expand_lessAPRI WIDGET

Mi ci hanno mandata. Ovvero un approccio possibile alla psicoterapia – Recensione del libro

Il libro “ Mi ci hanno mandata, ovvero un approccio possibile alla psicoterapia” è il nuovo romanzo della Psicologa Psicoterapeuta Flavia Cavalero.

 

Mi ci hanno mandata: introduzione

Il taglio ironico, il linguaggio diretto e la voce narrante in prima persona che facilita l’identificazione con Maria, la protagonista, rendono la lettura senza dubbio consigliata e gradevole. Poche ore e le 112 pagine del libro diviso in piccoli capitoli, quasi paragrafi, volano velocemente via.

Edito da CIESSE Edizioni e con la prefazione del Presidente dell’Ordine del Piemonte Alessandro Lombardo, il romanzo racconta l’approccio alla psicoterapia dagli occhi della paziente e seguono lo sviluppo e la crescita di Maria accompagnandola nel percorso con l’analista (rogersiana) Sara.

 

Mi ci hanno mandata: la trama

Maria è una donna di 45 anni che vive un momento di vita difficile. In realtà, inizialmente più per gli altri che per se stessa.
Come comunica senza giri di parole il titolo, Maria va controvoglia in terapia spinta (mandata) dal marito e dalla sorella sempre più preoccupati (e stanchi).

La prospettiva all’inizio è completamente egosintonica.
I problemi della donna sono ascrivibili all’eccessivo carico di lavoro, agli altri, allo stress, e a tutto quello che spesso, pazienti con qualche sbavatura nell’asse II, riportano come fonte dei propri problemi.
Qualsiasi cosa, ma non certo loro che non hanno bisogno di una psicoterapia! La messa in discussione è più un obiettivo di terapia che un inizio.

Il romanzo è il diario della protagonista, che tiene su consiglio della Psicoterapeuta e che mostra, con lo scorrere delle pagine, quello che avviene, non tanto e non solo a livello di crescita della paziente stessa (evidente), ma soprattutto la crescita della relazione tra paziente e terapeuta. Ed è proprio questo l’aspetto originale del libro “una relazione affettiva, ma non amicale”.

 

Mi ci hanno mandata: i retroscena della psicoterapia

Evidentemente la lettura del libro da parte di una psicocosa (come Maria chiama la terapeuta) risulta particolarmente interessante perché svela il “dietro le quinte” (plausibile e verosimile) della mente del paziente che non emerge necessariamente, per educazione o compiacenza, nel palco della seduta.
Allo stesso modo è una buona lettura anche per chi sta dall’altra parte, per sfatare false credenze sulla psicologia e sulla psicoterapia e mostra come le paure, le domande, i pregiudizi siano molto più simili per tutti di quanto possiamo immaginare.

I primi passi sono segnati da un atteggiamento un pò ostile di Maria nei confronti di Sara (si ipotizzano tratti narcisistici) e divertenti speculazioni riguardo alle regole del setting.
Maria si pone domande che è facile pensare tanti pazienti si possano fare all’ingresso dello studio.
L’uso del Lei o del Tu, perché non c’è il lettino, chiedere o non chiedere dove la terapeuta trascorrerà le vacanze, ricevere la notizia (con le conseguenti emozioni) che la terapeuta va in vacanza, quando si può telefonare e quando no, la possibilità di sforare per 10 minuti per comunicare una cosa importante, fare o non fare il regalo a Natale, personalizzare lo studio durante le feste, fare un favore alla terapeuta stessa, chi è la terapeuta nella sua vita privata.

Passo dopo passo si snoda la relazione tra le due che, come citano i migliori manuali sull’argomento, si comincerà a fondare sull’autenticità della terapeuta, sulla costruzione di un linguaggio comune (esplicitato nel testo), sul percepire l’assenza di giudizio e cominciare ad umanizzare la figura della terapeuta che da “strizzacervelli” si conquista l’appellativo di “Sara”.

Alleanza terapeutica: un presupposto imprescindibile per la terapia

Il filo del romanzo è pertanto la costruzione di un’alleanza terapeutica. Sara chiarirà le regole iniziali in modo impeccabile, ma le parole arriveranno ad essere comprese non come sfida ma come modo di poter aiutare durante il percorso stesso di terapia.
Emerge chiaramente come mano a mano la figura di Sara viene sempre più mentalizzata anche tra una seduta e l’altra e in tal senso crescono di conseguenza le facoltà metacognitive di Maria.
Allo stesso modo emergono, quasi come fossero involontari, proprio perché il punto di vista non è di Sara e della sua tecnica, ma di Maria, i maggiori interventi che fanno breccia proprio lì, nella relazione.
Il fatto di essere pensata, di esistere nella mente della sua psicologa è l’elemento che mette in moto il cambiamento.

Maria sentirà molte emozioni, anche ambivalenti, per Sara, passo passo nel percorso di terapia, dalla diffidenza, all’esigenza di parlarle per più di un’ora alla settimana, alla sensazione che la terapia sia lunga e poco pratica sino al bisogno di un silenzioso abbraccio di un contesto sicuro e validante che le permetta l’espressione delle sue emozioni negative, in modo spontaneo e autentico.
E Sara con timing da professionista lascerà cadere in alternanza interventi tecnici sulla relazione e pezzi di propria umanità come è normale che avvenga.

Un consiglio di una lettura senza dubbio per pazienti potenziali che vogliano avvicinarsi alla terapia e provare a capire cosa sia davvero e per gli “psicocosi”come ottimo esercizio di decentramento e provare a star seduto nella sedia di fronte nei panni del cliente.

Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: effetti dello stupro sulle vittime

Gli effetti dello stupro più comuni sono isolamento, depressione, ansia, sintomi somatici, tentativo di suicidio e disturbo da stress post traumatico. Le conseguenze psicologiche di uno stupro permangono a lungo nella mente della vittima.

Leggi anche: (parte 1) : dalla definizione di stupro ai date rapes (parte 2): come e perché agisce lo stupratore? – (parte 3): perché il silenzio? Il senso di colpa nelle vittime di violenza

 

I ben noti effetti dello stupro, che questo sia o meno denunciato, sono isolamento, depressione, ansia, sintomi somatici, tentativo di suicidio e disturbo da stress post traumatico.

Anche se, solitamente, non vengono riportate serie conseguenze fisiche, le conseguenze psicologiche di uno stupro permangono a lungo.

Le donne aggredite che si presentano ai centri di emergenza manifestano degli intensi sentimenti di rabbia e paura, passando da ansia, agitazione, pianto, lamento e riso incontrollato fino ad una calma ostentata che copre ogni altra emozione.

 

Le reazioni delle vittime di violenza sessuale: la sindrome da trauma di stupro

Burgess e Holstrom (1974), nel loro pionieristico lavoro con le vittime di stupro presentatesi al Boston City Hospital, hanno descritto la “sindrome da trauma di stupro” (rape trauma sindrome).

Le reazioni che hanno rilevato nella loro esperienza, sono sia comportamentali, che somatiche e psicologiche; solitamente si manifestano in due fasi: una fase di disorganizzazione acuta, che dura qualche settimana, ed una di riconoscimento, che può durare da più di una settimana a molti anni.

Durante la fase acuta, solitamente si hanno reazioni di incredulità, shock, paura, vergogna, senso di colpa, sentimento di umiliazione, rabbia, isolamento, lutto e perdita di controllo. Le reazioni somatiche più comuni, comprendono tensione muscolo-scheletrica, irritabilità gastro-intestinale, disturbi genito-urinari.

Spesso tra gli effetti dello stupro più comuni, vi sono reazioni di paura, da parte delle vittime, legate alla possibilità che famiglia e amici scoprano cosa è accaduto.

Durante la fase di riorganizzazione vengono manifestati sentimenti di vulnerabilità, disperazione, senso di colpa e di vergogna. I sintomi comprendono un’ansietà diffusa, mal di testa, insonnia ed altri disturbi del sonno, depressione e rabbia. Questa fase è a volte caratterizzata da frequenti traslochi e cambiamenti del numero telefonico.

Tra gli effetti dello stupro sulle vittime, vi sono alcune fobie più diffuse, esse includono la paura degli spazi chiusi (se lo stupro è avvenuto in casa), agorafobia o fobia degli spazi aperti, paura di restare soli e paura della sessualità.

La vittima diventa una sopravvissuta quando è in grado di riconoscere lo stupro, di esprimere la propria rabbia, il proprio dolore, e di ritornare ad una vita normale.

Una sequenza di stupri protratta può portare a depressione, tentativi di suicidio, uso di droghe ed alcol, disfunzioni sessuali, e problemi relazionali.

Circa un terzo delle vittime sviluppano la sindrome post-traumatica da stress, un terzo manifesta un episodio di depressione maggiore negli anni successivi la violenza, contro la stima del 10% della popolazione femminile (Kilpatrick et al., 1992).

Dai follow-up è emerso che il 33% ha pensato al suicidio, paragonato all’8% della popolazione femminile. Le vittime di stupro hanno il 13% di probabilità in più di tentare il suicidio.

Le vittime “silenti”, cioè che non riportano a nessuno l’esperienza vissuta, spesso manifestano un alto livello di ansia, fobie, perdita di autostima, senso di colpa e vergogna, incubi notturni e possono sottoporsi a numerose cure per sintomi somatici senza causa eziologia.

 

Gli effetti dello stupro: cosa cambia se la vittima denuncia la violenza?

Sarebbe auspicabile che le donne che hanno subito una violenza sessuale si presentino ai centri di assistenza, dove possono ricevere sostegno per evitare effetti a lungo termine tramite un processo di ricostruzione dell’autostima, allentamento del senso di colpa ed incoraggiamento ad esprimere la rabbia.

La vittima è realmente diventata una sopravvissuta agli effetti dello stupro quando ha elaborato l’aggressione, senza flashback e ricordi intrusivi. Questo tipo di elaborazione è accompagnata da una diminuzione dei sintomi ansiosi e depressivi.

Da un’intervista su 126 soggetti sono emerse alcune differenze nelle risposte delle donne che hanno denunciato e donne che non hanno denunciato la violenza subita (Peretti e Cozzens ,1979).

Nelle risposte dei soggetti che non hanno denunciato emergono maggiormente fattori di confusione, diniego, razionalizzazione, ricerca di significato ed isolamento; nelle risposte delle donne che hanno denunciato emergono fattori come ansia, umiliazione, vergogna e rabbia. Non sono, invece, emerse significative differenze per quanto concerne fattori come l’imbarazzo, l’umiliazione, il senso di colpa e la paura.

Tutti i soggetti hanno dichiarato che lo stupro è un atto distruttivo a livello psicologico, sociale, comportamentale e che scardina la propria sessualità.

Tra gli effetti dello stupro di natura fisica troviamo senso di fatica, mal di testa, nausea, mal di stomaco e dolore vaginale; gli effetti comportamentali consistono nella paura a camminare ed uscire da soli e rigetto all’intrattenere normali comportamenti amichevoli (come sorridere, chiacchierare, dare la mano) con chiunque; i disturbi sociali conseguenti uno stupro consistono nella restrizione di tutti i contatti sociali per molti mesi dopo la violenza, incapacità a socializzare con uomini e di avere rapporti sessuali con il proprio partner; i disturbi della sessualità comprendono l’apatia sessuale, vaginismo, disfunzioni dell’orgasmo e dispareunia.

Le donne che non denunciano la violenza hanno più problemi nell’accettare la realtà della violenza sessuale e gli effetti dello stupro. Le donne che non denunciano la violenza subita tendono a rispondere alla stessa con una gran distruttività, che si ripercuote sulla loro qualità della vita. Hanno un urgente bisogno di collocare l’evento tragico in un quadro che lo renda più comprensibile. Queste donne hanno difficoltà ad accettare la possibilità che alcuni semplici fattori l’abbiano messe nella posizione di vittime, temono di aver avuto un comportamento interpretabile ambiguo verso l’aggressore.

Per quanto riguarda la variabile dell’isolamento, spesso la vittima pensa che lo stupro sia un’esperienza su cui devono lavorare in solitudine. Da un punto di vista legale, questo desiderio di isolamento è irrazionale ed indesiderabile, perché l’evidenza di uno stupro richiede perizie mediche che comportano il contatto con altre persone.

Da una ricerca su 70 donne che si sono rivolte ad un centro assistenza ospedaliero per le vittime di stupro, è emerso che queste vittime presentano alti livelli di depressione, ansia, ostilità, disturbo post-traumatico da stress e confusione; questi stati emotivi si ripercuotono sulle credenze su loro stesse, gli altri ed il mondo in generale (Frazier e Searles, 1997)

 

Che conseguenze ha uno stupro se la vittima conosce l’aggressore?

Relativamente agli effetti dello stupro, le donne che hanno subito la violenza da persone conosciute presentano un più alto livello di senso di colpa comportamentale, anche se il grado di senso di colpa caratteriale, tra donne violentante da conoscenti o da estranei, non è significativamente diverso.

Le donne che non dichiarano di aver subito una violenza sessuale, nonostante la loro esperienza possa essere classificata tale dalle risposte fornite al SES, mostrano una maggiore attribuzione di colpa per il comportamento tenuto.

Le donne violentate da persone conosciute hanno manifestato un peggioramento delle proprie credenze in 4 scale su 10: sentono di avere meno forza e controllo, hanno minore stima per gli altri, si sentono meno collegati agli altri e provano minor conforto nel restare soli nella propria intimità.

E’ interessante notare che mentre il 100% delle donne che sono state violentate da uno sconosciuto sono consapevoli del fatto di essere state stuprate, solo il 47% di quelle violentate da un conoscente dichiarano di essere state violentate.

I risultati di questa ricerca mostrano che le vittime di violenze sessuali da parte di conoscenti sono traumatizzate allo stesso livello di quelle violentate da sconosciuti; ad esempio, non differiscono nei diversi gradi di depressione, ostilità, ansia e disturbo post-traumatico da stress.

Alcuni risultati suggeriscono, addirittura, che le vittime di violenza da parte di conoscenti, sono più traumatizzate delle altre, in quanto tendono a auto-incolparsi di più e a manifestare maggiori turbe nel proprio sistema di credenze.

Le vittime esprimono vergogna e senso di colpa per essere state violentate; ritengono che siano state “stupide”, che sia stato un  loro sbaglio e che avrebbero dovuto prevenire l’evento (Orlandini, 2002).

Dalla ricerca di Koss et al. (1988) è emerso che sul piano dell’impatto dell’esperienza sulle vittime, quelle aggredite da sconosciuti parlano più facilmente della loro esperienza con qualcuno, si rivolgono ad un centro di crisi, denunciano alla polizia.

Tra tutte coloro che hanno riferito la loro esperienza a qualcuno, il 19.2% delle vittime di sconosciuti ed il 17% delle vittime di conoscenti si sono rivolte ad un centro di crisi; alla polizia si sono rivolte il 21.2% delle prime e il 17% delle seconde. I gruppi non differiscono per la percentuale di donne che ha pensato al suicidio dopo l’aggressione (27.8%).

Mentre il 55% delle donne aggredite da un estraneo considera la propria esperienza uno stupro, solo il 23.1% della donne aggredite da conoscenti lo considerano tale; le prime hanno inoltre più probabilità che la persona a cui raccontano l’esperienza consideri la stessa come stupro.

Sul piano degli effetti dello stupro, i sintomi manifestati nei due gruppi non differiscono; sono stati considerati i livelli di depressione (tramite il Beck Depression Inventory), ansia (tramite lo State Anxiety Index), la qualità dei rapporti interpersonali ed il soddisfacimento sessuale. Koss et al. (1988) hanno poi confrontato i quattro gruppi di vittime di conoscenti.

Per quanto riguarda la percezione della donna, le vittime del proprio marito o di altri familiari avevano un grado molto più altro di rabbia, depressione ed aggressività verso l’assalitore; percepivano se stesse come meno responsabili per ciò che era successo rispetto alle donne vittime di compagni casuali o conoscenti senza implicazioni romantiche.

Per quanto riguarda la sintomatologia, le donne violentate da membri della propria famiglia hanno un più basso livello di qualità nelle relazioni interpersonali, mentre per gli altri aspetti non sono state riscontrate differenze.

Anche a distanza di mesi gli effetti dello stupro si mostrano vividi: le vittime si sentono ancora tese e profondamente umiliate. Si sentono in colpa per non esser riuscite a reagire fisicamente alla violenza. Depressione e perdita di autostima sono sempre molto comuni, molte cominciano a soffrire di incubi notturni. Alcune vittime sviluppano fobie, a seconda di dove è avvenuta l’aggressione non sopportano più stare in posti aperti o chiusi; altre sono soggette al disturbo post-traumatico da stress, spesso sviluppano un atteggiamento negativo nei confronti del sesso e hanno difficoltà nelle relazioni con mariti o partner.

Spesso, anche gli amici più cari, mettono in dubbio la complicità della vittima in quello che è successo.

Calhoun e Atkison (1991), due ricercatori clinici di provata esperienza in materia di stupro, sono così certi che i problemi sessuali siano una frequente conseguenza a lungo termine di un trauma da stupro, che esortano i clinici  a prendere in considerazione la possibilità di una violenza in presenza di disfunzioni sessuale da parte della donna.

Una vittima di stupro va incontro ad ansia, depressione, rischio di suicidio, ad abuso di sostante (spesso inizia da un tentativo di auto-medicazione per alleviare l’ansia e la disforia generalizzata).

Le tipiche strategia di difesa messe in atto dalla vittima, dopo la violenza, sono la negazione e l’evitamento.

Si stima che solo una percentuale minima degli stupratori è condannata per il reato commesso. Inoltre, non si può negare che il processo sia un’esperienza molto stressante: qualsiasi rapporto di familiarità della vittima con il suo aggressore diventa un elemento a favore dell’assoluzione di quest’ultimo e, il ruolo della vittima nell’aggressione subita, è quasi sempre oggetto di esame da parte del difensore dell’imputato.

Spesso nei giorni seguenti lo stupro, la donna si trova in uno stato di abulia ed apatia: non riesce a parlare, non riesce a piangere, non riesce a sorridere né a mangiare, non sente niente.

La maggior parte delle donne, se conoscono l’aggressore,  non riesce ad usare tutta la sua forza al momento dello stupro, questo può essere dovuto alla difesa dissociativa messa in atto nel momento della violenza: rimuovono le sensazioni fisiche e mentali da ciò che sta succedendo, in pratica oppongono una reazione di freezing. La dissociazione può quindi diminuire o bloccare la capacità reattiva all’aggressione.

Il sentimento di colpa nasce proprio dall’incapacità della donna di fermare l’uomo che l’ha violentata. E’ questo senso di colpa che fa sì che la donna non denunci l’accaduto e non cerchi conforto dai suoi amici: ha paura che la incolpino come lei incolpa se stessa.

A volte la donna continua a vedere l’uomo che l’ha violentata per porre l’esperienza in un contesto di “relazione sessuale” e farla quindi diventare più accettabile a se stessa. Nella maggior parte dei casi, l’uomo le stupra ancora. Queste donne non uscirebbero ancora con queste persone se etichettassero giustamente la loro esperienza come “stupro”.

Le donne violentate da conoscenti, hanno le stesse ripercussioni negative a livello psicologico delle vittime di sconosciuti, hanno però l’aggravante che spesso non parlano a nessuno della loro esperienza, non si rivolgono a gruppi di auto-aiuto che possono aiutare nella comprensione di ciò che è successo e delle reazioni della vittima, inoltre, quando lo raccontano, non sentono la stessa empatia e vicinanza che l’interlocutore mostrerebbe per una vittima di uno stupro stereotipico.

Tra gli effetti dello stupro, un comportamento comune, che la vittima riconosca o meno a se stessa di essere stata violentata, è il “rituale del lavaggio”: la vittima si lava ossessivamente, è nauseata dal sentirsi ancora sulla pelle l’odore dell’uomo. Si sentono sporche e violate, pur non ammettendolo coscientemente.

 

I rape myths nella valutazione dello stupro

Le donne violentate da conoscenti spesso non trovano supporto e conforto emotivo dagli amici e dai parenti, non vengono credute, o vengono ritenute responsabili di quello che gli è accaduto.

Nonostante i cambiamenti legislativi ed i cambiamenti socio-culturali avvenuti nell’ultimo secolo, una ricerca su un campione italiano (Sarmiento, 2004) sembra confermare le ricerche statunitensi sull’esistenza dei “rape myths” (Burt, 1977; Koss, 1982, 1985; Williams, 1984; McGregor et al., 2000; Buddie, 2001) e della loro importanza nella percezione dei rapporti di genere.

Il dato saliente di questo è il fatto che per più della metà dei soggetti intervistati, il comportamento della vittima renda privo di valore il suo dissenso ad avere un rapporto sessuale con l’uomo della storia: solo il 48% degli interpellati ritiene infatti che l’aggressore di un caso non stereotipico debba essere arrestato, seppur il 68% ritenga che si tratti di un caso di violenza sessuale.

Coerentemente a questo risultato i soggetti ritengono infatti che per la maggior parte dei soggetti si può parlare di violenza sessuale quando vi sia stato uso della forza o intimidazione attraverso un’arma, mentre solo il 58% ritiene che basti l’opposizione di un dissenso verbale perché un rapporto sessuale venga considerato un caso di violenza. In merito a questo aspetto le donne si dimostrano più sensibili, infatti si discostano dagli uomini di venti punti percentuali (F = 67,6; M = 47,5) anche se nella valutazione della storia non risultano apportare un giudizio significativamente diverso da quello degli uomini.

Un altro dato significativo è che il 45% dei soggetti non ritiene che si possa parlare di stupro tra coniugi; in Italia fino al 1976 questa possibilità non era contemplata neanche dal nostro sistema giuridico. Con sentenza del 16 febbraio 1976 la Corte di Cassazione non solo stabilisce che il coniuge non può pretendere con la forza il soddisfacimento della concupiscenza sessuale, ma anche che “…il delitto di violenza carnale sussiste non solo quando vi sia una lotta strenua, capace di lasciare segni sulla vittima, ma anche quando questa si sia concessa solo per porre termine ad una situazione per lei angosciosa ed insopportabile, poiché tale consenso non è libero consenso, bensì consenso coatto…”.

Il fatto che le violenze sessuali denunciate, e che quindi arrivano all’opinione pubblica, siano prevalentemente quelle ad opera di estranei, non fa che alimentare false credenze sui luoghi e le situazioni in cui è più facile incorrere in uno stupro, infatti contrariamente ai dati ISTAT, i soggetti interpellati considerano meno sicuri i luoghi isolati e le ore notturne.

 

Leader e narcisismo: il potere percepito rende eccessivamente sicuri?

L’eccesso di sicurezza, per i leader che sono chiamati a rendere importanti decisioni per conto della propria organizzazione, potrebbe condurre a disastri. La ricerca ha a lungo dimostrato che pensare di sapere più cose di quelle che si sanno, limita la capacità di prendere decisioni.

 

Narcisismo ed eccesso di sicurezza

Una nuova ricerca suggerisce che l’eccesso di sicurezza sarebbe fortemente collegato al narcisismo ed emergerebbe, in modo particolare, nel momento in cui le persone fortemente narcisiste si sentirebbero più “potenti”. Per questo motivo, un capo narcisista che irradia sentimenti di superiorità, sensazione di avere diritto a fare qualcosa e un costante desiderio di ammirazione, potrebbe anche essere più propenso a prendere decisioni a rischio.

Attraverso quattro studi, Lee A. Macenczak, Stacy Campbell, Amy B. Henley e W.Keith Campbell, un team di ricercatori di psicologia proveniente dalla Georgia, hanno rilevato una connessione tra narcisismo ed eccesso di sicurezza: l’elevato narcisismo andrebbe di pari passo con l’eccesso di sicurezza. Quando le persone fortemente narcisiste erano “caricate” con sentimenti di potere, essi diventavano anche più fiduciosi nelle proprie abilità.

[blockquote style=”1″]I narcisisti sono particolarmente predisposti ad errori di eccesso di sicurezza perché essi possiedono le seguenti qualità: essi ritengono di essere unici e speciali, tanto da avere il diritto ad ottenere risultati migliori nella vita rispetto agli altri, e di essere più intelligenti e fisicamente attraenti rispetto a quanto essi effettivamente siano[/blockquote] spiegano Macenzack e coll. nella rivista “Personality and Individual Differences”.

 

Il primo studio: il legame tra narcisismo ed eccesso di sicurezza

Nel primo studio, 135 partecipanti (53% uomini, 47% donne; 80% caucasici), hanno completato la versione di 40 item del Narcicistic Personality Inventory (NPI-40), un questionario valutante la presenza di tratti di personalità narcisisti. Il reattivo consiste nella presentazione ai soggetti di item composti da due affermazioni, tra cui essi devono scegliere in base a quale delle due li rappresenti maggiormente (ad es. “Mi piace avere autorità sulle persone” vs “Non mi dispiace seguire gli ordini”).

Dopo aver completato l’NPI-40, i partecipanti eseguivano un test di cultura generale di 15 domande, relativamente difficili. Essi dovevano scegliere la risposta corretta tra due per ogni domanda posta dal test (ad es. “Quale fiume è più lungo? Il Mississipi o lo Yangtze?”). A seguito di ogni risposta, i soggetti erano chiamati a valutare quanto si reputassero fiduciosi di aver dato la risposta corretta, selezionando un livello di fiducia dal 50% al 100%, e a fare una stima delle risposte esatte date, sia per loro stessi che per gli altri partecipanti.
[blockquote style=”1″]Come previsto, i risultati hanno indicato che il narcisismo è positivamente correlato alle differenti misure dell’eccesso di sicurezza[/blockquote] scrivono i ricercatori.

 

Il secondo e il terzo studio: il legame tra percezione di potere e l’eccesso di sicurezza nei narcisisti

In altri due studi addizionali, i ricercatori hanno indagato se la percezione di potere spingerebbe ulteriormente i narcisisti verso l’eccesso di sicurezza.
I partecipanti hanno seguito una procedura simile rispetto allo studio precedente, ma questa volta essi erano indotti a sentirsi più o meno “potenti” prima di prendere parte al test di cultura generale. Ai soggetti nella condizione di “alto potere” era chiesto di ricordare e scrivere una situazione in cui essi avevano controllato altre persone o gruppi; i soggetti nella condizione di “basso potere“, invece, erano chiamati a descrivere una situazione in cui qualcun altro aveva avuto potere su di loro.

Come nello studio precedente, il narcisismo è risultato predire l’eccesso di sicurezza. Tuttavia, le diverse condizioni di potere non sembravano comportare dei cambiamenti rispetto alla fiducia.

 

Quarto studio: il legame tra percezione di potere ed eccesso di sicurezza nei soggetti con alti livelli di narcisismo

In un quarto studio, i ricercatori hanno effettuato la stessa manipolazione riguardo alle diverse condizioni di potere, ma stavolta hanno utilizzato un campione precedentemente valutato, che presentava alti livelli di narcisismo.

Nella procedura di “pre-screening” i partecipanti avevano risposto al “Single-item Narcissism Scale” (SINS), strumento che consiste in una singola affermazione per valutare il narcisismo: “Io sono narcisista“. I soggetti si autovalutano, per questa affermazione, su una scala di 7 punti da “Non molto vero” a “Molto vero”. Nello studio sono stati inclusi solo coloro i quali avevano risposto con un 4 o con un numero più alto. Questo campione, che consisteva in un numero di 250 individui (36% uomini, 64% donne; 68% caucasici), ha poi completato la stessa procedura utilizzata nell’esperimento precedente.

Compatibilmente agli altri esperimenti, il narcisismo è risultato essere un predittore significativo dell’eccesso di sicurezza. Inoltre, quando i soggetti fortemente narcisisti erano indotti a sentirsi potenti, l’eccesso di sicurezza diventava ancora più elevato.

 

Discussione dei risultati: il narcisismo, la percezione di potere nei leader delle aziende

L’eccesso di sicurezza non sarebbe collegato solo al narcisismo o alla percezione di potere. In un articolo di revisione del 2004 pubblicato sulla rivista “Psychological Science in the Public Interest”, David Dunning, Chip Heath e Jerry M. Suls, hanno revisionato le ricerche sulla valutazione di sé. In base alle loro revisioni, essi sono giunti ad una conclusione chiave: [blockquote style=”1″]Quando si guarda all’accuratezza dell’autovalutazione sui posti di lavoro, dalla postazione in ufficio fino alla sala riunioni manageriale, si può constatare che i soggetti tendono ad avere visioni di sé eccessivamente elevate, che sono solo modestamente correlate alla performance attuale. [/blockquote]

Per mitigare questi risultati negativi, Dunning e colleghi suggerirebbero che sia gli amministratori delegati che gli impiegati dovrebbero ricevere dei feedback frequenti.

[blockquote style=”1″]La letteratura passata, esaminando i leader, ha indicato che i narcisisti spesso diventano leader all’interno delle organizzazioni. Un buon esempio potrebbe essere la situazione che è accaduta alla Enron Corporation[/blockquote] scrivono Macenczak e colleghi. [blockquote style=”1″]Lì, molti leader, che avevano plausibilmente alti livelli di narcisismo, hanno preso decisioni troppo rischiose in cui avevano un alto grado di fiducia. Le organizzazioni dovrebbero essere caratterizzate da processi volti a monitorare le decisioni prese dai top manager per assicurarsi che coloro che sono al potere abbiano delle procedure per stabilire che le proprie decisioni siano sotto controllo.[/blockquote]

Lavoro e invecchiamento: la valutazione neuropsicologica come mezzo efficace nel contrastare il paradigma del deficit nelle organizzazioni aziendali

L’aspetto negativo del fenomeno lavoro e invecchiamento si evince anche nella cultura organizzativa attuale che rimane influenzata da un paradigma del deficit, riferito ai lavoratori anziani, le cui prestazioni vengono ritenute inferiori a quelle dei più giovani.

 

Principale obiettivo politico del giorno d’oggi è quello di prolungare la vita lavorativa di ciascun lavoratore. Infatti è emerso come più di un lavoratore su due abbia oltre i 55 anni. Ciò può avere conseguenze positive, come il fatto di aver in campo professionisti con pregressa esperienza e competenza, ma anche e soprattutto conseguenze negative in termini di rendimento, affaticamento e stress.

Il numero delle persone nelle classi di età oltre i 60 anni supera quello delle fasce di età sotto i 25. Se prendiamo come riferimento il modello del ciclo di vita, vediamo evidenziati quelli che sono alcuni degli effetti negativi dell’età come la diminuzione della performance fisica e delle capacità cognitive. Tale enfatizzazione dell’aspetto negativo dell’ invecchiamento si evince anche nella cultura organizzativa attuale che rimane influenzata da un paradigma del deficit, riferito ai lavoratori più anziani, le cui prestazioni vengono ritenute inferiori a quelle dei più giovani (Lieberum et al., 2005).

 

Lavoro e invecchiamento: lo stress lavoro correlato

Tema ampliamente dibattuto negli ultimi tempi, relativamente alla relazione tra lavoro e invecchiamento, è lo stress lavoro correlato e il tema diventa ancora più ampio se si prendono in riferimento i lavoratori di tarda età.

A tal proposito, interessante lo studio condotto dall’Università di Notthingham, il quale va a delineare le conseguenze comportate dallo stress percepito sul lavoro in linea con l’età dei lavoratori. Si è evidenziato come lo stress sia legato a disturbi cronici nei lavoratori anziani (Eskelinen et al., 1991). In particolare si parla di disturbi cardiovascolari e di ipertensione (Yamasue et al., 2008) e disturbi muscolari (Gershon et al., 2002).

Nello studio del fenomeno lavoro e invecchiamento, inoltre, c’è da fare anche una differenza di genere poiché è emerso come le donne della fascia d’età 45-54, riportano livelli superiori di stress rispetto al genere maschile. Questo dato deriva soprattutto dalle molteplici responsabilità che le donne hanno a carico dovendo conciliare la vita domestica con quella lavorativa; ed inoltre è emerso come abbiano una risposta differente alle situazioni difficili usando maggiori strategie di coping rispetto agli uomini (Frabkenhauser et al., 1991).

 

Lavoro e invecchiamento: medici veterani in corsia

E’ emerso inoltre come lo stress correlato al lavoro sia maggiore in particolari occupazioni, come quello dell’infermiere o del medico. Infatti ritroviamo medici in corsia fino a 70 anni, età vulnerabile sia a problematiche di tipo fisiche, come incidenza di patologie cerebrali degenerative e vascolari e condizioni mediche generali meno brillanti ma soprattutto a deterioramento delle capacità cognitive come riduzione delle potenzialità intellettive e mnesiche, minor resistenza a stress, turni notturni e maggiori tempi di recupero.

Uno studio retrospettivo, in tema di lavoro e invecchiamento, dell’università della California condotto su 148 medici con un’età media di 60 anni, i quali manifestavano problemi di ridotta performance nelle loro attività professionali, ha dimostrato che la maggior parte di loro presentava deficit in test attentivi, logici e di coordinazione visuo-prassica (Perry et al., 2005)

 

La formulazione del giudizio di idonietà alla mansione specifica

Come sappiamo dal comma 3 dell’art. 176, vi è l’obbligo per il datore di lavoro di sottoporre i lavoratori che abbiano compiuto il cinquantesimo anno di età alla visita periodica di idoneità alla mansione ogni 2 anni sia per tutelare la salute del lavoratore e sia per valutare il possesso di determinati requisiti psicofisici. Come abbiamo detto in precedenza però l’invecchiamento può comportare non solo limitazioni fisiche ma anche a livello cognitivo.

Nei paesi anglosassoni sta crescendo la prassi di sottoporre a valutazione neuropsicologica i medici che mostrano difficoltà nella loro attività professionale. (Pitkanen et al.,2008). Sarebbe opportuno estendere ciò ad ogni professionista avanti con l’età dato che in molte aziende si parla di un “paradigma del deficit”, ovvero lavoratori anziani che presentano prestazioni inferiori, deterioramento cognitivo e quindi un maggior assenteismo (Ilmakunnas et al., 2007).

I test neuropsicologici in tema di lavoro e invecchiamento, si rendono necessari nella valutazione del giudizio di idoneità lavorativa specifica di professionisti che presentano disturbi cognitivi che compromettono le capacità richieste dal compito lavorativo specifico.

Tra i vari test possiamo menzionare il Mini Mental State Evaluation (Folstein et al., 1975) e il Beck Depression Inventory (Beck, 1967) dato che con il progredire dell’età vi può essere un parallello aumento di un deficit depressivo (Djerneset et al., 2006).

Molto importanti anche i test per la valutazione delle funzioni attentive ed esecutive. Infatti noto è il caso di un medico professionista il quale comunicava le sue diagnosi in maniera superficiale e frettolosa a causa di un deficit disesecutivo che comportava un impatto negativo sulla sua vita professionale (von Cramon et al. 1991). Necessari anche test mnesici, come le 15 parole di Rey ( Rey, 1958) e delle abilità strumentali come la Figura complessa di Rey (Rey, 1941) o il test di fluenza verbale. (Novelli, 1986).

In tal modo non solo è possibile una futura rieducazione delle funzioni compromesse ma anche un potenziamento delle capacità residue del lavoratore in modo tale da prevenire difficoltà ed errori che potrebbero essere deleteri per la propria attività professionale.

La statistica in psicologia – Introduzione alla psicologia

La statistica in psicologia è una disciplina che permette di studiare e misurare comportamenti, atteggiamenti e i fenomeni psichici oggetto di studio della psicologia.

Realizzato in collaborazione con la Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

La statistica in psicologia

La statistica in psicologia consente di trarre conclusioni e prendere decisioni partendo da dati ricavati da un gruppo di soggetti di dimensioni limitate, accomunati tutti dalle stesse caratteristiche. Le diverse procedure di calcolo utilizzate permettono di generalizzare i risultati osservati sui gruppi, alla popolazione generale, individuando caratteristiche nuove rispetto a quelle già esistenti. La statistica è uno strumento molto potente che consente di aggiungere nuova conoscenza alla conoscenza esistente ed è alla base della ricerca.

 

L’utilizzo della statistica in psicologia, breve storia

La statistica approda in psicologia alla fine dell’800 con l’arrivo della psicologia sperimentale. In questo periodo nasceva l’esigenza di misurare e quantificare tutto ciò che era osservabile allo scopo di renderlo scientifico. Scaturisce un filone di ricerca quantitativa ovvero dati, numeri, riguardanti i fenomeni psichici oggetto di studio, cui era possibile applicare procedure statistiche di inferenza e di verifica delle ipotesi.

La psicologia, però, era costituita anche da manifestazioni non sempre rappresentabili solo ed esclusivamente da un numero e, di conseguenza, quasi contemporaneamente si stava sviluppando lo studio delle qualità presentate da questi elementi, che permettesse di far emergere una maggiore variabilità, tipica caratteristica di ogni essere umano.

Alla fine di ogni misurazione si otteneva un numero o un’etichetta che poteva essere elaborata attraverso delle procedure di calcolo statistiche da cui si inferivano conclusioni nuove rispetto a quelle già esistenti. Lo scopo era sempre giungere a una maggiore comprensione del fenomeno psichico oggetto di studio.

 

A cosa serve la statistica in psicologia

La statistica ha sempre svolto un ruolo importante nelle scienze, e di conseguenza anche nella psicologia, fin da quando è nato il metodo sperimentale. Con l’avvento del metodo sperimentale si è iniziato a voler misurare e quantificare i diversi fenomeni psichici. Grazie a una serie di procedure di calcolo era possibile valutare il sintomo individuandone presenza o assenza o confrontarlo con altre patologie. In questo modo, nasceva la psicometria ovvero l’uso della statistica applicata alla psicologia.

Si dava origine, dunque, al concetto di misurazione dei fenomeni psichici che dovevano essere quantificati tramite delle scale che permettevano di rilevarne le caratteristiche e le peculiarità. La misurazione, ovvero ciò che va aldilà del semplice conteggio, non sempre risulta essere una procedura esatta perché soggetta a errore. Per ovviare a questo problema gli scienziati hanno messo a punto dei metodi di misurazione in grado di raggiungere elevati livelli di precisione e applicabili a variabili con caratteristiche diverse. La precisione raggiungibile dipende dagli scopi che si intende perseguire, da ciò che si vuole misurare e dallo strumento utilizzato. Misurazioni effettuate ripetutamente su uno stesso oggetto con lo stesso strumento o misurazioni simultanee effettuate con diversi strumenti dello stesso tipo producono dei risultati estremamente simili, grazie alla estrema oggettività dovuta allo strumento utilizzato.

Le diverse scale di misurazione, dunque, contengono indici numerici aventi le caratteristiche del sistema numerico, come la presenza dello zero e le eguali distanze interposte tra i numeri presenti sulla scala.

I primi studi sistematici di misurazione in ambito psicologico riguardarono l’intelligenza, e hanno permesso di far evincere le caratteristiche della stessa e di far emergere le diverse componenti di cui è costituita. Dall’intelligenza, si passa alla memoria e più tardi si era cercato di misurare la personalità, gli atteggiamenti e i comportamenti delle persone. Non tutti questi fenomeni psicologici possono essere direttamente misurati, per questo il più delle volte ci si focalizza sui loro effetti o comportamenti.

In psicologia, dunque, attraverso l’applicazione di apposite tecniche di misurazione è possibile rilevare le diverse caratteristiche psichiche quantificando le proprie manifestazioni. Grazie alle scale di misurazione i numeri ottenuti possono essere successivamente elaborati attraverso l’applicazione di particolari calcoli statistici.

Si parte, dunque, dallo studio dei singoli fenomeni psichici per arrivare a osservare gruppi di individui accomunati dalle stesse caratteristiche che si vuole studiare. Lo scopo è di quantificare le variabili coinvolte in determinati manifestazioni collettive, descrivendole e misurandole. Gli scienziati psicologi solo più tardi cominciarono a interessarsi alle relazioni funzionali esistenti tra le variabili analizzate individuandone le relazioni e le causazioni.

 

La statistica in psicologia: da cosa è costituita

La statistica o psicometria usa i numeri per descrivere le proprietà degli oggetti ed eventi con una precisione di gran lunga superiore alle espressioni verbali. Senza i numeri, la comunicazione sarebbe vana e lo sviluppo della scienza e della tecnologia sarebbe molto limitata.

In psicologia il numero è in grado di rappresentare le caratteristiche e la grandezza di un determinato fenomeno psichico. Spesse volte questo processo è piuttosto arduo perché la variabile oggetto di studio non è immediatamente misurabile e per questo bisogna riferirsi al comportamento manifesto. Rilevare la presenza di un dato fenomeno su una grossa fetta di soggetti rende possibile generalizzare lo stesso alla popolazione generale.

Gli strumenti utilizzati per quantificare un fenomeno psichico sono i test.

I test o più esattamente i reattivi psicometrici sono degli strumenti standardizzati, ovvero con regole uguali per tutti, di indagine psicologica e producono valutazioni quantitative del comportamento osservato. Entrando nel dettaglio, i test psicometrici hanno lo scopo di misurare degli aspetti dell’attività psichica, del comportamento e della personalità.

I test sono stati introdotti in psicologia sperimentale a fine Ottocento, quando nasceva l’esigenza di misurare i comportamenti manifesti, e furono sempre più utilizzati. I test presentano una serie di parametri che li rendono assolutamente validi, ovvero estremamente precisi nel valutare una determinata variabile. Un test è valido quando misura effettivamente quello che dice di misurare. Inoltre, il risultato ottenuto deve essere attendibile, ovvero costante se ripetuto nel tempo o sullo stesso soggetto in tempi diversi.
Ottenuto un valore numerico, indicante la presenza o assenza di un fenomeno psichico, deve essere elaborato attraverso l’applicazione di procedure statistiche che permettono di far evincere relazioni o differenze tra le variabili a seconda dello scopo da perseguire.

Misurare tramite test una variabile su un gruppo di individui produce quasi sempre una gran quantità di valori numerici differenti, che per essere resi comprensibili devono essere ordinati ed elaborati, perché la variabilità che differenzia una persona dall’altra è molto forte, basti pensare alle differenze esistenti tra l’altezza, il peso, la costituzione fisica, gli atteggiamenti e le credenze, le abilità cognitive, i modi di reagire nelle diverse situazioni. A questo punto entra in gioco la statistica, che permette di rendere minime le diversità, grazie a una serie di procedure, atte a far emergere le caratteristiche psichiche oggetto di studio riducendo al minimo l’errore.

Ad esempio se si volesse misurare il grado d’ansia presentato da un gruppo di studenti universitari prima di affrontare un esame si utilizza un test in grado di rilevare la presenza del sintomo. Si ottiene in questo modo un numero medio che corrisponde all’ansia mostrata dall’intero gruppo di individui. Se si volesse verificare se questa ansia è più alta o più bassa rispetto alla popolazione generale si confronta il punteggio ottenuto con quello di un gruppo di controllo, avente la stessa numerosità del precedente, a cui è stata misurata la stessa variabile. Grazie a un test statistico che permette di effettuare un confronto è possibile rilevare una significatività a carico dell’uno o dell’altro gruppo.

Chiaramente è necessario ricordare che gli individui non sono solo dei numeri, ma il numero funge da rilevatore oggettivo di un sintomo che deve essere letto tenendo conto della storia del sintomo presentata dal soggetto stesso.
Quindi, è importante integrare la statistica con l’approccio qualitativo che rende più corposo e più ricco il sintomo stesso dotandolo di significato.

 

Sigmund Freud University - Milano - LOGORUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

Westworld: la funzione del dolore e la nascita della coscienza

Westworld è una serie TV uscita nel 2016 per la HBO creata da Jonathan Nolan e Lisa Joy che ha riscosso un grande successo, collocandosi in vetta alle serie TV più seguite tra quelle debuttanti per la HBO. Il sottotitolo della serie recita “Dove tutto è concesso”, e già questo dovrebbe metterci nel giusto mood.

 

Westworld: la trama

La trama di Westworld, molto intricata, in realtà si può riassumere in un modo molto semplice: Westworld è il nome di un parco a tema che gli utenti paganti visitano per vivere avventure a sfondo western con la possibilità di fare più o meno tutto quello che vogliono (“Dove tutto è concesso”, appunto). Cosa rende speciale questa esperienza? La presenza di esseri androidi, chiamati “residenti”, che assomigliano in tutto e per tutto agli esseri umani, ma che una volta uccisi possono essere sistemati e rigenerati per prendere parte a una nuova avventura. Quindi, visto dalla parte degli umani sembrerebbe trattarsi di una realtà virtuale incarnata, dove poter ferire e uccidere senza alcuna conseguenza morale o legale.

Visto dalla parte dei residenti, ammesso che si possa parlare di una parte, dal momento in cui si presuppone che questi siano “solo” dei sofisticatissimi robot, si tratta di una sorta di Truman Show perenne, in cui con tempi più o meno lunghi, ci si ritrova all’interno delle stesse fila narrative e della stessa trama, senza mantenere mai memoria di quanto successo in precedenza. Sì, perché con la rigenerazione post-mortem i residenti vengono anche inizializzati: resettati e reinseriti nel ruolo che è stato stabilito per il loro personaggio.

 

Il legame tra Westworld e la psicologia

Cosa c’entra questa cosa con la psicologia? Di nuovo, vista dalla parte degli umani, vediamo delle persone che con la consapevolezza di trovarsi in un mondo parallelo abitato da macchine non si fanno scrupoli a dare sfogo al peggio di sé, aiutati anche dalla propria inattaccabilità (per loro è impossibile morire per mano degli androidi). E a questo riguardo potremmo parlare di quello che Zimbardo ha chiamato “Effetto Lucifero”, cioè di quanto il ribaltamento delle regole condivise dal gruppo possa portare a condotte altamente devianti anche se non richieste e non necessarie (ricordiamo, per esempio, l’esperimento carcerario di Stanford).

Ma la cosa più interessante riguarda, ovviamente, i residenti. Dunque, abbiamo detto che i residenti sono in sostanza robot androidi costruiti con materiali che li rendono in tutto e per tutto assimilabili a esseri umani. Il sistema operativo è stato nel corso degli anni aggiornato a versioni sempre più somiglianti al “sistema operativo” umano, e nella quotidianità gli androidi si muovono su trame più o meno predefinite, mantenendo tuttavia una quantità di improvvisazione possibile, al fine di rendere l’andamento delle storie meno meccanico.

A un certo punto il costruttore aggiunge quelle che vengono chiamate “ricordanze”, che sono in sostanza nuove classi di gesti relativi all’espressione emotiva che rendono i residenti ancora più simili agli esseri umani, ed è qui che succede qualcosa di imprevisto. Succede che la memoria si fissa, che il resettaggio a fine corsa degli androidi non è più possibile per intero, perché proprio a partire dalla memoria legata alle emozioni e non più solo ai fatti gli androidi iniziano a sviluppare una sorta di coscienza. Su questo piccolo effetto collaterale vengono proposte le riflessioni più interessanti, da un punto di vista psicologico, dal costruttore di tutto il parco, interpretato da Anthony Hopkins.

 

Il dolore, il dialogo interno e la nascita della coscienza in Westworld

Come nasce la coscienza negli androidi? Da un punto di vista percettivo, si inizia a parlare di coscienza quando gli androidi passano dal percepire le riflessioni come istruzioni dettate dalla voce del loro costruttore a percepirle nella propria testa dettate da una propria voce, cioè sotto forma di dialogo interno. La coscienza, poi, fa confusione. I personaggi, inizialmente pensati per recitare un proprio copione, iniziano ad avere del flashback e del flash-forward, confondendo il passato con il presente e in sostanza ricordando. Il dialogo più bello a riguardo è quello tra il costruttore e uno dei personaggi, nella penultima puntata della prima stagione. Anthony Hopkins parla di pena, noi potremmo forse parlare di dolore, e dice che [blockquote style=”1″]le creature spesso arrivano agli estremi per proteggere se stessi dalla pena.[/blockquote] Nel momento in cui uno dei residenti si trova a riflettere sulla condotta dei residenti stessi (in una sorta di funzione riflessiva, di consapevolezza di sé a cui accediamo tutti ogni qual volta ragioniamo su noi stessi), il residente si blocca e non riesce a formulare più nessun pensiero. Il costruttore allora gli spiega che “questo accade quando cerchi risposte a domande che è meglio non formulare”, e apre il parallelismo con quello che succede anche nella coscienza umana.

Tornando sul dolore, e cercando di non fare troppo spoiling, quando Anthony Hopkins spiega la trama fondante dei singoli personaggi ci dà uno squarcio molto bello sulla funzione del dolore, dicendoci che nel dare ai residenti un antefatto (una memoria portante dicono loro; un passato o una storia di vita diremmo noi), quelli tragici sembrano funzionare meglio: rendono i personaggi più convincenti. Il dolore avvicina quindi i residenti agli uomini, li rende ancora di più a loro immagine e somiglianza. Infine, sulla funzione del dolore il residente si riferisce alla perdita di una persona cara e rivolto a questa persona dice [blockquote style=”1″]la pena per la tua perdita la desidero, la rivivo, la rievoco ancora e ancora, è l’unica cosa che mi trattiene.[/blockquote]

Allora, se la coscienza è quella cosa che parla a noi stessi di noi stessi con la nostra stessa voce, il dolore sembra essere quella cosa che trattiene le nostre stesse parti, che ci dà memoria storica e ci consente in questo modo di avere un’integrazione nel tempo e una continuità, appunto, nella coscienza. Il dolore, poi, ci consente di crescere e di diventare più esperti, come fossimo versioni sempre più elaborate di noi stessi, fino a renderci persone diverse da quelle che eravamo in partenza. Anche T.S. Eliot sottolineava questa ciclicità dell’esperienza, che come nella vita sempre uguale dei residenti ci porta continuamente al punto di partenza, trovandoci però a fare i conti con un’esperienza identica e allo stesso tempo radicalmente diversa: nel frattempo siamo cambiati noi. Riprendendo le parole del poeta,

[blockquote style=”1″]Alla fine della nostra esperienza arriveremo al punto di partenza e conosceremo quel posto per la prima volta.[/blockquote]

 

Westworld, TRAILER:

Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: perché il silenzio? Il senso di colpa nelle vittime di violenza

Spesso le vittime di violenza sessuale si sentono più colpevoli che vittime: una violenza sessuale ha un notevole impatto emotivo e provoca un forte stress psicologico; la vergogna e il senso di colpa possono portare alla decisione di non denunciare la violenza subita.

Leggi anche: (parte 1) : dalla definizione di stupro ai date rapes (parte 2): come e perché agisce lo stupratore?

 

Senso di colpa nelle vittime di violenza sessuale e denuncia

Spesso le donne violentate si sentono più colpevoli che vittime. Una violenza sessuale ha un notevole impatto emotivo e provoca un forte stress psicologico in quanto spezza l’adattamento tra Sé ed ambiente; la vergogna, l’umiliazione, l’imbarazzo ed il senso di colpa possono portare alla decisione di non denunciare la violenza subita.

Nella maggior parte dei casi le vittime di violenza sessuale si sentono responsabili dell’accaduto e tendono ad incolpare se stesse per il fatto di essersi messe nella posizione di poter essere violentate.

Questo senso di colpa tende ad essere maggiore quando le vittime erano sotto l’influenza dell’alcol al momento della violenza e, ancor di più, quando ritengono che le loro azioni possono essere giudicate negativamente dagli altri (Finkelson & Oswalt, 1995).

Oltre all’imbarazzo, alla vergogna ed al senso di colpa per ciò che la vittima ha subito, ci sono altri tre fattori che intervengono nel processo decisionale: il primo è l’aspettativa sociale (ad es. una donna che racconta al proprio compagno di essere stata violentata può essere influenzata da come il compagno ritiene che si debba comportare per quanto riguarda il rivolgersi o meno alla polizia); il secondo consiste in una varietà di caratteristiche della vittima come fattori demografici (quali l’identità etnica, lo stato civile, l’età), caratteristiche psicologiche (ad es. l’autostima) e le proprie credenze nei confronti della violenza sessuale; il terzo è legato alle particolari caratteristiche dello stupro (ad es. la presenza di armi porta la vittima a pensare che la sua violenza possa essere presa più seriamente dalle autorità ed aumenta, quindi, la probabilità di denuncia; inoltre, le caratteristiche della violenza, incidono sulla credibilità che la vittima ritiene di poter avere).

Molte ricerche hanno evidenziato come la donna che non denuncia uno stupro, si crei un’anticipazione negativa delle conseguenze della denuncia stessa e del trattamento che può ricevere dalla polizia (es. Ashworth & Feldman-Summers, 1978). L’anticipazione delle conseguenze, l’aspettativa sociale e i fattori situazionali, risultano quindi predittori nei casi di denuncia di una violenza sessuale.

Non sorprende che la decisione di denunciare o meno l’aggressione sia strettamente legata all’anticipazione delle conseguenze, infatti numerose ricerche di “decision making” hanno mostrato come il comportamento di scelta sia collegato all’anticipazione di costi e benefici delle alternative (Lee, 1971).

Dalle ricerche emerge come il fattore predominante della scelta di non denunciare sia il senso di colpa presente nelle vittime di violenza, infatti un commento tipico è “Sentivo di essermi comportata stupidamente ed avevo provocato la situazione” e “Sentivo che in qualche modo era colpa mia” (Binder, 1981).

 

Miti e stereotipi nella decisione della vittima di uno stupro

Molti autori hanno indagato in modo più approfondito i motivi che si celano dietro il silenzio delle vittime di violenza.

Le vittime spesso non etichettano l’esperienza vissuta come “violenza sessuale”, la ragione di questo mancato riconoscimento potrebbe risiedere in quelli che i ricercatori chiamano i “miti sullo stupro” (Burt, 1980; Koss, 1982, 1994; Longway e Fitzgerald, 1994), ovvero l’insieme di pregiudizi, stereotipi o false credenze sullo stupro e sulle sue vittime.

A questo proposito, le indagini hanno messo in luce il ruolo svolto sia da variabili personali quali l’eventuale atteggiamento provocante della vittima (Kandedar, Maharukh, Kosawalla e D’Souza, 1981), il suo abbigliamento (Warshaw, 1994) e la sua reputazione sociale (Amir, 1971), che da variabili contestuali e relazionali quali il luogo dell’aggressione (Williams, 1984), il grado di violenza perpetrato (Koss, 1985; McGregor et al., 2000; Kahn et al., 2003), la reazione fisica della vittima (Koss, 1985; Ruback e Ivie, 1988 Kahn et al., 2003), la presenza di armi nell’ambiente (Fischer et al., 2003), la natura della relazione tra vittima ed assalitore (Ruback, 1993; Kahn et al., 1994; Bondurant, 2001), l’eventuale consumo di alcol e/o droghe prima del fatto(Pitts e Schawartz, 1993; Finkelson e Oswalt, 1995).

In particolare nei casi in cui è stata la vittima ad invitare l’uomo per un appuntamento, a farsi offrire la cena o un drink, a vestirsi e comportarsi in modo provocante, ad accettare di recarsi nell’appartamento di uno dei due, a consumare droghe o notevoli quantità di alcol, in tutte queste situazioni i soggetti di sesso maschile tendono ad incolpare la donna per aver condotto l’uomo verso un comportamento sessuale coatto (Kanin, 1957; Abbey, 1982).

In molti casi, le stesse vittime di violenza mostrano resistenza ad etichettare la propria esperienza come stupro e si riferiscono ad essa come “sesso non voluto” anche se, dai loro racconti, emerge che esse avevano chiaramente espresso il loro rifiuto ad un rapporto sessuale, spesso opponendo anche qualche forma di resistenza fisica (Kahn et al., 2003).

In ogni caso, che le vittime di violenza siano o meno consapevoli di aver subito una violenza sessuale, i sintomi che esse presentano sono sempre gli stessi: sensazione di sporco, rabbia, isolamento, sentimento di umiliazione, depressione, ansia, sintomi psicosomatici, disturbo da stress post-traumatico, fino al tentato suicidio (Peretti e Cozzens, 1979; Kilpatrick et al., 1992); le vittime “silenti”, inoltre, manifestano un più alto grado di senso di colpa (Frazier e Seales, 1997).

Dalla ricerca di Pitts e Schwartz (1993) risulta evidente che le vittime di violenza sessuale tendono a non raccontare a nessuno ciò che è accaduto quando, al momento dell’aggressione, si trovavano sotto l’effetto di alcol o droghe; questo avviene perché ritengono che gli altri possano attribuire a loro stesse la responsabilità dell’accaduto.

Dalla ricerca di questi autori, su 4.446 studentesse di college, è emerso che solo un’aggressione su cinque comporta ferite fisiche e meno del 2% implica la presenza di un’arma. Nel 70% dei casi c’era stato il consumo di alcol o droghe da parte della vittima e/o dell’aggressore. Solo il 2,1% delle vittime di violenza ha denunciato l’accaduto alla polizia e solo il 4% lo ha denunciato alle autorità del college. Benché le vittime fossero restie a raccontare l’accaduto alle autorità, nel 70% dei casi lo avevano confidato a qualcuno a loro vicino, nell’88% dei casi ad un amico/a.

Generalmente le ragioni addotte per non aver denunciato l’accaduto, riguardano le circostanze dell’incidente. Nell’81,7% dei casi il fatto non era ritenuto abbastanza serio, nel 42,1% dei casi non erano sicure che l’aggressore intendesse fare del male, il 30% delle vittime pensava che la polizia non avrebbe ritenuto abbastanza serio l’accaduto ed il 20%, aveva paura che la polizia avrebbe ritenuto la denuncia una seccatura e/o che non ci fossero abbastanza prove a sostegno dell’accusa.

Pur non essendo indagato il senso di colpa, risulta evidente che il consumo d’alcol influisce sulla probabilità di denuncia, infatti tutte le ragazze erano restie a denunciare l’accaduto per paura di non essere credute.

E’ da notare che, su 10 incidenti, il consumo di alcol o droghe era presente in ben 7. Sempre su 10 esperienze che si configurano a come stupro, 7 non vengono ritenute dalle vittime abbastanza serie da dover essere denunciate. Le donne quindi percepiscono poco importanti 7 stupri su 10 e come non criminali gli uomini che li hanno perpetrati; però considerano queste esperienze abbastanza importanti da essere confidate ad un amico/a.

La conoscenza con l’aggressore può far aumentare il senso di colpa della vittima, portandola a pensare che “è stata lei a portarlo a compiere un gesto simile”, che non si sia trattato realmente di stupro e che non ci sia, pertanto, nessun crimine da denunciare (Schwendinger e Schwendinger, 1980; Weis e Borges, 1973).

L’analisi dei fattori incidentali suggerisce che la serietà del crimine, il tipo di relazione vittima-aggressore, l’ubicazione del reato e il consumo di alcol, incidono sulla probabilità di denuncia del caso. Le violenze che implicano lesioni fisiche, in cui sia stata usata un’arma, perpetrate da assalitori sconosciuti ed in posti insoliti, vengono maggiormente denunciate.

Quindi le caratteristiche dell’incidente e le percezioni e credenze della vittima sono tra le ragioni addotte dalle donne che decidono di non denunciare l’accaduto.

Esiste un set di circostanze che definiscono lo “stupro classico” e, quante più di queste circostanze sono presenti in una violenza sessuale, tanta più probabilità ha di essere denunciata.

La probabilità di denuncia è più alta se:

  1. La vittima è stuprata in un luogo pubblico o da un aggressore che usa la forza per entrare in casa senza il suo consenso.
  2. L’aggressore è uno sconosciuto per la vittima.
  3. La vittima è minacciata o sottoposta ad un alto grado di forza.
  4. La vittima è seriamente ferita.
  5. La vittima oppone resistenza fisica e verbale.

 

Vittime di violenza sessuale: differenze di genere nei fattori predittori di denuncia

Dalla ricerca di Pino e Meier (1999) emerge che le caratteristiche situazionali dello stupro ed i fattori che influenzano la decisione di denunciare una violenza sessuale differiscono tra i sessi.

Gli uomini generalmente non denunciano una violenza sessuale quando questo può mettere in pericolo la propria virilità, mentre le donne tendono a non denunciare quando la violenza non ricalca la classica, stereotipata, situazione di stupro.

Lo stupro è visto ovunque come un crimine serio e violento, ciononostante la percentuale di abusi denunciati è bassissima in tutti i Paesi. Questo silenzio è il risultato di numerose ragioni, correlate a come la violenza è percepita e definita.

Uno stupro è senza dubbio un’esperienza emotivamente sconvolgente e profondamente umiliante, spesso la vittima viene sottilmente accusata, dai proprio familiari ed amici, di non aver reagito abbastanza o di aver provocato la situazione e può essere sottoposta a domande imbarazzanti per dimostrare che l’evento è effettivamente avvenuto.

Il primo passo per denunciare uno stupro, è che la donna si senta una vittima dello stesso. Anche secondo Pino e Meier (1999) ci sarebbero delle caratteristiche dell’evento che influiscono nella decisione da parte delle vittime di violenza di denunciare o meno l’accaduto: se il crimine è stato completato o meno, quanto la vittima conosceva l’assalitore, se c’erano più persone a commettere il  crimine.

La probabilità di denuncia è anche correlata al grado di serietà dell’evento percepito dalla vittima. Uno stupro ha una probabilità doppia di essere denunciato se è perpetrato da uno sconosciuto e, ha cinque volte più probabilità di essere denunciato, se è la vittima è stata anche derubata. La percentuale delle denunce sale notevolmente se la vittima ha necessitato di cure mediche (tre volte più alta) e se l’assalitore aveva qualche arma (4 volte più alta).

Il grado di educazione è positivamente correlato, mentre il reddito è negativamente correlato, alla probabilità di denuncia, ma questi due fattori influenzano in modo modesto.

Per quanto riguarda la violenza sessuale maschile, la probabilità di denuncia è incrementata solo dalla presenza di lesioni fisiche e dalla necessità di cure mediche. Influiscono inoltre, nel caso degli uomini, la possibilità di dimostrare che era impossibile difendersi e la chiara superiorità di forza fisica dell’assalitore rispetto a quella della vittima.

Quindi, per quanto riguarda le donne, queste hanno maggiori probabilità di denunciare quando la violenza ricalca la classica situazione di stupro, mentre per quanto riguarda gli uomini, quando non si possa mettere in discussione la loro virilità.

 

Leggi anche: (Parte 4) Effetti dello stupro sulle vittime

Come i genitori giudicano la forma fisica dei figli e le probabilità che divengano obesi

I bambini che vengono giudicati come sovrappeso dai propri genitori tendono ad aumentare maggiormente di peso nei dieci anni successivi, rispetto a bambini considerati di peso “normale” dai propri genitori. Questo è quanto recentemente emerso da uno studio di Robinson, dell’Università di Liverpool, e Sutin, del Florida State University college of Medicine, pubblicato dalla rivista Psychological Science.

 

I bambini giudicati sovrappeso dai genitori rischiano di diventare obesi

Dai risultati sembrerebbe che quei bambini “etichettati” dai genitori come sovrappeso siano propensi a vedere negativamente il proprio corpo ed è più probabile che mettano in atto strategie per perdere peso, fattori, questi, che in parte contribuiscono al loro aumento di peso negli anni successivi.

Da studi precedenti era già emerso come i figli di genitori obesi sembrino essere più propensi a diventare a loro volta obesi nel corso dello sviluppo, oltre ad avere una maggiore probabilità di sviluppare ulteriori patologie e ritardi nello sviluppo (Yeung et al., 2017; Van Lieshout et al., 2011; Whitaker et al., 1997).

Come i genitori percepiscono i propri figli, però, sembrerebbe influire notevolmente sul rischio dei bambini di divenire obesi. Infatti, per quanto si pensi che la percezione che i genitori hanno del peso e della forma fisica dei propri figli possa risultare rilevante nella gestione e nella lotta dell’obesità infantile, studi recenti suggeriscono che ciò che avviene in realtà è esattamente l’opposto. Quando un genitore etichetta il proprio figlio come sovrappeso, lo pone in realtà in una condizione di rischio, sviluppando maggiori probabilità di aumentare di peso negli anni successivi (Robinson & Sutin, 2016; Gerards et al., 2014).

Gli autori ritengono, a tal proposito, che possa essere proprio lo stigma associato all’essere considerato ed etichettato come “sovrappeso” a portare i bambini ritenuti grassi dai propri genitori ad aumentare di peso nel corso dello sviluppo. Infatti, sembra che i bambini ritenuti sovrappeso dai genitori siano più propensi a giudicare il proprio corpo come più grosso rispetto a quello dei propri coetanei. In una società che tende a valutare positivamente la magrezza e a stigmatizzare l’adiposità, il vedersi come sovrappeso porta a considerare negativamente il proprio corpo, con conseguente aumento di stress a livello psicologico, e a mettere un maggior numero di tentativi per perdere peso (Hunger et al., 2015). Nel complesso, questi fattori sembrerebbero riuscire in parte a spiegare l’associazione rilevata tra percezione dei genitori e aumento di peso dei figli nei dieci anni successivi.

 

Gli studi longitudinali sulla relazione tra la percezione della forma fisica dei figli da parte dei genitori e il sovrappeso 10 anni dopo

Lo studio è stato svolto analizzando i dati provenienti da due diversi studi longitudinali.

Il primo studio, il Longitudinal Study of Australian Children (Soloff, Lawrence, & Johnstone, 2005), svolto coinvolgendo un campione di 2,823 famiglie australiane, aveva raccolto dati provenienti dalle valutazioni iniziali circa peso e altezza dei bambini, che all’inizio dello studio avevano 4 o 5 anni, e i dati provenienti dai follow-up. Inoltre, all’inizio dello studio, ai genitori dei bambini era stato chiesto di valutare se i propri figli fossero sottopeso, normopeso, sovrappeso o estremamente sovrappeso.

Nel primo follow-up, poi, quando i bambini avevano raggiunto ormai l’età di 12 o 13 anni, era stato chiesto loro di indicare, tra una serie di immagini, quale rispecchiasse al meglio la propria immagine corporea. Ai bambini veniva anche chiesto se avessero o meno messo in atto, nei precedenti dodici mesi, comportamenti per poter perdere peso. Nel secondo follow-up, all’età di 14 o 15 anni, i ricercatori hanno poi valutato nuovamente peso ed altezza dei ragazzi.

Nel complesso, i risultati mostrano come la percezione dei genitori riguardo ai propri figli a 4 o 5 anni sembri essere associata al loro aumento di peso dieci anni dopo. Infatti, i bambini considerati sovrappeso dai propri genitori avevano la tendenza a prendere più peso a 14 o 15 anni se confrontati con i propri coetanei.

Questo meccanismo risulta essere almeno in parte moderato dalla tendenza di questi bambini a percepire la propria dimensione corporea in modo più negativo, riportando anche una maggiore probabilità di mettere in atto comportamenti volti alla perdita di peso.

Per quanto comunemente si ritenga che lo stigma legato all’essere sovrappeso impatti maggiormente sulla salute femminile, quanto emerso risulta essere valido in modo analogo sia per i maschi che per le femmine; inoltre, non sembra essere meglio spiegato da altre variabili quali, ad esempio, il reddito familiare, la presenza di condizioni mediche o il peso dei genitori. Altamente rilevante è anche il fatto che il legame tra la percezione genitoriale e il peso dei figli in età adolescenziale non risulti dipendere dal peso reale di questi ultimi all’inizio dello studio.

Infine, Robinson & Sutin, analizzando i dati provenienti da un secondo studio longitudinale, il Growing Up (Irish Department of Children and Youth Affairs, 2007), che aveva coinvolto un campione di 5,886 famiglie irlandesi, hanno evidenziato la presenza di risultati analoghi, permettendo così di pensare che, per quanto possano essere necessari ulteriori dati provenienti da campioni di nazionalità diverse, quanto rilevato per le famiglie australiane possa essere generalizzato alla popolazione globale, in quanto non sembrerebbe essere specifico di una data cultura.

Per quanto lo studio non permetta di inferire se la percezione genitoriale circa il peso dei figli possa effettivamente causare l’aumento di peso degli stessi nel corso dello sviluppo, a causa soprattutto di una buona percentuale di varianza non spiegata imputabile a caratteristiche di personalità o ad altri fattori, i dati emersi avvalorerebbero l’ipotesi secondo cui il giudicare i propri figli come sovrappeso possa portare a conseguenze negative sulla salute degli stessi, benché non intenzionalmente.

Tra sesso e castità: la persona con disabilità e l’assistente sessuale

Scrivo per chiedervi qual è la vostra opinione in merito all’assistenza sessuale per disabili. L’appagamento degli impulsi sessuali può essere considerato un bisogno primario? Se si, in quali casi si può parlare di necessità e diritto all’assistenza?

 

Car* Anto,

l’appagamento dei bisogni sessuali è una delle tappe fondamentali nel percorso di raggiungimento del benessere psicofisico ed emotivo e può, quindi, figurare tra i bisogni primari (come affermato da A. Maslow nel 1954). Tuttavia, spesso questo non è preso in considerazione dalle realtà che si prendono cura di persone con disabilità, promuovendo un’idea di disabilità come una caratteristica che preclude alla persona la percezione di impulsi e desideri sessuo-affettivi.

Negli ultimi anni (anche) in Italia si è cominciato a guardare all’importanza rivestita dalla sfera sessuo-amorosa nella vita della persona disabile, analizzando i problemi che impediscono alle persone con disabilità fisico-motorie e/o psichico-cognitive di raggiungere uno sviluppo sessuale ed emotivo sano. Vivere difficoltà ed esigenze connesse con una particolare storia autobiografica o con un corpo più lontano dal modello estetico proposto senza avere gli strumenti adeguati genera spesso uno stato di sofferenza e disagio personale (e talvolta famigliare).

Come un affamato davanti a del cibo che non può mangiare, la persona si trova spesso a percepire intensi stimoli che non riesce a soddisfare autonomamente e talvolta a comprendere. Ed è qui che emerge la necessità di un percorso di educazione sessuo-affettiva. Il supporto da parte di operatori qualificati e adeguatamente formati (dal punto di vista psicologico, sessuologico e medico) può essere opportuno in tutti quei casi in cui la persona non disponga degli strumenti necessari per gestire e rispondere adeguatamente ai propri impulsi fisiologici.

Gli assistenti sessuali aiutano le persone in stato di ridotta autosufficienza e/o con conformazioni somatiche particolari a vivere esperienze sessuali e sperimentare una più consapevole percezione del proprio corpo, offrendo loro un supporto nel vivere e nel gestire la propria emotività e la sessualità. Avendo nuove prospettive e provando esperienze altrimenti difficili da sperimentare, sarà anche possibile ridurre il disagio e l’imbarazzo vissuto (e altrimenti goffamente gestito).

Sebbene le modalità ed i limiti attraverso cui gli operatori lavorano siano previsti dal disegno di legge del Paese di riferimento, emerge comunque l’estrema delicatezza con cui è opportuno gestire i confini all’interno del rapporto tra operatore e utente, soprattutto in vista del possibile sviluppo di un rapporto di dipendenza o di una confusa percezione di sentimenti romantici verso l’assistente.

Irene Lisa Gargano

 

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il Disturbo dello Spettro autistico nel passaggio fra DSM-IV e DSM-5: cambiamenti e implicazioni

Con il DSM-5, pubblicato nel maggio 2013, sono state introdotte diverse modifiche nei criteri utilizzati per diagnosticare i Disturbi dello Spettro Autistico. Tali modifiche incidono sul processo diagnostico, terapeutico e sulla permanenza nella categoria di soggetti già diagnosticati con il DSM-IV.

Valentina Spagni, Michela Zaninelli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

 

 

I principali cambiamenti nella diagnosi dei Disturbi dello spettro autistico

Come prima cosa è stata cambiata l’etichetta diagnostica da Disturbi Pervasivi dello Sviluppo (DPS) del DSM-IV in Disturbi dello Spettro Autistico (ASD) e questa nuova categoria è stata inserita nei Disturbi del Neurosviluppo. La diagnosi di disturbi dello spettro autistico è diventata unica, e tutti i sottotipi che prima erano presenti nel DSM-IV (Sindrome di Asperger, Disturbo disintegrativo dell’infanzia e Disturbo Pervasivo della Sviluppo Non Altrimenti Specificato) sono stati eliminati.

Rispetto alla diagnosi, ora i domini considerati sono solo due e non tre: «Deficit Socio-Comunicativi» (criterio A) e «Interessi Ristretti e Comportamenti Ripetitivi (RRB)» (criterio B). La prima area comprende tre criteri che devono essere tutti soddisfatti per ottenere la diagnosi, mentre per la seconda è richiesto che ne siano presenti almeno due su quattro, dando così molto più peso all’area degli RRB. Essendo necessaria la compresenza di due criteri nel criterio B, viene eliminata la possibilità di effettuare la diagnosi di DPS NAS presente nel DSM-IV. Nel nuovo manuale, viene inoltre specificato che il disturbo è presente precocemente ma può pienamente manifestarsi in diverse età a seconda delle richieste sociali (criterio C). Infine, la diagnosi di disturbi dello spettro autistico è accompagnata dall’indicazione del livello di gravità dei sintomi (criterio D) in base al quale è possibile identificare il soggetto come bisognoso di aiuto in modo molto significativo, significativo o modesto (Santocchi e Muratori, 2012).

 

Diagnosi differenziale

Il DSM-5 affronta anche il tema dei confini fra autismo e altri disturbi socio-comunicativi. Nel nuovo manuale, la diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico richiede la compresenza del disturbo socio-comunicativo (criterio A) e degli interessi ristretti e comportamenti stereotipati (criterio B).

Infatti, in presenza del solo criterio A, non si avrà più una diagnosi di disturbi dello spettro autistico. Per comprendere questi casi, in cui il disturbo socio-comunicativo non è associato al criterio B, il DSM-5 ha introdotto una nuova diagnosi che non era presente nel DSM-IV: il Disturbo Socio – Comunicativo. Questa diagnosi può apparire simile a quella di autismo, in quanto anche gli individui con tale disturbo manifestano difficoltà negli aspetti “pragmatici” del linguaggio e nella comunicazione verbale e non-verbale. In particolare tale diagnosi potrà essere fatta quando saranno presenti i seguenti criteri: «disturbi della pragmatica che limitano la reciprocità e le relazioni sociali», e «difficoltà nella acquisizione del linguaggio parlato, scritto o gestuale a scopo narrativo o convenzionale».
La presenza di comportamenti ristretti e stereotipati (criterio B) diventa quindi cruciale per stabilire la differenza fra disturbi dello spettro autistico e Disturbo Socio-Comunicativo.

Infine, il DSM-5 presenta un’ulteriore novità: se un bambino con Disturbo dello Spettro Autistico presenta anche i sintomi di un altro disturbo, è possibile diagnosticare a quel bambino due o più disturbi, ad esempio ASD + ADHD. Questa procedura non era prevista dal DSM-IV, per il quale era necessario individuare e diagnosticare soltanto il disturbo prevalente.

 

Implicazioni cliniche

Grazie alle novità introdotte dal DSM-5, e in particolare all’eliminazione dei sottotipi presenti nel DSM-IV (Sindrome di Asperger, Disturbo disintegrativo dell’infanzia e DPS NAS), il processo diagnostico sarà più semplice, in quanto i clinici non dovranno più spendere troppe risorse (anche in termini di tempo) per individuare i suddetti sottotipi.
Grazie alla maggiore snellezza del processo diagnostico, i bambini potranno entrare in trattamento in tempi più brevi.

Esiste poi un ulteriore motivo a sostegno dell’eliminazione dei sottotipi: è ormai appurato che le strategie e gli obiettivi di trattamento non devono basarsi su un’etichetta diagnostica, quale era quella dei sottotipi, ma devono essere pianificati sulla base del profilo individuale e sui punti di forza e di debolezza del bambino. Le linee-guida del DSM-5 invitano infatti ad utilizzare un approccio diagnostico più descrittivo, indicando le caratteristiche cliniche rilevanti, il livello di gravità dei sintomi e le abilità cognitive e verbali associate. Perciò, ad esempio, invece di una diagnosi di Asperger, per un bambino potrebbe essere formulata una diagnosi di «Disturbo dello Spettro Autistico con buone abilità linguistiche e intelligenza elevata, richiedente supporto per la comunicazione sociale e richiedente molto supporto per i suoi comportamenti ristretti e stereotipati» (Vivanti et al., 2013).

Al momento, non è ancora chiaro se i nuovi criteri del DSM-5 possano comportare un aumento o una diminuzione delle diagnosi di disturbi dello spettro autistico, con le ovvie conseguenze sull’accesso ai trattamenti e ai servizi relativi.

A tal fine sono stati effettuati alcuni studi per verificare la specificità e la sensibilità rispetto ai criteri del DSM-IV e verificare i livelli di permanenza dei soggetti nella categoria diagnostica precedentemente attribuita, di cui si presenta di seguito una breve rassegna.

 

Ricerche sugli effetti del passaggio tra DSM-IV e DSM-5

Vari studi sono stati già effettuati al fine di verificare gli effetti delle modifiche introdotte dal DSM -5 ai fini delle categorie diagnostiche. Mc Partland e collaboratori (Mc Partland, Reichow e Volkmar, 2012) utilizzando i nuovi criteri hanno verificato che il 60.6% dei casi con diagnosi clinica di DPS soddisfacevano i nuovi criteri DSM-5. In particolare il 94.9% dei soggetti non DPS erano esclusi dallo spettro ma la sensibilità variava a seconda del sottogruppo diagnostico. La sensibilità infatti, era più alta per il Disturbo Autistico (76%) rispetto al Disturbo di Asperger (25%) e al DPS NAS (28%) e variava anche a seconda del livello cognitivo (70% nei casi con QI < 70 vs 46% nei casi con QI ≥ 70). Dai dati emerge quindi come i criteri DSM-5 si mostrino più specifici ma meno sensibili, e potrebbero quindi modificare la composizione del gruppo ASD escludendo una sostanziale parte di individui ad alto funzionamento o con DPS diverso dal Disturbo Autistico. Anche Mattila e collaboratori (Mattila, Kielinen, Linna, Jussila, Ebeling, Bloigu, Joseph e Moilanen, 2011) hanno evidenziato come i nuovi criteri siano meno accurati per l’identificazione del Disturbo di Asperger o soggetti autistici cognitivamente abili.

Anche altre ricerche hanno riscontrato che usando i criteri del DSM-5 uscirebbero dalla diagnosi di disturbi dello spettro autistico una percentuale minore di casi, ma pur sempre significativa: del 32% in Worley e Matson (2012), 12% in Frazier et al. (2012), 9% in Huerta et al. (2012), 7% in Mazefsky et al. (2013), 37% in Taheri e Perry (2012), 22% in Wilson et al. (2013) e 23% in Gibbs et al. (2012).

 

Lo studio

Anche nel nostro studio abbiamo messo a confronto i criteri utilizzati dal DSM-IV e, rispettivamente, dal DSM-5, su un gruppo di soggetti autistici seguiti dal Laboratorio di Osservazione Diagnosi e Formazione (Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive, Università degli Studi di Trento).
Il gruppo in oggetto è composto in totale da 135 soggetti diagnosticati con DSM-IV suddivisi in 82 soggetti con Disturbo Autistico, 24 con Disturbo di Asperger e 29 con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato.

Per effettuare le diagnosi oltre all’osservazione del clinico sono stati utilizzati i test ADOS (Autism Diagnostic Observation Schedule) e ADI-R (Autism Diagnostic Interview-Revised).
Per ogni soggetto sono stati presi in considerazione i dati in cartella per verificare se i sintomi presenti sarebbero stati sufficienti per soddisfare anche i criteri del DSM-5.

Risultati

tabella

 

Osservando la Tabella 1, si nota innanzitutto che nel passaggio tra DSM-IV e DSM-5, 33 soggetti (il 24.4% del totale) vengono esclusi dalla diagnosi di disturbi dello spettro autistico. Gli altri 102 soggetti (il 75.6% del totale) permangono invece nella diagnosi di disturbi dello spettro autistico anche con i nuovi criteri del DSM-5.

Nello specifico, la Tabella 1 evidenzia che, applicando il nuovo manuale:
● tra gli 82 soggetti del gruppo che presentavano una diagnosi di Autismo, 7 soggetti (l’8.5 %) non rientrano più nel disturbo;
● tra i 24 Asperger, 4 di loro (il 16.7%) perdono la diagnosi;
● su 29 soggetti DPS NAS, ben 22 di loro (il 75.9%) non rientrano più nei criteri per diagnosticare un ASD. Quest’ultimo è quindi un dato particolarmente significativo, che indica come la categoria che più risente del passaggio tra DSM-IV e DSM-5 sia quella dei NAS, per la maggior parte dei quali non vi è la conferma della diagnosi di Disturbo dello Spettro Autistico.

Analizzando i criteri diagnostici assunti dal DSM-5 per ognuna delle categorie di disturbo, emerge come il più selettivo dei nuovi criteri sia il criterio B: infatti, fra i 33 soggetti esclusi dalla diagnosi dal DSM-5, in tutti gli autistici, in tutti gli Asperger e in quasi tutti i NAS il criterio A risulta sempre soddisfatto, al contrario del criterio B, che risulta invece determinante per la mancata conferma del disturbo.

Ne consegue che i risultati della ricerca condotta presso il Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento sembrano essere in linea con le conclusioni degli studi descritti in letteratura (come sopra sintetizzati), nel senso che i criteri DSM-5 sembrano presentare una specificità maggiore rispetto al DSM-IV, ma una più bassa sensibilità, che porta ad escludere dalla diagnosi soprattutto i soggetti con Disturbo Pervasivo dello Sviluppo Non Altrimenti Specificato.

 

Oblio e blackout mnemonici, quando lo stress gioca brutti scherzi alla memoria: il caso dei bambini dimenticati in auto

Sembra essere lo stress il maggiore imputato del fenomeno del vuoto di memoria (oblio o black out): piccole dimenticanze ma anche grandi che possono portare a conseguenze gravissime.

 

La memoria non contiene solo quello che siamo in grado di ricordare coscientemente ma l’insieme di processi cognitivi automatici ed impliciti. Facendo una macro distinzione è possibile suddividere una memoria a breve termine/a lungo termine, memoria semantica/episodica, memoria esplicita/implicita.

 

Memoria a breve termine e memoria a lungo termine

La distinzione tra memoria a breve termine (MBT) e memoria a lungo termine (MLT) è oramai classica negli studi in quest’ambito, le due aree fanno riferimento una alle informazioni recepite nell’immediato e che sono destinate a decadere velocemente se non si effettuano delle operazioni cognitive per favorire il passaggio alla memoria a lungo termine che rappresenta il “grande archivio” dove si trovano le informazioni che negli anni si sono consolidate.

Questa funzione della memoria ci consente di mantenere nel tempo tantissime informazioni e rievocarle; permette inoltre di conservare esperienze di vario tipo, ricordi personali e le procedure che abbiamo acquisito nel tempo.

Nella memoria a lungo termine si hanno strette relazioni tra codifica, immagazzinamento e recupero. Il codice preferenziale è quello verbale ma possono essere usati altri codici.  Con gli studi di Baddley (1986) iniziano a delinearsi aspetti nuovi della memoria a breve termine, la memoria di lavoro che fa riferimento all’immagazzinamento temporaneo e alla contemporanea manipolazione dell’informazione durante lo svolgimento di attività cognitive come la comprensione, il ragionamento e l’apprendimento.

 

Memoria esplicita e memoria implicita

La distinzione tra memoria esplicita e memoria implicita si deve agli studi di Tulving (1972) che descrive la prima funzione come “l’esperienza soggettiva interna di stare ricordando qualcosa”; può essere a sua volta suddivisa in memoria semantica e memoria episodica: la prima riguarda tutte le conoscenze possedute (senza connotazione spazio-temporale), la seconda  riguarda eventi singoli e specifici che sono avvenuti in un tempo e luogo precisi, quindi si caratterizza per il riferimento autobiografico.

La memoria implicita è mediata da regioni celebrali che non richiedono un coinvolgimento della coscienza rispetto ai processi di registrazione e recupero, quindi non è associata all’esperienza di stare ricordando qualcosa, rientrano in quest’area tutte le operazioni cognitive che una volta apprese diventano automatiche, come guidare l’auto.

 

Automatismi e oblio

Riprendendo questa organizzazione concettuale della memoria, abbiamo visto che vi sono tracce mnestiche implicite all’interno del quale troviamo gli automatismi: è questa la parola chiave per spiegare le amnesie che possono aprire la strada a conseguenze terribili.

Mentre si compiono gesti ripetitivi o si guida lungo gli stessi tragitti lo stato di coscienza si abbassa, si è meno vigili, meno presenti, può capitare di non essere per nulla concentrati su quello che si sta facendo. È come affidarsi ad un pilota automatico ritenuto infallibile: da qui si origina la possibilità di distrarsi dalle tappe che scandiscono i percorsi della consuetudine, fino a saltarne una, magari la più importante.

Per oblio s’intende l’incapacità totale o parziale di ricordare ciò che si è appreso; i primi studi sull’ oblio si devono allo psicologo tedesco Ebbinghaus,  i risultati dei suoi studi dimostrano che l’ oblio inizialmente è rapido ma rallenta gradualmente e i ricordi assumono un assetto stabile. L’ oblio può essere considerato un fenomeno funzionale che risponde a esigenze di economia mentale. I  vari tentativi di spiegare le cause dell’ oblio sono sfociati in tre teorie principali: teoria del decadimento, teoria della rimozione e teoria dell’interferenza.  È su quest’ultima teoria che possiamo concentrarci per dare una prima e parziale spiegazione a questo fenomeno. Gli esperimenti di Jenkins e Dallenbach (1924) dimostrano che informazioni/eventi hanno più possibilità di essere ricordati se non intercorrono agenti esterni ed interni a distrarre. Gli elementi che possono distrarre sono tanti, dalle emozioni ai pensieri.

Come abbiamo visto dalle varie teorie nell’essere umano si sono sviluppati più sistemi di memoria per svolgere diverse funzioni: da un lato, una memoria che coordina le azioni abitudinarie e quindi viene riattivata in situazioni analoghe, consentendo di reagire rapidamente, anche se queste funzioni sono piuttosto rigide; dall’altro lato un altro sistema di memoria è sviluppata per svolgere le prestazioni della memoria quotidiana di episodi unici, questo è più flessibile ma più lento. Entrambi i sistemi sono coordinati da diverse reti neuroanatomiche (Ness D., Calabrese P., 2016).

 

Oblio e stress: il caso dei bambini dimenticati in auto dai loro genitori

L’interazione tra questi sistemi di memoria è modulato dagli ormoni dello stress: una risposta fisiologica allo stress (Roozendaal B.¸ 2002). Sembra essere lo stress il maggiore imputato del fenomeno del vuoto di memoria (oblio o black out): piccole dimenticanze ma anche grandi che possono portare a conseguenze gravissime.

Il tristissimo fenomeno dei bambini dimenticati in auto rientra in questa particolare situazione. La statistica sulla frequenza di questo fenomeno rileva che la mamma è meno a rischio amnesie riguardo alle funzioni di cura-accudimento del figlio. I ricercatori che studiano i sofisticati meccanismi che regolamentano la memoria, i ricordi, la concentrazione, l’attenzione ritengono meno probabile l’eventualità che a dimenticarsi del figlio sia la madre.

Il cervello delle madri, per una questione puramente biologica, funziona diversamente da quello dei padri e riconosce come priorità assoluta l’accudimento della prole. È cioè più probabile che il padre possa essere distratto dalle necessità del bambino, se si trova alle prese con altre necessità, relative, per esempio, al suo lavoro, invece alla madre è meno probabile che possa accadere. Nei padri questo istinto è meno marcato. Ma stress, la deprivazione del sonno, le preoccupazioni e la stanchezza fisica potrebbero causare un vuoto di memoria anche in una mamma.

Un recente studio longitudinale (Sturge-Apple ML, Jones HR, Suor JH., 2016) ha proprio valutato l’associazione tra stress, funzioni esecutive e “sensibilità materna”. Difficoltà socio-economico sono state considerate come il fattore di rischio che ha ripercussioni patogene nella capacità di caregiving materno. Lo studio ha esaminato un campione di 185 madri ed ha dimostrato  come la “sensibilità materna”  e  la capacità di memoria e di controllo inibitorio possono essere danneggiate in situazioni di stress e rischio socio-economico. Purtroppo poche ricerche hanno documentato quali siano i complessi meccanismi alla base di questa associazione.

Un altro elemento che potenzialmente porta al rischio oblio è costituito dal multitasking, cioè la capacità di svolgere più azioni contemporaneamente: dagli studi emerge che le persone stressate tendono a svolgere più azioni contemporaneamente e ciò può portare a carenze di attenzione crescenti fino ad arrivare a veri e propri buchi nella memoria.

Alcune ricerche scientifiche hanno indagato a fondo il modo in cui il multitasking possa interferire seriamente con la memoria a breve termine e i processi decisionali degli adulti e degli anziani. In un esperimento alcuni soggetti erano invitati ad attraversare un tratto di strada trafficata senza alcuna distrazione oppure parlando a un telefono cellulare. Come risultato, nella seconda situazione gli adulti apparivano più titubanti e impiegavano molto più tempo nello svolgimento del compito. Questo spiega come l’abilità del cervello di far fronte a più stimoli e informazioni di diversa natura abbia un limite, oltre il quale può generarsi una sorta di tilt o, appunto, un black out temporaneo.

Per questo è importante non trascurare mai i sintomi di un forte stress che può produrre piccole o grandi défaillance. Certamente non tutti questi casi portano a blackout totali della memoria, tuttavia rappresentano un’anticamera del disturbo su cui è importante intervenire in maniera preventiva.

Il gioco d’azzardo patologico. Esperienze cliniche, strategie operative e valutazione degli interventi territoriali

Il testo, a cura di Alfio Lucchini e frutto del contributo di molteplici autori, si configura come un prezioso ed aggiornato strumento per comprendere il fenomeno del gioco d’azzardo patologico in Italia. Esso include una parte più teorica, volta ad introdurre il concetto di gioco di azzardo patologico, la sua patogenesi, i correlati neurofisiologici, le sue declinazioni comportamentali e il trattamento clinico e una serie di recenti studi condotti sul fenomeno. Sono proposti, infine, svariati interventi clinici per il trattamento del disturbo da Gioco di Azzardo patologico ideati e condotti nelle ASL del nord Italia.

 

Gioco di azzardo: le caratteristiche e i costi

Il manuale illustra da subito le principali caratteristiche del gioco d’azzardo, connotato dalla capacità di impossessarsi totalmente del giocatore ed avere conseguenze che non rimangono confinate all’interno del gioco, ma che impattano negativamente sulla vita reale. Tra i costi sociali del gambling, vengono elencati il calo della produttività sul lavoro, l’aumento di criminalità, l’indebitamento, l’usura, il peggioramento dello stato di salute, l’impegno di risorse dei sistemi giudiziario, sanitario e previdenziale e rotture famigliari. Anche dal punto di vista neurofisiologico il gioco d’azzardo presenta delle peculiarità, e cioè si associa a pattern di attivazione caratteristici in diverse strutture cerebrali del sistema dopaminergico di ricompensa cerebrale; le sostanze chimiche ad esso associate, poi, sono quelle più importanti nel generare la ricompensa: gli oppioidi endogeni, la dopamina (responsabile dell’euforia del gioco, o gambling) e gli endocannabinoidi.

La legislazione italiana sul gioco d’azzardo e la crescita esponenziale

Dopo un breve excursus storico, vengono esposte le principali leggi che in Italia regolano il gioco di azzardo. Come si evince dal testo, nel corso del tempo la legislazione italiana si è modificata passando dal “divieto con riserva di permesso” all’attuale “liberalizzazione controllata”. Tutto ciò ha portato ad un esponenziale quanto preoccupante aumento degli incassi derivanti dal gioco d’azzardo: dagli anni ’60 ai primi anni ’90, infatti, gli italiani hanno speso circa 5 miliardi l’anno, mentre nel 2012 il solo gioco d’azzardo gestito dall’AAMS (Amministrazione Autonoma dei Monopoli di Stato) in Italia ha totalizzato più di 87 miliardi di proventi.

Questo trend ha inevitabilmente predisposto molte persone a sviluppare il disturbo da gioco d’azzardo patologico, patologia così denominata all’interno del DSM-5. Il disturbo da gioco d’azzardo patologico ha un’evoluzione cronica e progressiva che inizia in genere nella prima adolescenza negli uomini e più tardi nelle donne; spesso è intervallato da periodi di astinenza e ricadute.

E’ più comune tra gli uomini e in Italia la sua incidenza tra gli adulti si attesta sull’1-2% della popolazione (Relazione al Parlamento 2011 – Dipartimento Politiche Antidroga). La sua patogenesi comprende l’aumento di dopamina nel nucleus accumbens – che incrementa la salienza di uno stimolo altrimenti giudicato neutro dall’individuo – e un deficit del controllo serotoninergico inibitorio esercitato dalla corteccia prefrontale sugli impulsi additivi provenienti dall’amigdala e dal nucleus accumbens.

Le fasi del ciclo di vita dove più frequentemente emerge la dipendenza da gioco d’azzardo sono l’adolescenza e l’età anziana. Sebbene il gambling sia vietato ai minorenni, infatti, molti giovani vi si avvicinano, per lo più maschi (rapporto M:F di circa 3-5:1), e sono connotati da invulnerabilità, propensione al risk taking e tendenza a sottovalutare i rischi. Tra i giochi più in voga in questa fascia d’età troviamo i Gratta e Vinci, le scommesse sportive e i giochi d’azzardo online. Gli anziani, invece, preferiscono giochi a basso investimento cognitivo e dall’esito legato quasi esclusivamente alla fortuna, come il bingo, le lotterie e le slot machines.

Il testo presenta poi alcune leggi che di recente hanno tentato di frenare l’impennata del gioco d’azzardo patologico, ad esempio la legge 13 settembre 2012, n.158 o “Decreto Balduzzi” che ha regolato la diffusione dei messaggi pubblicitari dei giochi d’azzardo e la Normativa regionale (Lombardia), legge n.8 del 21 ottobre 2013, che vieta la collocazione di apparecchi per il gioco d’azzardo a meno di 500m da luoghi ritenuti sensibili e predispone corsi di formazione sulla conoscenza e la prevenzione dei rischi connessi al gambling, anche per i gestori delle sale gioco.

 

Interventi territoriali sul gioco d’azzardo patologico

In seguito, a titolo esemplificativo viene esposto il progetto della ASST Melegnano e della Martesana, che ha permesso la raccolta di importanti dati sulla diffusione di questa dipendenza e di approvare un Piano di Intervento Territoriale sul gioco d’azzardo patologico definito “Game over…e poi?”. Questo capitolo è particolarmente interessante poiché illustra un intervento davvero multidisciplinare che coinvolge molteplici figure (i.e., il giocatore d’azzardo patologico, la famiglia, i gestori delle sale, gli insegnanti nelle scuole, etc.) e fornisce un interessante esempio di come è possibile intervenire oggi.

Il risultato della convergenza tra gli atti fondamentali di Regione Lombardia e il Piano Territoriale “Game over…e poi?” è l’Accordo Quadro, un piano articolato in 4 ambiti:
1) Conoscenza e monitoraggio della dimensione del fenomeno sul territorio, che prevede l’utilizzo di questionari e schede per lo screening e la rilevazione del livello di conoscenza generale del fenomeno del gioco d’azzardo.
2) Prevenzione, attraverso il programma di Life Skills Training (LST, finalizzato al potenziamento di risorse personali definite life skills; uno dei modelli più noti nel campo della prevenzione dell’uso di sostanze) e azioni specifiche per i Centri di Formazione Professionale
3) Informazione/sensibilizzazione
4) Formazione, dei gestori degli esercizi pubblici dove sono installate apparecchiature per il gioco d’azzardo lecito, dei membri della Polizia Locale (per il controllo e la rilevazione delle apparecchiature per il gioco d’azzardo poste sul territorio), del personale amministrativo, degli operatori sociali, sociosanitari e sanitari.

 

Gli strumenti per rilevare il gioco d’azzardo patologico

Tra gli strumenti attualmente presenti per rilevare la dipendenza da gioco d’azzardo nella popolazione anziana, il testo presenta il questionario Senior Problem Gambling Questionnaire (SPGQ), ideato dalla psicologa Annalisa Pistuddi della ASST Melegnano e della Martesana in collaborazione con il Gruppo Italiano per lo Studio dello Stress e delle Metodiche Antistress (GISSMA).

Per quanto riguarda l’accoglienza e lo screening il manuale suggerisce di indagare i problemi e le risorse nelle diverse aree vitali del paziente (personale, familiare, sociale, economica, lavorativa). Gli strumenti della valutazione sono rappresentati dal colloquio clinico, questionari e scale di valutazione standardizzate, dalle interviste per lo più semi-strutturate e da schede per la misurazione di fenomeni specifici. Per fare qualche esempio il SOGS viene impiegato per lo screening e la stadiazione, i criteri del DSM-5 per la diagnosi, il GCRS per la valutazione delle distorsioni cognitive, il MATE o l’euroASI per la valutazione dimensionale, l’SF-36 per la qualità della vita, il MARE o la SCID per i disturbi di personalità e comorbilità e la BIS-11 per l’impulsività.

Le aree di analisi invece saranno:
Lo stato di salute e le caratteristiche del paziente
L’anamnesi patologica prossima, remota e tossicologica; sarà inoltre indagato l’uso di sostanze stupefacenti, alcol e farmaci
La comorbilità psichiatrica
L’anamnesi sociale
La presenza di fattori di vulnerabilità e la ricostruzione della storia pregressa di gioco d’azzardo
La motivazione al cambiamento e la situazione finanziaria del giocatore
Il comportamento attuale di gioco (frequenza di gioco, compulsività, tipologia dei giochi utilizzati, la spesa mensile e il tempo dedicato al gioco)

 

Il trattamento del gioco d’azzardo patologico

Il trattamento del gioco d’azzardo patologico può prevedere setting individuali, familiari e di gruppo. E’ essenziale all’inizio costruire un’alleanza con il paziente per rinforzare la motivazione e la compliance al trattamento. Il terapeuta avrà facoltà di stabilire anche delle indicazioni comportamentali per proteggere il paziente dal contatto con l’esperienza di gioco (i.e., controllo del denaro da parte di un familiare, evitamento di luoghi o situazioni di rischio, etc.). E’ in ogni caso suggerito di co-costruire con il paziente il processo terapeutico, al fine di permettergli di assumere un ruolo attivo e responsabile nella terapia.

Riguardo ai trattamenti farmacologici, non ne esiste alcuno dedicato alla dipendenza da gioco d’azzardo, ma spesso vengono prescritti SSRI (i.e., fluvoxamina, paroxetina ed escitalopram), analogamente a quanto fatto con i pazienti con sintomi ossessivi-compulsivi, antagonisti degli oppiacei per ridurre il craving e gli effetti gratificanti e di rinforzo del gioco o stabilizzatori dell’umore (i.e., carbamazepina, valproato e litio).

 

L’approccio cognitivo comportamentale

Il libro presenta anche un interessante approccio psicoeducativo di stampo cognitivo-comportamentale – condotto sia individualmente che in gruppo – rivolto a pazienti con Disturbo da Gioco d’Azzardo dal titolo “Io non sono un pollo”, presente nei Servizi per le Dipendenze di via Boifava di Milano e di via Terenghi di Cinisello Balsamo. Esso si basa sulla ristrutturazione cognitiva volta ad eliminare quelle credenze irrazionali connesse al gambling, che portano il soggetto a sovrastimare la propria abilità di calcolo delle probabilità, a sottostimare l’esborso economico che porterà ad una vincita risolutiva e, più in generale, a modificare tutte le credenze che mantengono il comportamento del giocatore patologico.

Altre esperienze cliniche di rilievo descritte nel testo sono Parole in Gioco e Fuori dal Gioco (livello intensivo), due percorsi terapeutici condotti in Piemonte. Qui lo strumento principale è il gruppo, all’interno del quale il soggetto può esporre la propria dipendenza agli altri partecipanti e condividere il vissuto di sofferenza. I giocatori, caratterizzati spesso da pensiero concreto, scarsa attenzione e bassa capacità di introspezione, acquisirebbero così maggiore sicurezza e abilità nella gestione dei problemi comportamentali e delle proprie relazioni. Nel dettaglio, Parole in Gioco punta ad incrementare la motivazione del paziente, agendo sull’aumento della consapevolezza del problema – tramite tecniche derivate dal colloquio motivazionale – e sulla disponibilità al trattamento e al cambiamento, proponendosi, inoltre, come spazio informativo sul fenomeno del gioco d’azzardo. Al termine di questo percorso viene valutata la possibilità di un passaggio al programma intensivo Fuori dal Gioco. Esso si compone di 4 moduli della durata di tre mesi ciascuno con un tema principale che costituisce il filo conduttore degli incontri (gioco, caso ed errori cognitivi; gestione del denaro e tutoraggio economico; relazioni interpersonali; lavoro e tempo libero); prevede attività psicoterapeutiche, psicoeducative, formative, di tutoraggio economico e di socializzazione. Entrambi i percorsi hanno portato ad alcuni cambiamenti nei pazienti, che possono essere letti come risultati del percorso terapeutico; essi sono: crescente consapevolezza rispetto alla dipendenza dal gioco d’azzardo, maggiore capacità critica rispetto alla propria storia di vita e alla dipendenza dal gioco, incremento della capacità di gestire il proprio denaro e un miglioramento delle relazioni familiari.

 

L’approccio sistemico relazionale

Il capitolo che segue illustra le possibilità di trattamento del gioco d’azzardo patologico secondo l’orientamento sistemico-relazionale, che coinvolge attivamente la famiglia e, in alcuni casi, concepisce il giocatore come paziente designato, considerando il sintomo del gioco patologico come risposta alla situazione famigliare disfunzionale. In quest’ottica, il disturbo da gioco d’azzardo ricoprirebbe la funzione di mantenere l’omeostasi del paziente. Il terapeuta, partendo dalla ricostruzione del “contesto” – inteso nell’accezione di Bateson come il “luogo sociale e relazionale in cui il sintomo del paziente si manifesta, in cui esso prende forma e assume di significato” – ricerca le valenze relazionali del comportamento sintomatico e ne esplora la funzione all’interno degli equilibri del sistema di riferimento. In seguito, sviluppa una mappa della famiglia che lo aiuta a formulare ipotesi sui settori familiari funzionali o disfunzionali.

 

Trattamenti per la gestione del denaro

Partendo dai problemi finanziari dei pazienti connessi al gambling, poi, l’équipe della SC Ser.T. 1 nelle sue sedi di Milano ha individuato un’offerta di trattamenti e prestazioni che ha a che fare proprio con la gestione controllata del denaro. Infatti, molti pazienti ricorrono a prestiti con usurari – esponendosi, qualora non possano saldare il debito, a situazioni rischiose per la propria incolumità – o comunque intaccano il bilancio famigliare, gravando su uno o più membri della famiglia o sul partner. I risultati di questi interventi si notano principalmente nel miglioramento delle relazioni familiari e nel controllo della spesa del giocatore.

 

La terapia cognitivo comportamentale e le piattaforme

Il punto di vista cognitivo-comportamentale, invece, intende il gioco patologico come un comportamento disfunzionale appreso – alla cui base vi sono i meccanismi di condizionamento classico, operante e di modeling – sotteso da un’alterazione dei sistemi neurobiologici della gratificazione e della motivazione. Nel dettaglio, i giocatori patologici sarebbero imprigionati in modalità stereotipate e disfunzionali di pensiero che si auto-mantengono e che scatenano stati umorali ed emozioni vissute negativamente dai soggetti e che accompagnano le condotte di gioco patologico. Alla base della terapia cognitivo-comportamentale per il trattamento dei giocatori patologici troviamo: l’identificazione dei meccanismi di apprendimento sottostanti al comportamento di gioco, l’analisi dei fattori di vulnerabilità, la “messa in protezione” del giocatore dalla tentazione indotta dagli stimoli correlati al gioco e la modifica degli schemi di pensiero alla base dei comportamenti disfunzionali. Lo scopo della terapia sarebbe individuare gli automatismi comportamentali connessi al gambling e offrire risposte cognitive alternative più funzionali a quelle esistenti.

Oltre agli strumenti canonici di intervento di stampo cognitivo-comportamentale, la piattaforma di trattamento online di Giocaresponsabile.it gestita da FeDerSerD (Federazione Italiana degli Operatori dei Dipartimenti e dei Servizi delle Dipendenze) rappresenta una buona alternativa. Essa è ad accesso libero, gratuito ed in completo anonimato per i giocatori. Una volta valutata la gravità del problema di gioco e della motivazione al trattamento (fase di ingresso), al giocatore viene proposto un modulo trattamentale basato sull’approccio cognitivo-comportamentale organizzato su specifiche aree di interesse, ovvero: l’analisi funzionale, la gestione del craving, la gestione delle risorse e la prevenzione delle ricadute. I risultati sorprendentemente hanno dimostrato come il trattamento tramite questa piattaforma online sia efficace almeno quanto i trattamenti proposti nei setting tradizionali, sebbene la motivazione del paziente non incrementi significativamente; per tale motivo i futuri sviluppi di questa tecnica prevederanno un modulo “motivazionale” teso a migliorare la ritenzione al trattamento e, quindi, la sua efficacia.

Il punto di forza di questa piattaforma – come delle linee telefoniche dedicate al supporto psicologico e al trattamento dei soggetti affetti da gioco d’azzardo – è la modalità di fruizione per l’utente, che spesso teme la stigmatizzazione sociale e prova vergogna. Inoltre, tali interventi si configurano come meno costosi e consentono maggior copertura geografica ed accessibilità.

 

I costi sanitari del gioco d’azzardo patologico

L’ultima parte del manuale si focalizza sui costi sanitari del gioco d’azzardo patologico e presenta alcune statistiche tratte dai Ser.D. del Trentino dal 2010 al 2014, dalle quali emerge il profilo del giocatore d’azzardo medio: si tratterà più probabilmente di un maschio (rapporto M:F di 1:7) con età media di 48 anni, un’istruzione medio-bassa (circa 10 anni di istruzione, il 40% delle volte in possesso di licenzia media inferiore e il 34% delle volte di un diploma di scuola media superiore) e il 60% delle volte con un lavoro. La percentuale di successo dei trattamenti applicata dai Ser.D. si attesta tra il 63-77%.

 

Conclusioni

Concludendo, il testo è valido e soprattutto aggiornato, utilissimo per comprendere il fenomeno del gioco d’azzardo patologico che, come abbiamo visto, colpisce in maniera sempre crescente la popolazione italiana, producendo uno stato di sofferenza e compromettendo finanziariamente chi ne soffre. Lo psicoterapeuta che desidera capire meglio il disturbo da gioco d’azzardo patologico dovrebbe perciò includere nella sua biblioteca questo testo.

Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: come e perché agisce lo stupratore?

Le teorie sulle motivazioni allo stupro sono piuttosto confuse e spaziano da una presunta patologia mentale dello stupratore, un forte odio verso le donne, fino a spiegare il comportamento sessuale deviante con l’ottenimento del climax del piacere sessuale quando la vittima resiste e soffre (Koss e Dinero, 1988).

 

Esistono in letteratura diversi modelli che cercano di spiegare le motivazioni alla base del comportamento deviante dello stupratore. Di seguito ne vedremo alcuni.

Leggi la prima parte di questo articolo:  Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: dalla definizione di stupro ai date rapes

 

Il modello patologico: lo stupratore e la coercizione

Vickers e Kitcher (2003) sostengono che il punto centrale dello stupro sono le cause della coercizione.

Gli autori immaginano due situazioni, nella prima un uomo (Adam) si sente fortemente attratto da una donna (Eve) e le propone un rapporto sessuale; Eve rifiuta, Adam insiste ma non la forza. Nell’altra situazione, un uomo (Tarquin), propone un rapporto sessuale ad una donna (Lucretia), questa rifiuta come Eva ma, Tarquin, la costringe ad avere un rapporto con lui. Secondo questi autori la ragione della coercizione non sarebbe da ricercare nella differenza tra Eve e Lucretia, ma tra Adam e Tarquin.

Gli autori criticano l’ipotesi secondo cui il gene dello stupro, derivante da nostri predecessori arcaici, alberghi sul cromosoma Y imputando, quindi, le ragioni della sua manifestazione ad indizi contestuali o a disposizioni psicologiche. Si potrebbe invece assumere che non tutti sviluppano questa disposizione e, di conseguenza, la differenza tra Adam e Tarquin sarebbe che solo il secondo l’avrebbe sviluppata.

E’ sicuramente necessario postulare delle alternative meno semplicistiche sulla ragione che porta alcuni uomini a stuprare una donna.

Vickers e Kitcher propongono quindi l’ipotesi che lo stupratore raggiunge livelli di eccitazione tali, da non riuscire a gestire il rifiuto di una donna. In questo caso la differenza tra Tarquin ed Adam sarebbe da ricercare al livello del desiderio sessuale. L’ipotesi è che, Tarquin ed Adam, abbiano una soglia diversa per l’attivazione dei meccanismi inibitori.

 

Modello psicoanalitico: l’aggressività dello stupratore e la de-umanizzazione della vittima

Abrahmesen, nel 1960, scriveva:

l’aggressore ha bisogno di uno sfogo per la sua aggressività sessuale e trova una partner remissiva la quale inconsciamente lo invita ad un abuso sessuale per poter soddisfare i suoi bisogni masochistici.

Questo autore sostiene che la base motivazionale dello stupratore sarebbe la frustrazione sessuale provocata dalle mogli. Lo stupro sarebbe un tentativo inconscio di costringere alla sottomissione una madre che seduce e contemporaneamente respinge; questo vissuto verrebbe attualizzato in una relazione coniugale frustrante.

Secondo Orlandini (2002) quello dell’aggressore non è tanto un bisogno ed un proposito “sessuale”, quanto un fondamentale bisogno di dominanza e forza. Questo bisogno verrebbe conseguito attraverso la de-umanizzazione della vittima, che diventa un oggetto senza significato: la donna diventa il contenitore di tutte quelle emozioni negative di cui l’assalitore vuole sbarazzarsi, come se si trattasse di un’“infezione psichica”.

Uno stupro ha veramente poco a che fare con la passione e la sessualità, è bensì un atto pseudo-sessuale dovuto ad ostilità, collera e controllo.

Il bisogno, narcisistico e sado-masochistico, di esercitare la propria forza ed il proprio controllo su una vittima attraverso lo stupro, potrebbe derivare da sentimenti inconsci di impotenza e svalutazione, o da un profondo vuoto interno ed una profonda depressione.

La persona sado-masochista per provare piacere deve distruggere l’umanità dell’oggetto e schiavizzarlo: l’oggetto per essere usato deve essere trasformato in un oggetto senza connotazioni umane. A muovere lo stupratore sono la pretesa di essere come Dio, il Sé grandioso, la mancanza di empatia, cioè le principali caratteristiche del narcisismo.

 

Modello evoluzionistico: le disposizioni psicologiche negli uomini e nelle donne

Buss (1989) propone una teoria sulle strategie sessuali in cui il ruolo svolto dall’uomo e della donna sarebbe asimmetrico in almeno tre fronti della sfera riproduttiva.

Innanzitutto gli uomini, al contrario delle donne, non sono mai certi della loro paternità; poi le donne sono fertili per una piccola porzione della vita rispetto agli uomini; infine le donne investono molto di più nella riproduzione rispetto agli uomini. Nell’arco di una vita una donna produce circa 450 gameti, mentre in una singola eiaculazione ce ne sono milioni. La donna è inoltre molto più impegnata nel suo ruolo riproduttivo, anche solo per il fatto che, dopo nove mesi di gravidanza, deve provvedere all’allattamento. Queste asimmetrie creano problemi adattivi per uomini e donne.

Gli uomini hanno bisogno di incrementare la loro probabilità di paternità identificando il valore riproduttivo della donna (e quindi preferendo donne che hanno un maggior tempo riproduttivo davanti a sé, quindi più giovani). Le donne hanno la necessità di trovare un uomo che possa provvedere ai bisogni suoi e dei figli e di proteggerli dagli aggressori.

La selezione naturale privilegerà, perciò, quelle disposizioni psicologiche che portano l’uomo ad un’inclinazione verso la gelosia, verso la ricerca di copulazioni veloci, all’attrazione verso donne che presentano segni di un alto valore riproduttivo. Similmente, la selezione naturale favorisce nelle donne quelle disposizioni psicologiche che le portano a cercare uomini anziani (uomini quindi con potere e risorse economiche) e che hanno minori possibilità di cercare altre donne.

Buss ha dimostrato la sua teoria conducendo una ricerca su 37 tipologie culturali in 33 nazioni, per un totale di 10.047 soggetti, indagando sulle caratteristiche ricercate nel proprio compagno.

Questa ricerca è stata però contestata perché le effettive strategie di ricerca del proprio compagno possono essere molto meno coscienti da quelle messe in luce dal questionario proposto da Buss, inoltre il setting sperimentale ed il reale contesto di scelta sono troppo dissimili (Vichers e Kitcher, 2003).

 

Modello della socializzazione: la distorsione degli schemi socializzati sul ruolo dell’uomo e della donna

Secondo questo modello, lo stupro si colloca su un continuum dell’esperienza sessuale che informa sulla differenza di potere tra uomo e donna nella società. La motivazione dell’aggressione sessuale può anche essere attribuita a schemi socializzati per le relazioni sessuali. E’ stato postulato che gli uomini sovrastimano l’interesse delle donne per l’attività sessuale. Questo fatto, combinato con il ruolo maschile di iniziatore dell’attività sessuale, lo pone in una posizione in cui deve testare i limiti della propria partner.

Questa tendenza sociale per cui sarebbe l’uomo a dover sondare la volontà sessuale della donna, unito al bisogno maschile di esercitare il proprio potere, potrebbe sfociare in una violenza sessuale.

Bondurant e Donat (1999) sostengono che un progetto di prevenzione dovrebbe basarsi sulla necessità di una chiara comunicazione tra uomo e donna. Il loro approccio parte dal presupposto che la violenza sessuale da parte di persone conosciute sia il risultato di un errore comunicativo.

Abbey (1982) ha messo in luce come soggetti di diverso genere non percepiscano diversamente la disponibilità sessuale di una donna in contesti altamente sessualizzati, mentre la differenza risulta evidente in comportamenti più banali (ad es. la donna chiede all’uomo di uscire insieme per un appuntamento, oppure la donna accetta di uscire con un uomo per un appuntamento).

Comparando i risultati al Sexual Experience Scale (Koss, Gidyez e Wisniewski, 1987) con l’interpretazione dei comportamenti di una donna durante l’appuntamento con un uomo, è stato possibile verificare che i soggetti che tendono ad un comportamento sessuale aggressivo sono gli stessi che interpretano come sessualizzati comportamenti banali (Bondurant e Donat, 1999).

Uomini con un comportamento sessuale aggressivo includono quindi più facilmente comportamenti amichevoli o romantici in schemi cognitivi di interesse sessuale. Il problema non sarebbe quindi una mis-comunicazione ma una mis-interpretazione.

Gli errori interpretativi di questi uomini possono essere meglio compresi se inseriti in una costellazione di credenze, attitudini e tendenze comportamentali.

Koss (1985), nel suo lavoro pioneristico, senza usare la parola stupro ha chiesto a 2.971 studenti universitari se avessero mai ottenuto un rapporto sessuale da una donna solo dopo averla minacciata o aver usato la forza; i risultati hanno evidenziato: 187 stupri, 157 tentativi di stupro, 327 episodi di coercizione sessuale e 854 contatti sessuali non voluti. Nella maggior parte dei casi gli uomini che violentano donne che conoscono sono persone “regolari”, provenienti dal ceto medio, con pochi o nessun precedente penale: appaiono come i tipici studenti universitari.

Su 71 studenti universitari che hanno dichiarato di aver stuprato, solo 6 sono stati denunciati dalle vittime che hanno comunque successivamente deciso di non dar seguito alla vicenda. La maggior parte degli uomini che violentano una donna non etichettano la situazione come “stupro”.

Spesso, lo stupratore diventa premuroso ed affettuoso dopo il rapporto: riveste la donna, la copre ed insiste per riaccompagnarla a casa. Alcuni professano amore e vorrebbero continuare ad uscire con la vittima. Molti uomini che violentano donne che conoscono, credono nel dogma del “macho”: devono praticare tanta attività sessuale, se la donna è riluttante devono insistere, devono convincerla con le lusinghe, devono rifiutarsi di smettere e, alla fine, devono ottenere quello che vogliono. La relazione con una ragazza viene vista come una sfida.

 

Modello integrativo: oltre gli altri paradigmi

Questo modello cerca di spiegare quelle anomalie che non vengono contemplate dagli altri paradigmi.

E’ stato proposto un modello quadripartitico dell’aggressione sessuale che contempla l’attivazione sessuale fisiologica, schemi cognitivi, mancanza di controllo affettivo e problemi della personalità, come precursori della violenza sessuale (Hall e Hirschman, 1991)

Mulamuth et al. (1991) hanno proposto un modello che include l’ostilità verso le donne, attitudini a supporto dello stupro, associazione a bande delinquenziali e promiscuità sessuale.

 

LEGGI ANCHE:

(parte 3): perché il silenzio? Il senso di colpa nelle vittime di violenza

Leggi anche: (Parte 4) Effetti dello stupro sulle vittime

Demenza: il modello della cura centrata sulla persona (PCC) elaborato da Tom Kitwood

Il modello di approccio psicosociale Person–Centred Care (PCC) elaborato da Tom Kitwood (1997) rappresenta una svolta fondamentale nella gestione di servizi sociali e sanitari, in particolare per quanto riguarda le persone con demenza.

Toigo Miriam, Bassan Serena – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Bolzano

 

Tom Kitwood propone alcuni concetti chiave partendo dall’idea che nella cura della demenza il compito principale è mantenere la personhood (l’essere persona nel suo senso più completo: avere sentimenti, emozioni, una personalità, una cultura…), nonostante il decadimento delle funzioni cognitive (Faggian et al., 2013):

  • Riconoscere che l’individuo è sempre una persona nonostante la malattia e che come tale può ancora vivere la propria vita e avere relazioni
  • È necessario impostare la cura partendo dalla storia di vita della persona
  • È importante permettere alla persona di compiere delle scelte e rispettarle
  • Tenere presente che la persona può ancora fare tanto, focalizzarsi sulle abilità residue e non tenere conto solo delle capacità compromesse a causa della malattia

Oltre alla compromissione neurologica, che rimane la causa principale della demenza, esistono molti altri fattori che influenzano la quotidianità della persona con demenza e su come agisce, sente e pensa.

 

La demenza come interazione di cinque fattori

La patologia dementigena è rappresentabile in una formula arricchita che è il frutto dell’interazione di cinque fattori principali:

  • Dementia = NI + H + B + P + SP

Dove:

  1. NI (Neurological Impairment) si riferisce a Compromissione Neurologica. La compromissione neurologica associata alla demenza, ovvero le alterazioni strutturali e funzionali dei sistemi neuronali. È importante avere una consapevolezza della sintomatologia così da poter pianificare interventi di supporto e di cura adeguati, che siano protesici, ma che non compromettano le abilità residue.
  2. H (Health and Physical Fitness) si riferisce a Salute e stato fisico. Problemi di natura fisica (ad esempio infezioni urinarie o polmonari, disidratazione, squilibri ormonali e così via…), difficoltà sensoriali e il dolore sono tra i fattori che causano stati confusionali acuti. Inoltre rappresentano una delle principali fonti di malessere nella persona con demenza, la quale spesso ha difficoltà nel comunicarlo chiaramente e adotta dei comportamenti alternativi (es. aggressività, agitazione…) per cercare di esprimere un disagio che non trova risoluzione.  Un buon ambiente di cura dovrebbe avere una particolare sensibilità nel cogliere queste sfumature e dovrebbe interrogarsi sempre su ciò che osserva, così da poter generare interventi più mirati ed efficaci.
  3. B (Biography – Life history) si riferisce a Biografia e storia di vita della persona. La possibilità di dare un senso all’esperienza del “qui e ora” è connessa a quella di poter fare riferimento a esperienze di vita passate della persona. La conoscenza approfondita dell’anziano e della sua storia possono essere particolarmente utili sia per trovare un canale di comunicazione efficace sia per aiutare il personale a impostare un piano assistenziale quanto più adattato possibile alla persona.
  4. P (Personality) si riferisce a Personalità, inclusi temperamento, abilità, stili di coping e difese psicologiche. Conoscere i punti di forza e di debolezza della persona ci aiuta a capire come la stessa affronterà la propria condizione di demenza. Risalire, anche grazie al contributo dei familiari a chi era, che gusti aveva, qual era lo stile di vita e il suo “carattere” ci aiuta a comprendere in maniera più adeguata e a dare continuità alla persona che conosciamo nel “qui ed ora” (Kar, 2009).
  5. SP (Social Psychology) si riferisce a Psicologia sociale. Il modo in cui ci relazioniamo può in generale creare benessere oppure malessere negli altri, con le persone con demenza è ancora più vero poiché sta a chi si prende cura trovare un canale comunicativo efficace che riesca a superare i limiti linguistico-espressivi posti dalla malattia e che sia capace di trasmettere accettazione, conforto e rassicurazione. Tom Kitwood definisce psicologia sociale maligna (PSM) come l’insieme di tutti quei comportamenti svalutanti nei confronti della persona; d’altra parte esistono anche tutta una serie di comportamenti che si focalizzano sulla valorizzazione della persona (Positive Person Work, PPW).

Le manifestazioni e la progressione della demenza sono influenzate da tutti questi fattori; in quest’ottica, data l’estrema variabilità in tutte e cinque le aree descritte, non esiste allora una demenza, ma tante demenze quante sono le persone malate di demenza.

 

La Cura Centrata sulla Persona di Tom Kitwood

La Cura Centrata sulla Persona attribuisce però una rilevanza maggiore proprio alla persona, piuttosto che alla demenza. Gli aspetti chiave di questo approccio sono riassunti nel modello cosiddetto VIPS, dove l’acronimo si riferisce alle seguenti variabili:

  • Cura Centrata sulla Persona = V + I + P + S
  1. Valorizzare la persona con demenza e chi si prende cura di lei, affermare il valore assoluto della persona con demenza indipendentemente dall’età o dalle capacità cognitive.
  2. Trattare le persone come Individui, riconoscere l’unicità della persona con demenza.
  3. Guardare il mondo dalla Prospettiva della persona con demenza. Essere capaci di riconoscere che ogni esperienza personale ha una sua validità psicologica e che l’empatia rispetto a tale prospettiva ha un proprio potenziale terapeutico.
  4. Le persone con demenza necessitano di un ambiente Sociale positivo che compensi i deficit, offra opportunità di crescita personale e in cui possano sperimentare benessere.

L’acronimo VIPS, che sta anche per “Very Important Persons” è un modo efficace per sposare l’attenzione da aspetti organizzativi alla persona stessa, intesa come unica e speciale.

Tom Kitwood nel suo libro Dementia Reconsidered (1997) descrive cinque bisogni psicologici fondamentali di ogni essere umano, che confluiscono nel bisogno centrale di Amore: comfort, identità, attaccamento, occupazione e inclusione.

Demenza il modello della cura centrata sulla persona PCC elaborato da Tom Kitwood - FIG 1
Il Fiore di Kitwood

 

Tom Kitwood individua 17 categorie definite personal detractions (PD), che insieme formano la psicologia sociale maligna (PSM). Ci sono poi altre 17 categorie di positive events (PE), che insieme formano il positive person work (PPW) (Bissolo et al., 2013).

 

Demenza il modello della cura centrata sulla persona (PCC) elaborato da Tom Kitwood - FIG 2
Tabella: Categorie Di Psm – Categorie Di Ppw

 

Il comfort nel modello di Tom Kitwood

Tom Kitwood definisce il comfort come la capacità di essere vicini ad un’altra persona attraverso la tenerezza, la sicurezza, il calore. Le persone con demenza attraversano spesso momenti difficili. Tali disagi sono legati sia all’età, che alla perdita delle proprie abilità e funzioni, per questo soprattutto chi soffre di demenza ha un grande bisogno di continuo conforto. La vicinanza sincera di un’altra persona aiuta infatti a sentirsi più fiduciosi, più rilassati, meno spaventati di quello che potrebbe accadere.

  • PD 1 = Intimidazione è PE 1 = Calore

Spesso le persone fragili non si espongono e non esprimono il proprio parere per timore di non essere ascoltate o perché ricevono dei segnali, anche inconsapevoli, di intimidazione. Dimostrare affetto, calore e genuino interesse per la persona è consigliabile per promuovere il benessere della persona.

  • PD = 2 Rifiuto è PE 2 = Holding

Il rifiuto consiste nel negare l’attenzione o rifiutare il soddisfacimento di un bisogno evidente. La persona fragile deve poter sentirsi al sicuro da un abbandono e accettata in ogni circostanza, anche nei momenti di aggressività o irritabilità (che possono essere l’unico mezzo di comunicazione che la persona ha per riferire un malessere/disagio).

  • PD 3 = Non assecondare i ritmi è PE 3 = Assecondare i ritmi

Le persone con demenza hanno più difficoltà delle altre persone ad elaborare le informazioni. E’ importante allora che sia la persona che si prende cura ad adattarsi al ritmo di chi la riceve, in modo da promuovere un comportamento che favorisca un’atmosfera rilassata e rassicurante.

 

L’Identità

Secondo Tom Kitwood l’identità è “sapere chi si è, sia a livello cognitivo che emotivo” (Kitwood, 1997, p. 83). E’ in altre parole un senso di continuità tra la persona che si è stata in passato e quella nel tempo presente. Permettere a chi riceve la cura di essere liberamente se stesso è essenziale nell’approccio di Cura Centrata sulla Persona. È altresì importante favorire i fattori che possano consentirgli di comunicare il suo autentico modo di essere.

  • PD 4 = Infantilizzazione è PE 4 = Rispetto

La cura di un anziano con demenza comprende anche lo svolgimento di operazioni assistenziali simili a quelle di un genitore: lavare, cambiare, nutrire. E’ importante approcciarsi sì con affetto, ma con la consapevolezza che la sfera adulta è presente sempre e in ogni caso nella persona.

  • PD = Etichettare è PE 5 = Accettazione

Classificare le informazioni, anche le persone, in base alle loro caratteristiche è una naturale tendenza dell’uomo. Purtroppo nelle realtà assistenziali ciò non porta sempre beneficio, poiché a volte, anche in maniera non intenzionale, si perde di vista la persona (es. “è un Alzheimer”). Chi si prende cura dovrebbe riflettere su questi processi, così da poter accettare più autenticamente la persona con demenza.

  • PD 6 = Denigrazione è PE 6 = Celebrazione

Chi si prende cura dovrebbe quanto più possibile sostenere l’autostima della persona al centro della cura, dare importanza ad ogni iniziativa intrapresa ed essere sempre ben concentrata sull’impegno del superamento delle varie fasi di un processo, non sul risultato finale.

 

L’attaccamento

Tom Kitwood riconosce la necessità dell’uomo di formare legami di attaccamento. Secondo lo studioso ciò è ancor più evidente in momenti di vita densi di incertezze, come nella demenza. Un buon ambiente di cura dovrebbe pertanto garantire alla persona fragile, che spesso prova ansia e paura verso ciò che la circonda, l’appagamento del bisogno di contatto, di rassicurazione, di vicinanza in ogni momento, soprattutto quando è in difficoltà.

  • PD 7 = Accusa è PE 7 = Dare riscontro e riconoscimento

Quando ci si prende cura di una persona con demenza non è sempre facile comprendere le ragioni che stanno alla base di un certo comportamento. Dare riscontro significa impegnarsi e fare il possibile per cercare di comprendere una giustificazione ragionevole per un dato comportamento.

  • PD 8 = Inganno è PE 8 = Genuinità

Tom Kitwood descrive l’inganno come l’insieme di azioni, scuse, menzogne fornite ad una persona con l’obiettivo di convincerla a fare qualcosa che consapevolmente non farebbe e col fine di forzarla ad adeguarsi alle decisioni degli altri. Al contrario la genuinità, l’essere un autentico sostegno, promuovere una piena accettazione del loro modo di vedere le cose, delle loro sensazioni, percezioni e sentimenti è un modo più rispettoso di prendersi cura delle persone con demenza.

  • PD 9 = Disconferma, rifiuto è PE 9 = Validazione, conferma

Il processo di disconferma avviene quando una persona non è più messa nelle condizioni di autodeterminarsi e di poter decidere per se stessa. Il termine validazione nasce con Naomi Feil, il suo significato letterale è servirsi dell’empatia per “rendere qualcuno forte o sicuro di sé”. Nel contesto della demenza, validare significa accettare la verità soggettiva della persona, dare riscontro e riconoscere la realtà delle sue emozioni e dei suoi sentimenti, mettendo volutamente in secondo piano la componente cognitiva. (Kitwood, 1997).

 

L’occupazione

L’occupazione è il bisogno psicologico presente in ogni uomo che permette di sviluppare la percezione di essere capace e impegnata. Tale necessità è presente in maniera importante anche nelle persone fragili. Purtroppo comunemente l’occupazione viene considerata in funzione di un progetto che porta ad un risultato finale. È importante allora soddisfare il bisogno di occupazione personalizzando le attività e adattandole alle capacità della persona al centro della cura. Più si hanno informazioni sui suoi interessi, sulle sue preferenze, sulla sua biografia, più sarà verosimile riuscire nell’intento.

  • PD 10 = Esautorazione è PE 10 = Conferire potere

Esautorare significa togliere potere, privare una persona delle proprie competenze (es. sostituirsi alla persona impedendo il mantenimento di abilità residue). Una buona riflessività in chi si prende cura deve permette l’implementazione di tutte quelle azioni che permettano alla persona di sperimentarsi e sentirsi ancora fiduciosa nelle proprie capacità.

  • PD 11 = Imposizione è PE 11 = Facilitazione

Talvolta, anche inconsapevolmente, si compiono delle sopraffazioni relazionali verso altre persone. In questi casi la volontà degli altri è negata. Permettere di avere la possibilità di scelta e fornire un aiuto nel completare le parti mancanti per la realizzazione di un’azione dà valore alla persona, poiché consente di mantenere il contatto con il passato e sostiene la personhood.

  • PD 12 = Intrusione è PE 12 = Agevolare

L’intrusione si verifica ogni qualvolta si interrompe un’attività o ci si intromette in maniera inopportuna in una situazione che porta benessere alla persona, ad esempio quando ci si trova a cantare insieme accompagnati da una chitarra. È importante che chi si prende cura riesca a conciliare le priorità dei compiti quotidiani con il beneficio che la persona ricava dall’impegnarsi in una certa attività.

  • PD 13 = Oggettificazione è PE 13 = Collaborazione

Ognuno di noi ha il diritto di essere coinvolto attivamente in ciò che ci riguarda, anche in condizioni di fragilità. E’ sempre opportuno dare chiare informazioni (es. sull’azione che andrà svolta), questo atteggiamento restituisce dignità e rispetto a chi riceve la cura.

 

L’inclusione

Sentirsi parte di un gruppo è un bisogno fondamentale dell’uomo. Nella demenza questa necessità è però spesso difficilmente appagabile. Tom Kitwood riconosce invece l’importanza di sostenere la personhood di ogni persona, nonostante le difficoltà presenti. Egli propone anche di essere più riflessivi nel tentare di cogliere e soddisfare il bisogno di inclusione, che nelle persone con demenza si manifesta con struggente intensità.

  • PD 14 = Stigmatizzazione è PE 14 = Riconoscimento

Stigmatizzare significa classificare una persona partendo da un pregiudizio. Tutti gli anziani sono vittime di questo processo, infatti spesso vengono considerati a priori incapaci, malati, dipendenti, ancora prima che abbiano l’occasione di mostrare qualità positive e pregi. Chi si prende cura dovrebbe mantenere un atteggiamento aperto e andare incontro alla persona senza pregiudizi, dovrebbe in altre parole riconoscerla autenticamente (es. salutarla chiamandola per nome, essere disposti davvero ad ascoltare con attenzione quello che ha da dire, guardarla negli occhi quando le si parla…).

  • PD 15 = Ignorare è PE 15 = Includere

Ignorare una persona significa escluderla da una situazione e di conseguenza provocarle un dolore profondo. È una condizione spiacevole e frustrante, che mortifica e lascia una sensazione di esclusione in chi riceve la cura. Sarebbe allora importante lavorare su se stessi per riuscire a sviluppare una certa sensibilità che impedisca il più possibile il verificarsi di queste situazioni.

  • PD 16 = Esilio è PE 16 = Appartenenza

Esiliare significa allontanare volutamente una persona da una situazione, poiché non la si giudica adatta o non sufficientemente capace. Secondo Tom Kitwood infatti un buon luogo di cura dovrebbe fare in modo che ogni persona si senta accettata in ogni momento, a prescindere dalle sue abilità.

  • PD 17 = Derisione è PE 17 = Divertimento

La persona con demenza spesso è la protagonista di comportamenti insoliti. Chi si prende cura dovrebbe allenarsi a ridere con la persona, anziché ridere della persona. Creare un’atmosfera di divertimento condiviso è benefico per tutti, è un buon modo anche per diminuire la distanza tra chi si prende cura e chi la riceve.

È importante infine tenere bene a mente che le persone con demenza provano emozioni, hanno e cercano di esprimere i propri bisogni e le proprie volontà come qualsiasi altra persona. La differenza sta nel fatto che nella demenza non è possibile raggiungere la risposta a tali esigenze in autonomia. È interessante però sapere che la capacità di apprendere nuove tracce emotive è conservata anche nella demenza, questo significa che anche queste persone riescono ad associare emozioni positive o negative a certi stimoli, quali ad esempio un volto (Evans-Roberts, Turnbull, 2011).

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale (2016) – Recensione del libro

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale è un denso contributo teorico e metodologico in cui esperienze e prospettive si fondono nel tentativo di dare coerenza, organicità e concretezza a un numero considerevole di indagini, teorie e tecniche che riguardano i gruppi.

 

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale, scritto da Antonio Lo Iacono (psicologo del lavoro e psicoterapeuta)  e Pietro Milazzo (psicologo clinico, psicoterapeuta, gruppo analista) è un denso contributo teorico e metodologico in cui esperienze e prospettive si fondono nel tentativo di dare coerenza, organicità e concretezza a un numero considerevole di indagini, teorie e tecniche che riguardano i gruppi.

 

La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale: il valore terapeutico del gruppo

La sua forma è stata concepita per accompagnare il lettore lungo un itinerario in prima battuta esperienziale, vivo e intenso, in modo da facilitare, in seguito, una curiosa attenzione a ripercorrere temporalmente gli sviluppi del gruppo nelle sue varianti aggregative e trasformative.

La presentazione suggella la nascita del gruppo ed è seguita dalla sua strutturazione. In questo processo generativo si sperimenta il contatto con le parti più distanti di sé, il timore di essere esclusi, i propri confini e le proiezioni, l’efficacia della comunicazione interpersonale e l’empatia, la condivisione e lo scambio, la narrazione della storia di gruppo, la difesa della sua omeostasi emotiva. La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale risulta un lavoro interessante quanto suggestivo in cui si utilizza il potenziale evolutivo e creativo, nonché di esplorazione e terapeutico del gioco.

In questa corrente di emozioni si procede “navigando a vista”, per usare un’espressione di Lo Iacono e ci s’imbatte nella possibilità di conoscere e entrare in contatto con il corpo, lo psicodramma, il sogno, la fiaba. Si offrono occasioni di sciogliere conflitti e tensioni che dimorano nel corpo attraverso la bioenergetica, drammatizzare aspetti della propria esistenza per un migliore stato personale e relazionale, dare voce a contenuti onirici intrapersonali e interpersonali che riflettono stati affettivi multiformi, migliorare le capacità di problem solving con la fiaba.

Il conduttore investito di gratificazioni e responsabilità guida il gruppo sfruttando il rumore e il silenzio, l’agire e il fermarsi nell’avvicendarsi di trame relazionali, affettive e trasformative. Il suo lavoro assomiglia a quello di uno scultore, fa notare l’autore de La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale, impegnato a togliere l’eccesso e nasce dall’integrazione di molti ruoli, che vanno dall’animatore all’interprete.

Le origini, le peculiarità, gli effetti del gruppo e le sue molteplici tipologie chiudono La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale con una varietà di prospettive teoriche e proposte metodologiche che incoraggiano a lavorare con i gruppi.

Questi ultimi, nati da un iniziale bisogno di cacciare, difendersi e garantire la continuazione della specie, hanno risposto alla necessità sempre crescente di una raffinata differenziazione, propria di organizzazioni complesse dagli esiti fausti e infausti.

Il loro utilizzo per finalità terapeutiche è attribuito a Joseph Pratt che intorno al 1905 impiegò il setting gruppale con pazienti tubercolotici, poco meno di un ventennio più tardi l’ambiente scientifico viene stimolato dalle ricerche di Moreno, Lewin, Bion Foulkes. I gruppi nascenti, sotto la spinta di nuovi studi, non rispondono solo a finalità terapeutiche ma anche di ricerca, educazione e apprendimento. Da una contenuta dimensione di partecipanti, che accomuna la maggior parte dei gruppi, ci s’imbatte in realtà più ampie, come i gruppi allargati di Ancona, nei quali la stessa eterogeneità è il motore del cambiamento. I gruppi costituiscono inoltre, lo spazio in cui il sogno rappresenta pensieri connessi con l’ambiente sociale e su cui il socialdreaming sposta il focus attenzionale. Si apprende dal gruppo e con il gruppo, si fa ricerca ricorrendo ad esso e pianificando a partire da esso l’intervento con il focus group e i gruppi di training.

Per concludere, la visione multifocale proposta da La sala degli specchi: comunicazione e psicologia gruppale coinvolge e confonde, persino potrei dire scoraggia quella sicurezza che si cela dietro la necessità di guardare la realtà gruppale da un unico punto di vista. Essa costituisce un coraggioso impegno a guidare il lettore verso una comprensione arcaica dello stare in gruppo, a patto che ci si faccia condurre verso il non consueto; una tappa che nel professionista in divenire, stimolato da una curiosità permanente, conduttore e non solo di gruppi, mi sembra necessaria.

Intervista a Paola Matera, la dottoressa che canta ai malati

Qualche tempo fa un collega mi ha segnalato alcuni articoli apparsi su testate nazionali online riguardanti una dottoressa ospedaliera e cantante che si esibisce in corsia per alleviare la sofferenza dei suoi pazienti. La dottoressa si chiama Paola Matera e svolge la sua attività clinica presso l’Ospedale di Biella.

 

La notizia mi ha ovviamente incuriosito, ma è stato dopo aver visto il video strepitoso in cui canta in impeccabile camice bianco, accompagnata da un fisarmonicista,  Che sarà (brano scritto da Jimmy Fontana e cantato in italiano dai Ricchi e Poveri e in spagnolo da Josè Feliciano) per un gruppo di pazienti, che è arrivato irrefrenabile l’impulso ad intervistarla (dopo averle chiesto l’amicizia su Facebook ovviamente).

 

Intervista alla Dott.ssa Paola Matera

I (Intervistatore): Ciao Paola. Ci racconti la tua storia? Quando nasce la tua passione per la musica? E per la medicina?

PM (Paola Matera): Fin da piccola amavo la musica: le mie sorelle suonavano il pianoforte, mio padre la chitarra, io adoravo cantare, essere al centro dell’attenzione….ho iniziato per gioco a suonare il pianoforte ma per una bambina molto attiva era un sacrificio stare ore a esercitarmi…infatti a 10 anni ho smesso e ho dedicato il mio tempo allo studio della chitarra classica e del flauto (come nella maggior parte delle ragazzine della mia età) visto che non avevo grande passione per gli strumenti musicali. A 13 anni ho abbandonato lo studio della musica, anche se a 19 ho ricominciato a cantare in un coro polifonico della chiesa vicino casa. Successivamente mi sono iscritta alla facoltà di medicina e non ho più potuto seguire la mia passione per il canto, rimandando di qualche anno ciò che sarebbe inevitabilmente avvenuto.

 

I: Quali sono i tuoi gusti musicali?

PM: Amo tutta la musica ben eseguita, da circa due anni porto in giro uno spettacolo con le canzoni di De Andrè, riscuotendo molto successo, ho fondato una compagnia teatrale  e ci esibiamo per raccolte fondi per le associazioni onlus e per chi vuole ascoltare i successi del Faber. Personalmente amo le voci femminili, ho una voce da contralto e per sei mesi ho approcciato la musica jazz con scarsi risultati….io amo cantare live, con ogni genere di strumento: chitarra, tastiere e violino. Amo Giorgia perché trovo sia tecnicamente perfetta, ma ascolto vari generi di musica (sono cresciuta con il rock anni ’70 e i Dire Straits)

 

I: Ho letto che hai avuto problemi di salute e che la musica ti ha aiutato a superare un momento difficile. Ti senti di raccontarci come sono andate le cose?

PM: Nel 2000 vengo ricoverata d’urgenza per una vasculite che ha devastato il mio fisico. Ho subìto diversi interventi demolitivi, mi hanno sottoposto a terapia decisamente pesanti e il mio fisico dopo 3 mesi di degenza ospedaliera ne ha risentito moltissimo. Ho perso 25 kg, e tutta la massa muscolare…le uniche distrazioni erano le visite di mia madre e delle mie sorelle. In quel periodo mia sorella mi portò una radio, dicendo che mi avrebbe tenuto compagnia e fu così. Al mio ritorno a casa, ho iniziato a iscrivermi a un corso di canto dedicando tempo al mio fisico e alla mia anima devastata da quella esperienza terribile…..il mio rientro a casa non era così scontato, in quanto avevo grosse possibilità di non farcela. Ma grazie all’amore della mia famiglia, alla mia caparbietà e alla Musica (mia alleata da sempre) sono tornata a vivere una seconda volta e ho dedicato più tempo allo studio del canto, educando la mia voce come se fosse uno strumento musicale. Da allora non ho più smesso: ho vinto la mia timidezza e ho affrontato il pubblico, dapprima nei locali Karaoke, in seguito come cantante in una cover band anni ’60-70.

 

I: Come e da chi è nata l’idea di cantare in corsia?

PM: Ho voluto portare la musica in ospedale memore della mia esperienza di paziente, ho proposto alla direzione generale dapprima l’inserimento di un pianoforte nell’ingresso dell’ospedale e successivamente ho introdotto la musica nei reparti di Geriatria, pediatria, fisiatria e psichiatria. Ho coinvolto i miei numerosi amici artisti che hanno accettato di esibirsi a turno nei vari reparti a titolo gratuito, riscuotendo grande successo…abbiamo portato un po’ di serenità ai pazienti, spesso concentrati sui loro malanni, sulle loro disgrazie. Abbiamo regalato spensieratezza perché quando sì è ricoverati spesso si perde la speranza, si ha il timore di essere abbandonati e di non fare più ritorno a casa dai propri cari.

L’INTERVISTA CONTINUA DOPO L’IMMAGINE

intervista a paola matera la dottoressa che canta ai malati andrea cavallo

La dott.ssa Paola Matera si esibisce in corsia accompagnata dal pianista Andrea Cavallo

 

I: Come è stata accolta l’idea dai pazienti? E dai colleghi?

PM: I pazienti hanno risposto in modo eccellente dapprima con sospetto, poi cantando insieme a noi hanno coinvolto parenti e personale. Ho cantato le canzoni che spesso loro richiedevano, scegliendo il repertorio in base all’età dei pazienti coinvolti.

Mi hanno trasmesso tenerezza, i loro sorrisi mi hanno riscaldato il cuore. Una paziente al termine di un concerto mi ha detto: “Pensi che adesso non sento più il dolore al ginocchio” Obiettivo raggiunto. Sono certa che questo sia solo l’inizio, mi hanno contattato colleghi da altri ospedali dove stanno tentando di inserire la Cantoterapia nei reparti come terapia da associare ai farmaci e al supporto psicologico. Non ho avuto esperienze personali nel campo psichiatrico, ma nel mio nosocomio da due anni viene effettuata un’ora alla settimana di lettura ad alta voce presso l’ SPDC con risultati eccellenti.

 

I: Sei al corrente di esperienze simili alla vostra in altri ospedali in Italia e all’estero?

PM: Ho conosciuto telefonicamente la dott.sa Mirella De Fonzo che ha scritto numerosi saggi sulla Cantoterapia in Italia.

 

I: Progetti per il futuro?

PM: La mia speranza è che nel prossimo futuro ogni struttura ospedaliera possa avvalersi della musica e del canto non solo per curare i pazienti ma anche i dipendenti stessi che spesso sono sottoposti a turni pesanti dal punto di vista fisico ma soprattutto umano.

Gli aspetti psicologici della violenza sessuale: dalla definizione di stupro ai date rapes

La violenza sessuale risulta essere il reato in assoluto meno denunciato; secondo le stime, i casi di violenza sessuale che arrivano nelle stanze delle questure sarebbero solo una minima percentuale che oscilla dal 1% al 28% di quelle realmente subite dalle donne.

 

Violenza sessuale: uno sguardo ai dati

La violenza sessuale risulta essere il reato in assoluto meno denunciato; secondo le stime degli studiosi che si sono occupati di questa problematica i casi di violenza sessuale che arrivano nelle stanze delle questure sarebbero solo una minima percentuale che oscilla, a seconda del metodo usato per rilevare i dati, dal 1% al 28% di quelle realmente subite dalle donne (U.S. Federal Bureau of Investigation, 1978; Koss, Dinero, Seibel, Cox, 1988; Ontario Women’s Directorate, 1992;  Rennison, 1999; McGregor, Wiebe, Marion e Livingstone, 2000; Istat, 1997, 2004).

In Italia la prima grande indagine sulla sicurezza dei cittadini è stata condotta nel 1997 dall’Istituto Nazionale di Statistica – ISTAT – (Sabbatini, 1998). Da tale indagine è emerso che 714.000 donne hanno subito uno stupro o un tentativo di violenza sessuale nell’arco della vita, di queste 185.000 nei tre anni precedenti l’indagine. Solo il 18% delle violenze sessuali è ad opera di estranei e solo l’11,6% degli stupri avviene per strada. La maggior parte delle aggressioni avvengono nella propria casa o in quella di amici o conoscenti; la maggior parte degli stupratori sono amici, conoscenti, fidanzati, parenti o colleghi di lavoro. Del totale delle donne intervistate che hanno dichiarato di aver subito una violenza sessuale nell’arco della vita, l’82% non ha denunciato il fatto, tale percentuale scende al 4% nel caso che l’autore della violenza sia un conoscente.

L’ultima indagine ISTAT (2004) ha sostanzialmente confermato l’andamento di questi dati: la percentuale di violenze sessuali ad opera di estranei continua ad attestarsi al 18%, ma quella delle vittime che hanno denunciato l’accaduto scende al 7,4%. Il dato risulta particolarmente allarmante se si tiene conto che le donne definiscono la violenza subita come “grave” (84,7%) e “molto grave” (57,6%) ma nonostante ciò, quasi un terzo delle intervistate dichiara di non aver mai parlato a nessuno, nemmeno a livello di confidenza personale, della violenza sessuale subita.

 

Cos’è lo stupro

Lo stupro secondo la legislazione italiana

In Italia, dal 1966 la violenza sessuale non si configura più come un delitto contro la moralità pubblica e il buon costume, bensì fra i delitti contro la persona, in particolare nel titolo dove sono disciplinati i delitti contro la libertà personale.

Con la legge n. 66/96, il nuovo reato di violenza sessuale congloba fattispecie prima distinte (violenza carnale, congiunzione carnale commessa con abuso delle qualità di pubblico ufficiale, atti di libidine violenta).

Diversamente dalla normativa previgente, il reato di violenza sessuale diventa una violazione del diritto della libera espressione della propria sessualità, indipendentemente dalle modalità con cui la condotta criminale si è manifestata. Il codice Rocco prevedeva, infatti, la distinzione tra violenza carnale e atti di libidine violenta: nella violenza carnale rientrava ogni fatto per il quale l’organo genitale del soggetto attivo o del soggetto passivo, era introdotto parzialmente o totalmente nel corpo dell’altro, gli atti di libidine consistevano in quegli atti che, pur diversi dalla penetrazione, si concretizzavano in ogni forma di contatto corporeo causante “manifestazione di ebbrezza sessuale”. Con la nuova legge del 1996, ogni atto sessuale, se imposto ad un soggetto dissenziente, comprime la libertà personale di quest’ultimo e comporta reato unico di violenza sessuale.

Oggi il procedimento giudiziale non necessita più dell’esatta ricostruzione dei fatti per accertare se vi sia stata o no penetrazione. Quello che è invece fondamentale è la “quantità” di violenza, intendendo in particolare quella  esercitata sul corpo di una persona non consenziente.

La normativa non spiega bene cosa si debba intendere per “atto sessuale”, generalmente è considerato atto sessuale il contatto fisico tra una parte qualsiasi del corpo di una persona, con una zona genitale, anale od orale del partner. Altrimenti l’atto viene definito libidinoso, ma non sessuale (Cappai, 1997).

 

Cambiamenti storici della concezione di stupro

L’aggressione sessuale può includere un’ampia gamma di comportamenti, che vanno da baciare, accarezzare e molestare, fino al vero proprio stupro o tentativo di stupro. E’ un evento in cui non c’è il consenso della vittima, implica l’uso della forza, o la minaccia dell’uso della forza, in cui ci sia il tentativo, o l’effettiva, penetrazione nella vagina, o nella bocca, o nel retto della vittima.

La definizione tradizionale di stupro, derivata dal British Common Law, non contemplava la violenza su uomini e bambini, riguarda solo la penetrazione vaginale da parte del pene, esclude le violenze da parte del proprio marito e prevede un’estrema resistenza da parte della vittima, implicando, quindi, l’uso della forza.

Lo stupro da parte del proprio marito non veniva considerato, in quanto la donna con il matrimonio diventava una sua proprietà, l’uomo pertanto non poteva essere incolpato di un crimine contro se stesso.

Negli anni sessanta, la definizione legale di stupro è stata riformulata grazie all’influenza dei movimenti femministi che auspicavano ad un linguaggio privo di differenze di genere e al riconoscimento dello stupro come crimine violento e, non solo, come una forma di appagamento di un impulso sessuale.

Negli anni ottanta, il concetto di stupro è stato nuovamente riformato, includendo la possibilità di violenza sessuale da parte del marito e vietando l’inclusione della storia personale della vittima nel corso del procedimento giudiziario (tutti i 50 Stati Usa hanno riformulato il concetto di stupro). Il termine di “uso della forza”, è stato sostituito con quello di “non consensuale”.

 

Stupro e guerra

Lo stupro è un atto di violenza, aggressione, dominio, nonché un atto sessuale.

I Crociati, nei loro sacri pellegrinaggi per liberare Gerusalemme dai musulmani tra l’XI e il XII secolo, violentavano le donne mentre attraversavano l’Europa; i tedeschi commisero stupri mentre avanzavano in Belgio durante la prima guerra mondiale; le forze statunitensi stuprarono donne e bambine durante i rastrellamenti e le distruzioni dei villaggi vietnamiti; i soldati irakeni hanno stuprato e brutalizzato le donne durante l’occupazione del Kuwait nel 1990; i soldati maschi, nelle basi di addestramento dell’esercito statunitense, hanno stuprato donne soldato sotto il loro comando.

Nel giugno del 1996, un tribunale delle Nazioni Unite ha annunciato il rinvio a giudizio di otto soldati e poliziotti serbo-bosniaci, per lo stupro di donne musulmane durante la guerra in Bosnia del 1992-1993. Ciò che di notevole ha questa azione è che, per la prima volta, l’aggressione sessuale è stata trattata separatamente come crimine di guerra. In precedenza, come nel processo di Norimberga che giudicò i crimini di guerra nazisti durante la seconda guerra mondiale, lo stupro non veniva specificamente menzionato.

Lo stupro di guerra sarà portato d’ora in avanti all’attenzione della comunità internazionale.

 

Relazione vittima-aggressore nella definizione di stupro

La relazione fra la vittima di violenza sessuale e l’aggressore, è risultata essere uno dei fattori più importanti, usati sia dalla vittima che dagli altri in generale, per definire il contatto sessuale come stupro o come comportamento consensuale; ad es. Koss et al. (1988) hanno messo in luce come le vittime di persone conosciute difficilmente etichettano la loro esperienza come “stupro”.

La violenza sessuale è più facilmente definita tale quando l’aggressore è uno estraneo; inoltre quando l’assalitore è uno sconosciuto, la vittima ha maggiore probabilità di reagire fisicamente e ha quindi maggiori probabilità di riportare ferite fisiche, tutti fattori che incidono sulla decisione di denuncia (Ruback e Ivie, 1988).

 

Acquaitance, date rape e vittimizzazione nello stupro

Esistono vari tipi di violenza sessuale, distinguibili in base al contesto in cui sono collocati.

Sul piano scientifico è stata la ricerca di Mary Koss e di Cheryl Oros (1982) che ha fatto emergere l’esistenza di quelli che sono stati definiti dalla letteratura “acquaitance rapes” e “date rapes”, termini che stanno ad indicare rispettivamente quelle violenze sessuali in cui lo stupratore è un conoscente della donna o che avvengono in occasione di un appuntamento romantico.

La violenze sessuali di questo genere sono molto più numerose degli stupri da parte di estranei, anche se molto più difficilmente arrivano a conoscenza dell’opinione pubblica.

Le vittime dello stupro “da appuntamento” tendono ad essere incolpate per la violenza sessuale subita e anche a incolpare se stesse, più di quanto non facciano le donne violentate da estranei; in fondo, le vittime, si sono associate di loro spontanea volontà agli uomini che poi le hanno violentate.

Questi fenomeni sono rimasti per anni nell’ombra a causa del silenzio delle vittime: silenzio che numerose ricerche hanno imputato principalmente al mancato riconoscimento dell’esperienza come una violenza sessuale da parte della donna stessa (Pitts e Schwartz, 1993; Kahn, Mathie e Torgler, 1994; Smith, 1994; Finkelson e Oswalt, 1995; Linden, 1999; McGregor et al., 2000; Boundurant, 2001; Fischer, Daigle, Cullen e Turner, 2003; Kahn, Jackson, Kully, Badger, Halvorsen, 2003).

In molti casi, le stesse vittime mostrano resistenza ad etichettare la propria esperienza come stupro e si riferiscono ad essa come “sesso non voluto” anche se, dai loro racconti, emerge che esse avevano chiaramente espresso il loro rifiuto ad un rapporto sessuale, spesso opponendo anche qualche forma di resistenza fisica (Kahn et al., 2003).

 

Il roipnol come droga dello stupro

Uno sviluppo recente relativo allo stupro “da appuntamento” è il ricorso al tranquillante ROIPNOL. Questo farmaco, completamente inodore e insapore, può essere facilmente aggiunto a una bibita e, se ingerito, fa perdere i sensi e rende confuso il ricordo di quanto accade. I violentatori si servono del ROIPNOL  per violentare le donne con cui escono. Nell’agosto del 1996, fu approvata una legge federale, negli Stati Uniti, che prevedeva la possibilità di aggiungere fino a un massimo di vent’anni a una pena detentiva per stupro e per altri reati violenti nel caso in cui fosse stato utilizzato questo tipo di farmaco.

 

La violenza sessuale su uomini

Per quanto concerne la violenza sessuale su vittime maschili, una ricerca piuttosto recente (Pino e Meier, 1999) sostiene che questo tipo di violenze, generalmente considerate una degenerazione degli ambienti carcerari o omosessuali, è sottovalutata e non vi viene prestata la dovuta attenzione. Gli uomini non solo sono culturalmente meno abituati ad esternare le proprie emozioni ma, siccome i casi di denuncia sono quasi inesistenti, non hanno neanche la possibilità di identificarsi con le altre vittime.

La ricerca è stata effettuata utilizzando i dati del National Sample Rape Subset  del National Crime Victimization Survey, prendendo in considerazione gli anni tra 1979 ed il 1987 (897 casi di cui 81 uomini).

Gli uomini hanno meno probabilità di subire violenza sessuale all’interno delle mura domestiche, mentre hanno maggiore probabilità di essere violentati durante il giorno, da più di un assalitore, in un’area pubblica e da una persona sconosciuta.

Le donne hanno più probabilità di riportare ferite e di subire penetrazione anale o vaginale; per le donne, inoltre, lo stupro può andare più facilmente incontro ad altre complicazioni: una gravidanza, disturbi del comportamento sessuale, malattie a trasmissione sessuale, disfunzioni sessuali e Disturbo da Stress Post-Traumatico.

 

Leggi anche:

  (parte 2): come e perché agisce lo stupratore?

(parte 3): perché il silenzio? Il senso di colpa nelle vittime di violenza

(Parte 4) Effetti dello stupro sulle vittime

cancel