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Odontofobia nei bambini: come trattare la paura del dentista nei più piccoli?

L’ odontofobia è stata riconosciuta come una vera e propria malattia, le persone con odontofobia sono normalmente portate a rimandare continuamente le cure, una particolare attenzione viene posta all’infanzia, un periodo delicato in cui l’esordio della paura del dentista e dell’ansia per le cure odontoiatriche è più frequente.

Valentina Pozzesi, Martina Spelta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

 

Odontofobia: cos’è e come si manifesta

Attualmente l’ansia e la paura dentistica rappresentano un problema clinico essenziale. Reazioni di ansia e paura sono condizioni emotive molto diffuse, ma talvolta possono impedire il corretto svolgimento dei trattamenti odontoiatrici, inficiando sulla salute orale del soggetto.

Per questo, si stanno esplorando differenti vie che possano rendere il trattamento odontoiatrico meno traumatico per il paziente che soffre di ansia o paura e garantire a esso il mantenimento della salute.

L’ odontofobia è stata riconosciuta dall’Organizazione Mondiale della Sanità come una vera e propria malattia, per questo non può più essere considerata un capriccio. È stata inserita nell’International Classification of Disease (ICD-10) tra le fobie specifiche (OMS, 1996).

Secondo le stime dell’OMS riguarderebbe il 15-20% della popolazione. Le persone con odontofobia sono normalmente portate a rimandare continuamente le cure, aggrappandosi a terapie farmacologiche (antibiotici, antidolorifici) che ritardano la soluzione del problema.

 

L’ odontofobia nei bambini

Una particolare attenzione viene posta all’infanzia, un periodo delicato in cui l’esordio della paura del dentista e dell’ansia per le cure odontoiatriche è più frequente.

Indipendentemente dall’età molti bambini sono molto resistenti e in grado di sopportare molto, mentre altri sono vulnerabili e rispondono negativamente anche a piccoli stimoli stressanti. L’equipe odontoiatrica non può influenzare questi fattori, ma dovrebbe dimostrarsi sensibile e adattare a essi la strategia di trattamento. I fattori dentali sono quelli che l’equipe può tenere sotto controllo. Gli aspetti principali sono rappresentati dalla prevenzione del dolore e del disagio e dal tentativo di stabilire una buona relazione psicologica tra il bambino e i genitori da una parte e l’equipe odontoiatrica dall’altra.

 

Il paziente pedodontico

Una classificazione dei pazienti pedodontici risulta utile per conoscere le caratteristiche del bambino con paura del dentista e quindi per facilitare la relazione e il lavoro con esso. Per elaborarla è necessario tenere conto non solo del comportamento manifesto ma anche di eventuali problemi fisici, mentali, psicologici e sociali che possono limitare la terapia odontoiatrica e le misure preventive o aumentare il rischio di insorgenza di determinate patologie (Dorfer, 1997).

Una delle classificazioni più semplici dei pazienti è stata introdotta da Wright (2002). Partendo dal presupposto che la cooperazione sia uno dei fattori principali nella riuscita di un trattamento, essa distingue i bambini collaboranti, i bambini privi di capacità di collaborazione e quelli potenzialmente collaboranti. I pazienti potenzialmente collaboranti, a differenza di quelli che non lo sono, pur non manifestandolo, possono cooperare con l’odontoiatra se aiutati nel modo giusto. Tra i pazienti che non collaborano si trovano di solito soggetti portatori di specifiche patologie fisiche e/o psicologiche, portatori di handicap e soggetti con odontofobia, che manifestano fobie o ansia verso il trattamento.

I pazienti possono essere affetti da diverse tipologie di problemi. I problemi fisici possono riguardare, per esempio, patologie cardiocircolatorie, patologie renali, disturbi endocrini, patologie intestinali croniche, allergie, patologie del sistema immunitario, patologie del sangue, patologie della pelle e patologie del sistema neuromuscolare. Problemi mentali riguardano l’invalidità o patologie mentali croniche come la trisomia 21, l’autismo e il ritardo mentale. Per quanto riguarda i problemi psichici si possono osservare pazienti con disturbi d’ansia o fobie. Infine i problemi di natura sociale possono riguardare soggetti con basso livello socio-culturale o appartenenti a minoranze etniche. I pazienti possono appartenere a più categorie presentando varie caratteristiche.

In passato non era data particolare attenzione alla gestione dei piccoli pazienti, questi si trovano spesso a dover affrontare la prima visita odontoiatrica a causa di una urgenza e quindi senza venire preparati al trattamento ed inoltre i pazienti di qualsiasi età venivano trattati allo stesso modo (Koch e Staehle,1997). Per questo era più facile che il trattamento si trasformasse in una esperienza dolorosa e traumatica portando conseguenze negative sui successivi rapporti col dentista e sulla salute orale. Oggi, invece, un pedodonzista e i suoi collaboratori devono usare una strategia integrata facendo riferimento a più discipline, per avere una visione più ampia possibile delle problematiche che affrontano (Wright, 2002).

 

Il ruolo dello psicologo in campo odontoiatrico

Come precedentemente accennato, riveste una certa importanza il riuscire a discriminare in odontoiatria la presenza di psicopatologie nel paziente come in casi di odontofobia, competenze conoscitive minime, queste, di cui l’operatore odontoiatrico dovrebbe disporre al fine di decidere se intervenire appoggiandosi a qualcuno maggiormente competente, uno psicologo, inviandogli il paziente, in modo tale da poterlo trattare in modo completo.

Gli obiettivi di un lavoro psicologico in ambito odontoiatrico solitamente si concentrano sui temi del rilassamento, della distrazione, di un miglior rapporto con l’equipe (Casilli, D’Avenia, 2006), questi hanno lo scopo di rendere al paziente con odontofobia più facile il sottoporsi alle cure che possono incutere timore. L’invio allo psicologo da parte dell’odontoiatra dovrebbe avvenire quando il paziente è fobico evitante o quando c’è un forte stato di paura e tensione che rende la vita del paziente particolarmente difficile, pur in assenza di fobia (Casilli e D’Avenia, 2006), e quindi non consente all’odontoiatra di intervenire sul paziente stesso.

La richiesta di consulenza dello psicologo pone in primo luogo la necessità di sviluppare un canale comunicativo con l’odontoiatra, in questi casi la differenza di competenze e di ambiti operativi favorisce la costruzione di relazioni equilibrate, la difficoltà che a volte si incontra è quella di conciliare il linguaggio medico con quello psicologico

 

Quale approccio utilizzare con bambini che hanno paura del dentista?

Per facilitare la cooperatività del bambino ci sono dei principi condivisi da vari autori (Wright, 2002; Koch e Staehle,1997) da rispettare, alcuni riguardano l’odontoiatra e le caratteristiche che deve avere per una buona riuscita del trattamento.

Quando un bambino si trova ad affrontare una visita odontoiatrica vari fattori entrano in gioco a determinarne la condotta. Per quanto riguarda il tempo è necessaria una adeguata organizzazione che tenga conto delle caratteristiche dei pazienti, nel caso di un bambino che è alla prima visita, che ha paura del dentista o comunque presenta difficoltà sarebbe sempre meglio disporre gli appuntamenti in modo tale da garantire al paziente il tempo necessario affinché il trattamento sia il migliore possibile che si possa fornire (Pasini, 1992, Wright, 2002) dando al paziente la possibilità di comprendere, adattarsi alla nuova situazione ed evitare l’instaurarsi di ulteriori paure e fobie.

L’approccio degli odontoiatri deve essere lento e graduale, indirizzato verso il gioco e la conquista della fiducia del bambino. L’atteggiamento amichevole e positivo, comprensivo e paziente, dovrebbe avere l’effetto di calmare e rassicurare il bambino con paura del dentista.

Il dentista dovrebbe, inoltre, essere disposto ad un rapporto empatico. L’atteggiamento informale del curante, spesso, ha l’effetto di calmare il paziente.

Odontoiatra e collaboratori dovrebbero essere capaci di affrontare in modo razionale i comportamenti negativi dei bambini essendo quindi tolleranti (Wright, 2002), inoltre un operatore dovrebbe conoscere i propri limiti di tolleranza in modo da evitare la eventuale perdita di autocontrollo.

È considerato controproducente l’utilizzo di minacce o obblighi riferiti al trattamento odontoiatrico, questi non possono che peggiorare la situazione di un bambino che già manifesta paura del dentista o timori riguardo del trattamento stesso. I bambini più maturi e adolescenti non devono essere trattati in maniera accondiscendente, anche se spesso gli atteggiamenti e i loro comportamenti sono provocatori. Essi devono avvertire il livello ragionevole di equità nella situazione.

Quando possibile, si dovrebbe introdurre gradualmente al trattamento il piccolo con paura del dentista o altre ansie relative alla cura odontoiatrica, magari presentando gli strumenti che si utilizzeranno, iniziando da quelli più semplici. Durante la seduta è utile fornire al bambino degli strumenti di controllo sulla situazione come per esempio l’alzare la mano per chiedere una pausa, strategia che aumenta la collaborazione (Guastamacchia e Tosolin, 1997) e permette di diminuire gli stati ansiosi.

Il condizionamento operante ha effetto in pedodonzia nel modificare i comportamenti, sia per aspetti positivi che per aspetti negativi (Magro e collaboratori, 2000; Anolli e Legrenzi, 2001). Si dovrebbero dare rinforzi positivi al bambino con paura del dentista magari congratulandosi con lui per essere stato bravo durante la visita, in ogni caso la conclusione di una seduta deve sempre avere valenza positiva affinché la seduta successiva il paziente mantenga un comportamento collaborante (Koch e Staehle,1997). In senso negativo il condizionamento operante si ha per esempio se una visita è stata interrotta causa di un comportamento del paziente stesso, tale comportamento viene rinforzato poiché il bambino che non è disposto con lavorare lo interpreta con successo, sia quindi un rinforzo negativo perché il bambino nella seduta successiva si comporterà allo stesso modo.

È fondamentale che il bambino si senta sicuro. Per favorire questo è necessario che si sia instaurato un buon rapporto tra il bambino, la persona che lo accompagna e l’equipe odontoiatrica, gli stimoli dolorosi devono essere minimi e il bambino deve avere la percezione di avere la situazione sotto controllo. Lo stabilirsi di una buona relazione si basa sulle competenze comunicative dell’équipe. La modalità di comunicazione deve essere adattata all’età e alla maturità del bambino, può essere verbale o non verbale.

Per i pazienti ansiosi la comunicazione non verbale è importante quanto il linguaggio parlato. Quando il bambino è accompagnato dai genitori, è necessario stabilire una adeguata comunicazione sia con il bambino che con gli adulti. Bisognerebbe evitare di separare i bambini piccoli, soprattutto quando manifestano paura del dentista, dai propri genitori durante la fase iniziale del trattamento, poiché l’ansia per la separazione potrebbe aumentare il loro livello di stress generale e ridurne la capacità di comunicazione. Da un punto di vista pratico innanzitutto ci si pone il problema se far entrare o meno l’accompagnatore durante la visita, se il bambino non ha particolari problemi è consigliato far entrare l’accompagnatore le prime volte per poi renderlo più autonomo le volte successive (Koch e Staehle, 1997). A meno che il bambino si mostra particolarmente disposto a entrare da solo già alle prime visite. Si deve lasciare parlare i bambini per poi porre delle domande, successivamente si inizia la visita.

Prima di intervenire è necessario il consenso dei genitori, per questo devono sempre fornire le informazioni necessarie considerando che anche il bambino sta ascoltando, evitando elementi che potrebbero risultare troppo ansiogeni (Koch e Staehle,1997). Le diagnosi devono essere fatte con chiarezza e spiegate con termini accessibili, anche in base all’età del paziente.

È poi importante che il bambino abbia alcuni appuntamenti con l’odontoiatra senza provare dolore e altri tipi di avversità prima di sperimentare i trattamenti che potrebbero provocare disagio o dolore. Ripetute visite odontoiatriche in assenza di dolore possono vaccinare il bambino contro la paura del dentista o l’ansia legata alle terapie odontoiatriche. Indipendentemente dall’uso di tecniche per ridurre il dolore, prima di un possibile evento doloroso, deve informare il bambino su ciò che sta per accadergli. Grazie alla riduzione degli elementi di sorpresa e all’aumento della prevedibilità e del controllo, ciò potrà condurre a una riduzione delle sensazioni immediate di paura del dentista e avere forse lo stesso effetto in una prospettiva a lungo termine.

Il modellamento del comportamento dei bambini implica una preparazione al confronto con gli strumenti e le tecniche usate dall’odontoiatra. Il modellamento del comportamento è necessario per ogni bambino che siede sulla poltrona dell’odontoiatra. In odontoiatria il tipo di modellamento del comportamento più comunemente accettato si basa sul concetto di esposizione alla terapia. I pazienti sono progressivamente esposti a tecniche e strumenti in grado di provocare ansia potenziale. A ogni tappa si ha un moderato aumento dello stress della paura: i pazienti sono tenuti in queste situazioni di esposizione finché non si ha una riduzione delle loro reazioni di spavento. In tal modo si crea la sensazione di essere capaci ad affrontare questi stimoli. Se una esposizione è interrotta prima che la paura sia ridotta, il livello di paura aumenta e produce una sensazione di sconfitta e perdita delle capacità di affrontare la situazione (Koch e Poulsen, 2001).

Altra tecnica utilizzata è quella della desensibilizzazione. Sono previsti i passaggi relativi al trattamento a cui si ritiene sottoporre il bambino. Per esempio l’utilizzo della anestesia locale è di estrema importanza per il trattamento del dolore dentale, ma per molti bambini la vista della siringa e della tecnica di iniezione è spesso già di per se è in grado di destare paura. I vari passaggi in cui si articola la procedura permettono al bambino di avere una conoscenza sostanziale di ciò che sta accadendo, di avvertire una minima stimolazione dolorosa e di acquisire in qualche misura una sensazione di controllo della situazione. A ogni esposizione l’applicazione di questi temi che dipende dall’età della maturità del bambino.

Il tenere a mente queste strategie molto semplici quando si raccoglie l’anamnesi all’inizio della visita odontoiatrica, come durante il successivo esame orale e trattamento odontoiatrico, è la chiave di volta per la creazione di un buon ambiente psicologico nella situazione di trattamento.

Poiché i problemi comportamentali, la paura del dentista e l’ansia per le terapie odontoiatriche sono sovente motivi più frequenti per cui i pazienti si rivolgono agli odontoiatri infantili, ci si può chiedere se a questi ultimi debba essere attribuita una particolare responsabilità per il trattamento con questi bambini tutti gli odontoiatri che trattano pazienti in età infantile devono possedere una conoscenza sostanziale e atteggiamenti volti a prevenire problemi comportamentali e l’ansia per le terapie odontoiatriche, oltre a essere in grado di occuparsi dei bambini che presentano questi problemi.

È importante che gli odontoiatri infantili siano promotori di una strategia in cui il punto di vista dei bambini sia preso in considerazione dall’inizio alla fine del lavoro. Essi dovrebbero rappresentare il punto di vista dei bambini quando non è possibile un loro coinvolgimento (Koch e Poulsen,2001), cercando di immaginare quali possono essere le loro prospettive e, quando necessario, sostituirsi al loro per salvaguardarne l’autonomia.

 

La paura del dentista nei più piccoli: conclusioni

In conclusione, l’obiettivo da perseguire quando ci si trova a contatto con bambini nel contesto odontoiatrico, dovrebbe essere la presa in carico del paziente nella sua globalità. L’odontoiatra e la sua equipe dovrebbero fare il possibile per mettere il piccolo a suo agio, coinvolgendolo nel trattamento e motivandolo alla prevenzione, al fine di ottenere la sua collaborazione e quella dei genitori, giungendo così a una migliore cura e gestione di esso, garantendogli delle esperienze odontoiatriche positive e un’educazione ottimale verso una corretta igiene orale.

7 minuti: l’influenza della minoranza come arma contro la paura individuale – Cinema & psicologia

In questo credo stia la grandezza di 7 minuti, il nuovo film di Michele Placido. Nell’aver fornito uno strumento contro la paura e nell’averne dimostrato le straordinarie capacità. Perché ciò che permette a quelle undici donne, spaventate dal cambiamento e incredule di fronte a una proposta inimmaginabile, di superare la paura, è l’essere un gruppo, all’interno del quale ogni voce è importante ma non superiore alle altre.

 

Quando vi propongono modifiche al contratto di lavoro

Immaginate di lavorare per un’azienda da poco ceduta ad una grande multinazionale. Immaginate di venir chiamati una mattina dal vostro capo ufficio per rivedere il vostro contratto di lavoro. Persino al più ottimista non sembrerebbe una felice occasione.

Ora immaginate che l’unica modifica contrattuale che vi proponga consista in una riduzione di 7 minuti della pausa giornaliera.

Respiro di sollievo. Un punto per l’ottimista!

La paura di esser licenziati, messi in cassa integrazione o in mobilità cederebbe il posto all’incredulità. Possibile che si tratti veramente solo di questo? Di dover rinunciare a 7 dei trenta minuti di pausa, lasciando invariato tutto il resto? Se non fosse il vostro titolare a dirvelo, pensereste certamente a uno scherzo.

Vi sentireste sollevati,  il vostro posto sarebbe salvo. Non chiedereste altro che poter firmare questa proposta, così da renderla effettiva, concreta, reale.

Immaginate, però, che vi venga offerto un tempo per pensare all’offerta, prima di scegliere se accettarla o meno. Vi sembrerebbe assurdo. A cosa dovreste pensare? In fondo poteva andare molto peggio, potevate perdere il lavoro. Allora sì che avreste desiderato avere tempo per pensare, avreste desiderato poter avere la possibilità di scegliere se accettare o meno.

Due ore. Il tempo che vi viene concesso prima di firmare. E allora, seppur contrariati e infastiditi, forse iniziereste a pensare.

Qual è il senso di questa richiesta? Perché la vostra azienda dovrebbe chiedervi di rinunciare a 7 minuti della pausa alla quale avete diritto? Ma soprattutto, perché all’improvviso, di fronte alla paura di esser licenziati, 7 minuti non sembrano valere nulla? Come avreste reagito a questa proposta se la situazione fosse stata diversa? Se l’azienda per la quale lavorate non fosse stata ceduta, ma anzi stesse attraversando uno dei suoi migliori periodi, avreste accolto di buon grado questa richiesta?  In altre parole, che valore avreste dato a quei sette minuti? Tutto a un tratto vi sarebbero sembrati importanti e vi sareste sentiti in diritto di rifiutare o, perlomeno, ritrattare l’offerta.

Però l’azienda è stata ceduta, questo è un dato di fatto. E le politiche di riduzione del personale sono all’ordine del giorno in questi casi. Quindi, di fronte alla possibilità di perdere il lavoro, scegliereste di rinunciare a quei minuti.

 

Quanto possono valere 7 minuti di lavoro

Immaginate ora che l’azienda per la quale lavorate abbia 300 dipendenti, a ciascuno dei quali è stata proposta  la stessa modifica contrattuale. In termini numerici, questo cosa comporrebbe?

Facciamo un po’ di calcoli. 7 minuti al giorno, per cinque giorni, per 300 dipendenti. 10500 minuti a settimana, 175 ore.

Quelli che, fino a un attimo fa, sembravano solo 7 minuti, all’improvviso diventano 175 ore di lavoro, corrispondenti al monte ore settimanale di circa 6 dipendenti.

Da un giorno all’altro, iniziereste a lavorare come 306 dipendenti, pur essendone 300, continuando a percepire lo stesso stipendio.

Però tutto ha un costo. E se il prezzo da pagare per mantenere il posto di lavoro fosse rinunciare a 7 minuti, pur consapevoli del valore che essi hanno, forse è un prezzo che chiunque sarebbe disposto a pagare.

Ma siamo sicuri di aver compreso realmente il valore di quei minuti?

E se questa modifica contrattuale non fosse altro che una prova per testare quanto siamo disposti a fare, pur di mantenere il posto? Se in realtà, concedendo questi sette minuti, stessimo in realtà dicendo che faremmo qualunque cosa? Che peso avrebbero, in questa luce, quei minuti? Chi di noi potrebbe esser sicuro che, di lì a poco, le richieste non diventeranno ben più onerose, ma stavolta impossibili da rifiutare?

Perché, se ci pensate, nessuno in realtà vi stava costringendo ad accettare quella modifica. Vi era stata proposta, e vi era stato dato un tempo per riflettere. Cosa, allora, vi ha fatto pensare di non avere altra scelta?

La paura. La paura di contraddire il capo, di non compiacerlo. La paura di perdere il lavoro, di essere accompagnati, più o meno gentilmente, alla porta. E quando siamo spaventati, cerchiamo in ogni modo di attenuare questo sentimento. Firmare quella proposta avrebbe attenuato quella paura, prendersi tempo per pensare, invece, l’avrebbe fatta aumentare.

 

La grandezza di 7 minuti nel film di Michele Placido

In questo credo stia la grandezza di 7 minuti, il nuovo film di Michele Placido. Nell’aver fornito uno strumento contro la paura e nell’averne dimostrato le straordinarie capacità. Perché ciò che permette a quelle undici donne, spaventate dal cambiamento e incredule di fronte a una proposta inimmaginabile, di superare la paura, è l’essere un gruppo, all’interno del quale ogni voce è importante ma non superiore alle altre. Un gruppo, dove il dialogo mostra la sua superiorità rispetto al monologo, un gruppo che mostra la sua forza aggregante e dà il coraggio di superare la paura individuale.

Elegante esempio, quello di Ottavia Piccolo, dell’influenza della minoranza di cui parlava Moscovici. Priva di un potere normativo, essa può far leva sulla pressione informativa. Per questo getta la maggioranza nell’incertezza, insinuando dubbi, stimolando il bisogno di andare a fondo e di uscire dai soliti schemi. Così facendo, spinge il gruppo verso un pensiero divergente, non basato sull’accettazione o meno della tesi, ma sul confronto che faccia emergere punti di vista alternativi, allargando così il raggio di idee. In questo risiede il potere della minoranza: nel suo poter essere esercitata soltanto su una visione delle cose che il gruppo arriva a condividere, a partire da una riflessione e dall’approfondimento dei problemi. Mentre la maggioranza può imporre anche l’assurdo, la minoranza può far valere solo ciò che agli occhi del gruppo appare ragionevole.

Le relazioni che curano: la comunità per minori come base sicura

La comunità per minori diventa, per il bambino accolto, lo spazio della sua vita attuale, la sua casa. L’ambiente favorevole in cui si trova ora il minore lo aiuta a rispecchiarsi, a capire ed accettare il suo passato e a trarre spunti per la ricostruzione della propria identità personale.

Sara Scarsi

 

Comunità per minori: storia e classificazione

La nascita delle comunità alloggio per minori in Italia è da collocarsi alla fine degli anni settanta. Queste strutture, intese come alternative agli istituiti tradizionali, hanno avuto una  trasformazione lunga e complessa passata attraverso numerosi interventi legislativi diversificati.

Così come una volta esisteva una sola soluzione, l’istituzionalizzazione, ai tanti problemi dei minori, nel tempo si sono sviluppate la coscienza e la competenza tecnica per realizzare progetti mirati al contesto e alla situazione specifica del minore stesso. E’ sempre più presente inoltre, l’esigenza di un lavoro sui genitori mirato a valutarne le possibilità di recupero, lavoro che, a seconda dei casi, darà esiti differenti. In questo scenario la comunità per minori, la cui funzione sembra essere sempre più incentrata sulla protezione e la tutela del minore, è chiamata ad integrarsi in progetti a più ampio respiro e a svolgere funzioni adeguate alle necessità. Nascono dunque differenti tipologie di comunità, classificate in diverso modo a seconda del criterio utilizzato di volta in volta.

Il problema della classificazione delle strutture residenziali per minori si fa particolarmente attuale dal momento che la recente legge 328 del novembre 2000 prevede, all’ art. 11, che servizi e strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale debbano essere autorizzate al funzionamento dai comuni, e che tale autorizzazione dovrà essere rilasciata in conformità a requisiti che saranno stabiliti da una legge regionale; questa legge regionale dovrà, a sua volta, recepire e integrare i requisiti minimi stabiliti con regolamento dal Ministero per la Solidarietà sociale. I Comuni provvederanno, quindi, anche all’accreditamento delle strutture, e corrisponderanno ai soggetti accreditati tariffe per le prestazioni effettuate. Per i criteri di accreditamento saranno riferimento essenziale le Linee guida “Qualità dei servizi residenziali socio-educativi per minori” emanate dal Ministero per la Solidarietà sociale d’intesa. Le Linee Guida riprendono al loro interno, modificandola leggermente, una classificazione dei servizi per minori elaborata dalla Conferenza Stato Regioni nel gennaio del 1999.

In quella prima classificazione, la “comunità per minori” veniva definita “Presidio residenziale socio-assistenziale per minori” (termine usato nella legge 285 del 1997), e ne venivano individuate 4 tipologie: comunità di pronta accoglienza; comunità di tipo familiare; comunità educativa; istituto. Nelle Linee guida si parla invece di “Servizi residenziali socio-educativi per minori”, e la classificazione prevede quindi le altre tre categorie già individuate, con l’aggiunta del “gruppo appartamento giovani”:

  • Comunità educativa. In questo servizio l’azione educativa viene svolta da un’equipe di operatori professionali, che la esercitano come attività di lavoro;
  • Comunità di pronta accoglienza. È una comunità per minori educativa che si caratterizza per la capacità di accogliere il minore in condizioni di disagio estremo e senza un preventivo piano di intervento; la permanenza è breve, per il tempo strettamente necessario a individuare una collocazione più idonea;
  • Comunità di tipo familiare. In questo servizio le attività educative sono svolte da due o più adulti che vivono insieme ai minori, anche con i propri figli, assumendo funzioni genitoriali. Gli adulti generalmente sono un uomo e una donna; possono svolgere attività lavorativa esterna ed essere coadiuvati nelle attività quotidiane da personale retribuito;
  • Gruppo appartamento giovani. Questo servizio accoglie giovani che non possono restare in famiglia, sono vicini o hanno superato i 18 anni e devono ancora completare il percorso educativo per raggiungere l’autonomia e un definitivo inserimento nella società. Le attività quotidiane sono in gran parte gestite dai giovani stessi e l’azione educativa non richiede la presenza continua di operatori interni alla struttura.

 

Comunità per minori vittime di abuso

La comunità che accoglie vittime di maltrattamento e abuso, di cui tratto in questo articolo e che potremmo definire “tutelare”, si pone a cavallo tra due tipologie diverse. Non riconoscendosi all’interno della categoria delle comunità educative, data la necessità di non privilegiarne il taglio pedagogico, la comunità per minori maltrattati e abusati, data la sua capacità di accoglimento anche in situazione di emergenza, viene quindi più naturalmente accomunata alle comunità di pronta accoglienza. D’altra parte, una comunità che accoglie bambini maltrattati e abusati, non può certo limitarsi a dare quella risposta tipica delle situazioni di pronto soccorso, ma dovrà bensì attrezzarsi per proteggere e tutelare i suoi ospiti anche dagli stessi genitori che li hanno abusati. Né potrà esimersi dal collaborare con gli altri servizi, in favore di un’impostazione degli interventi finalizzata alla comprensione delle dinamiche e dei disagi familiari che hanno comportato lo stato di emergenza. Difficilmente questo lavoro potrà essere concluso in tempi brevi, il che contribuisce ad aumentare il grosso valore e l’importanza di questo contesto.

 

Comunità per minori o affido familiare?

Dibattiti molto accesi sono avvenuti sull’opportunità o meno di inserire bambini, soprattutto quando molto piccoli, in comunità per minori. Da più autori è stato affermato come non sia opportuno, ad esempio, inserirvi bambini e ragazzi che dovranno restarvi a lungo, sostenendo l’importanza di privilegiare l’affido familiare perché ritenuto un contesto relazionale più vicino alla normalità, più affettivo e più stabile.

Certamente l’affido etero familiare può essere una risposta adatta per un bambino che, pur non completamente “privo” della sua famiglia, ha sperimentato in essa inadeguatezza, trascuratezza e relazioni distorte; tuttavia questo non è sempre un percorso facilmente praticabile e, nel contesto di uno specifico caso, a volte può rivelarsi inopportuno. Di fatto non sempre si riescono a reperire famiglie affidatarie adeguate e necessariamente preparate ad affrontare le molteplici problematicità dei minori allontanati e delle loro famiglie d’origine.

Problematiche a volte molto gravi, come ad esempio un abuso o un grave maltrattamento, possono rendere difficile un affido familiare per le complesse dinamiche vissute e i susseguenti problemi che si dovranno affrontare. D’altro canto sono spesso i ragazzi stessi a non essere pronti ad un affido, ad “affidarsi” letteralmente a qualcuno, ad un adulto semi-sconosciuto che in breve tempo diventa “la tua famiglia”. Molti di loro sono bambini altamente traumatizzati, con alle spalle storie terribili di maltrattamento, trascuratezza ed abbandono, in altri termini sono semplicemente bambini infelici.

Infelici devono essere considerati in un modo o nell’altro tutti quei bambini della cui esistenza autonoma e dei cui bisogni di differenziazione non ci si accorge da parte di genitori che, per varie ragioni, li usano nei fatti come oggetto di prolungamento del sé invertendo una gerarchia naturale e bloccando un processo evolutivo sano.

Cancrini (2012)

 

Attaccamento nelle comunità per minori

Mentre scrivo queste righe non riesco a non pensare a loro, ai bambini e ragazzi in difficoltà che ho incontrato nel corso della mia esperienza professionale nelle comunità per minori. A Mary, ormai adolescente alle prese da sempre con una madre che l’ha abbandonata da piccola ma riappare due volte l’anno facendola scoppiare di gioia e poi nuovamente disperare ad ogni sparizione; a Luca, 13enne di una zona degradata della città con due genitori che a parole lo adorano ma sempre troppo presi dai loro problemi economici, o da furtarelli qua e là, per rendersi conto dei suoi bisogni; a Claudio, 6 anni nato da una mamma adolescente e da un papà con problemi di alcolismo e che fin da piccolo si faceva carico di prendersi cura delle due sorelline più piccole; a Fabiola, costretta fin dall’adolescenza dalla madre a rapporti sessuali con uomini adulti in cambio di aiuti economici. E ce ne sarebbero molti altri…

Quello che viene immediatamente da chiedersi è: quale sarà il futuro di questi bambini? Chi o che cosa potrà sostituire le cure e le attenzioni di cui avevano bisogno nella loro famiglia di origine? Il trauma dell’attaccamento si potrà riparare?

In questi casi ritengo che la comunità per minori possa risultare, almeno inizialmente, la collocazione più adatta.

Si fa presto ad affermare che “un bambino ha bisogno dei suoi genitori, deve stare con loro”, o  “la propria famiglia, per quanto malridotta, è comunque preferibile ad un istituto”, ma dichiarazioni come queste non tengono conto della realtà dei fatti. Se la famiglia è un “sistema”, se il comportamento di ogni individuo influenza quello degli altri e ne è a sua volta influenzato, come possiamo dire che una famiglia maltrattante o fortemente trascurante sia meglio di niente? I “bambini di comunità” sono bambini che hanno trascorso un’infanzia infelice, che nella maggioranza dei casi si porteranno sempre dietro ferite profonde e le cui ripercussioni sulla vita e sulla personalità adulta possono essere molteplici.

Dunque l’allontanamento del minore da una famiglia d’origine dannosa e maltrattante, nonostante porti con sé una grossa dose di dolore tanto per la famiglia che per il bambino e addirittura per gli operatori coinvolti, resta in una prospettiva futura, la soluzione migliore in molti casi.

Come ben sottolinea Fusi (2010), le comunità, ognuna nella sua specificità, sono portatrici di alcuni elementi che le caratterizzano.

Innanzitutto la comunità per minori è un ambiente terapeutico.

La comunità è per il minore accolto lo spazio della sua vita attuale, la sua casa. L’ambiente favorevole in cui si trova ora il minore lo aiuta a rispecchiarsi, a capire ed accettare il suo passato e a trarre spunti per la ricostruzione della propria identità personale. La comunità intesa quindi in senso terapeutico, come occasione favorevole per crescere serenamente ed essere aiutato a ripensare in modo diverso alla propria difficile storia. Nella comunità per minori vi è naturalmente un interdipendenza fra l’organizzazione della quotidianità e lo sviluppo delle competenze sociali e cognitive dei bambini.

Tutti i momenti della giornata hanno rilevanza terapeutica; momenti in cui si gioca, si mangia, si studia, momenti in cui “non si fa niente” insieme aiutano il minore a ricostruire, o spesso ad incominciare a costruire per la prima volta, una propria identità. La vita quotidiana della comunità per minori è importante perché è riparativa, in un certo senso prevedibile, familiare e quindi rassicurante (Bastianoni, 2000). Moltissimi studi e ricerche hanno confermato come, anche nel caso di bambini molto deprivati o portatori di gravi psicosi, un nuovo ambiente di vita che fornisce al minore quello che gli è mancato nei primi anni di vita può portare a risultati sorprendenti. Fondamentali in quest’ottica sono le relazioni affettive autentiche che si instaurano fra minori ed adulti (in primis gli educatori che condividono con loro la quotidianità), come punto chiave per il recupero di risorse e la nascita di nuove prospettive.

In secondo luogo la comunità per minori è un sistema di relazioni.

Innanzitutto vi sono le relazioni che si instaurano fra coloro che vivono all’interno della comunità: relazioni di adulti con minori, di minori con minori e di adulti che lavorano insieme. Ci sono poi le relazioni con l’esterno: con la famiglia d’origine, con i servizi, con i membri della rete che si prende cura del minore e con il Tribunale per i minorenni. Questa dimensione relazionale comprende sia chi accoglie, sia chi è accolto; la comunità in quest’ottica può essere considerata “luogo strutturato di relazioni e legami significativi” (Fusi, 2010). E, aspetto fondamentale, sono relazioni sane.

Le comunità residenziali di accoglimento sono strutture in grado di ospitare minori maltrattati, o a rischio di maltrattamento, allontanati per ordine del Tribunale per i minorenni che li affida al Servizio Sociale territoriale. La permanenza in comunità per minori è temporanea e dura in media il tempo necessario per la valutazione del caso e la definizione del successivo programma d’intervento. Finalità ultima della presa in carico è attivare il processo di rielaborazione del trauma subito da parte del bambino e, parallelamente, arrivare in tempi brevi alla definizione di un progetto di vita per il minore finalizzato al rientro presso il proprio nucleo familiare o, qualora questo non sia possibile, di affidamento etero familiare o adozione.

Il primo obiettivo, in ordine di tempo, della comunità per minori è quello di aiutare il bambino già traumatizzato dal maltrattamento subito, a superare lo stress dell’allontanamento dei genitori e dell’inserimento in un ambiente sconosciuto. Le comunità per minori vogliono e possono essere luoghi di accoglimento, di sosta, riposo e protezione, dove recuperare energie e prepararsi per il futuro, creando una base sicura da cui ripartire.

All’interno delle comunità opera un’equipe educativa composta da educatori turnanti presenti in struttura 24 h su 24.

I bambini e ragazzi accolti in comunità per minori provengono generalmente da storie di separazioni traumatiche dalle figure genitoriali, condizioni di maltrattamento fisico e psicologico, deprivazione affettiva e instabilità relazionale, o da percorsi interrotti di recupero emotivo-affettivo (un affidamento familiare fallito): nei settori più svantaggiati dell’utenza la gravità delle ferite si osserva con relativa evidenza sul piano dello sviluppo delle competenze cognitive, emotivo-affettive, socio-comunicative. Nelle situazioni più compromesse è il Sé ad apparire come la dimensione più danneggiata da un’inadeguata relazione adulto/bambino in ambiente familiare multiproblematico ad alto rischio psicosociale.

I bambini traumatizzati hanno sperimentato quasi sempre un attaccamento disfunzionale con le figure genitoriali e necessitano di una riparazione a tale trauma primario, sperimentando relazioni significative con figure adulte positive che possano fungere da “base sicura” da cui ripartire.

E’ qui che entrano in gioco gli educatori.

 

Il ruolo degli educatori

Cosa rappresentano dunque gli adulti che in comunità per minori intrecciano rapporti e condividono emozioni, apprendimenti e crescita con i bambini e ragazzi a loro affidati? (Barbanotti, Iacobino, 1998)

Nel contesto di un servizio tutelare residenziale la relazione educatore/ragazzo rappresenta a volte la prima relazione sana che il bambino sperimenta nel corso della sua vita; tale relazione appare quindi fondamentale e si connota di alcune caratteristiche distintive.

In primo luogo tale relazione ha una valenza sostitutiva temporanea della funzione genitoriale: l’educatore intenzionalmente agisce “come se fosse” il genitore ma senza esserlo, in luogo dei genitori reali del ragazzo; è un modello adulto e genitoriale che temporaneamente e parallelamente si affianca  alla famiglia di provenienza.

L’educatore di comunità per minori, al contrario di quelli che operano sul territorio o in centri diurni, “vive” a stretto contatto con i minori con cui lavora, mangia, dorme, guarda la televisione, cucina, passeggia a fianco del ragazzo, in una parola condivide con lui la sua quotidianità per un numero di ore talvolta di notevole importanza. Non di rado dunque si instaura tra i due una relazione forte che assume le caratteristiche di quella genitoriale.

I “bambini di comunità” necessitano di sperimentare un’esperienza relazionale ripartiva positiva, che possa fungere da riparazione rispetto ai traumi subiti con le figure di attaccamento della loro infanzia: ciò di cui hanno bisogno è una relazione affettiva ed emotiva stabile e priva dei vissuti abbandonici che hanno caratterizzato le loro precedenti relazioni significative. Grazie alla relazione con un adulto sano, costantemente presente anche nei momenti difficili, i ragazzi possono sperimentare che esistono adulti “buoni”, in grado di occuparsi di loro e di tollerare la frustrazione che deriva dal rapportarsi ad un bambino così affettivamente danneggiato.

L’educatore, a differenza del genitore adottivo o affidatario, è maggiormente in grado di tollerare il rifiuto e la svalutazione da parte del bambino: è tipica la frase “tu non sei mia mamma!”, gridata in faccia nei momenti di rabbia e sconforto che il percorso comunitario porta inevitabilmente con sé. Ma quale può essere la risposta emotiva di una mamma affidataria che, con mille sforzi e sacrifici, si sta prendendo amorevolmente cura di un ragazzino difficile e che si sente profondamente rifiutata da affermazioni del genere? Certamente non è semplice. Al contrario l’educatore adeguatamente formato, essendo naturalmente più “fuori” dalla relazione ed avendo un investimento consapevolmente e considerevolmente diverso rispetto a quello di un genitore, può comprendere le difficoltà del ragazzo con maggior facilità e sentirsi da lui meno attaccato.

La funzione ripartiva della relazione educativa sta proprio qui: l’educatore funge da contenitore per le emozioni negative, il malessere e la sofferenza del bambino, è in grado di elaborarle insieme a lui e di restituirgliele trasformate rendendole più accettabili e tollerabili.

Un positivo rapporto di attaccamento instauratosi con una figura educativa può inoltre aiutare i ragazzi  migliorando la loro percezione di sé e favorendo l’aumento dell’autostima e della sicurezza. Diventa, come accennavo prima, quella “base sicura” di cui parlava Bowlby (1989) che è tanto fondamentale per poter esplorare il mondo circostante con la consapevolezza di aver un posto sicuro in cui tornare quando se ne ha voglia.

La Carezza – Un racconto di Emiliano Avallone

Il bambino mi fissava spazientito dall’altro lato della strada. Assorbito da quel ricordo, avevo dimenticato di restituirgli il pallone. Lo calciai verso di lui. Lo fermò con il collo del piede e poi agitò la mano in segno di ringraziamento. Lo salutai e ripresi a camminare. Dentro di me sorridevo, ripensando a quella carezza di un giorno di maggio di cinquantasei anni prima.

Emiliano Avallone

 

Abito nel distretto di Tetuan dal 1957, a poche centinaia di metri dal Santiago Bernabeu. Il bar di Miguel si trova nel quartiere di Chamartin, dove sorgeva il vecchio stadio del Real Madrid. Mi fermavo al suo bar ogni pomeriggio a bere un’aranciata prima di andare alla Ciudad Deportiva a vedere gli allenamenti. A quei tempi Miguel aiutava suo padre dopo la scuola. Lo trovavo dritto dietro il bancone a pulire i bicchieri e a versare noccioline nelle ciotole, che i clienti avrebbero svuotato bevendo pinte di vino e cervezas ghiacciate. Lo conosco da più di cinquant’anni, eppure la nostra è sempre stata un’amicizia a distanza: quella del bancone del bar. Nessuno dei due ha mai oltrepassato quel confine, pur scambiandoci molte confidenze fin da quando eravamo adolescenti.

Continuo ad andarci ogni volta che posso. A sessantotto anni non bevi più aranciata ma caffè o brandy, e Miguel ora ha una lavastoviglie per i bicchieri, così abbiamo molto tempo per chiacchierare.

Quella mattina, mentre percorrevo la strada verso il bar, il pallone rotolò verso i miei piedi, interrompendo la mia camminata. Sorpreso, mi guardai intorno per capire da dove provenisse. La voce di un bambino, dall’altro lato della strada, attirò la mia attenzione. <<Senor!>> urlò, facendomi cenno con la mano di tirargli la palla. La presi, facendola girare tra le mani. Era di plastica, liscia e morbida. Non riconoscevo quell’oggetto che pure era tanto familiare. Cercavo la durezza del cuoio e le rughe delle cuciture. Provai ad annusarla, ma non sentii nulla che assomigliasse a un odore di erba o di cuoio.

Quel giorno del 19 maggio 1960 non era stato così. Ricordo che la sera prima il Real aveva vinto la sua quinta Coppa dei Campioni consecutiva, battendo in finale l’Eintracht per 7-3, con quattro reti di Kopa e tre di Di Stefano. Avevo visto la partita al bar di Miguel – a casa non avevamo il televisore – insieme a mio padre. Il mattino successivo mi svegliai presto per andare alla Ciudad Deportiva, sperando – ma forse era più un’illusione – di trovare i blancos ad allenarsi. Arrivai col fiatone e la maglietta zuppa di sudore. All’ingresso il custode non c’era. Scavalcai la staccionata laterale e mi diressi verso il campo principale di allenamento, senza trovare nessuno. Ero deluso.

Ad un tratto un pallone rotolò verso di me dopo alcuni sobbalzi sul terreno. <<Ehi, nino, tiramelo por favor!>> esclamò una voce. Guardai verso il campo secondario e vidi un uomo in tuta con un ciuffo di capelli biondi su una testa ormai calva. Lo riconobbi subito. Era Alfredo Di Stefano, detto la Saeta Rubia, che si allenava da solo su un vecchio campo polveroso. Raccolsi il pallone e lo rigirai tra le mani, sporcandomi con le macchie d’erba e sentendone le cuciture del cuoio. Ero bloccato, eccitato da quell’evento e allo stesso tempo incapace di fare alcun movimento. I battiti del cuore salivano fino in gola.

L’uomo corricchiò con leggerezza, raggiungendomi. Si fermò a pochi passi da me e sorridendo mi chiese se volevo giocare con lui. Iniziammo a scambiare dei passaggi, poi col pallone tra i suoi piedi mi invitava a sottrarglielo, sfidandomi in quei dribbling che tante volte gli avevo visto fare dalle gradinate del Bernabeu. Destro, sinistro, tunnel, finte, palleggi. La palla era incollata alle sue scarpe, i suoi movimenti erano come un tango, danzato da un uomo che, innamorato della sua donna, la conduce con sicurezza e passione. La palla era la sua amante, l’unica alla quale era davvero fedele.

Dopo una decina di minuti si fermò e, ringraziandomi per aver giocato con lui, domandò il mio nome. <<Pablo Morales Ruiz – risposi – ma tutti mi chiamano Pablito>>.

<<Bueno, Pablito. È stato un piacere allenarsi con te>> dichiarò sorridendo.

<<Posso chiederle una cosa, senor Di Stefano?>>

<<Dimmi pure>>

<< Lei è il più grande campione di tutti i tempi, perché è venuto ad allenarsi da solo? Ieri avete vinto la coppa, oggi tutti gli altri giocatori riposano o festeggiano!>>

Rise fragorosamente, compiaciuto della mia domanda. <<Vedi Pablito, il pallone è come una femmina che giura amore, sapendo di mentire. Se tu la trascuri, ti dimentica o, peggio, ti tradisce. Devi pensarci notte e giorno>> rispose col suo accento argentino. Poi mi salutò accarezzandomi la testa e scompigliandomi il mucchietto di capelli sulla fronte.

<<Senor>> sentii urlare ancora. Il bambino mi fissava spazientito dall’altro lato della strada. Assorbito da quel ricordo, avevo dimenticato di restituirgli il pallone. Lo calciai verso di lui. Lo fermò con il collo del piede e poi agitò la mano in segno di ringraziamento.

Lo salutai e ripresi a camminare. Dentro di me sorridevo, ripensando a quella carezza di un giorno di maggio di cinquantasei anni prima.

Chi siamo? Da dove veniamo? – Evitare le domande esistenziali può minare la nostra salute mentale

Secondo un recente studio, la paura di affrontare le tensioni e i conflitti causati da domande esistenziali – le “grandi domande” della vita – mina la nostra salute mentale.

 

La paura di affrontare le tensioni e i conflitti causati da domande esistenziali – le “grandi domande” della vita – mina la nostra salute mentale, traducendosi in livelli più elevati di depressione, ansia, sintomatologia somatica e in una maggiore difficoltà di regolazione emotiva, secondo un nuovo studio della Case Western Reserve University (Cleveland, Ohio).

I dilemmi religiosi e spirituali – Dio o la religione, le domande difficili sulla fede, la morale e il senso della vita – sono spesso argomenti tabù e la tentazione di spingerli via, accantonandoli, è spesso forte – ha detto Julie Exline, professore di Psicologia alla Case Western Reserve e co-autore della ricerca. – Quando le persone evitano queste lotte interiori, i sentimenti di ansia e depressione tendono a manifestarsi in modo più intenso rispetto a quando li si affronta a testa alta.

Pertanto le persone che fanno fronte a queste lotte con salde credenze e valori fondamentali tendono a riferire  una salute mentale migliore rispetto alle persone che non lo fanno.

Porsi domande esistenziali e salute mentale: lo studio di J. Exline

Lo studio, basato su un sondaggio che ha interrogato 307 adulti sulle recenti esperienze di vita, è stato pubblicato sul Journal of Contextual Behavioral Science

La mancanza di volontà nell’accettare e affrontare dilemmi spirituali e domande esistenziali, potrebbe contribuire a importanti malattie sociali, portando le persone a perdere importanti opportunità di interazione con persone provenienti da diversi background culturali e aderenti a differenti credo religiosi, poiché percepite come una minaccia.

Questo evitamento può portare al rifiuto di interi gruppi di persone sulla base della loro differente religione o dell’incongruenza, ad esempio, tra la loro sessualità o l’identità di genere e gli insegnamenti religiosi ricevuti – ha detto Exline.

Gli addetti ai lavori nell’ambito della salute mentale possono trovare utile aiutare i clienti con le loro lotte spirituali suggerendo loro di affrontare tali difficoltà in modo più proattivo.

Le persone sembrano essere più sane, da un punto di vista emotivo, se si dimostrano in grado di accettare i pensieri preoccupanti – ha detto Exline – Guardare i dilemmi spirituali in modo oggettivo sembra aiutare. Si può o non si può lavorare su di loro, ma almeno si può imparare a tollerare la loro presenza.

L’evitamento di per sé non è un problema; piuttosto, il comportamento diventa problematico quando l’evitare diventa dannoso o contrastante con gli obiettivi personali e imposta un modello rigido di fare esperienza, di approcciarsi e rispondere al mondo.

L’evitamento spirituale sistematico può rendere difficile l’identificazione, la manipolazione o l’esperienza di tutte quelle qualità che conferiscono un senso di scopo alla vita.

Utilizzare attivamente energia emotiva e cognitiva per respingere i pensieri, o le domande esistenziali nella fattispecie, non impedisce loro di continuare a intromettersi nella propria vita. Essere continuamente invasi da questi pensieri può creare forti tensioni e minare la salute emotiva, soprattutto se la persona in questione vede questo tipo di interrogarsi come moralmente inaccettabile e pericoloso.

 

La sofferenza dell’altro: il rapporto con lo straniero nella relazione di cura

Come cambia tale capacità nel terapeuta di fronte ad una società globalizzata con sempre più stranieri, sospinta verso una forte integrazione di culture e valori differenti, che portano con sé anche un modo specifico e peculiare di vivere le esperienze dolorose della vita?

Laura Pancrazi, Laura Stefanoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Globalizzazione e modernità: la ridefinizione dei confini

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a cambiamenti che hanno trasformato e stanno ancora trasformando a diversi livelli la nostra società. Principale fenomeno all’origine di tali mutamenti è sicuramente la globalizzazione.

Diversi sono stati gli autori che si sono interrogati sull’argomento (Magatti, Giaccardi, Bauman) al fine di comprendere i meccanismi e gli effetti che tale fenomeno ha in una radicale ristrutturazione non solo della società ma della qualità stessa della vita dei singoli individui, delle loro abitudini e, ad un livello ancora più profondo, della loro identità.

In un contesto globalizzato, i concetti di confine, distanza e tempo sono sempre più evanescenti, tutto appare interconnesso, ognuno fa parte di una comunità più estesa nella quale, grazie soprattutto a internet e alle nuove tecnologie, la comunicazione diviene molto più facile e qualsiasi informazione può circolare liberamente.

All’interno di questa cornice la flessibilità subentra come caratteristica distintiva della società moderna, dove “essere moderni” significa cambiare, compulsivamente e ossessivamente, in un’ottica di miglioramento all’infinito, privo di qualsiasi prospettiva o aspirazione a diventare “definitivo”. È questo un concetto ben riassunto nella definizione di Bauman di “modernità liquida” che, contrapponendosi alla modernità solida della società alle nostre spalle (caratterizzata da rigidità, sicurezza e ripetitività), veicola invece il bisogno di non ipotecare il futuro e di scongiurare qualsiasi rischio di non poter sfruttare le opportunità ancora segrete, ignote e inconoscibili auspicate ed attese per il futuro.

La virtuale vicinanza con ciò che fino al giorno prima è stato qualcosa di lontano ed estraneo facilita dunque l’individuo in questa ricerca di continuo cambiamento, grazie al confronto con qualcosa che è costantemente nuovo e diverso. Se da un lato tutto ciò può rappresentare un’importante fonte di arricchimento e aprire l’individuo ad un variegato ventaglio di possibilità circa la propria esistenza, dall’altro può costituire, tuttavia, un significativo indebolimento e allontanamento da ciò che è familiare. Per l’individuo è pertanto sempre più facile trovarsi senza punti di riferimento.

In virtù di queste caratteristiche, l’individuo viene a percepirsi sempre più vicino a una comunità dai confini potenzialmente infiniti ma, allo stesso tempo, molto lontano dall’essere realmente noto, conosciuto e compreso. Ciò non può che comportare da un lato un sentimento di sofferenza psicologica, derivante dal senso di estraneità e di lontananza sperimentata dall’individuo all’interno della propria comunità, dall’altro aumenta inevitabilmente la paura dell’Altro, sconosciuto e diverso che, in molti casi, induce a rifiutare ciò che non si riesce a trattare e che quindi genera paura (si pensi ad esempio agli episodi di razzismo).

La sofferenza psicologica degli stranieri: l’influenza dell’attaccamento e della dimensione sociale

Se numerosi sono stati gli studi, in ambito della psicologia sociale, condotti sul tema del gruppo e delle relazioni tra ingroup ed outgroup, sul razzismo, stereotipi, pregiudizi, sempre maggiore è tuttavia l’interesse che in tempi recenti sta assumendo la dimensione della sofferenza individuale in risposta ai fenomeni appena descritti.

Con l’espressione dolore sociale s’intende proprio[blockquote style=”1″] la spiacevole esperienza che deriva dalla percezione di una distanza psicologica tra se stessi e gli altri.[/blockquote] In particolare, Eisenberger e Lieberman, tra i principali studiosi dell’argomento, si sono chiesti se la vita sociale e affettiva possa essere paragonata al bisogno umano di aria, acqua e cibo. Per quanto possa sembrare un’ipotesi iperbolica e, forse, anche leggermente sdolcinata, gli studi sul sistema di attaccamento ci insegnano che la ricerca ed il mantenimento di uno stato di vicinanza fisica con la propria figura di accudimento è funzionale alla sopravvivenza dell’individuo, non solo in termini di nutrimento, piuttosto sembra essere fondamentale anche rispetto al bisogno di contatto fisico e psicologico, di compagnia e di calore.

Nei loro studi, Eisenberger e Lieberman hanno dimostrato, inoltre, tramite indagini neurologiche, che il dolore fisico e il dolore sociale condividono le stesse basi neurali, situate nella corteccia cingolata anteriore, specificatamente nella suddivisione dorsale, ovvero aree 24 e 32 di Broadmann. Gli autori propongono l’ipotesi che la condivisione di tali meccanismi di processamento sia alla base di un circuito neurale di allarme funzionale alla sopravvivenza. Se, infatti, all’inizio il sistema entrava in allarme quando il caregiver si separava dal figlio, aumentandone in tal modo l’esposizione al pericolo e quindi i rischi di vita, tale meccanismo sarebbe poi rimasto attivo tutta la vita: questo perché si sarebbe sviluppata una sorta di dipendenza dal contatto con gli altri, che porta gli esseri umani a vivere come necessaria la compagnia altrui, anche quando l’organismo abbia raggiunto una fase matura di sviluppo.

Lo dimostra il fatto che, ad esempio, le persone aventi un attaccamento ansioso, caratterizzato dalla preoccupazione per il rifiuto altrui, e affette da malattie che provocano dolore cronico, tendono ad esperire maggiore dolore rispetto a persone con lo stesso disturbo ma con attaccamento sicuro (Ciechanowsky et. al., 2003). Altri studi hanno rilevato che la percezione del dolore fisico dopo un infarto, durante un parto, o conseguente a un tumore, viene attenuata dalle esperienze di supporto sociale (Dakof et al., 1990). Il contatto con gli altri è dunque una delle cose che ci tiene in vita e, non meno importante, ci aiuta a vivere meglio.

L’empatia nel contesto terapeutico con gli stranieri: le difficoltà del terapeuta

L’importante funzione adattiva svolta dal dolore sociale nel garantire la sopravvivenza dell’individuo ed il suo adattamento all’ambiente, solleva un’interessante questione che ci porta ad ipotizzare che questa particolare forma di dolore condivida con il più classico dolore fisico molto più che le medesime basi neurali. Si potrebbe, infatti, pensare che gli stessi meccanismi di riconoscimento del dolore regolino entrambi i fenomeni. Così, gli studi che dimostrano l’attivazione dei neuroni specchio in seguito all’osservazione di stimoli dolorosi provati da altre persone, considerati come dimostrazione delle basi scientifiche dell’empatia, potrebbero trovare un’importante applicazione negli studi sul dolore sociale.

È questo un tema di particolare interesse soprattutto all’interno del contesto terapeutico, che si fonda proprio sulla capacità di empatia del terapeuta; è Batson (1997) che in The Emphaty-Altruism Hypotesis afferma che l’empatia fungerebbe da motivazione nell’attivazione di schemi d’azione volti alla riduzione della sofferenza altrui.

Ma come cambia tale capacità nel terapeuta di fronte ad una società globalizzata, sospinta verso una forte integrazione di culture e valori differenti, che portano con sé anche un modo specifico e peculiare di vivere le esperienze dolorose della vita?

E’ ovvio che il rapporto con gli stranieri nella cura è complicato dai fattori sociali e culturali. E’ vero, infatti, che ogni individuo è un mondo a sé, e la condivisione di significati è difficile a prescindere, perché ognuno porta in ogni relazione il suo vissuto personale, la cultura familiare, la propria storia. Tuttavia, più ci si allontana dalla propria realtà, più i fattori di complessità aumentano.

In questo senso, la missione del terapeuta che si approcci a questo aspetto della “fluidità” moderna, è quello di impegnarsi nel tentativo di colmare questa distanza con un grande slancio all’ ascolto empatico, ancora più grande di quello che gli è richiesto nella cura con ogni paziente.

Gli stranieri, per definizione, si trovano infatti in una prima situazione difficile, faticosa, che è quella di aver abbandonato il noto per andare verso l’ignoto, per trovarsi a convivere con una cultura, una società, completamente diverse da quella di origine, con tutto ciò che ne consegue. A ciò si aggiungono, spesso, condizioni economiche difficili, episodi più o meno eclatanti di discriminazione, un senso di disorientamento e solitudine. E’ quindi evidentemente fondamentale più che mai che la relazione con il terapeuta diventi un luogo accogliente e sicuro, anche nell’ottica di evitare a queste persone quello che potrebbe essere l’ennesimo episodio di estraneità, lontananza, esclusione sociale.

E’ dunque importante, come propongono alcuni autori, [blockquote style=”1″]approntare, nell’esercizio della psicoterapia con lo straniero, un setting capace di evocare un ambiente oggettuale in grado di garantire il suo senso di identità psichica e culturale[/blockquote] (Anagnostopoulos, Germano, Tumiati, 2007).

Una psicoterapia che contempli anche un democratico rispetto di una realtà diversa dalla nostra. In fondo, come suggerisce Biorci (2009), l’espressione di un disagio e l’idea di salute dipendono principalmente dalle risposte che ciascuno si dà, ovvero dal modo in cui l’individuo interpreta gli eventi intorno a sé, la propria storia di vita e le relazioni causa-effetto che attribuisce agli eventi (Biorci 2009).
Il fenomeno migratorio è relativamente recente in Italia, ma il modo in cui si è presentato nel nostro paese è stato forte, massiccio, imponente, e probabilmente lo sarà sempre di più. Per questo, l’approccio italiano alla psicoterapia cognitivo-comportamentale sta lavorando proprio per imparare a rispondere anche all’esigenza di questi pazienti, sempre più numerosi.

La terapia ad orientamento cognitivo-comportamentale pone in interconnessione comportamenti, pensieri ed emozioni. Più nello specifico, secondo tale modello un disagio psichico si svilupperebbe sulla base della presenza di pensieri disfunzionali troppo rigidi che non solo inficiano il nostro benessere mentale, ma tendono inoltre a preservarsi tramite circoli viziosi di auto-mantenimento (Semerari, 2000).
Questo sarebbe comune a tutti gli esseri umani e, quindi, nella relazione con gli stranieri, più che approntare una terapia ad hoc, sarebbe utile aggiustare alcuni aspetti della terapia classica per andare incontro alle esigenze di ognuno.

La psicoterapia cognitivo comportamentale con pazienti stranieri

Esiste, per esempio, la cosiddetta Chinese Taoist Cognitive Psychotherapy (CTCP), che è una sorta di adattamento della terapia cognitivo-comportamentale ad alcuni valori della cultura cinese (Bianco, Messore, Radice, 2016). In questo caso, il terapeuta, oltre a concentrarsi sui pensieri disfunzionali e sulla loro connessione con le emozioni, assume una funzione prettamente didattica e dedica alcune ore ad illustrare al paziente i 32 caratteri taoisti. Questo perché nella cultura cinese la gerarchia dei ruoli è molto importante, pertanto porsi quale figura didattica autorevole aiuta in questi casi a porre il terapeuta come persona meritevole di fiducia.

Altro esempio è il rapporto di cura con pazienti ispanici. In tal caso, è necessario prestare attenzione a dettagli specifici della loro cultura, che prevedono ad esempio di aderire ad un modello di estremo rispetto nei confronti del paziente esprimendolo tramite forme di cortesia come l’utilizzo degli appellativi señor o señora e in generale di un atteggiamento orientato al para servirla (Organista e Muñoz, 1997).

Al di là degli esempi specifici riportati in questa sede, si potrebbe dire che l’approccio della scuola cognitivo-comportamentale italiana alla psicoterapia con gli stranieri, non modifica tecniche e procedure di base ma cerca piuttosto di integrarle con alcuni values specifici della cultura di appartenenza del soggetto con cui di volta in volta ci si confronta nella relazione di cura, al fine non solo di farlo sentire accolto, ma anche di non trascurare informazioni importanti ai fini della terapia.

In generale, è necessario che qualsiasi tipo, modello, o approccio che si affacci ad affrontare una psicoterapia con pazienti stranieri [blockquote style=”1″]rispetti i principi minimi della democrazia e, in particolare l’introduzione del contraddittorio nell’ambito stesso del dispositivo terapeutico[/blockquote] (Nathan, 2001, p. 77). Non bisogna infatti dimenticare la duplice appartenenza/non appartenenza di tale soggetto a due culture diverse, la fatica di questo essere sospeso tra due mondi spesso molto diversi tra loro. Per fare ciò sarebbe necessario costruire un quadro relazionale ispirato all’ascolto, e al rispetto dei suoi modi di fare, dei suoi oggetti di culto, dei suoi esseri invisibili, e dei suoi dottori (Nathan, 2001).

Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire – Ciottoli di psicopatologia

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire (Nr. 19)

 

Il delirio: quando la propria realtà non è plausibile

A motivo di alcuni miei passati scritti sul tema del delirio e delle psicosi e forse anche per la mia storia di psichiatra territoriale e ruspante del servizio pubblico anche allo studio privato mi arrivano spesso pazienti molto gravi con deliri allo stato nascente o ben strutturati. Non voglio qui ripetere la mia spiegazione del senso del delirio, della sua genesi e del mantenimento ma prendere spunto da esso per reinterpretare la terapia di qualsiasi paziente come la costruzione di un delirio utile e benevolo.

La visione che ciascuno ha di se stesso è il risultato, l’epilogo della narrazione che si fa delle vicende della propria vita. Ognuno è il protagonista, positivo per chi sta bene e negativo per chi soffre, della storia che si racconta. Ciò vale anche per aggregati sovraindividuali come le famiglie o i popoli. Ma questa è un’altra storia, anzi è proprio la Storia e riguarda gli storici. Non ha alcuna importanza che questa storia corrisponda effettivamente alla realtà. I vincoli nella sua costruzione sono piuttosto la coerenza interna e la plausibilità. Quando la realtà propone dati apparentemente contraddittori con essa vengono ignorati o distorti per diventare delle conferme invece che delle invalidazioni (in questa operazione consiste il delirio che appunto si differenzia dal salutare autoinganno solo quantitativamente e non qualitativamente “fanno quello che facciamo tutti ma diavolo, non si regolano”).

Le rappresentazioni della realtà: quando generano sofferenza

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

Detto in termini più pedestri: se è vero che “ognuno se la canta e se la sona”, mentre nel delirante il problema è che lo fa in un modo così personale e originale che gli altri non lo capiscono e nessuno lo va a sentire, perché il “nevrotico” (passatemi questo termine preDSM) lo fa in un modo che non piace proprio a lui? Se fossi un sistemico penserei che quella brutta storia dolorosa sia funzionale e coerente ad una narrazione familiare o culturale più vasta. Per rimanere più cognitivista potrei ipotizzare che il confermazionismo prevale sul cambiamento e, in termini piagetiani, l’assimilazione sull’accomodamento, in nome della coerenza ad un nucleo di sé originario alla cui definizione concorrono fattori genetici e ambientali/relazionali precocissimi. In altri termini ci si mette in testa un’idea di sé e del mondo da come ti trattano i genitori e poi ci si affeziona ad essa e la si conferma sempre. Se in questa paralisi conoscitiva il premio nobel spetta al delirante la grande schiera dei testardi e la più ristretta cerchia dei nevrotici sono lì a insidiarne il primato.

Torniamo alla psicoterapia come costruzione di un delirio utile e benevolo ed al terapeuta come sceneggiatore. Chi è disturbato dalla metafora cinematografica per l’idea di falsità che suscita, pensi alla situazione del pubblico ministero e della difesa in un processo indiziario. I fatti della realtà stanno lì ma la loro concatenazione e il loro significato sono proposti dagli avvocati. E’ utile notare che meno sono i fatti ineludibili che si impongono e di cui la storia deve dar conto, maggiore è la libertà creativa e interpretativa del narratore. L’aspetto teorico si impone con più facilità in carenza di dati. Se la teoria è debole i dati si impongono ad essa e sono loro a dettare legge, siamo in una situazione di massimo empirismo e di facile cambiamento. Al contrario se la teoria è forte e/o irrinunciabile, i dati sono asserviti ad essa che li ignora o li distorce a piacimento, siamo in una situazione di massimo dogmatismo. Non servono molte prove per edificare un delirio ma soprattutto un gran bisogno o meglio la necessità assoluta di pensarla in un certo modo. Si pensi a certe teorie complottiste che generano costruzioni enormi resistenti ad ogni critica che viene trasformata in una corroborazione, a partire da dati quasi inesistenti e solo da un’ intuizione.

Come utilizzare le storie sulla realtà in terapia

Credo che ciascuno per il proprio modo di conoscere potrebbe essere collocato lungo la dimensione empirismo- dogmatismo.
Il grado di certezza con cui crediamo ad una storia è dato ( Kaneman pag 220 e seg) dalla coerenza e dalla facilità di elaborazione della storia stessa che a sua volta è favorita dalla scarsità di elementi concreti perché si è più liberi di creare senza troppi vincoli. Anche le emozioni che suscita tendono a renderla credibile, nonché la somiglianza con vicende conosciute ( è possibile perché è già successo) ancor di più se prototipiche e archetipiche.

Questa teoria delle storie che creano la realtà in cui viviamo la utilizzo in due modi in terapia. Da un lato proprio con i deliranti che si fanno forti delle prove per sostenere il loro pensiero chiedendo loro di immaginare una storia che porti alla conclusione che io sia che so…… un pedofilo,…. un terrorista islamico od un frate di clausura ( non tutto insieme, una cosa per volta) a partire dagli elementi presenti nel mio studio. In genere ci riescono facilmente ed io integro con ulteriori esempi in modo da dimostrare che da tutto si può arrivare a tutto se lo si vuole (per la serie “ chi cerca trova, anche quello che non c’è). Con gli altri pazienti invece una volta ascoltata la loro descrizione dell’attuale situazione che vivono e della storia con cui si spiegano come ci sono arrivati ed il cui “protagonista” in genere non è un gran che, li invito a costruire altre narrazioni del tutto diverse che tuttavia arrivano alla stessa conclusione. Io stesso propongo alcune storie alternative che siano compatibili con i valori del soggetto e vedano un protagonista migliore.

Nelle storie che chiedo al paziente di elaborare a volte chiedo di introdurre obbligatoriamente degli elementi fissi. Ad esempio di fronte ad un uomo che si auto svaluta per il fallimento del suo matrimonio gli posso chiedere di raccontare come può arrivare a ciò un uomo in gamba, intelligente e sensibile. Di fronte ad un fallimento economico cosa potrebbe causarlo oltre l’incompetenza del soggetto. Ovviamente la realtà è così varia che fornisce spunti per costruire storie d’ogni genere, basta guardarsi intorno. Insomma tenendo fermo il punto di arrivo si va ad esplorare quante diverse strade possano condurre ad esso. La stessa procedura chiamata dai consulenti aziendali “post-mortem” è utilizzata per evitare che ci si avventuri, guidati dall’entusiasmo, in progetti rischiosi aiutando a vedere le possibili criticità. Essa consiste nell’immaginare che il progetto sia stato un fallimento totale e che ci si ritrovi sulle macerie fumanti per esaminarne le cause che impreviste prima appaiono ora assolutamente evidenti. Insomma ora che il fallimento c’è stato, a cosa è attribuibile che prima non abbiamo previsto? Al contrario in terapia stante che la situazione attuale è ineludibile, le cose stanno proprio così, quanti diversi percorsi possono aver condotto a ciò e quale versione sosterrebbe l’avvocato difensore dell’autostima del protagonista. Insomma la terapia tenta di sostituire la narrazione che il paziente fa della propria vita che prevede un protagonista negativo ai suoi occhi con un protagonista accettabile se non encomiabile.

 

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il punto cieco: trovarlo scoprendo la propria amabilità e dignità – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa: cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il punto cieco (Nr. 18) 

 

In  supervisione mi riprometto di stare attento a quanto viene detto e rispetto ai casi ma sopratutto al punto di vista dal quale viene detto, insomma sono più interessato ai colleghi che al paziente. Alle premesse dalle quali affermano ciò che affermano. Il panorama che vedono lo descrivono benissimo meglio di come potrei fare io che invece sono preso dai loro occhi.

Insomma la predica è interessante e su di essa dibattiamo e la aggiustiamo ma vuoi mettere il fascino del pulpito. Ancor più utile forse è far caso a ciò che non si vede perché dato per scontato (ovvio, appunto). Il punto cieco credo sia in parte culturale, in parte familiare e in parte individuale (33,33, 33 come diceva Leonardo a Troisi e Benigni).

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco che, se volessimo legarci a tradizioni più nobili potremmo chiamare “Ombra”,  sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi? Forse in supervisione non è decisivo quantunque l’atmosfera relazionale è importante per fare un buon lavoro. Ma certamente in terapia lo è.

Il segreto credo stia nella relazione che permette al paziente di guardarsi nello specchio rappresentato dal terapeuta senza dover per forza distorcere l’immagine per vedere la più bella del reame. Una relazione in cui sono sicuro e riconosciuto permette di non indossare ma guardare come oggetto il “falso sé”  dismesso.

Se consideriamo che una buona relazione consente la metacognizione e se cessa l’allarme lo stesso ragionamento (quello base non solo quello meta) migliora per la gioia di Baron allora la terapia avrebbe come scopo di permettere al soggetto di essere “come è” certo che non perderà l’amore. A questo punto anche a costo di perdere il monopolio della cura dobbiamo ipotizzare che possono esistere relazioni amorose che sono in senso profondo autenticamente terapeutiche. Anche se mi sembra persino una osservazione alla Catalano. Meno ovvio ed un po’ eretica è che una relazione non può essere terapeutica se non è anche d’amore (troppo detto così?, che resti tra noi)

 

Giungere al punto cieco passando da amabilità e dignità

Propongo di ragionare su uno dei due termini che sono stati proposti come oggetto della umana profonda rassicurazione sulla propria dignità e sull’essere amato suggerita dal dottor Conversi (comunicazione personale 2016) come  scopo profondo di tutte le terapie. Ammesso che essere “amabile” una volta eliminato l’equivoco con “essere amato” (che tuttavia presumiamo esserne la causa) sembra essere la percezione di sé come  interessante e appetibile per l’altro, meno chiaro è l’altro termine.

Di “dignità” sono pieni i giornali, gli appelli del papa, le dichiarazioni dei diritti di tutti i generi ed anche io ho imparato ad usarlo, so dove ci sta bene e grossomodo significa valore ma esattamente cosa intendiamo? come la si perde? e come si può incrementare? Non può essere semplicemente qualcosa di superficiale come il “decoro” ma ne sta al confine. Insomma colleghi uno scatto di dignità e definiamolo operativamente.

In sintesi si può dire che “attraverso una relazione umana profondamente rassicurante sulla propria amabilità e dignità si può: lasciare il proprio falso Sé e disappannare il proprio punto cieco, ragionare senza troppi bias e incrementare la metacognizione

Immaginiamo che in principio ci sia il sé autentico (SA) e che questo sperimenti di non essere amato e di non valere (ciò rimanda alla pippa suprema, la madre di tutte le seghe mentali, ne abbiamo accennato all’ultimo incontro, Dio mi perdoni! se il valore sia importante per essere amato o, piuttosto, l’essere amato come prova del proprio valore: siccome questa storia non si striga granché, né teoricamente né per me personalmente, in quanto alcune volte mi sembra in un modo, altre in quello esattamente opposto, come quelle figure care alla gestalt,  la lascerei così, concludendo che valore ed essere amato sono due scopi terminali indispensabili per la sopravvivenza). Se il SA sperimenta di non essere amato per cercare di esserlo si scinde  in due:

  • Un sé sommerso (SS) o ombra che racchiude tutto ciò che non si vuole essere (gli antiscopi identitari).
  • Un sé ideale o IO  che ne costituisce l’opposto (gli scopi identitari).

Il falso sé è la narrazione interiore da un lato e la recita sociale dall’altro, ciò che si fa per credersi IO di valore e amabile. Queste operazioni di autoinganno e camuffamento ancorché faticose e costose fanno sperimentare interiormente un senso di impostura o bluff e danno agli osservatori un senso di inautenticità.

La psicoterapia attraverso una relazione correttiva che come dice San Paolo nell’inno all’amore “tutto comprende, tutto accetta, tutto giustifica, tutto scusa, tutto ama”  ( credo sia più o meno la relazione compassionevole di Gilbert) permette una integrazione dell’ombra e dell’Io in un nuovo sé autentico.

Un ulteriore passo potrebbe essere definire come mappare l’IO e l’Ombra.

Faccio alcune osservazioni così un tanto al chilo: l’Io è il punto di vista dal quale parliamo. Il Pulpito da cui proviene la predica che è, appunto la narrazione del falso sé. Per scoprirlo basta chiedere al soggetto “come è”. Sembrerebbe più preciso chiedere “come vorrebbe essere” ma in realtà lui non si accorge, appunto, della differenza, ci crede davvero.

Altro elemento è che rispetto a quel modello di persona è completamente acritico e ritiene che quelle caratteristiche siano il bene assoluto in modo autoevidente e non necessitino di spiegazioni. Stessa acriticità e autoevidenza la mostra verso le caratteristiche opposte che rappresentano l’Ombra e in genere attribuisce agli altri che considera nemici. Nel caso, anche solo per scherzo, quest’ultime vengano riferite a lui perde ogni forma di autoironia, al punto che si potrebbe elaborare un test fatto di battute chiedendo quali non lo fanno ridere e trova stupide: segnalano i confini dell’ombra.

L’Io è la voce narrante fuori campo, il sé mnemonico semantico che ci racconta chi siamo e le cui belle storie ci aiutano ad addormentarci anche quando sappiamo che non la racconta giusta, e tanto meno tutta.

L’ombra, attenzione, non è quello che non ci piace essere, gli aspetti di noi che critichiamo. A ciò abbiamo ampio accesso cosciente, ce lo diciamo ogni giorno nei rimproveri che ci muoviamo, ed anzi, avere una serie di cose che non si vuole essere non è altro che un ulteriore sostegno e conferma dell’Io “sono talmente così che non vorrei assolutamente essere così e mi sforzo continuamente di non esserlo”.  Insomma l’Ombra è una cosa seria. Per dirla in termini religiosi non è un peccatore per quanto incallito ma Lucifero in persona con coda e zoccoli regolamentari.

Per questo la sua integrazione con l’Io nel rinnovato sé autentico attuabile all’interno di una relazione compassionevole ha più a che vedere con una conversione e la creazione di un “Uomo nuovo” piuttosto che con quello che normalmente si intende per guarigione.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Web delle mie brame: social network, insoddisfazione corporea e disturbi alimentari

Talune ricerche hanno sostenuto l’associazione tra l’uso di social network, l’ insoddisfazione corporea e i disturbi alimentari. Più in generale, hanno evidenziato l’attenzione sociale centrata sulla magrezza e sulla muscolosità, e su come gli ambienti, reali o virtuali, che enfatizzano l’apparenza possano aumentare il rischio di incombere in tali preoccupazioni.

Luisa Resta – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

La ricerca sulle implicazioni psicologiche dell’uso e dell’esposizione ai social network è un’area relativamente nuova della ricerca che prende avvio in tempi abbastanza recenti, e, nello specifico, si è interessata all’influenza dei social sull’immagine corporea e sui disturbi alimentari.

 

L’ insoddisfazione corporea: l’influenza dei Social Network

Spesso, a un primo approccio con le problematiche dell’immagine corporea e a causa di un’eccessiva semplificazione dovuta al filtro dei mezzi di comunicazione di massa, si tende a far coincidere il concetto di immagine corporea con quello dell’apparenza fisica, dell’esser belli o attraenti.

Grogan (2008) ha definito l’immagine corporea come quell’insieme di percezioni, pensieri ed emozioni che una persona esperisce riguardo al suo corpo. Ma non sempre tali percezioni sul proprio corpo hanno un’accezione positiva, né tantomeno coincidono con la forma corporea ideale a livello soggettivo: si parla in tal senso di insoddisfazione per l’immagine corporea. Tale insoddisfazione rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio e di mantenimento dei disturbi legati all’immagine corporea e all’alimentazione (Thompson et al., 1999).

All’origine di tale insoddisfazione corporea, si ritrova molto spesso l’influenza dell’uso dei social network (Facebook, Instagram, Twitter, MySpace) che consentono ai loro utenti di crearsi dei profili online, pubblici o privati, che possono essere usati per sviluppare relazioni, interagire con altri utenti online ma soprattutto di mettersi in mostra in una vetrina cui tutti hanno libero accesso.

L’uso dei social è largamente diffuso tra adolescenti: in Europa circa il 70% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni ne fa uso, e tra questi, il 40% trascorre almeno 2 ore al giorno online (Tsitsika et al., 2014 ). I siti social sono costituiti dai profili personali degli utenti che vengono “personalizzati” tramite descrizioni e foto; inoltre, gli utenti possono guardare voyeuristicamente e commentare le presentazioni degli altri iscritti, e a loro volta leggere i commenti degli amici virtuali sulla propria pagina.

Taluni filoni di ricerche, sia di tipo correlazionale che sperimentale,  hanno sostenuto l’associazione tra l’esposizione ai media, l’ insoddisfazione corporea e i disturbi alimentari in campioni femminili. Più in generale, i modelli eziologici sulle preoccupazioni legate all’immagine corporea e all’alimentazione hanno evidenziato l’attenzione sociale centrata sulla magrezza e sulla muscolosità, e su come gli ambienti, reali o virtuali, che enfatizzano l’apparenza possano aumentare il rischio di incombere in tali preoccupazioni ( Thompson et al., 1999; Madden et al., 2013).

Tra i modelli socioculturali tramite cui è stata indagata l’immagine corporea vi è il modello di influenza tripartito dell’immagine corporea (Thompson et al., 2012). Esso descrive come una varietà di canali socioculturali, in particolar modo i genitori, i pari, e i mass media, trasmettono ideali di bellezza agli individui. Di conseguenza, gli individui interiorizzano tali ideali e, quando la loro apparenza non corrisponde a tali stereotipi, si sentono poco soddisfatti del loro aspetto esteriore e sperimentano insoddisfazione corporea.

 

Uso di social network e insoddisfazione corporea negli adolescenti

Dalle  ricerche che hanno indagato il ruolo esercitato dall’influenza di fonti primarie, quali i media e i pari (Keery et al., 2004), sui livelli di insoddisfazione corporea, è emerso che i soggetti più sensibili a queste influenze sembrano essere gli adolescenti, nei quali l’esposizione a modelli di bellezza ideale sembra predire alti livelli di insoddisfazione corporea (Knauss et al., 2007).

De Vries (2016), in uno studio longitudinale su un campione di adolescenti olandesi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni, ha approfondito la relazione tra l’uso dei social network e l’ insoddisfazione corporea, suggerendo che i social network costituiscono un ulteriore canale socioculturale che influenza l’immagine corporea degli adolescenti; infatti maggiore è il suo utilizzo, maggiore risulta l’ insoddisfazione corporea tra gli adolescenti, sia nei maschi che nelle femmine.

Tra i meccanismi attraverso cui l’uso dei social ha un impatto sulle preoccupazioni legate all’immagine corporea e all’alimentazione vi è il confronto sociale, come emerge dallo studio di Smith et al., (2013). I ricercatori hanno evidenziato come l’uso disadattivo dei social (inteso come l’utilizzo della piattaforma social allo scopo di operare confronti sociali o auto-valutazioni negative) porti ad un aumento dei sintomi bulimici ed episodi di abbuffate, e che tale relazione è mediata dall’ insoddisfazione corporea, che emerge soprattutto quando gli utenti effettuano confronti con le foto dei coetanei, in particolare quelli magri e attraenti (Rodgers & Melioli, 2016).

Fox & Rooney (2015 ), in una ricerca  online  condotta su un campione di 800 maschi americani, con un’età compresa tra i 18 e i 40 anni, hanno esaminato la cosiddetta triade nera (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e l’auto-oggettificazione (intesa come la costruzione sociale del corpo come oggetto, da guardare e valutare in base all’aspetto esteriore) come predittori dell’uso dei social:  l’auto-oggettificazione e i tratti di personalità narcisistica predicevano il tempo trascorso su tali siti. Nello specifico, il narcisismo e la psicopatia predicevano il numero di selfies postati, mentre il narcisismo e l’auto-oggettificazione predicevano il tempo dedicato alla pubblicazione di foto sul social network.

 

I commenti negativi sui social: quale effetto sull’immagine corporea?

L’interesse dei ricercatori si è concentrato anche sui commenti negativi che si ricevono sui social. In uno studio dai contorni innovativi, i ricercatori hanno codificato gli aggiornamenti di stato su facebook dei partecipanti per un periodo di 31 giorni, come pure le altre risposte degli utenti a tali aggiornamenti. I risultati hanno rivelato che la ricezione di commenti negativi in risposta ad aggiornamenti di status è stata associata con livelli più elevati di preoccupazioni riguardanti il peso, la forma e l’alimentazione (Hummel e Smith, 2015). Inoltre, gli individui che tendevano a cercare un feedback su Facebook, ma hanno ricevuto feedback negativi, riportavano livelli più alti di ristrettezze dietetiche.

In uno studio svedese, il cyberbullismo, considerato tra le tipologie più pericolose di commenti negativi, era associato con un basso livello di autostima, in un campione di oltre 1000 bambini e adolescenti di età compresa tra i 10, 12 e i 15 anni (Frisen et al., 2014). Inoltre, la ricezione di feedback negativi da parte degli altri sui social era correlata con un alto livello di preoccupazioni relative all’immagine corporea e all’alimentazione.

 

L’impatto dei siti pro-ana sull’immagine corporea

Per quanto riguarda la relazione tra l’esposizione ai siti a favore dei disturbi alimentari e le preoccupazioni  per l’immagine del corpo e l’alimentazione, in uno studio pilota condotto su un campione di adolescenti di età compresa tra i 13, 15 e i 17 anni, è stato trovato che il visitare siti web pro-anoressia (pro-ana) era associato con un’alta spinta alla magrezza, all’ insoddisfazione corporea e al perfezionismo ( Custers e Van den Bulck, 2009).

Tra le ragazze del college, l’esposizione a siti pro ana è stata associata ad una diminuzione del consumo calorico durante la settimana successiva all’esposizione ( Jett et al . 2010), e a maggiori livelli di insoddisfazione corporea, spinta alla magrezza e sintomi bulimici (Harper et al., 2008). L’interiorizzazione dei messaggi pro-anoressia correla con la spinta alla magrezza e alla muscolosità a prescindere dal genere (Juarez et al . 2012); inoltre, ad un frequente ricorso a tali siti corrispondono livelli maggiori di disturbi alimentari (Peebles et. al, 2012).

Gli studi  incentrati sui social media hanno evidenziato il ruolo del confronto basato sull’apparenza come un meccanismo critico che rende maggiormente complessa la relazione tra social e le preoccupazioni legate all’immagine corporea e al cibo. L’esplorazione di pagine internet a favore dei disturbi alimentari richiama l’idea più ampia di “identità di gruppo”, mettendo in evidenza come questi gruppi online sviluppino un’identità comune, rafforzata dall’ostilità nei confronti degli outgroup, e la fornitura di sostegno sociale per i membri interni al gruppo (Wooldridge et al . 2014).

Tale identità si rafforza attraverso la normalizzazione delle condotte e dei pensieri riferiti al disturbo alimentare, laddove l’anoressia e la bulimia vengono raffigurate come consapevoli e libere scelte di vita (Rodgers et al., 2013), che nella pratica potrebbero favorire o mantenere il disturbo alimentare stesso. Pertanto, il modello dell’ identità sociale può essere utile per una migliore comprensione del modo in cui gli adolescenti utilizzano Internet e dei processi legati allo sviluppo dell’immagine del corpo.

 

L’esposizione a Facebook e gli effetti sull’ insoddisfazione corporea

Ulteriori dati sperimentali sembrano supportare la relazione tra l’esposizione a Facebook e le preoccupazioni sulla forma corporea e l’alimentazione. Ad esempio, in letteratura si ritrovano studi sperimentali sugli effetti dell’esposizione ai contenuti di facebook (reali o artefatti), rispetto a siti web più neutri. In un campione inglese di giovanissime, si è visto che bastavano 10 minuti di consultazione per peggiorare il tono dell’umore, rispetto a quanto accadeva dopo aver visitato altri siti web a contenuto “neutro” (Fardouly et al., 2015). Nello specifico,  tale studio ha evidenziato come l’esposizione a Facebook possa aumentare le preoccupazioni relative all’avere o meno un viso attraente, rispetto al peso e alla forma corporei.

Un anno prima, Mabe et al. (2014) avevano notato, in un campione di studentesse americane, che quelle assegnate alla condizione sperimentale che prevedeva la visione del proprio profilo, in confronto ad una pagina web neutra, mantenevano i livelli iniziali di preoccupazione sul peso e la forma del corpo, mentre quelle assegnate alla condizione che prevedeva un confronto con uno stimolo attivante (es. profilo di un ipotetico utente più attraente) riportavano risultati peggiori al post test.

Paradossalmente, accanto ad un’esposizione massiva di corpi snelli, muscolosi, tonici, veicolati tramite i canali social, si assiste al fenomeno opposto ovvero l’evitamento di esporsi pubblicamente. Questo lato oscuro del web potrebbe celare un disagio più profondo, una grave insoddisfazione corporea e un profondo senso di vergogna, nonché valutazioni negative sul proprio aspetto e tratti di personalità socialmente ansiosa (Rodgers et al., 2015), che portano gli utenti a rimanere nascosti dietro le “quinte”.

Sebbene si possa affermare che i dati sperimentali esistenti sono a sostegno dell’esistenza di una relazione tra Internet, l’ insoddisfazione corporea e le preoccupazioni relative al cibo, è auspicabile che la ricerca continui a interessarsi e ad esplorare i molteplici lati del web, in particolar modo dei social e dei loro meccanismi d’azione sull’ immagine corporea, per contribuire a rendere l’universo online uno spazio con un’accezione prevalentemente positiva.

Stress e problemi cardiaci nelle donne

Molte donne tendono a sovraccaricarsi eccessivamente di stress, in quanto, dovendosi occupare di tutti coloro che stanno attorno a loro, cercano di rendere perfetta ogni cosa. Questo può causare stress e ansia elevati che a loro volta possono portare a gravi problemi cardiaci.

 

Stress e attacchi cardiaci: la relazione presente nelle donne

La Dr.ssa Karla Kurrelmeyer, afferma che alcune donne tendono ad ignorare i primi sintomi di un attacco di cuore.

Durante un attacco di cuore in molti sperimentano gli stessi sintomi, quali dolori al petto, mancanza di respiro ecc., sintomi diversi invece si provano per gli attacchi cardiaci silenziati, in questi casi si hanno sintomi semplici, quasi quotidiani, come una indigestione, sintomi simil-influenzali o semplici dolori alla schiena. Secondo la Dr.ssa Kurrelmeyer, è importante tener presente ogni singolo sintomo sopracitato per evitare danni permanenti. Ignorare i sintomi può essere fatale.

La Dr.ssa Kurrelmeyer afferma che la cardiomiopatia indotta dallo stress, nelle donne, è più frequente in prossimità delle festività. Ciò si verifica quando le donne sono sotto stress per un periodo di tempo breve ma intenso e questo stress si aggiunge a quello di un altro evento traumatico come un lutto in famiglia, un incidente stradale, perdita di denaro, ecc.

La cardiomiopatia indotta da stress è un indebolimento del ventricolo sinistro, ovvero la camera principale che pompa il sangue nel cuore. È causata dal rilascio di ormoni dello stress che mandano in shock il cuore, causando a loro volta dei cambiamenti nella muscolatura del cuore, che saranno poi la causa del mal funzionamento del ventricolo sinistro. La maggior parte delle persone affette da questa condizione sono donne con una età compresa tra i 50 e 70 anni.

Quando qualcuno vive in questa condizione, nella maggior parte dei casi viene trattata con i farmaci beta-bloccanti o ACE-inibitori. L’importante, se si presentano tutti quei sintomi, è sottoporsi a un ecocardiogramma il più presto possibile.

La Dr. Kurrelmeyer dice che molto spesso nelle donne vi è un picco della pressione sanguigna durante le vacanze e che, molto spesso arrivano in pronto soccorso con dolori al petto o palpitazioni e nei casi più gravi, corrono il rischio di un ictus. Inoltre, se in una donna vi è una storia di alta pressione sanguigna è importante monitorarla da vicino e costantemente, soprattutto in quei momenti in cui il livello di stress aumenta.

 

I sintomi più frequenti di problemi cardiaci nelle donne

Di solito, i problemi di cuore nelle donne sono riconoscibili come negli uomini. Alcuni dei sintomi per le donne includono:

– Estrema debolezza, ansia o mancanza di respiro

– Disagio, pesantezza o dolore al torace, al braccio, sotto lo sterno o nel mezzo della schiena

– Sudorazione, nausea, vomito, vertigini

– Pienezza, indigestione

– Battito cardiaco accelerato o irregolare

Secondo la Dr.ssa Kurrelmeyer è importante prendersi del tempo per se stessi durante le vacanze e fare tutto quello che possa in qualche modo alleviare lo stress. L’attività fisica, lo yoga, la meditazione, passeggiate nella natura o tutto ciò che serve o che può essere utile alla persona.

La vacanza deve essere un momento di relax da trascorrere in famiglia e in tranquillità e non con i medici al pronto soccorso per problemi cardiaci.

 

Peaceful Mind & co: protocolli CBT per il trattamento dell’ansia nella persona con demenza

La persona con demenza manifesta vissuti di confusione e disorientamento che inducono in loro un senso di vulnerabilità, infatti all’incirca tre malati su quattro sperimentano sintomi di ansia e, tra questi, uno su cinque presenta disturbi d’ansia significativi

Elena Lo Sterzo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La demenza è al giorno d’oggi una delle più significative problematiche emergenti di salute globale. Le prospettive epidemiologiche prevedono un aumento esponenziale di nuove diagnosi (è stato stimato un raddoppiamento ogni 20 anni), e la stima per l’anno 2030 è che all’incirca 65.7 milioni avranno la demenza (Prince et al., 2013).

Grazie allo sviluppo di metodiche di indagine avanzate e, conseguentemente, alla possibilità di effettuare diagnosi di demenza più precoci, aumenta la necessità di interventi terapeutici che permettano alle persone con questa sindrome e ai loro familiari/caregiver di affrontare al meglio le sfide psicologiche e pratiche associate alla malattia.

 

Il trattamento della persona con demenza: oltre i farmaci

Dal momento che i trattamenti farmacologici attualmente disponibili sono esclusivamente sintomatologici, ed hanno oltretutto risultati limitati e di breve durata (Birks, 2006), c’è un crescente interesse agli approcci psicosociali di supporto alle persone con demenza ed alle loro famiglie, allo scopo di stabilizzare il benessere soggettivo e, qualora possibile, rallentare la progressione della malattia. In base alle evidenze di applicazione su altre malattie degenerative (Dennison & Moss-Morris, 2010), gli interventi psicoterapeutici che includono l’abilità di elaborare la perdita di funzione cognitiva e la depressione concomitante sembrano essere promettenti.

La ricerca sui trattamenti psicologici per le persone con demenza di Alzheimer (AD) di grado lieve e moderato ha evidenziato che, in particolare, tre tipologie di intervento si sono dimostrate più efficaci: 1) la riabilitazione cognitiva, con effetti benefici sulla memoria e l’umore (Wilson, 2002), 2) la terapia della reminiscenza, che riduce la depressione e migliora il benessere e la memoria autobiografica (Cotelli et al., 2012) e 3) la terapia cognitivo-comportamentale, che riduce significativamente la depressione in persone con AD lieve che vivono a casa con i caregiver (Teri et al., 1997).

A causa dell’ampio spettro di deficit cognitivi, comportamentali e di disturbi dell’umore, le revisioni sistematiche sui trattamenti per persone con AD hanno indicato che gli interventi devono essere “tagliati” sulle necessità individuali del paziente (Brodaty & Burns, 2012) e devono prevedere un piano di trattamento multimodale (Carrion et al., 2013). Un elemento di cruciale importanza per l’efficacia del trattamento, che emerge da tutti gli studi citati, è il coinvolgimento del caregiver.

 

L’ansia nella persona con demenza

La persona con demenza manifesta vissuti di confusione e disorientamento che inducono in loro un senso di vulnerabilità, infatti all’incirca tre malati su quattro sperimentano sintomi di ansia, e, tra questi, uno su cinque presenta disturbi d’ansia significativi (Seignourel et al., 2008). Le tematiche ansiose riferite dalle persone con demenza riguardano spesso la reazione degli altri alla diagnosi di demenza, il timore di perdere la memoria ed altre abilità, e le preoccupazioni legate al fatto di diventare un “peso” per la famiglia.

L’ansia contribuisce ad esacerbare ed amplificare le difficoltà neurocognitive, e le sue manifestazioni comportamentali, quali l’agitazione, l’evitamento ed il continuo monitoraggio possono dare l’impressione che la persona abbia deficit cognitivi più severi di quelli che avrebbe senza questi fattori psicologici. A causa della limitata efficacia e degli importanti effetti collaterali dei trattamenti farmacologici per l’ansia (tra cui depressione e deterioramento cognitivo), sono necessarie delle alternative di trattamento psicologico per i sintomi ansiosi: una crescente mole di studi evidence-based  evidenzia che le persona con demenza può imparare e sviluppare nuove abilità, anche quando hanno deficit cognitivi di grado moderato (Spector et al. 2003).

 

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) per il trattamento dell’ansia nella persona con demenza

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è il trattamento di prima scelta per l’ansia nella popolazione generale adulta e anziana. I primi studi controllati randomizzati sul trattamento CBT nelle persone con demenza che presentano sintomi di ansia evidenziano l’applicabilità e l’efficacia di tale intervento anche in questa popolazione (Stanley et al., 2013).

L’approccio CBT presentato nello studio di Charleswort e colleghi del 2015 segue la tradizione degli interventi basati sulla concettualizzazione del modello cognitivo classico di Beck e Clark (1997) per l’ansia generalizzata. Tale modello enfatizza la triade cognitiva di credenze tipiche dell’ansia, ovvero il senso di sé come vulnerabile, il mondo come caotico e il futuro come incerto. Lo scopo della terapia basata su questo modello è la riduzione dell’ansia attraverso la ricerca di alternative ai comportamenti di evitamento e l’aumento delle sensazioni di sicurezza e autoefficacia.

I criteri di inclusione dei soggetti in questo studio sono stati: risiedere a casa (non in strutture), avere una diagnosi da lieve a moderata, presentare livelli clinici di ansia, con o senza sintomi depressivi in comorbidità. I criteri di inclusione richiedevano anche che il soggetto avesse la volontà di partecipare ad una terapia che prevede la discussione su pensieri ed emozioni, e la presenza e disponibilità di un familiare a partecipare al trattamento come caregiver/persona di supporto. Venivano esclusi i partecipanti con sintomi psicotici, disturbi dell’apprendimento congeniti o comportamenti disfunzionali che avrebbero impedito un coinvolgimento proficuo nel trattamento.

La terapia proposta in questo studio prevedeva tre fasi, sviluppate nell’ambito di 10 incontri a cadenza settimanale. Nell’ambito di un trattamento breve e limitato nel tempo, il terapeuta può sentire la pressione di dover completare il protocollo, tuttavia, specialmente con questa tipologia di pazienti, è fondamentale tenere a mente il principio “less is more”: la quantità di materiale presentato e discusso in ogni sessione dev’essere in linea con le abilità del paziente, e un’adeguata quantità di tempo dev’essere dedicata alla ripetizione e al riassunto degli aspetti affrontati. Lo stile di trattamento deve avere, in linea con l’approccio CBT, il carattere di collaborazione e adattamento delle tempistiche al paziente, un agenda di attività centrata sulla persona, e l’attribuzione di compiti a casa.

  • Fase uno: socializzazione al modello, gestione/superamento degli ostacoli alla partecipazione, condivisione degli obiettivi e della formulazione

Come in ogni protocollo CBT, le prime sessioni prevedono la costruzione di una buona alleanza terapeutica, la socializzazione col modello cognitivo, l’elucidazione delle potenziali difficoltà e la determinazione di obiettivi. Per tutti gli elementi della terapia, è importante fornire materiale scritto di supporto alle conversazioni durante la terapia. In aggiunta alla classica psicoeducazione sull’ansia, che prevede ad esempio l’introduzione ai meccanismi “fight or flight”, altri argomenti da affrontare sono i circoli viziosi di mantenimento della preoccupazione e dei problemi di memoria.

E’ necessario individuare le principali aree di preoccupazione del paziente e del caregiver e il grado in cui le abilità del paziente sono compatibili con quelle considerate necessarie per l’appropriatezza della CBT a breve termine. E’ infatti importante determinare quali abilità preliminari alla terapia necessitano di essere sviluppate prima di svolgere un lavoro cognitivo vero e proprio. Pochissime persone che hanno una comorbidità di demenza e ansia sono in grado di accedere ai pensieri automatici, hanno consapevolezza delle emozioni e l’abilità di etichettarle correttamente, hanno la capacità di notare le fluttuazioni  nelle emozioni, focalizzare, stabilire dei collegamenti e generalizzare i concetti. Inoltre, è facile che la persona con demenza non utilizzi un linguaggio psicologico o emotivo per esprimere le loro difficoltà, ma piuttosto fisico o comportamentale (malessere, irrequietezza, apatia). E’ molto utile identificare le rappresentazioni di malattia del paziente e del caregiver poiché ciò aiuta nella comprensione delle reazioni emotive alla demenza, delle abilità percepite di fronteggiare la malattia, e della capacità di distinguere i concetti di ansia e di demenza. I pazienti che sono in grado di distinguere tra i sintomi attribuibili ai deficit di memoria e quelli dovuti all’ansia saranno in grado di effettuare dei cambiamenti più rapidamente.

E’ di fondamentale importanza adattare la terapia alla presenza di eventuali deficit sensoriali (utilizzando ad esempio caratteri di scrittura grandi e chiari), ai problemi di mobilità (pensando all’organizzazione dei trasporti e prevedendo eventualmente visite a casa), alle difficoltà legate alla salute fisica (consentendo ad esempio alle persone con dolore cronico di avere momenti per muoversi durante la terapia), e alle differenze inter-gruppo  di familiarità con i costrutti psicologici e con i processi terapeutici (prevedendo ad esempio una fase di socializzazione alla terapia più ampia, con l’utilizzo delle parole del paziente stesso minimizzando il lessico “psicologhese”).

Le strategie per rendere il trattamento compatibile coi deficit neurocognitivi della demenza variano in base al profilo cognitivo individuale: ad esempio persone con demenza di Alzheimer presenteranno probabilmente deficit di memoria a breve termine e difficoltà a imparare materiale nuovo, mentre le persone con demenza vascolare avranno probabilmente una riduzione della velocità di elaborazione delle informazioni, mentre quelli con demenza fronto-temporale presentano tipicamente deficit nelle funzioni esecutive (come ad esempio difficoltà nella pianificazione, nell’organizzazione e nell’utilizzo di feedback).

La CBT standard prevede delle procedure che di per sé supportano la codifica e la ritenzione delle informazioni. Ad esempio, è molto utile dare al paziente, almeno ogni 10 minuti, brevi riassunti dei concetti presentati e chiarimenti dei nuovi elementi introdotti. E’ anche importante elicitare un feedback dal paziente, in modo da capire se il paziente ha avuto una buona comprensione delle informazioni discusse, e se esse hanno eventualmente attivato vissuti emotivi negativi nella persona. Non c’è una struttura rigida per quanto riguarda i compiti a casa, le linee guida generali da seguire sono che essi riguardino l’argomento trattato nella seduta e che siano utili per raggiungere gli obbiettivi terapeutici generali del paziente.

La concettualizzazione condivisa, che dev’essere il più possibile sintetica e semplice e con un numero di elementi che non ecceda la limitata capacità della memoria di lavoro della persona, può essere utilizzata come stimolo di memoria, per ricordare al paziente il piano di azione stabilito congiuntamente.

Il focus della terapia è il trattamento dell’ansia dalla prospettiva del paziente. Idealmente, il ruolo del caregiver è quello di fornire “appigli” e indizi di memoria  per aiutare il paziente a generalizzare il lavoro fatto in terapia alla vita quotidiana. E’ importante a questo scopo che il familiare comprenda e  concordi con il razionale cognitivo dell’intervento. Il terapeuta potrebbe accorgersi del fatto che la persona con demenza non è consapevole né riconosce i suoi vissuti di ansia come tali e, in tal caso, può essere utile identificare i punti di accordo e quelli di differenza tra il punto di vista della persona con demenza e quello del suo familiare/caregiver.

E’ importante “allenare” il paziente ad espandere il vocabolario emotivo e a differenziare tra pensieri, sensazioni fisiche ed emozioni. La consapevolezza di questi aspetti può essere incrementata attraverso semplici strumenti psicoeducativi di individuazione delle relazioni tra pensieri, emozioni e comportamenti, tramite domande del terapeuta che stimolino la curiosità e la riflessione, e piccoli esercizi di automonitoraggio sia durante la sessione, che a casa, come ad esempio compiti di osservazione, o il diario dei pensieri.  Il processo di automonitoraggio può facilitare l’abilità di assumere una distanza critica dal problema dell’ansia, introducendo una separazione tra la persona e la sua ansia.

Il principio cardine della CBT della formulazione condivisa degli scopi della terapia dev’essere senz’altro rispettato anche nel caso della sua applicazione alla persona con demenza, con la possibilità in questo caso di coinvolgere nella formulazione anche il caregiver. E’ necessario porre attenzione alle eventuali aspettative e credenze irrealistiche sulla cura, come ad esempio che la demenza possa essere curata o fermata: in tal caso bisogna aumentare la consapevolezza del paziente che il target del trattamento è l’ansia, e non i problemi di memoria. Dal momento che, tuttavia, c’è spesso una sovrapposizione tra i sintomi di ansia e i sintomi della demenza, è utile in questa fase discutere dell’influenza importante che ha l’ansia sui problemi di memoria (e, di conseguenza, come il trattamento dell’ansia possa essere utile per gestire meglio le difficoltà mnestiche)

  • Fase 2: processi di cambiamento orientati allo scopo (indicativamente sedute dalla 3 alla 9)

1) Affrontare le reazioni autonomiche: lo scopo di questo modulo è di influenzare in maniera diretta la sensazioni di agitazione, percepite a livello viscerale, di cui fa esperienza la persona con demenza. Trattando le reazioni autonomiche è anche possibile ridurre il senso di vulnerabilità, aumentare il senso di autoefficacia nel controllo di tali reazioni ed aumentare la consapevolezza che i sintomi ansiosi siano separabili dai sintomi della demenza.

Oltre agli aspetti fisiologici dell’ansia è importante tener conto dei sintomi comportamentali (tra cui ad esempio l’aggressività e l’irritabilità), che possono essere letti come una reazione alla sensazione di essere fuori controllo, vulnerabili e ansiosi circa il futuro, essere spaventati dalle richieste che vengono loro fatte. La persona con demenza potrebbe pensare che i suoi comportamenti non abbiano una connessione con i vissuti ansiosi, o potrebbero non essere consapevoli dei loro sintomi comportamentali. Perciò il terapeuta, il paziente ed il caregiver devono lavorare collaborativamente per fare un’analisi funzionale di questi comportamenti per mettere in luce come l’ansia sia la causa e la spiegazione più appropriata di essi.

Le strategie per affrontare le reazioni autonomiche includono la psicoeducazione sulle manifestazioni fisiche e comportamentali dell’ansia, il rilassamento muscolare progressivo, l’identificazione e la messa in pratica di strategie per “sentirsi al sicuro” come ad esempio adattamenti ambientali, la creazione ed il mantenimento di routine, provare nuovi modi per aumentare la percezione di controllo, utilizzare degli stimoli visivi come dei biglietti con i “pensieri tranquillizzanti”. Alcune persone con demenza possono anche beneficiare di training di spostamento dell’attenzione e “consapevolezza mindful”.

2) Affrontare le reazioni strategiche alla minaccia percepita: le possibili minacce percepite dalla persona con demenza sono la diagnosi di una malattia terminale, l’insorgenza di menomazioni fisiche e cognitive e le preoccupazioni interpersonali e sociali. Le reazioni messe in atto per gestire queste paure sono ad esempio i tentativi di evitare o scappare da situazioni potenzialmente ansiogene, l’ipervigilanza agli indizi di pericolo e lo sviluppo di “comportamenti di sicurezza”. E’ importante comprendere i significati personali che sottostanno ai pensieri automatici negativi realistici, e poi mettere indurre la persona a mettere in atto strategie pragmatiche (più che di rilettura cognitiva), come ad esempio la distrazione da una ruminazione eccessiva, l’incoraggiamento di espressioni emotive e l’utilizzo della programmazione della attività per aumentare il controllo percepito.

3) Abbandonare i comportamenti di sicurezza e acquisire strategie di fronteggiamento utili. Alcune delle strategie comuni di fronteggiamento non sono utili poiché contribuiscono al mantenimento dell’ansia: evitare situazioni temute riduce l’ansia nell’immediato ma non permette alla persona di disconfermare le credenze ansiogene.

E’ importante innanzitutto identificare il significato e la funzione di un determinato comportamento, e poi chiedersi se la conseguenza temuta è basata su un’ erronea interpretazione catastrofica o su una reale possibilità che accada una catastrofe. Quando c’è una credenza erronea riguardo ad un potenziale catastrofe è utile intervenire per ridurre l’intensità con cui una persona crede alla possibilità che l’esito temuto si verifichi e potenziare invece la fiducia in un punto di vista alternativo.

Quando invece l’evento temuto potrebbe effettivamente accadere, è più efficacie lavorare su abilità di problem solving allo scopo di incrementare il senso di autoefficacia nel gestire la situazione. Ad esempio, se una persona con demenza evita di incontrare un amico, le strategie per affrontare la sua paura e l’evitamento saranno diverse a seconda che la preoccupazione principale sottostante sia “gli amici penseranno male di me quando verranno a sapere della mia diagnosi di demenza, oppure “potrei perdermi nel percorso per andare ad incontrarlo”. Nel primo caso, la persona non ha mai avuto l’opportunità di scoprire come gli amici effettivamente potrebbero reagire e perciò continua a convivere con un’ansia probabilmente non necessaria. Nel secondo caso invece potrebbero essere suggerite delle strategie pratiche per non perdersi durante il percorso oppure ipotizzare uno o più piani di azione nel caso si perda.

4) Aspetti interpersonali. La diagnosi di demenza ha un impatto importante anche sul sistema familiare in cui la persona è inserita. Sottolineare al paziente a al familiare le differenze nelle percezioni e nelle valutazioni di malattia facilita aiuta entrambi a “mettersi nei panni dell’altro”. Quando l’ansia sembra essere associata al significato della diagnosi o alla valutazione della prognosi, è utile esplorare il significato soggettivo e sociale della demenza, incluse le credenze ed i miti legati all’invecchiamento e alla demenza come “minaccia al sé”.

Ascoltare il punto di vista dell’altro e le sue reazioni emotive può ridefinire una relazione in cui si erano affermati cicli interpersonali dannosi come quello dell’ “attacco-attacco”, “Attacco-difesa” o “difesa-difesa”. Le domande di scoperta guidata possono facilitare la comunicazione, come ad esempio: “Cosa si prova ad avere la demenza?”, “Come ti senti quando il tuo familiare ti dice questo?” L’intervento può includere in questo caso la facilitazione del processo di negoziazione di significati e di compromessi riguardo a come ogni componente vorrebbe trattare l’altro, come vorrebbe essere trattato a sua volta, e rafforzare le due parti nel ruolo comune di alleate contro la demenza, piuttosto che l’una contro l’altra. E’ di fondamentale importanza qui esternalizzare la demenza dalla persona, differenziarla, per evitare che si crei l’identità tra i sintomi della demenza e la persona nella sua interezza.

  • Nella fase conclusiva (che dovrebbe occupare indicativamente le sedute dalla 8 alla 10), vengono  pensate e condivise delle modalità pratiche per mantenere le abilità acquisite, integrarle e generalizzarle  al meglio nella quotidianità.

Paukert e colleghi hanno sviluppato nel 2013 un protocollo di trattamento per i sintomi di ansia nelle persone con demenza, simile a quello sopra citato, chiamato “Peaceful Mind”, che in uno studio pilota (Stanley et al., 2013) ha dimostrato un miglioramento della qualità di vita riferito dai pazienti e una diminuzione dello stress del caregiver legato ai sintomi ansiosi del paziente.

La peculiarità di questo protocollo è la sua ottica community-based, in quanto prevede che gli interventi siano effettuati al domicilio del paziente, e che, dopo una iniziale fase di trattamento (9-12 sedute settimanali) effettuata da un clinico specializzato, il percorso sia continuato dai familiari/caregiver, con una supervisione telefonica costante da parte dello psicologo.

Questa metodologia consente di fornire il trattamento ad una fetta più ampia della popolazione, in quanto può superare barriere di tipo logistico (spostamenti) ed economico. “Peaceful Mind” è un protocollo che enfatizza maggiormente gli interventi comportamentali, rispetto a quelli cognitivi: vengono insegnate strategie per aumentare la consapevolezza, regolare il respiro, utilizzare auto-istruzioni tranquillizzanti, incrementare le attività piacevoli e migliorare l’igiene del sonno. Sono stati anche creati materiali psicoeducativi molto chiari e dettagliati che illustrano le varie fasi dell’intervento e forniscono il materiale di supporto per svolgerlo a casa, reperibile (per adesso in lingua inglese) al sito http://www.mirecc.va.gov/visn16/clinicalEducationProducts.asp (sezione”Anxiety”).

Preoccuparsi troppo può compromettere il rapporto tra madri e figli

Le mamme disturbate da pensieri negativi, ripetitivi e intrusivi derivanti da problemi di vario genere rischiano di avere rapporti qualitativamente peggiori con i propri figli, come mostra una nuova ricerca condotta dai ricercatori dell’Università di Exeter (Regno Unito) pubblicata sul Journal of Child Psychology and Psychiatry.

Anche se è del tutto normale per una mamma con un figlio piccolo preoccuparsi quotidianamente di questioni pratiche o personali, quando il preoccuparsi genera pensieri negativi persistenti e opprimenti (ad esempio: “Perché non mi sento felice?”, “Perché non sono brava come le altre mamme?”), le mamme tendono ad essere meno sensibili e meno reattive nei confronti dei figli rispetto alle madri che non si preoccupano.

Lo studio

Lo studio ha voluto scoprire se gli effetti della ruminazione o dell’eccessiva preoccupazione derivante da pensieri e problemi personali fossero peggiori quando le madri mostravano in concomitanza sintomi di depressione. Tester-Jones e O’Mahen, insieme ad altri psicologi della University of Exeter, hanno valutato se la compresenza di tristezza e ansia nella madre risultasse in interazioni qualitativamente più povere con il bambino durante attività di gioco quotidiano.

Contro le aspettative, i ricercatori hanno scoperto che non importa se le madri si sentono depresse o meno: la ruminazione -definita come la presenza di pensieri ripetitivi, prolungati e ricorrenti circa le preoccupazioni su di sé e sulla propria esperienza- intacca le interazioni con il bambino a prescindere da quanto sia basso l’umore materno.

I ricercatori dell’Università di Exeter hanno osservato, separatamente, 79 madri (39 con umore deflesso e 40 del gruppo di controllo) e i relativi figli di età compresa tra i 3 mesi e 1 anno di età, i quali sono stati reclutati tra i visitatori delle comunità, i pazienti degli ambulatori medici, le partecipanti ai gruppi madre-figlio e i centri per bambini. Lo scopo, come anticipato, era quello di indagare se la ruminazione, in virtù della sua natura auto-concentrata e internalizzante, riducesse la sensibilità delle risposte materne al neonato.

Durante la ricerca, metà delle madri sono state incoraggiate a pensare in modo ripetitivo e negativo ad un problema rilevante per sè; l’altra metà, invece, è stata incoraggiata a pensare in modo mirato ad un problema importante, ma che era stato risolto. I ricercatori hanno valutato le interazioni madre-bambino prima e dopo l’attività di ruminazione. In ciascuna interazione videoregistrata sono stati valutati indicatori materni della qualità della relazione con il figlio come espressione del volto, dialoghi, linguaggio del corpo e azioni rivolte al bambino con lo scopo di valutare se il comportamento della madre fosse sensibile, controllante o non responsivo. Ad esempio, le madri che coglievano rapidamente e con precisione i segnali verbali e non verbali del bambino e rispondevano alle sue esigenze in modo adeguato sono state valutate sensibili.

Le interazioni sono state filmate sia presso l’abitazione che presso l’università in una stanza tranquilla con minime interferenze sonore. Sono stati forniti giocattoli adatti all’età del bambino, una coperta, una palla salterina e un seggiolone. Alle madri è stato chiesto di interagire con il loro bambino in modo normale non curandosi della presenza delle telecamere.

I risultati: la ruminazione compromette la relazione tra madre e bambino

La ruminazione danneggia, in modo causale, la sensibilità materna e tutte le madri indotte a ruminare sui loro problemi hanno dimostrato ridotta sensibilità verso i figli, indipendentemente dalla sintomatologia depressiva. La sensibilità materna è stata rilevata in modi diversi nelle diverse mamme. Ad esempio, alcune madri in seguito alla ruminazione avevano meno contatti visivi con il loro bambino e non lo confortavano in situazioni stressanti, alcune, invece, sceglievano un’attività da fare con il figlio che non era appropriata per la sua età oppure parlavano con il bambino utilizzando un tono di voce piatto o basso.

Conclusioni

Lo studio ha identificato stili di pensiero che contribuiscono a stili genitoriali più o meno empatici. Lo studio suggerisce che agendo sulla ruminazione si possono ridurre le interazioni potenzialmente negative con il bambino. E’ fondamentale che ci sia tra madri e figli un rapporto improntato alla sensibilità dal momento che è stato dimostrato come una scarsa qualità delle interazioni precoci tra madre e figlio possa avere un impatto negativo sullo sviluppo cognitivo e sociale del bambino, così come sulla sua capacità di interazione con i pari ed il suo benessere emotivo.

Gli effetti psicologi della disoccupazione: quando perdere il lavoro non porta solo problemi finanziari

I disturbi psichici più spesso associati alla disoccupazione sono risultati essere l’ansia e gli attacchi di panico, i disturbi del sonno, gravi forme di somatizzazione, disturbi del funzionamento sociale, stress e, soprattutto, la depressione. 

Cecilia Tardini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

 

Negli ultimi anni stiamo attraversando una crisi economico-finanziaria a livello mondiale, che inevitabilmente ha colpito anche l’Italia determinando un aumento del tasso di disoccupazione che continua ancora oggi. In particolare per quanto riguarda il nostro Paese, gli ultimi dati disponibili, riferiti al mese di aprile 2016, evidenziano un tasso di disoccupazione pari all’11,7%, in aumento di 0,1 punti percentuali su marzo (fonte ISTAT periodo di riferimento aprile 2016).

Questa condizione determina prevedibili effetti economici negativi, ma già da qualche anno si sta dando sempre più spazio all’analisi degli effetti della disoccupazione sugli individui dal punto di vista professionale, personale e sociale dimostrando come questo problema agisca in modo profondo sulla vita delle persone, assumendo una connotazione anche esistenziale. Migliore (2007) ha definito in modo dettagliato le conseguenze su queste dimensioni:

  • Professionale: l’uscita dal mercato del lavoro determina una progressiva riduzione delle conoscenze e delle competenze, svalutando il lavoratore, pregiudicando, di conseguenza, la possibilità di trovare altri lavori;
  • Personale: perdita dell’autostima e senso di colpa con conseguente disagio psicologico e perdita della motivazione, che può rendere più passivi gli individui e rendere ancora più problematico il reinserimento nel mondo del lavoro;
  • Sociale: esclusione sociale, riduzione dei rapporti interpersonali, perdita dell’identità e del ruolo sociale.

Da questi dati è possibile affermare come la perdita del lavoro incida sul benessere generale degli individui modificandolo, con ripercussioni sulla salute sia fisica, che psicologica, confermando quanto già evidenziato da molti studi presenti in letteratura (Kessler et al., 1987; Ferrie et al, 2002).

 

In che modo la disoccupazione agisce sulla salute

È da notare come la relazione tra disoccupazione e salute non sia lineare, ma complessa e modulata da alcuni fattori quali la durata della disoccupazione, le caratteristiche personali del disoccupato, i contesti socioculturali in cui il fenomeno si genera e le modalità con cui una società affronta la questione. Non è quindi facile stabilire in modo chiaro un nesso causale e la direzione che assume, ma sembrano essere tre i principali meccanismi attraverso cui la disoccupazione agisce sulla salute (Costa et al., 2004):

  • La povertà, per cui gli effetti sulla salute, in termini di aumento del rischio di depressione e di deterioramento della salute fisica, sarebbero direttamente determinati dai problemi finanziari.
  • La perdita del lavoro come evento di vita stressante e, in quanto tale, vissuto e percepito come un lutto per la perdita di alcuni benefici non economici connessi al lavoro, quali la strutturazione del tempo, l’autostima, il rispetto da parte degli altri, l’uso delle proprie capacità, lo status sociale, i contatti interpersonali e alcune motivazioni esistenziali. Tale stress risulterebbe in un incremento cronico dei livelli di ansia.
  • L’insorgenza di comportamenti dannosi per la salute, soprattutto l’abitudine al fumo e il consumo eccessivo di alcolici o sostanze stupefacenti. Repentine riduzioni del reddito potrebbero inoltre esporre a condotte più francamente rischiose e autodistruttive, esponendo ad un maggiore rischio di suicidio e tentati suicidi (Reeves et al., 2014).

Da quanto riportato emerge come il dramma della disoccupazione tocchi nel vivo l’esistenza delle persone: sono, infatti, frequenti disagio psicologico e insoddisfazione per le condizioni di vita. Molti studi presenti in letteratura hanno indagato gli effetti psicologici e vissuti emotivi caratteristici degli individui che vivono questa condizione. Sono riportati in particolare fallimento e frustrazione, sentimenti di vuoto, di inadeguatezza, di insicurezza e di inutilità che possono combinarsi con vissuti di sconfitta e di rassegnazione, con conseguente peggioramento dell’autostima e aumento del senso di inferiorità, di impotenza e della fiducia in sé stessi, negli altri, nella società e nel futuro (Costa et al., 2004).

Vengono spesso riportati anche vissuti emotivi di vergogna, solitudine, senso di colpa e sentimenti di rivalsa e di vendetta: vergogna in quanto la mancanza di un lavoro è spesso percepita come un difetto che suggerisce inadeguatezza e diversità in relazione alle aspettative del mondo esterno. La vergogna determina un isolamento affettivo, per cui le persone vengono emarginate o si autoescludono per paura di essere giudicate o non capite, una condizione che paralizza e impedisce di mettersi in gioco nuovamente.

Questo accentua ancora di più la solitudine e la possibilità di costruire relazioni d’amicizia, già compromesse a causa della mancanza di un lavoro.

Il senso di colpa scaturisce dalla convinzione di non essere stati capaci di mantenere il proprio posto di lavoro e di non poter così garantire alla propria famiglia e a sé stessi le stesse possibilità economiche e la stessa immagine sociale. Inoltre, a fronte di un sistema che promuove come valori la ricchezza e lo status symbol, chi non ha un lavoro tende a un ripiegamento su di sé e a ritenersi colpevolmente inadatto e senza un posto nella società.

Infine, con il passare del tempo e il prolungamento della condizione di disoccupazione, possono comparire anche sentimenti di rabbia, rivalsa e vendetta nei confronti di un sistema in cui, nel frattempo, gli altri riescono ad integrarsi (Secci, 2015).

 

Disoccupazione ed embitterment

I sentimenti di colpa e di vendetta sono presenti anche nel costrutto dell’embitterment (letteralmente = “amarezza”), definito come uno stato emotivo di lunga durata caratterizzato da una persistente e logorante sensazione di aver subito un torto e di essere vittima di una profonda e grave ingiustizia, a cui seguono sentimenti di umiliazione, impotenza e, appunto, desiderio di vendetta.

È uno stato psicologico che emerge in seguito ad eventi che il soggetto ritiene ingiusti, umilianti e denigratori, i quali vengono continuamente richiamati alla mente, con il rischio di creare nel tempo  un circolo vizioso in cui il soggetto è impegnato a rimuginare intensamente su quanto accaduto, incrementando l’embitterment. Queste persone possono cambiare repentinamente umore e passare dalla disperazione a sorridere al pensiero che possa essere fatta vendetta (Linden et al., 2007).

Sebbene il concetto di embitterment sia stato studiato più approfonditamente in anni successivi, già Zemperl e Frese (1997) hanno individuato per primi questo stato emotivo a seguito della condizione di disoccupazione prolungata. In quest’ultimo caso, come rileva Sensky (2009) il senso di colpa sopra descritto è da intendere non come una colpa verso sé stessi, ma piuttosto come un’attribuzione di colpe ad altri per essere stati trattati ingiustamente.

Più recentemente i dati di Zemperl e Frese sono stati confermati da uno studio di Linden et al. (2008) su un gruppo di disoccupati, rilevando che il 54,9% del campione presentava sintomi di embitterment e che i sintomi di ingiustizia sono frequentemente presenti nelle persone che perdono il lavoro. È stata inoltre confermata una relazione tra la durata della disoccupazione e la presenza di questi sintomi, suggerendo come quest’ultimi tendano ad aggravarsi in relazione alla durata della disoccupazione.

Alcuni autori hanno sistematizzato meglio questi vissuti emotivi in modelli suddivisi in fasi sequenziali, proponendo anche una sorta di adattamento alla condizione di disoccupazione.

Tintori (2007) ha individuato due fasi:

  • La prima è caratterizzata dal sentimento di esclusione e di essere stati rifiutati e dalla percezione di essere stati messi ai margini, non ritenuti più capaci e all’altezza. Da questi vissuti può emergere il dubbio sulle proprie capacità professionali e, per generalizzazione, si sé stessi come individui (autosvalutazione). A questi stati d’animo si può aggiungere anche la delusione che prende le sembianze del sentimento di essere stati traditi. In questa fase possono comparire anche momenti in cui si affaccia la speranza, anche se spesso appare più un atteggiamento, piuttosto che un autentico vissuto interiore: in questi casi l’individuo cerca di rincuorarsi e di intravedere le possibili soluzioni positive arrivando spesso a forzare la realtà. A questo proposito Gagne (1992) parla del ricorso al meccanismo di difesa della negazione: un atteggiamento con il quale il soggetto disconosce involontariamente la realtà, negando l’evidenza e che porta ad interpretare la disoccupazione come un’opportunità e un periodo di crescita personale.
  • La seconda fase è definita di depressione situazionale, legata ad una causa oggettiva che rientra quando il soggetto ne elabora il senso. tale operazione può risolversi in tre effetti psicologici diversi:
    • La ricostruzione di sé, che porta l’individuo a riconsiderare la propria storia e a dare senso all’esperienza negativa collocandosi in una prospettiva futura. In questi casi l’esperienza negativa diventa un punto di partenza e di rinascita, producendo cambiamenti inaspettati anche per chi la vive in prima persona.
    • La sospensione di sé lascia, invece, il soggetto in una condizione di impasse, in cui prevalgono inerzia e fatalità. La prospettiva futura è poco presente, prevale un senso di disillusione e una stato psicologico di malessere e di insoddisfazione.
    • La negazione di sé, in cui l’individuo non riesce a dare alcun senso all’esperienza negativa subita e la depressione situazionale non trova una risoluzione positiva, ma anzi, si consolida in una depressione vera e propria.

 

La disoccupazione come il lutto: le fasi dell’elaborazione

Anche Migliore (2007), concettualizzando la disoccupazione come un evento traumatico e riprendendo le teorizzazioni di Kubler-Ross (1975) relative all’elaborazione del lutto, ha individuato delle fasi che caratterizzano i lavoratori che perdono il posto e ha descritto una curva emotivo-motivazionale definita curva Zeta.

  • La prima fase è caratterizzata, in sequenza, da shock, negazione e liberazione. All’inizio si è sconvolti e si considera il licenziamento come un’aggressione personale verso la quale ci si sente impotenti. Il soggetto si isola per difendersi dalle opinioni degli altri e per evitare altre delusioni. Con la negazione si cerca di interiorizzare ciò che è successo e di affrontarlo. Compare anche rabbia, in quanto si diventa sempre più consapevoli della realtà. Segue poi la liberazione.
  • La seconda fase è, invece, caratterizzata da ottimismo: l’individuo è tranquillo perché può ancora contare su alcune risorse economiche ed è convinto di possedere la necessaria esperienza per trovare un facile ricollocamento nel mondo del lavoro.
  • Con il passare del tempo, però, ci si rende conto che la realtà è molto diversa e che trovare un nuovo lavoro è un’impresa difficile: subentra la terza fase, caratterizzata da pessimismo e paralisi in cui i soggetti perdono la fiducia nelle proprie possibilità e nel futuro. E’ un momento critico perché  subentrano sentimenti di inutilità, inadeguatezza, isolamento e solitudine, con ripercussione sull’umore e la possibile insorgenza di disturbi psicologici conclamati.
  • L’ultima fase è contraddistinta da riflessioni e adattamento: l’individuo soffre per l’assenza di un’occupazione, ma impiega il suo tempo nella ricerca di una nuova attività lavorativa o di impegni che riempiano le giornate, anche se si rimane ancora molto vulnerabili.

Ovviamente queste fasi non si presentano in modo rigido: ognuno, infatti, affronta la disoccupazione secondo le proprie modalità, energie e risorse personali e sociali, e l’impatto di questo evento dipende da come queste vengono messe in atto per far fronte alla perdita. Questo influenzerà in modo diverso l’adattamento a questa condizione (Price et al., 1998).

 

Disturbi psichici associati alla disoccupazione

Gli studi presenti in letteratura evidenziano, infatti, come gli individui disoccupati più vulnerabili e con meno risorse, siano maggiormente predisposti ad una esacerbazione di questi vissuti emotivi negativi, i quali possono facilmente evolvere in disturbi psicopatologici conclamati, soprattutto se non riconosciuti e opportunamente trattati.

I disturbi psichici più spesso riscontrati in questo campione di persone sono risultati essere l’ansia e gli attacchi di panico, i disturbi del sonno, gravi forme di somatizzazione, disturbi del funzionamento sociale, stress e, soprattutto, la depressione, individuato come il problema di salute mentale più diffuso e più sensibile all’impatto della crisi (Linden et al., 2008; Pelzer et al., 2014), portando ad un aumento della domanda di Servizi di Salute Mentale e del consumo di psicofarmaci (Starace et al., 2016).

È stato infine confermato come la disoccupazione giochi un ruolo importante nella maggior incidenza di suicidi (Reeves et al., 2014).

Workaholism: si può affrontare con il Work-Life Balance?

In questo articolo vorrei trattare due temi molto attuali nel panorama del mondo del lavoro: “work life balance” e “workaholism“. La radice di entrambi i termini è “work” ma come vedremo si tratta di due concetti diametralmente opposti.

Valentina Gobbi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Workaholism e work life balance: cosa sono

Con “work life balance” vogliamo identificare tutti quegli atteggiamenti, comportamenti e/o iniziative promosse dalle aziende nei confronti dei propri dipendenti per promuovere un corretto e funzionale bilanciamento tra lavoro e vita privata. Con il termine “workaholism” invece si identifica una vera e propria dipendenza nei confronti del lavoro, un atteggiamento disfunzionale che mette l’attività professionale al primo posto e vi fa ruotare attorno il resto dell’esistenza del singolo.

A questo punto si potrebbe erroneamente pensare che porre attenzione al work life balance possa essere la soluzione al workaholism, o almeno una delle possibili, ma vedremo che trattandosi di un vero e proprio disturbo di dipendenza, la questione è più complessa di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

Vorrei ora entrare nel vivo dei due concetti esplorandoli nel dettaglio e cercando di capire perché la sola e semplice attenzione al work life balance non può essere la soluzione a una dipendenza marcata come il workaholism.

Work life balance” è un termine oggi molto in voga in Italia e nel mondo, le cui parole che lo compongono possono suonare ancora dissonanti ai più. Ma cosa si intende davvero per work life balance?

Si tratta di un nuovo approccio nella gestione delle risorse umane che cerca di favorire e proporre un “balance”, un equilibrio, tra vita professionale e vita privata dei singoli dipendenti. Il mondo imprenditoriale si rende conto ogni giorno di più che è necessario favorire un equilibrio tra questi due momenti dell’esistenza di una persona. Alcune aziende hanno così iniziato a porre sempre maggiore attenzione alla valorizzazione dei propri dipendenti: iniziando a trattarli come delle persone con proprie esigenze, peculiarità e con una propria vita che continua al di fuori dei confini dell’azienda stessa. Le imprese si sono accorte che solo un lavoratore motivato, sereno, “equilibrato” è un lavoratore valido e produttivo. Motivare un lavoratore d’altronde non significa più soltanto riconoscergli benefici monetari o monetizzabili ma, significa anche permettergli di vivere la sua vita, di godere della sua famiglia, di non aver paura di essere sostituito, di conciliare alle responsabilità lavorative, i propri impegni e ritmi personali.

Il work life balance cerca di dare una risposta a tutte queste esigenze creando un ambiente di lavoro a misura d’uomo, che rispetti le esigenze di tutti, lavoratori e imprese. Come accennato poc’anzi, la valorizzazione delle persone porta così di ritorno indubbi vantaggi e benefici anche all’azienda stessa, il dipendente che si sente maggiormente considerato e valorizzato lavora meglio, con maggiore attenzione e produttività, consiglierà la propria azienda anche ad amici e conoscenti ed attraverso il passaparola l’azienda stessa migliorerà la propria reputazione e credibilità nei confronti della società.

Il percorso che aziende e lavoratori hanno però dovuto affrontare per giungere a questa “conquista” non è stato semplice. Questo perché le imprese, accecate da logiche di profitto, hanno negli anni dimenticato il punto fondamentale che è alla base del loro funzionamento; le imprese sono fatte di persone e sono queste a garantirne lo sviluppo, il funzionamento e l’eventuale successo o declino.

L’azienda riflette nel suo divenire le scelte attuate dagli uomini che la governano, è quindi indispensabile avere alla guida degli uomini sereni, motivati e brillanti: garantendo loro la tranquillità e la sicurezza di potersi dedicare senza stress e/o privazioni anche ai loro impegni privati.

Il work life balance si configura come la conseguenza di una precisa evoluzione che il mercato del lavoro, i lavoratori e la società hanno avuto in questi ultimi anni e che lo porterà ad essere l’elemento centrale, il cuore, di tutte le future politiche di organizzazione e gestione delle risorse umane.

Credo che sia inoltre importante prendere in considerazione la profonda modificazione culturale di attribuzione di significato al lavoro avvenuta in questi ultimi anni. Da una visione meccanicista dell’attività lavorativa individuale, legata ai processi delle macchine (taylorismo), si passa a una impostazione del lavoro in termini di ambito tipico di autorealizzazione personale (Bocca, 1998). Il lavoro si costituisce così come luogo fondamentale per l’introduzione di significati umani nella vita per l’individuo e per la collettività. Ogni persona adulta ha bisogno di lavorare in quanto il lavoro, al di là del proprio contenuto monetario volto al sostentamento, si costituisce come luogo fondamentale di realizzazione di sé e di ricerca di senso (Bocca, 1998). La famiglia e il lavoro sono spesso presentati nella storia come dimensioni di vita contrastanti se non contraddittorie tra loro e l’industrialismo non ha fatto che accentuare tale separazione. Eppure lavoro e famiglia costituiscono due aspetti essenziali per la vita umana, due luoghi al cui interno la persona cerca la realizzazione di sé.

Ma passiamo ora al secondo argomento che vorrei trattare: il “workaholism“. Il termine indica dipendenza da lavoro e deriva dalla fusione di due termini inglesi “work” lavoro e “alcoholism” alcolismo, letteralmente tradotto come “ubriacatura di lavoro”. Questa parola è stata coniata per la prima volta negli Stati Uniti d’America da Wayne Edward Oates nel 1971 in seguito alla pubblicazione del libro “Confession of a Workaholic“. Con esso l’autore descrive una persona il cui comportamento è compulsivo nei confronti del lavoro, nello stesso modo in cui quello dell’alcolista lo è nei confronti dell’alcol (Robinson, B., 1998).

L’eccesso di lavoro, unito all’esclusione di altri interessi, viene così paragonato all’abuso di alcol. Avviene una sorta di sopraffazione del mondo lavorativo sugli altri domini della vita del soggetto come ad esempio la famiglia, gli hobbies o l’attività fisica (Seybold & Salomone, 1994).

Il lavoratore che presenta questo tipo di dipendenza viene definito workaholic ovvero [blockquote style=”1″]una persona la cui necessità di lavorare è diventata così eccessiva che crea un notevole disturbo o interferisce con la salute del suo corpo, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale[/blockquote] (Oates, 1971, pg.4; Guerreschi, 2009).

E’ così che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso gli psicologi hanno iniziato a studiare questo nuovo tipo di dipendenza molto particolare e insidiosa, di questo bisogno ossessivo di lavorare, produrre, decidere e sviluppare la propria attività professionale.

Successivamente, il termine ha iniziato a diventare di uso comune non solo nella letteratura, ma anche nella stampa popolare e nel web; si è ben presto sviluppato in molti Paesi, tanto che in Giappone si è diffuso il termine “Karoshi” mentre in Germania si parla di “Arbeitssucht”, per indicare la nascita di una vera e propria passione ossessiva per il lavoro che impedisce di potersi dedicare ad altre attività creando una forte dipendenza (Heide, 2002). Nonostante si tratti di un tema molto dibattuto, per via della sua correlazione con un’attività quotidiana come quella lavorativa, considerata indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe che il workaholism non sia ancora del tutto riconosciuto dalla società come un disagio patologico (Oates, 1971). E’ il caso dell’Italia, ad esempio,  dove il termine risulta essere conosciuto a pochi e non ne esiste una vera e propria traduzione.

Occorre ammettere al proposito che non esiste nemmeno una definizione universalmente accettata di workaholism. Spesso viene descritto attraverso degli ‘slogan’: così si sente parlare della “più pulita delle dipendenze” (Schaef, A., Fassel, D., 1989); “dipendenza rispettabile” (Killinger, B., 1991); “male che gli altri approvano” (Neikirk, J., 1998); “dipendenza ben vestita” (Robinson, B., 1998). Pur con i loro limiti gli slogan ci consentono di riflettere sulle parole che li compongono, si tratta di giustapposizioni di parole logicamente contrastanti che rendono evidente la complessità e la difficoltà nel definire, comprendere e trattare il fenomeno. Si fa riferimento a un problema che alla fin fine è qualificato in termini positivi.  Se per molto tempo si è così sia guardato al workaholism in modo umoristico e scherzoso, progressivamente si sta abbandonando la lente caricaturale e si inizia a osservarlo nelle sue ragioni più profonde.

 

Workaholism: i sintomi e i comportamenti che definiscono la dipendenza dal lavoro

Proverei ora a passare velocemente in rassegna un po’ di letteratura esistente sul tema partendo dai sintomi più frequenti, per aiutare a chiarire meglio la definizione e aiutare ad identificare questa dipendenza:

– il tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;

– pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);

– poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;

– impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;

– sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);

– abuso di sostanze stimolanti come la caffeina (Castiello d’Antonio, 2010).

Scott et al. (1997) hanno su queste basi stipulato l’esistenza di tre tipi di comportamento workaholic. La persona dipendente dal lavoro è colei che:

  • spende gran parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, con un conseguente effetto negativo nel funzionamento sociale, nelle relazioni personali e familiari e nello stato di salute;
  • è costantemente focalizzata sul lavoro e alla ricerca di soluzioni per risolvere i problemi lavorativi, anche quando non sta lavorando;
  • lavora oltre le altrui aspettative, richieste o necessità finanziarie e organizzative.

E’ inoltre possibile identificare tre pattern per quanto riguarda gli stili di comportamento:

  • compulsivo-dipendente: correlato positivamente ad ansia, stress, problemi fisici e psicologici, e negativamente a performance lavorative e a livelli di soddisfazione lavorativa e/o personale;
  • perfezionista: correlato positivamente ad alti livelli di stress, problemi fisici e psicologici, relazioni interpersonali ostili, bassa soddisfazione lavorativa, scarsa performance e assenteismo dal lavoro;
  • orientato al successo: positivamente correlato a buona salute fisica e psicologica, soddisfazione lavorativa e personale, e comportamenti pro-sociali.

Precedentemente, Spence e Robbins (1992) coniarono la nozione di triade workaholic, basata su tre concetti chiave: impegno nel lavoro (spendere il proprio tempo libero in progetti ed altre attività lavorative), motivazione nel lavoro (sentirsi obbligati a lavorare anche senza ricavarne alcuna soddisfazione), e piacere ricavato dal lavoro (lavorare più del dovuto, ma per il piacere e il divertimento legati ad esso). Da questa sono stati poi delineati tre profili di workaholic, indagati successivamente anche da altri ricercatori:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro) – coloro che mostrano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti) – chi mostra elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro) – coloro che possiedono marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risulterebbero essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con aspettative eccessive e obiettivi irrealistici, sperimentando elevate quote di stress ed ansia con la presenza di sintomi fisici (mal di testa, ulcere ed ipertensione tra i più comuni).

Proseguendo in linea temporale, nel 2008 la definizione di Schaufeli e i suoi collaboratori definisce il workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente. Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta l’elemento comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva del workaholism e implica che i workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Il workaholism, così definito, diventa vera dipendenza da lavoro e rientra nel crescente panorama delle dipendenze patologiche, definite “le nuove dipendenze” o “dipendenze sociali” dovute a comportamenti che pur producendo le stesse conseguenze delle tossico-dipendenze si costruiscono e si autoalimentano in assenza di qualsiasi sostanza chimica e hanno a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati. Fanno parte di questo gruppo anche lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza dal sesso. La work addiction diventa un vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste autoimposte, incapacità di regolare le abitudini lavorative ed eccessiva indulgenza al lavoro. Tuttavia, rispetto alle classiche dipendenze comportamentali il workaholism differisce leggermente poiché non si riferisce al ricorso a un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, come per l’uso di sostanze, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione. L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità.

Una caratteristica peculiare della dipendenza dal lavoro è che questa si instaura a partire da ricompense secondarie, dal piacere indiretto prodotto dall’azione lavorativa protratta e ripetuta, un fattore che permette di comprendere come mai si riesca a diventare dipendenti da un’attività che raramente produce anche qualche ricompensa primaria o diretta. Il lavoro, infatti, non rappresenta un oggetto di appagamento immediato, ma rappresenta un’attività che richiede l’esecuzione di uno sforzo per ottenere una gratificazione economica o di qualunque altro tipo. Questo consente due considerazioni. Innanzitutto, non tutti i lavoro-dipendenti sono masochisti, dal momento che questo modo di manifestare tendenze auto-punitive sembra piuttosto raro. La seconda implicazione è che questa forma di dipendenza è possibile nelle persone in cui si è sviluppato il cosiddetto “processo secondario”, ossia la capacità di rinunciare a un piacere attuale in prospettiva di una ricompensa futura, un aspetto che fa indurre la presenza nei lavoro-dipendenti di una certa “maturità psicologica” rispetto alla gestione dei bisogni e delle mete, un aspetto che spesso manca o è carente in altri tipi di dipendenze.

Le persone affette da questa dipendenza mostrano inoltre una sostanziale aridità personale, una difficoltà nell’affettività e un sostanziale rifiuto delle attività rilassanti che vengono vissute come amorali. Il workaholic giudica il rilassarsi un momento inaccettabile di mollezza e indolenza. Come dicevamo, queste persone arrivano a lavorare anche 14/16 ore al giorno e la loro tragedia è che l’oggetto della loro dipendenza non è qualcosa di “brutto” come avviene per esempio nell’abuso di sostanze psicoattive o nell’alcoolismo, ma anzi è qualcosa di “bello”. Per bello intendiamo qualcosa di socialmente apprezzato e stimabile, su cui il nostro modello occidentale di sviluppo fonda le sue radici. Il workaholic riceve così un grande consenso sociale da parte di chi percepisce il lato positivo, la produttività, o beneficia della dipendenza (il datore di lavoro per esempio), è invece oggetto di fortissime critiche in ambito amicale e affettivo.

I più colpiti sono i figli e il coniuge in quanto il workaholic tende a trascurare la famiglia e all’interno dell’ambiente domestico o privato tende ad ogni modo a rimanere concentrato sull’attività lavorativa senza tregua, tralasciando week-end e festività. Vediamo così che, se nell’ambito professionale questa dipendenza è accettata e quasi premiata, nell’ambito domestico si viene invece ad instaurare una sorta di congiura del silenzio, nessuno deve parlare o permettersi di mettere in discussione lo stile di superlavoro del workaholic che anzi spesso si vanta di essere l’unico sostegno della famiglia, percependo il resto del mondo come stolto e indolente, fa fatica a provare emozioni per i propri cari e ad essere affettuoso con il coniuge o gli amici. L’ambito privato soffre così enormemente dell’assenza fisica ed emotiva della persona.

Una ricerca condotta dalla Grant Thornton ha rilevato che in Inghilterra il 6% dei divorzi dell’anno 2004 è da attribuire alla fuga da parte di uno dei due coniugi dal workaholic. Si potrebbe pensare che la sindrome sia prevalentemente maschile, in realtà la differenza tra uomini e donne pur mostrando una superiorità negli uomini non è così ampia e significativa. Spesso, è la donna che anche come forma di estrema emancipazione si realizza attraverso un’attività lavorativa frenetica e totalizzante, che la porta a estraniarsi dal mondo e dai rapporti affettivi.

Proprio in quanto gode di un certo rinforzo sociale, la dipendenza da lavoro diventa esagerazione di un comportamento normalmente giudicato positivo e quindi molto difficile da identificare e da curare. Il workaholic non si presenta spontaneamente al SERT ma anzi è fiero del suo essere attivo e produttivo. Spesso, solo la crisi familiare lo porta a rivolgersi a uno specialista: quasi sempre però attribuisce la colpa ai familiari e alle persone che non lo capiscono.

Dall’altro lato però vediamo che questa dipendenza nasconde profondi sentimenti depressivi e di inadeguatezza, il workaholic si sente solo e perso, sente di avere pochi strumenti nella vita, ma ha trovato nel lavoro e nell’efficienza professionale qualcosa con la quale mostrare il proprio valore. Il lavoro diventa così un vero e proprio “antidepressivo”, che da senso alle giornate, alle settimane e agli anni.

Proviamo a fare un passo in avanti, se trattiamo il workaholism come ogni dipendenza, dobbiamo considerare l’intera gamma di fattori che lo compongono:

– primo fra tutti la famiglia di origine, la quale sembra avere un ruolo cruciale nello sviluppo di questa dipendenza. Il ruolo principale sarebbe quello dell’apprendimento, i figli imparano dai genitori modalità di azione performanti che cercano di replicare all’interno della propria vita: eccellendo a scuola, nelle attività extracurriculari e nello sport per ricevere approvazione, amore e attenzione da parte dei genitori. Il bambino spesso non è in grado di riconoscere nel genitore un disturbo e lo vive come normalità; oppure accorgendosene prova ad adottare comportamenti adattativi tra cui, ad esempio, un minore investimento nell’area socio-relazionale, che può sfociare in un progressivo “raffreddamento” dei sentimenti e nella negazione delle proprie emozioni (Robinson, 1998);

– altro fattore importante da considerare è l’insieme dei tratti di personalità associati al bisogno di realizzazione individuale e legati alla concezione moderna della realizzazione personale di sé, della motivazione al successo, del perfezionismo e della coscienziosità etica e morale (Ng e colleghi, 2007);

– non bisogna dimenticare l’innovazione tecnologica che oggi svolge un ruolo determinante. L’avvento di Internet, delle e-mails, del teleworking, degli smartphones, dei tablet e di tutti quei dispositivi portatili che ci permettono di essere sempre connessi, reperibili e attivi e che hanno cancellato i fisiologici confini tra sfera professionale e sfera privata, determinando l’“invasione” del lavoro in spazi e tempi precedentemente dedicati ad altro;

– oltre ai fattori familiari e socio-culturali, una delle cause principali nello sviluppo di questo tipo di dipendenza va ricercata nei bisogni insoddisfatti e rimossi, nei sentimenti di inadeguatezza e di non amabilità di base, a conseguenza dei quali la persona sente di dover raggiungere certi standard per essere accettata e non essere sopraffatta da un vuoto interiore. La grande quantità di lavoro e il conseguimento frenetico dei risultati sembrano essere un tentativo di colmare bisogni di autodeterminazione e di evitare il contatto con i propri sentimenti più intimi. Il workaholic soffre di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi (dalla rabbia alla depressione) e a un’incapacità di adattamento che si manifesta con sentimenti di scarsa stima di sé, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali. Alla base di questo atteggiamento compulsivo c’è un vissuto di vergogna e un forte senso di inadeguatezza, che viene mascherato attraverso il bisogno di controllo, il perfezionismo, l’iperattività: fare sempre di più lo fa stare meglio (Robinson, 1998);

– in ultimo, ma non meno importante, va considerato l’”overwork climate“, ovvero un clima organizzativo tipico dell’azienda moderna, in cui ognuno è strettamente dipendente dagli altri, condiziona ed è condizionato da tutti, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia.

Vorrei soffermarmi brevemente sul mutamento radicale che la società dei giorni nostri ha registrato attraverso eventi quali la globalizzazione e l’avanzamento tecnologico che hanno riportato ad un forte valore dell’etica lavorativa (Cherrington, 1980; Harpaz, 1988; Vecchio, 1980). E’ la nostra società che ha registrato un cambiamento tale da indurre la letteratura scientifica a rivolgere il proprio interesse per lo sviluppo di una vera e propria patologia in ambito lavorativo (Jones, Burke & Westman, 2006; Kinnuen, Geurts & Mauno, 2004; Ng, Sorensen & Feldman, 2007). Le conseguenze di una società sempre di fretta hanno fatto sì che alcuni soggetti (soprattutto i più fragili e i più deboli) dedichino esclusivamente le loro energie e il loro tempo libero alla vita lavorativa (Bakker, Demerouti & Dollard, 2008).

 

L’influenza della società e del clima organizzativo sullo sviluppo del workaholism

L’etica del lavoro si configura così come questo forte impegno nel lavorare sempre di più, che vediamo andare di pari passo con lo sviluppo della nostra società. Lavorare diventa così sempre più un dovere e sempre meno un piacere. E per far fronte a questo impegno crescente impegniamo al massimo le nostre forze fisiche e morali. Lavorare diventa un impegno della psiche e dell’anima diventando così workaholism, una malattia dell’anima, una droga.

Vediamo a questo punto che il potere in mano alle aziende è estremamente forte, queste possono infatti farsi promotrici di un clima e di uno stile di vita e di lavoro sano, quanto di un overwork climate, che rientrerebbe tra i fattori che compongono il workaholism.

Lo studio di Mazzetti, Schaufeli, and Guglielmi del 2014, suggerisce infatti che il workaholism ha più probabilità di aver luogo quando determinate caratteristiche personali interagiscono con uno specifico clima organizzativo. Caratteristiche personali come ad esempio perfezionismo, motivazione al successo, estrema scrupolosità ed efficienza incontrano un ambiente di lavoro sfidante è più probabile avere casi di workaholism. Il clima di lavoro è un ambiente che non riconosce ma ricompensa il comportamento compulsivo al lavoro. Il clima organizzativo è il risultato di pratiche, politiche e procedure previste e ricompensate sul luogo di lavoro. Come conseguenza, un efficace cambiamento del clima può essere raggiunto solo con la modificazione di queste pratiche che porterebbe a una reinterpretazione degli scopi e delle aspettative dell’organizzazione  (Kopelman, Brief, & Guzzo, 1990).

 

Come affrontare il workaholism: il work life balance

Ecco allora che iniziamo a capire come poter utilizzare lo strumento del work life balance all’interno delle aziende. Potrebbe essere utile introdurre brevemente il concetto di work engagement, per designare il benessere del lavoratore che prova uno stretto legame affettivo nei confronti delle sue attività lavorative e si sente capace di occuparsi delle richieste del suo lavoro (Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001). Se l’azienda riuscisse a farsi promotrice di engagement e creatrice di un clima organizzativo positivo, riuscirebbe ad evitare di creare le condizione di base favorevoli allo sviluppo della dipendenza da lavoro.

Se l’obiettivo dell’azienda diventa quello di creare engagement nei propri collaboratori verso il loro lavoro, lo strumento giusto diventa proprio il work life balance. Questa attenzione al capitale umano, potrebbe aiutare nell’individuare e supportare i workaholic ed evitare di diventare promotrice attiva di questo tipo di dipendenza. Ad esempio potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Potrebbe inoltre promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

Un ottimo spunto rispetto a come le aziende potrebbero affrontare il tema del workaholism ci arriva da Bakker e colleghi che trattano il tema del work-engagement in contrapposizione al workaholism. Il work-engagement presuppone il fatto che i lavoratori siano felici di lavorare, trascorrano le ore lavorative impegnandosi con vigore senza rinunciare alle altre attività nel tempo libero e non risultino essere lavoratori infelici che sentono il bisogno impellente di dover lavorare per forza. Nel work-engagement sono fondamentali le risorse lavorative: il supporto dei colleghi e dei supervisori, i feedback, la varietà di abilità, l’autonomia e le opportunità (Bakker & Demerouti, 2008; Halbesleben; Schaufeli & Salanova, 2007).

Per risorse lavorative si intendono gli aspetti fisici, sociali e organizzativi come ad esempio: diminuire le richieste lavorative e i sacrifici fisiologici e psicologici associati; essere stimolati nel raggiungimento degli obiettivi; stimolare la crescita, l’apprendimento e il progresso della persona (Bakker & Demerouti, 2007; Schaufeli & Bakker, 2004). Le risorse lavorative, quindi, agiscono sia sulla motivazione intrinseca incrementando la crescita, l’apprendimento e il progresso, sia sulla motivazione estrinseca con il raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Soddisfano i bisogni degli individui di autonomia, competenza e di relazione (Deci & Ryan, 1985; Ryan & Frederick, 1997; Van den Broeck, Vansteenkiste, De Witte, & Lens, 2008). Gli ambienti lavorativi che offrono risorse sollecitano i lavoratori a dedicarsi al proprio lavoro poiché è piacevole dedicarsi ai compiti che vengono svolti con successo e agli obiettivi che vengono raggiunti.

Nell’ambito della ricerca, la definizione di engagement maggiormente utilizzata è quella di Schaufeli, Salanova, González-Romá & Bakker (2002) che definiscono il costrutto come uno stato psicologico positivo, appagante, di legame con il lavoro caratterizzato da:

  • vigore: ovvero alti livelli di energia e di resilienza durante il lavoro, la disponibilità nell’investirvi tutte le proprie forze e la perseveranza dinanzi le difficoltà;
  • dedizione: un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida;
  • assorbimento: l’essere pienamente concentrati e assorti nel proprio lavoro, attraverso il quale il tempo scorre velocemente e si ha difficoltà a staccarsi. L’essere assorbiti è vicino a ciò che può essere definito “flusso” (Csikszentmihalyi, 1990), uno stato ottimale, sebbene duri poco a differenza di uno stato mentale più pervasivo e persistente, come il caso dell’assorbimento.

E’ interessante sottolineare come il livello individuale e quello dell’organizzazione siano contingenti. Lavoratori workaholic hanno infatti esperienze negative legate al lavoro, sperimentano più conflitti al lavoro (Mudrack, 2006), sono meno soddisfatti del proprio lavoro (Burke & MacDermid, 1999) , riportano maggiori interferenze lavoro-vita privata (Schaufeli, Bakker, Van der Heijden, & Prins, 2009; Taris, Schaufeli, & Verhoeven, 2005), e hanno relazioni sociali più povere al di fuori dell’ambito lavorativo (Robinson, 2007; Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008); sono meno soddisfatti della propria vita (Bonebright, Clay, & Ankenmann, 2000) e lamentano maggiori sforzi sul lavoro e problemi di salute (Burke, 1999, 2000).

I lavoratori engaged sperimentano invece esperienze positive (Van Beek, I., Taris, T. W. , Schaufeli, W.  B. , 2011), sono maggiormente soddisfatti del proprio lavoro e sono più committati nei confronti dell’organizzazione  (Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008), mostrano maggiore iniziativa personale (Sonnentag, 2003), performano meglio (Salanova, Agut, & Peiro´, 2005; Xanthopoulou, Bakker, Demerouti, & Schaufeli, 2009), hanno minor motivazione a lasciare l’organizzazione (Schaufeli & Bakker, 2004) e sono meno spesso assenti (Schaufeli, Bakker, & Van Rhenen, 2009). Inoltre spendono tempo a socializzare, hanno attività extra lavorative, hobbies e fanno volontariato (Schaufeli et al., 2001), hanno una maggiore soddisfazione della propria vita in generale e una buona salute fisica e mentale (Schaufeli & Salanova, 2007a; Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008). Sebbene lavorino duramente entrambe le tipologie di lavoratori (workaholic e work-engagement) prestando attenzione ai differenti tipi di out-come è chiaro come questi sperimentino differenti stati psicologici, motivo per cui il workaholism è considerato un “male” per il singolo e per l’organizzazione, mentre il work-engagement è considerato per natura un “bene”. (Schaufeli, Taris, & Bakker, 2008). Lo studio di Van Beek e Coll (2011) vuole proprio dimostrare come queste due tipologie di lavoratori, per loro natura differenti, differiscano per regolazione motivazionale e burnout.

In conclusione vediamo confermata l’ipotesi iniziale che postulava che le aziende non possono pensare di risolvere la problematica del workaholism solamente attraverso iniziative di work life balance. Il workaholism è una vera e propria dipendenza e deve essere trattata come tale, l’azienda può quindi agire attivamente per creare e instaurare al suo interno un clima organizzativo positivo che sia terreno fertile di promozione dell’engagement e che allontani il più possibile dalla minaccia del workaholism.

Gli effetti degli eventi avversi sul patrimonio genetico dell’individuo

Gli eventi avversi, che accadono nel corso del ciclo di vita dell’individuo, hanno una lunga ombra: infatti, essi sono in grado di accelerare i processi di invecchiamento cellulare, che predispongono all’insorgenza di varie malattie.

 

Gli eventi stressanti, che accadono nel corso del ciclo di vita dell’individuo, hanno una lunga ombra: infatti, essi sono in grado di accelerare i processi di invecchiamento cellulare, che predispongono all’insorgenza di varie malattie. Lo stress cronico sembra agire sulla lunghezza del telomero, che è la parte terminale del cromosoma, determinando l’accorciamento della catena da cui è composto. L’accorciamento dei telomeri è associato a diverse malattie e ad una precoce mortalità. Le avversità nel corso del ciclo di vita incrementano dell’11% la probabilità di un accorciamento dei telomeri cellulari.

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Effetti di stress ed eventi avversi sul cromosoma

Lo stress cronico sembra agire sulla lunghezza del telomero, che è la parte terminale del cromosoma, determinando l’accorciamento della catena da cui è composto (Puterman e coll., 2016).

Negli anni 60 del secolo scorso fu formulata da Hayflick (1965) la teoria della senescenza cellulare. Secondo questo costrutto, alla base della senescenza cellulare ci sarebbe l’accorciamento progressivo dei telomeri durante la replicazione cellulare. La diminuzione della lunghezza dei telomeri determinerebbe un’alterazione della loro funzionalità (Pigliaru, 2014).

Il telomero è una capsula che avvolge la parte terminale del cromosoma, svolgendo una funzione protettiva; in pratica, ha la funzione di prevenire la perdita di informazioni che può accadere durante la replicazione dei cromosomi (Blackburn, 2000). Esso è costituito da DNA, legato a proteine, che forma una catena (de Lange e coll., 1990). Con il passare del tempo e, quindi, con le replicazioni cellulari, i telomeri subiscono un accorciamento (Samassekou e coll., 2010).

 

Dal cromosoma all’insorgenza di malattie

L’invecchiamento della cellula gioca un ruolo determinante nell’insorgenza di malattie. Esso è prodotto dalla diminuzione della lunghezza dei telomeri cellulari (Blasco, 2005; Armanios e Blackburn, 2012). Esperimenti fatti sui roditori hanno evidenziato che telomeri più corti rispetto alla media determinano una minore attività di essi, che causa danni all’apparato mitocondriale della cellula e ciò provoca alcune patologie (Sahin e DePinho, 2012).

L’accorciamento dei telomeri è associato a diverse malattie nell’uomo. Per esempio, dei telomeri più corti nei globuli bianchi sono connessi ad un incremento dell’80% della probabilità di avere una malattia cardiovascolare (Haycock, 2014). Ulteriori ricerche hanno associato la lunghezza dei telomeri nelle cellule con la comparsa di diabete e neoplasie. In pratica, più corti sono i telomeri e più aumenta la probabilità di sviluppare il diabete (Zhao, 2013) o il cancro (Wentzensen e coll., 2011). Altri studi hanno mostrato che telomeri più corti, reperiti in varie sedi del corpo umano, sono correlati ad una precoce mortalità (Glei e coll., 2015).

 

Gli effetti degli eventi avversi passati

Secondo una ricerca nordamericana (Puterman e coll., 2016), gli eventi avversi durante la fanciullezza e l’età adulta incrementano l’accorciamento dei telomeri. Lo studio ha considerato 4598 soggetti, uomini e donne, con un’età uguale o superiore a 50 anni, che avevano vissuto una serie di eventi avversi nel corso del loro ciclo vitale.

Infatti, nella loro storia si potevano trovare, durante la fanciullezza, eventi avversi come gravi rovesci finanziari familiari, abuso di alcol e droghe nei genitori, storie di insuccessi scolastici, episodi delinquenziali. Nell’età adulta, la loro biografia era costellata da altri eventi avversi, come perdita del lavoro, la morte di un figlio o del coniuge, l’aver vissuto una catastrofe naturale, un partner con problemi di dipendenza da alcool e droghe.

Ai soggetti considerati è stata misurata la lunghezza dei telomeri delle ghiandole salivari, attraverso l’analisi della saliva. La ricerca ha stabilito che le avversità nel corso del ciclo di vita incrementano dell’11% la probabilità di un accorciamento dei telomeri cellulari.

La pagina bianca del 2017 – Preoccupati dal nuovo anno? Il segreto è diventare meno attenti

Anno nuovo, nuovo inizio. Entusiasti o preoccupati? Più probabile la seconda, purtroppo. La nostra mente, a torto o a ragione, è specializzata nel produrre pensieri negativi. E se preoccupati, di cosa? Dell’indefinitezza del futuro o della necessità che anche noi concorriamo a scriverlo, questo futuro? E se dobbiamo scriverlo anche noi, cosa scrivere? Come riempire questa pagina bianca?

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 31 dicembre 2016

 

 

Lo psicoanalista Bergler riteneva che lo scrittore paralizzato davanti alla pagina bianca fosse un imputato davanti al tribunale del suo super-io. Di qui il blocco. La modernità pragmatica però preferisce spiegazioni più semplici e meno romantiche. La sindrome della pagina bianca non è problema da malati immaginari, è una realtà. Quando non si sa bene ancora cosa fare o cosa scrivere, il blocco deriva banalmente dal fatto che non si sa ancora cosa scrivere.

Avere qualcosa da dire non è cosa da poco e non è un problema immaginario. Come si fa a decidere di avere un’idea, per di più buona? La mente lavora sempre certo, ma il lavoro inventivo non è frutto di decisioni. È un po’ come innamorarsi. Possiamo deciderlo? Semmai decidiamo di creare i presupposti. Di allargare la nostra cerchia sociale, ad esempio, nella speranza che nel giardino delle conoscenze sbocci l’amore.

Se dobbiamo scrivere qualcosa e ancora non sappiamo bene cosa scrivere, possiamo decidere di sistemarci in scrivania davanti alla pagina, che è appunto bianca. Se dobbiamo montare un mobile e non abbiamo idea di come fare, non c’è nemmeno un libretto di istruzioni, possiamo decidere di sistemarci li, in mezzo ai pezzi di un puzzle incomprensibile. E l’attenzione vaga a caso un po’ sui componenti sparsi sul pavimento, un po’ altrove. Possiamo decidere tante cose, possiamo decidere di cercare ma non possiamo decidere di trovare.

Insomma, il senso di vertigine che si ha davanti a un nuovo compito in cui poco o nulla è chiaro non è una debolezza della mente, è un ostacolo reale. La mente, nella sua onnipotenza, può nutrire l’illusione che basti un po’ di volontà. Non è così purtroppo. Anzi, i mezzi che abbiamo a disposizione possono essere dannosi. E questi mezzi quali sono? Nient’altro che la nostra attenzione. Un po’ di attenzione funziona, intendiamoci. Per un po’ di tempo  è giusto passare in rassegna le idee che già conosciamo. Non ci vuole tanto però, si rimane nell’ordine dei minuti. Se in questo intervallo di tempo focalizzato non ci sono venute idee, vuol dire che tutto quel che già sappiamo e sappiamo fare non è sufficiente, non serve, non funziona del tutto.

Saggezza vorrebbe che passassimo ad altro: non possiamo farci venire una buona idea semplicemente volendolo. Per una nuova buona idea abbiamo bisogno di tempo, abbiamo bisogno che la nostra mente apprenda nuove informazioni e cresca su di esse, le connetta a quello che già sa e la elabori, questa nuova buona idea. E per fare questo l’attenzione non è per nulla utile, anzi è deleteria.

L’attenzione non è una facoltà creativa, è solo una capacità esecutiva di concentrare le forze già presenti su una leva, e metterla in azione. È un “Pronti? Via!” Se però queste forze sono insufficienti o la leva scelta è sbagliata, l’attenzione deraglia a un vagabondare sterile e rimuginativo, il mind-wandering e il worry della letteratura scientifica anglofona. E ben presto degrada in un’autoflagellazione.

Insomma, davanti alla pagina bianca che non si riempie crediamo di stare continuando a cercare una buona idea e iniziamo a pensare che siamo degli incapaci. Siamo noi stessi, e non il nostro super-io, che ci giudichiamo spietatamente, e tutto solo perché non accettiamo che, per ora, non sappiamo cosa scrivere. Perché lo facciamo? Perché intestardirsi? È una forma decaduta del vecchio “conosci te stesso”. Un’illusione che l’ostacolo risieda in qualcosa che non va in noi stessi. E così ci impegniamo in una ricerca a vuoto dei nostri difetti, che a sua volta si risolve in una condanna di noi stessi che ulteriormente ci obbliga all’inazione e che in più ci illude di essere un sorta di percorso di conoscenza di sé, di analisi, di crescita. E invece è solo un’autoumiliazione.

Che fare, dunque? Di fronte al non saper che fare, meglio sarebbe concentrare la mente altrove, su qualcosa di fattivo che sappiamo già fare. Così diamo tregua al motore mentale e gli diamo tempo di elaborare una nuova buona idea. Insomma, lasciamo lavorare tranquilla la nostra mente. La nostra pedante, limitata e fastidiosa attenzione esecutiva (questo è il termine tecnico), con la quale troppo spesso erroneamente ci identifichiamo chiamandola pomposamente “Io”, è spesso solo una seccatrice che rallenta il lavoro mentale. Non ci conviene confondere noi stessi con una nostra funzione mentale sopravvalutata. Se la pagina è bianca, distogliamo la nostra attenzione dai nostri problemi e da noi stessi, alziamoci, andiamo a farci una passeggiata e attendiamo con calma che si accenda la lampadina sorseggiando un caffè al bar. Oppure no. Si può anche non scrivere nulla, compreso il proprio futuro. Il futuro è un po’ come la vita: è quel che accade mentre rimugini su altro. Vale anche per il 2017.

Il sesso a portata di un click: dipendenza sessuale ed eccessivo uso di internet

Nel cyberspazio stanno cominciando ad emergere molte patologie sociali definite “dipendenze tecnologiche”, tra queste, un settore che merita un ulteriore esame, è la dipendenza sessuale e il suo rapporto con l’uso eccessivo di Internet.

Martina Tramontano – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

L’avvento di nuove tecnologie sempre più sofisticate e la crescita esplosiva dell’accessibilità ad Internet stanno profondamente trasformando la cultura e alterando i modelli di comunicazione sociale e di relazione interpersonale.

Le persone sembrano dedicare sempre più tempo della loro vita quotidiana alla connessione al web e, a tal proposito, alcuni studiosi hanno messo in evidenza come nel cyberspazio stiano cominciando ad emergere molte patologie sociali definite “dipendenze tecnologiche”. Tra queste, un settore che merita un ulteriore esame, è la dipendenza sessuale e il suo rapporto con l’uso eccessivo di Internet. Infatti, il sesso è segnalato per essere l’argomento più frequentemente cercato su Internet (Freeman-Longo & Blanchard, 1998), e il perseguimento del soddisfacimento sessuale online o “cybersex” è un’attività comune tra gli utenti del web.

Ricerca e media si sono molto concentrati, e, talvolta allarmati, sul lato problematico delle attività sessuali online, anche se è stato riscontrato che solo una minoranza dei soggetti ha avuto poi esperienze problematiche.

Cooper, Delmonico, e Burg (2000) hanno trovato che solo circa il 17% di coloro che usano Internet per fini sessuali mostrano problemi legati ad esso. Forse questa eccessiva attenzione orientata al polo problematico deriva da una credenza secondo cui Internet è un settore pericoloso contenente immagini e film pornografici, prostituzione, pedofilia e infedeltà.

Altri ricercatori hanno descritto il comportamento sessuale online come un continuum che si estende dall’adattativo al patologico (Cooper, et al., 1999; Leiblum, 1997). Siccome l’utilizzo di Internet continua ad aumentare e sempre più medici e psicologi si trovano ad incontrare pazienti con problemi derivanti da un comportamento sessuale compulsivo online, diventa importante capire, valutare e trattare questo fenomeno.

In questo articolo partiremo da una panoramica sul concetto di dipendenza sessuale per poi trattare più nel dettaglio la sua relazione con l’utilizzo del web.

 

La dipendenza sessuale

Il fenomeno di un desiderio sessuale eccessivo ed atipico è stato oggetto di molte discussioni cliniche e approfondimenti negli ultimi 30 anni, soprattutto riguardo la legittimità della “dipendenza sessuale” ad essere considerata una vera e propria “malattia medica” o semplicemente una “costruzione sociale-esperenziale” (Kwee, 2007).

Nella comunità medica, scientifica e specialistica della sessuologia non si è raggiunto un consenso sul fatto che esista effettivamente e su come descrivere il fenomeno. Gli esperti che ne sostengono l’esistenza la descrivono come un’effettiva dipendenza: al pari dell’alcolizzato o del tossicodipendente anche i sex addicted non sono in grado di fermare il loro comportamento sessuale autodistruttivo e spesso ignorano le gravi conseguenze fisiche, emotive e interpersonali che esso comporta. Altri studiosi la ritengono una forma di disturbo ossessivo-compulsivo e si riferiscono ad essa come ad una compulsione sessuale (Kingstone, 2008); altri ancora credono che la dipendenza sessuale,  sia un mito in sé, un sottoprodotto di influenze culturali o di altro tipo (Giles, 2006).

La controversia riguarda anche il termine più appropriato da utilizzare per definirla: le etichette hanno spaziato da “dipendenza sessuale” (Carnes, 1983),”impulsività sessuale“(Barth & Kinder, 1987), e “ipersessualità non parafiliaca” (Kafka, 2001), a “comportamento sessuale compulsivo“(Coleman, 1991) e “sessualità disregolata” (Winters, Christof, & Gorzalka, 2010).

Il comportamento sessuale eccessivo (ninfomania e satiriasi) viene identificato come una diagnosi medica (F52.7) nell’ICD-10, il più recente codice medico internazionale (World Health Organization, 2008). Nel DSM-IV-TR viene affrontato solo indirettamente come esempio di un disturbo sessuale NAS (302,9) (American Psychiatric Association, 2000). Il DSM-5 getta le basi per un futuro consenso diagnostico includendo al suo interno il “disordine ipersessuale”.

Nonostante tale dibattito nosologico, clinico, filosofico sulla dipendenza sessuale è evidente l’esistenza di un grosso numero di persone in difficoltà che ricercano un trattamento per un comportamento sessuale incontrollato, compulsivo e patologico (Garcia & Thibaut, 2010).

Diventa rivelante però evidenziare alcune considerazioni diagnostiche riguardo la dipendenza sessuale, perché non tutti i comportamenti sessuali ritenuti non tradizionali possono configurarsi come una dipendenza o risultano essere necessariamente problematici. Esclusivamente quando il comportamento diventa dominante nella vita dell’individuo e sfugge al suo controllo volontario possiamo identificare una dipendenza e giustificare un intervento professionale.

Carnes (1999) definisce la dipendenza sessuale come qualsiasi comportamento compulsivo legato al sesso che interferisce con la vita quotidiana fino al punto di diventare ingestibile. È difficile stabilire l’entità di essa, anche se le stime sembrano variare tra il 3-6% della popolazione (Carnes, 1999).

I ricercatori e gli autori che si sono occupati di definire il costrutto di “dipendenza sessuale”, hanno notato l’esistenza di alcuni pattern che si ripetono nelle storie degli individui affetti da tale patologia. Vediamo quali sono:

  • Storie di abusi: i ricercatori hanno notato una forte correlazione predittiva tra una storia infantile di abusi e lo sviluppo di una dipendenza sessuale in età adulta (Opitz, Tsytsarev, & Froh, 2009). Traumi precoci come l’abuso fisico, emotivo e sessuale, hanno dimostrato di avere un impatto drammatico sullo sviluppo neurologico, che a sua volta è stato associato con problemi nel comportamento sessuale (Katehakis, 2009).
  • Attaccamento insicuro (Ainsworth, 1969): le relazioni caotiche all’interno della famiglia di origine sono il secondo elemento caratterizzante le storie dei sex addicted (Zapf, Greiner, & Carroll, 2008).Violazioni di confine croniche, una storia familiare di dipendenza, “ruoli” rigidi compromettono ulteriormente lo sviluppo portando alla comparsa di sentimenti di vergogna, solitudine, isolamento, rabbia, ansia, e di un profondo senso di inutilità personale (Ferree, 2010). Queste dinamiche producono un impoverimento relazionale e un dannoso senso di vergogna che alimentano i meccanismi auto-rassicuranti della dipendenza sessuale (Flores, 2004).
  • Disturbo nel controllo dell’impulso: deficit dell’attenzione e disturbo dell’iperattività non trattati (ADHD) sembrano essere altamente correlati con la dipendenza sessuale. Sono stati rintracciati diversi parallelismi tra le persone con ADHD e i sexual addicted. Entrambi sono orientati alla ricerca di stimoli, gravitano intorno a comportamenti ad alto rischio, ed hanno una bassa soglia per la noia; anche la disregolazione neurochimica è implicata in entrambi i contesti. I ricercatori suggeriscono che lavorare sul trauma, rilevante per entrambi i disturbi, deve essere una priorità nel trattamento di essi (Blankenship & Laaser, 2004).
  • Comorbidità con i disturbi dell’umore e le altre dipendenze: è stato ampiamente osservato il ruolo di interconnessione assunto dalla comorbidità tra disturbi dell’umore, altre dipendenze e dipendenza sessuale. La dipendenza da sostanze, shopping, lavoro, il gioco d’azzardo compulsivo non solo coesistono,  ma possono anche giocare una parte nel comportamento ritualistico che porta all’acting out del sex addicted (Irons & Schneider, 1994). La ricerca dimostra inoltre che la depressione e l’ansia sono significativamente più alte nella popolazione sessualmente dipendente che nella popolazione generale (Weiss, 2004).

Le conseguenze di un eccessivo comportamento sessuale sono di vasta portata e possono portare alla perdita di relazioni affettive, gravi problemi coniugali e familiari, difficoltà lavorative, problemi finanziari, perdita d’interesse per tutto ciò che non attiene al sesso, bassa autostima e disperazione. Inoltre con il passare del tempo gli individui dipendenti dal sesso sviluppano tolleranza verso tale pratica e non traggono più soddisfazione dalla loro attività sessuale. Tale fenomeno li costringe non solo ad aumentare la frequenza con cui intrattengono esperienze sessuali, ma anche ad andare alla ricerca di attività sessuali insolite e a fare un maggiore utilizzo del materiale pornografico. È bene tenere in considerazione che i modelli di comportamento discussi sono solo indicativi e non escludono altri segni che possono caratterizzare la dipendenza sessuale.

Uno degli sviluppi più interessanti degli ultimi anni è la connessione tra dipendenza sessuale e crescente utilizzo di Internet. La ricerca in questa nuova area è solo agli inizi e sembra di gran lunga aver prodotto più domande che risposte rendendo necessari ulteriori approfondimenti.

 

Dipendenza sessuale e utilizzo del Web

Generalmente quando si parla di sessualità online si fa riferimento a tutte le modalità di impiegare il web allo scopo di raggiungere eccitazione e soddisfazione sessuale.

Tali attività posso comprendere la visione e lo scambio di materiale pornografico, oppure la frequentazione di chat rooms a contenuto sessuale (spesso utilizzando ruoli di fantasia per esplorare i propri desideri sessuali più intimi), la scrittura e la lettura di romanzi erotici, l’uso di web-cam per attività erotiche virtuali e la ricerca di incontri con persone che si prostituiscono.

La cybersexual addiction è la dipendenza da queste attività sessuali virtuali.

Cooper (1998a) ha suggerito che ci sono tre fattori primari che alimentano la sessualità online rendendola un’area attraente per il soddisfacimento sessuale.

Essi sono: accessibilità (milioni di siti disponibili 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana), convenienza (la concorrenza sul web permette di mantenere prezzi bassi e una quantità significativa di materiale sessuale è disponibile senza alcun costo o commissione nominale), anonimato (protegge la persona coinvolta, permette la libera esternazione di fantasie sessuali normalmente represse, dà un maggiore senso di libertà e una riduzione del senso di vergogna).

J. Riemersma e M. Sytsma (2013) descrivono la dipendenza sessuale su Internet (definita da loro “contemporary sexual addiction”) come il prodotto di una trilogia “tossica” tra cronicità, contenuti e cultura. Secondo il loro pensiero la ripetuta e cronica esposizione a contenuti sessuali viene rafforzata dal dilagare di una cultura sempre più sessualizzata: questa forte interazione produce un vortice all’interno del quale vengono ingaggiati e si sviluppano i sex addicted.

Poiché l’esposizione è la variabile fondamentale, le caratteristiche demografiche associate a questa tipologia di dipendenza sono molto diverse e non conformi ai precedenti modelli e, per questo, non può essere trattata mediante le modalità tradizionali d’intervento (Cantor et al., 2013). Ogni tipologia di età, cultura, genere, razza, livello socio-economico, livello d’istruzione sembrano ugualmente colpiti dalla dipendenza per il cybersesso. I precursori della dipendenza sessuale (descritti precedentemente) non sono più implicati come causale, ma possono fungere da moderatori rispetto al grado di gravità con cui si sviluppa la dipendenza sessuale online.

 

La psicoterapia nella dipendenza sessuale online

Nel suo libro, “Tangled in the Web”, Young (2001) fornisce un approccio di recupero integrato che combina le terapie cognitivo-comportamentali e orientate allo stimolo.

Secondo l’autrice il recupero dalla dipendenza sessuale online è molto simile al recupero nelle dipendenze alimentari. Come in quest’ultima il paziente non può semplicemente astenersi dal cibo come parte del suo trattamento, ma deve orientarsi alla scoperta di modalità più funzionali di entrare in contatto e vivere quotidianamente con esso, analogamente i dipendenti dal cybersesso devono ricercare modi più sani di convivenza con il web. Nella società odierna, infatti, la maggior parte delle persone necessitano quotidianamente di un computer per lavorare, e quasi tutte le abitazioni sono fornite di un pc, per cui praticare l’astinenza per un dipendente dal sesso online diventa un’azione più complessa: in queste molteplici situazioni in cui si trova a dover interagire con un computer egli deve mettere in campo forme di autocontrollo per realizzare azioni correttive e astinenza dal cybersesso.

Per raggiungere questo obiettivo, Young (2001) suggerisce che i pazienti devono come primo passo valutare il proprio rapporto con Internet al fine di esaminare la portata e la frequenza di utilizzo del sesso online identificando le situazioni ad alto rischio, i sentimenti, o gli eventi che innescano il comportamento.

Poi devono concentrarsi sul cambiamento comportamentale al fine di raggiungere forme più adattive: dovrebbero ridurre il tempo inutile online e astenersi da ogni comportamento sessuale; evitare le situazioni ad alto rischio che potrebbero portare a ricadute e recuperare le relazioni perdute. Infatti i sex addicted a causa della loro dipendenza finiscono per perdere relazioni significative presenti nella vita reale. Siccome spesso erano proprio questi individui che fornivano loro sostegno, accettazione e amore, la loro assenza fa sentire il paziente inutile e rafforza la concezione del passato di non essere una persona amabile. È importante che il paziente ristabilisca queste relazioni per ritrovare il supporto necessario per combattere la dipendenza. Infine Young sottolinea che il trattamento è un processo di auto-esplorazione che dovrebbe fornire supporto e affermazione per creare un’immagine positiva di sé.

Nella terapia per i sex addicted si dimostra utile anche il lavoro di gruppo che aiuta i pazienti ad apprendere competenze interpersonali, responsabilizzarsi e sviluppare relazioni autentiche. Esistono poi innumerevoli risorse online che possono essere utilizzate allo scopo di migliorare la terapia. Spesso gli individui, infatti, non sono in grado di arrivare agli incontri a causa della distanza o per la preoccupazione e l’imbarazzo di essere identificati. Tutte queste problematiche con il trattamento online vengono completamente risolte o ridotte al minimo.

Una delle opportunità più interessanti in questo senso sono i siti web dove i soggetti possono accedere a narrazioni di altri che stanno attraversando o hanno già passato la stessa lotta con la dipendenza sessuale. Leggere queste storie aiuta i pazienti a sentirsi meno soli rispetto al proprio problema, e li può incoraggiare a rompere il muro della negazione e a sviluppare maggiore empatia. Al di fuori della terapia, invece l’educazione sulla dipendenza sessuale era tradizionalmente fornita ai pazienti attraverso articoli e libri. Ora anche queste risorse sono disponibili online in qualsiasi momento della giornata, da qualsiasi luogo, e senza che l’acquirente si senta inibito come potrebbe verificarsi in una biblioteca o libreria.

Se la dipendenza dal sesso online aspira a legittimare la sua effettiva esistenza, ci devono essere maggiori prove scientifiche a sostegno di essa, una chiarificazione dei criteri accettati da tutti e una quantificazione della sua occorrenza. Sebbene ciò debba ancora verificarsi, esistono sviluppi incoraggianti in tale direzione.

Cooper, Delmonico e Burg (2000) sostengono che, dato il crescente utilizzo di internet, i professionisti incontreranno sempre più pazienti i cui problemi sono connessi al comportamento compulsivo sessuale online. Anche altri ricercatori hanno segnalato un aumento del numero di consulenti e terapisti che hanno in cura pazienti per problemi legati all’attività sessuale sul web (Freeman-Longo, 2000). Tali ipotesi supportano la crescente evidenza empirica secondo cui la dipendenza dal sesso online non coinvolge solo una minoranza di individui e che l’espansione della tecnologia informatica produrrà un aumento di tali problematiche (Orzack & Ross, 2000).

Inoltre la valutazione di questa patologia dimostra che non è la frequenza o il tipo di comportamento ad indicare la presenza di una dipendenza, ma la perdita di controllo, la compulsività e le conseguenze negative che ne derivano.

Queste conclusioni suggeriscono l’importanza di approfondire le ricerche e sviluppare nuove modalità per aumentare la consapevolezza pubblica e professionale riguardo i comportamenti complessi che accompagnano i dipendenti dal cybersex. Inoltre è necessario migliorare l’informazione non solo sui risvolti negativi che l’uso del web può comportare, ma anche sull’utilizzo positivo di questa tecnologia al fine di migliorare la vita e anche i rapporti sessuali.

Abuso di sostanze e conseguenze nel post-partum

Una nuova ricerca della North Carolina State University e della University of British Columbia ha evidenziato che, conoscere i quantitativi di consumo di droga di una donna incinta permette di capire se la donna avrà problemi con la gestione dello stress e dell’ansia dopo il parto. La scoperta è utile in quanto permetterebbe agli operatori sanitari di comprendere meglio la problematica e quindi di fornire un aiuto migliore e più specifico.

 

Abuso di droghe e conseguenze dopo il parto

Sarah Desmarais, professore associato di psicologia presso la NC State University ha affermato che negli ultimi anni si sta ponendo più attenzione alla salute mentale delle donne in gravidanza, soprattutto concentrandosi su quelle donne che sono a rischio di depressione post-partum.

Lo studio non è stato progettato per concentrarsi sul consumo di droga, ma è stato pensato con lo scopo di rispondere ad una domanda più ampia, ovvero se l’uso di alcol o droghe nella donna in qualsiasi momento della sua vita, possa causare problemi di salute mentale dopo il parto.

Ricerche precedenti si sono focalizzate sull’utilizzo di sostanze solo durante la gravidanza. Questi dati sono poco affidabili perché le donne sono meno disposte ad ammettere le loro dipendenze durante la gravidanza per paura di perdere la custodia dei loro figli o di essere emarginate socialmente.

 

Lo studio

Per esaminare questi problemi, i ricercatori hanno utilizzato i dati ottenuti intervistando 100 donne al British Columbia che avevano partorito negli ultimi tre mesi, la maggior parte di esse con un background socio-economico a rischio di problemi di salute mentale. I partecipanti allo studio sono stati reclutati per entrare a far parte di un progetto sulla salute e benessere generale, che non si focalizza esclusivamente sul consumo di sostanze.

Nelle interviste fatte alle partecipanti, è stato chiesto loro di raccontare il consumo di alcool e droghe. Quello che è emerso, è stato utile a prevedere una eventuale situazione di scompenso mentale dopo il parto.

La Prof.ssa Desmarais afferma che comunque il miglior modo per predire problemi di salute mentale, è scoprire se vi sia una certa familiarità per queste patologie, ma il consumo di droghe può aumentarne i rischi.

 

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