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Che vuoi che sia (2016): riflessioni sull’intimità 2.0

Che valore scegliamo oggi di dare alla nostra intimità? E’ uno dei temi principali sollevati nel nuovo film Che vuoi che sia di Edoardo Leo in compagnia di Anna Foglietta.

 

In Che vuoi che sia una giovane coppia molto affiatata e alla ricerca di una difficile realizzazione professionale, per una serie fortuita di circostanze, si trova a vivere una situazione in cui è costretta a riflettere sul valore sacrificale della propria intimità di coppia (sessuale e non solo) in cambio di una possibile e cospicua somma di denaro che consentirebbe loro di allontanare le paure e le difficoltà economiche legate a comuni progetti di vita, ovvero fare un figlio e metter su famiglia.

 

Che vuoi che sia: stiamo perdendo la nostra intimità?

La trama del film Che vuoi che sia si sviluppa ai giorni nostri, in una società ormai modificata dall’esistenza dei social, in cui le regole dei rapporti umani e lavorativi sembrano essersi evoluti trasformando le relazioni e la percezione di noi stessi in maniera radicale e spesso disorientante, specie per le (un po’ più) vecchie generazioni. Ci troviamo a riflettere su come uno degli aspetti e valori determinati e determinanti della personalità dell’essere umano, come appunto l’ intimità, rischi di finire inconsapevolmente promosso (o forse declassato e umanamente impoverito) a strumento indirizzato alla ricerca dell’affermazione e del riconoscimento all’interno dei nuovi parametri dettati dalla social society. Insomma: allarme! La nostra intimità si sta evolvendo o semplicemente la stiamo perdendo? Se mai dovesse accadere, ci siamo domandati su quali aspetti basilari della nostra identità, nonché meccanismi regolatori delle relazioni interpersonali stiamo agendo e a cui rischiamo di rinunciare?

C’è chi afferma che il desiderio di intimità è un valore innato insito nell’essere umano e del tutto legato alla promozione del benessere. E’ stato dimostrato che persone che vivono relazioni intime hanno meno probabilità di sviluppare sintomi psicologici, un tasso di mortalità più basso, meno incidenti, e sono addirittura a minor rischio di sviluppare malattie rispetto a quelli che non hanno relazioni intime (Prager, 1995).

Per Levine (1981) l’ intimità psicologica è la “colla delle relazioni importanti”. Problemi di intimità sono strettamente collegati a molti disturbi di salute mentale (Fisher & Stricker, 1982). Il modo in cui l’ intimità facilita lo sviluppo di una sana salute psicologica è ben spiegato in uno dei più completi modelli socio-psicologici (Reis & Shaver, 1988) il quale considera ed unisce coerentemente una varietà di prospettive: nel bambino sviluppo di competenza, padronanza ed autostima attraverso una esplorazione favorita (Ainsworth et al. 1978), cooperazione e sviluppo dell’identità (Sullivan, 1953), creatività ed integrazione emotiva (Erikson, 1950). Questo modello ha dato seguito ad una serie di studi successivi sull’argomento dove  l’ intimità è sempre considerata un importante elemento alla base di una fondamentale funzione interpersonale.

 

Intimità: cos’è e quali sono le sue funzioni?

La visione del film Che vuoi che sia, stimola la riflessione: ma cos’è realmente l’ intimità? Come si determina in noi? E soprattutto a quali funzioni attende nella nostra vita (singola, di coppia e relazionale in genere)?

Fermarmi a riflettere su alcune questioni sollevate dal film Che vuoi che sia ha fatto sì che mi rendessi conto di quanto complessa e articolata fosse la questione e quanti aspetti del nostro vivere quotidiano fossero collegati ad essa senza che ne avessimo sempre la piena consapevolezza.

Prima ancora della riflessione sull’ intimità mossa da Che vuoi che sia, mi viene in mente Neil Patrick Harris alias Barney Stinson, nella serie televisiva How I met your mother, che impersona una delle figure narcisistiche più simpatiche ed azzeccate che abbia mai visto. Nell’interpretazione di tale ruolo, l’evitamento della vicinanza profonda, il totale apparente disinteresse ed una smarrita empatia col prossimo sono praticamente le principali peculiarità che caratterizzano il personaggio, il quale tuttavia, pronuncia una delle affermazioni più sensate che abbia mai sentito sul concetto di intimità:

La mia regola aurea è: mai offrire una cena a qualcuno per ottenere un sì! Cenare con una persona è un’attività molto intima, che richiede un grado di comunicazione e anche di contatto visivo che il sesso non ha! Io sarò anche antiquato ma devo andare a letto con una ragazza almeno tre volte prima di un’eventuale cena con lei.

Se riflettiamo su queste parole forse ha senso domandarsi: è possibile vivere in modo soggettivo l’ intimità stabilendo consapevolmente o meno gli ambiti della nostra esistenza che riteniamo più nostri, riservati e che per qualche motivo non riusciamo a condividere facilmente con tutti?

Forse sì e questo ci complicherebbe non di poco la possibilità di ragionarci sopra, ma se cerchiamo di definirla ulteriormente, osservando i vari modi in cui essa viene vissuta, forse riusciremmo a trovare delle caratteristiche trasversali a tutti in grado di semplificare sicuramente la sua comprensione.

Un mio paziente una volta mi disse, senza preoccuparsi di nasconderne l’entusiasmo, di identificarsi e di ammirare molto il personaggio di Barney Stinson. Forse non era affatto un caso che egli, al pari del personaggio, riuscisse ad intrattenere con estrema facilità e disinvoltura rapporti con differenti partner, in tali situazioni, non necessariamente di natura occasionale, egli si sentiva affermato, sicuro di se, della sua prestanza e della propria fisicità, ma nonostante ciò, aveva sempre il suo momento di fuga: avveniva, successivamente al momento dell’orgasmo, che scattasse il piano di ritiro strategico, dove un repertorio di scuse, recitato durante la raccolta degli abiti, gli garantivano il raggiungimento della porta in tempi sempre brevissimi.

Può non essere affatto un caso che, in sessuologia clinica, nella curva della risposta sessuale (Master e Johnson 1954), la fase della risoluzione (successiva all’orgasmo) sia anche definita fase dell’ intimità, dove la vicinanza percepita con l’altro è maggiore. Liberi dalle tensioni precedenti, ci si sente più esposti e vulnerabili, è quello il momento, in cui ci si copre o si va a fumare una sigaretta oppure si resta nudi e abbandonati a piacevoli coccole. Per il clinico questo costituisce un potente marker sul grado di intimità della coppia, che si manifesta non solo in camera da letto.

Naturalmente il mio paziente non percepiva  consapevolmente quel senso di fragilità ed esposizione che viveva in quella fase; per lui i rapporti finivano lì, il resto era superfluo. Il successivo incontro con una persona diversa dalle solite gli ha permesso di alterare il copione ed esplorare aspetti differenti della relazione, permettendogli di scoprire che l’ebrezza di essere un fantastico amante è solo una parte parte possibile del rapporto e che le “coccole” non sono poi affatto male se ci si riesce ad abbandonare ad esse, ma ancor più che le sue fragilità percepite, come la possibilità che l’altro scorga dei difetti fisici, non sono causa certa di rifiuto, ma anzi possono costituire oggetti di interesse dell’altro verso di noi. Resta quindi da capire cosa di noi (e per noi) è intimo e come far entrare gli altri in questa nostra dimensione.

L’ intimità è un luogo segreto dell’anima con una piccola porta che non apriamo quasi mai a nessuno.
Lì nascondiamo i bisogni più intensi, la responsabilità delle nostre scelte macchiate dai veri dolori e tutto ciò che ci ha reso davvero così.
Se non ti è stato permesso di aprire quella porta non prenderti mai diritti che non hai sulle persone perché delle persone sai molto meno di quel che pensi.
Solo varcando quella porta le conoscerai davvero.
E non la puoi forzare, si apre da sé ed è molto lenta ad aprirsi, potrai spazientirti e decidere di andare.
Però sarà il regalo più grande che potrai ricevere, perché al suo interno c’è la più profonda e chiara rivelazione di cosa sia l’amore. (Massimo Bisotti “Il quadro mai dipinto”)

L’ intimità è appunto quella situazione di fiducia e abbandono verso l’altro in cui ci si sente esposti nelle peculiarità personali più profonde, sia nei pregi che nei difetti, accettando quel senso di fragilità senza percepirne il disagio, in una modalità che non si riesce a condividere certamente con chiunque e ancor meno applicando varie regole consapevoli di farlo.

Affinché questo stato interpersonale sia accessibile in modo sano, è assolutamente necessario, che la persona abbia una percezione definita di se stesso sia a livello di personalità sia di autonomia di quello che è il proprio spazio intimo.

Eduard T Hall (1963) parlando di prossemica, individua l’esistenza di uno spazio intimo (0-45 cm) entro il quale si comunica il sentirsi a proprio agio o meno con persone che riusciamo a sentire vicine e simili a noi. Se osserviamo delle persone interagire in una stanza potremmo farci un’idea sul grado di intimità che esse condividono, ma capire cosa determina e come si struttura quell’ intimità è cosa assai più  complessa che va oltre il solo spazio e la fisicità, in quanto, come nel caso del paziente appena citato, si tratta di un vero e proprio processo che avviene principalmente nella nostra mente. Una dimensione che si esplora e si costruisce nel tempo, in un rito relazionale che non è mai semplice e non è mai per tutti. Che cosa avviene in noi mentre si struttura questa percezione?

Come i protagonisti di Che vuoi che sia, tutti noi abbiamo esperienze variabili del nostro vissuto di intimità. C’è sicuramente chi la determina più sulla fisicità e chi più su un piano di esperienze condivise o magari entrambe, in ogni caso, affinché l’ intimità e la percezione che abbiamo di essa possa determinarsi in noi, è necessario aver sviluppato una buona conoscenza di se stessi e dei confini entro i quali ci si sente definiti.

Quanto detto finora ispirandoci alla clinica, ci invita a riflettere su un possibile paradosso che tende ad apparire più evidente alla presenza di uno stato di malessere della persona, quando la propria intimità non è né percepita né definita, rischiando di vivere una situazione intima senza intimità, una sorta di scissione. Come ad esempio avviene nel caso di una paziente che incontra l’ennesimo “uomo della sua vita” e viene travolta in una relazione sessuale dove le cinquanta sfumature di grigio sbiadiscono al confronto, con assoluta naturalezza e spontaneità, pensando di dare tutto di se stessa, aprirsi anima e corpo ma, giunto il momento in cui lui per strada le afferra la mano per passeggiare in un luogo affollato, lei va nel panico e nello smarrimento più totale generando una reazione di fuga.

 

Che vuoi che sia (2016), TRAILER:

 

L’ intimità e i Social Network

Questa capacità di scissione trova proprio un terreno fertile per svilupparsi nel mondo del web come accade ad esempio al mio paziente che, dopo una vita schiva e ritirata, caratterizzata da poche relazioni interpersonali all’insegna dell’insicurezza e della timidezza, per sfuggire alla noia ed alla solitudine della pensione, decide di intrattenere delle chat definite come “sexting” con perfette sconosciute inviando e ricevendo foto intime, assolutamente ignaro del fatto che la moglie possa ritenerlo un vero tradimento. Accade che un individuo con un tratto di personalità evitante che inizia a desiderare il contatto e la relazione con il prossimo, ritenendosi del tutto inadeguato ed esposto a critiche (per lui intollerabili) e sfavorito da scarse risorse relazionali, individua come risorsa personale app e social network, dove riesce a scavalcare questo gap interpersonale così ostico che noi terapeuti conosciamo abbastanza bene. Ma possiamo considerare questa strategia una risorsa o una soluzione? In modo del tutto assoluto no.

E’ chiaro che il concetto di intimità è assai più complesso di quanto possa sembrare: essa può essere scissa nei suoi vari aspetti i quali vengono selettivamente tenuti riservati o esposti e condivisi in base alle difficoltà  o necessità, oppure può abitare posti diversi nella nostra mente a seconda di ciò che siamo, della nostra esperienza e dell’identità in cui ci definiamo.

E’ giusto domandarsi se i social network riescono a darci la possibilità di vivere la nostra intimità in un modo differente dal passato o semplicemente, amplificano quelle nostre possibili difficoltà che abbiamo nel viverla, riconoscerla e svilupparla, sfalsando la nostra percezione di essa e del nostro spazio intimo?

Che vuoi che sia è la frase che provano a ripetersi i protagonisti del film per dare forza alla tentazione. Frase che potrebbe anche ripetersi (forse) uno dei migliaia di bei ragazzi e ragazze che sempre più, consapevoli del proprio aspetto gradevole, decidono di investire su di esso evitando il percorso iniziale di provini, raccomandazioni ecc. promuovendosi su Instagram in cerca di notorietà condividendo foto in situazioni di “sexy intimità quotidiana”. E’ ormai una regola di mercato per molti di loro, raggiunti i 100k di follower, vedersi giungere proposte commerciali per indossare il vestito o l’occhiale di marca in cambio di un cachet da fare invidia ad un professionista. Certo questa è una nuova forma di lavoro, dove il prodotto in vendita sa poco di valore artistico. E’ semplicemente la seminudità ad attirare l’attenzione o in qualche modo, oltre ad un ovvio senso del bello estetico, c’è una componente che rende interessante e desiderabile l’ intimità altrui?

Oppure il semplice desiderio di protagonismo e condivisione su Facebook che diviene più forte della riservatezza stessa come se fosse di interesse nazionale che il cane di qualcuno posa sotto l’albero di Natale indossando un orrendo maglione con la renna.

Sembrerebbe che se non sappiamo viverla allora decidiamo di venderla oppure ci accontentiamo di sbirciare quella degli altri reale o falsa che sia.

 

Che vuoi che sia: riscoperta dell’ intimità nella minaccia della perdita

La coppia del film Che vuoi che sia, all’inizio forse inconsapevolmente, ha una strutturazione molto forte di quella che è la loro intimità, lo spettatore lo vedrà nel loro modo di comunicare attraverso paradossi che lascerebbero disorientato qualsiasi ascoltatore, ma loro sanno molto bene il significato di un “non ti amo” “non mi manchi per niente”. La tentazione inflitta, definita da centinaia di migliaia di persone pronte a pagare per vederli in camera da letto preferendoli di gran lunga all’ormai troppo facile e svalutato vecchio buon porno d’autore, però metterà a dura prova tutto questo alterando in parte equilibri fondamentali di relazione. I tentativi di ridefinizione cognitiva (“che vuoi che sia” appunto) per accettare il cambiamento saranno tanti, ma proprio quando si avrà la percezione forte di quello a cui si sta realmente rinunciando quasi di fronte al fatto compiuto, qualcosa di “sano” scatterà aiutandoli a ristabilire le loro priorità e ad esplorare risorse alternative alla facilissima via di guadagno e soluzione assaporata e quasi intrapresa.

Accade spesso che già nella prima telefonata in cui si richiede una terapia di coppia, uno dei due possa dire frasi del tipo “…credo che io e mia moglie abbiamo un concetto di intimità differente…” ma quando chiedo in seduta se è sempre stato così ad una coppia che sta insieme da tempo, non si esita mai a rispondere di no, allora io mi limito a commentare “allora cerchiamo di ritrovare una dimensione di intimità che possiate nuovamente condividere…” .

Mi rendo conto mentre scrivo queste righe di quanto mi stia esponendo al rischio di apparire bacchettone: “Che vuoi che sia” appunto, una frase con la quale si cerca ti togliere valore a qualcosa, sminuire una sensazione di pancia che sta li, spinge ed ha qualcosa di importante da dire.

Che vuoi che sia è una piacevole commedia italiana che ci fa riflettere su questo aspetto apparentemente scindibile, vendibile e a volte invisibile della nostra intimità ma in senso più generale più delle nostra stessa esistenza, che può divenire un valore commerciale di facile vendita e distribuzione, una sorta di rivisitazione del Faust dove in vendita era l’anima. Forse proprio questo aspetto dello scibile umano è oggi ad esser richiamato, il vendere qualcosa di noi, magari di non visibile, di apparentemente rinunciabile, per qualcosa apparentemente di maggior valore, come fama, denaro, successo.

Anche Bart Simpson (citazione ancor più colta di Goethe) in una puntata della serie decide di vendere la propria anima per 5 dollari, scrivendola su un foglietto, facendo tra l’altro un pessimo affare, ma ben presto, vivendo piccoli ed insignificanti disagi, si accorgerà a cosa ha realmente rinunciato. Come magari potrebbe accadere in una coppia partendo da quel momento in cui l’altro si inizia a percepire un po’ più lontano.

L’ intimità è una dimensione interna a noi che iniziamo a sviluppare fin dalla nascita e va via via definendosi mentre viviamo esperienze relazionali. Le emozioni che proviamo al contatto con gli altri ci fanno capire quanto possa essere piacevole o spiacevole una maggiore vicinanza o lontananza con gli altri. Presto afferriamo il concetto che non è possibile trovarci a nostro agio gestendo un’equidistanza con tutti, ma la differenziazione di questo diventa un potente meccanismo regolatore delle relazioni che stabiliamo.

Tutto questo in noi è frutto di un lungo processo di definizione della persona e della sua personalità. Il primo step è sicuramente lo sviluppo di un proprio spazio intimo. Questo ci permetterà di percepire i confini che segnano l’intimità anche delle altre persone.

Tutto questo processo di strutturazione dell’ intimità naturalmente, come altri aspetti di definizione della persona, passa attraverso le influenze dei processi educativi, familiari e sociali.

Avverrà naturalmente che più avremo delineate queste dimensioni più potremo sperimentarci nella sensazione del far entrare qualcuno nel nostro spazio intimo per poi accedere alla dimensione in cui si crea suo spazio intimo condiviso e strutturato assieme all’altro.

Una coppia che ha attraversato queste fasi in maniera abbastanza competa avrà sicuramente la percezione (consapevole o non consapevole di tale spazio intimo), avvertirà una stanza mentale di rifugio e condivisione, una sorta di gelosia ed istinto protettivo verso di essa, un qualcosa che se protetta e alimentata in modo sano potrà costituire una delle sue più grandi risorse anche nei momenti di crisi.

Un’altra riflessione mossa dal film Che vuoi che sia è: cosa perderemmo quindi se rinunciassimo all’ intimità senza saperlo? Un livello di interazione molto potente, che si realizza anche nella stanza della terapia dove una persona pian piano affida e condivide la sua storia, le sue emozioni ed i suoi pensieri a qualcuno libera da un giudizio, acquisendo sicurezza, condivisione, conforto e cooperazione in un processo di relazione complesso ed orientato alla promozione del suo benessere.  Un aspetto della mia vita e del mio lavoro, quindi se qualcuno dovesse domandarmi che valore io do all’ intimità la mia risposta può essere soltanto una: infinito e guai a chi me la tocca!

Abbraccialo per me (2016). Un film di Vittorio Sindoni – Recensione

Abbraccialo per me: In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Abbraccialo per me (2016) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #38

Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

Un  film  di  Vittorio  Sindoni  con  Stefania  Rocca,  Vincenzo  Amato, Moise Curia, Giulia Bertini, Pino Caruso.

Trama

Il film Abbraccialo per meè dedicato a tutte le persone che soffrono di disabilità mentale e alle loro famiglie che accanto a loro subiscono falso pietismo o indifferenza in attesa di cure e strutture che gli diano una speranza di vita migliore”.

Francesco vive in un piccolo centro con una madre iperprotettiva, che ha riorganizzato la propria vita intorno alle sue “stranezze”. Quando il disturbo mentale di Ciccio diventa sempre più evidente sarà costretta a prenderne atto. L’equilibrio familiare salta e il padre del ragazzo, dispotico, assente e anaffettivo abbandona moglie e figli al loro destino. La sorella di Francesco riuscirà a trovare una soluzione che permetterà al fratello di ricevere cure adeguate.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DI ABBRACCIALO PER ME:

 

Motivi d’interesse

In un contesto restio ad accettare la diversità si snoda la storia di un ragazzo affetto da un disturbo psichico. Stigma, cure inadeguate, una psichiatria che adotta come unica soluzione di trattamento il farmaco sembrano ricacciarci indietro nel tempo.

Quando Basaglia, dopo anni di lotte riuscì a far approvare la L. 180/1978 nel nostro paese si aprì la possibilità di curare la malattia mentale in un clima di umanizzazione, con l’obiettivo principale della recovery e dell’inclusione dei pazienti nel contesto comunitario di appartenenza, fuori dai manicomi, istituzioni totali più simili a lager che a luoghi di cura.

La riorganizzazione dell’assistenza psichiatrica ospedaliera e territoriale e il superamento della logica manicomiale rappresentava una svolta importante. L’intervento terapeutico e riabilitativo non era più impostato sulla medicalizzazione del paziente ma si apriva ai contributi della psichiatria sociale, alle forme di supporto territoriale, alle potenzialità delle strutture intermedie, e alla psicoterapia nei servizi pubblici.

La legge riconosceva, inoltre, il diritto ai malati di avere una vita di qualità nel contesto d’appartenenza, senza più essere soggetti a “deportazioni” forzate dai luoghi e dagli ambienti familiari.

A distanza di una quarantina d’anni i drammi che vivono tante famiglie sembrano cancellare gli avanzamenti che in una stagione storica ben precisa sono stati compiuti. L’intervento pubblico è sempre più asfittico, le risorse impegnate sempre più ristrette e la speranza di avere cure adeguate porta sempre più malati a rivolgersi al privato.

Nelle pieghe di una burocrazia malata, di norme e strutture carenti, di risorse impiegate male e spesso dissipate e malversate si intrecciano tragedie e disastri. Gli esempi da citare sarebbero tanti e percorrono l’intera penisola da Torino dove si muore in strada per un Trattamento Sanitario Obbligatorio a Salerno dove si muore legati ad un letto di contenzione in SPDC (servizio psichiatrico di diagnosi e cura).

Certo, negli ultimi anni si sono fatti notevoli progressi nella cura delle malattie mentali, ma chi usufruisce di quelle cure previste dalle linee guida e dai protocolli che le istituzioni e le associazioni scientifiche hanno messo a punto e che dovrebbero rappresentare interventi d’elezione e buone pratiche da adottare in termini universalistici?

Il film di Sidoni coinvolge e denuncia: le responsabilità degli operatori, le fragilità famigliari e personali, l’atteggiamento espulsivo e marginalizzante della comunità, ma dà anche speranza nella possibilità di ricevere aiuto. E’ possibile che quella diversità, che poi tutti affrontiamo come possiamo, che quelle stranezze, che anche ognuno di noi si porta dentro, possano essere comprese, accolte e magari anche trattate quando assumono connotati maladattivi in strutture che facciano del rispetto della dignità umana e della compassione i capisaldi di un percorso di cura anche tecnicamente appropriato.

Il film commuove, ci fa provare tristezza e rabbia, c’è disperazione e speranza e in definitiva ciò che emerge è la difficoltà di affrontare la complessità della psicopatologia. In questa situazione così problematica è la sorella di Francesco, Tania che mantiene la lucidità necessaria – l’amore incondizionato e cieco della madre è disastroso e patogeno – per trovare una soluzione che chiude il film con la speranza che nonostante non sia mai facile fronteggiare la malattia mentale, parafrasando Basaglia e un film di Giulio Manfredonia “si può fare”.

La denuncia di situazioni che tanti vivono quotidianamente in silenzio è l’occasione per ricordare che il problema va affrontato senza pregiudizi e con il coinvolgimento ampio di tutti, perché il livello di una civiltà si misura da come sono trattati i soggetti più svantaggiati e bisognosi.

 

Indicazioni di utilizzo

E’ un’ottima base di riflessione e discussione per promuovere un atteggiamento più aperto e meno stigmatizzante nei confronti della malattia mentale e per coinvolgere le istituzioni pubbliche e sollecitare una maggiore sensibilità a questi problemi da affrontare senza smantellare l’impostazione della L. 180/1978 che ha reso il nostro paese uno dei più avanzati nel campo della salute mentale.

Sintomi di depressione o ansia nei caregiver di persone malate

Attualmente, sono più di 34 milioni le persone che negli Stati Uniti si occupano dei loro cari malati. Uno studio condotto presso l’Università di Medicina del Missouri ha rivelato che quasi un quarto dei caregiver soffre di depressione, mentre un terzo soffre di un disturbo d’ansia. Quindi, alla luce di questi risultati i ricercatori raccomandano ai caregiver di sottoporsi periodicamente a controlli per poter identificare tempestivamente i primi segnali di scompenso.

 

Depressione o ansia nei caregiver di familiari ammalati

[blockquote style=”1″]La tristezza e la preoccupazione verso un familiare ammalato o in fin di vita sono sentimenti attesi e spesso presenti, mentre depressione o ansia sono sintomi differenti e non dovrebbero essere presenti [/blockquote] afferma la Dottoressa Debra Parker-Oliver, principale ricercatore dello studio.

La Dr.ssa Parker-Oliver e i suoi colleghi hanno condotto questo studio, valutando gli stati di ansia e di depressione di circa 395 caregiver e hanno scoperto che circa il 23 per cento di loro soffre di una depressione moderata o grave, mentre al 33 per cento è stato diagnosticato un disturbo d’ansia.

[blockquote style=”1″]Più i caregiver sono giovani, più alte sono le probabilità che essi siano depressi o ansiosi. Ma non solo, si è anche scoperto che i livelli depressivi sono più alti se ci si occupa di un parente affetto dal morbo di Alzheimer.[/blockquote]

 

L’importanza di uno sguardo alla famiglia del paziente ammalato

Secondo la ricercatrice, queste situazioni vengono molto sottovalutate perché gli operatori sanitari tendono a concentrarsi più sul paziente malato invece che prendere in esame un quadro più generale, ovvero tutta la famiglia. Nella maggior parte dei casi, infatti, si tratta di una malattia che impatta non solo sul paziente, ma anche sui caregiver e su tutto il sistema famigliare.

La Dr.ssa Parker-Oliver conclude affermando che strumenti di valutazione per la depressione e l’ansia sono ampiamente accessibili e una diagnosi precoce potrebbe migliorare le condizioni di vita e il benessere dei caregiver.

La valutazione e il trattamento del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva

La terapia per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato è costituita dal trattamento della sintomatologia del Disturbo da Stress Post Traumatico ampliato con alcune componenti specifiche per il lutto traumatico.

 

Il Disturbo da Lutto Persistente Complicato (DLPC) viene definito dal DSM 5 (APA, 2014) come la  condizione in cui alla perdita di una persona con cui si ha una relazione stretta, l’individuo, manifesta una compromissione psicosociale significativa, anche dopo 12 mesi negli adulti e dopo 6 mesi nei bambini. Tale disagio clinico è dovuto o a una persistente nostalgia della persona persa (Criterio B1), o a un profondo e non gestibile dolore (Criterio B2), o a una forte preoccupazione per la persona deceduta (Criterio B4) o per il modo in cui la persona è deceduta (Criterio B4).

Nonostante si stia registrando un sempre più crescente interesse per bambini e adolescenti colpiti da morte inaspettate e o violente dei propri cari, gli strumenti diagnostici a disposizione per la valutazione di Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva sono ancora pochi.

 

Strumenti diagnostici per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato

Come è sempre consigliato nell’assessment in età evolutiva, anche nella valutazione iniziale del Disturbo da Lutto Persistente Complicato si dovrebbe includere una valutazione del funzionamento passato e attuale del bambino e della famiglia. In aggiunta, dovrebbero essere valutati l’esperienza e le percezioni del bambino circa il decesso della persona amata, i sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico manifestati dal bambino, e l’influenza di questi sintomi sull’abilità di iniziare il normale processo di elaborazione del lutto (Cohen, Mannarino, Greenberg, Padlo & Shipley, 2002).

E’ necessario premettere che, se per l’infanzia e per l’età adulta il materiale è ampio, per l’adolescenza, proprio per le sue caratteristiche di instabilità e varianza, gli strumenti sono pochi e poco affidabili.

 

Test di assessment specifici: la sintomatologia traumatica in età evolutiva

Gli strumenti psicodiagnostici disponibili in lingua italiana e standardizzati per la popolazione italiana in tema di disturbi post-traumatici, purtroppo, sono piuttosto carenti e ancor di più per quanto riguarda l’età evolutiva. Tra gli strumenti di valutazione dei sintomi presentati in adolescenza in conseguenza a un trauma abbiamo:

  • Trauma Symptom Checklist for Children (TSCC)

Il TSCC (Briere, Elliott, Harris & Cotman, 1995) è uno strumento di self report sul distress post-traumatico e sulla connessa sintomatologia psicologica. È indicato per la valutazione dei minori, dagli 8 ai 16 anni, che hanno sperimentato eventi traumatici, compresi abuso fisico e sessuale durante l’infanzia, vittimizzazioni da parte dei pari (per esempio aggressioni fisiche o sessuali), gravi perdite, nonché l’aver assistito a violenze su altri ed essere stati coinvolti in disastri naturali. Diversamente dai test più specifici, il TSCC valuta le risposte dei bambini a eventi traumatici aspecifici in relazione a differenti domini sintomatologici.

Il TSCC è disponibile in due versioni: quella completa composta da 54 item in cui sono inclusi 10 item che sondano sintomi e preoccupazioni sessuali e la versione alternativa (TSCC-A) con 44 item che non contiene riferimenti a temi sessuali.

Presenta anche due misure di validità per valutare la minimizzazione o l’esagerazione dei sintomi. E’ formato da 6 scale cliniche:

  1. Ansia: ansia generalizzata, iperattivazione e paure specifiche; episodi di ansia fluttuante e un senso di pericolo incombente
  2. Depressione: sentimenti di tristezza, infelicità e solitudine; episodi di crisi di pianto; pensieri depressivi come senso di colpa e autodenigrazione; autolesionismo e tendenze suicidarie
  3. Rabbia: pensieri, sentimenti e comportamenti connotati da rabbia, compresi il sentirsi furiosi, sentirsi cattivi e sentire di odiare gli altri; avere difficoltà nello smorzare la rabbia; voler uralre o far male alle persone; litigare e lottare
  4. Stress post-traumatico (PTS): sintomi post-traumatici, compresi pensieri intrusivi, sensazioni e ricordi di eventi passati dolorosi; incubi; paure e evitamento cognitivo di sentimenti dolorosi.
  5. Dissociazione (DIS): sintomatologia dissociativa, compresa derealizzazione; mente vuota; stordimento emozionale; sensazione di far finta di essere qualcun altro o da qualche altra parte; sogni a occhi aperti; problemi di memoria e evitamento dissociativo. Ha due subscale: DIS-A (Dissociazione Aperta)e DIS-F (Fantasia)
  6. Interessi sessuali: pensieri o sensazioni sessuali che sono atipici quando appaiono prima del previsto e più frequentemente del normale; conflitti sessuali; risposte negative a stimoli sessuali e paura di essere sessualmente sfruttati. Ha due subscale: IS-P (Preoccupazioni sessuali) e IS-D (Distress sessuale)

 

  • Impact of Event Scale – 8 item Child/Adolescent Scale (IES-8)

Si tratta delle versione rivista del più diffuso test psicodiagnostico per la valutazione dei disturbi post-traumatici dagli 8 anni (Horowitz, Wilner & Alvarez, 1979).

La Children and War Foundation ha creato una scala simile, CRIES-13, costituita da 13 item nella forma completa e da 8 item nella forma ridotta, utilizzata come strumento di screening disponibile in 27 lingue diverse, ma senza validazione statistica.

Entrambe le scale valutano gli effetti del trauma nei successivi 7 giorni.

 

  • Child Behavior Checklist – scala DSPT

Nel 2001 sono state aggiunte alla CBCL due ulteriori scale specifiche, una per la valutazione del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) e una per il DSPT. Tuttavia, la DSPT scale non sembra presentare una buona validità statistica (es. Loeb, Stettler, Gavila, Stein & Chinitz, 2011).

 

Test di assessment specifici: valutare il Disturbo da Lutto Persistente Complicato

Per la valutazione specifica del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva pochi studi hanno sviluppato strumenti psicodiagnostici standardizzati (Cohen & Mannarino, 2010; Mannarino & Cohen, 2011). Attualmente vi è un unico strumento diagnostico con validità statistica per la valutazione dei sintomi connessi specificatamente alla morte di un proprio caro per l’età evolutiva:

 

  • Expanded Grief Inventory (EGI)

Questo strumento (Layne, Savjak, Saltzman & Pynoos, 2001) è costituito da 28 item che valutano la sintomatologia e le caratteristiche sia del lutto non complicato che del Disturbo da Lutto Persistente Complicato dai 7 ai 17 anni. Rileva 3 fattori principali:

1. Connessione positiva: la capacità del bambino di avere ricordi e pensieri positivi circa il defunto
2. Lutto complicato esistenziale: valuta il vissuto di vuoto causato dal decesso
3. Evitamento e intrusioni traumatiche: i sintomi intrusivi traumatici nell’abilità del bambino di ricordare o avere sentimenti positivi circa il defunto.

Questo strumento esiste solo nella versione in lingua inglese.

 

  • Characteristics, Attributions and Responses to Exposure to Death – Youth version (CARED-Y)

È un test composto da 39 item che fornisce informazioni sugli aspetti peritrauma del decesso della persona così come informazioni sulla relazione del bambino con il defunto e la sua partecipazione al funerale (Brown, Amaya-Jackson, Cohen, Handel, Thiel de Bocanegra, et al., 2008).

 

Principi di trattamento psicoterapeutico per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato: TF-CBT e TG-CBT

Il trattamento del Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva proposto in letteratura è quello che segue la Traumatic Grief Cognitive Behavioral Therapy (TG-CBT) (es. Mannarino & Cohen, 2011), derivante dalla Trauma-Focused Cognitive Behavioral Therapy (TF-CBT) (es. Cohen et al., 2006; Cohen Mannarino & Deblinger 2012; Cohen, Mannarino, Kliethermes & Murray, 2012; Mannarino & Cohen, 2011). In specifico, la terapia per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato è costituita dal trattamento della sintomatologia del Disturbo da Stress Post Traumatico (TF-CBT) ampliato con alcune componenti specifiche per il lutto traumatico (TG-CBT) (vedi Tabella 1).

 

Tabella 1: Componenti del trattamento secondo il TG-TBC (es. Cohen, Mannarino & Deblinger, 2006).

La TF-CBT è un modello di trattamento empiricamente basato rivolto al sostegno di bambini e dei loro genitori nell’affrontare le conseguenze di un’esperienza traumatica. Questo percorso terapeutico è un approccio che, attraverso diversi componenti, integra tra loro interventi sulla sintomatologia traumatica, sulla famiglia, sull’empowerment con principi derivanti dall’approccio cognitivo-comportamentale, dalla teoria dell’attaccamento, dallo sviluppo neurobiologico. Il fine è di seguire al meglio le peculiari necessità del bambino traumatizzato e della sua famiglia (Cohen et al., 2006). In specifico, la TF-CBT è rivolta al trattamento dei sintomi da DSPT, depressione e ansia e le condizioni a questi connesse.

La TF-CBT e, conseguentemente, la TG-CBT presentano le seguenti caratteristiche fondamentali:

  • Strutturata su componenti interconnesse tra loro, che sviluppano capacità centrali partendo da abilità già consolidate
  • Basata sul Rispetto per l’individuo, la famiglia, la religione, i valori culturali
  • Adattabilità, il terapeuta dev’essere creativo e flessibile
  • Coinvolgimento della famiglia, è uno dei cardini principali della terapia. Uno degli obiettivi è quello di incrementare e migliorare le interazioni e la comunicazione tra bambino e genitore. Tuttavia, con gli adolescenti è importante anche incoraggiare l’indipendenza e l’autonomia dalle figure genitoriali
  • Relazione terapeutica basata su fiducia, accettazione, empatia che ha come obiettivo quello di ridare ottimismo, fiducia, autostima nel bambino traumatizzato
  • Promozione della self-efficacy, incluso autoregolazione delle emozioni, del comportamento e dei pensieri.

Per questi approcci terapeutici è centrale la creazione di una salda e solida alleanza terapeutica tra bambino e terapeuta. I bambini traumatizzati spesso hanno difficoltà a fidarsi delle altre persone, quindi, parte della terapia dev’essere specificatamente e direttamente dedicata alla costruzione di una buona relazione terapeutica, attraverso l’ascolto attivo, l’empatia e la trasmissione di un reale interessamento per il bambino, i suoi pensieri, le sue emozioni e la sua vita.

Questi due percorsi terapeutici sono entrambi costituiti da diversi elementi, dieci per la TF-CBT e quattro per la GF-CBT, che non sono sequenziali tra loro ma sono da presentare come interconnessi e con estrema adattabilità a seconda delle caratteristiche specifiche del singolo bambino, della famiglia e degli individuali progressi nella terapia.

 

Principi di trattamento farmacologico

In letteratura, non risulta alcuno studio che abbia indagato il trattamento farmacologico specifico per il Disturbo da Lutto Persistente Complicato. Dato che la sintomatologia propria del Disturbo da Lutto Persistente Complicato copre in parte la sintomatologia manifestata con il Disturbo da Stress Post Traumatico, verrà di seguito riportato il trattamento farmacologico inerente questo disturbo.

La farmacologia per il Disturbo da Stress Post Traumatico in età evolutiva ha avuto scarso supporto empirico. In generale, i dati indicano che la farmacoterapia ha successo solo se affiancata da un percorso psicoterapeutico e che solo un intervento multimodale che combina TCC, interventi ambientali e farmacoterapia in casi di forte sintomatologia ansiosa risulti efficace (Kodish, Rockhill & Varley, 2011).

In età evolutiva la farmacoterapia dovrebbe essere selezionata in base a 3 principi (Kaminer, Seedat & Stein, 2005):

  1. Avere come obiettivo i sintomi disabilitanti,
  2. Migliorare la qualità della vita permettendo uno sviluppo e una crescita normale nel lungo-termine,
  3. Facilitare il processo di psicoterapia.

Secondo gli studi presenti in letteratura, si utilizzano principalmente due classi di psicofarmaci per trattare il Disturbo da Stress Post Traumatico in età pediatrica: i famarci adrenergici e gli inibitori della ricaptazione della serotonina (es. Kodish, et al., 2011).

I farmaci adrenergici riducono l’attivazione fisiologica e sono risultati efficaci nel trattamento dell’iperattivazione, dell’impulsività e  della riesperienza del trauma tipici del Disturbo da Stress Post Traumatico (es. Perry, 1994; Harmon & Riggs, 1996; Famularo, Kinscherff & Fenton, 1988).

Gli Inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI) sono ampiamente utilizzati per trattare il Disturbo da Stress Post Traumatico negli adulti e alcuni dati suggeriscono la loro efficacia anche in infanzia e adolescenza (Rupp Anxiety Group, 2001). Inoltre, anche per i limitati effetti collaterali, questo tipo di farmaci è indicato da utilizzare come terapia di prima linea nei casi di Disturbo da Stress Post Traumatico in età evolutiva (Kaminer, et al., 2005).

Non vi sono sufficienti prove empiriche dell’efficacia di antidepressivi triciclici (TCAs), inibitori della monoamino ossidasi (MAOIs) e benzodiazepine (BZD) per il trattamento in età pediatrica del Disturbo da Stress Post Traumatico (Kaminer, et al., 2005).

 

Efficacia della terapia

Il trattamento proposto dalla TF-CBT ha il più ampio supporto empirico tra tutti i trattamenti sviluppati per i bambini traumatizzati (es. Bisson, Ehlers, Matthews, Pilling, Richards, et al., 2007; Cohen, Deblinger, Mannarino & Steer, 2004; Cohen, et al., 2006; Cohen, Mannarino & Iyengar, 2011; Cohen, Mannarino & Staron, 2006; Deblinger, Mannarino, Cohen & Steer, 2006; Deblinger, Mannarino, Cohen, Runyon & Steer, 2011; Dorsey, Cox, Conover & Berliner, 2011; Dorsey & Deblinger, 2012; Jaycox, Cohen, Mannarino, Walker, Langley, et al, 2010; Lyons, Weiner & Scheider, 2006; Mannarino & Cohen, 2011; Mannarino, Cohen, Deblinger, Runyon, Steer, 2012; Silverman, Ortiz, Viswesvaran, Burns, Kolko, et al., 2008).

Cohen e colleghi (2004) dimostrarono che i bambini assegnati al protocollo della TF-CBT mostrarono miglioramenti significativamente maggiori circa i sintomi di Disturbo da Stress Post Traumatico, depressione, problemi comportamentali, sentimenti di vergogna, e attribuzioni disfunzionali connesse al trauma e i loro genitori riportarono miglioramenti significativamente maggiori nella sofferenza legata all’abuso, nella depressione, nelle capacità genitoriali e al supporto genitoriale, rispetto a bambini e genitori dello stesso centro seguiti con un’altra forma di terapia. Inoltre, i miglioramenti venivano mantenuti fino a 1 anno dalla fine della terapia (Deblinger, et al., 2006).

Recentemente, è stata indagata l’efficacia del trattamento con bambini dai 4 agli 11 anni (Deblinger, et al., 2011). Non solo è stata confermata l’efficacia del protocollo, ma sono stati anche evidenziati i benefici del formato in 8 sessioni con l’utilizzo della tecnica del “racconto del trauma” (Trauma Narrative) nell’aiutare i bambini a superare la paura e l’ansia generalizzata (Deblinger, et al., 2011). I dati inoltre suggeriscono che le componenti volte a strutturare le abilità e le componenti rivolte ai genitori, in particolare, erano forse quelle più importanti nel risolvere i problemi comportamentali (Deblinger, et al., 2011; Deblinger, et al., 1996).

Recentemente è stata valutata anche l’efficacia di questo protocollo con i bambini esposti a violenza sessuale. I dati dimostrarono che, rispetto ai bambini assegnati alle cure abituali, quelli assegnati al programma TF-CBT esibirono una significativa riduzione di Disturbo da Stress Post Traumatico e ansia connessi alla violenza subita (Cohen, et al., 2011).

Studi recenti hanno documentato ulteriormente i benefici del TF-CBT per bambini che hanno subito un lutto traumatico (Cohen, et al., 2006), bambini traumatizzati dagli eventi dell’11 settembre (CATS Consortium, 2010), bambini sopravvissuti all’uragano Katrina (Jaycox, et al., 2010), bambini provieniti da popolazioni con una frequente esposizione a eventi traumatici, compresi bambini in affidamento (Dorsey, et al., 2011; Lyons, et al., 2006) e bambini esposti a violenza e perdite traumatiche nei paesi in via di sviluppo (Dorsey, et al., 2011; Murray, et al., 2011).

La mole di questi dati e altri conferma l’efficacia della TF-CBT nel trattare i bambini che soffrono di Disturbo da Stress Post Traumatico e le difficoltà emotive e comportamentali connesse (Bisson, et al., 2007; Saunders, et al., 2004; Silverman, et al., 2008).

Una nuova tecnica per comprendere la complessa bellezza del cervello che dorme

I ricercatori del Massachusetts General Hospital (MGH) hanno sviluppato un nuovo approccio per analizzare l’ attività cerebrale durante il sonno, che promette di dare una rappresentazione più dettagliata e accurata dei cambiamenti neurofisiologici che avvengono mentre si dorme. All’interno di un report pubblicato sulla rivista Physiology, il team di ricerca ha descritto come l’applicazione di una tecnica chiamata Analisi Spettrale con metodo Multitaper dell’elettroencefalogramma (EEG) fornisca raffigurazioni obiettive e ad alta risoluzione dell’ attività cerebrale durante il sonno, che sono più informative e più facili da definire rispetto agli approcci precedenti.

 

Gli studi neuropsicologici precedenti sul sonno

Le analisi cliniche del sonno si sono storicamente concentrate nell’identificare e tracciare i pattern comuni dell’attività cerebrale: le “fasi del sonno”; un processo lungo e perlopiù soggettivo. A partire dalla fine del 1930, la stadiazione del sonno è stata effettuata utilizzando macchine per EEG che riportavano su fogli di carta tracce di 30 secondi dell’attività cerebrale. Un tecnico esperto prendeva poi ogni foglio – quasi 1.000 in una registrazione di 8 ore – e decideva in quale fase del sonno il paziente si trovasse mediante ispezione visiva delle tracce.

Quasi 80 anni dopo, dopo un affinamento delle diverse fasi e la computerizzazione delle tracce, il processo di stadiazione è rimasto praticamente invariato, richiedendo ancora molto tempo e rimanendo qualitativo. Di conseguenza, i tecnici preposti alla lettura, anche se esperti, concordano ancora solo il 75-80% delle volte. La progressione di diverse fasi del sonno durante una notte, definita ipnogramma, è ancora usata come descrittore primario dell’architettura del sonno ed è uno strumento importante, dato che i numerosi “segni e scarabocchi” delle onde cerebrali diventano indiscernibili ad occhio nudo su grandi scale temporali.

Durante il sonno, il cervello è impegnato in una sinfonia di attività che coinvolgono l’interazione dinamica di diverse reti corticali e sub-corticali” ha affermato Michael Prerau del Dipartimento di Anestesia al MGH, autore principale del report. “A causa dei vincoli pratici e delle prassi ormai consolidate, le attuali tecniche cliniche semplificano notevolmente il modo in cui il sonno è descritto, causando la perdita di un’enorme quantità di informazioni. Abbiamo quindi voluto identificare un modo più completo di caratterizzare l’ attività cerebrale durante il sonno, facile da capire e veloce da imparare, ma solido e basato su principi matematici”.

 

L’analisi spettrale per studiare l’ attività cerebrale durante il sonno

L’approccio dei ricercatori fornisce un cambiamento di paradigma che permette di allontanarsi dalla stadiazione soggettiva del sonno e di sfruttare la ricchezza di informazioni oggettive contenute nei dati EEG. L’analisi spettrale permette di suddividere un segnale ad onda nelle sue diverse oscillazioni, proprio come un prisma suddivide la luce bianca nei suoi colori componenti. Nell’EEG, queste oscillazioni rappresentano l’attività di network cerebrali specifici durante il sonno e la veglia. “A un livello fondamentale, l’attività cerebrale è veramente organizzata in termini di oscillazioni e onde” ha spiegato l’autore senior Patrick Purdon. “L’analisi spettrale analizza i segnali in termini di queste onde, il che lo rende lo strumento adatto – e per certi versi lo strumento perfetto – per lo scopo. Purdon ha sottolineato anche che l’analisi tradizionale del sonno è essenzialmente una forma rudimentale di analisi spettrale, basata sul riconoscimento delle proprietà delle diverse onde attraverso l’occhio.

L’analisi spettrale potrebbe non essere stata adottata precedentemente per lo scoring del sonno poiché le principali tecniche per la stima spettrale dell’EEG producevano valutazioni imprecise, rendendo l’interpretazione dello spettrogramma difficile. Di conseguenza, i ricercatori hanno utilizzato il metodo multitaper, una tecnica con ridotta interferenza e maggiore precisione, che esegue una traccia di come la frequenza e l’intensità delle oscillazioni cambiano nel tempo, fornendo ulteriori informazioni su quali reti siano attive in ​​diversi punti durante il sonno.

In futuro, il team di ricerca si concentrerà sullo sviluppo di metriche quantitative robuste basate sullo spettrogramma. “Andando avanti, questo approccio migliorato permetterà agli scienziati di meglio caratterizzare la complessa eterogeneità osservata nel sonno normale e, infine, di supportare la diagnostica del sonno e dei disturbi ad esso correlati” ha affermato Prerau.

 

I sogni della sinistra spiegati con i sogni della destra, e viceversa

“La sinistra non può essere solo l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo”

 

Pubblichiamo qualche considerazione psicologica -da non prendere troppo sul serio- sul conflitto psicologico delle persone di sinistra. Gli ultimi sviluppi di ieri del congresso del partito democratico sembrano confermare questo disagio psicologico. È l’eterna tensione della mente umana tra ideale e reale. Tra come pensiamo che le cose siano e come riteniamo debbano essere. Dove sia la ragione, non osiamo dirlo. Giunto sulla soglia dell’opinione politica lo psicologo ammutolisce, conscio di avere probabilmente già parlato troppo di problemi che vanno ben al di là delle sue competenze. Buona lettura.

Una prima versione di questo articolo è stata pubblicata sabato 18 Febbraio su Linkiesta.

 

In questi giorni di travaglio e possibili scissioni nel corpo della sinistra, torna in mente una frase rivelatoria di pochi mesi fa di Nichi Vendola: “La sinistra non può essere solo l’ammorbidente nella lavatrice del liberismo“. In questa frase c’è tutto il dramma psicologico di una persona di sinistra. Un ammorbidente non ha personalità, la personalità è tutta della lavatrice. Non basta tamponare gli aspetti negativi del liberismo, ragiona Vendola, occorre fare una politica di sinistra. La domanda è: esiste una lavatrice di sinistra? Ovvero, esiste un modo di produrre ricchezza che sia di sinistra oppure la sinistra può solo limitarsi a ridistribuirla, la ricchezza?

Domanda da economisti a cui gli psicologi non oserebbero rispondere. Eppure, anche da incompetenti, ci si può chiedere se la sinistra riformista –l’unica che abbia davvero governato democraticamente- non sia nata proprio dalla presa d’atto che, da sinistra, la ricchezza può essere ridistribuita ma non creata. Marxisticamente, pare proprio che il modo di produzione rimanga nelle mani del capitale, e la sinistra si limiti ad ammorbidire le vesti che rotolano vorticosamente nella lavatrice liberista.I tentativi di creare la ricchezza in maniera radicalmente egualitaria hanno creato disastri, non solo di inefficienza ma perfino di ingiustizia. I mezzi di produzione conquistati nel nome del popolo, lontani dall’essere stati condivisi con il popolo (qualunque cosa esso sia), sono finiti nelle mani di stati nominalmente comunisti e gestiti dispoticamente, creando la paradossale somiglianza tra regimi rivoluzionari e il modo di produzione “asiatico”, il modo di produzione che Marx attribuiva alle reazionarie economie imperiali pre-moderne, scomparse in occidente ma ancora in vigore in Asia ai tempi di Marx.

E ancora in vigore ai nostri tempi, in realtà. Colpisce infatti leggere che la Cina ha liberalizzato da meno di un anno il mercato del sale dopo 2700 anni di ininterrotto controllo centralizzato del prezzo o che le liberalizzazioni abbiano costretto il governo cinese a introdurre il diritto privato romano, tra l’altro con la consulenza di Oliviero Diliberto. Segnali strani, segnali che il maoismo era in continuità con l’economia centralizzata e marxisticamente “asiatica” e dispotica dell’Impero cinese. Mentre, a quanto pare, diritto romano e libero mercato vanno insieme da un paio di millenni e questa strana coppia solo da pochissimo ha fatto amicizia con Confucio e Mao. Che poi le presentazioni le faccia Diliberto ci dice quanto sia strana la vita.

Accettare di essere solo un ammorbidente nella lavatrice della vita non deve essere facile. Vorremmo modificare l’assetto del mondo, fermarne la caotica entropia, e dobbiamo accontentarci di mettere delle toppe. Piuttosto deprimente, e non molto di sinistra. Vi è un happiness gap tra il pessimismo più o meno realistico dei conservatori e l’ottimismo della volontà delle persone di sinistra. Ottimismo che può funzionare quando ci sono le risorse per agire e modificare la realtà, come forse è accaduto dopo il boom economico del dopoguerra che rese possibili le rivoluzioni sociali degli anni ’60. Un po’ più difficile farlo ora, tempi in cui le vacche sono dimagrite e i sogni del faraone sono tristi da interpretare. Giuseppe si preparò, riempiendo previdentemente i depositi di grano, noi forse un po’ meno, magari troppo occupati ad ammorbidire ma nella maniera sbagliata, senza mettere da parte le provviste per l’inverno.

Dall’altra parte, l’uomo di destra non se la passa meglio. Incattivito da una realtà più aspra dei suoi più pessimistici pensieri, sembra quasi spaventato dai fantasmi che egli stesso ha evocato. Altro è giocare al raffinato dandismo del cattiverio di destra, altro è invece trovarsi tra i piedi i populismi veri e non l’horror intrigante dei libri di storia in cui tutto è solo spavento e favola ma non realtà.

I sogni diventano incubi se si avverano troppo e troppo a lungo ci siamo compiaciuti di svolgere ruoli immaginari. Sotto l’ombrello del capitalismo keinesiano ci siamo sentiti protetti e abbiamo recitato molteplici parti immaginarie: quella dei comunisti immaginari, quella dei fascisti immaginari e, ultimamente, perfino quella dei liberisti immaginari. Il futuro sembra diverso e somiglia a un risveglio amaro.

I fattori cognitivi che contribuiscono al mantenimento dell’obesità

Il mantenimento dell’Obesità e delle abbuffate è spesso dovuto a fattori cognitivi ed emotivi che sfuggono alla consapevolezza del soggetto, tra questi troviamo un’alta sensibilità al potere gratificante del cibo, scarsa pianificazione e flessibilità cognitiva, e l’incapacità nel regolare le proprie emozioni. 

Emanuela Olivetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

Se l’alimentazione fosse controllata unicamente da meccanismi omeostatici, la maggior parte delle persone sarebbe al suo peso ideale e mangiare sarebbe come respirare, un compito necessario ma non eccitante. Il fatto che così non è suggerisce l’importante ruolo del sistema di ricompensa nella motivazione ad alimentarsi e aggiunge la possibilità che un consumo eccessivo di cibo possa riflettere una disfunzione proprio di tale sistema o nella interazione tra questo e il meccanismo di regolazione omeostatica (Saper et. al., 2002).

La letteratura recente sulla ricompensa e sensibilità a questa suggerisce l’esistenza di una alterazione dopaminergica, in particolare a livello mesolimbico, che potrebbe spiegare sia disturbi da uso di sostanza che la propensione a mangiare in eccesso e ad ingrassare (Devlin M. J., 2007).

 

Mantenimento dell’obesità e Disturbo da Binge Eating

Spesso associato all’aumento di peso, nonché al mantenimento dell’ obesità, in alcuni casi suo determinante, è il Disturbo da Binge Eating in cui, a ricorrenti episodi di abbuffata, caratterizzati dal mangiare in un determinato periodo di tempo una quantità di cibo significativamente maggiore di ciò che normalmente si mangerebbe nello stesso intervallo e nelle stesse circostanze, si associa la sensazione di perdita di controllo durante l’episodio stesso, in assenza di sistematiche condotte compensatorie (DSM 5 – Apa 2014).

Trattare il disturbo da binge eating e la riduzione delle abbuffate potrebbe prevenire ulteriori aumenti di peso (Yanovski, 2003), infatti in queste condizioni il dimagrimento sarebbe moderato ma sostenuto nel tempo, anche se, va specificato, la tendenza ad ingrassare non è determinata dalla frequenza ma piuttosto dalla quantità e qualità di cibo ingerito durante gli episodi di binge eating (Barnes et al., 2012).

Gli stati fisiologici associati all’equilibrio energetico (ad esempio, fame e sazietà) dovrebbero essere i maggiori determinanti del comportamento alimentare, anche se la scelta del cibo e della sua quantità possono essere fortemente influenzati dalle loro caratteristiche, come ad esempio gusto, colore e consistenza al punto che l’esposizione a stimoli alimentare altamente appetitosi può bypassare i segnali di sazietà e condurre ad una iperalimentazione.

 

Sensibilità al potere gratificante del cibo

Tra i fattori di mantenimento dell’obesità troviamo la sensibilità al cibo. Tutti gli individui reagiscono allo stesso modo di fronte a stimoli gustosi ma ciò che può variare è la sensibilità al potere gratificante del cibo (Beaver J. D. et al., 2006). Soggetti con una accresciuta sensibilità esterna al cibo (external food senitivity) presentano livelli ridotti di interazioni dinamiche tra i network responsabili dell’alimentazione. La sola vista di cibo appetitoso può indurre in questi individui un maggior incremento dei livelli soggettivi di fame anche in assenza dei relativi segnali omeostatici interni (Passamonti et al., 2009).

Tramite l’uso di risonanza magnetica funzionale -fMRI – è stato evidenziato come la vista di cibi allettanti corrisponda all’attivazione di un circuito neurale che include lo striato ventrale, l’amigdala, il mesencefalo e la regione orbitofrontale e come questo abbia un ruolo rilevante nella scelta della qualità e quantità di cibo da ingerire, in quanto ampiamente coinvolto nei meccanismi di ricompensa alimentare. La reattività di questo circuito varia al variare della sensibilità al cibo come ricompensa; individui con alti valori in questo tratto hanno esperienze più intense e frequenti di craving alimentari e sono molto più inclini a mangiare eccessivamente o a sviluppare un disordine del comportamento alimentare (Beaver J. D. et al., 2006).

 

Il ruolo delle funzioni esecutive nel mantenimento dell’obesità

Nel comprendere i meccanismi che favoriscono il mantenimento dell’obesità, le condotte alimentari disinibite e maggiori craving di cibo potrebbero essere spiegati anche da deficit a livello di funzioni esecutive (Spinella et al., 2004), un complesso sistema di competenze cruciali nella organizzazione, pianificazione ed integrazione di diversi processi cognitivi. Le funzioni esecutive sono implicate nella capacità di regolazione dei comportamenti impulsivi. Se è presente un deficit a questo livello, il processo decisionale potrebbe essere maggiormente influenzato da vantaggi diretti -cibo appetitoso – piuttosto che dai benefici legati al raggiungimento di obiettivi a lungo termine – non accumulare ulteriore peso – (Duchesne M. et al., 2010).

Questo aspetto può essere ulteriormente spiegato dalla distinzione tra processi decisionali in compiti ambigui e rischiosi. Nella condizione ambigua, la forza e la probabilità della ricompensa sono inizialmente sconosciute e vengono svelate attraverso feedback successivi alla scelta effettuata. Nella condizione di rischio invece queste informazioni sono esplicitamente disponibili. Le molte ricerche condotte su soggetti obesi e sul mantenimento dell’obesità hanno evidenziato come ci sia una preferenza proprio per questo secondo tipo di condizione, ovvero vi è la tendenza a scegliere ricompense immediate e dal valore attraente ma superficiale.

Una chiave di lettura per questo processo potrebbe essere individuata nella sensibilità alla ricompensa, per cui i comportamenti sarebbero motivati da stimoli in grado di produrre un appagamento immediato. In particolare, la sensibilità alla ricompensa ha un alto impatto sia nei compiti ambigui che rischiosi ma, mentre non ci sono differenze tra soggetti con obesità e soggetti non obesi nella condizione di scelte ambigue, è invece emersa una più spiccata tendenza dei soggetti con obesità e sovrappeso a scelte rischiose, dimostrando di essere maggiormente inclini a tollerare un minor valore di ricompensa (e quindi un rischio più alto) a patto che questa sia immediata, a fronte di una ricompensa maggiore ma posticipata (Navas J. F. et al., 2016).

 

Pianificazione e flessibilità cognitiva nel mantenimento dell’obesità

Il mangiare eccessivamente quindi non sarebbe l’unico fattore di mantenimento dell’obesità e non rappresenterebbe esclusivamente una risposta passiva ad un ambiente ricco di stimoli e ad una forte attivazione fisiologica (Duchesne M. et al., 2010), ma sarebbe anche correlato alla incapacità di posticipare la gratificazione immediata, a cui si aggiungono difficoltà di pianificazione, problem solving e una minore flessibilità cognitiva (Boeka A.T et al., 2008).

La pianificazione può essere intesa come la capacità di definire gli step che guidano e orientano i comportamenti o come l’attività simbolica che prefigura la sequenza di azioni necessarie al raggiungimento dell’obiettivo (Sannio, Fancello, Vio, Cianchetti, 2006). Se questa è carente, conseguentemente limitate saranno le possibilità di problem solving a cui il soggetto può attingere nel momento in cui si verifica un imprevisto.

Una scarsa flessibilità cognitiva potrebbe essere associata a difficoltà nello stabilire nuovi pattern di comportamento nelle attività riguardanti il cibo, aumentando la probabilità di alimentazione incontrollata o eccessiva. Una rigidità cognitiva associata a difficoltà nello shifting attentivo potrebbe essere alla base della difficoltà nel ridirezionare il fuoco attentivo da stimoli alimentari ad altre attività e potrebbe spiegare la tendenza a smettere di mangiare solo quando viene avvertita la sensazione fisica di disagio per l’eccessivo cibo ingerito (Boeka A.T et al., 2008).

 

La regolazione degli stati emotivi

La regolazione va intesa come la capacità di modulare i propri stati emotivi e di organizzare le risposte comportamentali adeguate. La prima modalità attraverso la quale questo processo prende avvio è proprio legata all’alimentazione, in un contesto in cui l’autoregolazione e la regolazione reciproca procedono in modo coordinato e l’equilibrio in questo scambio, tra madre e bambino, rappresenta la base per la differenziazione delle sensazioni fisiologiche dalle esperienze emozionali.

È un processo che origina dalla continua influenza reciproca tra le capacità innate del bambino di organizzare le risposte sensoriali provenienti dal mondo esterno ed interno e dalle ripetute interazioni con il caregiver di riferimento (Cuzzolaro M., 2009). Le capacità inizialmente possedute sono immature e limitate e le ulteriori abilità vengono trasmesse dalla madre che, rispondendo adeguatamente ai bisogni del bambino, lo aiuta nella regolazione degli stati emotivi ed affettivi.

Il riconoscimento di fame e sazietà, o di altri bisogni fisiologici, dipendono dalla combinazione specifica di una percezione interna e di una conferma esterna, che consiste in una risposta e in un riconoscimento di tipo empatico. L’evento fame-nutrimento viene quindi registrato nella memoria episodica e in quella procedurale e l’esito dell’incontro tra la percezione interna e la risposta a questa dà avvio al processo di organizzazione del sé (Lichtenberh, 1989).

Se le risposte non sono adeguate al bisogno espresso, il bambino sviluppa uno stile associato di autoregolazione caratterizzato da una aspettativa negativa rispetto ai propri sforzi (Speranza, 2001). L’allattamento e il passaggio alla alimentazione autonoma rappresentano quindi un momento di grande rilievo nella strutturazione del processo di autoregolazione e regolazione reciproca, in un contesto in cui le interazioni non sincroniche tra aspetti di regolazione fisiologica, comunicazione sociale e formazione del legame di attaccamento possono determinare disfunzioni nell’area dell’ alimentazione, che vanno dalla confusione tra stati fisiologici e stati emozionali fino alla strutturazione di disturbi alimentari (Cuzzolaro M., 2009).

 

Mantenimento dell’obesità: il rapporto tra emozioni e abbuffate

La letteratura esistente ha ben evidenziato, con riferimento al mantenimento dellobesità, l’associazione tra emozioni negative ed episodi di abbuffate compulsive. Il modello della regolazione emotiva postula che questa associazione rappresenta una relazione funzionale in cui l’episodio di binge eating è innescato da alti livelli di emozioni negative e, al tempo stesso, ha la funzione di mitigarne gli effetti.

L’abbuffata compulsiva è la strategia principalmente utilizzata nella riduzione e regolazione degli stati emotivi non desiderabili (Berge et al., 2015). In uno studio che indagava gli stati emotivi precedenti e susseguenti episodi di abbuffata nei soggetti con obesità sono state anche indagate, attraverso uno strumento self report (Positive and Negative Affect States – PANAS), undici emozioni negative ed ai soggetti è stato chiesto di valutarne l’intensità. Le emozioni sono poi state suddivise in quattro categorie: paura, ostilità, tristezza e senso di colpa. I risultati dello studio hanno dimostrato la presenza di un aumento del senso di colpa, vergogna, disgusto, insoddisfazione e rabbia verso sé stessi quattro ore prima l’episodio di binge eating e una loro significativa riduzione quattro ore dopo. L’abbuffata compulsiva ha la funzione quindi, in soggetti con obesità, di mitigare le emozioni negative, in particolare sembrerebbe funzionale ad evitare o ridurre sensi di colpa nel breve periodo, piuttosto che emozioni di paura, ostilità o tristezza (Berge et al., 2015).

Usare il cibo per gestire uno stato emotivo, come ad esempio “mangio perché ho bisogno di calmarmi” oppure “mangio perché ho bisogno di rilassarmi dopo una giornata di duro lavoro” può produrre nell’immediato un senso di benessere e rilassamento ma, se applicato con regolarità può condurre ad un abbassamento del livello di benessere psicofisico, dovuto in parte alla scarsità ed esiguità nella scelta degli stimoli gratificanti e dall’altro al non riconoscimento di stati emotivi come ad esempio ansia, tristezza e nervosismo a cui far corrispondere una risposta più adeguata del cibo alla risoluzione di eventuali problemi (Della Grave et al., 2013).

Un locus of control interno, in cui predomina la percezione che la propria vita sia regolata da qualcosa al di fuori del proprio controllo potrebbe portare a credere di non avere le risorse per controllare gli stimoli ambientali e per gestire stati emotivi negativi, che pertanto potrebbero essere vissuti come intollerabili (Montesi et al., 2016). Una più adeguata gestione dei propri stati emotivi potrebbe essere incentivata anche attraverso un aumentato senso di autoefficacia, che non coincide con la misura delle competenze possedute ma è rappresentata delle convinzioni circa la propria capacità di organizzare ed eseguire le sequenze di azioni necessarie a produrre determinati risultati (Bandura, 2000).

Una bassa autoefficacia (self-efficacy) influenza i meccanismi di autoregolazione dei processi motivazionali, tramite una minore quantità di impegno profuso in vista dell’obiettivo e diminuita capacità di perseverare e recuperare di fronte agli insuccessi e fallimenti incontrati nel percorso.

Gli effetti della psicoterapia online nel trattamento clinico della depressione

La psicoterapia online, in particolare la terapia cognitivo comportamentale, può aiutare le persone che soffrono di depressione. Questo è quanto è emerso da uno studio dell’Universita di Zurigo condotto da Birgit Wagner, Andrea B. Horn e Andreas Maercker.

 

I ricercatori clinici dell’Università di Zurigo hanno realizzato un interessante studio sperimentale volto a misurare e confrontare i risultati ottenuti con la psicoterapia online e la terapia convenzionale faccia a faccia su un gruppo di pazienti con disturbi dell’umore.

 

Psicoterapia online e depressione: la ricerca dell’Università di Zurigo

Sulla base di studi sperimentali precedenti, i ricercatori svizzeri sono partiti dall’ipotesi che le due forme di terapia fossero alla pari rispetto agli effetti terapeutici sui pazienti. I risultati dell’esperimento hanno però superato di gran lunga le aspettative dei ricercatori, infatti la psicoterapia online è risultata più efficace rispetto alla classica terapia faccia a faccia, sia nel breve che nel medio termine. Nella ricerca sono stati coinvolti sei psicologi e psicoterapeuti e 62 pazienti, la maggioranza dei quali presentava una depressione di tipo moderato.

I pazienti sono stati divisi in modo del tutto casuale in due gruppi e assegnati ad una delle due diverse modalità terapeutiche, psicoterapia online e terapia faccia a faccia. I due gruppi hanno ricevuto lo stesso ciclo di trattamento nello stesso lasso di tempo.

Il trattamento previsto consisteva in otto sessioni di psicoterapia con l’utilizzazione di diverse tecniche consolidate che derivano dalla terapia cognitivo-comportamentale e possono essere prescritte sia in forma orale che in forma scritta.

I pazienti sottoposti a psicoterapia online ricevevano dei compiti scritti predeterminati con dei feedback personalizzati da parte dei terapeuti (ad esempio rispondere a delle domande sull’immagine negativa che avevano di se stessi).

I pazienti nella condizione di terapia faccia a faccia hanno preso parte a delle sessioni di trattamento settimanale di un’ora con il loro psicologo presso il Dipartimento di Psicopatologia e Intervento Clinico presso l’Università di Zurigo. Inoltre, come i pazienti nel gruppo di psicoterapia online, hanno ricevuto dei compiti a casa.

 

I risultati

In entrambi i gruppi, i valori relativi alla depressione sono scesi in modo significativo” afferma il professor Andreas Maercker, riassumendo i risultati dello studio sperimentale. Alla fine del trattamento psicoterapico, l’uscita dallo stato depressivo è stata rilevata nel 53 per cento dei pazienti sottoposti a psicoterapia online, mentre nella terapia faccia a faccia sono tornati ad una condizione di benessere psicologico il 50 per cento dei pazienti trattati. Quest’ultima differenza fra i due gruppi non era statisticamente significativa.

Tutti i pazienti sono stati valutati anche a tre mesi dalla fine del trattamento per la depressione, e i ricercatori hanno rilevato una maggiore differenza in termini di efficacia tra i due trattamenti, infatti nella psicoterapia online ben il 57 per cento dei pazienti trattati era uscito dallo stato depressivo, mentre nella classica terapia faccia a faccia è stata rilevata una riduzione dell’efficacia, per cui solo il 42 per cento dei pazienti non mostravano più una sintomatologia di tipo depressivo. Nella psicoterapia online, i pazienti tendevano ad utilizzare i contatti con il terapeuta e i successivi compiti molto intensamente per provare a progredire e impegnarsi in modo personale. Per esempio, hanno riportato di essere soliti rileggere più e più volte la corrispondenza con il loro terapeuta.

I ricercatori hanno provato ad ipotizzare che i risultati a medio termine sono stati migliori per la psicoterapia online poichè i pazienti , avendo meno il terapeuta come guida, si sono dovute autoresponsabilizzare maggiormente, impegnarsi in prima persona per condurre il trattamento e i compiti a casa. Questo avrebbe potuto attivare un maggior senso di autoefficacia nella gestione dei pensieri negativi e sul comportamento depressivo.

Ovviamente il dibattito sull’efficacià delle modalità online di erogazione di servizi psicologici è aperto e questa ricerca non deve intendersi come esaustiva.

La SCID-5 -CV: l’intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i criteri del DSM-5

La SCID-5 -CV (Structured Clinical Interview for DSM-5- Clinical Version) è un’intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i nuovi criteri del DSM-5. Si inserisce all’interno degli strumenti clinici creati in associazione del recente DSM-5 come il PID-5 e le Scale di Valutazione del DSM-5.

 

 

La SCID-5 -CV può essere somministrata sia a pazienti psichiatrici che a soggetti appartenenti ad una popolazione generale. Risulta più adatta a individui che abbiamo superato i 18 anni di età, ma può essere svolta anche con gli adolescenti applicando alcuni accorgimenti quando si pongono le domande.

La SCID-5 può essere utilizzata per la valutazione psicodiagnostica in molteplici contesti: clinico, forense, nelle procedure di ammissione e nella ricerca.

Dal lontano 1983, anno in cui venne proposta una procedura di valutazione attraverso i criteri dell’allora DSM-III, la SCID si è evoluta e nella sua nuova veste si suddivide in tre versioni: CV (Clinical Version-Versione per il clinico); RV (Research Version-Versione per la ricerca); CT (Clinical Trial- versione per gli studi clinici).

 

La SCID-5 -CV : la versione per il clinico

Quella che qui verrà presentata è la versione per il clinico: la SCID-5 -CV.

A differenza delle altre due, in questo formato l’intervista permette di formulare diagnosi per quei disturbi che hanno un impatto sui codici diagnostici. Vengono dunque presi in considerazione quegli specificatori che incidono sulla scelta del codice. Per i disturbi che non sono presi in esame si può tuttavia proseguire con un’intervista non strutturata.

La SCID-5 -CV si concentra principalmente sull’attualità del disturbo per una sua netta pregnanza a livello terapeutico e di gestione clinica. Ciò nonostante è presente un approfondimento anamnestico nei disturbi dove è ritenuto necessario. Alla diagnosi inoltre è applicato un arco temporale di riferimento (Attuale-Storia Pregressa).

L’intervista è composta da 10 moduli indipendenti tra loro che permettono di valutare i seguenti disturbi:

La SCID-5 -CV: l' intervista semistrutturata per formulare diagnosi secondo i criteri del DSM-5

 

Come si può notare sono esclusi i Disturbi di Personalità che, pur essendo rimasti invariati dalla precedente versione del DSM, possono essere valutati con la specifica versione aggiornata della SCID (SCID-5-PD).

 

Domande e punteggi nella SCID-5

La SCID-5 inizia con una serie di domande aperte volte a raccogliere un numero sufficiente di informazioni per formulare una diagnosi provvisoria da confermare con l’utilizzo dei moduli diagnostici specifici. Le domande hanno una sequenza atta a favorire un processo diagnostico differenziale caratteristico di un clinico esperto. L’attribuzione dei punteggi comprende la presenza o assenza dei criteri diagnostici (indipendentemente dalle risposte del paziente alle domande della SCID).

Il clinico può attribuire i seguenti punteggi:

  • “SI” qualora soddisfatto un criterio;
  • “NO” qualora non sia soddisfatto;
  • “-“ Assente/sottosoglia per un criterio sintomatologico valutato su un continuum);
  • “+” Soglia (per un criterio sintomatologico valutato su un continuum)

Al termine dell’intervista viene compilato un “Foglio riassuntivo dei punteggi diagnostici” dove vengono indicate le diagnosi DSM-5 presenti e/o pregresse del paziente. Il foglio include anche i codici diagnostici dell’ICD-10-CM. Per la definizione dei punteggi il clinico può utilizzare tutte le informazioni disponibili sul paziente: relazioni cliniche, osservazioni dei famigliari e degli amici.

Nello specifico, i tempi di somministrazione variano dai 45 ai 90 minuti e solitamente avviene in una singola sessione. La SCID-5 è, tuttavia, flessibile e adattabile alle specifiche tempistiche e necessità di somministrazione. Ad esempio, può essere somministrata anche in videoconferenza senza incorrere in riduzioni della capacità di valutare adeguatamente il soggetto.

Infine, il manuale fornisce anche una sezione con materiali per il training. Sono proposti sia casi utili per svolgere role-playing che casi per esercitazioni individuali.

Nel complesso, la SCID-5-CV si propone come uno strumento clinico duttile, accurato e concettualmente indispensabile per favorire quel processo di comunicazione diagnostico unificato tra le differenti professionalità sanitarie (psichiatra, neuropsichiatra, psicologo, psicoterapeuta, infermieri, logopedisti, psicomotricisti, ecc.).

Nondimeno la sua proceduralizzazione fornisce un ottimo materiale formativo per i giovani clinici, uno standard di psico-valutazione condivisa e una terminologia comune per favorire la collaborazione e la comprensione tra coloro che operano in contesti clinici, giuridici e di ricerca.

Un compito della psicologia nello sport

Lo sport dedica molte attenzioni allo sviluppo delle qualità fisiche e tecniche e alla prestazione ma, specie a livello giovanile, non impiega tutte le potenzialità di cui potrebbe disporre.

Vincenzo Prunelli

 

Insieme con la famiglia e la scuola, lo sport è una delle tre più potenti agenzie educative, ma non ha sviluppato metodi per formare la persona, e non rispetta i tempi dello sviluppo, che hanno necessità di tipi specifici d’insegnamento.

Vorrebbe raggiungere tutte le potenzialità dello sportivo, ma dice che cosa e come fare, e offre soluzioni uguali per tutti, e così mortifica il talento, che è diverso per ognuno. Crede che lo sviluppo dell’intelligenza dipenda dalla quantità delle conoscenze e non anche dalla libertà di creare e trovare da soli le soluzioni. E immagina che la personalità, il carattere, la capacità critica, l’iniziativa libera, le motivazioni e l’autonomia possano avere uno sviluppo autonomo o, forse, che rappresentino un pericolo per la governabilità.

 

Ciò che va corretto

Occorre cambiare molto. Innanzitutto, non voler formare troppo presto lo sportivo adulto, pronto per un agonismo subito vincente. Sembra un obiettivo legittimo, ma occorre fare alcune considerazioni. Per vincere durante la formazione, occorre prima di tutto non commettere errori, ma un giovane che non sbaglia non tenta il nuovo. Si limita a ripetere ciò che gli è richiesto, tenta di imitare il gesto ideale, quello del campione, e non arriva ai livelli dell’intelligenza dove operano creatività, iniziativa libera, originalità, intuizione e ingegno, le facoltà della mente che impiega il talento.

Spesso lo sport si ferma a una forma di addestramento, e così trasforma le sue potenzialità educative in una causa d’insicurezza. Forma uno sportivo non abituato a gestire da solo ciò che riguarda la propria funzionalità e i propri compiti e non preparato ad amministrarsi da solo, da portare per mano perché non autonomo.

Soffoca le motivazioni che, per il giovane, sono gli stimoli naturali a evolvere e migliorare. Il giovane ha bisogno del riconoscimento dell’adulto, di scoprire sempre nuove capacità per sentirsi più abile, di raggiungere i traguardi adatti alle possibilità di cui dispone e di superare la propria inferiorità nei confronti dell’adulto. Per questo ha bisogno di scoprire e sperimentare le proprie forze, liberare i propri impulsi creativi ed evolutivi, e verificare di poter accedere da solo a nuove abilità.

Lo sport vuole vincere subito, magari senza interessarsi del come e del livello della prestazione. Usa stimoli che aumentano la tensione a spese della lucidità e della padronanza della situazione, ma il compito della formazione è l’adulto che sa impiegare tutti i propri mezzi. Ha fretta, e impiega ciò che è subito utilizzabile per la prestazione, valuta il risultato e non la qualità della prestazione, usa stimoli che sul giovane non hanno effetto e cerca di incrementare il rendimento aumentando le pressioni. Tutto questo significa sostituire il gesto tecnico ancora grezzo del giovane con interventi irruenti e scorretti, e non tentare il nuovo, cioè non giocare per scoprire il talento.

 

I principi e la proposta

Il talento non si manifesta quando l’istruttore chiede esecuzioni difficili o di imitare il gesto del campione. Non è semplicemente una qualità tecnica o un’abilità fisica, ma una qualità personale che si esprime quando la situazione richiede o lascia spazio a soluzioni nuove e impreviste. Non ha senso chiedere al talento di essere più abile in ciò che fanno tutti, ma in ciò che è possibile a lui, e qui occorre andare ai livelli superiori dell’intelligenza.

Quale libertà lasciare? Al bambino basta giocare senza vincoli, perché il gioco lascia tutto lo spazio all’iniziativa libera e alla fantasia. Poco più tardi, quando è il caso di impratichirsi e dare un ordine più logico al gioco, bastano poche regole dentro le quali esercitare tutta la creatività e la fantasia. Il ragazzo, che ormai ha acquisito confidenza con il senso critico e sa impegnarsi in un lavoro, cioè a non operare più soltanto per un piacere del momento, può iniziare la formazione tecnica e fisica vera e propria.

La scoperta e l’uso del talento non sono diversi dall’apprendimento per prove ed errori. Occorre avere la libertà di tentare il nuovo per seguire un’idea o un’intuizione, mentre giocare solo per vincere impone di evitare l’errore, e per questo chiama in causa il ragionamento che è lento, obbliga a scegliere tra varie soluzioni e frena originalità, la creatività, gli automatismi e l’iniziativa immediata, essenziali nei giochi di situazione.

La “normalità” è ciò che si può essere con lo sviluppo completo delle qualità di fisico, intelletto e carattere. Non ha senso, ma soprattutto è diseducativo, chiedere più di quanto ognuno possa dare. Specie nell’infanzia, per esempio, pretendere il gesto perfetto o quello del campione, significa mortificare le motivazioni, la sicurezza di essere adeguati ai compiti e il coraggio per scoprire e sperimentare il proprio talento.

Non si può allenare solo il fisico perché, se non è la mente a gestire le qualità fisiche e tecniche, il rendimento e l’iniziativa, avremo solo un mezzo sportivo.

Infine, la formazione non termina mai, perché lo sportivo vero continua a imparare, evolvere e scoprire qualcosa di sé fino al termine dell’attività.

 

Gli obiettivi e i modi della formazione

I primi obiettivi sono la tutela dei bambini e dei giovani nella pratica dello sport e la proposta di un’educazione che li conduca verso la vita adulta.

Lo sport può essere una potente agenzia educativa, ma richiede una cultura, adeguata a tutti i livelli della pratica sportiva, che sintetizzi le potenzialità dell’educazione e dello sport. O, in altri termini, che formi lo sportivo nella sua globalità, e promuova una pratica in grado di portare ognuno alla completezza sportiva e personale possibile. La psicologia dello sport deve offrire gli strumenti scientifici e operativi a genitori, società calcistiche, istruttori e chiunque abbia un ruolo educativo e formativo nei confronti del bambino e del giovane, affinché sappiano intervenire su eventuali disagi ma, ancora di più, per accompagnare ognuno a completare lo sviluppo possibile, che è la condizione per eliminare qualsiasi disagio.

C’è chi crede che questo tipo di educazione, fondata sulla soddisfazione delle motivazioni e non sull’imposizione di sacrifici e sul castigo per gli errori e le trasgressioni, sia permissiva, ma essa prevede o, anzi, porta all’acquisizione di regole e doveri, la rinuncia a pretese e privilegi e all’impegno per fare la propria parte.

È chiaro che il fine è anche preparare il bambino alla pratica dello sport dell’adulto, ma con un evolvere dell’insegnamento e delle richieste che si adatti ai mezzi e ai caratteri specifici di ogni momento dello sviluppo.

Per portare tutti a un buon livello sarebbe sufficiente evitare gli errori, pur commessi in buona fede, che accadono nella formazione, ma per consentire a ognuno di arrivare a quello possibile alla sua dotazione, occorre creare le condizioni perché ci arrivi da solo. Occorre farlo presto e non solo nello sport, perché la vita adulta inizia nella prima infanzia o, forse meglio, alla nascita, e un brutto inizio può non essere più correggibile. E, specie nello sport, occorre considerare che il talento non si può trasmettere, e che, per non soffocarlo, occorre non sostituirlo con la richiesta di pure esecuzioni o, peggio, con la richiesta di trucchi, furbate o gesti violenti.

Ciò che vogliamo fare si può sintetizzare in un unico obiettivo: formare uno sportivo pronto ad assumere le potenzialità formative dello sport e a trasformarle in tratti stabili del carattere, che significa portare l’allievo a sviluppare tutte le proprie risorse e a utilizzarle in qualsiasi compito e attività.

E La professionalità? Lo sport è un potente strumento educativo, e la professionalità è un modo di proporsi di chi ha raggiunto la maturità personale. Lo sport che obbedisce a precise regole e ne pretende l’osservanza esige che nessuno si possa sottrarre agli impegni che gli spettano, perché allena alla libertà, all’iniziativa, alla cooperazione e alla responsabilità. Allena al coraggio, che non è temerarietà o sprezzo del pericolo, ma non tirarsi indietro di fronte al rischio di sbagliare, accettare un danno personale per un vantaggio collettivo, mettersi a disposizione del compagno in difficoltà anche a rischio di uno svantaggio personale e/o a tentare anche quando potrebbe risultare inutile.

Il ruolo della regolazione emotiva nell’utilizzo di sostanze

Regolazione emotiva e uso di sostanze: L’ uso di sostanze consente di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi. Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’ uso di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale.

Chiara Paris, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Regolazione emotiva

La regolazione emotiva viene definita come l’insieme di comportamenti, capacità e strategie consci e inconsci, automatici o che richiedano uno sforzo attivo nel modulare, inibire o aumentare l’esperienza e l’espressione emotiva (Calkins, 2010). Tale capacità è ritenuta, ad esempio, uno degli aspetti centrali coinvolti nel disturbo borderline di personalità (Linehan, 1993) ed ha un ruolo centrale in numerose altre psicopatologie, come il disturbo d’ansia generalizzata (Mennin et al. 2002) o il disturbo post traumatico da stress (Cloitre, 1998).

Il modo in cui si sviluppa la regolazione emotiva -ed i processi coinvolti nell’acquisizione delle competenze ad essa correlate- costituisce tuttora un interessante tema di ricerca in evoluzione; paiono tuttavia determinanti un coinvolgimento del contesto familiare e sociale, così come l’interazione tra fattori interni ed esterni, oltre a quelli motivazionali e temperamentali (Gross, 2007; Morris et al.2007). Le abilità di regolazione emotiva vengono sviluppate sin dal primo anno di età e un fallimento nelle stesse comporta difficoltà precoci che riguardano, ad esempio, l’area sociale o l’adattamento al contesto (Eisenberg & Fabes, 2006).

Diverse ricerche hanno poi associato la  mancanza di regolazione emotiva ad una maggior esposizione rispetto allo sviluppo di psicopatologie (Calkins & Dedmon, 2000; Cichetti et al. 1995) con caratteristiche anche molto dissimili tra loro, come i disturbi d’ansia (Cisler et al. 2010) o dell’alimentazione (Sassaroli et al., 2010).

Alcune concettualizzazioni della regolazione emotiva si sono occupate di sottolineare il ruolo dell’esperienza e dell’espressione delle emozioni, in particolare, il controllo di quelle negative e la riduzione dell’arousal emotivo (Kopp, 1989). Altri autori hanno invece evidenziato la natura funzionale delle emozioni, ritenendo che un’incapacità nello sperimentare e distinguere le varie emozioni sia disadattiva tanto quanto il discontrollo nella modulazione di stati negativi (Paivio & Greenberg, 1998). Gratz e Roemer (2004) hanno proposto una visione più articolata di regolazione emotiva, comprensiva di sei dimensioni separate in cui si possono manifestare delle specifiche difficoltà: mancanza di consapevolezza delle emozioni, ridotta trasparenza nella risposta emotiva, mancata accettazione della risposta emotiva, accesso limitato alle strategie di regolazione emotiva percepite come efficaci, difficoltà nel controllo degli impulsi quando si sperimentano emozioni negative e ridotte capacità nel mettere in atto comportamenti efficaci quando si sperimentano stati emotivi negativi.

 

Uso di Sostanze

Il Disturbo da Uso di Sostanze, così come concepito dal DSM-5 (2014), si caratterizza per la presenza di sintomi che includono tolleranza, astinenza, uso continuato (nonostante il desiderio di interrompere e le ormai note conseguenze negative), oltre ad una mancanza di controllo nel craving e nel successivo uso di sostanze.

La difficoltà di inquadramento delle patologie connesse all’abuso di sostanze rispetto a queste tematiche aumentano sensibilmente se si pensa che la co-occorrenza rispetto alla diagnosi di disturbo di personalità viene stimata a partire da una media del 44% per la dipendenza da alcol e del 79% in quella da oppiacei (Ball, 2005); una precedente ricerca riscontrava invece che, in generale, la maggior parte di chi abusa di sostanze (70%) rientrava anche nei criteri per la diagnosi di uno o più disturbi di personalità, prevalentemente di Cluster B e C (Rounsaville et al., 1998).

Parlare di abuso di sostanze in generale risulta particolarmente difficoltoso per diversi motivi: tra questi, il fatto che la scelta di una sostanza piuttosto che un’altra si rivela importante per delineare le caratteristiche della persona che ne fa uso e, d’altra parte, il poliabuso è diventato sempre più comune, con la dimostrazione di forti differenze, ad esempio tra chi consuma solo cocaina e chi la associa anche ad altro (McCormick et al., 1998).

 

Uso di Sostanze ed emozioni

In letteratura, dipendenza e abuso vengono spesso definiti semplicemente sulla base di criteri comportamentali, mentre meno attenzione viene posta rispetto al perché si ricorra alle sostanze.

Visti gli effetti davvero molto diversificati delle sostanze, quasi qualsiasi sensazione negativa, dalla noia all’ansia può associarsi all’abuso: la ricerca di Sanchez-Craig (1984) ha dimostrato che, su 297 episodi legati all’assunzione di alcol, l’80% aveva come scopo il bisogno di gestire diverse esperienze soggettive, come, appunto, emozioni negative. Questo dato consente peraltro di inquadrare meglio la frequente associazione tra disturbi dell’umore o d’ansia e uso di sostanze, che avrebbe proprio lo scopo di ridurre sensazioni indesiderate o abbassare il livello di attivazione (Mirin et al., 1987).

Un altro dato rilevante in questo senso è l’elevata incidenza dell’abuso di sostanze tra chi è vittima di episodi o esperienze traumatiche (Polusny e Follette, 1995).

Ricorrere alle sostanze costituisce una strategia molto efficace, anche se a breve termine, per determinare un cambiamento nell’esperienza percepita e chi abusa sembra maggiormente fiducioso negli effetti rispetto agli altri: nell’alcolismo, per esempio, il paziente assume che l’alcol aumenti le sensazioni di piacere e riduca quelle legate allo stress (Conners et al. 1986).

Concepire l’abuso di sostanze come una strategia di coping maladattiva (Gratz e Roemer, 2004) introduce l’esistenza di un evitamento esperienziale in soggetti che soffrono di questo disturbo: il comportamento impulsivo avrebbe l’obiettivo di alterare uno stato emotivo negativo attraverso una strategia di evitamento di esperienze emotive indesiderate (per es. Brown, Comtois, Linehan, 2002; Wagner e Linehan, 1999).

Una possibile conferma di questo si evince ad esempio dal fatto che i soggetti con diagnosi di disturbo borderline di personalità e abusatori di sostanze risulterebbero più impulsivi ed avrebbero una maggiore probabilità di utilizzare strategie di fuga/evitamento rispetto ai borderline non abusatori (Kruedelbach et al., 1993). Strategie di evitamento esperienziale focalizzate sull’emozione (ad esempio, evitare di pensare ad eventi spiacevoli) risultano predittive rispetto a numerosi outcome negativi, tra cui proprio l’uso di sostanze, e un sottogruppo di chi abusa delle stesse tende a ricorrere abitualmente all’evitamento esperienziale (Hayes, 1996). In generale, questo concetto si applica sia all’utilizzo di deprimenti che di stimolanti, se si assume che l’astensione dagli stessi possa generare sensazioni avversive o di noia (Hayes, 1996). In altre parole, anche quando la persona che abusa di sostanze non comincia con il fine di un evitamento esperienziale, gli effetti dell’eccessivo utilizzo – che contemplano anche stati di umore disforico e astinenza –concorrono nel mantenimento del circolo vizioso della dipendenza (Sher, 1987).

Le sostanze consentono quindi di alterare lo stato corrente; possono aumentare la percezione di emozioni positive, così come alleviare quella di stati negativi (pensiamo, ad esempio, all’effetto dell’alcol o di psicofarmaci come lo Xanax sull’ansia, oppure a quello di cocaina e metamfetamine su abbassamenti nel tono dell’umore). Questa spiegazione è stata resa centrale nella teoria di Khantzian (1985), definita “Sel-medication Hypothesis” ed è costituita da due assunti: la presenza di stati affettivi negativi predispone all’utilizzo di sostanze e la scelta fra le stesse non è casuale. A rinforzarne l’utilizzo sono invece gli effetti, che in qualche modo migliorano gli stati pre-esistenti nell’assuntore. L’autore suggerisce che individui con alti livelli di aggressività e rabbia sarebbero più predisposti all’utilizzo di oppiacei o alcol per la regolazione emotiva, mentre il ricorso a cocaina e amfetamine risulterebbe più probabile in chi “reagisce” a stati depressivi (Sarnu & Maderno, 2007). Chiaramente, un comportamento di questo tipo conduce ad un inevitabile circolo vizioso legato agli effetti astinenziali della sostanza.

Alcune tra le evidenze a supporto di questa teoria sono la frequente co-occorrenza di disturbi psichiatrici, in particolare disturbi d’ansia e dell’umore, oltre alla maggior probabilità di sviluppare un Disturbo da Uso di Sostanze in chi ha già una diagnosi psichiatrica (Kessler et al., 2005): una persona che ha già delle difficoltà nella regolazione emotiva sarà più propensa quindi a cercare ed utilizzare sostanze.

Un’altra prova a favore della teoria di Khantzian, sarebbe quella costituita dal maggior ricorso di soggetti sani (senza diagnosi di DUS) a droghe considerate legali, ad esempio il tabacco o l’alcol, in momenti emotivamente negativi.

Infine, è documentato come stati negativi –naturalmente sperimentati o indotti- causino un aumento del craving, dell’utilizzo e delle ricadute (Sinha & Li, 2007). Questo fenomeno è stato oggetto di un filone di studi che ne hanno trovato ampia conferma; per esempio, Childress e colleghi (1983) hanno dimostrato come sensazioni di ansia, depressione e rabbia costituirebbero dei trigger nel suscitare craving e astinenza in pazienti con diagnosi di dipendenza da oppiacei in fase di disintossicazione. In questo studio, si ipotizzava che determinati stati emotivi –da soli, o con altri stimoli legati alla sostanza –fossero in grado di determinare craving per l’oppiaceo, astinenza e, quindi, un potenziale utilizzo successivo. I risultati mostravano che la sola emozione negativa senza altri stimoli era in grado di elicitare sintomi astinenziali anche molto specifici; questo si determinava in particolare per stati legati a depressione e ansia, molto meno per la rabbia. Al contrario, uno stato di euforia, nonostante la forte attivazione psicofisiologica, abbassava nettamente la possibilità di provare desiderio per la droga. Altri autori hanno sostenuto queste conclusioni mostrando come l’utilizzo di strategie funzionali a livello emotivo consenta l’abbassamento del craving e quindi meno possibilità di ricaduta (O’Connell et al. 2007; Westbrook et al. 2013).

Il ruolo della disregolazione emotiva nello sviluppo del disturbo da uso di sostanze è stato confermato anche da una serie di studi longitudinali, tra i quali quelli di Mischel e colleghi (2011), che avevano sottoposto ad alcuni bambini con meno di sei anni un compito inerente la gratificazione emotiva: i partecipanti all’esperimento potevano scegliere tra un dolcetto da mangiare subito, o due dolci se avessero aspettato. I bambini che erano stati in grado di posticipare la gratificazione avevamo più abilità nella padronanza emotiva in adolescenza e meno probabilità di utilizzare cocaina in età adulta. Questo dato trova conferma nell’elevato rischio di sviluppare delle problematiche legate alle sostanze per quei soggetti che nell’infanzia hanno avuto una diagnosi di ADHD, piuttosto che di disturbo oppositivo provocatorio (August et al. 2006), problematiche peraltro accomunate da un deficit emotivo.

Anche i modelli di Beck e Ellis riservano alle emozioni un ruolo importante nello sviluppo e nel mantenimento della dipendenza: alcune situazioni trigger vengono legate a specifiche reazioni emotive grazie ad un processo di condizionamento. Tali associazioni sarebbero poi facilitate ed evocate tramite pensieri disfunzionali e credenze inerenti la sostanza e il suo utilizzo (Rigliano e Bignamini, 2009).

 

Trattamento

In un’ottica trattamentale, le indicazioni in letteratura sono decisamente varie. Quasi tutte condividono l’importanza che hanno avuto i vissuti del paziente nello sviluppo del disturbo o nel determinarsi della ricaduta. Tendenzialmente, l’intervento si divide in tre fasi (disintossicazione, ricovero e prevenzione della ricaduta); limitandosi a considerare la parte inerente la competenza emotiva, numerosi approcci pongono l’obiettivo di limitare l’evitamento esperienziale tramite tecniche di gestione dell’ansia o riduzione dello stress e con la farmacoterapia; la psicoterapia cognitivo comportamentale risulta efficace, per esempio, nelle esposizioni guidate rispetto all’emotività negativa e nel rinforzo tramite l’esplorazione di quella positiva.

La CBT si concentra inoltre sull’individuazione di situazioni “a rischio” per il paziente e nell’implementazione di strategie per farvi fronte e per gestire il craving e gli stati negativi. Altri studi hanno utilizzato stimoli avversivi condizionati nella ricerca, nell’utilizzo o anche solo nell’immaginazione della sostanza, in modo da utilizzare la strategia di evitamento in favore dell’astensione (Rigliano & Bignamini, 2009).

I trattamenti basati sull’accettazione e il non giudizio, come la Mindfulness, invece tentano di alterare l’impatto che hanno emozioni e pensieri cambiando l’approccio che ha la persona con gli stessi piuttosto che ridurne direttamente l’intensità, la frequenza ecc. Ciò ha l’obiettivo di limitare agiti automatici e impulsivi e consentire una reazione diversa ad ansia, stress, dolore ecc. Le tecniche di MBTs focalizzano infatti l’attenzione del paziente sul momento presente, inclusi stati negativi o episodi di craving (Childress et al., 1983; Hayes et al., 1996; Gross, 2007).

Il dramma silenzioso del lutto prenatale: le conseguenze psicologiche nelle madri che affrontano la morte prenatale

Le emozioni più frequenti provate dopo un’esperienza di lutto prenatale  sono il senso di colpa e la vergogna, che possono indurre le coppie a non cercare conforto negli altri e a provare ancora più solitudine e smarrimento.

Rossana Piron, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Lutto prenatale: i dati recenti

Quando si parla di gravidanza, nell’immaginario collettivo siamo abituati ad associare immagini, aspettative e fantasie positive rispetto alla “dolce attesa”, che hanno tutte a che fare con la vita. Eppure, esiste una realtà molto spesso taciuta di gravidanze il cui esito provoca effetti drammatici nella vita della futura coppia genitoriale.

Secondo recenti dati ISTAT, in Italia nel 2008 ci sono stati 74117 aborti spontanei, 1866 bambini nati morti, e un’incidenza di morte intrauterina (cioè che avviene dopo la ventiduesima settimana di gestazione) di 3,5 su 1000 nati vivi (ISTAT, 2009). Secondo la rivista The Lancet, ogni giorno nel mondo 7200 mamme perdono il loro bambino a seguito della morte in utero.

In Italia la prima associazione che si è occupata di prevenzione, sostegno e cura della salute perinatale è l’associazione CiaoLapo, fondata dai coniugi Claudia Ravaldi, psichiatra e psicoterapeuta cognitivo-comportamentale, e Alfredo Vannacci, farmacologo e tossicologo. Il 30 aprile a Parma, i due fondatori hanno tenuto una giornata di formazione intitolata “Oltre il silenzio”, durante la quale hanno presentato i dati pubblicati sulla rivista The Lancet riguardo alle morti fetali nel mondo. Il 19 gennaio 2016 The Lancet ha promosso una nuova serie di articoli dal titolo Prevenire le morti in utero evitabili, mettendo in luce come il 90% dei casi potrebbero essere evitati anche in paesi con alto livello di sviluppo economico, come l’Italia.

La serie Ending Preventable Stillbirth è costituita da 5 articoli scientifici, 4 commenti e 2 report, scritta con la collaborazione di 40 paesi nel mondo, in rappresentanza di più di 100 organizzazioni. L’unica rappresentante italiana è l’associazione CiaoLapo, un dato che evidenzia come l’attenzione per questo tema sia ancora lontana sia culturalmente, che in una prospettiva di prevenzione e cura sanitaria. L’aspetto più rassicurante sul panorama italiano, è che l’Italia è uno dei Paesi ad altro sviluppo economico in cui il tasso di mortalità è diminuito maggiormente negli ultimi vent’anni.

 

Lutto prenatale: distinzione tra aborto spontaneo e morte intrauterina

La distinzione tra aborto spontaneo e morte intrauterina è di tipo temporale. Per aborto spontaneo si intende l’arresto della gravidanza prima della ventiduesima settimana di gestazione. Quando si parla di morte intrauterina, invece, si fa riferimento a quelle situazioni di arresto della gravidanza che avvengono dopo la ventiduesima settimana di gestazione; si parla di morte in utero precoce dalla ventiduesima alla ventottesima settimana, e infine di morte tardiva quando avviene dopo la ventottesima settimana.

L’aborto spontaneo è un’esperienza molto comune, avviene infatti tra il 15 e il 25% delle gravidanze. Nonostante la sua frequenza, le donne spesso non sono preparate a questa dolorosa esperienza, le cui cause sono per lo più sconosciute. Nel 2013 negli Stati Uniti è stata svolta un’indagine per valutare le credenze rispetto alla prevalenza, alle cause e agli effetti emotivi dell’aborto spontaneo (Bardos et al., 2015). Per la raccolta dei dati è stato somministrato un questionario di 33 domande, a uomini e donne di età compresa tra i 18 e i 69 anni. Il numero di partecipanti è stato di 1084 persone, 45% uomini e il 55% donne. Il 15% dei partecipanti ha risposto di aver vissuto almeno un’esperienza di aborto spontaneo; tra questi, il 55% riteneva che l’aborto spontaneo fosse attribuibile a meno del 5% delle gravidanze.

Per quanto riguarda le cause, quelle ritenute più comuni includevano un evento stressante (76%), il sollevamento di un oggetto pesante (64%), l’uso precedente di contraccettivi intra-uterini (28%) o di contraccettivi orali (22%). Dal punto di vista delle conseguenze psicologiche, il 37% ha vissuto questa esperienza con la percezione di aver perso un bambino, il 47% si è sentito profondamente in colpa, il 41% ha provato solitudine e il 28% ha provato vergogna. Nei casi in cui è stata scoperta una causa, il 19% in meno ha sentito di aver fatto qualcosa di sbagliato. Anche se non ci fosse stato alcun modo per evitare l’accaduto, il 78% dei partecipanti ha dichiarato che avrebbe voluto conoscere la causa dell’avvenimento.

 

Lutto prenatale: le emozioni conseguenti la perdita

Come rilevato in questa indagine, le emozioni più frequenti provate dopo un’esperienza di lutto prenatale  sono il senso di colpa e la vergogna, che possono indurre le coppie a non cercare conforto negli altri e a provare ancora più solitudine e smarrimento.

La morte di un bambino durante la gravidanza (lutto prenatale) o subito dopo la nascita (lutto perinatale) è un’esperienza traumatica di grave entità, che può determinare nella coppia un alto rischio di insorgenza di lutto complicato o di sviluppare un disturbo psichiatrico (Paykel, 1971; Ravaldi et al., 2008). E’ esperienza comune delle coppie genitoriali in lutto, di vivere una profonda rottura esistenziale tra il “prima”(la vita in divenire) e un “dopo” (la morte del figlio atteso). Nel “dopo” i genitori vivono un’esperienza di rottura del percorso genitoriale poiché viene meno l’oggetto d’amore tanto fantasticato, così già profondamente parte del loro vissuto (Mouras et al., 2003).

In ogni momento della gravidanza si può parlare di lutto prenatale a tutti gli effetti. L’intensità del lutto prenatale infatti non è correlata all’età gestazionale, né alla presenza di patologie fetali o di incompatibilità con la vita, piuttosto è correlata al grado di investimento affettivo della coppia genitoriale. L’età del bambino non ha quindi alcuna importanza per stabilire l’entità della perdita, ma la differenza sta nell’instaurarsi della relazione di attaccamento che inizia molto prima della nascita del bambino (Righetti e Sette, 2000). Come ha spiegato Claudia Ravaldi durante la giornata di formazione di Parma, le madri non vivono solo l’esperienza del lutto ma anche una profonda ferita esistenziale, che può far generare pensieri di incapacità a generare una vita e di incuria nell’essere state in grado di proteggere il proprio bambino. Questo tipo di rimuginio, di tipo depressivo e di colpa, è maggiore nelle madri che hanno investito sulla gravidanza, come momento di realizzazione della propria esistenza (es. donne laureate, con un lavoro stabile e una famiglia).

Nel primo periodo successivo al lutto prenatale, i genitori sono spesso infastiditi da tutto ciò che ha a che fare con la genitorialità e possono mettere in atto condotte di evitamento per gestire il dolore della loro perdita, come tenersi lontani dai neonati, evitare coppie con figli piccoli o le donne in gravidanza. Le emozioni di fastidio, dolore, rabbia e invidia, fanno parte del normale processo di elaborazione della perdita e sono collegati a pensieri automatici transitori: “Perché è accaduto proprio a me?” “Perché lei che è una cattiva madre ha dei figli e io no?” . I genitori spesso vivono questi pensieri con profonda autocritica e hanno difficoltà a esprimerli perchè sono accompagnati da sentimenti di indegnità (“Ho dei pensieri mostruosi, sono una persona orribile”) (Barr e Cacciatore, 2007).

 

Le fasi del lutto prenatale

Durante la giornata di formazione di Parma sono state presentate da Claudia Ravaldi le varie fasi del lutto che corrispondono ai diversi vissuti emotivi:
– Shock: dopo la diagnosi la coppia sperimenta una fase di shock e di profonda disorganizzazione, che può durare diversi giorni e che limita la capacità di comprensione. Le emozioni più comuni in questa fase sono stordimento, incredulità, distacco emotivo, congelamento o negazione (“Forse si sono sbagliati”). Molte donne sperimentano in modo acuto la cosiddetta “Sindrome delle braccia vuote”.
– Realizzazione: è il momento in cui la coppia realizza ciò che è realmente accaduto. La profonda tristezza e il senso di colpa (“Forse non avrei dovuto fare…”) sono spesso accompagnati da un dolore fisico intenso, come dolori alle articolazioni, pressione al torace, palpitazioni.
– Protesta: in questa fase l’emozione principale è la rabbia, accompagnata da sentimenti di ingiustizia, rammarico e ricerca delle colpe. La rabbia può intensificarsi per la sensazione di perdita di controllo, per il non avere avuto possibilità di scelta o per non avere capito cosa stesse accadendo. Altri sintomi ricorrenti in questa fase sono insonnia, incubi, flash back dei momenti più traumatici (es. le parole del medico, la sala operatoria, etc..).
– Disorganizzazione: questa fase è caratterizzata da depressione, solitudine, evitamento delle situazioni che hanno a che fare con la genitorialità. Possono presentarsi difficoltà nella coppia per le modalità differenti di vivere il lutto.
– Ri-organizzazione e accettazione: la solitudine e il rammarico lasciano il posto al disgelo emotivo, alla ricerca di supporto e alla sofferenza senza angoscia. Nascono nuovi interessi e nuove abitudini.
– Ritorno all’attaccamento e al desiderio di maternità.

Quando un lutto di questo tipo colpisce una famiglia, inevitabilmente vengono coinvolte tutte le figure che gravitano attorno alla coppia genitoriale, come amici e parenti, che spesso non sanno come affrontare la situazione e come fornire un valido supporto. I contenuti e i toni hanno grande rilevanza nel mostrare empatia o al contrario distacco e indifferenza. Tentare di minimizzare, razionalizzare o appellarsi alla natura può avere effetti negativi, soprattutto nei primi mesi del lutto, e alcune frasi possono essere vissute come aggressive o inutili (Ravaldi et al., 2009).
Le frasi più comuni da evitare:
“Doveva andare così, è la natura che fa il suo corso”
“Non ti preoccupare sei giovane, andrà meglio la prossima volta”
“Si vede che non era sano, meglio così”
“Meno male che è successo ora che non ti eri ancora affezionata, dopo sarebbe stato peggio”
“Hai già un bambino a casa”
“Ne farai altri”
“Riprovateci subito”

Utilizzare semplici frasi di vicinanza, come “Mi dispiace”, “Deve essere molto doloroso”, “C’è qualcosa che posso fare per te?” permettono di comunicare rispetto, partecipazione e aprono al dialogo (Ravaldi et al., 2009).

L’elaborazione del lutto può avvenire anche dopo due anni di tempo, e alcune ricerche sottolineano che la percezione stabile di serenità avviene in media tre anni dopo la perdita (Righetti e Casadei, 2010). Per questo è difficile stabilire la differenza tra un normale processo di lutto e la presenza di lutto complicato solo su criteri temporali.

In questo lasso di tempo sarebbe importante per i genitori e per gli altri figli essere seguiti attraverso un supporto integrato, cioè dal punto di vista medico, sociale e psicologico. I gruppi di auto-mutuo aiuto si sono rivelati efficaci per lenire la drammaticità dell’evento e favorire l’elaborazione del lutto ( Bulleri e De Marco, 2013). Anche le associazioni sono un valido aiuto perché forniscono informazioni e supporto, e favoriscono la condivisione tra le coppie genitoriali che vivono la stessa condizione (Ravaldi, 2009).

Anche la psicoterapia può fornire un valido supporto per accompagnare le persone verso l’elaborazione dell’esperienza traumatica. Due esempi di protocolli specifici per il trattamento del lutto prenatale e perinatale provengono dall’EMDR e dalla Psicoterapia Sensomotoria. Entrambe si focalizzano sui disturbi post-traumatici sbloccando meccanismi disfunzionali a livello somatico, cognitivo ed emotivo (Bulleri e De Marco, 2013).

In generale, la psicoterapia non ha il potere di eliminare la sofferenza, ma può permettere ai genitori di liberarsi dai vissuti irrazionali di colpa, incapacità e incuria e da tutte le emozioni negative che ostacolano la piena risoluzione del lutto.

 

NOTA: nella prima versione di questo articolo abbiamo scritto che l’associazione CiaoLapo è l’unica in Italia a occuparsi di Lutto prenatale e perinatale. Si tratta in realtà della prima ad essersene occupata in Italia. [NdR]

Maltrattamenti e abuso: l’ascolto del minore e il trattamento dell’offender – Report dal Convegno

Si è svolto a Foggia, lo scorso 26 gennaio presso l’Hotel Cicolella, il convegno “Maltrattamenti e abuso: l’ascolto del minore e il trattamento dell’offender” organizzato dall’Ordine degli Psicologi della Regione Puglia, dedicato a Emma Francavilla, la giovane collega e consigliera dell’Ordine venuta a mancare un anno fa e che fortemente aveva voluto dedicare tutto il suo impegno per l’organizzazione di questo convegno.

 

Prima dell’avvio dei lavori, si è respirato un clima di forte commozione in sala. Si è dato voce nel “qui e ora” a un dolore condiviso e vibrante nelle parole del Presidente dell’Ordine degli Psicologi Puglia, Antonio di Gioia [blockquote style=”1″]Sono particolarmente commosso perché in questo anno la sua assenza si è sentita parecchio, si sente la sua assenza in questa sala.[/blockquote]

 

I sessione: l’ascolto del minore in sede civile-penale e modelli familiari disfunzionali

Il convegno ha offerto una giornata di formazione variegata nei contenuti e articolata nell’esposizione degli interventi, provenienti dall’ambito istituzionale e clinico, testimonianza di una costante operazione di confronto e di un sinergico impegno per la sensibilizzazione ad un fenomeno quanto mai attuale e per la soluzione delle criticità ancora esistenti.

L’attenzione dell’uditorio è nell’immediato catalizzata, da parte dal dott. Riccardo Greco, Presidente del Tribunale dei minorenni di Bari, sul disegno di legge A.C. 2953-A “Delega al Governo recante disposizioni per l’efficienza del processo civile”, passato alla camera e che prevede tra i vari cambiamenti la soppressione del Tribunale per i Minorenni. Un cambiamento preoccupante e che non deve passare inosservato per gli effetti regressivi sulla giustizia minorile italiana. Si parla di “disposizioni di efficienza”, che tuttavia preferiscono un alto tasso di operatori non specializzati ma coinvolti in temi delicatissimi.

Il maltrattamento, in particolare nella sua forma psicologica, rappresenta una condizione che si presta ad una minore riconoscibilità dal punto di vista giudiziario, per tale ragione la specializzazione del giudice, difensore del minore, non può essere trascurata.

Aprire una finestra sulla dimensione qualitativa e quantitativa del fenomeno è tutt’altro che semplice, esso risulta, infatti, ancora purtroppo estremamente sommerso, il suo monitoraggio avviene a partire dai dati provenienti dai servizi sociali territoriali spesso interpellati per ragioni differenti dal maltrattamento e dall’abuso. La dott.ssa Rosy Paparella, Garante Regionale dei Diritti del Minore, mette in risalto come su 25.000 minori poco più di un quinto siano stati riconosciuti come vittime di maltrattamento. Al primo posto si individuano i casi di trascuratezza in tutte le sue forme, fisica, emotiva, dell’ipercura, a seguire i casi di violenza assistita, si tratta della “forma di violenza muta, invisibile” per riportare le sue parole, i casi di violenza psicologica e fisica, all’ultimo posto le violenze sessuali.

Il dato preoccupante è che la fascia di età maggiormente coinvolta è quella dagli undici ai diciassette anni, un importante indicatore di un intervento tardivo da parte di tutti gli operatori coinvolti in questo ambito. Tale aspetto veicola la riflessione sulla necessità di una costante formazione e aggiornamento e sulla rilevanza di un intervento di prevenzione rispetto alla vittimizzazione secondaria, a cui il minore può andare incontro, ossia la difficoltà da parte delle istituzioni di gestire il fenomeno. Essa rappresenta una condizione che nel contatto diretto con i minori emerge con chiarezza.

È pertanto importante ricordare utilizzando le parole della dott.ssa Paparella che [blockquote style=”1″]L’ascolto giudiziario e terapeutico è parte di un processo di protezione del minore[/blockquote] di cui gli stessi modi e tempi, nonchè le informazioni sulle ragioni dell’ascolto, fanno parte. [blockquote style=”1″]Ascoltare il trauma è l’aspetto più predittivo che il trauma possa essere riparato.[/blockquote]

In quest’ottica un ruolo centrale è assunto anche dal rispetto della deontologia professionale, in cui ognuno procede secondo specifiche competenze e s’interfaccia con professionalità differenti, che risultano necessarie laddove manca un’adeguata formazione in quel determinato settore. Le parole dell’avvocato Katia di Cagno, Coordinatrice Commissione Minori Ordine Avvocati di Bari, sintetizzano in maniera piuttosto concreta questo presupposto [blockquote style=”1″]Vorrei far comprendere che il concetto di vittoria non é più personale quando si parla di queste materie. Io immagino sempre il bambino seduto su una sedia, invisibile. Anche quando difendiamo uno dei genitori, la nostra mente deve sempre puntare al bene di quel bambino, se presente.[/blockquote]

Il convegno si è snodato tra proposte di confronto sull’analisi del fenomeno e tipologie d’intervento. Non è mancata inoltre, l’attenzione agli indicatori di difficoltà esistenti nella gestione del maltrattamento, dell’ascolto del minore e del trattamento dell’offender, portate alla luce dalle diverse professionalità in riferimento al proprio ambito d’intervento. Il Contributo della Dott.ssa Minenna, Giudice Onorario del Tribunale per i Minorenni, ha introdotto una raccomandazione rispetto ai pericoli che possono insinuarsi nella confusione dei ruoli da parte dello psicologo che si trova a ricoprire un ruolo diverso da quello clinico. [blockquote style=”1″]Un errore umano per noi psicologi è quello di confondere il ruolo di psicologo con quello di giudice; il giudice onorario, infatti, è chiamato a esprimere il suo giudizio sulla base di competenze specifiche, in quel contesto non è uno psicologo. Un secondo errore è quello di voler coordinare i vari interventi ergendosi al ruolo di supervisore piuttosto che rimanere a distanza.[/blockquote]

Nell’ambito delle consulenze tecniche di ufficio la dott.ssa Simone, Sostituto Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Foggia, richiama l’attenzione sul ruolo dello psicologo che mette in contatto il diritto dei maggiorenni con il contesto familiare nel quale c’è un bambino che ha vissuto un dramma, un’importante operazione di sostegno per il lavoro della procura e della polizia giudiziaria che può aiutare a scongiurare il rischio dell’archiviazione di un caso e dunque di un reato che resti impunito.

In sostanza,  afferma la dott.ssa Antonietta Curci, coordinatrice Master di II livello di Psicologia Giuridica presso l’Università degli Studi Aldo Moro di Bari, [blockquote style=”1″]Ciò che fa lo psicologo è raccogliere informazioni accurate, complete e credibili rispondendo, non all’accertamento della verità, ma alla necessità di supporto all’attività giudicante.[/blockquote]

Da qui l’importanza di impiegare metodi scientifici quando l’ascolto di esperienze traumatiche s’inserisce in un procedimento giudiziario. In sede d’interrogatorio, in ambito civile o probatorio, la suggestionabilità interrogativa rappresenta un elemento di vulnerabilità, che può compromettere la veridicità di una testimonianza. Analizzare quest’aspetto consente di verificare i casi in cui l’individuo si trova ad accettare e convincersi di ricordare fatti non realmente accaduti.

In tal senso, uno strumento impiegato in ambito forense è il Gudjonsson Suggestibility Scale. Esso valuta due aspetti della suggestionablità, l’accettazione, ossia la tendenza a cedere a domande suggestive e il cambio, ossia la tendenza a cambiare le proprie risposte per far fronte a feedback negativi, oltre alla compiacenza. La GSS è composta da un breve racconto che dopo la lettura viene fatto rievocare, seguono venti domande di cui gran parte sono suggestive e viene fornito un feedback negativo sulla prestazione; si procede rileggendo al soggetto le domande per verificare se le risposte cambiano in seguito al feedback e dopo cinquanta minuti si conclude con una rievocazione differita del brano. Il monito della dott.ssa Curci è quello di procedere con attenzione, [blockquote style=”1″]La grande difficoltà che dobbiamo affrontare è quella di non far esasperare situazioni già al limite, tenendo conto di tutte le variabili che potrebbero toccare anche chi opera nel caso e non solo i protagonisti.[/blockquote]

La mattina termina con una tavola rotonda sui modelli disfunzionali familiari. Il dott. Cusano apre questo momento di confronto condividendo un caso di maltrattamento intrafamiliare conclusosi terribilmente con un uxoricidio, un momento di profonda riflessione e sgomento per platea. A seguire, l’analisi dei modelli familiari disfunzionali conduce a soffermarsi sulla correlazione tra un basso livello di cura e un alto livello di protezione come fattore di rischio per i comportamenti devianti nei minori sex offender, contributo della dott.ssa Tarricone. L’interesse verso la realtà relazionale familiare non può dunque prescindere dal riferimento al diritto alla bigenitorialità, tema pregnante ma controverso. La legge 54/2006, come fa notare la dott.ssa Montemurno, ci invita a riconoscere che [blockquote style=”1″]Essere genitori vuol dire essere un’integrità che si occupa di un minore in termini affettivi, relazionali e comportamentali [/blockquote].

Questo diritto tuttavia può essere compromesso drasticamente. In tal senso, “Sindrome da Alienazione Parentale”, si inserisce a pieno titolo come condizione di compromissione del diritto alla bigenitorialità del minore e rappresenta il tema che conclude la tavola rotonda. La PAS, nel Manuale Diagnostico e Statistico Dei Disturbi Mentali, non viene riconosciuta come una sindrome, ma rappresenta più “una problematica relazionale che riguarda tre soggetti” come fa notare la dott.ssa Parente, è una problematica molto controversa e ostacola l’accesso del minore a entrambi i genitori. Essa si caratterizza per i seguenti sintomi: la campagna di denigrazione, la razionalizzazione debole, la mancanza di ambivalenza, il fenomeno del pensatore indipendente, l’appoggio automatico al genitore alienante, l’assenza di senso di colpa, gli scenari presi a prestito, l’estensione delle ostilità alla famiglia allargata del genitore rifiutato che mettono in risalto la distruzione del legame con il genitore alienato.

 

II sessione: Il sex offender aspetti psicopatologici, processuali, di tutela giuridica e d’ intervento

Il lavoro formativo riprende a pieno ritmo nel pomeriggio con gli aspetti psicopatologici e sessuali del sex offender, un’analisi, offerta dal prof. Carabellese, che mette in risalto la non uniformità del profilo del sex offender, in cui possono essere presenti aspetti relazionali caratterizzati da un attaccamento insicuro-evitante, un quadro psicopatologico eterogeneo e disfunzioni sessuali o altri piccoli disturbi fisici. La psicopatia tuttavia, costituisce un rischio specifico di recidiva criminale, fa notare. Va ricordato inoltre, che non esiste a oggi la possibilità di fare diagnosi di abuso sessuale a partire da indicatori isolati o multipli senza la presenza di altre prove.

In una cornice in cui la scientificità delle prassi è stata più volte ribadita, l’esperienza clinica portata dalla dott.ssa Loredana Mastrorilli ha favorito un contatto più empatico con l’esperienza traumatica dell’abuso. Emblematiche sono state le sue parole

[blockquote style=”1″]Spesso la teoria è importante ma di fronte all’esperienza dolorosa fatta da un bambino, non si può usare solo ed esclusivamente un metodo scientifico. Non avrebbe successo. Senza rapporto empatico con il dolore provato dalla vittima in quel momento, non c’è possibilità di ottenere risultato e apportarle beneficio.[/blockquote]

La tutela giuridica del minore sex offender, è stato un altro importantissimo tema affrontato nel pomeriggio dal dott. Massimiliano Arena. Il suo contributo ha stimolato la riflessione sulla ricorrenza a trascurare, da parte dei tecnici stessi, le esigenze educative di fronte a reati commessi da minorenni. Il D.P.R. 448/88, fa notare, prevede un procedimento speciale [blockquote style=”1″]Che consente la sospensione del processo e la conseguente messa alla prova del minore. [/blockquote]In questo periodo è monitorata l’evoluzione del comportamento del minore e della sua personalità da parte dei servizi minorili dell’amministrazione della giustizia e i servizi socio-assistenziali locali.

La giornata si conclude con una tavola rotonda sulle proposte progettuali promosse in favore di sex offender uomini e donne. Le dott. sse, Anna Coppola De Vanna e Marika Massara, presentano i rispettivi progetti di contrasto alla violenza di genere, rivolti agli uomini, “Dalla parte del Lupo” e “Rompere il silenzio”, finalizzati all’elaborazione dall’esperienza della violenza, alla riduzione del rischio di recidive e alla ripresa della vita sociale.

Il convegno termina con i contributi delle dott.sse Sciancalepore e Guglielmini, in cui si porta in primo piano il fenomeno delle donne abusanti, rispetto alle quali mancano ancora stime precise e studi approfonditi, ma non mancano interventi.

L’attenzione ai lavori da parte della platea è stata costante e la nutrita proposta di temi è stata una buona occasione di aggiornamento e confronto per la comprensione di un fenomeno tragicamente attuale e dalle molteplici e pericolose sfumature.

Rimuginio e ruminazione – Introduzione alla Psicologia

Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari individuati come pericolosi. La ruminazione è definita, invece, come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative.

 Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

Rimuginio e Ruminazione

Nel campo della psicopatologia si è soliti prestare molta attenzione a una serie di processi mentali caratterizzati da ripetitività che, alla lunga, provocano ripercussioni sullo stato emotivo e comportamentale della persona. Il pensiero ripetitivo incastra, chi lo mette in atto, in un circolo vizioso in cui l’unico esito è continuare a pensare in modo ridondante. Questa modalità di pensiero passivo e/o relativamente incontrollabile sottende emozioni diverse tra loro, come l’ansia, la rabbia e la depressione. Il pensiero ripetitivo, a seconda del tipo di emozione a cui si riferisce, assume connotazioni e significati diversi.

Le modalità di pensiero ripetitivo più frequentemente studiate sono il rimuginio, legato all’ansia, la ruminazione, legata alla depressione, e la ruminazione rabbiosa, legata alla rabbia.
In generale esistono delle caratteristiche comuni a tali modalità di pensiero, e sono:
– ripetitività, pensieri sempre uguali che si ripetono;
– negatività, pensare sempre a cose negative che potrebbero succedere o che sono accadute;
– incontrollabilità, incapacità di fermare i pensieri ripetitivi;
– contenuto prettamente verbale, sono caratterizzati più da frasi che da immagini mentali;
– astrattezza, non portano all’azione ma richiamano solo altri pensieri;
– dispendio di energie, portano a una mancanza di concentrazione su temi che non siano legati ai processi in questione.

Inizialmente, si cominciano a utilizzare le indicate modalità di pensiero credendo siano efficaci e utili per risolvere situazioni identificate come problematiche, per affrontare i problemi futuri, per percepirsi meno in colpa e cercare rassicurazioni.

 

Il rimuginio

Il rimuginio o worry  ( la traduzione migliore e tecnicamente più appropriata è “rimuginio” e non “preoccupazione”, secondo Sassaroli e Ruggiero, 2003)  è definito come una forma di pensiero ripetitivo strettamente legato all’ansia che, nel tempo, la mantiene e la aggrava. Il rimuginio è costituito da una forma di pensiero di tipo verbale e astratto, privo di dettagli e seguito, in molti casi dalla focalizzazione visiva di immagini relative ai possibili scenari individuati come pericolosi. Il rimuginio è caratterizzato dalla ripetitività di una serie di pensieri considerati come incontrollabili e intrusivi, che si focalizzano su contenuti catastrofici di eventi  che potrebbero manifestarsi in futuro.

Il rimuginio è una strategia che l’individuo adotta quando si trova in situazioni identificate come pericolose e incerte, ansiogene, per questo difficili da gestire. Il rimuginio, dunque, è utilizzato dall’individuo come modalità di fronteggiamento della situazione temuta, allo scopo di prevenirla e controllarla.

Chi rimugina ha paura e teme sempre possa avverarsi il peggio, non riesce a valutare possibili alternative per gestire la situazione temuta e pensa che il rimuginare possa portare alla soluzione del problema. Alla lunga, chi rimugina si percepisce debole, fragile, insicuro, spaventato e costantemente soggiogato dalla pericolosità del futuro, di conseguenza il rimuginio si cronicizza e diventa disfunzionale e maladattivo (Clark, & Beck, 2010).

Il rimuginio è tanto più grave e difficile da eliminare quanto più la persona attribuisce ad esso significati positivi (metacredenze positive), come pensare che rimuginare aiuti a risolvere i problemi, prepari al peggio, riduca la probabilità che accada l’evento temuto. Spesso si rimugina per sentirsi più sicuri o per analizzare al meglio un problema, chiaramente queste credenze disfunzionali legate all’utilità del rimuginio mantengono l’individuo in una condizione di ansia e in una falsa percezione di risoluzione del problema stesso (Sassaroli & Ruggiero, 2003).

Coloro che rimuginano sono inclini al sentirsi poco capaci di poter controllare gli eventi incerti (Harvey, Watkins, Mansell, & Shafran, 2004), per questo utilizzano il rimuginio come strumento mentale per anticipare e controllare il possibile verificarsi di un evento futuro temuto. Il non riscontrare le conseguenze temute determina, quindi, il rinforzo di tale processo di pensiero (Borkovec et al., 2004).

 

La ruminazione

La ruminazione è definita come un processo cognitivo caratterizzato da uno stile di pensiero disfunzionale e maladattivo che si focalizza principalmente sugli stati emotivi interni e sulle loro conseguenze negative (Martino, Caselli, Ruggiero & Sassaroli, 2013).

La ruminazione è una forma circolare di pensiero persistente, passivo, ripetitivo legato ai sintomi della depressione (Nolen-Hoeksema, 1991). Tale forma di pensiero è rivolto al passato ed è legato alla perdita di qualcosa di importante. I pensieri ruminativi diventano la causa della comparsa della depressione, del suo mantenimento e aggravamento (Broderick, & Korteland, 2004).

Inizialmente la persona attiva la ruminazione perché crede sia una strategia consona alla gestione di una serie di accadimenti negativi, quindi la considera una soluzione efficace per il controllo della tristezza. Tuttavia, tale processo nel tempo aggrava l’intensità dello stato d’animo negativo, induce a un maggiore abbassamento dell’umore, e comporta una distorsione della percezione sia di se stessi, in termini negativi, sia dell’ambiente circostante (Wells, 2009).

Quando si rumina l’attenzione è spostata totalmente sulle proprie sensazioni e sui propri pensieri, allo scopo di comprenderne il significato, le cause e le conseguenze del proprio stato d’animo. Si amplifica, in questo modo, la percezione individuale di essere incapace di fronteggiare la situazione e di valutare eventuali alternative che possano sia attivare emozioni positive sia produrre soluzioni più adeguate al raggiungimento dello scopo. L’utilizzo continuo e costante della ruminazione determina l’automatizzazione di tale processo che provoca in chi la sperimenta un senso di mancanza di controllo sui pensieri ed evidente abbassamento del tono dell’umore.

 

La ruminazione rabbiosa

Nella ruminazione rabbiosa il pensiero ripetitivo è legato a un evento passato in cui si sperimenta una emozione di rabbia. Il pensiero sul passato amplifica l’intensità e la durata dell’emozione negativa, che sfocia conseguentemente nella vendetta e nell’aggressività (Sukhodolsky, 2001), quando è rivolta verso l’esterno. Se invece la ruminazione rabbiosa riguarda temi autosvalutativi, alla lunga potrebbe diventare depressione.

La ruminazione rabbiosa, dunque, svolge un ruolo centrale nel mantenimento di emozioni negative, nella riduzione dell’autocontrollo, nella messa in atto di comportamenti aggressivi e vendicativi. La ruminazione rabbiosa è caratterizzata da tre processi fondamentali quali:
– pensiero ripetitivo rivolto ad esperienze passate che hanno suscitato rabbia,
– attenzione focalizzata sulle espressioni della rabbia
– il pensiero controfattuale (Sukhodolsky, Golub & Cromwell, 2001).

Di conseguenza la ruminazione, concentrandosi sugli episodi che hanno indotto rabbia, non fa altro che mantenere e incrementare la rabbia stessa, gli affetti negativi e la sofferenza interferendo con il benessere psicologico dell’individuo (Watkins, Moulds, & Mackintosh, 2005).

Il fenomeno della ruminazione rabbiosa, inteso come processo cognitivo finalizzato al mantenimento delle emozioni negative di rabbia, può variare in base al contenuto dell’evento che induce rabbia e alla modalità di processamento dell’informazione proveniente dall’ambiente esterno valutata come scorretta o non adeguata. Se l’individuo attribuisce la causa del verificarsi dell’evento a fattori esterni, la ruminazione facilita la comparsa di comportamenti violenti e incrementa l’emozione di rabbia, invece se riconosce se stesso responsabile del verificarsi dell’evento la ruminazione, nonostante intensifichi gli stati emotivi di rabbia e l’attivazione fisiologica relativa alla stessa, non porta alla perdita di controllo sulle azioni, ma a una riduzione dello stato di benessere con conseguente abbassamento del tono dell’umore.

Per concludere, il rimuginio, la ruminazione e la ruminazione rabbiosa sono processi automatici in cui chi li mette in atto perde il contatto con la realtà e manifesta una serie di disagi emotivi e comportamentali (Papageorgiou & Wells, 2004).

Tuttavia essendo stili di pensiero appresi, è possibile individuare delle strategie efficaci per interromperli. Ovviamente, è necessario farsi seguire da un terapeuta in grado di indurre l’individuo alla consapevolezza del proprio funzionamento, al riconoscimento della dannosità di tali processi e di giungere al cambiamento dei pensieri che mantengono tali processi per apprenderne dei nuovi attraverso l’applicazione di interventi cognitivi o comportamentali volti a interrompere la catena dei pensieri stessi.

 

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Psicoterapia per gli anziani: motivazione, setting terapeutico e concettualizzazione del caso

Quando si lavora con gli anziani, ci sono alcuni temi e fattori legati all’età che possono emergere con maggiore frequenza e che, quindi, richiedono modifiche al “contenuto” della terapia. La psicoterapia per gli anziani può prevedere la rappresentazione anche grafica di quello che si andrà a svolgere permette di favorire la comprensione dei contenuti e di elaborarli con maggiore facilità; permette inoltre di ridurre l’ansia che spesso l’anziano presenta nell’affrontare qualcosa di ignoto, e che pazienti giovani/adulti e adolescenti di solito non manifestano.

Sara Ghezzer, Sara Pedroni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

Premessa

I dati demografici a livello europeo mettono in evidenza un allungamento della vita media. Si prevede che entro il 2025 il 44% della popolazione avrà più di cinquant’anni. Per questo motivo la promozione della salute tra gli anziani rappresenta un investimento strategico dei governi europei. L’Italia registra un tasso di aspettativa di vita in salute di 71,2 anni, che è il più alto d’Europa. Più in generale la popolazione italiana ha beneficiato di importanti progressi per quanto riguarda la sopravvivenza: attualmente la speranza di vita alla nascita è di 78,6 anni per gli uomini e di 84,1 anni per le donne, anche se questo divario tra i sessi si sta riducendo con il passare del tempo e la forbice tenderà sempre più a ridursi.

L’incremento della vita media non riguarda solo la popolazione ultra sessantacinquenne ma anche gli “over 75 e 85”; le proiezioni demografiche mostrano un incremento dei centenari addirittura del 2% nel 2050. Tale situazione va inoltre di pari passo con la tendenza alla riduzione delle nascite, anche se i dati del 2007 evidenziano un miglioramento, sia pur parziale, della situazione.

L’evoluzione verso un progressivo allungamento della vita può essere considerata contemporaneamente un “trionfo e una sfida”, come affermano anche gli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS). La sfida consiste nella necessità di prepararsi ad accogliere dignitosamente un numero crescente di anziani e nel garantire le condizioni necessarie a fare in modo che gli anni aggiunti possano essere vissuti attivamente e in buona salute. Si tratta di una sfida dal punto di vista sia sanitario sia economico e sociale. L’incremento della popolazione anziana a cui stiamo assistendo ci impone perciò la necessità di riflettere sulle condizioni di tale popolazione, sui suoi bisogni e sulle risposte che le comunità in cui vivono sono in grado di fornire (Delai, 2002). La salute non è un fatto privato o istituzionale, bensì un fatto che interessa l’intera comunità in cui la persona vive. Creare quindi comunità resilienti e consapevoli consente di sviluppare interventi che portino ad un benessere della popolazione e ad interventi di sviluppo che migliorino la salute.

 

Differenza tra paziente anziano e paziente giovane

Il paziente anziano si differenzia da una persona giovane adulta per modificazioni che intercorrono a livello fisico, cognitivo, esperenziale e di regolazione somatico-affettiva. L’invecchiamento può infatti essere definito come processo, o insieme di processi, che hanno luogo in un organismo vivente e che con il passare del tempo ne diminuiscono la probabilità di sopravvivenza: grazie all’allungamento della speranza di vita si è reso possibile lo studio di tali processi (De Beni, 2009). L’invecchiamento va distinto dalla malattia poiché porta con sé cambiamenti universali e non reversibili, ma non necessariamente invalidanti. Alcune modificazioni a livello cognitivo si presentano comunque anche nella persona non affetta da patologia neurodegenerativa o da condizione di Mild Cognitive Impairment (Petersen, 1999).

Le funzioni principalmente coinvolte risultano essere la working memory (Baddeley, 1974), cioè la capacità di manipolare ed elaborare attivamente un’informazione; l’attenzione selettiva, ovvero la capacità di prestare attenzione ad uno specifico stimolo inibendo gli altri (distrattori).
Le conoscenze semantiche ed episodiche rimangono invece preservate nella persona anziana in salute e sono come punti di forza anche all’interno del percorso psicoterapico. Un test di screening come il MMSE (Folstein et al 1975)(Measso et al 1993) o il MoCa (Arcara et al., 2013) può dirimere il terapeuta da eventuali dubbi di situazioni di compromissione cognitiva lieve.

Se si presentassero difficoltà in queste aree, è utile, durante la terapia, reiterare le informazioni ricevute dal paziente per favorirne la codifica, intervenendo a livello cognitivo stimolando i circuiti adibiti ai processi di memorizzazione e validando la persona.

Alle possibili difficoltà cognitive si sommano i probabili problemi di tipo sensoriale: il 50 e il 75% delle persone infatti ultra 65enni ha problemi di udito. All’interno di una psicoterapia per gli anziani tale problematica potrebbe interferire nel rapporto diadico e frustrare il paziente, abbassandone la motivazione. La valutazione adeguata della gravità del problema e l’eventuale ausilio di supporti audio potrebbe contrastare queste difficoltà.

Molto spesso, il paziente anziano interviene in terapia riportando una problematica di tipo fisico, sia essa di entità lieve o più grave. L’incidenza di malattie infatti aumenta esponenzialmente con l’età, si pensi ad esempio a difficoltà circolatorie, dolori alle articolazioni, etc.
I problemi di salute possono creare un focus importante per il paziente o limitare al contempo la messa in atto di esercizi comportamentali, come le esposizioni. È bene dunque che il terapeuta concordi con il paziente obiettivi realistici, in base alle esigenze e alle possibilità della persona anziana. Contemporaneamente può essere utile utilizzare il malessere fisico e la capacità di farvi fronte da parte della persona, come risorsa e capacità individuale, per validarla.

Molto spesso le persone tendono a svilire l’importanza della sintomatologia fisica che la persona di terza età riporta. Questo comportamento può favorire un calo dell’autostima e pensieri autosvalutativi nel paziente. Il terapeuta comprenderà come questo comportamento è senz’altro poco utile, e controproducente all’interno di un setting terapico.

 

Il setting della psicoterapia per gli anziani

Difficoltà motorie, limitazioni nella propria autonomia, variabilità del ciclo sonno-veglia sono peculiarità che possono contaminare la creazione di un buon setting terapico. Setting alternativi come la terapia a domicilio possono favorire l’aderenza del paziente al percorso piscologico. Questo intervento può essere solo momentaneo: durante un particolare periodo dell’anno (estate, inverno), a seguito di un acuirsi della situazione di salute fisica (p.e. frattura femore), o a causa di un peggioramento della situazione psicologica (p.e. episodio depressivo maggiore).

Spetta al terapeuta, in accordo con il paziente e con i suoi familiari, decidere cosa è meglio fare: in una situazione di forte depressione infatti può essere utile stimolare il paziente ad uscire, la terapia potrebbe fungere come esercizio comportamentale; ma se la persona è abulica, questo tentativo sarà per il terapeuta fallimentare sin dal principio.

Interventi di gruppo possono migliorare l’esito terapeutico per coloro che sono soli o socialmente isolati; tuttavia alcuni studi (Engels e Verney, 1997) hanno rivelato che la terapia individuale è di maggiore efficacia per l’anziano depresso rispetto al gruppo.

 

Psicoterapia per gli anziani: i disturbi dell’umore

Per trattare utilmente i disturbi dell’umore in utenti affetti da demenza è opportuno saper distinguere tra depressione e apatia. L’apatia è caratterizzata da pervasiva mancanza di motivazione e disinteresse, mentre nella depressione il paziente diventa apparentemente apatico, ma questa è una conseguenza negativa di una serie di idee e vissuti negativi di incapacità, colpa, mancanza di speranza. Nella popolazione con più di 65 anni si stima una prevalenza dello 0,9% per anno di disturbo depressivo maggiore (Djernes et al, 2006). Solitamente nell’anziano emergono pensieri negativi soprattutto riguardanti l’immagine di sé ed i mutamenti che questa immagine subisce rispetto alle modificazioni interne ed esterne legate all’età. I disturbi psichici che ne possono derivare, sotto forma di ansia e/o di depressione, possono essere considerati come l’espressione di una conflittualità che, attivata dai fattori di stress propri dell’età, si focalizza sulla divergenza crescente fra immagine ideale ed immagine reale di sé.

La clinica insegna che caratteristiche antecedenti del carattere, si possono nella vecchiaia, irrigidirsi, ad esempio un anziano, dapprima prudente, potrebbe con l’età, diventare diffidente, un anziano estroverso potrà diventare spavaldo o fastidioso, l’introverso, invece, si coarterà su di sé, concentrandosi sul proprio corpo e tenderà all’ipocondria.

Se il paziente soffre di un’alterazione del tono dell’umore di origine depressiva, la condizione deve essere considerata attentamente nella sua eziologia, per identificare il trattamento più proficuo. Si ricordi che la depressione, ha manifestazioni particolari nel malato di demenza, in quanto può essere accompagnata da ansia o comportamenti accelerati anziché rallentati come in genere avviene nell’adulto (Bordino e Iannizzi, 2001). È opportuno inserire l’intervento di psicoterapia per gli anziani con disturbo dell’umore affinché sia di ausilio anche per migliorare la partecipazione attiva del paziente a una riabilitazione psicosociale e neuropsicologica che riescano a restituire il significato alla vita dei pazienti.

 

Contenuto della psicoterapia per gli anziani e concettualizzazione del caso

Quando si lavora con gli anziani, ci sono alcuni temi e fattori legati all’età che possono emergere con maggiore frequenza e che, quindi, richiedono modifiche al “contenuto” della terapia. Laidlaw nel 2004 ha rivisitato il modello proposto da Beck (1979) andando a proporre una concettualizzazione del caso creata ad hoc per pazienti ultra 65enni.

La psicoterapia per gli anziani può prevedere la rappresentazione anche grafica di quello che si andrà a svolgere permette di favorire la comprensione dei contenuti e di elaborarli con maggiore facilità; permette inoltre di ridurre l’ansia che spesso l’anziano presenta nell’affrontare qualcosa di ignoto, e che pazienti giovani/adulti e adolescenti di solito non manifestano.
Come rappresentato nel diagramma, la concettualizzazione proposta da Laidlaw può essere definita come una rappresentazione idiosincratica dei problemi attuali del paziente, in cui sono segnalati i fattori (cognitivi, comportamentali, emotivi, interpersonali) predisponenti e di mantenimento del disturbo.

Di seguito una approfondita esplicazione: le credenze di coorte sono assunti condivisi dalla maggior parte delle persone nate in determinati contesti socio culturali e in determinati periodi storici. Tali esperienze possono aver avuto un impatto significativo nella storia di vita della persona e possono emergere anche frequentemente nel corso della terapia.

Gli investimenti di ruolo riflettono le attività e gli interessi in cui la persona è coinvolta: pare che grado di investimento e sintomatologia depressiva siano inversamente proporzionali.

I legami intergenerazionali riflettono la rete che si costruisce attorno all’anziano, con figli, nipoti, coniugi, etc. Essi possono essere una risorsa quando investono il paziente di un valore positivo, ma possono essere fonte di frustrazione e malessere quando costituiscono fonte di attrito o conflittualità.
Il contesto socio-culturale fa riferimento ai pregiudizi e agli stereotipi che la persona anziana sente su di sé. Se questi paiono persistenti e ben radicati possono favorire il disagio psichico acuendo il malessere, è quindi importante che questa componente sia indagata e smantellata fin dalle prime sedute di psicoterapia.

Per quanto riguarda la salute fisica, come accennato prima, il terapeuta dovrà sempre informarsi sulla presenza di malattie fisiche nel paziente ed esplorare la comprensione che questi ha delle sue patologie e delle conseguenze che ne derivano.

tabella

Fig.1 Case Formulation per anziani (Laidlaw et al.,2004)

La psicoterapia per gli anziani presenta dunque degli aspetti assolutamente peculiari, viste le caratteristiche della sintomatologia, la possibilità di incontrare delle resistenze culturali all’approccio psicologico e la possibile presenza di un deterioramento cognitivo. È importante che il clinico sia preparato per svolgere al meglio la diagnosi differenziale con altri disturbi e che non sottovaluti le manifestazioni fisiche dei disturbi dell’umore. Anche in caso di compromissione della cognitività, il psicoterapia per gli anziani può essere fondamentale per aumentare la compliance del paziente alle altre terapie proposte e può essere un valido aiuto per alleviare la sintomatologia di sofferenza psicologica. Naturalmente in questo caso il terapeuta dovrà adeguare le sue modalità di comunicazione alle capacità residue del paziente.

 

Misofonia: un sovraccarico dell’attività cerebrale alla base dell’eccessiva sensibilità ad alcuni rumori

Sebbene alcune persone possano trovare sgradevoli alcuni rumori, come quelli prodotti dalla masticazione o dalla respirazione, per altre persone essi risultano letteralmente insopportabili, tale condizione è detta Misofonia. In una recente ricerca è stato dimostrato che la misofonia sarebbe dovuta a un sovraccarico di informazioni elaborate da diverse connessioni cerebrali.

 

Misofonia e attività cerebrale: il ruolo del lobo frontale

Un team capeggiato dall’Università di Newcastle, ha compiuto delle scoperte riguardanti le basi fisiche e cerebrali della condizione chiamata “misofonia“, di cui sono caratterizzate le persone che hanno un vero e proprio odio per alcuni suoni, come quelli prodotti dalle azioni di mangiare, masticare, o premere ripetutamente il pulsante di una penna. Questi suoni, chiamati “suoni trigger” da chi soffre di misofonia, possono portare a risposte immediate e intense, come liti o bisogno di fuga.

Tale ricerca è stata pubblicata sulla rivista Current Biology, ed evidenzia la presenza di alcuni cambiamenti nella struttura del lobo frontale in coloro che soffrono di misofonia ed anche dei cambiamenti nell’attività cerebrale. Le analisi di brain imaging hanno anche rilevato che questi soggetti avrebbero della anomalie nei meccanismi di controllo emozionale, che causerebbero un sovraccarico nell’attività cerebrale al momento dell’esposizione ai suoni trigger.

I ricercatori hanno anche scoperto che l’attività cerebrale originerebbe da diversi pattern di connessioni al lobo frontale. Quest’ultimo è la struttura imputata normalmente alla soppressione delle reazioni anormali ai suoni. I ricercatori hanno scoperto che i suoni trigger evocherebbero, in chi soffre di misofonia, una risposta psicologica amplificata accompagnata da sintomi fisici, come battito cardiaco accelerato e sudorazione.

Il Dr. Sukhbinder Kumar, dell’Istituto di Neuroscienze all’Università di Newcastle e del Wellcome Centre for Neuroimaging allo University College di Londra (UCL), ha condotto la ricerca. Egli afferma:

Per molte persone affette da misofonia, questa è una buona notizia, perché per la prima volta abbiamo dimostrato una differenza nella struttura e nella funzionalità cerebrale in coloro che ne soffrono. I pazienti con misofonia hanno delle caratteristiche cerebrali notevolmente simili e la sindrome non è ancora riconosciuta in nessuno degli attuali sistemi diagnostici. Questo studio dimostra i cambiamenti cerebrali critici, come evidenza ulteriore necessaria a convincere la scettica comunità medica che questa è una vera e propria patologia.

 

Le differenze cerebrali nei misofoni

Servendosi  della Risonanza Magnetica (MRI), il team di ricercatori ha rilevato delle differenze fisiche nei lobi frontali tra i due emisferi cerebrali dei soggetti affetti da misofonia, con una mielinizzazione più marcata nella materia grigia della corteccia prefrontale ventromediale (vmPFC). Lo studio ha anche utilizzato la Risonanza Magnetica Funzionale (f-MRI), per misurare l’attività cerebrale dei soggetti con e senza misofonia, mentre essi sentivano una serie di suoni: un suono “neutrale” (come la pioggia, un bar affollato, un bollitore); un suono spiacevole (come un bambino che piangeva o una persona che urlava); un suono “trigger” (come i rumori prodotti dalle azioni di respirare e mangiare).

L’ f-MRI ha mostrato una connessione anormale tra i lobi frontali ed un area chiamata “corteccia insulare anteriore” (AIC). Quest’area della materia grigia è situata in una piega profonda della parte laterale dei lobi cerebrali ed è conosciuta per il suo coinvolgimento nell’elaborazione delle emozioni e nell’integrazione delle informazioni sensoriali provenienti dal corpo e dal mondo esterno.

Quando sono presentati i suoni trigger, l’attività cerebrale viene incrementata in entrambe le aree, nei soggetti misofoni, mentre nei soggetti senza misofonia, l’attività incrementa nell’ AIC, ma diminuisce nelle aree frontali. I ricercatori ritengono che questo fatto rifletta la presenza di meccanismi di controllo anormali dei lobi frontali sull’attività della corteccia insulare.

Tim Griffiths, Professore di Neurologia Cognitiva all”Università di Newcastle e all’UCL, aggiunge:

Spero che questi risultati rassicureranno i misofoni. Io stesso facevo parte degli scettici, fino a che non ho visto questi pazienti nella clinica, e ho capito quanto le loro caratteristiche fossero simili. Adesso abbiamo prove a sufficienza per tracciare le basi di questo disturbo attraverso le differenze nei meccanismi di controllo cerebrale. Questo fatto suggerirà possibili manipolazioni terapeutiche ed incoraggerà la ricerca di meccanismi simili in altre condizioni associate a reazioni emotive anormali.

Un altro risvolto, quello terapeutico, è messo in evidenza dal Dr. Kumar:

La mia speranza è quella di identificare gli effetti cerebrali distintivi prodotti dai suoni trigger. Questi “segnali” potrebbero essere utilizzati all’interno di trattamenti specifici, come ad esempio il neurofeedback, in cui i soggetti possono regolare le proprie reazioni controllando l’attività cerebrale prodotta.

 

L’amore è eterno (finché dura) – Le risposte di FluIDsex

Buongiorno, Non ho il coraggio di lasciare il mio ragazzo con cui sto da 9 anni perché ci sono le feste e perché lui ha già dei suoi problemi. Poi arriva il dubbio, ma credo manchi solo il coraggio. Consigli? (Lore Lay)

 

«Come finisce un amore? – Ma allora finisce? Nessuno – salvo gli altri – lo sa mai; una specie d’innocenza nasconde la fine di questa cosa concepita, propugnata e vissuta come eterna.»

(E. Fromm)

Cara Lore Lay,

vivere un’intensa storia d’amore e sentirla vacillare dopo anni passati insieme risulta essere spesso fortemente destabilizzante sia per chi, avvertendo il disagio, sente il bisogno di agire una separazione e di dar voce alla fine del rapporto, sia per chi quella voce può soltanto ascoltarla, in quel momento.

Nel corso della sua breve domanda, Lei fa più volte riferimento al coraggio ed in particolare ad una “mancanza di coraggio” che sembra bloccarla dall’esprimere un bisogno apparentemente già identificato. Ed effettivamente è necessario essere molto coraggios* per intraprendere un doloroso percorso di consapevolezza e per, infine, dar voce alla fine di una storia d’amore importante. Tuttavia mi sorge spontaneo chiedermi (e proporrei a Lei questa riflessione) se effettivamente questa “mancanza” di coraggio sia esclusivamente legata al periodo che sta attraversando il suo ragazzo o se potrebbe essere rappresentativa di un suo più intimo bisogno di ascoltare sé stessa e rispettare i suoi tempi all’interno di questo processo difficoltoso.

L’invito, quindi, potrebbe essere quello di sfruttare questi giorni per prendersi un po’ di tempo e cercare di ascoltare con più intensità quello che La abita e, allora, poter trovare il coraggio di scegliere e di dare una direzione nuova alle vostre storie di vita.

Irene Lisa Gargano

 

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La “psicosi terrorismo”, quando i processi di pensiero inconsapevoli modulano la percezione dell’Altro

L’episodio del cinema di Torino colloquialmente etichettato come “psicosi terrorismo“. Tutti noi siamo vittime quotidiane degli automatismi di pensiero che inducono a commettere distorsioni interpretative (bias cognitivi) frutto dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La contrapposizione di un “Noi” variegato e multiforme con un “Loro” omogeneo e indifferenziato influenza la possibilità di ricorrere ad un numero assai limitato di ipotesi per leggere il comportamento dell’altro, quando ci si rapporta non come singoli ma come membri di un gruppo sociale.

La psicosi terrorismo e i pensieri automatici alla base dell’intolleranza razziale

Si continua a discutere della vicenda accaduta in un cinema torinese la sera del primo gennaio quando durante la proiezione di un film, in presenza di una madre ed una figlia maghrebine intente a scambiarsi messaggi via whatsapp, il pubblico in allerta ha abbandonato la sala. Si saprà successivamente che si trattava di donne sordomute che, nel corso di una scena erotica, hanno deciso di inviare messaggi col fine di comunicare ed ironizzare su quanto osservato.

L’intesa, lo scambio di messaggi, il “raggruppamento” di due donne musulmane in uno spazio pubblico ha allertato gli spettatori in sala al punto da indurli alla fuga e a ricorrere ai carabinieri, i quali ben presto hanno compreso il malinteso. Cerchiamo però di tracciare un percorso a ritroso e di tentare di individuare i fattori all’origine di un tale malinteso, quello che i media generalisti chiamano in po’ approssimativamente “psicosi terrorismo“.

Si è parlato di “psicosi terrorismo” e si potrebbe essere tentati dal semplificare la lettura dell’accaduto con un frettoloso quanto impreciso riferimento ad un’intolleranza razziale dilagante e generalizzata. Questo episodio potrebbe costituire, in realtà, un’occasione utile per riflettere su quanti e quali siano i processi di pensiero semi-automatici che si tramutano poi in condotte comportamentali intenzionali.

La complessità e imprevedibilità della realtà sociale ci richiede di essere interpreti abili a leggere e riconoscere i propri ed altrui stati mentali, ovvero tentare di capire quale sia l’intenzione che muove l’agire dell’altra persona. In questo caso le persone del pubblico in sala hanno letto in modo erroneo il comportamento delle due donne, attribuendo loro un’intenzione totalmente inesatta – quella di essere complici di un attacco terroristico. La teoria della mente, il lavorio quotidiano che ciascuno singolarmente svolge provando ad interpretare gli stati mentali degli altri, in altre parole questo tentativo di rappresentarsi internamente il mondo mentale altrui, risente delle modalità con cui categorizziamo gli altri agenti sociali a seconda del contesto storico-culturale nel quale viviamo. Incasellare l’altro in una specifica categoria significa spingerlo ad assumere una serie di attributi stereotipici in grado di orientare il comportamento; in questo caso le donne etichettate come musulmane hanno assorbito lo stereotipo del terrorista al punto da indurre gli spettatori alla fuga.

La realtà storica fa da sfondo costante permeando i processi di pensiero, riempiendo il contenuto delle nostre distorsioni cognitive dove mutano di volta in volta i protagonisti coinvolti (musulmani, meridionali, omosessuali, ecc.), tendenzialmente membri di un gruppo sociale diverso dal proprio che costituisce una minoranza (dove maggioranza e minoranza non si definiscono sulla base di un concetto quantitativo ma si distribuiscono lungo le polarità del potere, in primis il potere semantico di nominare o etichettare l’Altro).

I bias cognitivi e gli stereotipi sociali

Tutto il pubblico in sala è caduto nella stessa trappola? Si può parlare di un intero insieme di spettatori “razzisti”? Di sicuro possiamo affermare che tutti loro – e tutti noi – siamo vittime quotidiane degli automatismi di pensiero che inducono a commettere distorsioni interpretative (bias cognitivi) frutto dell’appartenenza ad un determinato gruppo sociale. La contrapposizione di un “Noi” variegato e multiforme con un “Loro” omogeneo e indifferenziato influenza la possibilità di ricorrere ad un numero assai limitato di ipotesi per leggere il comportamento dell’altro, quando ci si rapporta non come singoli ma come membri di un gruppo sociale.

In una condizione di incertezza diffusa gli spettatori hanno agito accodandosi al medesimo comportamento reciprocamente; l’unanimità della risposta del pubblico in sala può essere letta come una manifestazione di conformismo sociale che non ha coinvolto le due sole donne inconsapevoli di costituire una minaccia terroristica. L’ampiezza del pubblico, l’unanimità della lettura, il supporto sociale tra membri di una stessa cultura possono essere stati fattori che hanno generato il conformismo.

La teoria della mente può fallire, ciascun medesimo comportamento può essere mosso da un numero indefinito di intenzioni e la nostra capacità di lettura varia in base alle abilità metacognitive possedute, a loro volta plasmate dalla qualità degli scambi relazionali nei quali siamo immersi sin dalla prima infanzia. Il nostro Sé sociale chiede di essere considerato anche quando prendiamo in esame un processo tanto individuale come l’attribuzione degli stati mentali: le appartenenze ad un determinato gruppo alimentano bias cognitivi che costituiscono la cornice entro cui facciamo muovere i protagonisti presi in prestito dai confronti tra gruppi che il contesto storico del momento presente ci offre.

L’esercizio della consapevolezza diventa dunque una pratica fondamentale per disinnescare processi di pensiero semiautomatici che, abili nel far risparmiare energia cognitiva ricorrendo a soluzioni “preconfezionate”, diventano colpevoli di inoltrarci su strade interpretative errate. Come le neuroscienze cognitive suggeriscono, e come evidenziato da questa vicenda, l’agito rappresenta solo l’ultimo tassello di un processo che ha origine da una concatenazione di ingranaggi che operano al di fuori della nostra consapevolezza. E dall’uscire da una sala di un cinema al segnare una croce su una scheda elettorale il passo è breve.

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