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Il trattamento in fasi per la psicopatologia conseguente a sviluppo traumatico

Trauma: Con il termine sviluppo traumatico ci si riferisce a un tipo di storia di sviluppo che si verifica in contesti nei quali gli eventi traumatici tendono a ricorrere. Recenti studi epidemiologici dimostrano come i traumi cumulativi dell’infanzia siano strettamente correlati agli esiti psicopatologici in età adulta, i cui sintomi sembrerebbero appartenere ad un’unica sindrome il cui fondamento psicopatologico sarebbe costituito da processi mentali dissociativi (van der Kolk et al, 2005; Liotti e Farina, 2011b; Mears, 2012).

 

Il trauma

È possibile distinguere due tipologie di trauma: il trauma psicologico e il trauma complesso.

Con trauma psicologico ci si riferisce a una minaccia alla vita o all’incolumità propria o di altri, anche nella forma indiretta della trascuratezza durante l’infanzia e delle forme più gravi di misattunement comunicativo. Emozioni di intensità estrema, perdita di controllo, impotenza sono importanti aspetti della definizione di trauma psicologico (Liotti e Farina, 2011b).

Una frase di Herman (1992a) esplicita perfettamente tali concetti: “Il trauma psichico è il dolore degli impotenti. Nel momento del trauma, la vittima è resa inerme da una forza soverchiante”.

Con il concetto di trauma complesso si fa rifermento invece ad esperienze traumatiche cumulative di cui è prevedibile il ripetersi per lunghi archi di tempo ma a cui è impossibile sottrarsi. Esempi evidenti sono i traumi intrafamiliari a cui è esposto il bambino che vive in famiglie maltrattanti o neglecting.

 

Il concetto di dissociazione come tipica risposta al trauma

È noto che il trauma attiva arcaici meccanismi di difesa dalle minacce ambientali (in un primo momento immobilità tonica o freezing e successivamente immobilità cataplettica dopo le reazioni di attacco-fuga) provocando il distacco dall’usuale esperienza di sé e del mondo esterno e conseguenti sintomi dissociativi. Tale distacco sembra implicare una sospensione immediata delle normali funzioni riflessive e metacognitive; si verifica quindi una dis-integrazione della memoria dell’evento traumatico rispetto al flusso continuo dell’autocoscienza e della costruzione di significati. Da questa esperienza deriva la molteplicità non integrata degli stati dell’io che caratterizza la dissociazione patologica (Liotti e Farina, 2011a).

Molto interessanti sono tre contributi della letteratura scientifica contemporanea allo studio della fenomenologia dissociativa.
 Primo fra questi è quello di Holmes e collaboratori (2005) che distinguono due differenti tipi di sintomi dissociativi: i fenomeni di detachment e quelli di compartmentalization.

I primi corrispondono alle esperienze di distacco da sé e dalla realtà (alienazione) e consistono nei sintomi come la depersonalizzazione, la derealizzazione, l’anestesia emotiva transitoria (emotional numbing), déjà vu, esperienze di autoscopia (out of body experiences); tipicamente attivate da emozioni dirompenti provocate da esperienze minacciose ed estreme (Lanius et al., 2010a).

I secondi emergono invece dalla compartimentazione di funzioni normalmente integrate come la memoria, l’identità, lo schema e l’immagine corporea, il controllo delle emozioni e dei movimenti volontari e corrispondono a sintomi come le amnesie dissociative, l’emersione delle memorie traumatiche, la dissociazione somatoforme, l’alterazione del controllo delle emozioni e dell’unità dell’identità (personalità multiple alternanti) (Liotti e Farina, 2011a).

I sintomi da compartimentazione, diversamente da quelli di distacco che possono essere esperiti da chiunque in situazioni estreme, sono tipicamente conseguenze dello sviluppo traumatico e sembrano alterare la struttura stessa della personalità dell’individuo (Chu, 2010; Classen et al., 2006; Lanius et al., 2010a; Liotti e Farina, 2011b).

Il secondo contributo teorico-clinico dimostra come la dis-integrazione delle funzioni psichiche correlata al trauma, provoca con frequenza disturbi somatoformi quali dismorfismi, somatizzazioni, sintomi pseudo-neurologici, sindromi dolorose in assenza di lesioni organiche, disfunzioni sessuali (Brown et al., 2007; Farina et al., 2011; Harden, 1997; Nijenhuis, 2009; Nijenhuis et al., 2003; Sar et al., 2004; Spinhoven et al., 2004).
A tal proposito colpisce il profondo concetto espresso nella frase “the body keeps the score” di van der Kolk (1994) come a dire che il nostro corpo è testimone e contenitore delle esperienze traumatiche.

Il terzo contributo mette in rilievo gli elementi comuni tra dissociazione e deficit di mentalizzazione. Le capacità metacognitive sarebbero estremamente sensibili sia all’effetto dirompente delle emozioni che ne alterano la normale operatività, che alle esperienze traumatiche infantili che ne compromettono lo sviluppo (Liotti e Prunetti, 2010).

 

I sistemi motivazionali interpersonali (SMI) coinvolti nella risposta al trauma

Due sistemi psicobiologici sembrano inevitabilmente coinvolti nella risposta al trauma: il sistema di difesa e il sistema di attaccamento.
La disorganizzazione dell’attaccamento infatti può essere spiegata dal conflitto tra questi due sistemi motivazionali interpersonali (SMI).
 Questi due SMI in situazioni di pericolo, come l’esposizione ad un evento traumatico, agiscono in sinergia: nel momento in cui la protezione è garantita, il sistema di attaccamento si attiva con successo inibendo quello di difesa; in caso contrario l’attivazione del sistema di difesa sarà abnormemente protratta provocando l’alterazione della regolazione delle emozioni e dei significati personali, nonché sintomi dissociativi e la formazione di Modelli Operativi Interni (MOI) insicuri o meglio multipli caratterizzanti l’attaccamento disorganizzato.

Nello specifico, secondo la teoria polivagale di Porges (2001) le operazioni del sistema di difesa impegnano il sistema ortosimpatico (mobilizzazione, hyperarousal) e due diversi nuclei del sistema vagale, situati nel tronco encefalico e controllati da “neurorecettori” sensibili a informazioni di pericolo-sicurezza: il Nucleo vagale dorsale (immobilizzazione, hypoarousal) e il Nucleo vagale ventrale (inibisce il sistema di difesa, crea una “finestra” di arousal ottimale e permette l’impegno sociale). L’attività del sistema di difesa coinvolge dunque profonde modificazioni dell’esperienza soggettiva a livello senso-motorio, che si riflettono nei processi di costruzione di significato.

Appare chiaro dunque come nell’attaccamento disorganizzato il sistema di difesa e quello di attaccamento entrino in conflitto, creando una situazione di fright without solution (paura senza sbocco). Di conseguenza la Figura di Attaccamento (FdA) è tanto fonte quanto soluzione della paura del bambino e viene rappresentata allo stesso tempo come vulnerabile, minacciosa e protettiva. Analoga è la rappresentazione di sé: salvatore, persecutore e vittima della FdA, ma anche salvato da essa. Emerge dunque una frammentazione delle rappresentazioni di sé-con-l’altro (compartimentazione) e un’esperienza cosciente di tipo dissociativo (alienazione).

Ma il dato scientifico ancor più interessante riguarda lo sviluppo intorno ai 3-6 anni di età delle cosiddette strategie controllanti, create per proteggersi, nella relazione, da caos, impotenza e paura che caratterizzano la disorganizzazione (Liotti e Farina, 2011b).
Mediante la strategia controllante-punitiva i bambini cercano di organizzare i comportamenti di relazione col caregiver attraverso atteggiamenti ostili, coercitivamente dominanti o sottilmente umilianti. Risulta evidente come in questo caso si attivi il sistema motivazionale di rango al posto del sistema di attaccamento (Solomon, George, 2011).

Nella strategia controllante-accudente il bambino mostra, al contrario, condotte apertamente consolatorie e protettive nei confronti del genitore vulnerabile e palesemente sofferente per traumi o lutti irrisolti. In tal caso, appare chiaro come si attivi il sistema di accudimento in sostituzione del sistema di attaccamento (attaccamento invertito) (Solomon, George, 2011).
Infine, esisterebbero altre possibili varianti in cui è il sistema sessuale a vicariare le funzioni del sistema di attaccamento e altre in cui la strategia controllante-accudente richiede l’assunzione di un ruolo subordinato nel sistema di rango (Liotti, 2011).

Tali strategie controllanti possano essere considerate delle strategie “difensive”, poiché riducono la possibilità che il MOI disorganizzato emerga alla coscienza nella maggior parte delle situazioni quotidiane che possono risvegliare il sistema di attaccamento, preservando in tal modo il bambino dall’esperienza dissociativa. Tuttavia, di fronte a un’intensa attivazione del sistema di attaccamento, si assiste ad un collasso delle strategie difensive e al riemergere del MOI frammentato e drammatico e quindi della dissociazione (Liotti, 2004, 2011).

Gli eventi che inducono il collasso delle strategie controllanti sono gli antecedenti relazionali della comparsa di sintomi dissociativi nell’adulto che viene da una storia di attaccamento disorganizzato e di trauma complesso.

 

Il Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) e il Disturbo Borderline di Personalità (DBP)

Una delle categorie diagnostiche proposte per definire il nucleo fondamentale del disturbo che consegue a uno sviluppo traumatico è il quadro clinico del Disturbo Post-Traumatico da Stress Complesso (DPTSc) descritto da van der Kolk e colleghi nel 2005 che comprende sette gruppi di sintomi: alterazione della regolazione delle emozioni e degli impulsi, sintomi dissociativi e difficoltà di attenzione, somatizzazioni, alterazioni nella percezione e rappresentazione di sé, alterazioni nella percezione delle figure maltrattanti, disturbi relazionali, alterazioni nei significati personali.

Anche il Disturbo Borderline di Personalità (DBP), il cui quadro clinico è caratterizzato da gravi difficoltà relazionali, dipendenza, impulsività, deficit nella regolazione delle emozioni e problemi dell’identità, è stato ampiamente associato al trauma relazionale precoce e al successivo sviluppo traumatico (Gunderson, 2009). Autori come Herman e van der Kolk tendono infatti a considerare il DBP sostanzialmente assimilabile al DPTSc.

Alcuni studiosi ipotizzano che sia proprio il disturbo dell’identità, assimilabile a una sorta di alterazione dissociativa con perdita di una visione unitaria di sé, accompagnata da esperienze di vuoto e di dolorosa incoerenza personale, l’aspetto centrale del DBP. Secondo questi autori la dis-integrazione delle funzioni mentali superiori, provocata da traumi relazionali precoci durante lo sviluppo (che si aggiungono alla predisposizione genetica) è la caratteristica centrale del DBP e della sua complessa sintomatologia (Bateman e Fonagy 2004, Farina e Liotti 2013). A sostenere questa ipotesi, tra gli altri, è lo psichiatra e psicanalista australiano Russell Meares che nel 2012 gli ha dedicato in modo esplicito il suo ultimo libro: A dissociation model of Borderline Personality Disorder (tradotto in Italia nel 2014 per Raffaello Cortina Editore).

 

L’alleanza terapeutica e le fasi del trattamento

La terapia del trauma complesso è stata definita da James Chu come “un viaggio sulle montagne russe”, talmente stressante da poter a volte provocare nel terapeuta una sindrome traumatica secondaria.

Come è ampiamente descritto nel manuale Sviluppi Traumatici. Eziopatogenesi, clinica e terapia della dimensione dissociativa scritto da Giovanni Liotti e Benedetto Farina nel 2011 ed edito da Raffaello Cortina, obiettivo primario dello psicoterapeuta sarà dunque quello di monitorare l’attivazione del sistema di attaccamento in terapia e quello di aggirare le strategie controllanti messe in atto dal paziente.

Per perseguire tali obiettivi è necessario costruire prontamente un’alleanza terapeutica basata sul sistema motivazionale della cooperazione e in seguito riparare altrettanto prontamente le probabili rotture di tale alleanza. Solo successivamente si potrà procedere alle altre necessarie operazioni terapeutiche, che gli studiosi Liotti e Farina (2011b) concettualizzano come un processo in fasi.

Le fasi della terapia sono essenzialmente tre, ciascuna propedeutica alla successiva:
– costruzione dell’alleanza terapeutica e stabilizzazione dei sintomi,
– lavoro sulle memorie traumatiche e integrazione degli stati dell’io dissociati,
– assistenza nell’esercizio delle capacità acquisite durante la vita quotidiana.

Risulta evidente l’importanza che riveste la fase della costruzione dell’alleanza terapeutica, imprescindibile per la cura dei pazienti con storie di sviluppo traumatico. A sostegno di tutto ciò ricordiamo il concetto espresso da Alexander (1946) su una solida alleanza terapeutica che permette di esporre il paziente ad un’esperienza emozionale e relazionale correttiva.

Tuttavia sono proprio i sintomi del DPTSc a costituire i maggiori ostacoli a un’adeguata relazione di cura. Le dinamiche dell’attaccamento disorganizzato e delle strategie controllanti, infatti, rendono assai difficile l’instaurarsi del clima di fiducia e di collaborazione tipico delle relazioni d’aiuto efficaci. La capacità del paziente con trauma evolutivo di affidarsi con continuità a una relazione di cura è sicuramente compromessa dalle memorie di relazioni traumatiche che il paziente rivive durante l’interazione col terapeuta. Inoltre, le strategie controllanti e la dis-integrazione mentale conseguente al loro collasso, nonché il riaffiorare del MOI disorganizzato, pongono seri ostacoli al tentativo del clinico di mantenere l’alleanza (Liotti e Farina, 2011b).

Per limitare l’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento, il terapeuta dovrebbe provvisoriamente accettare le strategie controllanti che permettono un dialogo non disorganizzato e successivamente ricercare un’alleanza terapeutica fondata sull’attivazione del sistema motivazionale cooperativo. Inoltre il terapeuta esperto, grazie alla consapevolezza del proprio stato emotivo, al controllo metacognitivo delle sue reazioni e alla conoscenza del modello esplicativo, può evitare la ripetizione confermante di schemi esperienziali relativi ai MOI patogeni del paziente.

 

La stabilizzazione dei sintomi, il lavoro sulle memorie traumatiche e l’integrazione

All’interno della prima fase, mentre il clinico pone massima attenzione alla relazione terapeutica, non può trascurare i sintomi perturbanti tipici dei pazienti con DPTSc. La richiesta di cura di questi pazienti spesso è motivata da sintomi opprimenti e invalidanti quali insonnia, ansia, panico, reazioni fobiche, depressione, comportamenti parasuicidari o idee di suicidio, comportamenti autolesivi, pattern ossessivo-compulsivi, disturbi del comportamento alimentare, uso di sostanze, sintomi dissociativi di detachment, flashback e altri disturbi mnestici (Liotti e Farina, 2011b). È necessario quindi dedicarsi tempestivamente alla stabilizzazione di questi sintomi, trattandoli anche con terapie farmacologiche o con Tecniche Cognitivo-Comportamentali (TCC). Scopo di questo intervento sarebbe quello di sostenere la fiducia che il paziente ripone nella possibilità di una risoluzione del complesso malessere che lo affligge e di mostrargli che non si è impotenti neppure di fronte a sindromi così complesse.

Una volta ottenuta una sufficiente stabilizzazione dei sintomi è possibile dare inizio alla seconda fase della terapia centrata sull’esame più attivo e attento dei ricordi traumatici, che talvolta il paziente ha già riportato spontaneamente durante la prima fase, e poi sull’integrazione. È importante ricordare come le memorie traumatiche comportino di regola l’incompleta integrazione del ricordo nel flusso continuo dell’autocoscienza, a causa dei processi dissociativi di detachment e compartimentazione, e come la conseguenza della dis-integrazione di tali memorie influenzi il comportamento e le reazioni emotive dei pazienti, disorganizzandoli, senza che essi ne siano pienamente consapevoli (Liotti e Farina, 2011b).

Lo scopo del trattamento delle memorie traumatiche non è quello di far emergere un contenuto rimosso, ma piuttosto quello di ricostruire l’interezza degli eventi vissuti, di associare le diverse componenti frammentate (emotiva, sensoriale, motoria, cinestesica, cognitiva), assimilarle e permetterne l’integrazione nella narrazione autobiografica del paziente al fine di evitare o mitigarne l’effetto disorganizzante.

Il clinico esperto sa che questo lavoro di integrazione deve essere necessariamente preceduto dal lavoro sulla regolazione delle intense e soverchianti emozioni provocate dalle memorie traumatiche. Per fare ciò, il terapeuta dispone, oltre che dei risultati raggiunti nella prima fase (migliore mentalizzazione, maggior controllo e maggior senso di sicurezza), di alcune tecniche specifiche, come quelle di validazione e di Mindfulness impiegate dalla terapia dialettico-comportamentale (Linehan, 1993), le terapie Sensomotorie e l’EMDR. In generale, è necessario che il terapeuta favorisca l’esposizione graduale del paziente agli stati mentali associati al trauma e lo aiuti a riconoscerli, sperimentarli progressivamente, per poi comunicarlo verbalmente durante le sedute. Diversi specialisti ritengono utile in questa fase del trattamento l’uso di terapie farmacologiche per mitigare l’intensità delle reazioni emotive e migliorarne la regolazione (Miti & Onofri, 2011; van der Hart et al., 2006).

Una volta stabilita con il paziente una buona alleanza, aver condiviso gli obiettivi da perseguire insieme nel percorso terapeutico e sperimentato l’aumento delle capacità metacognitive e di controllo degli stati emotivi, è possibile procedere alla rievocazione guidata delle memorie traumatiche.

Prima operazione sarà dunque quella di ricostruire la funzione janetiana di presentificazione (distinzione tra passato e presente), ricostruendo con il paziente i confini temporali dell’evento da condividere in seduta (Liotti e Farina, 2011b). Successivamente si potrà procedere all’integrazione delle differenti componenti dell’evento: le emozioni e le sensazioni corporee, le immagini mentali, i significati generali e specifici derivanti dall’accaduto.

Per far ciò è possibile utilizzare oltre alla tecnica EMDR, la tecnica cognitivo-comportamentale ABC con lo scopo di permettere al paziente di ricostruire in maniera integrata le componenti frammentate delle proprie vicende traumatiche. A tal punto, dopo che i ricordi hanno assunto l’integrità e la sintesi necessarie, è possibile avviare la scoperta guidata dei significati generali dell’evento accaduto in passato, in modo tale che il paziente impari ad agire sulla realtà presente con nuove strutture cognitive senza essere disturbato dall’effetto disorganizzante del ricordo traumatico.

Per integrazione e sintesi personale si intende dunque la capacità di costruire strutture di significato che, distinguendoli e contestualizzandoli, connettono fra loro i diversi stati dell’io. L’integrazione può avvenire (spontaneamente e non) grazie all’incremento delle capacità metacognitive del paziente all’interno di un lungo lavoro psicoterapeutico. Infatti, l’integrazione degli stati dell’io dissociati richiede necessariamente un contesto interpersonale unitario in cui l’interlocutore esperto si accorga della loro esistenza e separatezza dalla coscienza e dalla memoria, segnalandola (esplicitamente o implicitamente) al paziente.

Infine, il ruolo del clinico nella terza fase del protocollo terapeutico sarà quello di confermare, sostenere e promuovere le nuove capacità del paziente dialogando sul modo con cui lo stesso le esercita nella vita quotidiana.

Come il ritmo respiratorio influenza emozione e cognizione

Un recentissimo studio, pubblicato su Journal of Neuroscience, ha mostrato per la prima volta come il respiro influenzi memoria ed emozioni. In particolare, il ritmo del respiro crea un’attività elettrica nel cervello che influenza positivamente il giudizio emotivo e il richiamo alla memoria.

 

La connessione tra la respirazione e le aree cerebrali coinvolte nella memoria e nelle emozioni

La scoperta, ad opera di un gruppo di ricercatori della Northwestern University, è stata fatta grazie ad uno studio condotto su 7 pazienti con epilessia, in attesa di intervento neurochirurgico; per individuare l’origine delle loro crisi convulsive è stata condotta un’indagine con EEG intracranica. Ciò ha consentito di osservare che i segnali elettrici registrati mostravano delle oscillazioni dell’attività cerebrale legati alla respirazione. In particolare, quest’attività veniva rilevata nelle aree cerebrali coinvolte nella memoria, nelle emozioni e nell’elaborazione degli stimoli olfattivi.

Una delle principali scoperte dello studio, afferma l’autore principale dello studio Christina Zelano, riguarda la forte differenza individuata nell’attività cerebrale dell’amigdala e dell’ippocampo durante la fase inspiratoria rispetto a quella espiratoria. Durante l’inspirazione vengono stimolati i neuroni della corteccia olfattiva, dell’amigdala e dell’ippocampo.

Questa scoperta ha portato gli scienziati a chiedersi se le funzioni cognitive in genere associate a queste aree del cervello – in particolare le aree deputate al ricordo e all’elaborazione della paura – potrebbero anche essere influenzate dalla respirazione. L’amigdala è strettamente legata ai processi di elaborazione emotiva, in particolare all’emozione di paura. I ricercatori hanno chiesto a 60 soggetti di prendere rapide decisioni su delle espressioni emotive, registrando nel frattempo il ritmo respiratorio. Alla presentazione di immagini di volti che esprimevano paura o sorpresa, i soggetti dovevano indicare, nel minor tempo possibile, l’emozione espressa dai volti. Quando le espressioni facciali venivano osservate durante l’inspirazione, i soggetti riconoscevano le espressioni di paura più in fretta rispetto a quando incontravano le stesse espressioni durante l’espirazione. Questo non avveniva per le espressioni di sorpresa.

In una fase dell’esperimento volto ad indagare la funzione della memoria, ai soggetti venivano mostrate sullo schermo di un computer delle immagini raffiguranti diversi oggetti. Successivamente veniva chiesto loro di ricordarle. I ricercatori hanno osservato che il richiamo è migliore se le immagini venivano incontrate durante l’inspirazione.
Gli effetti osservati sembrano però essere specifici della respirazione nasale.

 

La connessione tra respirazione, paura e risposta al pericolo

Tali scoperte hanno importanti implicazioni in quanto una respirazione rapida conferisce un vantaggio nel momento in cui ci si trova in condizioni di pericolo. Nelle situazioni di panico il ritmo del respiro diventa più rapido; ciò consente all’individuo di avere proporzionalmente più momenti di inspirazione di quelli che si avrebbero in uno stato di calma. La risposta innata del nostro corpo alla paura con la respirazione veloce potrebbe avere un impatto positivo sulla funzione cerebrale e tradursi in tempi di risposta più rapidi a segnali di pericolo dell’ambiente.

Inoltre, la respirazione può essere attivamente usata per promuovere la sincronia oscillatoria e ottimizzare i processi di elaborazione delle informazioni e mediare i comportamenti goal-directed.

Il senso di alienazione nella schizofrenia

La sensazione di alienazione nella schizofrenia si ha quando la realtà attorno al proprio sé assume una forma, una dimensione e un significato che solo il paziente vede e riconosce; questa sensazione di alienazione nella schizofrenia spesso spinge il paziente stesso ad allontanarsi e a ritirarsi dal contesto sociale.

Silvia Vitaloni, Eleonora Girani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La schizofrenia è considerata ad oggi la malattia mentale maggiormente invalidante per l’uomo e si caratterizza principalmente per il disturbo del pensiero. I sintomi della schizofrenia vengono suddivisi in sintomi positivi, che includono i deliri e le allucinazioni, ed in sintomi negativi, quali l’apatia, la carenza d’iniziativa, la povertà dell’eloquio, il ritiro sociale e la trascuratezza.

Secondo dati dell’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), sono circa 24 milioni le persone che nel mondo soffrono di schizofrenia a un qualunque livello e dal punto di vista epidemiologico i dati raccolti evidenziano come l’età media di insorgenza sia di 22-23 anni con un ritardo medio nelle donne di ¾ anni, e che le forme ad esordio tardivo (oltre i 40 anni) risultano quasi esclusivamente femminili (Rajiv T. et all, 2008).

 

Cinque forme di schizofrenia

La diagnosi di schizofrenia è molto delicata soprattutto per le implicazioni che un’etichetta di questo tipo ha per la persona interessata sul piano medico, familiare, professionale e sociale. Con la chiusura dei manicomi, grazie alla legge Basaglia del 1978 e il ridimensionamento degli ospedali psichiatrici, ad oggi, affianco alla dimensione farmacologica necessaria per questa tipologia di pazienti viene spesso associata una psicoterapia individuale e famigliare (Benedetti, 1988). Ad oggi si distinguono cinque forme di schizofrenia in base al corollario sintomatologico (Kay, Stanley R, et all 1997):

  1. Paranoide, ad esordio più tardivo e con prognosi maggiormente favorevole si configura per un disturbo del comportamento e del pensiero caratterizzati principalmente da deliri e allucinazioni strutturati a contenuto persecutorio; l’affettività e le funzioni cognitive risultano tendenzialmente preservate.
  2. Disorganizzato, ha un esordio precoce e una prognosi negativa, si caratterizza per un deterioramento in tutte le aree (comportamento, pensiero e affettività); la presenza dei deliri e allucinazioni risulta disorganizzata nel contenuto e piuttosto mutevole.
  3. Catatonico, agitazione e posture di tipo catatonico.
  4. Indifferenziato, ovvero comprende tutte le forme di schizofrenia non classificabili nelle categorie precedenti.
  5. Residuo, sono presenti sintomi residui, in assenza di deliri, allucinazioni, incoerenza e comportamento disorganizzato (Kay, Stanley R, et all 1997).

 

La schizofrenia e il rapporto con mondo esterno: i meccanismi di rispecchiamento e simulazione

È necessario considerare la lente con la quale i pazienti con diagnosi di schizofrenia accedono e si approcciano al mondo e come a volte si verifichi una sensazione di alienazione nella schizofrenia: in condizioni normali non siamo alienati dal significato delle azioni, emozioni, o sensazioni esperite dai nostri simili, in quanto godiamo di quella che definisco una “consonanza intenzionale” col mondo degli altri (Gallese 2003, 2006a, 2007).

Ciò è reso possibile non solo dal fatto che con gli altri condividiamo le modalità di azioni, sensazioni o emozioni, ma anche condividiamo alcuni dei meccanismi nervosi che presiedono a quelle stesse azioni, emozioni e sensazioni. Quando ci troviamo di fronte all’altro ne esperiamo direttamente i caratteri di umanità. Assegniamo in modo implicito all’altro lo status di soggetto diverso da noi che guardando a sé da dietro le spalle condivide con noi l’essenza di essere umano.

Grazie ai meccanismi di rispecchiamento e di simulazione, l’altro viene vissuto come un “altro sé”. Circa quindici anni fa abbiamo scoperto neuroni nella corteccia premotoria del macaco che si attivano ogni volta che l’animale esegue con la mano la bocca atti motori finalizzati al raggiungimento di uno scopo, come afferrare, prendere del cibo, manipolarlo, romperlo, spezzarlo, ed anche quando l’animale è lo spettatore passivo di azioni analoghe eseguite da un essere umano o da un’altra scimmia. Abbiamo denominato questi neuroni “neuroni specchio” (Gallese et al 1996; Rizzolatti et al. 1996; Rizzolatti e Craighero 2004).

In una serie di studi successivi è stato approfondita la conoscenza di questo meccanismo di risonanza motoria, scoprendo che i neuroni specchio si attivano anche quando l’osservazione dell’interazione tra la mano dell’attore e l’oggetto non è pienamente visibile, ma può solo essere “inferita” (Umiltà et al. 2001). In questo caso non parliamo di un’inferenza logica, bensì del risultato di una simulazione motoria.

L’attivazione nell’osservatore del programma motorio corrispondente all’azione solo parzialmente vista, ne consente la comprensione. Abbiamo anche scoperto che se l’azione si accompagna ad un suono caratteristico, come quando si rompe una nocciolina, il solo suono dell’azione è sufficiente ad attivare i neuroni specchio (Kohler et al 2002). Quindi, lo stesso contenuto semantico, “rompere la nocciolina”, attiva i neuroni specchio indipendentemente dalla modalità sensoriale che lo veicola. E’ un meccanismo che incarna a suo modo una rappresentazione astratta dell’azione, che però è tutto fuorché astratta perché incarnata all’interno del nostro sistema motorio.

Una serie di studi hanno dimostrato che un meccanismo analogo di rispecchiamento è presente anche nel cervello umano, ed è organizzato in modo grossolanamente somatotopico. Quando osserviamo un azione si attivano le aree fronto-parietale corrispondenti a quelle che entrano in gioco quando noi stessi eseguiamo azioni simili a quelle che stiamo osservando. Non ci limitiamo a vedere con la parte visiva del nostro cervello, ma utilizzando anche il nostro sistema motorio (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Rizzolatti e Craighero 2004).

Cosa succede nel nostro cervello quando osserviamo i gesti comunicativi di una persona che parla, di una scimmia che comunica con il lipsmaking (ritmica apertura delle labbra, un gesto affiliativo che sta ad indicare ai conspecifici l’assenza di intenzioni aggressive), e di un cane che abbaia? La risposta ci viene da un studio fMRI condotto da Buccino et al. (2004).  I risultati sono molto interessanti: quando vediamo l’uomo parlare si osserva un’attivazione bilaterale del sistema pre-motorio che include l’area di Broca; quando vediamo la scimmia si osserva un’attivazione premotoria bilaterale di intensità ridotta; infine, quando vediamo il cane abbaiare si ha un’assenza completa di attivazione motoria.

I risultati di questo esperimento ci conducono a due osservazioni: in prima istanza che non è necessaria una risonanza motoria per comprendere ciò che vediamo: io so benissimo che c’è un cane che abbaia, ma in questo caso la qualità della mia comprensione dell’azione del cane è qualitativamente diversa in quanto relativa a un sistema linguistico modulare chiuso, indipendente e disincarnato, che manipola rappresentazioni simboliche amodali.

L’azione ed il linguaggio tuttavia non esauriscono il ricco bagaglio di esperienze coinvolte nelle relazioni interpersonali. Ogni relazione interpersonale implica, infatti, la condivisione di una molteplicità di stati quali ad esempio l’esperienza di emozioni e sensazioni. Recenti evidenze empiriche suggeriscono che le stesse strutture nervose coinvolte nell’analisi delle sensazioni ed emozioni esperite in prima persona sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni vengono riconosciute negli altri (Gallese, Keysers e Rizzolatti 2004; Gallese 2006a).

Il meccanismo di simulazione non è quindi confinato al dominio dell’azione ma appare essere una modalità di funzionamento di base del nostro cervello quando siamo impegnati in una qualsiasi relazione interpersonale.

 

I meccanismi neurofisiologici della cognizione sociale

La scoperta dei neuroni specchio nella corteccia premotoria e parietale di scimmia, e la successiva scoperta dell’esistenza di un sistema specchio anche nell’uomo, ha permesso per la prima volta di chiarire i meccanismi neurofisiologici alla base di numerosi aspetti della cognizione sociale. Secondo l’ipotesi di Gallese (Gallese e Goldman 1998; Gallese 2001, 2003, 2006a, 2007) questi meccanismi generano molte delle certezze implicite che noi automaticamente attiviamo ogni volta che ci rapportiamo con l’altro. Sono importanti nel generare il senso d’identità e reciprocità con gli altri di cui normalmente facciamo esperienza.

Questi meccanismi di simulazione sono fortemente coinvolti nell’imitazione. Sia nell’imitazione di gesti che sono già parte del nostro repertorio comportamentale, che durante l’apprendimento imitativo di nuovi compiti motori a noi sconosciuti, come dimostrato dallo studio di Buccino et al. (2004b) in cui soggetti che non sapevano suonare la chitarra dovevano imparare ad eseguire degli accordi dopo averne osservato l’esecuzione da parte di un chitarrista esperto.

Durante l’apprendimento imitativo si è osservata l’attivazione del sistema dei neuroni specchio. Il mimetismo caratterizza in modo pervasivo la dimensione sociale dell’esistenza umana, e lo fa a più livelli. Ad esempio, la psicologia sociale ha descritto e studiato il cosiddetto “effetto camaleonte” per cui imitare i movimenti della persona con cui stiamo dialogando ci rende sicuramente più gradevole ai lori occhi.

 

Alienazione nella schizofrenia

In linea rispetto a quanto è stato detto finora risulta più semplice immaginare anche solo per un secondo la sensazione di alienazione nella schizofrenia, quando la realtà attorno al proprio sé assume una forma, una dimensione e un significato che solo il paziente vede e riconosce; questa sensazione di alienazione nella schizofrenia spesso spinge il paziente stesso ad allontanarsi e a ritirarsi dal contesto sociale.

Il delirio ha un nucleo apparentemente incomprensibile per chi lo ascolta, caratterizzato da un significato che appare sottratto a qualsivoglia motivazione razionale o affettiva, che non è modificabile dalla continuità dell’esperienza e che non chiede né ha bisogno di conferme e di comprove per esistere. Appare ovvio quindi quanto parte dell’ alienazione nella schizofrenia possa essere provata anche in senso bidirezionale da chi ascolta e vive all’interno del nucleo famigliare i significati e i ritagli di realtà che il paziente schizofrenico riporta, aumentandone ancora così il senso di estraneità.

Parlando di alienazione nella schizofrenia, non possiamo non accennare al significato del termine alienazione: esso è di antica origine (alienatio), ed è stato utilizzato fino alla prima metà dell’800’ nell’accezione di alienazione mentale (alienatio mentis) come appellativo per indicare chi soffriva di gravi disturbi mentali; successivamente il termine alienazione è stato sostituito da quello di malattia mentale (Benedetti, 1988).

Resta il fatto che pur elevando ad un più alto grado di rispetto umano l’etichetta semantica, nel nostro bagaglio culturale il temine “alieno” è sempre stato utilizzato per indicare ciò che non si conosce, che non si comprende, e non esiste altro termine che meglio possa spiegare il vissuto esperienziale di un paziente affetto da schizofrenia.

I recenti studi pongono l’attenzione sulla carente capacità metacognitiva di pazienti con schizofrenia e rappresentano in senso più cognitivo quanto appena descritto: la scarsa rappresentazione e capacità di riflettere sui propri e sugli altri stati mentali e l’abilità di usare tali informazioni per affrontare in modo efficace situazioni soggettivamente problematiche, sia da un punto di vista emotivo, cognitivo e comportamentale, è ciò che caratterizza il mondo di questi pazienti (Popolo, R. et all,, 2012).

Queste carenze metacognitive sono supportate in parte da fattori ambientali contribuenti nell’eziologia del disturbo, ma soprattutto da cause genetiche che ad oggi sono ancora oggetto di studio da parte dei ricercatori di tutto il mondo.

Ad oggi gli strumenti di indagine più avanzati come TAC, risonanze magnetiche, PET sono state utilizzate al fine di indagare se vi fosse un diverso funzionamento cerebrale dei pazienti affetti da schizofrenia rispetto a gruppi di controlli definiti sani. I risultati ad oggi mostrano un’alterazione delle strutture cerebrali e del metabolismo dei neuroni presenti nei cosiddetti lobi frontali (responsabili di funzioni esecutive, all’organizzazione di attività complesse e alla progettualità), e anomalie nella trasmissione di alcune sostanze quali dopamina e glutammato (Lang, U.E., 2007).

Ma ancora più interessanti rispetto al senso di alienazione nella schizofrenia risultano le recenti ricerche Di Maggio e colleghi, i quali hanno ipotizzato che nella schizofrenia ci sia un malfunzionamento dei processi di simulazione neurali, ovvero dell’attività del sistema dei neuroni mirror e neuroni canonici, che risulterebbero alla base della comprensione dell’intersoggettività e della comprensione intrinseca dell’essenza di un oggetto (Salvatore et al., 2007).

Questi autori hanno approfondito ulteriormente l’ipotesi secondo la quale la “disaderenza” dei pazienti con schizofrenici rispetto alle relazioni e ai contesti, sia causata principalmente da una non comprensione dei contesti comunicativi pragmatici, e che il senso di alienazione nella schizofrenia rispetto agli oggetti possa dipendere dal malfunzionamento di questi sistemi neurali (Salvatore et al., 2007).

Nello specifico si ipotizza che questo mal funzionamento sia alla base della difficoltà del paziente schizofrenico nel selezionare tra i tanti significati associabili all’azione verbale “dell’altro” il significato maggiormente in sintonia con le transazioni intersoggettive (neuroni mirror) e, inoltre, una marcata difficoltà a comprendere implicitamente le azioni finalizzate all’utilizzo di oggetti (neuroni canonici).

La semantica oggettuale (la capacità di riconoscere il corretto uso degli oggetti) e la sintattica gestuale (capacità di riconoscere la corretta sequenza con cui deve essere svolta un’azione con un oggetto) rappresentano quella conoscenza implicita e necessaria per comprendere le affordance oggettuali e il significato delle azioni, due esperienze mediate dal funzionamento integrato dei neuroni mirror e canonici. Se queste ricerche fossero un giorno confermate spiegherebbero almeno in parte il senso di alienazione nella schizofrenia.

Un nuovo modello per aiutare chi soffre di dipendenza da Internet

Un nuovo modello sviluppato dai ricercatori della Binghamton University (State University of New York) potrebbe aiutare le persone che soffrono di dipendenza da Internet a rendersi del loro utilizzo problematico della rete, aiutando così a ridurlo o interromperlo.

 

Chi soffre di dipendenza da Internet non sempre si sente in colpa per l’utilizzo che fa del web e, in molti casi, non lo percepisce nemmeno come un uso problematico.

Un nuovo modello sviluppato dai ricercatori della Binghamton University (State University of New York) potrebbe aiutare le persone che soffrono di dipendenza da Internet a rendersi del loro utilizzo problematico della rete, aiutando così a ridurlo o interromperlo.

 

Dipendenza da Internet e Dissonanza Cognitiva

Isaac Vaghefi, assistente alla cattedra di Sistemi Informativi Gestionali alla Binghamton University, ha messo a punto un modello di riferimento basandosi su una teoria psicologica conosciuta come Dissonanza Cognitiva (Leon Festinger, 1957), ovvero lo stato di disagio interno alla persona che nasce qualora siano presenti due o più cognizioni in contraddizione fra loro o qualora si crei conflitto tra le azioni della persona e le sue credenze (ad esempio, qualcuno che crede che il fumo faccia male, ma fuma una sigaretta dietro l’altra).

In collaborazione con Hamed Qahri-Saremi, anch’esso assistente alla cattedra di Sistemi Informativi presso la DePaul University (Chicago, Illinois), Vaghefi ha sviluppato un modello che mostra come il grado di dissonanza cognitiva degli utilizzatori possa fare la differenza nella loro disposizione a smettere la loro dipendenza da internet.

La dissonanza è quello che serve per lavorare sulla possibilità che gli utilizzatori mettano in atto azioni e gesti che limitino l’utilizzo di Internet – ha affermato Vaghefi – Ci sono utenti che dicono: ‘So che sto utilizzando internet in modo eccessivo, ma tutti intorno a me lo utilizzano eccessivamente’. Quello che dobbiamo fare è evidenziare le conseguenze negative a cui vanno incontro; a tal fine, si possono utilizzare strumenti oggettivi che mostrino i risultati nocivi dell’abuso di Internet, portando a comprendere la negatività di queste conseguenze. Una volta che l’utilizzatore ne prende coscienza, è più motivato ad agire su di esse e ad esercitare l’autocontrollo. 

Vaghefi ha testato il modello sui dati provenienti da 226 studenti della Binghamton University, che hanno riferito quanto fossero intenzionati a smettere oppure proseguire il loro utilizzo dei social network. I risultati mostrano che un modo plausibile per aiutare le persone a ridurne o addirittura smetterne l’utilizzo è quello di aumentare la dissonanza cognitiva a riguardo, in tal modo è possibile rendere gli utenti consapevoli della loro dipendenza da Internet, in particolare delle sue conseguenze sul piano di vita personale, sociale e accademica.

 

La dissonanza cognitiva interviene sul senso di colpa funzionale

La ricerca in generale ha già esaminato il ruolo del senso di colpa nell’utilizzo della tecnologia e come questo possa essere utilizzato per modificare il comportamento. Ciò che non è stato ancora spiegato è come si possa creare questo senso di colpa funzionale. E’ generando uno stato interno di dissonanza cognitiva, che si può effettivamente avere un impatto reale sul comportamento di uso/abuso e sull’intenzione di smettere o interrompere l’abitudine all’utilizzo.

Vaghefi ritiene che affrontare questi problemi sia particolarmente importante se si considera il largo e comune utilizzo della tecnologia e la diffusione dei comportamenti on-line tra i giovani di oggi. Si tratta di un’abitudine così diffusa e prevalente nelle nuove generazioni, che sono cresciute con la tecnologia, che i ragazzi non percepiscono nemmeno di avere un problema di dipendenza da Internet.

Evidenziando le conseguenze negative per loro, si spera di poter fare qualcosa, intervenendo su questa dipendenza – ha affermato Vaghefi.

Psicofarmacologia e relazione terapeutica – report dal seminario di Palermo

Si è svolto lo scorso 13 Gennaio a Palermo, presso la Clinica Psichiatrica diretta dal Prof. Daniele La Barbera, ordinario di Psichiatria dell’Università di Palermo, un seminario formativo che ha esplorato il rapporto esistente tra psicofarmacologia e relazione terapeutica, affrontando temi quali il valore simbolico dello psicofarmaco, il suo impatto all’interno della relazione medico-paziente, nonché il meccanismo d’azione dei più comuni psicofarmaci.

 

Psicofarmacologia: sfatare miti e luoghi comuni

L’incontro si è snodato in due sezioni: la prima, prettamente di carattere psicologico, ha tentato di sfatare alcuni luoghi comuni legati alla reticenza nell’utilizzo dello psicofarmaco, e una seconda di carattere medico ha riguardato i meccanismi d’azione del farmaco e le diverse tipologie in relazione al trattamento delle patologie più comuni, come depressione e ansia, fino alla psicosi.

Tematiche spinose e urgenti, considerato che, secondo l’Organizzazione mondiale della Sanità, nel 2020 la depressione sarà la più diffusa malattia del pianeta, e risulta quindi necessario chiarire la natura del problema e il ruolo della farmacoterapia nel contesto di una relazione terapeutica efficace.
[blockquote style=”1″]Partiamo dal luogo comune secondo cui gli psichiatri imbottiscono di farmaci e proseguiamo nella valutazione della sua efficacia, che dipende da vari fattori, per cui, se un farmaco è incompetente, ciò non è sempre dovuto alla psichiatria, ma alla complessità della patologia[/blockquote] così ha aperto provocatoriamente il Prof. La Barbera, in oltre tre ore fitte di contenuti.

Lo psicofarmaco, sostanza chimica abbastanza recente (si può infatti far risalire la rivoluzione psichiatrica alla seconda metà degli anni ’50), sostanza chimica intorno a cui confluiscono miti sociali, personali e familiari, con profonda valenza psicologica, al punto da essere considerata sostanza psichica essa stessa, al contempo desiderata e temuta.

[blockquote style=”1″]Stiamo parlando certamente di un farmaco, ma in senso particolare: uno psicofarmaco, più di quanto avvenga per un farmaco generico, attiva tutta una serie di fantasie e simbolismi lungo i due poli del salvifico (guarigione) e malefico (intossicazione/avvelenamento). La diversità dello psicofarmaco consiste nel fatto che esso, per molti pazienti, ha quasi vita autonoma, una vera e propria intelligenza, ed è in grado di cambiare la personalità, specialmente se assunto in dosi elevate. In realtà esistono sostanze in grado di modificare lo psichismo in maniera maggiore, come avviene nell’alterazione del microbiota umano.[/blockquote]

Psicofarmacologia e relazione terapeutica

 

Psicofarmacologia: la centralità della relazione terapeutica per l’adesione al trattamento farmacologico

E sull’annosa questione sul rischio percepito di dipendenza da parte del paziente è bene non trascurarlo, sebbene si tenda a sovrastimarlo, ed è comunque necessario sempre valutare tale aspetto all’interno della relazione terapeutica.

E proprio una buona relazione terapeutica risulterebbe centrale nell’adesione al trattamento (compliance), sul versante del rispetto delle prescrizioni mediche (come il numero di somministrazioni giornaliere) che riflette il superamento di un metabolismo psicologico del farmaco, che inizia prima della sua assunzione, e che può spingerlo possibilmente a non assumerlo affatto. Tanti i fattori legati al rifiuto dei farmaci, oltre a una cattiva relazione terapeutica, la predisposizione personale o l’atteggiamento familiare nei confronti dei farmaci e il livello di gravità della psicopatologia.

Un rapporto, quello tra farmaco e paziente, modulato dalla relazione terapeutica e che modula a sua volta la relazione di fiducia e affidamento all’Altro: [blockquote style=”1″]Il farmaco, riportando costantemente alla mente del paziente lo sforzo del curante, diventa il rappresentate della figura del medico e il metro di valutazione della sua competenza, e quindi, del grado di fiducia accordata[/blockquote] – sottolinea La Barbera.

Curare oggi i disturbi psichici da un punto di vista farmacologico significa beneficiare della loro azione chimica (per esempio gli antipsicotici atipici hanno minori effetti sedativi rispetto ai comuni neurolettici e migliori effetti sulla sfera cognitiva), all’interno di una valida alleanza terapeutica che aiuti il paziente a monitorare il valore simbolico/immaginativo assegnato, in una prospettiva bio-psicosociale che non consideri un disturbo psichico, come la depressione, esclusivamente di natura psicologica.

[blockquote style=”1″]Oggi sappiamo che la depressione è una malattia sistemica e interessa diversi circuiti fisiologici, con effetti nocivi sull’attività ipofisaria, sul sistema immunitario e sui fattori di crescita neuronale, attività che i farmaci antidepressivi aiutano a regolarizzare. In quanto tale la depressione è un’urgenza sociale perché, per esempio, la persona che soffre di disturbi cardiaci e anche depressa, ha un tasso di mortalità più elevato.[/blockquote]

La depressione come malattia che interessa la totalità mente-corpo, da trattare da una prospettiva farmacologica, ma altresì relazionale, se è vero che la relazione è in grado di per sé di modificare (in senso negativo o positivo) la crescita neuronale e l’espressione genica, il fisico oltre che lo psichico.

[blockquote style=”1″]In un’ottica epigenetica gli stimoli ambientali sono in grado di modificare l’espressione genica. Nei topi si è visto che scarse cure materne portano alla carente espressività di alcuni geni necessari per il neurosviluppo, mentre l’allattamento crociato inverte questa tendenza. Va da sé il ruolo prezioso di esperienze relazionali forti, come il supporto empatico del terapeuta, che, di pari passo con una farmacoterapia condivisa con il paziente, favoriscano la stimolazione neuronale, cognitiva, emotiva e l’adattamento all’ambiente[/blockquote] conclude La Barbera.

Aderenza alla restrizione dietetica e implicazioni per il trattamento dell’obesità: i processi cognitivi coinvolti

Anita Jansen e collaboratori dell’Università di Maastricht hanno descritto in una revisione pubblicata su Frontiers in Psychology alcuni processi cognitivi, studiati dalla ricerca scientifica, che sembrano minare l’aderenza alla restrizione dietetica delle persone affette da obesità, e delle strategie specifiche cognitivo comportamentali per affrontarli supportate da risultati preliminari di efficacia.

Massimiliano Sartirana e Riccardo Dalle Grave

 

Obesità e restrizione dietetica: i processi cognitivi coinvolti

I processi cognitivi descritti dagli autori sono i seguenti quattro:

  1. apprendimento del craving per il cibo;
  2. funzioni esecutive;
  3. rinforzi immediati;
  4. bias dell’attenzione.

 

1. Apprendimento del craving per il cibo

Il processo fa riferimento ad un’aumentata reattività a stimoli associati al cibo, come emozioni, pensieri e variabili contestuali (per es. profumo, momento della giornata, vista del cibo, ecc.), prodotta in parte dalla componente genetica e in parte dall’apprendimento attraverso il condizionamento classico.

La procedura proposta per affrontare questo processo è l’esposizione più prevenzione della risposta agli stimoli che anticipano l’alimentazione in eccesso di cibi non salutari. Il principio teorico sottostante è che l’esposizione prolungata allo stimolo alimentare dovrebbe determinare una diminuita reattività agli stimoli e un aumento delle abilità di inibizione (capacità di resistere all’alimentazione in eccesso) perché viene interrotta l’associazione tra stimolo e alimentazione in eccesso e di conseguenza si riduce il desiderio di mangiare.

Da un punto di vista pratico l’esposizione più prevenzione della risposta consiste nell’esporre i soggetti per circa un’ora a stimoli come la vista di cibo non salutare, l’odore e il sapore di cibi preferiti e in specifici contesti associati come luoghi, situazioni, emozioni, pensieri che stimolano l’alimentazione in eccesso. Durante l’esposizione il cibo viene toccato, afferrato, annusato intensamente e in modo prolungato.

L’efficacia di questa procedura è stata confermata da studi sperimentali e da alcuni piccoli studi pilota in cui è stato dimostrato che l’esposizione a stimoli alimentari può essere abbastanza efficace nel ridurre il desiderio di cibo, l’alimentazione in eccesso e gli episodi bulimici. Uno studio recente di neuroimaging ha anche evidenziato che l’esposizione prolungata a stimoli alimentari (l’odore del cibo) senza mangiare determina una riduzione dell’attivazione delle aree cerebrali legate alla ricompensa.

 

2. Funzioni esecutive

Le funzioni esecutive si riferiscono a una serie di abilità e processi legati alla gestione di se stessi e all’uso di risorse cognitive personali al fine di raggiungere un obiettivo o di eseguire azioni orientate a un obiettivo. Le tre abilità esecutive principali sono l’inibizione (cioè l’abilità di fermare il proprio comportamento nel momento appropriato, l’abilità di resistere agli impulsi e alle tentazioni, disattivando cosi azioni orientate all’obiettivo), lo spostamento (cioè l’abilità di pensare in modo flessibile al fine di rispondere in modo appropriato a una situazione) e la memoria di lavoro (cioè la capacità di mantenere in memoria l’informazione per completare un compito).

Alcuni studi sperimentali hanno verificato l’efficacia di un training delle funzioni esecutive nelle persone con obesità nel determinare un miglioramento nelle abilità di inibizione e una conseguente diminuzione dell’alimentazione in eccesso. Per quello che riguarda la memoria di lavoro non risultano studi che abbiano dimostrato l’efficacia di un training specifico su questa funzione, mentre studi condotti su bambini con obesità hanno dimostrato l’efficacia combinata di un training per migliorare le abilità di inibizione e di un training sulla memoria di lavoro nel determinare un recupero di peso significativamente più lento a 8 settimane di follow-up, sebbene questo effetto scompaia a 12 settimane di follow-up.

 

3. Rinforzi immediati

Questo processo fa riferimento al fatto che il consumo di alimenti ricchi di calorie, di grassi, di sale e di zucchero è associato a effetti positivi immediati gratificanti. Il processo di gratificazione immediata con questi alimenti si verifica anche a dispetto della possibilità di ottenere una ricompensa superiore che però è più tardiva, come gli effetti positivi della perdita di peso.

Per migliorare l’abilità di ritardare la gratificazione, gli autori propongono di usare la strategia del pensare agli episodi futuri, che consiste nel proiettarsi nel futuro per immaginare l’esperienza di eventi futuri con l’obiettivo di spostare la scelta da una gratificazione immediata agli effetti positivi ritardati di una perdita di peso. Uno studio ha dimostrato che i soggetti allenati ad applicare questa strategia hanno ridotto la minimizzazione dell’importanza di ritardare le gratificazioni immediate per raggiungere maggiori effetti positivi a lungo termine e diminuito l’assunzione calorica, rispetto a un gruppo di controllo in cui non è stata insegnata questa strategia.

 

4. Bias attentivo

Il bias fa riferimento ad un processo di aumentata attenzione e di orientamento dell’attenzione (per questo definita selettiva) verso alcuni stimoli alimentari a discapito di altri stimoli. Ci sono evidenze che il bias dell’attenzione selettiva verso alcuni alimenti predica l’accentuazione delle aspettative positive per l’assunzione di cibo (craving) e persino la quantità di peso recuperato nei soggetti affetti da obesità.
I risultati degli studi sull’efficacia di training attentivi per spostare l’attenzione da cibi ad alta densità energetica a favore di alimenti meno calorici o di stimoli neutri sono promettenti perché si sono dimostrati in grado di ridurre il desiderio di cibo e l’assunzione di calorie.

 

Conclusioni

Gli autori olandesi nella loro revisione hanno descritto quattro processi cognitivi implicati nel mantenere abitudini non salutari nei confronti dell’alimentazione e hanno suggerito delle strategie per affrontarli. Sebbene le ricerche a sostegno dell’efficacia delle strategie proposte dagli autori siano per il momento solo promettenti perché necessitano di dati derivati da studi controllati e randomizzati, il merito dell’articolo è di aver affrontato l’argomento complesso del trattamento dell’obesità, ponendo attenzione ai processi cognitivi coinvolti nelle difficoltà di aderire alle modificazioni alimentari necessarie per perdere peso.

L’articolo traccia anche la strada per la ricerca futura che potrebbe studiare meglio la relazione tra i processi cognitivi e come si influenzano tra loro (per es. la debolezza nelle abilità esecutive e la sensibilità alla ricompensa potrebbero aumentare la reattività agli stimoli alimentari) per poi verificare se un training su un processo specifico potrebbe non avere un effetto anche sugli altri (per es. un training di estinzione potrebbe ridurre il bias attentivo e la disinibizione). I risultati di questi studi potrebbero avere interessanti implicazioni cliniche e migliorare l’esito del trattamento dell’obesità, tuttora basato in modo riduzionistico su un approccio che prescrive modificazioni comportamentali senza prestare attenzione ai processi cognitivi che le influenzano.

Scienze Cognitive e neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

Le scienze cognitive – essendo interdisciplinari – comprendono diverse discipline tra cui psicologia, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, linguistica, antropologia, etologia e filosofia della mente.

Realizzato in collaborazione con Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Scienze Cognitive: cosa sono

Sempre più di frequente si parla di scienze cognitive, termine con cui si intende un’area interdisciplinare in cui si studia la cognizione della mente in quanto sistema pensante (sia esso naturale-umano o artificiale), nonchè le sue diverse funzioni.

Le scienze cognitive – essendo interdisciplinari – comprendono diverse discipline tra cui psicologia, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, linguistica, antropologia, etologia e filosofia della mente. Le scienze cognitive sono costituite, in sostanza, da un insieme di teorie dalle quali si ricavano dei modelli di funzionamento su temi di psicologia generale, come la memoria, l’intelligenza, l’immaginazione, il linguaggio, etc.

 

Breve storia delle Scienze cognitive

Già nell’antica Grecia molti filosofi, a esempio Platone e Aristotele, teorizzarono il meccanismo della conoscenza umana. Lo studio della mente umana per molto tempo fu appannaggio dalla filosofia, ma nel XIX secolo, quando nacque la psicologia sperimentale, Wilhelm Wundt e i suoi collaboratori iniziarono a studiare la mente e i suoi funzionamenti in maniera sistematica.

L’avvento del comportamentismo in psicologia sperimentale porta a focalizzare l’attenzione dei ricercatori sulla relazione esistente tra gli stimoli osservabili e le risposte comportamentali eludendo totalmente il contenuto centrale “invisibile e intangibile” della mente. Infatti, in questo periodo era vietato parlare, in ambito scientifico, di come funzionasse la mente umana al suo interno.

Le scienze cognitive nascono negli anni ’50, quando i ricercatori, afferenti a diversi ambiti disciplinari, cominciarono a sviluppare teorie sul funzionamento della mente partendo da rappresentazioni complesse, elaborazione di simboli e da procedure di computazione e calcolo.

I presupposti storici e teorici per la nascita delle scienze cognitive, però, possono essere identificati nel test ideato da Turing, in cui si considerava la mente umana un sistema di elaborazione di informazioni (Human Information Processing – HIP). Da qui nasce tutta la ricerca sull’intelligenza artificiale e sull’informatica, che ha portato alla creazione dei primo computer. John McCarthy, Marvin Minsky, Allen Newell e Herbert Simon sono considerati anche i primi pionieri delle scienze cognitive.

Secondo l’approccio HIP, la mente possiede delle rappresentazioni mentali simili alle procedure di calcolo, elaborazione di simboli e computazioni presenti nel computer. Queste rappresentazioni mentali sono le regole, i concetti, le immagini e i ricordi che sono utilizzati dalla mente, come algoritmi di calcolo, per affrontare le diverse problematiche che si presentano.

Le sue origini organizzative, però, avvennero esattamente nel 1978, anno in cui a La Jolla (California) si tenne un convegno organizzato dalla Cognitive Science Society cui parteciparono ricercatori psicologi, linguisti, neuroscienziati e filosofi, per riuscire ad avere una maggiore comunicazione tra i diversi ambiti disciplinari e ottenere teorie sempre più complesse ed elaborate circa il funzionamento mentale. Nacque, di conseguenza, la rivista Cognitive Science e da quel momento in poi più di novanta università in Nord America, Europa, Asia e Australia istituirono diversi corsi di scienze cognitive.

Contemporaneamente, il panorama intellettuale cominciò a cambiare radicalmente, con l’avvento di George Miller e dei sui studi sulla memoria perché si ricominciava a parlare esplicitamente di cosa accadesse nella mente umana. Secondo la teoria di Miller la mente riesce a elaborare informazioni grazie alla memoria a breve termine. Essa è in grado di contenere un numero limitato di informazioni, che secondo Miller corrisponde a 7 elementi, numero che può aumentare o diminuire di due unità, in base ai limiti o caratteristiche biologiche che distinguono una persona dall’altra.

Quindi, nel panorama scientifico l’interesse si stava spostando dall’esterno, dalla relazione stimolo-risposta, al funzionamento interno della mente. Anche Noam Chomsky, respinse la teoria comportamentista secondo la quale il linguaggio era un processo appreso rimpiazzandolo con l’ipotesi che la comprensione della lingua derivi da capacità mentali innate, sviluppate e affinate nel rapporto con l’ambiente.

 

Le metodologie delle scienze cognitive

L’assunto di base da cui le scienze cognitive partivano era che la mente umana fosse un elaboratore di informazioni, come il computer, e le ricerche messe a punto in questo ambito avevano lo scopo di individuare modelli di elaborazione dell’informazione sperimentalmente riproducibili, da cui inferire modelli generali di funzionamento altamente realistici.

In tale prospettiva si colloca una vasta gamma di ricerche volte a simulare in forma computazionale il funzionamento della mente, ad esempio come risolvere un problema partendo da processi inferenziali. Newell e Simon (1972), in tale ottica, idearono lo Human Problem Solving, secondo il quale le informazioni utili alla soluzione di un problema, dopo essere state recuperate dalla memoria a lungo termine, possono essere utilizzate per la soluzione di vari sotto-problemi in cui è scomposto il problema di partenza, così si giunge a uno stato finale (stato-meta) che è la soluzione o l’obiettivo perseguito.

In quegli anni i ricercatori ambivano a creare macchine in grado di esibire capacità di ragionamento simili a quelle umane grazie a programmi specifici volti a riprodurre i diversi processi di ragionamento, ricordiamo quella creata da McCarthy e collaboratori. Tra i tanti programmi ideati poniamo l’accento sul programma DENDRAL realizzato da Ed Feigenbaum, Bruce Buchanam e Joshua Lederberg, capace, partendo dalle informazioni derivanti dalla massa molecolare ricavate da uno spettrometro, di ricostruire la struttura di una molecola. Questo programma fu quindi il primo che si basava su un uso intensivo della conoscenza, ovvero evidente esperienza in un determinato scenario di applicazione.

Successivamente, Searle (1992), evidenzia come i programmi di intelligenza artificiale utilizzati per i computer, non riescano a evidenziare la specificità e l’intenzionalità dei fenomeni mentali. Manca, dunque, qualcosa che permetta di individuare la vera natura della mente umana.

A questo punto subentra la psicologia cognitiva in grado di spiegare cosa avviene nella mente a livello di pensieri, ragionamento, cognizioni e emozioni. Il metodo più utilizzato in psicologia cognitiva per capire cosa accade nella mente umana è realizzare esperimenti di laboratorio cui partecipano soggetti umani che possono essere studiati in condizioni controllate. Grazie a questi esperimenti è stato possibile osservare dettagliatamente come avvengono una serie di processi inferenziali e di pianificazione partendo da dati empirici. Divenne importante capire cosa accadeva esattamente nella mente umana mentre si esegue un compito. Di conseguenza, subentra il connessionismo, ovvero quell’area in cui si cerca di dare una riposta ai comportamenti partendo dal presupposto che il cervello è costituito da reti neurali.

 

Le neuroscienze

All’interno delle scienze cognitive un ruolo importante è svolto dalle neuroscienze o neurobiologia. Le neuroscienze rappresentano lo studio scientifico del sistema nervoso. Si tratta di un ambito al quale afferiscono l’anatomia, la biologia molecolare, la matematica, la medicina, la farmacologia , la fisiologia , la fisica, l’ingegneria e la psicologia.

Il termine neuroscienze deriva dall’inglese “neurosciences“, neologismo coniato dal neurofisiologo americano Francis O. Schmitt. Egli sostenne che se si voleva ottenere la totale comprensione della complessità del funzionamento cerebrale e mentale dovevano essere rimosse tutte le barriere tra le diverse discipline scientifiche, unendone le risorse. Il primo gruppo di ricerca creato prese il nome di Neurosciences Research Program, ed era costituito da scienziati di diversa formazione.

Secondo le neuroscienze le rappresentazioni mentali sono modelli di attività neurale e l’inferenza, o ragionamento deduttivo, consiste nell’applicazione di tali modelli alle diverse situazioni per affrontarle e risolverle.

Anche i neuroscienziati eseguono esperimenti controllati, attraverso tecniche di neuroimaging, Risonanza Magnetica funizonale (fMRI), Tomografia Assiale a emissione di Positroni (PET), MagnetoEncefalografia (MEG), Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), etc., che consentono di registrare l’attività di ogni singolo neurone e, di conseguenza, di identificare le regioni del cervello coinvolte nello svolgimento di una serie di attività. In questo modo si ottengono delle mappe funzionali di particolari aree del cervello imputate allo svolgimento di specifici compiti.

Le neuroscienze indagano lo sviluppo, la maturazione ed il mantenimento del sistema nervoso, la sua anatomia, il suo funzionamento, le connessioni esistenti tra le diverse aree cerebrali e i comportamenti manifesti. Le neuroscienze cercano di comprendere non solo come lavora il sistema nervoso in condizioni di sanità, ma anche, quando non funziona adeguatamente. Il funzionamento cerebrale deficitario si mostra attraverso la presenza di disturbi dello sviluppo, psichiatrici e neurologici. Lo scopo delle neuroscienze è anche effettuare studi empirici allo scopo di prevenire il verificarsi di diversi deficit e di curare questi ultimi attraverso una serie di compiti riabilitativi messi a punto ad hoc.

 

Neuropsicologia

Quando si parla di compiti riabilitativi si fa ricorso alla Neuropsicologia: disciplina che deriva dalla psicologia e dalle neuroscienze. La neuropsicologia nasce nel XIX secolo con gli studi su animali e umani aventi lesioni a carico del sistema nervoso, ma divenne fondamentale dopo la seconda guerra mondiale, quando nacque la necessità di trattare i veterani di guerra che riportavano lesioni cerebrali. La neuropsicologia studia l’espressione comportamentale di una serie di deficit cerebrali. Si occupa, specificamente, di come il cervello possa influenzare cognizione e comportamenti in persone che mostrano lesioni o malattie cerebrali. La neuropsicologia è una branca specifica della psicologia clinica specializzata nella valutazione e nel trattamento di pazienti con lesioni cerebrali o malattie a carico del sistema nervoso.

Attraverso l’esame neuropsicologico è possibile valutare le funzioni cognitive, come la memoria, il linguaggio, l’attenzione, l’organizzazione e la pianificazione, e comportamentali e la relazione esistente con il deficit presentato.

La differenza tra un neuropsicologo clinico da altri psicologi clinici è data dalla conoscenza dettagliata che il primo mostra dell’anatomia e del funzionamento delle diverse aree del cervello. Il neuropsicologo si occupa di applicare test standardizzati, aventi lo scopo di valutare deficit cognitivi presentati dai pazienti, e della gestione, del trattamento e della riabilitazione dei pazienti con deterioramento cognitivo.

Un’accurata valutazione neuropsicologica è fondamentale per avere una diagnosi delle funzioni cognitive ed è determinante per un adeguato intervento terapeutico e riabilitativo.
Lo scopo, dunque, della neuropsicologia, è individuare il deficit presentato dal paziente e riabilitarlo, oltre a trattare le diverse implicazioni psicologiche derivanti dal disturbo stesso e riguardanti la sfera emotiva.

 

L’intelligenza artificiale e affective computing

Le emozioni, dunque, svolgono un ruolo fondamentale nei processi di conoscenza e nello studio dei comportamenti. I processi emotivi sono una parte fondamentale da indagare quando si parla di cognizione e di funzionamento mentale. Per questo, in quegli anni, nel campo dell’ intelligenza artificiale, si faceva sempre più evidente l’idea che il pensiero razionale umano dipendesse dall’elaborazione emotiva.

Rosalind Picard fu la prima a parlare di Affective Computing ovvero macchine (computer) capaci di riconoscere, esprimere e comunicare emozioni o stati d’animo.

L’ affective computing consiste nell’interazione tra uomo e computer che si verifica nel momento in cui un dispositivo elettronico risulta essere in grado di rilevare e rispondere in modo appropriato alle emozioni derivanti da uno stimolo umano esterno. Una macchina che mostra questa abilità potrebbe essere fondamentale nel trarre informazioni inerenti a diversi aspetti emotivi, quali espressioni del viso, postura, gesti, linguaggio, variazioni di temperatura corporea, etc.

L’affective computing può offrire una vasta gamma di benefici da applicare in moltissimi ambiti, tra cui ad esempio potrebbe essere altamente utile durante le terapie on-line, ambito sempre più utilizzato, perché consentirebbe di avere spunti emotivi che altrimenti non potrebbero essere accessibili al terapeuta se non attraverso una reale seduta. Quindi, attraverso l’affective computing la postura, i gesti e le espressioni facciali potrebbero essere utilizzati, unitamente al colloquio, per una valutazione più accurata dello stato psichico del paziente.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Come lo stress può portare a disturbi cardiovascolari: il ruolo dell’amigdala

Il fatto che l’esposizione a elevati livelli di stress per prolungati periodi di tempo possa portare a disturbi cardiovascolari è da tempo risaputo, ma, nonostante questo, ancora poco si sa circa il meccanismo sottostante questa relazione.

 

Stress e disturbi cardiovascolari: il ruolo dell’amigdala

L’iperattivazione dell’amigdala risulta essere associata ad un maggiore rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.

La presenza di un’iperattivazione a livello dell’amigdala risulta essere associata ad un maggiore rischio di andare incontro a malattie cardiache e ictus, secondo quanto rilevato da uno studio pubblicato recentemente su The Lancet che permetterebbe di fare maggiore chiarezza su quale sia il meccanismo per cui l’esposizione a elevati livelli di stress per prolungati periodi di tempo possa portare a disturbi cardiovascolari.

L’amigdala, piccola struttura cerebrale a forma di mandorla facente parte del sistema limbico, è ritenuta essere uno dei centri di integrazione di processi neurologici superiori come le emozioni, ed in particolar modo la paura, assegnando una valenza emotiva agli stimoli in entrata e permettendo così all’attenzione di rivolgersi agli stimoli più salienti.

Questo insieme di nuclei, infatti, riceve input da tutti i sistemi sensoriali ed invia output per le risposte emotive di tipo comportamentale, autonomico ed endocrino. Lesioni in quest’area portano, tra le altre cose, ad incapacità nel riconoscimento del significato emotivo di eventi o cose, in particolar modo di stimoli che normalmente evocherebbero risposte di paura ed evitamento (la cosiddetta psychic blindness, “cecità psichica”).

Le connessioni di quest’area riflettono quindi il suo ruolo per quanto riguarda l’apprendimento, la memoria e l’attenzione in risposta a stimoli emotivamente pregnanti, permettendo di determinare che cosa sia uno stimolo e cosa ci si debba fare (Pessoa & Adolphs, 2010). Inoltre, l’amigdala contiene anche recettori per numerosi neurotrasmettitori e ormoni, tra i quali i glucocorticoidi, famiglia di ormoni che include anche il cortisolo, associato alla presenza di stress.

 

La relazione tra stress e disturbi cardiovascolari

Il fatto che l’esposizione a elevati livelli di stress per prolungati periodi di tempo possa portare a disturbi cardiovascolari è da tempo risaputo, ma, nonostante questo, ancora poco si sa circa il meccanismo sottostante questa relazione.

Lo stress psicologico porta con sé un gran numero di patologie. Infatti, l’esposizione ad eccessivi livelli di stress contribuisce allo sviluppo di disturbi quali, ad esempio, ipertensione, ulcere, asma e sindrome dell’intestino irritabile. Ben noto è anche l’impatto che lo stress ha sulla salute cardiaca. Per quanto alcuni disturbi cardiovascolari siano una conseguenza secondaria alla messa in atto di strategie maladattive per far fronte allo stress, come ad esempio fumo e alcool, sembrerebbe esistere anche una connessione diretta tra elevati livelli di stress e patologie cardiache.

Per quanto questo link diretto sia ormai ben noto all’interno della comunità scientifica, e anche all’interno del sapere comune, ancora poco si sa circa i processi fisiologici sottostanti. Cosa permette ad un’emozione come lo stress, risultato di elaborazioni a livello cerebrale, di influenzare il benessere fisico a livello cardiaco?

Studi sugli animali avevano già permesso di notare come lo stress aumentasse la produzione di globuli bianchi all’interno del midollo osseo che, a sua volta, andava ad aumentare i livelli di infiammazione. Come questo, però, conduca a disturbi cardiovascolari resta ancora da essere pienamente compreso.

 

Gli studi del Massachusetts General Hospital di Boston

Tawakol, del Massachusetts General Hospital di Boston, e collaboratori, dell’Icahn School of Medicine presso il Mount Sinai di New York, hanno recentemente condotto due studi proprio con lo scopo di indagare maggiormente la natura di questo legame.

All’interno del primo studio gli autori hanno coinvolto un campione di 293 soggetti di circa 30 anni o più, sottoponendoli a scansioni PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) e CT (Tomografia Computerizzata). Questi strumenti, utilizzando un radiofarmaco detto fluorodesossiglucosio (FDG) come tracciante, hanno permesso di misurare simultaneamente l’attività cerebrale a riposo e i livelli di infiammazione arteriosa.

Tutti i partecipanti allo studio erano sani al momento della scansione, o comunque senza disturbi cardiovascolari o cancro, e, nei successivi cinque anni, sono stati sottoposti ad almeno tre ulteriori visite mediche. Durante questo periodo di follow-up 22 partecipanti hanno sviluppato un qualche tipo di disturbo a livello cardiovascolare, come ictus, angina o infarto.

Dalle analisi gli autori hanno così potuto notare l’esistenza di un’associazione tra la probabilità di sviluppare un evento cardiaco e l’attività dell’amigdala, regione cerebrale che, come già accennato poc’anzi, risulta essere coinvolta nell’elaborazione emotiva degli stimoli in entrata, andando ad influire così sui livelli di stress percepito.

Sembra quindi che la presenza di un’iperattivazione a livello dell’amigdala, così come emerso dalle scansioni fatte all’inizio dello studio, sia associata ad un più elevato rischio di sviluppare una qualche cardiopatia negli anni successivi. Questa associazione sembrerebbe mantenersi valida anche al netto di possibili altri fattori di rischio cardiovascolari, come ad esempio l’arteriosclerosi.

Inoltre, la relazione tra attività a livello dell’amigdala e disturbi cardiovascolari sembra essere così forte da permettere di operare previsioni circa la tempistica dello sviluppo dell’evento cardiaco. È stato, infatti, rilevato come maggiori livelli di attivazione dell’amigdala alla scansione iniziale sembrino essere associati ad una più precoce occorrenza di eventi cardiaci.

Una maggiore attivazione dell’amigdala sembrerebbe essere associata, anche nell’essere umano, con un aumento nei livelli di metabolismo di aree responsabili della generazione di nuove cellule ematiche (ad es. midollo e milza) e anche nei livelli di infiammazione arteriosa.

Grazie al secondo studio poi, svolto con un campione di 13 soggetti con alle spalle una storia di Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), è stato possibile supportare ulteriormente quanto emerso dal primo. I livelli di stress percepito dai partecipanti, misurati con la Perceived Stress Scale (PSS-10), sono risultati infatti, ancora una volta, essere significativamente associati ai livelli di attivazione dell’amigdala e ai livelli di infiammazione a livello delle arterie.

Nel complesso, quanto emerso permetterebbe di dimostrare a livello empirico l’esistenza di un’effettiva connessione tra disturbi cardiovascolari e stress. Sembrerebbe, infatti esistere un legame molto forte tra l’attività a riposo a livello dell’amigdala e la successiva occorrenza di eventi cardiaci, indipendentemente dai già noti fattori di rischio cardiovascolare. Inoltre, l’attività dell’amigdala risulta essere correlata anche a maggiori livelli di stress percepito, nonché a maggiori livelli di ematopoiesi e infiammazione vascolare.

L’amigdala quindi, così come suggerito dagli autori, potrebbe svolgere il ruolo di struttura chiave all’interno del meccanismo che connette lo stress all’occorrenza di disturbi cardiovascolari, coinvolgendo anche meccanismi quali un’aumentata produzione di cellule ematiche e un’aumentata infiammazione a livello delle arterie.

Ulteriori indagini in merito permetteranno di sviluppare la comprensione inerente la natura di questa associazione, anche per poter mettere a punto interventi più efficaci mirati alla prevenzione e al controllo delle cardiopatie, ponendo particolare attenzione al fattore stress, da trattare come fattore di rischio al pari di altri, quali, ad esempio, l’arteriosclerosi. A tal proposito, in letteratura esistono già evidenze circa l’utilità di affiancare interventi volti alla riduzione dei livelli di stress alla classica riabilitazione cardiaca, in quanto più efficace sulla salute di pazienti con cardiopatie rispetto alla sola riabilitazione cardiaca (Blumenthal et al., 2016).

Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Jacques Lacan e lo stadio dello specchio

Un contributo significativo riguardante il tema del Doppio, in termini di sviluppo più che simbolici è sicuramente la teoria di Jacques Lacan sullo stadio dello specchio.

 

Jacques Lacan: il bambino dinnanzi allo specchio

In sostanza, la presa di coscienza da parte del bambino di fronte alla propria immagine riflessa che ciò che vede nello specchio non è un altro individuo ma sé stesso, rappresenta un momento fondamentale della formazione e dello sviluppo della sua psiche. Secondo la teoria di Jacques Lacan il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, si trova a confrontarsi con la propria immagine riflessa nello specchio:

  • nella prima fase egli identifica quest’immagine con quella di un altro, di uno sconosciuto;
  • nella seconda fase egli è in grado di riconoscere l’altro, ma solo come immagine e non come reale;
  • nella terza fase il bambino riconosce l’altro come propria immagine riflessa.

Il bambino, quindi, sarà ora in grado di far corrispondere la propria immagine a quella del proprio corpo, attraversando così un momento decisivo nel suo sviluppo, e arriverà ad acquisire un’immagine di sé unitaria e definita. Inoltre il bambino, specchiandosi, si vede vicino a un altro e si riconosce come separato, quindi per la prima volta riconosce sé stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé.

Riconoscersi intero allo specchio comporta una definizione dei propri confini fisici e impone la definizione dei confini che lo separano dalla madre. Spinto fuori dal primo contenitore, secondo Jacques Lacan, il bambino cercherà ospitalità nell’immagine speculare che lo emancipa dalla madre e lo preserva dall’angoscia di annientamento causata dall’essere fuori dalla madre. Lo stadio dello specchio garantisce un collegamento tra l’organismo e l’ambiente, tra il mondo interno e quello esterno.

L’identificazione primaria che secondo Jacques Lacan caratterizza il bambino di fronte alla propria immagine riflessa in una fase fondamentale del suo sviluppo rappresenta la base di tutte le altre eventuali identificazioni che l’individuo può avere nel corso della vita. Il bambino identifica sé stesso con un suo duplicato, con un’immagine che non è lui stesso ma che, comunque, gli permette di riconoscersi. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto.

Il trattamento della Dissociazione Traumatica – Report dal Seminario di Dolores Mosquera

Il trattamento della Dissociazione Traumatica. I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” è un corso di formazione pratica avanzata che si svolge a Torino dal 21 gennaio 2017 al 10 settembre 2017. Il primo appuntamento è stato tenuto da Dolores Mosquera.

di Valentina Congedo

 

Il corso di formazione sul trattamento della Dissociazione Traumatica

Il trattamento della Dissociazione Traumatica. I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” è un corso di formazione pratica avanzata che si svolge a Torino dal 21 gennaio 2017 al 10 settembre 2017. É organizzato in cinque week end, per un totale di dieci giornate di approfondimento teorico e pratico sui temi che ruotano intorno ai concetti di trauma e dissociazione. Si tratta di un master aperto a psicologi, psicoterapeuti e medici, che ha come direttore scientifico Giovanni Tagliavini di Area Trauma ed è organizzato presso il Centro Clinico Crocetta di Torino.

Dissociazione traumatica - Gli sviluppi traumatici di personalità - Seminario con Dolores Mosquera 21-22 gennaio 2017 TorinoIl primo appuntamento del corso sul trattamento della Dissociazione Traumatica, “Gli sviluppi traumatici di personalità. Riconoscere e curare gli elementi traumatici nei disturbi di personalità”, è stato tenuto da Dolores Mosquera, esperta psicoterapeuta ed EMDR Europe Supervisor e Practioner, specializzata nel trattamento dei disturbi di personalità, dei traumi complessi e della dissociazione traumatica.

Le due giornate di formazione si sono snodate lungo un percorso affascinante ma molto complesso; il punto di partenza è stato la distinzione tra disturbi di personalità privi di aspetti dissociativi e disturbi di personalità in cui si riscontrano elementi dissociativi.

Successivamente D. Mosquera si è soffermata sul concetto di trauma e di dissociazione strutturale come meccanismo psichico che, a partire dal trauma, genera patologia. La ricercatrice ha descritto l’organizzazione del sistema psichico del paziente con dissociazione strutturale, diviso in parti o aspetti del sé. Inoltre, ha affrontato la distinzione tra disturbi di personalità con e senza fenomeni dissociativi anche da un punto di vista pratico, evidenziando le differenti modalità di intervento psicoterapeutico. L’aspetto clinico è stato utilmente approfondito mediante l’osservazione di riprese video di sedute e la discussione in aula; un accento particolare è stato posto sul trattamento degli aspetti dissociativi contenuti nel mondo interno del paziente caratterizzato da dissociazione strutturale.

 

Elementi di teoria: i disturbi di personalità

Per iniziare la discussione, D. Mosquera ha condiviso una definizione di personalità come un pattern complesso di  caratteristiche psicologiche interconnesse, molte delle quali espresse automaticamente. Essa si forma a partire da una complicata matrice di predisposizioni biologiche e influenze familiari e ambientali. Sebbene si tratti di un processo di influenza bidirezionale che dura per tutta la vita dell’individuo, nelle fasi precoci dello sviluppo la commistione tra componenti temperamentali innate e le esperienze di attaccamento ha una particolare rilevanza.

La personalità emerge da varie operazioni mentali e di rapporto con la realtà: la costruzione dell’immagine di sé,  l’attribuzione di significato al mondo esterno, le azioni, le relazioni, la ricerca di strategie e soluzioni ai problemi posti dall’ambiente sociale.

Per fare diagnosi di disturbo di personalità, il clinico deve rilevare un deterioramento della qualità della vita causato dal modo di percepire se stessi e di relazionarsi agli altri; esso ha un grave impatto su molte sfere della vita della persona (scuola, lavoro, interazioni coi pari e coi familiari). I tratti che caratterizzano il disturbo sono durevoli, inflessibili, intensi, producono disagio o sofferenza nelle vite dei pazienti e di chi li circonda (DSM).

Le ragioni per cui un individuo arriva alla consultazione clinica possono essere le più svariate; il paziente non affetto da disturbo di personalità solitamente affronta e supera un eventuale periodo critico secondo i propri tempi e risorse, ma, successivamente, recupera appieno la propria funzionalità. Al contrario, quando l’intera personalità è coinvolta nel/i problema/i, se le aree di difficoltà non sono circoscritte, la persona fatica a individuarle e a confrontarsi con esse, il clinico può diagnosticare la presenza di un disturbo di personalità. Spesso la raccolta dell’anamnesi evidenzia che il disagio psichico e le difficoltà di adattamento sono presenti da sempre, o per lo meno dall’adolescenza; le relazioni di attaccamento con le figure significative e quelle interpersonali in generale sono sempre aree problematiche.

 

Dissociazione traumatica nei disturbi di personalità: il trauma e la diagnosi differenziale

In altre situazioni cliniche, D. Mosquera osserva che la descrizione attuale che il paziente fa di sé incontra i criteri per una diagnosi di disturbo di personalità; ma, dall’assessment, emergono due indizi rilevanti che si discostano dal quadro precedente e possono far sospettare la presenza di elementi dissociativi.

Il primo è che la ricerca di un aiuto psicologico è motivata dall’improvvisa interruzione di un lungo periodo di funzionamento adattativo; il secondo è che, durante l’anamnesi, questi pazienti non riportano la presenza di particolari eventi significativi o dolorosi nella loro storia personale e soprattutto relazionale.

Introducendo il concetto di trauma, la ricercatrice afferma che le relazioni di attaccamento non caratterizzate da aggressione esplicita siano le più difficili da cogliere nei loro aspetti disfunzionali. Dalla sua esperienza, osserva che per alcuni clinici solo eventi precisi come l’abuso fisico o sessuale siano classificabili come traumi; invece, ritiene che la casistica dei fenomeni e delle dinamiche traumatiche sia molto più ampia e possa essere estremamente più sottile.

Ad esempio, minacce che derivano dai segnali emozionali del caregiver e dalla sua incapacità di regolazione emotiva possono essere traumi ripetuti che avvengono in fasi precoci dello sviluppo. Anche maltrattamenti verbali, ingiurie, oppure trascuratezza, rotture nell’attaccamento o iperprotezione possono essere traumatici se superano la capacità di sopportazione o contenimento emotivo; minano la continuità dell’esperienza soggettiva e provocano frammentazione a livello psichico.

La mancanza di integrazione nelle percezioni di sé e degli altri si riscontra in tutti i disturbi di personalità, che siano presenti o meno elementi dissociativi.

In assenza di dissociazione traumatica, tutti i disagi relativi ai diversi aspetti del sé, ai differenti ruoli o compiti vitali, sono contemporaneamente presenti nel mondo interno dei pazienti; la difficoltà a maneggiare il conflitto tra opposte visioni di sé e degli altri li spinge a sviluppare molte difese primitive, per di più usate in modo caotico.

La possibilità di riflettere e di contenere tale conflitto dipende dalla capacità integrativa generale; alcuni pazienti hanno buone capacità quando sono stabili, ma le perdono velocemente quando sono attivati emotivamente. Invece, quando non sono attivati o sono in una finestra di regolazione emotiva, riescono a vedere le sfumature e a mettere insieme le rappresentazioni scisse buone e cattive di sé e degli altri.

In alcuni casi, alla mancanza di integrazione si aggiungono difese o sintomi dissociativi; D. Mosquera sottolinea che la diagnosi deve orientarsi in questa direzione se si riscontrano amnesie, soprattutto se riguardano vuoti temporali riguardo alla vita attuale o recente, oppure se nel dialogo col paziente emergono differenti prospettive espresse in prima persona.

In tali casi, il conflitto tra diverse rappresentazioni di sé e degli altri è evitato mediante l’amnesia tra questi aspetti e operando uno switch tra una parte e l’altra.

 

La dissociazione strutturale della personalità

Dissociazione traumatica - Gli sviluppi traumatici di personalità - Seminario con Dolores Mosquera 21-22 gennaio 2017 Torino - Foto 3Dolores Mosquera ha articolato la discussione sul tema della dissociazione traumatica andando oltre i suoi aspetti sintomatici che possono accompagnare i disturbi di personalità; infatti, ha introdotto un ulteriore strumento di lettura del mondo interno del paziente traumatizzato: la teoria della dissociazione strutturale della personalità (Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steele, K., 2011). Tale teoria è stata la chiave di interpretazione evolutiva della maggior parte del materiale clinico oggetto di confronto durante il seminario, che è stato un potente stimolo per la riflessione e l’apprendimento.

Come già affermato, un evento traumatico diventa tale per la mancanza di risorse, interne ma anche esterne, a cui aggrapparsi per farvi fronte e inserirlo nella continuità della propria storia psichica. La dissociazione traumatica è una difesa biologica, definita dagli autori “animale”, per far fronte a una situazione, di fatto, inaffrontabile.

Ricordando il concetto di personalità sana, esso include quello di integrazione: gli elementi neurobiologici, psicologici e sociali funzionano in modo coerente, flessibile e adattativo.

Nella dissociazione strutturale della personalità si verifica un fallimento integrativo tra sottosistemi del sé che non solo non sono collegati, ma operano in modo indipendente e simultaneo, arrivando a produrre una prospettiva e un senso di sé separati. La patologia è definita dalla mancanza di integrazione fra queste parti del sé che possono operare in modo casuale, possono essere non modulate, immerse in conflitti interni, funzionare troppo o in modo non utile.

Al cuore di tale dissociazione nucleare si annidano i ricordi traumatizzanti e la fobia generata dal rischio del contatto con essi; infatti attorno a tale terrore si sviluppano altre fobie, creando una stratificazione che impedisce al trauma di accedere alla consapevolezza (e al lavoro clinico). Ciò di fatto permette la sopravvivenza psichica, ma chiaramente ha una sua contropartita, un “prezzo da pagare” in termini di salute mentale.

 

L’organizzazione del sistema psichico del paziente con dissociazione strutturale della personalità

Approfondendo l’organizzazione del sistema interno del paziente con dissociazione strutturale, in esso si ritrovano due (o più) “parti”: la Parte Apparentemente Normale (ANP) e  quella Emotiva (EP), che possono essere più di una. La ANP è centrata sulla vita quotidiana e sull’evitamento del trauma; invece la EP è fissata sui ricordi traumatici e nei sistemi di azione difensivi (lotta, fuga, congelamento, sottomissione, attaccamento, ipervigilanza). Quando c’è molto conflitto tra queste diverse e scollegate rappresentazioni interne, tutte queste difese possono attivarsi insieme. In ambito terapeutico, il clinico può osservare che il paziente entra in uno stato di allarme o di dissociazione come reazione a un gesto, a un tono di voce, o a un contenuto. In tal caso, vede attivarsi il sistema di difese del paziente.

A volte la fissazione sul trauma arriva a tal punto che la Parte Emotiva può non aver capito che l’evento non è più in corso o non si ripeterà. Durante il seminario, D. Mosquera ha descritto molto umanamente gli errori in cui è incorsa nel trattamento dei pazienti con dissociazione strutturale, quando ancora non aveva a disposizione queste competenze. Uno di questi è stato dare per scontato che la parte emotiva che si è separata dalle altre sappia che il passato “è finito”; la capacità di differenziazione del paziente non sempre lo permette. Piu spesso, la Parte Apparentemente Normale vive quelle Emotive come parti intrusive di cui liberarsi, non essendo in grado di svolgere una funzione riflessiva.

 

Elementi di pratica clinica per i disturbi di personalità

Affrontando l’area della pratica clinica, D. Mosquera ha ripreso il tema dei disturbi di personalità con e senza aspetti dissociativi.

Ogni paziente con disturbo di personalità ha dei deficit integrativi relativi alle diverse rappresentazioni di sé e degli altri; tali deficit si collocano su un continuum in cui la mancanza di integrazione è presente in gradi e modi diversi.

Il trattamento dovrebbe focalizzarsi sull’integrazione del mondo interno conflittuale, concettualizzata come un processo lento e continuo, non come un evento improvviso.

Di seguito un elenco degli interventi da usare nel trattamento di pazienti con disturbo di personalità senza sintomi dissociativi:

  • la psicoeducazione: fornire informazioni adattive su emozioni, difese, confini, comportamenti autolesivi, cura di sé e regolazione emozionale. La psicoeducazione è utile perché il paziente non può cambiare qualcosa che non conosce. Al tempo stesso deve essere modificato il linguaggio, che si trasformerà in un cambiamento del modo di pensare a se stessi (ad esempio sostituire l’affermazione “Io sono impulsivo” con “Io ho delle reazioni impulsive”);
  • lo sviluppo di risorse e abilità;
  • il lavoro sui confini e sulla differenziazione;
  • il lavoro sulle difese affinché nel loro uso non si ripeta ciò che accade nell’ambiente familiare;
  • la cura di sé;
  • lo sviluppo di un pensiero riflessivo per funzionare in modo adattivo.

Sia in presenza che in assenza di sintomi dissociativi, deve essere riconosciuto e ridotto il conflitto interno; deve essere migliorata la regolazione emozionale; è necessario aumentare la la capacità di pensiero critico e rinforzare la capacità di mentalizzazione o funzione riflessiva e quella di integrazione del se è della personalità.

 

Elementi di pratica clinica per i pazienti con dissociazione strutturale

Molti degli interventi sopracitati sono utili anche per il paziente con disturbo di personalità con aspetti dissociativi, ma con alcuni accorgimenti e differenziazioni.

Questa tipologia di pazienti avrà sia rappresentazioni non integrate di sé e degli altri, sia sintomi di natura dissociativa come la depersonalizzazione e la derealizzazione; inoltre, il suo mondo interno può essere ulteriormente complicato dalla presenza di parti dissociative, come suggerisce la teoria della dissociazione strutturale della personalità.

In tali casi, le difficoltà di integrazione sono maggiori rispetto ai disturbi di personalità scevri da elementi dissociativi.

Tanto più il paziente è dissociato, tanto più sarà utile il lavoro diretto con le sue parti; la ricercatrice suggerisce di chiamarle anche “aspetti”, al fine di trasmettere sempre il messaggio che siano componenti di un intero e non perdere di vista l’obiettivo dell’integrazione. Ognuna di esse è parte del paziente, anche quelle parti che disprezza o che odia, che sono poi quelle che rendono più difficile il lavoro terapeutico.

La visione delle riprese delle sedute svolte da D. Mosquera ha mostrato pazienti con un mondo psichico caratterizzato da una evidente dissociazione tra parti adulte apparentemente normali, parti emotive infantili, sofferenti e vittimizzate e parti emotive aggressive/difensive.

 

Elementi di pratica clinica: strategie di gestione ed elaborazione della dissociazione traumatica

In queste situazioni, lo strumento di base del lavoro è l’esplorazione frequente delle parti del sistema interno e dei bisogni di ognuna; alcune di esse sono molto costanti, altre possono cambiare da seduta a seduta.  L’intervento appropriato è verificare con il paziente quello che sta avvenendo nel suo sistema interno in quel dato momento.

Il fine primario di questo lavoro è il riconoscimento e l’elaborazione del conflitto tra gli aspetti di sé dissociati. Attraverso esercizi di esternalizzazione e consapevolizzazione, emerge l’entità conflitto tra le parti, segnalato dal grado di disagio, disturbo o fobia che una genera verso l’altra. Il terapeuta deve mostrare comprensione verso le parti temute o svalutate, al fine di stabilire una buona alleanza con esse.

La capacità di riflettere sul conflitto dipende dalla capacità integrativa generale: fluttua a seconda di quale parte è presente. Può essere minima o assente in alcuni aspetti di sé dissociati, molto più alta in altri; in tali casi è importante rallentare il lavoro, senza forzare il sistema dissociativo.

Un altro strumento terapeutico utile è il grounding o radicamento corporeo; tale argomento è stato solo accennato nel corso del seminario. Il versante corporeo della dissociazione traumatica è emerso in modo tangenziale, ma sarà il focus di uno degli appuntamenti successivi del master.

È stato sottolineato brevemente che per i pazienti dissociativi non è scontata la consapevolezza che ogni parte di sé abbia lo stesso corpo, o, in altre parole, che ogni parte appartenga allo stesso corpo. Per tali ragioni hanno bisogno degli esercizi del grounding. Molti di loro non sentono il corpo e sono molto in difficoltà a lavorarci, in base al livello di dissociazione da esso. Ad esempio, in terapia li si può sentir dire “La mia testa pensa …” anziché “Io penso …”.

D. Mosquera ha spiegato che, se nel corso della seduta si accorge di un cambiamento corporeo nel paziente, lo esplora con domande aperte, senza esplicitare cosa sta osservando, lavorandoci lentamente.

Se la persona riesce a rispondere, continua a indagare, altrimenti si ferma un passo indietro, senza forzare l’elaborazione. Del resto, molti di questi pazienti hanno come meccanismo di difesa la razionalizzazione, sono abituati a usare solo la testa e a evitare il dolore.

Proseguendo la terapia, è necessario valorizzare gli aspetti positivi delle parti disprezzate o spaventose, capire la loro utilità e che funzione svolgono. Successivamente si chiede al paziente, o alle parti rilevanti del sistema psichico in gioco in quel momento come percepiscono la funzione di una parte spaventosa e temute da altre. Se diminuisce la fobia dissociativa e il conflitto si abbassa, si può lavorare sull’integrazione promuovendo l’empatia, la comunicazione e gli scopi comuni tra le parti.

Prima di fare la psicoeducazione, i pazienti devono essere messi in grado di pensare a se stessi, altrimenti le informazioni trasmesse non si sedimentano e vanno ripetute. La psicoeducazione è specifica e riguarda le risposte traumatiche; serve a favorire la differenziazione e la consapevolezza che il pericolo è finito.

L’elaborazione del trauma sarà uno step avanzato del trattamento; il terapeuta può accordarsi col sistema psichico del paziente che non lavorerà sui ricordi traumatici finché tutte le parti non saranno pronte. Spesso le ANP sono prive di capacità riflessiva e spingono per un’evacuazione delle EP, più che una collaborazione o integrazione. Ne è sintomatico il racconto di eventi dolorosi caratterizzato da indifferenza, o da emozioni incongruenti.

Idealmente, la terapia si dovrebbe concludere quando è avvenuta l’integrazione.

 


I prossimi appuntamenti del corso di formazione pratica avanzata Il trattamento della dissociazione traumatica Programma 2017 (Scarica PDF)


Dissociazione traumatica - Gli sviluppi traumatici di personalità - Seminario con Dolores Mosquera 21-22 gennaio 2017 Torino - Sala congresso

Rituali di corteggiamento e offerte di cacciagione – fluIDsex

Durante la fase iniziale di conoscenza e corteggiamento, esistono dinamiche diverse tra coppie eterosessuali o omosessuali?

 

Archeologi e studiosi analizzando le ceramiche greche del V a.C. (in cui l’omosessualità non era un tabù) in cerca di gesti di seduzione nella comunicazione non verbale, sostengono che molto spesso il dono di selvaggina raffigurato nei vasi antichi rappresenti simbolicamente un preludio all’amore. Gli studiosi in questione tengono a precisare come il valore della selvaggina sia fondamentale nel corteggiamento erotico, sia eterosessuale che omosessuale.

Non essendo un’esperta di seduzione ma piuttosto una persona interessata all’osservazione del comportamento umano, posso evidenziare come l’archetipo della caccia e della lotta di potere fra “preda” e “cacciatore” rimandi effettivamente ad alcune teorie derivanti dall’etologia, circa le strategie di corteggiamento.

Grande differenza fra mondo umano e quello animale è che le nostre strategie per attirare la persona desiderata non sono innate e codificate nel nostro DNA ma culturalmente derivate: i ruoli di preda e predatore diventano fluidi e interscambiabili. Non parliamo più di generi ma parliamo piuttosto di stile di corteggiamento; per questo nella società occidentale nessuno si scandalizza quando una donna prende l’iniziativa nel corteggiare un uomo.

Tornando alla domanda (che io stessa mi sono posta) mi sorge un dubbio: è possibile che quelle che noi crediamo differenze di attegiamento seduttivo tra persone eterosesuali e persone omosessuali dipendano dal contesto culturale invece che dall’orientamento sessuale?

Quale influenza l’identificazione con una comunità (omosessuale o eterosessuale in questo caso, ma potrebbe essere anche Transessuale, Asessuale ecc…) e quindi l’apprendimento di norme culturali da esse derivate, hanno sul comportamento umano? E quanto  incide sulle strategie di corteggiamento la facilità di entrare a contatto con persone dello stesso orientamento sessuale o in generale sessualmente disponibili? Facendo un esempio: un individuo che vive in un piccolo paesino di provincia, dove le occasioni sociali per conoscere potenziali partner sono limitate, metterà in atto le stesse strategie che utilizzerebbe se  si trovasse a vivere in una grande città? O ancora, potrebbero esserci differenze nel comportamento seduttivo fra una  persona omosessuale che vive e frequenta la comunità gay di San Francisco e una che invece frequenta quella di Tokyo?

Quello che ad oggi sappiamo dallo studio della produzione vascolare dell’antica Grecia è che nelle scene raffiguranti atti di corteggiamento, il legame erotico fra i partner viene rappresentato nella medesima maniera sia in scene etero che omo. Chissà se analizzando programmi come “Uomini e Donne” si potrebbe giungere alle medesime conclusioni o invece oggi entrano in gioco talmente tante variabili da non permettere di codificare questi comportamenti sulla base di una sola categoria, come quella dell’orientamento sessuale.

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Identificare in anticipo i Disturbi Alimentari nei bambini potrebbe essere la chiave per salvare le loro vite

L’identificazione e il trattamento di sintomi legati ai Disturbi Alimentari nei bambini il più precocemente possibile potrebbe essere la chiave per aiutare a prevenire lo sviluppo successivo di Disturbi Alimentari potenzialmente mortali, almeno secondo quanto affermato dai ricercatori dell’università inglese di Newcastle.

 

I disturbi alimentari nei bambini

I sintomi dei Disturbi Alimentari, per quanto non siano equiparabili per gravità e specificità alle vere e proprie sindromi conclamate, includono una grande varietà di pensieri e comportamenti disfunzionali riguardanti alimentazione e peso. Questi sintomi, quali ad esempio il seguire regimi dietetici rigidi, mettere in atto abbuffate, star male dopo aver mangiato e avere alti livelli di ansia legati al percepirsi grassi o al poter aumentare di peso, caratterizzano una larga varietà di sindromi cliniche e anche di loro varianti sub-cliniche.

In generale, la maggior parte dei bambini presenta solo qualcuno di questi sintomi, senza mai sviluppare un pieno Disturbo Alimentare, ma, per coloro i quali presentano un sufficiente numero di sintomi tali da soddisfare pienamente i criteri diagnostici, i Disturbi Alimentari rappresentano una condizione patologica estremamente seria ed invalidante che può portare finanche alla morte.

Si può quindi affermare che i Disturbi Alimentari mettono estremamente a repentaglio la salute e il benessere anche di giovani adolescenti, non solo di adolescenti di età maggiore, ma, nonostante questo, gli studi prospettici relativi ai fattori di rischio per lo sviluppo di queste patologie sono ad oggi limitati e questo ha notevolmente limitato la messa in atto di interventi a scopo preventivo.

 

Lo studio longitudinale sui fattori di rischio dei disturbi alimentari nei bambini

In linea con quanto evidenziato da Culbert e collaboratori nel 2015 circa l’importanza di indagare longitudinalmente i fattori di rischio dei Disturbi Alimentari anche su popolazioni non cliniche e di giovane età, Evans e collaboratori, in uno studio prospettico pubblicato dalla rivista Appetite, hanno dimostrato come la maggiore presenza di sintomi a 9 anni sembri essere predittiva di una ancor maggiore presenza di sintomi a 12 anni. Pertanto, l’identificazione precoce di sintomi dei Disturbi Alimentari nei bambini di appena 9 anni permetterebbe la messa in atto di interventi preventivi potenzialmente in grado di salvarne la vita.

Questo studio, così come affermato dagli autori stessi e proprio a partire dalle limitazioni della letteratura presente sul tema, più che avere lo scopo di indagare i Disturbi Alimentari di per sé, è stato appositamente svolto seguendo un’ottica longitudinale per poter in tal modo indagare in modo più approfondito i fattori di rischio legati allo sviluppo di una precoce sintomatologia inerente i Disturbi Alimentari. Infatti, come già accennato precedentemente, la maggior parte delle ricerche precedenti svolte su bambini e giovani adolescenti si è focalizzata prevalentemente sullo studio dei sintomi presenti in una data età, tralasciando un’indagine più in senso longitudinale che permettesse invece di evidenziare quali fattori precedessero e predicessero altri.

Data la mancanza di letteratura sul tema, gli autori hanno deciso di prendere in considerazione quei fattori che sono risultati essere significativamente correlati ai Disturbi Alimentari nell’età adulta e nella tarda adolescenza.

All’interno dello studio, nel quale gli autori hanno seguito i medesimi bambini nel corso del tempo per un totale di sei anni, sono così state identificate tre diverse aree che genitori ed insegnanti dovrebbero monitorare in bambini e preadolescenti, in quanto fattori di rischio apparentemente correlati con lo sviluppo di maggiori sintomi dei Disturbi Alimentari. Tali fattori comprendono: insoddisfazione per il proprio corpo, sintomi depressivi, solo per quanto riguarda il sesso femminile, e presenza di sintomi in fasi più precoci.

La ricerca di Evans e collaboratori risulta così essere innovativa, in quanto specificatamente focalizzata su quei fattori connessi con un successivo sviluppo di sintomi riguardanti i Disturbi Alimentari, in modo da poter identificare anticipatamente i bambini a rischio.

A tal proposito, si è notato come la prevalenza dei Disturbi Alimentari nei giovani aumenti tra l’infanzia e la prima adolescenza e come circa tra i 10 e i 13 anni la sintomatologia dei Disturbi Alimentari sia presente all’interno di popolazioni non cliniche a livelli molto simili rispetto a quelli di popolazioni adolescenti. Questo, nel complesso, suggerisce come sia importante identificare quali siano le condizioni che favoriscono lo sviluppo di questi disturbi ben prima dell’adolescenza.

Riassumendo, i risultati mostrano come ci sia il bisogno di identificare i sintomi dei disturbi alimentari nei bambini precocemente, dal momento che ad una maggiore sintomatologia a 9 anni corrisponde il più alto rischio di sviluppare una maggiore sintomatologia a 12 anni.

Inoltre, all’interno dello studio, i ricercatori hanno somministrato ai bambini partecipanti, sempre seguendo una procedura longitudinale, questionari riguardanti non solo i sintomi dei Disturbi Alimentari, ma anche sintomi depressivi e legati all’insoddisfazione corporea.

Dalle analisi è emerso come alcuni fattori di rischio precedano la comparsa dei sintomi dei Disturbi Alimentari e come altri invece sembrino essere concomitanti ad essi. Ad esempio, a 12 anni, indipendentemente dal sesso, coloro i quali presentano alti livelli di insoddisfazione corporea, manifestano anche il più alto numero di sintomi dei Disturbi Alimentari. L’insoddisfazione corporea sembrerebbe quindi essere un significativo fattore di rischio per lo sviluppo di Disturbi Alimentari. Inoltre, anche la presenza di sintomi depressivi a 12 anni risulta correlare con la presenza di un maggior numero di sintomi dei Disturbi Alimentari, ma solo per quanto riguarda le femmine. Per quanto riguarda solo la popolazione maschile, invece, il seguire un regime alimentare rigido e limitato risulta predire la comparsa di sintomi dei Disturbi Alimentari a 12 anni.

 

Sviluppi futuri della ricerca

Attualmente Evans e collaboratori hanno intenzione di portare avanti le indagini somministrando ancora una volta i questionari alla medesima coorte di bambini, ormai adolescenti di 15 anni, per poter studiare l’evoluzione della sintomatologia in coloro i quali mostravano il maggior numero di sintomi dei Disturbi Alimentari già a 12 anni. Così facendo sarà possibile capire se ciò che è stato rilevato per i bambini si mantenga valido anche con gli adolescenti o se, al contrario, emergano ulteriori fattori di rischio.
Si ritiene che questo tipo di studi possa aprire la strada ad interventi sempre più precoci che possano aiutare anche i giovani pazienti ad affrontare il proprio disturbo alimentare, fin dalle sue prime manifestazioni.

La stimolazione sensoriale nei soggetti con demenza

Un’altra importante frontiera è rappresentata dalla stimolazione sensoriale che per l’appunto va a lavorare sui sensi della persona e per cui non presuppone necessariamente l’esistenza di abilità cognitive; si utilizza infatti per lavorare con persone che hanno un grado di decadimento severo frutto di demenza in fase avanzata o di gravi traumi acquisiti.

Silvia Candido, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La crescita dei pazienti affetti da demenza: i dati

Il 4 novembre 1906 il neurologo tedesco Alois Alzheimer, presentava a Tubingen il caso di Auguste D. La signora soffriva di una grave forma di demenza progressiva, e nell’anno successivo, il caso venne descritto in un articolo scientifico.

Dalla rivista scientifica “Lancet” sono impressionanti i dati epidemiologici che emergono: un nuovo caso ogni 7 secondi, in totale 24,3 milioni di malati che raddoppieranno ogni vent’anni, per raggiungere gli 81,1 milioni nel 2040.

Le uniche cause di morte in aumento sono la broncopneumopatia e la demenza, in particolare quella di tipo Alzheimer; quest’ultima rappresenta nello specifico l’ottava causa principale di tutta la popolazione in generale e addirittura la terza causa nella popolazione ultrasettantacinquenne. Sorprendente inoltre osservare che i tassi di mortalità di questa malattia si sono più che decuplicati negli ultimi 20 anni, e ciò non ha eguali con nessun’ altra patologia. Questo fenomeno non è dato da un reale aumento di occorrenza, ma dall’allungarsi della vita media e da un maggiore capacità da parte del personale medico di riconoscere e quindi diagnosticare la malattia, prima misconosciuta.

Questa preminenza della patologia Alzheimer non si limita solo agli aspetti quantitativi legati all’aumento assoluto delle persone affette, ma ha rilevanti implicazioni qualitative per l’autonomia funzionale delle persone anziane.

 

Le terapie per la demenza

Si sono raggiunti grandi progressi nella conoscenza dei meccanismi patogenetici, tanto che si conoscono meglio i meccanismi biochimici legati alla morte delle cellule nervose ma c’è ancora tanto da scoprire circa il traguardo che si vuole raggiungere ossia quello della cura e dell’assistenza, sia del malato che di chi lo assiste. Le evidenze portano a concludere che è necessario intervenire in termini diagnostici, terapeutici e riabilitativi. Ad oggi si dispone di una terapia farmacologica (benzodiazepine) di modesta efficacia sugli aspetti cognitivi della persona affetta, mentre da un punto di vista psicosociale si ricorre a un training cognitivo ossia a un allenamento dominio-specifico di tutte le funzioni cognitive a cui segue un guadagno in termini di abilità.

Nello specifico, di grande interesse è la cosiddetta stimolazione cognitiva che mira a rallentare il declino cognitivo in soggetti con demenza lieve/moderata, rinforzando la capacità di “riserva cognitiva” mediante l’apprendimento di specifiche strategie cognitive. Alla base di quest’intervento c’è l’idea che alcuni fenomeni sottostanti la plasticità cerebrale siano ancora parzialmente efficienti per cui mediante l’esercizio delle funzioni residue si cerca di protrarre nel tempo l’autonomia della persona e migliorarne la qualità della vita.

 

La stimolazione sensoriale

Un’altra importante frontiera è rappresentata dalla stimolazione sensoriale che per l’appunto va a lavorare sui sensi della persona e per cui non presuppone necessariamente l’esistenza di abilità cognitive; si utilizza infatti per lavorare con persone che hanno un grado di decadimento severo frutto di demenza in fase avanzata o di gravi traumi acquisiti.

Questo tipo di intervento nasce in Olanda negli anni ’70 per aiutare persone con disturbi dell’apprendimento al fine di ridurre gli effetti della deprivazione sensoriale, da un’idea di Hans Hulsegge e Ad Verheul. Identificano il termine Snoezelen, composto da due verbi: “snuffelen” ossia cercare fuori o esplorare e “doezelen” ossia rilassare o sonnecchiare. Il trattamento infatti avviene in un ambiente multisensoriale, in cui vista, tatto, udito, odorato e gusto sono stimolati e ciò permette di “raggiungere” le memorie più antiche, più profonde, emozioni e ricordi relativi al sé e non al ruolo svolto nella vita (informazione quest’ultima che necessita di una capacità di elaborazione cognitiva). Si parla dunque di stimolazione sensoriale controllata, usata con persone con gravi disabilità intellettive che vengono esposte ad un ambiente “calmante” e “stimolante” chiamato Snoezelen Room (o per l’appunto stanza di stimolazione multisensoriale) che utilizza effetti luminosi, suoni, musiche, profumi, superfici tattili e forme e stimoli gustativi.

La tecnica favorisce il rilassamento e la stimolazione e prevede l’assenza di attività legate a emozioni fallimentari, la non direttività.

Ad oggi, sono disponibili diversi studi in letteratura sull’uso della metodologia Snoezelen come strumento terapeutico. Si è visto che a seguito di sessioni di stimolazione multisensoriale si rileva una riduzione dei comportamenti non adattivi, con un’incentivazione di quelli positivi (Baker 2001; van Diepen 2002; Hope 1998; Long 1992); viene facilitata la comunicazione e l’interazione con persone che hanno evidenti difficoltà linguistico-espressive (Spaull 1998); promuove umore e stati affettivi positivi (Baker 2001; Cox 2004; Pinkney 1997) ed infine si riscontra una diminuzione dello stress nei caregivers, sia formali che informali (McKenzie 1995; Savage 1996).

La tecnica utilizzata è risultata appropriata anche nell’ottica di diminuire l’utilizzo di farmaci al bisogno per la gestione dei problemi comportamentali. Si è visto infatti che favorisce l’addormentamento e il riposo e aiuta l’approccio ai pasti, con conseguente riduzione della contenzione fisica (Champagne e Sayer, 2003).

A tal proposito, è possibile pensare ad un approccio Snoezelen nelle persone con demenza, in quanto si basa sull’uso di stimoli “non sequenziali” e “non eccessivamente strutturati”; questo corrobora il fatto che non sono necessarie delle competenze particolari e che si può utilizzare con persone che hanno un grave decadimento cognitivo, in quanto è richiesto un modesto impegno di risorse per la persona.

Uno studio in letteratura (Behavioral and Mood Effects of Snoezelen Integrated into 24-Hour Dementia Care; Van Weert, 2005) ha valutato gli effetti di un percorso di stimolazione multisensoriale in persone con demenza, residenti in una casa di cura. La stimolazione prevedeva l’utilizzo di una snoezelen room in cui vi erano presenti varie fonti luminose (tubo a bolle, proiettore di immagini, fibre ottiche), musica rilassante e/ o intermittente, poltrone scintillanti e letti vibranti, diffusore di essenze profumate, pannelli interattivi, ecc. Al termine del ciclo di stimolazione, le persone che avevano ricevuto un’assistenza basata sulla stimolazione multisensoriale mostravano un “miglioramento” significativo dei seguenti sintomi comportamentali: apatia, trascuratezza, oppositività (o comportamento ribelle), aggressività e depressione.

Durante l’assistenza del mattino il gruppo sperimentale mostrava miglioramenti significativi sul benessere (umore, serenità, allegria, tristezza) e sui comportamenti adattativi (risposta alle domande, relazione con il caregiver, interazione con l’ambiente). L’assistenza basata sui principi della Snoezelen sembra avere dunque un effetto positivo in particolar modo sul comportamento disturbante e rinunciatario.

In sintesi l’approccio snoezelen permette di gestire i disturbi comportamentali, favorisce il rilassamento, il contatto e la relazione interpersonale, promuove il benessere e la riattivazione della persona. L’operatore dunque si adegua alle forme e alle modalità di comunicazione della persona, è un partner pienamente prova di inserimento testo coinvolto nell’azione in quanto è colui che interagisce e aiuta la persona a interagire con gli oggetti presenti, è la sua guida coscienziosa. è inoltre aperto ai segnali che sono inviati e incoraggia la libera scelta della persona.

Piccoli risultati positivi sulla cognitività e sul comportamento possono condizionare importanti risultati a lungo termine per quanto riguarda la disabilità, la sopravvivenza e la qualità di vita delle donne e degli uomini affetti da demenza o con gravi traumi acquisiti.

Emerge quindi l’importanza di sperimentare sempre nuove modalità d’interazione e di stimolazione con persone che presentano deficit a livello cognitivo e disturbi comportamentali tali da non permettere la “normale” espressione di sé e dei propri bisogni. La stimolazione sensoriale a tal proposito, sembra essere un’ottima modalità d’intervento che ha molteplici ripercussioni, sia a livello comportamentale che sulle modalità d’interazione, soprattutto in ambienti che richiedono un gravoso carico assistenziale.

Il sapore del successo (2015) – Cinema & Psicoterapia

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #38

Il sapore del successo

Diretto da Jhon Wells, con Bradley Cooper, Sienna Miller, Omar Sy, Riccardo Scamarcio, Emma Thompson, Uma Thurman.

 

Il sapore del successo: Arrivare a certi livelli può essere difficile e per farlo si può diventare una persona sgradevole. Uno chef, come tante altre persone che lavorano duramente, può passare al lato oscuro molto facilmente. Arroganza, ribellione, presunzione, si combinano con ricerca del nuovo, passione e ambizione e il mix può distruggere. L’auto esilio in uno stato di vuoto terrifico rappresenta un evitamento, un isolamento da un mondo ostile, incapace di riconoscere il talento, la grandiosità, l’eccellenza.

 

Trama de Il sapore del successo

Un noto chef dopo il fallimento del proprio ristorante a Parigi scompare per tre anni. Alcool e droga riempiono la sua vita. Si trasferisce a New Orleans, dove sguscia ostriche dalla mattina alla sera. Decide di rimettersi in gioco in un ristorante di Londra di proprietà di un suo vecchio amico, Tony.
Cercherà la collaborazione di un team di chef, tra cui Max e Michel suoi vecchi amici e l’affascinante e brava Michelle. Dovrà confrontarsi, però, con Reece che è riuscito ad ottenere la terza stella Michelin.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER:

 

Motivi d’interesse

Arrivare a certi livelli può essere difficile e per farlo si può diventare una persona sgradevole. Uno chef, come tante altre persone che lavorano duramente, può passare al lato oscuro molto facilmente.

Arroganza, ribellione, presunzione, si combinano con ricerca del nuovo, passione e ambizione e il mix può distruggere. L’auto esilio in uno stato di vuoto terrifico rappresenta un evitamento, un isolamento da un mondo ostile, incapace di riconoscere il talento, la grandiosità, l’eccellenza.

La sicurezza di sé e la consapevolezza del talento distanziano dagli altri.
Nella vita, tuttavia, c’è sempre una seconda occasione e il ritorno di Bradley Cooper ai fornelli lo testimonia. Dall’esperienza è necessario, però, apprendere e non è certo facile per chi si crede speciale. E’ facile ricadere e tornare a recitare lo stesso copione. Una psicologa (Emma Thompson) cercherà di aiutare lo chef a riconquistare la fiducia in se stesso e delle persone che ha deluso. Il fallimento tormenta Adam Jones e gli impedisce di cambiare fin quando riuscirà a liberarsene lavorando con la sua squadra, cooperando e valorizzando i talenti e le capacità di ognuno.
A quel punto arriveranno persino le tre stelle della Michelin e lo chef finalmente si accomoderà a mangiare nello stesso tavolo con i suoi collaboratori.

 

Indicazioni di utilizzo

Il film propone stati mentali e cicli interpersonali del narcisista. La visione come home work può essere utile per discuterne con i pazienti.

Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Carl Gustav Jung e l’Ombra

Secondo Jung l’Ombra è vicina all’uomo e ne cela l’inaccettabile; l’Ombra, la figura proiettata sulla parete, che insegue l’individuo anche quando si allontana, è uguale nella forma ma opposta nei movimenti e direzione. L’Ombra è qualcosa che esiste solo in presenza della luce, poiché un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha Ombra. Luce e Ombra sono quindi considerati come metafore del Bene e del Male, Positivo e Negativo.

 

L'”Ombra” nella psicoanalisi di Jung: la faccia oscura di sè inaccettabile

La psiche umana è “una totalità conscia e inconscia allo stesso tempo”. La coscienza individuale (che è il prolungamento di quella collettiva) è indissolubilmente legata e stabilisce un rapporto di reciproca interazione con l’Io; quest’ultimo ha un posto di estremo rilievo nella totalità della psiche e assume la funzione fondamentale di rapportarsi col mondo interiore e con quello esterno.

Jung, nelle sue teorizzazioni, non parla quindi di Doppio, ma introduce nella psicologia analitica il concetto di “Ombra“, che classifica anche come archetipo.

L’Ombra è vicina all’uomo e ne cela l’inaccettabile; l’Ombra, la figura proiettata sulla parete, che insegue l’individuo anche quando si allontana, è uguale nella forma ma opposta nei movimenti e direzione. L’Ombra è qualcosa che esiste solo in presenza della luce, poiché un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha Ombra. Luce e Ombra sono quindi considerati come metafore del Bene e del Male, Positivo e Negativo. Gli aspetti della natura istintiva dell’uomo che, per incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute e si uniscono a formare nell’inconscio una personalità parziale relativamente autonoma.

Soprattutto attraverso i sogni, il soggetto viene messo in contatto con questi aspetti della propria personalità che, per varie ragioni, egli tende a ignorare o a disconoscere. L’uomo civile tende a dimenticare la sua faccia oscura, convinto che essa appartenga ad uno stadio infantile, passato. Ma nonostante la sua dimensione sociale, civile, secondo Jung nel nostro intimo siamo tutti dei primitivi. C’è una parte nell’uomo che non gli permette realmente di rinunciare alle sue origini e un’altra che, invece, gli conferisce la sensazione di aver superato da tempo una simile fase. Quest’altra parte è la coscienza che, formatasi e distaccata da quello stato primitivo, selvaggio, incosciente, rende quest’ultimo oggetto, altro da sé, degno di critica e disprezzo.

 

La proiezione dell’Ombra sugli altri o la sua scissione dalla Luce

Un soggetto è spinto, poi, a scorgere negli altri quegli impulsi, quelle mancanze e quei difetti che in realtà sono suoi (appartengono alla sua Ombra) e che egli nega di possedere. Il riconoscimento dell’Ombra, quindi affrontare il proprio negativo, accettare che il Male può essere presente anche dentro di noi, non proiettarlo solo all’esterno, su altre persone, ma accettare la propria intima natura duale, sembra essere la meta desiderata, il risultato di ogni efficace processo di individuazione.

Dato che essa è però per la gran parte inconscia, sarà necessario ricorrere all’analisi del materiale onirico per portare progressivamente alla luce gli aspetti inferiori e nascosti della personalità. Naturalmente questo processo potrà dare all’inizio esiti negativi o comunque difficili. Spesso può accadere che, durante questa fase di riconoscimento dell’Ombra, l’Io non riconosca questa sua parte oscura.

L’immediata conseguenza è il rifiuto più o meno totale della propria Ombra. In questo caso si verifica una scissione. Incapace di riconoscerla e quindi di integrarla in sé, l’Io allontana la propria Ombra, la condanna a vivere un’esistenza autonoma, senza alcuna relazione con il resto della personalità. Facendo questo, però, l’Io conduce una vita psichica parziale, ridotta solo alla parte in luce della sua psiche. E’ proprio questo il processo che porta alla nascita della maggior parte delle tipologie di Doppio. Pensare di non possedere l’Ombra è semplicemente un’idea infantile e la maggior parte di coloro che la rifiutano sono perfettamente consapevoli di questo. Solo nell’oscurità più completa si può non avere l’Ombra. La luce che mi permette di conoscere completamente la mia psiche, inevitabilmente mi mette di fronte anche alla mia Ombra. Ciò che mi appare oscuro e minaccioso, in realtà non fa solo parte di me ma mi definisce, mi circoscrive, in qualche maniera mi dà forma, mi identifica e mi caratterizza. Per Jung solo l’Ombra occultata e allontanata risulta realmente minacciosa, l’Ombra riconosciuta e accettata, invece, è positiva, stimolante e fonte di nuova energia psichica.

La Psicoterapia Cognitiva tra Linee Guida e Protocolli

C’è stato un importante evento SITCC Lombardia in questo fine-settimana che noi del Direttivo SITCC Lombardia vorremmo condividere con voi. Sabato 21 gennaio all’Hotel Madison di Milano si è svolto il Seminario “Psicoterapia Cognitivo comportamentale: tra protocolli e linee guida“. Relatori erano Riccardo dalle Grave, Giuseppe Nicolò e Saverio Ruberti. I membri del Direttivo, Francesco Centorame, Laura Fortunati e Giovanni M. Ruggiero, hanno promosso questa giornata e hanno fatto in modo che non solo avvenisse ma che fosse soprattutto un successo.

Francesco Centorame, Laura Fortunati e Giovanni M. Ruggiero – Direttivo SITCC Lombardia

 

La CBT-E e l’aderenza ai protocolli

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Riccardo Dalle Grave, responsabile dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della casa di Cura Villa Garda, ha raccontato la sua originale attività di formatore e supervisore della terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) per i disturbi dell’alimentazione sviluppata da Christopher Fairburn. Il nocciolo del suo intervento è mostrare nella pratica clinica le difficoltà di applicazione reale di un protocollo concepito in ambiente universitario. L’operazione di Riccardo rende chiari gli ostacoli ma dimostra anche la sua fattibilità. Lo sforzo di aderenza si rispetta non attraverso una accentuazione della rigidità, di per sé dannosa, ma con un incremento dell’attività di formazione, supervisione e intervisione non generica, ma focalizzata sulle procedure. Molto chiaramente sono stati esposti, nell’intervento di Riccardo, anche i rischi di deterioramento di una pratica clinica abitudinaria, fenomeno osservabile proprio negli operatori più esperti e inclini a fidarsi della propria perizia clinica.

 

Tra pratica privata e servizio pubblico: l’importanza di linee guida applicabili

nicolo-ruberti-seminario-sitcc-lombardiaSulla stessa falsariga ha proseguito Giuseppe Nicolò, nella sua doppia veste di psicoterapeuta privato presso il III Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma che di Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 5 e Direttore dell’SPDC Colleferro. Giuseppe ha offerto il suo punto di vista unico sulle diverse caratteristiche che assume l’applicazione della psicoterapia cognitiva nel servizio pubblico e nel privato. Giuseppe ha particolarmente insistito sulla necessità di attenersi a linee guide che si rifacciano a prove di fatto. A differenza di Riccardo, ha maggiormente sottolineato la necessità di linee guida realistiche piuttosto che di veri e propri protocolli, strumenti al momento troppo complessi da eseguire in ambiente pubblico. Tuttavia ha anche sottolineato la necessità di avvicinarsi il più possibile a pratiche cliniche supportate da prove di fatto.

 

I rischi di un applicazione rigida dei protocolli nel servizio pubblico

Saverio Ruberti ha proseguito il discorso, ulteriormente insistendo sulla maggiore applicabilità clinica di linee guida realistiche e in grado di non schiacciare la sensibilità clinica. Anche Saverio vanta una doppia esperienza, essendo sia psicoterapeuta sia direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST (Azienda Socio Sanitaria Territoriale) Nord Milano. Saverio si è mostrato particolarmente sensibile ai rischi di una applicazione rigida dei protocolli di terapia e li distingue dalle Linee Guida che consentono di praticare interventi controllabili in maniera più flessibile.

 

L’importanza di supervisione e intervisione per l’aderenza alle linee guida

Nella discussione finale i vari interventi hanno sottolineato i punti di forza delle varie relazioni. Il realismo clinico delle linee guida è sicuramente da non trascurare, come ha detto Saverio Ruberti. Tuttavia al momento il rischio di un irrigidimento in Italia appare ancora lontano e forse dobbiamo prendere più coscienza delle difficoltà di apprendimento delle abilità necessarie a ottenere una buona e diffusa aderenza almeno alle linee guida, se non ai protocolli. In particolare, le attività di intervisione e supervisione reciproca focalizzate sull’aderenza potrebbero essere maggiormente promosse.

Volontariato in adolescenza: un fattore di protezione contro i reati?

I ricercatori del College of Public Health dell’Università dell’ Iowa hanno scoperto che i teenager che avevano partecipato ad attività di volontariato in adolescenza spontaneamente e senza costrizioni dagli adulti, avevano l’11% in meno di comportamenti illegali dai 18 ai 28 anni di età, rispetto ai teenager che non erano stati volontari.

 

Secondo lo studio, i soggetti che avevano fatto volontariato in adolescenza avevano anche il 31% di arresti in meno e il 39% in meno di condanne. Questo trend continuava quando i soggetti diventavano più grandi; i volontari riportavano il 53% in meno di arresti e il 36% in meno di condanne, tra i 24 e i 34 anni di età.

L’adolescenza è un periodo formativo durante il quale occorre la maggior parte dello sviluppo morale ed emotivo, e le esperienze di crescita personale, come il volontariato, potrebbero promuovere un senso di responsabilità sociale, valore di sé, e felicità che promuoverebbero lo sviluppo morale – sostiene Shabbar Ranapurwala, l’autore principale dello studio e membro della facoltà all’ UI College of Public Health e all’Università del North Carolina allo Chapel Hill – Questi individui, alla crescita, potrebbero diventare più fiduciosi in se stessi ed adulti responsabili che potrebbero non essere coinvolti in attività criminali, più di quanto non lo siano i non volontari – egli sostiene.

 

Il volontariato in adolescenza: lo studio del College of Public Health

I ricercatori hanno raccolto dati utilizzando il National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health. Più di 14.000 studenti  dal secondo anno di elementari al primo anno di medie, hanno risposto a delle domande nel 1994-1995 e di nuovo nel 2001-2002 e nel 2008-2009.

Veniva loro chiesto se avessero messo in atto comportamenti illegali, la maggior parte dei quali concernenti furti, violenza armata, abuso di droghe, frodi o partecipazione a gang.

Lo studio ha anche riguardato teenager che erano stati obbligati dagli adulti a fare attività di volontariato in adolescenza e veniva indagato quanto spesso essi avessero problemi con la legge una volta divenuti adulti. In questo caso, i ricercatori hanno scoperto un quadro più complesso. Coloro i quali erano stati obbligati a fare volontariato in adolescenza riportavano, in futuro, il 20% in più di comportamenti illegali tra i 18 e i 28 anni, e il 10% in più tra i 24 e i 34 anni,  rispetto ai soggetti che non avevano fatto attività di volontariato in adolescenza.

Carri Casteel, professoressa associata di salute ambientale e salute sul lavoro nell’UI College of Public Health e co-autrice dello studio, sostiene che i ricercatori siano insicuri sulle cause di questo risultato; il database non includeva informazioni rilevanti per la comprensione del fenomeno. Tuttavia, l’autrice sostiene che ciò potrebbe dipendere dal tipo di attività di volontariato alle quali i teenager prendevano parte e dalla quantità di tempo che essi impiegavano in queste attività.

Quelli che compiono attività di volontariato spontaneamente, potrebbero compiere diverse attività e avere dei risultati differenti rispetto ai soggetti che sono inviati a fare volontariato, poiché i primi possono scegliere le attività da compiere – dichiara la Casteel.

Tuttavia, i ricercatori hanno trovato un decremento simile negli arresti e nelle condanne tra coloro i quali erano obbligati a fare volontariato in adolescenza dagli adulti, rispetto a coloro i quali facevano spontaneamente i volontari, nonostante il precedente incremento riferito dei comportamenti illegali. Lo studio, infatti, ha riportato che i volontari obbligati dagli adulti avevano il 37% in meno di arresti e il 29% in meno di condanne rispetto ai non volontari, tra i 18 e i 28 anni, e il 29% in meno di arresti e il 19% in meno di condanne tra i 24 e i 34 anni.

Curare il sé traumatizzato: il contributo di Ruth Lanius

Il 24 e il 25 febbraio Ruth Lanius tornerà a Milano per il workshop dal titolo “Momenti Cruciali nel Trattamento del Trauma: Verso l’Integrazione del Sé”: sarà l’occasione per esplorare insieme a lei le sfide che questo tipo di disturbi pongono sia ai terapeuti che ai pazienti, in perenne lotta con una dolorosa frammentazione interna.

 

Un grande contributo alla comprensione e alla cura del trauma è stato dato negli ultimi 10 anni da Ruth Lanius, professoressa di psichiatria, direttrice dell’unità di ricerca sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presso la University of Western Ontario e autrice di numerose pubblicazioni sul tema del trauma e dei trattamenti evidence-based per la cura dei disturbi post-traumatici e dissociativi.

Il 24 e il 25 febbraio tornerà a Milano il workshop dal titolo “Momenti Cruciali nel Trattamento del Trauma: Verso l’Integrazione del Sé”, organizzato, come nel 2015, dal Btl Workshop, e sarà l’occasione per ascoltare di nuovo il contributo clinico di Ruth Lanius e per esplorare insieme a lei le sfide che questo tipo di disturbi pongono sia ai terapeuti che ai pazienti, in perenne lotta con una dolorosa frammentazione interna.

 

Ruth Lanius: la traumatizzazione cronica nella vita quotidiana

La traumatizzazione cronica può infatti compromettere la capacità di una persona di vivere consapevolmente nel presente, poiché gli effetti del trauma possono manifestarsi  più o meno intensamente nella vita quotidiana attraverso difficoltà nel regolare emozioni intense, flashbacks, derealizzazione, depersonalizzazione, ottundimento, autolesionismo, esperienze di essere “fuori dal corpo”, fino a veri e propri stati dissociativi.

Questo rende difficile svolgere le normali attività quotidiane ed è per questo che risulta molto efficace per questi pazienti acquisire, attraverso un percorso di cura specializzato, innanzitutto strumenti quotidiani di gestione della dissociazione e successivamente metodi che li aiutino lentamente a “re-integrare” aspetti di sé in conflitto, a recuperare una coscienza di sé piena e completa, insieme ad una narrazione della propria storia priva di discontinuità e amnesie; solo l’integrazione di funzioni e aspetti di sé tenuti separati dal trauma può ridurre i sintomi legati alle riattivazioni traumatiche e al re-enactment, molto frequenti in questi pazienti.

 

Healing the Traumatized Self di Ruth Lanius

Uno degli ultimi importanti contributi scientifici di Ruth Lanius è stata la pubblicazione, prossima anche in Italia, del volume Healing the Traumatized Self (Frewen, Lanius, 2015). Il focus del manuale, introdotto con entusiasmo da David Spiegel e Bessel van der Kolk, è offrire ai clinici strumenti utili per orientarsi nello spettro complesso di sofferenze che i pazienti traumatizzati portano in terapia, attraverso la presentazione del modello quadridimensionale di classificazione dei sintomi post traumatici.

Le ricerche condotte negli ultimi anni, sono nate infatti dall’esigenza di definire meglio proprio il concetto stesso di dissociazione in cui finiscono per essere incluse molte differenti sindromi, generando confusioni sia diagnostiche che cliniche (Lanius, 2015). Il DSM-5 ha permesso di affiancare per la prima volta i disturbi dissociativi ai disturbi correlati a stress ed eventi traumatici, sottolineando finalmente il legame tra trauma e dissociazione, ma con il loro Modello a 4 dimensioni gli autori del libro, Paul Frewen e Ruth Lanius, propongono un ulteriore approfondimento; il loro modello offre cioè la possibilità di collocare i sintomi lungo un continnuum tra una normale attività cosciente (Normal waking consciousness, NWC) e la presenza di stati alterati di coscienza legati al trauma (trauma-related altered states of consciousness, TRASC), attraverso l’utilizzo di 4 dimensioni principali: tempo, pensieri, corpo, emozioni (vedi fig.1).

curare il Sé traumatizzato: il contrbuto di Ruth Lanius

Fig. 1 – Modello quadridimensionale di Lanius e Frewer. Le parti in rosa indicano gli stati NWC, normali alterazione dello stato di coscienza, mentre le parti in arancione descrivono alterazioni di coscienza trauma correlate.

 

Osservare la dimensione tempo permette, ad esempio, di differenziare tra flashback intrusivi che portano a rivivere letteralmente il trauma (TRASC) e ricordi intrusivi che generano angoscia (NWC); rispetto alla dimensione dei pensieri è importante distinguere, ad esempio, tra le presenza di voci e allucinazioni uditive (TRASC) e la persistenza, seppur disturbante, di una ruminazione negativa e ricorrente su di sé espressa in prima persona (NWC).

Ancora, l’osservazione della dimensione corporea può aiutare a distinguere tra uno stato di depersonalizzazione (TRASC) e uno stato di iper-arousal (NWC) e infine rispetto alla dimensione emotiva sarà importante distinguere, ad esempio, tra stati di ottundimento/numbing (TRASC) e uno stato emotivo depressivo, quand’anche  generale e pervasivo (NWC). Ognuna di queste dimensioni può aiutare a definire meglio le caratteristiche dei sintomi più difficili da intercettare e ovviamente le dimensioni non si escludono tra loro, ma possono aiutare proprio se considerate insieme. Ad esempio la depersonalizzazione può colpire una sola dimensione, il pensiero, o anche il corpo o una parte del corpo, risultando un sintomo più o meno pervasivo e generalizzato.

 

Attaccamento e trauma

Oltre alla concettualizzazione di questo modello, il lavoro di Ruth Lanius negli ultimi anni si è focalizzato sulla validazione dei trattamenti più efficaci proprio nei casi di traumatizzazione cronica, offrendo contributi scientifici sull’efficacia del neurofeedback nella cura della disregolazione emotiva (Lanius, 2016) e continuando ad approfondire sin dal 2010, anno di pubblicazione del suo importantissimo manuale “The Impact of Early Life Trauma on Health and Disease: The Hidden Epidemic” (di Lanius, Vermetten, Pain), l’impatto di traumi relazionali legati ad esperienze precoci e negative di attaccamento sullo sviluppo cerebrale infantile e dunque sulla possibilità di causare sindromi post traumatiche e psicopatologia in età adulta (Lanius, 2013). Lo stile di attaccamento familiare e la capacità delle figure di accudimento di tenere confini relazionali adeguati, sembra infatti avere un impatto significativo sulla costruzione di una identità propria e integrata a causa dell’influenza che l’assenza di confini ha sulle stesse funzioni cognitive responsabili della costruzione della memoria episodica o autobiografica (Lanius, 2016).

Questi risultati evidenziano come l’impossibilità di costruire una narrazione congrua, ricca e completa della propria storia, impedisca ai pazienti traumatizzati di percepire un senso profondo e stabile della propria identità e ostacoli la possibilità di sentirsi individui in evoluzione con un passato chiaro, un presente percepito come reale e un futuro da costruire.

Curare il sé traumatizzato allora passa da un lento e preciso lavoro di integrazione, che necessita di una comprensione profonda dei processi neurobiologici e fisiologici che i traumi vanno ad alterare, di strumenti di cura appropriati ed efficaci, ma anche della capacità di restare sintonizzati in terapia sull’esperienza emotiva che i pazienti portano, offrendo un modello di attaccamento sicuro, in grado di promuovere un legame nuovo e caratterizzato da confini relazionali chiari e stabili, in un contesto sicuro e non giudicante, che aiuti a disinnescare le risposte di allerta lasciate in eredità dal trauma e permetta una ri-costruzione graduale ma autonoma della propria identità e della strada verso il futuro.

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