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Depressione in Occidente: per superarla bisognerebbe imparare dagli immigrati

La depressione non è una tristezza, sia pure estrema. Nella tristezza vi è il dolore di una perdita. Il senso del vivere è conservato, sebbene il suo oggetto sia perduto. La depressione è invece il vuoto di un’assenza di senso che precede ogni perdita. Non vi è dolore, semmai una sconfinata anestesia e una noia sterminata. Ci può essere angoscia, ma non tristezza.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 14 Gennaio 2017

 

Si dice che in occidente siamo depressi. È possibile che il benessere determini un’angosciosa perdita di senso? Nati per affrontare i pericoli e sopravvivere a una natura ostile, in un mondo di benessere senza pericoli non sappiamo bene di cosa preoccuparci. E quindi ci annoiamo e ci deprimiamo.  Forse per questo non facciamo più figli: non sappiamo bene perché mai farli. Le difficoltà economiche, che pure in parte ci sono, non spiegano tutto e a pensarci bene non spiegano nulla, dato che in passato l’umanità si è moltiplicata in condizioni di sussistenza economica ben più severe delle crisi attuali. La crisi demografica ogni anno che passa si avvicina e diventa sempre meno una bislacca ossessione da dandy-reazionari e sempre più una preoccupazione dei governi, terrorizzati dalla scarsa sostenibilità dei sistemi pensionistici e del soccorso sociale in uno scenario di desertificazione demografica.

Entro il 2030 ci sarà una regione grande quanto la Toscana, composta solo da ultrasessantacinquenni. E questo non è solo un problema italiano o spagnolo, ma ormai europeo. Anche in Germania ci si sta accorgendo della pericolosità dell’invecchiamento crescente della popolazione. Tutto questo però non lo rende ancora un problema sentito dalle masse, ancora convinte di vivere in un eterno presente aproblematico e noioso. È un fenomeno nuovo questo disincanto di popolo, questi supermercati affollati di distaccati filosofi cantori del momento presente, di consumatori sempre più consapevoli e verdi e sempre più amici di animali domestici, decisissimi a non voler altro nella vita che un cane o un gatto e non un bambino. Cultori di conversazioni elegantissime, in cui nessuno osa più mettere il becco nelle solitarie scelte di vita privata altrui, parliamo ormai solo di cibo e coltiviamo un’esistenza cinica, proprio nel senso tecnico che la parola assume in filosofia, un’esistenza distaccata da tutto simile a quella di Diogene nella sua botte.

In Giappone sono ancora più avanti di noi occidentali. Hanno rinunciato non solo alla prole, ma perfino ai partner. La depressione orientale sa toccare i confini ultimi del distacco. Non solo gli adolescenti hikikomori chiusi in casa tutto il giorno e intenzionati a non intrecciare relazioni con nessuno, neppure per una breve chiacchierata con un conoscente. Anche gli adulti giapponesi riescono a vivere vite sempre più solitarie e paradossalmente asessuate. Pare che il 49 per cento dei giapponesi di età compresa tra 18 e 34 anni non ricerchino alcun tipo di relazione sentimentale, il 30 per cento delle persone sotto i 30 anni non sia mai uscito con nessuno e infine che più del 40% per cento dei giovani single in Giappone è vergine. A farcelo sapere è il National Institute of Population and Social Security Research giapponese.

La moltiplicazione della prole degli immigrati e il crollo demografico del prospero Giappone stanno lì a suggerirci che il fare o non fare figli non sia connesso con le difficoltà economiche, ma con il senso di attaccamento alla vita, con la volontà -che possiamo definire illusoria con la nostra saggezza risaputa- di osservare un orizzonte che vada al di là dell’esistenza individuale.

Forse è tra gli immigrati che va cercato un  modello alternativo alla depressione, un modello di psicologia positiva che non si limiti alla ricerca del solo benessere immediato. L’aspetto puramente edonico del benessere individuale analizza la sola dimensione del piacere, benessere personale legato a sensazioni ed emozioni positive. Una prospettiva più ampia e più, perdonate il termine ostico, eudaimonica, privilegia invece la realizzazione delle potenzialità non solo individuali ma anche sociali secondo il vecchio concetto aristotelico di eudaimonia. Parolone che è un po’ un ricordo del liceo classico? Certo, ma anche qualcosa in più, se ci intendiamo sul fatto che l’eudaimonia comprende non solo la soddisfazione individuale, ma anche l’integrazione con il mondo circostante. Eudamonia è mutua influenza tra benessere individuale e collettivo.

Per quanto ne sappiamo il migrante parte con pochissime speranze concrete ed è quindi l’esempio umano su cui la paura del futuro –e il tramonto d’occidente- non pare far presa. Privo di calcoli e di bilance sulle quali misurare attentamente quanto davvero possa permettersi di affrontare un viaggio così pieno di rischi, è altrettanto meno impaurito di far figli e, almeno per il momento, li fa. Privo della nostra saggia miopia che ci induce a costruire piani di vita chiusi nel nostro orizzonte individuale, vede nei figli un prolungamento di sé che lo immette in una storia più ampia e meno immiserita dal perseguimento della sola felicità individuale. Non è affatto detto che l’alternativa alla depressione sia la sola capacità di godersi il momento presente, come predicano alcune filosofie orientali che sempre più attecchiscono tra noi occidentali. Accanto al momento presente, ci può essere una capacità di orientarsi che vada al di là dell’orizzonte individuale.

Tuttavia pare che questi stessi immigrati, fin troppo rapidi a integrarsi, stiano mostrando cali demografici altrettanto rapidi dei nostri una volta che siano approdati sulle nostre sponde fatali, depresse e disincantate. Che fare? Non è semplice. Probabilmente è ancora troppo presto per preoccuparsi davvero, abbiamo davanti a noi almeno altri vent’anni buoni nei quali il calo demografico sarà ancora un problema invisibile. Possiamo continuare a deprimerci elegantemente con il nostro inimitabile stile, quello stile che i poveri della terra ci invidiano. Chissà se ne vale la pena.

I controversi effetti benevoli della dieta mediterranea sul cervello

Una nuova ricerca ha dimostrato che persone che hanno seguito una dieta mediterranea, hanno mantenuto un volume cerebrale più alto rispetto a chi non ha seguito tale dieta. Contrariamente agli studi precedenti, mangiare più pesce e meno carne non è correlato a cambiamenti nel cervello.

 

La dieta mediterranea

La dieta mediterranea, come già noto, comprende grandi quantità di frutta, verdura, olio d’oliva, legumi e cereali come riso e grano, una moderata quantità di pesce, latticini-caseari e vino, carne rossa e pollami limitati.

[blockquote style=”1″]Con l’avanzare dell’età il cervello si restringe e si perdono quelle cellule cerebrali che possono influenzare l’apprendimento e la memoria[/blockquote] afferma il Dr. Michelle Luciano. Questo studio, aggiunge ulteriori prove che la dieta mediterranea ha delle conseguenze positive sulla salute del cervello.

I ricercatori hanno raccolto informazioni sulle abitudini alimentari di 967 persone di circa 70 anni, privi di sintomi di demenza. Di quelle persone, 562 si sono sottoposti ad una risonanza magnetica per misurare il volume della materia grigia e lo spessore della corteccia. Da quel gruppo, successivamente 401 persone sono ritornate dopo circa 3 anni per una seconda risonanza magnetica. Queste misurazioni sono state confrontate per verificare gli eventuali miglioramenti dopo qualche anno di dieta mediterranea.

Gli effetti benevoli della dieta mediterranea sul cervello

I partecipanti che non hanno seguito alla lettera la dieta, correvano un rischio maggiore di perdita del volume cerebrale rispetto a chi invece la dieta l’aveva seguita senza “sgarri”.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che un maggior consumo di pesce rispetto al consumo di carne, non è correlato a cambiamenti nel cervello. Tutto ciò è in contrasto con gli studi precedenti.

I risultati hanno mostrato che non vi è nessuna relazione tra il volume della materia grigia o spessore corticale, e la dieta mediterranea. Il Dr. Luciani afferma che altre componenti della dieta potrebbero essere responsabili di questa relazione, o la combinazione di essi. Ha osservato inoltre che i precedenti studi hanno esaminato e osservato i cambiamenti del cervello fino ad un certo punto, mentre l’attuale studio ha seguito le persone nel corso di qualche anno.

[blockquote style=”1″]In questo studio si evince che la dieta può essere in grado di fornire protezione a lungo termine per il cervello, anche se sono sempre necessari studi più ampi e precisi per confermare questi risultati.[/blockquote]

Lo faccio adesso! Il fenomeno della precrastinazione è peggio della procrastinazione?

Si definisce precrastinazione la tendenza a completare un’attività il prima possibile, anche a costo di uno sforzo fisico supplementare.
La tendenza a “precrastinare” è stata rilevata da un team di studiosi della Pennsylvania State University, grazie a una ricerca coordinata dal dottor David Rosenbaum, docente di psicologia presso l’ateneo americano.

Silvia Soderini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

La procrastinazione: i fattori che inducono a procrastinare

Quante volte avete rimandato una decisione, un’azione che potevate fare oggi? Questo comportamento assume il nome di procrastinazione e consiste nel rimandare nel tempo quello che sarebbe auspicabile portare a termine oggi.

In realtà ci sono molte ragioni che portano a procrastinare, una di queste è che la maggior parte delle persone preferisce rimandare un compito sgradevole, difficile, o noioso, alleviando l’ansia che porta con sé prendere una decisione nel presente. A volte la procrastinazione può essere collegata ad un multitasking che non ha funzionato correttamente: nelle situazioni di tutti i giorni spesso ci ritroviamo, senza accorgercene, a fare più cose contemporaneamente, gestendo una grande quantità di richieste e stimoli provenienti dal mondo esterno ma, cosi facendo, i troppi impegni potrebbero portare a non riuscire a rispettare tutte le scadenze concordate.

La maggior parte delle volte, quando si tende a procrastinare per una di queste ovvie ragioni, si è consapevoli di ciò che c’è dietro al ritardo. Tuttavia, le persone tendono a procrastinare anche in situazioni in cui ci sono ragioni poco evidenti.
Più nello specifico, le motivazioni profonde che portano allo sviluppo di un atteggiamento di procrastinazione, possono essere:
– a paura di fallire e di sbagliare (e di doverne affrontare le conseguenze), la paura di scegliere e di decidere (non prendendo in considerazione che anche “rimandare” è una scelta)
– l’intolleranza allo stress, all’ansia e alla frustrazione (di non saperli gestire o non sapere aspettare)
– il perfezionismo (non essere mai abbastanza pronti e sicuri per gli standard elevati che ci si pone).

Un’altra ragione che ci porta a procrastinare è la compiacenza; a volte tendiamo a dire troppi “si” e ad essere in ritardo nel rispettare tutte le scadenze e le promesse fatte!

Gli psicologi dell’università di Liverpool, Minna Lione e Holly Rice, hanno suggerito che le persone che hanno un punteggio alto alla procrastinazione “evitante” (cioè coloro che evitano di iniziare un compito) con annessa diagnosi di disturbo mentale, posticipano le cose da fare per evitare di ricevere un feedback negativo riguardo le loro prestazioni.

Nonostante le conseguenze negative, la procrastinazione ha certamente un “vantaggio secondario” (difende da emozioni spiacevoli, implica rimandare una decisione nell’immediato consegnando un benessere illusorio) che cristallizza il comportamento e rende difficile cambiare.

La precrastinazione: che cos’è

In ambito psicologico sono stati condotti diversi studi su come le persone utilizzano il loro tempo e a tal riguardo è stato introdotto un neologismo contrapposto alla procrastinazione: la “precrastinazione”.

Si definisce precrastinazione la tendenza a completare un’attività il prima possibile, anche a costo di uno sforzo fisico supplementare.
La tendenza a “precrastinare” è stata rilevata da un team di studiosi della Pennsylvania State University, grazie a una ricerca coordinata dal dottor David Rosenbaum, docente di psicologia presso l’ateneo americano.

Gli autori dello studio (David Rosenbaum, Lanyun Gong, and Cory Adam Pott) si sono imbattuti in una scoperta fortuita mentre indagavano il modo in cui le persone tendevano a camminare e a raggiungere traguardi.
Essi hanno ideato una serie di esperimenti cui sottoporre un gruppo di studenti universitari, i quali erano invitati a fare la cosa che ritenevano più semplice tra due opzioni: spostare un secchio pesante per una breve distanza o un secchio leggero per una lunga distanza, fino ad arrivare ad un punto finale specificato.
I risultati ai vari test realizzati dai ricercatori sono stati sorprendenti poiché, sebbene tutti si aspettassero che i partecipanti preferissero portare il secchio più pesante per la distanza più breve possibile, la maggior parte ha scelto di prendere il secchio che era più vicino, ma più lontano dal punto finale.
I soggetti hanno dimostrato di preferire opzioni che, sebbene comportassero una maggior fatica fisica, diminuissero il tempo di esecuzione dei lavori da compiere, così da ridurre lo stress dovuto al prolungarsi dell’azione.
In altre parole, secondo Rosenbaum e il suo team, hanno “PRECRASTINATO”.

Come hanno spiegato i partecipanti, tutti hanno pensato che sarebbe stato più facile trasportare il secchio per una lunga distanza: quasi tutti gli studenti hanno ritenuto che, sollevando il secchio che era loro più vicino e a portata di mano, sarebbero stati maggiormente in grado di realizzare l’obiettivo di portare il secchio a destinazione.

Manipolando una variabile dell’esperimento, i partecipanti sono stati invitati a trasportare dei pesanti secchi colmi d’acqua da un posto all’altro, con la possibilità di portarne uno solo per volta oppure due. Ebbene, la maggior parte degli studenti preferiva trasportare il doppio secchio, scelta che comportava un notevole sforzo fisico, con il vantaggio di rendere il lavoro più rapido.
Quando agli studenti è stato chiesto come mai avessero optato per il compito più faticoso, questi ultimi risposero sistematicamente che il loro desiderio era quello di terminare il lavoro il prima possibile.
Una spiegazione, secondo Rosenbaum e i colleghi, potrebbe essere che le persone, quando effettuano una scelta, preferiscono effettuare uno sforzo fisico piuttosto che uno sforzo mentale.

Come commenta il dottor Rosenbaum [blockquote style=”1″]I risultati della nostra ricerca suggeriscono che il desiderio di alleviare lo sforzo di mantenere le informazioni nella memoria di lavoro può indurci a compiere eccessivi sforzi fisici oppure ad assumere maggiori rischi.[/blockquote]
Sollevando il secchio, i partecipanti non hanno dovuto più ricordare a lungo ciò che avrebbero dovuto fare perché il secchio era già nelle loro mani. La situazione è simile a ciò che accade solitamente quando al mattino ci si organizza per uscire di casa. Per essere sicuri di ricordare di prendere le chiavi, mentalmente è meno stressante portarle fin da subito in una o più stanze della casa, piuttosto che aspettare di chiudere la porta di casa e, una volta fuori, scoprire che le chiavi sono al suo interno! Una volta che sono in mano, si può essere sicuri di non dimenticarle.

Il rapporto tra precrastinazione e memoria di lavoro

Nel discutere lo studio, Pychyl ha analizzato anche l’ipotetico collegamento tra la memoria di lavoro e la precrastinazione. Lo studioso ritiene che le persone tendono a precrastinare durante l’esperimento del secchio perché non si preoccupano più di tanto su di esso. Se venisse dato loro un compito più importante, come ad esempio iniziare a pianificare i loro obiettivi di vita importanti, Pychyl suppone che i risultati sarebbero molto diversi.

Ci si è chiesti inoltre se ci siano altre spiegazioni che possano portare le persone a precrastinare.
Noi tutti conosciamo persone che tendono costantemente a pianificare il futuro: una settimana prima di partire per un viaggio iniziano le valigie, acquistano a luglio i regali per le festività invernali, pagano le bollette in anticipo e non sono in ritardo in nessuna occasione.
Joseph Ferraro e Timothy Pychyl, appartenenti rispettivamente alla DePaul University e alla Carleton University, hanno esaminato la relazione tra la procrastinazione accademica (la tendenza a lasciar lavorare più gli altri nei gruppi di lavoro) e la coscienziosità. I risultati hanno mostrato che le persone con elevata coscienziosità hanno meno probabilità di lasciare che gli altri si assumano anche i loro carichi e altresì di procrastinare. Queste sono le persone, ci si potrebbe aspettare, che tenderanno a PRECRASTINARE, dedicandosi alla pianificazione estesa del futuro in modo che possano essere certi di svolgere il loro lavoro in modo responsabile.

Le caratteristiche dei precrastinatori

I Precrastinatori sembrano avere le seguenti caratteristiche:
– Preferiscono fare qualcosa di spiacevole pur di farlo e di togliersela di mezzo;
– Pianificano in anticipo, anche eventi che accadranno in un futuro molto lontano;
– Cercano di ridurre il carico mentale agendo nel presente in modo da non dimenticare ciò che devono fare;
– Danno il loro contributo nei compiti in comune, piuttosto che lasciar fare a qualcun altro la propria parte;
– Sono onesti con gli altri;
– Si assumono le responsabilità per le proprie azioni;
– Evitano di agire impulsivamente.

Soffermandoci sugli aspetti positivi e negativi della precrastinazione, si pensa che oltre ai numerosi svantaggi emersi riguardo questa modalità di affrontare gli impegni, ci possa essere anche qualche vantaggio in termini di promozione della salute in generale.
Pianificare adeguatamente le azioni future permette di fare tutto ciò che è necessario, rispettando impegni e scadenze. Finché ci si può fermare e godere dei frutti del lavoro svolto, prima di affrontare il lavoro successivo, è possibile che i benefici della precrastinazione siano percepiti come superiori ai rischi.

Tuttavia, lo svantaggio di chi precrastina è che tende a godere meno degli avvenimenti che accadono nel presente.
Il pensiero incessante rivolto a ciò che è necessario fare nel futuro può rendere la persona meno in grado di vivere appieno gli avvenimenti del presente poiché la mente è costantemente spostata al futuro e non riesce a cogliere gli aspetti positivi del momento.
In sintesi, precrastinare significa fare cose prima di quanto sia realmente necessario, anche se ciò comporta un maggior dispendio di tempo ed energia, semplicemente per la sensazione di averle portate a termine e aver fatto il proprio dovere.
Il pericolo principale della precrastinazione però, a differenza della procrastinazione, è che non viene percepita come un pericolo, bensì come una forma di organizzazione funzionale che aiuta a gestire nel miglior modo tutti gli obiettivi da raggiungere.

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative (2015) di E. Giusti e A. Milone – Recensione

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative rappresenta una riflessione generale sul processo di lutto. Sebbene in modo non particolarmente approfondito, dà una prima impressione sui vari processi che regolano l’evento luttuoso e qualche informazione pratica sull’intervento clinico da effettuarsi.

Claudia Zitelli e Helga Khulbacher – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Già da subito, Terapia del Lutto – cura delle perdite significative appare nel complesso scorrevole, adatto anche a chi non ha alcuna formazione psicologica-psicoterapica, i capitoli appaiono ben definiti fra loro, il linguaggio usato è chiaro e non proibitivo anche per chi è alla prime armi con un testo di psicoterapia.

 

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative: struttura del libro

Il libro è strutturato fondamentalmente in due parti: i primi capitoli descrivono il lutto sulla base dei diversi approcci psicologici – psicoterapici, sono inoltre riportati elementi di neuropsicologia.

La seconda parte del libero è invece più pratica, dedicata ai diversi interventi nelle varie fasce di età.

Già dalle prime pagine viene proposto l’evento luttuoso dal punto di vista psicodinamico – psicoanalitico (in particolare secondo la visione Freudiana) secondo il quale il lutto viene vissuto come un processo di disinvestimento, nel quale la persona scomparsa viene gradualmente sostituita da una sua immagine mentale che la persona può incorporare nel proprio mondo interno.

Si passa così dall’identificarsi con la persona amata e perduta con un suo simulacro. In tal senso la depressione si distingue dal lutto proprio per la realtà oggettiva della perdita: nel primo caso la perdita sarebbe sopratutto immaginaria e inconscia, sebbene la sintomatologia presenti dei punti in comune.

In Terapia del Lutto – cura delle perdite significative un breve cenno viene fatto anche sulla teoria di M.Klein, secondo la quale la perdita della persona amata può coincidere con la perdita dei propri “buoni interni”,  generando un processo di odio verso la persona scomparsa.

Un modello che viene citato è inoltre quello cognitivo – comportamentale, secondo il quale il lutto è un evento che potrebbe potenzialmente complicarsi in una sintomatologia depressiva, ansiosa o in altro modo (lutto complicato), si rende pertanto necessaria non solo una ristrutturazione cognitiva (intervento attuato fino agli anni 80), ma una psicoterapia specifica con tecniche cognitive – comportamentali per il  trattamento dei sintomi post traumatici (Traumatic Grief Reattment).

Di altra visione è l’approccio umanistico – esistenziale, il quale basa il trattamento su un percorso personale, in cui l’individuo che ha subito il lutto viene condotto a mettere in atto le proprie capacità innate per superare l’evento.

Anche il modello sistemico relazionale viene brevemente descritto, mettendo il luce i diversi eventi familiari scatenati da un lutto, quali la designazione di un capro espiatorio, o agiti aggressivi/conflittuali fra i membri. In tal senso la terapia familiare può costituire una valida alternativa per migliorare e supportare le dinamiche familiari.

Nel paragrafo successivo viene citato Lowen (modello Bio funzionale corporeo) secondo il quale l’obiettivo di una terapia del lutto è quello di far esprimere alla persona il proprio vissuto e le proprie emozioni, lavorando sul linguaggio corporeo.

Viene infine citato il modello pluralistico integrato, basato in realtà sull’integrazione di diversi approcci teorici, in modo da determinare cambiamenti favorevoli a livello comportamentale, cognitivo e affettivo. Tale modello è applicabile anche in soggetti con sintomatologia ansiosa post – lutto.

In un capitolo successivo di Terapia del Lutto – cura delle perdite significative vengono proposto elementi di neuropsicologia, secondo il quale la DACC (corteccia cingolata anteriore dorsale) è coinvolta nei processi di dolore sociale e fisico, sia per quanto riguarda la parte sensoriale che quella affettiva.

Da non sottovalutare è anche il modello bio psico sociale: comprendere la sintomatologia dolorosa di una persona significa in primo luogo valutare non solo le condizioni psicologiche della stessa, ma anche il contesto sociale ed eventuali cambiamenti biologici, tenendo conto che pensiero, umore ed esperienza sono strettamente connessi e influenzabili tra loro. Da non dimenticare è che il lutto può prendere diverse forme, da reazione semplice (normalmente risolvibile nell’arco di qualche mese) a reazione complicata  (in cui viene compromesso il funzionamento dell’individuo), comunque diversa da un episodio depressivo, differenza espressa chiaramente nel DSM IV TR.

 

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative: trattare il lutto nelle diverse fasce d’età

La seconda parte del libro Terapia del Lutto – cura delle perdite significative, da noi ritenuta più  interessante per un uso clinico, riguarda i trattamenti sui diversi tipi di lutto, suddivisi per fasce di età.

Di particolare importanza è il capitolo riguardante il lutto in età evolutiva, con focalizzazione sulla perdita di un genitore. Vi sono delle istruzioni generali su come affrontare l’argomento col bambino e sull’interpretazione delle conseguenze del lutto sulla relazione tra bambino e genitore in vita, tenendo sempre da conto che la reazione al lutto in età infantile ha caratteristiche talvolta completamente differenti rispetto all’età adulta.

Viene anche citato l’intervento attuabile in età adolescenziale, con riferimenti pratici all’ IGTC (terapia integrata del lutto per bambini), divisi in sette principi da analizzare nel processo di cura. Risultano particolarmente utili alcune risorse terapeutiche citate, che possono sin da subito essere utilizzate nella pratica clinica. Si passa poi alla terapia in soggetti adulti, focalizzandosi in particolare sulla perdita del partner, di un figlio o di una figura di attaccamento significativa.

È interessante, anche se brevemente descritto, il trattamento delle perdite in un anziano, che a nostro avviso meriterebbe un maggiore approfondimento. Le pagine finali sono dedicate ai lutti particolarmente traumatici: il suicidio, l’omicidio, l’aborto, che si distinguono da altri tipi di lutto per le diverse implicazioni sui familiari (reazioni di rabbia, aggressività, risentimento), che meritano un trattamento specializzato.

Per concludere, riteniamo questo libro un utile punto di vista sui vari processi che regolano il lutto sebbene molti punti importanti siano solo accennati e meriterebbero un approfondimento. Difatti, tale libro, che per una persona senza formazione psicologica può sembrare esaustivo, per uno specialista nel settore rappresenta un punto di partenza per capire e avere una formazione generale.

Smartphone e Mindfulness: come prevenire lo stress causato dal Multitasking

L’articolo è una riflessione su quanto oggi il nostro sistema di elaborazione delle informazioni possa essere stressato dalle innumerevoli stimolazioni ambientali, soprattutto dall’ avvento della tecnologia smart, e su come può essere possibile evitarne gli effetti negativi grazie alla meditazione della mindfulness.

 

Il funzionamento dell’attenzione e l’effetto cockatil party

Il famoso fenomeno del cocktail party è un esempio di come di norma funziona la nostra attenzione: siamo ad una festa dove intorno a noi ci sono tante persone che parlano tra loro ma noi riusciamo a rivolgere l’attenzione ed ascoltare in modo selettivo la persona che ci sta rivolgendo la parola, con cui stiamo parlando. Ad un tratto qualcuno dietro di noi fa il nostro nome e noi rivolgiamo l’attenzione, senza girarci, a quella conversazione.

Questa capacità di selezionare una conversazione tra tante altre, è un esempio di come funziona la nostra attenzione. L’attenzione dunque ha a che fare con l’elaborazione preferenziale dell’informazione sensoriale (Carlomagno, 2007). Cioè, noi possiamo selezionare uno stimolo tra tanti e dare attenzione soltanto ad esso. In realtà, principalmente utilizziamo questa modalità per economia cognitiva, cioè per usufruire al meglio delle nostre capacità. In altre parole, non potendo dare lo stesso grado di attenzione a tanti elementi contemporaneamente, utilizziamo l’attenzione selettiva.

Questo perché il nostro sistema di elaborazione delle informazioni ha una capacità limitata. Molte volte cioè non si possono compiere simultaneamente due attività, elaborare due stimoli o recuperare dalla memoria due informazioni diverse nello stesso tempo (Ladavas e Berti, 2006), ad esempio non è possibile seguire con attenzione il notiziario alla tv e contemporaneamente parlare con qualcuno, o scrivere al computer e nello stesso tempo sostenere un’attenta conversazione.

Nelle società odierne però, siamo bombardati da diverse fonti di informazioni, veicolate soprattutto ultimamente da quei bellissimi strumenti che ci portiamo dietro ogni giorno: gli smartphone. Essi, in origine, dovevano avere lo scopo di facilitarci la vita e in effetti in parte è così, nel senso che grazie ad essi possiamo avere accesso, in qualsiasi momento, ad internet, alla posta elettronica, ai nostri contatti su ogni social network e al nostro lavoro. Tutto questo grazie al multitasking, il sistema che permette appunto di poter eseguire più programmi contemporaneamente. Quello che potremmo fare sembra non avere limiti, ma questo è sia un pregio che un difetto di questi strumenti, infatti insieme a queste grandi possibilità viaggia il rischio di frustrazioni, provocate dalle innumerevoli richieste, non soddisfabili dalla nostra limitata capacità di elaborazione. Tutto ciò, sommato alle richieste esterne, ambientali, del mondo fisico e delle persone reali, si traduce in una imponente fonte di stress.

Talvolta assistiamo a cali nella performance, sia attentiva che mnestica, tali da far pensare quasi ad un disturbo dell’attenzione o della memoria, ma in realtà siamo semplicemente in sovraccarico. Cioè, la nostra attenzione e la nostra memoria di lavoro (working memory), implicate entrambe nell’esecuzione dei compiti, stanno lavorando su troppi elementi rispetto alle reali capacità del sistema. Quando ciò accade, inoltre, ci giudichiamo negativamente per le nostre prestazioni deficitarie, poiché con l’aumento delle possibilità proposte dagli smartphone e dai sistemi multitasking in generale, abbiamo alzato anche le aspettative rispetto a noi stessi e agli altri. Purtroppo poi, questa nostra autocritica ci altera l’umore in senso negativo, influenzando di conseguenza, in un circolo vizioso, la nostra performance cognitiva. Lo stress che deriva da questa condizione non è certo da sottovalutare. In relazione a questo stato, in determinate condizioni sfavorevoli, potrebbero insorgere infatti ansie o anche umore depresso.

 

Come può entrare in gioco la mindfulness nella prevenzione di queste reazioni negative

Come appena osservato, oggi grazie a questi strumenti siamo continuamente chiamati a fare sempre più cose contemporaneamente, e di conseguenza sentiamo sempre più pressione a “fare”. Anche nei momenti di pausa ormai, può capitare che siamo davanti alla tv e contemporaneamente navighiamo con lo smartphone su internet, dunque sempre in una modalità attiva, bombardati da innumerevoli fonti di informazioni. Come osservano Segal e colleghi (2012), nella modalità “fare” la mente monitora costantemente discrepanze tra obiettivo, stato delle cose attuale, e aspettative future. Dunque, quando si riscontrano differenze in negativo, tra stato attuale e obiettivo, proviamo emozioni negative. Questo tipo di riscontro purtroppo, in virtù della nostra capacità limitata di elaborazione delle informazioni, è qualcosa che sperimentiamo spesso, quando cerchiamo quotidianamente di rispondere alla numerose richieste esterne ed interne, a cui si aggiungono, come visto, quelle veicolate dai sistemi digitali.

Segal e colleghi (2012) studiano da anni la possibilità di applicare la mindfulness per un supporto terapeutico ai sintomi depressivi. Il loro ambito è dunque proprio quello di pensieri ed emozioni negative. Il protocollo MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy), da essi proposto, si è dimostrato di grande efficacia soprattutto per la prevenzione delle ricadute depressive, in quanto agisce efficacemente sul rimuginio e sui pensieri negativi. Gli autori evidenziano, in riferimento ai miglioramenti acquisiti grazie alla pratica di mindfulness, il fatto che essa favorisce il passaggio dalla modalità “fare” alla modalità “essere”. Questa seconda modalità consiste nel rimanere presenti allo stato delle cose, così come sono nel momento presente, senza giudizi e senza pretendere di cambiare nulla. Ciò porta ad un cambiamento radicale del modo di vedere le cose, attraverso cui è possibile percepire una maggiore accettazione di se stessi e delle proprie possibilità. Una prima soluzione dunque, che si contrappone alla componente di stress prodotta dal giudizio sulla propria performance cognitiva e alle frustrazioni che derivano dal confronto stato-obiettivo, rispetto al sovraccarico cognitivo.

Ma la soluzione che può proporre la mindfulness non si limita a questo. Infatti, rispetto proprio alla performance cognitiva, nell’ottica di un potenziamento delle funzioni attentive o mnestiche, la meditazione può dimostrarsi di grande utilità. Sempre più evidenze scientifiche oggi infatti mostrano che la meditazione di mindfulness può migliorare l’attenzione e la memoria di lavoro. Ne sono solo un esempio il lavoro di Mrazek e colleghi (2013) e quello di Morrison e Jha (2015). Naturalmente queste caratteristiche influenzate dalla mindfulness, anche al di là dell’argomento oggetto di questo articolo, possono essere di notevole ausilio, nell’ottica di un miglioramento della performance generale della persona e, di conseguenza, di un aumento del benessere percepito.

Conclusioni

Quindi, in antitesi alla forte pressione al “fare”, insita nelle innumerevoli richieste che giungono oggi al nostro sistema di elaborazione delle informazioni, che possono indurre stress, calo di performance cognitiva e pensieri negativi riferiti a se stessi, sarebbe altamente preferibile allenare sempre più la modalità dell’”essere”. Questo diminuirebbe sensibilmente lo stress indotto dal nostro attuale stile di vita e tutto il correlato di rischiose emozioni negative ad esso connesse.

La meditazione di mindfulness si è dimostrata negli anni un utile strumento per riconnettersi appunto alla modalità dell’”essere” e dunque per riavvicinarci a noi stessi, in modo meno giudicante e più salutare. Inoltre la sua capacità di migliorare i nostri meccanismi attentivi e la working memory, può essere di grande ausilio nel rafforzare il nostro sistema di elaborazione delle informazioni, così fortemente messo alla prova dalle innumerevoli richieste del mondo di oggi, che vanno ben oltre quelle degli smartphone, oggetto di questo articolo. Lo stress è ormai congenito nelle nostre società; come direbbe Jon Kabat-Zinn (2003), ideatore del primo training mindfulness (MBSR), viviamo in “un mondo sotto stress” e dunque tornare alla mindfulness, e tramite di essa a noi stessi, sarebbe la cosa più utile da fare per il nostro bene.

Le donne accessorio: mantenere la quiete mediatica o prendere una posizione?

Come reagiscono le donne italiane quando realizzano che il massiccio utilizzo televisivo della donna perfetta in bikini, fa sì che la donna venga vista come un oggetto sessuale?

 

La donna sempre più sessualizzata nelle pubblicità

La Dr.ssa Francesca Guizzo dell’Università degli Studi di Padova, afferma che molte di loro sono indignate e sostengono le proteste contro tale oggettivazione sessuale femminile. E’ lei in prima persona che, credendo fortemente in queste campagne di sensibilizzazione contro queste immagini troppo sessualizzanti e contro lo stereotipo della donna perfetta, è convinta che una presa di posizione possa portare ad un cambiamento.

[blockquote style=”1″]In occidente siamo fin troppo esposti, a livello mediatico, ad immagini di donne poco vestite e fin troppo provocanti spesso utilizzate come strumenti decorativi per attrarre nuovi consumatori. Le donne sono più propense rispetto agli uomini ad essere sessualizzate nelle pubblicità, nelle riviste, film e via dicendo. Questa situazione degrada l’immagine delle donne, influenza il modo in cui vengono trattate nella vita quotidiana e incide significativamente sulla loro psiche, per non parlare della loro autostima.[/blockquote]

 

Lo studio

Per far luce sulla influenza dei mass-media italiani, i ricercatori della Dr.sa Guizzo hanno reclutato 78 uomini e 81 donne. Ai partecipanti è stato chiesto di visionare una prima breve clip televisiva in cui le donne vengono sessualmente oggettivate, la seconda clip è uguale alla prima ma con l’aggiunta di un commento che spiega il motivo per cui il filmato degrada le donne (video clip di critica), e infine viene fatto visionare loro un documentario naturalistico (per la condizione di controllo).

La componente femminile dell’esperimento, una volta visionato il video clip di critica, si è sentita più arrabbiata di quanto non fosse già precedentemente, di come i media italiani tendono a svantaggiare la loro figura. Lo stesso effetto non è stato osservato tra gli uomini.

[blockquote style=”1″]I risultati in linea di massima suggeriscono che la massiccia e assidua esposizione ai media possa portare alla pericolosissima considerazione che l’oggettivazione femminile sia nella norma, riducendo così le probabilità di reazioni nelle persone[/blockquote] afferma la Dr.sa Guizzo.

Lei crede che le campagne di sensibilizzazione potrebbero rappresentare, almeno per le donne, un potente strumento per motivare le persone ad impegnarsi in una azione collettiva volta a migliorare l’immagine che i mass-media danno delle donne.

Le variabili individuali nell’apprezzamento dell’umorismo

Da un punto di vista psicologico, l’ umorismo può essere definito come quella particolare disposizione mentale che fa cogliere di ogni situazione, anche la più drammatica, il risvolto comico (ma che non si esaurisce completamente nella comicità) e che si esprime con il riso. Il senso dell’ umorismo può riferirsi ad un tratto di personalità stabile, così come a una caratteristica individuale variabile (Ruch, 1998). 

Silvia Busti Ceccarelli, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Si tratta di un costrutto multidimensionale, in cui aspetti emotivi, cognitivi, comportamentali e relazionali interagiscono in maniera dinamica; talvolta i diversi aspetti che caratterizzano l’umorismo sono integrati e legati fra loro, altre volte sono indipendenti e possono essere presenti gli uni senza gli altri (Martin et al, 2003).

Teorie cognitive sull’ umorismo

La psicologia cognitiva, per quanto riguarda la ricerca sull’ umorismo, si pone come interrogativo quale sia il modo in cui un soggetto elabora cognitivamente uno stimolo umoristico: concetto chiave per rispondere a questa domanda è l’incongruità. È possibile definire l’incongruità come una [blockquote style=”1″]caratteristica che risulta nell’interazione stimolo-soggetto quando lo stimolo è difforme dal modello cognitivo di riferimento del soggetto[/blockquote] (Forabosco, 1992). È soggettiva ed elastica in quanto i modelli cognitivi possono differire da soggetto a soggetto e possono modificarsi attraverso l’esperienza.

A partire dagli anni ‘70, il concetto di incongruenza, applicato allo studio dell’umorismo, è stato ripreso in una prospettiva informazionale, ovvero in termini di elaborazione delle informazioni. Secondo Suls (1972), nell’elaborazione di uno stimolo umoristico vi è una prima fase in cui il soggetto percepisce un’incongruità, e una seconda fase di problem solving in cui cerca di risolverla attraverso una regola cognitiva. Ad esempio, si consideri la seguente barzelletta:
“Papà, ti piace la frutta secca?”
“Perché?”
“Oh niente, sta andando a fuoco il frutteto …”

Nella prima fase il soggetto percepisce che c’è incongruità tra la prima domanda e l’ultima risposta del bambino, in quanto il fatto che stia andando a fuoco il frutteto è qualcosa di negativo che apparentemente non è coerente con il significato della domanda iniziale. Tuttavia esiste una regola cognitiva per spiegare l’apparente incongruità: il doppio senso della parola “secca” può aiutare a spiegare la coerenza tra la domanda e il fatto che il frutteto stia bruciando.

L’aspetto forse più interessante di tale teoria, però, riguarda l’ambiguità dell’ incongruità: da una parte viene risolta, ma mai completamente, per cui, dall’altra parte, rimane sempre un qualche elemento illogico nella conclusione. In altre situazioni, come ad esempio nella curiosità, o nella perplessità, l’ambiguità deve essere risolta completamente per arrivare ad una coerenza cognitiva. È invece caratteristico del processo umoristico il fatto che alla fine permanga una certa percezione di incongruità, pur essendo stata contemporaneamente eliminata. Nell’ esempio sopra citato, infatti, anche risolta l’incongruenza, la situazione non appare comunque totalmente logica e lineare.

Se l’incongruità è ritenuta dalla maggior parte dei ricercatori elemento necessario (ma non sufficiente) affinché si generi un’esperienza umoristica, secondo alcuni studiosi non è necessario che vi sia la risoluzione di tale incongruenza: questo è il caso di una persona che scivola su una buccia di banana, oppure dello scherzo della torta in faccia, o degli scherzi dei clown (Gulotta, 2001).
Per fare chiarezza tra il primo modello a due fasi (incongruenza più risoluzione) e il secondo modello a una fase (incongruenza senza risoluzione), un modello informazionale integrato propone che il fattore di base sia sempre la percezione di incongruità e che, anche qualora sia possibile generare umorismo in assenza di risoluzione della stessa, sia necessaria una forma di padronanza cognitiva che gestisca tale incongruità (Gulotta, 2001). Sarà quindi necessario che il soggetto almeno comprenda completamente l’incongruità presente.

I correlati neurali nell’apprezzamento dell’umorismo

Samson (2008) ha misurato i correlati neurali dell’apprezzamento umoristico, così da ampliare le conoscenze rispetto ai processi umoristici cognitivi. Lo strumento di misura principale utilizzato è stata la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), oltre a diverse misure comportamentali e self-report.

Il principale punto d’interesse è stato la risoluzione dell’incongruità nello stimolo umoristico. I risultati della ricerca mostrano, nel processo di risoluzione dell’incongruità, l’attivazione del seguente network cerebrale: corteccia prefrontale ventro-mediale, giro frontale inferiore, giunzione temporo-parietale e giro sopramarginale. Nello studio condotto, la zona cingolata anteriore (solitamente coinvolta nel monitoraggio di informazioni erronee e conflittuali), si è attivata solo durante i tentativi di risoluzione dell’incongruità falliti. Inoltre, confrontando l’umorismo che implica risoluzione dell’incongruità con l’umorismo senza senso (illogico, assurdo, che per essere apprezzato non richiede risoluzione di incongruità), è emerso che il primo richiede una maggior attivazione rispetto al secondo, in particolare per quanto riguarda la giunzione temporo-parietale (area implicata nell’integrazione delle informazioni e nella costruzione di coerenza).

Emerge, quindi, che i meccanismi logici con cui si elabora lo stimolo umoristico influenzano i correlati neurali. Inoltre, la ricerca ha messo in evidenza che chi ha un maggior bisogno di esperienze nuove attiva maggiormente l’area prefrontale, le regioni temporali posteriori e l’ippocampo. Questo può essere dovuto al fatto che questi soggetti (experience seeking), poiché alla ricerca di nuovi stimoli mentali, esplorano più intensamente lo stimolo umoristico. È stato verificato anche che gli experience seeking preferiscono l’umorismo assurdo a quello totalmente comprensibile tramite risoluzione di incongruità.

In una ricerca sui correlati neurali dell’ umorismo (Bartolo et al, 2006), su pazienti con lesioni cerebrali, tramite fRMI, è emerso che gli stimoli umoristici, anche se non verbali (in cui quindi non è richiesta l’elaborazione del linguaggio che implicherebbe il coinvolgimento dell’emisfero sinistro), attivano sia l’emisfero sinistro che quello destro. In particolare, le seguenti aree cerebrali: il giro inferiore frontale destro, il giro temporale superiore sinistro, il giro temporale mediale sinistro e il cervelletto sinistro. Siccome le stesse aree si attivano anche durante l’attribuzione di intenzioni nell’osservazione di stimoli non verbali, gli autori ipotizzano che, nel caso degli stimoli umoristici, questo accada durante la risoluzione dell’incongruità. Infine, le analisi della ricerca mostrano che la parte sinistra dell’amigdala si attiva in relazione al divertimento soggettivo; l’amigdala potrebbe quindi giocare un ruolo chiave nel conferire all’umorismo una dimensione emotiva.

Umorismo e differenze individuali

Di fronte a stimoli incongrui che possono generare umorismo, ognuno reagisce in modo diverso e questo può dipendere da numerose variabili quali le caratteristiche di personalità, dal contesto sociale, dal genere e da altre variabili psicologiche.

Gulotta e colleghi (2001) riprendono le ricerche principali che nel corso degli anni hanno studiato le differenze individuali nell’apprezzamento dell’ umorismo, citando un classico schema proposto dallo psicologo israeliano Ziv (1984). Lo schema suddivide i soggetti in base a due dimensioni di personalità: estroversione/introversione e stabilità/instabilità. In questo modo si ottengono quattro differenti tipologie di soggetti: (a) estroverso instabile, che utilizza l’ umorismo come espressione della propria aggressività, non apprezza l’ umorismo intellettuale e l’autoironia e ride anche quando non è opportuno; (b) estroverso stabile, buon fruitore e produttore di umorismo, si sa adeguare bene alle situazioni e usa l’ umorismo come risorsa positiva per il gruppo; (c) introverso instabile, che preferisce l’ umorismo aggressivo e fruibile a livello individuale; (d) introverso stabile: apprezza l’ umorismo intellettuale, i giochi di parole, è affascinato dalle incongruità e dall’ umorismo assurdo.

Inoltre, l’autore introduce una terza dimensione che influenza l’apprezzamento umoristico: la componente intellettiva, che sarebbe direttamente proporzionale all’apprezzamento dell’ umorismo. Secondo Snyder (1974), le persone ad alto monitoraggio (chi sa adattarsi bene a molteplici situazioni sociali), hanno un maggior senso dell’ umorismo. In una ricerca di Overhoser (1992), è stato invece dimostrato che chi usa l’ umorismo come strategia di coping per affrontare situazioni stressanti è meno depresso, meno introverso e ha un livello di autostima più elevato.

Un utilizzo dell’ umorismo in chiave positiva è stato associato a una buona percezione di sé (Kuiper e Martin, 1993) e ad autocontrollo e padronanza della situazione elevati del gestire le sfide che si incontrano nell’arco di vita (Kuiper et al, 2004).
Le ricerche rispetto alle differenze individuali, dalle prime alle più recenti, si muovono in diverse direzioni molto interessanti e quasi tutte sembrano essere unite da un fil rouge che associa l’apprezzamento dell’ umorismo a caratteristiche positive di personalità.

Il senso dell’ umorismo, però, se considerato nella sua globalità, è un costrutto complesso e ben più ampio rispetto al solo concetto di apprezzamento dell’ umorismo. Può essere diviso in due parti: (1) la comprensione dell’ umorismo usato da altri; (2) la produzione di umorismo (Kohler e Ruch, 1996). Questi due aspetti a loro volta contengono diverse componenti: la comprensione di umorismo può essere vista come il prerequisito per l’apprezzamento di stimoli umoristici. A sua volta, anche la produzione umoristica comprende almeno due aspetti: quanto umorismo viene prodotto (fluenza umoristica), e quanto l’ umorismo prodotto viene percepito come divertente (successo umoristico). La relazione tra apprezzamento e produzione umoristica è complessa e studiarla non è un compito semplice.

I dati di Moran e colleghi (2014), in una recente ricerca in cui sono stati usati cartoni animati come materiale umoristico, mostrano come la capacità di produrre umorismo di successo sia negativamente correlata al livello di apprezzamento di umorismo prodotto da altri: all’interno del campione coinvolto, chi faceva più ridere era chi trovava meno divertenti le battute degli altri. Rispetto invece al rapporto tra apprezzamento e produzione umoristica e variabili di personalità, dal loro studio è emerso che il tratto dell’estroversione presenta una correlazione significativamente positiva con l’apprezzamento e significativamente negativa con la produzione umoristica di successo. Gli autori escludono però che questo fattore possa giocare un importante ruolo da mediatore nella relazione negativa tra apprezzamento e produzione umoristica: negli studi futuri sarebbe sicuramente interessante capire quali fattori, insieme a quelli di personalità, possono contribuire a spiegare questa correlazione negativa.

Rispetto al genere, invece, sono stati condotti diversi studi che Sbattella (2008) raccoglie secondo i punti seguenti: (1) l’ umorismo a contenuto sessuale è maggiormente apprezzato dagli uomini, eccetto i casi in cui il bersaglio della battuta è il genere maschile; (2) gli uomini, rispetto alle donne, apprezzano maggiormente l’ umorismo aggressivo.

Una spiegazione possibile a queste due differenze riguarda il timore delle donne di essere mal giudicate a livello sociale, qualora ridano di una battuta aggressiva o a contenuto sessuale.

Nel lavoro di Moran e colleghi (2014) si osserva che le donne presentano livelli più alti degli uomini nell’apprezzamento umoristico, e viceversa per la produzione umoristica di successo. I risultati presentati dagli autori vanno nella stessa direzione di studi precedenti (Thorson e Powell, 1993; Baron-Cohen e Wheelwright, 2004; Samson, 2012), ma senza una significatività statistica. In linea con questi risultati è anche lo studio di Bressler e colleghi (2006) in cui è stata esplorata l’importanza che i soggetti attribuiscono al fatto che il proprio partner sia un buon produttore di umorismo piuttosto che un buon apprezzatore: è emerso che gli uomini preferiscono avere vicino una donna che apprezzi l’ umorismo, mentre le donne un uomo che produca umorismo.

Dalla teoria alla pratica

L’ umorismo studiato in psicologia si rivela come un costrutto multidimensionale non semplice da conoscere a fondo. La sua molteplicità di forme, aspetti, caratteristiche, ne costituisce una ricchezza e anche una debolezza: da un punto di vista della ricerca, non è semplice da operazionalizzare e misurare.

Conoscere l’ umorismo e in quale modo viene fruito può avere diverse ricadute applicative. All’interno della pratica clinica, sapere come e quando utilizzare l’ umorismo con un paziente può essere una risorsa molto utile. Il valore dell’ umorismo, infatti, non si manifesta solo a livello emotivo come possibile induttore di emozioni positive, ma anche su un piano cognitivo, come facilitatore di reappraisal nelle situazioni minacciose e stressanti. Aiutare un paziente a mettere in pratica un buon utilizzo dell’ umorismo può essere per lui non solo benefico del qui ed ora, ma anche adattivo a lungo termine.

Qualunque sia l’intervento terapeutico in cui si inserisce l’utilizzo dell’ umorismo, è importante non perdere di vista il focus della psicologia positiva che, come ricordano Pasinato e Zucchi (2007), consiste nell’individuare le abilità di ciascuna persona e lavorare sul potenziamento di tali competenze. Anche nel lavoro “con e per l’ umorismo” (sia l’ umorismo un semplice strumento, oppure la risorsa ultima che si vuole potenziare) emerge l’importanza di modulare l’utilizzo di uno strumento quale l’ umorismo sulle caratteristiche e le domande che il soggetto porta in terapia.

Sentirsi grati verso chi è stato generoso con noi? No grazie!

Quando ricevete un regalo da qualcuno, vi sentite grati? Oppure vi sentite obbligati a ricambiare il gesto? Non tutti sperimentano gratitudine in risposta alla generosità altrui, come dimostra una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Cognition and Emotion. Ma che cosa modera la gratitudine in alcune persone? Una risposta potrebbe avere a che fare con la personalità: il senso di indipendenza e autonomia che un individuo avverte nei confronti degli altri.

 

Le ricerche sulla relazione tra autonomia e gratitudine

All’interno di una delle prime ricerche pubblicate sulla relazione tra autonomia e gratitudine, Anthony Ahrens, professore associato di Psicologia alla American University di Washington, in collaborazione con un gruppo di studenti, ha condotto tre studi coinvolgendo più di 500 partecipanti. E’ stata utilizzata una misura self-report per determinare i livelli di autonomia di ciascun soggetto, tale variabile è stata caratterizzata da risposte a domande su argomenti come “quanto ti piace fare affidamento su altri per ricevere aiuto?” oppure “quanto ti piace avere altre persone che dipendono da te?”.

Nei diversi studi, è emerso che gli individui con punteggi più alti di autonomia (intesa come non voler dipendere dagli altri o non voler essere di peso) sperimentano meno gratitudine nella loro vita e ne apprezzano meno il valore.

[blockquote style=”1″]Non c’è niente di sbagliato nell’essere autosufficienti e nel valorizzare l’autonomia. La mia preoccupazione è: fino a che punto autosufficienza e autonomia possono interferire con i processi che legano tra loro le persone?[/blockquote] si è chiesto Ahrens. Perché si sa, la gratitudine è il collante di ciascun rapporto e i ricercatori stanno scoprendo sempre più prove dei suoi numerosi benefici. Ad esempio, aiuta a costruire relazioni. O ancora, è stata associata al benessere fisico e mentale.

 

I risultati: chi è autonomo si sente meno grato nei confronti di chi gli fornisce aiuto

Nel primo studio della ricerca, nel ricevere un regalo ipotetico o un favore, gli individui più autonomi hanno sperimentato sentimenti meno positivi. Nel secondo studio, i risultati hanno ribadito la maggiore avversione per la gratitudine degli individui autonomi. Infine, i ricercatori hanno compiuto un ulteriore passo nel terzo studio per ottenere un quadro più ampio, chiarendo se l’autonomia potesse interferire con la compassione. Proprio come ipotizzato, gli individui più autonomi erano più concentrati sul presentare bene se stessi e meno sul sostenere gli altri nelle relazioni.

[blockquote style=”1″]La qualità di una relazione potrebbe risentirne se la gratitudine non viene mai espressa. Una persona molto autonoma potrebbe fraintendere un gesto ben intenzionato del partner. Un’azione di compassione potrebbe essere vista come invadente invece che un atto di supporto e aiuto[/blockquote] ha detto Ahrens. Altre ricerche sull’autonomia hanno dimostrato che essere molto autonomi potrebbe creare un’avversione a qualsiasi forma di dipendenza dagli altri, rendendo gli individui più vulnerabili alla depressione.

Ahrens ha ipotizzato che le persone che apprezzano molto l’indipendenza sentono un’avversione forte verso la gratitudine e pensano che ciò potrebbe renderli deboli. I prossimi passi nella ricerca intendono esplorare i significati culturali legati all’autonomia.

[blockquote style=”1″]La cultura contemporanea americana enfatizza l’autonomia[/blockquote] dice appunto Ahrens.

E’ possibile che i messaggi culturali e sociali inducano le persone a valorizzare più l’autonomia e meno la gratitudine. Esaminare come l’autonomia e la gratitudine interagiscono nell’ambito interpersonale, può dare un’idea di come coltivare al meglio le esperienze positive di condivisione e sana indipendenza, aumentando il benessere emotivo.

La motivazione al trattamento e l’intervento a domicilio nei disturbi alimentari

Negli ultimi anni l’intervento domiciliare ha ricevuto sempre più attenzione da parte dei clinici, sia come alternativa efficace ed economica al trattamento ospedaliero dei disturbi psichiatrici, sia come trattamento integrato agli interventi ospedalieri. Sono presenti numerosi studi in letteratura riguardo agli interventi domiciliari in ambito psicologico e/o psichiatrico; tuttavia, sono pochi gli studi che hanno valutato uno specifico trattamento domiciliare rivolto a pazienti con disturbi alimentari.

Chiara Orlandi, Rosaria Nocita, Carolina Redaelli

 

Le difficoltà nella terapia: la scarsa motivazione al trattamento dei pazienti con disturbi alimentari

I disturbi alimentari (DA), o disturbi della nutrizione e dell’alimentazione secondo il DSM IV, sono considerati ad alto rischio di drop – out e sono caratterizzati da specifiche difficoltà di trattamento. Uno dei temi cruciali nei disturbi alimentari risulta quindi essere la motivazione al trattamento.

Sono stati messi in luce diversi fattori relativi al fenomeno del drop out e della scarsa adesione alle terapie e sono stati individuati ruoli diversi di ciascun fattore indagato.

Già qualche anno fa Zanetti et al. (2005) hanno posto l’accento sull’importanza dell’atteggiamento verso la malattia e sulla rilevanza dell’atteggiamento verso la terapia da parte di pazienti con Disturbi Alimentari, fattori che risultavano fondanti la resistenza al trattamento che condurrebbe, di conseguenza, al drop-out.

Successivamente Fassino et al. (2009) hanno evidenziato che gli elementi che condizionano maggiormente i tassi e la frequenza del fenomeno di drop–out in questo tipo di pazienti sono il rapporto con il corpo e l’evoluzione del trattamento.

Inoltre per le pazienti con Anoressia Nervosa gli elementi rilevati come determinanti il drop-out erano la rigidità nelle pratiche di purificazione e la presenza di abbuffate, mentre per le pazienti con Bulimia Nervosa gli elementi determinanti riguardavano la sintomatologia auto-distruttiva e l’impulsività.

Altri autori (Kelly et al., 2012) hanno dimostrato che le emozioni di paura e di vergogna, associate a ridotti livelli di auto-commiserazione e alti livelli di auto-critica, incidono fortemente sulla vulnerabilità del paziente alla sospensione della terapia.

 

La motivazione al trattamento come fattore predittivo

Nella letteratura più recente si riscontrano ulteriori studi che hanno indagato la motivazione al trattamento come fattore predittivo dell’esito del percorso di cura dei disturbi dell’alimentazione. In una ricerca condotta su pazienti con anoressia è emerso il valore predittivo della motivazione al cambiamento rispetto agli esiti del trattamento, in particolar modo riguardo all’aumento di peso e al miglioramento della sintomatologia globale del disturbo alimentare (Hellen et al., 2015).

Un altro autore, Sarin (2015), ha invece approfondito l’effetto predittivo del tipo di motivazione (autonoma vs. controllata) sul cambiamento dei sintomi alimentari, dell’impulsività, dell’ansia e dell’umore in pazienti con anoressia. In generale, la motivazione autonoma predispone i pazienti ad ottenere maggiori benefici sia nel breve che nel lungo termine, mentre la motivazione controllata predice esiti sfavorevoli.

Infine, Zaitsoff et al. (2015) hanno invece indagato quattro costrutti relativi all’aggancio terapeutico: fiducia, accordo sugli obiettivi terapeutici, sicurezza/fiducia nella propria capacità di cambiare, sentimenti di inclusione nelle decisioni terapeutiche. Le analisi hanno rivelato che per l’intero campione con disturbo alimentare tutti e quattro i fattori indagati influenzano l’esito della terapia.

I dati degli studi riportati sollecitano una riflessione sulla necessità, nell’ambito della cura dei Disturbi Alimentari, di focalizzare i primi obiettivi dell’intervento sulla motivazione al trattamento.
Va sottolineato, inoltre, che la programmazione di un trattamento per i Disturbi Alimentari, oltre a tener conto del fattore motivazionale, può variare in relazione al livello di rischio fisico, allo stato nutrizionale e all’eventuale presenza di altri disturbi- sia psichici che internistici.

 

Il trattamento terapeutico

Quale trattamento per il paziente e per i suoi familiari?

Ad oggi per la maggior parte dei pazienti con disturbi alimentari il trattamento d’elezione è rappresentato da psicoterapie individuali e/o di gruppo insieme ad una presa in carico medico-psichiatrica, per alcuni casi- invece- i pazienti con disturbi alimentari hanno bisogno di un trattamento più intensivo che può delinearsi su vari livelli (ospedaliero, in day-hospital, residenziale, domiciliare) in modo da proporre interventi differenziati, appropriati rispetto alla situazione specifica del paziente.

I familiari sono generalmente il supporto principale per i giovani che soffrono di un Disturbo Alimentare ma spesso corrono il rischio di mettere in atto modelli di comportamento non salutari che potrebbero mantenere ed aggravare i comportamenti alimentari patologici. È spesso necessario per i membri della famiglia cambiare alcuni aspetti dei propri schemi di interazione in risposta ai comportamenti alimentari problematici. Nelle linee guida APA (2012) viene riportata come una delle tappe fondamentali al trattamento dei disturbi alimentari cercare la collaborazione e fornire sostegno ed informazioni ai familiari.

La Family Based Treatment è un modello di trattamento che interviene sul contesto familiare del paziente con disturbo alimentare (Treasure, Schmidt, U. & Macdonald, 2010), con l’obiettivo di creare le condizioni domiciliari migliori per il trattamento di tale disturbo.
Ai familiari è richiesto di: diventare competenti nel fornire un supporto attraverso l’ascolto; sviluppare livelli di regolazione emozionale con un atteggiamento mentale sereno e compassionevole; di acquisire le abilità necessarie a comprendere gli altri ad essere flessibili, a prendere decisioni e a pianificare tenendo in mente un progetto di vita e specifici valori.

 

L’intervento a domicilio integrato al trattamento ambulatoriale

Negli ultimi anni l’intervento domiciliare ha ricevuto sempre più attenzione da parte dei clinici, sia come alternativa efficace ed economica al trattamento ospedaliero dei disturbi psichiatrici, sia come trattamento integrato agli interventi ospedalieri. Sono presenti numerosi studi in letteratura riguardo agli interventi domiciliari in ambito psicologico e/o psichiatrico; tuttavia, sono pochi gli studi che hanno valutato uno specifico trattamento domiciliare rivolto a pazienti con disturbi alimentari.

D. Pauli, C. Schräer, N. Hilti hanno steso un programma di trattamento ambulatoriale interdisciplinare all’interno dell’ospedale (University Hospital Zurich, CH) rivolto a bambini e ad adolescenti con disturbi alimentari, includendo la famiglia all’interno della terapia. Si tratta di un programma in corso d’opera sul quale è stato già condotto uno studio preliminare per indagarne l’efficacia. In particolare, lo studio condotto da Pauli e colleghi ha coinvolto 42 adolescenti con anoressia, sottoposte ad un trattamento ambulatoriale che consisteva in un percorso di terapia individuale settimanale e un percorso di Family-Based Treatment (2-4 visite a settimana per 10 settimane). I risultati preliminari dello studio ad oggi in corso sono interessanti, poiché l’83,3% dei pazienti con anoressia ha ottenuto miglioramenti con il trattamento ambulatoriale integrato con il trattamento a domicilio, e solo il 16.7% delle pazienti è ricorso ad un ricovero.

Tali risultati, da considerare tuttavia preliminari, indicherebbero che il trattamento a domicilio, come intervento integrativo/supplementare può potenziare gli esiti della terapia ambulatoriale per adolescenti con disturbi alimentari.
Tali dati andranno verificati in futuro con un campione maggiore e con ulteriori studi.

 

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Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la vita (2016) di R. H. Hopcke – Recensione del libro

Nulla succede per caso propone un approccio romanzesco alla sincronicità. Storie presentate come opportunità di crescita interiore e di trasformazione, eventi sincronistici come momenti di rinnovata consapevolezza rispetto al proprio modo di vedere se stessi, gli altri e il mondo.

Valentina Messori – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Frasi fatte come ”Ti succederà quando meno te l’aspetti” riflettono una verità: nel momento in cui siamo più concentrati, oppure più aperti, rispetto ai nostri limitati progetti, attiviamo nell’intreccio della nostra vita una fase di grandi potenzialità.

Come ha scritto Milan Kundera, autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere, facciamo bene a rimproverare coloro che sono ciechi alle coincidenze della vita poiché, come questo libro dimostrerà, quelle coincidenze uniche che chiamiamo sincronistiche ci rendono di volta in volta coscienti della bellezza, dell’ordine e del concatenarsi delle storie che stiamo vivendo.

Al centro dell’interesse dell’autore di Nulla succede per casoR. H. Hopcke, ci sono le storie e il ruolo che occupano nella nostra esistenza. La vita di ognuno di noi si fonda sul raccontare. Quando si torna a casa dal lavoro, la prima cosa che viene chiesta è :”Com’è andata oggi?” in altre parole: ”Ti prego raccontami la storia della tua giornata”. Oppure a pranzo da amici: ”Allora, che c’è di nuovo?”, in altre parole: ”Raccontami una storia”.

L’autore afferma che ognuno di noi è un personaggio in molte storie, amici, clienti, colleghi, genitori, chiunque ha da raccontare storie su di noi, storie in cui noi siamo i protagonisti.

 

Nulla succede per caso: il significato delle coincidenze e della sincronicità

Ecco che Nulla succede per caso introduce il concetto di coincidenza: soltanto un qualcosa di esterno dalla storia riuscirebbe a richiamare l’attenzione del personaggio sul carattere della situazione che sta vivendo, quasi ogni giorno si verifica una coincidenza.

Se prestiamo attenzione all’effetto che gli eventi hanno su di noi, possiamo notare a volte che rimaniamo scossi, l’evento ha un carico di significati, Carl Gustav Jung ha chiamato questa coincidenza significativa “Sincronicità

L’autore descrive questo tipo di coincidenza teatrale romanzesca, per il modo in cui uno stato interiore, emotivo si riflette in un evento casuale appartenente al mondo esterno.

Importante quindi l’impatto emotivo che gli eventi producono su di noi, eventi che ci cambiano e ci trasformano. In momenti chiave della nostra esistenza, ci balza all’occhio in seguito a una sorta di convergenza di eventi esterni e condizioni interiori a noi. Gli eventi sincronistici ci offrono una visione diversa di noi stessi, una prospettiva più ampia sulla nostra esistenza, oppure una comprensione più profonda degli altri o del mondo.

Spesso, in Nulla succede per caso, l’autore afferma che noi ci scontriamo con questi eventi, quasi li neghiamo, cerchiamo di non prenderli in considerazione, li sminuiamo. Questo perché ci costringono a misurarci con il fatto che talvolta le storie che raccontiamo sul nostro conto, le storie che vorremmo vivere, non sono necessariamente quelle nelle quali viviamo o nelle quali siamo destinati a vivere.

Nulla succede per caso propone un approccio romanzesco alla sincronicità.

Storie presentate come opportunità di crescita interiore e di trasformazione, eventi sincronistici come momenti di rinnovata consapevolezza rispetto al proprio modo di vedere se stessi, gli altri e il mondo.

Nel primo capitolo l’autore introduce diversi aspetti della sincronicità. Descrive il lavoro di Jung, affermando che quando trattava questo tipo di coincidenze, si chiedeva sempre quali sono le condizioni psicologiche interiori , che toccano la nostra esperienza esterna in modo cosi indimenticabile e determinante. La sincronicità riguarda il significato soggettivo degli eventi per gli individui che ne sono coinvolti.

L’autore afferma che qualcosa è significativo per noi in due modalità: o ha un significato per via dei nostri valori, o ha un effetto perché ha fortemente influenzato la nostra esistenza. Dunque un evento sincronicistico è una coincidenza dotata di un significato soggettivo per la persona coinvolta; trattandosi di elementi  soggettivi, ciò che un individuo ritiene significativo (e dunque dotato di valore/o carico di significati per gli effetti che produce) potrà apparire privo di significato agli occhi di un altro.

 

Le caratteristiche della sincronicità junghiana

L’autore poi descrive le quattro caratteristiche che la sincronicità junghiana possiede.

In primo luogo gli eventi che chiamiamo sincronistici sono collegati in modo acausale. In secondo luogo il loro verificarsi è sempre accompagnato da una profonda esperienza emotiva. In terzo luogo il contenuto dell’esperienza sincronistica ha un carattere invariabilmente simbolico. Come quarto aspetto queste coincidenze si verificano in concomitanza con cambiamenti di vita importanti.

Il primo punto è difficile da accettare, sopratutto nella nostra società: il pensare in termini di causa ed effetto ci consente infatti di sentirci in grado di controllare la situazione, di staccarci dal mondo esterno e di agire su di esso. Secondo questa prospettiva, a limitarci sono soltanto le conseguenze delle nostre azioni, ma se le accettiamo saremo in grado di agire, e anche liberamente.

Un modo diverso di pensare, in particolare quello che ci viene offerto dalla sincronicità, consente invece di fare i conti con la possibilità che eventi casuali siano significativi e non semplicemente privi di significato. Quest’idea mette in dubbio la sensazione di potere e di controllo. L’idea che possano esserci eventi a noi incontrollabili suscita una certa ansia. Questa visione quindi porta una prospettiva diversa, secondo cui l’esperienza soggettiva determina il nostro posto in un universo di eventi accidentali che accadono intorno a noi e a noi, collegati tra loro in base a ciò che significano per chi ne è coinvolto. Il che porta a considerare la seconda caratteristica di cui parla l’autore di Nulla succede per caso: l’emozione.

Gli eventi sincronistici possiedono un tono emotivo, l’effetto profondo che questo tipo di coincidenza esercita sulle nostre sensazioni, costringe l’essere occidentale a dubitare dell’oggettività. Dare loro spazio significa aprirsi all’esperienza , allentando il controllo che ognuno di noi esercita su di sé. Sentire significa essere vulnerabili. Non è solo il timore di perdere il controllo a rendere la vita emotiva una minaccia. La sincronicità richiede che si affermi che le proprie sensazioni siano importanti quanto i pensieri e in determinate situazioni anche di più.

Il terzo punto presentato dall’autore in Nulla succede per caso è il carattere simbolico: un evento sincronistico può significare molte cose. L’autore parla di archetipo, quei modelli che costituiscono l’inconscio collettivo. Un archetipo assomiglia a un modello percettivo.

Ci sono dei periodi di vita in cui l’essere umano si sente stabile; altri momenti in cui si sente l’esigenza di operare dei cambiamenti in un’esistenza diventata paralizzante e noiosa. Durante questi periodi si cerca l’aiuto di qualcuno. L’autore afferma che molti non ricevono soltanto un aiuto esterno, ma anche uno di carattere interno e psicologico, che giunge in una sequenza di eventi accidentali che si verifica nel momento più opportuno per aiutarci a proseguire.

La concezione junghiana della psiche descrive essa come un fenomeno naturale e che tutti i suoi aspetti abbiano la funzione di far sì che lo sviluppo psicologico non si arresti. Ad esempio, le difese servirebbero a preservare un equilibrio mentale. La sincronicità è una specie di sveglia che fa emergere alla coscienza il fatto che si sta verificando una transizione.

Ogni spinta in avanti, ogni momento di crescita si compone di diversi stadi: in un primo momento ci si accorge che la nostra situazione non funziona, a farcelo comprendere possono essere eventi esterni, ad esempio un padre che minaccia di ritirare l’appoggio finanziario; a questo punto inizia una fase di transizione e confusione, iniziamo a immaginare le cose che potrebbero andare in modo diverso; finché non succede qualcosa che sfocia in un modo di essere diverso e più soddisfacente. Ognuno di noi si muove verso un significativo consolidamento del suo io.

 

Amore e sincronicità

Nel secondo capitolo di Nulla succede per caso l’autore tratta la sincronicità all’interno della sfera sentimentale: le svolte dell’amore e dell’amicizia danno alla vita di ognuno di noi la sua forma specifica.

Uno dei tratti distintivi di un evento sincronicistico è che si tratta di un’esperienza sempre unica, ecco perché si ragiona riguardo l’avere incontrato la persona giusta al momento giusto e nelle circostanze appropriate. Una tendenza degli esseri umani è quella di controllare e dirigere la propria esistenza, quindi il decidere consciamente quale storia vivere e fare tutto il possibile, a prescindere dalle conseguenze, perché le cose vadano proprio così, sia il modo per ottenere la felicità e sentirsi realizzati.

Quando non esercitiamo la nostra volontà, accadono a volte eventi che ci mostrano come le nostre vite possano seguire una traccia narrativa del tutto diversa. A volte durante le storie d’ amore, si ricercano segni nelle coincidenze per capire se è o meno la persona giusta. Soltanto un atteggiamento aperto, la capacità di accantonare le proprie aspettative e di accettare il fatto che non siamo riusciti o non abbiamo potuto anticipare la nostra storia, consentirà al significato di ciò che inizialmente sembrava un caso di semplice sfortuna di modellarsi in ciò che è destinato a essere.

Secondo l’autore possiamo trovare occasioni di crescita che non derivano soltanto dall’incontro con la persona giusta ma anche dalla sfortuna di esserci imbattuti in quella sbagliata. La sincronicità ci può aiutare a vedere come un atteggiamento aperto verso il significato che la coincidenza assume nei confronti della nostra vita possa aiutarci a vivere una storia più ricca e completa. Quando decidiamo di modellare le nostre storie sulla base di ciò che sappiamo su di noi, decidendo come farebbe un autore dove collocare l’inizio, la fine e lo svolgimento dell’intreccio, ci dimentichiamo che quanto sappiamo consciamente su di noi non costituisce che una faccia della storia.

Tutte le storie che l’autore narra all’interno del libro Nulla succede per caso, dimostrano che nella vita affettiva l’irruzione di eventi sincronistici può influire in due modi per risvegliare la coscienza: o contraddicendo la direzione che abbiamo scelto, mostrandoci qualcosa di nuovo sul nostro conto o sulla relazione che stiamo portando avanti, oppure confermando e consolidando una relazione rispetto alla quale nutrivamo dei dubbi.

Queste sincronicità di conferma servono a rassicurarci che siamo destinati a stare con la persona con la quale stiamo, e sono spesso parte integrante della storia d’amore che stiamo vivendo.

Le storie d’amore servono per farci maturare. Spesso ciò che ci attrae a prima vista di una persona, è proprio ciò che  a lungo andare ci risulterà intollerabile; e d’ altro canto, le cose che in principio viviamo come differenze sostanziali, una volta apprezzate e rielaborate ci danno molto di più in termini di crescita emotiva. L’amore non è una questione di persone giuste o sbagliate, l’autore afferma che tutto dipende dal nostro atteggiamento interiore.

L’amicizia, come l’amore, è fatta di vicinanza e interessi comuni. Le coincidenze sincronistiche svolgono una funzione di conferma e di sostegno dell’importanza che un individuo assegna ai rapporti con le persone che gli sono più vicine.

L’autore, in Nulla succede per caso, scrive che incontriamo spesso la persona o le persone che dobbiamo incontrare, in momenti di crisi o di grande apertura entra in scena per caso un personaggio che diventa per noi una delle figure principali della nostra storia. In altri momenti quando siamo soddisfatti, si manifestano dei legami che, quasi si trattasse di una forza della natura, sembravano destinati a emergere. In altri momenti ancora, quando per paura o per egoismo ci estraniamo dal mondo, gli eventi sincronistici attivano rapporti che ci ricordano con insistenza, l’impossibilità di ignorare del tutto i nostri legami con gli altri.

La sincronicità di coloro che amiamo risiede nel significato interiore che vediamo e viviamo in queste storie della nostra esistenza.

 

Nulla succede per caso: il legame tra il nostro Io e la nostra vita professionale

Nel terzo capitolo l’autore procede nel riportare storie di eventi sincronistici, questa volta avvenuti nell’ambito professionale, il legame tra il nostro io interiore e il lavoro della nostra vita.

L’autore si chiede se siamo noi a scegliere il lavoro o è il lavoro che sceglie noi: se si vuole che una coincidenza significativa cambi la storia della nostra vita, si deve vagabondare a caso per il mondo e essere pronti ad accogliere qualsiasi cosa la vita offre. Questa apertura mentale implica la capacità di restare in equilibrio sulla linea sottile che divide una realistica consapevolezza delle proprie capacità da un’ostinata cocciutaggine. Essere contemporaneamente determinati e pronti a lasciare andare, sebbene sia difficile per chiunque, è un requisito essenziale se vogliamo trarre dei significati dagli incidenti che accadono. Importante anche la capacità di tollerare l’incertezza, per poter vedere a pieno tutte le potenzialità.

In molte delle storie di Nulla succede per caso si parla dell’insuccesso, l’ammissione della sconfitta, necessaria per spingere l’individuo all’azione. Nell’arco delle esperienze professionali riportate, gli incidenti e i contrattempi hanno costretto le persone a rinunciare a certi atteggiamenti, che li ostacolavano al cambiamento.

A volte le coincidenze sono vissute come conferme, a volte sono occasioni di confronto, a volte sembrano semplicemente accidentali e solo più tardi una volta usciti dalla “tempesta” comprenderne la rilevanza. Anche nell’ambito professionale, l’evento sincronistico, mette in luce aspetti dell’io, permette di guardarsi meglio dentro, rispetto al mondo esterno, in questo caso il mondo lavorativo.

L’autore afferma che è bene non partire dal presupposto di avere già tutte le risposte pronte, una volta e per sempre. Quello che sembra un peggioramento oggi, potrebbe assumere un’aria ben diversa quando la storia sarà giunta alla fine.

Gli eventi sincronistici su di noi hanno un effetto di relativizzazione, ci fanno vedere le cose da una prospettiva più ampia.

Importante mantenere in equilibrio aspetti materiali e non materiali delle nostre motivazioni professionali, facendo delle nostre attività un modo conscio di affermare chi siamo e quali siano le cose che riteniamo importanti.

 

Le coincidenze nei sogni

Nel quarto capitolo di Nulla succede per caso l’autore presenta la coincidenza sincronistica all’interno del mondo onirico, quelle sincronicità che si muovono dall’interno all’esterno.

I nostri sogni vivono di vita propria e forse più di qualsiasi altro fenomeno della nostra vita interiore sono assolutamente privati, unici e soggettivi. Gran parte delle informazioni verso le quali i sogni dirigono la nostra attenzione potrebbe anche riguardare il nostro ambiente interiore, la nostra salute e la nostra maturazione emotiva, il nostro sviluppo spirituale o altri aspetti delle nostre esperienze soggettive, forse cruciali della salute fisica per la nostra sopravvivenza. E ‘ anche vero che i sogni sono analizzati in base al nostro interno, ci aiutano a cogliere aspetti della nostra storia e angolatura del nostro carattere che forse alcuni di noi non hanno apprezzato.

L’autore quindi parla di tutti quei sogni le cui immagini offrono parallelismi con eventi esterni successivi. Talvolta perché un evento sincronistico abbia un effetto trasformativo non è necessario analizzarlo, così come a volte una storia risulta talmente ben congegnata da ottenere l’effetto voluto senza che neppure ce ne accorgiamo. Altri sogni svelano non soltanto quel che avverrà, ma addirittura quel che avviene. Grandi o piccoli, teatrali o realistici che siano, i sogni sincronistici e l’effetto che sortiscono sulle nostre storie ci costringono comunque a riconoscere la casualità significativa dell’intreccio che viviamo.

Vi è anche un fenomeno del sogno condiviso, e cioè di uno stesso sogno che viene fatto da due o più persone contemporaneamente, sottolinea il senso di appartenenza e la coscienza di gruppo.

In conclusione l’autore afferma che il significato che un sogno porta con sé somiglia al significato di un racconto. Importante nell’interpretazione del sogno tenere in considerazione anche la nostra esperienza soggettiva, e cioè come abbiamo reagito al sogno, a cosa ci ha fatto pensare, dove va a collocarsi nella storia complessiva della nostra storia. E’ dalla nostra capacità di valutare l’esperienza soggettiva che dipende la possibilità che queste coincidenze arricchiscano o meno la nostra vita. Se si parte dal presupposto che i sogni significano qualcosa, e se si passa con loro un po’ di tempo nel modo che meglio ci si adatta, scopriremmo più cose sulla nostra vita interiore di quanto abbiamo mai ritenuto possibile, la coscienza si risveglia, ci rendiamo conto di chi siamo e la nostra posizione nell’universo.

 

Sincronicità e vita spirituale

Nel quinto capitolo l’autore tratta della sincronicità presente nella nostra vita spirituale. L’autore porta avanti l’idea che essere umani significa raccontare storie, vivere e usare simboli per dare senso alla nostra vita, cercare un’esperienza profonda e diretta di ciò che trascende la nostra limitata esistenza mortale. Eventi sincronistici hanno formato le storie di certi individui rispetto alla loro vita spirituale. Anche per quanto riguarda aspetti spirituali, quindi, si tratta sempre di un momento di apertura alle trasformazioni, al quale reagiamo passando all’azione, una coincidenza può avere o meno un significato a seconda dell’atteggiamento che abbiamo nei suoi confronti. Un particolare momento in cui la realtà esterna replica la propria vita interiore, grazie alla quale ci si sente giustificati nel proprio processo di maturazione spirituale.

Le sincronicità possono anche assumere la forma di un lento processo dal quale emerge, nella storia di vita di una persona, la totalità, mutamenti interni specifici che hanno migliorato la loro capacità di autocomprensione. Si tratta quindi di coincidenze significative tra una visione interna d un evento esterno, dai contenuti religiosi o spirituali, o comunque decisive per il formarsi di una coscienza spirituale nella persona coinvolta.

 

Le coincidenze nella vita e nella morte

Nell’ultimo capitolo, l’autore tratta le questioni di vita e morte, eventi sincronistici nelle più decisive e universali transizioni. La gravidanza, ad esempio, viene descritta come un particolare momento nella vita di una donna, un momento carico d’incertezza, gravidanze e parti, infatti, iniziano quando vogliono loro, indipendentemente dai nostri desideri, speranze, sforzi, e fantasie. Lezioni sincronistiche sono anche l’accoppiamento genitori figli: talvolta i genitori devono fare i conti con le proprie fantasie egoistiche sul bambino che avrebbero voluto, altre volte forniscono invece eventi sincronistici una conferma di quali sono le cose importanti nella loro esistenza. Il bambino diventa un futuro simbolico del passato di ognuno di noi.

Le nostre esistenze sono piene di eventi significativi che intenzionalmente vogliamo che ci accadano: aspiriamo ad avere una relazione con qualcuno che ci attrae, facciamo domanda per il lavoro che da sempre speriamo di trovare, diamo un nome ai nostri figli. Sono tutte azioni intenzionali.

Gli eventi sincronistici a causa del loro carattere accidentale ci forniscono sulla nostra vita un’altra verità. Il problema che porta l’autore è quello che facciamo quando un colpo accidentale del destino ci porta a rimescolare l’esistenza, mostrandoci qualcosa di inatteso.

L’autore di Nulla succede per caso consiglia un atteggiamento simbolico nell’esplorare la nostra vita, un atteggiamento di curiosità psicologica, emotiva in riferimento agli eventi casuali che ci capitano. Potremmo imparare a sfruttare le coincidenze per comprendere meglio noi stessi.

Viaggiare con la mente: le fantasie sessuali femminili

Fantasie sessuali femminili: a chi non capita almeno una volta nell’arco della giornata di sognare ad occhi aperti? Le fantasie possono essere tra le più varie: immaginarsi su un’isola tropicale, brama di fama, vendetta ecc. Ma senza dubbio le fantasie più intriganti ed anche più comuni sono quelle che riguardano il sesso.

 

Andando oltre alle comuni definizioni, il cervello può essere considerato un organo sessuale a tutti gli effetti. Infatti anche in assenza di una stimolazione fisica, la sola fantasia sessuale è capace di produrre uno stato di attivazione biologica. La fantasia sessuale, definibile come “qualsiasi immagine mentale conscia o sogno a occhi aperti che comprende un’attività sessuale o eccitamento sessuale” (Leitenberg, & Hennin,1995), gioca quindi un ruolo centrale nel comportamento sessuale umano: la fantasia sessuale può essere talmente vivida e sentita da influenzare la prestazione sessuale reale.

Oltretutto, essendo un qualcosa di immaginario, nella fantasia si può pensare a qualsiasi cosa si desideri col vantaggio di non sperimentare imbarazzo o rifiuto sociale. Approssimativamente ben il 95% di uomini e donne confessano di avere fantasie sessuali in diversi contesti: durante il giorno, mentre si masturbano ed anche durante l’attività sessuale col partner.

Nonostante sia quindi dimostrata la frequenza e l’importanza delle fantasie sessuali al fine di esperire un senso di benessere nella vita sessuale, ancora oggi esse rientrano in quelle categorie tabù difficili da indagare. Soprattutto le donne rivelano di sentirsi in colpa a seguito di una fantasia sessuale, probabilmente perché inconsciamente la ritengono qualcosa di anormale e sbagliato. Questo senso di colpa si inscrive all’interno di una società che ha ancora molti pregiudizi sulle donne e il sesso. Sebbene numerose ricerche sostengano che la fantasia sessuale non sia segno né di insoddisfazione sessuale né di patologia (come in passato aveva sostenuto anche Freud) ma che anzi fantasticare sia un ottimo modo per mantenere il desiderio sempre acceso.

 

Quali sono le fantasie sessuali femminili più comuni?

·         Sesso con partner del passato o del presente

·         Sesso con partner sconosciuto/a

·         Sesso in luoghi diversi da quelli abituali

·         Fantasie sulle varie pratiche e posizioni

·         “Fantasia di stupro”: immaginarsi costretta ad un rapporto sessuale

 

La fantasia di stupro nelle donne

A proposito della “fantasia di stupro” una ricerca condotta dall’Università del North Texas (Bivona, & Critelli, 2008) dimostra che su un campione di 355 giovani donne il 24% delle loro fantasie sessuali appartenesse a questa categoria.  La comunità internazionali degli psicologi si interroga da anni sul motivo di queste fantasie al fine di comprendere meglio la sessualità femminile e negli anni si sono susseguite e si susseguono tutt’ora anche diverse spiegazioni del fenomeno (Pelletier, & Herold, 1988).

Infatti per alcuni psicologi la fantasia di stupro consentirebbe alle donne che hanno un elevato senso di colpa nei confronti del sesso di evitare l’ansia e il biasimo che si accompagnano a fantasie di sesso consensuale. Mentre per altri psicologici questo tipo di fantasia è semplicemente l’espressione naturale di un approccio alla sessualità aperto, eccitante e privo di sensi di colpa. La ricerca di Bivona e Critelli (2008) si focalizza sul contenuto emotivo delle fantasie di stupro, dividendole in tre tipi che coesistono su un continuum che va dal repulsivo (il 9% del totale delle fantasie di stupro), all’erotico (45%), includendo l’erotico-repulsivo (46%). Ne consegue che se le fantasie di stupro repulsive spesso generano emozioni negative per colei che le fantastica, quelle erotiche generano invece una costellazione di emozioni positive ed infine quelle erotiche-repulsive fanno esperire alla donna che le fantastica un mix di emozioni sia positive che negative.

 

Mind wandering, l’interesse delle neuroscienze per il fantasticare e le fantasie

Recentemente, la tendenza della mente umana a viaggiare con la mente, definita scientificamente “mind wandering” è stata indagata anche dalle neuroscienze. In una ricerca pubblicata su Science nel 2007 (Mason, Norton, et al.) è stato dimostrato, attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI), che il mind wandering è associato a livello neurale all’attività di quella che viene definita “default mode network” (DMN), ovvero una costellazione di regioni cerebrali avente due centri principali: la corteccia anteriore mediale prefrontale e la corteccia del cingolo posteriore. Ancora ad oggi numerosi ricercatori (Smallwood, Tipper, et al., 2013) si interrogano sul perché la nostra mente sia programmata per viaggiare nello spazio e nel tempo ma per ora la spiegazione più esaustiva rimane una: la mente può vagare semplicemente perché è in grado di farlo.

 

Valentina Orlandi

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Corsa e connettività cerebrale: un legame da approfondire

Gli scan dell’ MRI rivelano che il cervello dei fondisti ha più connettività funzionale rispetto al cervello di molti individui sedentari.

Gli scan cerebrali di corridori e di adulti che non svolgono nessuna attività fisica a confronto

I ricercatori dell’università dell’Arizona hanno confrontato gli scan cerebrali di giovani corridori adulti provenienti da vari stati, con quelli di giovani adulti non coinvolti in un’attività fisica regolare.

David Raichlen, professore associato di antropologia, ha progettato lo studio con lo psicologo e professore Gene Alexander che studia l’invecchiamento cerebrale e il morbo di Alzheimer come membro dell’ Evelyn F. McKnight Brain Institute dell’Università dell’Arizona.

I due ricercatori, insieme al loro team di ricerca, hanno confrontato gli scan MRI di un gruppo di corridori maschi di varia provenienza con gli scan di giovani adulti che non erano stati coinvolti in nessuna attività atletica organizzata per almeno un anno. I partecipanti avevano pressappoco la stessa età – dai 18 ai 25 anni – e simili indici di massa corporea e livello di educazione.

Gli effetti benefici della corsa in termini di connettività funzionale

Gli scan hanno misurato la connettività funzionale a riposo, o cosa accadeva a livello cerebrale mentre i partecipanti erano svegli, ma senza svolgere delle attività specifiche.

I corridori, complessivamente, hanno mostrato una maggiore connettività cerebrale, o maggiori connessioni tra regioni cerebrali distinte, in numerose aree cerebrali, inclusa la corteccia frontale, importante per funzioni cognitive come la pianificazione, il decision-making e l’abilità di dirigere l’attenzione da un compito ad un altro.

Sono richieste, tuttavia, ricerche aggiuntive per determinare se queste differenze fisiche nella connettività cerebrale comportino anche differenze nel funzionamento cognitivo. I risultati correnti, pubblicati nella rivista “Frontiers in Human Neuroscience”, potrebbero aiutare i ricercatori a mettere le basi per capire meglio come l’esercizio influenzi il cervello, in particolare nei giovani adulti.

[blockquote style=”1″]Uno dei fattori che ha guidato questa collaborazione è costituito dal fatto che vi è stata una recente proliferazione di studi, negli ultimi 15 anni, che hanno dimostrato che l’attività fisica e l’esercizio possono avere un impatto benefico sul cervello, ma la maggior parte di questi lavori sono stati fatti su adulti più grandi[/blockquote] sostiene Raichlen. [blockquote style=”1″]Cosa accada nel cervello in età minori, non è stato mai veramente indagato molto in profondità. Noi non solo siamo interessati riguardo a ciò che accade nel cervello dei giovani adulti, ma sappiamo che vi sono cose che le persone fanno lungo tutto l’arco di vita che possono impattare con ciò che accade, ed è dunque importante capire cosa stia accadendo a livello cerebrale ad età minori.[/blockquote]

I risultati hanno gettato nuova luce sull’impatto che correre, come forma particolare di esercizio, può avere a livello cerebrale.

Studi precedenti avevano mostrato che attività che richiedono un controllo fine motorio, come suonare strumenti musicali, o che richiedono alti livelli di coordinazione occhio-mano, come giocare a golf, potrebbero alterare la struttura e le funzioni cerebrali. Tuttavia, pochi studi avevano prestato attenzione agli effetti di attività atletiche ripetitive che non richiedono un controllo motorio così preciso, come correre. I risultati di Raichlen e Alexander suggeriscono che questi tipi di attività potrebbero avere simili effetti rispetto a quelle elencate precedentemente.

[blockquote style=”1″]Queste attività, che la gente considera ripetitive, coinvolgono molte funzioni cognitive complesse – come la pianificazione e il decision – making, che potrebbero avere effetti tangibili a livello cerebrale[/blockquote] sostiene Raichlen.

Da quando la connettività funzionale appare spesso alterata negli adulti più anziani ed in particolare in quelli affetti da sindrome di Alzheimer o altri disordini neurodegenerativi, questo risulta un importante fattore da considerare. Ciò che i ricercatori apprendono dal funzionamento cerebrale di giovani adulti, potrebbe avere implicazioni per la possibile prevenzione di disordini cognitivi “età-correlati” in un secondo momento.

Scaffolding: istruzioni pratiche per sostenere il volo dei bambini

Lo scaffolding diventa metafora delle strategie di sostegno offerte da una persona più esperta ad un’altra persona: attraverso la collaborazione, l’esempio o istruzioni esplicite, l’esperto fornisce una impalcatura che sostiene e struttura il loro comportamento, e che viene un po’ alla volta interiorizzata

 

Cosa si intende per Scaffolding?

In origine, si riferisce al lavoro degli operai edili che, per realizzare più agevolmente costruzioni o riparazioni, innalzano una impalcatura, o ponteggio (scaffold). Questo termine assume una nuova connotazione psicologica nel 1976: Wood, Bruner e Ross pubblicano un articolo, destinato a diventare famosissimo, nel quale lo scaffolding diventa metafora delle strategie di sostegno offerte da una persona più esperta ad un’altra persona, che è in fase di apprendimento. Attraverso questa impalcatura, il bambino si “arrampica” per raggiungere un livello superiore.

Sostegno, appunto, non una mera azione formativa: l’adulto (o un coetaneo più esperto) utilizza azioni e tecniche utili ad agevolare l’apprendista (il bambino) nell’effettuare un compito, raggiungere un obiettivo o risolvere un problema, quando non è ancora in grado di farlo da solo. Attraverso la collaborazione, l’esempio o istruzioni esplicite, l’esperto fornisce ai bambini “una impalcatura che sostiene e struttura il loro comportamento, e che viene un po’ alla volta interiorizzata” (Berti e Bombi, 2001). Tale supporto sarà provvisorio e limitato al tempo strettamente necessario affinché il bambino maturi le competenze necessarie a svolgere il compito in autonomia. L’adulto si pone quindi in un ruolo di appoggio, che permette al bambino di emanciparsi progressivamente.

 

Scaffolding e fading

Il processo di graduale acquisizione dell’autonomia da parte del bambino venne definito da Collins ed altri (1995) fading. Attraverso un uso sapiente di scaffolding e fading è quindi possibile costruire la fiducia del bambino nelle proprie possibilità. Ma attenzione: lo scaffolding non è da intendersi come sostegno esclusivamente cognitivo o metacognitivo! La sua valenza si estende anche nel campo emotivo, perché nello stimolare il bambino ad apprendere, lo si incoraggia a superare gli ostacoli, con una ricaduta positiva in termini di motivazione, autostima ed autoefficacia percepita.

 

Come attuare lo scaffolding?

La realizzazione pratica del processo consiste, in primis, nell’individuare il contesto nel quale agire, ovvero quella che Vygotskiji (1990) definì ZSP: zona di sviluppo prossimale, cioè la distanza tra il livello di sviluppo effettivo raggiunto dal bambino e il livello di sviluppo potenzialmente raggiungibile con la collaborazione di un adulto. L’adulto dovrebbe porre al bambino “problemi di livello superiore rispetto alle sue attuali competenze, ma non così difficili da risultargli incomprensibili.” (Devescovi et all., 2003)

Le strategie spontanee messe in atto dai genitori per stimolare gli apprendimenti di base (parlare, camminare, andare in bicicletta etc) sono esemplificative del concetto di scaffolding, come descritto da Cazden (1983), e possono essere utili come esempio pratico da estendere all’apprendistato cognitivo. Nel campo del linguaggio, ad esempio, gli adulti forniscono l’intelaiatura di sostegno all’apprendimento attuando lo scaffolding: inizialmente giocano tutti i ruoli delle interazioni e rispondono ad ogni tentativo di comunicazione del bambino, per poi, in modo graduale, lasciare ai bambini maggiore spazio, incoraggiandoli a dimostrare le competenze acquisite. In pratica, il genitore “smantella” l’impalcatura che ha fornito, man mano che il bambino padroneggia nuove capacità.

 

Le “mosse di scaffolding”

Devescovi (2003) riassume in questo modo le 5 mosse che, secondo Bruner, il caretaker deve eseguire per mettere in pratica lo scaffolding:

  1. Reclutamento: catturare l’interesse del bambino e spronarlo a mettersi alla prova
  2. Riduzione dei gradi di libertà: semplificare il compito, riducendo il numero dei passaggi necessari per raggiungere la soluzione
  3. Guida ed incoraggiamento: tenere alto il livello di motivazione del bambino in modo tale che la soluzione del problema assuma per lui un interesse autonomo;
  4. Indicazione dei punti critici: sottolineare continuamente gli aspetti più importanti del compito, in modo che il bambino individui le discrepanze tra ciò che ha prodotto e la soluzione corretta
  5. Dimostrazione: elaborare i tentativi che il bambino ha già effettuato per la soluzione del problema. In seguito il bambino elaborerà a sua volta il modello fornito dall’adulto e lo perfezionerà ulteriormente.

La tossicodipendenza in Requiem for a dream (2001)

Requiem for a dream (2001) è la drammatica vicenda di Harry, Marion, Tyrone e Sara, tre giovani adulti e una signora anziana affetti da tossicodipendenza: il film dipinge un esempio di tale condizione attraverso i sintomi predominanti, tra cui i crimini effettuati e l’ingente quantità di tempo per procurarsi la sostanza, il consumo nonostante il peggioramento delle condizioni psicofisiche, i deliri e le allucinazioni indotte dall’uso.

 

La trama di Requiem for a dream

Dal punto di vista psicologico la solitudine e l’egoismo sembrano gli elementi preponderanti in ciascun personaggio costretto ad affrontare isolatamente la sofferenza derivata dalla dipendenza e dai traumi pregressi. Partendo dalla coppia madre-figlio, entrambi i protagonisti giocano a recitare una farsa l’uno in presenza dell’altra, fingono un benessere che non possiedono, negano la realtà, si illudono di poter cambiare la propria e altrui situazione, senza affrontare, di fatto il problema principale che li affligge: la morte del terzo membro della triade famigliare, il padre di Harry, nonché marito di Sara.

Il figlio promette ma non mantiene, millanta una vita che non ha e non riesce a costruire a causa della dipendenza, vorrebbe curarsi della madre, ma si affretta a procurarsi l’eroina per non sentire le emozioni disturbanti: oltre a questo, intuisce la necessità di un aiuto esterno, ma anche l’impossibilità di rivolgersi a qualcuno di affidabile; il padre non c’è, la madre finisce anch’essa sotto l’effetto di stupefacenti, il suo migliore amico è continuamente nei guai con la giustizia e la sua ragazza sembra più interessata alla sostanza che all’amore. Non possedendo le risorse per sostenere la rabbia, il vuoto e la disperazione, e in assenza di figure intime e supportive e di interessi alternativi, Harry si inietta una dose dietro l’altra, ricorrendo ad una strategia che garantisce una gratificazione immediata, ma un malessere repentino e implacabile.

Anche Sara si ritrova sola ad affrontare l’incapacità di gestire l’aggressività del figlio presente per derubarla e vantarsi di una vita perfetta e assente per perseguire i suoi scopi antisociali: senza il marito e circondata dalle amiche frivole e invidiose, ingerisce le amfetamine in quantità sempre più elevate con gravi risvolti psicotici: la percezione di sé, degli altri e del mondo ruota attorno alla trasmissione televisiva che assume significati abnormi e distorti, il tema del giudizio è pervasivo, le idee di riferimento e persecutorie ne costituiscono un esempio lampante, mentre l’estetica diventa il solo strumento di approvazione e riscatto per prevenire la delusione esterna e interna.

Diminuire e cambiare le porzioni alimentari è un’impresa ardua che implica uno sforzo eccessivo, non compaiono altre passioni a parte quel programma televisivo e le relazioni sono intrise di superficialità e insoddisfazione: con il passare del tempo la sostanza non basta più a sortire un beneficio imminente e l’aumento delle quantità porta rapidamente agli effetti indesiderati, così l’euforia, l’irritabilità, i deliri e le allucinazioni prendono il sopravvento senza che la donna si accorga della gravità della condizione.

Verso il finale, la trama delirante aggiunge un elemento prezioso sulla relazione madre-figlio: all’interno dello show, oltre alla Sara curata e apprezzata, compare un Harry mai visto, un adulto che ha superato i problemi di dipendenza e si è costruito una quotidianità fatta di lavoro e famiglia, un quadro che ricorda la negazione della realtà percepita come intollerabile e disturbante nella quale il giovane è sull’orlo del precipizio a causa dell’eroina, ricoverato in fin di vita in attesa del ritorno in carcere, solo e abbandonato dalla madre attanagliata dal crollo psicotico e dalla fidanzata ormai sulla via della prostituzione a causa del bisogno impellente delle dosi. La rappresentazione irreale di Harry è significativa del senso di fallimento di Sara che in quel momento non conosce la condizione attuale del figlio, ma ne immagina le conseguenze: inconsciamente la donna avverte la pericolosità della dipendenza da eroina e i suoi potenziali effetti, ma non riesce a fornire l’aiuto necessario.

La lettura psicologica di Requiem for a dream

Relazioni disfunzionali, vissuti di abbandono e la sostanza come gratificazione immediata

Le disfunzioni relazionali si manifestano anche nella coppia sentimentale Harry-Marion: la scena emblematica che definisce i ruoli interni è il sogno ricorrente di Harry intento a rincorrere Marion distratta e sfuggente. Harry, infatti, cerca spesso un contatto emotivo con la partner apparentemente poco coinvolta nel rapporto che assume una veste conflittuale quando manca il denaro per procurarsi la sostanza. In quegli attimi, Marion non gestisce più l’astinenza e diventa aggressiva nei confronti di Harry, fino ad allontanarsi e a mentire sulla prostituzione, che affronta con disperazione e in solitudine: anche lei vive il dramma di una famiglia che l’ha abbandonata in un costoso appartamento e ha delegato al terapeuta il compito di curarla dalla dipendenza, una situazione che lascia intendere la paura del pregiudizio in una famiglia in cui la visibilità ha un valore imprescindibile e la tossicodipendenza si pone come un problema da scacciare con il distacco e i “regali”, più che da avvicinare e affrontare con il sostegno e l’unione tra i membri.

Da un lato Harry sembra intenzionato a sostenere la partner, ma dall’altro ne comprende l’impossibilità di occuparsene: in un letto di ospedale con il braccio amputato, il giovane sprofonda nello sconforto, realizzando di non avere nessun al mondo, nemmeno Marion, con cui condividere il dolore lacerante. In questo attimo di profondo strazio sembra trasparire una concezione della partner, e segretamente della madre, come inaffidabile, che non l’ha protetto, né comparirà mai in suo soccorso, forse perché intuisce di patire una condizione analoga, oppure un senso di colpa per essere finito nei guai e non aver mantenuto la promessa di aiuto.

E infine anche Tyrone si trova ad attraversare l’abbandono e la solitudine, ma a differenza degli altri, il suo caso appare meno definito. Il ricordo d’infanzia di una madre accudente e responsiva si pone come una barriera protettiva nelle situazioni dove prevale la tristezza, un’immagine che “medica” insieme alle sostanze le emozioni disturbanti. Non si comprende la storia di Tyrone, ciò nonostante tale ambiguità può rivelare alcune informazioni sui significati personali: si conosce la madre attraverso un episodio preservato nella mente e non raccontato, nella quale la figura di attaccamento è cristallizzata in una cornice idealizzante. L’unica rappresentazione, per giunta positiva e incontaminata dalla narrazione, suggerisce una tendenza a proteggere il genitore attribuendogli una funzione esclusivamente protettiva: i lati negativi non compaiono, non si dispone pertanto di una visione integrata di questa mamma che non si sa bene che fine abbia fatto, ma resta vivida nei ricordi infantili e culla ancora il suo bambino, ormai cresciuto e con problemi ben più gravi. Il silenzio di Tyrone rivela una possibile percezione degli altri come inaffidabili, da qui il senso di solitudine da cui si difende appigliandosi a quell’inconfessabile immagine per ricostruire in modo allucinatorio l’unica situazione di amore e contenimento verosimile custodita interiormente.

La tossicodipendenza nell’adolescenza

Come si deduce dal film, la tossicodipendenza interferisce con i pensieri, la percezione, le emozioni e più in generale i rapporti interpersonali, impedendo un’elaborazione costruttiva del trauma. Il consumo delle sostanze si rivela in tal senso una strategia di risoluzione dei problemi che garantisce una gratificazione nel qui ed ora, ma con effetti pericolosi per il benessere psicofisico. È necessario ricordare la frequenza di eventi traumatici irrisolti, passati e recenti, medicati con le sostanze: spesso l’esordio e le ricadute avvengono in concomitanza di alcune circostanze che il paziente interpreta come particolarmente rilevanti, connessi prevalentemente alle dinamiche relazionali che concernono le figure primarie o secondarie di attaccamento.

Nel film, ad esempio, si intravedono tematiche di lutto e abbandono da parte dei caregivers, ma anche strategie educative permissive, in cui manca una compresenza di normatività e sostegno emotivo, particolarmente importante nella fase adolescenziale in cui sono cruciali la separazione-individuazione, la costruzione dell’identità, nonché l’interiorizzazione delle norme e dei comportamenti da attuare per non incorrere nelle condotte a rischio per la salute psicofisica.

Le sostanze in adolescenza possono assumere un significato legato alla sperimentazione, tuttavia è fondamentale tenere presente il rischio di esacerbazione o di incursione in una patologia di abuso o dipendenza in età adulta. In questo senso, un’adeguata presenza famigliare, costituita dall’autorevolezza in primis, è necessaria per supervisionare l’andamento delle condotte e fornire il supporto adeguato, mentre la scuola, con l’aiuto dello psicologo, potrebbe svolgere un ruolo importante nella prevenzione e, per di più, nella promozione di comportamenti creativi e costruttivi che sostituiscano i comportamenti pericolosi.

Per tale ragione è imprescindibile l’analisi dei bisogni, pensieri ed emozioni correlati all’uso, nonché dei contesti in cui il giovane sperimenta prevalentemente la sostanza (solitudine o in compagnia) per aiutarlo ad auto-osservare e a circoscrivere l’esperienza in termini emotivi, cognitivi e comportamentali. I significati e i temi frequenti della personalità costituiscono un aiuto per la valutazione delle risorse e dei nodi problematici; ad esempio, in un’organizzazione di significato personale di tipo DEP (Depressiva), nella quale predominano il senso di solitudine, impotenza e  fallimento, la sostanza è assunta in modalità decisamente più distruttive e talvolta suicidarie, rispetto ad un’organizzazione di tipo DAP (Disturbi Alimentari Psicogeni) in cui il consumo è ponderato e connesso al tema della definizione di sé (Guidano, 1988).

I bisogni implicati nell’abuso e nella dipendenza si ricollegano sovente ai compiti di sviluppo principali che concernono, come si è detto, la costruzione di un’identità propria, la separazione-individuazione dalla famiglia e dai pari, nonché la capacità di integrare diverse visioni di sé, dell’altro e della realtà, o ancora, il primo confronto con la sfera dei rapporti sentimentali e l’integrazione di varie tipologie di relazioni. D’altra parte non è raro riscontrare problemi legati alle sostanze o frequenti episodi di abusi e maltrattamenti nelle storie famigliari: laddove sia possibile, è fondamentale allargare l’intervento alla famiglia e ridurre il rischio di intensificazione e aggravamento dei danni psicologici derivati.

Per quanto riguarda i rapporti secondari di attaccamento, nei casi di tossicodipendenza si verifica di frequente, già a partire dall’adolescenza, l’aggregazione a compagnie o a legami sentimentali superficiali, nei quali la sostanza diventa il principale interesse in comune: le difficoltà interpersonali, come le separazioni o i litigi, sorgono così quando alcuni membri decidono di sottoporsi ad un trattamento di disintossicazione e quindi di allontanare la quotidianità precedente.

Nelle ricadute, ad esempio, si evidenzia un riavvicinamento a conoscenze coltivate in vista degli stupefacenti e un allontanamento da quelle che ne disapprovano l’utilizzo: i pari costituiscono una risorsa essenziale in adolescenza e un importante fattore protettivo è proprio la qualità di questi legami che per essere adeguata dovrebbe supporre un’interazione basata sulla reciprocità, il dialogo e l’ascolto, una condivisione di attività piacevoli e strutturate come lo sport, il teatro, la danza o il cinema, in grado di stimolare un impegno e un interesse produttivo. La coltivazione di passioni alternative alla sostanza potrebbe costituire un’importante risorsa psicologica per le sfide evolutive: non bisogna dimenticare che l’insorgenza di una patologia legata alle sostanze si dispiega attraverso l’interazione di vari fattori di rischio e protezione. Di conseguenza, le situazioni più critiche non sono necessariamente costituite da una predominanza di elementi pericolosi, bensì da determinati dati particolarmente salienti per il soggetto che riguardano in misura maggiore i rapporti  interpersonali significativi e le risorse psicologiche nelle gestione delle situazioni emotivamente impattanti: per queste motivazioni, è necessario esaminare la relazione tra rischio e protezione in uno specifico individuo, tendendo conto dell’interpretazione soggettiva degli eventi e del  significato attribuito.

Infine, quando compaiono le manifestazioni psicotiche, è importante comprendere la provenienza del disturbo: nel caso sia indotto dalle sostanze, gli episodi si verificano esclusivamente nelle fasi di intossicazione e disintossicazione.

Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Sigmund Freud e il Perturbante

Se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con una emozione, di qualunque tipo essa sia, viene trasformato, in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna…il perturbante (Unheimliche).

 

Il Doppio e la rimozione

Per Freud, il Doppio è connesso al concetto di rimozione. L’Io, attraverso la scissione, proietta sull’Altro desideri rimossi e pulsioni inconsce; proprio questi aspetti, che lo differenziano dal Simile, gli garantiscono la negazione e gli permettono di dire “Io non sono Lui”.

Freud aveva teorizzato come l’Io volesse mantenere una certa unitarietà individuale e combattere quella tendenza alla duplicazione, alla frammentazione e alla scissione, che caratterizza ogni essere umano. Questa tendenza trova più libera espressione nei sogni, popolati da personaggi che sostanzialmente non sono altro che “doppioni” del sognatore. Essi rappresentano personificazioni di aspetti parziali della personalità, di suoi desideri e tendenze contraddittori e censurati dalla coscienza della veglia.

Tramite questi “doppioni”, i desideri proibiti possono finalmente trovare sfogo e appagamento, proprio per mezzo del sogno notturno. Egli aveva perciò individuato una caratteristica fondamentale del Doppio, e cioè la sua capacità di poter concretizzare tutte le occasioni non vissute dall’Io e tutte le possibilità che la persona non era stata in grado di sfruttare. Volendo analizzare i due termini  Heimliche/Unheimliche possiamo notare che:

  • Heimliche significa tranquillità del focolare domestico, è il familiare, l’intimo, l’abituale, ciò che conosciamo e che ci conferisce stabilità.
  • Unheimliche (il perturbante) descrive essenzialmente la sensazione di spaesamento e di estraniamento. E’ il non nascosto, è tutto ciò che non dovrebbe essere rappresentato e che dovrebbe restare segreto, nascosto, intimo ma che invece è riaffiorato, e riemerso, è l’estraneo segretamente familiare che ci perturba, ci mette in uno stato di incertezza e di inquietudine.

Secondo Freud il perturbante è qualcosa che prima era familiare nella vita psichica fin dai tempi antichissimi (credenze superate o rimosse che sopravvivono nei primitivi e, soprattutto, nei bambini) e che poi è stato estraniato dal soggetto attraverso il processo di rimozione; quindi da una parte è qualcosa di superato e dall’altra di rimosso che ritorna.

 

Tra il perturbante e il familiare

L’Unheimliche, quindi, analizzandolo approfonditamente, non risulta altro che Heimliche poiché il perturbante si rivela familiare, l’angoscioso fa in realtà parte della vita psichica fin dai tempi più antichi e si è estraniato da essa solo per mezzo del processo di rimozione. Heimliche afferma Freud «è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione col suo contrario».

Il rimosso riguarda non la realtà materiale ma la realtà psichica. Il rimosso è legato alla libido infantile, è un desiderio infantile; è qualcosa che è accaduto molto tempo fa e che la mente ha rimosso, però ciò che viene rimosso in realtà non è superato, quindi basta un input, un elemento in grado di farlo riemergere e riaffiorare. Molto spesso il rimosso è destinato a ritornare.

Il meccanismo psichico che permette queste rappresentazioni, queste riedizioni del passato, è quello che Freud ha chiamato coazione a ripetere. Il momento in cui il perturbante si presenta è quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico: qualcosa di familiare che è stato rimosso. All’origine della vita godiamo dell’illusione del narcisismo, di essere tutto e tutt’uno con il mondo. Seguono poi le fatiche del riconoscimento del distacco, delle separazioni, delle differenziazioni; per essere “uno” bisogna pagare il prezzo di non essere “tutto”.

Come sottolinea la psicoanalisi, tenere insieme tutte le nostre parti è faticoso; non stupisce che, sedotti dalla possibilità di proiettare su un’altra immagine i nostri aspetti più scomodi, proibiti e inquietanti, ricorriamo alla scissione come difesa. Il problema, infatti, non è la scissione ma quando il rimosso ritorna. In realtà fa parte della storia evolutiva di ciascuno, è la caratteristica comune dello strutturarsi dell’Io, che solo talvolta sfocia nella patologia.

Quindi il perturbante è quell’aspetto di noi che sconvolge perché corrisponde alla nostra oggettivazione, perché vi riconosciamo noi stessi al di fuori di noi. Esso può rappresentare un rafforzamento narcisistico dell’identità, ma può anche assumere il connotato inquietante della persecuzione.

Freud afferma che nel corso della storia l’uomo ha dovuto subire tre gravi ferite narcisistiche. Dapprima, con la rivoluzione copernicana, ha dovuto rinunciare all’illusione di essere il centro dell’universo; poi, con Darwin, di non discendere direttamente da dio; con la psicoanalisi, infine, scopre amaramente di non essere padrone neppure in casa propria, poiché l’Io cosciente non è che la minuscola punta emergente dell’iceberg che metaforicamente rappresenta l’intera personalità.

Il ruolo della famiglia nel disturbo ossessivo compulsivo nei bambini: evoluzione, mantenimento dei sintomi ed opzioni terapeutiche

Il coinvolgimento dei familiari nelle ossessioni e nelle compulsioni in in casi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini viene definito in letteratura come “family accomodation”: esso fa riferimento al modo in cui i i genitori, aiutano i figli nei rituali compulsivi, fornendo rassicurazione o modificando le loro abitudini.

Elisabetta Momo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è un disturbo d’ansia caratterizzato da ossessioni, ossia pensieri intrusivi, ripetitivi e non desiderati e comportamenti o rituali mentali che hanno lo scopo di controllare l’ansia, definiti compulsioni. A differenza delle preoccupazioni ordinarie, le ossessioni e le compulsioni, occupano un tempo consistente nella vita del soggetto (più di un’ora al giorno) e interferiscono con le routine quotidiane, causando una compromissione della qualità di vita. Il disturbo ossessivo compulsivo ha una prevalenza del 2-3% nei bambini, con implicazioni in numerosi ambiti (Mullick et al. 2005; Valleni-Basile et al. 1995).

 

Il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini

La diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini può risultare difficoltosa in questa fascia d’età in quanto i sintomi possono non essere riconosciuti come tali dalla famiglia, dagli insegnanti e dai pari.

Spesso le ossessioni e compulsioni possono venire interpretate come oppositività, inosservanza delle regole o preoccupazioni prive di senso. Inoltre i bambini tendono a nascondere i loro sintomi, soprattutto a scuola. I genitori a casa, invece, possono osservare solo il risultato del disturbo: ore trascorse in bagno o soli nella propria camera, capricci per azioni che non possono attuare a modo loro.

La sintomatologia ossessiva nel disturbo ossessivo compulsivo nei bambini si manifesta con tematiche che riguardano la contaminazione, le aggressioni sia lesive che mortali, la simmetria e l’esattezza. Durante l’adolescenza le ossessioni posso evolversi e riguardare prevalentemente tematiche religiose o sessuali (Geller et al. 2001). Le compulsioni più frequenti invece, riscontrate nell’età evolutiva includono il lavarsi e pulirsi le mani, contare, pregare e controllare (Deacon et al. 2004).

 

Il ruolo della famiglia nello sviluppo e nel mantenimento del disturbo

In letteratura molte ricerche hanno indagato quali siano i fattori legati allo sviluppo e al mantenimento del disturbo ossessivo compulsivo. Tra i fattori individuati sembrano avere un ruolo importante quelli legati alla famiglia (Waters e Barrett 2000). Dato che bambini e adolescenti trascorrono numerose ore al giorno a contatto con la famiglia spesso questa viene attivamente coinvolta nei sintomi. La costante ricerca di rassicurazioni alle loro indecisioni e ai loro dubbi e l’evitamento di situazioni ansiogene portano i bambini affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo a diventare estremamente dipendenti dai familiari, i quali sono spesso portati a sostituirsi nei compiti e nelle responsabilità ai propri figli (Laidlaw et al. 1999).

Il coinvolgimento dei familiari nelle ossessioni e nelle compulsioni in in casi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini viene definito in letteratura come “family accomodation” (Lebowitz e Bloch, 2012). Un concetto che fa riferimento al modo in cui i familiari, solitamente i genitori, aiutano i figli nei rituali compulsivi, fornendo rassicurazione o modificando le loro abitudini allo scopo di allievare o di permettergli di evitare l’ansia. La famiglia può intervenire nel disturbo sia direttamente, inserendosi nei rituali, che indirettamente, modellando ad esempio la routine quotidiana attorno al sintomo. Si è visto che alti livelli di family accomodation sono associati ad una compromissione funzionale più grave nei bambini e a maggiori sintomi internalizzati ed esternalizzati (Storch et al. 2007).

La risposta familiare può essere descritta su un continuum che va dal genitore accomodante (eccessivamente premuroso) a quello antagonista (eccessivamente critico). Naturalmente si possono riscontrare famiglie nelle quali un genitore reagisce più sul versante accomodante e uno all’opposto, su quello antagonista. La risposta accomodante è caratterizzata solitamente da coinvolgimento e supporto dato al rituale dal caregiver, al fine di aiutare il bambino riducendo lo stress. Il genitore antagonista, invece, reagisce in maniera critica e ostile ai sintomi e si rifiuta di partecipare ai rituali. Può arrivare a forzare il bambino a esposizioni traumatiche allo stimolo ansiogeno, pur di interrompere i comportamenti compulsivi. In ogni caso si è dimostrato come entrambe le risposte genitoriali tendano a rinforzare il sintomo, aumentandone la frequenza e l’intensità (Calvocoressi et al. 1995; Lebowitz et al. 2012).

Oltre alla specifica risposta comportamentale che i caregiver forniscono ai figli durante i rituali, altre variabili, più legate all’ambiente familiare, sono implicate nello sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini. Queste possono essere delle caratteristiche dello stile genitoriale. L’espressione manifesta di emozioni connotate da criticismo e ostilità è più frequentemente associata a famiglie con bambini che hanno sviluppato un disturbo ossessivo compulsivo, inoltre è anche correlata alla gravità della sintomatologia (Renshaw et al. 2003; Van Noppen et al. 2009). Altre caratteristiche genitoriali associate possono essere un’eccessiva protezione o controllo, una scarsa fiducia nelle capacità del bambino, la mancanza di rinforzi e di stimolazione all’autonomia, basse abilità di problem solving e un atteggiamento connotato da senso di colpa. Queste caratteristiche favoriscono lo sviluppo nel bambino di comportamenti evitanti, preoccupazione e timore verso il mondo. Inoltre anche eventuali psicopatologie genitoriali, in particolare i disturbi d’ansia, possono esacerbare la sintomatologia del bambino (Kohlmann et al. 1988).

Studi condotti su adulti affetti da DOC e le loro famiglie, hanno dimostrato una scarsa correlazione tra la gravità dei sintomi e il livello di coinvolgimento dei familiari nella messa in atto di rituali. La relazione tra le due variabili appare quindi più forte solamente in casi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini, dove il tempo trascorso a casa e la dipendenza dai genitori sono maggiori (Amir et al. 2000; Albert et al. 2010).

Le famiglie entrano pertanto in un circolo vizioso che si autoalimenta in questo modo: il disturbo genera un carico di stress considerevole per i parenti del giovane paziente che, per alleggerirlo, si intromettono nel sintomo, cercando così di alleviare l’ansia. Ma come si è visto l’intervento diretto o indiretto nei rituali non fa che mantenerli, se non aggravarli in intensità e frequenza. Così facendo il carico di stress per la famiglia aumenta ulteriormente.

 

Il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini

Visti i numerosi studi che dimostrano l’importanza che il ruolo della famiglia ha nel disturbo ossessivo compulsivo nei bambini, i trattamenti per tale disturbo devono tenere conto di questa importante variabile. Il trattamento di prima linea per il DOC è la terapia cognitiva comportamentale (CBT) in abbinamento a psicofarmaci (King et al. 1998). Tuttavia una parte di pazienti non mostrano miglioramenti significativi ai follow up (Garcia et al. 2010). Questo dato può indicare che ci siano alcune variabili che pregiudicano l’efficacia del trattamento.

Una di queste potrebbe essere la family accomodation, che nella CBT centrata prevalentemente sul bambino potrebbe essere sottostimata. Pertanto il coinvolgimento della famiglia è ampiamente consigliato, in modo da fornire un supporto globale al paziente e offrire ai familiari gli strumenti per aiutare il bambino ad applicare il trattamento anche nella quotidianità (POTS, 2004).

Esistono numerosi fattori che rendono il coinvolgimento dei familiari necessario per un buon esito della terapia. Innanzitutto, attraverso una prima fase di psicoeducazione, i familiari possono comprendere la genesi e le problematiche tipiche del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini. In secondo luogo è utile intervenire sul coinvolgimento dei familiari nei rituali, in modo da interromperlo. Infine è importante insegnare ai genitori ad essere dei coach per i propri figli a casa, allo scopo di aumentare l’adesione e la motivazione al trattamento.

In una CBT basata sulla famiglia l’obiettivo del trattamento è quello di migliorare le relazioni familiari e ridurre la sintomatologia ossessiva compulsiva (O’Leary et al. 2009; Kircanski et al. 2011). L’intervento può comprendere delle sessioni individuali o di gruppo con i giovani pazienti e con i genitori separatamente, accompagnate da sessioni familiari con genitori e figli insieme. La CBT familiare per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini si compone di alcune fasi:

  • Psicoeducazione: in questa prima fase l’obiettivo è quello di fornire informazioni circa il disturbo. La sua natura, le cause, l’incidenza sulla popolazione, la durata, i fattori che influiscono su di esso e le opzioni terapeutiche vengono discusse con bambini e familiari. È importante per tutta la famiglia esternalizzare il problema, ossia attribuire i sintomi al disturbo e non al modo di essere del figlio, passando quindi da un’attribuzione interna ad una esterna. Inoltre è utile modificare la credenza, errata ma diffusa, che il paziente possa controllare il sintomo. Questo è importante soprattutto al fine di ridurre criticismo e atteggiamenti ostili nei confronti del bambino, che acuiscono sempre di più la sua ansia. Un ultimo scopo di questa fase è quello di far elaborare il fatto che sia il paziente che i familiari hanno un’influenza sul sintomo e che quindi tutti devono essere motivati e orientati allo stesso obiettivo.
  • Fornire strumenti ai genitori: in questa fase vengono descritti ai genitori degli strumenti da poter applicare quotidianamente allo scopo di aumentare la motivazione al cambiamento del proprio figlio e al contempo gestire efficacemente la sintomatologia. Questi strumenti possono comprendere la gestione dell’attenzione come mezzo di rinforzo, negandola al comportamento indesiderato e dandone di positiva al comportamento adeguato. Altra tecnica utile è quella della token economy, ossia un sistema a punti e rinforzi utilizzato per raggiungere un obiettivo prefissato e concordato col bambino. Infine può essere importante fornire metodologie per aiutare il figlio nella regolazione delle proprie emozioni.
  • Esposizione e prevenzione della risposta (EX/RP): questa tecnica prevede un lavoro attivo da parte di genitori e figli insieme. Ha lo scopo di esporre gradualmente il bambino allo stimolo ansiogeno e contemporaneamente di farlo astenere dall’agire la compulsione. Viene quindi preventivamente creata una scaletta gerarchica delle ossessioni e compulsioni, con il relativo grado d’ansia sperimentato in ognuna. Saranno affrontate per prime le ossessioni con intensità minore, fino ad arrivare a quelle che creano maggior disagio.
  • Homework: i compiti a casa sono tipici delle CBT. Vengono assegnati allo scopo di portare il paziente a raggiungere la padronanza sul proprio disturbo e di applicare quotidianamente gli strumenti appresi in seduta. Nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini gli homework possono riguardare i vari step dell’esposizione. I genitori in questa fase avranno il compito di spronare i propri i figli a padroneggiare l’ansia durante l’esposizione, incoraggiandoli in maniera non critica. Dovranno inoltre gestire il proprio stress nell’assistere i figli in questa delicata fase e monitorare progressi e difficoltà incontrate, in modo da fornire informazioni essenziali al terapeuta.
  • Training per la gestione dell’ansia: questa tecnica è particolarmente utile per i pazienti con prevalenti sintomi internalizzati. Può prevedere strumenti come il rilassamento muscolare o la respirazione diaframmatica. Anche in questa fase i genitori possono essere coinvolti per apprendere loro stessi le tecniche, in modo da spronare il figlio ad utilizzarle durante le situazioni ansiogene e le compulsioni o per utilizzarle loro stessi.

Nei trattamenti CBT per il disturbo ossessivo compulsivo particolare attenzione va posta su quelle caratteristiche che possono pregiudicare il buon esito della terapia e favorire il dropout. In letteratura i principali fattori identificati sono: la family accomodation, l’atteggiamento antagonista o al contrario accomodante dei genitori, il criticismo ostile ed un eccessivo coinvolgimento emotivo parentale (Chambless et al.1999). Questi fattori di rischio andrebbero integrati nella terapia ed affrontati con homework specifici per questi aspetti.

In conclusione numerosi studi, come quello recente di Freeman e colleghi del 2014, hanno mostrato come la CBT familiare possa essere un trattamento molto efficace per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini, non solo per gli adolescenti e i pre-adolescenti, ma anche per i bambini più piccoli, dai 5 agli 8 anni. Per aumentare ulteriormente l’efficacia della terapia potrebbe essere preso in considerazione in ricerche future il coinvolgimento, in alcune fasi del trattamento, dei fratelli del giovane paziente (Smorti, 2012). Questa variabile, se trascurata, condurrebbe ad una sottostima di un’importante fattore quale la relazione fraterna, che potrebbe essere sia un ostacolo al trattamento o al contrario un’importante risorsa da sfruttare. Integrandola, invece, si potrebbe avere una visione globale del problema, aumentando quindi le probabilità di un buon esito e riducendo le recidive.

Il successo illusorio inibisce la capacità dei bambini di apprendere dal mondo

Mentre i genitori pensano che far vincere i propri figli contribuisca alla costruzione della loro autostima, in realtà ciò potrebbe non essere vero.

 

Il successo illusorio e la non capacità di cogliere indizi rilevanti dall’ambiente

La professoressa di psicologia all’Amherst College, Carrie Palmquist, e l’ex studentessa Ashleigh Rutherford, hanno scoperto che quando i bambini esperiscono il “successo illusorio” relativamente ad un determinato compito, ne risentirebbe la loro abilità di formulare giudizi sulla propria performance e agire sulla base di essi. Come risultato, i bambini potrebbero diventare propensi a ignorare informazioni importanti che potrebbero utilizzare in processi futuri di decision-making.

Il team di ricercatori ha pubblicato un articolo riguardo alla propria ricerca sulla rivista “Journal of Experimental Child Psychology”, intitolato “Il successo inibisce la capacità dei bambini in età prescolare di costruire una fiducia selettiva”. Esso ha, come co-autore, Vikram Jaswal, professore di psicologia all’Università del Virginia.

L’articolo illustra i risultati di uno studio condotto nel “Palmquist’s Child Learning and Development Lab” del campus universitario.  In una serie di esperimenti, Palmquist e Rutherford hanno chiesto a bambini di 4 e di 5 anni di giocare ad un gioco in cui si nascondevano degli oggetti, con due adulti “sperimentatori” che offrivano degli indizi per ritrovarli. Dei due, uno dava indizi corretti; l’altro dava indizi falsi.

Palmquist e Rutherford, allora, hanno modificato il gioco per metà dei bambini, in maniera tale che essi potessero trovare gli oggetti nascosti indipendentemente da dove venissero cercati; il successo degli altri bambini, invece, era completamente affidato  al caso.

Dopo la fase dei giochi, gli scienziati hanno chiesto ai bambini a quale delle due persone avrebbero preferito chiedere aiuto nel caso di ricerca di nuovi oggetti nascosti.

I bambini che avevano partecipato alla versione modificata del gioco non mostravano preferenze per la persona che aveva dato loro indizi utili, poiché non la percepivano come se avesse loro elargito un aiuto.

I bambini che avevano partecipato alla versione classica del gioco, invece, mostravano una chiara preferenza per la persona che aveva dato loro indizi corretti.

Conclusioni

[blockquote style=”1″]Quando i bambini sperimentavano eccessivamente il successo, sembravano ignorare gli indizi rilevanti, così come chi fosse la migliore fonte d’informazioni[/blockquote] spiega Palmquist. [blockquote style=”1″]Ciò è importante per due ragioni: in primo luogo suggerisce che i bambini potrebbero non essere così astuti come suggeriscono precedenti ricerche; in secondo luogo, che nel mondo reale, quando i bambini esperiscono una grande quantità di successo in un compito – per esempio quando la madre e il padre lo lasciano sempre vincere ad un gioco – essi potrebbero diventare meno attenti ad informazioni importanti che potrebbero utilizzare per imparare dal mondo, perché le percepiscono meno rilevanti per il loro futuro successo. [/blockquote]

Perché gli zuccheri creano dipendenza?

Dipendenza da zuccheri: Attualmente, i cibi in commercio risultano essere a tal punto ricchi di zuccheri da ritenere che proprio questa sia una delle cause principali della vera e propria epidemia di obesità che affligge molti Paesi, soprattutto quelli occidentali. Il sovradosaggio di zuccheri, infatti, non solo porta ad un aumento esponenziale della quantità di calorie ingerite quotidianamente, ma anche ad una vera e propria dipendenza verso questo tipo di nutrienti.

 

La dipendenza da zuccheri

La dipendenza è una condizione medica tale per cui le persone manifestano un desiderio incontrollabile verso l’assunzione di una qualche sostanza o la messa in atto di una qualche attività, anche a fronte della consapevolezza dei rischi e delle possibili conseguenze negative che tali comportamenti possono comportare. Anche l’assunzione di zuccheri può portare, proprio come le classiche droghe, ad una vera e propria dipendenza; molte persone, infatti, non sono in grado di controllare il proprio impulso, definito craving, verso l’assunzione di qualcosa di dolce.

Attualmente, i cibi in commercio risultano essere a tal punto ricchi di zuccheri da ritenere che proprio questa sia una delle cause principali della vera e propria epidemia di obesità che affligge molti paesi, soprattutto quelli occidentali. Il sovradosaggio di zuccheri, infatti, non solo porta ad un aumento esponenziale della quantità di calorie ingerite quotidianamente, ma anche ad una vera e propria dipendenza verso questo tipo di nutrienti, in quanto costituiti da molecole in grado di interagire con diverse sostanze presenti a livello cerebrale, andando ad alterarne i normali livelli. Ad esempio, gli zuccheri possono modificare la concentrazione di dopamina e di altri recettori cerebrali come la serotonina, implicati nella percezione di sentimenti quali felicità e soddisfazione.

La forma più comune di zucchero è il saccarosio che, una volta ingerito, viene scisso in due, glucosio e fruttosio, a livello dell’apparato digerente dell’organismo. Il livello di glucosio nel corpo umano viene regolato da due diversi enzimi, insulina e glucagone, entrambi importanti per il metabolismo di questo zucchero.

In seguito all’ingestione e alla degradazione dello zucchero, le molecole di glucosio vengono poi assorbite e distribuite in tutte le cellule del corpo, principalmente grazie al lavoro di un gruppo di proteine, dette GLUCs, responsabili del trasporto del glucosio all’interno del flusso sanguigno. Il principale trasportatore delle molecole di glucosio fino al cervello viene detto GLUT1.

Il tessuto cerebrale risulta essere il principale tessuto umano a non essere in grado di tollerare bassi livelli di glucosio, da momento che i neuroni non possiedono l’abilità di immagazzinare lo stesso per poi poterlo usare in momenti di carenza di zuccheri, necessitando quindi di continuo apporto energetico. Proprio per questo, il cervello risulta essere il principale consumatore di glucosio, nonché il primo ad essere rifornito di questa sostanza.

Comunemente le persone riportano di mangiare alimenti dolci, per sentirsi più felici e, anatomicamente parlando, non affermano nemmeno il falso. Il consumo di zuccheri, infatti, comporta un maggior rilascio all’interno del sistema del neurotrasmettitore serotonina, responsabile della sensazione di benessere e felicità riportata dalle persone. Gli zuccheri, però, stimolano anche il rilascio di insulina, che, in caso di necessità, normalizza i livelli di glucosio e, quando questi ultimi raggiungono una concentrazione relativamente bassa, l’organismo percepisce nuovamente l’impulso ad assumere zuccheri per ripristinare la sensazione di benessere precedente. Ciò che risulta da questo circolo vizioso di costante consumo di dolci, è, in ultima analisi, la dipendenza da zuccheri, con annessa sovra-alimentazione e, sul lungo periodo, obesità.

Inoltre, è ben noto quanto i bambini amino in particolar modo i cibi dolci, preferendoli ad altri tipi di alimenti fin dalla più tenera età. Recentemente, i ricercatori hanno messo in evidenza come questa preferenza sembri essere data da fattori neurobiologici e non sia la conseguenza di un apprendimento di tipo culturale. La concentrazione dei neurotrasmettitori e dei recettori in infanzia, infatti, risulta essere differente da quella tipica dell’età adulta, differenza che poi si riduce gradualmente nel corso della crescita. La dipendenza da zuccheri si può instaurare già in infanzia e permanere poi per tutta la vita.

Un altro problema, legato alla dipendenza da zuccheri, riguarda anche il tipo di zuccheri consumati, ai quali il cervello tende a rispondere in modi diversi. Ad esempio, il corpo umano necessita di minori livelli di glucosio per poter stare bene e inviare quei segnali di sazietà che spingono l’organismo a smettere di mangiare. Al contrario, il corpo necessita di fruttosio in dosi maggiori per poter inviare gli stessi segnali per sopprimere la sensazione di fame.

Lo studio: come risponde il cervello all’assunzione degli zuccheri

Sono stati i ricercatori della Scuola di Medicina di Yale a scoprire, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), questo fenomeno. Lo studio, svolto su un campione di soggetti sani non obesi, aveva infatti proprio lo scopo di indagare le differenze insite nella modalità di risposta del cervello ai diversi tipi di zuccheri. Ciò che è emerso è che, in seguito all’assunzione di glucosio, veniva registrata una riduzione di flusso sanguigno in quelle aree cerebrali responsabili della sensazione di appetito (ad es. ipotalamo), del sistema della ricompensa e della motivazione, portando anche ad una sensazione immediata di soddisfazione. Al contrario, in seguito all’assunzione di fruttosio, non è stato rilevato un cambiamento analogo a livello del flusso sanguigno.

Se si pensa al fatto che attualmente il fruttosio risulta essere largamente utilizzato nell’industria alimentare per la produzione di cibi e bevande, si può facilmente immaginare come questo aspetto, alla luce delle scoperte recenti, possa rappresentare un serio problema. Infatti, dal momento che il cervello non sembra essere in grado di controllare in modo adeguato l’assunzione di fruttosio, risulta essere molto più facile la messa in atto di comportamenti di ricerca compulsiva di cibi dolci e di sovra-alimentazione, rendendo così più facile l’emergere di patologie quali l’obesità.

Infine, i ricercatori dell’Università Tecnica di Monaco hanno recentemente messo in luce come gli astrociti, un tipo di cellula gliale, giochino un ruolo estremamente importante per quanto riguarda il consumo di glucosio. Le cellule gliali sono cellule che circondano i neuroni e li sostengono e, in particolar modo, gli astrociti giocano un ruolo cruciale nella creazione di una barriera atta a separare il cervello dal sangue (barriera ematoencefalica). Questo tipo di barriera, più nello specifico, è fondamentale per rendere altamente selettivi i vasi sanguigni che irrorano le diverse regioni del sistema nervoso centrale, controllando così l’interscambio di sostanze, e quindi anche del glucosio, che avviene tra il tessuto cerebrale e il sangue, in entrambe le direzioni.

A tal proposito, Garcìa-Càceres e collaboratori (2016) hanno evidenziato come la funzionalità degli astrociti possa essere controllata proprio da enzimi quali insulina e leptina. Infatti, gli astrociti presentano sulla propria superficie recettori per l’insulina in grado di reagire in base ai livelli di glucosio presenti nel sangue. Da scansioni PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) gli autori hanno rilevato la tendenza dell’insulina ad interagire con gli astrociti al fine di regolarne la permeabilità al glucosio, andando così in generale a modificarne la quantità presente a livello cerebrale. Ad esempio, quando gli astrociti presenti nelle aree cerebrali deputate alla regolazione della sensazione di appetito si attivano, al corpo vengono inviati segnali di soddisfazione. Al contrario, quando gli astrociti non entrano in contatto con il glucosio non si attivano, e ciò comporta per la persona un continuo desiderio e ricerca di glucosio.

Nonostante con le recenti scoperte siano stati fatti passi avanti, la dipendenza da zuccheri, e soprattutto come essa si configuri a livello cerebrale, rimane ad oggi un tema ancora scarsamente studiato. Una migliore comprensione del fenomeno, invece, potrebbe facilitare la messa a punto di interventi terapeutici più efficaci, anche in un’ottica di prevenzione all’interno della lotta all’ormai dilagante epidemia di obesità.

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