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Volontariato in adolescenza: un fattore di protezione contro i reati?

I ricercatori del College of Public Health dell’Università dell’ Iowa hanno scoperto che i teenager che avevano partecipato ad attività di volontariato in adolescenza spontaneamente e senza costrizioni dagli adulti, avevano l’11% in meno di comportamenti illegali dai 18 ai 28 anni di età, rispetto ai teenager che non erano stati volontari.

 

Secondo lo studio, i soggetti che avevano fatto volontariato in adolescenza avevano anche il 31% di arresti in meno e il 39% in meno di condanne. Questo trend continuava quando i soggetti diventavano più grandi; i volontari riportavano il 53% in meno di arresti e il 36% in meno di condanne, tra i 24 e i 34 anni di età.

L’adolescenza è un periodo formativo durante il quale occorre la maggior parte dello sviluppo morale ed emotivo, e le esperienze di crescita personale, come il volontariato, potrebbero promuovere un senso di responsabilità sociale, valore di sé, e felicità che promuoverebbero lo sviluppo morale – sostiene Shabbar Ranapurwala, l’autore principale dello studio e membro della facoltà all’ UI College of Public Health e all’Università del North Carolina allo Chapel Hill – Questi individui, alla crescita, potrebbero diventare più fiduciosi in se stessi ed adulti responsabili che potrebbero non essere coinvolti in attività criminali, più di quanto non lo siano i non volontari – egli sostiene.

 

Il volontariato in adolescenza: lo studio del College of Public Health

I ricercatori hanno raccolto dati utilizzando il National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health. Più di 14.000 studenti  dal secondo anno di elementari al primo anno di medie, hanno risposto a delle domande nel 1994-1995 e di nuovo nel 2001-2002 e nel 2008-2009.

Veniva loro chiesto se avessero messo in atto comportamenti illegali, la maggior parte dei quali concernenti furti, violenza armata, abuso di droghe, frodi o partecipazione a gang.

Lo studio ha anche riguardato teenager che erano stati obbligati dagli adulti a fare attività di volontariato in adolescenza e veniva indagato quanto spesso essi avessero problemi con la legge una volta divenuti adulti. In questo caso, i ricercatori hanno scoperto un quadro più complesso. Coloro i quali erano stati obbligati a fare volontariato in adolescenza riportavano, in futuro, il 20% in più di comportamenti illegali tra i 18 e i 28 anni, e il 10% in più tra i 24 e i 34 anni,  rispetto ai soggetti che non avevano fatto attività di volontariato in adolescenza.

Carri Casteel, professoressa associata di salute ambientale e salute sul lavoro nell’UI College of Public Health e co-autrice dello studio, sostiene che i ricercatori siano insicuri sulle cause di questo risultato; il database non includeva informazioni rilevanti per la comprensione del fenomeno. Tuttavia, l’autrice sostiene che ciò potrebbe dipendere dal tipo di attività di volontariato alle quali i teenager prendevano parte e dalla quantità di tempo che essi impiegavano in queste attività.

Quelli che compiono attività di volontariato spontaneamente, potrebbero compiere diverse attività e avere dei risultati differenti rispetto ai soggetti che sono inviati a fare volontariato, poiché i primi possono scegliere le attività da compiere – dichiara la Casteel.

Tuttavia, i ricercatori hanno trovato un decremento simile negli arresti e nelle condanne tra coloro i quali erano obbligati a fare volontariato in adolescenza dagli adulti, rispetto a coloro i quali facevano spontaneamente i volontari, nonostante il precedente incremento riferito dei comportamenti illegali. Lo studio, infatti, ha riportato che i volontari obbligati dagli adulti avevano il 37% in meno di arresti e il 29% in meno di condanne rispetto ai non volontari, tra i 18 e i 28 anni, e il 29% in meno di arresti e il 19% in meno di condanne tra i 24 e i 34 anni.

Curare il sé traumatizzato: il contributo di Ruth Lanius

Il 24 e il 25 febbraio Ruth Lanius tornerà a Milano per il workshop dal titolo “Momenti Cruciali nel Trattamento del Trauma: Verso l’Integrazione del Sé”: sarà l’occasione per esplorare insieme a lei le sfide che questo tipo di disturbi pongono sia ai terapeuti che ai pazienti, in perenne lotta con una dolorosa frammentazione interna.

 

Un grande contributo alla comprensione e alla cura del trauma è stato dato negli ultimi 10 anni da Ruth Lanius, professoressa di psichiatria, direttrice dell’unità di ricerca sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presso la University of Western Ontario e autrice di numerose pubblicazioni sul tema del trauma e dei trattamenti evidence-based per la cura dei disturbi post-traumatici e dissociativi.

Il 24 e il 25 febbraio tornerà a Milano il workshop dal titolo “Momenti Cruciali nel Trattamento del Trauma: Verso l’Integrazione del Sé”, organizzato, come nel 2015, dal Btl Workshop, e sarà l’occasione per ascoltare di nuovo il contributo clinico di Ruth Lanius e per esplorare insieme a lei le sfide che questo tipo di disturbi pongono sia ai terapeuti che ai pazienti, in perenne lotta con una dolorosa frammentazione interna.

 

Ruth Lanius: la traumatizzazione cronica nella vita quotidiana

La traumatizzazione cronica può infatti compromettere la capacità di una persona di vivere consapevolmente nel presente, poiché gli effetti del trauma possono manifestarsi  più o meno intensamente nella vita quotidiana attraverso difficoltà nel regolare emozioni intense, flashbacks, derealizzazione, depersonalizzazione, ottundimento, autolesionismo, esperienze di essere “fuori dal corpo”, fino a veri e propri stati dissociativi.

Questo rende difficile svolgere le normali attività quotidiane ed è per questo che risulta molto efficace per questi pazienti acquisire, attraverso un percorso di cura specializzato, innanzitutto strumenti quotidiani di gestione della dissociazione e successivamente metodi che li aiutino lentamente a “re-integrare” aspetti di sé in conflitto, a recuperare una coscienza di sé piena e completa, insieme ad una narrazione della propria storia priva di discontinuità e amnesie; solo l’integrazione di funzioni e aspetti di sé tenuti separati dal trauma può ridurre i sintomi legati alle riattivazioni traumatiche e al re-enactment, molto frequenti in questi pazienti.

 

Healing the Traumatized Self di Ruth Lanius

Uno degli ultimi importanti contributi scientifici di Ruth Lanius è stata la pubblicazione, prossima anche in Italia, del volume Healing the Traumatized Self (Frewen, Lanius, 2015). Il focus del manuale, introdotto con entusiasmo da David Spiegel e Bessel van der Kolk, è offrire ai clinici strumenti utili per orientarsi nello spettro complesso di sofferenze che i pazienti traumatizzati portano in terapia, attraverso la presentazione del modello quadridimensionale di classificazione dei sintomi post traumatici.

Le ricerche condotte negli ultimi anni, sono nate infatti dall’esigenza di definire meglio proprio il concetto stesso di dissociazione in cui finiscono per essere incluse molte differenti sindromi, generando confusioni sia diagnostiche che cliniche (Lanius, 2015). Il DSM-5 ha permesso di affiancare per la prima volta i disturbi dissociativi ai disturbi correlati a stress ed eventi traumatici, sottolineando finalmente il legame tra trauma e dissociazione, ma con il loro Modello a 4 dimensioni gli autori del libro, Paul Frewen e Ruth Lanius, propongono un ulteriore approfondimento; il loro modello offre cioè la possibilità di collocare i sintomi lungo un continnuum tra una normale attività cosciente (Normal waking consciousness, NWC) e la presenza di stati alterati di coscienza legati al trauma (trauma-related altered states of consciousness, TRASC), attraverso l’utilizzo di 4 dimensioni principali: tempo, pensieri, corpo, emozioni (vedi fig.1).

curare il Sé traumatizzato: il contrbuto di Ruth Lanius

Fig. 1 – Modello quadridimensionale di Lanius e Frewer. Le parti in rosa indicano gli stati NWC, normali alterazione dello stato di coscienza, mentre le parti in arancione descrivono alterazioni di coscienza trauma correlate.

 

Osservare la dimensione tempo permette, ad esempio, di differenziare tra flashback intrusivi che portano a rivivere letteralmente il trauma (TRASC) e ricordi intrusivi che generano angoscia (NWC); rispetto alla dimensione dei pensieri è importante distinguere, ad esempio, tra le presenza di voci e allucinazioni uditive (TRASC) e la persistenza, seppur disturbante, di una ruminazione negativa e ricorrente su di sé espressa in prima persona (NWC).

Ancora, l’osservazione della dimensione corporea può aiutare a distinguere tra uno stato di depersonalizzazione (TRASC) e uno stato di iper-arousal (NWC) e infine rispetto alla dimensione emotiva sarà importante distinguere, ad esempio, tra stati di ottundimento/numbing (TRASC) e uno stato emotivo depressivo, quand’anche  generale e pervasivo (NWC). Ognuna di queste dimensioni può aiutare a definire meglio le caratteristiche dei sintomi più difficili da intercettare e ovviamente le dimensioni non si escludono tra loro, ma possono aiutare proprio se considerate insieme. Ad esempio la depersonalizzazione può colpire una sola dimensione, il pensiero, o anche il corpo o una parte del corpo, risultando un sintomo più o meno pervasivo e generalizzato.

 

Attaccamento e trauma

Oltre alla concettualizzazione di questo modello, il lavoro di Ruth Lanius negli ultimi anni si è focalizzato sulla validazione dei trattamenti più efficaci proprio nei casi di traumatizzazione cronica, offrendo contributi scientifici sull’efficacia del neurofeedback nella cura della disregolazione emotiva (Lanius, 2016) e continuando ad approfondire sin dal 2010, anno di pubblicazione del suo importantissimo manuale “The Impact of Early Life Trauma on Health and Disease: The Hidden Epidemic” (di Lanius, Vermetten, Pain), l’impatto di traumi relazionali legati ad esperienze precoci e negative di attaccamento sullo sviluppo cerebrale infantile e dunque sulla possibilità di causare sindromi post traumatiche e psicopatologia in età adulta (Lanius, 2013). Lo stile di attaccamento familiare e la capacità delle figure di accudimento di tenere confini relazionali adeguati, sembra infatti avere un impatto significativo sulla costruzione di una identità propria e integrata a causa dell’influenza che l’assenza di confini ha sulle stesse funzioni cognitive responsabili della costruzione della memoria episodica o autobiografica (Lanius, 2016).

Questi risultati evidenziano come l’impossibilità di costruire una narrazione congrua, ricca e completa della propria storia, impedisca ai pazienti traumatizzati di percepire un senso profondo e stabile della propria identità e ostacoli la possibilità di sentirsi individui in evoluzione con un passato chiaro, un presente percepito come reale e un futuro da costruire.

Curare il sé traumatizzato allora passa da un lento e preciso lavoro di integrazione, che necessita di una comprensione profonda dei processi neurobiologici e fisiologici che i traumi vanno ad alterare, di strumenti di cura appropriati ed efficaci, ma anche della capacità di restare sintonizzati in terapia sull’esperienza emotiva che i pazienti portano, offrendo un modello di attaccamento sicuro, in grado di promuovere un legame nuovo e caratterizzato da confini relazionali chiari e stabili, in un contesto sicuro e non giudicante, che aiuti a disinnescare le risposte di allerta lasciate in eredità dal trauma e permetta una ri-costruzione graduale ma autonoma della propria identità e della strada verso il futuro.

Self/Less (2015) – Cinema & Psicoterapia #37

Self/Less (2015) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #37

Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

Film diretto da Tarsem Singh. Protagonisti Ryan Reynolds e Ben Kingsley.

Trama

Nel film Self/Less un miliardario malato di cancro decide di sottoporsi a un intervento che trasferirà la sua coscienza in un nuovo corpo. Il corpo non è stato creato in laboratorio come aveva creduto Damian Hale (Kingley), apparteneva a un uomo (Reynolds) che per curare la propria figlia affetta da una grave malattia lo aveva venduto.

 

Motivi d’interesse

Self/Less contrappone il tema faustiano dell’immortalità e dell’estrema povertà che spinge una parte sempre più larga della popolazione mondiale a mercificare la propria dignità umana. L’eugenetica che sostiene la volontà di estendere la propria vita oltre la naturale fine, oltre ogni limite etico e le estreme condizioni d’indigenza che portano l’uomo a diventare merce di scambio in un mercato dove il denaro consente di avere un potere assoluto.

Un mix di psicofarmaci reprime i ricordi che il corpo riporta alla memoria, ma con il passare delle settimane immagini sconosciute e appartenenti a un’altra vita affollano la mente di Ben Kingsley facendogli scoprire l’amara verità. Il corpo che ha sostituito il suo, malato di cancro, non è stato interamente realizzato in laboratorio ma preso da un obitorio.

Il folle esperimento è destinato a fallire perché le memorie corporee prendono il sopravvento sulla volontà di ingerire gli psicofarmaci. E’ la vittoria del corpo sulla mente corrotta del vecchio miliardario, che proprio con un corpo nuovo prende consapevolezza dei suoi errori e lascia prevalere l’uomo che generosamente per il bene della propria figlia ha sacrificato la sua vita.

Il film Self/Less pone alla riflessione dello spettatore questioni etiche di una forte attualità. Esperimenti come quello proposto non sono ancora praticati e la comunità scientifica al momento è molto scettica sulla possibilità di trapiantare il cervello con successo. Occorre però considerare che a fine 2017 sarà provato per la prima volta da un’equipe di neurochirurghi il primo trapianto di cervello su un soggetto che ha fornito consenso informato a rinunciare al proprio corpo deturpato per trasferire la sua testa su un corpo pienamente funzionante. Altresì nel mondo la vendita e il commercio di organi sono pratiche molto diffuse.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER 

La questione più interessante sembra però quella legata alle possibili conseguenze della coabitazione di un cervello e di un corpo di persone diverse. Nel film Self/Less la “coscienza del corpo” prevale sul cervello grazie alle relazioni che il soggetto riallaccia con la moglie e con la figlia, come se la dimensione interpersonale della coscienza parafrasando Liotti (1994) restituisse la trama narrante che si era interrotta e restituisca identità. Anzi, è proprio il riemergere dell’identità di Reynold che consente a Hale di prendere consapevolezza di quanto la sua vita, tutta incentrata sugli affari e il denaro, gli avesse fatto perdere il valore delle cose importanti, tanto da spingerlo a ricostruire per quanto ormai possibile il legame con sua figlia.

 

Self/Less: indicazioni utili

Non si può escludere l’analisi del corpo quando si vuole produrre un cambiamento.

Il corpo è narrazione è esperienza incarnata. La seduzione delle parole ci tiene spesso lontani dalla conoscenza esperienziale, dall’elaborazione corporea, alla base degli altri tipi di elaborazione: autoconsapevolezza, interpretazione, pensiero astratto e sentimento. La neurobiologia interpersonale ci insegna che il benessere deriva dall’integrazione di mente e corpo. E per questo gli interventi buttom-up vanno ad agire su un livello di elaborazione dell’informazione che non può essere raggiunto attraverso interventi sui processi top-down.

Rivolgendoci al corpo con la consapevolezza dell’esperienza sensoriale del qui e ora i sentieri che portano all’integrazione sono aperti […] verso la flessibilità, l’adattamento, la coerenza e la stabilità (Siegel, 2012).

 

Disprassia evolutiva: criteri clinici e principi di trattamento riabilitativo

La disprassia evolutiva rappresenta per la riabilitazione pediatrica un ambito emergente e di grande interesse: l’incapacità di compiere gesti, siano essi simbolici o di adeguato utilizzo degli oggetti, in assenza di deficit motori, confligge con un normale sviluppo delle funzioni cognitive così come di quelle adattive.

Daniela Voza – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

…non solo i bambini ma anche gli esseri umani di tutte le età sono oltremodo felici e in grado di estrinsecare le loro capacità con il maggior vantaggio possibile quando sono sicuri che dietro di loro ci sono una o più persone che li possono aiutare in caso di difficoltà. La persona fidata fornisce una base sicura su cui appoggiarsi per potere agire” (J. Bowlby, 1973).

 

La disprassia evolutiva rappresenta per la riabilitazione pediatrica un ambito emergente e di grande interesse: l’incapacità di compiere gesti, siano essi simbolici o di adeguato utilizzo degli oggetti, in assenza di deficit motori di tipo piramidale, cerebellare o di disordini del movimento, confligge con un normale sviluppo delle funzioni cognitive così come di quelle adattive. Tuttavia, tra i disordini neuro evolutivi la disprassia è l’entità forse ancor oggi più disattesa o sottostimata o misconosciuta.

Anche in ambito clinico rappresenta una tematica controversa e dibattuta a partire addirittura dalla sua definizione: mentre nel mondo anglosassone continua ad essere ancora chiamata “disprassia evolutiva“, prevale oggi la dizione di “Disturbi della Coordinazione Motoria” in accordo con la scuola canadese (Progetto formativo, Don C. Gnocchi, 2015).

 

Definzione di Disprassia Evolutiva

La patologia che colpisce la prassia è l’Aprassia, intesa come assenza della funzione da perdita o da mancanza e si riferisce all’adulto, mentre in età evolutiva si preferisce il termine Disprassia, intesa come malfunzionamento, anomalia della funzione da disfunzione.

I primi lavori in ambito evolutivo sono quelli di Orton (1937), che identifica la “goffaggine” come uno dei più comuni disordini dello sviluppo; riconosce inoltre differenti tipologie nell’ambito dei disturbi motori e sottolinea che esistono diversi tipi di “disordini motori”.

Trent’anni più tardi Walton, Ellis e Court (1962) e Gubbay et al. (1965) descrivono dettagliatamente i bambini “goffi”, ovvero i cosiddetti clumsy children. I criteri usati per definire la diagnosi di questi bambini sono: la mancanza di destrezza, l’impaccio motorio, l’assenza di abilità, che coincidono clinicamente con la presenza di “varie forme di aprassia e di agnosia”; il criterio “per esclusione” prevede che tale disturbo debba essere attribuito all’aprassia e all’agnosia, dopo aver escluso deficit neurologici e neuropsicologici classici: l’esame neurologico deve risultare negativo, devono risultare nella norma l’energia dei movimenti, le funzioni sensoriali e l’intelligenza.

Lo sviluppo delle abilità prassiche coincide con la nascita dell’intenzione, intesa come capacità da parte di ogni individuo, già in epoca neonatale, di regolare i propri processi cognitivi per organizzare risposte adattive. La disprassia già molti anni fa è stata definita come disturbo dell’integrazione neurosensoriale, in particolare negli aspetti visivi e tattili, interpretabile in tal senso come possibile componente eziologica (Ayres, 1972, Dewey e Kaplan,1994; Dunn et al, 1986). I bambini risultano molto sensibili al tatto, alla luce, a rumori e spesso presentano difficoltà alimentari ovvero sono molto selettivi nel tipo di alimentazione. Si deve inoltre considerare la difficoltà a livello gestuale: gesti transitivi (uso finalizzato degli oggetti) ed intransitivi (gesti simbolici).

La Disprassia si può definire in generale come un disturbo dell’esecuzione di un qualsiasi gesto o azione volontaria, è la difficoltà a programmare, coordinare e controllare gli atti motori necessari a raggiungere uno scopo, da distinguere dal concetto di capacità motorie in senso stretto (Sabbadini, 2013).

I soggetti colpiti da questi disturbi hanno bisogno di pensare alla pianificazione dei movimenti che hanno difficoltà ad automatizzare. Le difficoltà gestuali sono spesso correlate a difficoltà nel separare ed utilizzare adeguatamente le dita delle mani. E’ inoltre presente nella maggioranza dei casi ipotonia degli arti superiori, che risulta particolarmente marcata a questo livello, rispetto all’ipotonia generalizzata degli arti inferiori.

I primi lavori sulla disprassia evolutiva fanno riferimento ad una visione adulto – metrica che conduce a una definizione della stessa in termini di esclusione. Ma è proprio questa modalità di approccio al problema, che è stata utilizzata per l’età evolutiva fino ad un’epoca recente, che ha creato confusione e poca chiarezza rispetto al termine disprassia, che va inteso come incapacità di eseguire atti motori finalizzati e intenzionali e che pertanto va distinto dalla goffaggine e dal disturbo del movimento.

L’esecuzione di un atto intenzionale presuppone l’integrità delle strutture che rendono possibile l’azione. Sabbadini (1994) individua due livelli di controllo: le funzioni di base o strutture processanti (percezione, azione, memoria), che consentono di acquisire le informazioni; e i processi di controllo, che organizzano le funzioni cognitive di base. In un bambino disprattico entrambe le tipologie di strutture sono compromesse; ne deriva un ritardo nell’acquisizione di funzioni e/o la presenza di strategie stereotipate e poco flessibili, che rendono difficile l’apprendimento di compiti nuovi.

 

Disprassia evolutiva ed Embodied cognition

La disprassia evolutiva assume così le caratteristiche di un disturbo multisistemico in cui si rileva la presenza di difficoltà di coordinazione motoria generale e fine, oltre a deficit percettivi, che si traducono in difficoltà nelle autonomie della vita quotidiana e nell’apprendimento, in accordo con il modello della embodied cognition (Thelen, 1995). Secondo l’embodied cognition lo sviluppo cognitivo dipende, infatti, dall’avere un corpo competente dal punto di vista motorio e percettivo, oltre che dalle esperienze che esso può compiere. La conoscenza deriva dalla possibilità di percepire gli stimoli e dall’agire in conseguenza degli stessi.

Nelle ricerche degli ultimi anni basate sulle teorie dell’embodied cognition (Thelen,1995; Iverson e Thelen, 1999; Thelen e Iverson, 2001) si ribadisce sempre più l’ipotesi che le esperienze ricavate dal corpo giocano un ruolo essenziale per lo sviluppo della mente, ovvero per lo sviluppo cognitivo. Secondo questa nuova prospettiva, quindi, rispetto all’emergere di nuovi apprendimenti, viene enfatizzato lo stretto legame percezione-azione-cognizione. La cognizione dipende dal fatto di avere un corpo “capace” in termini di funzioni percettive e motorie e soprattutto dal tipo di esperienze che tale corpo ha avuto possibilità di compiere (Iverson e Thelen, 1999).

In particolare va considerata la recettività sensoriale, i cinque sensi che, sin da subito, mettono l’individuo in relazione con il mondo circostante. La sensazione di poter utilizzare al meglio il proprio corpo, incide inoltre sugli aspetti emotivi e sul personale livello di autostima.

Lo sviluppo va dunque inteso come capacità di tenere insieme vari sistemi percettivi e motori, in grado di attivare quello che il cervello pensa, quello che l’ambiente offre come stimolo e quello che l’interazione tra l’organismo e l’ambiente richiede.

Esso è frutto della capacità di usare i vari sistemi con flessibilità, per l’esecuzione di differenti azioni, che sottendono sempre l’aggregazione di più funzioni e l’attivazione dell’attenzione condivisa.

 

Diagnosi della Disprassia Evolutiva

Nel DSM – IV – TR (APA, 2000) si parla di Disturbo di Sviluppo della Coordinazione. I criteri diagnostici indicati sono:

  • A. Le prestazioni nelle attività quotidiane che richiedono coordinazione motoria sono sostanzialmente inferiori rispetto a quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto e alla valutazione psicometrica della sua intelligenza. Questo può manifestarsi con un notevole ritardo nel raggiungimento delle tappe motorie fondamentali (per es., camminare, gattonare, star seduti), col far cadere gli oggetti, con goffaggine, con scadenti prestazioni sportive, o con calligrafia deficitaria.
  • B. L’anomalia descritta al punto A interferisce in modo significativo con l’apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana.
  • C. L’anomalia non è dovuta ad una condizione medica generale (per es., paralisi cerebrale, emiplegia, o distrofia muscolare) e non soddisfa i criteri per un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo.
  • D. Se è presente Ritardo Mentale, le difficoltà motorie vanno al di là di quelle di solito associate con esso.

Nella definizione del DSM-IV-TR la disprassia viene inserita all’interno del Developmental Coordination Disorder (DCD) termine ormai usato e adottato a livello internazionale, che tradotto alla lettera in italiano diventa disordine o disturbo della coordinazione motoria (DCM) e che genera ancora delle ambiguità (Sabbadini, 2013). Nel termine coordinazione è implicito il concetto di programmazione e pianificazione e quindi può essere incluso il concetto di atto motorio finalizzato; questo concetto va oltre quello di movimento, ma manca in questo termine il concetto di azione, troppo spesso poco considerato.

Nella Classificazione dell’ICD – 10 (OMS, 1992) si parla invece di Disturbo evolutivo specifico della Funzione Motoria (F 82).

È abituale che l’impaccio motorio si associ ad una certa compromissione della prestazione nei compiti cognitivi visuospaziali. Il quadro è caratterizzato da:

  • difficoltà di coordinazione, presenti sin dalle prime fasi di sviluppo, e non dipendenti da deficit neurosensoriali o neuromotori;
  • entità della compromissione variabile e modificabile in funzione dell’età;
  • ritardo (non costante) di acquisizione delle tappe di sviluppo neuromotorio (livelli più complessi), a volte accompagnato da ritardo di sviluppo del linguaggio (componenti articolatorie);
  • goffaggine nei movimenti;
  • ritardo nell’organizzazione del gioco e del disegno (tipo deficit costruttivo);
  • presenza (non costante) di segni neurologici sfumati privi di sicuro significato localizzatorio;
  • presenza (non costante) di difficoltà scolastiche e di problemi socio-emotivo-comportamentali.

 

Disprassia Evolutiva: eziologia del disturbo

Nella pratica clinica, attraverso un’accurata raccolta anamnestica, si riscontrano bambini disprattici, che possono avere genitori che hanno avuto gli stessi problemi (familiarità, fattori genetici).

Nel 50% dei casi si sono avuti problemi durante la gravidanza o il parto, quali anche lievi anossie perinatali, senza quindi segni conclamati di patologia, spesso non considerati né riportati nella cartella clinica (Dunn et al., 1986; Gubbay, 1985). La disprassia evolutiva è spesso presente nei bambini prematuri, ma anche postmaturi (41-42° settimana); in particolare la grossa incidenza riguarda gli immaturi a basso peso. In questi casi è spesso presente ipersensibilità o iposensibilità a stimoli sensoriali.

Indagini diagnostiche (TAC, RMf, PET) hanno in alcuni casi messo in evidenza una ecodensità periventricolare della sostanza bianca; si è inoltre riscontrata presenza di microlesioni e assottigliamento della parte posteriore del corpo calloso. Spesso non emerge nulla di significativo dalle RMf a cui vengono sottoposti bambini con disprassia evolutiva.

Nella clinica troviamo soggetti disprattici puri, senza segni neurologici evidenti o sintomi associati, inquadrabili nella disprassia evolutiva “specifica”. L’ipotesi è che nel bambino disprattico alcune aree del SNC non siano sufficientemente mature da permettergli di pianificare, programmare ed eseguire un’azione finalizzata. Sembrerebbe quindi che ci sia un’interruzione nella rete sinaptica e che il processo venga sfalsato per lentezza di trasmissione (Portwood, 1996).

E’ evidente nella clinica che il bambino disprattico, anche quando ha imparato ad eseguire determinate azioni, necessita di tempi più lunghi e manifesta lentezza esecutiva sia in attività della vita quotidiana che nelle attività scolastiche.

Nei casi di disprassia “pura” il livello cognitivo è nella norma e spesso il carico di frustrazione, rispetto alla consapevolezza del proprio deficit, è tale da portare questi soggetti verso disturbi comportamentali o della condotta. Importante quindi un tempestivo riconoscimento del problema e la presa in carico in terapia più precocemente possibile. Tali difficoltà fanno sì che il bambino sperimenti insuccessi e fallimenti che inevitabilmente hanno un impatto sulla vita scolastica, nel rapporto con i pari e sull’autostima e ciò può generare nel piccolo paziente stati di ansia e/o depressione.

 

Aree cerebrali coinvolte nella Disprassia Evolutiva

Il controllo del sistema motorio è deputato a sette aree cerebrali: le aree F1-2-3-4-5, parieto-dipendenti e le aree F6-7, pre-fronto-dipendenti. Nelle aree premotorie esistono singoli neuroni che controllano classi di azioni, come un microchip che si attiva per eseguire azioni multiple con un elevato livello di precisione e velocità (ad es., afferramento con una mano di un oggetto).

Nell’area F5, analoga all’area 44 di Brodman, ossia alla parte posteriore dell’area di Broca, si registra una scarica sia quando si inizia l’azione di afferramento, sia quando la si vede eseguire. La classe di neuroni F5 codifica l’intenzione dell’azione, e non solo la sua esecuzione. Da questa osservazione è nata la teoria dei Neuroni Specchio: il semplice osservare un’azione attiva lo stesso schema motorio attivato da chi la sta eseguendo; l’osservazione di un’azione si traduce in un programma motorio equivalente nella mente dell’osservatore (Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001).

Le informazioni che partono dal sistema visivo primario sono collegate alle aree premotorie: il sistema dorsale trasmette le informazioni del movimento; il sistema ventrale trasmette un’informazione semantica sul tipo di oggetto. L’analisi visiva è inoltre frazionata: vi è una prima analisi dell’oggetto, per stabilire se è familiare o no, per coglierne il colore e la forma; quindi c’è un’attivazione parietale e motoria in cui vengono codificate le diverse parti dell’oggetto in relazione alle azioni che posso compiere con quell’oggetto. Sono proprio i Neuroni Specchio che agevolano la costruzione di risposte motorie di fronte agli oggetti. E’ dimostrata una diversa attivazione neuronale a seconda dell’intenzione del movimento e lo stesso vale nel momento in cui si osserva l’azione svolta da un altro.

 

Tipologie di disprassia

Nella pratica clinica si riscontrano: la disprassia primaria o pura che non è associata ad altra patologia e che non presenta segni neurologici evidenti e la disprassia secondaria associata invece ad altre patologie e sindromi: PCI, Sindrome di Williams, Sindrome di Down, Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, ADD, ADHD ossia Disturbi dell’Attenzione con o senza Iperattività. La disprassia evolutiva comprende un’eterogenea classe di deficit all’interno dei disturbi dello sviluppo (Sabbadini, 1995; 2005; Sabbadini et al., 1993). Possiamo trovare un disturbo della coordinazione generale associato o no ad un deficit più specifico di una funzione prassica.

Accanto alla forma generalizzata di disprassia evolutiva vi sono disturbi più focali ad essa strettamente correlati, può infatti succedere che nello stesso bambino si riscontrino uno o più tipi di disprassia, di cui una tipologia è preminente rispetto ad altri segnali più sfumati. Possiamo evidenziare varie forme di disprassia evolutiva (Sabbadini, 1995) che possono essere così classificate:

  • Disprassia generalizzata;
  • Disprassia dello sguardo;
  • Disprassia degli arti superiori;
  • Disprassia del disegno;
  • Disgrafia;
  • Disprassia costruttiva;
  • Disprassia verbale (con o senza disprassia orale).

La valutazione in casi di Disprassia Evolutiva

La valutazione viene fatta da un’equipe costituita da vari esperti: neuropsichiatra infantile, logopedisti, terapisti della neuropsicomotricità, terapisti occupazionali, che insieme collaborano per mettere a punto un profilo funzionale del soggetto ai fini sia della diagnosi che di un progetto di terapia mirato. Importante l’apporto del pediatra per un’ipotesi diagnostica ed un tempestivo invio a chi di competenza.

Attraverso colloqui con i genitori e con un’attenta osservazione il pediatra può monitorare l’evoluzione del bambino ed aiutare i genitori ad individuare eventuali segnali di disprassia evolutiva. Può essere utile dare ai genitori e poi rivedere insieme il questionario accluso al protocollo APCM (Sabbadini L. et al., 2005).

Anche dal questionario Mc Arthur si possono ricavare preziose informazioni soprattutto rispetto all’emergere del gesto e dell’espressione verbale.

La raccolta dei dati anamnestici ha un significato orientativo, ma diventa importante considerare la correlazione tra diversi elementi che, se isolati, non assumono significato di patologia, mentre possono costituire segnali di rischio qualora risultino combinati.

Le funzioni principali da indagare per consentire un inquadramento delle competenze implicate possono essere:

  • Competenze vusuospaziali: assetto visuopercettivo, memoria visiva e visuospaziale, integrazione intersensoriale delle afferenze;
  • Assetto visuocostruttivo: disegno spontaneo e su copia, costruzioni bi e tridimensionali;
  • Prassie transitive e intransitive;
  • Livello intellettivo (profilo);
  • Memoria procedurale;
  • Processi elaborativi e inferenze (assetto componenti frontali).

Tra i test costruiti per la valutazione dell’input visuopercettivo e l’integrazione visuomotoria il TVPS e il TPV rispondono a questo tipo di costrutto.

Il TVPS (Gardner, 1982) esplora componenti dell’ambito percettivo, chiedendo risposte su indicazione (non verbale) e con item che richiedono livelli di integrazione differente; a prove più strettamente percettive (riconoscimento visivo, figura/sfondo, closure visivo, costanza della forma) si affiancano due item di memoria (visiva e visuospaziale) e uno centrato sull’analisi delle relazioni visuospaziali.

Il TVP (Hammil, Pearson e Voress, 1993) è invece centrato sia sulle componenti percettive che su quelle visuomotorie: coordinazione occhio/mano, posizione nello spazio, copiatura/riproduzione, figura/sfondo, rapporti spaziali, completamento figura, velocità visuomotoria, costanza della forma, richiedendo quindi in maggior misura un atto motorio. Altri test sono utilizzati per valutare più precisamente l’orientamento spaziale (Benton, Varney e Hamsher 1992).

Tra le prove più utilizzate per valutare le capacità visuocostruttive basate su richieste di copia grafica da modello, a livello diverso di complessità, sono il VMI (Beery, 1997), il Santucci Bender, la figura di Rey.

La Valutazione della qualità grafica avviene attraverso prove di dettato e prove di copia: “illeggibile”, “quasi illeggibile”, “appena leggibile”, “leggibile”.

Gli stumenti attualmente in uso in Italia sono:

  • BHK: scala sintetica per la valutazione della scrittura in età evolutiva (adattamento italiano dell’originale olandese di Hamstra-Bletz, De Bie e Den Brinker, a cura di Di Brina e Rossini, 2011)
  • DGM-P: test per la valutazione delle difficoltà grafo-motorie e posturali della scrittura (Borean, Paciulli, Bravar e Zoia, 2012), consiste nel far copiare una frase prima nel modo migliore e poi nel modo più veloce (accuratezza, rapidità, leggibilità)
  • BVSCO-2: batteria per la valutazione della scrittura e della competenza ortografica-2 (Tressoldi, Cornoldi e Re, 2013), stima le competenze del bambino nei tre aspetti della scrittura: grafismo, competenza ortografica e produzione del testo scritto.

La valutazione delle competenze intellettive generali è da prevedere in ogni valutazione neuropsicologica. L’analisi dei risultati ottenuti permette di individuare punti di forza che risulteranno fondamentali nell’ impostazione del trattamento riabilitativo e nell’individuazione delle strategie di compenso da facilitare.

Le componenti funzionali possono essere ad es. le strategie e i compensi utilizzati, il tipo di errore, la faticabilità e quindi la tenuta attentiva sul compito, la capacità o meno di sfruttare le facilitazioni e così via. La motivazione, la possibilità di mobilizzare risorse sia personali che ambientali, la disponibilità nei confronti delle proposte e, al contrario, la scarsa autostima, la reiterazione del fallimento e la tendenza ad eludere il compito perché frustrante e mai appagante, costituiscono alcune delle molte altre variabili che possono influenzare sia la valutazione che il percorso riabilitativo in ogni occasione.

 

Il trattamento riabilitativo della Disprassia Evolutiva

Alla luce dei dati relativi all’organizzazione cerebrale, laddove si individui un problema specifico è utile iniziare a porre le basi per un intervento almeno di facilitazione. Considerata la fascia di età, è necessaria una particolare attenzione alle modalità:

  • Sinergie con altri interventi già in atto;
  • Controlli periodici con indicazioni ai genitori nel corso di un follow-up mirato;
  • Individuazione della tipologia degli stimoli che devono essere utilizzati (distanze, dimensioni, colore, multi o monomodalità, numerosità, ecc.) nelle differenti proposte al fine di consentire una più razionale pianificazione degli obiettivi. E’ necessario l’uso di materiale vario, gradito al bambino, e di situazioni piacevoli come facilitazione per il processo individuato;
  • Attenzione alla modalità di presentazione degli stimoli individuati.

Tra gli obiettivi principali di un’attività svolta in età prescolare possono essere esemplificati:

  • Facilitazione di inseguimento e fissazione: oggetti “interessanti” che devono essere raggiungibili dal bambino dopo l’attività di inseguimento visivo;
  • Localizzazione nello spazio: attività di ricerca sia nello spazio prossimo che in quello più lontano, il gioco del “dov’è” spesso si può unire a quello del “cosa è”;
  • Facilitazioni per le condotte anticipatorie: consentono l’attivazione di strategie flessibili e adattive;
  • Indicazioni e facilitazioni per assetto posturale, presa e manipolazione.

Nella fascia di età successiva, diventa possibile perseguire obiettivi specifici, con differenziazione in funzione della patologia di base e del profilo neuropsicologico.

Gli obiettivi del trattamento dipenderanno strettamente da quanto individuato nella valutazione. A titolo esemplificativo:

  • Miglioramento e funzionalizzazione dell’esplorazione visiva;
  • Facilitazioni per l’integrazione spaziale degli stimoli;
  • Integrazione intersensoriale delle afferenze: individuazione di strategie di compenso;
  • Facilitazione per l’organizzazione prassica: consolidamento di procedure e guida alla sequenzializzazione delle attività; miglioramento delle capacità di programmazione; attivazione di processi di verifica sull’operato e di strategie di compenso; facilitazione all’utilizzazione del modello; ampliamento dell’autonomia nell’operatività; uso del compenso/guida verbale;
  • Individuazione, impostazione e avvio all’utilizzazione di ausili (informatici e non) che facilitano ma non sostituiscono la fase di programmazione delle attività.

 

Conclusioni

La riabilitazione è per definizione un evento limitato nel tempo del bambino, e la possibilità di ottenere risultati significativi è legata all’effetto eco, ovvero alla possibilità che nei diversi contesti esistenziali vengano adottate in modo sinergico strategie facilitanti. Pertanto fa strettamente parte del progetto riabilitativo la modalità di raccordo e di interfaccia con i vari contesti esistenziali (famiglia, scuola e ogni altro contesto significativo).

L’obiettivo finale di ogni intervento terapeutico può essere individuato nel miglioramento dello stato di benessere del piccolo paziente, consentendo di estrinsecare le proprie potenzialità e rimuovendo, se possibile, i fattori sfavorevoli o, in alternativa, riducendone ai minimi termini l’impatto.

L’acquisizione di autonomie operative consentirà a ciascun bambino di percorrere la sua strada evolutiva, facendo i conti con l’esistenza di limiti e vincoli, ma avendo appreso che l’esistenza di ostacoli su un percorso non impedisce, di per sé, di raggiungere la meta.

L’impatto della disoccupazione sui vissuti personali – Da una ricerca online di Standupificio

Oltre all’impatto sociale della disoccupazione, la letteratura scientifica evidenzia una relazione significativa tra la mancanza di lavoro e il ritiro sociale, il peggioramento dei livelli di irritabilità, ansia e depressione, l’insorgenza di disturbi psicosomatici e, nei casi più delicati, del Disturbo da Stress Post Traumatico .

 

Premessa: disoccupazione e disturbi psichici

Il crollo del mercato del lavoro e la mancanza della crescita economica nel nostro Paese sono temi purtroppo sempre attuali. Oltre all’impatto sociale della disoccupazione, la letteratura scientifica evidenzia una relazione significativa tra la mancanza di lavoro e il ritiro sociale, il peggioramento dei livelli di irritabilità, ansia e depressione, l’insorgenza di disturbi psicosomatici (Creed et al, 1999) e, nei casi più delicati, del Disturbo da Stress Post Traumatico (NIMH, 2009).

La disoccupazione può essere dunque considerata come una problematica che assurge a vera e propria emergenza sanitaria. Non si dimentichi che in Italia, nel 2014, i suicidi per motivi economici sono risultati incrementati del 59,2% e i tentativi di suicidio più che raddoppiati rispetto all’anno precedente (La Stampa, 2014).

È fuori di dubbio, quindi, quanto chi non riesce a trovare un’occupazione o perde il proprio posto di lavoro possa trovarsi ad affrontare conseguenze emotivamente e clinicamente significative.

All’interno di questo scenario si colloca la ricerca oggetto di questo lavoro, ideata dal team di psicoterapeuti che operano all’interno di Standupificio, iniziativa promossa dall’Associazione “Dentro un quadro” rivolta ai cittadini in disagio per problematiche inerenti il lavoro.

 

Ipotesi e obiettivo

La ricerca si propone di valutare gli effetti della perdita del lavoro o, in generale, dell’inattività lavorativa, sul benessere psicologico delle persone.

All’interno degli appuntamenti di Standupificio a Milano, i dati finora raccolti sulle persone che hanno preso parte ai percorsi psicoeducativi sembrerebbero confermare la presenza di umore depresso e di difficoltà nella regolazione delle emozioni.

Con questo lavoro l’intento è stato quello di esplorare all’interno di un campione più numeroso le emozioni, i pensieri e i comportamenti messi in atto a fronte di una condizione di presenza o di assenza di attività professionale.

Inoltre, ci si è posti l’obiettivo di verificare le eventuali differenze a livello emotivo, cognitivo e comportamentale tra i soggetti disoccupati e i soggetti occupati che però manifestano un’insoddisfazione circa le proprie condizioni economiche, dunque l’entità degli introiti e la qualità della propria vita.

L’ipotesi è che, se da un lato la disoccupazione risulta avere conseguenze sul piano non solo economico, ma anche e soprattutto psicologico e identitario (Sarchielli et al, 1991), la presenza di attività quotidiana con una condizione economica, però, non apprezzata, possa anch’essa indurre una condizione di disagio ed esercitare effetti psicologici e identitari rilevanti.

 

Metodologia e campionamento

È stato strutturato un questionario quantitativo contenente 10 domande. Il questionario è stato caricato online all’interno della piattaforma Survey Monkey e diffuso nei canali social e nella mailing list dell’associazione Dentro un quadro dal 25 maggio 2016 al 15 luglio 2016.

Il titolo dato alla ricerca è stato “Cosa significa avere, rischiare di perdere o perdere il lavoro”, decidendo in questo modo di invitare alla compilazione del questionario indistintamente occupati e disoccupati di tutta Italia, con una strategia di campionamento casuale.

La scelta del canale online e la totale assenza di controllo sul campionamento inevitabilmente hanno fatto sì che i dati raccolti debbano essere “presi con le pinze” e sicuramente non possano essere generalizzati, consentendo all’indagine una funzione esclusivamente pilota ed esplorativa, finalizzata a stimolare domande e non a fornire risposte definitive.

 

Principali risultati

Il campione

Al questionario hanno risposto 429 soggetti, di cui 337 donne (78,55%) e 92 uomini (21,45%), la maggioranza d’età compresa tra i 30 e 40 anni (41,59%). Il 26,64% ha un’età compresa tra 41 e 50 anni, mentre i giovani risultano essere il 13,32%. In riferimento all’area geografica di appartenenza, il campione risulta per la maggior parte residente nel Nord Italia (60,7%), quasi il 30% (29,65) al Sud e nelle isole maggiori e il restante 9,65% nelle aree del Centro.

Il 55,82% del campione è coniugato e/o convivente, l’8,32% è separato e il 35,86% é single. Il 44,42% del campione ha figli.

Il grado di scolarità è molto alto: il 65% del campione dichiara di essere laureato e il 30 % di aver conseguito una specializzazione.

In merito alla situazione lavorativa, “solo” il 20,25% dichiara di versare in una condizione di disoccupazione, ma la percentuale degli occupati con entrate economiche insoddisfacenti è di ben 36,2%.

Nel complesso, indipendentemente dalla presenza di un lavoro, dunque considerando sia gli occupati sia i disoccupati, è stato rilevato un grado di insoddisfazione economica nel 56,8% del campione. Di questi, la maggioranza è rappresentata dai libero professionisti (18,77%), seguiti dai disoccupati (16,79%), da coloro che possiedono un contratto a tempo indeterminato (13,83%), un contratto di solidarietà, o che risultano essere cassaintegrati o pensionati (1%).

Il 17,94% del campione, infine, dichiara di beneficiare di supporto economico e fra questi il 25% si percepisce a rischio di disoccupazione.

 

Le emozioni

A livello emotivo, le differenze fra disoccupati e occupati emergono in modo nitido.

I soggetti in condizione di disoccupazione dichiarano di aver esperito nelle ultime due settimane prevalentemente tristezza (49,33%), rabbia (45,33%) e paura (36%). Senso di colpa (28%), noia (24%) e vergogna (22,67%) si presentano con un’occorrenza inferiore. Solo il 28% del sottocampione dichiara di aver provato anche gioia.

Gli occupati dichiarano invece di sentirsi nel complesso più gioiosi (52,38%) e meno tristi (33,33%) e arrabbiati (36,73%). Curiosità (31,97%) e orgoglio (20,41%) inoltre arricchiscono la rosa delle emozioni sperimentate nelle ultime due settimane.

Gli occupati economicamente insoddisfatti del proprio reddito, d’altro canto, risultano mediamente più felici dei disoccupati e sembrano – in proporzione – provare meno vergogna e senso di colpa (11,11%).

 

I pensieri

Il pensiero che taglia trasversalmente la quasi totalità del campione (39,47% dei disoccupati e 52,05% degli occupati, per un totale di 91,52%) è “posso contare sulle mie capacità”, seguito da “la situazione migliorerà” (disoccupati: 39,47%; occupati: 45,21%, per un totale di 84,68%) e, con un’occorrenza inferiore ma comunque significativa, da “al mondo ci possono essere opportunità per me” (disoccupati: 22,37%; occupati: 28,77% per un totale di 51,14%).

Nel sottocampione dei disoccupati, però, ben il 25% pensa che non cambierà mai nulla, il 19,74% pensa di essere un perdente e al contempo di essere un fallito, e l’11,24% riferisce pensieri afferenti alla sfera della non amabilità (“nessuno mi ama” per il 6,58% e “non sono una persona degna di essere amata” per il 5,26%).

Infine, per il 13,16% dei disoccupatigli altri possono rappresentare una minaccia”, anche se la stessa identica numerosità nel sottocampione riferisce l’esatto opposto, ovvero di pensare di poter contare sugli altri.

Nel sottocampione degli occupati i pensieri di affidabilità degli altri sono presenti in percentuale più elevata (34,25%) e i pensieri depressivi di non amabilità (“nessuno mi ama”: 4,79%; “non sono una persona degna di essere amata”: 4,11%) e negativi verso se stessi sono presenti in percentuali basse e non significative ( “sono un fallito”: 4,11%; “sono un perdente”: 3,42%).

Le persone soddisfatte della propria condizione economica ritengono inoltre di poter fare affidamento sugli altri più di quanto non facciano quelli che non sono soddisfatti delle proprie entrate economiche.

Dentro questo quadro, il “pensare positivo” sembrerebbe comunque nel complesso discriminare poco i sottocampioni. Il campione nella sua totalità sembra infatti essere propenso ad esprimere ottimismo per il futuro e per le proprie capacità anche quando si dichiara insoddisfatto della propria condizione economica, con differenze poco significative tra chi ha un lavoro (45,57%) o chi versa in uno stato di disoccupazione (39,47%). Al contempo, però, è doveroso rilevare che le percentuali dei pensieri che vanno ad intaccare il senso di identità in termini di valore personale e di competenza – “sono perdente” (19,74%) o “sono un fallito” (19,74%) e di amabilità personale (“nessuno mi ama” (6,58%) o “non sono una persona degna di essere amata” (5,26%) – aumentano a partire da uno stato di disoccupazione superiore ai 6 mesi.

 

I comportamenti

Nel sottocampione dei disoccupati la tendenza all’isolamento e al confinarsi all’interno della propria famiglia (“sono stato soprattutto a casa” 44%; “mi sono dedicato alla mia famiglia” 44%) sembra essere prevalente rispetto a comportamenti di apertura sociale (“ho continuato a coltivare i miei interessi” 41,33%; “ho visto i miei amici” 37,33%; “ho praticato sport” 22,67%; “ho frequentato circoli ricreativi/sportivi con cui condivido un interesse” 13,33%). Attività di impegno sociale, come ad esempio fare attività di volontariato (14,67%) o dedicarsi alla politica (2,67%) risultano infatti meno significative.

Nel dettaglio, se a coloro che hanno indicato come prevalente il comportamento di “stare soprattutto a casa” (44%) si aggiungono coloro che hanno risposto con “sono rimasto prevalentemente da solo” (18,67%), la percentuale diventa ben significativa (62,67%).

Nel sottocampione degli occupati, invece, la tendenza prevalente sembrerebbe quella di mettere in atto comportamenti rivolti al proprio ambito familiare (58,16%) o alla cura degli spazi individuali (“vedere i propri amici” per il 51,77%; “coltivare i propri interessi” per il 43,26%; “praticare sport” per il 26,95%) rispetto ad attività di impegno sociale, come ad esempio fare attività di volontariato (9,22%) o dedicarsi alla politica (3,55%), che vengono rilevati con un’occorrenza significativamente più bassa rispetto al sottocampione dei disoccupati. Anche i comportamenti di isolamento sono indicati in percentuali più basse rispetto ai disoccupati (“sono stato soprattutto a casa” 22,70%; “sono rimasto prevalentemente da solo” 7,80%).

Indagando poi i comportamenti messi in atto dagli occupati che dichiarano un’insoddisfazione rispetto alla propria condizione economica, questi riferiscono in misura maggiore – rispetto al restante sottocampione degli occupati – di trascorrere più tempo a casa (33,77%).

La tendenza all’isolamento, intesa come l’accorpamento di comportamenti quali “sono stato soprattutto a casa” e “sono rimasto prevalentemente da solo”, infine, sembrerebbe aumentare con il protrarsi del tempo di inattività: sembrerebbe infatti più significativa per disoccupati da più di quattro anni (77,27%), da 2 a 4 anni (73,68%) e da 1 a 2 anni (70%), rispetto a disoccupati da 6 a 12 mesi (27,27%).

 

Riflessioni conclusive

I dati raccolti sembrano confermare il disagio vissuto dai soggetti che non hanno attualmente un lavoro: le emozioni maggiormente riferite sono tristezza, rabbia e paura.

Sembrerebbe evidenziarsi anche una rappresentazione di sé negativa in termini di valore personale e di amabilità, che sarebbe interessante approfondire soprattutto pensando all’occorrenza significativa di comportamenti ascrivibili alla sfera del ritiro sociale.

Le persone occupate ma insoddisfatte della propria condizione economica sembrerebbero collocarsi “in mezzo” fra disoccupati e occupati soddisfatti: emozioni e pensieri più “felici” di quelli dei disoccupati, comportamenti maggiormente tendenti all’isolamento rispetto a quelli degli occupati soddisfatti.

Come già sottolineato, il campionamento casuale e la modalità di somministrazione online non consentono alcuna generalizzazione dei risultati né pretesa di conferma di evidenze. Concedono però alcune riflessioni, utili per sollecitare ulteriori indagini.

Di un evento come la perdita o l’assenza di lavoro, è infatti probabile conseguenza che persone con moderata capacità di gestione emotiva tendano ad attribuire l’origine delle proprie convinzioni alla grave situazione che le coinvolge; questa convinzione può ostacolare il contatto con la cognizione e diminuire il senso di agency della persona disoccupata limitandone il ricorso a un ragionamento pragmatico (Dimaggio et al. 2013). Potrebbe essere interessante esplorare l’ipotesi che una condivisione con il disoccupato dei principi cognitivo comportamentali di causalità tra cognizione ed emozione possa essere un fattore protettivo per la gestione degli eventi altamente stressanti in ambito professionale.

Nelle persone disoccupate che hanno risposto all’indagine emerge inoltre una distinzione rispetto agli occupati non solo per quanto riguarda la tipologia di comportamenti, ma anche la loro varietà: le persone disoccupate sembrerebbero avere comportamenti più vari e diversificati tra loro di quanti non ne abbiano i lavoratori. Attività di impegno sociale quali il dedicarsi al volontariato o alla politica, ad esempio. Seppur infatti questa informazione possa risultare semplicistica pensando a come gli occupati trascorrano il proprio tempo principalmente a lavoro, nulla vieta che spendano il tempo libero in modi diversificati quanto i disoccupati, fatto che però sembra non verificarsi.

Come diceva Tolstoj riferendosi alle famiglie, mutatis mutandis potremmo dire: “tutte le persone occupate si somigliano, ogni disoccupato è invece disoccupato a modo suo”.

Sarebbe interessante capire in che modo questa “varietà” rappresenti una risorsa protettiva e/o trasformativa, se più per la relazionalità o più per il “fare” che consente o per entrambi.

Post-Truth: la bufala pseudoscientifica del Blue Monday, il giorno più triste dell’anno

La bufala del Blue Monday (il giorno più triste dell’anno) e la lunga vita di una finta ricerca scientifica costruita ad hoc come strumento pubblicitario. Le ragioni per cui, nell’epoca della post-truth, le credenze sul Blue Monday e su altre bufale pseudoscientifiche sono ancora vive e in ottima salute a distanza di anni dalle loro smentite.

 

Imperversano sui social le discussioni sul Blue Monday, quella che pare essersi consolidata come credenza britannica relativa al giorno più triste dell’anno: il terzo lunedì di gennaio. La scelta della data non sembrerebbe casuale ma frutto di una ricerca scientifica condotta dallo psicologo britannico Cliff Arnall, dell’Università di Cardiff, che avrebbe compiuto complessi e diversificati calcoli matematici tenendo in considerazione molteplici variabili, tra le quali: i propositi falliti per il nuovo anno, le spese sostenute per il Natale, il meteo, ecc. Peccato che si tratti di una bufala, nata come campagna pubblicitaria promossa da un’agenzia di viaggi che ha intrapreso un’interessante strategia di marketing: non solo si propone l’acquisto di un prodotto ma la risoluzione di uno stato emotivo generalmente percepito come disturbante.

Lo psicologo Cliff Arnall avrebbe soltanto firmato questo finto studio, con tanto di conclusioni già scritte, prestando il suo nome ed il volto della sua professione alla ricerca. Perché per incentivare un’attività commerciale si decide di ricorrere ad uno studio scientifico costruito ad hoc? Il linguaggio scientifico è percepito come il linguaggio del reale, nell’immaginario comune l’Autorità Garante della legittimità di un sapere. E ciò è certamente un bene, considerando le difficoltà storiche che la psicologia ha fronteggiato prima di affermarsi come disciplina autonoma dotata di un metodo empirico differente dalla speculazione teoretica.

Eppure si dovrebbe sicuramente prestare maggiore attenzione a non lasciarsi abbindolare dalla parvenza scientifica di un oggetto di studio in ogni modo privo di scientificità, basti pensare alla pressoché impossibilità di operazionalizzare le variabili e di generalizzare i risultati ottenibili dallo studio di Arnall. L’attributo “scientifico” non va inteso come un Re Mida che, una volta affisso, trasforma ogni oggetto in sapere dimostrabile e veritiero.

Potrebbero esservi diverse ragioni per pensare che il Blue Monday, qualunque sia la sua origine, continuerà a godere di ottima salute negli anni a venire, offrendo un duplice vantaggio a commercianti e comuni cittadini. I primi potrebbero sperare di trarne un profitto analogo a quello proveniente dal Black Friday, incentivando l’acquisto come terapia ad una condizione emotiva percepita come dannosa. Per tutti, invece, diventa questa l’occasione per rivalutare un’emozione troppe volte bistrattata e ritenuta “negativa”, da cancellare o nascondere, e riflettere dunque su quanto la tristezza rivesta un ruolo significativo nella vita di tutti i giorni, seguendo la strada già percorsa dalla Pixar con il film d’animazione Inside Out che ha invitato a riconoscere ed attribuire un significato differente a questa emozione primaria.

 

Post-Truth: oltre lo smascheramento della bufala del Blue Monday

Ma oltre al senso del Blue Monday può essere utile riflettere su come sia possibile che una ricerca falsata, smascherata, continui a rappresentare un riferimento comune in Gran Bretagna. Non è forse rassicurante sapere che almeno per un giorno all’anno il malessere che possiamo vivere sia scientificamente lecito? È confortante per una volta dover star male per sentirsi a posto, un’occasione in cui la tristezza vissuta e non confessata può addolcirsi cullata da un’etichetta pronta all’uso, vera o falsa che sia.

Il gran beneficio del Blue Monday risiede proprio nella possibilità di concedersi una deflessione del tono dell’umore in un modo (apparentemente) scientificamente legittimo, dunque normalizzato, e condiviso dalla collettività. Non è un caso forse che sia proprio la Gran Bretagna a restare fedele al mito del Blue Monday, la stessa Gran Bretagna che conta un numero significativamente alto di suicidi, in media 13 al giorno secondo le stime riportate di recente dal Corriere della Sera.

Tristezza non vuol dire depressione, un’emozione non è patologia, ma prendendo a prestito il concetto di rappresentazione sociale (Moscovici) potremmo suggerire che il tema depressivo venga tradotto nella quotidianità fin troppo spesso come esacerbazione di un vissuto di tristezza, una semplificazione estrema che traduce la psicopatologia nel linguaggio della psicologia del senso comune, spicciolo ma comprensibile. Una ricerca inventata, e con uno scopo pubblicitario, potrebbe essersi radicata nel sentire comune per rappresentare l’opportunità di manifestare una preoccupazione che interroga ed avvicina un mondo altro, una realtà clinica a volte astrusa che spinge per esprimersi e farsi ascoltare.

 

La popolarità di studi pseudoscientifici o clamorosamente falsi

Spesso il successo e la popolarità di uno studio risultano assolutamente indipendenti dalla sua veridicità o dalla correttezza metodologica, ma a pesare in modo significativo sono le attese del lettore, che possono trovare conferma in uno scritto scientificamente inammissibile. La letteratura è tristemente ricca di “falsi d’autore”, di pseduo-studi talvolta premeditati e con un chiaro fine politico che rimangono in vita nonostante le smentite.

 

Il caso di Mark Regnerus e dello studio sui figli di coppie omosessuali, finanziato da organizzazioni cattoliche

Alcuni di questi sono stati anche pubblicati su riviste scientifiche, come nel caso dello studio di Mark Regnerus, sociologo dell’Università del Texas di Austin, promosso come autore della più grande ricerca sullo sviluppo dei figli di genitori omosessuali che ha sorpreso l’intera comunità scientifica riportando dati in netto contrasto con tutti gli studi precedentemente condotti sul tema. Le conclusioni di Regnerus appaiono drammatiche: i figli di genitori omosessuali apparirebbero più inclini al suicidio ed al tradimento, propensi a sviluppare disturbi mentali ed a riscontrare difficoltà lavorative. Lo studio, oltre ad essere stato finanziato da organizzazioni cattoliche con una netta posizione in merito all’argomento, ha riportato risultati clamorosi grazie ad un’accurata selezione di un campione non rappresentativo della comunità LGBT in grado di falsarne i risultati; lo stesso Regnerus ha riferito, in seguito alle numerose critiche sollevate da accademici successivamente alla pubblicazione dello studio: “Ho parlato di madri lesbiche e padri gay quando in effetti non sapevo niente sul loro orientamento sessuale”(per approfondire: http://27esimaora.corriere.it/articolo/genitori-gay-se-la-scienza-sceglie-di-alimentare-il-pregiudizio/).

Gli errori metodologici commessi hanno invalidato ogni possibile attendibilità dello studio, eppure lo studio di Regnerus continua ad essere menzionato da chi si oppone all’omogenitorialità ogniqualvolta si accende il dibattito. Vi è un’attitudine a considerare la ricerca qualitativa, in ambito clinico e sociale, più facilmente esposta al rischio di ingerenze da parte dello sperimentatore rispetto alla ricerca neuroscientifica, apparentemente protetta dall’inespugnabile difesa del neuroimaging che illusoriamente elimina il ricercatore dalla scena sperimentale.

 

Le neuroscienze come fonte di legittimazione inconfutabile

Le neuroimmagini hanno conseguito lo scettro del sapere attendibile, certo e oggettivo, costituendosi come la più autorevole fonte del sapere da cui si vorrebbe veder validata ogni tesi. Non vi deve essere il rischio di restare travolti dalle potenzialità di queste tecniche dimenticando che si tratta di strumenti sensibili che restituiscono un dato su cui lo sperimentatore interviene direttamente, con il setup sperimentale, il controllo delle variabili di disturbo, l’acquisizione dei dati e soprattutto, in ultima istanza, con l’analisi dei dati, dove spesso l’applicazione inesatta di metodi di inferenza statistica conduce a risultati troppe volte non replicabili (Legrenzi, Umiltà 2009). L’atteggiamento pregiudiziale del lettore influenza notevolmente la lettura del dato riferito, a tal punto che alcuni studi godono del vantaggio di essere ritenuti attendibili a priori in virtù degli strumenti adoperati (TAC, MEG, PET, fMRI). Uno studio (McCabe e Castel, 2008) ha rilevato come la sola presenza di immagini cerebrali sia sufficiente a trasformare un contenuto fittizio in un’informazione credibile.

(a questo proposito si veda: Neurolatinorum e neurodotti: chi utilizza il linguaggio delle neuroscienze per ottenere autorità scientifica, NdR)

Gli autori hanno indagato il giudizio espresso da studenti universitari nel valutare la credibilità logica di articoli di neuroscienze cognitive totalmente inventati che potevano presentare soltanto testo privo di illustrazioni, testo con istogrammi a barre oppure testo corredato da immagini cerebrali a colori. I risultati mostrano una significativa tendenza a considerare più attendibile e veritiero un testo corredato da immagini rappresentanti aree cerebrali piuttosto che un articolo che ne sia privo, a parità di contenuto. La rappresentazione di un cervello diventa dunque la firma di una garanzia di autenticità dell’informazione, accrescendo la qualità del prodotto.

 

Credere al blue monday nonostante tutto: la necessità di confermare una propria teoria sul mondo

Bisogna approcciarsi alla lettura con senso critico, smascherando le attese e l’atteggiamento pregiudiziale che potrebbe influenzare il diverso peso attribuito agli elementi del testo e la conseguente interpretazione. Esaminare le fonti, comparare un articolo con studi analoghi presenti in letteratura, sono passaggi necessari tanto per chi scrive e divulga quanto per colui che si informa. Il seguito delle pseudoscienze, dell’astrologia o dei tarocchi potrebbe essere motivato dalla stessa ragione del successo del Blue Monday, ricco di anomalie metodologiche che annullano ogni pretesa di scientificità; intercettano e soddisfano un bisogno più forte della ricerca di una verità empirica: la necessità di confermare una propria teoria sul mondo.

Effetti di alcuni antibiotici sulle lesioni cerebrali: evidenze sperimentali su animali

Gli effetti di antibiotici sulle lesioni cerebrali: dato che non esistono farmaci per il trattamento queste lesioni, i ricercatori hanno dimostrato che alcuni antibiotici– che inibiscono la risposta infiammatoria del cervello- sono in grado di dare benefici agli animali che hanno subito un trauma alla testa. Tuttavia secondo un nuovo studio della Drexel University College of Medicine, questo trattamento sembra influenzare negativamente quella parte di cervello che ancora non si è sviluppata.

 

I risultati controversi sugli effetti degli antibiotici sulle lesioni cerebrali: gli studi sugli animali

Una delle principali cause di morte e invalidità nei neonati degli Stati Uniti, sono le lesioni cerebrali traumatiche (TBI) che secondo il Center for Desease Control and Prevention, colpiscono più di mezzo milione di bambini ogni anno.

Dato che non esistono farmaci per il trattamento di queste lesioni, gli scienziati hanno dimostrato che alcuni antibiotici– che inibiscono la risposta infiammatoria del cervello- sono in grado di dare benefici agli animali che hanno subito un colpo alla testa.

Secondo un nuovo studio della Drexel University College of Medicine, questo trattamento sembra influenzare negativamente quella parte di cervello che ancora non si è sviluppata. Si è notato, infatti, che quando ai ratti neonati sono stati somministrati degli antibiotici dopo la lesione, questi hanno esacerbato i deficit cognitivi. Il Professor Ramesh Raghupathi – coordinatore dello studio- ha dichiarato che il cervello in via di sviluppo non è paragonabile ad uno completamente maturo. Questo studio infatti suggerisce che gli interventi di somministrazione degli antibiotici potrebbero non essere una strategia praticabile per il trattamento delle lesioni cerebrali nei neonati.

La minociclina è un farmaco che riduce l’attivazione delle microglia (le cellule immunitarie primarie del cervello e del midollo spinale che lo proteggono dagli agenti patogeni estranei). L’inibizione microgliale sembra essere una strategia efficace per prevenire i danni cerebrali a lungo termine, dal momento che alcuni studi hanno dimostrato la presenza di un’associazione tra la degenerazione neuronale e una maggiore attività delle cellule gliali.

Nel cervello di un animale in età “pediatrica”, gli scienziati han potuto notare una risposta microgliale che somigliava a quella che si vede in un cervello adulto con morte cellulare. Si potrebbe quindi ipotizzare che se si blocca l’attività microgliale si dovrebbe vedere un miglioramento della funzione cerebrale.

Quando Raghupathi e il suo gruppo di ricerca han trattato i ratti appena nati con minociclina con una somministrazione giornaliera per tre giorni, han visto che la loro attività cerebrale non migliorava. Quando successivamente i ricercatori hanno aumentato il dosaggio a nove giorni invece che tre, i modelli animali hanno mostrato significativi problemi di memoria e di altri deficit comportamentali.

 

Considerazioni e possibili ricerche future

Il Dr. Raghupathi crede che il motivo per il quale l’antibiotico abbia avuto effetti negativi sui ratti neonati sia perché le microglia svolgono un ruolo fondamentale durante lo sviluppo cerebrale. Gli antibiotici, prendendo di mira le microglia, sembra che impediscano il normale processo di maturazione del cervello.

Il Dr. Raghupathi paragona le microglia ad un rastrello da giardino che cancella i detriti fuori dal prato per assicurarsi che l’erba cresca correttamente, che elimina le cellule morte per migliorare lo sviluppo cerebrale.

Nei prossimi studi gli scienziati hanno intenzione di aspettare due o tre settimane a seguito della lesione, dando al cervello dell’animale più tempo per svilupparsi prima di somministrare il trattamento con questa tipologia di antibiotici.

L’amnesia infantile in ambito forense: implicazioni per la testimonianza del minore

Nei primi studi sistematici sull’ amnesia infantile condotti invece su bambini e adolescenti (Peterson et al., 2005; Bauer et al., 2007; Peterson et al., 2009) è emerso come l’età del primo ricordo aumenti con l’aumentare dell’età dei partecipanti: il limite dell’ amnesia infantile cambia in base all’età, è quindi un confine dinamico. Le conclusioni comuni sono sostanzialmente due: l’ amnesia infantile è un fenomeno riscontrabile anche nei bambini e non solamente negli adulti, e i suoi confini sembrano aumentare man mano che i bambini crescono (Peterson et al., 2011).

Sofia Facchinelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

La memoria: come funziona

La capacità dell’adulto e del bambino di recuperare accuratamente il ricordo di eventi occorsi nel passato e di fornire una testimonianza che possa essere considerata accurata e credibile, ha generato un acceso dibattito che impegna ricercatori e giuristi da oltre 100 anni.

Quando la memoria, in termini di recupero e descrizione di eventi, diventa elemento di prova, come all’interno di molti procedimenti legali, è necessario tenere in considerazione svariati elementi.

La memoria è un processo dinamico organizzato in diverse fasi, ciascuna modulata e guidata da fattori cognitivi, emotivi, affettivi, culturali ed ambientali, che possono entrare in gioco e alterare la traccia mnestica, portando alla creazione di un ricordo differente da quello originario.

Le nostre esperienze e conoscenze pregresse orientano la nostra attenzione e filtrano l’evento, selezionandone i vari aspetti, distinguendoli tra quelli che verranno ricordati e quelli che verranno dimenticati. L’acquisizione di una nuova informazione non è pertanto la registrazione esatta di ciò che vediamo o esperiamo, ma si tratta piuttosto di un complesso processo di riorganizzazione, integrazione e modificazione che concorre alla strutturazione dei propri ricordi e della propria conoscenza.

L’informazione integrata nel sistema di memoria tuttavia non rimane inalterata nel tempo, ma subisce delle modificazioni ad opera di diversi fattori, quali, ad esempio, il tempo trascorso tra l’evento e il momento del recupero, quante volte si è stati testimoni dell’evento stesso e quante volte lo si è poi rievocato, le conoscenze apprese successivamente, le proprie aspettative. Nei bambini, inoltre, lo sviluppo cognitivo e la maturazione delle strutture neurali possono generare ulteriori interferenze sulla traccia mnestica. Infine, specie in ambito forense, la suggestione esercitata dal contesto esterno, costituisce un elemento di fondamentale importanza nella modifica del ricordo. La memoria è quindi, per definizione, fallibile e inaffidabile.

C’è ormai comune accordo nel ritenere che [blockquote style=”1″]una riproduzione fotografica di un evento non è possibile, tanto nell’adulto quanto nel bambino. Ogni testimonianza, anche quando origina dalla percezione diretta dei fatti, è sempre il risultato di un processo, prevalentemente inconsapevole, di elaborazione soggettiva di un’esperienza.[/blockquote]

 

La testimonianza del minore

Tra i diversi mezzi di prova contemplati dal sistema giuridico italiano un ruolo centrale è ricoperto dalla testimonianza, sia in sede penale che in sede civile.

Nel nostro sistema processuale il Giudice ha un ampio potere discrezionale nel valutare quanto dichiarato dal teste e questo compito, pur complesso in ogni caso, lo è particolarmente in relazione ad alcune fattispecie.

È questo il caso in cui un minore assume la duplice veste di vittima e testimone. Tale situazione, che si può presentare nel caso di reato a sfondo sessuale, ha prodotto un incessante dibattito riguardo la “fondatezza” della dichiarazione resa, in quanto la stessa costituisce spesso l’unica prova su cui l’accusa è costruita.

Nel caso in cui il testimone sia un minore vittima di reato, il modus operandi per l’accertamento previsto dal codice è indicato dalla “Carta di Noto”. Tale documento, oltre ad indicare la metodologia da utilizzare nel raccogliere le testimonianze, specifica all’art. 6 che “l’accertamento sulla idoneità a testimoniare deve precedere l’audizione del minore”. Pertanto, prima di procedere all’escussione del teste, al Giudice è suggerito di richiedere una valutazione al fine di accertare se il minore sia nelle condizioni di rendersi conto dei comportamenti tenuti in danno della sua persona, se sia in grado di riferirli e se sia quindi effettivamente in possesso di tutte le capacità necessarie a partecipare coscientemente al proprio esame. In linea con quanto indicato in questo importante documento, nel 2001, la Giurisprudenza di Legittimità (Cass., Sez. III, 23/02/2011, n. 26692, C.E.D. Cass.n.250629)2, ha voluto dare un valore normativo a quanto stabilito nella Carta, i cui principi sarebbero altrimenti non cogenti. Si è posto l’accento sulla naturale attitudine del minore, specie se in tenera età, a contaminare la realtà con la fantasia, contaminazione che può comportare delle modificazioni nella narrazione dei fatti.

La Suprema Corte di Cassazione, negli ultimi decenni, ha effettuato diversi tentativi di sistematizzazione delle analisi psicologiche in tema di testimonianza minorile. Una delle pronunce più importanti è sicuramente la sentenza n. 8962 del 3/10/1997, la c.d. “sentenza Ruggeri”, secondo cui [blockquote style=”1″]la valutazione del contenuto della dichiarazione del minore – parte offesa – in materia di reati sessuali […], deve contenere un esame dell’attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo utile ed esatto, della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne. Proficuo è l’uso dell’indagine psicologica, che concerne due aspetti fondamentali: l’attitudine del bambino a testimoniare, sotto il profilo intellettivo ed affettivo, e la sua credibilità.[/blockquote] (Cass. Pen., Sez. III., 03/07/1997, n. 8962).

La sentenza Ruggeri oltre a definire in modo preciso e raffinato i parametri che è necessario considerare al fine di valutare l’idoneità psicofisica del minore a testimoniare, fornisce un importante contributo definendo i due concetti di “idoneità” e “credibilità” e differenziando quest’ultima dall’ “attendibilità della prova”. L’esperto chiamato ad effettuare l’indagine psicologica potrà infatti esprimersi solamente sul funzionamento psicologico del soggetto, declinato in svariati aspetti, e sulla possibilità che siano intervenuti dei fattori che abbiano comportato un rischio in relazione alla genuinità di quanto raccontato. Dovrà invece astenersi dal pronunciarsi in merito alla probabilità che il racconto fornito dal soggetto corrisponda effettivamente ad un’esperienza vissuta.

Traducendo i parametri giurisprudenziali in termini cognitivi, la “capacità di recepire le informazioni” comporta l’analisi delle funzioni percettive e attentive di base; la “capacità di raccordarle con altre” è indagata attraverso la valutazione della capacità di ragionamento e pensiero; la “capacità di ricordarle” con l’indagine delle funzioni mnestiche e la “capacità di esprimerle in una visione complessa” è analizzata attraverso la valutazione dell’abilità linguistica. Al fine di valutare tale idoneità è necessario esplorare il contesto familiare e sociale in cui è nato il racconto, come è avvenuta la prima rivelazione, se è avvenuta in modo spontaneo o se è stata sollecitata e se ci sono state modifiche nelle successive ripetizioni, nonché il numero delle ripetizioni. È inoltre di fondamentale importanza indagare le eventuali domande poste al minore da parte di adulti di riferimento per identificare possibili suggestioni che possono essere involontarie, o anche volontarie.

È necessario infine considerare la distanza temporale tra il presunto evento e il momento della deposizione: maggiore è il tempo trascorso tra l’evento ed il momento in cui viene raccolta la testimonianza, più il ricordo sarà affievolito e maggiore sarà la possibilità che si siano insinuate influenze suggestive. In relazione a questo ultimo aspetto, le Linee Guida Nazionali e la Giurisprudenza di Legittimità si allineano, suggerendo di procedere all’ascolto del minore nel più breve tempo possibile. Nel 2010 infatti la Suprema Corte rammenta che, nel caso di reati sessuali su minori, sarebbe opportuno condurre l’indagine psicologica sull’idoneità a testimoniare “in epoca il più possibile vicina ai fatti”, al fine di “evitare il pericolo di rimozione dei ricordi tipico della fase infantile”, di cristallizzare la prova e ridurre al minimo “manovre suggestive, anche inconsapevoli, degli intervistatori” che rischiano di compromettere il narrato (Cass. Pen., Sez. III, 13/04/2010, n. 22007).

In tema di distanza temporale tra presunto evento e testimonianza, la terza sezione della Cassazione Penale, in una recente sentenza, ricorda che l’incombente, ossia l’audizione del minore, dovrebbe essere svolto il più vicino possibile ai fatti o alla loro emersione “per scongiurare il pericolo della nota amnesia infantile per la quale il bambino non è in grado di conservare i ricordi” e per eliminare, per quanto possibile, eventuali contaminazioni mnestiche (Cass. Pen., sez. III, 22/01/2013 n. 3258).

Da questa sentenza emerge come lo stato psichico del minore, soprattutto se in tenera età, sia considerato stabile solo per un tempo limitato e, basandosi su studi neuroscientifici, la Corte ha inoltre concluso che l’impianto psichico del minore in età evolutiva è naturalmente instabile, e che le strutture di personalità sono mobili, si evolvono e si modificano in relazione alla fisiologica progressione delle fasi evolutive. Da tale osservazione deriva che una perizia a distanza di tempo dai presunti fatti potrebbe non essere più utilmente praticabile proprio a causa della mutata condizione della mente infantile (Cass. Pen., n. 3258, citata). Dal riconoscimento della precarietà delle strutture psichiche dei minori in età evolutiva, ne potrebbe conseguire la necessità di una ripetizione dell’accertamento dell’idoneità a rendere testimonianza ogni volta che, per esigenze processuali, debba essere condotta una nuova audizione.

 

Memoria e amnesia infantile

La memoria, in senso generale, inizia a svilupparsi molto precocemente: i neonati sono infatti in grado di distinguere tra un suono nuovo e uno familiare, come la voce materna (De Casper & Spence, 1986). Nel corso del primo anno di vita la memoria comincia a strutturarsi.

Nonostante la ricerca sullo sviluppo della memoria autobiografica indichi che i bambini in età prescolare siano piuttosto abili nel raccontare il passato (Meltzoff, 1995; Bauer, 1996; Picard et al., 2009), i loro ricordi sono meno dettagliati e meno organizzati di quelli degli adulti. Le narrazioni dei bambini piccoli riguardano principalmente eventi definiti e condivisi, e prima dei 4 o 5 anni i bambini hanno difficoltà nel rispondere a domande circa il contesto e la sequenza causale dell’evento (Uehera, 2000; Van Abbema & Bauer, 2005). Inoltre anche nella fascia di età tra i 7 e i 10 anni, i bambini non sono in grado di ricordare correttamente le persone presenti o di ricostruire il contesto spazio- temporale (Bauer et al., 2007). È solo dai 9-10 anni che i bambini sviluppano ricordi autobiografici simili, nella loro natura, a quelli degli adulti. La capacità di ricordare eventi specifici con una precisa collocazione nello spazio e nel tempo, è una delle ultime caratteristiche della memoria autobiografica a diventare pienamente disponibile.
È proprio in quanto la memoria autobiografica riguarda il ricordo di eventi vissuti che diventa rilevante nell’ambito della testimonianza.

Lo studio dell’origine e dello sviluppo della memoria autobiografica è intimamente correlato alla considerazione del fenomeno dell’ amnesia infantile.
Una plausibile risposta alla domanda “quando compare la memoria autobiografica?”, potrebbe essere “quando scompare l’ amnesia infantile”.

L’ amnesia infantile è un fenomeno universale che è responsabile dell’assenza o scarsità di ricordi autobiografici riferiti ai primi anni di vita.
Da numerose ricerche condotte su soggetti adulti, cui veniva chiesto di rievocare eventi della loro infanzia, è emerso che, in media, nonostante siano presenti differenze individuali, gli adulti non sono in grado di ricordare la loro vita prima dei 3,6 anni (Pillemer & White, 1989). Inoltre, i ricordi precedenti ai 7 anni sono scarsissimi, diminuiscono ulteriormente quelli precedenti ai 5 e sono del tutto assenti quelli relativi al periodo preverbale (24 mesi o meno) (Morrison & Conway, 2010; Bauer 2007a; Pillemer & White, 1989).

Molte delle evidenze sperimentali derivano da studi retrospettivi, da cui è emerso come l’ amnesia si strutturi in due fasi susseguenti: una fase di amnesia totale per la prima infanzia, in cui gli adulti non sono in grado di ricordare alcun evento relativo ai primi 2 – 3 anni di vita, e una seconda fase nella quale gli adulti sono in grado di rievocare solo pochissimi ricordi del periodo di età tra i 3 e i 7 anni (Peterson, 2002; Jack & Hayne, 2010).

Secondo l’approccio cognitivo l’abilità di formare ricordi durevoli è determinata dall’acquisizione del “senso di Sé”, a cui il bambino può associare ricordi personali (Howe & Courage, 1993), della teoria della mente (Perner & Ruffman, 1995), del linguaggio e delle abilità conversazionali (Simock & Hayne, 2002). La codificazione verbale del ricordo è di fondamentale importanza per la sua conservazione nel sistema di memoria e per un successivo recupero, e un più maturo concetto di Sé favorisce questo processo.
 Un altro fondamentale contributo allo studio del fenomeno è quello basato sull’interazione sociale, in particolare sulla precoce condivisione dei ricordi tra genitori e figli (Fivush, 2010). Secondo questo approccio teorico, l’uscita dal periodo oscurato dall’ amnesia infantile sarebbe connessa con la crescente abilità narrativa del bambino.

Un ulteriore contributo ci viene dalle teorie biologiche che formulano due ipotesi strettamente correlate tra loro. Secondo la prima, chiamata “teoria del cervello immaturo”, l’ amnesia infantile si verifica poiché le strutture chiave per la formazione e l’immagazzinamento dei ricordi non sono sufficientemente mature nel momento della formazione della traccia mnestica e non sono quindi in grado di elaborare l’informazione affinché possa rimanere immagazzinata in memoria. Gli elementi a sostegno di questa teoria derivano da studi di neuroimaging, le cui scoperte hanno evidenziato che, nonostante gran parte del cervello sia completamente formato al momento della nascita, le due regioni chiave per la memoria dichiarativa, la corteccia e l’ippocampo, mostrano uno sviluppo postnatale (Sierra et al., 2011).

La rapida mielinizzazione che si verifica durante i primi anni di vita può spiegare i cambiamenti nella velocità di codificazione ed elaborazione dell’informazione osservata in differenti compiti di memoria (Hayne, 2004). Tuttavia, la connessione tra la lenta maturazione corticale, la progressiva mielinizzazione e l’ amnesia infantile, resta una questione da chiarire.

La seconda, la “teoria della maturazione cerebrale”, postula invece che il processo stesso di maturazione interferisce con il consolidamento dei ricordi formati durante l’infanzia (Josselyn & Frankland, 2012). L’idea centrale è che la continua maturazione del cervello dopo l’iniziale acquisizione dell’informazione, possa interferire con la stabilizzazione della traccia mnestica. Il livello di neurogenesi sembra infatti essere inversamente proporzionale alla stabilità della memoria.

Nei primi studi sistematici sull’ amnesia infantile condotti invece su bambini e adolescenti (Peterson et al., 2005; Bauer et al., 2007; Peterson et al., 2009) è emerso come l’età del primo ricordo aumenti con l’aumentare dell’età dei partecipanti: il limite dell’ amnesia infantile cambia in base all’età, è quindi un confine dinamico. Le conclusioni comuni sono sostanzialmente due: l’ amnesia infantile è un fenomeno riscontrabile anche nei bambini e non solamente negli adulti, e i suoi confini sembrano aumentare man mano che i bambini crescono (Peterson et al., 2011).

Peterson e colleghi passando in rassegna diversi studi su ricordi verbali di eventi accaduti prima del secondo anno di vita, hanno concluso che tali ricordi, anche se occasionalmente presenti, sono piuttosto scarsi.

Da una ricerca del 2005 (Peterson, Grant & Boland, 2005) è emerso un altro dato significativo: l’assenza di differenze tra i vari gruppi di età nella struttura del ricordo. In generale i partecipanti di tutte le età erano in grado di fornire solamente uno spaccato, una “fotografia” di un momento isolato nel passato, lasciando così supporre ai ricercatori che siano le abilità narrative possedute al momento della codifica dell’informazione e non l’attuale livello di abilità, a determinare la struttura del ricordo. Circa la natura e la struttura degli episodi rievocati, questi risultati non differiscono da quelli di altre ricerche condotte anche sugli adulti. In un altro studio del 2005 (Van Abbema & Bauer) è stato evidenziato nuovamente come, con il passare del tempo, la perdita dei ricordi aumenti significativamente.

Sono diversi i ricercatori che hanno concluso che i ricordi della primissima infanzia sono fragili e vulnerabili sia all’interferenza che all’oblio e per questo non si consolidano, diventando così inaccessibili (Peterson et al., 2011; Peterson et al., 2005; Wang et al., 2004).

Nella maggioranza degli studi condotti viene evidenziata una correlazione negativa tra la quantità di eventi ricordati e l’età. Riguardo a questo aspetto, di estrema importanza nell’ambito della testimonianza minorile, nelle Linee Guida Nazionali per l’ascolto del minore (2010) è stato sottolineato come sarebbe buona prassi procedere all’ascolto del minore nel più breve tempo possibile (principio reso operativo dalla Giurisprudenza di Legittimità, Cass. Pen., n. 3258, citata).

Riassumendo, le evidenze empiriche di una carenza di ricordi relativi alla prima infanzia sono consistenti e convincenti, nell’adulto come nel bambino. I ricordi di eventi ed esperienze vissute prima dei 3 o dei 4 anni sono scarsi e, se presenti, sono frammentari ed incompleti a confronto con quelli relativi ad un periodo di vita successivo, in cui la quantità di ricordi e la loro complessità aumenta rapidamente e i fattori sottostanti ad un decremento dell’ amnesia infantile sono molteplici.

Ma quali sono le implicazioni di queste scoperte nell’ambito forense? Nonostante le teorie sull’ amnesia infantile si focalizzino sui limiti cognitivi e linguistici dei bambini molto piccoli, è un errore concludere che il fenomeno implichi necessariamente la totale assenza di abilità mnemoniche. I bambini molto piccoli non sono in grado di esprimere verbalmente i loro ricordi, ma utilizzano forme diverse di memoria. Questo, pur di estrema rilevanza per la ricerca, non può tuttavia essere considerato valido indizio di affidabilità del ricordo in ambito forense, in particolare nei casi di reati sessuali su minori, dove il ricordo verbale del bambino è talvolta l’unica prova su cui è costruita l’accusa.

Inoltre, si ritiene importante sottolineare come i bambini, in particolare quelli molto piccoli, siano notoriamente dei soggetti estremamente vulnerabili alla suggestione e alla manipolazione da parte degli adulti e come questa influenza possa talvolta determinare delle modifiche o la creazione di un vero e proprio falso ricordo soprattutto se i pochi ricordi rievocati sono incompleti, frammentari, incoerenti e scarsamente strutturati (Ceci et al.,1987; Ceci & Bruck, 1993).

È pertanto fondamentale e necessario condurre le interviste con estrema cautela nella consapevolezza che ogni intervento può causare delle alterazioni. Anche le linee guida sulla memoria e il diritto redatte dalla British Psychological Society sottolineano come tutti i ricordi di eventi occorsi tra i 3 e i 5 anni debbano essere presi in considerazione con estrema cautela e come quelli precedenti ai 3 anni non dovrebbero essere considerati validi senza altre evidenze esterne indipendenti.

Captain Fantastic (2016) e la gestione educativa dei figli – Recensione del film

Nel film Captain Fantastic il padre Ben è preparato a tutto, un vero supereroe; scala le montagne, caccia gli animali, conosce qualsiasi fenomeno della Terra e degli altri pianeti, ma rimane disarmato e spaesato di fronte alla sofferenza psicologica, allontanata e negata senza troppi sforzi.

 

Ben, protagonista del film Captain Fantastic, è un padre anticonformista ed eccentrico, un capitano eccezionale dal multiforme ingegno che istruisce e guida la famiglia in una foresta, rifiutando la contaminazione con la civiltà e gli altri esseri umani. Isolatosi spontaneamente, il protagonista alimenta e trasmette una vasta gamma di conoscenze attraverso un programma didattico rigoroso ed efficiente: dai corsi di caccia, agli sport estremi per passare all’attività fisica e alle immancabili nozioni relative a qualsiasi disciplina contemplabile.

I ragazzi dividono le giornate tra i libri e le attività all’aria aperta, non conoscono i computer e i cellulari, sono notevolmente più colti e addestrati rispetto ai coetanei, ma totalmente inesperti sul piano dei rapporti interpersonali.

Infatti nessuno di loro ha mai frequentato una scuola, coltivato amicizie o rapporti sentimentali, e in generale legami intimi alternativi alla famiglia, cruciali per il  contenimento e la crescita nonché l’integrazione e l’approfondimento di molteplici punti di vista su di sé e sull’esterno.

 

La sofferenza psicologica in Captain Fantastic

All’inizio i personaggi del film Captain Fantastic sembrano ignari della discrepanza esperienziale e conducono un’esistenza apparentemente amena e soddisfacente fino alla perdita di un membro che risucchia l’intero nucleo nello sconforto, nei conflitti, e infine nella confusione sull’utilità dell’educazione impartita in primis dal padre.

Il suicidio materno costringe così Ben a ristabilire l’equilibrio perduto a partire dalla diagnosi di depressione post-partum: le manifestazioni psicotiche della moglie intrise di contenuti aggressivi nei confronti dei figli e in generale il peggioramento del funzionamento intrapsichico e interpersonale mette in difficoltà il “Captain Fantastic” e la disciplina inflessibile, a tal punto da prendere provvedimenti drastici e contraddire i valori predicati con ostinata convinzione.

L’ospedale, l’équipe e i farmaci, da nemici integerrimi con le armi letali diventano improvvisamente la soluzione migliore di fronte all’incapacità di organizzare autonomamente la guarigione della compagna che con il suo disagio non riesce a regolare se stessa e il gruppo.

Ben è preparato a tutto, un vero supereroe, come si evince anche dal titolo del film Captain Fantastic; scala le montagne, caccia gli animali, conosce qualsiasi fenomeno della Terra e degli altri pianeti, ma rimane disarmato e spaesato di fronte alla sofferenza psicologica, allontanata e negata senza troppi sforzi.

Di conseguenza anche i figli conoscono Noam Chomsky alla perfezione, sanno discutere con arguzia sui fenomeni scientifici e letterari, affrontano con maestria le condizioni metereologiche avverse, ma restano confusi e basiti dall’ambiguità paterna che rigetta la società, e in preda alla disperazione non esita a contattarla, come un adolescente che si separa rabbiosamente dai genitori per poi tornare a chiedere aiuto, elogia la compagna e infine la lascia sola a percorrere l’abisso depressivo: l’inevitabile ritorno alla società con le regole diametralmente opposte a quelle della foresta, nonché la complessità della realtà, incrementano il disagio aprendo l’ingresso agli imprevisti difficilmente incastrabili con l’addestramento praticato nelle montagne.

 

L’educazione in Captain Fantastic

Dal punto di vista educativo, sono due i modelli preponderanti forniti dal film Captain Fantastic; i sei figli di Ben cresciuti all’aria aperta, saggi e allenati alle avversità, e i due figli di Harper, nonché nipoti del protagonista, allevati nell’America moderna e stereotipica, completamente disinteressati allo studio e appassionati di materialismo e consumismo. Da qui l’enorme divario che induce Ben ad evidenziare il livello culturale della figlia minore, la quale non conosce le grandi marche e i famosissimi videogiochi come i cugini, ma sa citare con accuratezza gli emendamenti della Dichiarazione dei Diritti, e Harper ad avanzare una riflessione sull’utilità di vivere nell’isolamento senza confrontarsi con altre menti, che, seppur meno brillanti, possono insegnare differenti modi di stare al mondo.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM

 

Le strategie educative esposte in Captain Fantastic sono chiaramente opposte ed estremizzate: nel mondo di Ben, la società è amministrata da lui per antitesi alla società dominante nella quale vive Harper, dove norme, idee e principi sono stabiliti dal macrosistema che influenza inesorabilmente i rapporti interpersonali e i processi intrapsichici, quello che per l’uno è la condanna dell’intelligenza e della creatività, mentre per l’altra, la pura normalità, la cornice che garantisce stabilità, condivisione e cooperazione.

Il confronto culturale tra la piccola Zaja e i cugini è di fatto l’esempio lampante servito con astuzia in Captain Fantastic per dimostrare il fallimento della modernità nel suscitare un interesse conoscitivo per il mondo, ma anche i metodi di Ben non sono esenti da limitazioni. Ne sa qualcosa Bo, il figlio maggiore che s’innamora di una ragazza dopo una rapida interazione, nulla di strano se si tratta di un adolescente “alle prime armi” che esce, conosce e si confronta con i coetanei, peccato che il giovane non ha mai sperimentato in prima persona una cotta, o affrontato l’argomento con qualcuno, così finisce per promettere l’amore eterno alla sua bella semisconosciuta, un gesto sincero ma totalmente inusuale e spropositato che ricorda le norme comportamentali ormai anacronistiche sul corteggiamento.

Bo assomiglia ad un uomo del passato piombato nel futuro, confuso dai processi impliciti che compongono i rapporti nell’attualità filtrati dall’evoluzione societaria e culturale: la strabiliante conoscenza non lo protegge, né prepara da tutto, appunto perché le situazioni sociali si apprendono attraverso la pratica e alla soglia dei vent’anni, un’età in cui dovrebbe essere ordinario collezionare contatti riavvicinati con il sesso di interesse, il giovane in questione si misura per la prima volta come partner proponibile, amplificando l’idealizzazione e confondendo una svista subitanea con l’amore matrimoniale, intimo e stabile.

Lo stesso Ben è costretto a confrontarsi con i limiti del fantastico addestramento: ordinare alla figlia di arrampicarsi sui tetti per recuperare il fratello in casa dei nonni si rivela una pessima strategia che rischia di mettere a repentaglio la sua vita, e demolire le certezze assolute di protezione, forza e invincibilità di fronte ad una situazione apparentemente semplice da gestire.

 

I processi di Separazione-individuazione del protagonista

È da qui che il protagonista di Captain Fantastic inizia ad affrontare un lutto nel lutto, separandosi anche dalla rigidità delle leggi di famiglia inventate e autogestite con efficienza fino a quel momento, rivisitandole e accettandone i difetti, senza, però, modificarle radicalmente. Verso il finale emerge un lieve cambiamento nella quotidianità che lascia intendere da una parte la stabilità dell’intramontabile disciplina, dall’altra il miglioramento di alcune condizioni di vita: detto altrimenti, l’esperienza ha portato il nucleo ad avvicinarsi lievemente alla civiltà e ad avviare la prima separazione-individuazione dalla famiglia, senza rinunciare nel complesso alla quotidianità condotta nella natura.

Ben è quindi un padre protettivo e innovativo che persegue un sogno condiviso con la compagna e i figli, ma ad un certo punto, qualcosa cambia nel nucleo e la moglie riflette sulla spendibilità di questa esistenza amena nella realtà: vivere emarginati dalla società è splendido ed estremamente creativo, ma rischia di disperdere la condivisione e la stabilità, pertanto quando i figli cresceranno, i bisogni cambieranno e comparirà la necessità di incontrare altri contesti, si troveranno inadeguati e spaesati.

Oltre alla protezione da un mondo avvertito come pericoloso e inaffidabile, emerge una disperata tendenza alla differenziazione dagli altri esseri umani che soccombono alla società invece di ribellarsi, un atteggiamento che ricorda l’adolescenza come fase evolutiva in cui la separazione-individuazione si pone al centro.

Dall’altra parte, però, non bisogna dimenticare l’inadeguatezza delle strategie testo nella famiglia di Harper nella quale si predicano il materialismo e il consumismo, la scuola è ritenuto un dovere costrittivo e raramente un’occasione per imparare, le attività creative essenziali per sviluppare le doti intellettive vengono così accantonate lasciando ampio spazio alle azioni perseguite dalla massa, come lo shopping, le uscite con i pari e i videogiochi.

Considerando l’originalità e l’adattamento come rispettivi prototipi degli stili forniti dal film Captain Fantastic, un’educazione “sufficientemente buona” integra entrambi gli elementi, stimolando le attività costruttive, come lo sport e la cultura, senza rinunciare all’incontro con la società. Il confronto con i pari si rivela indispensabile già a partire dall’infanzia al fine di esercitare le competenze sociali pertinenti con la fase evolutiva, senza dimenticare gli altri adulti, come gli insegnanti o gli istruttori, che potrebbero porsi come figure significative nell’esperienza.

Dislessia: come adattare le risorse glottodidattiche per l’apprendimento della lingua straniera

È evidente che l’ambiente scolastico, pur non causando il disturbo, ha comunque un ruolo fondamentale nel determinare l’adattamento dello studente con dislessia, il suo stato psicologico e la qualità del suo apprendimento finale. Lo studio di una lingua straniera pone lo studente con dislessia di fronte a sfide complesse, ma il disturbo non preclude affatto questo apprendimento. Spesso, gli scarsi risultati dello studente dipendono da una complessa rete di fattori socio-relazionali e didattici esterni al disturbo.

Valentina Lorusso, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

I Disturbi specifici dell’apprendimento

La dislessia evolutiva è un disturbo specifico dell’apprendimento (DSA). Questo acronimo si riferisce a un gruppo eterogeneo di condizioni che include, oltre alla dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia. I DSA interessano l’acquisizione e l’applicazione di abilità scolastiche, tra cui la lettura, la scrittura e il calcolo.

I DSA sono accomunati dall’assenza di deficit sensoriali e neurologici. Inoltre, chi ne soffre ha ricevuto opportunità scolastiche, sociali e relazionali ragionevolmente buone. Spesso i metodi didattici tradizionali non funzionano con i DSA, ma non possono comunque essere definiti causa del disturbo; casomai, un metodo didattico non adeguato può esasperare difficoltà pre-esistenti. Nei DSA, quindi, le difficoltà di lettura, scrittura e calcolo non possono essere attribuite a limitazioni degli organi di senso, a ritardo mentale o a condizioni ambientali sfavorevoli come assenza di scolarizzazione, grave trascuratezza o maltrattamento (De Grandis, 2007).

Per la natura delle abilità che coinvolgono, i DSA compaiono durante i primi anni della scuola primaria e rendono particolarmente faticoso e frustrante l’apprendimento, interferendo così con il proseguimento degli studi.
Siccome le abilità di lettura, scrittura e aritmetica hanno basi comuni, i DSA possono essere associati. È di solito presente una diagnosi primaria, mentre le altre difficoltà compaiono con intensità inferiore. In questi casi il disturbo, coinvolgendo abilità diverse, ha un impatto negativo maggiore sul percorso scolastico e sui progressi dell’alunno, soprattutto se gli insegnanti adottano esclusivamente metodi didattici tradizionali (Cornoldi, Zaccaria, 2011).

La dislessia evolutiva è una difficoltà selettiva della lettura e in Italia colpisce circa il 4% dei bambini in età scolare. Chi soffre di dislessia mostra capacità cognitive adeguate, come accertato dai test diagnostici.

 

L’apprendimento della lingua straniera da parte dei bambini con dislessia

L’apprendimento di una lingua straniera costituisce un compito particolarmente complesso e sconfortante per gli studenti dislessici (Crombie, 1997), come dimostrano le voci sia degli allievi che degli insegnanti. Le interviste agli studenti con dislessia mostrano come le difficoltà percepite in un contesto L2 siano estremamente eterogenee e varino sia per qualità che per intensità. Gli alunni della scuola primaria e secondaria infatti lamentano problemi in parte diversi, legati a compiti o abilità specifiche, come per esempio la memorizzazione, l’acquisizione del lessico, le abilità produttive, la riflessione metalinguistica e l’ambiente educativo in generale (Daloiso, 2014). Ogni alunno con dislessia presenta quindi, nonostante la diagnosi comune, difficoltà in parte diverse. Il fatto che l’impatto dei DSA sull’apprendimento delle lingue straniere vari da studente a studente complica l’adeguamento dei materiali didattici e la comprensione del disturbo da parte degli insegnanti.

I problemi nello studio in generale, e nell’acquisizione di una lingua straniera in particolare, sono estremamente pervasivi perché hanno effetti negativi non solo sull’apprendimento in sé, ma anche sul piano emotivo e relazionale (Nijakowska, 2010).

Uno studente dislessico può sicuramente imparare a parlare una lingua straniera, ma l’apprendimento del codice scritto rappresenta un ostacolo. Ciò è vero soprattutto per le lingue non trasparenti, come ad esempio l’inglese, che sono per loro stessa natura estremamente ambigue (De Grandis, 2007). L’italiano è una lingua piuttosto semplice da leggere, perché esiste una chiara corrispondenza tra grafema e fonema e lo stesso gruppo di lettere rappresenta quasi sempre lo stesso suono. Per questo motivo si possono leggere o scrivere correttamente anche parole nuove, mai viste o sentite in precedenza. Molte lingue straniere, per esempio il francese o l’inglese, hanno invece un’ortografia irregolare. In inglese, la relazione tra la rappresentazione grafica e il suono della parola è imprevedibile. Ci sono 26 suoni dell’alfabeto, 45 suoni diversi della pronuncia e circa 150 modi per trascriverli. Questa ambiguità ortografica rende molto complesso l’apprendimento per gli studenti italiani in generale, e quelli dislessici in particolare (De Grandis, 2007).

L’attenzione ai problemi relativi all’acquisizione dell’inglese come lingua straniera riveste un ruolo importante, perché ogni studente affronta questo apprendimento nel suo corso di studi. Come sottolinea Rondot-Hay (2006), gli studenti dislessici che imparano l’inglese sono in un contesto di relativa difficoltà rispetto ai loro compagni. Il processo di apprendimento sarà verosimilmente più lento, ma l’acquisizione della lingua straniera può avvenire con successo. Per quanto riguarda le difficoltà specifiche dell’inglese, Rondot-Hay individua nell’ortografia la barriera principale, con ricadute sulla lettura, la scrittura e la pronuncia dei vocaboli. Gli studenti con dislessia farebbero fatica rispetto alle consonanti silenti (listen, know), i dittonghi pronunciati diversamente (good-blood, mean-steady), le parole omofone (sea-see) e le parole omografe (read-read) (Rondot-Hay, 2006). Queste caratteristiche della lingua, rendono la sua acquisizione difficile per tutti, e per gli studenti con dislessia in particolare.

Anche l’acquisizione del lessico risulta problematica, perché gli studenti con dislessia fanno fatica a memorizzare le informazioni e a automatizzare alcuni processi, come ad esempio il recupero del lessico. Tali difficoltà sarebbero attribuibili a una inefficienza della memoria di lavoro (Reid, 2006).
Tuttavia, come più volte sottolineato, gli studenti con dislessia possono imparare una lingua straniera, quindi gli insuccessi scolastici non sono da attribuire a fattori interni al disturbo, quanto piuttosto a fattori esterni alla dislessia, come gli aspetti emotivo-motivazionali e il metodo didattico.

Da un punto di vista emotivo-motivazionale, gli studenti dislessici affrontano difficoltà nell’alfabetizzazione in lingua materna e tipicamente si aspettano di rivivere le stesse frustrazioni nell’apprendimento di una lingua straniera (Rondot-Hay, 2006). Questo atteggiamento scoraggiato e rinunciatario, tuttavia, non fa altro che rendere ancora più probabile il fallimento. Per altri studenti dislessici, invece, l’acquisizione di una lingua straniera può essere interpretata come una possibilità di riscatto dagli insuccessi scolastici precedenti. Tuttavia, questa rappresentazione è spesso poco realistica e destinata a dissolversi quando compaiono le prime difficoltà (Daloiso, 2014).

Le aspettative degli studenti con dislessia, rispetto allo studio della lingua straniera, costituiscono già un primo fattore da tenere in considerazione per l’interpretazione del loro modo di avvicinarsi alla materia, delle loro reazioni rispetto agli insuccessi e delle loro strategie di coping. Spesso, questi studenti hanno un atteggiamento di rassegnazione di fronte alle difficoltà che può apparire eccessivo, se si considera il singolo episodio di fallimento, ma che in realtà ha radici ben più lontane, perché è determinato dal continuo ripetersi di situazioni problematiche e negative. Una difficoltà contestuale a un compito di apprendimento viene interpretata alla luce dei fallimenti precedenti e, di conseguenza, lo studente si convince di essere senza speranza. Questo atteggiamento, noto come impotenza appresa, limita la spinta motivazionale allo studio della lingua straniera e rende meno probabili i progressi dello studente.

Nel contesto specifico dell’apprendimento di una lingua straniera, bisogna poi considerare il fenomeno dell’ansia linguistica (Nijakowska, 2010). Si tratta di uno stato ansioso particolare, perché si manifesta nel contesto di acquisizione di una lingua straniera, in presenza di particolari compiti linguistici che interferiscono con la dislessia, tra cui leggere ad alta voce, copiare dalla lavagna, partecipare a una conversazione o condividere i propri elaborati con la classe. È facile immaginare come la lettura di fronte alla classe, essendo l’abilità di lettura il bersaglio del disturbo, possa rappresentare invariabilmente per tutti gli studenti dislessici un compito particolarmente ansiogeno. Tuttavia, come già anticipato, ogni studente riferisce anche difficoltà secondarie più specifiche, per cui è necessaria una buona conoscenza dell’alunno per capire quali compiti lo mettano particolarmente a disagio, in modo tale da favorire un contesto di apprendimento meno imbarazzante e più piacevole. L’esposizione continua a prolungate situazioni ansiogene, infatti, ha come immediate conseguenze l’evitamento e il rafforzamento di una barriera emotiva rispetto allo studio, che impedisce l’acquisizione di nuove competenze (Nijakowska, 2010). Ancora una volta, lo studente non fa progressi perché, per reagire alla frustrazione, si sottrae al compito.

Se si considera quindi l’apprendimento scolastico come un complesso fenomeno che coinvolge non solo aspetti puramente cognitivi, ma anche relazionali ed emotivi, la pervasività della dislessia è tale da compromettere anche il benessere sociale e psicologico dello studente dislessico, soprattutto quando è impegnato in un compito arduo come l’acquisizione di una lingua straniera.

Spesso il contesto scolastico, invece di limitare le conseguenze socio-emotive, non fa altro che esasperarle. Ciò accade quando le difficoltà dei bambini dislessici vengono interpretate dagli insegnanti come forme di pigrizia, svogliatezza e mancanza di impegno. In questi casi, il rischio è che gli studenti facciano propria l’immagine negativa di sé e si convincano di non essere in grado di apprendere la lingua straniera, non impegnandosi dunque in questo compito (Cornoldi, Zaccaria, 2011; Nijakowska, 2010).

 

La sfida dell’accessibilità alle risorse glottodidattiche

È evidente che l’ambiente scolastico, pur non causando il disturbo, ha comunque un ruolo fondamentale nel determinare l’adattamento dello studente con dislessia, il suo stato psicologico e la qualità del suo apprendimento finale. Lo studio di una lingua straniera pone lo studente con dislessia di fronte a sfide complesse, ma il disturbo non preclude affatto questo apprendimento. Spesso, gli scarsi risultati dello studente dipendono da una complessa rete di fattori socio-relazionali e didattici esterni al disturbo.

Dopo aver analizzato gli aspetti emotivi del disturbo e la necessità di creare un clima piacevole e motivante per tutti, è opportuno affrontare il tema dell’accessibilità dei materiali didattici nel contesto dello studio di una lingua straniera.

Daloiso (2014) definisce l’accessibilità glottodidattica come un processo in cui le scelte metodologiche dell’insegnante hanno [blockquote style=”1″]lo scopo di garantire pari opportunità di apprendimento linguistico all’allievo con bisogni speciali, massimizzando l’accesso ai materiali, ai percorsi e alle attività didattiche sul piano fisico, psico-cognitivo, linguistico e metodologico.[/blockquote]

A scuola, l’apprendimento di qualsiasi lingua straniera avviene attraverso l’adozione di un libro di testo, che rappresenta la risorsa didattica principale. Alcuni insegnanti usano anche materiali cartacei o digitali scaricati dal web. In generale, le risorse cartacee sono considerate poco adeguate rispetto ai bisogni specifici degli studenti con dislessia, perché si basano esclusivamente sulla decodifica del codice scritto (De Grandis, 2007).

Tuttavia, adeguare gli strumenti didattici tradizionali non è affatto semplice. La progettazione di materiali glottodidattici universalmente accessibili dovrebbe basarsi sui principi teorici rispetto alle basi neuropsicologiche della dislessia, ma anche sul gradimento degli studenti. Attualmente, non esistono molti studi sistematici volti a indagare l’opinione degli alunni con dislessia rispetto alle risorse glottodidattiche impiegate a scuola, per cui l’adattamento dei materiali di apprendimento si fonda quasi esclusivamente su principi teorici, che non sempre si possono tradurre in altrettante applicazioni operative.

Alcune considerazioni di natura generale sulla dislessia porterebbero a pensare che sia opportuno privilegiare le abilità orali rispetto a quelle scritte ma, anche se autori esperti sui DSA in parte sostengono questo principio (Rondot-Hay, 2006), è pur vero che gli studenti con dislessia possono riscontrare difficoltà anche nella produzione orale. La ricerca dimostra infatti che gli alunni con dislessia fanno fatica a rendere automatiche alcune procedure (Reid, 2006), e questo è particolarmente evidente nei compiti che attivano diverse abilità linguistiche contemporaneamente. La comunicazione orale in lingua straniera richiede un certo livello di spontaneità e l’attivazione simultanea di varie sotto-abilità, come la comprensione, la produzione e il recupero del lessico in tempo reale (Daloiso, 2014). Di conseguenza, una didattica basata esclusivamente sulle abilità orali risulterebbe sicuramente incompleta, e comunque non adatta alle esigenze degli studenti con dislessia.

Un altro problema consiste nel fatto che gli insegnanti di lingua straniera, in assenza di linee guida attendibili, tendono a confondere l’adeguamento dei materiali con una eccessiva semplificazione dei contenuti. In questo modo privano lo studente con DSA della possibilità di acquisire le stesse competenze dei compagni, aumentando il divario che c’è con il resto della classe (Daloiso, 2014).

La pianificazione di strumenti compensativi e l’adattamento dei materiali tradizionali in risorse più accessibili dovrebbe partire da ricerche sistematiche rispetto ai punti di forza e di debolezza delle risorse didattiche utilizzate a scuola, raccogliendo in modo rigoroso le opinioni degli alunni con dislessia, per valutare l’effettiva fruibilità dei materiali. Questi dati rappresenterebbero una guida fondamentale per la creazione di nuove risorse didattiche accessibili, la cui progettazione è troppo spesso trascurata o lasciata all’intuito del singolo docente.

Il gruppo di ricerca DEAL, dell’Università Cà Foscari di Venezia (Daloiso, 2014), nel 2013 ha condotto uno studio in cui è stata raccolta l’opinione di 304 studenti con DSA, di diversa età e provenienza geografica, rispetto alle risorse glottodidattiche tradizionali e digitali, per lo studio della lingua straniera. I materiali didattici presi in esame erano il manuale della lingua straniera, le risorse audio e video e le espansioni on-line, ovvero i materiali didattici consultabili dal sito web della casa editrice.

In generale, gli studenti hanno dato un voto mediamente sufficiente al proprio manuale, ma hanno evidenziato alcuni punti di debolezza per quanto riguarda gli aspetti grafico-stilistici, l’organizzazione dei contenuti e le tipologie di esercizi. L’uso poco strategico del font, del colore e del grassetto rende poco accessibile il materiale agli studenti con DSA. Inoltre, gli intervistati hanno indicato che la sezione grammaticale è in assoluto quella meno fruibile, seguita dalle sezioni legate allo sviluppo della produzione orale e scritta. Queste parti sarebbero troppo dense di contenuti, con schemi, esempi e illustrazioni poco chiare. Nella percezione degli studenti, la sezione grammaticale sarebbe poco accessibile perché ha la pretesa di essere esaustiva e sintetica allo stesso tempo. Richiede inoltre uno studio prettamente mnemonico e poco riflessivo rispetto ai fenomeni grammaticali.
Le risorse audio-video sono state valutate come un buon strumento compensativo, perché attivano canali diversi dalla decodifica scritta e risultano quindi meno stancanti. Nell’opinione degli studenti, questi materiali offrono un modello linguistico corretto e permettono una gestione autonoma delle risorse, con possibilità di controllo della velocità della traccia e aggiunta di sottotitoli.

Le espansioni online sono un materiale molto eterogeneo, e spesso non fanno altro che ripetere i contenuti presenti sul libro stesso. Tuttavia, gli intervistati sostengono che queste abbiano una impostazione di solito più accattivante e propongano materiali multimediali che includono immagini, video e risorse interattive.

Un’informazione interessante riguarda il livello di integrazione dei materiali multimediali nella normale attività didattica. I giudizi negativi espressi dagli studenti non riguardano tanto la natura di queste risorse in sé, quanto il loro utilizzo in classe, che è spesso troppo limitato. Gli insegnanti farebbero dunque un uso quasi esclusivo del manuale cartaceo, dando poca importanza a risorse alternative che, nel caso degli studenti con dislessia, rappresenterebbero un valido strumento compensativo, sia per lo studio che per la valutazione.

Secondo il gruppo di ricerca DEAL, l’approccio ai materiali didattici prevede tre fasi, che richiedono abilità cognitive diverse: un primo contatto superficiale con il testo, la comprensione dei contenuti e l’applicazione delle nuove competenze.

Per facilitare il contatto visivo con il manuale dello studente con dislessia, sarebbe utile adattare gli aspetti grafico-stilistici del testo, aumentando il livello di leggibilità. Si tratta di un intervento superficiale, che lavora principalmente sulla presentazione grafica del materiale da apprendere, ma rappresenta una condizione indispensabile per il riconoscimento dei contenuti didattici e la loro successiva rielaborazione. A questo proposito, la British Dyslexia Association (BDA) ha pubblicato una guida con una serie di consigli per la creazione di testi accessibili.

Il lavoro di progettazione di risorse glottodidattiche più fruibili per gli studenti con dislessia richiede, tuttavia, anche revisioni più profonde dei materiali tradizionali, per facilitare le due fasi successive di rielaborazione dei contenuti didattici e applicazione di quanto appreso. Si tratta quindi di riorganizzare i contenuti del manuale di lingua, tenendo presente che gli studenti con dislessia privilegiano stili di apprendimento visivi non verbali, sfruttando quindi gli aspetti iconici del testo (Stella, Grandi, 2011). Per questo motivo, il manuale di lingua dovrebbe adattare la presentazione dei contenuti favorendo ausili iconici come i diagrammi di flusso, i grafici e le reti semantiche.

Gli studenti con dislessia riferiscono che la sezione grammaticale dei loro manuali di lingua è poco accessibile. Le regole grammaticali sono spesso sintetizzate attraverso tabelle, che sono di difficile comprensione per gli studenti con dislessia. A questo proposito, sarebbe più utile sintetizzare il materiale di apprendimento attraverso mappe multimediali in cui inserire parole-chiave, immagini o grafici.

Un altro aspetto interessante riguarda la memorizzazione del lessico. Le nuove parole presenti in una unità didattica sono di solito presentate sotto forma di elenchi in ordine alfabetico. Anche in questo caso, lo studente con dislessia farà fatica a orientarsi all’interno di questo materiale. Sarebbe opportuno stimolare l’apprendimento di nuovi vocaboli attraverso l’impiego di reti semantiche, nel quale vengono rappresentate sotto forma visiva le relazioni esistenti tra le parole. Per favorire l’aggancio mnemonico si potrebbero anche inserire immagini all’interno della rete semantica, soprattutto per le parole concrete.

Infine, i manuali di lingua hanno una parte pratica molto sviluppata, perché l’apprendimento di una lingua straniera non è una conoscenza esclusivamente dichiarativa, ma richiede che le abilità linguistiche vengano poi applicate in attività di comprensione e produzione orale e scritta. Un primo ostacolo riferito dagli studenti con dislessia consiste nella comprensione della consegna. A questo proposito, si fa riferimento a un uso strategico degli aspetti grafici del testo (colore o grassetto per evidenziare solo le parole-chiave della consegna). Una facilitazione, soprattutto per gli studenti principianti, potrebbe essere la presentazione della consegna nella propria lingua madre, per accertarsi che l’esercizio sia ben compreso.

Cos’è il Disturbo da Lutto Persistente Complicato in età evolutiva e come si valuta

Quando un decesso è avvenuto in modo inaspettato, violento o sanguinoso, o si è venuti a conoscenza di particolari cruenti del decesso, è possibile che si sviluppi un Disturbo da lutto persistente complicato. E’ la combinazione di stress traumatico e di dolore per la perdita che caratterizza questo disturbo.

 

Il lutto nei bambini e negli adolescenti

Il lutto è una delle esperienze più dolorose della vita.  Ciò nonostante, la maggior parte delle persone superano il trauma del decesso di una persona amata e continuano a vivere una vita soddisfacente e piena. Altri, invece, non riescono ad accettare la morte di un loro caro e sviluppano ricorrenti emozioni dolorose, tra cui senso di colpa, rabbia o rancore, e iniziano mettere in atto comportamenti di evitamento debilitanti (Horovitz, Siegel, Holen & Bonanno, 1997; Prigerson, Monk, Reynolds, Begley, Houck, Bierhals & Kupfler, 1995).

Bambini e adolescenti che hanno perso un membro della famiglia, una persona cara o una figura di riferimento chiaramente devono affrontare sfide uniche per la loro intensità e per la loro pervasività. Il bambino o il ragazzo si trova di fronte alla tristezza, al lutto e al dolore per la perdita di non avere più la persona amata nella propria vita.

Molti bambini perdono una figura importante durante l’infanzia e l’adolescenza, ma la maggior parte riesce a elaborare il lutto in modo salutare (Bonanno, Wortman, Lehman, et al., 2002; DeVaul & Zisook, 1976; Dopson & Harper, 1983; Zisook, Shuchter & Schuckit , 1985).

Con il termine lutto qui si definisce l’intensa emozione dolorosa che una persona prova per la morte di qualcuno di significativo (e.g., Mannarino & Cohen, 2011). Il lutto, anche se intenso, è una normale risposta alla perdita di una persona cara i cui sintomi non dovrebbero essere patologizzati (Bonanno, Moskowitz, Papa & Folkman, 2005; Bonanno, Wortman & Nesse, 2004; Bonanno, et al., 2002; Freud, 1917).

Con lutto non-complicato si intende il normale processo di lutto per la perdita di una relazione importante (e.g., Cohen, Mannarino & Deblinger, 2006). Alcuni autori paragonano la perdita a una caduta e il lutto al normale processo di guarigione delle ferite (e.g. Bowlby, 1980; Parkes, 1998; Engel, 1961). Questa condizione, nei bambini come negli adulti, ricopre per molti aspetti le caratteristiche di un Disturbo Depressivo Maggiore, caratterizzato da profonda tristezza, pianto, isolamento sociale, perdita di appetito, problemi del sonno, problemi scolastici e perdita di interesse nelle attività abituali (e.g., Mannarino & Cohen, 2011; Cohen & Mannarino, 2010; Cohen, et al., 2006).

I più piccoli potrebbero continuare a cercare la persona deceduta o a chiedere spiegazioni su cosa gli è accaduto. Come gli adulti, i bambini possono provare delle fitte di dolore per la perdita, delle improvvise e intense onde di dolore che sembrano arrivare dal nulla, sebbene, diversamente dagli adulti, queste nei bambini possono essere intermittenti. Appena dopo la perdita, i bambini infatti possono ridere o giocare, cosa che sconcerta gli adulti. Tuttavia, la natura intermittente è caratteristica degli stati affettivi in età evolutiva (Cohen & Mannarino, 2010).

 

Il Disturbo da lutto persistente complicato

Tuttavia, se il decesso è avvenuto in modo inaspettato, violento o sanguinoso, o il bambino è venuto a conoscenza di particolari cruenti del decesso, è possibile che si sviluppi un Disturbo da lutto persistente complicato (e.g., Cohen, et al., 2006). In questi casi, infatti, oltre a dover gestire il lutto, il bambino deve affrontare ed elaborare un evento traumatico. E’ proprio la combinazione di stress traumatico e di dolore per la perdita che caratterizza questo disturbo.

Il disturbo da lutto persistente complicato definisce il dolore per la perdita della persona cara accompagnato dai sintomi di stress per la separazione e per il trauma vissuto. Così come una ferita può andare incontro a complicazioni che portano a un’infezione e dolore prolungato, anche il “guarire” da una perdita può essere ostacolato da complicazioni che causano un periodo prolungato e persistente di lutto acuto (e.g., Shear, Simon, Wall, Zisook, Neimeyer, et al. 2011).

I bambini con disturbo da lutto persistente complicato sono incapaci di completare i compiti del processo di riconciliazione, perché il ricordo della persona cara tipicamente è un reminder del trauma, con il conseguente sviluppo di sintomi post-traumatici e spesso sintomi depressivi (Brown & Goodman, 2005; Cohen & Mannarino, 2004; Nader, 1997; Mehlem, Day, Shear, Day, Reynolds & Brent, 2004; Pynoos, 1992; Rando, 1996).

Sebbene già prima degli anni ’80 sia stato proposta una diagnosi di Lutto complicato (e.g., DeVaul & Zisook, 1976; Parkers, 1965; Horowitz, Wilner, Maramar & Krupnick, 1980; Horowitz, Bonanno & Holen, 1993; Marwit, 1991; Hartz, 1986; Horowitz, Siegel, Holen, et al., 1997), l’inserimento del disturbo da lutto persistente complicato nel Manuale Diangostico e Statistico dei Disturbo Mentali – DSM è recente. Nell’ultima edizione (i.e., DSM 5; American Psychiatric Association, 2014) è stato inserito nella sezione “Condizione che necessitano di ulteriori studi”, perché la Task Force e i Work Group del DSM 5 non ha rilevato dati sufficienti per giustificare la sua inclusione tra le diagnosi ufficiali di disturbo mentale. Infatti, la peculiarità delle condizioni in cui si può sviluppare un disturbo da lutto persistente complicato, rende difficile lo studio e la validazione statistica di questo disturbo (e.g., Mannarino & Choen , 2011).

Tuttavia, c’è una crescente mole di dati clinici significativi a favore dell’esistenza del disturbo da lutto persistente complicato soprattutto con gli adulti (Spuji, Reitz, Prinze, Stikkelbroek, de Roos & Boelen, 2012), ma anche con bambini e adolescenti (e.g., Boelen & Prigerson, 2012; Cohen & Mannarino, 2004; Dillen, Fontaine & Verhofstadt-Denève, 2009; Fashingbauer, Zisook & DeVaul, 1987; Mehlem, et al., 2004; Mehlem, Moritz, Walker, Shear & Brent, 2007; Spuji, et al, 2012). Ad esempio, in uno studio con adolescenti, amici e parenti di suicidii, Mehlem e colleghi (2004) trovarono che a 6 mesi dal decesso i sintomi riscontrati di ciò che loro chiamarono “lutto traumatico” includevano i sintomi della depressione e del Distrubo da Stress Post-Traumatico – DSPT.

In un altro studio con bambini orfani, i sintomi del disturbo da lutto persistente complicato erano associati a un deficit di funzionamento significativo oltre a depressione e DSPT (Mehlem, et al., 2007). Un più recente studio, conferma la validità della diagnosi di disturbo da lutto persistente complicato, evidenziando la differente sintomatologia presente in età evolutiva nel DSPT, nella depressione maggiore e nel disturbo da lutto persistente complicato (Spuji, et al,2012). Questo insieme di dati, che dimostra come i sintomi del disturbo da lutto persistente complicato siano qualcosa di più o almeno di diverso da quelli dovuti alla depressione e al DSPT, attestano la validità di questa diagnosi.

 

I sintomi del disturbo da lutto persistente complicato

Il DSM  5 (APA, 2014) definisce il disturbo da lutto persistente complicato la condizione in cui alla perdita di una persona con cui si ha una relazione stretta, l’individuo, manifesta una compromissione psicosociale significativa, anche dopo 12 mesi negli adulti e dopo 6 mesi nei bambini. Tale disagio clinico è dovuto o a una persistente nostalgia della persona persa (Criterio B1), o a un profondo e non gestibile dolore (Criterio B2), o a una forte preoccupazione per la persona deceduta  (Criterio  B4) o per il modo in cui la persona è deceduta (Criterio B4).

Per la diagnosi sono richiesti almeno altri 6 sintomi aggiuntivi suddivisi in due categorie: sofferenza reattiva alla morte e disordine sociale/dell’identità, che rispettivamente fanno riferimento alle difficoltà psicologiche di affrontare e gestire la risposta emotiva al lutto e le difficoltà nel mantenere un’identità psicosociale costante, non dissociata.

Secondo il DSM 5 (APA, 2014) nella diagnosi di disturbo da lutto persistente complicato si deve specificare se il lutto è avvenuto in una circostanza traumatica per l’individuo. Le caratteristiche distintive affinché un lutto sia definito traumatico sono un elevato grado di sofferenza durante il decesso e la natura dolosa (es.  omicidio) o intenzionale (es. suicidio) della  morte. Tuttavia, anche se non sono presenti queste caratteristiche “traumatizzanti”, la perdita di un caregiver primario può costituire di per sé una perdita traumatica per i bambini, visti gli effetti destabilizzanti e pervasivi che la sua assenza può comportare in  tutte le sfere della vita di un bambino (APA, 2014; Cohen, et al., 2006).

La caratteristica distintiva del disturbo da lutto persistente complicato con lutto traumatico è quella di rimanere “bloccati” negli aspetti traumatici del decesso della persona cara (e.g., Mannarino & Cohen, 2011). La persona, adulto o bambino, presenta contemporaneamente il dolore per la perdita, i sintomi connessi all’evento traumatico (i.e., DSPT) e sintomi depressivi.

Tra i sintomi del DSPT connessi al disturbo da lutto persistente complicato possono manifestarsi pensieri o immagini intrusivi e dolorosi circa l’evento traumatico che ha portato alla morte o persino la sensazione che l’evento riaccada continuamente. I bambini possono manifestare reattività fisiologica o sofferenza psicologica in risposta a reminder (fattori esterni – persone, luoghi, conversazioni, attività, oggetti, situazioni- che suscitano ricordi spiacevoli, pensieri o sentiemnti relativi o strettamente associati all’evento/i trauamtico/i) della morte traumatica (e.g., Pynoos, 1992).

I sintomi di iperattivazione fisiologica manifestati (APA, 2007) possono includere:

  • Disturbi del sonno
  • Irritabilità o scoppi d’ira
  • Difficoltà di concentrazione
  • Eccessiva reazione d’allerta
  • Ipervigilanza

Come conseguenza, l’individuo affetto da disturbo da lutto persistente complicato mette in atto come strategie di coping l’evitamento comportamentale o un ottundimento emotivo circa la persona deceduta o tutto ciò che riguarda lei e le circostanze della morte (e.g., Mannarino & Cohen, 2011). I bambini con disturbo da lutto persistente complicato possono anche esperire un diminuito interesse nelle normali attività, sentendosi emotivamente distanti dagli altri, con una gamma di emozioni molto ridotta, o un senso di mancanza di prospettive future (e.g., Cohen, et al., 2006).

Spesso i bambini possono sviluppare la paura di morire nelle stesse circostanze della persona cara (Nader, 1997; Pynoos, 1992). Come conseguenza, possono cercare in tutti i modi di differenziarsi dal defunto contrapponendosi al normale processo di riconciliazione. Può manifestarsi anche la tendenza opposta, cioè il tentativo di identificarsi troppo fortemente e intensamente con la persona amata. Questo sembrerebbe un tentativo di evitare il dolore associato al normale processo di elaborazione del lutto (Nader, 1997).

I bambini possono, inoltre, sviluppare un forte senso di colpa per le circostanze in cui è morta la figura di riferimento o per essere sopravvissuti (e.g., Nader, 1997; Pynoos & Nader, 1990) e sentimenti di vendetta o rivalsa (Eth & Pynoos, 1985).

 

Test di assessment specifici per valutare il  disturbo da lutto persistente complicato

Sebbene vi sia una crescente attenzione nel riconoscere e definire il disturbo da lutto persistente complicato, ancora pochi studi hanno sviluppato strumenti psicodiagnostici standardizzati (Cohen & Mannarino, 2010; Mannarino & Cohen, 2011). Attualmente vi è un unico strumento diagnostico con validità statistica per la valutazione dei sintomi connessi specificatamente alla morte di un proprio caro per l’età evolutiva: l’ Expanded Grief Inventory (EGI). Questo strumento (Layne, Savjak, Saltzman & Pynoos, 2001) è costituito da 28 item che valutano la sintomatologia e le caratteristiche sia del lutto non complicato che del disturbo da lutto persistente complicato dai 7 ai 17 anni.  Rileva 3 fattori principali:

  • Connessione positiva: la capacità del bambino di avere ricordi e pensieri positivi circa il defunto
  • Lutto complicato esistenziale: valuta il vissuto di vuoto causato dal decesso
  • Evitamento e intrusioni traumatiche: i sintomi intrusivi traumatici nell’abilità del bambino di ricordare o avere sentimenti positivi circa il defunto.

Questo strumento esiste solo nella versione in lingua inglese.

Il Characteristics, Attributions and Responses to Exposure to Death – Youth version (CARED-Y) è invece un test composto da 39 item che fornisce informazioni sugli aspetti peritraumatici del decesso della persona così come informazioni sulla relazione del bambino con il defunto e la sua partecipazione al funerale (Brown, Amaya-Jackson, Cohen, Handel, Thiel de Bocanegra, et al., 2008).

Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi – Report dal Seminario con G. M. Ruggiero, Genova 10 Dicembre 2016

Perché ci preoccupiamo? Ci preoccupiamo perché vi sono dei rischi e si teme di non riuscire a tollerare la propria stessa ansia. Sabato 10 dicembre, presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova, l’ incontro “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” con il dott. Giovanni Maria Ruggiero.

 

Sabato 10 dicembre si è svolto a Genova presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il quarto e ultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova”. A parlare del “Perché ci preoccupiamo? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi” il dott. Giovanni Maria Ruggiero.

Partendo da una panoramica dei primi sviluppi della terapia di stampo psicanalitico di Freud, il dott. Ruggiero si è focalizzato su A. Ellis, fondatore della terapia cognitiva che inizia ad agire intorno agli anni ’50 del secolo scorso. I pazienti che prevalentemente trattava Ellis con una metodologia psicanalitica erano ansiosi. La sensazione di base di questi pazienti è quella di “non sentirsi protetti” e si può lavorare con loro in due modi: focalizzandosi sul passato (e questo lo fa anche la terapia cognitiva) oppure prestare attenzione al presente ovvero Ellis ritiene che il paziente si preoccupi poiché tende a sopravvalutare il pericolo a cui può andare incontro e sottovalutare la propria capacità di affrontarlo.

Quest’ultimo aspetto affonda le sue radici nella propria storia personale. I pensieri immediati che generano preoccupazione arrivano da un passato remoto e sono coscienti, ovvero possono essere trattati nel “qui ed ora” senza per forza capire da dove arriva tutta questa fragilità personale. Per Ellis già solo rivolgere la domanda al paziente: “Lei di che cosa è preoccupato?” “Qual è il pericolo che lei corre?” oppure “Quali sono le sue risorse?” è un’operazione terapeutica poiché si incrementa l’esame di realtà senza necessariamente scavare nel passato in quanto per molti pazienti ansiosi non è necessario farlo. Proprio perché in questo tipo di pazienti l’esame di realtà rispetto ai pericoli è alterato, possono trarre giovamento incrementandolo attraverso una focalizzazione su che cosa li preoccupa all’interno di uno stato di preoccupazione che essi percepiscono come generico.

Negli anni sessanta del secolo scorso, A. Beck raffinò questo tipo di terapia e la rese elettiva per il disturbo d’ansia e adatta alle diagnosi psichiatriche di questi stessi disturbi, consentendone una più precisa classificazione. La persona ansiosa ha comunque una sua storia di ambiente familiare ansioso che gli è stata trasmessa durante l’infanzia. In termini relazionali l’ansioso è una persona che si sente poco protetta, si sente fragile come anche la persona depressa. La sostanziale differenza tra i due però è che mentre la persona ansiosa teme di perdere l’amore, il depresso è “senza amore”, ha avuto un ambiente affettivo-relazionale freddo, distanziante, desertico, da qui ne ricava che la vita non ha senso. In questo senso la terapia si colloca come un’esperienza emotivo-affettiva tra paziente e terapeuta che aiuta il paziente ansioso ma anche il paziente depresso ad acquisire un miglior esame di realtà.

Il trattamento cognitivo in Italia lo portò C. De Silvestri, la cui base è il disputing che non è una discussione con il paziente in cui l’operatore deve “aggiungere” qualcosa di intelligente per mostrare al paziente il suo errato esame di realtà ovvero non bisogna dare un’idea migliore che gli consenta di esaminare la realtà bensì incoraggiarlo a mettere in discussione ciò che pensa. Una volta individuati questi pensieri lo si invita ad allenarsi durante la settimana: deve riconoscere le situazioni in cui mette in atto questi pensieri disfunzionali, individuarli e poi attivamente metterli in discussione provando a valutare se non è possibile pensare qualcosa di diverso.

Il dott. Ruggiero si è poi soffermato sulle spiegazioni dell’origine dell’ansia che possono essere di diversa tipologia: evolutiva immediata, cioè sopravvalutazione dei pericoli e sottovalutazione delle proprie capacità personali;  evolutiva nel passato: aver avuto un’esperienza di crescita in cui si ha sperimentato una sensazione di pericolo (genitori preoccupati); evolutiva poiché nel cervello rettiliano le informazioni che si utilizzano non sono sofisticate e presuppongono una duplice reazione di attacco o fuga. In questo senso l’ansia non è semplicemente un’errata valutazione della realtà, è una mancata o errata valutazione di queste stesse reazioni. E’ per questo che le capacità metacognitive intervengono per aiutare ad interpretare sé stessi e la realtà.

In un particolare tipo di terapia cognitiva tali concetti metacognitivi rappresentano uno sviluppo recente: all’interno della seduta non ci si focalizza più sul “vediamo che cosa rischi veramente” ma su un piano metacognitivo del: “vediamo cosa provi in quel momento, come lo gestisci”. Tale metodologia pare avere una maggiore e comprovata efficacia terapeutica. Lo svantaggio pare essere quello che a volte i rischi definiti con il paziente si avverano realmente.

Perché dunque ci preoccupiamo? Ci preoccupiamo perché vi sono dei rischi e si teme di non riuscire a tollerare la propria stessa ansia e perché la propria mente ci ha insegnato non tanto a non tollerare i rischi ma l’emozione di ansia (ansia perché si ha paura dell’ansia). L’ansia in questo contesto si configura come il timore di non riuscire a tollerare la propria paura nelle situazioni che mettono alla prova.

Un apporto decisivo è stato dato da A.Wells con la terapia metacognitiva che si basa sull’idea che l’errore non sta nell’esaminare la realtà poiché questo genere di pensieri ansiosi, negativi e disfunzionali possiamo averli tutti, l’errore non è nemmeno non tollerare l’ansia ma sta nel fatto che siccome si ha una preoccupazione si ritiene sia corretto pensarci a lungo. Quindi con la definizione di rimuginio si sposta il quadro non sull’errore dell’esame di realtà ma sull’errore nella gestione degli stati mentali.

I problemi in realtà si risolvono pensandoci un po’ di tempo, non troppo tempo perché:

  • Pensare vuol dire passare in rassegna le soluzioni che si conoscono già e questo non porta via tanto tempo (una decina di minuti);
  • Implica prendere atto che c’è un problema e vedere che nel repertorio di soluzioni disponibili non c’è nulla di particolarmente errato;
  • Inventarsi qualcosa di nuovo ovvero farsi venire una buona idea non è frutto di un’attività di pensiero lunga e laboriosa ma è meglio lasciare la mente lavorare da sola cioè non tanto usare l’attenzione consapevole ma avere fiducia in un lavorio più spontaneo. A volte le soluzioni non sono ideali e si raggiunge una mezza soluzione (settimane, mesi). Impegnarsi attivamente per risolvere un problema serve per un periodo limitato di tempo (10 minuti) e poi occorre mettere forza e abilità nel non pensarci. Invece il rimuginatore è colui che di fronte ad una situazione ansiosa ritiene che sia giusto continuare a pensarci ad oltranza. Per Wells è proprio il non pensarci ad oltranza che crea l’ansia, è un errore di tipo funzionale. La soluzione è quella di spostare la propria attenzione da un argomento ad un altro: non è un evitamento poiché mettere da parte un pensiero che crea ansia non vuol dire scacciarlo, vuol dire non pensarci. L’evitamento rimuginativo comporta il pensiero: “non ci devo proprio pensare” e non “penso dopo a questa cosa”. Il rimuginio anche se sembra dare un piccolo sollievo iniziale poiché anche una soluzione inutile è una pseudosoluzione poi di per sé non aiuta a risolvere il problema perché non aiuta a creare soluzioni ma solo delle etichette di tipo autodenigratorio (es. “sono sbagliato”).

Per Wells è importante con il paziente ansioso non soffermarsi sull’argomento del rimuginio ma vedere perché continua a pensarci tanto. Attraverso la sua terapia col paziente ansioso improntata prima su una fase di discussione verbale, poi di esercitazione mentale per non rimuginare, Wells si prefigge di raggiungere l’obiettivo di aiutare il paziente a distinguere con chiarezza ciò che è controllabile da ciò che non lo è, poiché un’idea intrusiva è per forza incontrollabile e occorre accettare che periodicamente i pensieri fastidiosi ci vengano in mente non dandogli importanza, non agendo su di esso.

 


Psicoterapia e Scienza Cognitiva Genova

Obesità genitoriale e ritardi nello sviluppo della prole

Essere in forma e normopeso non solo per la propria salute, ma anche, e soprattutto, per quella dei propri figli. I figli di genitori obesi potrebbero essere a rischio di ritardi nello sviluppo, almeno secondo quanto rilevato da uno studio svolto dai ricercatori del National Institutes of Health a Bethesda, nel Maryland.

 

Gli effetti dell’obesità dei genitori sullo sviluppo dei figli

Gli autori hanno messo in luce come figli di madri obese sembrino presentare una maggior tendenza a fallire prove per le abilità motorie fini, ovvero quelle abilità motorie che implicano il movimento di piccoli distretti muscolari, come le dita o la mano. Inoltre, bambini con padri obesi sembrerebbero essere più inclini a fallire test che riguardano le competenze sociali. Infine, bambini con entrambi i genitori con gravi problemi di obesità sembrerebbero mostrare compromissioni a livello delle abilità di problem solving.

Lo studio, pubblicato dalla rivista Pediatrics, è stato svolto da ricercatori del Eunice Kennedy Shriver National Institute of Child Health and Human Development, uno degli Istituti Nazionali di Sanità del Dipartimento della Salute e dei Servizi Umani degli Stati Uniti d’America, con il compito di svolgere ricerche per salvaguardare e migliorare la salute di bambini, adulti, famiglie e comunità.

I precedenti studi sul tema sembrano aver prevalentemente indagato la relazione tra la salute del neonato e il peso della madre prima e dopo la gravidanza. Ad esempio, in una review del 2010, Van Leshout e collaboratori hanno evidenziato l’esistenza di una correlazione tra l’obesità materna durante la gravidanza e lo sviluppo di problemi al sistema nervoso centrale del feto. Inoltre, figli di madri obese sembrerebbero essere maggiormente propensi allo sviluppo di problematiche cognitive e di sintomi legati al disturbo da deficit di attenzione e iperattività durante l’infanzia, di disturbi dell’alimentazione durante l’adolescenza e disturbi psicotici nell’età adulta.

Al contrario, lo studio di Yeung e collaboratori ha incluso, in modo analogo a qualche altra ricerca sporadica, anche informazioni riguardanti il padre, suggerendo che anche il peso della figura paterna sia di sostanziale importanza per uno sviluppo normotipico dei figli. A tal proposito, già Whitaker e collaboratori nel 1997 avevano infatti messo in luce come l’obesità di entrambi i genitori sembri quantomeno duplicare la probabilità che i figli divengano a loro volta obesi durante l’età adulta.

Quanto rilevato dagli autori risulta essere estremamente importante se si considera l’ormai vasta diffusione dell’obesità genitoriale, infatti, ad esempio negli Stati Uniti è stato evidenziato come circa 1 donna incinta su 5 sia obesa o in sovrappeso.

Per poter correlare l’importanza del peso genitoriale all’adeguatezza dello sviluppo psicosociale dei figli, Yeung et al. hanno esaminato i dati provenienti da uno studio precedente, l’Upstate KIDS study (Louis et al., 2014), che aveva lo scopo di indagare se i trattamenti per la fertilità potessero influire in qualche modo sullo sviluppo dei bambini. All’interno di questo primo studio erano state reclutate, tra il 2008 e il 2010, un totale di più di 5000 donne tra i 2 e i 4 mesi post-partum. Per quanto riguarda la misurazione del grado di sviluppo dei bambini, ai genitori veniva chiesto di svolgere una serie di attività con i propri figli e di completare l’Ages and Staged Questionnaire, un test che, per quanto non venga utilizzato per diagnosticare disabilità specifiche, risulta essere un valido strumento di screening che permette di identificare possibili ritardi inerenti cinque diversi domini dello sviluppo (abilità grosso e fino motorie, comunicazione, funzionamento socio-personale e abilità di problem solving).

I bambini sono così stati testati una prima volta a 4 mesi di vita e successivamente per altre 6 volte, fino al compimento dei 3 anni. Durante la selezione iniziale, inoltre, era stato chiesto alle madri di fornire informazioni circa la propria salute e peso, sia prima sia dopo la gravidanza, e anche circa salute e peso del proprio partner, rendendo così possibile l’utilizzo degli stessi dati anche per lo studio di Yeung e collaboratori.

Dalle analisi dei dati è emerso che, in confronto con i bambini con madri normopeso, i bambini con madri obese presentano il 70% in più di probabilità di sviluppare problemi che li porterebbero, all’età di 3 anni, a fallire test riguardanti le abilità motorie fini. Inoltre, bambini con padri obesi sembrano presentare il 75% in più di probabilità, rispetto a quelli con padri normopeso, di sviluppare problemi a livello socio-personale a 3 anni, così come mostrato dal fallimento di test inerenti le abilità di relazione e interazione con gli altri. Inoltre, bambini con entrambi i genitori obesi sembrano avere il triplo delle probabilità di sviluppare problemi legati al dominio del problem solving.

Come già evidenziato anche da altri autori (ad es. McPherson et al, 2015), avere entrambi i genitori obesi porta ad un effetto additivo, andando a sommare ed amplificare le influenze negative del peso di entrambi i genitori sullo sviluppo embrionale e fetale, provocando così molti più deficit sulla prole di quanti non ne provocherebbero separatamente.

 

Considerazioni: perché il peso genitoriale inciderebbe sullo sviluppo dei figli?

Attualmente ancora poco si sa sul perché il peso genitoriale influisca in tal modo sullo sviluppo psicosociale dei figli. Una delle spiegazioni attualmente più accreditate sembrerebbe essere quella delle infiammazioni a livello fetale, che modererebbero la relazione tra obesità materna e ritardi a lungo termine nello sviluppo infantile. Da studi etologici è infatti emerso come l’obesità materna durante la gravidanza sembri causare in modo sistematico lo sviluppo di infiammazioni, che vanno ad impattare sullo sviluppo cerebrale del feto. Più nello specifico, le infiammazioni, date da stimoli ambientali quali, ad esempio, una non corretta alimentazione materna, andrebbero ad influenzare la predisposizione di quei tessuti sensibili all’insulina, portando a disfunzioni per quanto riguarda l’organogenesi, lo sviluppo tissutale e anche il metabolismo stesso della prole, rendendola anche maggiormente predisposta a futuri problemi metabolici e cardiovascolari, obesità inclusa (Segovia et al., 2014).

A tal proposito, secondo uno studio presentato al 75esimo convegno dell’American Diabetes Association, così come ben evidenziato in un articolo pubblicato nel Giugno del 2015 sulla rivista dell’associazione, i figli di madri obese sembrerebbero essere maggiormente predisposti ad essere essi stessi obesi in futuro a causa di mutazioni verificatesi all’interno dell’utero durante la gravidanza che porterebbero le cellule del feto ad accumulare grasso in eccesso o a sviluppare alterazioni metaboliche, fino ad arrivare ad una vera e propria resistenza insulinica.

Ancora meno si sa sui potenziali effetti dell’obesità paterna sullo sviluppo psicosociale dei figli, per quanto Yeung e collaboratori abbiano messo in luce una possibile influenza soprattutto per quanto riguarda lo sviluppo socio-personale. Una delle possibili spiegazioni prese in considerazione riguarda, così come emerso da modelli animali, l’alterazione dell’espressione genica all’interno dello sperma di padri obesi, che, causando alterazioni genetiche ed epigenetiche all’interno degli spermatozoi, può portare ad alterazioni fenotipiche nella prole (McPherson et al., 2014).

L’utilizzo di integratori alimentari anti-infiammatori, come acidi grassi (ad es. Omega3), resveratrolo, curcumina e taurina, può essere considerata una valida strategia d’intervento per migliorare la predisposizione a deficit creata dall’obesità materna (Segovia et al., 2014). Inoltre, anche operazioni basate su nutrizione controllata ed esercizio fisico indirizzate ai padri obesi prima del concepimento potrebbero portare a miglioramenti nella salute della prole, riuscendo ad agire sull’integrità del DNA degli spermatozoi (McPherson et al., 2014).

Per quanto siano necessarie ulteriori conferme circa il legame tra obesità genitoriale e ritardi nello sviluppo infantile, potrebbe risultare estremamente utile considerare anche il peso dei genitori all’interno delle valutazioni iniziali riguardanti i ritardi nello sviluppo psicosociale di bambini piccoli, anche nell’ottica di interventi preventivi ed informativi sulle famiglie.

Il trattamento della depressione nel setting di gruppo: il modello metacognitivo

Il trattamento della depressione in un setting gruppale e basato sull’approccio metacognitivo ha mostrato recenti prove di efficacia, con risultati migliori della CBT nel confronto tra gruppi. 

 

L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha stabilito che la depressione diventerà entro il 2020 la seconda causa di disabilità e nel 2030 sarà la malattia cronica maggiormente diffusa al mondo. Il decorso di tale disturbo è infatti molto variabile: per alcuni è estremamente difficile guarire completamente, mentre in altre persone è frequente l’alternanza tra momenti di maggior benessere e episodi depressivi che si manifestano ciclicamente.

Gli studi di Keller e collaboratori (1982, 1992), suggeriscono che circa il 30% degli individui che soffrono di depressione non riescano a superare tale condizione dopo un anno dalla sua insorgenza. Dopo due anni, il 20% della popolazione è ancora depressa e dopo 10 anni il 7% non migliora.

 

Il trattamento della depressione: la prospettiva metacognitiva

La terapia cognitiva ha mostrato la sua efficacia nel trattamento della depressione, ciononostante si riscontrano alti tassi di ricaduta o di remissione solo parziale: il 5% della popolazione che ha intrapreso un percorso di terapia cognitiva mostra ricadute nei successivi 5 anni (DeRubeis & Crits-Christoph, 1998).

Quali sono i fattori che ostacolano la guarigione o che rendono una persona più vulnerabile alle ricadute? Secondo la prospettiva metacognitiva, l’elemento chiave è da rintracciare nelle metacredenze, convinzioni che attivano stili cognitivi maladattivi, i quali a loro volta costituiscono fattori di mantenimento di emozioni negative e rafforzano idee negative su di sé, sul mondo e sugli altri.

Gli stili di pensiero riconosciuti come elementi perpetuanti del disturbo sono ruminazione, rimuginio e monitoraggio della minaccia, ovvero la costante focalizzazione sui propri sintomi e sui cambiamenti del tono dell’umore, con lo scopo di analizzare i propri problemi e verificare la propria capacità di affrontarli.

Dal punto di vista comportamentale, tali stili cognitivi conducono spesso la persona con depressione a preferire l’evitamento delle attività e l’isolamento dalla propria rete sociale. Il trattamento della depressione attraverso la terapia metacognitiva mira a concettualizzare e discutere con il paziente le credenze positive (se rumino troverò una soluzione ai miei problemi) e negative (non posso fare altro che ruminare, è incontrollabile) che sostengono questi stili di pensiero, favorendo il distacco e la presa di consapevolezza sulle proprie modalità cognitive, promuovendo stili maggiormente adattivi. Il trattamento della depressione basato sull’approccio metacognitivo ha mostrato recenti prove di efficacia (per una meta-analisi, Normann, van Emmerik, Morina, 2014), con risultati migliori della CBT nel confronto tra gruppi.

 

Il trattamento gruppale per la depressione

Il trattamento gruppale per la depressione, perfezionato nel 2014 (Dammen, Papageorgiou & Wells) prevede 10 sedute settimanali della durata massima di 2 ore. Nell’open trial condotto dal team di Wells, i partecipanti al gruppo MCT per il trattamento della depressione sono rivalutati dopo 6 mesi, 1 anno e 2 anni, hanno riportato punteggi sotto soglia nella scala di misura della depressione in 8 casi su 11, in 2 si è riscontrato un progressivo e costante miglioramento, mentre 1 dei soggetti non è stato reperibile per i follow up.

Papageorgiou e Wells (2014) hanno condotto una ricerca su un gruppo di pazienti che non aveva ottenuto benefici né da farmaci antidepressivi, né dall’intervento CBT, riscontrando miglioramenti significativi relativi a sintomi ansiosi, depressivi, ruminazione e credenze metacognitive positive e negative, con risultati stabili a 6 mesi. Questi risultati hanno incoraggiato l’applicazione della terapia metacognitiva per il trattamento della depressione nel setting di gruppo e durante l’ultimo Congresso dell’Istituto di Terapia Metacognitiva il prof. Papageorgiou ha tenuto un workshop su questo tema, portando la propria esperienza in qualità di conduttore e supervisore.

La struttura del trattamento della depressione segue il canovaccio del trattamento metacognitivo individuale per la depressione (Wells, 2009), introducendo in primo luogo il modello teorico e favorendo la condivisione e la co-costruzione della concettualizzazione metacognitiva. In questa fase, l’adozione di una batteria testistica ad hoc somministrata in fase di assessment risulta essenziale, in quanto può aver già stimolato una distanza critica rispetto ai propri stili cognitivi.

Successivamente, vengono proposti esercizi di Attention Training e Detached Mindfulness, anticipati da un importante lavoro del conduttore del gruppo, che ne spiega il razionale e testa la credibilità degli esercizi verso i partecipanti. È essenziale, così come nella terapia individuale, che il gruppo comprenda a pieno l’obiettivo: porsi in una prospettiva nuova rispetto ai propri pensieri e scegliere di non fare nulla. In seguito il gruppo discute le credenze metacognitive positive e negative alla base della ruminazione per approdare all’elaborazione di nuovi piani metacognitivi da applicare nel futuro. Il setting gruppale nel trattamento della depressione, che manifesta di per sé una serie di vantaggi, in questa proposta di intervento risulta una notevole fonte di sostegno alla terapia individuale. Ciò che i terapeuti sanno per esperienza in merito all’universalità di credenze metacognitive e stili di pensiero maladattivi, viene vissuto in vivo dai partecipanti del gruppo e stimola l’acquisizione di un ruolo attivo e collaborativo nella costruzione di un nuovo approccio ai propri pensieri.

Maggiori informazioni sulla Gruppi per il trattamento della depressione none

 

Il tumore in adolescenza: la battaglia degli adolescenti contro la malattia oncologica

Il momento giusto, per ammalarsi di tumore non c’è, a qualsiasi età la malattia irrompe nella vita di una persona con la violenza di uno tsunami. Se c’è, però, qualcosa di davvero sbagliato, è ammalarsi di tumore in adolescenza.

Anna Scala – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Adolescenza: la transizione da bambino ad adulto

L’adolescenza è “quel tempo posto fra l’infanzia e l’età adulta”. (Fabbrini, 2007, pp. 14)

È quindi una fase di transitorietà e di passaggio:

Più che tappa o fascia da superare l’adolescenza si configura come passaggio dalla soglia, al di là della quale s’intravvedono i colori della vita in tutta l’ampia gamma dei toni e delle sfumature: piacere, dolore, vicinanza e distacco, incertezza e determinazione, perdita e conquista, insicurezza e certezze. (Fabbrini, 2007, pp. 21)

All’adolescenza si collega per definizione l’idea di crisi. L’ etimologia della parola “crisi” porta i significati di “separazione” e di “scelta” ; la sua radice più antica contiene anche il senso del “giudizio” e del “giudicare ”. Nei caratteri cinesi, la parola crisi è formata dalla combinazione di due ideogrammi che separatamente significano “pericolo” e “opportunità”.

Abbiamo a che fare dunque con uno stato particolare , un momento ricco di potenziale evolutivo , ma carico delle tensioni e dei rischi della perdita e del cambiamento. (Fabbrini , 2007)

Ci sono dei fattori comuni che un adolescente deve affrontare e a cui deve dare delle risposte per poter diventare adulto.

Il primo di questi è la relazione con i genitori, cioè la capacità di passare dalla dipendenza emotiva da essi a una maggiore indipendenza, cioè sperimentare se si è in grado di sentire che i pensieri e i sentimenti siano effettivamente i propri e che iniziano ad essere un po’ più indipendenti da quelli dei genitori.

Il secondo è legato alle relazioni con i coetanei : scegliere come amici altri adolescenti con cui poter sostenere il proprio sforzo di diventare adulto.

Il terzo è l’idea che l’adolescente ha di se stesso come persona fisicamente matura sia nel proprio ruolo maschile o femminile sia nella capacità di modificare l’immagine di sé bambino, potendo sentire di diventare padrone del proprio corpo.

Gran parte dei comportamenti adolescenziali sono determinati dal desiderio di dimostrare la propria indipendenza e la parità con gli adulti, la virilità o la femminilità (Fabbrini, 2007). È nel trovare queste risposte che l’adolescente mette in atto comportamenti particolarmente evidenti che agli occhi dei genitori e degli adulti appaiono eccessivi.

Ed è proprio questo eccesso a far sì che si creino i primi veri e propri conflitti con i genitori e gli adulti di riferimento che non capiscono e che non riconoscono la persona che hanno di fronte. Ma la verità è che nemmeno l’adolescente si capisce e si riconosce in quanto sta imparando sfidando sé stesso e gli altri chi è e chi potrà essere in un mondo di adulti.

 

L’incontro con la sofferenza: il tumore in adolescenza

Il momento giusto, per ammalarsi di tumore non c’è. A qualsiasi età la malattia irrompe nella vita di una persona con la violenza di uno tsunami. Se c’è, però, qualcosa di davvero sbagliato, è ammalarsi di tumore in adolescenza.

Gli adolescenti e i giovani adulti con tumore sono pazienti con bisogni e caratteristiche particolari. L’adolescente si ritrova ad affrontare un periodo di per sé delicato: muove i primi passi verso l’indipendenza dalla famiglia, scopre sé stesso e il mondo che lo circonda, ha sogni , idee e progetti, cerca di definire la propria identità e scopre il mondo della sessualità.

Ogni anno in Italia si ammalano circa 800 adolescenti tra i 15 e i 24 anni e mille/duemila giovani adulti. Secondo statistiche internazionali, parametrate sui principali tumori infantili, il tumore in adolescenza ha inferiori probabilità di guarigione rispetto all’infanzia. Questo dato può essere il risultato di vari fattori, ma un elemento che gioca un ruolo importante nel mancato miglioramento delle percentuali di guarigione dei pazienti adolescenti è la ridotta partecipazione ai protocolli clinici e quindi il limitato accesso alle migliori cure possibili.

Chi soffre di tumore in adolescenza non viene arruolato con regolarità nei protocolli sia per la presenza di barriere legate ai cut-off di età, negli ospedali o nei protocolli stessi, sia perché a volte è il medico a cui il paziente afferisce per la prima volta che non lo invia ai centri in grado di trattarlo in modo adeguato. Anche se le maggiori cause di questo fenomeno sono legate al ritardo nella diagnosi: gli adolescenti parlano di meno con i genitori e nascondono i sintomi e quindi si arriva a una prima visita piuttosto tardi.

Mentre un bambino viene visitato dal pediatra entro otto giorni dalla comparsa di un disturbo, per un ragazzo trascorrono mediamente 72 giorni. Questo ritardo evidenzia come la consapevolezza che possa insorgere un tumore in adolescenza sia ancora poco diffusa non solo tra i giovani e le loro famiglie, ma anche in ambito medico.

Ma che cosa causa il tumore in adolescenza? Ci sono oltre duecento tipi di cancro e, al momento, le cause che portano alla nascita di molti dei tumori che colpiscono i giovani, sono sconosciute.

È anche vero, però, che ci sono dei modi per prevenire il cancro. Prevenire non significa ossessionarsi e convincersi che il cancro possa colpire, significa avere uno stile di vita sano e avere rispetto del proprio corpo. Gli accorgimenti più importanti sono (Airc, 2010):

  • Evitare di fumare
  • Cercare di non bere tanto alcol in poco tempo
  • Cercare di mantenere sotto controllo il peso
  • Fare esercizio fisico
  • Mangiare per bene
  • Evitare di fare lampade abbronzanti
  • Cercare di controllare almeno una volta al mese se si hanno dei gonfiori o se ci sono altre anomalie.

Una volta nel percorso sanitario, rischiano di trovarsi in una “terra di mezzo” tra il mondo dell’oncologia pediatrica e il mondo dell’oncologia medica per adulti.

Ricevere una diagnosi di tumore durante l’adolescenza è complesso perché la diagnosi mette in pausa tutto: trasforma la quotidianità, l’aspetto fisico, le relazioni con gli altri e la sicurezza in sé stessi (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016). Soltanto negli ultimi si stanno sviluppando negli ospedali italiani i primi reparti dedicati alla fascia adolescenziale (13-24 anni).

Li chiamano tumori AYA, acronimo di Adolescent and Young Adults e il fatto che ora le malattie oncologiche che colpiscono i ragazzi abbiano un nome è già un significativo passo avanti. Le forme di tumore in adolescenza sono ibride da diversi punti di vista, e questo causa difficoltà di gestione e cura.

I ragazzi possono ammalarsi di neoplasie tipiche del bambino come i tumori renali di Wilms, il neuroblastoma, i sarcomi dei tessuti molli, i linfomi e le leucemie pediatriche, ma anche di tumori dell’adulto come il melanoma o il tumore polmonare o della mammella. (Airc, 2010)

I tipi di tumore in adolescenza più frequenti sono (Airc, 2010):

  • I linfomi di Hodgkin
  • I tumori della tiroide
  • Le leucemie
  • I tumori delle cellule germinali
  • I linfomi non-Hodgkin
  • I tumori del sistema nervoso centrale
  • I sarcomi delle parti molli
  • I tumori dell’osso
  • Il carcinoma naso-faringeo
  • I tumori al cervello
  • Il tumore alle ovaie
  • Il tumore ai testicoli.

I medici non sanno come muoversi tra il mondo clinico adulto, quello pediatrico e una serie di tentativi diversi. In un mondo di nessuno i medici, gli infermieri e tutto il personale degli staff medici vorrebbero protocolli e strumenti dedicati unicamente a questa fascia di età.

Gli adolescenti e i giovani adulti hanno un maggior rischio di sperimentare stress psicologico con manifestazioni di tristezza, ansia, frustrazione in risposta alle varie fasi della malattia. Inoltre possono sperimentare paura per tutti i cambiamenti corporei che vivono come la perdita dei capelli, forti perdite di peso e in alcuni casi amputazioni (Ramphal, 2016).

Tutto ciò in una fase di vita in cui il soggetto sta costruendo il proprio schema corporeo e la propria autostima:

All’età di quattordici anni entri a far parte dell’adolescenza che è la parte più bella di tutta la vita, t’innamori, fai nuove amicizie, ti diverti, scherzi e giochi. All’età di quattordici anni non t’immagini neanche cosa possa essere il cancro e non dovresti nemmeno saperlo…” (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016, pp.11).

Quindici giorni dopo la prima chemio, in quel bagno d’ospedale incominciai a perdere i miei capelli, il lavandino cominciò a riempirsi a ogni passata di spazzola; me l’aspettavo, ma vederli lì fu un grande colpo. Rispetto a tutto ciò che stavo passando , penserete: “Cosa saranno mai i miei capelli? Ricresceranno”. Avete ragione: ricrescono. Ammetto che con la parrucca riuscivo a sentirmi bella, ma vi posso assicurare che l’aspetto più invasivo, più traumatizzante è guardarsi allo specchio e non riconoscersi, vedere il proprio corpo trasformato contro la propria volontà.” (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016, pp. 31)

Gli adolescenti si ritrovano a interfacciarsi con un aspetto in cui non si riconoscono, che faticano ad accettare come proprio e con questo aspetto devono interfacciarsi a un mondo esterno fatto di amicizie e di rapporti sociali. L’aspetto fisico modificato dalla malattia si ricollega all’aspetto sociale ed amicale. In questo c ‘è la paura del giudizio, del non essere accettati e l’insicurezza tipica dell’adolescente: il tutto in un’esperienza di cancro viene evidenziato.

Di per sé l’adolescente si vive in continua ricerca dell’accettazione da parte di un gruppo o comunque da parte dei coetanei. Anche quando ci riesce possono accadere esperienze di malattia che mettono in pausa tutto ciò e gettano il soggetto in un vuoto in cui deve tirar fuori forse prima del tempo il carattere e la maturità:

E’ innegabile che affrontare un viaggio del genere sia molto duro, ma è anche vero che questo viaggio ti cambia e molto anche; scopri cose di te di cui non avevi la più pallida idea e ritengo che il nostro io  venga davvero fuori in queste situazioni.” (Associazione di volontariato Adolescenti e cancro, 2016, pp. 9)

L’associazione di volontariato Adolescenti e cancro, nel volume  “Attimi di noi”, ha raccolto le storie di adolescenti e di giovani adulti che hanno combattuto e che stanno combattendo tuttora il tumore. Dai racconti traspare paura, trauma al momento della diagnosi che arriva inaspettata come un uragano: è un qualcosa che esiste ma nemmeno lontanamente l’adolescente pensa che possa riguardarlo.

Si trovano in difficoltà anche con aspetti più legati alla scuola: qui gli insegnanti giocano un ruolo fondamentale nel permettere a questi ragazzi di proseguire gli studi: fornendo loro la possibilità di studiare in ospedale oppure alleggerendo il carico di studio.

Dai racconti di questi ragazzi però appare una grandissima forza data dai nuclei familiari che dopo la diagnosi concepiscono la malattia come un problema di famiglia che va affrontato assieme:

Soprattutto accanto a me avevo mia madre che non mi lasciava un attimo, e mio padre ogni sera rimaneva qualche minuto in più dopo l’orario di visita, mi teneva per mano e pregava ad alta voce, altro che ansiolitici: furono quelle preghiere, fu la mia famiglia a ridarmi serenità.” ( Adolescenti e cancro, 2016, pp. 31)

Appare anche una grande forza personale da parte di questi ragazzi che riescono a vedere nella malattia un’opportunità:

Affrontare il cancro è difficile, molto difficile ma tutto dipende da come guardi la situazione, per tutta la durata del mio trattamento ho sempre riso riguardo a quello che mi stava succedendo. Sin dal primo giorno della diagnosi ho sempre detto che essere triste non avrebbe spinto il mio tumore a dispiacersi per me e non lo avrebbe fatto smettere di crescere quindi riderci su rende la battaglia più semplice da combattere.” ( Adolescenti e cancro, 2016, pp. 64)

Nell’esperienza di malattia  i ragazzi scoprono chi sono e chi vogliono diventare, nonostante la sfida di fronte alla quale sono stati posti:

Il vero miracolo non è guarire, il vero miracolo è vivere nonostante la malattia. Forte, presente e con la piena consapevolezza che la malattia fa parte di me, del mio passato e del mio futuro ma io non sono la mia malattia.” (Adolescenti e cancro, 2016, pp. 24)

Interventi psicosociali basati sull’evidenza nel disturbo bipolare in età pediatrica

Disturbo bipolare nei bambini: in età pediatrica è possibile diagnosticare un disturbo bipolare con caratteristiche simili, ma non identiche, a quelle dell’adulto: il Disturbo bipolare nei bambini differisce da quello adulto nella fenomenologia, nel corso e nella risposta al trattamento ed è proprio questo che rende difficile la diagnosi.

Valentina Carloni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Il disturbo bipolare nei bambini

La prevalenza dei sintomi depressivi, la comorbidità con i disturbi d’Ansia e la difficoltà nel riconoscimento dell’ipomania possono determinare una diagnosi errata di depressione unipolare e sostenere l’utilizzo di antidepressivi in monoterapia con peggioramento dell’umore e del comportamento.

Il disturbo bipolare nei bambini è caratterizzato da un quadro misto o disforico, con periodi di intensa labilità emotiva e/o irritabilità piuttosto che la classica mania. In questi pazienti abbiamo una grave disregolazione emotiva con multipli, intensi e prolungati sbalzi d’umore ogni giorno. Il quadro misto include brevi periodi di euforia e periodi di irritabilità e distraibilità più lunghi. La persistenza di questa psicopatologia porta a notevoli ripercussioni sul funzionamento sociale e scolastico del giovane paziente che rischia di non poter utilizzare ciò che l’ambiente offre in termini evolutivi. Pertanto si deduce la necessità di un intervento terapeutico appropriato all’età, tempestivo ed efficace [1].

L’intervento primario per il disturbo bipolare nei bambini è rappresentato dalla farmacoterapia, il cui target è la remissione della sintomatologia, tralasciando quindi le difficoltà sociali, accademiche e familiari del paziente associate al disturbo.  Per tali motivi vi è un chiaro bisogno di interventi psicosociali, ritenuti essenziali per aiutare i bambini e le loro famiglie nella gestione del disturbo [2].

Scopo dell’articolo, quindi, è presentare i principali interventi psicosociali per il disturbo bipolare nei bambini basati sull’evidenza. Verranno presi in considerazione solo studi clinici randomizzati e open label, pubblicati dal 2000 al 2015, mentre si è scelto di non considerare studi di casi singoli e comorbidità come ADHD, disturbo oppositivo provocatorio e abuso di sostanze.

 

La psicoeducazione familiare

Diversi studi hanno dimostrato, negli ultimi anni, l’efficacia della psicoeducazione familiare, presentando una forma di intervento specificatamente diretta al bambino e alla sua famiglia in modo individuale [3, 4] o gruppale [5-7].

Tipicamente la psicoeducazione consiste nel fornire informazioni al paziente circa la malattia di cui soffre. Nel contesto del disturbo bipolare nei bambini, questo modello di intervento è stato progettato per raggiungere i seguenti obiettivi: aumentare la conoscenza e la comprensione del disturbo bipolare pediatrico e il suo trattamento; migliorare la gestione dei sintomi e delle condizioni associate, migliorare la comunicazione e la capacità di problem solving. La psicoeducazione si prefigge, inoltre, di aiutare i genitori ad essere più coinvolti nel trattamento del loro bambino [12].

La Psicoterapia basata sulla Psicoeducazione Multifamiliare (Multy-Family PsychoEducation Psychotherapy; MF-PEP) è un intervento rivolto ai bambini con disturbo depressivo e bipolare ed i loro genitori. Questo intervento combina la psicoeducazione con la terapia familiare e tecniche di terapia cognitivo-comportamentale [13].  Il formato MF-PEP è molto strutturato e comprende otto sedute di gruppo di 90 minuti a cui partecipano genitori e figli, separatamente.

Diversi studi clinici randomizzati hanno evidenziato l’efficacia della terapia multifamiliare su diversi fronti: una maggior conoscenza dei genitori rispetto i sintomi dei bambini e di conseguenza di una maggior percezione si supporto genitoriale da parte loro, oltre al miglioramento dei sintomi affettivi che si manteneva stabile a 18 mesi dal follow up [6,7,12].

Un RCT del 2009 [9] ha fornito dati rispetto alla transizione dallo stato ad alto rischio di sviluppare un disturbo bipolare pediatrico fino allo sviluppo del disturbo stesso. Gli autori hanno studiato una popolazione di 50 bambini tra i 9 e gli 11 anni con un disturbo dello spettro depressivo con o senza sintomi maniacali transitori. I pazienti che avevano ricevuto un intervento psicoeducativo multifamiliare avevano meno probabilità di soddisfare i criteri per un disturbo bipolare al follow – up rispetto al gruppo di controllo (12% rispetto al 45%).

La psicoterapia basata sulla psicoeducazione familiare individuale (IF-PEP) è la versione individuale della MF-PEP poiché è indirizzata al singolo bambino e alla sua famiglia. Diversamente dalla MF-PEP, il formato individuale comprende dalle 16 alle 24 sedute di 50 minuti, 20 delle quali sono manualizzate, mentre le restanti 4 sono utilizzate per la gestione dei momenti di crisi.  Questo modello d’intervento familiare di tipo individuale abbraccia ogni contenuto della terapia multifamiliare e aggiunge il modulo “abitudini salutari”, al fine di gestire sintomi maniacali che, tipicamente, risultano innescati da cicli sonno/veglia irregolari, aumento di peso dovuto alla farmacoterapia e sintomi depressivi. I target dell’intervento sono: regolarizzare il sonno, promuovere corrette abitudini alimentari e incrementare l’attività fisica. Risultati positivi nell’utilizzo della psicoeducazione familiare individuale emergono in due recenti studi [3, 4] i quali evidenziano un miglioramento della sintomatologia anche ad un anno dalla conclusione della terapia.

 

La terapia centrata sulla famiglia

La terapia centrata sulla famiglia (Family- Focused Treatment for Adolescents, FFT-A) è un intervento originariamente pensato per adulti con disturbo bipolare [15] poi adattato agli adolescenti. Diversamente dalla psicoeducazione multifamiliare, la FFT-A lavora con una famiglia alla volta e ingaggia attivamente il paziente nel trattamento [16].

La FFT-A è composta da 21 sedute da 50 minuti (12 settimanali, 6 bisettimanali e 3 mensili) per una durata di 9 mesi e coinvolge i genitori e il ragazzo con disturbo bipolare. Il primo target della terapia è la riduzione della sintomatologia attraverso una miglior consapevolezza di come fronteggiare il disturbo, una minor emotività espressa in famiglia, migliori abilità di problem solving familiare e di abilità comunicative. Un importante obiettivo è che il terapista promuova una maggior aderenza al trattamento farmacologico e crei un piano per gestire ricadute.

Uno dei primi studi fu un open trial che incluse 20 adolescenti con disturbo bipolare il quale evidenziò l’efficacia della FFT-A nel migliorare sintomi depressivi e maniacali, fino ad un anno di follow up [8]. In aggiunta, studi randomizzati controllati più recenti [9,11] evidenziano il beneficio della FFT-A nel diminuire il tempo di recupero dall’iniziale episodio depressivo, e una diminuzione di episodi depressivi e maniacali nei due anni di osservazione dopo la conclusione della terapia. Risultati analoghi si ritrovano nei due recenti studi di Miklowiz [10, 11], volti a studiare l’efficacia della FFT-A in adolescenti a rischio di sviluppare il disturbo bipolare.

 

La terapia cognitivo comportamentale centrata sul bambino e la famiglia (Child and family focused cognitive behavioral therapy, CFF-CBT): il programma Rainbow

La CFF-CBT è un intervento di 12 sessioni sviluppato per soggetti dai 7 ai 13 anni con disturbo bipolare pediatrico e le loro famiglie. Questa terapia combina psicoeducazione, terapia cognitiva comportamentale, terapia interpersonale, mindfulness e teorie e tecniche di psicologia positiva.

Precisamente, CFF-CBT è un intervento di 12 sedute di 60 minuti da compiersi settimanalmente in 3 mesi. Alcune di queste coinvolgono il bambino e i suoi genitori contemporaneamente, altre in momenti diversi.

L’acronimo inglese RAINBOW identifica i principali obiettivi dell’intervento: stabilire una routine prevedibile (Routine), insegnare la gestione del comportamento (Affect regulation), aumentare l’autoefficacia del genitore e del bambino (I can do it), modificare le cognizioni disfunzionali (No negative thoughts and live in the now), il miglioramento del funzionamento sociale (Be a good friend/balanced lifestyle for parent), delle abilità di problem-solving (Oh, how can we solve this problem) e del sostegno sociale (Ways to get support ) [19].

In letteratura troviamo tre studi aperti [15,16,17] e due studi randomizzati controllati [18,19] che esaminano l’efficacia della CFF-CBT. Questi suggeriscono un miglioramento dei sintomi sia quando il trattamento era fornito individualmente [15] sia in gruppo [17]. In particolare, i pazienti riportavano una riduzione dei sintomi maniacali [15-19], depressivi [15,16,18,19] e minori disturbi del sonno [15,16]. Il miglioramento sintomatologico incideva significativamente nel funzionamento adattivo globale [15,17] e si manteneva anche a distanza di tempo dalla conclusione del programma [16,18].

 

La terapia dialettica comportamentale per adolescenti (Dialectical Behavioral herapy for Adolescents, DBT-A)

La DBT [20] è una psicoterapia basata sull’evidenza sviluppata per gli adulti con disturbo borderline di personalità. Il principale obiettivo della DBT è diminuire la disregolazione emotiva, caratterizzata da un’alta sensibilità allo stimolo emotivo, estrema intensità emotiva e un lento ritorno allo stato emotivo di base. La ricerca indica che gli adolescenti con disturbo borderline di personalità presentano una gamma di emozioni estreme positive e negative [21] e la letteratura recente postula che la caratteristica clinica di base sottostante il disturbo bipolare nei bambini sia proprio la disregolazione emotiva [22]. Il disturbo bipolare in adolescenza è anche associato a comportamenti suicidari [23, 24], deficit interpersonali [25], e non aderenza al trattamento [26], tutte le caratteristiche di base di trattamento DBT.

Questo intervento manualizzato [27] incorpora modifiche adeguate all’età per gli adolescenti con comportamenti suicidari e modifiche specifiche per la popolazione bipolare. Durante il periodo iniziale di trattamento (dal primo al sesto mese) i pazienti partecipano a 24 sedute settimanali di 60 minuti, alternando 12 sedute di skill training familiare e 12 sedute di terapia individuale. La fase di continuazione del trattamento (dal settimo al dodicesimo mese) consiste, invece, in 12 sedute a cadenza mensile, di cui 6 di terapia individuale e 6 di skill training familiare. L’obiettivo è consolidare i miglioramenti ottenuti e rivedere l’impiego delle abilità acquisite [28].

In letteratura troviamo due studi che esaminano l’efficacia di questo intervento adattato al disturbo bipolare nei bambini: uno studio aperto [28] e uno studio randomizzato controllato [29], sviluppati entrambi da Goldstein. Entrambi hanno evidenziato un miglioramento significativo rispetto a comportamenti suicidari, sintomi depressivi e disregolazione emotiva.  L’RCT [29] riporta, inoltre, un miglioramento significativo dei sintomi maniacali.

 

La terapia interpersonale e dei ritmi sociali per adolescenti (IP/SRT_A)

Sebbene il disturbo bipolare sia sotteso da una chiara vulnerabilità genetica e da una disregolazione neurotrasmettitoriale, i fattori scatenanti gli episodi acuti, in particolare maniacali, sono correlati a fattori psicologici ed ambientali. Infatti, l’influenza degli eventi vitali stressanti, dei cambiamenti dei ritmi circadiani, dei livelli di supporto sociale ma anche dei ruoli e dei ritmi sociali sono riconosciuti come elementi di rischio nel precipitare gli episodi di malattia in soggetti predisposti. Poiché in adolescenza vi è una maggiore probabilità del verificarsi di tali condizioni, Hlastala e colleghi [30] hanno sviluppato una nuova terapia psicosociale “ibrida” che deriva dalla terapia interpersonale per la depressione unita all’importanza di focalizzarsi sulle situazioni di vita legate ai ritmi circadiani. IP/SRT consiste di 16-18 sedute svolte nell’arco di 20 settimane, la maggior parte delle quali si svolgono solo con l’adolescente, oltre a 2-3 sedute di psicoeducazione familiare [30]. Gli obiettivi primari di IPSRT-A comprendono la gestione dell’aderenza alla farmacoterapia, dello stress interpersonale e della disregolazione del ritmo circadiano.

Uno studio pilota condotto su 12 adolescenti con disturbo dello spettro bipolare ha evidenziato miglioramenti nella sintomatologia maniacale e depressiva, i sintomi psichiatrici generali, e funzionamento globale [30]. Attualmente, gli autori del precedente studio stanno conducendo uno studio randomizzato controllato su adolescenti (età 12-19 anni), per i quali verrà impiegata la terapia IPSRT-A di 18 sedute (16 settimanali e 2 bisettimanali).

 

Conclusioni

Questo articolo rappresenta un revisione della letteratura esistente rispetto agli interventi psicosociali in associazione alla farmacoterapia per il disturbo bipolare nei bambini.

Secondo i criteri della Task Force on the promotion and Dissemination of Psychological Procedures, ad oggi non esistono interventi psicosociali ben consolidati per il trattamento del disturbo bipolare nei bambini. Alcune terapie, tuttavia, hanno ottenuto una validazione clinica maggiore rispetto ad altre, come ad esempio la psicoeducazione multifamiliare per soggetti in fase prepuberale (MF-PEP) e la terapia centrata sulla famiglia per adolescenti (FFT-A). Queste terapie sono considerate “probably efficacious”, poiché il trattamento risulta più efficace rispetto ad alcun trattamento o alla lista di attesa di controllo.

Grazie alla validazione empirica raggiunta attraverso studi randomizzati controllati, la terapia cognitivo-comportamentale focalizzata sul bambino e sulla sua famiglia appartiene agli interventi “possibly efficacious”, mostrando un miglioramento dei sintomi sia quando il protocollo di trattamento riguardava il singolo [16] sia il gruppo [17]. I miglioramenti ottenuti rimanevano stabili anche quando si aggiungeva una fase di mantenimento al trattamento, che comprendeva sedute psicoterapeutiche di richiamo e assistenza nella gestione della farmacoterapia [16].

La terapia dialettica comportamentale (DBT) può rappresentare una valida alternativa per la gestione dei comportamenti suicidari e nel trattamento dei sintomi depressivi; tuttavia, questa terapia è classificata come “experimental”, pertanto sono necessari ulteriori studi di maggior rilevanza empirica per garantirne l’efficacia.

Infine, la Terapia Interpersonale dei Ritmi Sociali (IP/SRT) evidenzia risultati preliminari incoraggianti ma ha anch’essa bisogno di ulteriori ricerche empiriche. Ad oggi, il mancato utilizzo di ampi campioni e di gruppi di controllo hanno minato la potenza statistica e la validità interna dei risultati ottenuti.

Lo yoga sta dilagando sul posto di lavoro: 1 lavoratore su 7 lo pratica

I lavoratori americani stanno diventando sempre più consapevoli: un nuovo studio condotto su più di 85000 soggetti ha evidenziato che dal 2002 al 2012 la percentuale di chi medita è aumentata (dall’8% al 9,9%) e la diffusione dello yoga è quasi raddoppiata (dal 6% all’11%).

 

Lo yoga e la meditazione: sempre più frequenti tra i lavoratori

Questa è un’ottima notizia, come suggeriscono gli autori, dal momento che le attività come lo yoga e la meditazione migliorano il benessere dei lavoratori e la loro produttività. [blockquote style=”1″]La nostra scoperta di elevati e crescenti tassi di esposizione a pratiche di consapevolezza tra i lavoratori statunitensi è molto incoraggiante[/blockquote] hanno affermato gli autori su Preventing Chronic Disease, rivista scientifica istituita dal Centers for Disease Control and Prevention (CDC). [blockquote style=”1″]Circa 1 lavoratore su 7 ha affermato di impegnarsi in qualche forma di attività basata su pratiche di consapevolezza, beneficiando degli effetti di tali pratiche sul luogo di lavoro.[/blockquote]

Lo studio ha rivelato che chi è occupato è più propenso a praticare tecniche di consapevolezza rispetto a chi è disoccupato. Tuttavia, ai partecipanti dello studio non è stato chiesto dove e quando praticano queste attività, pertanto non si sa quante persone le svolgano effettivamente sul posto di lavoro. A tal proposito, gli autori sottolineano che l’integrazione delle pratiche di consapevolezza sul posto di lavoro – attraverso programmi di promozione del benessere dei dipendenti e di riduzione dello stress, lezioni di yoga e di meditazione- può essere un modo per le aziende di incoraggiare i propri lavoratori a parteciparvi.

Lo studio ha individuato quali settori necessitino di un aumento della diffusione di tali pratiche: gli operai (mansioni fisiche e manuali) e i lavoratori del settore dei servizi sono meno propensi a praticare tecniche di consapevolezza rispetto agli impiegati (mansioni più intellettuali e meno fisiche), e i lavoratori agricoli lo sono anche meno. Il reddito familiare e il livello di istruzione in parte motivano queste disparità, ma non del tutto. Dal momento che i datori di lavoro possono beneficiare degli effetti di queste attività praticate dai lavoratori dei settori sopracitati, dovrebbero coinvolgerli nella pianificazione e promozione di tali pratiche anche per gli altri dipendenti. Gli ostacoli istituzionali, come la mancanza di fondi, la mancanza di tempo o le convinzioni personali devono essere indirizzate a rendere queste pratiche a disposizione di tutti i lavoratori.

 

I benefici dello yoga sui lavoratori

In precedenti ricerche, questi tipi di interventi sul posto di lavoro sono stati associati ad una serie di benefici per i dipendenti. Praticare lo yoga o la meditazione ha dimostrato di ridurre il burnout e i disturbi dell’umore tra chi si occupa di assistenza sanitaria e di migliorare la qualità del sonno tra gli insegnanti. Gli autori non hanno trovato alcuno studio sugli effetti delle tecniche di consapevolezza specificamente focalizzato su operai o lavoratori agricoli.

Lo studio ha anche esaminato la prevalenza di altre due pratiche di consapevolezza: il Tai Chi e il Qi Gong, ma non ha evidenziato nessun cambiamento sostanziale nei tassi di prevalenza nel corso del tempo. Yoga e meditazione sono probabilmente più popolari perché hanno ricevuto molta più attenzione nel corso degli ultimi due decenni.

Nel complesso, le pratiche di consapevolezza consentono di affrontare molteplici esigenze sul posto di lavoro per il benessere sia dei lavoratori che dei datori di lavoro. Le tecniche di consapevolezza sono importanti per la gestione delle pressioni e dello stress sul posto di lavoro, non importa quale sia il lavoro svolto: le tecniche mente-corpo come lo yoga possono aiutare sia chi svolge un lavoro manuale duro sia chi trascorre la sua giornata lavorativa seduto ricurvo davanti a computer. Sarebbe bene inserire un po’ di queste pratiche durante la giornata lavorativa, anche svolgendo un semplice esercizio di respirazione. La ricerca ha dimostrato che la respirazione lenta e profonda può avere effetti reali sul fisico, tra cui ad esempio il controllo della pressione sanguigna o il miglioramento della frequenza cardiaca. Questo tipo di respirazione aiuta a liberare la mente e ci ricorda che siamo responsabili del nostro respiro e del nostro corpo. E’ un ottimo strumento per evitare reazioni impulsive e avere un miglior controllo della situazione!

Claustrofobia e Agorafobia: Un problema relazionale?

Claustrofobia e Agorafobia sono entrambi Disturbi d’ansia (DSM 5, 2014), in particolar modo Fobie. Esse consistono in una paura estrema di qualcosa di oggettivamente non così pericoloso. Il soggetto riconosce l’irrazionalità della sua paura, ma non riesce a controllarla ed è costretto a fuggire dall’ oggetto fobico. Nell’ articolo approfondiremo come la fobia, in particolar modo degli spazi chiusi e degli spazi aperti, nasconda un problema di natura profondamente relazionale.

 

La fobia secondo la psicoanalisi

Secondo Freud (1894), la fobia ha origine dalla rimozione dalla propria coscienza di desideri proibiti. Essi verrebbero quindi disconosciuti e poi proiettati su un oggetto, che scatenerà dunque la fobia. Lo spostamento del proprio affetto inaccettabile (che sia la rabbia o un desiderio sessuale) su un oggetto o su una situazione esterna consente dunque l’ evitamento: non avvicinandomi a quella circostanza posso non entrare in contatto con i sentimenti che mi fanno paura. Secondo l’approccio psicodinamico, l’ oggetto fobico avrà una connessione indiretta col vero problema dell’individuo: lo simbolizza. La capacità simbolica del nostro inconscio è infatti la sua forza più sorprendente.

 

La teorizzazione cognitiva della fobia

Guidano (1988), sul versante cognitivo, ha invece sottolineato come la tendenza del soggetto fobico sia quella di rispondere con paura ed ansia a ciò che viene percepito come perdita di protezione e/o perdita di libertà.

Ugazio (1998), esponente della teoria sistemico-relazionale, conia il concetto di polarità semantiche: ogni famiglia si organizza intorno ad alcune polarità che definiscono cosa è rilevante per quel nucleo e per la definizione di sé e dei suoi componenti. Ad esempio: buono/cattivo; dare/prendere; sincero/falso. Secondo l’approccio sistemico-cognitivo, l’area saliente per un individuo con un’ organizzazione fobica è la seguente: bisogno di protezione/libertà. Questi estremi sono vissuti come reciprocamente escludentesi e non conciliabili, e viene valorizzata soprattutto la polarità “libertà-indipendenza”, su cui verrà basata la propria autostima e il senso di competenza.

Secondo Ugazio, l’ organizzazione fobica è un assetto che si sviluppa nel bambino a partire dalle prime esperienze con una figura di attaccamento che scoraggia in lui un comportamento esplorativo e che gli trasmette una definizione negativa di sé. Tale organizzazione può poi dare origine a comportamenti sintomatici, nell’infanzia o nell’adolescenza, in seguito a eventi eccessivamente intensi che tocchino una delle due polarità.

 

La claustrofobia e l’agorafobia secondo la teoria cognitiva

Il dilemma del fobico è quindi: rinuncio alla sicurezza della compagnia in modo da essere libero (ma anche solo di fronte ai pericoli) oppure rinuncio alla libertà di esplorazione in cambio di una protezione che mi rassicura (ma che può anche soffocarmi)? Le vie di uscita sono due strade dicotomiche: o aderisco a un’immagine di me che esclude fragilità e debolezza e identifica l’autostima con l’indipendenza, oppure mi imbarco in rapporti affettivi stretti dai quali dipendere. La prima coincide con la claustrofobia, la seconda con l’ agorafobia. La persona con claustrofobia sente pericolose le situazioni che interpreta come perdita di libertà (come un rapporto troppo stretto o la nascita di un figlio), l’ agorafobico ha paura di ciò che vive come perdita di protezione (la fine di una storia d’amore o un lavoro che richiede più responsabilità). Si tratta di un continuum ai cui estremi abbiamo da una parte la scelta di essere indipendente ma rinunciare a un coinvolgimento emotivo, dall’altra essere protetti da un legame ma avere una bassa autostima.

Il claustrofobico può avere un legame affettivo purché a basso coinvolgimento. Sceglierà un partner dal profilo basso: poco brillante, dipendente, che si coinvolge emotivamente per entrambi. Nella coppia è in posizione “one up”, è accentratore, fuggitivo e svalutante. L’ agorafobico, al contrario, privilegia la relazione a scapito del sé. Per paura di perdere il legame, controlla le persone significative e sottopone la relazione a continue verifiche. Il fatto di non essere indipendente compromette il suo senso di realizzazione. Si legherà in giovane età a un partner apparentemente forte e protettivo a cui dedicherà tutto. Nella coppia è in posizione “one down”.

L’ organizzazione fobica di un individuo, che risulta esemplificativa nei due estremi “claustrofobico” e “agorafobico”, affonda quindi le radici in difficoltà relazionali che si esprimono in una modalità non equilibrata di vivere la relazione: il primo tende a sentirsi soffocato (gli spazi chiusi lo angosciano), il secondo ha paura che, solo e sperduto in balìa del pericolo, nessuno lo salvi (gli spazi aperti e dispersivi gli trasmettono senso di minaccia e mancata protezione). Diceva lo scrittore Robert Heinlein: “Puoi avere la pace. Oppure puoi avere la libertà. Non sperare di averle tutte e due insieme”. Ma non è detto: le due strategie, adattive solo sul breve periodo, possono essere col tempo, attraverso la psicoterapia, sostituite da un atteggiamento costruttivo capace di smussare la continua tensione tra i due poli. Riconducendo l’angoscia al terreno relazionale, sarà possibile raggiungere una riconciliazione armonica tra bisogni e paure, e una nuova capacità di apprezzare se stessi nello spazio dinamico dell’esistenza.

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