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Captain Fantastic (2016) e la gestione educativa dei figli – Recensione del film

Nel film Captain Fantastic il padre Ben è preparato a tutto, un vero supereroe; scala le montagne, caccia gli animali, conosce qualsiasi fenomeno della Terra e degli altri pianeti, ma rimane disarmato e spaesato di fronte alla sofferenza psicologica, allontanata e negata senza troppi sforzi.

 

Ben, protagonista del film Captain Fantastic, è un padre anticonformista ed eccentrico, un capitano eccezionale dal multiforme ingegno che istruisce e guida la famiglia in una foresta, rifiutando la contaminazione con la civiltà e gli altri esseri umani. Isolatosi spontaneamente, il protagonista alimenta e trasmette una vasta gamma di conoscenze attraverso un programma didattico rigoroso ed efficiente: dai corsi di caccia, agli sport estremi per passare all’attività fisica e alle immancabili nozioni relative a qualsiasi disciplina contemplabile.

I ragazzi dividono le giornate tra i libri e le attività all’aria aperta, non conoscono i computer e i cellulari, sono notevolmente più colti e addestrati rispetto ai coetanei, ma totalmente inesperti sul piano dei rapporti interpersonali.

Infatti nessuno di loro ha mai frequentato una scuola, coltivato amicizie o rapporti sentimentali, e in generale legami intimi alternativi alla famiglia, cruciali per il  contenimento e la crescita nonché l’integrazione e l’approfondimento di molteplici punti di vista su di sé e sull’esterno.

 

La sofferenza psicologica in Captain Fantastic

All’inizio i personaggi del film Captain Fantastic sembrano ignari della discrepanza esperienziale e conducono un’esistenza apparentemente amena e soddisfacente fino alla perdita di un membro che risucchia l’intero nucleo nello sconforto, nei conflitti, e infine nella confusione sull’utilità dell’educazione impartita in primis dal padre.

Il suicidio materno costringe così Ben a ristabilire l’equilibrio perduto a partire dalla diagnosi di depressione post-partum: le manifestazioni psicotiche della moglie intrise di contenuti aggressivi nei confronti dei figli e in generale il peggioramento del funzionamento intrapsichico e interpersonale mette in difficoltà il “Captain Fantastic” e la disciplina inflessibile, a tal punto da prendere provvedimenti drastici e contraddire i valori predicati con ostinata convinzione.

L’ospedale, l’équipe e i farmaci, da nemici integerrimi con le armi letali diventano improvvisamente la soluzione migliore di fronte all’incapacità di organizzare autonomamente la guarigione della compagna che con il suo disagio non riesce a regolare se stessa e il gruppo.

Ben è preparato a tutto, un vero supereroe, come si evince anche dal titolo del film Captain Fantastic; scala le montagne, caccia gli animali, conosce qualsiasi fenomeno della Terra e degli altri pianeti, ma rimane disarmato e spaesato di fronte alla sofferenza psicologica, allontanata e negata senza troppi sforzi.

Di conseguenza anche i figli conoscono Noam Chomsky alla perfezione, sanno discutere con arguzia sui fenomeni scientifici e letterari, affrontano con maestria le condizioni metereologiche avverse, ma restano confusi e basiti dall’ambiguità paterna che rigetta la società, e in preda alla disperazione non esita a contattarla, come un adolescente che si separa rabbiosamente dai genitori per poi tornare a chiedere aiuto, elogia la compagna e infine la lascia sola a percorrere l’abisso depressivo: l’inevitabile ritorno alla società con le regole diametralmente opposte a quelle della foresta, nonché la complessità della realtà, incrementano il disagio aprendo l’ingresso agli imprevisti difficilmente incastrabili con l’addestramento praticato nelle montagne.

 

L’educazione in Captain Fantastic

Dal punto di vista educativo, sono due i modelli preponderanti forniti dal film Captain Fantastic; i sei figli di Ben cresciuti all’aria aperta, saggi e allenati alle avversità, e i due figli di Harper, nonché nipoti del protagonista, allevati nell’America moderna e stereotipica, completamente disinteressati allo studio e appassionati di materialismo e consumismo. Da qui l’enorme divario che induce Ben ad evidenziare il livello culturale della figlia minore, la quale non conosce le grandi marche e i famosissimi videogiochi come i cugini, ma sa citare con accuratezza gli emendamenti della Dichiarazione dei Diritti, e Harper ad avanzare una riflessione sull’utilità di vivere nell’isolamento senza confrontarsi con altre menti, che, seppur meno brillanti, possono insegnare differenti modi di stare al mondo.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM

 

Le strategie educative esposte in Captain Fantastic sono chiaramente opposte ed estremizzate: nel mondo di Ben, la società è amministrata da lui per antitesi alla società dominante nella quale vive Harper, dove norme, idee e principi sono stabiliti dal macrosistema che influenza inesorabilmente i rapporti interpersonali e i processi intrapsichici, quello che per l’uno è la condanna dell’intelligenza e della creatività, mentre per l’altra, la pura normalità, la cornice che garantisce stabilità, condivisione e cooperazione.

Il confronto culturale tra la piccola Zaja e i cugini è di fatto l’esempio lampante servito con astuzia in Captain Fantastic per dimostrare il fallimento della modernità nel suscitare un interesse conoscitivo per il mondo, ma anche i metodi di Ben non sono esenti da limitazioni. Ne sa qualcosa Bo, il figlio maggiore che s’innamora di una ragazza dopo una rapida interazione, nulla di strano se si tratta di un adolescente “alle prime armi” che esce, conosce e si confronta con i coetanei, peccato che il giovane non ha mai sperimentato in prima persona una cotta, o affrontato l’argomento con qualcuno, così finisce per promettere l’amore eterno alla sua bella semisconosciuta, un gesto sincero ma totalmente inusuale e spropositato che ricorda le norme comportamentali ormai anacronistiche sul corteggiamento.

Bo assomiglia ad un uomo del passato piombato nel futuro, confuso dai processi impliciti che compongono i rapporti nell’attualità filtrati dall’evoluzione societaria e culturale: la strabiliante conoscenza non lo protegge, né prepara da tutto, appunto perché le situazioni sociali si apprendono attraverso la pratica e alla soglia dei vent’anni, un’età in cui dovrebbe essere ordinario collezionare contatti riavvicinati con il sesso di interesse, il giovane in questione si misura per la prima volta come partner proponibile, amplificando l’idealizzazione e confondendo una svista subitanea con l’amore matrimoniale, intimo e stabile.

Lo stesso Ben è costretto a confrontarsi con i limiti del fantastico addestramento: ordinare alla figlia di arrampicarsi sui tetti per recuperare il fratello in casa dei nonni si rivela una pessima strategia che rischia di mettere a repentaglio la sua vita, e demolire le certezze assolute di protezione, forza e invincibilità di fronte ad una situazione apparentemente semplice da gestire.

 

I processi di Separazione-individuazione del protagonista

È da qui che il protagonista di Captain Fantastic inizia ad affrontare un lutto nel lutto, separandosi anche dalla rigidità delle leggi di famiglia inventate e autogestite con efficienza fino a quel momento, rivisitandole e accettandone i difetti, senza, però, modificarle radicalmente. Verso il finale emerge un lieve cambiamento nella quotidianità che lascia intendere da una parte la stabilità dell’intramontabile disciplina, dall’altra il miglioramento di alcune condizioni di vita: detto altrimenti, l’esperienza ha portato il nucleo ad avvicinarsi lievemente alla civiltà e ad avviare la prima separazione-individuazione dalla famiglia, senza rinunciare nel complesso alla quotidianità condotta nella natura.

Ben è quindi un padre protettivo e innovativo che persegue un sogno condiviso con la compagna e i figli, ma ad un certo punto, qualcosa cambia nel nucleo e la moglie riflette sulla spendibilità di questa esistenza amena nella realtà: vivere emarginati dalla società è splendido ed estremamente creativo, ma rischia di disperdere la condivisione e la stabilità, pertanto quando i figli cresceranno, i bisogni cambieranno e comparirà la necessità di incontrare altri contesti, si troveranno inadeguati e spaesati.

Oltre alla protezione da un mondo avvertito come pericoloso e inaffidabile, emerge una disperata tendenza alla differenziazione dagli altri esseri umani che soccombono alla società invece di ribellarsi, un atteggiamento che ricorda l’adolescenza come fase evolutiva in cui la separazione-individuazione si pone al centro.

Dall’altra parte, però, non bisogna dimenticare l’inadeguatezza delle strategie testo nella famiglia di Harper nella quale si predicano il materialismo e il consumismo, la scuola è ritenuto un dovere costrittivo e raramente un’occasione per imparare, le attività creative essenziali per sviluppare le doti intellettive vengono così accantonate lasciando ampio spazio alle azioni perseguite dalla massa, come lo shopping, le uscite con i pari e i videogiochi.

Considerando l’originalità e l’adattamento come rispettivi prototipi degli stili forniti dal film Captain Fantastic, un’educazione “sufficientemente buona” integra entrambi gli elementi, stimolando le attività costruttive, come lo sport e la cultura, senza rinunciare all’incontro con la società. Il confronto con i pari si rivela indispensabile già a partire dall’infanzia al fine di esercitare le competenze sociali pertinenti con la fase evolutiva, senza dimenticare gli altri adulti, come gli insegnanti o gli istruttori, che potrebbero porsi come figure significative nell’esperienza.

Dislessia: come adattare le risorse glottodidattiche per l’apprendimento della lingua straniera

È evidente che l’ambiente scolastico, pur non causando il disturbo, ha comunque un ruolo fondamentale nel determinare l’adattamento dello studente con dislessia, il suo stato psicologico e la qualità del suo apprendimento finale. Lo studio di una lingua straniera pone lo studente con dislessia di fronte a sfide complesse, ma il disturbo non preclude affatto questo apprendimento. Spesso, gli scarsi risultati dello studente dipendono da una complessa rete di fattori socio-relazionali e didattici esterni al disturbo.

Valentina Lorusso, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

I Disturbi specifici dell’apprendimento

La dislessia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA). Questo acronimo si riferisce a un gruppo eterogeneo di condizioni che include, oltre alla dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia. I DSA interessano l’acquisizione e l’applicazione di abilità scolastiche, tra cui la lettura, la scrittura e il calcolo.

I DSA sono accomunati dall’assenza di deficit sensoriali e neurologici. Inoltre, chi ne soffre ha ricevuto opportunità scolastiche, sociali e relazionali ragionevolmente buone. Spesso i metodi didattici tradizionali non funzionano con i DSA, ma non possono comunque essere definiti causa del disturbo; casomai, un metodo didattico non adeguato può esasperare difficoltà pre-esistenti. Nei DSA, quindi, le difficoltà di lettura, scrittura e calcolo non possono essere attribuite a limitazioni degli organi di senso, a ritardo mentale o a condizioni ambientali sfavorevoli come assenza di scolarizzazione, grave trascuratezza o maltrattamento (De Grandis, 2007).

Per la natura delle abilità che coinvolgono, i DSA compaiono durante i primi anni della scuola primaria e rendono particolarmente faticoso e frustrante l’apprendimento, interferendo così con il proseguimento degli studi.
Siccome le abilità di lettura, scrittura e aritmetica hanno basi comuni, i DSA possono essere associati. È di solito presente una diagnosi primaria, mentre le altre difficoltà compaiono con intensità inferiore. In questi casi il disturbo, coinvolgendo abilità diverse, ha un impatto negativo maggiore sul percorso scolastico e sui progressi dell’alunno, soprattutto se gli insegnanti adottano esclusivamente metodi didattici tradizionali (Cornoldi, Zaccaria, 2011).

La dislessia evolutiva è una difficoltà selettiva della lettura e in Italia colpisce circa il 4% dei bambini in età scolare. Chi soffre di dislessia mostra capacità cognitive adeguate, come accertato dai test diagnostici.

 

L’apprendimento della lingua straniera da parte dei bambini con dislessia

L’apprendimento di una lingua straniera costituisce un compito particolarmente complesso e sconfortante per gli studenti dislessici (Crombie, 1997), come dimostrano le voci sia degli allievi che degli insegnanti. Le interviste agli studenti con dislessia mostrano come le difficoltà percepite in un contesto L2 siano estremamente eterogenee e varino sia per qualità che per intensità. Gli alunni della scuola primaria e secondaria infatti lamentano problemi in parte diversi, legati a compiti o abilità specifiche, come per esempio la memorizzazione, l’acquisizione del lessico, le abilità produttive, la riflessione metalinguistica e l’ambiente educativo in generale (Daloiso, 2014). Ogni alunno con dislessia presenta quindi, nonostante la diagnosi comune, difficoltà in parte diverse. Il fatto che l’impatto dei DSA sull’apprendimento delle lingue straniere vari da studente a studente complica l’adeguamento dei materiali didattici e la comprensione del disturbo da parte degli insegnanti.

I problemi nello studio in generale, e nell’acquisizione di una lingua straniera in particolare, sono estremamente pervasivi perché hanno effetti negativi non solo sull’apprendimento in sé, ma anche sul piano emotivo e relazionale (Nijakowska, 2010).

Uno studente dislessico può sicuramente imparare a parlare una lingua straniera, ma l’apprendimento del codice scritto rappresenta un ostacolo. Ciò è vero soprattutto per le lingue non trasparenti, come ad esempio l’inglese, che sono per loro stessa natura estremamente ambigue (De Grandis, 2007). L’italiano è una lingua piuttosto semplice da leggere, perché esiste una chiara corrispondenza tra grafema e fonema e lo stesso gruppo di lettere rappresenta quasi sempre lo stesso suono. Per questo motivo si possono leggere o scrivere correttamente anche parole nuove, mai viste o sentite in precedenza. Molte lingue straniere, per esempio il francese o l’inglese, hanno invece un’ortografia irregolare. In inglese, la relazione tra la rappresentazione grafica e il suono della parola è imprevedibile. Ci sono 26 suoni dell’alfabeto, 45 suoni diversi della pronuncia e circa 150 modi per trascriverli. Questa ambiguità ortografica rende molto complesso l’apprendimento per gli studenti italiani in generale, e quelli dislessici in particolare (De Grandis, 2007).

L’attenzione ai problemi relativi all’acquisizione dell’inglese come lingua straniera riveste un ruolo importante, perché ogni studente affronta questo apprendimento nel suo corso di studi. Come sottolinea Rondot-Hay (2006), gli studenti dislessici che imparano l’inglese sono in un contesto di relativa difficoltà rispetto ai loro compagni. Il processo di apprendimento sarà verosimilmente più lento, ma l’acquisizione della lingua straniera può avvenire con successo. Per quanto riguarda le difficoltà specifiche dell’inglese, Rondot-Hay individua nell’ortografia la barriera principale, con ricadute sulla lettura, la scrittura e la pronuncia dei vocaboli. Gli studenti con dislessia farebbero fatica rispetto alle consonanti silenti (listen, know), i dittonghi pronunciati diversamente (good-blood, mean-steady), le parole omofone (sea-see) e le parole omografe (read-read) (Rondot-Hay, 2006). Queste caratteristiche della lingua, rendono la sua acquisizione difficile per tutti, e per gli studenti con dislessia in particolare.

Anche l’acquisizione del lessico risulta problematica, perché gli studenti con dislessia fanno fatica a memorizzare le informazioni e a automatizzare alcuni processi, come ad esempio il recupero del lessico. Tali difficoltà sarebbero attribuibili a una inefficienza della memoria di lavoro (Reid, 2006).
Tuttavia, come più volte sottolineato, gli studenti con dislessia possono imparare una lingua straniera, quindi gli insuccessi scolastici non sono da attribuire a fattori interni al disturbo, quanto piuttosto a fattori esterni alla dislessia, come gli aspetti emotivo-motivazionali e il metodo didattico.

Da un punto di vista emotivo-motivazionale, gli studenti dislessici affrontano difficoltà nell’alfabetizzazione in lingua materna e tipicamente si aspettano di rivivere le stesse frustrazioni nell’apprendimento di una lingua straniera (Rondot-Hay, 2006). Questo atteggiamento scoraggiato e rinunciatario, tuttavia, non fa altro che rendere ancora più probabile il fallimento. Per altri studenti dislessici, invece, l’acquisizione di una lingua straniera può essere interpretata come una possibilità di riscatto dagli insuccessi scolastici precedenti. Tuttavia, questa rappresentazione è spesso poco realistica e destinata a dissolversi quando compaiono le prime difficoltà (Daloiso, 2014).

Le aspettative degli studenti con dislessia, rispetto allo studio della lingua straniera, costituiscono già un primo fattore da tenere in considerazione per l’interpretazione del loro modo di avvicinarsi alla materia, delle loro reazioni rispetto agli insuccessi e delle loro strategie di coping. Spesso, questi studenti hanno un atteggiamento di rassegnazione di fronte alle difficoltà che può apparire eccessivo, se si considera il singolo episodio di fallimento, ma che in realtà ha radici ben più lontane, perché è determinato dal continuo ripetersi di situazioni problematiche e negative. Una difficoltà contestuale a un compito di apprendimento viene interpretata alla luce dei fallimenti precedenti e, di conseguenza, lo studente si convince di essere senza speranza. Questo atteggiamento, noto come impotenza appresa, limita la spinta motivazionale allo studio della lingua straniera e rende meno probabili i progressi dello studente.

Nel contesto specifico dell’apprendimento di una lingua straniera, bisogna poi considerare il fenomeno dell’ansia linguistica (Nijakowska, 2010). Si tratta di uno stato ansioso particolare, perché si manifesta nel contesto di acquisizione di una lingua straniera, in presenza di particolari compiti linguistici che interferiscono con la dislessia, tra cui leggere ad alta voce, copiare dalla lavagna, partecipare a una conversazione o condividere i propri elaborati con la classe. È facile immaginare come la lettura di fronte alla classe, essendo l’abilità di lettura il bersaglio del disturbo, possa rappresentare invariabilmente per tutti gli studenti dislessici un compito particolarmente ansiogeno. Tuttavia, come già anticipato, ogni studente riferisce anche difficoltà secondarie più specifiche, per cui è necessaria una buona conoscenza dell’alunno per capire quali compiti lo mettano particolarmente a disagio, in modo tale da favorire un contesto di apprendimento meno imbarazzante e più piacevole. L’esposizione continua a prolungate situazioni ansiogene, infatti, ha come immediate conseguenze l’evitamento e il rafforzamento di una barriera emotiva rispetto allo studio, che impedisce l’acquisizione di nuove competenze (Nijakowska, 2010). Ancora una volta, lo studente non fa progressi perché, per reagire alla frustrazione, si sottrae al compito.

Se si considera quindi l’apprendimento scolastico come un complesso fenomeno che coinvolge non solo aspetti puramente cognitivi, ma anche relazionali ed emotivi, la pervasività della dislessia è tale da compromettere anche il benessere sociale e psicologico dello studente dislessico, soprattutto quando è impegnato in un compito arduo come l’acquisizione di una lingua straniera.

Spesso il contesto scolastico, invece di limitare le conseguenze socio-emotive, non fa altro che esasperarle. Ciò accade quando le difficoltà dei bambini dislessici vengono interpretate dagli insegnanti come forme di pigrizia, svogliatezza e mancanza di impegno. In questi casi, il rischio è che gli studenti facciano propria l’immagine negativa di sé e si convincano di non essere in grado di apprendere la lingua straniera, non impegnandosi dunque in questo compito (Cornoldi, Zaccaria, 2011; Nijakowska, 2010).

 

La sfida dell’accessibilità alle risorse glottodidattiche

È evidente che l’ambiente scolastico, pur non causando il disturbo, ha comunque un ruolo fondamentale nel determinare l’adattamento dello studente con dislessia, il suo stato psicologico e la qualità del suo apprendimento finale. Lo studio di una lingua straniera pone lo studente con dislessia di fronte a sfide complesse, ma il disturbo non preclude affatto questo apprendimento. Spesso, gli scarsi risultati dello studente dipendono da una complessa rete di fattori socio-relazionali e didattici esterni al disturbo.

Dopo aver analizzato gli aspetti emotivi del disturbo e la necessità di creare un clima piacevole e motivante per tutti, è opportuno affrontare il tema dell’accessibilità dei materiali didattici nel contesto dello studio di una lingua straniera.

Daloiso (2014) definisce l’accessibilità glottodidattica come un processo in cui le scelte metodologiche dell’insegnante hanno [blockquote style=”1″]lo scopo di garantire pari opportunità di apprendimento linguistico all’allievo con bisogni speciali, massimizzando l’accesso ai materiali, ai percorsi e alle attività didattiche sul piano fisico, psico-cognitivo, linguistico e metodologico.[/blockquote]

A scuola, l’apprendimento di qualsiasi lingua straniera avviene attraverso l’adozione di un libro di testo, che rappresenta la risorsa didattica principale. Alcuni insegnanti usano anche materiali cartacei o digitali scaricati dal web. In generale, le risorse cartacee sono considerate poco adeguate rispetto ai bisogni specifici degli studenti con dislessia, perché si basano esclusivamente sulla decodifica del codice scritto (De Grandis, 2007).

Tuttavia, adeguare gli strumenti didattici tradizionali non è affatto semplice. La progettazione di materiali glottodidattici universalmente accessibili dovrebbe basarsi sui principi teorici rispetto alle basi neuropsicologiche della dislessia, ma anche sul gradimento degli studenti. Attualmente, non esistono molti studi sistematici volti a indagare l’opinione degli alunni con dislessia rispetto alle risorse glottodidattiche impiegate a scuola, per cui l’adattamento dei materiali di apprendimento si fonda quasi esclusivamente su principi teorici, che non sempre si possono tradurre in altrettante applicazioni operative.

Alcune considerazioni di natura generale sulla dislessia porterebbero a pensare che sia opportuno privilegiare le abilità orali rispetto a quelle scritte ma, anche se autori esperti sui DSA in parte sostengono questo principio (Rondot-Hay, 2006), è pur vero che gli studenti con dislessia possono riscontrare difficoltà anche nella produzione orale. La ricerca dimostra infatti che gli alunni con dislessia fanno fatica a rendere automatiche alcune procedure (Reid, 2006), e questo è particolarmente evidente nei compiti che attivano diverse abilità linguistiche contemporaneamente. La comunicazione orale in lingua straniera richiede un certo livello di spontaneità e l’attivazione simultanea di varie sotto-abilità, come la comprensione, la produzione e il recupero del lessico in tempo reale (Daloiso, 2014). Di conseguenza, una didattica basata esclusivamente sulle abilità orali risulterebbe sicuramente incompleta, e comunque non adatta alle esigenze degli studenti con dislessia.

Un altro problema consiste nel fatto che gli insegnanti di lingua straniera, in assenza di linee guida attendibili, tendono a confondere l’adeguamento dei materiali con una eccessiva semplificazione dei contenuti. In questo modo privano lo studente con DSA della possibilità di acquisire le stesse competenze dei compagni, aumentando il divario che c’è con il resto della classe (Daloiso, 2014).

La pianificazione di strumenti compensativi e l’adattamento dei materiali tradizionali in risorse più accessibili dovrebbe partire da ricerche sistematiche rispetto ai punti di forza e di debolezza delle risorse didattiche utilizzate a scuola, raccogliendo in modo rigoroso le opinioni degli alunni con dislessia, per valutare l’effettiva fruibilità dei materiali. Questi dati rappresenterebbero una guida fondamentale per la creazione di nuove risorse didattiche accessibili, la cui progettazione è troppo spesso trascurata o lasciata all’intuito del singolo docente.

Il gruppo di ricerca DEAL, dell’Università Cà Foscari di Venezia (Daloiso, 2014), nel 2013 ha condotto uno studio in cui è stata raccolta l’opinione di 304 studenti con DSA, di diversa età e provenienza geografica, rispetto alle risorse glottodidattiche tradizionali e digitali, per lo studio della lingua straniera. I materiali didattici presi in esame erano il manuale della lingua straniera, le risorse audio e video e le espansioni on-line, ovvero i materiali didattici consultabili dal sito web della casa editrice.

In generale, gli studenti hanno dato un voto mediamente sufficiente al proprio manuale, ma hanno evidenziato alcuni punti di debolezza per quanto riguarda gli aspetti grafico-stilistici, l’organizzazione dei contenuti e le tipologie di esercizi. L’uso poco strategico del font, del colore e del grassetto rende poco accessibile il materiale agli studenti con DSA. Inoltre, gli intervistati hanno indicato che la sezione grammaticale è in assoluto quella meno fruibile, seguita dalle sezioni legate allo sviluppo della produzione orale e scritta. Queste parti sarebbero troppo dense di contenuti, con schemi, esempi e illustrazioni poco chiare. Nella percezione degli studenti, la sezione grammaticale sarebbe poco accessibile perché ha la pretesa di essere esaustiva e sintetica allo stesso tempo. Richiede inoltre uno studio prettamente mnemonico e poco riflessivo rispetto ai fenomeni grammaticali.
Le risorse audio-video sono state valutate come un buon strumento compensativo, perché attivano canali diversi dalla decodifica scritta e risultano quindi meno stancanti. Nell’opinione degli studenti, questi materiali offrono un modello linguistico corretto e permettono una gestione autonoma delle risorse, con possibilità di controllo della velocità della traccia e aggiunta di sottotitoli.

Le espansioni online sono un materiale molto eterogeneo, e spesso non fanno altro che ripetere i contenuti presenti sul libro stesso. Tuttavia, gli intervistati sostengono che queste abbiano una impostazione di solito più accattivante e propongano materiali multimediali che includono immagini, video e risorse interattive.

Un’informazione interessante riguarda il livello di integrazione dei materiali multimediali nella normale attività didattica. I giudizi negativi espressi dagli studenti non riguardano tanto la natura di queste risorse in sé, quanto il loro utilizzo in classe, che è spesso troppo limitato. Gli insegnanti farebbero dunque un uso quasi esclusivo del manuale cartaceo, dando poca importanza a risorse alternative che, nel caso degli studenti con dislessia, rappresenterebbero un valido strumento compensativo, sia per lo studio che per la valutazione.

Secondo il gruppo di ricerca DEAL, l’approccio ai materiali didattici prevede tre fasi, che richiedono abilità cognitive diverse: un primo contatto superficiale con il testo, la comprensione dei contenuti e l’applicazione delle nuove competenze.

Per facilitare il contatto visivo con il manuale dello studente con dislessia, sarebbe utile adattare gli aspetti grafico-stilistici del testo, aumentando il livello di leggibilità. Si tratta di un intervento superficiale, che lavora principalmente sulla presentazione grafica del materiale da apprendere, ma rappresenta una condizione indispensabile per il riconoscimento dei contenuti didattici e la loro successiva rielaborazione. A questo proposito, la British Dyslexia Association (BDA) ha pubblicato una guida con una serie di consigli per la creazione di testi accessibili.

Il lavoro di progettazione di risorse glottodidattiche più fruibili per gli studenti con dislessia richiede, tuttavia, anche revisioni più profonde dei materiali tradizionali, per facilitare le due fasi successive di rielaborazione dei contenuti didattici e applicazione di quanto appreso. Si tratta quindi di riorganizzare i contenuti del manuale di lingua, tenendo presente che gli studenti con dislessia privilegiano stili di apprendimento visivi non verbali, sfruttando quindi gli aspetti iconici del testo (Stella, Grandi, 2011). Per questo motivo, il manuale di lingua dovrebbe adattare la presentazione dei contenuti favorendo ausili iconici come i diagrammi di flusso, i grafici e le reti semantiche.

Gli studenti con dislessia riferiscono che la sezione grammaticale dei loro manuali di lingua è poco accessibile. Le regole grammaticali sono spesso sintetizzate attraverso tabelle, che sono di difficile comprensione per gli studenti con dislessia. A questo proposito, sarebbe più utile sintetizzare il materiale di apprendimento attraverso mappe multimediali in cui inserire parole-chiave, immagini o grafici.

Un altro aspetto interessante riguarda la memorizzazione del lessico. Le nuove parole presenti in una unità didattica sono di solito presentate sotto forma di elenchi in ordine alfabetico. Anche in questo caso, lo studente con dislessia farà fatica a orientarsi all’interno di questo materiale. Sarebbe opportuno stimolare l’apprendimento di nuovi vocaboli attraverso l’impiego di reti semantiche, nel quale vengono rappresentate sotto forma visiva le relazioni esistenti tra le parole. Per favorire l’aggancio mnemonico si potrebbero anche inserire immagini all’interno della rete semantica, soprattutto per le parole concrete.

Infine, i manuali di lingua hanno una parte pratica molto sviluppata, perché l’apprendimento di una lingua straniera non è una conoscenza esclusivamente dichiarativa, ma richiede che le abilità linguistiche vengano poi applicate in attività di comprensione e produzione orale e scritta. Un primo ostacolo riferito dagli studenti con dislessia consiste nella comprensione della consegna. A questo proposito, si fa riferimento a un uso strategico degli aspetti grafici del testo (colore o grassetto per evidenziare solo le parole-chiave della consegna). Una facilitazione, soprattutto per gli studenti principianti, potrebbe essere la presentazione della consegna nella propria lingua madre, per accertarsi che l’esercizio sia ben compreso.

Cos’è il Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva e come si valuta

Quando un decesso è avvenuto in modo inaspettato, violento o sanguinoso, o si è venuti a conoscenza di particolari cruenti del decesso, è possibile che si sviluppi un Disturbo da lutto persistente complicato. E’ la combinazione di stress traumatico e di dolore per la perdita che caratterizza questo disturbo.

 

Il lutto nei bambini e negli adolescenti

Il lutto è una delle esperienze più dolorose della vita.  Ciò nonostante, la maggior parte delle persone superano il trauma del decesso di una persona amata e continuano a vivere una vita soddisfacente e piena. Altri, invece, non riescono ad accettare la morte di un loro caro e sviluppano ricorrenti emozioni dolorose, tra cui senso di colpa, rabbia o rancore, e iniziano mettere in atto comportamenti di evitamento debilitanti (Horovitz, Siegel, Holen & Bonanno, 1997; Prigerson, Monk, Reynolds, Begley, Houck, Bierhals & Kupfler, 1995).

Bambini e adolescenti che hanno perso un membro della famiglia, una persona cara o una figura di riferimento chiaramente devono affrontare sfide uniche per la loro intensità e per la loro pervasività. Il bambino o il ragazzo si trova di fronte alla tristezza, al lutto e al dolore per la perdita di non avere più la persona amata nella propria vita.

Molti bambini perdono una figura importante durante l’infanzia e l’adolescenza, ma la maggior parte riesce a elaborare il lutto in modo salutare (Bonanno, Wortman, Lehman, et al., 2002; DeVaul & Zisook, 1976; Dopson & Harper, 1983; Zisook, Shuchter & Schuckit , 1985).

Con il termine lutto qui si definisce l’intensa emozione dolorosa che una persona prova per la morte di qualcuno di significativo (e.g., Mannarino & Cohen, 2011). Il lutto, anche se intenso, è una normale risposta alla perdita di una persona cara i cui sintomi non dovrebbero essere patologizzati (Bonanno, Moskowitz, Papa & Folkman, 2005; Bonanno, Wortman & Nesse, 2004; Bonanno, et al., 2002; Freud, 1917).

Con lutto non-complicato si intende il normale processo di lutto per la perdita di una relazione importante (e.g., Cohen, Mannarino & Deblinger, 2006). Alcuni autori paragonano la perdita a una caduta e il lutto al normale processo di guarigione delle ferite (e.g. Bowlby, 1980; Parkes, 1998; Engel, 1961). Questa condizione, nei bambini come negli adulti, ricopre per molti aspetti le caratteristiche di un Disturbo Depressivo Maggiore, caratterizzato da profonda tristezza, pianto, isolamento sociale, perdita di appetito, problemi del sonno, problemi scolastici e perdita di interesse nelle attività abituali (e.g., Mannarino & Cohen, 2011; Cohen & Mannarino, 2010; Cohen, et al., 2006).

I più piccoli potrebbero continuare a cercare la persona deceduta o a chiedere spiegazioni su cosa gli è accaduto. Come gli adulti, i bambini possono provare delle fitte di dolore per la perdita, delle improvvise e intense onde di dolore che sembrano arrivare dal nulla, sebbene, diversamente dagli adulti, queste nei bambini possono essere intermittenti. Appena dopo la perdita, i bambini infatti possono ridere o giocare, cosa che sconcerta gli adulti. Tuttavia, la natura intermittente è caratteristica degli stati affettivi in età evolutiva (Cohen & Mannarino, 2010).

 

Il Disturbo da lutto persistente complicato

Tuttavia, se il decesso è avvenuto in modo inaspettato, violento o sanguinoso, o il bambino è venuto a conoscenza di particolari cruenti del decesso, è possibile che si sviluppi un Disturbo da lutto persistente complicato (e.g., Cohen, et al., 2006). In questi casi, infatti, oltre a dover gestire il lutto, il bambino deve affrontare ed elaborare un evento traumatico. E’ proprio la combinazione di stress traumatico e di dolore per la perdita che caratterizza questo disturbo.

Il disturbo da lutto persistente complicato definisce il dolore per la perdita della persona cara accompagnato dai sintomi di stress per la separazione e per il trauma vissuto. Così come una ferita può andare incontro a complicazioni che portano a un’infezione e dolore prolungato, anche il “guarire” da una perdita può essere ostacolato da complicazioni che causano un periodo prolungato e persistente di lutto acuto (e.g., Shear, Simon, Wall, Zisook, Neimeyer, et al. 2011).

I bambini con disturbo da lutto persistente complicato sono incapaci di completare i compiti del processo di riconciliazione, perché il ricordo della persona cara tipicamente è un reminder del trauma, con il conseguente sviluppo di sintomi post-traumatici e spesso sintomi depressivi (Brown & Goodman, 2005; Cohen & Mannarino, 2004; Nader, 1997; Mehlem, Day, Shear, Day, Reynolds & Brent, 2004; Pynoos, 1992; Rando, 1996).

Sebbene già prima degli anni ’80 sia stato proposta una diagnosi di Lutto complicato (e.g., DeVaul & Zisook, 1976; Parkers, 1965; Horowitz, Wilner, Maramar & Krupnick, 1980; Horowitz, Bonanno & Holen, 1993; Marwit, 1991; Hartz, 1986; Horowitz, Siegel, Holen, et al., 1997), l’inserimento del disturbo da lutto persistente complicato nel Manuale Diangostico e Statistico dei Disturbo Mentali – DSM è recente. Nell’ultima edizione (i.e., DSM 5; American Psychiatric Association, 2014) è stato inserito nella sezione “Condizione che necessitano di ulteriori studi”, perché la Task Force e i Work Group del DSM 5 non ha rilevato dati sufficienti per giustificare la sua inclusione tra le diagnosi ufficiali di disturbo mentale. Infatti, la peculiarità delle condizioni in cui si può sviluppare un disturbo da lutto persistente complicato, rende difficile lo studio e la validazione statistica di questo disturbo (e.g., Mannarino & Choen , 2011).

Tuttavia, c’è una crescente mole di dati clinici significativi a favore dell’esistenza del disturbo da lutto persistente complicato soprattutto con gli adulti (Spuji, Reitz, Prinze, Stikkelbroek, de Roos & Boelen, 2012), ma anche con bambini e adolescenti (e.g., Boelen & Prigerson, 2012; Cohen & Mannarino, 2004; Dillen, Fontaine & Verhofstadt-Denève, 2009; Fashingbauer, Zisook & DeVaul, 1987; Mehlem, et al., 2004; Mehlem, Moritz, Walker, Shear & Brent, 2007; Spuji, et al, 2012). Ad esempio, in uno studio con adolescenti, amici e parenti di suicidii, Mehlem e colleghi (2004) trovarono che a 6 mesi dal decesso i sintomi riscontrati di ciò che loro chiamarono “lutto traumatico” includevano i sintomi della depressione e del Distrubo da Stress Post-Traumatico – DSPT.

In un altro studio con bambini orfani, i sintomi del disturbo da lutto persistente complicato erano associati a un deficit di funzionamento significativo oltre a depressione e DSPT (Mehlem, et al., 2007). Un più recente studio, conferma la validità della diagnosi di disturbo da lutto persistente complicato, evidenziando la differente sintomatologia presente in età evolutiva nel DSPT, nella depressione maggiore e nel disturbo da lutto persistente complicato (Spuji, et al,2012). Questo insieme di dati, che dimostra come i sintomi del disturbo da lutto persistente complicato siano qualcosa di più o almeno di diverso da quelli dovuti alla depressione e al DSPT, attestano la validità di questa diagnosi.

 

I sintomi del disturbo da lutto persistente complicato

Il DSM  5 (APA, 2014) definisce il disturbo da lutto persistente complicato la condizione in cui alla perdita di una persona con cui si ha una relazione stretta, l’individuo, manifesta una compromissione psicosociale significativa, anche dopo 12 mesi negli adulti e dopo 6 mesi nei bambini. Tale disagio clinico è dovuto o a una persistente nostalgia della persona persa (Criterio B1), o a un profondo e non gestibile dolore (Criterio B2), o a una forte preoccupazione per la persona deceduta  (Criterio  B4) o per il modo in cui la persona è deceduta (Criterio B4).

Per la diagnosi sono richiesti almeno altri 6 sintomi aggiuntivi suddivisi in due categorie: sofferenza reattiva alla morte e disordine sociale/dell’identità, che rispettivamente fanno riferimento alle difficoltà psicologiche di affrontare e gestire la risposta emotiva al lutto e le difficoltà nel mantenere un’identità psicosociale costante, non dissociata.

Secondo il DSM 5 (APA, 2014) nella diagnosi di disturbo da lutto persistente complicato si deve specificare se il lutto è avvenuto in una circostanza traumatica per l’individuo. Le caratteristiche distintive affinché un lutto sia definito traumatico sono un elevato grado di sofferenza durante il decesso e la natura dolosa (es.  omicidio) o intenzionale (es. suicidio) della  morte. Tuttavia, anche se non sono presenti queste caratteristiche “traumatizzanti”, la perdita di un caregiver primario può costituire di per sé una perdita traumatica per i bambini, visti gli effetti destabilizzanti e pervasivi che la sua assenza può comportare in  tutte le sfere della vita di un bambino (APA, 2014; Cohen, et al., 2006).

La caratteristica distintiva del disturbo da lutto persistente complicato con lutto traumatico è quella di rimanere “bloccati” negli aspetti traumatici del decesso della persona cara (e.g., Mannarino & Cohen, 2011). La persona, adulto o bambino, presenta contemporaneamente il dolore per la perdita, i sintomi connessi all’evento traumatico (i.e., DSPT) e sintomi depressivi.

Tra i sintomi del DSPT connessi al disturbo da lutto persistente complicato possono manifestarsi pensieri o immagini intrusivi e dolorosi circa l’evento traumatico che ha portato alla morte o persino la sensazione che l’evento riaccada continuamente. I bambini possono manifestare reattività fisiologica o sofferenza psicologica in risposta a reminder (fattori esterni – persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni- che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentiemnti relativi o strettamente associati all’evento/i trauamtico/i) della morte traumatica (e.g., Pynoos, 1992).

I sintomi di iperattivazione fisiologica manifestati (APA, 2007) possono includere:

  • Disturbi del sonno
  • Irritabilità o scoppi d’ira
  • Difficoltà di concentrazione
  • Eccessiva reazione d’allerta
  • Ipervigilanza

Come conseguenza, l’individuo affetto da disturbo da lutto persistente complicato mette in atto come strategie di coping l’evitamento comportamentale o un ottundimento emotivo circa la persona deceduta o tutto ciò che riguarda lei e le circostanze della morte (e.g., Mannarino & Cohen, 2011). I bambini con disturbo da lutto persistente complicato possono anche esperire un diminuito interesse nelle normali attività, sentendosi emotivamente distanti dagli altri, con una gamma di emozioni molto ridotta, o un senso di mancanza di prospettive future (e.g., Cohen, et al., 2006).

Spesso i bambini possono sviluppare la paura di morire nelle stesse circostanze della persona cara (Nader, 1997; Pynoos, 1992). Come conseguenza, possono cercare in tutti i modi di differenziarsi dal defunto contrapponendosi al normale processo di riconciliazione. Può manifestarsi anche la tendenza opposta, cioè il tentativo di identificarsi troppo fortemente e intensamente con la persona amata. Questo sembrerebbe un tentativo di evitare il dolore associato al normale processo di elaborazione del lutto (Nader, 1997).

I bambini possono, inoltre, sviluppare un forte senso di colpa per le circostanze in cui è morta la figura di riferimento o per essere sopravvissuti (e.g., Nader, 1997; Pynoos & Nader, 1990) e sentimenti di vendetta o rivalsa (Eth & Pynoos, 1985).

 

Test di assessment specifici per valutare il  disturbo da lutto persistente complicato

Sebbene vi sia una crescente attenzione nel riconoscere e definire il disturbo da lutto persistente complicato, ancora pochi studi hanno sviluppato strumenti psicodiagnostici standardizzati (Cohen & Mannarino, 2010; Mannarino & Cohen, 2011). Attualmente vi è un unico strumento diagnostico con validità statistica per la valutazione dei sintomi connessi specificatamente alla morte di un proprio caro per l’età evolutiva: l’ Expanded Grief Inventory (EGI). Questo strumento (Layne, Savjak, Saltzman & Pynoos, 2001) è costituito da 28 item che valutano la sintomatologia e le caratteristiche sia del lutto non complicato che del disturbo da lutto persistente complicato dai 7 ai 17 anni.  Rileva 3 fattori principali:

  • Connessione positiva: la capacità del bambino di avere ricordi e pensieri positivi circa il defunto
  • Lutto complicato esistenziale: valuta il vissuto di vuoto causato dal decesso
  • Evitamento e intrusioni traumatiche: i sintomi intrusivi traumatici nell’abilità del bambino di ricordare o avere sentimenti positivi circa il defunto.

Questo strumento esiste solo nella versione in lingua inglese.

Il Characteristics, Attributions and Responses to Exposure to Death – Youth version (CARED-Y) è invece un test composto da 39 item che fornisce informazioni sugli aspetti peritraumatici del decesso della persona così come informazioni sulla relazione del bambino con il defunto e la sua partecipazione al funerale (Brown, Amaya-Jackson, Cohen, Handel, Thiel de Bocanegra, et al., 2008).

Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi – Report dal Seminario con G. M. Ruggiero, Genova 10 Dicembre 2016

Perché ci preoccupiamo? Ci preoccupiamo perché vi sono dei rischi e si teme di non riuscire a tollerare la propria stessa ansia. Sabato 10 dicembre, presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova, l’ incontro “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” con il dott. Giovanni Maria Ruggiero.

 

Sabato 10 dicembre si è svolto a Genova presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il quarto e ultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova”. A parlare del “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” il dott. Giovanni Maria Ruggiero.

Partendo da una panoramica dei primi sviluppi della terapia di stampo psicanalitico di Freud, il dott. Ruggiero si è focalizzato su A. Ellis, fondatore della terapia cognitiva che inizia ad agire intorno agli anni ’50 del secolo scorso. I pazienti che prevalentemente trattava Ellis con una metodologia psicanalitica erano ansiosi. La sensazione di base di questi pazienti è quella di “non sentirsi protetti” e si può lavorare con loro in due modi: focalizzandosi sul passato (e questo lo fa anche la terapia cognitiva) oppure prestare attenzione al presente ovvero Ellis ritiene che il paziente si preoccupi poiché tende a sopravvalutare il pericolo a cui può andare incontro e sottovalutare la propria capacità di affrontarlo.

Quest’ultimo aspetto affonda le sue radici nella propria storia personale. I pensieri immediati che generano preoccupazione arrivano da un passato remoto e sono coscienti, ovvero possono essere trattati nel “qui ed ora” senza per forza capire da dove arriva tutta questa fragilità personale. Per Ellis già solo rivolgere la domanda al paziente: “Lei di che cosa è preoccupato?” “Qual è il pericolo che lei corre?” oppure “Quali sono le sue risorse?” è un’operazione terapeutica poiché si incrementa l’esame di realtà senza necessariamente scavare nel passato in quanto per molti pazienti ansiosi non è necessario farlo. Proprio perché in questo tipo di pazienti l’esame di realtà rispetto ai pericoli è alterato, possono trarre giovamento incrementandolo attraverso una focalizzazione su che cosa li preoccupa all’interno di uno stato di preoccupazione che essi percepiscono come generico.

Negli anni sessanta del secolo scorso, A. Beck raffinò questo tipo di terapia e la rese elettiva per il disturbo d’ansia e adatta alle diagnosi psichiatriche di questi stessi disturbi, consentendone una più precisa classificazione. La persona ansiosa ha comunque una sua storia di ambiente familiare ansioso che gli è stata trasmessa durante l’infanzia. In termini relazionali l’ansioso è una persona che si sente poco protetta, si sente fragile come anche la persona depressa. La sostanziale differenza tra i due però è che mentre la persona ansiosa teme di perdere l’amore, il depresso è “senza amore”, ha avuto un ambiente affettivo-relazionale freddo, distanziante, desertico, da qui ne ricava che la vita non ha senso. In questo senso la terapia si colloca come un’esperienza emotivo-affettiva tra paziente e terapeuta che aiuta il paziente ansioso ma anche il paziente depresso ad acquisire un miglior esame di realtà.

Il trattamento cognitivo in Italia lo portò C. De Silvestri, la cui base è il disputing che non è una discussione con il paziente in cui l’operatore deve “aggiungere” qualcosa di intelligente per mostrare al paziente il suo errato esame di realtà ovvero non bisogna dare un’idea migliore che gli consenta di esaminare la realtà bensì incoraggiarlo a mettere in discussione ciò che pensa. Una volta individuati questi pensieri lo si invita ad allenarsi durante la settimana: deve riconoscere le situazioni in cui mette in atto questi pensieri disfunzionali, individuarli e poi attivamente metterli in discussione provando a valutare se non è possibile pensare qualcosa di diverso.

Il dott. Ruggiero si è poi soffermato sulle spiegazioni dell’origine dell’ansia che possono essere di diversa tipologia: evolutiva immediata, cioè sopravvalutazione dei pericoli e sottovalutazione delle proprie capacità personali;  evolutiva nel passato: aver avuto un’esperienza di crescita in cui si ha sperimentato una sensazione di pericolo (genitori preoccupati); evolutiva poiché nel cervello rettiliano le informazioni che si utilizzano non sono sofisticate e presuppongono una duplice reazione di attacco o fuga. In questo senso l’ansia non è semplicemente un’errata valutazione della realtà, è una mancata o errata valutazione di queste stesse reazioni. E’ per questo che le capacità metacognitive intervengono per aiutare ad interpretare sé stessi e la realtà.

In un particolare tipo di terapia cognitiva tali concetti metacognitivi rappresentano uno sviluppo recente: all’interno della seduta non ci si focalizza più sul “vediamo che cosa rischi veramente” ma su un piano metacognitivo del: “vediamo cosa provi in quel momento, come lo gestisci”. Tale metodologia pare avere una maggiore e comprovata efficacia terapeutica. Lo svantaggio pare essere quello che a volte i rischi definiti con il paziente si avverano realmente.

Perché dunque ci preoccupiamo? Ci preoccupiamo perché vi sono dei rischi e si teme di non riuscire a tollerare la propria stessa ansia e perché la propria mente ci ha insegnato non tanto a non tollerare i rischi ma l’emozione di ansia (ansia perché si ha paura dell’ansia). L’ansia in questo contesto si configura come il timore di non riuscire a tollerare la propria paura nelle situazioni che mettono alla prova.

Un apporto decisivo è stato dato da A.Wells con la terapia metacognitiva che si basa sull’idea che l’errore non sta nell’esaminare la realtà poiché questo genere di pensieri ansiosi, negativi e disfunzionali possiamo averli tutti, l’errore non è nemmeno non tollerare l’ansia ma sta nel fatto che siccome si ha una preoccupazione si ritiene sia corretto pensarci a lungo. Quindi con la definizione di rimuginio si sposta il quadro non sull’errore dell’esame di realtà ma sull’errore nella gestione degli stati mentali.

I problemi in realtà si risolvono pensandoci un po’ di tempo, non troppo tempo perché:

  • Pensare vuol dire passare in rassegna le soluzioni che si conoscono già e questo non porta via tanto tempo (una decina di minuti);
  • Implica prendere atto che c’è un problema e vedere che nel repertorio di soluzioni disponibili non c’è nulla di particolarmente errato;
  • Inventarsi qualcosa di nuovo ovvero farsi venire una buona idea non è frutto di un’attività di pensiero lunga e laboriosa ma è meglio lasciare la mente lavorare da sola cioè non tanto usare l’attenzione consapevole ma avere fiducia in un lavorio più spontaneo. A volte le soluzioni non sono ideali e si raggiunge una mezza soluzione (settimane, mesi). Impegnarsi attivamente per risolvere un problema serve per un periodo limitato di tempo (10 minuti) e poi occorre mettere forza e abilità nel non pensarci. Invece il rimuginatore è colui che di fronte ad una situazione ansiosa ritiene che sia giusto continuare a pensarci ad oltranza. Per Wells è proprio il non pensarci ad oltranza che crea l’ansia, è un errore di tipo funzionale. La soluzione è quella di spostare la propria attenzione da un argomento ad un altro: non è un evitamento poiché mettere da parte un pensiero che crea ansia non vuol dire scacciarlo, vuol dire non pensarci. L’evitamento rimuginativo comporta il pensiero: “non ci devo proprio pensare” e non “penso dopo a questa cosa”. Il rimuginio anche se sembra dare un piccolo sollievo iniziale poiché anche una soluzione inutile è una pseudosoluzione poi di per sé non aiuta a risolvere il problema perché non aiuta a creare soluzioni ma solo delle etichette di tipo autodenigratorio (es. “sono sbagliato”).

Per Wells è importante con il paziente ansioso non soffermarsi sull’argomento del rimuginio ma vedere perché continua a pensarci tanto. Attraverso la sua terapia col paziente ansioso improntata prima su una fase di discussione verbale, poi di esercitazione mentale per non rimuginare, Wells si prefigge di raggiungere l’obiettivo di aiutare il paziente a distinguere con chiarezza ciò che è controllabile da ciò che non lo è, poiché un’idea intrusiva è per forza incontrollabile e occorre accettare che periodicamente i pensieri fastidiosi ci vengano in mente non dandogli importanza, non agendo su di esso.

 


Psicoterapia e Scienza Cognitiva Genova

Obesità genitoriale e ritardi nello sviluppo della prole

Essere in forma e normopeso non solo per la propria salute, ma anche, e soprattutto, per quella dei propri figli. I figli di genitori obesi potrebbero essere a rischio di ritardi nello sviluppo, almeno secondo quanto rilevato da uno studio svolto dai ricercatori del National Institutes of Health a Bethesda, nel Maryland.

 

Gli effetti dell’obesità dei genitori sullo sviluppo dei figli

Gli autori hanno messo in luce come figli di madri obese sembrino presentare una maggior tendenza a fallire prove per le abilità motorie fini, ovvero quelle abilità motorie che implicano il movimento di piccoli distretti muscolari, come le dita o la mano. Inoltre, bambini con padri obesi sembrerebbero essere più inclini a fallire test che riguardano le competenze sociali. Infine, bambini con entrambi i genitori con gravi problemi di obesità sembrerebbero mostrare compromissioni a livello delle abilità di problem solving.

Lo studio, pubblicato dalla rivista Pediatrics, è stato svolto da ricercatori del Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development, uno degli Istituti Nazionali di Sanità del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti d’America, con il compito di svolgere ricerche per salvaguardare e migliorare la salute di bambini, adulti, famiglie e comunità.

I precedenti studi sul tema sembrano aver prevalentemente indagato la relazione tra la salute del neonato e il peso della madre prima e dopo la gravidanza. Ad esempio, in una review del 2010, Van Leshout e collaboratori hanno evidenziato l’esistenza di una correlazione tra l’obesità materna durante la gravidanza e lo sviluppo di problemi al sistema nervoso centrale del feto. Inoltre, figli di madri obese sembrerebbero essere maggiormente propensi allo sviluppo di problematiche cognitive e di sintomi legati al disturbo da deficit di attenzione e iperattività durante l’infanzia, di disturbi dell’alimentazione durante l’adolescenza e disturbi psicotici nell’età adulta.

Al contrario, lo studio di Yeung e collaboratori ha incluso, in modo analogo a qualche altra ricerca sporadica, anche informazioni riguardanti il padre, suggerendo che anche il peso della figura paterna sia di sostanziale importanza per uno sviluppo normotipico dei figli. A tal proposito, già Whitaker e collaboratori nel 1997 avevano infatti messo in luce come l’obesità di entrambi i genitori sembri quantomeno duplicare la probabilità che i figli divengano a loro volta obesi durante l’età adulta.

Quanto rilevato dagli autori risulta essere estremamente importante se si considera l’ormai vasta diffusione dell’obesità genitoriale, infatti, ad esempio negli Stati Uniti è stato evidenziato come circa 1 donna incinta su 5 sia obesa o in sovrappeso.

Per poter correlare l’importanza del peso genitoriale all’adeguatezza dello sviluppo psicosociale dei figli, Yeung et al. hanno esaminato i dati provenienti da uno studio precedente, l’Upstate KIDS study (Louis et al., 2014), che aveva lo scopo di indagare se i trattamenti per la fertilità potessero influire in qualche modo sullo sviluppo dei bambini. All’interno di questo primo studio erano state reclutate, tra il 2008 e il 2010, un totale di più di 5000 donne tra i 2 e i 4 mesi post-partum. Per quanto riguarda la misurazione del grado di sviluppo dei bambini, ai genitori veniva chiesto di svolgere una serie di attività con i propri figli e di completare l’Ages and Staged Questionnaire, un test che, per quanto non venga utilizzato per diagnosticare disabilità specifiche, risulta essere un valido strumento di screening che permette di identificare possibili ritardi inerenti cinque diversi domini dello sviluppo (abilità grosso e fino motorie, comunicazione, funzionamento socio-personale e abilità di problem solving).

I bambini sono così stati testati una prima volta a 4 mesi di vita e successivamente per altre 6 volte, fino al compimento dei 3 anni. Durante la selezione iniziale, inoltre, era stato chiesto alle madri di fornire informazioni circa la propria salute e peso, sia prima sia dopo la gravidanza, e anche circa salute e peso del proprio partner, rendendo così possibile l’utilizzo degli stessi dati anche per lo studio di Yeung e collaboratori.

Dalle analisi dei dati è emerso che, in confronto con i bambini con madri normopeso, i bambini con madri obese presentano il 70% in più di probabilità di sviluppare problemi che li porterebbero, all’età di 3 anni, a fallire test riguardanti le abilità motorie fini. Inoltre, bambini con padri obesi sembrano presentare il 75% in più di probabilità, rispetto a quelli con padri normopeso, di sviluppare problemi a livello socio-personale a 3 anni, così come mostrato dal fallimento di test inerenti le abilità di relazione e interazione con gli altri. Inoltre, bambini con entrambi i genitori obesi sembrano avere il triplo delle probabilità di sviluppare problemi legati al dominio del problem solving.

Come già evidenziato anche da altri autori (ad es. McPherson et al, 2015), avere entrambi i genitori obesi porta ad un effetto additivo, andando a sommare ed amplificare le influenze negative del peso di entrambi i genitori sullo sviluppo embrionale e fetale, provocando così molti più deficit sulla prole di quanti non ne provocherebbero separatamente.

 

Considerazioni: perché il peso genitoriale inciderebbe sullo sviluppo dei figli?

Attualmente ancora poco si sa sul perché il peso genitoriale influisca in tal modo sullo sviluppo psicosociale dei figli. Una delle spiegazioni attualmente più accreditate sembrerebbe essere quella delle infiammazioni a livello fetale, che modererebbero la relazione tra obesità materna e ritardi a lungo termine nello sviluppo infantile. Da studi etologici è infatti emerso come l’obesità materna durante la gravidanza sembri causare in modo sistematico lo sviluppo di infiammazioni, che vanno ad impattare sullo sviluppo cerebrale del feto. Più nello specifico, le infiammazioni, date da stimoli ambientali quali, ad esempio, una non corretta alimentazione materna, andrebbero ad influenzare la predisposizione di quei tessuti sensibili all’insulina, portando a disfunzioni per quanto riguarda l’organogenesi, lo sviluppo tissutale e anche il metabolismo stesso della prole, rendendola anche maggiormente predisposta a futuri problemi metabolici e cardiovascolari, obesità inclusa (Segovia et al., 2014).

A tal proposito, secondo uno studio presentato al 75esimo convegno dell’American Diabetes Association, così come ben evidenziato in un articolo pubblicato nel Giugno del 2015 sulla rivista dell’associazione, i figli di madri obese sembrerebbero essere maggiormente predisposti ad essere essi stessi obesi in futuro a causa di mutazioni verificatesi all’interno dell’utero durante la gravidanza che porterebbero le cellule del feto ad accumulare grasso in eccesso o a sviluppare alterazioni metaboliche, fino ad arrivare ad una vera e propria resistenza insulinica.

Ancora meno si sa sui potenziali effetti dell’obesità paterna sullo sviluppo psicosociale dei figli, per quanto Yeung e collaboratori abbiano messo in luce una possibile influenza soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo socio-personale. Una delle possibili spiegazioni prese in considerazione riguarda, così come emerso da modelli animali, l’alterazione dell’espressione genica all’interno dello sperma di padri obesi, che, causando alterazioni genetiche ed epigenetiche all’interno degli spermatozoi, può portare ad alterazioni fenotipiche nella prole (McPherson et al., 2014).

L’utilizzo di integratori alimentari anti-infiammatori, come acidi grassi (ad es. Omega3), resveratrolo, curcumina e taurina, può essere considerata una valida strategia d’intervento per migliorare la predisposizione a deficit creata dall’obesità materna (Segovia et al., 2014). Inoltre, anche operazioni basate su nutrizione controllata ed esercizio fisico indirizzate ai padri obesi prima del concepimento potrebbero portare a miglioramenti nella salute della prole, riuscendo ad agire sull’integrità del DNA degli spermatozoi (McPherson et al., 2014).

Per quanto siano necessarie ulteriori conferme circa il legame tra obesità genitoriale e ritardi nello sviluppo infantile, potrebbe risultare estremamente utile considerare anche il peso dei genitori all’interno delle valutazioni iniziali riguardanti i ritardi nello sviluppo psicosociale di bambini piccoli, anche nell’ottica di interventi preventivi ed informativi sulle famiglie.

Il trattamento della depressione nel setting di gruppo: il modello metacognitivo

Il trattamento della depressione in un setting gruppale e basato sull’approccio metacognitivo ha mostrato recenti prove di efficacia, con risultati migliori della CBT nel confronto tra gruppi. 

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che la depressione diventerà entro il 2020 la seconda causa di disabilità e nel 2030 sarà la malattia cronica maggiormente diffusa al mondo. Il decorso di tale disturbo è infatti molto variabile: per alcuni è estremamente difficile guarire completamente, mentre in altre persone è frequente l’alternanza tra momenti di maggior benessere e episodi depressivi che si manifestano ciclicamente.

Gli studi di Keller e collaboratori (1982, 1992), suggeriscono che circa il 30% degli individui che soffrono di depressione non riescano a superare tale condizione dopo un anno dalla sua insorgenza. Dopo due anni, il 20% della popolazione è ancora depressa e dopo 10 anni il 7% non migliora.

 

Il trattamento della depressione: la prospettiva metacognitiva

La terapia cognitiva ha mostrato la sua efficacia nel trattamento della depressione, ciononostante si riscontrano alti tassi di ricaduta o di remissione solo parziale: il 5% della popolazione che ha intrapreso un percorso di terapia cognitiva mostra ricadute nei successivi 5 anni (DeRubeis & Crits-Christoph, 1998).

Quali sono i fattori che ostacolano la guarigione o che rendono una persona più vulnerabile alle ricadute? Secondo la prospettiva metacognitiva, l’elemento chiave è da rintracciare nelle metacredenze, convinzioni che attivano stili cognitivi maladattivi, i quali a loro volta costituiscono fattori di mantenimento di emozioni negative e rafforzano idee negative su di sé, sul mondo e sugli altri.

Gli stili di pensiero riconosciuti come elementi perpetuanti del disturbo sono ruminazione, rimuginio e monitoraggio della minaccia, ovvero la costante focalizzazione sui propri sintomi e sui cambiamenti del tono dell’umore, con lo scopo di analizzare i propri problemi e verificare la propria capacità di affrontarli.

Dal punto di vista comportamentale, tali stili cognitivi conducono spesso la persona con depressione a preferire l’evitamento delle attività e l’isolamento dalla propria rete sociale. Il trattamento della depressione attraverso la terapia metacognitiva mira a concettualizzare e discutere con il paziente le credenze positive (se rumino troverò una soluzione ai miei problemi) e negative (non posso fare altro che ruminare, è incontrollabile) che sostengono questi stili di pensiero, favorendo il distacco e la presa di consapevolezza sulle proprie modalità cognitive, promuovendo stili maggiormente adattivi. Il trattamento della depressione basato sull’approccio metacognitivo ha mostrato recenti prove di efficacia (per una meta-analisi, Normann, van Emmerik, Morina, 2014), con risultati migliori della CBT nel confronto tra gruppi.

 

Il trattamento gruppale per la depressione

Il trattamento gruppale per la depressione, perfezionato nel 2014 (Dammen, Papageorgiou & Wells) prevede 10 sedute settimanali della durata massima di 2 ore. Nell’open trial condotto dal team di Wells, i partecipanti al gruppo MCT per il trattamento della depressione sono rivalutati dopo 6 mesi, 1 anno e 2 anni, hanno riportato punteggi sotto soglia nella scala di misura della depressione in 8 casi su 11, in 2 si è riscontrato un progressivo e costante miglioramento, mentre 1 dei soggetti non è stato reperibile per i follow up.

Papageorgiou e Wells (2014) hanno condotto una ricerca su un gruppo di pazienti che non aveva ottenuto benefici né da farmaci antidepressivi, né dall’intervento CBT, riscontrando miglioramenti significativi relativi a sintomi ansiosi, depressivi, ruminazione e credenze metacognitive positive e negative, con risultati stabili a 6 mesi. Questi risultati hanno incoraggiato l’applicazione della terapia metacognitiva per il trattamento della depressione nel setting di gruppo e durante l’ultimo Congresso dell’Istituto di Terapia Metacognitiva il prof. Papageorgiou ha tenuto un workshop su questo tema, portando la propria esperienza in qualità di conduttore e supervisore.

La struttura del trattamento della depressione segue il canovaccio del trattamento metacognitivo individuale per la depressione (Wells, 2009), introducendo in primo luogo il modello teorico e favorendo la condivisione e la co-costruzione della concettualizzazione metacognitiva. In questa fase, l’adozione di una batteria testistica ad hoc somministrata in fase di assessment risulta essenziale, in quanto può aver già stimolato una distanza critica rispetto ai propri stili cognitivi.

Successivamente, vengono proposti esercizi di Attention Training e Detached Mindfulness, anticipati da un importante lavoro del conduttore del gruppo, che ne spiega il razionale e testa la credibilità degli esercizi verso i partecipanti. È essenziale, così come nella terapia individuale, che il gruppo comprenda a pieno l’obiettivo: porsi in una prospettiva nuova rispetto ai propri pensieri e scegliere di non fare nulla. In seguito il gruppo discute le credenze metacognitive positive e negative alla base della ruminazione per approdare all’elaborazione di nuovi piani metacognitivi da applicare nel futuro. Il setting gruppale nel trattamento della depressione, che manifesta di per sé una serie di vantaggi, in questa proposta di intervento risulta una notevole fonte di sostegno alla terapia individuale. Ciò che i terapeuti sanno per esperienza in merito all’universalità di credenze metacognitive e stili di pensiero maladattivi, viene vissuto in vivo dai partecipanti del gruppo e stimola l’acquisizione di un ruolo attivo e collaborativo nella costruzione di un nuovo approccio ai propri pensieri.

Maggiori informazioni sulla Gruppi per il trattamento della depressione none

 

Il tumore in adolescenza: la battaglia degli adolescenti contro la malattia oncologica

Il momento giusto, per ammalarsi di tumore non c’è, a qualsiasi età la malattia irrompe nella vita di una persona con la violenza di uno tsunami. Se c’è, però, qualcosa di davvero sbagliato, è ammalarsi di tumore in adolescenza.

Anna Scala – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Adolescenza: la transizione da bambino ad adulto

L’adolescenza è “quel tempo posto fra l’infanzia e l’età adulta”. (Fabbrini, 2007, pp. 14)

È quindi una fase di transitorietà e di passaggio:

Più che tappa o fascia da superare l’adolescenza si configura come passaggio dalla soglia, al di là della quale s’intravvedono i colori della vita in tutta l’ampia gamma dei toni e delle sfumature: piacere, dolore, vicinanza e distacco, incertezza e determinazione, perdita e conquista, insicurezza e certezze. (Fabbrini, 2007, pp. 21)

All’adolescenza si collega per definizione l’idea di crisi. L’ etimologia della parola “crisi” porta i significati di “separazione” e di “scelta” ; la sua radice più antica contiene anche il senso del “giudizio” e del “giudicare ”. Nei caratteri cinesi, la parola crisi è formata dalla combinazione di due ideogrammi che separatamente significano “pericolo” e “opportunità”.

Abbiamo a che fare dunque con uno stato particolare , un momento ricco di potenziale evolutivo , ma carico delle tensioni e dei rischi della perdita e del cambiamento. (Fabbrini , 2007)

Ci sono dei fattori comuni che un adolescente deve affrontare e a cui deve dare delle risposte per poter diventare adulto.

Il primo di questi è la relazione con i genitori, cioè la capacità di passare dalla dipendenza emotiva da essi a una maggiore indipendenza, cioè sperimentare se si è in grado di sentire che i pensieri e i sentimenti siano effettivamente i propri e che iniziano ad essere un po’ più indipendenti da quelli dei genitori.

Il secondo è legato alle relazioni con i coetanei : scegliere come amici altri adolescenti con cui poter sostenere il proprio sforzo di diventare adulto.

Il terzo è l’idea che l’adolescente ha di se stesso come persona fisicamente matura sia nel proprio ruolo maschile o femminile sia nella capacità di modificare l’immagine di sé bambino, potendo sentire di diventare padrone del proprio corpo.

Gran parte dei comportamenti adolescenziali sono determinati dal desiderio di dimostrare la propria indipendenza e la parità con gli adulti, la virilità o la femminilità (Fabbrini, 2007). È nel trovare queste risposte che l’adolescente mette in atto comportamenti particolarmente evidenti che agli occhi dei genitori e degli adulti appaiono eccessivi.

Ed è proprio questo eccesso a far sì che si creino i primi veri e propri conflitti con i genitori e gli adulti di riferimento che non capiscono e che non riconoscono la persona che hanno di fronte. Ma la verità è che nemmeno l’adolescente si capisce e si riconosce in quanto sta imparando sfidando sé stesso e gli altri chi è e chi potrà essere in un mondo di adulti.

 

L’incontro con la sofferenza: il tumore in adolescenza

Il momento giusto, per ammalarsi di tumore non c’è. A qualsiasi età la malattia irrompe nella vita di una persona con la violenza di uno tsunami. Se c’è, però, qualcosa di davvero sbagliato, è ammalarsi di tumore in adolescenza.

Gli adolescenti e i giovani adulti con tumore sono pazienti con bisogni e caratteristiche particolari. L’adolescente si ritrova ad affrontare un periodo di per sé delicato: muove i primi passi verso l’indipendenza dalla famiglia, scopre sé stesso e il mondo che lo circonda, ha sogni , idee e progetti, cerca di definire la propria identità e scopre il mondo della sessualità.

Ogni anno in Italia si ammalano circa 800 adolescenti tra i 15 e i 24 anni e mille/duemila giovani adulti. Secondo statistiche internazionali, parametrate sui principali tumori infantili, il tumore in adolescenza ha inferiori probabilità di guarigione rispetto all’infanzia. Questo dato può essere il risultato di vari fattori, ma un elemento che gioca un ruolo importante nel mancato miglioramento delle percentuali di guarigione dei pazienti adolescenti è la ridotta partecipazione ai protocolli clinici e quindi il limitato accesso alle migliori cure possibili.

Chi soffre di tumore in adolescenza non viene arruolato con regolarità nei protocolli sia per la presenza di barriere legate ai cut-off di età, negli ospedali o nei protocolli stessi, sia perché a volte è il medico a cui il paziente afferisce per la prima volta che non lo invia ai centri in grado di trattarlo in modo adeguato. Anche se le maggiori cause di questo fenomeno sono legate al ritardo nella diagnosi: gli adolescenti parlano di meno con i genitori e nascondono i sintomi e quindi si arriva a una prima visita piuttosto tardi.

Mentre un bambino viene visitato dal pediatra entro otto giorni dalla comparsa di un disturbo, per un ragazzo trascorrono mediamente 72 giorni. Questo ritardo evidenzia come la consapevolezza che possa insorgere un tumore in adolescenza sia ancora poco diffusa non solo tra i giovani e le loro famiglie, ma anche in ambito medico.

Ma che cosa causa il tumore in adolescenza? Ci sono oltre duecento tipi di cancro e, al momento, le cause che portano alla nascita di molti dei tumori che colpiscono i giovani, sono sconosciute.

È anche vero, però, che ci sono dei modi per prevenire il cancro. Prevenire non significa ossessionarsi e convincersi che il cancro possa colpire, significa avere uno stile di vita sano e avere rispetto del proprio corpo. Gli accorgimenti più importanti sono (Airc, 2010):

  • Evitare di fumare
  • Cercare di non bere tanto alcol in poco tempo
  • Cercare di mantenere sotto controllo il peso
  • Fare esercizio fisico
  • Mangiare per bene
  • Evitare di fare lampade abbronzanti
  • Cercare di controllare almeno una volta al mese se si hanno dei gonfiori o se ci sono altre anomalie.

Una volta nel percorso sanitario, rischiano di trovarsi in una “terra di mezzo” tra il mondo dell’oncologia pediatrica e il mondo dell’oncologia medica per adulti.

Ricevere una diagnosi di tumore durante l’adolescenza è complesso perché la diagnosi mette in pausa tutto: trasforma la quotidianità, l’aspetto fisico, le relazioni con gli altri e la sicurezza in sé stessi (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016). Soltanto negli ultimi si stanno sviluppando negli ospedali italiani i primi reparti dedicati alla fascia adolescenziale (13-24 anni).

Li chiamano tumori AYA, acronimo di Adolescent and Young Adults e il fatto che ora le malattie oncologiche che colpiscono i ragazzi abbiano un nome è già un significativo passo avanti. Le forme di tumore in adolescenza sono ibride da diversi punti di vista, e questo causa difficoltà di gestione e cura.

I ragazzi possono ammalarsi di neoplasie tipiche del bambino come i tumori renali di Wilms, il neuroblastoma, i sarcomi dei tessuti molli, i linfomi e le leucemie pediatriche, ma anche di tumori dell’adulto come il melanoma o il tumore polmonare o della mammella. (Airc, 2010)

I tipi di tumore in adolescenza più frequenti sono (Airc, 2010):

  • I linfomi di Hodgkin
  • I tumori della tiroide
  • Le leucemie
  • I tumori delle cellule germinali
  • I linfomi non-Hodgkin
  • I tumori del sistema nervoso centrale
  • I sarcomi delle parti molli
  • I tumori dell’osso
  • Il carcinoma naso-faringeo
  • I tumori al cervello
  • Il tumore alle ovaie
  • Il tumore ai testicoli.

I medici non sanno come muoversi tra il mondo clinico adulto, quello pediatrico e una serie di tentativi diversi. In un mondo di nessuno i medici, gli infermieri e tutto il personale degli staff medici vorrebbero protocolli e strumenti dedicati unicamente a questa fascia di età.

Gli adolescenti e i giovani adulti hanno un maggior rischio di sperimentare stress psicologico con manifestazioni di tristezza, ansia, frustrazione in risposta alle varie fasi della malattia. Inoltre possono sperimentare paura per tutti i cambiamenti corporei che vivono come la perdita dei capelli, forti perdite di peso e in alcuni casi amputazioni (Ramphal, 2016).

Tutto ciò in una fase di vita in cui il soggetto sta costruendo il proprio schema corporeo e la propria autostima:

All’età di quattordici anni entri a far parte dell’adolescenza che è la parte più bella di tutta la vita, t’innamori, fai nuove amicizie, ti diverti, scherzi e giochi. All’età di quattordici anni non t’immagini neanche cosa possa essere il cancro e non dovresti nemmeno saperlo…” (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016, pp.11).

Quindici giorni dopo la prima chemio, in quel bagno d’ospedale incominciai a perdere i miei capelli, il lavandino cominciò a riempirsi a ogni passata di spazzola; me l’aspettavo, ma vederli lì fu un grande colpo. Rispetto a tutto ciò che stavo passando , penserete: “Cosa saranno mai i miei capelli? Ricresceranno”. Avete ragione: ricrescono. Ammetto che con la parrucca riuscivo a sentirmi bella, ma vi posso assicurare che l’aspetto più invasivo, più traumatizzante è guardarsi allo specchio e non riconoscersi, vedere il proprio corpo trasformato contro la propria volontà.” (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016, pp. 31)

Gli adolescenti si ritrovano a interfacciarsi con un aspetto in cui non si riconoscono, che faticano ad accettare come proprio e con questo aspetto devono interfacciarsi a un mondo esterno fatto di amicizie e di rapporti sociali. L’aspetto fisico modificato dalla malattia si ricollega all’aspetto sociale ed amicale. In questo c ‘è la paura del giudizio, del non essere accettati e l’insicurezza tipica dell’adolescente: il tutto in un’esperienza di cancro viene evidenziato.

Di per sé l’adolescente si vive in continua ricerca dell’accettazione da parte di un gruppo o comunque da parte dei coetanei. Anche quando ci riesce possono accadere esperienze di malattia che mettono in pausa tutto ciò e gettano il soggetto in un vuoto in cui deve tirar fuori forse prima del tempo il carattere e la maturità:

E’ innegabile che affrontare un viaggio del genere sia molto duro, ma è anche vero che questo viaggio ti cambia e molto anche; scopri cose di te di cui non avevi la più pallida idea e ritengo che il nostro io  venga davvero fuori in queste situazioni.” (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016, pp. 9)

L’associazione di volontariato Adolescenti e cancro, nel volume  “Attimi di noi”, ha raccolto le storie di adolescenti e di giovani adulti che hanno combattuto e che stanno combattendo tuttora il tumore. Dai racconti traspare paura, trauma al momento della diagnosi che arriva inaspettata come un uragano: è un qualcosa che esiste ma nemmeno lontanamente l’adolescente pensa che possa riguardarlo.

Si trovano in difficoltà anche con aspetti più legati alla scuola: qui gli insegnanti giocano un ruolo fondamentale nel permettere a questi ragazzi di proseguire gli studi: fornendo loro la possibilità di studiare in ospedale oppure alleggerendo il carico di studio.

Dai racconti di questi ragazzi però appare una grandissima forza data dai nuclei familiari che dopo la diagnosi concepiscono la malattia come un problema di famiglia che va affrontato assieme:

Soprattutto accanto a me avevo mia madre che non mi lasciava un attimo, e mio padre ogni sera rimaneva qualche minuto in più dopo l’orario di visita, mi teneva per mano e pregava ad alta voce, altro che ansiolitici: furono quelle preghiere, fu la mia famiglia a ridarmi serenità.” ( Adolescenti e cancro, 2016, pp. 31)

Appare anche una grande forza personale da parte di questi ragazzi che riescono a vedere nella malattia un’opportunità:

Affrontare il cancro è difficile, molto difficile ma tutto dipende da come guardi la situazione, per tutta la durata del mio trattamento ho sempre riso riguardo a quello che mi stava succedendo. Sin dal primo giorno della diagnosi ho sempre detto che essere triste non avrebbe spinto il mio tumore a dispiacersi per me e non lo avrebbe fatto smettere di crescere quindi riderci su rende la battaglia più semplice da combattere.” ( Adolescenti e cancro, 2016, pp. 64)

Nell’esperienza di malattia  i ragazzi scoprono chi sono e chi vogliono diventare, nonostante la sfida di fronte alla quale sono stati posti:

Il vero miracolo non è guarire, il vero miracolo è vivere nonostante la malattia. Forte, presente e con la piena consapevolezza che la malattia fa parte di me, del mio passato e del mio futuro ma io non sono la mia malattia.” (Adolescenti e cancro, 2016, pp. 24)

Interventi psicosociali basati sull’evidenza nel disturbo bipolare in età pediatrica

Disturbo bipolare nei bambini: in età pediatrica è possibile diagnosticare un disturbo bipolare con caratteristiche simili, ma non identiche, a quelle dell’adulto: il Disturbo bipolare nei bambini differisce da quello adulto nella fenomenologia, nel corso e nella risposta al trattamento ed è proprio questo che rende difficile la diagnosi.

Valentina Carloni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Il disturbo bipolare nei bambini

La prevalenza dei sintomi depressivi, la comorbidità con i disturbi d’Ansia e la difficoltà nel riconoscimento dell’ipomania possono determinare una diagnosi errata di depressione unipolare e sostenere l’utilizzo di antidepressivi in monoterapia con peggioramento dell’umore e del comportamento.

Il disturbo bipolare nei bambini è caratterizzato da un quadro misto o disforico, con periodi di intensa labilità emotiva e/o irritabilità piuttosto che la classica mania. In questi pazienti abbiamo una grave disregolazione emotiva con multipli, intensi e prolungati sbalzi d’umore ogni giorno. Il quadro misto include brevi periodi di euforia e periodi di irritabilità e distraibilità più lunghi. La persistenza di questa psicopatologia porta a notevoli ripercussioni sul funzionamento sociale e scolastico del giovane paziente che rischia di non poter utilizzare ciò che l’ambiente offre in termini evolutivi. Pertanto si deduce la necessità di un intervento terapeutico appropriato all’età, tempestivo ed efficace [1].

L’intervento primario per il disturbo bipolare nei bambini è rappresentato dalla farmacoterapia, il cui target è la remissione della sintomatologia, tralasciando quindi le difficoltà sociali, accademiche e familiari del paziente associate al disturbo.  Per tali motivi vi è un chiaro bisogno di interventi psicosociali, ritenuti essenziali per aiutare i bambini e le loro famiglie nella gestione del disturbo [2].

Scopo dell’articolo, quindi, è presentare i principali interventi psicosociali per il disturbo bipolare nei bambini basati sull’evidenza. Verranno presi in considerazione solo studi clinici randomizzati e open label, pubblicati dal 2000 al 2015, mentre si è scelto di non considerare studi di casi singoli e comorbidità come ADHD, disturbo oppositivo provocatorio e abuso di sostanze.

 

La psicoeducazione familiare

Diversi studi hanno dimostrato, negli ultimi anni, l’efficacia della psicoeducazione familiare, presentando una forma di intervento specificatamente diretta al bambino e alla sua famiglia in modo individuale [3, 4] o gruppale [5-7].

Tipicamente la psicoeducazione consiste nel fornire informazioni al paziente circa la malattia di cui soffre. Nel contesto del disturbo bipolare nei bambini, questo modello di intervento è stato progettato per raggiungere i seguenti obiettivi: aumentare la conoscenza e la comprensione del disturbo bipolare pediatrico e il suo trattamento; migliorare la gestione dei sintomi e delle condizioni associate, migliorare la comunicazione e la capacità di problem solving. La psicoeducazione si prefigge, inoltre, di aiutare i genitori ad essere più coinvolti nel trattamento del loro bambino [12].

La Psicoterapia basata sulla Psicoeducazione Multifamiliare (Multy-Family PsychoEducation Psychotherapy; MF-PEP) è un intervento rivolto ai bambini con disturbo depressivo e bipolare ed i loro genitori. Questo intervento combina la psicoeducazione con la terapia familiare e tecniche di terapia cognitivo-comportamentale [13].  Il formato MF-PEP è molto strutturato e comprende otto sedute di gruppo di 90 minuti a cui partecipano genitori e figli, separatamente.

Diversi studi clinici randomizzati hanno evidenziato l’efficacia della terapia multifamiliare su diversi fronti: una maggior conoscenza dei genitori rispetto i sintomi dei bambini e di conseguenza di una maggior percezione si supporto genitoriale da parte loro, oltre al miglioramento dei sintomi affettivi che si manteneva stabile a 18 mesi dal follow up [6,7,12].

Un RCT del 2009 [9] ha fornito dati rispetto alla transizione dallo stato ad alto rischio di sviluppare un disturbo bipolare pediatrico fino allo sviluppo del disturbo stesso. Gli autori hanno studiato una popolazione di 50 bambini tra i 9 e gli 11 anni con un disturbo dello spettro depressivo con o senza sintomi maniacali transitori. I pazienti che avevano ricevuto un intervento psicoeducativo multifamiliare avevano meno probabilità di soddisfare i criteri per un disturbo bipolare al follow – up rispetto al gruppo di controllo (12% rispetto al 45%).

La psicoterapia basata sulla psicoeducazione familiare individuale (IF-PEP) è la versione individuale della MF-PEP poiché è indirizzata al singolo bambino e alla sua famiglia. Diversamente dalla MF-PEP, il formato individuale comprende dalle 16 alle 24 sedute di 50 minuti, 20 delle quali sono manualizzate, mentre le restanti 4 sono utilizzate per la gestione dei momenti di crisi.  Questo modello d’intervento familiare di tipo individuale abbraccia ogni contenuto della terapia multifamiliare e aggiunge il modulo “abitudini salutari”, al fine di gestire sintomi maniacali che, tipicamente, risultano innescati da cicli sonno/veglia irregolari, aumento di peso dovuto alla farmacoterapia e sintomi depressivi. I target dell’intervento sono: regolarizzare il sonno, promuovere corrette abitudini alimentari e incrementare l’attività fisica. Risultati positivi nell’utilizzo della psicoeducazione familiare individuale emergono in due recenti studi [3, 4] i quali evidenziano un miglioramento della sintomatologia anche ad un anno dalla conclusione della terapia.

 

La terapia centrata sulla famiglia

La terapia centrata sulla famiglia (Family- Focused Treatment for Adolescents, FFT-A) è un intervento originariamente pensato per adulti con disturbo bipolare [15] poi adattato agli adolescenti. Diversamente dalla psicoeducazione multifamiliare, la FFT-A lavora con una famiglia alla volta e ingaggia attivamente il paziente nel trattamento [16].

La FFT-A è composta da 21 sedute da 50 minuti (12 settimanali, 6 bisettimanali e 3 mensili) per una durata di 9 mesi e coinvolge i genitori e il ragazzo con disturbo bipolare. Il primo target della terapia è la riduzione della sintomatologia attraverso una miglior consapevolezza di come fronteggiare il disturbo, una minor emotività espressa in famiglia, migliori abilità di problem solving familiare e di abilità comunicative. Un importante obiettivo è che il terapista promuova una maggior aderenza al trattamento farmacologico e crei un piano per gestire ricadute.

Uno dei primi studi fu un open trial che incluse 20 adolescenti con disturbo bipolare il quale evidenziò l’efficacia della FFT-A nel migliorare sintomi depressivi e maniacali, fino ad un anno di follow up [8]. In aggiunta, studi randomizzati controllati più recenti [9,11] evidenziano il beneficio della FFT-A nel diminuire il tempo di recupero dall’iniziale episodio depressivo, e una diminuzione di episodi depressivi e maniacali nei due anni di osservazione dopo la conclusione della terapia. Risultati analoghi si ritrovano nei due recenti studi di Miklowiz [10, 11], volti a studiare l’efficacia della FFT-A in adolescenti a rischio di sviluppare il disturbo bipolare.

 

La terapia cognitivo comportamentale centrata sul bambino e la famiglia (Child and family focused cognitive behavioral therapy, CFF-CBT): il programma Rainbow

La CFF-CBT è un intervento di 12 sessioni sviluppato per soggetti dai 7 ai 13 anni con disturbo bipolare pediatrico e le loro famiglie. Questa terapia combina psicoeducazione, terapia cognitiva comportamentale, terapia interpersonale, mindfulness e teorie e tecniche di psicologia positiva.

Precisamente, CFF-CBT è un intervento di 12 sedute di 60 minuti da compiersi settimanalmente in 3 mesi. Alcune di queste coinvolgono il bambino e i suoi genitori contemporaneamente, altre in momenti diversi.

L’acronimo inglese RAINBOW identifica i principali obiettivi dell’intervento: stabilire una routine prevedibile (Routine), insegnare la gestione del comportamento (Affect regulation), aumentare l’autoefficacia del genitore e del bambino (I can do it), modificare le cognizioni disfunzionali (No negative thoughts and live in the now), il miglioramento del funzionamento sociale (Be a good friend/balanced lifestyle for parent), delle abilità di problem-solving (Oh, how can we solve this problem) e del sostegno sociale (Ways to get support ) [19].

In letteratura troviamo tre studi aperti [15,16,17] e due studi randomizzati controllati [18,19] che esaminano l’efficacia della CFF-CBT. Questi suggeriscono un miglioramento dei sintomi sia quando il trattamento era fornito individualmente [15] sia in gruppo [17]. In particolare, i pazienti riportavano una riduzione dei sintomi maniacali [15-19], depressivi [15,16,18,19] e minori disturbi del sonno [15,16]. Il miglioramento sintomatologico incideva significativamente nel funzionamento adattivo globale [15,17] e si manteneva anche a distanza di tempo dalla conclusione del programma [16,18].

 

La terapia dialettica comportamentale per adolescenti (Dialectical Behavioral herapy for Adolescents, DBT-A)

La DBT [20] è una psicoterapia basata sull’evidenza sviluppata per gli adulti con disturbo borderline di personalità. Il principale obiettivo della DBT è diminuire la disregolazione emotiva, caratterizzata da un’alta sensibilità allo stimolo emotivo, estrema intensità emotiva e un lento ritorno allo stato emotivo di base. La ricerca indica che gli adolescenti con disturbo borderline di personalità presentano una gamma di emozioni estreme positive e negative [21] e la letteratura recente postula che la caratteristica clinica di base sottostante il disturbo bipolare nei bambini sia proprio la disregolazione emotiva [22]. Il disturbo bipolare in adolescenza è anche associato a comportamenti suicidari [23, 24], deficit interpersonali [25], e non aderenza al trattamento [26], tutte le caratteristiche di base di trattamento DBT.

Questo intervento manualizzato [27] incorpora modifiche adeguate all’età per gli adolescenti con comportamenti suicidari e modifiche specifiche per la popolazione bipolare. Durante il periodo iniziale di trattamento (dal primo al sesto mese) i pazienti partecipano a 24 sedute settimanali di 60 minuti, alternando 12 sedute di skill training familiare e 12 sedute di terapia individuale. La fase di continuazione del trattamento (dal settimo al dodicesimo mese) consiste, invece, in 12 sedute a cadenza mensile, di cui 6 di terapia individuale e 6 di skill training familiare. L’obiettivo è consolidare i miglioramenti ottenuti e rivedere l’impiego delle abilità acquisite [28].

In letteratura troviamo due studi che esaminano l’efficacia di questo intervento adattato al disturbo bipolare nei bambini: uno studio aperto [28] e uno studio randomizzato controllato [29], sviluppati entrambi da Goldstein. Entrambi hanno evidenziato un miglioramento significativo rispetto a comportamenti suicidari, sintomi depressivi e disregolazione emotiva.  L’RCT [29] riporta, inoltre, un miglioramento significativo dei sintomi maniacali.

 

La terapia interpersonale e dei ritmi sociali per adolescenti (IP/SRT_A)

Sebbene il disturbo bipolare sia sotteso da una chiara vulnerabilità genetica e da una disregolazione neurotrasmettitoriale, i fattori scatenanti gli episodi acuti, in particolare maniacali, sono correlati a fattori psicologici ed ambientali. Infatti, l’influenza degli eventi vitali stressanti, dei cambiamenti dei ritmi circadiani, dei livelli di supporto sociale ma anche dei ruoli e dei ritmi sociali sono riconosciuti come elementi di rischio nel precipitare gli episodi di malattia in soggetti predisposti. Poiché in adolescenza vi è una maggiore probabilità del verificarsi di tali condizioni, Hlastala e colleghi [30] hanno sviluppato una nuova terapia psicosociale “ibrida” che deriva dalla terapia interpersonale per la depressione unita all’importanza di focalizzarsi sulle situazioni di vita legate ai ritmi circadiani. IP/SRT consiste di 16-18 sedute svolte nell’arco di 20 settimane, la maggior parte delle quali si svolgono solo con l’adolescente, oltre a 2-3 sedute di psicoeducazione familiare [30]. Gli obiettivi primari di IPSRT-A comprendono la gestione dell’aderenza alla farmacoterapia, dello stress interpersonale e della disregolazione del ritmo circadiano.

Uno studio pilota condotto su 12 adolescenti con disturbo dello spettro bipolare ha evidenziato miglioramenti nella sintomatologia maniacale e depressiva, i sintomi psichiatrici generali, e funzionamento globale [30]. Attualmente, gli autori del precedente studio stanno conducendo uno studio randomizzato controllato su adolescenti (età 12-19 anni), per i quali verrà impiegata la terapia IPSRT-A di 18 sedute (16 settimanali e 2 bisettimanali).

 

Conclusioni

Questo articolo rappresenta un revisione della letteratura esistente rispetto agli interventi psicosociali in associazione alla farmacoterapia per il disturbo bipolare nei bambini.

Secondo i criteri della Task Force on the promotion and Dissemination of Psychological Procedures, ad oggi non esistono interventi psicosociali ben consolidati per il trattamento del disturbo bipolare nei bambini. Alcune terapie, tuttavia, hanno ottenuto una validazione clinica maggiore rispetto ad altre, come ad esempio la psicoeducazione multifamiliare per soggetti in fase prepuberale (MF-PEP) e la terapia centrata sulla famiglia per adolescenti (FFT-A). Queste terapie sono considerate “probably efficacious”, poiché il trattamento risulta più efficace rispetto ad alcun trattamento o alla lista di attesa di controllo.

Grazie alla validazione empirica raggiunta attraverso studi randomizzati controllati, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul bambino e sulla sua famiglia appartiene agli interventi “possibly efficacious”, mostrando un miglioramento dei sintomi sia quando il protocollo di trattamento riguardava il singolo [16] sia il gruppo [17]. I miglioramenti ottenuti rimanevano stabili anche quando si aggiungeva una fase di mantenimento al trattamento, che comprendeva sedute psicoterapeutiche di richiamo e assistenza nella gestione della farmacoterapia [16].

La terapia dialettica comportamentale (DBT) può rappresentare una valida alternativa per la gestione dei comportamenti suicidari e nel trattamento dei sintomi depressivi; tuttavia, questa terapia è classificata come “experimental”, pertanto sono necessari ulteriori studi di maggior rilevanza empirica per garantirne l’efficacia.

Infine, la Terapia Interpersonale dei Ritmi Sociali (IP/SRT) evidenzia risultati preliminari incoraggianti ma ha anch’essa bisogno di ulteriori ricerche empiriche. Ad oggi, il mancato utilizzo di ampi campioni e di gruppi di controllo hanno minato la potenza statistica e la validità interna dei risultati ottenuti.

Lo yoga sta dilagando sul posto di lavoro: 1 lavoratore su 7 lo pratica

I lavoratori americani stanno diventando sempre più consapevoli: un nuovo studio condotto su più di 85000 soggetti ha evidenziato che dal 2002 al 2012 la percentuale di chi medita è aumentata (dall’8% al 9,9%) e la diffusione dello yoga è quasi raddoppiata (dal 6% all’11%).

 

Lo yoga e la meditazione: sempre più frequenti tra i lavoratori

Questa è un’ottima notizia, come suggeriscono gli autori, dal momento che le attività come lo yoga e la meditazione migliorano il benessere dei lavoratori e la loro produttività. [blockquote style=”1″]La nostra scoperta di elevati e crescenti tassi di esposizione a pratiche di consapevolezza tra i lavoratori statunitensi è molto incoraggiante[/blockquote] hanno affermato gli autori su Preventing Chronic Disease, rivista scientifica istituita dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC). [blockquote style=”1″]Circa 1 lavoratore su 7 ha affermato di impegnarsi in qualche forma di attività basata su pratiche di consapevolezza, beneficiando degli effetti di tali pratiche sul luogo di lavoro.[/blockquote]

Lo studio ha rivelato che chi è occupato è più propenso a praticare tecniche di consapevolezza rispetto a chi è disoccupato. Tuttavia, ai partecipanti dello studio non è stato chiesto dove e quando praticano queste attività, pertanto non si sa quante persone le svolgano effettivamente sul posto di lavoro. A tal proposito, gli autori sottolineano che l’integrazione delle pratiche di consapevolezza sul posto di lavoro – attraverso programmi di promozione del benessere dei dipendenti e di riduzione dello stress, lezioni di yoga e di meditazione- può essere un modo per le aziende di incoraggiare i propri lavoratori a parteciparvi.

Lo studio ha individuato quali settori necessitino di un aumento della diffusione di tali pratiche: gli operai (mansioni fisiche e manuali) e i lavoratori del settore dei servizi sono meno propensi a praticare tecniche di consapevolezza rispetto agli impiegati (mansioni più intellettuali e meno fisiche), e i lavoratori agricoli lo sono anche meno. Il reddito familiare e il livello di istruzione in parte motivano queste disparità, ma non del tutto. Dal momento che i datori di lavoro possono beneficiare degli effetti di queste attività praticate dai lavoratori dei settori sopracitati, dovrebbero coinvolgerli nella pianificazione e promozione di tali pratiche anche per gli altri dipendenti. Gli ostacoli istituzionali, come la mancanza di fondi, la mancanza di tempo o le convinzioni personali devono essere indirizzate a rendere queste pratiche a disposizione di tutti i lavoratori.

 

I benefici dello yoga sui lavoratori

In precedenti ricerche, questi tipi di interventi sul posto di lavoro sono stati associati ad una serie di benefici per i dipendenti. Praticare lo yoga o la meditazione ha dimostrato di ridurre il burnout e i disturbi dell’umore tra chi si occupa di assistenza sanitaria e di migliorare la qualità del sonno tra gli insegnanti. Gli autori non hanno trovato alcuno studio sugli effetti delle tecniche di consapevolezza specificamente focalizzato su operai o lavoratori agricoli.

Lo studio ha anche esaminato la prevalenza di altre due pratiche di consapevolezza: il Tai Chi e il Qi Gong, ma non ha evidenziato nessun cambiamento sostanziale nei tassi di prevalenza nel corso del tempo. Yoga e meditazione sono probabilmente più popolari perché hanno ricevuto molta più attenzione nel corso degli ultimi due decenni.

Nel complesso, le pratiche di consapevolezza consentono di affrontare molteplici esigenze sul posto di lavoro per il benessere sia dei lavoratori che dei datori di lavoro. Le tecniche di consapevolezza sono importanti per la gestione delle pressioni e dello stress sul posto di lavoro, non importa quale sia il lavoro svolto: le tecniche mente-corpo come lo yoga possono aiutare sia chi svolge un lavoro manuale duro sia chi trascorre la sua giornata lavorativa seduto ricurvo davanti a computer. Sarebbe bene inserire un po’ di queste pratiche durante la giornata lavorativa, anche svolgendo un semplice esercizio di respirazione. La ricerca ha dimostrato che la respirazione lenta e profonda può avere effetti reali sul fisico, tra cui ad esempio il controllo della pressione sanguigna o il miglioramento della frequenza cardiaca. Questo tipo di respirazione aiuta a liberare la mente e ci ricorda che siamo responsabili del nostro respiro e del nostro corpo. E’ un ottimo strumento per evitare reazioni impulsive e avere un miglior controllo della situazione!

Claustrofobia e Agorafobia: Un problema relazionale?

Claustrofobia e Agorafobia sono entrambi Disturbi d’ansia (DSM 5, 2014), in particolar modo Fobie. Esse consistono in una paura estrema di qualcosa di oggettivamente non così pericoloso. Il soggetto riconosce l’irrazionalità della sua paura, ma non riesce a controllarla ed è costretto a fuggire dall’ oggetto fobico. Nell’ articolo approfondiremo come la fobia, in particolar modo degli spazi chiusi e degli spazi aperti, nasconda un problema di natura profondamente relazionale.

 

La fobia secondo la psicoanalisi

Secondo Freud (1894), la fobia ha origine dalla rimozione dalla propria coscienza di desideri proibiti. Essi verrebbero quindi disconosciuti e poi proiettati su un oggetto, che scatenerà dunque la fobia. Lo spostamento del proprio affetto inaccettabile (che sia la rabbia o un desiderio sessuale) su un oggetto o su una situazione esterna consente dunque l’ evitamento: non avvicinandomi a quella circostanza posso non entrare in contatto con i sentimenti che mi fanno paura. Secondo l’approccio psicodinamico, l’ oggetto fobico avrà una connessione indiretta col vero problema dell’individuo: lo simbolizza. La capacità simbolica del nostro inconscio è infatti la sua forza più sorprendente.

 

La teorizzazione cognitiva della fobia

Guidano (1988), sul versante cognitivo, ha invece sottolineato come la tendenza del soggetto fobico sia quella di rispondere con paura ed ansia a ciò che viene percepito come perdita di protezione e/o perdita di libertà.

Ugazio (1998), esponente della teoria sistemico-relazionale, conia il concetto di polarità semantiche: ogni famiglia si organizza intorno ad alcune polarità che definiscono cosa è rilevante per quel nucleo e per la definizione di sé e dei suoi componenti. Ad esempio: buono/cattivo; dare/prendere; sincero/falso. Secondo l’approccio sistemico-cognitivo, l’area saliente per un individuo con un’ organizzazione fobica è la seguente: bisogno di protezione/libertà. Questi estremi sono vissuti come reciprocamente escludentesi e non conciliabili, e viene valorizzata soprattutto la polarità “libertà-indipendenza”, su cui verrà basata la propria autostima e il senso di competenza.

Secondo Ugazio, l’ organizzazione fobica è un assetto che si sviluppa nel bambino a partire dalle prime esperienze con una figura di attaccamento che scoraggia in lui un comportamento esplorativo e che gli trasmette una definizione negativa di sé. Tale organizzazione può poi dare origine a comportamenti sintomatici, nell’infanzia o nell’adolescenza, in seguito a eventi eccessivamente intensi che tocchino una delle due polarità.

 

La claustrofobia e l’agorafobia secondo la teoria cognitiva

Il dilemma del fobico è quindi: rinuncio alla sicurezza della compagnia in modo da essere libero (ma anche solo di fronte ai pericoli) oppure rinuncio alla libertà di esplorazione in cambio di una protezione che mi rassicura (ma che può anche soffocarmi)? Le vie di uscita sono due strade dicotomiche: o aderisco a un’immagine di me che esclude fragilità e debolezza e identifica l’autostima con l’indipendenza, oppure mi imbarco in rapporti affettivi stretti dai quali dipendere. La prima coincide con la claustrofobia, la seconda con l’ agorafobia. La persona con claustrofobia sente pericolose le situazioni che interpreta come perdita di libertà (come un rapporto troppo stretto o la nascita di un figlio), l’ agorafobico ha paura di ciò che vive come perdita di protezione (la fine di una storia d’amore o un lavoro che richiede più responsabilità). Si tratta di un continuum ai cui estremi abbiamo da una parte la scelta di essere indipendente ma rinunciare a un coinvolgimento emotivo, dall’altra essere protetti da un legame ma avere una bassa autostima.

Il claustrofobico può avere un legame affettivo purché a basso coinvolgimento. Sceglierà un partner dal profilo basso: poco brillante, dipendente, che si coinvolge emotivamente per entrambi. Nella coppia è in posizione “one up”, è accentratore, fuggitivo e svalutante. L’ agorafobico, al contrario, privilegia la relazione a scapito del sé. Per paura di perdere il legame, controlla le persone significative e sottopone la relazione a continue verifiche. Il fatto di non essere indipendente compromette il suo senso di realizzazione. Si legherà in giovane età a un partner apparentemente forte e protettivo a cui dedicherà tutto. Nella coppia è in posizione “one down”.

L’ organizzazione fobica di un individuo, che risulta esemplificativa nei due estremi “claustrofobico” e “agorafobico”, affonda quindi le radici in difficoltà relazionali che si esprimono in una modalità non equilibrata di vivere la relazione: il primo tende a sentirsi soffocato (gli spazi chiusi lo angosciano), il secondo ha paura che, solo e sperduto in balìa del pericolo, nessuno lo salvi (gli spazi aperti e dispersivi gli trasmettono senso di minaccia e mancata protezione). Diceva lo scrittore Robert Heinlein: “Puoi avere la pace. Oppure puoi avere la libertà. Non sperare di averle tutte e due insieme”. Ma non è detto: le due strategie, adattive solo sul breve periodo, possono essere col tempo, attraverso la psicoterapia, sostituite da un atteggiamento costruttivo capace di smussare la continua tensione tra i due poli. Riconducendo l’angoscia al terreno relazionale, sarà possibile raggiungere una riconciliazione armonica tra bisogni e paure, e una nuova capacità di apprezzare se stessi nello spazio dinamico dell’esistenza.

Psicoterapia e brain injury: la terapia per pazienti con danni cerebrali

Lo scopo di questo articolo è quello di considerare il ruolo della psicoterapia in ambito neuroriabilitativo, analizzando i benefici e le eventuali controindicazioni di un trattamento psicoterapeutico in pazienti con Danni cerebrali. Danni cerebrali acquisiti (acquired brain injury) possono insorgere a seguito di un trauma alla testa (Traumatic brain injury) a seguito di incidenti stradali o cadute, oppure possono essere presenti sin dalla nascita, o essere provocati da tumori, ictus o emorragie.

Roberta Carugati, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La psicoterapia per pazienti con danni cerebrali

Per molti anni il trattamento psicoterapeutico in ambito neuroriabilitativo è stato considerato un trattamento non particolarmente indicato nei pazienti con Danni cerebrali conseguenti a trauma o acquisiti (Traumatic brain injuries e Acquired brain injuries) poichè considerati privi di capacità metacognitive, difficoltà mnestiche e attentive e anche difficoltà di regolazione emotiva (Coetzer, 2007; Prigatano et al., 1986). Negli ultimi vent’anni tuttavia, numerosi ricercatori hanno evidenziato i notevoli benefici che la psicoterapia può apportare nella vita di questi pazienti e dei loro familiari, migliorando il senso di auto-efficacia, auto-accettazione, ma anche aiutandoli a ritrovare uno scopo nelle loro vite (Klonoff, Lage, & Chiapello, 1993).

 

Caratteristiche del paziente e dello psicoterapeuta

Lo psicoterapeuta che lavora con pazienti brain-injured necessita di alcune essenziali qualità, come una spiccata empatia, una infinita pazienza, gentilezza e capacità di supporto. Forti capacità esecutive, di programmazione e capacità organizzative sono altresì essenziali. Inoltre è la capacità del terapeuta di essere un po’ visionario ed entusiasta, speranzoso ed ottimista che saranno da esempio per i pazienti e per i familiari, rendendo anche loro più consapevoli che un miglior futuro è possibile. (Aniskiewicz, 2007; Ben-Yishay et al., 1985; Strozier, 2001). Deficit comunicativi, di memoria, o pensiero logico, possono ostacolare i benefici della tradizionale psicoterapia. La psicoterapia si affida alla capacità dell’individuo di comprendere, ricordare e accettare il bisogno di cambiamento nella vita quotidiana. In pazienti con ABI o TBI (acquired or traumatic brain injury) possono presentarsi notevoli difficoltà cognitive e comportamentali, che possono ostacolare il successo della psicoterapia.

 

Afasia globale

L’ Afasia globale e’ una condizione nella quale sia la comprensione che la produzione verbale sono altamente compromesse. Per questo, pazienti con questa diagnosi difficilmente potranno beneficiare di un simile trattamento. Tuttavia, in pazienti con afasia di Broca (in cui la comprensione è intatta ma ciò che è compromessa è la produzione del linguaggio) è possibile evidenziare dei miglioramenti, ma solo se il terapeuta sarà in grado di identificare modi alternativi di comunicare (ad esempio il paziente potrà comunicare di aver capito scuotendo la testa o muovendo le mani in un determinato modo). In pazienti con deficit di comprensione invece (ES afasia di Wernicke) il trattamento psicoterapeutico non è consigliato, dal momento che non saranno in grado di comprendere ed esprimere i propri stati emotivi.

 

Anosognosia

L’anosognosia può essere spiegata come deficit neuropsicologico che impedisce al soggetto che ne ne è affetto di riconoscere di avere un problema. La persona quindi non è assolutamente consapevole di avere un disturbo o una malattia e manifesta la convinzione di essere del tutto funzionante (Goldberg, 1991). La psicoterapia si configura come trattamento psicologico indicato nelle persone che mostrano un significativo grado di consapevolezza, tale per cui non è raccomandata in questo caso.

 

Scarsa motivazione

Dal momento che la psicoterapia è un percorso che richiede fatica, tempo e serio impegno, non dovrebbe essere iniziata con pazienti che non mostrano motivazione.

Al contrario la psicoterapia con pazienti ABI e TBI porterà a risultati soddisfacenti se saranno presenti una serie di fattori (Ruff et al, 2014);
– La volontà da parte del paziente di accettare le proprie difficoltà
– Motivazione e desiderio di migliorare
– Stabilire obiettivi che siano realizzabili.

 

Cambiamenti emotivi e comportamentali dopo danni cerebrali

Per molte famiglie i cambiamenti emotivi dopo un ABI sono spesso estremamente difficili da gestire. Molte ricerche hanno evidenziato come familiari di pazienti con danni cerebrali riportano di sentirsi maggiormente in difficoltà di fronte a frequenti cambiamenti emotivi rispetto alle limitazioni fisiche conseguenti alla lesione (Kinsella et al., 1991; Brooks et al. 1986). Cambiamenti di umore e di comportamento sono tuttavia piuttosto comuni dopo un danno cerebrale. E’ possibile che il paziente abbia esplosioni di rabbia emotiva, irritabilità, comportamenti suicidari, ritiro emotivo ma anche impulsività. Molto frequenti sono inoltre sintomi di natura depressiva e ansiosa.

 

Quale orientamento psicoterapeutico scegliere?

Psicoanalisi

Approcci psicoanalitici ricercano nell’infanzia e nella adolescenza le origini del malessere psicologico dell’individuo. Per questo motivo il focus della terapia psicoanalitica si concentrerà sui principali episodi riguardanti l’infanzia. Sono necessarie quindi nel paziente capacità di tipo retrospettivo e introspettivo. Concentrarsi tuttavia su episodi accaduti prima della lesione cerebrale, può far crescere nel paziente l’aspettativa (falsa) che potrà ritornare allo stato in cui era prima. Questo tipo di approccio concentrato sul passato, può tuttavia rivelarsi utile allo psicoterapeuta per identificare le strategie di coping che il paziente utilizzava prima del trauma nell’ affrontare situazioni problematiche.

 

Terapia cognitivo-comportamentale

Questo tipo di approccio mira ad aiutare l’individuo a comprendere il collegamento tra credenze, pensieri emozioni e comportamenti. L’efficacia e il successo di questa terapia con pazienti ABI dipendono dal livello di funzionamento cognitivo del paziente. E’ stato recentemente suggerito un protocollo più flessibile di REBT per questo tipo di pazienti. Manchester e Wood (2001) hanno avanzato l’idea che attraverso l’apprendimento procedurale (struttura e ripetizioni) si raggiunga il successo della terapia.

 

Psicoterapia orientata alla consapevolezza

Questo tipo di psicoterapia può essere spiegata in termini di accrescimento della consapevolezza nel paziente dei propri stati emotivi, pensieri e comportamenti. Parte dall’idea che maggiore sia la consapevolezza su questi processi, maggiore sia la possibilità di poterli cambiare qualora siano disfunzionali (Pologe, 2001). Prigatano (1986) ha suggerito che uno degli obiettivi della psicoterapia con pazienti ABI dovrebbe essere quello di aumentare la loro consapevolezza su ciò che è accaduto, sulle ripercussioni nella loro vita e anche di aiutare la persona a raggiungere un livello di accettazione della situazione e di tutte le sue conseguenze (psicologiche, sociali, relazionali). Questo tipo di psicoterapia è spesso condotto in gruppi all’interno di setting riabilitativi, dal momento che il gruppo può essere una preziosa fonte per accrescere l’insight dei partecipanti.

 

Psicoterapia con familiari

Dal momento che i familiari giocano un ruolo importante nella vita del paziente, è importante che siano coinvolti in un percorso psicoterapeutico. Un modello di intervento efficace coinvolge tecniche cognitivo-comportamentali e sessioni di psico-educazione (Sander et al., 2002). Molto utili sono le tecniche di gestione dello stress, quali esercizi di rilassamento, problem solving e tecniche Abc per la ristrutturazione di pensieri disfunzionali.

 

Psicoterapia e danni cerebrali: conclusioni

In conclusione possiamo affermare che esistono diversi orientamenti psicoterapeutici che fungono da sostegno e da aiuto per pazienti ABI, per aiutarli ad acquisire consapevolezza su ciò che è accaduto e sviluppare nuovi comportamenti adattivi. I dati finora raccolti non permettono di affermare che un particolare metodo psicoterapeutico sia più efficace di un altro. La sfida per gli operatori sanitari che lavorano con pazienti di questo tipo è quella di trovare una combinazione di interventi che funzioni al meglio per ogni singolo paziente e che tenga conto delle loro caratteristiche individuali e delle loro risorse.

Diversamente amanti: l’ assistenza sessuale alle persone con disabilità

Ad oggi l’assistente sessuale per disabili è una figura professionale presente e legalizzata in Germania, Olanda e Scandinavia, Gran Bretagna e Svizzera dove l’ assistenza sessuale è un fatto acquisito, un aiuto a ragionare meglio sul tabù dell’amore, fisico e sentimentale, che accompagna l’esistenza delle persone diversamente abili.

Silvia Baraldi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Poesia d’amore per nessuno in particolare:

Lascia che io ti tocchi con le mie parole perché le mie mani giacciono flosce come  guanti vuoti;
Lascia che le mie parole accarezzino i tuoi capelli, scendano lungo la tua schiena e ti solletichino il ventre;
perché le mie mani, leggere, che volano libere come mattoni, ignorano la mia volontà e rifiutano caparbiamente di realizzare i miei più segreti desideri;
lascia che le mie parole entrino nella tua mente recando fiaccole;
accoglile di buon grado nel tuo essere, così che ti possano accarezzare gentilmente l’anima.

(The session)

 

Alex ha avuto più di trenta ragazze. Enea, tu quante? – Io… ne avevo dieci. Poi le ho lasciate tutte. – Ne avevi dieci in una volta sola? – Si, in una volta sola. – Hai fatto l’amore con dieci ragazze? – Eh, cercavo. – Ma non ci sei riuscito? – No. – Perchè non sei riuscito? – Perchè un po’ non avevo neanche  tempo.

(The Special Need)

 

Mark O’Brien è un poeta e giornalista costretto a vivere in un polmone d’acciaio ed è tretraplegico da quando da bambino si ammalò di una poliomielite che lo rese tetraplegico. A causa della sua condizione, è arrivato a 38 anni senza aver mai fatto sesso. Dopo alcune vane prove contatta Cheryl, una professionista del sesso, diversi tentativi e sessioni, Mark e Cheryl sono in grado finalmente di fare del sesso soddisfacente.

Enea ha trent’anni, un lavoro e un problema. Anzi: più che un problema, una necessità. Una necessità speciale: fare (finalmente) l’amore. Enea ha anche due amici, Carlo e Alex, fermamente decisi ad aiutarlo. A prenderlo sottobraccio con allegra dolcezza. E il sogno di Enea, impigliato nella rete dell’autismo, richiede una manutenzione delicatissima. Un viaggio, una complicità maschile e nuovi incontri creeranno le giuste condizioni.

 

Sessualità e disabilità

Chiunque ha il diritto di sperimentare le proprie emozioni intime, l’erotismo e l’amore. Ma quando la sessualità è espressa nella disabilità? La sessualità, infatti, è un’espressione fondamentale dell’essere umano, è un fenomeno complesso che vede coinvolte influenze psicologiche, biologiche e culturali. È  inserita alla base nella piramide dei bisogni di Maslow (1954).

Fino ad alcuni decenni fa il discorso relativo alla sessualità nei soggetti portatori di handicap veniva considerato tabù, taciuto, evitato, lasciato in mano alle famiglie e, di conseguenza, eluso dalla letteratura. Qualunque fosse la disabilità, fisica o psichica, diagnosticata alla nascita oppure causata da improvvisi o inaspettati incidenti di percorso nella fase evolutiva, c’era sempre una certa difficoltà tra le persone normodotate ad affrontare questa tematica. Non che ora se ne parli facilmente e liberi da qualunque pregiudizio o stereotipo, raramente si osserva una serena e chiara affermazione della sessualità tra e per le persone con disabilità, ma almeno, attualmente, l’argomento viene affrontato con sempre maggiore frequenza, sia da parte degli operatori (Villar, 2016) sia dai mezzi di comunicazione questo grazie ad una “costante penetrazione nella coscienza sociale di una nuova sensibilità relativa ai diritti dei portatori di handicap, diritti che tendono, com’è giusto, verso il più possibile” (Ianes-Folgheraiter, in Dixon H. 1990, pag. 7) e alla rottura del silenzio intorno alle parole “disabilità e sessualità” che “hanno subìto una particolare forma di censura che non ha comportato l’imposizione del silenzio, quanto piuttosto l’elaborazione di un nuovo linguaggio” (Pennella, 1997).

Ma che cos’è la sessualità? È solo genialità o c’è altro?

La salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire ad un arricchimento della personalità umana e della comunicazione dell’essere” Organizzazione Mondiale della Sanità (2010).

E’ inimmaginabile negare tutto questo ad una persona. La sessualità non può essere ridotta alla dimensione genitale del sesso, ma comprende una vasta gamma di aspetti culturali e sociologici come pure di sensazioni ed emozioni. La sessualità è così anche relazione, comunicazione e scambio di piacere.

Diversi autori (Valente Torre, Cerrato, 1987; Sbardella, Secchi, 1997) evidenziano come la sessualità non coincide esclusivamente con la genitalità ma in essa rientrano anche altri aspetti ad essa connessi, quali la corporeità, il contatto fisico, la tenerezza, l’affettività, ecc. La possibilità di manifestare e vivere i bisogni e i desideri sessuali, in accordo con il proprio grado di coscienza e capacità, è un diritto umano fondamentale, che non deve essere ignorato ma rispettato e reso possibile. Ciò in particolare per le persone che, a causa delle loro difficoltà, necessitano dell’aiuto degli altri per realizzare la propria psicosessualità.

Non è possibile ritenere che sia difficile se non impraticabile per le persone con disabilità avere una vita sessuale soddisfacente o ritenerle come eterni bambini, cosa che succede molto spesso con i disabili psichici (Valente Torre, 1987). Nell’immaginario collettivo, purtroppo sembra comune la fantasia che le persone con disabilità non possano vivere un’intimità erotico-sessuale di coppia e autoerotica, allontanandosi inevitabilmente dallo sperimentare l’esperienza sessuale.

Che significato possono dare alla sessualità le persone che già vivono particolari difficoltà e disagi? Quel corpo che nell’infanzia era toccato e gestito senza alcuna difficoltà ora cambia, ora quei maneggiamenti assumono nuovi significati, nuove rappresentazioni che essendo taciuti sono poco compresi e vissuti con timore ed imbarazzo. I disabili fisici dalla nascita come suggerisce Baldaro Verde et al. (1987) in termini psicologici rischiano di instaurare forme di chiusura, tristezza e imbarazzo e inoltre la rappresentazione del Sé è rinforzata negativamente da una società giudicante, disprezzante e limitante, che non permette ai disabili motori di instaurare o mantenere in modo sereno una relazione intimo-affettiva.

Spesso, questi individui, a prescindere dal genere sessuale, si trovano a vivere gravi sentimenti d’inferiorità con conseguente paura di una non accettazione da parte del sociale (Dupras, 2015). I disabili che hanno acquisito l’handicap successivamente ad incidenti o malattie, durante la fase pubero/adolescenziale possono sviluppare sentimenti di rabbia e di disagio legati alla delusione di vedersi negata una condizione che alla nascita gli spettava di diritto (Baldaro, Verde, 1987).

La disabilità di tipo psichico ha invece tutta un’altra caratteristica in quanto gli individui hanno sviluppi psico-fisici differenti. Se al livello cognitivo possono restare lontani dall’età biologica a livello fisico possono in genere rispettare le normali tappe dello sviluppo erotico-sessuale. Appare quindi scontato che ancor più dei disabili motori, gli individui con disabilità psichica e mentale, subiscono maggiori restrizioni e privazioni in campo sessuale, nonostante diversi studi (Turner, 2016; Dupras, 2015) mostrino come abbiano desideri, bisogni e rappresentazioni. Come suggerisce Loperfido (1987) e Turner (2016) è possibile però non rimanere ancorati ai giudizi e pregiudizi nei confronti della sessualità nella disabilità psichica. Infatti, sul piano del “fare”, l’educazione sessuale acquista un significato fondamentale. Ma come è possibile fare?

 

Assistente sessuale: verso una sessualità più autonoma

Sarebbe utile insegnare alle persone che ruotano intorno al diversamente abile, famiglia ed educatori (Villar et al, 2016), ad affrontare questi argomenti in maniera serena e a far acquisire una cosiddetta normalità attraverso l’accettazione della diversità del proprio corpo, riconoscerne i limiti, sia fisici, sia psichici che sensoriali, e stimolarne le potenzialità verso una condizione sociale che li renda più autonomi e che rafforzi la propria identità (Lolli et al, 2010).

In questa visione non può mancare un percorso di autonomia verso una sessualità possibile e autogestita fatta non solo da rapporti sessuali completi ma da gesti che possono essere carezze, baci, tenersi la mano o stare al telefono con il proprio partner (Veglia, 2000). Autonomia che va incoraggiata e sperimentata. Sperimentazione che in Europa è già possibile attraverso il servizio di Assistenza Sessuale e, dunque, la figura dell’ Assistente Sessuale. In Europa già dagli anni ’80, Germania e Paesi Bassi, hanno istituito dei “Servizi di Assistenza Sessuale” gestiti da associazioni come la SAR (Associazione per le Relazioni Alternative) nei Paesi Bassi e la SENIS in Germania. Ad oggi l’assistente sessuale per disabili è una figura professionale presente e legalizzata in Germania, Olanda e Scandinavia, Gran Bretagna e Svizzera dove l’ assistenza sessuale è un fatto acquisito, un aiuto a ragionare meglio sul tabù dell’amore, fisico e sentimentale, che accompagna l’esistenza delle persone diversamente abili.

Questi progetti nascono dalla necessità di rispondere al semplice bisogno del portatore di disabilità di avere un’intimità propria che migliori la possibilità di relazionarsi con il mondo esterno con una diminuzione della frustrazione e dell’aggressività conseguente alla gratificazione di una parte così importante dei bisogni primari (Turner, 2016), sgravando la famiglia che negli anni passati se ne occupava o personalmente o cercando modi alternativi per sfogare i desideri del figlio (es prostituzione) (Ulivieri, 2014)

Il servizio di assistenza sessuale consente da una parte l’espressione dei bisogni sessuali e dall’altra cerca di sviluppare un’esperienza affettiva. L’ assistente sessuale (Nuss, 2008) o accompagnatore sessuale, è un professionista, uomo o donna, sano nel corpo e nello spirito, che ha deciso volontariamente di fornire aiuto alle persone con handicap a vivere la loro sessualità:

  • Permette alle persone con deficit mentale o psichico, o entrambi, di vivere una esperienza erotica, sensuale o sessuale
  • Propone dei massaggi, contatto fisico, corpo a corpo, stimolazione tattile, consigli sulla masturbazione;
  • Permette alle persone con disabilità di raggiungere il piacere orgasmico;
  • Tratta le persone con disabilità come “individui” alla pari.

Gli operatori vengono formati appositamente, lavorano in modo volontario e non sono legati al mondo della prostituzione (Limoncin et al., 2014). Le modalità di selezione degli assistenti sessuali sono assolutamente rigorose. L’operatore definito del “benessere sessuale” ha dunque una preparazione adeguata e qualificante e non concentra esclusivamente l’attenzione sul semplice processo “meccanico” della sessualità ma promuove attentamente anche l’educazione sessuo-affettiva.

L’ assistenza sessuale a persone con Disabilità rappresenta quindi un concetto che racchiude allo stesso tempo “rispetto” e “educazione”, che solo per un paese civile può rappresentare la massima espressione del “diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale” (Ulivieri, 2015).

Per questo motivo parlare semplicemente di Assistenza Sessuale può risultare estremamente riduttivo, qualificarne il concetto più complesso attraverso i termini Assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità permette di assaporare tutte quelle sfumature in essa contenute (Ulivieri, 2015).

L’assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità si caratterizza con la libertà di scelta da parte degli esseri umani di vivere e condividere la propria esperienza erotico-sessuale a prescindere dalle difficoltà riscontrate nell’esperienza di vita.

Aiutano il soggetto disabile a rendersi protagonista maggiormente responsabile delle proprie relazioni sia sentimentali che sessuali, favorendo una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé ed una più adeguata capacità di prendersi cura del proprio corpo e della propria persona (Ulivieri, 2015).

Gli incontri si orientano in un continuum che va dal semplice massaggio o contatto fisico, al corpo a corpo, sperimentando il contatto e l’esperienza sensoriale, dando suggerimenti fondamentali sull’attività autoerotica, fino a stimolare e a fare sperimentare il piacere sessuale dell’esperienza orgasmica. L’ assistente sessuale può aiutare ad accogliere e non reprimere le diverse istanze del proprio corpo, dei sensi e delle emozioni. Questo aspetto emerge anche da diversi studi (Gammino et al, 2016) nei quali i risultati suggeriscono che i servizi di assistenza sessuale potrebbero rappresentare una opportunità per le persone con disabilità di scoprire nuovi modi per soddisfare le loro esigenze personali e di vivere in modo più autonomo, mentre, allo stesso tempo, permettono ad aspiranti assistenti sessuali per soddisfare il loro desiderio di essere utile. Naturalmente questa assistenza non vuole essere la risoluzione al problema, dai dati infatti emerge anche il desiderio di creare una relazione romantica con un partner, ma può essere l’ assistenza sessuale considerata, finalmente, una rottura del silenzio, l’inizio di una presa di consapevolezza da parte della società.

 

L’assistenza sessuale in Italia

In Italia? Nel 2014 nasce Lovegiver (www.lovegiver.it) un’associazione che promuove l’istituzione dell’ assistenza sessuale anche attraverso l’Osservatorio Nazionale sull’Assistenza Sessuale, un organo interno che, per mezzo di alcuni attivisti coordinati dal Prof. Fabrizio Quattrini, promuove un dialogo costante e funzionale in materia di sessualità e disabilità. L’Osservatorio Nazionale sull’Assistenza Sessuale ha tre scopi principali: la ricerca, l’aggregazione-controllo e la rete. Da un anno è fermo il Disegno di legge 1442 del 24 Aprile 2014 sull’istituzione e la regolamentazione dell’ Assistenza Sessuale in Italia, alcune regioni si stanno muovendo ma senza prendere ancora una reale decisione in materia.

Significato narcisistico del tema del Doppio: una relazione con la rappresentazione filmica

La rappresentazione del tema del Doppio nel cinema ha destato molto interesse tra i critici oltre che per l’esame, dal punto di vista psicoanalitico, dei personaggi, anche per la storia e l’eventuale analisi biografica e psichica del regista/sceneggiatore.

 

 

Tra tutti i film di seguito citati, sarà possibile trovare degli elementi comuni:

  1. I meccanismi basilari di difesa che attraverso la scissione e la proiezione producono il Doppio ed eludono l’angoscia. All’origine ci sono desideri illeciti, sensi di colpa inconfessati, conflitti insanabili, le parti non realizzate di sé, i lati rinnegati e sconfessati.
  2. Il vertice dell’angoscia è sempre il ritorno del rimosso; quando le parti scisse si riaffacciano alla coscienza e il Doppio pretende la reintegrazione nell’Io.

Come già accennato, non comuni ma a parer mio interessanti da analizzare e osservare, sono gli aspetti della costituzione psichica e le affinità personologiche o biografiche che talvolta si possono trovare tra gli autori delle opere ed i protagonisti delle stesse.

I primi film sul tema del Doppio si ispiravano ad opere letterarie che trattassero questa nuova e affascinante tematica: ecco quindi Der Student von Prag (Lo studente di Praga, 1913) di Stellan Rye, tratto dal testo di H. H. Ewers; Le feu Mathias Pascal (Il fu Mattia Pascal 1926) di Marcel L’Herbier, tratto da Pirandello; le innumerevoli versioni del Dr Jekyll e Mr Hyde; stesso discorso vale per il Frankenstein di Mary Shelley, anche qui decine di versioni e di cui la più fedele sembra senza dubbio Il Mary Shelley’s Frankenstein (1994) di Kenneth Branagh. Altre trasposizioni letterarie da menzionare sono Partner (1968) di Bernardo Bertolucci, ispirato a Il sosia di Dostoevskij; Blade Runner (1982) di Ridley Scott, tratto da Philip K. Dick e The Dead Zone (La zona morta, 1983) di David Cronenberg, tratto dall’opera omonima di Stephen King.

Ovviamente l’horror e il thriller hanno usufruito molto del tema del Doppio. Alfred Hitchcock, ad esempio, ha realizzato opere come Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) e Psyco (1960), in cui il Doppio rappresenta il vuoto, il buco nero, da cui tutti i personaggi fuggono ma verso il quale tutti sembrano attratti, la voragine in cui essi corrono sempre il rischio di precipitare.

Nella cinematografia americana, il Doppio si presenta come persecutore e manifesta anche la sua attitudine magnetica (il classico fascino del Male) anche se, alla fine, dovrà soccombere per far tornare tutto come era prima e per assicurare il classico lieto fine; invece nelle tradizioni del tema del Doppio propriamente europee, il riflesso è la figura persecutrice per eccellenza, e che dopo varie vicissitudini, conduce il protagonista alla morte.

Per una maggiore comprensione, vediamo ora di suddividere questo affascinante e complesso genere in determinate categorie.

 

Il tema del doppio e la doppia identità

Molto popolare è il tema della doppia identità: il tema dell’identità segreta eroica e di quella pubblica banale. E’ il caso di Zorro, Superman, Batman, Spiderman, de L’uomo ombra e di Cat Woman, in cui spesso si compensa con la megalomania dell’immagine eroica, le ansie e le frustrazioni della mediocrità di quella privata; la doppia identità è una prerogativa obbligata di tutte le spie come La primula rossa, James Bond e La Talpa; talvolta a complicare le cose, ci sono le spie affette da amnesia, che conducono una vita tranquilla senza sospettare del loro turbolento passato come Matt Damon che perde e ritrova la memoria nella saga dedicata a Jason Bourne (The Bourne Identity, 2002; The Bourne Supremacy, 2004 e The Bourne Ultimatum, 2007) e Geena Davis, al contempo madre amorosa e spietata killer in Spy (1996).

Interessante è l’intersezione che nasce tra il tema del Doppio e il tema del travestitismo per cui abbiamo anche le doppie identità di genere sessuale: Tootsie (1982) di Sidney Pollack , con un Dustin Hoffman travestito da donna; Mrs Doubtfire (1993) con Robin Williams nei panni di una simpatica governante alquanto bizzarra e Victor Victoria (1982) di Blake Edwards con una Julie Andrews travestita da uomo. Rientra in questo filone, ovviamente con tratti più interessanti e dai toni più drammatici, anche M. Butterfly (1993) di David Cronenberg.

 

Il tema del doppio tra umano- animale e umano- macchina

Il tema del Doppio si può declinare tra umano e angelico, come il delizioso angelo di mezza età de It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946) di Frank Capra, o come l’arcangelo mangione e ubriacone, che perde le piume, interpretato alla perfezione da John Travolta in Michael (1996); oppure tra umano e demoniaco, come accadde a suo tempo in Rosemary’s baby (1968) di Roman Polanskj e più recentemente in The Devil’s Advocate (L’avvocato del diavolo, 1997), con un Al Pacino perfettamente a suo agio nel ruolo del titolo. Ci sono anche i Doppi costituiti da umano e animale: Wolf (Wolf – La Belva è fuori, 1994) di M. Nichols e The Fly (La Mosca, 1986) di D. Cronenberg rappresentano, attraverso vere e proprie metamorfosi fisiche (da uomo a lupo e da uomo a mosca), la violenza e la sofferenza indotte da crisi esistenziali.

Abbiamo poi i Doppi post-moderni composti da uomo e macchina: Blade Runner di Ridley Scott, Robocop (1987) di Paul Verhoeven, Terminator (1984) e il più recente Avatar (2009) entrambi di James Cameron. L’immagine cinematografica dell’armatura, corpo lucente e raddoppiato che potenzia, speciale incarnazione di una figura che incarna il tema del Doppio, misteriosa e ambigua, ha attraversato la storia della Settima Arte. Un Doppio-risorsa, quindi, che dà nuove energie e che garantisce nuova forza. Il Doppio in realtà si rivela come l’Io nascosto, coperto, mascherato e illusoriamente protetto. Tra superficie corporea e superficie metallica il confine si annulla. In particolare in Blade Runner il tema del replicante propone la tematica dell’identificazione condizionata da introiezioni imitative e, in definitiva, dalla clonazione, dove l’illusione dell’autogenerazione esprime l’ideale di un’autosufficienza assoluta.

 

Il tema del Doppio nella rappresentazione cinematografica della psicopatologia

L’incarnazione più naturale del tema del Doppio è sicuramente quella dei gemelli, nel classico cliché gemello buono/gemello cattivo: i due Leonardo Di Caprio in The Man in the Iron Mask (La maschera di ferro, 1998); Dead Ringers (Inseparabili, 1988) di David Cronenberg, in cui Jeremy Irons interpreta due gemelli ginecologi, entrambi perversi.

Il filone sicuramente più interessante, che ci riguarda da vicino, è però quello della messa in scena della psicopatologia, dove il modo nel quale viene di volta in volta raccontata la personalità dissociata o alternante, è rivelatore delle teorie dell’epoca.

Spesso il cinema ha raccontato storie di sofferenza mentale e di manifestazioni psicopatologiche come la schizofrenia. I contributi sono in questo senso numerosi e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il cinema di I. Bergman, F. Fellini, L. Bunuel, B. Bertolucci offre innumerevoli spunti in proposito. In particolare la schizofrenia viene proposta nelle diverse versioni cinematografiche de Lo strano caso del dottor Jekill e di Mr. Hyde, o in Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980) di Brian De Palma in cui Michael Caine interpreta uno psichiatra travestito e assassino. A tal proposito, ricordiamo due film di C. Chabrol significativi, La Cérémonie (Il buio nella mente, 1995) e Merci pour le chocolat (Grazie per la cioccolata, 2000), che riescono a rappresentare la drammatica sofferenza di un’identità malata e i percorsi del mondo interiore, al quale bisogna guardare per comprendere atteggiamenti estremamente violenti e distruttivi, che altrimenti sarebbero inspiegabili.

In particolare nel secondo film la protagonista, interpretata da Isabelle Huppert, è una donna bella, elegante, che appare prevedibile e tranquilla. In realtà nasconde un misterioso abisso di male assoluto, un’identità fragile che non sopporta le frustrazioni e che uccide quando non può realizzare un suo desiderio. La storia racconta che lei è così perché ha vissuto un trauma, di cui si era liberata solo escludendo parti di sé problematiche, rinunciando all’aggressività, all’ambivalenza, al conflitto. Solo apparentemente sana, nasconde in realtà un Io impoverito e vulnerabile, incapace di vivere i conflitti, la competizione, le perdite, senza frantumarsi o agire pericolosamente.

Entrambi i film rappresentano la complessità dell’identità e riflettono sulla possibile esistenza di zone psichiche svuotate, apparentemente inattive, non evidenti, ma potenzialmente dannose e mortali. Essi producono un senso di sorpresa e di spaesamento emotivo nello spettatore, spiazzato dallo svelamento di aspetti insospettabili dell’identità dei protagonisti, in cui si era inizialmente identificato e da cui poi deve prendere le distanze.

 

Il narcisismo nel Doppio

Perché associamo al tema del Doppio, un significato narcisitico? Le rappresentazioni del motivo del doppio nei diversi ambiti analizzati, in alcuni casi pongono in risalto la concezione freudiana della predisposizione narcisistica alla paranoia, ed indicano nel proprio io, il principale persecutore contro cui si rivolge il meccanismo di difesa.

La scissione psichica crea il doppio” il quale a sua volta costituisce “una proiezione del conflitto interiore” e la cui creazione porta con sé una liberazione interiore, seppur a prezzo della paura dell’incontro con il “doppio”. Uccidere/sconfiggere o in altri casi accettare questa figura è il prezzo da pagare per superare il conflitto.

Anedonia musicale: questione di ridotta connettività cerebrale

Le persone che non traggono piacere dall’ascolto della musica – una condizione specifica chiamata “anedonia musicale” – hanno mostrato una connettività funzionale ridotta tra le regioni cerebrali responsabili dell’elaborazione del suono e quelle collegate alla ricompensa.
Questo è il risultato di un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Barcelona e dell’Istituto Neurologico di Montreal e Ospedale della McGill University.

 

Anedonia musicale: lo studio

Per capire l’origine dell’anedonia musicale, che riguarda tra il 3% e il 5% della popolazione, i ricercatori hanno reclutato 45 soggetti in salute, che hanno completato un questionario che misurava il loro livello di sensibilità alla musica e li ha divisi in tre gruppi di diverso livello di sensibilità, in base alle loro risposte.

In seguito, i soggetti hanno ascoltato degli estratti di brani all’interno di un macchinario per la risonanza magnetica funzionale (fMRI) mentre fornivano delle valutazioni riguardo al piacere associato, in tempo reale.
Per controllare la loro risposta cerebrale ad altri tipi di ricompensa, i partecipanti hanno anche preso parte ad un gioco basato sulla scommessa, in cui potevano realmente vincere o perdere denaro.

 

Gli anedonici musicali

Utilizzando i dati fMRI, i ricercatori hanno scoperto che mentre ascoltavano musica, gli anedonici musicali presentavano una riduzione dell’attività del nucleo accumbens, una struttura sottocorticale chiave per il network della ricompensa. La riduzione non era correlata ad un funzionamento improprio generale del nucleo accumbens, dal momento che questa regione risultava attivarsi quando gli stessi soggetti vincevano del denaro durante il compito della scommessa.

Essi, tuttavia, mostravano una connettività funzionale ridotta tra regioni corticali associate con l’elaborazione uditiva e il nucleo accumbens.
Di contro, lo studio ha evidenziato che gli individui con un’alta sensibilità verso la musica, mostravano una connettività migliore tra le stesse regioni cerebrali.
In accordo coi ricercatori, il fatto che le persone possano essere insensibili verso la musica nonostante siano reattivi ad altri stimoli, come il denaro, suggerisce differenti vie cerebrali per la ricompensa, dipendenti da differenti stimoli.

 

Discussione dei risultati e possibili sviluppi

Questi risultati potrebbero spianare la strada per uno studio dettagliato sui substrati neurali alla base di altre anedonie dominio-specifiche. I ricercatori aggiungono che potrebbe anche aiutare a comprendere, in una prospettiva evoluzionista, come la musica abbia acquisito valore di ricompensa.

E’ stato dimostrato che una connettività cerebrale poco potenziata starebbe alla base di altri deficit nelle abilità cognitive.
Studi su bambini con autismo, ad esempio, hanno mostrato che la loro incapacità di esperire come piacevole la voce umana, potrebbe essere spiegata da un mancato collegamento tra il solco temporale superiore posteriore bilaterale e le regioni chiave del sistema di ricompensa, che includono il nucleo accumbens.

“Questi risultati non solo ci aiutano a comprendere la variabilità individuale nelle modalità con cui funziona il sistema di ricompensa, ma potrebbe anche essere applicato allo sviluppo di terapie per il trattamento di problematiche legate alla ricompensa, come apatia, depressione o dipendenze” sostiene il Dr. Robert Zatorre, Neuroscienziato dell’ Istituto Neurologico di Montreal, nonché uno dei co-autori dell’articolo.

Perfetti sconosciuti: amore, amicizia e menzogne nel film di Paolo Genovese – Cinema & Psicologia

Il film “Perfetti sconosciuti” è una commedia arguta, spietata e divertente da morire in senso vero e proprio perché suscita una grande disperazione sulla natura dell’essere umano se non la si trasforma rapidamente in compassionevole benevolenza scoprendolo sostanzialmente buono ma straordinariamente bischero da essersi dato assurde regole che poi regolarmente trasgredisce annegando nella rabbia, nella colpa e nella vergogna.

 

“Perfetti sconosciuti”: una commedia divertente dai temi importanti

“Non ho voluto giocassimo perché siamo tutti frangibili” con queste parole Marco Giallini uno dei sette superbi protagonisti imbocca nell’altro verso la sliding door e riporta la pellicola sul binario di una consueta ipocrita e rassicurante serata tra vecchi amici che celebrano – ognuno con un ruolo risaputo – la solita messa della conferma della propria identità chiamando gli altri come testimoni e specchi a colpi di “ti ricordi…..” e si “ è sempre stato così….”. Non dice fragili che richiama l’idea di debolezza e friabilità, ma “frangibili”. E’ frangibile qualcosa di apparentemente solido e duro ma che può rompersi. Ricordo tutta la famiglia impegnata a raccogliere i minutissimi cristalli sul pavimento della cucina tra i “ lo avevo detto io” di mia nonna dopo che mio padre per mostrarle i segni del galoppante progresso del dopoguerra che già ci aveva donato il Moplen (che valse il premio nobel nel 1963 a Giulio Natta chimico di Imperia), aveva lanciato per l’ennesima volta a terra un bicchiere appunto infrangibile che era letteralmente esploso.

Il passaggio in televisione su Sky di “ Perfetti sconosciuti ” il film di Paolo Genovese che ha fatto incetta di meritatissimi premi mi ha riproposto, come i peperoni ripieni, alcuni temi che tipicamente conducono le persone nelle sale d’attesa di psicoterapeuti e avvocati. Come spesso succede la seconda visione di un film permette di apprezzarne meglio le sfumature non più catturati dalla curiosità sulla intrigante vicenda. Il film è una commedia arguta, spietata e divertente da morire in senso vero e proprio perché suscita una grande disperazione sulla natura dell’essere umano se non la si trasforma rapidamente in compassionevole benevolenza scoprendolo sostanzialmente buono ma straordinariamente bischero da essersi dato assurde regole che poi regolarmente trasgredisce annegando nella rabbia, nella colpa e nella vergogna.

L’amore e l’amicizia al centro della trama di “Perfetti sconosciuti”

Tralascio qualsiasi accenno sul film se non che è lo scoprirsi come perfetti sconosciuti di sette amici storici che decidono di condividere sms e telefonate per lo spazio di una cena. I segreti non riguardano ovviamente solo la vita affettivo sessuale ma più in generale il modo in cui ci si è sempre raccontati seppure la parte principale la fanno appunto gli intrighi amorosi. Dati di maggio 2016 riportati dalla sessuologa Roberta Giommi e ripresi dal Corriere della sera e dall’Avvenire (quest’ultimo per invitare al perdono cristiano i cornuti) ci dicono che in Italia l’80% delle coppie si tradisce e che a sua volta l’80% dei tradimenti viene scoperto e ancora che il 70% delle coppie con un tradimento scoperto sopravvive (fatti due calcoli con le probabilità multiple il 40% delle coppie si separa per un tradimento scoperto). A questo tema con Sandra Sassaroli abbiamo dedicato una serie di articoli sotto il titolo complessivo di “Tracce del tradimento”.

L’origine della maggior parte dei guai sta nell’identificazione tardo romantica dell’amore e della sua forma codificata, il matrimonio, con la passione e l’innamoramento, con la conseguenza che ci si giura eterno amore e poi quando invece ci si innamora di qualcun altro va tutto a monte.
L’amore riguarda i comportamenti volontari, è decidibile e gestibile ed ha lo scopo di fare in modo che l’altro stia bene. In termini più tecnici amare vuol dire adottare gli scopi di un altro, vale a dire che si ha lo scopo che lui raggiunga i suoi scopi (attenzione non i propri ed è al confine tra i sistemi motivazionali della cooperazione e dell’accudimento/attaccamento).

Lo vediamo all’opera nell’amicizia, nell’amore per i figli e va dal semplice “voler bene” al “dare la vita per l’altro”. L’amore – essendo un atteggiamento del soggetto- non si riduce se praticato, ma addirittura nell’allenamento si accresce. Ogni figlio è amato completamente, chi ha molti amici non gli vuole meno bene di chi ne ha pochi, anzi. La parola d’ordine dell’amore è “dare” o, nella sua versione grandiosa “darsi”.

L’innamoramento è tutta un’altra faccenda. Qui la parola d’ordine è “prendere”. Gli scopi che si perseguono sono i propri e sono scopi di possesso dell’altro. Il bene dell’altro è perseguito solo se coincide con il proprio, altrimenti lo si ignora e non c’è bisogno di arrivare ai casi di femminicidio per constatarlo. Il sistema motivazionale in ballo è quello sessuale/riproduttivo ed è prevista l’esclusività che la gelosia protegge. L’innamoramento sebbene non ne conosciamo esattamente i trigger è ingestibile, riguarda i sentimenti e non i comportamenti e quindi è azzardato, presuntuoso o mendace prendere impegni su di esso perché è indipendente dalla volontà.

Questa ovvietà l’umanità la conosceva benissimo nel lontano tempo dei matrimoni combinati che erano un contratto che nulla aveva a che fare coi sobbalzi del cuore (matrimoni che non sembra avessero esiti peggiori degli attuali) e fino alle nostre bisnonne che tolleravano un marito cacciatore nei bordelli e con le amanti, meglio se più d’una, purchè portasse a casa lo stipendio e non le malattie. Sulla donna che tradisce si è sempre stati un po’ più rigidi sia per il predominio maschile nella società, sia perchè la paternità non è mai certa come la maternità per cui lo stipendio portato a casa rischia di essere utilizzato per allevare un bastardo con un certo disappunto del gene egoista (vedi la teoria di Dawkins). Il rapporto tra innamoramento e amore è complesso. Non nego che l’innamoramento, non scelto, possa essere un utile viatico per la scelta dell’oggetto d’amore, purchè non si confondano le due cose e non ci si meravigli quando il primo, terminato il suo compito di talent scout, torni a fare il suo lavoro su più vasta scala. Immaginate come sarebbe un mondo in cui non si debba fingere sentimenti su cui non si ha controllo ma invece si fosse rispettosi nei comportamenti ai contratti fatti!

Ipocrisia e verità a confronto

Il film Perfetti sconosciuti smaschera l’ipocrisia con cui proteggiamo la nostra zona di comfort identitario (chi è senza peccato scagli la prima pietra) ma contemporaneamente il mito della sincerità assoluta. Da inveterato bugiardo e contastorie sono naturalmente diffidente verso coloro che affermano di essere senza segreti (non è, tra l’altro, un item della scala L del MMPI?), di dire sempre la verità vera, di non avere peli sulla lingua e riferire chiaramente le cose come stanno (trascurando che le cose stanno soprattutto negli occhi degli osservatori). La verità è assolutamente sopravvalutata.

Quando mi capita di ricevere insieme ad un figlio una madre che dichiara orgogliosa “ entro,dottore, tanto lui non ha segreti per me”, in prima battuta penso che il ragazzo è stato bravo a farglielo credere, godendo così di molta più libertà di manovra non essendo attenzionato, ma se mi accorgo che le cose stanno effettivamente così allora mi preparo a tirar fuori l’armamentario farmacologico perché il rischio psicotico è elevato. Voglio dire che è intorno alle piccole omissioni e menzogne che si costituisce il primo adolescenziale nucleo identitario. Verrebbe da dire “Mento ergo sum”. E forse non è un caso che in questa prima separazione protetta dalla menzogna, il corpo e la sessualità, le porte chiuse del bagno e la chiave della stanza e dei cassetti abbiano un ruolo centrale.

Comunque il film merita di essere visto soprattutto perché è bello, originale e pieno di colpi di scena, ma prima assicuratevi del candore del vostro cellulare.

L’eye-tracking device come strumento di supporto per misurare le prestazioni di un’organizzazione

Eye Tracking: questa tecnica consiste nel registrare la dilatazione e la contrazione delle pupille, realizzando un tracciato oculare capace di definire l’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione.

 

Balanced scorecard: uno strumento per misurare le prestazioni di un’organizzazione

Capita spesso, quando ci si trova a dover compiere delle valutazioni o dei processi decisionali, di ricorrere, il più delle volte inconsapevolmente, ad esperienze pregresse di giudizio. Questo si verifica non solo quando, per il processo valutativo, vengono utilizzati strumenti qualitativi, come interviste più o meno strutturate o veri e propri colloqui di valutazione, ma anche quando ci si affida a uno strumento oggettivo, come la balanced scorecard.

La balanced scorecard (BSC) è un strumento inventato da Robert Kaplan e David Norton nel 1996 per misurare e valutare le prestazioni di un’organizzazione. L’idea era quella di fornire alle aziende uno strumento che fosse capace di bilanciare l’indicatore economico-finanziario, fino a quel momento l’unico indicatore utilizzato, con altre prospettive, come quella del cliente, dei processi interni e della formazione e crescita aziendale.

Negli anni, la BSC si è sviluppata, fino ad arrivare al modello attuale, che permette ad un’organizzazione di tradurre la propria visione e la propria strategia secondo una nuova struttura, attraverso la quale la strategia viene descritta e comunicata in termini di obiettivi, iniziative e misure per attuarla.

Appare evidente, quindi, l’utilità di questo strumento nell’attuale contesto organizzativo, all’interno del quale i tradizionali asset tangibili cedono il posto agli asset intangibili che caratterizzano il vero patrimonio professionale, relazionale e organizzativo del mondo del lavoro. Il mero indicatore economico-finanziario non può render conto, infatti, delle molteplici variabili capaci di influenzare le prestazioni di un’organizzazione, né le valutazioni di queste ultime. I valori e gli stili di gestione, la qualità e l’efficienza della routine organizzativa, la durata e la forza del rapporto tra organizzazione e cliente o fornitore o, ancora, tra organizzazione e partner strategico, sono solo alcuni dei numerosi beni intangibili che pesano sulla valutazione di un’organizzazione.

Seppur di estrema utilità, la BSC non è immune da limiti. Uno di questi è la possibilità che i processi di valutazione dei manager vengano influenzati da bias attentivi durante la fase di acquisizione delle informazioni.

 

Eye tracking Device: uno strumento per misurare l’attenzione durante l’esecuzione di un compito o la visione di un prodotto

Numerosi sono gli strumenti utilizzabili per misurare l’attenzione durante l’esecuzione di un compito, come l’elettroencefalogramma (EEG) o la risonanza magnetica funzionale (fMRI), capace di identificare le aree cerebrali maggiormente attive quando una persona prende decisioni. Uno strumento che merita di essere qui citato, se non altro per la più semplice utilizzazione rispetto ai sopra citati, è l’ Eye Tracking Device.
Questa tecnica consiste nel registrare la dilatazione e la contrazione delle pupille, realizzando un tracciato oculare capace di definire l’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione.

È uno strumento ampiamente usato negli studi di marketing e pubblicità, ad esempio per formulare ipotesi sugli elementi di successo e sui punti deboli di una campagna di marketing, prima che sia presentata al pubblico, semplicemente osservando i movimenti oculari di un potenziale cliente tra gli scaffali di un negozio. E non solo. Grazie all’ Eye Tracking è possibile dedurre il livello di attenzione di una persona verso uno o più oggetti, il modo di trattare le informazioni, nonché le strategie di esplorazione di una pagina.

In che modo questo strumento dovrebbe costituire un valido alleato della BSC? In altri termini, cosa può dirci la pupillometria sulle modalità di acquisizione di informazione e di valutazione dei managers di una grande organizzazione?

Un recente studio di Kramer e Mass (ottobre 2016) fornisce, al riguardo, risultati interessanti. L’intento era quello di analizzare i movimenti oculari di alcuni manager mentre studiavano le informazioni contenute negli scorecard dei subordinati, che contenevano i valori di riferimento e i punteggi attuali relativi a diverse misure di performance, alla ricerca di bias attentivi che in qualche misura potessero spiegare i bias di valutazione.

I risultati suggeriscono, ad esempio, che la configurazione dello scorecard sia in grado di spostare l’attenzione del valutatore verso alcuni item piuttosto che altri e che i valutatori tendano a dare maggiore importanza alle tabelle posizionate nella parte alta dello schermo. Sembra, invece, che l’attenzione decresca progressivamente scendendo verso il basso. Inoltre, sembrerebbe che neanche i managers siano immuni dal cosiddetto “effetto primacy”, per cui alle informazioni presentate prima viene data maggiore attenzione rispetto alle successive.

Un altro studio significativo è quello di Chen, Jermias & Panggbean (2015), i quali, ricorrendo allo stesso modo all’ Eye Tracking Device, si sono posti come obiettivo quello di investigare quali stimoli caratteristici della BSC fossero in grado di influenzare l’attenzione dei manager, e come ciò potesse avere effetti sulla qualità delle loro decisioni. I risultati dello studio suggerivano alle aziende che utilizzavano la BSC la necessità di formare i propri manager sull’importanza delle misure collegate in modo strategico, così che potessero diventare abili nell’utilizzare questa conoscenza nel prendere decisioni.

Concludendo, le capacità dei Manager di processare informazioni, per quanto affinate possano essere, sono ad ogni modo limitate. Per questo, i manager si trovano spesso a dover selezionare le informazioni di cui tener conto, tra le diverse offerte dallo scorecard. Data la complessità delle misure di performance offerte dalla BSC e dei sistemi di valutazione, appare evidente la necessità di dotare ogni azienda che utilizza tale strumento, di programmi di training e di ausili per la decisione che possano aumentare l’accuratezza, diminuire lo sforzo necessario per prendere decisioni di qualità, aumentare le risorse cognitive e formare i nuovi manager.

L’ Eye Tracking  si inserisce in quest’ottica, come strumento di supporto nell’utilizzo della BSC, offrendo alle aziende la possibilità sia di monitorare periodicamente il processo decisionale dei manager e correggere eventuali bias attentivi, sia di avere uno strumento di controllo utile nelle fasi di formazione dei nuovi manager.

I bisogni di cura di utenti psichiatrici residenti nelle comunità alloggio di Modena: uno studio longitudinale

Il termine “Bisogno” si riferisce ad un concetto sulla cui definizione non esiste unanime consenso. Nonostante siano stati riconosciuti all’unisono, nel corso dell’ultimo decennio, sia l’importanza dell’approccio di cura basato sui bisogni, nell’ambito dell’assistenza ai pazienti affetti da disturbi mentali gravi, sia la presenza di una vasta gamma di bisogni di cura clinici e sociali in questo tipo di utenza, esiste ancora molta confusione e disaccordo su come tali bisogni vadano definiti e valutati (Holloway, 1993).

Francesco Romeo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

I diversi significati del concetto “bisogno”

In psichiatria, il concetto di bisogno è stato considerato secondo due diversi accezioni. Nella prima è inteso come “carenza di salute”, un deficit di benessere, rispetto ad uno standard considerato accettabile in un dato contesto culturale, espresso attraverso determinati sintomi (Davies & Challis, 1986). Tale definizione risulta però di scarsa utilità pratica ed operativa.

La seconda accezione, proposta dal gruppo di ricerca della Social Psychiatric Unit dell’Istituto di Psichiatria di Londra, si riferisce al concetto di “Bisogni di Cura”. Secondo tale approccio il “bisogno di cura” rappresenta una condizione in cui [blockquote style=”1″]il funzionamento fisico, psicologico e sociale di un paziente si colloca o rischia di collocarsi al di sotto di un determinato livello minimo a causa di un evento rimediabile o potenzialmente tale[/blockquote] (Brewin et al., 1987). Si sottolinea la necessità che il paziente affetto da disabilità non riceva alcun tipo di aiuto nonostante l’esistenza di interventi terapeutici di provata efficacia. Tale definizione, al contrario della prima, risulta utile dal punto di vista operativo, in quanto aiuta ad evidenziare quelle situazioni in cui l’azione di un servizio è carente e suggerisce in quale direzione debba essere potenziata (Lasalvia et al., 2000a).

Tale concetto si basa su una prospettiva definita di tipo “Normativo”, i cui presupposti fondanti sono: che la valutazione del bisogno sia frutto esclusivo del giudizio di un esperto (che stabilisce quando e in che modo intervenire), che esista consenso su quali interventi siano da considerare efficaci per la risoluzione dei diversi bisogni, che esista accordo sul giudizio di rimediabilità dell’evento causante la disabilità psicosociale e infine che esista consenso sulla definizione di uno standard di funzionamento minimo accettabile.

 

La prospettiva negoziale dei bisogni di cura

Secondo la prospettiva “Negoziale” [blockquote style=”1″]il bisogno rappresenta un concetto dinamico, mutevole e contesto-dipendente, non rigidamente oggettivabile, la cui valutazione deve tenere conto oltre che del punto di vista degli esperti anche di quello degli stessi pazienti[/blockquote] (Slade, 1994; Slade & Thornicroft, 1995).

Slade (1994) infatti, occupandosi della questione relativa alle differenze nella percezione dei bisogni di cura tra operatori e utenti dei servizi di salute mentale, sostiene la necessità, una volte identificate tali differenze, di dare luogo ad un processo di negoziazione tra staff ed utenti, per concordare i programmi terapeutici.

In base al pregiudizio secondo cui i “malati di mente” non sono in grado di valutare le cure ricevute, il punto di vista del paziente è stato quasi sempre ignorato in psichiatria. Nonostante la consapevolezza di alcuni pazienti (soprattutto quelli più gravi) sui propri problemi sia spesso parziale e imprecisa (Perkins & Moodley, 1993), il loro punto di vista è fondamentale per cogliere quegli aspetti dell’interazione fra utenti e servizi che solitamente sfuggono all’osservazione dei soli operatori e che hanno un ruolo di grande importanza nel determinare lo stile d’interazione con il servizio e l’efficacia dei progetti terapeutici (Ruggeri et al., 1999). Non si può, inoltre, trascurare il fatto che gli operatori spesso non sono in grado di percepire quegli aspetti che l’utenza considera prioritari, che rischiano così di non essere adeguatamente soddisfatti.

L’approccio negoziale è quello che negli ultimi anni si sta affermando maggiormente a livello internazionale e che sta fornendo contributi più interessanti e fecondi sia sul piano clinico che su quello della ricerca (Lasalvia et al., 2000 c).

La riflessione sul tema dei bisogni di cura dei pazienti psichiatrici e su quello conseguente della risposta a tali bisogni, irrompe prepotentemente nello scenario psichiatrico italiano negli anni che hanno accompagnato il processo della riforma dell’assistenza psichiatrica attraverso l’entrata in vigore della Legge 180. L’invito di Basaglia (1978) a “mettere tra parentesi” la malattia mentale, ha rappresentato un forte stimolo a prendere consapevolezza della dimensione umana e dei bisogni di chi soffre a causa di un disturbo mentale.

Nonostante sia vero che la Legge 180 abbia favorito la diffusione di pratiche riabilitative innovative centrate sull’obiettivo di soddisfare i bisogni di cura degli utenti, è purtroppo altrettanto vero che in tutti questi anni sia mancata la capacità di effettuare un’analisi sistematica sia dei bisogni degli utenti sia di quelli dei loro familiari e di valutare in maniera rigorosa l’efficacia degli interventi dei servizi in risposta a tali bisogni (Lasalvia & Ruggeri, 2001).
La valutazione dei bisogni di cura si può porre come un valido aiuto sia per gli amministratori, al fine di pianificare l’attività complessiva dei servizi, sia per i clinici, al fine di applicare e verificare strategie terapeutiche individualizzate.

Sino alla metà degli anni ’80, più che i bisogni di cura, è stato possibile valutare i bisogni di servizi, che in genere venivano dedotti in modo indiretto dalle stime di prevalenza dei disturbi psichici nella popolazione generale e dall’utilizzo dei servizi psichiatrici. Tali dati, tuttavia, hanno potuto fornire stime approssimative dei bisogni di cura dei pazienti psichiatrici (Ruggeri et al., 2000). Ciò ha evidenziato la necessità di costruire e validare strumenti in grado di identificare e di fornire una quantificazione diretta dei bisogni di cura individuali e di determinare, caso per caso, il livello di soddisfacimento di bisogni raggiunto.

 

La CAN: uno strumento di valutazione dei bisogni di cura

Strumenti specifici per la valutazione standardizzata e diretta dei bisogni individuali sono stati messi a punto in Gran Bretagna, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, in particolare la Camberwell Assessment of Needs (CAN) (Phelan et al., 1995), che è un’intervista semistrutturata che valuta i bisogni in un’ottica di tipo negoziale, considerando cioè allo stesso tempo il punto di vista degli operatori e dei pazienti.

La CAN, messa a punto all’inizio degli anni ’90 presso l’unità di ricerca PRiSM dell’Istituto di Psichiatria di Londra, costituisce uno strumento di facile utilizzo e di rapida somministrazione che ben si presta ad essere utilizzato nella routine clinica quotidiana in quanto può essere somministrato da molteplici figure professionali e non necessita di un lungo training preliminare. Consente di esplorare in maniera sistematica e strutturata 22 aree che ricoprono la maggior parte dei bisogni sia clinici che sociali ritenuti importati nei pazienti psichiatrici, soprattutto se affetti da gravi e persistenti disturbi psichici. Permette, quindi, di effettuare una ricognizione completa e accurata delle condizioni del paziente in differenti dimensioni, costringendo l’operatore a prendere in esame anche quelle aree della vita dell’intervistato che vengono spesso trascurate a scapito degli aspetti più clinici, ma che tuttavia hanno un ruolo centrale nel determinare il grado di benessere e della qualità di vita della persona.

Attualmente la CAN è lo strumento più usato a questo scopo, a livello europeo, sia in ambito di ricerca che nella pratica clinica.
Le 22 aree finali incluse nello strumento sono le seguenti: Salute Fisica; Sintomi Psicotici; Disagio Psicologico; Sicurezza per Sé; Sicurezza per gli Altri; Abuso di Alcool; Abuso di Farmaci; Alloggio; Alimentazione; Attività quotidiane; Vita di Relazione; Vita di Coppia; Vita Sessuale, Informazione (sui disturbi e i trattamenti); Uso del Telefono; Uso dei Mezzi di Trasporto; Sussidi Economici; Cura della Casa; Cura di sé; Cura dei Figli; Istruzione di Base; Gestione del Denaro. Queste aree vengono raggruppate in 5 macro-categorie: bisogni legati alla salute, bisogni di base, bisogni sociali, bisogni legati ai servizi, bisogni legati al funzionamento.

Ognuna delle 22 aree di bisogno viene analizzata in un’unica pagina dello strumento, inoltre la CAN presenta in tutte le aree un’identica struttura, in base alla quale ognuna si articola in quattro sezioni:

Sezione 1: identifica l’esistenza di un bisogno, valutando le difficoltà presenti, nonché il grado di bisogno (nessun bisogno, bisogno soddisfatto, bisogno insoddisfatto o sconosciuto). Lo scopo di questa sezione è duplice. Il primo è quello di valutare in una determinata area l’esistenza di un bisogno e in tal caso se sia stato fornito aiuto adeguato per risolverlo. Il secondo è quello di decidere se sono necessarie ulteriori domande di approfondimento sull’area indagata.
I punteggi delle risposte vengono attribuiti su una scala a tre punti: 0 = nessun problema; 1 = nessun problema grave o problema moderato grazie ad un intervento (bisogno soddisfatto); 2 = problema grave attualmente in corso (bisogno insoddisfatto).

Sezione 2: registra informazioni relative al grado di aiuto informale (fornito da amici o familiari) nel corso dell’ultimo mese.
I punteggi delle risposte vengono assegnati su una scala a quattro punti: 0 = nessun aiuto; 1 = aiuto scarso; 2 = aiuto moderato; 3 = aiuto elevato.

Sezione 3: permette di raccogliere informazioni sul grado di aiuto formale fornito dai servizi e sul livello di aiuto richiesto agli stessi servizi nel corso dell’ultimo mese. Questi due diversi aspetti sono valutati separatamente.
I punteggi delle risposte vengono attribuiti come nella sezione 2.

Sezione 4: valuta le opinioni dell’utente sull’area esaminata e registra il piano di intervento adottato dallo staff.

 

Lo studio nelle comunità alloggio di Modena

Guardiamo più nel dettaglio uno studio nel contesto modenese. Il Progetto MORES (MOdena RESidenze) è uno studio naturalistico e longitudinale (novembre 2008 e maggio 2009) di esito focalizzato sulla valutazione di routine dei pazienti assistiti nelle Strutture Residenziali (SR), concepito e realizzato all’interno del “Percorso Casa” del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di Modena.
Il “Percorso Casa” costituisce un progetto di riabilitazione psico-sociale per individui con disturbi psichiatrici gravi basato sulla residenzialità. Le SR di cui si avvale il Centro di Salute Mentale (CSM) di Modena-Castelfranco Emilia sono:
due comunità socio-riabilitative a Modena;
sei appartamenti a diverso grado di protezione a Modena;
un appartamento protetto a Castelfranco Emilia.

Il “Percorso Casa”, ispirandosi al Progetto Outcome realizzato dall’SPT di Verona Sud nel 1994, ha adottato un modello per la valutazione degli esiti dei trattamenti nella routine delle strutture residenziali di Modena-Castelfranco Emilia che costituisce un esempio di studio longitudinale e naturalistico di esito in grado di tenere conto dei principi della multiassialità e della multidimensionalità.

Il campione di pazienti esaminato è costituito da 50 soggetti suddivisi in due gruppi (appartamenti n=30; comunità n=20).
Pazienti e staff intervistati nel presente studio hanno riportato un numero medio di bisogni elevato (rispettivamente 7.3 e 10.4), la maggior parte dei quali risulta soddisfatta per entrambi (rispettivamente 5.5 e 8).

Sebbene i due gruppi abbiano mostrato valutazioni concordanti, lo staff sovrastima significativamente, rispetto agli utenti, sia il numero dei bisogni totali, sia la frequenza dei bisogni soddisfatti dei propri pazienti.

Per quanto riguarda le analisi relative ai bisogni nelle macro-aree della CAN, è importante rilevare che il maggiore numero di bisogni in generale si registra nella macro-area dei bisogni di salute (sia per utenti che per staff), tuttavia questi risultano anche quelli complessivamente più soddisfatti. Inoltre sia pazienti che staff considerano i bisogni soddisfatti sempre maggiori rispetto a quelli insoddisfatti, ad eccezione che per la macro-area dei bisogni sociali (in cui soprattutto la dimensione della vita di coppia risulta essere quella con la più alta percentuale di bisogni insoddisfatti per entrambi i gruppi intervistati).

Questo risultato indica che gli utenti, insieme ai loro operatori, riconoscono che l’area della salute, sia fisica che psicologica, è quella più problematica (gli items in cui pazienti e staff identificano più bisogni sono proprio quelli relativi ai sintomi psicotici, disagio psicologico e salute fisica), ma considerano anche che l’aiuto che viene loro offerto è adeguato alle loro necessità tanto da soddisfare in gran parte i loro bisogni. Al contrario, seppur nella macro-area dei bisogni sociali vengono individuati meno bisogni (questo forse perché a causa di una patologia così grave molti pazienti si isolano e rifiutano il contatto sociale, o si rassegnano a venire emarginati dalla società, o vivendo una vita comunitaria ritengono che le relazioni con gli altri utenti ed operatori soddisfano i loro bisogni relazionali), nei casi in cui questi vengono lamentati rimangono principalmente insoddisfatti.

Ciò suggerisce che le SR se da un lato si dimostrano adeguate e concentrate nella risoluzione dei problemi di natura più clinica e pratica dei pazienti, dall’altro non appaiono sufficientemente organizzate per il soddisfacimento dei diversi tipi di bisogni sociali delle persone che ospitano.
In conclusione la CAN costituisce uno strumento facile, multiassiale (tiene conto del punto di vista dell’utente e dell’operatore) e multidimensionale in grado di valutare i bisogni di cura; di notevole utilità nell’ambito dell’attività svolta dai Servizi Psichiatrici sia nella pratica clinica, per impostare gli interventi terapeutici individuali, sia nella pianificazione dell’attività complessiva dei Servizi di Salute Mentale, sia nella valutazione dei Servizi stessi, della loro efficacia nel rispondere ai bisogni dell’utenza (Ruggeri & Dall’Agnola, 2000).

In particolare nel contesto italiano, la chiusura dei manicomi ha permesso lo sviluppo di una rete di Strutture Residenziali finalizzate al trattamento intensivo di soggetti con disturbi mentali gravi. La peculiarità di questo intervento riabilitativo consiste proprio nel passaggio da un ruolo passivo del malato, caratteristico del modello biomedico, a quello di protagonista attivo nella gestione del proprio malessere, come indicato dalla medicina patient centred. Tuttavia, nonostante la rilevanza del fenomeno, sono pochi finora gli studi che hanno valutato le caratteristiche, il funzionamento e l’efficacia terapeutica di queste SR.

Verificare l’efficacia dei trattamenti costituisce un prerequisito fondamentale della definizione della “qualità della cura” e nel corso degli ultimi dieci anni, una parte rilevante dei contributi della ricerca in salute mentale si è orientata, nel tentativo di colmare le carenze in questo ambito, proprio alla valutazione degli esiti, realizzata nell’ambito della routine operativa dei Servizi di Salute Mentale.

Il “Percorso Casa” del Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Modena ha realizzato il Progetto MORES: uno studio longitudinale e naturalistico di esito all’interno della pratica clinica di routine. Tale progetto ha permesso di realizzare una valutazione sistematica delle caratteristiche cliniche, sociali e di interazione con il Servizio degli utenti inseriti nelle Strutture Residenziali del DSM di Modena, mediante l’utilizzo di strumenti standardizzati e dotati di adeguate proprietà psicometriche.

Dai risultati del presente studio si evince, come d’altronde confermano i dati presenti in letteratura, che mentre i bisogni di salute vengono mediamente soddisfatti, i bisogni sociali rimangono quelli maggiormente insoddisfatti: le SR che ospitano pazienti con gravi disturbi psichiatrici cronici non appaiono adeguatamente organizzate per soddisfare questo genere di esigenza. Se l’idea portante sottostante la riforma 180 era quella dell’“integrazione”, ossia di non considerare lo spazio sanitario come l’unico spazio di cura bensì di sperimentare la possibilità di accogliere l’utente dentro i contesti sociali della città a contatto diretto con la gente comune, allora questi dati ci devono portare ad un’accurata riflessione critica sulle risorse e gli strumenti necessari per l’attuazione di tale obiettivo, nonché sulle reali possibilità della sua realizzazione.

In conclusione, la valutazione dei bisogni di cura degli utenti costituisce una preziosa fonte di informazioni per migliorare la pianificazione dei programmi terapeutici, per incrementare la consapevolezza sull’attività svolta e per utilizzare in modo più razionale ed adeguato le risorse disponibili (Ruggeri et al., 2007).

Uno degli scopi primari di studi come il Progetto MORES, rimane quello di fornire un’occasione di riflessione critica sul lavoro che viene quotidianamente svolto all’interno dei Servizi di Salute Mentale. Non sempre, infatti, i bisogni degli utenti debbono essere soddisfatti completamente: in alcune situazioni soddisfare certe richieste può non essere indicato dal punto di vista clinico o può non essere concretamente realizzabile a causa di una limitatezza delle risposte disponibili; conoscere però le necessità dei propri pazienti e il loro pensiero è fondamentale per poter ottenere una visione comune (per utenti ed operatori) e più aderente alla realtà sui bisogni, risorse ed obiettivi da realizzare nel futuro e per pianificare assieme gli interventi da attuare per raggiungerli.

Le forme dell’angoscia: dall’urlo di Munch a quello di Bacon, l’angoscia di Freud e Kohut

Per tratteggiare l’evolversi del sentimento di angoscia nel ‘900, potremmo scegliere di osservare due grandi opere: l’“Urlo” di Munch e lo “Studio dal ritratto di Innocenzo X” di Bacon. Opere molto differenti, nate in epoche e contesti sociali diversi, ma accomunate da un sentimento prorompente: l’angoscia, appunto.

La rappresentazione dell’ angoscia nell’arte

L’artista vive una peculiare fusione psicologica tra Sé e l’ambiente (Kohut, 1978). La precarietà della barriera che separa ciò che è “interno” da ciò che è “esterno” a sé, dona all’artista una consapevolezza più profonda della realtà, consentendogli di intuire con grande sensibilità le urgenze del gruppo in cui vive. Di conseguenza, la produzione artistica rifletterà il problema psicologico centrale di ciascuna epoca.

Per tratteggiare l’evolversi del sentimento di angoscia nel ‘900, potremmo scegliere di osservare due grandi opere: l’“Urlo” di Munch e lo “Studio dal ritratto di Innocenzo X” di Bacon. Opere molto differenti, nate in epoche e contesti sociali diversi, ma accomunate da un sentimento prorompente: l’angoscia, appunto.
Proviamo allora ad entrare in queste tele, ad immergerci in quei colori e in quei tratteggi che, graffiando la consuetudine, ci permettono di entrare in empatia con l’autore, di sperimentarne il doloroso sentimento e dare forma al nostro.

 

L’angoscia nell’urlo di Munch

Urlo di MunchEdvard Munch (1863-1944) – L’urlo: nel 1893, l’artista rompe con un grido di terrore il silenzio che lo circonda. Un silenzio nutrito da chi accetta una società annichilita dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione selvaggia e artificiale, dalle città sovrappopolate e divenute “teatro della messa in posa sociale dell’uomo, che indossa le maschere della convenienza e dell’ipocrisia, dell’affettazione e della repressione” (Oliva, 2005).

Un urlo che dilata il tempo e lo spazio, che rappresenta [blockquote style=”1″]un tentativo di Ueilung durch den Geist (guarigione attraverso lo spirito), una catarsi da un mondo malato[/blockquote] (Jaffé, 1970). Verso tale realtà nemica e castrante, tuttavia, [blockquote style=”1″]Munch non cessa mai di sentirsi misteriosamente colpevole, perseguitato dai propri spettri. […] Chi guarda i suoi quadri sbatte contro quell’ansia e vi riconosce la propria[/blockquote] (Di Stefano, 1998).

L’uomo di Munch, straziato dall’angoscia scaturente dal conflitto tra pulsioni e convenzioni, ricorda, a ben guardare, l’uomo “Freudiano”, un “uomo colpevole” (Kohut, 1977). Animale non sufficientemente addomesticato, restio ad abbandonare il desiderio di vivere secondo il principio di piacere (Freud, 1930), la cui coscienza portatrice di senso di colpa rappresenta il trionfo delle costrizioni sociali sull’istintualità animale dell’uomo (La Forgia e Marozza, 2005).

La sua interiorità dilaniata subisce le pressioni dell’istinto, cerca di porvi rimedio, ma di conseguenza si ritrova ancor più angosciata, sebbene più integrata nella società.

In altre parole, verso una realtà che impone grigia repressione, un uomo animato da istinti e passioni altro non può che sentirsi colpevole. E’ un io totalmente, e drammaticamente, disperato.

 

L’angoscia nell’opera di Bacon

Studio dal ritratto di Innocenzo X di BaconFrancis Bacon (1909-1992) è annoverabile tra gli artisti del XX° secolo che più realisticamente hanno espresso in pittura la tragedia dell’esistenza. In “Studio dal Ritratto di Innocenzo X”, nel 1953, Bacon riprende, trecento anni dopo, il famoso ritratto del Papa ad opera di Velasquez, stravolgendone la calma regale e facendone un “helpless prisoner” (Glueck,1998) del quale dipingerà circa 30 versioni. Prigioniero senza speranza, intrappolato tra le pieghe rigide di una tenda grigia, la bocca aperta in un urlo terrificante e simbolo di un’indicibile angoscia esistenziale.

La figura si dissolve e nello stesso tempo si dilata, ma, scrive Torselli (2007) [blockquote style=”1″]a differenza di quanto avviene per l’artista espressionista che rappresenta una sofferenza endogena che viene dalla sua interiorità, la disperazione e l’angoscia dei corpi mostruosamente contorti di Bacon deriva dal confronto con la potenza distruttrice di una realtà spietata, un mondo devastato dalla guerra, dalla fame, dai massacri, sul quale egli riflette, raffigurando tragicamente la sconfitta di ogni progetto […]. E’ un mondo di individui straziati, quasi dei mutanti, creature infernali senza via d’uscita e senza speranza, prigionieri disumanizzati nei quali anche l’anima sembra sia stata annullata dall’atrocità della sofferenza. [/blockquote]

Secondo Littell (2014), [blockquote style=”1″]Francis Bacon era un uomo disperatamente consapevole della futilità di tutte le imprese umane.[/blockquote]

L’angoscia espressa da Bacon pare dunque un sentimento diverso. E’ l’angoscia senza nome del disperso, dell’uomo che si frantuma, vittima di una società che lo priva della sua stessa essenza. Per dirla, ancora una volta, con Kohut (1982): un uomo “tragico”, i cui obiettivi vitali riguardano la realizzazione del proprio Sé (Esposito, 2010) e la cui sofferenza deriva dall’impossibilità di compierli.

Potremmo spendere l’intera vita, scrive Kohut (in Strozier, 1985), cercando di scoprire i motivi per i quali il nostro Sé si aliena, si perde, va in pezzi. Non troveremmo nulla. Il Sé non si disgrega perché siamo colpevoli: se lo fossimo davvero, se trovassimo almeno una ragione per la quale veniamo puniti, saremmo certi di essere umani! La paura del nostro tempo è proprio questa: l’angoscia di trovarsi in un ambiente non umano, di essere lanciati nello spazio e ritrovarsi assolutamente soli. Incapace di continuare ad “essere” di fronte ad una realtà che depriva di significato e di speranza, il Sé si frantuma.

 

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