l’essenza di essere umano.

Grazie ai meccanismi di rispecchiamento e di simulazione, l’altro viene vissuto come un “altro sé”. Circa quindici anni fa abbiamo scoperto neuroni nella corteccia premotoria del macaco che si attivano ogni volta che l’animale esegue con la mano la bocca atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, come afferrare, prendere del cibo, manipolarlo, romperlo, spezzarlo, ed anche quando l’animale è lo spettatore passivo di azioni analoghe eseguite da un essere umano o da un’altra scimmia. Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni specchio” (Gallese et al 1996; Rizzolatti et al. 1996; Rizzolatti e Craighero 2004).

In una serie di studi successivi è stato approfondita la conoscenza di questo meccanismo di risonanza motoria, scoprendo che i neuroni specchio si attivano anche quando l’osservazione dell’interazione tra la mano dell’attore e l’oggetto non è pienamente visibile, ma può solo essere “inferita” (Umiltà et al. 2001). In questo caso non parliamo di un’inferenza logica, bensì del risultato di una simulazione motoria.

L’attivazione nell’osservatore del programma motorio corrispondente all’azione solo parzialmente vista, ne consente la comprensione. Abbiamo anche scoperto che se l’azione si accompagna ad un suono caratteristico, come quando si rompe una nocciolina, il solo suono dell’azione è sufficiente ad attivare i neuroni specchio (Kohler et al 2002). Quindi, lo stesso contenuto semantico, “rompere la nocciolina”, attiva i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che lo veicola. E’ un meccanismo che incarna a suo modo una rappresentazione astratta dell’azione, che però è tutto fuorché astratta perché incarnata all’interno del nostro sistema motorio.

Una serie di studi hanno dimostrato che un meccanismo analogo di rispecchiamento è presente anche nel cervello umano, ed è organizzato in modo grossolanamente somatotopico. Quando osserviamo un azione si attivano le aree fronto-parietale corrispondenti a quelle che entrano in gioco quando noi stessi eseguiamo azioni simili a quelle che stiamo osservando. Non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Rizzolatti e Craighero 2004).

Cosa succede nel nostro cervello quando osserviamo i gesti comunicativi di una persona che parla, di una scimmia che comunica con il lipsmaking (ritmica apertura delle labbra, un gesto affiliativo che sta ad indicare ai conspecifici l’assenza di intenzioni aggressive), e di un cane che abbaia? La risposta ci viene da un studio fMRI condotto da Buccino et al. (2004).  I risultati sono molto interessanti: quando vediamo l’uomo parlare si osserva un’attivazione bilaterale del sistema pre-motorio che include l’area di Broca; quando vediamo la scimmia si osserva un’attivazione premotoria bilaterale di intensità ridotta; infine, quando vediamo il cane abbaiare si ha un’assenza completa di attivazione motoria.

I risultati di questo esperimento ci conducono a due osservazioni: in prima istanza che non è necessaria una risonanza motoria per comprendere ciò che vediamo: io so benissimo che c’è un cane che abbaia, ma in questo caso la qualità della mia comprensione dell’azione del cane è qualitativamente diversa in quanto relativa a un sistema linguistico modulare chiuso, indipendente e disincarnato, che manipola rappresentazioni simboliche amodali.

L’azione ed il linguaggio tuttavia non esauriscono il ricco bagaglio di esperienze coinvolte nelle relazioni interpersonali. Ogni relazione interpersonale implica, infatti, la condivisione di una molteplicità di stati quali ad esempio l’esperienza di emozioni e sensazioni. Recenti evidenze empiriche suggeriscono che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni ed emozioni esperite in prima persona sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Gallese 2006a).

Il meccanismo di simulazione non è quindi confinato al dominio dell’azione ma appare essere una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsiasi relazione interpersonale.

 

I meccanismi neurofisiologici della cognizione sociale

La scoperta dei neuroni specchio nella corteccia premotoria e parietale di scimmia, e la successiva scoperta dell’esistenza di un sistema specchio anche nell’uomo, ha permesso per la prima volta di chiarire i meccanismi neurofisiologici alla base di numerosi aspetti della cognizione sociale. Secondo l’ipotesi di Gallese (Gallese e Goldman 1998; Gallese 2001, 2003, 2006a, 2007) questi meccanismi generano molte delle certezze implicite che noi automaticamente attiviamo ogni volta che ci rapportiamo con l’altro. Sono importanti nel generare il senso d’identità e reciprocità con gli altri di cui normalmente facciamo esperienza.

Questi meccanismi di simulazione sono fortemente coinvolti nell’imitazione. Sia nell’imitazione di gesti che sono già parte del nostro repertorio comportamentale, che durante l’apprendimento imitativo di nuovi compiti motori a noi sconosciuti, come dimostrato dallo studio di Buccino et al. (2004b) in cui soggetti che non sapevano suonare la chitarra dovevano imparare ad eseguire degli accordi dopo averne osservato l’esecuzione da parte di un chitarrista esperto.

Durante l’apprendimento imitativo si è osservata l’attivazione del sistema dei neuroni specchio. Il mimetismo caratterizza in modo pervasivo la dimensione sociale dell’esistenza umana, e lo fa a più livelli. Ad esempio, la psicologia sociale ha descritto e studiato il cosiddetto “effetto camaleonte” per cui imitare i movimenti della persona con cui stiamo dialogando ci rende sicuramente più gradevole ai lori occhi.

 

Alienazione nella schizofrenia

In linea rispetto a quanto è stato detto finora risulta più semplice immaginare anche solo per un secondo la sensazione di alienazione nella schizofrenia, quando la realtà attorno al proprio sé assume una forma, una dimensione e un significato che solo il paziente vede e riconosce; questa sensazione di alienazione nella schizofrenia spesso spinge il paziente stesso ad allontanarsi e a ritirarsi dal contesto sociale.

Il delirio ha un nucleo apparentemente incomprensibile per chi lo ascolta, caratterizzato da un significato che appare sottratto a qualsivoglia motivazione razionale o affettiva, che non è modificabile dalla continuità dell’esperienza e che non chiede né ha bisogno di conferme e di comprove per esistere. Appare ovvio quindi quanto parte dell’ alienazione nella schizofrenia possa essere provata anche in senso bidirezionale da chi ascolta e vive all’interno del nucleo famigliare i significati e i ritagli di realtà che il paziente schizofrenico riporta, aumentandone ancora così il senso di estraneità.

Parlando di alienazione nella schizofrenia, non possiamo non accennare al significato del termine alienazione: esso è di antica origine (alienatio), ed è stato utilizzato fino alla prima metà dell’800’ nell’accezione di alienazione mentale (alienatio mentis) come appellativo per indicare chi soffriva di gravi disturbi mentali; successivamente il termine alienazione è stato sostituito da quello di malattia mentale (Benedetti, 1988).

Resta il fatto che pur elevando ad un più alto grado di rispetto umano l’etichetta semantica, nel nostro bagaglio culturale il temine “alieno” è sempre stato utilizzato per indicare ciò che non si conosce, che non si comprende, e non esiste altro termine che meglio possa spiegare il vissuto esperienziale di un paziente affetto da schizofrenia.

I recenti studi pongono l’attenzione sulla carente capacità metacognitiva di pazienti con schizofrenia e rappresentano in senso più cognitivo quanto appena descritto: la scarsa rappresentazione e capacità di riflettere sui propri e sugli altri stati mentali e l’abilità di usare tali informazioni per affrontare in modo efficace situazioni soggettivamente problematiche, sia da un punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale, è ciò che caratterizza il mondo di questi pazienti (Popolo, R. et all,, 2012).

Queste carenze metacognitive sono supportate in parte da fattori ambientali contribuenti nell’eziologia del disturbo, ma soprattutto da cause genetiche che ad oggi sono ancora oggetto di studio da parte dei ricercatori di tutto il mondo.

Ad oggi gli strumenti di indagine più avanzati come TAC, risonanze magnetiche, PET sono state utilizzate al fine di indagare se vi fosse un diverso funzionamento cerebrale dei pazienti affetti da schizofrenia rispetto a gruppi di controlli definiti sani. I risultati ad oggi mostrano un’alterazione delle strutture cerebrali e del metabolismo dei neuroni presenti nei cosiddetti lobi frontali (responsabili di funzioni esecutive, all’organizzazione di attività complesse e alla progettualità), e anomalie nella trasmissione di alcune sostanze quali dopamina e glutammato (Lang, U.E., 2007).

Ma ancora più interessanti rispetto al senso di alienazione nella schizofrenia risultano le recenti ricerche Di Maggio e colleghi, i quali hanno ipotizzato che nella schizofrenia ci sia un malfunzionamento dei processi di simulazione neurali, ovvero dell’attività del sistema dei neuroni mirror e neuroni canonici, che risulterebbero alla base della comprensione dell’intersoggettività e della comprensione intrinseca dell’essenza di un oggetto (Salvatore et al., 2007).

Questi autori hanno approfondito ulteriormente l’ipotesi secondo la quale la “disaderenza” dei pazienti con schizofrenici rispetto alle relazioni e ai contesti, sia causata principalmente da una non comprensione dei contesti comunicativi pragmatici, e che il senso di alienazione nella schizofrenia rispetto agli oggetti possa dipendere dal malfunzionamento di questi sistemi neurali (Salvatore et al., 2007).

Nello specifico si ipotizza che questo mal funzionamento sia alla base della difficoltà del paziente schizofrenico nel selezionare tra i tanti significati associabili all’azione verbale “dell’altro” il significato maggiormente in sintonia con le transazioni intersoggettive (neuroni mirror) e, inoltre, una marcata difficoltà a comprendere implicitamente le azioni finalizzate all’utilizzo di oggetti (neuroni canonici).

La semantica oggettuale (la capacità di riconoscere il corretto uso degli oggetti) e la sintattica gestuale (capacità di riconoscere la corretta sequenza con cui deve essere svolta un’azione con un oggetto) rappresentano quella conoscenza implicita e necessaria per comprendere le affordance oggettuali e il significato delle azioni, due esperienze mediate dal funzionamento integrato dei neuroni mirror e canonici. Se queste ricerche fossero un giorno confermate spiegherebbero almeno in parte il senso di alienazione nella schizofrenia.

Un nuovo modello per aiutare chi soffre di dipendenza da Internet

Un nuovo modello sviluppato dai ricercatori della Binghamton University (State University of New York) potrebbe aiutare le persone che soffrono di dipendenza da Internet a rendersi del loro utilizzo problematico della rete, aiutando così a ridurlo o interromperlo.

 

Chi soffre di dipendenza da Internet non sempre si sente in colpa per l’utilizzo che fa del web e, in molti casi, non lo percepisce nemmeno come un uso problematico.

Un nuovo modello sviluppato dai ricercatori della Binghamton University (State University of New York) potrebbe aiutare le persone che soffrono di dipendenza da Internet a rendersi del loro utilizzo problematico della rete, aiutando così a ridurlo o interromperlo.

 

Dipendenza da Internet e Dissonanza Cognitiva

Isaac Vaghefi, assistente alla cattedra di Sistemi Informativi Gestionali alla Binghamton University, ha messo a punto un modello di riferimento basandosi su una teoria psicologica conosciuta come Dissonanza Cognitiva (Leon Festinger, 1957), ovvero lo stato di disagio interno alla persona che nasce qualora siano presenti due o più cognizioni in contraddizione fra loro o qualora si crei conflitto tra le azioni della persona e le sue credenze (ad esempio, qualcuno che crede che il fumo faccia male, ma fuma una sigaretta dietro l’altra).

In collaborazione con Hamed Qahri-Saremi, anch’esso assistente alla cattedra di Sistemi Informativi presso la DePaul University (Chicago, Illinois), Vaghefi ha sviluppato un modello che mostra come il grado di dissonanza cognitiva degli utilizzatori possa fare la differenza nella loro disposizione a smettere la loro dipendenza da internet.

La dissonanza è quello che serve per lavorare sulla possibilità che gli utilizzatori mettano in atto azioni e gesti che limitino l’utilizzo di Internet – ha affermato Vaghefi – Ci sono utenti che dicono: ‘So che sto utilizzando internet in modo eccessivo, ma tutti intorno a me lo utilizzano eccessivamente’. Quello che dobbiamo fare è evidenziare le conseguenze negative a cui vanno incontro; a tal fine, si possono utilizzare strumenti oggettivi che mostrino i risultati nocivi dell’abuso di Internet, portando a comprendere la negatività di queste conseguenze. Una volta che l’utilizzatore ne prende coscienza, è più motivato ad agire su di esse e ad esercitare l’autocontrollo. 

Vaghefi ha testato il modello sui dati provenienti da 226 studenti della Binghamton University, che hanno riferito quanto fossero intenzionati a smettere oppure proseguire il loro utilizzo dei social network. I risultati mostrano che un modo plausibile per aiutare le persone a ridurne o addirittura smetterne l’utilizzo è quello di aumentare la dissonanza cognitiva a riguardo, in tal modo è possibile rendere gli utenti consapevoli della loro dipendenza da Internet, in particolare delle sue conseguenze sul piano di vita personale, sociale e accademica.

 

La dissonanza cognitiva interviene sul senso di colpa funzionale

La ricerca in generale ha già esaminato il ruolo del senso di colpa nell’utilizzo della tecnologia e come questo possa essere utilizzato per modificare il comportamento. Ciò che non è stato ancora spiegato è come si possa creare questo senso di colpa funzionale. E’ generando uno stato interno di dissonanza cognitiva, che si può effettivamente avere un impatto reale sul comportamento di uso/abuso e sull’intenzione di smettere o interrompere l’abitudine all’utilizzo.

Vaghefi ritiene che affrontare questi problemi sia particolarmente importante se si considera il largo e comune utilizzo della tecnologia e la diffusione dei comportamenti on-line tra i giovani di oggi. Si tratta di un’abitudine così diffusa e prevalente nelle nuove generazioni, che sono cresciute con la tecnologia, che i ragazzi non percepiscono nemmeno di avere un problema di dipendenza da Internet.

Evidenziando le conseguenze negative per loro, si spera di poter fare qualcosa, intervenendo su questa dipendenza – ha affermato Vaghefi.

Psicofarmacologia e relazione terapeutica – report dal seminario di Palermo

Si è svolto lo scorso 13 Gennaio a Palermo, presso la Clinica Psichiatrica diretta dal Prof. Daniele La Barbera, ordinario di Psichiatria dell’Università di Palermo, un seminario formativo che ha esplorato il rapporto esistente tra psicofarmacologia e relazione terapeutica, affrontando temi quali il valore simbolico dello psicofarmaco, il suo impatto all’interno della relazione medico-paziente, nonché il meccanismo d’azione dei più comuni psicofarmaci.

 

Psicofarmacologia: sfatare miti e luoghi comuni

L’incontro si è snodato in due sezioni: la prima, prettamente di carattere psicologico, ha tentato di sfatare alcuni luoghi comuni legati alla reticenza nell’utilizzo dello psicofarmaco, e una seconda di carattere medico ha riguardato i meccanismi d’azione del farmaco e le diverse tipologie in relazione al trattamento delle patologie più comuni, come depressione e ansia, fino alla psicosi.

Tematiche spinose e urgenti, considerato che, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, nel 2020 la depressione sarà la più diffusa malattia del pianeta, e risulta quindi necessario chiarire la natura del problema e il ruolo della farmacoterapia nel contesto di una relazione terapeutica efficace.
[blockquote style=”1″]Partiamo dal luogo comune secondo cui gli psichiatri imbottiscono di farmaci e proseguiamo nella valutazione della sua efficacia, che dipende da vari fattori, per cui, se un farmaco è incompetente, ciò non è sempre dovuto alla psichiatria, ma alla complessità della patologia[/blockquote] così ha aperto provocatoriamente il Prof. La Barbera, in oltre tre ore fitte di contenuti.

Lo psicofarmaco, sostanza chimica abbastanza recente (si può infatti far risalire la rivoluzione psichiatrica alla seconda metà degli anni ’50), sostanza chimica intorno a cui confluiscono miti sociali, personali e familiari, con profonda valenza psicologica, al punto da essere considerata sostanza psichica essa stessa, al contempo desiderata e temuta.

[blockquote style=”1″]Stiamo parlando certamente di un farmaco, ma in senso particolare: uno psicofarmaco, più di quanto avvenga per un farmaco generico, attiva tutta una serie di fantasie e simbolismi lungo i due poli del salvifico (guarigione) e malefico (intossicazione/avvelenamento). La diversità dello psicofarmaco consiste nel fatto che esso, per molti pazienti, ha quasi vita autonoma, una vera e propria intelligenza, ed è in grado di cambiare la personalità, specialmente se assunto in dosi elevate. In realtà esistono sostanze in grado di modificare lo psichismo in maniera maggiore, come avviene nell’alterazione del microbiota umano.[/blockquote]

Psicofarmacologia e relazione terapeutica

 

Psicofarmacologia: la centralità della relazione terapeutica per l’adesione al trattamento farmacologico

E sull’annosa questione sul rischio percepito di dipendenza da parte del paziente è bene non trascurarlo, sebbene si tenda a sovrastimarlo, ed è comunque necessario sempre valutare tale aspetto all’interno della relazione terapeutica.

E proprio una buona relazione terapeutica risulterebbe centrale nell’adesione al trattamento (compliance), sul versante del rispetto delle prescrizioni mediche (come il numero di somministrazioni giornaliere) che riflette il superamento di un metabolismo psicologico del farmaco, che inizia prima della sua assunzione, e che può spingerlo possibilmente a non assumerlo affatto. Tanti i fattori legati al rifiuto dei farmaci, oltre a una cattiva relazione terapeutica, la predisposizione personale o l’atteggiamento familiare nei confronti dei farmaci e il livello di gravità della psicopatologia.

Un rapporto, quello tra farmaco e paziente, modulato dalla relazione terapeutica e che modula a sua volta la relazione di fiducia e affidamento all’Altro: [blockquote style=”1″]Il farmaco, riportando costantemente alla mente del paziente lo sforzo del curante, diventa il rappresentate della figura del medico e il metro di valutazione della sua competenza, e quindi, del grado di fiducia accordata[/blockquote] – sottolinea La Barbera.

Curare oggi i disturbi psichici da un punto di vista farmacologico significa beneficiare della loro azione chimica (per esempio gli antipsicotici atipici hanno minori effetti sedativi rispetto ai comuni neurolettici e migliori effetti sulla sfera cognitiva), all’interno di una valida alleanza terapeutica che aiuti il paziente a monitorare il valore simbolico/immaginativo assegnato, in una prospettiva bio-psicosociale che non consideri un disturbo psichico, come la depressione, esclusivamente di natura psicologica.

[blockquote style=”1″]Oggi sappiamo che la depressione è una malattia sistemica e interessa diversi circuiti fisiologici, con effetti nocivi sull’attività ipofisaria, sul sistema immunitario e sui fattori di crescita neuronale, attività che i farmaci antidepressivi aiutano a regolarizzare. In quanto tale la depressione è un’urgenza sociale perché, per esempio, la persona che soffre di disturbi cardiaci e anche depressa, ha un tasso di mortalità più elevato.[/blockquote]

La depressione come malattia che interessa la totalità mente-corpo, da trattare da una prospettiva farmacologica, ma altresì relazionale, se è vero che la relazione è in grado di per sé di modificare (in senso negativo o positivo) la crescita neuronale e l’espressione genica, il fisico oltre che lo psichico.

[blockquote style=”1″]In un’ottica epigenetica gli stimoli ambientali sono in grado di modificare l’espressione genica. Nei topi si è visto che scarse cure materne portano alla carente espressività di alcuni geni necessari per il neurosviluppo, mentre l’allattamento crociato inverte questa tendenza. Va da sé il ruolo prezioso di esperienze relazionali forti, come il supporto empatico del terapeuta, che, di pari passo con una farmacoterapia condivisa con il paziente, favoriscano la stimolazione neuronale, cognitiva, emotiva e l’adattamento all’ambiente[/blockquote] conclude La Barbera.

Aderenza alla restrizione dietetica e implicazioni per il trattamento dell’obesità: i processi cognitivi coinvolti

Anita Jansen e collaboratori dell’Università di Maastricht hanno descritto in una revisione pubblicata su Frontiers in Psychology alcuni processi cognitivi, studiati dalla ricerca scientifica, che sembrano minare l’aderenza alla restrizione dietetica delle persone affette da obesità, e delle strategie specifiche cognitivo comportamentali per affrontarli supportate da risultati preliminari di efficacia.

Massimiliano Sartirana e Riccardo Dalle Grave

 

Obesità e restrizione dietetica: i processi cognitivi coinvolti

I processi cognitivi descritti dagli autori sono i seguenti quattro:

  1. apprendimento del craving per il cibo;
  2. funzioni esecutive;
  3. rinforzi immediati;
  4. bias dell’attenzione.

 

1. Apprendimento del craving per il cibo

Il processo fa riferimento ad un’aumentata reattività a stimoli associati al cibo, come emozioni, pensieri e variabili contestuali (per es. profumo, momento della giornata, vista del cibo, ecc.), prodotta in parte dalla componente genetica e in parte dall’apprendimento attraverso il condizionamento classico.

La procedura proposta per affrontare questo processo è l’esposizione più prevenzione della risposta agli stimoli che anticipano l’alimentazione in eccesso di cibi non salutari. Il principio teorico sottostante è che l’esposizione prolungata allo stimolo alimentare dovrebbe determinare una diminuita reattività agli stimoli e un aumento delle abilità di inibizione (capacità di resistere all’alimentazione in eccesso) perché viene interrotta l’associazione tra stimolo e alimentazione in eccesso e di conseguenza si riduce il desiderio di mangiare.

Da un punto di vista pratico l’esposizione più prevenzione della risposta consiste nell’esporre i soggetti per circa un’ora a stimoli come la vista di cibo non salutare, l’odore e il sapore di cibi preferiti e in specifici contesti associati come luoghi, situazioni, emozioni, pensieri che stimolano l’alimentazione in eccesso. Durante l’esposizione il cibo viene toccato, afferrato, annusato intensamente e in modo prolungato.

L’efficacia di questa procedura è stata confermata da studi sperimentali e da alcuni piccoli studi pilota in cui è stato dimostrato che l’esposizione a stimoli alimentari può essere abbastanza efficace nel ridurre il desiderio di cibo, l’alimentazione in eccesso e gli episodi bulimici. Uno studio recente di neuroimaging ha anche evidenziato che l’esposizione prolungata a stimoli alimentari (l’odore del cibo) senza mangiare determina una riduzione dell’attivazione delle aree cerebrali legate alla ricompensa.

 

2. Funzioni esecutive

Le funzioni esecutive si riferiscono a una serie di abilità e processi legati alla gestione di se stessi e all’uso di risorse cognitive personali al fine di raggiungere un obiettivo o di eseguire azioni orientate a un obiettivo. Le tre abilità esecutive principali sono l’inibizione (cioè l’abilità di fermare il proprio comportamento nel momento appropriato, l’abilità di resistere agli impulsi e alle tentazioni, disattivando cosi azioni orientate all’obiettivo), lo spostamento (cioè l’abilità di pensare in modo flessibile al fine di rispondere in modo appropriato a una situazione) e la memoria di lavoro (cioè la capacità di mantenere in memoria l’informazione per completare un compito).

Alcuni studi sperimentali hanno verificato l’efficacia di un training delle funzioni esecutive nelle persone con obesità nel determinare un miglioramento nelle abilità di inibizione e una conseguente diminuzione dell’alimentazione in eccesso. Per quello che riguarda la memoria di lavoro non risultano studi che abbiano dimostrato l’efficacia di un training specifico su questa funzione, mentre studi condotti su bambini con obesità hanno dimostrato l’efficacia combinata di un training per migliorare le abilità di inibizione e di un training sulla memoria di lavoro nel determinare un recupero di peso significativamente più lento a 8 settimane di follow-up, sebbene questo effetto scompaia a 12 settimane di follow-up.

 

3. Rinforzi immediati

Questo processo fa riferimento al fatto che il consumo di alimenti ricchi di calorie, di grassi, di sale e di zucchero è associato a effetti positivi immediati gratificanti. Il processo di gratificazione immediata con questi alimenti si verifica anche a dispetto della possibilità di ottenere una ricompensa superiore che però è più tardiva, come gli effetti positivi della perdita di peso.

Per migliorare l’abilità di ritardare la gratificazione, gli autori propongono di usare la strategia del pensare agli episodi futuri, che consiste nel proiettarsi nel futuro per immaginare l’esperienza di eventi futuri con l’obiettivo di spostare la scelta da una gratificazione immediata agli effetti positivi ritardati di una perdita di peso. Uno studio ha dimostrato che i soggetti allenati ad applicare questa strategia hanno ridotto la minimizzazione dell’importanza di ritardare le gratificazioni immediate per raggiungere maggiori effetti positivi a lungo termine e diminuito l’assunzione calorica, rispetto a un gruppo di controllo in cui non è stata insegnata questa strategia.

 

4. Bias attentivo

Il bias fa riferimento ad un processo di aumentata attenzione e di orientamento dell’attenzione (per questo definita selettiva) verso alcuni stimoli alimentari a discapito di altri stimoli. Ci sono evidenze che il bias dell’attenzione selettiva verso alcuni alimenti predica l’accentuazione delle aspettative positive per l’assunzione di cibo (craving) e persino la quantità di peso recuperato nei soggetti affetti da obesità.
I risultati degli studi sull’efficacia di training attentivi per spostare l’attenzione da cibi ad alta densità energetica a favore di alimenti meno calorici o di stimoli neutri sono promettenti perché si sono dimostrati in grado di ridurre il desiderio di cibo e l’assunzione di calorie.

 

Conclusioni

Gli autori olandesi nella loro revisione hanno descritto quattro processi cognitivi implicati nel mantenere abitudini non salutari nei confronti dell’alimentazione e hanno suggerito delle strategie per affrontarli. Sebbene le ricerche a sostegno dell’efficacia delle strategie proposte dagli autori siano per il momento solo promettenti perché necessitano di dati derivati da studi controllati e randomizzati, il merito dell’articolo è di aver affrontato l’argomento complesso del trattamento dell’obesità, ponendo attenzione ai processi cognitivi coinvolti nelle difficoltà di aderire alle modificazioni alimentari necessarie per perdere peso.

L’articolo traccia anche la strada per la ricerca futura che potrebbe studiare meglio la relazione tra i processi cognitivi e come si influenzano tra loro (per es. la debolezza nelle abilità esecutive e la sensibilità alla ricompensa potrebbero aumentare la reattività agli stimoli alimentari) per poi verificare se un training su un processo specifico potrebbe non avere un effetto anche sugli altri (per es. un training di estinzione potrebbe ridurre il bias attentivo e la disinibizione). I risultati di questi studi potrebbero avere interessanti implicazioni cliniche e migliorare l’esito del trattamento dell’obesità, tuttora basato in modo riduzionistico su un approccio che prescrive modificazioni comportamentali senza prestare attenzione ai processi cognitivi che le influenzano.

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