expand_lessAPRI WIDGET

Emozioni criminali: quando le emozioni esplodono in un crimine

Lo psicoterapeuta scopre di applicare una doppia morale, forse l’unica praticabile. Nel suo studio inizia la cura spiegando ai pazienti che non devono accusarsi delle loro passate azioni fallaci: non avevano consapevolezza delle motivazioni che li guidavano, nè controllo sui propri affetti. La responsabilità, in terapia, è la meta cui arrivare. Lo stesso non possiamo affermare se chiamati a far da periti in tribunale.

L’articolo è stato pubblicato da Giancarlo Dimaggio sul Corriere della Sera del 27 novembre 2016

Il caso di Carlos Cienfuegos

Carlos Cienfuegos, studente cileno, entra nella camera della Pensione Dienesen il 6 marzo 1915. Lo scopo: alla sua amante, la contessa Bianca Hamilton, vuol fare una sorpresa. Ne riceve una: una lettera d’amore, ma non indirizzata a lui. Decide di uccidersi. Sopraggiunge la contessa. Che succede? Certo è che spara tre colpi a lei e poi uno a sé, al quale per caso sopravvive. Forse hanno fatto l’amore un’ultima volta, forse perché lei, terrorizzata, voleva placarlo.

L’avvocato difensore di Cienfuegos era Enrico Ferri, criminologo di opinioni mutevoli e d’innegabile abilità: Cienfuegos agì eclissato da una vertigine. Il delitto quasi giustificato a fronte del degrado morale della contessa. Cinque anni e otto mesi sarà la condanna di Cienfuegos. Lo stesso Ferri, collega di Lombroso, era esponente illustre della Scuola Positiva, il tentativo italiano di introdurre l’antropologia nella giurisprudenza.

Nel resoconto di Emilia Musumeci (Emozioni, Crimine, Giustizia. Franco Angeli, pp. 256, €32), Ferri contribuisce a distinguere tra delitti mossi da passioni sociali e antisociali. Il crimine spinto dall’aberrazione di una passione morale, l’amore, la giustizia, non sarebbe punibile. Quello nato da una pulsione antisociale sì. La giurisprudenza si piega sempre alla prassi nell’aula. Ferri aveva sostenuto che il delitto passionale non nasca dall’amore ma dall’“egoismo possessorio”. Nel difendere Cienfuegos sosterrà il contrario e l’avrà vinta. Un altro delinquente passionale salvato.

La Scuola Classica, riassume Musumeci, sosteneva il contrario: il centro è il crimine commesso, non il soggetto agente, non l’emozione. Musumeci si schiera: non esiste un diritto che escluda l’influenza delle emozioni.

 

Come gestire le emozioni criminali e i precedenti penali in psicoterapia

Lo psicoterapeuta scopre di applicare una doppia morale, forse l’unica praticabile. Nel suo studio inizia la cura spiegando ai pazienti che non devono accusarsi delle loro passate azioni fallaci: non avevano consapevolezza delle motivazioni che li guidavano, nè controllo sui propri affetti. La responsabilità, in terapia, è la meta cui arrivare. Lo stesso non possiamo affermare se chiamati a far da periti in tribunale. Dobbiamo essere severi, lasciare l’irresponsabilità delle proprie azioni a chi non è capace di intendere e volere. Due pesi e due misure e io non ho trovato una soluzione migliore a questo dilemma.

Più agevole è raccogliere l’eredità della Scuola Positiva nella pratica riabilitativa. Per i delinquenti a sangue freddo ci si rassegni. Per i delinquenti passionali si può fare molto. Con i colleghi Robert Schweitzer e Dave Misso della Queensland University of Technology di Brisbane stiamo lavorando a un modello di terapia per i perpetratori di violenza domestica. L’obiettivo è farli accedere al senso di vulnerabilità precedente all’esplosione di rabbia che è diventata aggressione. E curare quella ferita. Se si riesce a farlo, si guadagnano un uomo restituito alla società e una vittima in meno all’uscita dal carcere.

Scelte sociali: seguire il naso o seguire gli occhi? È una questione d’età

Psicologi e neuroscienziati hanno studiato approfonditamente il comportamento olfattivo nei neonati e negli adulti. Tuttavia, è ancora poco chiaro come l’olfatto interagisca con gli altri sensi durante infanzia e adolescenza.

 

In uno studio della SISSA in collaborazione con il Please Touch Museum di Philadelphia (un museo interattivo della scienza dedicato ai bambini), più di 150 bambini fra i 3 e gli 11 anni hanno partecipato ad un semplice esperimento che ha permesso di tracciare una curva di sviluppo dell’integrazione visuo-olfattiva. In questa ricerca pubblicata su Developmental Science, i ricercatori hanno osservato che prima dei 5 anni i bambini tendono a non integrare ciò che vedono e ciò che annusano.

L’esperimento era molto semplice – spiega Valentina Parma, ricercatrice della SISSA di Trieste che ha coordinato la ricerca. – I bambini prima annusavano un odore da un pennarello che poteva emanare l’odore di rosa, di pesce marcio e oppure nessun odore e subito dopo veniva chiesto loro di indicare uno fra due volti che apparivano su un monitor. L’espressione delle facce poteva essere neutra, felice o disgustata.

Come spiega Parma, fino a 5 anni i bambini tendono semplicemente a scegliere la faccia con l’espressione felice, senza nessun collegamento con l’odore poco prima annusato:

I bambini preferiscono questi volti perché veicolano un’emozione positiva, è una tendenza generale nota in letteratura

Dopo i cinque anni, però, i bambini cominciano a scegliere la faccia con l’espressione congruente all’odore che hanno appena annusato.

L’odore che giudicavano come soggettivamente meno piacevole – generalmente l’odore di pesce, ma non solo! – incrementava la scelta della faccia disgustata – continua la ricercatrice.

Questo comportamento si fa via via più marcato con il crescere dell’età dei ragazzi.

Il nostro lavoro contribuisce a colmare un vuoto nella letteratura definendo come nello sviluppo tipico olfatto e vista vengono integrati in bambini e pre-adolescenti, indicando il ruolo che l’olfatto ricopre nel modificare la capacità di scelta nei bambini. Diverse sono le ipotesi relative ai meccanismi alla base di questo processo – commenta Parma. – La più probabile è che questo comportamento sia collegato allo sviluppo della teoria della mente, ovvero la capacità di mettersi nei panni degli altri. Sappiamo che attorno ai 5 anni questa capacità migliora significativamente per cui ipotizziamo che la scelta del volto congruente alla piacevolezza dello stimolo olfattivo sia legata alla capacità di mettersi nei panni delle persone il cui volto è presentato sullo schermo.

 

Più in dettaglio…

Un’altra cosa che rende particolarmente originale questo lavoro di ricerca è che la parte sperimentale è stata svolta tutta all’interno del Please Touch Museum di Philadelphia, proprio insieme ai suoi piccoli visitatori.

Il progetto è stato possibile grazie a un finanziamento della National Science Foundation, un importante organismo americano che mette a disposizione dei fondi per portare la ricerca al grande pubblico, mettendo in contatto il mondo della ricerca con quello dei musei della scienza. – conclude Parma. – È stata un’esperienza nuova per noi e devo dire è stata divertente ed istruttiva.

Il disturbo bipolare e il disturbo da abuso di alcol: le difficoltà diagnostiche quando coesistono

Anche se l’eziologia del disturbo bipolare associato al Disturbo da Abuso da Alcool è ancora poco conosciuta, sono state avanzate alcune ipotesi. Entrambe le condizioni condividono traiettorie sovrapponibili sul livello genetico, neurochimico, neurofisiologico e neuroanatomico. E’ ipotizzabile che entrambi i disturbi si sviluppino da una simile vulnerabilità genetica.

Valentina Zanon, OPEN SCHOOL PTCR BOLZANO

Il disturbo bipolare: le difficoltà diagnostiche

Il Disturbo Bipolare (DB) è un disturbo dell’umore caratterizzato dall’alternanza di fasi con sintomi depressivi e fasi di tipo maniacale intercalate da fasi di eutimia. La più recente definizione dei disturbi dell’umore è data dal DSM-5   che ha introdotto il criterio soglia “aumentata  energia/livello  di  attività”  per  la  definizione  dell’  ipomania/mania  e  che considera gli “episodi maniacali indotti da antidepressivi”.

Il Disturbo Bipolare è difficile da diagnosticare e spesso i pazienti ricevono una accurata diagnosi di Disturbo Bipolare solo dopo circa 9 anni dall’esordio e ricevendo quindi un trattamento inadeguato o inappropriato  che può portarli a inficiare le loro prospettive lavorative e sociali (Nasrallah, 2015).

Il DSM-5 non considera inoltre ancora la possibilità di ipotizzare una diagnosi di Disturbo Bipolare in caso di “episodi maniacali indotti da sostanze (non antidepressivi)”, mentre il recente studio internazionale BRIDGE (Bipolar  Disorders:  Improving  Diagnosis,  Guidance  and  Education) suggerisce che pazienti che presentano stati maniacali indotti da sostanze, di fatto presentino caratteristiche bipolari (familiarità, precoce età di insorgenza, stagionalità e resistenza al trattamento antidepressivo). D’altro canto, la presenza di episodi ipomaniacali può essere frequentemente mascherata dall’abuso di sostanze che se non tempestivamente riconosciute potrebbero far propendere per una errata diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (Angst, Ajdacic-Gross & Rössler, 2015).

 

Il disturbo bipolare e l’abuso di sostanze

Oltre ai rischi connessi ad una errata diagnosi, l’abuso di sostanze frequentemente complica il decorso del Disturbo Bipolare aumentando la presenza di stati misti e aumentando la durata di remissione dagli episodi maniacali. L’incremento nella quantità e nella frequenza del consumo di alcool può precipitare l’insorgenza di episodi depressivi (Jafee et al. 2009). Molti studi evidenziano inoltre il significativo aumento dell’impulsività e del rischio di suicidio tra i pazienti con questa doppia diagnosi (Arias et al. 2016; Oquendo et al. 2010) . Si stima che il 14-16% di questi pazienti completerà infatti un suicidio (Tolliver & Anton, 2015).

L’abuso di sostanze sembra essere la regola piuttosto che l’eccezione, ed è risultato evidente nel 34% dei pazienti con Disturbo Bipolare, i quali hanno fatto uso di: 82% alcool, 30% cocaina, 29% marijuana, 21% sedativi, ipnotici o anfetamine e 13% oppioidi (Goldberg et al., 1999).

Molti studi epidemiologici hanno trovato un’alta percentuale di Abuso di Sostanze tra i pazienti con Disturbo Bipolare. Una recente Meta-analisi ha evidenziato che circa un terzo dei pazienti con disturbo Bipolare soddisfaranno i criteri per una diagnosi di Disturbo da Abuso da Alcool (DAA) durante la vita (44% dei maschi e 22% delle femmine). Generalmente, pazienti con abuso/ dipendenza da sostanze hanno una probabilità di 5/6 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di presentare un Disturbo Bipolare. La ricerca ha isolato tre diversi tipi di pazienti in base alla cronologia di esordio delle condizioni : 1) prima Disturbo da Abuso da Alcool 2) prima Disturbo bipolare 3) Esordio simultaneo. Sembrerebbe che il disturbo Bipolare preceduti da Disturbo da Abuso da Alcool rappresentino una forma più lieve della malattia (Balanzá-Martínez et al., 2015).

Anche se l’eziologia del disturbo bipolare associato al Disturbo da Abuso da Alcool è ancora poco conosciuta, sono state avanzate alcune ipotesi. Entrambe le condizioni condividono traiettorie sovrapponibili sul livello genetico, neurochimico, neurofisiologico e neuroanatomico. E’ ipotizzabile che entrambi i disturbi si sviluppino da una simile vulnerabilità genetica. E’ altrettanto possibile che l’abuso di alcool e sostanze rappresenti per alcuni pazienti con disturbo bipolare un tentativo di automedicazione dei sintomi del disturbo dell’umore. E’ possibile che entrambi i disturbi condividano inoltre simili meccanismi quali un’alta impulsività, scarsa modulazione della motivazione e reazione alla ricompensa e una elevata suscettibilità alla sensibilizzazione comportamentale a fattori di stress (ibidem).

Sono stati esplorati anche alcuni fattori clinici in quanto i pazienti manifestano un aumento nel consumo delle sostanze durante le fasi maniacali, possibilmente a causa del comportamento disinibito, della ricerca del piacere e della condotta impulsiva tipica di questi stati. Il consumo di sostanze sembra infatti ridursi durante le fasi depressive (Arias et al. 2016).

A livello clinico, la doppia diagnosi ha un effetto terapeutico e prognostico sfavorevole su entrambi i disturbi. Rispetto a pazienti con disturbo bipolare senza concomitante abuso di alcool e sostanze, i pazienti con entrambi i disturbi presentano esordi più precoci, scarsa aderenza ai trattamenti, episodi più lunghi e frequenti, maggior numero di ricoveri, maggior numero di episodi misti, maggior incidenza di cicli rapidi, maggiore impulsività,  maggiori episodi di comportamenti aggressivi e tentati suicidi. La presenza di Disturbo da Abuso da Alcool può  precipitare il funzionamento dei pazienti con Disturbo bipolare al livello di pazienti schizofrenici. Entrambi i disturbi sono associati infatti a gravi deficit neurocognitivi che aumentano in modo significativo in caso di doppia diagnosi (DB + DAA).

Una recente revisione della lettura supporta la presenza di deficit in quasi tutti i domini neurocognitivi di pazienti con Disturbo Bipolare. Questi deficit sono qualitativamente simili a quelli osservati nella Schizofrenia ma di severità minore. Sembra che i deficit neurocognitivi siano una costante nel Disturbo Bipolare e che si presenti come una caratteristica nucleare del disturbo che può essere attenuata o esasperata dalle specifiche caratteristiche del paziente: età, genere, cultura, fasi della malattia, esposizione farmacologica, comorbidità con altre patologie psichiche e/o organiche e concomitante abuso di alcool o sostanze (Tsitsipa & Fountoulakis, 2015).

L’alcolismo cronico ha effetti nocivi sulla salute cerebrale e comporta un assottigliamento della corteccia. Sono stati descritti anche atrofia cerebrale, allargamento dei solchi, riduzione dell’afflusso ematico e del metabolismo del glucosio specialmente nelle aree pre-frontali. L’abuso cronico di alcol è stato associato a diversi disturbi neurocognitivi della memoria episodica, attenzione, abilità visuo-spaziali, fluenza verbale e nelle funzioni esecutive (problem solving, memoria di lavoro e flessibilità mentale). Circa il 50/80 % dei pazienti presenta disturbi neurocognitivi di varia gravità. Studi prospettici suggeriscono che l’astinenza da alcol risulta in una parziale remissione dei deficit dell’attenzione sostenuta. In particolare i deficit sembrano permanere fino a un anno dalla cessazione dell’assunzione di alcol per poi andare incontro a una remissione; tuttavia i deficit visuo spaziali possono permanere anche per periodi più lunghi di astinenza (Balanzá-Martínez et al., 2015).

 

Il trattamento dei pazienti con disturbo bipolare e disturbo da abuso di alcol

Il trattamento dei pazienti con Disturbo bipolare e disturbo da abuso di alcol risulta complesso. Una recente revisione della letteratura ha esaminato 30 studi sperimentali sull’efficacia di trattamenti psicologici (11) e farmacologici (19) su pazienti con doppia diagnosi. Sembra che terapie psicologiche di gruppo che includono la psico-educazione e l’inclusione dei famigliari portino a una riduzione dei sintomi e possono avere un effetto preventivo sull’abuso di alcool sui dropouts. La quietapina sembra attenuare i sintomi psichiatrici mentre il valproato sembra essere efficace nella riduzione del consumo di alcool (Secades-Álvarez & Fernández- Rodríguez, 2015). Altri studi riportano una povera risposta al Litio, farmaco di elezione per il trattamento del disturbo bipolare (Tolliver & Anton, 2015).

Un numero esiguo di studi a oggi ha esplorato gli effetti della Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) su pazienti con disturbo bipolare con concomitante diagnosi di abuso di alcool o sostanze. La TCC appare efficace nella riduzione dei sintomi maniacali e nell’incremento dei mesi di astinenza. Sembra che la TCC individuale e di gruppo possa migliorare l’aderenza ai trattamenti farmacologici, ma a oggi non sembra esistano studi che hanno indagato questo aspetto nello specifico (Gaudiano, Weinstock & Miller; 2008).

The Young Pope di Paolo Sorrentino: il Finale di stagione – la voce al dolore dei bambini 

The Young Pope: L’intera puntata è centrata sulla trasformazione di Papa XIII e contemporaneamente di coloro che come lui hanno vissuto il trauma dell’abbandono o dell’abuso permettendo di osservare come la mente di un bambino e di un adulto possa in ogni momento della vita iniziare un importante lavoro di elaborazione e trasformazione di sé.

 

Le storie di maltrattamento subite dai bambini nella serie The Young Pope

A noi importa di tutti i bambini. Tutti” questa frase che rappresenta il filo conduttore del Finale di stagione si alza come un monito a tutta l’umanità nel colloquio tra Papa Pio XIII con il Cardinale Kurtwell e Monsignor Gutierrez.

L’attenzione al rispetto, alla protezione e alla cura dei bambini è presentata attraverso le immagini di un’infanzia maltrattata, negata, offesa dagli adulti e di una felice, serena rappresentata dal piccolo Pio, dai giochi dei bambini, dalla piccola Beata Juana.

Le storie di abbandono si intrecciano a quelle di maltrattamento e abuso nei percorsi esistenziali di Papa XIII, del Cardinale Gutierrez e Kurtwell e di David Taniston, figlio rinnegato di quest’ultimo. Ma Sorrentino non si ferma nella semplice denuncia di queste ultime situazioni, permette allo spettatore di comprendere la forza e la potenza delle relazioni nel processo di resilienza come nel caso della relazione di Lenny con Suor Mary e il Cardinale Spencer o del suo contraltare, ovvero nell’assenza di sostegno, nel vuoto relazionale come nel caso di Monsignor Gutierrez o di Kurtwell imprigionati nel passato di abuso sessuale subito e nel conseguente alcolismo del primo e nella riproposizione del comportamento abusante in età adulta del secondo.

 

Il finale di The Young Pope: la maturazione di chi ha subito maltrattamenti o abbandoni nell’infanzia

L’intera puntata è centrata sulla trasformazione di Papa XIII e contemporaneamente di coloro che come lui hanno vissuto il trauma dell’abbandono o dell’abuso permettendo di osservare come la mente di un bambino e di un adulto possa in ogni momento della vita iniziare un importante lavoro di elaborazione e trasformazione di sé.

Sorrentino ci accompagna nell’analisi dei processi psicologici che vivono i suoi protagonisti permettendoci di osservare le emozioni provate dai bambini e dagli adulti, i ricordi dei giochi relazionali subiti – si pensi al Cardinale Kurtwell o al giovane David Taniston – le rappresentazioni di sé interiorizzate in seguito alle esperienze maltrattanti e la dinamica arricchente del sostegno relazionale, affettivo ed emotivo che lavora sulla formazione dell’autostima in ogni età della vita (Gutierrez), sulla consapevolezza delle proprie potenzialità, sulla definizione del proprio progetto di vita, sull’assunzione di responsabilità, sulla riparazione delle sofferenze provocate o subite.

Nel Finale di Stagione il “bambino Papa XIII diventa adulto”, dopo un importante lavoro relazionale con Suor Mary e il Cardinale Spencer di elaborazione del trauma, di comprensione delle potenzialità e definizioni del proprio progetto di vita. Questo è ben visibile quando Papa Pio XIII chiede a Suor Mary “Chi sono io?”. E lei decisa risponde: “Tu sarai, il Papa più amato dalla gente. Tu sei un Santo, un bellissimo Santo. Tu sei il dolce Gesù Cristo sceso sulla terra. Grazie. …..”.

E’ in questo momento che entrambi sono pronti a salutarsi e che Papa Pio XIII è in grado di restituire il progetto di vita che Suor Mary ha sempre portato avanti, sapendo che ognuno può realizzarsi pienamente nella propria vita.

Suor Mary chiede a Papa XIII “ Dove andrò? “ “dove avresti voluto sempre essere con i bambini. Sei un’ orfana, gli orfani vogliono stare con i bambini per sempre”….. Come sai che sono un’orfana? L’ho sempre saputo. Come l’ha saputo ? E’ difficile per un Santo rispondere alle domande degli essere umani”. E’ in questo momento che Lenny restituisce a Suor Mary l’immagine che lei ha sempre cercato di presentargli della sua storia, delle sue capacità, della sua identità. E’ il momento del riconoscimento reciproco e legittimazione come genitori e figli: “Posso tornare a chiamarti Lenny? Solo se posso chiamarti Ma. Si puoi chiamarmi Ma”. E’ qui che il Papa comprende di aver concluso la ricerca dei genitori, riconosce la sua filialità sociale nei confronti di Suor Mary legittimandola come madre. Lenny diventa pienamente consapevole di sé, della sua storia, del suo progetto grazie alle persone che l’hanno sostenuto e restituito un’immagine di sé positiva, coerente con le sue potenzialità e con il suo progetto di vita, rivisitando l’immagine di sé come orfano attraversando l’immagine “dell’amore perso e dell’amore trovato”: “Aveva ragione lo sa, un orfano maturando può trovare un’inedita forma di gioventù dentro di sé”.

La maturità esistenziale di Papa Pio XIII è visibile nella relazione con Gutierrez verso cui assume la funzione di sostegno emotivo e affettivo. Quello che Suor Mary e il Cardinale Spencer avevano svolto nei confronti di Lenny, Papa Pio XIII lo riesce a compiere nei confronti di Gutierrez, offrendogli sin dai primi momenti del suo Pontificato, una visione di sé positiva, basata sulla fiducia, sulle potenzialità di essere e fare.

Papa Pio XIII si fida di Gutierrez e per questo gli assegna un progetto che gli permetterà di attraversare la sua storia, i suoi fantasmi e di trovare la forza di affermarsi, arrivando alle prove degli abusi di Kurtweell. Fino a quando gli chiederà di diventare suo segretario personale confidandogli: “Suor Mary ha terminato il suo compito” …. “Il Papa bambino si è fatto uomo, prima gli serviva una figura materna, ora invece un collaboratore”.

Voiello con delicatezza presenta al Papa XIII, ormai consapevole del fatto che è pronto a parlare della sua storia e del suo abbandono, il tema della scelta della rinuncia alla genitorialità, accennando al tema del “ripudio di un figlio” contrapponendola alla scelta di assunzione della responsabilità genitoriale di Suor Mary visibile nelle numerose storie di adozione e affidamento. Per lui essere genitori significa scegliere ogni giorno di esserci, di stare al fianco di un figlio, mentre chi abbandona, di frequente, sceglie di continuare a farlo, sino a rinnegare un figlio. E’ a questo punto che Papa Pio XIII, ormai diventato uomo, può ritornare alla sua domanda esistenziale più profonda: “Dov’è Dio” e collegando ancora la sua storia di vita al suo progetto personale, risponde: “A Venezia”. “E dove?” “Questa è una cosa che devo ancora scoprire”.

E così, anziché andare in Guatemala, decide di andare nella città lagunare, non per seppellire le bare, ma per incontrare Dio e per scoprire se stesso. Ed ecco che la piazza è piena, l’assenza si è riempita della presenza di Dio, così come il silenzio, il vuoto che ha mosso le folle che cercano Dio. Qui Sorrentino descrive un Papa che non ha paura di rivelarsi, che si riconosce come uomo, figlio, padre e Santo. E’ un Papa che si emoziona, che si lascia trasportare e arriva a spiegare chi è Dio attraverso le parole della piccola Beata Juan: “Dio è una linea che si apre…. Dio non sente, Dio non chiede …. e allora Dio chi è?” …….. “Dio sorride”.

In questo momento Papa Pio XIII si volge alla folla gremita nella piazza e dice: “E adesso io prego tutti voi sorridete”. Poi prende il binocolo, regalatogli da Gutierrez, e guarda ad una ad una le persone ridere. Lì, tra loro, vede i suoi genitori, prima con gli occhi dell’adulto, anziani, con il volto buio, poi con quelli del bambino, giovani, come se li ricordava. Ma come anticipato da Voiello, in quel momento si voltano e vanno via, responsabili non solo dell’abbandono, ma anche del rifiuto di lui come persona. Lenny per due volte vive l’abbandono, il primo quando l’hanno lasciato in Istituto, il secondo quando l’hanno rinnegato come figlio, in quella piazza, nel momento in cui lui ha raggiunto pienamente se stesso. Il dolore è lacerante, come quello vissuto vedendo Suor Mary andare via, ma ormai è adulto: ha la forza di andare avanti e di superare e resistere a quel dolore presentandosi a sé e agli altri nella più profonda autenticità e nella consapevolezza del proprio progetto di vita.

Meglio dirsele. Imparare a litigare bene (2015) di D. Novara – Recensione

Litigare fa bene? Sì, se si litiga bene! Questa è in sintesi la risposta che fornisce l’interessante lettura di Meglio dirsele. Imparare a litigare bene.

 

In Meglio dirsele. Imparare a litigare bene Daniele Novara, pedagogista con una pluriennale esperienza nell’ambito della gestione dei conflitti, indaga e chiarisce gli equivoci più comuni e diffusi che contribuiscono a mantenere una generale preferenza per una “cultura del non conflitto” nel contesto della vita di coppia. Dietro alla tendenza ad evitare o a limitare il più possibile il litigio ci sarebbero infatti diversi fattori da considerare:

  • Il cosiddetto “complesso dell’armonia” sorretto dalla pretesa che l’altro ci fornisca il benessere che non abbiamo, in assenza di elementi conflittuali;
  • La tendenza a privilegiare una modalità di comunicazione implicita con l’aspettativa di una piena comprensione reciproca dei propri stati d’animo e bisogni;
  • La scarsa competenza conflittuale che corrisponde ad una ridotta capacità di tollerare e di affrontare la tensione emotiva considerata una “minaccia insopportabile”.

 

Meglio dirsele. Imparare a litigare bene: come misurare la salute di una coppia?

Secondo l’autore di Meglio dirsele. Imparare a litigare bene, per misurare il grado di salute di una coppia occorre riflettere anche sulla sua capacità di comunicazione e di gestione della conflittualità interna. Piuttosto che focalizzare l’attenzione sulla mera attitudine all’eliminazione dei conflitti, occorrerebbe centrarsi sull’apprendimento della loro gestione efficace e costruttiva.

Riconoscere cosa non bisogna fare durante un conflitto è il primo step per imparare a litigare bene; “tre passi indietro” utili in questa direzione consistono nel:

  • Non ostinarsi a cercare un colpevole: il litigio non è qualcosa di sbagliato in cui occorre colpevolizzare qualcuno;
  • Non dare consigli non richiesti: spesso ciò dà adito a interpretazioni distorte da una parte (chi lo suggerisce si attende che venga accolto e, se così non avviene, se ne risente) e dall’altra (chi lo riceve può percepirlo come un’ingerenza inopportuna che veicola anche un’idea di un’inadeguatezza altrui);
  • Non viverla come una gara in cui vincere: il confronto vissuto a livello agonistico perde il suo potenziale arricchente e costruttivo.

 

Comprendere i conflitti

Le strategie utili (“passi in avanti”) per imparare a comprendere i conflitti, prima che a risolverli prevedono attenzione per questi aspetti:

  • Non identificare il problema con la persona: puntare prioritariamente all’interesse comune permette di uscire dalle improduttive logiche di correzione dei difetti reciproci;
  • Ascoltare senza intervenire per commentare: limitare al minimo le possibili interferenze consente una maggiore sintonizzazione e condivisione dei vissuti espressi, disincentivando le dinamiche difensive;
  • Differenziare il livello del contenuto da quello della relazione: sulla base della buona fede reciproca, occorre evitare di dare eccessiva importanza ai pretesti verbali che rischiano solo di innescare fuorvianti giudizi negativi sulla persona;
  • Privilegiare le informazioni ai consigli non richiesti: comunicazioni neutre e non invadenti a carattere informativo salvaguardano lo spazio individuale all’interno della coppia;
  • Fare proposte piuttosto che impartire ordini: superare posizioni rigide o vittimistiche aiuta ad individuare alternative maggiormente soddisfacenti per entrambi;
  • Verificare la reale disponibilità ad affrontare il confronto in un certo momento ed eventualmente rimandare al momento più opportuno per entrambi: ciò permette di prepararsi meglio psicologicamente all’interno di un clima di rispetto reciproco;
  • Utilizzare domande maieutiche piuttosto che interrogativi tendenziosi: ciò ha una funzione distensiva e aiuta a spostare il conflitto su un piano cooperativo.

In questa prospettiva, in Meglio dirsele. Imparare a litigare bene, il conflitto viene ad assumere un’importante valenza positiva divenendo un elemento benefico poiché fonte di “evoluzione e rinnovamento reciproco”, funzionale perché in grado di contribuire a far maturare maggiore esperienza e consapevolezza di se stesso e delle dinamiche a due e, infine, preventivo per una buona tenuta e un buon esito della relazione di coppia.

L’ipotensione ortostatica influisce sulle prestazioni cognitive nei soggetti con Morbo di Parkinson

In un nuovo studio pubblicato online nella rivista “Neurology”, un team di ricercatori del Beth Israel Deaconess Medical Center (BIDMC) e di neuropsicologi della Boston University, ha dimostrato che quando pazienti col morbo di Parkinson esperiscono un aumento della pressione sanguigna dopo essersi alzati in piedi – condizione conosciuta come “ipotensione ortostatica” (OH) – mostrano deficit cognitivi significativi. Questi deficit regrediscono quando i soggetti sono a riposo e la loro pressione sanguigna ritorna nella norma.

 

I deficit cognitivi dei pazienti con morbo di Parkinson

Alcuni deficit cognitivi potrebbero non essere notati dagli psicologi nella valutazione di pazienti Parkinsoniani che si trovano seduti o distesi, e potrebbero condurre a difficoltà nelle attività giornaliere svolte stando in piedi o camminando.

Il decadimento cognitivo è un sintomo comune della malattia di Parkinson [blockquote style=”1″]In questo studio, dimostriamo che la postura eretta nei pazienti con morbo di Parkinson, esacerba i deficit cognitivi e che questo effetto è transitivo e reversibile. Basandoci su questi risultati, incoraggiamo i clinici a includere test cognitivi in varie posture, nella loro valutazione dei pazienti [/blockquote]ha detto l’autore Roy Freeman, medico e direttore del “Center for Autonomic and Peripherale Nerve Disorders al BIDMC e professore di neurologia all’Harvard Medical School (HMS).

Caratterizzato dalla sintomatologia classica di tremori, rigidità e rallentamento dei movimenti, il morbo di Parkinson è una progressiva degenerazione di parti del sistema nervoso. Esso intacca molti aspetti del movimento e può essere causa, tra le altre cose, di inespressività facciale, rigidità degli arti e problemi di andatura e postura. Il Parkinson è anche associato a deficit cognitivi attribuibili al degrado della connettività tra diverse regioni cerebrali. Una percentuale superiore al 50% della popolazione affetta da morbo di Parkinson potrebbe anche essere affetta da ipotensione ortostatica (OH).

La relazione tra ipotensione ortostatica e deficit cognitivi

In uno studio precedente, Freeman e colleghi hanno dimostrato che l’ipotensione ortostatica sarebbe collegata a deficit cognitivi reversibili in pazienti con un disordine neurologico raro chiamato “gangliopatia autonomica autoimmune”.
In questo nuovo studio i ricercatori hanno cercato di collegare la condizione dell’ipotensione ortostatica alla più diffusa Malattia di Parkinson.

Freeman e colleghi, inclusi Justin Centi e Alice Cronin-Golomb, medico e direttore del “Vision and Cognition Laboratory and Center for Clinical Biopsychology” e professoressa di scienze psicologiche e cerebrali alla Boston University, hanno diviso 55 volontari in tre gruppi: 18 pazienti con Malattia di Parkinson e OH, 19 pazienti con Malattia di Parkinson, ma senza OH e 18 soggetti di controllo, senza Malattia di Parkinson, né OH. A tutti i partecipanti sono stati somministrati una serie di test cognitivi in due condizioni: da supini e inclinati di 60 gradi. I ricercatori hanno misurato e registrato la pressione sanguigna dei partecipanti prima e durante ogni somministrazione per assicurarsi che i partecipanti non fossero mai a rischio di perdere i sensi.

[blockquote style=”1″]Come sospettavamo, i soggetti con morbo di Parkinson e OH, hanno mostrato deficit correlati alla postura, quando si trovavano in posizione verticale, rispetto a quando erano supini, in quasi tutte le misure delle variabili cognitive[/blockquote] ha spiegato Centi, che ha notato che i partecipanti allo studio con Malattia di Parkinson, ma senza OH, hanno dimostrato deficit solo in due test cognitivi. Nel gruppo di controllo, invece, non vi era alcuna differenza nei punteggi tra la posizione verticale e quella supina.

Quando le performance dei tre gruppi erano comparate l’una con l’altra, i cambiamenti posturali non avevano impatto significativo sui partecipanti con malattia di Parkinson senza OH, confrontati con il gruppo di controllo. Tuttavia, i soggetti con Malattia di Parkinson e OH erano più facilmente caratterizzati da deficit correlati alla postura in numerosi test, inclusi quelli che misuravano le abilità matematiche, l’abilità di produrre parole in maniera fluente, il mantenimento delle informazioni in mente mentre si utilizzano, la capacità di prestare sufficiente attenzione alle informazioni da memorizzare successivamente e la ricerca veloce e accurata di item.

[blockquote style=”1″]Essenzialmente, nella clinica, tutti i test neuropsicologici sono somministrati ai pazienti da seduti, con l’eccezione degli studi di imaging, nei quali il paziente è disteso[/blockquote] sostiene Cronin-Golomb. [blockquote style=”1″]La performance cognitiva che possiamo osservare nei pazienti con Malattia di Parkinson che sono testati mentre sono seduti o distesi, allora, potrebbe sottostimare i loro problemi cognitivi nella vita reale, quando essi si trovano in piedi e svolgono i loro compiti e le loro attività giornaliere. Inoltre, i pattern di attività cerebrale negli studi di neuroimmagine, che possiamo osservare quando essi sono distesi, potrebbero non essere i pattern che il cervello produce durante le normali attività svolte in posizione eretta.[/blockquote]

I deficit cognitivi nel Parkinson sono dovuti, almeno in parte, alla degenerazione neuronale. Ma i cambiamenti transitori nella pressione sanguigna che avvengono in posizione eretta, potrebbero giocare un ruolo importante. I clinici, potrebbero perdere un importante target d’intervento, non considerando l’ipotensione ortostatica un fattore che contribuisce al declino cognitivo.

A scuola di futuro (2016) di D. Goleman e P. Senge – Recensione del libro

A scuola di futuro scritto da Daniel Goleman – autore del bestseller ‘Intelligenza emotiva’ – e da Peter Senge – esperto di apprendimento organizzativo e di pensiero sistemico al MIT  – delinea un nuovo modello educativo ritenuto più adeguato ai continui cambiamenti che stanno investendo la società a livello globale.

 

Prestare attenzione alla sfera interiore, agli altri e al contesto esterno sono le tre competenze che gli autori individuano come fondamentali e necessarie per

navigare in un mondo di distrazione crescente e di relazioni personali sempre più in pericolo, in cui le connessioni tra le persone, gli oggetti e il pianeta sono più importanti che mai…

 

A scuola di futuro: l’autoconsapevolezza e la capacità di sintonizzarsi sugli altri

Goleman, nei primi tre capitoli del libro A scuola di futuro, illustra due delle abilità citate: l’autoconsapevolezza, la capacità di comprendere le emozioni che si provano e il saperle gestire, e la capacità di sintonizzarsi sugli altri, di entrare in empatia e di comprendere anche i punti di vista diversi dal proprio.

Entrambe le competenze descritte contribuirebbero, in modo diretto e indiretto, a migliorare il rendimento scolastico perché favoriscono la concentrazione e facilitano la comprensione dei propri interessi; inoltre, proprio grazie alla capacità di prestare attenzione a diversi livelli, diventa più facile l’individuazione degli obiettivi e degli scopi personali che possono essere meglio differenziati da quelli proposti dall’insegnante e da quanto appassiona i compagni.

Sempre Goleman, in A scuola di futuro, introduce il tema, attuale e dibattuto, dell’influenza delle tecnologie sulle relazioni sociali. A suo parere le funzioni neurologiche degli esseri umani sono strutturate per costruire relazioni faccia a faccia e non per interazioni tramite email. Infatti, quando si ha davanti una persona si ricevono una serie di messaggi non verbali e impliciti che aiutano nella gestione della comunicazione mentre con l’uso delle tecnologie si potrebbe verificare un fenomeno che viene definito ‘cyber disinibizione’, a causa dell’assenza di ‘messaggi sociali accessori al testo’.

E’ evidente che soprattutto a scuola si pone il problema di una corretta educazione alle nuove tecnologie e ai social. Poiché l’educazione emotiva andrebbe appresa nelle interazioni dirette, l’informatica nel contesto scolastico può essere sì una risorsa, ma andrebbe impiegata principalmente per ottimizzare i tempi della didattica, lasciando quindi ampio spazio alle relazioni fra compagni e con i docenti.

 

Il pensiero sistemico

A conclusione del terzo capitolo di A scuola di futuro viene introdotto il tema del pensiero sistemico, necessario a comprendere il funzionamento delle diverse organizzazioni della vita (come famiglia, scuola, gruppo di amici, ecc); l’autore spiega che sviluppare e maturare una consapevolezza del funzionamento dei sistemi permette di capire il modo in cui possono condizionare e come, a nostra volta, possiamo modificarli.

Per Goleman il maggior problema sistemico che oggi dobbiamo affrontare è il ‘dilemma dell’Antropocene’ così denominato perché fa riferimento all’era attuale in cui le azioni dell’uomo costituiscono le cause principali delle modifiche territoriali, strutturali e climatiche. L’autore precisa che:

…i sistemi di sostegno alla vita del pianeta stanno lentamente degradandosi a causa degli effetti collaterali indesiderati delle nostre azioni – Inoltre, spiega sempre Goleman in A scuola di futuro, l’attuale funzionamento cerebrale sembra non essere adeguato ai veloci mutamenti che si stanno verificando – I nostri allarmi cerebrali scattano solo quando percepiscono una minaccia immediata, e le sfide offerte oggi dai sistemi planetari sono o troppo micro o troppo macro per le nostre percezioni. Dato che non realizziamo immediatamente le conseguenze negative delle nostre abitudini quotidiane – come i nostri sistemi di costruzione, energetici, industriali e commerciali danneggino quelli di sostegno alla vita della Terra – è facile ignorarle o pretendere che non accada nulla.

Pertanto appare un’urgenza educativa anche promuovere lo sviluppo della capacità di pensare in modo sistemico.

Senge affronta, infatti, la necessità di stimolare fin da piccoli la capacità di comprendere il mondo nel suo insieme e di capire come i sistemi interagendo fra loro creano reti interdipendenti nei diversi contesti organizzativi.

Viene presentato, quindi, nel libro A scuola di futuro, il concetto di complessità dinamica che spiega come la comprensione di un sistema deriva dal modo in cui causa ed effetto – azione e conseguenza – possano essere connessi in un modo non immediatamente evidente; come esempio viene citato il ruolo dei ritardi temporali nella difficoltà a comprendere alcuni passaggi delle relazioni sociali.

Questo fenomeno chiarisce perché, ad esempio, può accadere che feriamo i sentimenti di un’altra persona ma cogliamo solo la sua reazione al nostro comportamento non considerando il peso avuto da questo nella situazione che si è determinata. Risulta stimolante il concetto del ‘pensatore sistemico’ che dovrebbe  riconoscere l’impatto dei ritardi temporali quando esplora le relazioni di causa ed effetto e, inoltre, dovrebbe scoprire dove possono emergere conseguenze inattese.

Il testo A scuola di futuro è divulgativo e tuttavia per gli argomenti che affronta può essere una lettura utile per tutti i professionisti che si trovano a lavorare sugli aspetti emotivi e in ambiti educativi.

Appare interessante l’idea sviluppata dagli autori secondo la quale insegnando e allenando, in modo sinergico, le competenze emotive e il pensiero sistemico si preparano le nuove generazioni ad affrontare sfide di complessità crescente e contrastando così la facile distraibilità a cui sempre più spesso sono soggetti soprattutto i giovani.

Rimane però aperta la questione relativa alla difficoltà della formazione dei docenti che sono chiamati ad insegnare nuovi modi di apprendere laddove però gli insegnanti stessi si trovano dentro una realtà in continua trasformazione che forse deve essere ancora adeguatamente elaborata per essere convertita in metodi e contenuti didattici innovativi. Analogo discorso vale per i genitori e gli educatori che si trovano a gestire un mondo che subisce un forte impatto da parte di internet e dei social network e nell’utilizzo dei quali hanno una dimestichezza minore rispetto ai cosiddetti ‘nativi digitali’.

Considerando alcune urgenze sociali e ambientali sembra che gli esseri umani abbiano contribuito a creare una complessità che, almeno in alcuni casi, non sono in grado di gestire appieno, finendo quindi spesso per trascurarla del tutto. In questo senso il pensiero sistemico, unitamente alle altre competenze esposte, potrebbe svolgere un ruolo molto importante perché conduce a una riflessione sulla valutazione e previsione delle conseguenze di un’azione, così da avere una visione d’insieme, ad ampio raggio temporale e spaziale.

Giustizia e forza: come entrano in gioco nella psicoterapia – Ciottoli di psicopatologia

Ma il concetto di giustizia ha qualche interesse per la psicoterapia? Non certo decisivo ma su due questioni può aiutare. In primo luogo penso a tutti quei pazienti che sperimentano rabbia per essere trattati ingiustamente e si lamentano per il mancato intervento di una giustizia immanente che sta solo nelle loro aspettative e dovrebbe premiarli per quanto sono buoni mentre continua ad approfittarsene.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Giustizia e forza (Nr. 17)

Giustizia e forza secondo gli eventi della storia

La nostra tradizione culturale figlia del cattolicesimo e del diritto romano ci fa presupporre un primato della prima sulla seconda, al punto che ci sembra che la seconda sia accettabile solo al servizio della prima da cui la possibilità di punire anche pesantemente chi trasgredisce la giustizia e le cosiddette guerre giuste. Ma questo è un auspicio piuttosto che la realtà. La lotta per la sopravvivenza evolutiva del più forte se ne fotte della giustizia e se la utilizzassimo per capire le relazioni tra umani e gli stati molti fenomeni che ci sembrano inspiegabili e ci costringono all’elaborazione di sofisticate teorie sarebbero pressochè ovvi: se uno può prevaricare con prepotenza lo farà certamente, altrimenti bisogna negoziare e fare accordi. Il concetto lo troverete su You Tube magnificamente espresso da Alessandro Baricco nella Palladium lectures dal titolo: “Tucidite: sulla giustizia

Il rapporto addirittura sembra invertito: è il più forte, il vincitore a stabilire ciò che era ed è giusto. Avete mai pensato all’altra storia che ci sarebbe stata se avessero vinto i nazisti ? chi sarebbe stato sul banco degli imputati a Norimberga. Del resto non esiste un arbitro esterno che giudica in posizione di terzietà, nè un regolamento condiviso. Allora la giustizia non serve a nulla? No essa entra in gioco quando le forze in campo sono pari. Per dirla in altri termini il sistema agonistico e di rango è prevalente e ciò è vantaggioso. Quando il verdetto è di parità e le forze in campo si equivalgono allora si può attivare il sistema di collaborazione tra pari regolato anche dalla giustizia ma è un ripiego come quando dopo i supplementari si arriva ai rigori.

Dire che immaginare l’uomo come sostanzialmente egoista sia una visione pessimistica è affermazione che parte dalla premessa accettata acriticamente e condivisa nella nostra cultura che l’altruismo sia migliore. Premessa talmente radicata che non riusciamo ad osservare dal di fuori.

 

Il concetto di giustizia nell’ambito della psicoterapia

Ma tutto questo ha qualche interesse per la psicoterapia? Non certo decisivo ma su due questioni può aiutare. In primo luogo penso a tutti quei pazienti che sperimentano rabbia per essere trattati ingiustamente e si lamentano per il mancato intervento di una giustizia immanente che sta solo nelle loro aspettative e dovrebbe premiarli per quanto sono buoni mentre continua ad approfittarsene come fossero, invece, “coglioni”.

Non ci sono più degli accudenti genitori che li premiano e pensano a tutto se solo loro si comportano bene. E’ utile comprendano che coglioni lo sono davvero e che se non sono loro stessi a farsi rispettare nessuno lo farà al loro posto. Spetta a loro raggiungere quell’equilibrio di forze con l’interlocutore che gli dà potere negoziale e consente l’attivazione delle regole della giustizia.

Pensiamo ad esempio a come l’indipendenza economica sia premessa necessaria anche se insufficiente per l’autonomia psicologica tra genitori e figli e tra i partner di una coppia. In sintesi mi sembra, da un lato, che si tratti di non assecondare il vittimismo dei nostri pazienti e, pur riconoscendo la presenza di difficoltà oggettive, restituirgli un senso di forte agentività nella costruzione della propria storia. La favola del carnefice e della vittima è una semplificazione eccessiva ( tranne casi estremi in cui la disparità delle forze in campo è strutturale ed evidente ed in cui infatti per legge è data per scontata la violenza: adulto versus bambino; insegnante versus allievo; curante versus paziente) e non aiuta a modificare le situazioni avverse.

Dall’altro che sia opportuno legittimare la ricerca del potere come premessa per costruire rapporti paritari di collaborazione, superando pregiudizi buonisti. La seconda questione riguarda direttamente la relazione terapeutica. Si dichiara apertamente che l’ideale è che sia paritaria e collaborativa e dopo queste riflessioni potremmo dire meglio che sia paritaria per poter essere collaborativa. Ma questo appunto è l’ideale non certo il punto di partenza.

Un elemento che ristabilisce un po’ la parità è il pagamento da parte del paziente che lo rende il datore di lavoro del suo terapeuta con facoltà di licenziamento in tronco. Il paziente ha bisogno del terapeuta per le sue competenze nel migliorare le sue sofferenze e il terapeuta ha bisogno dei soldi del paziente per migliorare la qualità della sua vita. La correzione è solo parziale perché un singolo paziente tranne che nel caso di terapeuti giovani ad inizio carriera incide ben poco sul reddito complessivo del terapeuta ma, tuttavia, può molto sull’immagine professionale. Credo comunque che quando lo squilibrio esiste non ne riduca gli effetti il negarlo ma sia opportuno riconoscerlo e tenerne conto. Concordare sul fatto che non stiamo alla pari può essere la prima affermazione davvero prioritaria. In ambito formativo il concetto di supervisione andrà superato con quello più ricco di intervisione.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Illusione della mano di gomma e l’integrazione cross-modale

Quando proviamo l’illusione della mano di gomma, noi riconosciamo una mano finta come se fosse la nostra mano reale. Ciò implica che possiamo riconoscere un oggetto fuori dal corpo come se fosse parte di noi.

Alberto Morandi, OPEN SCHOOL PTCR BOLZANO

Nella vita di tutti i giorni dobbiamo integrare stimoli provenienti da diverse modalità sensoriali. Tale processo avviene integrando assieme, nello spazio e nel tempo, diversi aspetti della stessa o di differenti modalità sensoriali che vengono elaborate nelle aree associative della corteccia cerebrale.

L’integrazione di questi stimoli ci permette di localizzare gli oggetti nell’ambiente, di interagire con essi e di aggiornare costantemente la nostra conoscenza riguardante la postura del corpo.

Ma che tipo di relazioni intercorrono tra i nostri organi di senso e il nostro corpo? E come si genera la consapevolezza di avere un corpo? Queste domande sono state discusse in psicologia e in filosofia ormai da secoli (Gallagher, 2000; James, 1890; Merleau-Ponty, 1962) e solo recentemente sono state trovate delle spiegazioni in merito a come venga formata e come sia possibile studiare questo tipo di consapevolezza corporea con un approccio scientifico. Diversi studi basati sull’osservazione neurologica (Arzy, Overney, Landis & Blanke, 2006; Berti et al., 2005; Bottini, Bisiach, Sterzi & Vallar, 2002; Critchley, 1953) hanno mostrato che le cortecce associative parietali e frontali sono responsabili della generazione della sensazione di possesso (ownership) dei propri arti.

Questi studi però hanno fornito soltanto poche spiegazioni in merito ai processi percettivi e ai meccanismi neurali sottostanti a questo fenomeno. Gibson (1979/1986), tramite i suoi studi, enfatizzò come le correlazioni tra impressioni visive di movimento e sensazioni somatiche contribuissero nella produzione dell’auto-percezione del proprio corpo. In seguito, ulteriori studi riportarono che correlazioni percettive tra visione e propriocezione (senso di posizione e movimento degli arti) potevano giocare un ruolo importante nell’identificazione di noi stessi riflessi in uno specchio o in una registrazione video (Bahrick & Watson, 1985; Mitchell, 1997; van den Bos & Jannerod, 2002). Tutt’oggi la consapevolezza corporea è un argomento di forte interesse per le neuroscienze cognitive. L’ampliamento della conoscenza rispetto a come integriamo le informazioni provenienti dai diversi organi sensoriali per costruire una rappresentazione corporea, e di come questa rappresentazione possa essere flessibile, è stata resa possibile grazie all’utilizzo di un particolare paradigma sperimentale che ci ha permesso di svolgere una manipolazione controllata del possesso del corpo. Tale paradigma consiste nell’illusione della mano di gomma (Botvinick & Cohen, 1998).

 

Illusione della mano di gomma e integrazione cross-modale

L’illusione della mano di gomma (Rubber Hand Illusion – RHI), è un’illusione in cui le sensazioni tattili percepite da un soggetto sono riferite a un arto alieno sintetico (Botvinick & Cohen, 1998). In questa procedura, il soggetto che partecipa all’esperimento è seduto con il braccio sinistro posto sopra un tavolo. Uno schermo è collocato accanto all’arto al fine di nasconderlo allo sguardo del soggetto e una mano di gomma di dimensioni reali, simili a quelle della mano sinistra del soggetto, è posta sopra il tavolo di fronte a lui. Al soggetto è richiesto di mantenere lo sguardo sulla mano artificiale mentre due piccole spazzole accarezzano contemporaneamente sia la mano di gomma che quella del soggetto. I tocchi di spazzola, eseguiti in modo sincrono, sono dati con una frequenza d’intervallo di un secondo e gli effetti percettivi dell’illusione sono riportati su un questionario ideato appositamente. L’illusione della mano di gomma è usata per manipolare, in un soggetto sano, le sensazioni di possesso di una mano artificiale. In tale illusione i partecipanti incorporano la mano di gomma in una rappresentazione mentale del proprio corpo. La sensazione ingannevole di possesso dell’arto finto, accompagnata dalla ri-calibrazione della percezione di stimoli sull’arto finto, è ottenuta tramite la presentazione di stimolazioni tattili sincrone sulla mano del soggetto e sulla mano artificiale.

Ciò che distingue l’illusione della mano di gomma dalle altre illusioni è che produce un cambiamento della sensazione di proprietà (ownership) del proprio arto. Tramite questa illusione, l’oggetto inanimato che si stava osservando in un primo momento, diventa in un secondo momento “vivo”, rendendo possibile l’illusione di esperire sensazioni da una mano finta (Lackner, 1998; Naito, Roland & Ehrsson, 2002). Questa illusione dimostra cosi di essere uno strumento utile per iniziare lo studio della rappresentazione corporea e per chiarire i processi sottostanti alla sensazione di possesso (ownership) del proprio corpo (Botvinick, 2004).

Quando proviamo l’illusione della mano di gomma, noi riconosciamo una mano finta come se fosse la nostra mano reale. Ciò implica che possiamo riconoscere un oggetto fuori dal corpo come se fosse parte di noi. Sono state fornite evidenze a riguardo di una natura multi-componenziale dell’illusione della mano di gomma (Longo, Schuur, Kammers, Tsakiris & Haggard, 2008). Nello studio appena citato, Longo e colleghi utilizzarono dei questionari appositamente ideati per lo studio dell’illusione della mano di gomma al fine di investigare le strutture della coscienza corporea. Dalle loro analisi emersero principalmente quattro componenti, le quali sono state denominate come: “embodiment of rubber hand” (sensazione di appartenenza della mano di gomma da parte del partecipante), “loss of own hand” (sensazione di perdita di controllo della propria mano), “movement (sensazione di percepire il movimento della propria mano reale come provenire dalla mano finta)” e “affect” (sensazione vissuta durante la sessione come interessante o piacevole). Nella condizione di stimolazione asincrona venne riportata un’ ulteriore quinta componente denominata “deafference” (sensazione che la mano sia meno “viva“ rispetto al solito). Ulteriori analisi sulla componente “embodiment of rubber hand” rivelarono tre sotto-componenti nelle condizioni di stimolazione sincrona e asincrona, le quali vennero denominate: “ownership” (sensazione che la mano di gomma sia parte del proprio corpo), “location” (sensazione che la mano di gomma e la propria mano siano nello stesso posto) e “agency” (sensazione di essere capaci di muovere la mano di gomma e di poterla controllare).

Lo studio di Longo e collaboratori (2007), oltre a fornire un metodo sistematico per studiare la natura dell’illusione della mano di gomma, riesce a provare la divisione della “embodiment of rubber hand” in tre sotto-componenti, confermando così l’intuizione che la “body ownership” e la “agency” siano due sotto-componenti separate (Gallagher, 2000; Tsakiris et al., 2006). Il fenomeno dell’illusione della mano di gomma, inoltre è stato studiato attraverso l’impiego del paradigma di congruenza cross-modale, originariamente concepito da Spence e colleghi (1998). Tramite questo compito, ai partecipanti era richiesto di rispondere il prima possibile a degli stimoli tattili somministrati su differenti dita mentre dovevano ignorare degli stimoli visivi distrattori irrilevanti per il compito. Questi stimoli visivi, potevano essere presentati nella stessa posizione della stimolazione tattile (posizione congruente) o in una diversa posizione (incongruente). Si osservò che, le discriminazioni tattili venivano rallentate quando la posizione di uno stimolo visivo distrattore era incongruente con la posizione di uno stimolo tattile, a differenza di quanto accadeva quando le due posizioni degli stimoli coincidevano.

Tale effetto di congruenza cross-modale (CCE) è stato usato per lo studio dell’illusione della mano di gomma (Pavani, Spence & Driver, 2000). Per la prima volta descritto da Pavani, Spence, & Driver (2000), l’effetto di congruenza visuo-tattile è stato considerato un indice comportamentale del processo di integrazione cerebrale. Anche se l’effetto di congruenza visuo-spaziale è stato mostrato di minore entità quando gli stimoli visivi e tattili erano spazialmente separati (Spence, Pavani & Driver, 2004; Spence & Walton, 2005), un esperimento condotto da Pavani e collaboratori (2000) ha rivelato che questo effetto di congruenza può essere osservato anche nella condizione in cui degli stimoli visivi distrattori vengono presentati su una mano di gomma con la stessa postura effettiva della mano del partecipante. In questo contesto sperimentale, si osservò che il soggetto percepiva la mano di gomma come se fosse sua. Gli veniva indotta cosi un’attribuzione, illusoria, di appartenenza dell’arto finto al proprio corpo (Botvinik & Cohen, 1998).

Secondo questi risultati, l’effetto dell’illusione della mano di gomma compensa la distanza spaziale e aumenta l’effetto di congruenza (CCE) in modo maggiore rispetto alla condizione in cui non venga utilizzato l’arto protesico. Presentando così uno stimolo visivo sulla mano di gomma che mima la mano reale del partecipante, si può ottenere un maggiore CCE nonostante l’esistenza di una distanza fisica tra le due mani. Questo risultato ci mostra, oltre a uno spostamento della percezione degli stimoli tattili (localizzazione tattile) dalla mano reale verso l’arto finto, l’esistenza di una forte relazione tra l’interazione visuo-tattile (CCE) e l’illusione della mano di gomma (questionario con punteggio auto riportato). Da queste ricerche si può osservare che le interazioni cross-modali tra input visivi e somatosensoriali possono modulare la sensazione soggettiva relata alla percezione del corpo.

Nonostante gli aspetti sopra riportati, la presenza dell’illusione è fortemente condizionata da alcune limitazioni. Anche se l’illusione della mano di gomma è considerata un fenomeno quasi sempre percepito dagli esseri umani (Botvinik & Cohen, 1998; Costantini & Haggard, 2007), essa è vulnerabile al setting sperimentale e può essere abolita dall’orientamento della mano del soggetto di 180 o 90 gradi (Pavani et al., 2000; Ehrsson, Spence & Passingham, 2004; Tsakiris & Haggard, 2005) o usando una mano finta di legno come sostituta della mano di gomma (Tsakiris & Haggard, 2005). Infatti, i punteggi auto-riportati per quanto riguarda l’illusione della mano di gomma in studi sull’effetto della congruenza visuo-tattile non erano superiori rispetto ai valori centrali per tutti gli item (Kanayama et al., 2007; Pavani et al., 2000), il che suggerisce che la maggior parte dei partecipanti ha riferito di non aver esperito il fenomeno illusorio. Uno studio recente che coinvolge 220 partecipanti ha rivelato che il 66% di essi ha sperimentato l’illusione della mano di gomma (Durgin, Evans, Dunphy, Klostermann & Simmons, 2007).

 

Basi neurali dell’integrazione multi-sensoriale sottostante l’illusione della mano di gomma

Negli ultimi anni molti gruppi di ricerca hanno studiato i correlati neurali dei processi di integrazione multisensoriale (e.g., vedi Calvert et al., 2004). Questi studi hanno rilevato l’esistenza di diverse aree corticali e strutture sotto-corticali coinvolte nell’integrazione multi-sensoriale (eg., Balslev et al., 2005; Bremmer et al., 2001; Calvert e Thesen, 2004; Macaluso e Driver, 2001; Macaluso et al., 2001). Vari metodi di neuroimmagine sono stati usati per investigare i meccanismi di integrazione multi-sensoriale. Risposte parietali, temporali e premotorie sono comunemente osservate in studi di neuroimmagine – come la tomografia a emissione di positroni (PET) e la risonanza magnetica funzionale (fMRI) – in compiti che utilizzano stimoli visivi e somatosensoriali (Macaluso & Driver, 2001; Macaluso, Frith & Driver, 2001).

 

Correlati neuro-funzionali dello spazio peripersonale e dell’illusione della mano di gomma

Makin e colleghi (2007), localizzarono nell’uomo delle aree che mostravano una forte attivazione per stimoli visivi che si avvicinavano alla mano del partecipante. Queste aree, tra cui la corteccia premotoria (PMC), il solco intraparietale (IPS) e il complesso occipitale laterale (LOC), non mostravano tale preferenza nella condizione in cui la mano alla quale si avvicinavano questi stimoli era retratta. Questi risultati, insieme a quelli sopra descritti, mettono in evidenza che esiste un sistema spaziale peripersonale che integra le informazioni multi-sensoriali in coordinate centrate su parti del corpo.

Makin e collaboratori, testarono inoltre le modulazioni di questo sistema spaziale peripersonale centrato sulla mano, mediante l’utilizzo di una mano di un manichino (una situazione sostanzialmente analoga a quella della illusione della mano di gomma, ma riprodotta all’interno della risonanza magnetica). Dal loro studio si osservò che, le preferenze per gli stimoli presentati alla mano finta erano simili a quelle precedentemente osservate nella stimolazione della mano reale. Le aree attive in risposta a stimoli presentati sulla mano finta erano la parte posteriore del solco intraparietale e la corteccia occipitale laterale.

Come nello studio di Graziano e collaboratori (2000), anche nello studio di Makin e colleghi, l’informazione visiva fornita alla mano finta modulava la risposta di attivazione neurale. Un aspetto interessante, che riguarda i risultati sopra descritti, è che l’osservazione di uno stimolo visivo avvicinarsi a una mano finta è sufficiente a cambiare la rappresentazione della posizione della mano in relazione alla rappresentazione peripersonale dello spazio attorno alla mano. Tale risultato suggerisce che l’informazione visiva diretta alla mano finta, viene pesata maggiormente quando è combinata con l’informazione propriocettiva riguardante la posizione della mano, ma solo nel caso in cui la mano finta è allineata in una posizione anatomicamente plausibile. Da questi dati è possibile interpretare l’area parietale come un sito dove l’informazione multi-modale viene elaborata e integrata (Macaluso & Driver, 2001; Macaluso, Frith, & Driver, 2001; Bremmer et al., 2001). Numerosi studi hanno cercato di stabilire i correlati neuro-funzionali dell’illusione della mano di gomma usando altri metodi di indagine, tra cui i potenziali evocati somatosensoriali e l’Elettroencefalografia (EEG) (Kanayama, Sato, Ohira, 2007; Peled, Pressman, Geva, Modai, 2003), la stimolazione magnetica transcranica (TMS) (Schutz-Bosbach, Mancini, Aglioti, Haggard, 2006) la tomografia a emissione di positroni (PET) (Tsakiris, Hesse, Boy, Haggard, Fink, 2007), la risonanza magnetica funzionale (fMRI) (Ehrsson, Holmes, Passingham, 2005; Ehrsson, Spence, Passingham, 2004; Ehrsson, Wiech, Weiskopf, Dolan, Passingham, 2007; Lloyd, Morrison, Roberts, 2006). Lenggenhager e collaboratori (2011) registrarono l’attività elettroencefalografica (EEG) durante l’illusione e mostrarono l’aumento dell’attività oscillatoria banda alpha localizzata nelle aree frontali in relazione all’esperienza illusoria. Alcuni studi hanno però ipotizzato il legame di aree parietali e temporali con questo tipo di esperienza illusoria (Blanke et al., 2002, 2004; De ridder, 2007). Il ruolo delle diverse reti di connessione cosi come l’esatto ruolo delle aree corticali coinvolte nell’esperienza dell’illusione rimane ancora da chiarire. Tale difficoltà nel chiarire il coinvolgimento delle aree corticali relate all’esperienza illusoria può essere data dall’instabilità di questo fenomeno illusorio.

 

Modelli teorici e simulazioni computazionali

Botvinick e Cohen (1998) hanno proposto un modello connessionista per spiegare l’illusione dell’arto finto, suggerendo che questo fenomeno abbia origine da un processo basato sull’integrazione dell’informazione visiva, tattile e propriocettiva. Secondo gli autori, l’informazione visiva proveniente dalla mano finta, e quella propriocettiva proveniente dalla mano reale del partecipante sono convogliate alle aree multi-sensoriali del cervello, dove la posizione della mano viene computata. Nonostante l’identificazione di aree cerebrali che rispondono a input multi-sensoriali, la fase di elaborazione rappresentata dall’attività di queste regioni non è stata ancora chiarita. I lavori fino ad ora descritti aumentano la conoscenza riguardante il network di aree coinvolte in questo processo di integrazione, ma le tempistiche e le risposte neurali associate a questo tipo di attività rimangono ancora da chiarire.

 

Dinamiche neurali & Elettroencefalografia (EEG)

Risposte elettrofisiologiche & integrazione cross-modale

La risoluzione temporale ottenuta tramite l’uso della fMRI o della PET non è sufficiente a distinguere se l’integrazione multi-modale è direttamente collegata ai primi stadi sensoriali o a stadi di elaborazione cognitiva delle informazioni più tardivi.

L’Elettroencefalografia (EEG) e la Magnetoencefalografia (MEG) offrono una superiore risoluzione temporale rendendo possibile lo studio di questo problema. Studi EEG hanno dimostrato effetti cross-modali registrati alla presentazione dello stimolo e relati a negatività precoci, contenute nei primi 100–200ms, localizzate negli elettrodi centrali dei siti ipsilaterali e controlaterali alla mano stimolata. Eimer e Driver (2000) hanno dimostrato che una maggiore attenzione spaziale alla posizione degli stimoli tattili presentati, provoca potenziali evocati visivi relati maggiori nei 100-200ms post-stimolo.

Questi risultati forniscono un’evidenza dell’esistenza di un’interazione cross-modale nell’attenzione spaziale tra vista e tatto. Inoltre, ulteriori studi hanno potuto misurare dei potenziali evento relati (ERP’s) somatosensoriali, rivelando come la visione possa modulare l’attività della corteccia somatosensoriale (Taylor, Kennett & Haggard, 2002). La modulazione visiva non è stata osservata nella componente P50, la quale si suppone rifletta l’afferenza principale alla corteccia somatosensoriale, ma appare invece nella componente N80 che è stata localizzata nella corteccia somatosensoriale primaria (Allison, McCarthy & Wood, 1992). Una componente tardiva, denominata N140, la quale si suppone rifletta l’attività della corteccia somatosensoriale secondaria, ha mostrato una modulazione visiva, indipendentemente dalle richieste del compito (Allison et al., 1992). Anche se è sempre più evidente che i potenziali evocati specifici (come ad esempio la componente N140 per gli stimoli somatosensoriali) siano modulati dall’attenzione e da altri fattori (ad esempio, uno stimolo visivo), non è chiaro se questi effetti descrivano processi legati all’integrazione multi-modale di input sensoriali.

Recentemente è stato rivelato che l’integrazione multi-modale è rappresentata dall’attivazione sincrona di varie aree cerebrali (Singer & Gray, 1995). Diversi studi che hanno utilizzato l’elettroencefalogramma, hanno dimostrato delle relazioni tra le oscillazioni della banda gamma nei processi che coinvolgono le modalità sensoriali visive e uditive (Kaiser, Hertrich, Ackermann, Mathiak & Lutzenberger, 2005; Sakowitz, Quian, Quiroga, Schurmann & Basar, 2001; Sakowitz et al., 2005; Senkowski, Talsma, Herrmann & Woldorff, 2005). Sakowitz e collaboratori nel 2005 hanno riportato un aumento di potenza delle oscillazioni della banda gamma associate ad una componente audio-visiva che occorreva 100–200ms dopo la stimolazione. Delle risposte della banda beta sono state anch’esse riportate (attorno ai 120ms) in compiti di stimolazione audio-visiva (Senkowski et al., 2005). La durata di attivazione della banda beta è coerente con quello delle componenti cross-modali evento relate precedentemente riportate (Molholm et al., 2002). Poiché l’attività della banda beta è incompatibile con la banda di frequenza dei risultati ERP, si può supporre che ciascuna componente abbia una funzione diversa. Tuttavia, le somiglianze riscontrate nel loro tempo di occorrenza indicano che queste risposte si verificano all’interno della stessa fase di elaborazione degli stimoli audiovisivi. Il ritardo di attivazione dell’attività banda gamma rispetto all’attività banda beta e gli ERP salienti, appare riflettere una diversa fase di elaborazione (Molholm et al., 2002; Senkowski et al., 2005).

 

Applicare l’analisi tempo-frequenza all’illusione della mano finta

Kanayama, Sato, & Ohira (2007) hanno condotto un esperimento EEG al fine di indagare l’attività cerebrale relata al processo di integrazione delle informazioni visuo-tattili, replicando le impostazioni sperimentali impiegate da Pavani e collaboratori (2000). Nello studio da loro condotto venne osservato un aumento di potenza nel segnale dell’attività della banda gamma (40-50Hz), localizzato in corrispondenza dell’elettrodo Pz, a 200-250ms post stimolo, nella condizione di stimolazione visuo-tattile congruente. Altrettanto non si poteva osservare nella componente evento relata osservata nella finestra temporale antecedente i 200-250ms (N140) negli studi cross-modali precedenti (Eimer & Driver, 2000; Eimer & Van Velzen, 2002). La stessa componente della banda gamma è stata riportata in un compito di integrazione semantica (Yuval-Greenberg & Deouell, 2007), dove la componente d’integrazione audiovisiva è stata anch’essa osservata nelle fasi precoci (intorno ai 100ms) dell’attività banda gamma (Sakowitz, Quiroga, Schurmann & Başar, 2001; Senkowski, Talsma, Grigutsch, Herrmann & Woldorff, 2007; Senkowski, Talsma, Herrmann & Woldorff, 2005).

Widmann e altri (2007) hanno dimostrato una risposta precoce dell’attività banda gamma indotta (tra 100 e 200ms) in un compito di integrazione audiovisivo.
Widmann e colleghi, hanno così ipotizzato che questa precoce componente sia sensibile ad aspetti qualitativi dello stimolo, mentre una componente più tardiva, anch’essa indotta dal compito di integrazione audiovisivo, venne ipotizzato essere coinvolta in un processo di corrispondenza tra l’aspettativa e la stimolazione.

Tramite questi risultati è possibile supportare l’ipotesi che l’attività banda gamma riscontrata nello studio di Kanayama e collaboratori (2007), sia un processo di integrazione e non un processo limitato agli stimoli visuo-tattili. Inoltre la sincronia riscontrata tra gli elettrodi dell’attività banda gamma è risultata significativamente correlata con i punteggi di autovalutazione soggettiva dell’esperienza dell’illusione della mano di gomma (Kanayama et al., 2007).

Inoltre Kanayama e colleghi (2012) mostrarono che la risposta banda gamma è influenzata da una modulazione top-down legata alla conoscenza relativa all’esperienza di stimolazione (congruente vs non congruente). Questi dati suggeriscono che le frequenze banda gamma siano molto più di un indicatore dell’elaborazione multi-sensoriale. In particolare, tali dati portano a pensare che la componente banda gamma sia sensibile alla corrispondenza tra la stimolazione multi-sensoriale attesa e la stimolazione effettiva, e che sia originata nel lobulo parietale superiore destro e nel giro frontale superiore destro. Le oscillazioni neurali relate al processo di integrazione multi-sensoriale sono state studiate focalizzandosi sulle oscillazioni EEG in differenti bande di frequenza ed è stata osservata la loro relazione con l’attività banda gamma.

Un’altra risposta oscillatoria tipicamente registrata in risposta a stimolazioni visuo-tattili è la risposta banda theta, che si osserva 100ms dopo la presentazione dello stimolo. La componente banda theta può essere suddivisa in due sotto-componenti con differenti tempistiche di manifestazione. È possibile osservare una componente theta precoce (100-300ms), la quale è stato ipotizzato rifletta la risposta a stimolazioni visuo-tattili a prescindere dalla congruenza, e una componente theta più tardiva, la quale si manifesta maggiormente nelle condizioni di stimolazione incongruente che includono un conflitto visuo-tattile elicitato dal CCE. È stato ipotizzato che tale banda theta tardiva, rifletta il costo cognitivo della risposta a una coppia di stimoli visuo-tattili incongruenti (Kanayama & Ohira, 2009).

Schroeder e Lakatos (2009) hanno investigato il legame tra l’aumento di potenza nelle frequenze banda gamma e l’indice di fase delle frequenze banda theta e hanno suggerito un legame delle frequenze gamma e theta nei processi di codifica multi-sensoriale. Canolty e collaboratori (2006) hanno riportato la presentazione congiunta delle due oscillazioni theta e gamma misurando l’EEG tramite l’elettrocorticogramma (EcoG). Dai risultati di questo studio, i ricercatori osservarono che la localizzazione delle oscillazioni poteva essere modulata a seconda del tipo di compito.

Monto e colleghi (2008) registrarono l’attività EEG durante un compito di detezione di stimoli somatosensoriali e osservarono una correlazione tra gli indici di fase nelle oscillazioni a bassa frequenza, mentre nelle oscillazioni ad alta frequenza osservarono una correlazione con l’indice di ampiezza.
Questi risultati permettono di concludere che l’attività banda gamma, osservata in diversi studi di integrazione multi-sensoriale, possa essere considerata in combinazione con l’attività nelle bande di frequenza più basse.

 

Conclusioni

Tutt’oggi la consapevolezza corporea è un argomento di forte interesse per le neuroscienze cognitive. Grazie al paradigma dell’illusione della mano di gomma (Botvinick & Cohen, 1998) è stato possibile acquisire conoscenze relative ai processi di integrazione degli stimoli provenienti dai diversi organi di senso e alla costruzione della rappresentazione corporea.

Durante questo paradigma il partecipante osserva un arto finto (es., un arto destro protesico) che viene toccato in maniera sincrona o asincrona con la mano corrispondente del partecipante (mano destra) che rimane invece nascosta alla vista. Dopo pochi minuti di stimolazione sincrona (ma non durante la stimolazione asincrona) si manifesta l’illusione corporea.

Diversi studi hanno cercato di chiarire i processi sottostanti l’illusione della mano di gomma. Longo e colleghi fornirono evidenze di una natura multi-componenziale dell’illusione (Longo, Schuur, Kammers, Tsakiris & Haggard, 2008). Tali evidenze contribuirono a fornire una visione più completa del fenomeno illusorio (Gallagher, 2000; Tsakiris et al., 2006). Un aspetto interessante, emerso in diverse ricerche è che l’osservazione di uno stimolo visivo avvicinarsi a una mano finta è sufficiente a cambiare la rappresentazione della posizione della mano in relazione alla rappresentazione peripersonale dello spazio attorno alla mano (Graziano, M. S. A., Cooke, D. F., & Taylor, C. S., 2000; Makin, T.R., Holmes, N.P., Zohary, E. 2007; Makin, T.R., Holmes, N.P., Ehrsson, H.H., 2008). Tale risultato suggerisce che l’informazione visiva diretta alla mano finta, viene pesata maggiormente quando è combinata con l’informazione propriocettiva riguardante la posizione della mano, ma solo nel caso in cui la mano finta è allineata in una posizione anatomicamente plausibile.

Il fenomeno dell’illusione della mano di gomma è stato studiato attraverso l’impiego del paradigma di congruenza cross-modale (Pavani, Spence & Driver, 2000). Secondo questi risultati, l’effetto dell’illusione della mano di gomma compensa la distanza spaziale e aumenta l’effetto di congruenza (CCE) in modo maggiore rispetto alla condizione in cui non venga utilizzato l’arto protesico. Da queste ricerche si può osservare che le interazioni cross-modali tra input visivi e somatosensoriali possono modulare la sensazione soggettiva relata alla percezione del corpo.

Ulteriori ricerche hanno studiato la natura cross-modale dell’illusione mediante l’elettroencefalografia. Grazie a questo metodo di indagine è stato possibile osservare delle relazioni tra le oscillazioni della banda gamma nei processi che coinvolgono le modalità sensoriali visive e uditive (Kaiser, Hertrich, Ackermann, Mathiak & Lutzenberger, 2005; Sakowitz, Quian, Quiroga, Schurmann & Basar, 2001; Sakowitz et al., 2005; Senkowski, Talsma, Herrmann & Woldorff, 2005).

Kanayama, Sato, & Ohira (2007) svolsero un esperimento EEG al fine di indagare l’attività cerebrale relata al processo di integrazione delle informazioni visuo-tattili, replicando le impostazioni sperimentali impiegate da Pavani e collaboratori (2000). Dai loro risultati è possibile supportare l’ipotesi che l’attività banda gamma riscontrata rispecchi un processo di integrazione e non un processo limitato agli stimoli visuo-tattili. Inoltre la sincronia riscontrata tra gli elettrodi dell’attività banda gamma è risultata significativamente correlata con i punteggi di autovalutazione soggettiva dell’esperienza dell’illusione della mano di gomma (Kanayama et al., 2007). Una ulteriore risposta oscillatoria tipicamente registrata in risposta a stimolazioni visuo-tattili è la risposta banda theta. È stato ipotizzato che tale banda theta tardiva, rifletta il costo cognitivo della risposta a una coppia di stimoli visuo-tattili incongruenti (Kanayama & Ohira, 2009).

Dalle ricerche riportate si evidenzia come il processo di integrazione cross-modale sia fondamentale alla costruzione di una rappresentazione corporea coerente. Tale processo di integrazione è stato avvalorato dagli studi che hanno utilizzato l’elettroencefalogramma e che hanno indagato i correlati neurali sottostanti tale fenomeno.

Allattamento al seno: a Palermo un convegno sui benefici psicologici

Si è svolto lo scorso 14 Dicembre a Palermo, nella suggestiva cornice di Villa Igiea, l’evento “Promozione, sostegno e protezione dell’allattamento materno”: un momento informativo/formativo sulla tematica dell’ allattamento al seno condotto da professionisti del settore (ginecologi, ostetrici, pediatri, psicologi) e da rappresentanti Unicef Italia che, insieme all’Organizzazione mondiale della sanità (OMS), porta avanti dal 1989 le politiche dell’allattamento materno, attraverso un Protocollo finalizzato a creare “Ospedali e Comunità amici dei bambini”.

 

Allattamento al seno: i benefici fisici e psicologici

I temi centrali dell’evento hanno previsto l’analisi dettagliata dei vantaggi nutrizionali del latte materno per la crescita fisica e il potenziamento delle funzioni cognitive del bambino nonché del valore psico-relazionale dell’ allattamento al seno nell’ottica del rapporto madre-bambino in formazione.

Sullo stretto rapporto tra allattamento al seno e legame di attaccamento è intervenuta la Prof.ssa Giovanna Perricone, Professore associato di Psicologia dello sviluppo e dell’educazione presso l’Università degli Studi di Palermo e Primo presidente della Società italiana di psicologia pediatrica, illustrando il ruolo specifico dell’ allattamento al seno per un corretto sviluppo affettivo e relazionale.

[blockquote style=”1″]Una delle funzioni psicologiche fondamentali dell’ allattamento al seno è favorire la creazione e lo sviluppo del legame di attaccamento (bonding). Basti pensare che il contatto pelle-pelle, quello olfattivo e quello oculare sono favoriti dalla suzione attraverso la quale avviene la funzione di rispecchiamento dei bisogni di cura e di attenzione del bambino in una fase precoce della formazione dell’identità e della dimensione affettivo-relazionale[/blockquote] sottolinea Perricone.

 

L’autoefficacia percepita dalle mamme attraverso l’allattamento al seno

La rilevanza dell’ allattamento al seno è individuabile nello sviluppo, in senso positivo, del conflitto fiducia-sfiducia e nell’esercizio e nello sviluppo dell’intenzionalità del sorriso e del pianto, ma ha altresì ripercussioni positive a livello biologico e di riflesso sul versante relazionale.
[blockquote style=”1″]Ogni periodo di suzione innalza il sistema immunitario del bambino e il livello di ossitocina, con un effetto calmante sulla madre che tende anche a potenziare il suo legame con il bambino.[/blockquote]

Un’acquisizione di fiducia che non riguarda solo i piccoli, ma coinvolge le madri stesse nel loro sperimentarsi in tale ruolo.
[blockquote style=”1″]E’ corretto parlare di un’arte dell’ allattamento al seno che, in quanto tale, permette alle madri di assumere un ruolo attivo, decisionale, in un processo di rafforzamento crescente della propria capacità nutritiva e di accudimento, sostenuto dalle interazioni positive con il bambino (contatto corporeo, sorriso, sguardi) e dai progressi della crescita (rafforzamento del sistema immunitario, prevenzione di varie forme patologiche). L’ allattamento al seno costituisce quindi un rinforzo positivo per la donna che si sperimenta nel proprio ruolo materno, a condizione però di essere sostenute in tale compito dall’intera comunità[/blockquote] conclude Perricone.

A sostegno delle neomamme, si pone il ruolo del counseling che produce empowerment (acquisizione di potere) nelle donne portandole a “resistere” alla tendenza a percepire il proprio latte come insufficiente per i bisogni del bambino e a “cedere” a eventuali stimoli di tipo culturale che spingono a preferire il latte artificiale, in modo da concentrarsi sulla relazione madre-bambino, e sull’accrescimento graduale delle proprie abilità di accudimento. Un sostegno alla propria autoefficacia di donna e mamma che allatta che passa necessariamente per un cambiamento culturale: ne è convinta Erminia Francesca Dantes, responsabile materno-infantile del Dipartimento Palermo Unicef Sicilia, perché [blockquote style=”1″]solo incidendo sulla cultura dell’ allattamento la donna potrà sentirsi abbastanza sicura delle capacità nutrizionali del latte materno per sperimentare i benefici irrinunciabili sul benessere della diade madre-bambino dell’ allattamento al seno.[/blockquote]

Una battaglia fortemente sostenuta da Unicef Palermo, nella figura del Presidente Umberto Palma, che, fin dal 1997, collabora con l’Asl 6 di Palermo portando avanti, presso il Consultorio di Bagheria, il protocollo OMS – Unicef (strutturato in dieci passi tra cui spiccano l’informazione sui vantaggi dell’ allattamento al seno fino alla creazione di reti di sostegno sociale dopo le dimissioni dall’ospedale) coordinato e gestito dalla stessa Dantes, nella doppia veste di sanitario del percorso nascita e referente Unicef.

Un Consultorio dalla parte dei bambini che mira a coinvolgere tutti i soggetti che ruotano intorno alla neo-mamma, a cominciare dal partner e dai familiari, includendo le figure sanitarie.

[blockquote style=”1″]E’ necessaria la creazione di una rete a paracadute dove confluiscano le figure sanitarie e sociali per un cambio culturale radicale, senza prevaricazioni, perché mettere al seno è pura fisiologia, al pari dei mammiferi. La presenza del partner è considerata fondamentale, non in quanto partecipante, ma come elemento fondante della diade uomo-donna: il padre, insomma, deve essere considerato nel suo ruolo di parità genitoriale. Al Consultorio riserviamo un primo incontro alla diade per favorire la promozione dell’ allattamento materno come percorso di protezione specie-specifico, quindi si affiancheranno gli altri familiari, in assetto gruppale (cinque-sei mamme). In questa visione il padre è elemento di sostegno alla madre, e deve acquisire fiducia in tale capacità. L’uomo insomma protegge la donna che allatta, e, similmente alla donna, necessita di acquisire forza e fiducia nel suo delicato ruolo di supporto: perciò il nostro obiettivo è quello di essere amiche delle mamme, dei papà e delle famiglie[/blockquote] conclude Dantes.

Marcatori biologici e comportamento suicidario: nuove prospettive di studio

Alti livelli di DNA mitocondriale sono stati rilevati in campioni di plasma di soggetti con alle spalle tentativi di suicidio.

 

I marcatori biologici dei pazienti depressi con tendenze suicidarie

In uno studio recente, i ricercatori delle università svedesi di Lund e Malmo, in collaborazione con quella della California di San Francisco, hanno misurato, tramite strumentazione in vitro (cell-free system), i livelli di DNA mitocondriale presenti all’interno del plasma sanguigno, correlandolo con una significativa iperattivazione a livello del sistema cerebrale deputato all’elaborazione dello stress, o asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA), in soggetti con tendenze suicidarie. Questo marcatore potrebbe quindi essere efficacemente utilizzato in futuri studi psichiatrici volti alla comprensione della patofisiologia sottostante il comportamento suicidario e la depressione.

I mitocondri sono organelli citoplasmatici presenti all’interno delle cellule eucariote, estremamente importanti per lo svolgimento di una serie di funzioni cellulari, quali l’apoptosi e la necrosi per quanto riguarda la morte cellulare, la regolazione dei radicali liberi, la regolazione dell’espressione genica e la trasduzione di segnali implicati nella proliferazione e nella differenziazione cellulare. Ogni mitocondrio possiede anche il proprio genoma, ereditato dal DNA mitocondriale materno ed implicato nei processi di produzione energetica.

La struttura mitocondriale, inoltre, risulta essere altamente suscettibile allo stress cronico: alti livelli di cortisolo, ormone cruciale per il sistema cerebrale deputato all’elaborazione dello stress, persistenti nel tempo, comportano una riduzione del potenziale di membrana dei mitocondri ed un’aumentata sensibilità all’apoptosi.

Proprio a tal proposito, studi precedenti (Cai et al., 2015; Nicod et al., 2015) avevano già messo in luce come soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore mostrassero maggiori livelli di DNA mitocondriale all’interno dei leucociti, cellule immunitarie, presenti in campioni di sangue e saliva, correlando tali livelli con eventi di vita stressanti. Inoltre, studi sugli animali (Gong et al., 2011) avevano già mostrato come maggiori livelli di cortisolo fossero correlati a maggiori livelli di DNA mitocondriale a livello plasmatico e a disfunzioni a livello di aree cerebrali quali l’ippocampo e il talamo, implicate, tra le altre cose, nell’elaborazione di stimoli stressogeni. Lindqvist e collaboratori, per la prima volta, hanno indagato questo aspetto in coorti di pazienti psichiatrici.

 

Lo studio

Più nello specifico, gli autori di questo studio hanno comparato le analisi di 37 pazienti ospedalizzati in cliniche psichiatriche per tentato suicidio con quelle di altrettanti soggetti sani di controllo. L’età media dei pazienti si aggirava intorno ai 40 anni e circa il 70% del campione, sia quello sperimentale sia quello di controllo, era costituito da donne.

Rispetto ai soggetti di controllo, i pazienti mostravano livelli di DNA mitocondriale a livello plasmatico notevolmente elevati. Inoltre, i ricercatori hanno anche rilevato una correlazione significativa tra i livelli di DNA mitocondriale e i livelli di cortisolo presenti nel sangue, valutati tramite il test al Desametasone e segnale di un’iperattivazione dell’asse HPA, così come già rilevato in studi precedenti su pazienti depressi ed ansiosi.

Secondo gli autori, per quanto riguarda i pazienti con tendenze suicidarie, tali indici biologici, presenti in concentrazioni così elevate, sarebbero dovute all’esposizione per prolungati periodi di tempo a gravi fattori stressogeni. In questo senso, alti livelli di cortisolo porterebbero ad un malfunzionamento non solo a livello corticale, ma anche a livello cellulare e ad una disfunzione mitocondriale, che, a sua volta, porterebbe al rilascio di elevati livelli di DNA mitocondriale all’interno del flusso sanguigno.

In conclusione, per quanto non si possa affermare che questo marcatore biologico sia in grado di prevedere chi proverà a mettere in atto tentativi di suicidio, anche perché comune a diverse patologie psichiatriche e anche somatiche caratterizzate da un’esagerata risposta allo stress (ad es. diabete, cancro, traumi), la rilevazione dei livelli di DNA mitocondriale a livello plasmatico potrebbe aiutare ad identificare quei soggetti vulnerabili a condizioni psichiatriche quali ansia e depressione, che, sottoposti ad ingenti livelli di stress, potrebbero essere considerati a rischio suicidario, riuscendo così a predisporre adeguati trattamenti preventivi.

Quindi, nel complesso, quanto emerso suggerisce come lo stress psicologico, rilevato tramite la misurazione dei livelli di cortisolo presenti nel flusso sanguigno, associato a tendenze suicidarie, potrebbe lasciare una traccia rilevabile a livello biologico sotto forma di alti livelli di DNA mitocondriale. Inoltre, come futura prospettiva d’indagine, Lindqvist e collaboratori vorrebbero studiare come i livelli di questo marcatore varino in seguito a psicoterapia, a trattamenti farmacologici e ad interventi sullo stile di vita di pazienti depressi e con tendenze suicidarie.

Solitudine, relazionalità e ritiro sociale in psicopatologia: dalla depressione ai disturbi d’ansia e di personalità

Il vissuto psicopatologico ha per la persona che lo sperimenta significati profondi, a volte difficilmente comunicabili e condivisibili; la possibilità di entrare in relazione con gli altri è spesso compromessa e, talvolta, si concretizza in una caratteristica trasversale a diverse condizioni patologiche: l’isolamento e il ritiro sociale.

 

Il ritiro sociale nella psicopatologia

In ciascun caso, la difficoltà o impossibilità di interagire con persone e contesti può essere connessa ad aspetti specifici del disturbo e la solitudine che deriva dal disagio psichico può assumere diverse forme a seconda della patologia entro la quale si sviluppa.

Di seguito verranno prese in considerazione, da diverse prospettive, talune categorie psicopatologiche che sembrano presentare questo elemento distintivo: le alterazioni patologiche dell’umore, i disturbi d’ansia e alcuni tipi di personalità. Che significato ha, ad esempio, il ritiro sociale e dalle relazioni per un soggetto affetto da depressione? Quali le differenze con la socialità coartata della personalità schizoide o evitante? E come è percepita l’interazione con il mondo esterno da chi convive con un disturbo da attacchi di panico o ansia sociale?

[…] il dolore dell’anima, quello che sgorga dalla coscienza depressiva, […] si rispecchia in una solitudine lacerante e, quasi, insostenibile che è solitudine interiore ma recisa da una qualche riconoscibile comunicazione con il mondo degli altri

Diversi elementi possono contribuire a definire la qualità delle relazioni, sia in condizioni di normalità che nel contesto di specifiche esperienza psicopatologiche, determinando, in alcuni casi, l’incapacità di stare con l’altro e il conseguente ritiro sociale o senso di solitudine.

Nell’ottica della psicologia individuale (Adler, 1935), ad esempio, viene data particolare importanza ai modi in cui l’individuo interagisce con il proprio ambiente. Stando a tale concezione, ciascuno si pone nei confronti del mondo coerentemente con  la visione che ha di sé stesso, non secondo schemi predefiniti, ma in accordo con la propria personale prospettiva.

Il contatto con il mondo esterno sarebbe dunque determinato non tanto da fattori ereditari o ambientali, ma dal modo unico che ognuno ha di intendere e sperimentare questi elementi. Secondo tale approccio, l’esistenza umana sarebbe inoltre caratterizzata da un senso di incompletezza e insoddisfazione, un sentimento di inferiorità che, come spiega Fassino (1996), riprendendo i fondamenti della teoria adleriana, può essere individuato anche nel contesto dei vissuti depressivi.

 

L’Altro nei vissuti depressivi e nelle personalità narcisistiche

È possibile, pertanto, osservare nel soggetto depresso l’attuazione di alcune strategie comportamentali che hanno un’importante ricaduta sulle sue modalità relazionali e su un eventuale ritiro sociale. Esso mette in atto il tentativo di compensare il suo stato di inferiorità aspirando a mete ideali ma difficilmente conseguibili e, di fronte al mancato raggiungimento di tali traguardi, si lamenta arrendevolmente della propria sorte attribuendone implicitamente la responsabilità a fattori esterni, ad un mondo percepito come ostile. L’espressione della propria sofferenza diventa il veicolo per valorizzarsi canalizzando su di sé l’attenzione, mentre gli altri sono sottoposti ad un processo, seppur implicito, di responsabilizzazione. Ne deriva il tentativo di controllare l’altro e ottenere il suo amore attraverso la propria disperazione inconsolabile.

Una quota di distruttività viene così rivolta anche verso l’esterno, oltre che verso il sé, ma ciò avviene in maniera indiretta, tramite l’esposizione ostinata della propria sofferenza, per non correre il rischio di perdere l’altro e restare da solo. Infatti:

La relazione con gli altri è, per questi soggetti, l’unica fonte della propria autostima, la cui perdita, reale o minacciata, è intollerabile e porta all’aumento della distanza tra l’immagine del Sé e l’ideale del Sé […] il Sé ideale del depresso ha bisogno degli altri (Ibidem, p. 66).

Il significato delle relazioni nella personalità narcisistica

Il legame con l’altro come strumento di regolazione dell’immagine di sé, con importanti conseguenze sul piano relazionale, è un concetto che emerge in maniera altrettanto evidente nella descrizione del funzionamento della personalità narcisistica.

Nelle descrizioni “tradizionali”, il narcisista è tipicamente sfruttante, portato all’idealizzazione del sé a discapito dell’altro che viene svalutato e ridotto a strumento per la conferma della propria grandiosità. Vi è una sorta di patologia della relazione che lo rende incapace di dipendere realmente dagli altri, di perseguire con loro scopi comuni o provare empatia ed emozioni profonde. Anche nella relazione terapeutica può apparire non collaborativo o persino competitivo; uno degli scogli principali sembra infatti essere l’incapacità del soggetto di dipendere dal terapeuta, dipendenza che risulterebbe umiliante e andrebbe a scontrarsi con il suo senso di onnipotenza e controllo (Kernberg, 2010).

Indagini recenti svelano però un altro lato della personalità narcisistica. Salvatore, Carcione e Dimaggio (2012), ad esempio, hanno distinto due schemi interpersonali definiti “dipendenza disfunzionale” e “scarsa agentività”: con l’attivazione di tali schemi, in mancanza del sostegno dell’altro, il narcisista va incontro a vissuti depressivi, di isolamento, ritiro sociale e passività; non è in grado di utilizzare emozioni, stati interni e desideri come bussola per le proprie azioni e diventa per lui impossibile raggiungere i propri scopi.

In altri termini, l’attivazione di uno schema relazionale di dipendenza è un meccanismo messo in atto in risposta al senso di bassa autostima; ciò avviene in quanto l’altro, con la sua presenza e ammirazione, consente al narcisista di disconoscere la rappresentazione negativa di sé. È in tali circostanze che il soggetto sembra ricercare insistentemente la relazione. Il rifiuto da parte dell’altro apre a vissuti di tipo depressivo poiché, non riconoscendo la sua presunta superiorità, rischia di portare alla luce il sé svalutato e carente. La risposta del narcisista è una rabbia vendicativa che permette di evitare il passaggio a tale stato attribuendo valenza negativa all’altro e al suo comportamento, ricercando cioè le cause della sua sofferenza in fattori esterni (Ibidem).

Alterazioni della personalità e vissuti depressivi possono dunque presentare aspetti simili, incontrarsi e, talvolta, co-esistere, ma presentano anche importanti elementi distintivi: la capacità empatica può essere maggiormente compromessa nel disturbo di personalità, così come la rabbia risulta più diretta;  l’autostima del depresso non è ipertrofica e la sua rabbia è mascherata. Entrambe le condizioni, però, comportano una compromissione della capacità relazionale, alimentando il rischio di solitudine e ritiro sociale. Il narcisista ha bisogno della relazione per la propria sopravvivenza, ma non tende a preservarla.

Il depresso non arriva ad attaccare direttamente la relazione, ma la sua aggressività emerge sotto forma di contagio della sofferenza. Le modalità comunicative del depresso, infatti, instillano nell’altro il sentimento di essere inutile di fronte a tanto dolore; quella che il soggetto attua come strategia per evitare la solitudine, sortisce l’effetto contrario, finendo per generare l’altrui allontanamento (Fassino, 1996).

 

Solitudine e ritiro sociale nel paziente depresso

Un primo tratto dell’isolamento depressivo potrebbe dunque rintracciarsi in questa modalità distorta di comunicazione dei propri stati interni, unita alla limitata comprensione degli stessi da parte dell’altro che spesso ne è sopraffatto.

Tuttavia, prendendo spunto dagli approcci cognitivi alla depressione, è possibile riconoscere alcune delle caratteristiche del pensiero depressivo altrettanto passibili di indurre il soggetto all’isolamento e al ritiro sociale. Egli, infatti, tenderebbe a ritirarsi dalla vita poiché si percepisce come non all’altezza, carente e non desiderabile socialmente. Queste convinzioni, prevalentemente autocritiche, sottolineano quello che è il tema dominante del pensiero depressivo: la radicata certezza del proprio fallimento, inettitudine e di non essere meritevole d’amore.

Il negativismo del paziente depresso si rivolge non solo all’immagine di sé, ma anche al proprio futuro e al mondo circostante. Questi schemi giocano un ruolo fondamentale nella “scelta” di ritrarsi dalla socialità; se il soggetto attiva tali modalità cognitive nei contesti interpersonali, infatti, gli eventi saranno interpretati in modo da confermarne le convinzioni negative, innestando un circolo vizioso che diviene fattore di mantenimento del disturbo e delle sue conseguenze sul piano comportamentale, quali il ritiro sociale (Rainone, Ferrari, Polli, 2004).

Un approccio maggiormente descrittivo, che mira ad identificare i segni evidenti ed osservabili della patologia, indica la presenza, in corso di episodio depressivo, di una marcata diminuzione di interesse e piacere in quasi tutte le attività (American Psychiatric Association, 2013), aspetto non trascurabile nell’individuazione dei fattori che possono contribuire al ritiro sociale e dagli abituali contesti di vita e di relazione.

 

Differenza tra depressione e disturbi d’ansia

La depressione può essere distinta dai disturbi d’ansia per i suoi contenuti prevalenti. L’ansioso è maggiormente orientato su un versante dominato dal senso di minaccia e di potenziale esposizione al pericolo. Senza entrare nel merito di ciascuno dei singoli disturbi annoverati nelle classificazioni ufficiali, è possibile riferirsi all’ansia come a quella condizione di attivazione neurofisiologica con conseguenze complesse sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale che si manifesta in situazioni di pericolo (reale o immaginato) predisponendo il soggetto all’azione o alla fuga.

L’ansia diviene patologica quando si configura in comportamenti disfunzionali ed è eccessiva rispetto alla portata degli oggetti e situazioni che la elicitano; questi acquisiscono per il soggetto un significato talmente minaccioso da invalidarne il funzionamento. È in un simile contesto che emerge l’evitamento (e, in alcuni casi, il conseguente graduale isolamento) come strategia difensiva atta ad escludere le esperienze che, secondo il soggetto, sarebbero in grado di provocare l’avverarsi dei suoi timori e preoccupazioni: l’incontro con l’oggetto della fobia, nel caso di fobia specifica; l’esposizione di sé in contesti socio-relazionali in cui si è potenzialmente esposti al giudizio degli altri, nei casi di ansia sociale; le modificazioni psicofisiche dell’attacco di panico o, ancora, gli avvenimenti pessimistici temuti da chi presenta una condizione di ansia generalizzata, e così via.

 

Il ritiro sociale nei disturbi di personalità schizoide e schizotipico

In altri casi ci si può trovare di fronte ad una forma di ritiro sociale tipica delle alterazioni della personalità, ovvero di quella “struttura” che caratterizza ciascun essere umano in maniera più o meno stabile a partire dalla prima età adulta e ne determina pensieri, comportamenti e stili relazionali. Proprio questi ultimi si manifestano con modalità particolari, difformi dalle norme sociali convenzionali.

Basti pensare ai profili di personalità schizoide e schizotipico i quali tendono a non intrattenere relazioni interpersonali poiché appaiono scarsamente interessati dalle interazioni e dal contatto con gli altri. Non si tratterebbe, però, di un evitamento prevalentemente funzionale a proteggersi dal mondo esterno o dal passare al vaglio dell’altrui giudizio, come avviene nei casi con componenti ansiose/evitanti. La caratteristica preminente alla base del ritiro sociale schizoide e schizotipico sembrerebbe essere l’indifferenza e il disinteresse nei confronti della socialità.

Uno studio condotto da Westen, Shedler, Bradley e DeFife (2012) ha riconosciuto la personalità schizoide-schizotipica tra i prototipi di personalità di tipo internalizzante, fornendone una descrizione che include carenze nelle modalità di comportamento sociale, peculiarità nei modi, nel pensiero e nel linguaggio utilizzato, tanto da percepirsi come degli outsider. Secondo la descrizione emersa dallo studio sopra citato, tali personalità appaiono inoltre difficilmente in grado di interpretare in maniera corretta il comportamento delle altre persone nonché scarsamente capaci di comprendere e descrivere se stessi; presentano limiti nella capacità di sperimentare l’intera gamma di emozioni, tendendo a suscitare anche negli altri risposte di distacco e noia.

 

Il ritiro sociale nella personalità evitante

Vergogna, bassa autostima, timore dell’umiliazione, sembrano invece essere alcuni degli elementi dominanti che contraddistinguono la personalità evitante. Sebbene tale quadro personologico sia apparentemente affine al disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale), si tratta di una condizione maggiormente pervasiva, strutturale, costante, in cui l’imbarazzo provocato dall’esposizione di sé non è legato al contesto, al contrario, rappresenta il sottofondo emotivo di una personalità che risente di un forte senso di solitudine. In altre parole:

l’evitante ha una rappresentazione di diversità e/o di inadeguatezza personale che vive come uno stato di fatto, più o meno doloroso, una realtà con cui confrontarsi nella vita; ha la percezione stabile dell’impossibilità a condividere e/o appartenere al mondo relazionale e sociale (Popolo, Dimaggio, Marsigli & Procacci, 2007, p. 318).

Come anticipato, dunque, la difficile comunicabilità di simili esperienze interiori può creare una distanza significativa tra soggetto e mondo esterno; non sempre, infatti, l’altro è predisposto ad accogliere la sofferenza e comprenderla nella sua interezza e autenticità, soprattutto quando si tratta di una forma di dolore che incontra ancora molte resistenze: il dolore psichico.

La condizione dell’uomo, del resto, è intrisa di paradossi e tra i più rilevanti vi è quello che lo vede sempre in bilico tra l’essere da solo e l’essere con l’altro. Nei casi di ritiro sociale e solitudine psicopatologica, siano questi egosintonici o fonte di ulteriore disagio e isolamento per il soggetto, l’instaurarsi di una relazione psicoterapeutica può essere la chiave per offrire al paziente una nuova dimensione relazionale: l’esperienza di un altro realmente disposto a mettersi in ascolto, a rendere il dolore comunicabile e a conciliare i termini di quel paradosso tipicamente umano che ci vede sempre oscillare tra gli estremi di relazionalità e soggettività. Per dirla con Safran (1993, pp. 14-15):

In life we must all inevitably negotiate the paradox that by the very nature of our existence we are both alone and yet inescapably in the world with others. We are alone at a fundamental level […] Although we are able to share many things with other people, many of our most important experiences will never be shared. At the same time we are, by the very nature of our existence inescapably tied to others.

Resistenza non violenta e nuova autorità: un nuovo modello per gestire i comportamenti violenti e conflittuali nelle relazioni

Il concetto di Resistenza non violenta implica uno stravolgimento del modo di rispondere e affrontare le situazioni problematiche: l’intento diventa resistere, affrontare e vincere la violenza senza esserne travolti o adottarla a propria volta ma utilizzando la determinazione della non violenza e della presenza per interrompere l’escalation e comunicare il proprio desiderio di esserci e aiutare. L’elemento centrale su cui si concentra l’intervento non sono quindi i figli o i ragazzi problematici ma i genitori e gli educatori: in altre parole per cambiare i “piccoli” bisogna cambiare i “grandi”, o meglio il loro modo di relazionarsi con coloro che devono aiutare a crescere.

Giuseppe Murelli, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Perchè è stato ideato il modello della Resistenza non violenta?

In un momento in cui certi valori morali e certi modelli educativi stanno vivendo una profonda crisi che mette pesantemente in discussione concetti cardine di una società civile come l’autorità, la genitorialità e il senso di appartenenza a una comunità, lasciando spazio a fenomeni sempre più preoccupanti come bullismo, assenza di rispetto, comportamenti arroganti o prevaricatori e autoaffermazione sfrenata di sé, é più che mai necessario fermarsi e riflettere su ciò che sta avvenendo per capire quale sia il problema e trovare il modo migliore, tra quelli attuabili, per risolverlo. Di questa necessità sono ben consapevoli genitori, insegnanti e educatori.

Il modello di Haim Omer, basato sui concetti di resistenza non violenta, nuova autorità, presenza, àncora e cura vigile, potrebbe rappresentare un’opzione degna di attenzione. A prima vista potrebbe sembrare un modo troppo ambizioso e ideale di intendere l’educazione e l’approccio ai figli, alle famiglie, ai pazienti e, più in generale, alle persone. Dopo aver preso confidenza coi pilastri che lo sorreggono, però, sono certo che concorderete con me nel ritenerlo un insieme di buone pratiche, adatto ad ogni tipo di interazione sociale e, diversamente da come può apparire a prima vista, non così difficile da realizzare con un po’ di impegno, di costanza e di aiuto reciproco.

 

L’autore del modello della Resistenza non violenta

Haim Omer, nato in Brasile da genitori ebrei polacchi (entrambi sopravvissuti dei campi di concentramento), è attualmente docente di Psicologia all’Università di Tel-Aviv. Nel corso dei suoi quarant’anni di carriera come Psicoterapeuta, ricercatore accademico e insegnante ha pubblicato oltre settanta lavori riferiti alla psicologia della demonizzazione, alla “presenza” genitoriale, alla Resistenza Non Violenta (Non Violent Resistance, NVR) in famiglia, nella scuola e nella comunità, alla Nuova Autorità (New Authority, NA) e alla funzione di “àncora” in quanto ponte tra i concetti di autorità e attaccamento.

La sua storia familiare ha suscitato in lui un profondo interesse per le strategie non violente come risposta contro la forza bruta della violenza. L’approfondimento delle dottrine della resistenza non violenta (a partire da figure cardine come Gandhi e Martin Luther King) e la sua formazione in psicoterapia sistemica gli hanno permesso di costruire l’approccio psicologico, psicoterapeutico e relazionale della Nuova Autorità per il quale è conosciuto in campo internazionale.

Infatti, nel 2011 a Tel Aviv insieme a Irit Schorr-Sapir, psicologa clinica e direttrice della clinica Resistenza non violenta per ragazzi con ADHD, ha fondato la Scuola di Resistenza Non Violenta, considerata il luogo ufficiale di insegnamento, supervisione e promozione dell’approccio della Resistenza non violenta e della Nuova autorità per tutti i professionisti che lavorano nel campo della salute mentale (l’enfasi é posta sulla necessità di un contesto multidisciplinare).

Da anni tra le sue attività rientra anche il tenere lezioni e conferenze in tutta Europa sulla Resistenza non violenta e la Nuova autorità (e se vi capitasse l’occasione di poterlo sentire coglietela al volo perché é un ottimo oratore e tra l’altro parla un perfetto italiano!). Il suo modello, oltre a fornire strumenti importanti per intervenire nelle situazioni problematiche, si rivela essere, a mio parere, utile per sviluppare e coltivare delle “buone norme” di comportamento e relazione, utili in tutti i tipi di contesti.
I concetti e i metodi di trattamento sono stati implementati da dei team terapeutici e da centri di trattamento con sede in Israele, Germania, Svizzera, Francia, Austria, Paesi Bassi, Belgio, Inghilterra, Danimarca e Svezia e i risultati degli studi controllati condotti sono stati pubblicati su diverse riviste specializzate.

Tra i suoi otto libri, molti dei quali tradotti in 8 lingue [inglese, tedesco, giapponese, ebreo, francese, portoghese, olandese e, ora finalmente, italiano], é importante ricordare “The new authority: family, school, and community” (2010) [di questo volume è ora disponibile la versione italiana “La nuova autorità: famiglia, scuola e comunità”], “The psychology of demonization: reducing conflict and promoting acceptance”, scritto con Nahi Alon e con una premessa del Dalai Lama, (2006), “Non-Violent Resistance: a new approach for violent and self-destructive children” (2004) e “Parental presence: reclaiming a leadership role in bringing up our children” (2000).

Per citare uno dei tanti esempi di strutture che stanno facendo propri i metodi della Resistenza non violenta si può guardare al lavoro del centro ospedaliero regionale universitario di Saint-Eloi a Montpellier in Francia. Del lavoro innovativo di questo centro (che si occupa di curare non i “bambini tiranni” ma le loro vittime, i genitori [cit.]) ha recentemente scritto anche il Corriere della Sera, costringendoci a prendere atto dell’attualità di questo “nuovo” approccio e di come si stia diffondendo sempre di più anche tra i nostri “vicini di casa”.

 

La Resistenza Non Violenta

La Resistenza Non Violenta è un concetto preso in prestito dal contesto socio-politico.
Nell’ambito della salute mentale, la Resistenza non violenta identifica l’approccio che lo psicologo Haim Omer ha sviluppato in Israele durante il suo lavoro con le famiglie e che riguarda la cura interpersonale a tutti i livelli (genitoriale, psicologica, medica e educativa): si rivolge quindi a chiunque svolga una funzione di caregiver.

L’approccio nasce come un sistema innovativo di terapia volto al superamento della crisi dell’autorità genitoriale e delle difficoltà che i genitori del XXI secolo incontrano quando devono confrontarsi coi comportamenti ribelli o addirittura aggressivi e violenti dei figli. Col tempo, però, si é esteso sempre di più e oggi può essere applicato a un ambito sempre più vasto e vario, fino a comprendere la salute mentale (tra cui ad esempio il trattamento di disturbi d’ansia, ADHD, dipendenza da internet, sindrome di Asperger, disturbi esternalizzanti, abuso di alcol) e alcune aree della società (come la scuola in tutti i suoi componenti, le famiglie adottive e affidatarie e le diverse realtà educative e sociali), agendo sia sulle crisi che, soprattutto, sulla prevenzione.

Il concetto di Resistenza non violenta implica uno stravolgimento del modo di rispondere e affrontare le situazioni problematiche: l’intento diventa resistere, affrontare e vincere la violenza senza esserne travolti o adottarla a propria volta ma utilizzando la determinazione della non violenza e della presenza per interrompere l’escalation e comunicare il proprio desiderio di esserci e aiutare. L’elemento centrale su cui si concentra l’intervento non sono quindi i figli o i ragazzi problematici ma i genitori e gli educatori: in altre parole per cambiare i “piccoli” bisogna cambiare i “grandi”, o meglio il loro modo di relazionarsi con coloro che devono aiutare a crescere.

I principi su cui si basa la Resistenza non violenta elaborata dal gruppo di Omer sono:
– Totale astensione da qualsiasi forma di violenza (fisica, emotiva, psicologica)
– Utilizzare strategie per prevenire o interrompere le escalation, comunicando così la propria presenza: la presenza é la componente più importante del caregiving e le azioni volte a innescare o accrescere l’escalation di fronte alla violenza, ai comportamenti autodistruttivi o all’ansia dei figli vanno nella direzione esattamente opposta
– Autocontrollo: l’unica cosa che possiamo sperare di controllare, forse e solo in parte, siamo noi stessi, perciò il modo che abbiamo per cambiare certe dinamiche é partire dal cambiamento di sé
– Rimandare la reazione: posticipare permette di non farsi guidare dagli impulsi e dal comportamento emotivo, in modo che tutti i partecipanti possano agire lucidamente (come Haim Omer dice saggiamente nel libro “La nuova autorità: famiglia, scuola e comunità” la cosa migliore da fare è “battere il ferro quando è freddo”!)
– Persistere: l’obiettivo non é vincere ma mostrare presenza, comunicare in modo chiaro il proprio proposito e il proprio desiderio di rimanere e continuare!
– Cercare supporto: così come il singolo individuo non può contrastare a lungo la violenza, allo stesso modo, da sola, una famiglia non può riuscire a gestire una situazione difficile. É necessario costruire una rete di supporto fatta dal maggior numero possibile di membri della famiglia, di amici e di conoscenti (“si passa dall’individualismo e dall’isolamento al supporto e all’unione della comunità”)
– Trasparenza: non si dovrebbe mai intraprendere un’azione alle spalle della persona coinvolta (incluso in figlio violento) ma comunicare apertamente cosa si farà e in che modo
– Fine del segreto: bisogna rompere il vincolo di omertà su cui si basa ogni forma di prevaricazione e violenza (incluso il bullismo!). Questi comportamenti si nutrono della vergogna e del concetto di privacy come di un diritto assoluto e inalienabile ma, e questo è uno dei punti fondamentali del modello di Omer, “le regole della privacy non valgono mai in caso di violenza, poiché essa fiorisce proprio nel segreto”.

Oggi la Resistenza non violenta è ben conosciuta e praticata in molti Paesi, soprattutto Europei.
Gli studi condotti (ad esempio Lavi-Levavi, Shachar, & Omer, 2013 e Weinblatt & Omer, 2008 in Israele; Oleffs, von Schlippe, Omer, & Kritz, 2009 in Germania; Newman, Fagan, & Webb, 2014 in Inghilterra; van Holen, Vanderfaeillie, & Omer, 2015 in Belgio) mostrano buoni risultati di efficacia in contesti sociali e culturali diversi, a fronte di un tasso di drop-out variabile tra il 5 e il 25%. In particolare si rileva la riduzione della violenza, di altri comportamenti esternalizzanti e delle escalation, la riduzione del senso di impotenza, l’aumento della capacità di esercitare la presenza e la cura vigile (anche in contesti in cui tali comportamenti sembravano ormai irrealizzabili a causa della continua presenza di conflitti e del loro autoperpetuarsi) e il miglioramento dello stato emotivo di tutti i partecipanti coinvolti.
Sulla Resistenza non violenta sono inoltre state organizzate dozzine di conferenze locali e quattro conferenze internazionali a cui hanno partecipato migliaia di persone.

 

La Nuova Autorità

Il concetto di Nuova Autorità nasce dalla constatazione che i genitori e gli insegnanti di oggi faticano ad affrontare il proprio ruolo e vivono uno stato di impotenza e, a volte, perfino di disperazione nei confronti dei figli e degli studenti, sempre più tiranni e senza regole, nei confronti dei quali non sanno come comportarsi. Questa nuova realtà pone una domanda, sia etica che pratica, su come si è arrivati a questo punto e su come sia possibile aiutare queste figure che hanno perso ogni forma di autorità/autorevolezza.
Haim Omer e il suo Team dello Schneider Children’s Medical Centre di Israele, capitanato da Idan Amiel, rispondono a questo bisogno creando il concetto di “Nuova Autorità” (NA). Essa, basandosi sui principi della Resistenza non violenta, permette a genitori e insegnanti (ma si rivolge in realtà a tutta la società) di superare in modo efficace i comportamenti distruttivi e autodistruttivi dei ragazzi e vincere il senso di impotenza.

Per elaborare il concetto di Nuova autorità bisogna innanzitutto riflettere su quanto successo in passato: questo nuovo modello inizia, infatti, a definirsi guardando i passati fallimenti dei modelli di autorità.

Negli anni ‘60-‘70 l’autorità rigida e controllante era stata riconosciuta come il problema (la causa di gran parte dei problemi emotivi e comportamentali dei bambini): si è quindi tentato di costruire un modello educativo basato sull’idea che i bambini dovessero crescere con amore, comprensione e incoraggiamento per sviluppare la propria autostima e che il seme del proprio sé avrebbe potuto crescere e svilupparsi in modo ottimale solo attraverso libertà e assenza di costrizioni (modello dell’educazione aperta). In questo modo si pensava che i nuovi adulti avrebbero mantenuto questi valori e creato una società affettiva, prosociale e libera. A questo proposito non è possibile non ricordare i contributi di Benjamin Spock (1946) e Fronçoise Dolto (1992), i cui consigli riguardo l’importanza del permissivismo e della necessità di trattare (giustamente) i bambini come persone hanno rappresentato un faro per molti genitori e educatori di quegli anni.

Gli studi successivi, però, hanno evidenziato il naufragio di queste speranze e risultati del tutto diversi: la sola crescita spontanea con assenza di limiti e di presenza genitoriale porta a una soglia più bassa di frustrazione (con conseguente stima di sé minore), più alto abbandono scolastico e di gruppo (poiché i ragazzi non hanno mai dovuto imparare ad adattarsi), maggiore aggressività e maggior rischio di dipendenza da sostanze. Per sviluppare l’autostima non è infatti sufficiente ricevere un rispecchiamento positivo dagli altri ma è anche necessario fare l’esperienza di superare delle difficoltà (che nell’educazione aperta vengono invece eliminate di default) per potersi dire “Ce l’ho fatta! Sono capace!”. La questione da risolvere diventa quindi come esporre il bambino alle esperienze di necessità in modo costruttivo e non distruttivo. Inoltre, la distruzione della vecchia autorità in favore di una nuova più amorevole e permissiva ha in sostanza privato le figure di autorità anche di qualunque autorevolezza. L’altro obbiettivo da raggiungere è, di conseguenza, riuscire a costruire un nuovo modello di autorità che recuperi l’autorevolezza senza includere l’autoritarismo.

La Nuova autorità si sviluppa dalla consapevolezza di questi fallimenti e dalla delusione che ne é conseguita e ne prende le distanze ergendosi sui pilastri che derivano dalle seguenti distinzioni:

– Vecchia autorità VS Nuova Autorità
La vecchia autorità si rivela essere un sorvegliante costante a cui ci si rivolge (o meglio che incombe su di noi) quando si è già commesso un errore e di cui bisogna avere paura perché ci punirà. La Nuova autorità rappresenta invece una presenza continua e rassicurante che al tempo stesso educa, aiuta a crescere e supervisiona in un clima di vicinanza, supporto e comprensione.

– Figura dell’autorità distante dalla nuova generazione VS Presenza decisa, vicinanza ai ragazzi e cura vigile
La vecchia autorità si basa sul mantenimento della distanza e verrebbe persa se questa diminuisse, quindi la figura dell’autorità deve stare sopra, osservare dall’alto ed essere irraggiungibile. La Nuova autorità si realizza invece con la presenza e la vicinanza, interessandosi con rispetto e senza invadenza di ciò che succede fino a quando non ci sono segni di problemi su cui intervenire (vedi in seguito).

– Controllo e cieca obbedienza VS Autonomia, cura vigile e àncora (vedi in seguito)
La vecchia autorità mira a crescere bambini obbedienti che possono essere controllati e forzati a comportarsi in un certo modo. La Nuova autorità aspira a rendere i bambini autonomi senza farli sentire abbandonati e ad insegnare loro a collaborare; per far questo il genitore non deve essere una figura “che controlla” ma una presenza che supervisiona attentamente quello che succede.

– Controllo VS Autocontrollo
La vecchia autorità mira ad avere il controllo sull’altro. La Nuova autorità si basa invece sulla consapevolezza che il controllo dell’altro sia qualcosa di irrealizzabile e che l’unico modo per cambiare le cose sia cambiare se stessi: il controllo diventa quindi un autocontrollo nel decidere come reagire e come non innescare l’escalation.

– Conflitto come gara da vincere per arrivare alla sconfitta dell’altro e affermare la propria superiorità VS Superare i conflitti fuori da una logica competitivo/agonistica
Nella vecchia autorità il conflitto è visto sempre e solo come un litigio, uno scontro tra due persone che può concludersi solo con la vittoria di uno e la sconfitta dell’altro; in tal senso vincere il conflitto significa dimostrare di avere potere. La Nuova autorità, invece, vede il conflitto come una situazione comune in cui due persone hanno obiettivi o strategie diverse: per risolvere un conflitto è quindi necessario mettersi d’accordo e trovare, quando possibile, un punto in comune. In tal senso non solo è inutile (se non addirittura dannoso) scontrarsi e arrivare a litigare, ma il conflitto può perfino diventare una risorsa, in quanto occasione per collaborare, scambiare opinioni, trovare nuove soluzioni insieme e comprendere meglio il punto di vista dell’altro. Lo scopo è risolvere il problema, non vincere una gara o affermare la propria superiorità.

– Gerarchia piramidale rigida, chiusura della famiglia al mondo esterno e forte senso del privato VS Apertura, trasparenza, comunicazione e coinvolgimento dell’altro all’interno del mondo intrafamiliare attraverso la ricerca di aiuto e sostegno esterno per eliminare l’isolamento.
La vecchia autorità si caratterizza per il limite rigido posto intorno a tutte le questioni che la riguardano (il messaggio trasmesso è “ciò che succede in casa mia riguarda solo me e nessuno deve immischiarsi”). La Nuova autorità si basa invece sui concetti di apertura, trasparenza e ricerca di sostegno anche al di fuori delle mura domestiche, abbattendo i concetti di vergogna e privacy nelle situazioni connesse alla violenza: il concetto di immunità allo sguardo altrui è pericoloso e può portare agli abusi di autorità.
Mentre la vecchia autorità trova la propria legittimazione nella persona stessa (“io sono il capo e tu un subalterno che deve obbedire”) la Nuova autorità deriva, invece, proprio dalla rete sociale che la sostiene e di cui si è un rappresentante (si abbandona l’“io” in favore del “noi”).
Lo stesso vale in ambito scolastico, dove la supervisione degli insegnanti non è limitata alle aule e alla sala professori ma si estende a tutti gli spazi della scuola, inclusi quelli “off limits” come cortili, bagni e tragitto casa-scuola.

– Reazioni immediate a qualunque provocazione e a qualunque comportamento problematico VS Rimandare le proprie reazioni
La vecchia autorità segue la regola della fisica dell’azione-reazione prevedendo di reagire immediatamente e, spesso, in modo aggressivo e poco ragionato, portando così all’escalation. La Nuova autorità propone invece di posticipare la reazione per evitare reazioni impulsive (sia del genitore che del ragazzo) e fermare l’escalation

– Autorità onnisciente, onnipotente e infallibile VS Autorità fallibile e che può imparare dagli errori
La vecchia autorità prevede una figura dell’autorità infallibile, che non può mai essere messa in discussione (nel cui caso bisognerebbe reagire immediatamente e rigidamente) e che non può mai ammettere di aver sbagliato: deve proseguire sempre per la strada già intrapresa, non scendere a compromessi con i “sottoposti” e non tollerare eventuali critiche o consigli. La Nuova autorità, al contrario, recupera lo “status di essere umano” della figura dell’autorità, che, proprio come ogni essere umano, può sbagliare, ammettere di aver sbagliato, rimediare, imparare dai propri errori e perfino arrivare a chiedere scusa al figlio, cercando insieme a lui una soluzione o un modo diverso per gestire la situazione

– Errore irrimediabile a cui deve seguire una punizione VS Errore rimediabile
Questo punto deriva da quello precedente. La vecchia autorità si focalizza sull’intolleranza dell’errore, a cui deve sempre seguire una punizione rigida e che non può mai essere completamente rimediato. La Nuova autorità, invece, sottolinea a gran voce la possibilità che il ragazzo possa, anche di propria iniziativa, rimediare ai propri errori e riguadagnare la fiducia e il rispetto degli altri. In una visione in cui l’adulto è il primo ad essere consapevole e ad accettare di poter sbagliare e poter rimediare ai propri errori, il ragazzo imparerà di conseguenza di avere a propria volta questa possibilità.

– Identificazione tra soggetto e comportamento VS totale distinzione tra soggetto (mai in discussione e sempre amato e rispettato) e comportamento (da osteggiare in tutti i modi leciti sempre e ad ogni costo)
La vecchia autorità quando agisce non distingue tra soggetto e comportamento: si attiva in modo rigido colpevolizzando la persona e giudicandola nella sua interezza. La Nuova autorità, invece, distingue le due parti e interviene in modo anche molto determinato sul comportamento problematico ma non giudica né mette mai in discussione la persona che lo commette: seguendo il vecchio detto per cui “si dice il peccato ma non il peccatore” si agisce sul comportamento comunicando in modo chiaro (sia a livello verbale che a livello non verbale) come sia quello l’elemento problematico e non la persona che lo sta mettendo in atto. Il ragazzo, in questo modo, ha sempre la consapevolezza di essere amato, accolto e non giudicato, imparando che può rimediare alle sue azioni e che il suo valore di persona non è mai messo in pericolo. Questo atteggiamento non giudicante elimina ogni rischio di cadere nell’errore di umiliare l’altro, evitando così di spingerlo a difendere il suo orgoglio ad ogni costo.

Questo cambiamento di prospettiva permette anche di vedere e concentrarsi su problemi che in passato sono stati in gran parte ignorati, sottovalutati o normalizzati come “cose che accadono, che sono parte del normale essere delle cose, di cui non c’è bisogno di preoccuparsi o contro cui non si può fare niente”.

Esempi importanti sono la violenza familiare tra fratelli, quella dei figli sui genitori e il bullismo (a cui viene dedicato ampio spazio nel libro “La nuova autorità”) che sempre più si stanno riconoscendo come fattori critici per una crescita e uno sviluppo emotivo e psicologico equilibrati.

Allo stesso tempo il modello si è rivelato efficace anche nel contesto psichiatrico e in quello manageriale. Per quanto riguarda la psichiatria segnalo in particolare il progetto SPACE, che unendo lo stile e i contenuti della CBT ai principi della Resistenza non violenta e della Nuova autorità si rivolge ai genitori di ragazzi con disturbi d’ansia: il programma si pone l’obbiettivo di modificare il comportamento dei genitori e il loro modo di relazionarsi all’ansia e ai comportamenti dei figli, anziché di cambiare direttamente i modelli comportamentali, cognitivi ed emotivi dei ragazzi. Buoni risultati sono stati ottenuti, tra gli altri, anche nel trattamento dell’ADHD, dell’abuso di sostanze e dei disturbi esternalizzanti.

Il modello di Haim Omer, che all’apparenza può sembrare limitato al solo ambito pedagogico, si rivela invece essere una forma mentis, un modo di relazionarsi in modo efficace, funzionale e utile: può così essere esteso a tutto ciò che riguarda le relazioni sociali.

 

La presenza e il concetto di àncora

La Nuova autorità si basa sui principi della Resistenza non violenta e trova i suoi caposaldi nei concetti di presenza e di àncora. Come Haim Omer ricorda sempre nei suoi libri e nelle sue conferenze, “nelle situazioni quotidiane di impulsività, violenza e conflitto i genitori non sono in grado di riflettere sui complessi fattori psicologici in gioco ma hanno bisogno di strategie semplici, rapide e pratiche per gestire quello che succede”. Su questo principio ha elaborato i suoi modelli e le strategie da mettere in atto.

La presenza genitoriale é forse il più potente e il più naturale messaggio che un genitore può offrire a un figlio, e agisce in modo bidirezionale sia sul figlio (“io sono qua e qua rimango, sono il tuo genitore, tu sei mio figlio e non puoi cancellarmi o divorziare da me perché ti voglio bene e non posso smettere di volertene”) che sul genitore stesso (che in questo modo sente di essere presente e di avere un ruolo e un impatto sul figlio).
Nel modello elaborato da Omer vengono individuate e insegnate varie strategie (ad esempio il sit-in o la ronda telefonica) per imparare a ritrovare, aumentare e comunicare la propria presenza resistendo alle escalation (che sono il segnale della diminuzione di presenza e, se non gestite, possono ridurla sempre di più) e separando le parti positive del ragazzo da quelle negative, riconoscendole entrambe e permettendo a quelle positive di essere viste, avvalorate e, così, di espandersi sempre di più.

Il concetto di àncora trova le sue basi nella teoria dell’attaccamento e scaturisce naturalmente da questo nuovo modo di intendere l’autorità.
L’obiettivo del genitore nel tempo é cambiato sempre di più: da far crescere un bambino ben educato a far crescere un bambino sereno offrendogli una struttura stabile e positiva con cui rapportarsi a lui e agli altri per poter crescere libero e responsabile.

Questo cambiamento fa sorgere la domanda “come posso creare un rapporto positivo col bambino in modo che possa crescere bene?”. La risposta a questa domanda trova le basi nella teoria dell’attaccamento con le funzioni genitoriali di:
– riparo sicuro, ovvero accettazione incondizionata da parte dei genitori, in cui il bambino può sempre trovare riparo sicuro e braccia che lo stringono per ricaricarsi quando ne sente il bisogno;
– base sicura, ovvero la percezione di sentirsi già al sicuro col genitore e la certezza che lui c’è e ci sarà sempre, perciò si può andare ad esplorare il mondo sapendo che si potrà sempre tornare indietro se si vorrà farlo (“vai ad esplorare che io resto qui se avrai bisogno di me”).
Queste due funzioni insieme rappresentano l’immagine del porto sicuro, a cui il ragazzo sa di poter sempre tornare perché il porto protegge e ripara ma è anche sempre aperto al mare per ricevere le navi.

Tuttavia questo non é sufficiente a rendere un porto sicuro!
Per diventarlo è necessario introdurre all’interno della teoria dell’attaccamento anche l’autorità, fino ad ora non considerata nell’equazione. L’autorità, rappresentata da un’àncora con catena regolabile, permette al genitore di garantire le altre funzioni necessarie al figlio:
– fare in modo che le piccole navi che stanno pian piano imparando a navigare possano esplorare con una certa libertà ma con un aiuto che eviti eventuali scontri l’una contro l’altra
– fornire il sostegno necessario durante le piccole tempeste
– dare un limite oltre il quale esplorare diventa troppo pericoloso
– lasciare un’adeguata libertà di esplorazione aumentando, quando ragionevolmente possibile, la lunghezza della catena
– mantenere sempre la presenza, ma in un modo che il bambino non percepisce come intrusivo (la piccola nave non percepisce la tensione della catena dell’àncora, ma l’àncora rimane lì per tutto il tempo)
– rimanere saldi, senza farsi trascinare dai comportamenti del figlio, in modo da comunicare la propria presenza determinata e non dare il via a un’escalation (non solo per quanto riguarda la rabbia ma, ad esempio, per l’ansia: se un genitore va in ansia quando vede il proprio figlio in ansia, quest’ultimo vedendo la reazione del genitore potrebbe spaventarsi e quindi aggiungere altra ansia a quella che già sta provando) e, come un mitologico filo di Arianna, lasciare una guida che possa permettere di “ritrovare la strada di casa”.

In questo modo la teoria dell’attaccamento viene allargata e viene superato il limite della sola relazione diadica madre-bambino come unica relazione o relazione più importante, prospettando invece un rapporto come minimo triadico e, meglio ancora, n-adico in cui tutta la rete di sostegno possa rappresentare tanti piccoli ganci a cui il bambino può aggrapparsi quando ne sente il bisogno e che al tempo stesso possono frenarne gli sviluppi problematici e porre dei limiti. Una certa dose di limiti è infatti necessaria per uno sviluppo ottimale. Questa nuova visione sottolinea come la teoria dell’attaccamento sia diventata una “teoria sentimentale” poiché ha sottolineato le qualità di amorevolezza, dolcezza e sensibilità ma ha fatto sparire la forza e la saggezza, ovvero l’autorità. Chi protegge, invece, deve essere sì amorevole, sensibile e accudente ma anche forte e saggio, ritrovando la propria autorità.

L’obiettivo proposto a genitori e educatori é quello di imparare ad essere un’àncora sempre più funzionale, in modo che il ragazzo sia consapevole della presenza, della sicurezza e della disponibilità dell’àncora mentre al tempo stesso può sentirsi libero, senza sentire la tensione della catena fino a quando non si spinge troppo oltre. Per riuscire in questo intento lo strumento consigliato é la cura vigile, l’abilità di rimanere in allerta (con un orecchio sempre in ascolto e pronto a captare gli eventuali pericoli) ma in modo graduale, attraverso un equilibrio dinamico che oscilla tra diversi livelli di vigilanza in base ai segnali di pericolo effettivamente rilevati: dall’attenzione a tutto ciò che succede intorno al figlio a quella focalizzata a uno specifico elemento alla protezione vera e propria.
Oltre il caso singolo e la singola famiglia: verso l’infinito e oltre!

Prendo spunto dal motto di Buzz Lightyear, personaggio immaginario dei film di animazione “Toy Story” (realizzati da Pixar Animation Studios e distribuiti da Walt Disney Pictures), per parlare di come idealmente, ma c’é da augurarsi che lo diventi sempre di più anche concretamente, il modello di Haim Omer non miri a risolvere solo lo specifico problema di quella persona, di quella famiglia o di quella comunità, ma abbia come obiettivo un sogno ben più grande, molto ambizioso, quasi visionario e folle: il coinvolgimento dell’intera società in un cambiamento generale che permetta la convivenza pacifica.

In quest’obiettivo, quasi ideale, posto come traguardo da raggiungere coi concetti di Resistenza non violenta e Nuova autorità, mi sembra quasi di ritrovare le parole che il grande Giacomo Leopardi ha scritto in quella che viene considerata la sua opera postuma, “La ginestra o il fiore del deserto”. Così come il deserto rappresenta la solitudine arida e impotente di fronte alla sofferenza e a un destino di fine e morte certa, così il singolo, la famiglia e la comunità, se lasciati da soli, possono ben poco di fronte allo sbando a cui oggigiorno si sta assistendo sempre di più. Eppure, così come la ginestra può ingentilire l’arido deserto resistendogli e inondandolo con il suo profumo, allo stesso modo la società civile può resistere alle spinte deviazioniste, prevaricatrici e destabilizzanti al suo interno preservando i valori democratici e sociali: una sfida che sembra quasi titanica ma che, a conti fatti, sembra invece raggiungibile e “quasi a portata di mano” se si riesce a rinunciare e superare i vecchi concetti di “resistenza” e “autorità”.

[l’umanità] Costei [la natura] chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fora in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.

(vv. 126-144)

Così come tutti gli uomini sono uniti, schierati, alleati contro la natura matrigna, allo stesso modo non si possono ottenere risultati davvero significativi contro la violenza e le dinamiche innescate dai valori della “vecchia autorità” senza cooperare: serve una collaborazione che comprenda la società in tutti i suoi livelli, in tutte le sue parti, un’armonia unisona che, come la “social catena” Leopardiana, possa permettere di agire in modo sincrono per ottenere, grazie a questa solidarietà, l’obiettivo comune desiderato.

Sebbene quindi i piccoli (in realtà già grandi e, a volte, difficili da realizzare) interventi nelle piccole realtà siano da apprezzare, incentivare e rafforzare (sono le indispensabili micce da cui il processo può cominciare), é solo con l’attivazione generale e la mobilitazione dell’intera società che il traguardo potrà essere raggiunto. Questo é il grande sogno che Haim Omer sembra, a mio parere a ragion veduta, voler trasmettere.

Una “piccola vittoria” in questa direzione è già stata ottenuta con il programma “City Without Violence” attivato in Israele per combattere i comportamenti antisociali, la violenza (soprattutto giovanile), la delinquenza e i crimini.
Risultati come questo dovrebbero incoraggiarci a credere nella possibilità di realizzare questo obiettivo e a risvegliare dentro di noi la volontà, la determinazione e l’impegno per farlo davvero.
Il logo della resistenza non violenta: quando un’immagine dice più di mille parole

Un cerchio fatto di persone che rappresenta l’importanza della comunità e di ogni individuo che la compone

La figura della nuova autorità è parte integrante della comunità ma offre anche un punto di appoggio per chi dovesse averne bisogno

Il cerchio di persone forma anche un occhio attento che rappresenta l’importanza del coinvolgimento degli altri e della cura vigile

Il cerchio blu rappresenta la nostra speranza che questo concetto si diffonda in tutto il mondo.

 

Conclusioni

Mi si permetta a questo punto un commento personale conclusivo.

Il modello di Haim Omer, basato sui principi della Nuova autorità e della Resistenza non violenta, si propone come un approccio rivolto non solo alle famiglie problematiche in cui si manifestano problemi di violenza o problemi legati alla genitorialità ma anche a tutte le famiglie in generale e a tutte quelle persone che si trovano, per lavoro o per diletto (ad esempio psicologi, insegnanti, educatori, babysitter, catechisti, vicini di casa…), a contatto con bambini e ragazzi e che devono confrontarsi con loro, con le loro necessità, coi loro problemi e con le difficoltà che da tutto ciò conseguono.

È sicuramente vero, e questa rappresenta una delle obiezioni più frequenti quando viene presentato questo modello, che metterlo in pratica comporta un certo impegno e può essere percepito come un “qualcosa in più che deve essere imparato e fatto quando già ci si sente stanchi, sfiniti e scoraggiati”.

Effettivamente a prima vista potrebbe sembrare così. Come per ogni atteggiamento e comportamento, però, nulla obbliga a prendere in considerazione e attuare la Resistenza non violenta e la Nuova autorità come se fossero la risposta necessaria e la verità assoluta. Forse, però, sarebbe più saggio chiedersi cosa ci si perda e quale sarebbe l’utilità a non farlo. Con una modalità presa in prestito dal problem solving, ci si può chiedere quale alternativa, tra il continuare mestamente come si sta facendo e il provare con un briciolo di curiosità a cambiare qualcosa, abbia il maggior numero (in termini sia quantitativi che qualitativi e sia oggettivi che soggettivi) di benefici rispetto ai costi. Provando a riflettere un po’ più a fondo sulla questione sembrerebbe sempre di più che l’alternativa di non provare a utilizzare la Resistenza non violenta e la Nuova autorità risulti meno conveniente di quella di, quanto meno, provare a utilizzarla. Si è sempre in tempo a tornare indietro nel caso lo si ritenga necessario.

Per concludere, verrò probabilmente guardato con sospetto tra pochi attimi, quando azzarderò esageratamente (ma forse non così esageratamente) che vista la “semplicità” del metodo, la sua applicabilità, i livelli di provata efficacia e il possibile bacino di utenza a cui può rivolgersi, l’approccio di Haim Omer potrebbe essere considerato come potenzialmente utile e importante, in ambito psicologico, pedagogico e sociale, quanto si é rivelato essere, nell’ambito della salute mentale, il modello Marsha Linehan per il disturbo borderline di personalità. Saremmo quindi sciocchi e poco lungimiranti a lasciarci scappare una tale “pietra filosofale” (o peggio a lasciarla sfruttare, magari impropriamente, ad altri specialisti!).

Tristezze di Natale

Tutti noi ci siamo un po’ abituati alla ricorrenza festiva, e quelli che stanno lì a farci sapere che a loro il Natale mette tristezza e che odiano sentirsi obbligati a festeggiare si diradano: Il cinismo facile di chi non ci tiene a festeggiare è diventato altrettanto risaputo quanto il consumismo di chi si precipita a festeggiare.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 24 dicembre 2016

 

A Natale c’è più depressione, ma forse siamo oltre il Christmas Blues, la depressione natalizia. Indifferenti a tutto, abituati alle disregole di un mondo caotico, ormai anche il rifiuto triste e stizzoso dell’obbligo della gioia  programmata delle feste è diventato un anti-conformismo risaputo come le feste stesse. Intendiamoci: è sempre vero che a Natale, e durante le feste in generale, ci sia una depressione dell’umore. Però il fenomeno colpisce soprattutto chi è davvero clinicamente depresso.

Quindi tranquillizziamoci: è soprattutto un problema dei pazienti della mente. Il tempo libero lascia la testa libera di concentrarsi purtroppo sui propri guai. La scienza ci dice che ogni giorno circa tremila pensieri negativi circolano nel nostro cervello, e la lontananza dal lavoro rende più difficile non farci caso a questo nugolo di malinconie che ci tormenta l’anima. C’entra anche il clima invernale, lo scomparire del sole dietro il cielo di marmo della stagione fredda. Eppure, ripetiamolo, si tratta soprattutto di un problema psichiatrico, non di psicologia di massa.

Tutti noi, invece, ci siamo un po’ abituati alla ricorrenza festiva, e quelli che stanno lì a farci sapere che a loro il Natale mette tristezza e che odiano sentirsi obbligati a festeggiare diradano anch’essi. Il cinismo facile di chi non ci tiene a festeggiare è diventato altrettanto risaputo quanto il consumismo di chi si precipita a festeggiare. Ci siamo lasciati alle spalle le polemiche contro il tradizionalismo delle feste e il consumismo della loro mutazione capitalista. Viviamo il Natale così come viene, senza pensarci troppo, forse stanchi ed esausti. Abbiamo perfino iniziato a dire di nuovo “Buon Natale” invece dell’anodino “Buone Feste” e non per un rigurgito cristiano, ma forse perché davvero il cristianesimo ce lo siamo messi alle spalle, e solo i  terroristi ancora non l’hanno capito, e forse è questo secolarismo ormai così naturale che li fa impazzire, anche se ci chiamano “crociati”.

 

Christmas Blues e Disturbo Affettivo Stagionale

Invece chi soffre davvero di depressione si intristisce davvero di più a Natale. Gli americani lo chiamano Christmas Blues e anche noi ci chiediamo come mai la festa natalizia faccia così male all’umore. Gli psichiatri parlano di un vero e proprio disturbo affettivo stagionale. La sintomatologia depressiva ha inizio durante l’autunno, raggiunge il massimo dell’intensità durante il gelido inverno e si risolve, più o meno o anche del tutto, all’inizio della primavera. È una depressione un po’ strana. I depressi natalizi sono un po’ diversi da quelli che lo sono tutto l’anno. Questi ultimi dormono poco e mangiano ancor meno. I depressi del Natale invece dormono tanto e mangiano ancor di più. Insomma ingrassano.  Sono anche irritabili e possono piangere frequentemente. Dormono tanto eppure sono sempre stanchi e assonnati, hanno difficoltà di concentrazione, mancano di energia.

Gli scienziati non si sono mai bene raccapezzati con questa forma particolare di depressione. Alcuni dicono che dipende dalla chimica. Accanto alla serotonina tipicamente sballata del depresso, al depresso natalizio sballa pure la melotonina, sostanza associata al sole, come sappiamo. Il doppio sballo, ridotta serotonina e aumentata melatonina, influenzerebbe i ritmi biologici del sonno e della fame, rendendo tutto più caotico. C’è anche una cura specifica per le tristezze natalizie: è la Light Therapy, o fototerapia, e non poteva essere altrimenti. Contro il buio dell’inverno, ci vuole la terapia della luce. Essa prevede l’esposizione quotidiana, durante i mesi della depressione invernale, ad una fonte luminosa artificiale d’intensità pari a 10.000 lux, prodotta con apposite lampade dotate di filtri per i raggi ultravioletti. Si tratta di un’intensità di luce circa 20 volte superiore all’intensità media della luce in una stanza. Basta una settimana. Una settimana di luce artificiale in cui si riceve un quantitativo uguale e quello di un’intera estate. E forse anche questo è un po’ triste, ma va bene così.

A Natale si può diventare troppo consapevoli della propria solitudine, o al contrario della schiavitù dei legami familiari. Alcuni si deprimono perché il Natale è uno stimolo a rimuginare sull’inadeguatezza della propria vita, soprattutto in chi tende al vittimismo e all’autocommiserazione. Altri ancora diventano ansiosi e preoccupati a Natale a causa della pressione, sia commerciale che auto-indotta, verso gli acquisti con il rischio di spendere troppo per i regali e incorrere in debiti crescenti. E poi ci sono quelli che dicono di temere il Natale a causa dell’obbligo implicito di dover incontrare familiari, amici e conoscenti. Preferirebbero evitare e non frequentarli. Questi anti-conformisti dell’obbligo natalizio  paiono in diminuzione, però.

Infine, e questi sono tanti invece e aumentano sempre di più, molte persone si sentono sole a Natale perché hanno subito la perdita di persone care o dei loro posti di lavoro. E hanno ragione. Forse è soprattutto a questi ultimi che dovremmo essere più vicini. Buon Natale a tutti.

Terapia di gruppo online per combattere la bulimia

I ricercatori della University of North Carolina hanno lanciato un nuovo tipo di sperimentazione clinica per confrontare l’efficacia della terapia di gruppo online con la classica terapia di gruppo per il trattamento della bulimia nervosa.

Mariagrazia Zaccaria

 

Circa otto anni fa i ricercatori della University of North Carolina a Chapel Hill hanno lanciato un nuovo tipo di sperimentazione clinica per confrontare l’efficacia della terapia di gruppo online (distribuita attraverso sessioni di chat di gruppo), con la classica terapia di gruppo “vis à vis” per il trattamento della bulimia nervosadisturbo alimentare caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, associato ad atti compensatori come il vomito autoindotto, abuso di lassativi o eccessivo esercizio fisico.

I risultati dello studio mostrano che questa terapia di gruppo online può essere efficace esattamente quanto la terapia di gruppo “vis à vis”, anche se la ripresa potrebbe essere più lenta, ma non per questo meno significativa.

La Dottoressa Stephanie Zerwas, professore associato presso di psichiatria presso la facoltà di medicina (UNC), ha affermato che la bulimia nervosa è una malattia devastante e, a volte, anche mortale, e le numerose ricerche hanno dimostrato che da anni la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è il trattamento più efficace. Ed inoltre, afferma anche, che molte persone affette da questo disturbo vagano per anni alla ricerca del trattamento giusto, e quindi la terapia online potrebbe aiutare a colmare questa lacuna.

 

Gli effetti della terapia di gruppo online in casi di bulimia: i risultati dello studio

Nello studio, 179 adulti hanno iniziato ben 16 terapie di gruppo con un terapista in uno dei due siti dello studio: UNC-Chapel Hill e Psychiatric Institute e Clinica della University of Pittsburg Medical Center. L’assegnazione del terapeuta per la terapia di gruppo vis à vis era del tutto casuale.

I ricercatori hanno confrontato i risultati dei due gruppi alla fine del trattamento, e poi dopo ulteriori 12 mesi dalla fine del trattamento. Subito dopo il trattamento, il gruppo che frequentava la terapia vis à vis aveva prodotto dei risultati migliori rispetto alla terapia di gruppo online. Ma 12 mesi dopo, il divario che prima c’era tra i due gruppi si era ridotto drasticamente.

La Prof.ssa Cynthia M. Bulik della UNC, ha affermato che alcuni trattamenti evidence-based sono efficaci, ma molte persone non possono accedere a queste cure specialistiche. Questo studio sulla terapia di gruppo online incoraggia ad utilizzare la tecnologia per portare il trattamento nelle case dei pazienti che non possono recarsi in struttura.

 

Criticismo genitoriale: che cos’è e quali effetti produce

Criticismo genitoriale: Dal punto di vista emotivo, le emozioni riscontrate in chi viene rimproverato dipendono dalla personalità e dalle interpretazioni che vengono date alle critiche. Una prima differenza può essere vista nell’accettazione o meno delle critiche subite. Nel primo caso i sentimenti più frequenti sono senso di colpa con la tendenza ad attribuirsi cattive intenzioni e la tristezza per la convinzione di una propria incapacità. Diverso è il caso in cui il rimprovero venga vissuto come ingiusto per cui l’emozione più frequente è la rabbia con più probabili comportamenti di ribellione.

Elisabetta Strina, OPEN SCHOOL PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA DI MILANO

Criticismo genitoriale: in cosa consiste

Il criticismo genitoriale è caratterizzato da un ricorso ripetitivo e pervasivo al rimprovero.
Si manifesta con frequenti commenti critici sostenuti anche da tono severo o perentorio; si esprime per mezzo di espressioni di disapprovazione, di sentimento, rifiuto e svalutazione del rimproverato (ad esempio, “possibile che sbagli sempre?”, “Vergognati per quel che hai fatto!”). L’amore manifestato dai genitori è condizionato alla performance del bambino e le approvazioni sono inconsistenti; il bambino non si sente mai soddisfatto perché il suo comportamento non è mai abbastanza corretto per guadagnare l’approvazione dei genitori e attua uno sforzo continuo per ottenerla.

Il bambino sviluppa così credenze di base su se stesso che possono riguardare la convinzione di incapacità personale, bassa autostima, propensione ad attribuzioni di colpa e disorientamento personale con attitudine a costruirsi un’identità e stima di sé sulla base dell’opinione altrui (Apparigliato, Ruggiero e Sassaroli, 2004). Il soggetto si adegua ad un criterio di valutazione esterno, normativo, favorendo così la formazione della tendenza sistematica all’autocritica tipica delle persone timide e degli ansiosi sociali.

Nei colloqui con i pazienti spesso emerge nella descrizione dei propri genitori una modalità relazionale disfunzionale basata su critiche ripetute nei confronti dei propri figli.

Nel rimproveratore si possono distinguere diversi scopi: spesso cerca di cambiare il comportamento che ritiene sbagliato; può avere il fine di ottenere un risarcimento per un danno subito; può voler rivelare una sofferenza patita a causa del rimproverato; può avere lo scopo di dare sfogo ad una rabbia incontrollabile.

Questo tipo di comunicazione “ inferiorizzante” è un potente strumento di controllo del comportamento dell’altro facendolo sentire dipendente e quindi bisognoso di approvazione. Questo atteggiamento aumenta dunque l’autostima del rimproveratore che recupera potere nella relazione.
Alla base si può riconoscere un deficit metacognitivo nella comprensione della mente altrui, che non è riconosciuta dotata di scopi personali validi, oppure una difficoltà di decentramento, riconoscendo come legittimo solo il proprio punto di vista.

Sembra esserci una trasmissione intergenerazionale del criticismo: nella pratica clinica si è potuto osservare che coloro che sono stati fortemente rimproverati fin da piccoli dai genitori, o da chi si è preso cura di loro, tendono a loro volta a diventare “grandi rimproveratori” (Sassaroli e Ruggiero, 2002); il criticismo messo in atto da chi è stato ripetutamente rimproverato potrebbe essere una forma di apprendimento, in quanto queste persone non hanno avuto la possibilità di apprendere delle modalità relazionali più funzionali con i propri familiari.

Gli effetti che produce il criticismo genitoriale

Dal punto di vista emotivo, le emozioni riscontrate in chi viene rimproverato dipendono dalla personalità e dalle interpretazioni che vengono date alle critiche. Una prima differenza può essere vista nell’accettazione o meno delle critiche subite. Nel primo caso i sentimenti più frequenti sono senso di colpa con la tendenza ad attribuirsi cattive intenzioni e la tristezza per la convinzione di una propria incapacità. Diverso è il caso in cui il rimprovero venga vissuto come ingiusto per cui l’emozione più frequente è la rabbia con più probabili comportamenti di ribellione.

Livelli elevati di criticismo genitoriale (disapprovazione o irritabilità diretti verso il bambino con conseguenti negative reazioni allo stress ) sono collegati a maggiori sintomi somatici negli adolescenti e ai conseguenti problemi psicologici ( ansia e depressione ) che sono fortemente correlati con questi sintomi ( Campo 2012). Cioè gli adolescenti che subiscono un parenting controllante hanno più probabilità di sviluppare un orientamento al perfezionismo maladattivo (caratterizzato da autovalutazioni negative), che a sua volta li rende più vulnerabili ai sintomi depressivi.

Uno stile genitoriale caratterizzato da una bassa cura, alti standard e critiche frequenti è stato associato ad ansia, sintomi depressivi e schemi di sé negativi (Gibb , 2002).
Esiste una relazione tra il livello di critica percepita durante l’infanzia e lo sviluppo di autocriticismo in età adulta . L’autocriticismo è collegato ad una serie di disturbi psicologici primo fra i quali la depressione, comportamenti maladattivi, come la tendenza a reagire negativamente a errori, interpretandoli come equivalenti al fallimento, e la credenza disfunzionale che in seguito al fallimento si perderà il rispetto degli altri.

Una critica pervasiva dei genitori può portare a una vulnerabilità cognitiva per critiche fatte da altri. Inoltre i bambini possono imparare direttamente a relazionarsi con se stessi nella stesso modo critico che i genitori hanno utilizzato per riferirsi a loro ( Brewin et al .1996) . L’autocritica può quindi risultare come strategia impiegata per correggere continuamente se stessi e quindi evitare la possibilità di ricevere critiche da altri e dover far fronte al relativo dolore emotivo. L’autocritica sembra essere una delle più considerevoli componenti patologiche del perfezionismo.

Avere avuto genitori criticisti determina una maggiore intolleranza all’errore che porta ad essere perfezionisti; criticismo genitoriale e perfezionismo sono due concetti fortemente collegati. Criticismo genitoriale e aspettative sono state indicate da Frost (1990) come dimensioni del perfezionismo inteso come concetto multidimensionale. In particolare vengono viste come collegate alla tendenza di concepire l’affetto dei genitori subordinato alla propria capacità di soddisfare le loro aspettative ed evitarne le critiche. Altri autori (Shafran et altri 2002) parlano di perfezionismo clinico come dipendenza eccessiva dalla valutazione di sé. Dunkley et altri (2006) riconoscono la dimensione delle preoccupazioni valutative consistente in valutazioni critiche del proprio comportamento, preoccupazioni e rimuginii rispetto al criticismo degli altri che impediscono di trarre soddisfazione dal proprio successo. Questi fattori contribuiscono a differenziare il perfezionismo sano da quello clinico, il quale evidenzia un eccessivo timore degli errori che porta a insoddisfazione cronica e senso di inefficacia.

La dipendenza dai criteri normativi con la continua preoccupazione che il proprio comportamento sia giusto o sbagliato è riscontrabile nel disturbo ossessivo-compulsivo. In queste persone il senso di responsabilità e timore della colpa è talmente forte da non poter essere immaginato, affrontabile.

Altre persone sviluppano una dipendenza dal contesto relazionale come nei soggetti con disturbo alimentare. Perfezionismo e bassa autostima sono considerate fra le maggiori credenze cognitive disfunzionali dei disturbi alimentari. I soggetti rimuginano sul non essere abbastanza competenti e adatti alle richieste della vita. La valutazione del sé tende ad essere basata sulla forma corporea e sul peso, temendo conseguenze negative nei rapporti interpersonali, come il biasimo o il disprezzo di genitori e coetanei (Sassaroli e al.2007).

Da queste evidenze possiamo comprendere come le critiche continue non consentono di sperimentare, mettersi in gioco, esplorare il mondo alla ricerca di soluzioni personali che incrementino l’autostima e il senso di autoefficacia. Qualsiasi cosa che generalmente viene detta criticamente può essere detta in modo supportivo, ottenendo lo stesso, se non un maggiore effetto. La creazione di un sistema educazionale positivo favorisce negli individui la formazione di un positivo concetto di sé come persona.

Tutto su mia madre (e su mio padre): lo sviluppo dentro di noi – Report dal seminario del professor Massimo Ammaniti

Il seminario di Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore all’Università La Sapienza di Roma, organizzato dall’Associazione Centro studi di Psicoterapia Psicoanalitica, è iniziato con una provocazione: siamo poi così sicuri che le famiglie felici siano davvero tutte uguali? E, soprattutto, che esistano? 

 

Scriveva Tolstoj, in un suo famosissimo incipit: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.

La domanda è: siamo poi così sicuri che le famiglie felici siano davvero tutte uguali? E, soprattutto, che esistano?

È iniziato con questa provocazione il seminario di Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore all’Università La Sapienza di Roma, organizzato dall’Associazione Centro studi di Psicoterapia Psicoanalitica, nella splendida cornice di Casa Ghirardini a Mantova.

 

Il Prof. Massimo Ammaniti sui cambiamenti della famiglia negli ultimi anni

Nel seminario tenuto da Massimo Ammaniti si è parlato di famiglia, di come questo nucleo sociale abbia risentito dei profondissimi mutamenti collettivi degli ultimi anni, e di come le teorie finora acquisite sui cicli vitali e sulla genitorialità rischino di rivelarsi precipitosamente invecchiate, senza che ce ne siano a disposizione di nuove e più adeguate alla comprensione dei fenomeni attuali, sempre più complessi.

Partiamo dal presupposto che il concetto di famiglia tradizionale (madre e padre entro gli enta, entrambi sotto lo stesso tetto, un paio almeno di bei bambini) è obsoleto come il telefono con la rotella: oggi le famiglie sono spesso monoparentali, ricomposte e ricostituite, omogenitoriali, segnate a volte da lunghi e dolorosi itinerari di fecondazione assistita o di adozione.

In generale l’età media dei genitori si è drasticamente alzata rispetto al passato (una donna ha il primo figlio intorno  ai 32 anni) e questo è un aspetto che cambia radicalmente l’approccio alla genitorialità; si è genitori più ansiosi e insicuri, a volte troppo consapevoli e quindi rigidi, preoccupati, meno spontanei, affaticati fisicamente e psicologicamente. Ma soprattutto, se in passato si poteva distribuire il proprio investimento genitoriale su più figli, oggi il primo figlio rappresenta spesso l’unica occasione di averne (la media in Italia è di 1,37 nati per donna) e diventa così anche l’unico catalizzatore dell’intero investimento narcisistico genitoriale, con tutte le criticità del caso.

 

Le aspettative narcisistiche dei genitori

Kohut sceglie in realtà di non demonizzare questa dimensione (secondo la sua teoria il bambino ha bisogno di sentirsi rispecchiato nell’idealizzazione del propri genitori, per poter creare un sé coeso e coerente) ma non bisogna sottovalutare che, accanto ai naturali aspetti di accudimento e protezione, emerge prepotentemente il rischio che il figlio diventi un prolungamento dei genitori e delle loro ambizioni mancate.

Si tratta dei casi in cui l’iperinvestimento di aspettative narcisistiche fa sì ad esempio che l’erede maschio sia chiamato a diventare quantomeno esploratore o giocatore di serie A, e che la figlia femmina debba diventare prima ballerina della Scala o moglie del rampollo di qualche casa reale.

Il rischio che la genitorialità moderna risenta dell’impatto patologico del narcisismo è concreto, soprattutto nei casi in cui i genitori rientrano in quella nuova categoria sociale nota come degli adultescenti, costituita non solo dai giovani adulti fermi (spesso per difficoltà economiche) nella casa dei genitori, bensì anche da tutte quelle persone che, pur avendo pieno status di adulti, non ne accettano le componenti legate all’invecchiamento e al dover lasciare spazio alle nuove generazioni.

 

Adolescenti e genitori oggi

Erikson diceva che “fino a che il genitore non accetta la propria morte il figlio non potrà entrare nella vita”; se però una donna ha un figlio a trent’anni compiuti si rischia che ci si ritrovi ad affrontare contemporaneamente due importanti crisi esistenziali: quella di mezza età degli adulti (con le difficoltà di coppia, i bilanci, i problemi di salute) e quella adolescenziale dei figli. Massimo Ammaniti ha sottolineato come oggi si vedano sempre più spesso genitori molto in difficoltà con la gestione della propria crisi e che si rivelino quindi di scarso supporto rispetto alla crisi adolescenziale dei figli. Nei casi più gravi i genitori possono arrivare a mettersi addirittura in competizione con i propri figli adolescenti, oppure a tentare di “reincarnarsi” nelle loro fasi di vita, ad esempio intromettendosi attivamente nelle loro vicende sentimentali.

Winnicott definiva l’adolescenzauna malattia normale”, ma perché sia così ancora oggi occorre che i genitori siano abbastanza equilibrati e solidi da affrontarla in modo adeguato, senza arretrare e senza reincarnarsi.

Diversamente l’adolescenza rischia di non essere più una fase evolutiva di distacco e di opposizione orientata all’autonomia, bensì una fase permanente, al cui mantenimento contribuiscono in ugual misura (seppur con motivazioni molto diverse) sia genitori che figli.

In tutto questo i confini generazionali sbiadiscono e gli apparati normativi consueti perdono credibilità, le relazioni tra genitori e figli si organizzano in forma orizzontale e non più verticale, e anche la famiglia finisce per diventare liquida, come la società teorizzata da Bauman.

Nel complesso, esaminato alla perfezione nel seminario di Massimo Ammaniti, la genitorialità è quindi sempre di più una sfida, e il mestiere più difficile del mondo lo è oggi più che in passato; rispetto a questa sfida è chiamata a dare il proprio contributo anche la scuola, anch’essa in difficoltà nello stare al passo coi mutamenti sociali, organizzata com’è su metodi educativi non più sintonizzati con le nuove generazioni e  guidata da un rapporto con le famiglie che oscilla spesso tra rivalità e collusione.

Insomma, uno scenario complesso e non certo incoraggiante, rispetto al quale Massimo Ammaniti non propone né facili soluzioni né risposte consolatorie.

Ma un monito deciso per i genitori, questo sì: quello di cercare di essere sempre giardinieri dei propri figli, e mai falegnami.

Alla ricerca della buddità: il rapporto tra Psicologia Positiva e Buddismo

La pratica del buddismo come pratica di consapevolezza e ricerca dell’identità si ritrova anche nella Psicologia Positiva e la continua necessità di innovazione e cambiamento ha portato allo sviluppo di nuove correnti.

Sofia Nasuf – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

I legami tra il buddismo e psicologia hanno radici molto profonde e antiche, Mark Epstein in una sua opera riporta un episodio in cui lo psicologo William James durante una lezione a Harvard, agli inizi del Novecento scorgendo un monaco buddista tra l’uditorio si interruppe chiedendogli di prendere il suo posto affermando “Lei è più preparato di me a insegnare psicologia. La vostra è la psicologia che tutti studieranno di qui a un quarto di secolo” (Mark Epstein, Pensieri senza un pensatore, 1996).

James ha il merito di aver intuito quella che è la dimensione psicologica dell’esperienza buddista.

Mark Epstein, in un’ottica psicoanalitica, da psicoterapeuta buddista racconta come il buddismo da agli psicoterapeuti contemporanei un essenziale insegnamento, già in passato ha infatti messo a punto tecniche volte allo sradicamento del narcisismo umano, secondo il buddismo lo scopo della vita è essere felici, al di là degli attaccamenti e quindi della visione narcisistica della vita.

 

L’incontro tra buddismo e psicologia

Dalla fine degli anni Sessana e l’inizio degli anni Settanta il pensiero orientale, alimentato dall’adesione allo Zen degli intellettuali beat degli anni Cinquanta dalla controcultura e dal misticismo degli anni Sessanta, si fa strada nella coscienza psicologica occidentale (M. Epstein 1996).

La ruota del samsara, la rappresentazione buddista della ruota della vita, è un’immagine molto conosciuta della tradizione orientale. Si tratta di un mandala che rappresenta i sei regni a cui sono soggetti gli esseri senzienti: il regno umano, il regno animale, il regno infernale, il regno dei preta (spiriti affamati), il regno degli asura (titani o dèi gelosi). Sei sono quelli principali, a loro volta suddivisi in centinaia di regni. Il sentiero che porta alla buddità inizia nel regno umano e porta fuori dalla ruota, solo gli esseri umani possono raggiungere tale illuminazione, tale consapevolezza. Molti movimenti psicoterapeutici hanno studiato e approfondito le sofferenze dei regni, Freud il regno animale e le sue pulsioni; Melanie Klein l’ansia e l’aggressività del regno d’inferno; D. W. Winnicott e Heinz Kohut  con la psicologia del sé  il regno umano del narcisismo; Carl Rogers e Abraham Maslow i regno degli dèi delle esperienze di vetta (M. Epstein 1996).

A proposito del rapporto tra buddismo e psicologia, nell’opera di Abraham Maslow e nella psicologia moderna si riscontra una grande influenza del pensiero buddista. Il buddismo promuove la meditazione come mezzo per la trasformazione della sofferenza umana, il superamento dell’infelicità nevrotica e la lotta interiore per il superamento di quello che viene definito “piccolo io” e la conquista del vero sé.

 

Il buddismo e la psicologia positiva

La pratica buddista come pratica di consapevolezza e ricerca dell’identità si ritrova in correnti più recenti come la Psicologia Positiva e la continua necessità di innovazione e cambiamento ha portato allo sviluppo di nuove correnti.

I fondatori della Psicologia Positiva sono Seligman e Csikszentmihalyi, secondo Seligman i tre fondamenti sono: lo studio delle emozioni positive, lo studio delle caratteristiche positive (virtù personali e punti di forza),  lo studio di istituzioni positive (democrazia, famiglie forti, libera inchiesta pubblica), (Seligman, 2002).

Lo studio dei punti di forza e delle virtù umane consente di comprendere ciò che rende la vita degna di essere vissuta e i processi che fanno muovere nella miglior direzione la società e le istituzioni (Gable e Haidt, 2005).

Per quanto riguarda gli individui  promuove lo sviluppo delle caratteristiche positive connesse con la capacità di provare felicità e gioia (coraggio, ottimismo, speranza, perseveranza, saggezza, perdono).

La Psicologia Positiva oltre che dedicarsi alla malattia integra il raggio d’azione, preoccupandosi di altri aspetti della vita umana, lo sviluppo delle risorse e dei talenti individuali volte al miglioramento della qualità di vita e alla felicità.

La consapevolezza e lo sviluppo dei talenti individuali volti alla costruzione della felicità sono alla base del buddismo di Nichiren Daishonin,  il filosofo buddista Daisaku Ikeda guida della Soka Gakkai  spiega che la filosofia buddista ha implicazioni molto pratiche nella vita quotidiana, consiste nel fare tesoro della vita rendendola degna il più possibile, si tratta di realizzare la propria rivoluzione umana (Daisaku  Ikeda, 2002)

Consiste nell’attivare la buddità innata e migliorando di conseguenza ogni aspetto della vita entrando in armonia con l’energia universale, “la vita assomiglia al vibrare delle note. E l’individuo a uno strumento a corde” scriveva Beethoven nel suo diario.

Se l’individuo non ha la corretta intonazione non può risuonare con ciò che lo circonda.

Applicando nel quotidiano ciò che insegna il buddismo non conta quanto sappiamo di noi stessi ma il modo in cui ci rapportiamo a ciò di cui siamo consapevoli.

 

La felicità ovvero la buddità

Il buddismo insegna a rapportarsi alla vita in maniera positiva, usando come occasione di crescita ogni evento che ci accade. Sviluppare questo atteggiamento consapevole porta ad una solida felicità, che in termini buddisti viene detta buddità.

Felicità deriva dal verbo fèo, fecondo; questo implica che la felicità non è soltanto l’emozione relativa a ciò che di bello ci accade ma bensì il risultato delle nostre azioni migliori, tramite cui produciamo, creiamo. La felicità è  l’effetto di ciò che facciamo nell’ambiente in cui viviamo, (Laudadio, Mancuso, 2015).

A partire dal Novecento, fino a pochi anni fa la psicologia raramente ha preso in considerazione il tema della felicità e si è perlopiù concentrata sulla psicopatologia, sulle emozioni, sui processi cognitivi e i fattori ambientali capaci di compromettere un buon funzionamento psicologico, in definitiva sull’infelicità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le scelte professionali degli psicologi si sono orientate sul trattamento dei disturbi mentali.

Le prime teorie che hanno parlato di felicità risalgono ad Aristippo e ad Aristotele; il primo parla di felicità edonica, principio secondo cui la felicità è data dal piacere, scopo della vita massimizzare il piacere e minimizzare il dolore; Aristotele nell’Etica Nicomachea, elabora il concetto felicità eudaimonica, frutto dell’attuazione piena delle potenzialità individuali: l’uomo deve esprimere le proprie virtù e realizzare la sua natura (Laudadio, Mancuso, 2015).

Maslow nel 1943 ha elaborato la Piramide dei bisogni, secondo cui l’uomo cerca di conquistare la felicità scalando la piramide, partendo dal gradino più basso dei bisogni primari, salendo verso il vertice della piramide attraverso i bisogni di sicurezza, bisogno di appartenenza, bisogno di stima e all’apice l’autorealizzazione.

Bradburn (1969) la felicità consiste in un giudizio globale che formulano le persone comprando i loro affetti positivi e quelli negativi.

La Psicologia Positiva nasce nel 1998 con Martin Seligman, Mihalyi Cskszentmihalyi e Raymond Fowler. Nasce ponendo come presupposti che la psicologia debba occuparsi delle potenzialità e delle debolezze umane; impegnarsi a sostenere tali potenzialità e riparare i danni al fine di migliorare la qualità di vita; tale sforzo deve essere volto a rendere migliore la vita dell’uomo e degna dei essere vissuta.

Scopo della Psicologia Positiva è approfondire lo studio delle emozioni positive, lo studio scientifico delle funzioni umane ottimali, la scoperta e la promozione delle potenzialità umane al fine di migliorare la vita degli individui e della società.

Inoltre lo studio dei tratti positivi e delle virtù volto all’elaborazione di una classificazione delle potenzialità, come il DSM.

Inoltre Seligman si propone lo studio delle istituzioni positive con l’obiettivo di individuare “le grandi strutture che trascendendo il singolo individuo, erano in grado di supportare il carattere positivo” (Seligman, 1995).

Principio basilare del buddismo è il concetto di Karma,  afferma infatti “se vuoi conoscere le cause create nel passato, guarda gli effetti che si manifestano nel presente. Se vuoi conoscere gli effetti che si manifesteranno nel futuro, guarda le cause che stai mettendo nel presente”. Karma è una parola sanscrita che significa azione, qualsiasi azione compiuta (causa), che si tratti di un pensiero un’azione o una parola detta, questa avrà un effetto sull’ambiente.

Di conseguenza è l’individuo, che decidendo se mettere nella propria vita cause positive è artefice della propria felicità.

cancel