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Psicoterapia e brain injury: la terapia per pazienti con danni cerebrali

Lo scopo di questo articolo è quello di considerare il ruolo della psicoterapia in ambito neuroriabilitativo, analizzando i benefici e le eventuali controindicazioni di un trattamento psicoterapeutico in pazienti con Danni cerebrali. Danni cerebrali acquisiti (acquired brain injury) possono insorgere a seguito di un trauma alla testa (Traumatic brain injury) a seguito di incidenti stradali o cadute, oppure possono essere presenti sin dalla nascita, o essere provocati da tumori, ictus o emorragie.

Roberta Carugati, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

La psicoterapia per pazienti con danni cerebrali

Per molti anni il trattamento psicoterapeutico in ambito neuroriabilitativo è stato considerato un trattamento non particolarmente indicato nei pazienti con Danni cerebrali conseguenti a trauma o acquisiti (Traumatic brain injuries e Acquired brain injuries) poichè considerati privi di capacità metacognitive, difficoltà mnestiche e attentive e anche difficoltà di regolazione emotiva (Coetzer, 2007; Prigatano et al., 1986). Negli ultimi vent’anni tuttavia, numerosi ricercatori hanno evidenziato i notevoli benefici che la psicoterapia può apportare nella vita di questi pazienti e dei loro familiari, migliorando il senso di auto-efficacia, auto-accettazione, ma anche aiutandoli a ritrovare uno scopo nelle loro vite (Klonoff, Lage, & Chiapello, 1993).

 

Caratteristiche del paziente e dello psicoterapeuta

Lo psicoterapeuta che lavora con pazienti brain-injured necessita di alcune essenziali qualità, come una spiccata empatia, una infinita pazienza, gentilezza e capacità di supporto. Forti capacità esecutive, di programmazione e capacità organizzative sono altresì essenziali. Inoltre è la capacità del terapeuta di essere un po’ visionario ed entusiasta, speranzoso ed ottimista che saranno da esempio per i pazienti e per i familiari, rendendo anche loro più consapevoli che un miglior futuro è possibile. (Aniskiewicz, 2007; Ben-Yishay et al., 1985; Strozier, 2001). Deficit comunicativi, di memoria, o pensiero logico, possono ostacolare i benefici della tradizionale psicoterapia. La psicoterapia si affida alla capacità dell’individuo di comprendere, ricordare e accettare il bisogno di cambiamento nella vita quotidiana. In pazienti con ABI o TBI (acquired or traumatic brain injury) possono presentarsi notevoli difficoltà cognitive e comportamentali, che possono ostacolare il successo della psicoterapia.

 

Afasia globale

L’ Afasia globale e’ una condizione nella quale sia la comprensione che la produzione verbale sono altamente compromesse. Per questo, pazienti con questa diagnosi difficilmente potranno beneficiare di un simile trattamento. Tuttavia, in pazienti con afasia di Broca (in cui la comprensione è intatta ma ciò che è compromessa è la produzione del linguaggio) è possibile evidenziare dei miglioramenti, ma solo se il terapeuta sarà in grado di identificare modi alternativi di comunicare (ad esempio il paziente potrà comunicare di aver capito scuotendo la testa o muovendo le mani in un determinato modo). In pazienti con deficit di comprensione invece (ES afasia di Wernicke) il trattamento psicoterapeutico non è consigliato, dal momento che non saranno in grado di comprendere ed esprimere i propri stati emotivi.

 

Anosognosia

L’anosognosia può essere spiegata come deficit neuropsicologico che impedisce al soggetto che ne ne è affetto di riconoscere di avere un problema. La persona quindi non è assolutamente consapevole di avere un disturbo o una malattia e manifesta la convinzione di essere del tutto funzionante (Goldberg, 1991). La psicoterapia si configura come trattamento psicologico indicato nelle persone che mostrano un significativo grado di consapevolezza, tale per cui non è raccomandata in questo caso.

 

Scarsa motivazione

Dal momento che la psicoterapia è un percorso che richiede fatica, tempo e serio impegno, non dovrebbe essere iniziata con pazienti che non mostrano motivazione.

Al contrario la psicoterapia con pazienti ABI e TBI porterà a risultati soddisfacenti se saranno presenti una serie di fattori (Ruff et al, 2014);
– La volontà da parte del paziente di accettare le proprie difficoltà
– Motivazione e desiderio di migliorare
– Stabilire obiettivi che siano realizzabili.

 

Cambiamenti emotivi e comportamentali dopo danni cerebrali

Per molte famiglie i cambiamenti emotivi dopo un ABI sono spesso estremamente difficili da gestire. Molte ricerche hanno evidenziato come familiari di pazienti con danni cerebrali riportano di sentirsi maggiormente in difficoltà di fronte a frequenti cambiamenti emotivi rispetto alle limitazioni fisiche conseguenti alla lesione (Kinsella et al., 1991; Brooks et al. 1986). Cambiamenti di umore e di comportamento sono tuttavia piuttosto comuni dopo un danno cerebrale. E’ possibile che il paziente abbia esplosioni di rabbia emotiva, irritabilità, comportamenti suicidari, ritiro emotivo ma anche impulsività. Molto frequenti sono inoltre sintomi di natura depressiva e ansiosa.

 

Quale orientamento psicoterapeutico scegliere?

Psicoanalisi

Approcci psicoanalitici ricercano nell’infanzia e nella adolescenza le origini del malessere psicologico dell’individuo. Per questo motivo il focus della terapia psicoanalitica si concentrerà sui principali episodi riguardanti l’infanzia. Sono necessarie quindi nel paziente capacità di tipo retrospettivo e introspettivo. Concentrarsi tuttavia su episodi accaduti prima della lesione cerebrale, può far crescere nel paziente l’aspettativa (falsa) che potrà ritornare allo stato in cui era prima. Questo tipo di approccio concentrato sul passato, può tuttavia rivelarsi utile allo psicoterapeuta per identificare le strategie di coping che il paziente utilizzava prima del trauma nell’ affrontare situazioni problematiche.

 

Terapia cognitivo-comportamentale

Questo tipo di approccio mira ad aiutare l’individuo a comprendere il collegamento tra credenze, pensieri emozioni e comportamenti. L’efficacia e il successo di questa terapia con pazienti ABI dipendono dal livello di funzionamento cognitivo del paziente. E’ stato recentemente suggerito un protocollo più flessibile di REBT per questo tipo di pazienti. Manchester e Wood (2001) hanno avanzato l’idea che attraverso l’apprendimento procedurale (struttura e ripetizioni) si raggiunga il successo della terapia.

 

Psicoterapia orientata alla consapevolezza

Questo tipo di psicoterapia può essere spiegata in termini di accrescimento della consapevolezza nel paziente dei propri stati emotivi, pensieri e comportamenti. Parte dall’idea che maggiore sia la consapevolezza su questi processi, maggiore sia la possibilità di poterli cambiare qualora siano disfunzionali (Pologe, 2001). Prigatano (1986) ha suggerito che uno degli obiettivi della psicoterapia con pazienti ABI dovrebbe essere quello di aumentare la loro consapevolezza su ciò che è accaduto, sulle ripercussioni nella loro vita e anche di aiutare la persona a raggiungere un livello di accettazione della situazione e di tutte le sue conseguenze (psicologiche, sociali, relazionali). Questo tipo di psicoterapia è spesso condotto in gruppi all’interno di setting riabilitativi, dal momento che il gruppo può essere una preziosa fonte per accrescere l’insight dei partecipanti.

 

Psicoterapia con familiari

Dal momento che i familiari giocano un ruolo importante nella vita del paziente, è importante che siano coinvolti in un percorso psicoterapeutico. Un modello di intervento efficace coinvolge tecniche cognitivo-comportamentali e sessioni di psico-educazione (Sander et al., 2002). Molto utili sono le tecniche di gestione dello stress, quali esercizi di rilassamento, problem solving e tecniche Abc per la ristrutturazione di pensieri disfunzionali.

 

Psicoterapia e danni cerebrali: conclusioni

In conclusione possiamo affermare che esistono diversi orientamenti psicoterapeutici che fungono da sostegno e da aiuto per pazienti ABI, per aiutarli ad acquisire consapevolezza su ciò che è accaduto e sviluppare nuovi comportamenti adattivi. I dati finora raccolti non permettono di affermare che un particolare metodo psicoterapeutico sia più efficace di un altro. La sfida per gli operatori sanitari che lavorano con pazienti di questo tipo è quella di trovare una combinazione di interventi che funzioni al meglio per ogni singolo paziente e che tenga conto delle loro caratteristiche individuali e delle loro risorse.

Diversamente amanti: l’ assistenza sessuale alle persone con disabilità

Ad oggi l’assistente sessuale per disabili è una figura professionale presente e legalizzata in Germania, Olanda e Scandinavia, Gran Bretagna e Svizzera dove l’ assistenza sessuale è un fatto acquisito, un aiuto a ragionare meglio sul tabù dell’amore, fisico e sentimentale, che accompagna l’esistenza delle persone diversamente abili.

Silvia Baraldi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Poesia d’amore per nessuno in particolare:

Lascia che io ti tocchi con le mie parole perché le mie mani giacciono flosce come  guanti vuoti;
Lascia che le mie parole accarezzino i tuoi capelli, scendano lungo la tua schiena e ti solletichino il ventre;
perché le mie mani, leggere, che volano libere come mattoni, ignorano la mia volontà e rifiutano caparbiamente di realizzare i miei più segreti desideri;
lascia che le mie parole entrino nella tua mente recando fiaccole;
accoglile di buon grado nel tuo essere, così che ti possano accarezzare gentilmente l’anima.

(The session)

 

Alex ha avuto più di trenta ragazze. Enea, tu quante? – Io… ne avevo dieci. Poi le ho lasciate tutte. – Ne avevi dieci in una volta sola? – Si, in una volta sola. – Hai fatto l’amore con dieci ragazze? – Eh, cercavo. – Ma non ci sei riuscito? – No. – Perchè non sei riuscito? – Perchè un po’ non avevo neanche  tempo.

(The Special Need)

 

Mark O’Brien è un poeta e giornalista costretto a vivere in un polmone d’acciaio ed è tretraplegico da quando da bambino si ammalò di una poliomielite che lo rese tetraplegico. A causa della sua condizione, è arrivato a 38 anni senza aver mai fatto sesso. Dopo alcune vane prove contatta Cheryl, una professionista del sesso, diversi tentativi e sessioni, Mark e Cheryl sono in grado finalmente di fare del sesso soddisfacente.

Enea ha trent’anni, un lavoro e un problema. Anzi: più che un problema, una necessità. Una necessità speciale: fare (finalmente) l’amore. Enea ha anche due amici, Carlo e Alex, fermamente decisi ad aiutarlo. A prenderlo sottobraccio con allegra dolcezza. E il sogno di Enea, impigliato nella rete dell’autismo, richiede una manutenzione delicatissima. Un viaggio, una complicità maschile e nuovi incontri creeranno le giuste condizioni.

 

Sessualità e disabilità

Chiunque ha il diritto di sperimentare le proprie emozioni intime, l’erotismo e l’amore. Ma quando la sessualità è espressa nella disabilità? La sessualità, infatti, è un’espressione fondamentale dell’essere umano, è un fenomeno complesso che vede coinvolte influenze psicologiche, biologiche e culturali. È  inserita alla base nella piramide dei bisogni di Maslow (1954).

Fino ad alcuni decenni fa il discorso relativo alla sessualità nei soggetti portatori di handicap veniva considerato tabù, taciuto, evitato, lasciato in mano alle famiglie e, di conseguenza, eluso dalla letteratura. Qualunque fosse la disabilità, fisica o psichica, diagnosticata alla nascita oppure causata da improvvisi o inaspettati incidenti di percorso nella fase evolutiva, c’era sempre una certa difficoltà tra le persone normodotate ad affrontare questa tematica. Non che ora se ne parli facilmente e liberi da qualunque pregiudizio o stereotipo, raramente si osserva una serena e chiara affermazione della sessualità tra e per le persone con disabilità, ma almeno, attualmente, l’argomento viene affrontato con sempre maggiore frequenza, sia da parte degli operatori (Villar, 2016) sia dai mezzi di comunicazione questo grazie ad una “costante penetrazione nella coscienza sociale di una nuova sensibilità relativa ai diritti dei portatori di handicap, diritti che tendono, com’è giusto, verso il più possibile” (Ianes-Folgheraiter, in Dixon H. 1990, pag. 7) e alla rottura del silenzio intorno alle parole “disabilità e sessualità” che “hanno subìto una particolare forma di censura che non ha comportato l’imposizione del silenzio, quanto piuttosto l’elaborazione di un nuovo linguaggio” (Pennella, 1997).

Ma che cos’è la sessualità? È solo genialità o c’è altro?

La salute sessuale è l’integrazione degli aspetti somatici, affettivi, intellettuali e sociali dell’essere sessuato, allo scopo di pervenire ad un arricchimento della personalità umana e della comunicazione dell’essere” Organizzazione Mondiale della Sanità (2010).

E’ inimmaginabile negare tutto questo ad una persona. La sessualità non può essere ridotta alla dimensione genitale del sesso, ma comprende una vasta gamma di aspetti culturali e sociologici come pure di sensazioni ed emozioni. La sessualità è così anche relazione, comunicazione e scambio di piacere.

Diversi autori (Valente Torre, Cerrato, 1987; Sbardella, Secchi, 1997) evidenziano come la sessualità non coincide esclusivamente con la genitalità ma in essa rientrano anche altri aspetti ad essa connessi, quali la corporeità, il contatto fisico, la tenerezza, l’affettività, ecc. La possibilità di manifestare e vivere i bisogni e i desideri sessuali, in accordo con il proprio grado di coscienza e capacità, è un diritto umano fondamentale, che non deve essere ignorato ma rispettato e reso possibile. Ciò in particolare per le persone che, a causa delle loro difficoltà, necessitano dell’aiuto degli altri per realizzare la propria psicosessualità.

Non è possibile ritenere che sia difficile se non impraticabile per le persone con disabilità avere una vita sessuale soddisfacente o ritenerle come eterni bambini, cosa che succede molto spesso con i disabili psichici (Valente Torre, 1987). Nell’immaginario collettivo, purtroppo sembra comune la fantasia che le persone con disabilità non possano vivere un’intimità erotico-sessuale di coppia e autoerotica, allontanandosi inevitabilmente dallo sperimentare l’esperienza sessuale.

Che significato possono dare alla sessualità le persone che già vivono particolari difficoltà e disagi? Quel corpo che nell’infanzia era toccato e gestito senza alcuna difficoltà ora cambia, ora quei maneggiamenti assumono nuovi significati, nuove rappresentazioni che essendo taciuti sono poco compresi e vissuti con timore ed imbarazzo. I disabili fisici dalla nascita come suggerisce Baldaro Verde et al. (1987) in termini psicologici rischiano di instaurare forme di chiusura, tristezza e imbarazzo e inoltre la rappresentazione del Sé è rinforzata negativamente da una società giudicante, disprezzante e limitante, che non permette ai disabili motori di instaurare o mantenere in modo sereno una relazione intimo-affettiva.

Spesso, questi individui, a prescindere dal genere sessuale, si trovano a vivere gravi sentimenti d’inferiorità con conseguente paura di una non accettazione da parte del sociale (Dupras, 2015). I disabili che hanno acquisito l’handicap successivamente ad incidenti o malattie, durante la fase pubero/adolescenziale possono sviluppare sentimenti di rabbia e di disagio legati alla delusione di vedersi negata una condizione che alla nascita gli spettava di diritto (Baldaro, Verde, 1987).

La disabilità di tipo psichico ha invece tutta un’altra caratteristica in quanto gli individui hanno sviluppi psico-fisici differenti. Se al livello cognitivo possono restare lontani dall’età biologica a livello fisico possono in genere rispettare le normali tappe dello sviluppo erotico-sessuale. Appare quindi scontato che ancor più dei disabili motori, gli individui con disabilità psichica e mentale, subiscono maggiori restrizioni e privazioni in campo sessuale, nonostante diversi studi (Turner, 2016; Dupras, 2015) mostrino come abbiano desideri, bisogni e rappresentazioni. Come suggerisce Loperfido (1987) e Turner (2016) è possibile però non rimanere ancorati ai giudizi e pregiudizi nei confronti della sessualità nella disabilità psichica. Infatti, sul piano del “fare”, l’educazione sessuale acquista un significato fondamentale. Ma come è possibile fare?

 

Assistente sessuale: verso una sessualità più autonoma

Sarebbe utile insegnare alle persone che ruotano intorno al diversamente abile, famiglia ed educatori (Villar et al, 2016), ad affrontare questi argomenti in maniera serena e a far acquisire una cosiddetta normalità attraverso l’accettazione della diversità del proprio corpo, riconoscerne i limiti, sia fisici, sia psichici che sensoriali, e stimolarne le potenzialità verso una condizione sociale che li renda più autonomi e che rafforzi la propria identità (Lolli et al, 2010).

In questa visione non può mancare un percorso di autonomia verso una sessualità possibile e autogestita fatta non solo da rapporti sessuali completi ma da gesti che possono essere carezze, baci, tenersi la mano o stare al telefono con il proprio partner (Veglia, 2000). Autonomia che va incoraggiata e sperimentata. Sperimentazione che in Europa è già possibile attraverso il servizio di Assistenza Sessuale e, dunque, la figura dell’ Assistente Sessuale. In Europa già dagli anni ’80, Germania e Paesi Bassi, hanno istituito dei “Servizi di Assistenza Sessuale” gestiti da associazioni come la SAR (Associazione per le Relazioni Alternative) nei Paesi Bassi e la SENIS in Germania. Ad oggi l’assistente sessuale per disabili è una figura professionale presente e legalizzata in Germania, Olanda e Scandinavia, Gran Bretagna e Svizzera dove l’ assistenza sessuale è un fatto acquisito, un aiuto a ragionare meglio sul tabù dell’amore, fisico e sentimentale, che accompagna l’esistenza delle persone diversamente abili.

Questi progetti nascono dalla necessità di rispondere al semplice bisogno del portatore di disabilità di avere un’intimità propria che migliori la possibilità di relazionarsi con il mondo esterno con una diminuzione della frustrazione e dell’aggressività conseguente alla gratificazione di una parte così importante dei bisogni primari (Turner, 2016), sgravando la famiglia che negli anni passati se ne occupava o personalmente o cercando modi alternativi per sfogare i desideri del figlio (es prostituzione) (Ulivieri, 2014)

Il servizio di assistenza sessuale consente da una parte l’espressione dei bisogni sessuali e dall’altra cerca di sviluppare un’esperienza affettiva. L’ assistente sessuale (Nuss, 2008) o accompagnatore sessuale, è un professionista, uomo o donna, sano nel corpo e nello spirito, che ha deciso volontariamente di fornire aiuto alle persone con handicap a vivere la loro sessualità:

  • Permette alle persone con deficit mentale o psichico, o entrambi, di vivere una esperienza erotica, sensuale o sessuale
  • Propone dei massaggi, contatto fisico, corpo a corpo, stimolazione tattile, consigli sulla masturbazione;
  • Permette alle persone con disabilità di raggiungere il piacere orgasmico;
  • Tratta le persone con disabilità come “individui” alla pari.

Gli operatori vengono formati appositamente, lavorano in modo volontario e non sono legati al mondo della prostituzione (Limoncin et al., 2014). Le modalità di selezione degli assistenti sessuali sono assolutamente rigorose. L’operatore definito del “benessere sessuale” ha dunque una preparazione adeguata e qualificante e non concentra esclusivamente l’attenzione sul semplice processo “meccanico” della sessualità ma promuove attentamente anche l’educazione sessuo-affettiva.

L’ assistenza sessuale a persone con Disabilità rappresenta quindi un concetto che racchiude allo stesso tempo “rispetto” e “educazione”, che solo per un paese civile può rappresentare la massima espressione del “diritto alla salute e al benessere psicofisico e sessuale” (Ulivieri, 2015).

Per questo motivo parlare semplicemente di Assistenza Sessuale può risultare estremamente riduttivo, qualificarne il concetto più complesso attraverso i termini Assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità permette di assaporare tutte quelle sfumature in essa contenute (Ulivieri, 2015).

L’assistenza all’emotività, all’affettività, alla corporeità e alla sessualità si caratterizza con la libertà di scelta da parte degli esseri umani di vivere e condividere la propria esperienza erotico-sessuale a prescindere dalle difficoltà riscontrate nell’esperienza di vita.

Aiutano il soggetto disabile a rendersi protagonista maggiormente responsabile delle proprie relazioni sia sentimentali che sessuali, favorendo una maggiore conoscenza e consapevolezza di sé ed una più adeguata capacità di prendersi cura del proprio corpo e della propria persona (Ulivieri, 2015).

Gli incontri si orientano in un continuum che va dal semplice massaggio o contatto fisico, al corpo a corpo, sperimentando il contatto e l’esperienza sensoriale, dando suggerimenti fondamentali sull’attività autoerotica, fino a stimolare e a fare sperimentare il piacere sessuale dell’esperienza orgasmica. L’ assistente sessuale può aiutare ad accogliere e non reprimere le diverse istanze del proprio corpo, dei sensi e delle emozioni. Questo aspetto emerge anche da diversi studi (Gammino et al, 2016) nei quali i risultati suggeriscono che i servizi di assistenza sessuale potrebbero rappresentare una opportunità per le persone con disabilità di scoprire nuovi modi per soddisfare le loro esigenze personali e di vivere in modo più autonomo, mentre, allo stesso tempo, permettono ad aspiranti assistenti sessuali per soddisfare il loro desiderio di essere utile. Naturalmente questa assistenza non vuole essere la risoluzione al problema, dai dati infatti emerge anche il desiderio di creare una relazione romantica con un partner, ma può essere l’ assistenza sessuale considerata, finalmente, una rottura del silenzio, l’inizio di una presa di consapevolezza da parte della società.

 

L’assistenza sessuale in Italia

In Italia? Nel 2014 nasce Lovegiver (www.lovegiver.it) un’associazione che promuove l’istituzione dell’ assistenza sessuale anche attraverso l’Osservatorio Nazionale sull’Assistenza Sessuale, un organo interno che, per mezzo di alcuni attivisti coordinati dal Prof. Fabrizio Quattrini, promuove un dialogo costante e funzionale in materia di sessualità e disabilità. L’Osservatorio Nazionale sull’Assistenza Sessuale ha tre scopi principali: la ricerca, l’aggregazione-controllo e la rete. Da un anno è fermo il Disegno di legge 1442 del 24 Aprile 2014 sull’istituzione e la regolamentazione dell’ Assistenza Sessuale in Italia, alcune regioni si stanno muovendo ma senza prendere ancora una reale decisione in materia.

Significato narcisistico del tema del Doppio: una relazione con la rappresentazione filmica

La rappresentazione del tema del Doppio nel cinema ha destato molto interesse tra i critici oltre che per l’esame, dal punto di vista psicoanalitico, dei personaggi, anche per la storia e l’eventuale analisi biografica e psichica del regista/sceneggiatore.

 

 

Tra tutti i film di seguito citati, sarà possibile trovare degli elementi comuni:

  1. I meccanismi basilari di difesa che attraverso la scissione e la proiezione producono il Doppio ed eludono l’angoscia. All’origine ci sono desideri illeciti, sensi di colpa inconfessati, conflitti insanabili, le parti non realizzate di sé, i lati rinnegati e sconfessati.
  2. Il vertice dell’angoscia è sempre il ritorno del rimosso; quando le parti scisse si riaffacciano alla coscienza e il Doppio pretende la reintegrazione nell’Io.

Come già accennato, non comuni ma a parer mio interessanti da analizzare e osservare, sono gli aspetti della costituzione psichica e le affinità personologiche o biografiche che talvolta si possono trovare tra gli autori delle opere ed i protagonisti delle stesse.

I primi film sul tema del Doppio si ispiravano ad opere letterarie che trattassero questa nuova e affascinante tematica: ecco quindi Der Student von Prag (Lo studente di Praga, 1913) di Stellan Rye, tratto dal testo di H. H. Ewers; Le feu Mathias Pascal (Il fu Mattia Pascal 1926) di Marcel L’Herbier, tratto da Pirandello; le innumerevoli versioni del Dr Jekyll e Mr Hyde; stesso discorso vale per il Frankenstein di Mary Shelley, anche qui decine di versioni e di cui la più fedele sembra senza dubbio Il Mary Shelley’s Frankenstein (1994) di Kenneth Branagh. Altre trasposizioni letterarie da menzionare sono Partner (1968) di Bernardo Bertolucci, ispirato a Il sosia di Dostoevskij; Blade Runner (1982) di Ridley Scott, tratto da Philip K. Dick e The Dead Zone (La zona morta, 1983) di David Cronenberg, tratto dall’opera omonima di Stephen King.

Ovviamente l’horror e il thriller hanno usufruito molto del tema del Doppio. Alfred Hitchcock, ad esempio, ha realizzato opere come Vertigo (La donna che visse due volte, 1958) e Psyco (1960), in cui il Doppio rappresenta il vuoto, il buco nero, da cui tutti i personaggi fuggono ma verso il quale tutti sembrano attratti, la voragine in cui essi corrono sempre il rischio di precipitare.

Nella cinematografia americana, il Doppio si presenta come persecutore e manifesta anche la sua attitudine magnetica (il classico fascino del Male) anche se, alla fine, dovrà soccombere per far tornare tutto come era prima e per assicurare il classico lieto fine; invece nelle tradizioni del tema del Doppio propriamente europee, il riflesso è la figura persecutrice per eccellenza, e che dopo varie vicissitudini, conduce il protagonista alla morte.

Per una maggiore comprensione, vediamo ora di suddividere questo affascinante e complesso genere in determinate categorie.

 

Il tema del doppio e la doppia identità

Molto popolare è il tema della doppia identità: il tema dell’identità segreta eroica e di quella pubblica banale. E’ il caso di Zorro, Superman, Batman, Spiderman, de L’uomo ombra e di Cat Woman, in cui spesso si compensa con la megalomania dell’immagine eroica, le ansie e le frustrazioni della mediocrità di quella privata; la doppia identità è una prerogativa obbligata di tutte le spie come La primula rossa, James Bond e La Talpa; talvolta a complicare le cose, ci sono le spie affette da amnesia, che conducono una vita tranquilla senza sospettare del loro turbolento passato come Matt Damon che perde e ritrova la memoria nella saga dedicata a Jason Bourne (The Bourne Identity, 2002; The Bourne Supremacy, 2004 e The Bourne Ultimatum, 2007) e Geena Davis, al contempo madre amorosa e spietata killer in Spy (1996).

Interessante è l’intersezione che nasce tra il tema del Doppio e il tema del travestitismo per cui abbiamo anche le doppie identità di genere sessuale: Tootsie (1982) di Sidney Pollack , con un Dustin Hoffman travestito da donna; Mrs Doubtfire (1993) con Robin Williams nei panni di una simpatica governante alquanto bizzarra e Victor Victoria (1982) di Blake Edwards con una Julie Andrews travestita da uomo. Rientra in questo filone, ovviamente con tratti più interessanti e dai toni più drammatici, anche M. Butterfly (1993) di David Cronenberg.

 

Il tema del doppio tra umano- animale e umano- macchina

Il tema del Doppio si può declinare tra umano e angelico, come il delizioso angelo di mezza età de It’s a Wonderful Life (La vita è meravigliosa, 1946) di Frank Capra, o come l’arcangelo mangione e ubriacone, che perde le piume, interpretato alla perfezione da John Travolta in Michael (1996); oppure tra umano e demoniaco, come accadde a suo tempo in Rosemary’s baby (1968) di Roman Polanskj e più recentemente in The Devil’s Advocate (L’avvocato del diavolo, 1997), con un Al Pacino perfettamente a suo agio nel ruolo del titolo. Ci sono anche i Doppi costituiti da umano e animale: Wolf (Wolf – La Belva è fuori, 1994) di M. Nichols e The Fly (La Mosca, 1986) di D. Cronenberg rappresentano, attraverso vere e proprie metamorfosi fisiche (da uomo a lupo e da uomo a mosca), la violenza e la sofferenza indotte da crisi esistenziali.

Abbiamo poi i Doppi post-moderni composti da uomo e macchina: Blade Runner di Ridley Scott, Robocop (1987) di Paul Verhoeven, Terminator (1984) e il più recente Avatar (2009) entrambi di James Cameron. L’immagine cinematografica dell’armatura, corpo lucente e raddoppiato che potenzia, speciale incarnazione di una figura che incarna il tema del Doppio, misteriosa e ambigua, ha attraversato la storia della Settima Arte. Un Doppio-risorsa, quindi, che dà nuove energie e che garantisce nuova forza. Il Doppio in realtà si rivela come l’Io nascosto, coperto, mascherato e illusoriamente protetto. Tra superficie corporea e superficie metallica il confine si annulla. In particolare in Blade Runner il tema del replicante propone la tematica dell’identificazione condizionata da introiezioni imitative e, in definitiva, dalla clonazione, dove l’illusione dell’autogenerazione esprime l’ideale di un’autosufficienza assoluta.

 

Il tema del Doppio nella rappresentazione cinematografica della psicopatologia

L’incarnazione più naturale del tema del Doppio è sicuramente quella dei gemelli, nel classico cliché gemello buono/gemello cattivo: i due Leonardo Di Caprio in The Man in the Iron Mask (La maschera di ferro, 1998); Dead Ringers (Inseparabili, 1988) di David Cronenberg, in cui Jeremy Irons interpreta due gemelli ginecologi, entrambi perversi.

Il filone sicuramente più interessante, che ci riguarda da vicino, è però quello della messa in scena della psicopatologia, dove il modo nel quale viene di volta in volta raccontata la personalità dissociata o alternante, è rivelatore delle teorie dell’epoca.

Spesso il cinema ha raccontato storie di sofferenza mentale e di manifestazioni psicopatologiche come la schizofrenia. I contributi sono in questo senso numerosi e c’è solo l’imbarazzo della scelta. Il cinema di I. Bergman, F. Fellini, L. Bunuel, B. Bertolucci offre innumerevoli spunti in proposito. In particolare la schizofrenia viene proposta nelle diverse versioni cinematografiche de Lo strano caso del dottor Jekill e di Mr. Hyde, o in Dressed to Kill (Vestito per uccidere, 1980) di Brian De Palma in cui Michael Caine interpreta uno psichiatra travestito e assassino. A tal proposito, ricordiamo due film di C. Chabrol significativi, La Cérémonie (Il buio nella mente, 1995) e Merci pour le chocolat (Grazie per la cioccolata, 2000), che riescono a rappresentare la drammatica sofferenza di un’identità malata e i percorsi del mondo interiore, al quale bisogna guardare per comprendere atteggiamenti estremamente violenti e distruttivi, che altrimenti sarebbero inspiegabili.

In particolare nel secondo film la protagonista, interpretata da Isabelle Huppert, è una donna bella, elegante, che appare prevedibile e tranquilla. In realtà nasconde un misterioso abisso di male assoluto, un’identità fragile che non sopporta le frustrazioni e che uccide quando non può realizzare un suo desiderio. La storia racconta che lei è così perché ha vissuto un trauma, di cui si era liberata solo escludendo parti di sé problematiche, rinunciando all’aggressività, all’ambivalenza, al conflitto. Solo apparentemente sana, nasconde in realtà un Io impoverito e vulnerabile, incapace di vivere i conflitti, la competizione, le perdite, senza frantumarsi o agire pericolosamente.

Entrambi i film rappresentano la complessità dell’identità e riflettono sulla possibile esistenza di zone psichiche svuotate, apparentemente inattive, non evidenti, ma potenzialmente dannose e mortali. Essi producono un senso di sorpresa e di spaesamento emotivo nello spettatore, spiazzato dallo svelamento di aspetti insospettabili dell’identità dei protagonisti, in cui si era inizialmente identificato e da cui poi deve prendere le distanze.

 

Il narcisismo nel Doppio

Perché associamo al tema del Doppio, un significato narcisitico? Le rappresentazioni del motivo del doppio nei diversi ambiti analizzati, in alcuni casi pongono in risalto la concezione freudiana della predisposizione narcisistica alla paranoia, ed indicano nel proprio io, il principale persecutore contro cui si rivolge il meccanismo di difesa.

La scissione psichica crea il doppio” il quale a sua volta costituisce “una proiezione del conflitto interiore” e la cui creazione porta con sé una liberazione interiore, seppur a prezzo della paura dell’incontro con il “doppio”. Uccidere/sconfiggere o in altri casi accettare questa figura è il prezzo da pagare per superare il conflitto.

Anedonia musicale: questione di ridotta connettività cerebrale

Le persone che non traggono piacere dall’ascolto della musica – una condizione specifica chiamata “anedonia musicale” – hanno mostrato una connettività funzionale ridotta tra le regioni cerebrali responsabili dell’elaborazione del suono e quelle collegate alla ricompensa.
Questo è il risultato di un nuovo studio dei ricercatori dell’Università di Barcelona e dell’Istituto Neurologico di Montreal e Ospedale della McGill University.

 

Anedonia musicale: lo studio

Per capire l’origine dell’anedonia musicale, che riguarda tra il 3% e il 5% della popolazione, i ricercatori hanno reclutato 45 soggetti in salute, che hanno completato un questionario che misurava il loro livello di sensibilità alla musica e li ha divisi in tre gruppi di diverso livello di sensibilità, in base alle loro risposte.

In seguito, i soggetti hanno ascoltato degli estratti di brani all’interno di un macchinario per la risonanza magnetica funzionale (fMRI) mentre fornivano delle valutazioni riguardo al piacere associato, in tempo reale.
Per controllare la loro risposta cerebrale ad altri tipi di ricompensa, i partecipanti hanno anche preso parte ad un gioco basato sulla scommessa, in cui potevano realmente vincere o perdere denaro.

 

Gli anedonici musicali

Utilizzando i dati fMRI, i ricercatori hanno scoperto che mentre ascoltavano musica, gli anedonici musicali presentavano una riduzione dell’attività del nucleo accumbens, una struttura sottocorticale chiave per il network della ricompensa. La riduzione non era correlata ad un funzionamento improprio generale del nucleo accumbens, dal momento che questa regione risultava attivarsi quando gli stessi soggetti vincevano del denaro durante il compito della scommessa.

Essi, tuttavia, mostravano una connettività funzionale ridotta tra regioni corticali associate con l’elaborazione uditiva e il nucleo accumbens.
Di contro, lo studio ha evidenziato che gli individui con un’alta sensibilità verso la musica, mostravano una connettività migliore tra le stesse regioni cerebrali.
In accordo coi ricercatori, il fatto che le persone possano essere insensibili verso la musica nonostante siano reattivi ad altri stimoli, come il denaro, suggerisce differenti vie cerebrali per la ricompensa, dipendenti da differenti stimoli.

 

Discussione dei risultati e possibili sviluppi

Questi risultati potrebbero spianare la strada per uno studio dettagliato sui substrati neurali alla base di altre anedonie dominio-specifiche. I ricercatori aggiungono che potrebbe anche aiutare a comprendere, in una prospettiva evoluzionista, come la musica abbia acquisito valore di ricompensa.

E’ stato dimostrato che una connettività cerebrale poco potenziata starebbe alla base di altri deficit nelle abilità cognitive.
Studi su bambini con autismo, ad esempio, hanno mostrato che la loro incapacità di esperire come piacevole la voce umana, potrebbe essere spiegata da un mancato collegamento tra il solco temporale superiore posteriore bilaterale e le regioni chiave del sistema di ricompensa, che includono il nucleo accumbens.

“Questi risultati non solo ci aiutano a comprendere la variabilità individuale nelle modalità con cui funziona il sistema di ricompensa, ma potrebbe anche essere applicato allo sviluppo di terapie per il trattamento di problematiche legate alla ricompensa, come apatia, depressione o dipendenze” sostiene il Dr. Robert Zatorre, Neuroscienziato dell’ Istituto Neurologico di Montreal, nonché uno dei co-autori dell’articolo.

Perfetti sconosciuti: amore, amicizia e menzogne nel film di Paolo Genovese – Cinema & Psicologia

Il film “Perfetti sconosciuti” è una commedia arguta, spietata e divertente da morire in senso vero e proprio perché suscita una grande disperazione sulla natura dell’essere umano se non la si trasforma rapidamente in compassionevole benevolenza scoprendolo sostanzialmente buono ma straordinariamente bischero da essersi dato assurde regole che poi regolarmente trasgredisce annegando nella rabbia, nella colpa e nella vergogna.

 

“Perfetti sconosciuti”: una commedia divertente dai temi importanti

“Non ho voluto giocassimo perché siamo tutti frangibili” con queste parole Marco Giallini uno dei sette superbi protagonisti imbocca nell’altro verso la sliding door e riporta la pellicola sul binario di una consueta ipocrita e rassicurante serata tra vecchi amici che celebrano – ognuno con un ruolo risaputo – la solita messa della conferma della propria identità chiamando gli altri come testimoni e specchi a colpi di “ti ricordi…..” e si “ è sempre stato così….”. Non dice fragili che richiama l’idea di debolezza e friabilità, ma “frangibili”. E’ frangibile qualcosa di apparentemente solido e duro ma che può rompersi. Ricordo tutta la famiglia impegnata a raccogliere i minutissimi cristalli sul pavimento della cucina tra i “ lo avevo detto io” di mia nonna dopo che mio padre per mostrarle i segni del galoppante progresso del dopoguerra che già ci aveva donato il Moplen (che valse il premio nobel nel 1963 a Giulio Natta chimico di Imperia), aveva lanciato per l’ennesima volta a terra un bicchiere appunto infrangibile che era letteralmente esploso.

Il passaggio in televisione su Sky di “ Perfetti sconosciuti ” il film di Paolo Genovese che ha fatto incetta di meritatissimi premi mi ha riproposto, come i peperoni ripieni, alcuni temi che tipicamente conducono le persone nelle sale d’attesa di psicoterapeuti e avvocati. Come spesso succede la seconda visione di un film permette di apprezzarne meglio le sfumature non più catturati dalla curiosità sulla intrigante vicenda. Il film è una commedia arguta, spietata e divertente da morire in senso vero e proprio perché suscita una grande disperazione sulla natura dell’essere umano se non la si trasforma rapidamente in compassionevole benevolenza scoprendolo sostanzialmente buono ma straordinariamente bischero da essersi dato assurde regole che poi regolarmente trasgredisce annegando nella rabbia, nella colpa e nella vergogna.

L’amore e l’amicizia al centro della trama di “Perfetti sconosciuti”

Tralascio qualsiasi accenno sul film se non che è lo scoprirsi come perfetti sconosciuti di sette amici storici che decidono di condividere sms e telefonate per lo spazio di una cena. I segreti non riguardano ovviamente solo la vita affettivo sessuale ma più in generale il modo in cui ci si è sempre raccontati seppure la parte principale la fanno appunto gli intrighi amorosi. Dati di maggio 2016 riportati dalla sessuologa Roberta Giommi e ripresi dal Corriere della sera e dall’Avvenire (quest’ultimo per invitare al perdono cristiano i cornuti) ci dicono che in Italia l’80% delle coppie si tradisce e che a sua volta l’80% dei tradimenti viene scoperto e ancora che il 70% delle coppie con un tradimento scoperto sopravvive (fatti due calcoli con le probabilità multiple il 40% delle coppie si separa per un tradimento scoperto). A questo tema con Sandra Sassaroli abbiamo dedicato una serie di articoli sotto il titolo complessivo di “Tracce del tradimento”.

L’origine della maggior parte dei guai sta nell’identificazione tardo romantica dell’amore e della sua forma codificata, il matrimonio, con la passione e l’innamoramento, con la conseguenza che ci si giura eterno amore e poi quando invece ci si innamora di qualcun altro va tutto a monte.
L’amore riguarda i comportamenti volontari, è decidibile e gestibile ed ha lo scopo di fare in modo che l’altro stia bene. In termini più tecnici amare vuol dire adottare gli scopi di un altro, vale a dire che si ha lo scopo che lui raggiunga i suoi scopi (attenzione non i propri ed è al confine tra i sistemi motivazionali della cooperazione e dell’accudimento/attaccamento).

Lo vediamo all’opera nell’amicizia, nell’amore per i figli e va dal semplice “voler bene” al “dare la vita per l’altro”. L’amore – essendo un atteggiamento del soggetto- non si riduce se praticato, ma addirittura nell’allenamento si accresce. Ogni figlio è amato completamente, chi ha molti amici non gli vuole meno bene di chi ne ha pochi, anzi. La parola d’ordine dell’amore è “dare” o, nella sua versione grandiosa “darsi”.

L’innamoramento è tutta un’altra faccenda. Qui la parola d’ordine è “prendere”. Gli scopi che si perseguono sono i propri e sono scopi di possesso dell’altro. Il bene dell’altro è perseguito solo se coincide con il proprio, altrimenti lo si ignora e non c’è bisogno di arrivare ai casi di femminicidio per constatarlo. Il sistema motivazionale in ballo è quello sessuale/riproduttivo ed è prevista l’esclusività che la gelosia protegge. L’innamoramento sebbene non ne conosciamo esattamente i trigger è ingestibile, riguarda i sentimenti e non i comportamenti e quindi è azzardato, presuntuoso o mendace prendere impegni su di esso perché è indipendente dalla volontà.

Questa ovvietà l’umanità la conosceva benissimo nel lontano tempo dei matrimoni combinati che erano un contratto che nulla aveva a che fare coi sobbalzi del cuore (matrimoni che non sembra avessero esiti peggiori degli attuali) e fino alle nostre bisnonne che tolleravano un marito cacciatore nei bordelli e con le amanti, meglio se più d’una, purchè portasse a casa lo stipendio e non le malattie. Sulla donna che tradisce si è sempre stati un po’ più rigidi sia per il predominio maschile nella società, sia perchè la paternità non è mai certa come la maternità per cui lo stipendio portato a casa rischia di essere utilizzato per allevare un bastardo con un certo disappunto del gene egoista (vedi la teoria di Dawkins). Il rapporto tra innamoramento e amore è complesso. Non nego che l’innamoramento, non scelto, possa essere un utile viatico per la scelta dell’oggetto d’amore, purchè non si confondano le due cose e non ci si meravigli quando il primo, terminato il suo compito di talent scout, torni a fare il suo lavoro su più vasta scala. Immaginate come sarebbe un mondo in cui non si debba fingere sentimenti su cui non si ha controllo ma invece si fosse rispettosi nei comportamenti ai contratti fatti!

Ipocrisia e verità a confronto

Il film Perfetti sconosciuti smaschera l’ipocrisia con cui proteggiamo la nostra zona di comfort identitario (chi è senza peccato scagli la prima pietra) ma contemporaneamente il mito della sincerità assoluta. Da inveterato bugiardo e contastorie sono naturalmente diffidente verso coloro che affermano di essere senza segreti (non è, tra l’altro, un item della scala L del MMPI?), di dire sempre la verità vera, di non avere peli sulla lingua e riferire chiaramente le cose come stanno (trascurando che le cose stanno soprattutto negli occhi degli osservatori). La verità è assolutamente sopravvalutata.

Quando mi capita di ricevere insieme ad un figlio una madre che dichiara orgogliosa “ entro,dottore, tanto lui non ha segreti per me”, in prima battuta penso che il ragazzo è stato bravo a farglielo credere, godendo così di molta più libertà di manovra non essendo attenzionato, ma se mi accorgo che le cose stanno effettivamente così allora mi preparo a tirar fuori l’armamentario farmacologico perché il rischio psicotico è elevato. Voglio dire che è intorno alle piccole omissioni e menzogne che si costituisce il primo adolescenziale nucleo identitario. Verrebbe da dire “Mento ergo sum”. E forse non è un caso che in questa prima separazione protetta dalla menzogna, il corpo e la sessualità, le porte chiuse del bagno e la chiave della stanza e dei cassetti abbiano un ruolo centrale.

Comunque il film merita di essere visto soprattutto perché è bello, originale e pieno di colpi di scena, ma prima assicuratevi del candore del vostro cellulare.

L’eye-tracking device come strumento di supporto per misurare le prestazioni di un’organizzazione

Eye Tracking: questa tecnica consiste nel registrare la dilatazione e la contrazione delle pupille, realizzando un tracciato oculare capace di definire l’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione.

 

Balanced scorecard: uno strumento per misurare le prestazioni di un’organizzazione

Capita spesso, quando ci si trova a dover compiere delle valutazioni o dei processi decisionali, di ricorrere, il più delle volte inconsapevolmente, ad esperienze pregresse di giudizio. Questo si verifica non solo quando, per il processo valutativo, vengono utilizzati strumenti qualitativi, come interviste più o meno strutturate o veri e propri colloqui di valutazione, ma anche quando ci si affida a uno strumento oggettivo, come la balanced scorecard.

La balanced scorecard (BSC) è un strumento inventato da Robert Kaplan e David Norton nel 1996 per misurare e valutare le prestazioni di un’organizzazione. L’idea era quella di fornire alle aziende uno strumento che fosse capace di bilanciare l’indicatore economico-finanziario, fino a quel momento l’unico indicatore utilizzato, con altre prospettive, come quella del cliente, dei processi interni e della formazione e crescita aziendale.

Negli anni, la BSC si è sviluppata, fino ad arrivare al modello attuale, che permette ad un’organizzazione di tradurre la propria visione e la propria strategia secondo una nuova struttura, attraverso la quale la strategia viene descritta e comunicata in termini di obiettivi, iniziative e misure per attuarla.

Appare evidente, quindi, l’utilità di questo strumento nell’attuale contesto organizzativo, all’interno del quale i tradizionali asset tangibili cedono il posto agli asset intangibili che caratterizzano il vero patrimonio professionale, relazionale e organizzativo del mondo del lavoro. Il mero indicatore economico-finanziario non può render conto, infatti, delle molteplici variabili capaci di influenzare le prestazioni di un’organizzazione, né le valutazioni di queste ultime. I valori e gli stili di gestione, la qualità e l’efficienza della routine organizzativa, la durata e la forza del rapporto tra organizzazione e cliente o fornitore o, ancora, tra organizzazione e partner strategico, sono solo alcuni dei numerosi beni intangibili che pesano sulla valutazione di un’organizzazione.

Seppur di estrema utilità, la BSC non è immune da limiti. Uno di questi è la possibilità che i processi di valutazione dei manager vengano influenzati da bias attentivi durante la fase di acquisizione delle informazioni.

 

Eye tracking Device: uno strumento per misurare l’attenzione durante l’esecuzione di un compito o la visione di un prodotto

Numerosi sono gli strumenti utilizzabili per misurare l’attenzione durante l’esecuzione di un compito, come l’elettroencefalogramma (EEG) o la risonanza magnetica funzionale (fMRI), capace di identificare le aree cerebrali maggiormente attive quando una persona prende decisioni. Uno strumento che merita di essere qui citato, se non altro per la più semplice utilizzazione rispetto ai sopra citati, è l’ Eye Tracking Device.
Questa tecnica consiste nel registrare la dilatazione e la contrazione delle pupille, realizzando un tracciato oculare capace di definire l’intero percorso effettuato dall’occhio durante la visione.

È uno strumento ampiamente usato negli studi di marketing e pubblicità, ad esempio per formulare ipotesi sugli elementi di successo e sui punti deboli di una campagna di marketing, prima che sia presentata al pubblico, semplicemente osservando i movimenti oculari di un potenziale cliente tra gli scaffali di un negozio. E non solo. Grazie all’ Eye Tracking è possibile dedurre il livello di attenzione di una persona verso uno o più oggetti, il modo di trattare le informazioni, nonché le strategie di esplorazione di una pagina.

In che modo questo strumento dovrebbe costituire un valido alleato della BSC? In altri termini, cosa può dirci la pupillometria sulle modalità di acquisizione di informazione e di valutazione dei managers di una grande organizzazione?

Un recente studio di Kramer e Mass (ottobre 2016) fornisce, al riguardo, risultati interessanti. L’intento era quello di analizzare i movimenti oculari di alcuni manager mentre studiavano le informazioni contenute negli scorecard dei subordinati, che contenevano i valori di riferimento e i punteggi attuali relativi a diverse misure di performance, alla ricerca di bias attentivi che in qualche misura potessero spiegare i bias di valutazione.

I risultati suggeriscono, ad esempio, che la configurazione dello scorecard sia in grado di spostare l’attenzione del valutatore verso alcuni item piuttosto che altri e che i valutatori tendano a dare maggiore importanza alle tabelle posizionate nella parte alta dello schermo. Sembra, invece, che l’attenzione decresca progressivamente scendendo verso il basso. Inoltre, sembrerebbe che neanche i managers siano immuni dal cosiddetto “effetto primacy”, per cui alle informazioni presentate prima viene data maggiore attenzione rispetto alle successive.

Un altro studio significativo è quello di Chen, Jermias & Panggbean (2015), i quali, ricorrendo allo stesso modo all’ Eye Tracking Device, si sono posti come obiettivo quello di investigare quali stimoli caratteristici della BSC fossero in grado di influenzare l’attenzione dei manager, e come ciò potesse avere effetti sulla qualità delle loro decisioni. I risultati dello studio suggerivano alle aziende che utilizzavano la BSC la necessità di formare i propri manager sull’importanza delle misure collegate in modo strategico, così che potessero diventare abili nell’utilizzare questa conoscenza nel prendere decisioni.

Concludendo, le capacità dei Manager di processare informazioni, per quanto affinate possano essere, sono ad ogni modo limitate. Per questo, i manager si trovano spesso a dover selezionare le informazioni di cui tener conto, tra le diverse offerte dallo scorecard. Data la complessità delle misure di performance offerte dalla BSC e dei sistemi di valutazione, appare evidente la necessità di dotare ogni azienda che utilizza tale strumento, di programmi di training e di ausili per la decisione che possano aumentare l’accuratezza, diminuire lo sforzo necessario per prendere decisioni di qualità, aumentare le risorse cognitive e formare i nuovi manager.

L’ Eye Tracking  si inserisce in quest’ottica, come strumento di supporto nell’utilizzo della BSC, offrendo alle aziende la possibilità sia di monitorare periodicamente il processo decisionale dei manager e correggere eventuali bias attentivi, sia di avere uno strumento di controllo utile nelle fasi di formazione dei nuovi manager.

I bisogni di cura di utenti psichiatrici residenti nelle comunità alloggio di Modena: uno studio longitudinale

Il termine “Bisogno” si riferisce ad un concetto sulla cui definizione non esiste unanime consenso. Nonostante siano stati riconosciuti all’unisono, nel corso dell’ultimo decennio, sia l’importanza dell’approccio di cura basato sui bisogni, nell’ambito dell’assistenza ai pazienti affetti da disturbi mentali gravi, sia la presenza di una vasta gamma di bisogni di cura clinici e sociali in questo tipo di utenza, esiste ancora molta confusione e disaccordo su come tali bisogni vadano definiti e valutati (Holloway, 1993).

Francesco Romeo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

I diversi significati del concetto “bisogno”

In psichiatria, il concetto di bisogno è stato considerato secondo due diversi accezioni. Nella prima è inteso come “carenza di salute”, un deficit di benessere, rispetto ad uno standard considerato accettabile in un dato contesto culturale, espresso attraverso determinati sintomi (Davies & Challis, 1986). Tale definizione risulta però di scarsa utilità pratica ed operativa.

La seconda accezione, proposta dal gruppo di ricerca della Social Psychiatric Unit dell’Istituto di Psichiatria di Londra, si riferisce al concetto di “Bisogni di Cura”. Secondo tale approccio il “bisogno di cura” rappresenta una condizione in cui [blockquote style=”1″]il funzionamento fisico, psicologico e sociale di un paziente si colloca o rischia di collocarsi al di sotto di un determinato livello minimo a causa di un evento rimediabile o potenzialmente tale[/blockquote] (Brewin et al., 1987). Si sottolinea la necessità che il paziente affetto da disabilità non riceva alcun tipo di aiuto nonostante l’esistenza di interventi terapeutici di provata efficacia. Tale definizione, al contrario della prima, risulta utile dal punto di vista operativo, in quanto aiuta ad evidenziare quelle situazioni in cui l’azione di un servizio è carente e suggerisce in quale direzione debba essere potenziata (Lasalvia et al., 2000a).

Tale concetto si basa su una prospettiva definita di tipo “Normativo”, i cui presupposti fondanti sono: che la valutazione del bisogno sia frutto esclusivo del giudizio di un esperto (che stabilisce quando e in che modo intervenire), che esista consenso su quali interventi siano da considerare efficaci per la risoluzione dei diversi bisogni, che esista accordo sul giudizio di rimediabilità dell’evento causante la disabilità psicosociale e infine che esista consenso sulla definizione di uno standard di funzionamento minimo accettabile.

 

La prospettiva negoziale dei bisogni di cura

Secondo la prospettiva “Negoziale” [blockquote style=”1″]il bisogno rappresenta un concetto dinamico, mutevole e contesto-dipendente, non rigidamente oggettivabile, la cui valutazione deve tenere conto oltre che del punto di vista degli esperti anche di quello degli stessi pazienti[/blockquote] (Slade, 1994; Slade & Thornicroft, 1995).

Slade (1994) infatti, occupandosi della questione relativa alle differenze nella percezione dei bisogni di cura tra operatori e utenti dei servizi di salute mentale, sostiene la necessità, una volte identificate tali differenze, di dare luogo ad un processo di negoziazione tra staff ed utenti, per concordare i programmi terapeutici.

In base al pregiudizio secondo cui i “malati di mente” non sono in grado di valutare le cure ricevute, il punto di vista del paziente è stato quasi sempre ignorato in psichiatria. Nonostante la consapevolezza di alcuni pazienti (soprattutto quelli più gravi) sui propri problemi sia spesso parziale e imprecisa (Perkins & Moodley, 1993), il loro punto di vista è fondamentale per cogliere quegli aspetti dell’interazione fra utenti e servizi che solitamente sfuggono all’osservazione dei soli operatori e che hanno un ruolo di grande importanza nel determinare lo stile d’interazione con il servizio e l’efficacia dei progetti terapeutici (Ruggeri et al., 1999). Non si può, inoltre, trascurare il fatto che gli operatori spesso non sono in grado di percepire quegli aspetti che l’utenza considera prioritari, che rischiano così di non essere adeguatamente soddisfatti.

L’approccio negoziale è quello che negli ultimi anni si sta affermando maggiormente a livello internazionale e che sta fornendo contributi più interessanti e fecondi sia sul piano clinico che su quello della ricerca (Lasalvia et al., 2000 c).

La riflessione sul tema dei bisogni di cura dei pazienti psichiatrici e su quello conseguente della risposta a tali bisogni, irrompe prepotentemente nello scenario psichiatrico italiano negli anni che hanno accompagnato il processo della riforma dell’assistenza psichiatrica attraverso l’entrata in vigore della Legge 180. L’invito di Basaglia (1978) a “mettere tra parentesi” la malattia mentale, ha rappresentato un forte stimolo a prendere consapevolezza della dimensione umana e dei bisogni di chi soffre a causa di un disturbo mentale.

Nonostante sia vero che la Legge 180 abbia favorito la diffusione di pratiche riabilitative innovative centrate sull’obiettivo di soddisfare i bisogni di cura degli utenti, è purtroppo altrettanto vero che in tutti questi anni sia mancata la capacità di effettuare un’analisi sistematica sia dei bisogni degli utenti sia di quelli dei loro familiari e di valutare in maniera rigorosa l’efficacia degli interventi dei servizi in risposta a tali bisogni (Lasalvia & Ruggeri, 2001).
La valutazione dei bisogni di cura si può porre come un valido aiuto sia per gli amministratori, al fine di pianificare l’attività complessiva dei servizi, sia per i clinici, al fine di applicare e verificare strategie terapeutiche individualizzate.

Sino alla metà degli anni ’80, più che i bisogni di cura, è stato possibile valutare i bisogni di servizi, che in genere venivano dedotti in modo indiretto dalle stime di prevalenza dei disturbi psichici nella popolazione generale e dall’utilizzo dei servizi psichiatrici. Tali dati, tuttavia, hanno potuto fornire stime approssimative dei bisogni di cura dei pazienti psichiatrici (Ruggeri et al., 2000). Ciò ha evidenziato la necessità di costruire e validare strumenti in grado di identificare e di fornire una quantificazione diretta dei bisogni di cura individuali e di determinare, caso per caso, il livello di soddisfacimento di bisogni raggiunto.

 

La CAN: uno strumento di valutazione dei bisogni di cura

Strumenti specifici per la valutazione standardizzata e diretta dei bisogni individuali sono stati messi a punto in Gran Bretagna, a partire dalla seconda metà degli anni ’80, in particolare la Camberwell Assessment of Needs (CAN) (Phelan et al., 1995), che è un’intervista semistrutturata che valuta i bisogni in un’ottica di tipo negoziale, considerando cioè allo stesso tempo il punto di vista degli operatori e dei pazienti.

La CAN, messa a punto all’inizio degli anni ’90 presso l’unità di ricerca PRiSM dell’Istituto di Psichiatria di Londra, costituisce uno strumento di facile utilizzo e di rapida somministrazione che ben si presta ad essere utilizzato nella routine clinica quotidiana in quanto può essere somministrato da molteplici figure professionali e non necessita di un lungo training preliminare. Consente di esplorare in maniera sistematica e strutturata 22 aree che ricoprono la maggior parte dei bisogni sia clinici che sociali ritenuti importati nei pazienti psichiatrici, soprattutto se affetti da gravi e persistenti disturbi psichici. Permette, quindi, di effettuare una ricognizione completa e accurata delle condizioni del paziente in differenti dimensioni, costringendo l’operatore a prendere in esame anche quelle aree della vita dell’intervistato che vengono spesso trascurate a scapito degli aspetti più clinici, ma che tuttavia hanno un ruolo centrale nel determinare il grado di benessere e della qualità di vita della persona.

Attualmente la CAN è lo strumento più usato a questo scopo, a livello europeo, sia in ambito di ricerca che nella pratica clinica.
Le 22 aree finali incluse nello strumento sono le seguenti: Salute Fisica; Sintomi Psicotici; Disagio Psicologico; Sicurezza per Sé; Sicurezza per gli Altri; Abuso di Alcool; Abuso di Farmaci; Alloggio; Alimentazione; Attività quotidiane; Vita di Relazione; Vita di Coppia; Vita Sessuale, Informazione (sui disturbi e i trattamenti); Uso del Telefono; Uso dei Mezzi di Trasporto; Sussidi Economici; Cura della Casa; Cura di sé; Cura dei Figli; Istruzione di Base; Gestione del Denaro. Queste aree vengono raggruppate in 5 macro-categorie: bisogni legati alla salute, bisogni di base, bisogni sociali, bisogni legati ai servizi, bisogni legati al funzionamento.

Ognuna delle 22 aree di bisogno viene analizzata in un’unica pagina dello strumento, inoltre la CAN presenta in tutte le aree un’identica struttura, in base alla quale ognuna si articola in quattro sezioni:

Sezione 1: identifica l’esistenza di un bisogno, valutando le difficoltà presenti, nonché il grado di bisogno (nessun bisogno, bisogno soddisfatto, bisogno insoddisfatto o sconosciuto). Lo scopo di questa sezione è duplice. Il primo è quello di valutare in una determinata area l’esistenza di un bisogno e in tal caso se sia stato fornito aiuto adeguato per risolverlo. Il secondo è quello di decidere se sono necessarie ulteriori domande di approfondimento sull’area indagata.
I punteggi delle risposte vengono attribuiti su una scala a tre punti: 0 = nessun problema; 1 = nessun problema grave o problema moderato grazie ad un intervento (bisogno soddisfatto); 2 = problema grave attualmente in corso (bisogno insoddisfatto).

Sezione 2: registra informazioni relative al grado di aiuto informale (fornito da amici o familiari) nel corso dell’ultimo mese.
I punteggi delle risposte vengono assegnati su una scala a quattro punti: 0 = nessun aiuto; 1 = aiuto scarso; 2 = aiuto moderato; 3 = aiuto elevato.

Sezione 3: permette di raccogliere informazioni sul grado di aiuto formale fornito dai servizi e sul livello di aiuto richiesto agli stessi servizi nel corso dell’ultimo mese. Questi due diversi aspetti sono valutati separatamente.
I punteggi delle risposte vengono attribuiti come nella sezione 2.

Sezione 4: valuta le opinioni dell’utente sull’area esaminata e registra il piano di intervento adottato dallo staff.

 

Lo studio nelle comunità alloggio di Modena

Guardiamo più nel dettaglio uno studio nel contesto modenese. Il Progetto MORES (MOdena RESidenze) è uno studio naturalistico e longitudinale (novembre 2008 e maggio 2009) di esito focalizzato sulla valutazione di routine dei pazienti assistiti nelle Strutture Residenziali (SR), concepito e realizzato all’interno del “Percorso Casa” del Dipartimento di Salute Mentale (DSM) di Modena.
Il “Percorso Casa” costituisce un progetto di riabilitazione psico-sociale per individui con disturbi psichiatrici gravi basato sulla residenzialità. Le SR di cui si avvale il Centro di Salute Mentale (CSM) di Modena-Castelfranco Emilia sono:
due comunità socio-riabilitative a Modena;
sei appartamenti a diverso grado di protezione a Modena;
un appartamento protetto a Castelfranco Emilia.

Il “Percorso Casa”, ispirandosi al Progetto Outcome realizzato dall’SPT di Verona Sud nel 1994, ha adottato un modello per la valutazione degli esiti dei trattamenti nella routine delle strutture residenziali di Modena-Castelfranco Emilia che costituisce un esempio di studio longitudinale e naturalistico di esito in grado di tenere conto dei principi della multiassialità e della multidimensionalità.

Il campione di pazienti esaminato è costituito da 50 soggetti suddivisi in due gruppi (appartamenti n=30; comunità n=20).
Pazienti e staff intervistati nel presente studio hanno riportato un numero medio di bisogni elevato (rispettivamente 7.3 e 10.4), la maggior parte dei quali risulta soddisfatta per entrambi (rispettivamente 5.5 e 8).

Sebbene i due gruppi abbiano mostrato valutazioni concordanti, lo staff sovrastima significativamente, rispetto agli utenti, sia il numero dei bisogni totali, sia la frequenza dei bisogni soddisfatti dei propri pazienti.

Per quanto riguarda le analisi relative ai bisogni nelle macro-aree della CAN, è importante rilevare che il maggiore numero di bisogni in generale si registra nella macro-area dei bisogni di salute (sia per utenti che per staff), tuttavia questi risultano anche quelli complessivamente più soddisfatti. Inoltre sia pazienti che staff considerano i bisogni soddisfatti sempre maggiori rispetto a quelli insoddisfatti, ad eccezione che per la macro-area dei bisogni sociali (in cui soprattutto la dimensione della vita di coppia risulta essere quella con la più alta percentuale di bisogni insoddisfatti per entrambi i gruppi intervistati).

Questo risultato indica che gli utenti, insieme ai loro operatori, riconoscono che l’area della salute, sia fisica che psicologica, è quella più problematica (gli items in cui pazienti e staff identificano più bisogni sono proprio quelli relativi ai sintomi psicotici, disagio psicologico e salute fisica), ma considerano anche che l’aiuto che viene loro offerto è adeguato alle loro necessità tanto da soddisfare in gran parte i loro bisogni. Al contrario, seppur nella macro-area dei bisogni sociali vengono individuati meno bisogni (questo forse perché a causa di una patologia così grave molti pazienti si isolano e rifiutano il contatto sociale, o si rassegnano a venire emarginati dalla società, o vivendo una vita comunitaria ritengono che le relazioni con gli altri utenti ed operatori soddisfano i loro bisogni relazionali), nei casi in cui questi vengono lamentati rimangono principalmente insoddisfatti.

Ciò suggerisce che le SR se da un lato si dimostrano adeguate e concentrate nella risoluzione dei problemi di natura più clinica e pratica dei pazienti, dall’altro non appaiono sufficientemente organizzate per il soddisfacimento dei diversi tipi di bisogni sociali delle persone che ospitano.
In conclusione la CAN costituisce uno strumento facile, multiassiale (tiene conto del punto di vista dell’utente e dell’operatore) e multidimensionale in grado di valutare i bisogni di cura; di notevole utilità nell’ambito dell’attività svolta dai Servizi Psichiatrici sia nella pratica clinica, per impostare gli interventi terapeutici individuali, sia nella pianificazione dell’attività complessiva dei Servizi di Salute Mentale, sia nella valutazione dei Servizi stessi, della loro efficacia nel rispondere ai bisogni dell’utenza (Ruggeri & Dall’Agnola, 2000).

In particolare nel contesto italiano, la chiusura dei manicomi ha permesso lo sviluppo di una rete di Strutture Residenziali finalizzate al trattamento intensivo di soggetti con disturbi mentali gravi. La peculiarità di questo intervento riabilitativo consiste proprio nel passaggio da un ruolo passivo del malato, caratteristico del modello biomedico, a quello di protagonista attivo nella gestione del proprio malessere, come indicato dalla medicina patient centred. Tuttavia, nonostante la rilevanza del fenomeno, sono pochi finora gli studi che hanno valutato le caratteristiche, il funzionamento e l’efficacia terapeutica di queste SR.

Verificare l’efficacia dei trattamenti costituisce un prerequisito fondamentale della definizione della “qualità della cura” e nel corso degli ultimi dieci anni, una parte rilevante dei contributi della ricerca in salute mentale si è orientata, nel tentativo di colmare le carenze in questo ambito, proprio alla valutazione degli esiti, realizzata nell’ambito della routine operativa dei Servizi di Salute Mentale.

Il “Percorso Casa” del Dipartimento di Salute Mentale dell’AUSL di Modena ha realizzato il Progetto MORES: uno studio longitudinale e naturalistico di esito all’interno della pratica clinica di routine. Tale progetto ha permesso di realizzare una valutazione sistematica delle caratteristiche cliniche, sociali e di interazione con il Servizio degli utenti inseriti nelle Strutture Residenziali del DSM di Modena, mediante l’utilizzo di strumenti standardizzati e dotati di adeguate proprietà psicometriche.

Dai risultati del presente studio si evince, come d’altronde confermano i dati presenti in letteratura, che mentre i bisogni di salute vengono mediamente soddisfatti, i bisogni sociali rimangono quelli maggiormente insoddisfatti: le SR che ospitano pazienti con gravi disturbi psichiatrici cronici non appaiono adeguatamente organizzate per soddisfare questo genere di esigenza. Se l’idea portante sottostante la riforma 180 era quella dell’“integrazione”, ossia di non considerare lo spazio sanitario come l’unico spazio di cura bensì di sperimentare la possibilità di accogliere l’utente dentro i contesti sociali della città a contatto diretto con la gente comune, allora questi dati ci devono portare ad un’accurata riflessione critica sulle risorse e gli strumenti necessari per l’attuazione di tale obiettivo, nonché sulle reali possibilità della sua realizzazione.

In conclusione, la valutazione dei bisogni di cura degli utenti costituisce una preziosa fonte di informazioni per migliorare la pianificazione dei programmi terapeutici, per incrementare la consapevolezza sull’attività svolta e per utilizzare in modo più razionale ed adeguato le risorse disponibili (Ruggeri et al., 2007).

Uno degli scopi primari di studi come il Progetto MORES, rimane quello di fornire un’occasione di riflessione critica sul lavoro che viene quotidianamente svolto all’interno dei Servizi di Salute Mentale. Non sempre, infatti, i bisogni degli utenti debbono essere soddisfatti completamente: in alcune situazioni soddisfare certe richieste può non essere indicato dal punto di vista clinico o può non essere concretamente realizzabile a causa di una limitatezza delle risposte disponibili; conoscere però le necessità dei propri pazienti e il loro pensiero è fondamentale per poter ottenere una visione comune (per utenti ed operatori) e più aderente alla realtà sui bisogni, risorse ed obiettivi da realizzare nel futuro e per pianificare assieme gli interventi da attuare per raggiungerli.

Le forme dell’angoscia: dall’urlo di Munch a quello di Bacon, l’angoscia di Freud e Kohut

Per tratteggiare l’evolversi del sentimento di angoscia nel ‘900, potremmo scegliere di osservare due grandi opere: l’“Urlo” di Munch e lo “Studio dal ritratto di Innocenzo X” di Bacon. Opere molto differenti, nate in epoche e contesti sociali diversi, ma accomunate da un sentimento prorompente: l’angoscia, appunto.

La rappresentazione dell’ angoscia nell’arte

L’artista vive una peculiare fusione psicologica tra Sé e l’ambiente (Kohut, 1978). La precarietà della barriera che separa ciò che è “interno” da ciò che è “esterno” a sé, dona all’artista una consapevolezza più profonda della realtà, consentendogli di intuire con grande sensibilità le urgenze del gruppo in cui vive. Di conseguenza, la produzione artistica rifletterà il problema psicologico centrale di ciascuna epoca.

Per tratteggiare l’evolversi del sentimento di angoscia nel ‘900, potremmo scegliere di osservare due grandi opere: l’“Urlo” di Munch e lo “Studio dal ritratto di Innocenzo X” di Bacon. Opere molto differenti, nate in epoche e contesti sociali diversi, ma accomunate da un sentimento prorompente: l’angoscia, appunto.
Proviamo allora ad entrare in queste tele, ad immergerci in quei colori e in quei tratteggi che, graffiando la consuetudine, ci permettono di entrare in empatia con l’autore, di sperimentarne il doloroso sentimento e dare forma al nostro.

 

L’angoscia nell’urlo di Munch

Urlo di MunchEdvard Munch (1863-1944) – L’urlo: nel 1893, l’artista rompe con un grido di terrore il silenzio che lo circonda. Un silenzio nutrito da chi accetta una società annichilita dall’industrializzazione, dall’urbanizzazione selvaggia e artificiale, dalle città sovrappopolate e divenute “teatro della messa in posa sociale dell’uomo, che indossa le maschere della convenienza e dell’ipocrisia, dell’affettazione e della repressione” (Oliva, 2005).

Un urlo che dilata il tempo e lo spazio, che rappresenta [blockquote style=”1″]un tentativo di Ueilung durch den Geist (guarigione attraverso lo spirito), una catarsi da un mondo malato[/blockquote] (Jaffé, 1970). Verso tale realtà nemica e castrante, tuttavia, [blockquote style=”1″]Munch non cessa mai di sentirsi misteriosamente colpevole, perseguitato dai propri spettri. […] Chi guarda i suoi quadri sbatte contro quell’ansia e vi riconosce la propria[/blockquote] (Di Stefano, 1998).

L’uomo di Munch, straziato dall’angoscia scaturente dal conflitto tra pulsioni e convenzioni, ricorda, a ben guardare, l’uomo “Freudiano”, un “uomo colpevole” (Kohut, 1977). Animale non sufficientemente addomesticato, restio ad abbandonare il desiderio di vivere secondo il principio di piacere (Freud, 1930), la cui coscienza portatrice di senso di colpa rappresenta il trionfo delle costrizioni sociali sull’istintualità animale dell’uomo (La Forgia e Marozza, 2005).

La sua interiorità dilaniata subisce le pressioni dell’istinto, cerca di porvi rimedio, ma di conseguenza si ritrova ancor più angosciata, sebbene più integrata nella società.

In altre parole, verso una realtà che impone grigia repressione, un uomo animato da istinti e passioni altro non può che sentirsi colpevole. E’ un io totalmente, e drammaticamente, disperato.

 

L’angoscia nell’opera di Bacon

Studio dal ritratto di Innocenzo X di BaconFrancis Bacon (1909-1992) è annoverabile tra gli artisti del XX° secolo che più realisticamente hanno espresso in pittura la tragedia dell’esistenza. In “Studio dal Ritratto di Innocenzo X”, nel 1953, Bacon riprende, trecento anni dopo, il famoso ritratto del Papa ad opera di Velasquez, stravolgendone la calma regale e facendone un “helpless prisoner” (Glueck,1998) del quale dipingerà circa 30 versioni. Prigioniero senza speranza, intrappolato tra le pieghe rigide di una tenda grigia, la bocca aperta in un urlo terrificante e simbolo di un’indicibile angoscia esistenziale.

La figura si dissolve e nello stesso tempo si dilata, ma, scrive Torselli (2007) [blockquote style=”1″]a differenza di quanto avviene per l’artista espressionista che rappresenta una sofferenza endogena che viene dalla sua interiorità, la disperazione e l’angoscia dei corpi mostruosamente contorti di Bacon deriva dal confronto con la potenza distruttrice di una realtà spietata, un mondo devastato dalla guerra, dalla fame, dai massacri, sul quale egli riflette, raffigurando tragicamente la sconfitta di ogni progetto […]. E’ un mondo di individui straziati, quasi dei mutanti, creature infernali senza via d’uscita e senza speranza, prigionieri disumanizzati nei quali anche l’anima sembra sia stata annullata dall’atrocità della sofferenza. [/blockquote]

Secondo Littell (2014), [blockquote style=”1″]Francis Bacon era un uomo disperatamente consapevole della futilità di tutte le imprese umane.[/blockquote]

L’angoscia espressa da Bacon pare dunque un sentimento diverso. E’ l’angoscia senza nome del disperso, dell’uomo che si frantuma, vittima di una società che lo priva della sua stessa essenza. Per dirla, ancora una volta, con Kohut (1982): un uomo “tragico”, i cui obiettivi vitali riguardano la realizzazione del proprio Sé (Esposito, 2010) e la cui sofferenza deriva dall’impossibilità di compierli.

Potremmo spendere l’intera vita, scrive Kohut (in Strozier, 1985), cercando di scoprire i motivi per i quali il nostro Sé si aliena, si perde, va in pezzi. Non troveremmo nulla. Il Sé non si disgrega perché siamo colpevoli: se lo fossimo davvero, se trovassimo almeno una ragione per la quale veniamo puniti, saremmo certi di essere umani! La paura del nostro tempo è proprio questa: l’angoscia di trovarsi in un ambiente non umano, di essere lanciati nello spazio e ritrovarsi assolutamente soli. Incapace di continuare ad “essere” di fronte ad una realtà che depriva di significato e di speranza, il Sé si frantuma.

 

Depressione in Occidente: per superarla bisognerebbe imparare dagli immigrati

La depressione non è una tristezza, sia pure estrema. Nella tristezza vi è il dolore di una perdita. Il senso del vivere è conservato, sebbene il suo oggetto sia perduto. La depressione è invece il vuoto di un’assenza di senso che precede ogni perdita. Non vi è dolore, semmai una sconfinata anestesia e una noia sterminata. Ci può essere angoscia, ma non tristezza.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 14 Gennaio 2017

 

Si dice che in occidente siamo depressi. È possibile che il benessere determini un’angosciosa perdita di senso? Nati per affrontare i pericoli e sopravvivere a una natura ostile, in un mondo di benessere senza pericoli non sappiamo bene di cosa preoccuparci. E quindi ci annoiamo e ci deprimiamo.  Forse per questo non facciamo più figli: non sappiamo bene perché mai farli. Le difficoltà economiche, che pure in parte ci sono, non spiegano tutto e a pensarci bene non spiegano nulla, dato che in passato l’umanità si è moltiplicata in condizioni di sussistenza economica ben più severe delle crisi attuali. La crisi demografica ogni anno che passa si avvicina e diventa sempre meno una bislacca ossessione da dandy-reazionari e sempre più una preoccupazione dei governi, terrorizzati dalla scarsa sostenibilità dei sistemi pensionistici e del soccorso sociale in uno scenario di desertificazione demografica.

Entro il 2030 ci sarà una regione grande quanto la Toscana, composta solo da ultrasessantacinquenni. E questo non è solo un problema italiano o spagnolo, ma ormai europeo. Anche in Germania ci si sta accorgendo della pericolosità dell’invecchiamento crescente della popolazione. Tutto questo però non lo rende ancora un problema sentito dalle masse, ancora convinte di vivere in un eterno presente aproblematico e noioso. È un fenomeno nuovo questo disincanto di popolo, questi supermercati affollati di distaccati filosofi cantori del momento presente, di consumatori sempre più consapevoli e verdi e sempre più amici di animali domestici, decisissimi a non voler altro nella vita che un cane o un gatto e non un bambino. Cultori di conversazioni elegantissime, in cui nessuno osa più mettere il becco nelle solitarie scelte di vita privata altrui, parliamo ormai solo di cibo e coltiviamo un’esistenza cinica, proprio nel senso tecnico che la parola assume in filosofia, un’esistenza distaccata da tutto simile a quella di Diogene nella sua botte.

In Giappone sono ancora più avanti di noi occidentali. Hanno rinunciato non solo alla prole, ma perfino ai partner. La depressione orientale sa toccare i confini ultimi del distacco. Non solo gli adolescenti hikikomori chiusi in casa tutto il giorno e intenzionati a non intrecciare relazioni con nessuno, neppure per una breve chiacchierata con un conoscente. Anche gli adulti giapponesi riescono a vivere vite sempre più solitarie e paradossalmente asessuate. Pare che il 49 per cento dei giapponesi di età compresa tra 18 e 34 anni non ricerchino alcun tipo di relazione sentimentale, il 30 per cento delle persone sotto i 30 anni non sia mai uscito con nessuno e infine che più del 40% per cento dei giovani single in Giappone è vergine. A farcelo sapere è il National Institute of Population and Social Security Research giapponese.

La moltiplicazione della prole degli immigrati e il crollo demografico del prospero Giappone stanno lì a suggerirci che il fare o non fare figli non sia connesso con le difficoltà economiche, ma con il senso di attaccamento alla vita, con la volontà -che possiamo definire illusoria con la nostra saggezza risaputa- di osservare un orizzonte che vada al di là dell’esistenza individuale.

Forse è tra gli immigrati che va cercato un  modello alternativo alla depressione, un modello di psicologia positiva che non si limiti alla ricerca del solo benessere immediato. L’aspetto puramente edonico del benessere individuale analizza la sola dimensione del piacere, benessere personale legato a sensazioni ed emozioni positive. Una prospettiva più ampia e più, perdonate il termine ostico, eudaimonica, privilegia invece la realizzazione delle potenzialità non solo individuali ma anche sociali secondo il vecchio concetto aristotelico di eudaimonia. Parolone che è un po’ un ricordo del liceo classico? Certo, ma anche qualcosa in più, se ci intendiamo sul fatto che l’eudaimonia comprende non solo la soddisfazione individuale, ma anche l’integrazione con il mondo circostante. Eudamonia è mutua influenza tra benessere individuale e collettivo.

Per quanto ne sappiamo il migrante parte con pochissime speranze concrete ed è quindi l’esempio umano su cui la paura del futuro –e il tramonto d’occidente- non pare far presa. Privo di calcoli e di bilance sulle quali misurare attentamente quanto davvero possa permettersi di affrontare un viaggio così pieno di rischi, è altrettanto meno impaurito di far figli e, almeno per il momento, li fa. Privo della nostra saggia miopia che ci induce a costruire piani di vita chiusi nel nostro orizzonte individuale, vede nei figli un prolungamento di sé che lo immette in una storia più ampia e meno immiserita dal perseguimento della sola felicità individuale. Non è affatto detto che l’alternativa alla depressione sia la sola capacità di godersi il momento presente, come predicano alcune filosofie orientali che sempre più attecchiscono tra noi occidentali. Accanto al momento presente, ci può essere una capacità di orientarsi che vada al di là dell’orizzonte individuale.

Tuttavia pare che questi stessi immigrati, fin troppo rapidi a integrarsi, stiano mostrando cali demografici altrettanto rapidi dei nostri una volta che siano approdati sulle nostre sponde fatali, depresse e disincantate. Che fare? Non è semplice. Probabilmente è ancora troppo presto per preoccuparsi davvero, abbiamo davanti a noi almeno altri vent’anni buoni nei quali il calo demografico sarà ancora un problema invisibile. Possiamo continuare a deprimerci elegantemente con il nostro inimitabile stile, quello stile che i poveri della terra ci invidiano. Chissà se ne vale la pena.

I controversi effetti benevoli della dieta mediterranea sul cervello

Una nuova ricerca ha dimostrato che persone che hanno seguito una dieta mediterranea, hanno mantenuto un volume cerebrale più alto rispetto a chi non ha seguito tale dieta. Contrariamente agli studi precedenti, mangiare più pesce e meno carne non è correlato a cambiamenti nel cervello.

 

La dieta mediterranea

La dieta mediterranea, come già noto, comprende grandi quantità di frutta, verdura, olio d’oliva, legumi e cereali come riso e grano, una moderata quantità di pesce, latticini-caseari e vino, carne rossa e pollami limitati.

[blockquote style=”1″]Con l’avanzare dell’età il cervello si restringe e si perdono quelle cellule cerebrali che possono influenzare l’apprendimento e la memoria[/blockquote] afferma il Dr. Michelle Luciano. Questo studio, aggiunge ulteriori prove che la dieta mediterranea ha delle conseguenze positive sulla salute del cervello.

I ricercatori hanno raccolto informazioni sulle abitudini alimentari di 967 persone di circa 70 anni, privi di sintomi di demenza. Di quelle persone, 562 si sono sottoposti ad una risonanza magnetica per misurare il volume della materia grigia e lo spessore della corteccia. Da quel gruppo, successivamente 401 persone sono ritornate dopo circa 3 anni per una seconda risonanza magnetica. Queste misurazioni sono state confrontate per verificare gli eventuali miglioramenti dopo qualche anno di dieta mediterranea.

Gli effetti benevoli della dieta mediterranea sul cervello

I partecipanti che non hanno seguito alla lettera la dieta, correvano un rischio maggiore di perdita del volume cerebrale rispetto a chi invece la dieta l’aveva seguita senza “sgarri”.

I ricercatori hanno inoltre scoperto che un maggior consumo di pesce rispetto al consumo di carne, non è correlato a cambiamenti nel cervello. Tutto ciò è in contrasto con gli studi precedenti.

I risultati hanno mostrato che non vi è nessuna relazione tra il volume della materia grigia o spessore corticale, e la dieta mediterranea. Il Dr. Luciani afferma che altre componenti della dieta potrebbero essere responsabili di questa relazione, o la combinazione di essi. Ha osservato inoltre che i precedenti studi hanno esaminato e osservato i cambiamenti del cervello fino ad un certo punto, mentre l’attuale studio ha seguito le persone nel corso di qualche anno.

[blockquote style=”1″]In questo studio si evince che la dieta può essere in grado di fornire protezione a lungo termine per il cervello, anche se sono sempre necessari studi più ampi e precisi per confermare questi risultati.[/blockquote]

Lo faccio adesso! Il fenomeno della precrastinazione è peggio della procrastinazione?

Si definisce precrastinazione la tendenza a completare un’attività il prima possibile, anche a costo di uno sforzo fisico supplementare.
La tendenza a “precrastinare” è stata rilevata da un team di studiosi della Pennsylvania State University, grazie a una ricerca coordinata dal dottor David Rosenbaum, docente di psicologia presso l’ateneo americano.

Silvia Soderini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

La procrastinazione: i fattori che inducono a procrastinare

Quante volte avete rimandato una decisione, un’azione che potevate fare oggi? Questo comportamento assume il nome di procrastinazione e consiste nel rimandare nel tempo quello che sarebbe auspicabile portare a termine oggi.

In realtà ci sono molte ragioni che portano a procrastinare, una di queste è che la maggior parte delle persone preferisce rimandare un compito sgradevole, difficile, o noioso, alleviando l’ansia che porta con sé prendere una decisione nel presente. A volte la procrastinazione può essere collegata ad un multitasking che non ha funzionato correttamente: nelle situazioni di tutti i giorni spesso ci ritroviamo, senza accorgercene, a fare più cose contemporaneamente, gestendo una grande quantità di richieste e stimoli provenienti dal mondo esterno ma, cosi facendo, i troppi impegni potrebbero portare a non riuscire a rispettare tutte le scadenze concordate.

La maggior parte delle volte, quando si tende a procrastinare per una di queste ovvie ragioni, si è consapevoli di ciò che c’è dietro al ritardo. Tuttavia, le persone tendono a procrastinare anche in situazioni in cui ci sono ragioni poco evidenti.
Più nello specifico, le motivazioni profonde che portano allo sviluppo di un atteggiamento di procrastinazione, possono essere:
– a paura di fallire e di sbagliare (e di doverne affrontare le conseguenze), la paura di scegliere e di decidere (non prendendo in considerazione che anche “rimandare” è una scelta)
– l’intolleranza allo stress, all’ansia e alla frustrazione (di non saperli gestire o non sapere aspettare)
– il perfezionismo (non essere mai abbastanza pronti e sicuri per gli standard elevati che ci si pone).

Un’altra ragione che ci porta a procrastinare è la compiacenza; a volte tendiamo a dire troppi “si” e ad essere in ritardo nel rispettare tutte le scadenze e le promesse fatte!

Gli psicologi dell’università di Liverpool, Minna Lione e Holly Rice, hanno suggerito che le persone che hanno un punteggio alto alla procrastinazione “evitante” (cioè coloro che evitano di iniziare un compito) con annessa diagnosi di disturbo mentale, posticipano le cose da fare per evitare di ricevere un feedback negativo riguardo le loro prestazioni.

Nonostante le conseguenze negative, la procrastinazione ha certamente un “vantaggio secondario” (difende da emozioni spiacevoli, implica rimandare una decisione nell’immediato consegnando un benessere illusorio) che cristallizza il comportamento e rende difficile cambiare.

La precrastinazione: che cos’è

In ambito psicologico sono stati condotti diversi studi su come le persone utilizzano il loro tempo e a tal riguardo è stato introdotto un neologismo contrapposto alla procrastinazione: la “precrastinazione”.

Si definisce precrastinazione la tendenza a completare un’attività il prima possibile, anche a costo di uno sforzo fisico supplementare.
La tendenza a “precrastinare” è stata rilevata da un team di studiosi della Pennsylvania State University, grazie a una ricerca coordinata dal dottor David Rosenbaum, docente di psicologia presso l’ateneo americano.

Gli autori dello studio (David Rosenbaum, Lanyun Gong, and Cory Adam Pott) si sono imbattuti in una scoperta fortuita mentre indagavano il modo in cui le persone tendevano a camminare e a raggiungere traguardi.
Essi hanno ideato una serie di esperimenti cui sottoporre un gruppo di studenti universitari, i quali erano invitati a fare la cosa che ritenevano più semplice tra due opzioni: spostare un secchio pesante per una breve distanza o un secchio leggero per una lunga distanza, fino ad arrivare ad un punto finale specificato.
I risultati ai vari test realizzati dai ricercatori sono stati sorprendenti poiché, sebbene tutti si aspettassero che i partecipanti preferissero portare il secchio più pesante per la distanza più breve possibile, la maggior parte ha scelto di prendere il secchio che era più vicino, ma più lontano dal punto finale.
I soggetti hanno dimostrato di preferire opzioni che, sebbene comportassero una maggior fatica fisica, diminuissero il tempo di esecuzione dei lavori da compiere, così da ridurre lo stress dovuto al prolungarsi dell’azione.
In altre parole, secondo Rosenbaum e il suo team, hanno “PRECRASTINATO”.

Come hanno spiegato i partecipanti, tutti hanno pensato che sarebbe stato più facile trasportare il secchio per una lunga distanza: quasi tutti gli studenti hanno ritenuto che, sollevando il secchio che era loro più vicino e a portata di mano, sarebbero stati maggiormente in grado di realizzare l’obiettivo di portare il secchio a destinazione.

Manipolando una variabile dell’esperimento, i partecipanti sono stati invitati a trasportare dei pesanti secchi colmi d’acqua da un posto all’altro, con la possibilità di portarne uno solo per volta oppure due. Ebbene, la maggior parte degli studenti preferiva trasportare il doppio secchio, scelta che comportava un notevole sforzo fisico, con il vantaggio di rendere il lavoro più rapido.
Quando agli studenti è stato chiesto come mai avessero optato per il compito più faticoso, questi ultimi risposero sistematicamente che il loro desiderio era quello di terminare il lavoro il prima possibile.
Una spiegazione, secondo Rosenbaum e i colleghi, potrebbe essere che le persone, quando effettuano una scelta, preferiscono effettuare uno sforzo fisico piuttosto che uno sforzo mentale.

Come commenta il dottor Rosenbaum [blockquote style=”1″]I risultati della nostra ricerca suggeriscono che il desiderio di alleviare lo sforzo di mantenere le informazioni nella memoria di lavoro può indurci a compiere eccessivi sforzi fisici oppure ad assumere maggiori rischi.[/blockquote]
Sollevando il secchio, i partecipanti non hanno dovuto più ricordare a lungo ciò che avrebbero dovuto fare perché il secchio era già nelle loro mani. La situazione è simile a ciò che accade solitamente quando al mattino ci si organizza per uscire di casa. Per essere sicuri di ricordare di prendere le chiavi, mentalmente è meno stressante portarle fin da subito in una o più stanze della casa, piuttosto che aspettare di chiudere la porta di casa e, una volta fuori, scoprire che le chiavi sono al suo interno! Una volta che sono in mano, si può essere sicuri di non dimenticarle.

Il rapporto tra precrastinazione e memoria di lavoro

Nel discutere lo studio, Pychyl ha analizzato anche l’ipotetico collegamento tra la memoria di lavoro e la precrastinazione. Lo studioso ritiene che le persone tendono a precrastinare durante l’esperimento del secchio perché non si preoccupano più di tanto su di esso. Se venisse dato loro un compito più importante, come ad esempio iniziare a pianificare i loro obiettivi di vita importanti, Pychyl suppone che i risultati sarebbero molto diversi.

Ci si è chiesti inoltre se ci siano altre spiegazioni che possano portare le persone a precrastinare.
Noi tutti conosciamo persone che tendono costantemente a pianificare il futuro: una settimana prima di partire per un viaggio iniziano le valigie, acquistano a luglio i regali per le festività invernali, pagano le bollette in anticipo e non sono in ritardo in nessuna occasione.
Joseph Ferraro e Timothy Pychyl, appartenenti rispettivamente alla DePaul University e alla Carleton University, hanno esaminato la relazione tra la procrastinazione accademica (la tendenza a lasciar lavorare più gli altri nei gruppi di lavoro) e la coscienziosità. I risultati hanno mostrato che le persone con elevata coscienziosità hanno meno probabilità di lasciare che gli altri si assumano anche i loro carichi e altresì di procrastinare. Queste sono le persone, ci si potrebbe aspettare, che tenderanno a PRECRASTINARE, dedicandosi alla pianificazione estesa del futuro in modo che possano essere certi di svolgere il loro lavoro in modo responsabile.

Le caratteristiche dei precrastinatori

I Precrastinatori sembrano avere le seguenti caratteristiche:
– Preferiscono fare qualcosa di spiacevole pur di farlo e di togliersela di mezzo;
– Pianificano in anticipo, anche eventi che accadranno in un futuro molto lontano;
– Cercano di ridurre il carico mentale agendo nel presente in modo da non dimenticare ciò che devono fare;
– Danno il loro contributo nei compiti in comune, piuttosto che lasciar fare a qualcun altro la propria parte;
– Sono onesti con gli altri;
– Si assumono le responsabilità per le proprie azioni;
– Evitano di agire impulsivamente.

Soffermandoci sugli aspetti positivi e negativi della precrastinazione, si pensa che oltre ai numerosi svantaggi emersi riguardo questa modalità di affrontare gli impegni, ci possa essere anche qualche vantaggio in termini di promozione della salute in generale.
Pianificare adeguatamente le azioni future permette di fare tutto ciò che è necessario, rispettando impegni e scadenze. Finché ci si può fermare e godere dei frutti del lavoro svolto, prima di affrontare il lavoro successivo, è possibile che i benefici della precrastinazione siano percepiti come superiori ai rischi.

Tuttavia, lo svantaggio di chi precrastina è che tende a godere meno degli avvenimenti che accadono nel presente.
Il pensiero incessante rivolto a ciò che è necessario fare nel futuro può rendere la persona meno in grado di vivere appieno gli avvenimenti del presente poiché la mente è costantemente spostata al futuro e non riesce a cogliere gli aspetti positivi del momento.
In sintesi, precrastinare significa fare cose prima di quanto sia realmente necessario, anche se ciò comporta un maggior dispendio di tempo ed energia, semplicemente per la sensazione di averle portate a termine e aver fatto il proprio dovere.
Il pericolo principale della precrastinazione però, a differenza della procrastinazione, è che non viene percepita come un pericolo, bensì come una forma di organizzazione funzionale che aiuta a gestire nel miglior modo tutti gli obiettivi da raggiungere.

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative (2015) di E. Giusti e A. Milone – Recensione

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative rappresenta una riflessione generale sul processo di lutto. Sebbene in modo non particolarmente approfondito, dà una prima impressione sui vari processi che regolano l’evento luttuoso e qualche informazione pratica sull’intervento clinico da effettuarsi.

Claudia Zitelli e Helga Khulbacher – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano

 

Già da subito, Terapia del Lutto – cura delle perdite significative appare nel complesso scorrevole, adatto anche a chi non ha alcuna formazione psicologica-psicoterapica, i capitoli appaiono ben definiti fra loro, il linguaggio usato è chiaro e non proibitivo anche per chi è alla prime armi con un testo di psicoterapia.

 

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative: struttura del libro

Il libro è strutturato fondamentalmente in due parti: i primi capitoli descrivono il lutto sulla base dei diversi approcci psicologici – psicoterapici, sono inoltre riportati elementi di neuropsicologia.

La seconda parte del libero è invece più pratica, dedicata ai diversi interventi nelle varie fasce di età.

Già dalle prime pagine viene proposto l’evento luttuoso dal punto di vista psicodinamico – psicoanalitico (in particolare secondo la visione Freudiana) secondo il quale il lutto viene vissuto come un processo di disinvestimento, nel quale la persona scomparsa viene gradualmente sostituita da una sua immagine mentale che la persona può incorporare nel proprio mondo interno.

Si passa così dall’identificarsi con la persona amata e perduta con un suo simulacro. In tal senso la depressione si distingue dal lutto proprio per la realtà oggettiva della perdita: nel primo caso la perdita sarebbe sopratutto immaginaria e inconscia, sebbene la sintomatologia presenti dei punti in comune.

In Terapia del Lutto – cura delle perdite significative un breve cenno viene fatto anche sulla teoria di M.Klein, secondo la quale la perdita della persona amata può coincidere con la perdita dei propri “buoni interni”,  generando un processo di odio verso la persona scomparsa.

Un modello che viene citato è inoltre quello cognitivo – comportamentale, secondo il quale il lutto è un evento che potrebbe potenzialmente complicarsi in una sintomatologia depressiva, ansiosa o in altro modo (lutto complicato), si rende pertanto necessaria non solo una ristrutturazione cognitiva (intervento attuato fino agli anni 80), ma una psicoterapia specifica con tecniche cognitive – comportamentali per il  trattamento dei sintomi post traumatici (Traumatic Grief Reattment).

Di altra visione è l’approccio umanistico – esistenziale, il quale basa il trattamento su un percorso personale, in cui l’individuo che ha subito il lutto viene condotto a mettere in atto le proprie capacità innate per superare l’evento.

Anche il modello sistemico relazionale viene brevemente descritto, mettendo il luce i diversi eventi familiari scatenati da un lutto, quali la designazione di un capro espiatorio, o agiti aggressivi/conflittuali fra i membri. In tal senso la terapia familiare può costituire una valida alternativa per migliorare e supportare le dinamiche familiari.

Nel paragrafo successivo viene citato Lowen (modello Bio funzionale corporeo) secondo il quale l’obiettivo di una terapia del lutto è quello di far esprimere alla persona il proprio vissuto e le proprie emozioni, lavorando sul linguaggio corporeo.

Viene infine citato il modello pluralistico integrato, basato in realtà sull’integrazione di diversi approcci teorici, in modo da determinare cambiamenti favorevoli a livello comportamentale, cognitivo e affettivo. Tale modello è applicabile anche in soggetti con sintomatologia ansiosa post – lutto.

In un capitolo successivo di Terapia del Lutto – cura delle perdite significative vengono proposto elementi di neuropsicologia, secondo il quale la DACC (corteccia cingolata anteriore dorsale) è coinvolta nei processi di dolore sociale e fisico, sia per quanto riguarda la parte sensoriale che quella affettiva.

Da non sottovalutare è anche il modello bio psico sociale: comprendere la sintomatologia dolorosa di una persona significa in primo luogo valutare non solo le condizioni psicologiche della stessa, ma anche il contesto sociale ed eventuali cambiamenti biologici, tenendo conto che pensiero, umore ed esperienza sono strettamente connessi e influenzabili tra loro. Da non dimenticare è che il lutto può prendere diverse forme, da reazione semplice (normalmente risolvibile nell’arco di qualche mese) a reazione complicata  (in cui viene compromesso il funzionamento dell’individuo), comunque diversa da un episodio depressivo, differenza espressa chiaramente nel DSM IV TR.

 

Terapia del Lutto – cura delle perdite significative: trattare il lutto nelle diverse fasce d’età

La seconda parte del libro Terapia del Lutto – cura delle perdite significative, da noi ritenuta più  interessante per un uso clinico, riguarda i trattamenti sui diversi tipi di lutto, suddivisi per fasce di età.

Di particolare importanza è il capitolo riguardante il lutto in età evolutiva, con focalizzazione sulla perdita di un genitore. Vi sono delle istruzioni generali su come affrontare l’argomento col bambino e sull’interpretazione delle conseguenze del lutto sulla relazione tra bambino e genitore in vita, tenendo sempre da conto che la reazione al lutto in età infantile ha caratteristiche talvolta completamente differenti rispetto all’età adulta.

Viene anche citato l’intervento attuabile in età adolescenziale, con riferimenti pratici all’ IGTC (terapia integrata del lutto per bambini), divisi in sette principi da analizzare nel processo di cura. Risultano particolarmente utili alcune risorse terapeutiche citate, che possono sin da subito essere utilizzate nella pratica clinica. Si passa poi alla terapia in soggetti adulti, focalizzandosi in particolare sulla perdita del partner, di un figlio o di una figura di attaccamento significativa.

È interessante, anche se brevemente descritto, il trattamento delle perdite in un anziano, che a nostro avviso meriterebbe un maggiore approfondimento. Le pagine finali sono dedicate ai lutti particolarmente traumatici: il suicidio, l’omicidio, l’aborto, che si distinguono da altri tipi di lutto per le diverse implicazioni sui familiari (reazioni di rabbia, aggressività, risentimento), che meritano un trattamento specializzato.

Per concludere, riteniamo questo libro un utile punto di vista sui vari processi che regolano il lutto sebbene molti punti importanti siano solo accennati e meriterebbero un approfondimento. Difatti, tale libro, che per una persona senza formazione psicologica può sembrare esaustivo, per uno specialista nel settore rappresenta un punto di partenza per capire e avere una formazione generale.

Smartphone e Mindfulness: come prevenire lo stress causato dal Multitasking

L’articolo è una riflessione su quanto oggi il nostro sistema di elaborazione delle informazioni possa essere stressato dalle innumerevoli stimolazioni ambientali, soprattutto dall’ avvento della tecnologia smart, e su come può essere possibile evitarne gli effetti negativi grazie alla meditazione della mindfulness.

 

Il funzionamento dell’attenzione e l’effetto cockatil party

Il famoso fenomeno del cocktail party è un esempio di come di norma funziona la nostra attenzione: siamo ad una festa dove intorno a noi ci sono tante persone che parlano tra loro ma noi riusciamo a rivolgere l’attenzione ed ascoltare in modo selettivo la persona che ci sta rivolgendo la parola, con cui stiamo parlando. Ad un tratto qualcuno dietro di noi fa il nostro nome e noi rivolgiamo l’attenzione, senza girarci, a quella conversazione.

Questa capacità di selezionare una conversazione tra tante altre, è un esempio di come funziona la nostra attenzione. L’attenzione dunque ha a che fare con l’elaborazione preferenziale dell’informazione sensoriale (Carlomagno, 2007). Cioè, noi possiamo selezionare uno stimolo tra tanti e dare attenzione soltanto ad esso. In realtà, principalmente utilizziamo questa modalità per economia cognitiva, cioè per usufruire al meglio delle nostre capacità. In altre parole, non potendo dare lo stesso grado di attenzione a tanti elementi contemporaneamente, utilizziamo l’attenzione selettiva.

Questo perché il nostro sistema di elaborazione delle informazioni ha una capacità limitata. Molte volte cioè non si possono compiere simultaneamente due attività, elaborare due stimoli o recuperare dalla memoria due informazioni diverse nello stesso tempo (Ladavas e Berti, 2006), ad esempio non è possibile seguire con attenzione il notiziario alla tv e contemporaneamente parlare con qualcuno, o scrivere al computer e nello stesso tempo sostenere un’attenta conversazione.

Nelle società odierne però, siamo bombardati da diverse fonti di informazioni, veicolate soprattutto ultimamente da quei bellissimi strumenti che ci portiamo dietro ogni giorno: gli smartphone. Essi, in origine, dovevano avere lo scopo di facilitarci la vita e in effetti in parte è così, nel senso che grazie ad essi possiamo avere accesso, in qualsiasi momento, ad internet, alla posta elettronica, ai nostri contatti su ogni social network e al nostro lavoro. Tutto questo grazie al multitasking, il sistema che permette appunto di poter eseguire più programmi contemporaneamente. Quello che potremmo fare sembra non avere limiti, ma questo è sia un pregio che un difetto di questi strumenti, infatti insieme a queste grandi possibilità viaggia il rischio di frustrazioni, provocate dalle innumerevoli richieste, non soddisfabili dalla nostra limitata capacità di elaborazione. Tutto ciò, sommato alle richieste esterne, ambientali, del mondo fisico e delle persone reali, si traduce in una imponente fonte di stress.

Talvolta assistiamo a cali nella performance, sia attentiva che mnestica, tali da far pensare quasi ad un disturbo dell’attenzione o della memoria, ma in realtà siamo semplicemente in sovraccarico. Cioè, la nostra attenzione e la nostra memoria di lavoro (working memory), implicate entrambe nell’esecuzione dei compiti, stanno lavorando su troppi elementi rispetto alle reali capacità del sistema. Quando ciò accade, inoltre, ci giudichiamo negativamente per le nostre prestazioni deficitarie, poiché con l’aumento delle possibilità proposte dagli smartphone e dai sistemi multitasking in generale, abbiamo alzato anche le aspettative rispetto a noi stessi e agli altri. Purtroppo poi, questa nostra autocritica ci altera l’umore in senso negativo, influenzando di conseguenza, in un circolo vizioso, la nostra performance cognitiva. Lo stress che deriva da questa condizione non è certo da sottovalutare. In relazione a questo stato, in determinate condizioni sfavorevoli, potrebbero insorgere infatti ansie o anche umore depresso.

 

Come può entrare in gioco la mindfulness nella prevenzione di queste reazioni negative

Come appena osservato, oggi grazie a questi strumenti siamo continuamente chiamati a fare sempre più cose contemporaneamente, e di conseguenza sentiamo sempre più pressione a “fare”. Anche nei momenti di pausa ormai, può capitare che siamo davanti alla tv e contemporaneamente navighiamo con lo smartphone su internet, dunque sempre in una modalità attiva, bombardati da innumerevoli fonti di informazioni. Come osservano Segal e colleghi (2012), nella modalità “fare” la mente monitora costantemente discrepanze tra obiettivo, stato delle cose attuale, e aspettative future. Dunque, quando si riscontrano differenze in negativo, tra stato attuale e obiettivo, proviamo emozioni negative. Questo tipo di riscontro purtroppo, in virtù della nostra capacità limitata di elaborazione delle informazioni, è qualcosa che sperimentiamo spesso, quando cerchiamo quotidianamente di rispondere alla numerose richieste esterne ed interne, a cui si aggiungono, come visto, quelle veicolate dai sistemi digitali.

Segal e colleghi (2012) studiano da anni la possibilità di applicare la mindfulness per un supporto terapeutico ai sintomi depressivi. Il loro ambito è dunque proprio quello di pensieri ed emozioni negative. Il protocollo MBCT (Mindfulness Based Cognitive Therapy), da essi proposto, si è dimostrato di grande efficacia soprattutto per la prevenzione delle ricadute depressive, in quanto agisce efficacemente sul rimuginio e sui pensieri negativi. Gli autori evidenziano, in riferimento ai miglioramenti acquisiti grazie alla pratica di mindfulness, il fatto che essa favorisce il passaggio dalla modalità “fare” alla modalità “essere”. Questa seconda modalità consiste nel rimanere presenti allo stato delle cose, così come sono nel momento presente, senza giudizi e senza pretendere di cambiare nulla. Ciò porta ad un cambiamento radicale del modo di vedere le cose, attraverso cui è possibile percepire una maggiore accettazione di se stessi e delle proprie possibilità. Una prima soluzione dunque, che si contrappone alla componente di stress prodotta dal giudizio sulla propria performance cognitiva e alle frustrazioni che derivano dal confronto stato-obiettivo, rispetto al sovraccarico cognitivo.

Ma la soluzione che può proporre la mindfulness non si limita a questo. Infatti, rispetto proprio alla performance cognitiva, nell’ottica di un potenziamento delle funzioni attentive o mnestiche, la meditazione può dimostrarsi di grande utilità. Sempre più evidenze scientifiche oggi infatti mostrano che la meditazione di mindfulness può migliorare l’attenzione e la memoria di lavoro. Ne sono solo un esempio il lavoro di Mrazek e colleghi (2013) e quello di Morrison e Jha (2015). Naturalmente queste caratteristiche influenzate dalla mindfulness, anche al di là dell’argomento oggetto di questo articolo, possono essere di notevole ausilio, nell’ottica di un miglioramento della performance generale della persona e, di conseguenza, di un aumento del benessere percepito.

Conclusioni

Quindi, in antitesi alla forte pressione al “fare”, insita nelle innumerevoli richieste che giungono oggi al nostro sistema di elaborazione delle informazioni, che possono indurre stress, calo di performance cognitiva e pensieri negativi riferiti a se stessi, sarebbe altamente preferibile allenare sempre più la modalità dell’”essere”. Questo diminuirebbe sensibilmente lo stress indotto dal nostro attuale stile di vita e tutto il correlato di rischiose emozioni negative ad esso connesse.

La meditazione di mindfulness si è dimostrata negli anni un utile strumento per riconnettersi appunto alla modalità dell’”essere” e dunque per riavvicinarci a noi stessi, in modo meno giudicante e più salutare. Inoltre la sua capacità di migliorare i nostri meccanismi attentivi e la working memory, può essere di grande ausilio nel rafforzare il nostro sistema di elaborazione delle informazioni, così fortemente messo alla prova dalle innumerevoli richieste del mondo di oggi, che vanno ben oltre quelle degli smartphone, oggetto di questo articolo. Lo stress è ormai congenito nelle nostre società; come direbbe Jon Kabat-Zinn (2003), ideatore del primo training mindfulness (MBSR), viviamo in “un mondo sotto stress” e dunque tornare alla mindfulness, e tramite di essa a noi stessi, sarebbe la cosa più utile da fare per il nostro bene.

Le donne accessorio: mantenere la quiete mediatica o prendere una posizione?

Come reagiscono le donne italiane quando realizzano che il massiccio utilizzo televisivo della donna perfetta in bikini, fa sì che la donna venga vista come un oggetto sessuale?

 

La donna sempre più sessualizzata nelle pubblicità

La Dr.ssa Francesca Guizzo dell’Università degli Studi di Padova, afferma che molte di loro sono indignate e sostengono le proteste contro tale oggettivazione sessuale femminile. E’ lei in prima persona che, credendo fortemente in queste campagne di sensibilizzazione contro queste immagini troppo sessualizzanti e contro lo stereotipo della donna perfetta, è convinta che una presa di posizione possa portare ad un cambiamento.

[blockquote style=”1″]In occidente siamo fin troppo esposti, a livello mediatico, ad immagini di donne poco vestite e fin troppo provocanti spesso utilizzate come strumenti decorativi per attrarre nuovi consumatori. Le donne sono più propense rispetto agli uomini ad essere sessualizzate nelle pubblicità, nelle riviste, film e via dicendo. Questa situazione degrada l’immagine delle donne, influenza il modo in cui vengono trattate nella vita quotidiana e incide significativamente sulla loro psiche, per non parlare della loro autostima.[/blockquote]

 

Lo studio

Per far luce sulla influenza dei mass-media italiani, i ricercatori della Dr.sa Guizzo hanno reclutato 78 uomini e 81 donne. Ai partecipanti è stato chiesto di visionare una prima breve clip televisiva in cui le donne vengono sessualmente oggettivate, la seconda clip è uguale alla prima ma con l’aggiunta di un commento che spiega il motivo per cui il filmato degrada le donne (video clip di critica), e infine viene fatto visionare loro un documentario naturalistico (per la condizione di controllo).

La componente femminile dell’esperimento, una volta visionato il video clip di critica, si è sentita più arrabbiata di quanto non fosse già precedentemente, di come i media italiani tendono a svantaggiare la loro figura. Lo stesso effetto non è stato osservato tra gli uomini.

[blockquote style=”1″]I risultati in linea di massima suggeriscono che la massiccia e assidua esposizione ai media possa portare alla pericolosissima considerazione che l’oggettivazione femminile sia nella norma, riducendo così le probabilità di reazioni nelle persone[/blockquote] afferma la Dr.sa Guizzo.

Lei crede che le campagne di sensibilizzazione potrebbero rappresentare, almeno per le donne, un potente strumento per motivare le persone ad impegnarsi in una azione collettiva volta a migliorare l’immagine che i mass-media danno delle donne.

Le variabili individuali nell’apprezzamento dell’umorismo

Da un punto di vista psicologico, l’ umorismo può essere definito come quella particolare disposizione mentale che fa cogliere di ogni situazione, anche la più drammatica, il risvolto comico (ma che non si esaurisce completamente nella comicità) e che si esprime con il riso. Il senso dell’ umorismo può riferirsi ad un tratto di personalità stabile, così come a una caratteristica individuale variabile (Ruch, 1998). 

Silvia Busti Ceccarelli, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

 

Si tratta di un costrutto multidimensionale, in cui aspetti emotivi, cognitivi, comportamentali e relazionali interagiscono in maniera dinamica; talvolta i diversi aspetti che caratterizzano l’umorismo sono integrati e legati fra loro, altre volte sono indipendenti e possono essere presenti gli uni senza gli altri (Martin et al, 2003).

Teorie cognitive sull’ umorismo

La psicologia cognitiva, per quanto riguarda la ricerca sull’ umorismo, si pone come interrogativo quale sia il modo in cui un soggetto elabora cognitivamente uno stimolo umoristico: concetto chiave per rispondere a questa domanda è l’incongruità. È possibile definire l’incongruità come una [blockquote style=”1″]caratteristica che risulta nell’interazione stimolo-soggetto quando lo stimolo è difforme dal modello cognitivo di riferimento del soggetto[/blockquote] (Forabosco, 1992). È soggettiva ed elastica in quanto i modelli cognitivi possono differire da soggetto a soggetto e possono modificarsi attraverso l’esperienza.

A partire dagli anni ‘70, il concetto di incongruenza, applicato allo studio dell’umorismo, è stato ripreso in una prospettiva informazionale, ovvero in termini di elaborazione delle informazioni. Secondo Suls (1972), nell’elaborazione di uno stimolo umoristico vi è una prima fase in cui il soggetto percepisce un’incongruità, e una seconda fase di problem solving in cui cerca di risolverla attraverso una regola cognitiva. Ad esempio, si consideri la seguente barzelletta:
“Papà, ti piace la frutta secca?”
“Perché?”
“Oh niente, sta andando a fuoco il frutteto …”

Nella prima fase il soggetto percepisce che c’è incongruità tra la prima domanda e l’ultima risposta del bambino, in quanto il fatto che stia andando a fuoco il frutteto è qualcosa di negativo che apparentemente non è coerente con il significato della domanda iniziale. Tuttavia esiste una regola cognitiva per spiegare l’apparente incongruità: il doppio senso della parola “secca” può aiutare a spiegare la coerenza tra la domanda e il fatto che il frutteto stia bruciando.

L’aspetto forse più interessante di tale teoria, però, riguarda l’ambiguità dell’ incongruità: da una parte viene risolta, ma mai completamente, per cui, dall’altra parte, rimane sempre un qualche elemento illogico nella conclusione. In altre situazioni, come ad esempio nella curiosità, o nella perplessità, l’ambiguità deve essere risolta completamente per arrivare ad una coerenza cognitiva. È invece caratteristico del processo umoristico il fatto che alla fine permanga una certa percezione di incongruità, pur essendo stata contemporaneamente eliminata. Nell’ esempio sopra citato, infatti, anche risolta l’incongruenza, la situazione non appare comunque totalmente logica e lineare.

Se l’incongruità è ritenuta dalla maggior parte dei ricercatori elemento necessario (ma non sufficiente) affinché si generi un’esperienza umoristica, secondo alcuni studiosi non è necessario che vi sia la risoluzione di tale incongruenza: questo è il caso di una persona che scivola su una buccia di banana, oppure dello scherzo della torta in faccia, o degli scherzi dei clown (Gulotta, 2001).
Per fare chiarezza tra il primo modello a due fasi (incongruenza più risoluzione) e il secondo modello a una fase (incongruenza senza risoluzione), un modello informazionale integrato propone che il fattore di base sia sempre la percezione di incongruità e che, anche qualora sia possibile generare umorismo in assenza di risoluzione della stessa, sia necessaria una forma di padronanza cognitiva che gestisca tale incongruità (Gulotta, 2001). Sarà quindi necessario che il soggetto almeno comprenda completamente l’incongruità presente.

I correlati neurali nell’apprezzamento dell’umorismo

Samson (2008) ha misurato i correlati neurali dell’apprezzamento umoristico, così da ampliare le conoscenze rispetto ai processi umoristici cognitivi. Lo strumento di misura principale utilizzato è stata la Risonanza Magnetica Funzionale (fMRI), oltre a diverse misure comportamentali e self-report.

Il principale punto d’interesse è stato la risoluzione dell’incongruità nello stimolo umoristico. I risultati della ricerca mostrano, nel processo di risoluzione dell’incongruità, l’attivazione del seguente network cerebrale: corteccia prefrontale ventro-mediale, giro frontale inferiore, giunzione temporo-parietale e giro sopramarginale. Nello studio condotto, la zona cingolata anteriore (solitamente coinvolta nel monitoraggio di informazioni erronee e conflittuali), si è attivata solo durante i tentativi di risoluzione dell’incongruità falliti. Inoltre, confrontando l’umorismo che implica risoluzione dell’incongruità con l’umorismo senza senso (illogico, assurdo, che per essere apprezzato non richiede risoluzione di incongruità), è emerso che il primo richiede una maggior attivazione rispetto al secondo, in particolare per quanto riguarda la giunzione temporo-parietale (area implicata nell’integrazione delle informazioni e nella costruzione di coerenza).

Emerge, quindi, che i meccanismi logici con cui si elabora lo stimolo umoristico influenzano i correlati neurali. Inoltre, la ricerca ha messo in evidenza che chi ha un maggior bisogno di esperienze nuove attiva maggiormente l’area prefrontale, le regioni temporali posteriori e l’ippocampo. Questo può essere dovuto al fatto che questi soggetti (experience seeking), poiché alla ricerca di nuovi stimoli mentali, esplorano più intensamente lo stimolo umoristico. È stato verificato anche che gli experience seeking preferiscono l’umorismo assurdo a quello totalmente comprensibile tramite risoluzione di incongruità.

In una ricerca sui correlati neurali dell’ umorismo (Bartolo et al, 2006), su pazienti con lesioni cerebrali, tramite fRMI, è emerso che gli stimoli umoristici, anche se non verbali (in cui quindi non è richiesta l’elaborazione del linguaggio che implicherebbe il coinvolgimento dell’emisfero sinistro), attivano sia l’emisfero sinistro che quello destro. In particolare, le seguenti aree cerebrali: il giro inferiore frontale destro, il giro temporale superiore sinistro, il giro temporale mediale sinistro e il cervelletto sinistro. Siccome le stesse aree si attivano anche durante l’attribuzione di intenzioni nell’osservazione di stimoli non verbali, gli autori ipotizzano che, nel caso degli stimoli umoristici, questo accada durante la risoluzione dell’incongruità. Infine, le analisi della ricerca mostrano che la parte sinistra dell’amigdala si attiva in relazione al divertimento soggettivo; l’amigdala potrebbe quindi giocare un ruolo chiave nel conferire all’umorismo una dimensione emotiva.

Umorismo e differenze individuali

Di fronte a stimoli incongrui che possono generare umorismo, ognuno reagisce in modo diverso e questo può dipendere da numerose variabili quali le caratteristiche di personalità, dal contesto sociale, dal genere e da altre variabili psicologiche.

Gulotta e colleghi (2001) riprendono le ricerche principali che nel corso degli anni hanno studiato le differenze individuali nell’apprezzamento dell’ umorismo, citando un classico schema proposto dallo psicologo israeliano Ziv (1984). Lo schema suddivide i soggetti in base a due dimensioni di personalità: estroversione/introversione e stabilità/instabilità. In questo modo si ottengono quattro differenti tipologie di soggetti: (a) estroverso instabile, che utilizza l’ umorismo come espressione della propria aggressività, non apprezza l’ umorismo intellettuale e l’autoironia e ride anche quando non è opportuno; (b) estroverso stabile, buon fruitore e produttore di umorismo, si sa adeguare bene alle situazioni e usa l’ umorismo come risorsa positiva per il gruppo; (c) introverso instabile, che preferisce l’ umorismo aggressivo e fruibile a livello individuale; (d) introverso stabile: apprezza l’ umorismo intellettuale, i giochi di parole, è affascinato dalle incongruità e dall’ umorismo assurdo.

Inoltre, l’autore introduce una terza dimensione che influenza l’apprezzamento umoristico: la componente intellettiva, che sarebbe direttamente proporzionale all’apprezzamento dell’ umorismo. Secondo Snyder (1974), le persone ad alto monitoraggio (chi sa adattarsi bene a molteplici situazioni sociali), hanno un maggior senso dell’ umorismo. In una ricerca di Overhoser (1992), è stato invece dimostrato che chi usa l’ umorismo come strategia di coping per affrontare situazioni stressanti è meno depresso, meno introverso e ha un livello di autostima più elevato.

Un utilizzo dell’ umorismo in chiave positiva è stato associato a una buona percezione di sé (Kuiper e Martin, 1993) e ad autocontrollo e padronanza della situazione elevati del gestire le sfide che si incontrano nell’arco di vita (Kuiper et al, 2004).
Le ricerche rispetto alle differenze individuali, dalle prime alle più recenti, si muovono in diverse direzioni molto interessanti e quasi tutte sembrano essere unite da un fil rouge che associa l’apprezzamento dell’ umorismo a caratteristiche positive di personalità.

Il senso dell’ umorismo, però, se considerato nella sua globalità, è un costrutto complesso e ben più ampio rispetto al solo concetto di apprezzamento dell’ umorismo. Può essere diviso in due parti: (1) la comprensione dell’ umorismo usato da altri; (2) la produzione di umorismo (Kohler e Ruch, 1996). Questi due aspetti a loro volta contengono diverse componenti: la comprensione di umorismo può essere vista come il prerequisito per l’apprezzamento di stimoli umoristici. A sua volta, anche la produzione umoristica comprende almeno due aspetti: quanto umorismo viene prodotto (fluenza umoristica), e quanto l’ umorismo prodotto viene percepito come divertente (successo umoristico). La relazione tra apprezzamento e produzione umoristica è complessa e studiarla non è un compito semplice.

I dati di Moran e colleghi (2014), in una recente ricerca in cui sono stati usati cartoni animati come materiale umoristico, mostrano come la capacità di produrre umorismo di successo sia negativamente correlata al livello di apprezzamento di umorismo prodotto da altri: all’interno del campione coinvolto, chi faceva più ridere era chi trovava meno divertenti le battute degli altri. Rispetto invece al rapporto tra apprezzamento e produzione umoristica e variabili di personalità, dal loro studio è emerso che il tratto dell’estroversione presenta una correlazione significativamente positiva con l’apprezzamento e significativamente negativa con la produzione umoristica di successo. Gli autori escludono però che questo fattore possa giocare un importante ruolo da mediatore nella relazione negativa tra apprezzamento e produzione umoristica: negli studi futuri sarebbe sicuramente interessante capire quali fattori, insieme a quelli di personalità, possono contribuire a spiegare questa correlazione negativa.

Rispetto al genere, invece, sono stati condotti diversi studi che Sbattella (2008) raccoglie secondo i punti seguenti: (1) l’ umorismo a contenuto sessuale è maggiormente apprezzato dagli uomini, eccetto i casi in cui il bersaglio della battuta è il genere maschile; (2) gli uomini, rispetto alle donne, apprezzano maggiormente l’ umorismo aggressivo.

Una spiegazione possibile a queste due differenze riguarda il timore delle donne di essere mal giudicate a livello sociale, qualora ridano di una battuta aggressiva o a contenuto sessuale.

Nel lavoro di Moran e colleghi (2014) si osserva che le donne presentano livelli più alti degli uomini nell’apprezzamento umoristico, e viceversa per la produzione umoristica di successo. I risultati presentati dagli autori vanno nella stessa direzione di studi precedenti (Thorson e Powell, 1993; Baron-Cohen e Wheelwright, 2004; Samson, 2012), ma senza una significatività statistica. In linea con questi risultati è anche lo studio di Bressler e colleghi (2006) in cui è stata esplorata l’importanza che i soggetti attribuiscono al fatto che il proprio partner sia un buon produttore di umorismo piuttosto che un buon apprezzatore: è emerso che gli uomini preferiscono avere vicino una donna che apprezzi l’ umorismo, mentre le donne un uomo che produca umorismo.

Dalla teoria alla pratica

L’ umorismo studiato in psicologia si rivela come un costrutto multidimensionale non semplice da conoscere a fondo. La sua molteplicità di forme, aspetti, caratteristiche, ne costituisce una ricchezza e anche una debolezza: da un punto di vista della ricerca, non è semplice da operazionalizzare e misurare.

Conoscere l’ umorismo e in quale modo viene fruito può avere diverse ricadute applicative. All’interno della pratica clinica, sapere come e quando utilizzare l’ umorismo con un paziente può essere una risorsa molto utile. Il valore dell’ umorismo, infatti, non si manifesta solo a livello emotivo come possibile induttore di emozioni positive, ma anche su un piano cognitivo, come facilitatore di reappraisal nelle situazioni minacciose e stressanti. Aiutare un paziente a mettere in pratica un buon utilizzo dell’ umorismo può essere per lui non solo benefico del qui ed ora, ma anche adattivo a lungo termine.

Qualunque sia l’intervento terapeutico in cui si inserisce l’utilizzo dell’ umorismo, è importante non perdere di vista il focus della psicologia positiva che, come ricordano Pasinato e Zucchi (2007), consiste nell’individuare le abilità di ciascuna persona e lavorare sul potenziamento di tali competenze. Anche nel lavoro “con e per l’ umorismo” (sia l’ umorismo un semplice strumento, oppure la risorsa ultima che si vuole potenziare) emerge l’importanza di modulare l’utilizzo di uno strumento quale l’ umorismo sulle caratteristiche e le domande che il soggetto porta in terapia.

Sentirsi grati verso chi è stato generoso con noi? No grazie!

Quando ricevete un regalo da qualcuno, vi sentite grati? Oppure vi sentite obbligati a ricambiare il gesto? Non tutti sperimentano gratitudine in risposta alla generosità altrui, come dimostra una nuova ricerca pubblicata sulla rivista Cognition and Emotion. Ma che cosa modera la gratitudine in alcune persone? Una risposta potrebbe avere a che fare con la personalità: il senso di indipendenza e autonomia che un individuo avverte nei confronti degli altri.

 

Le ricerche sulla relazione tra autonomia e gratitudine

All’interno di una delle prime ricerche pubblicate sulla relazione tra autonomia e gratitudine, Anthony Ahrens, professore associato di Psicologia alla American University di Washington, in collaborazione con un gruppo di studenti, ha condotto tre studi coinvolgendo più di 500 partecipanti. E’ stata utilizzata una misura self-report per determinare i livelli di autonomia di ciascun soggetto, tale variabile è stata caratterizzata da risposte a domande su argomenti come “quanto ti piace fare affidamento su altri per ricevere aiuto?” oppure “quanto ti piace avere altre persone che dipendono da te?”.

Nei diversi studi, è emerso che gli individui con punteggi più alti di autonomia (intesa come non voler dipendere dagli altri o non voler essere di peso) sperimentano meno gratitudine nella loro vita e ne apprezzano meno il valore.

[blockquote style=”1″]Non c’è niente di sbagliato nell’essere autosufficienti e nel valorizzare l’autonomia. La mia preoccupazione è: fino a che punto autosufficienza e autonomia possono interferire con i processi che legano tra loro le persone?[/blockquote] si è chiesto Ahrens. Perché si sa, la gratitudine è il collante di ciascun rapporto e i ricercatori stanno scoprendo sempre più prove dei suoi numerosi benefici. Ad esempio, aiuta a costruire relazioni. O ancora, è stata associata al benessere fisico e mentale.

 

I risultati: chi è autonomo si sente meno grato nei confronti di chi gli fornisce aiuto

Nel primo studio della ricerca, nel ricevere un regalo ipotetico o un favore, gli individui più autonomi hanno sperimentato sentimenti meno positivi. Nel secondo studio, i risultati hanno ribadito la maggiore avversione per la gratitudine degli individui autonomi. Infine, i ricercatori hanno compiuto un ulteriore passo nel terzo studio per ottenere un quadro più ampio, chiarendo se l’autonomia potesse interferire con la compassione. Proprio come ipotizzato, gli individui più autonomi erano più concentrati sul presentare bene se stessi e meno sul sostenere gli altri nelle relazioni.

[blockquote style=”1″]La qualità di una relazione potrebbe risentirne se la gratitudine non viene mai espressa. Una persona molto autonoma potrebbe fraintendere un gesto ben intenzionato del partner. Un’azione di compassione potrebbe essere vista come invadente invece che un atto di supporto e aiuto[/blockquote] ha detto Ahrens. Altre ricerche sull’autonomia hanno dimostrato che essere molto autonomi potrebbe creare un’avversione a qualsiasi forma di dipendenza dagli altri, rendendo gli individui più vulnerabili alla depressione.

Ahrens ha ipotizzato che le persone che apprezzano molto l’indipendenza sentono un’avversione forte verso la gratitudine e pensano che ciò potrebbe renderli deboli. I prossimi passi nella ricerca intendono esplorare i significati culturali legati all’autonomia.

[blockquote style=”1″]La cultura contemporanea americana enfatizza l’autonomia[/blockquote] dice appunto Ahrens.

E’ possibile che i messaggi culturali e sociali inducano le persone a valorizzare più l’autonomia e meno la gratitudine. Esaminare come l’autonomia e la gratitudine interagiscono nell’ambito interpersonale, può dare un’idea di come coltivare al meglio le esperienze positive di condivisione e sana indipendenza, aumentando il benessere emotivo.

La motivazione al trattamento e l’intervento a domicilio nei disturbi alimentari

Negli ultimi anni l’intervento domiciliare ha ricevuto sempre più attenzione da parte dei clinici, sia come alternativa efficace ed economica al trattamento ospedaliero dei disturbi psichiatrici, sia come trattamento integrato agli interventi ospedalieri. Sono presenti numerosi studi in letteratura riguardo agli interventi domiciliari in ambito psicologico e/o psichiatrico; tuttavia, sono pochi gli studi che hanno valutato uno specifico trattamento domiciliare rivolto a pazienti con disturbi alimentari.

Chiara Orlandi, Rosaria Nocita, Carolina Redaelli

 

Le difficoltà nella terapia: la scarsa motivazione al trattamento dei pazienti con disturbi alimentari

I disturbi alimentari (DA), o disturbi della nutrizione e dell’alimentazione secondo il DSM IV, sono considerati ad alto rischio di drop – out e sono caratterizzati da specifiche difficoltà di trattamento. Uno dei temi cruciali nei disturbi alimentari risulta quindi essere la motivazione al trattamento.

Sono stati messi in luce diversi fattori relativi al fenomeno del drop out e della scarsa adesione alle terapie e sono stati individuati ruoli diversi di ciascun fattore indagato.

Già qualche anno fa Zanetti et al. (2005) hanno posto l’accento sull’importanza dell’atteggiamento verso la malattia e sulla rilevanza dell’atteggiamento verso la terapia da parte di pazienti con Disturbi Alimentari, fattori che risultavano fondanti la resistenza al trattamento che condurrebbe, di conseguenza, al drop-out.

Successivamente Fassino et al. (2009) hanno evidenziato che gli elementi che condizionano maggiormente i tassi e la frequenza del fenomeno di drop–out in questo tipo di pazienti sono il rapporto con il corpo e l’evoluzione del trattamento.

Inoltre per le pazienti con Anoressia Nervosa gli elementi rilevati come determinanti il drop-out erano la rigidità nelle pratiche di purificazione e la presenza di abbuffate, mentre per le pazienti con Bulimia Nervosa gli elementi determinanti riguardavano la sintomatologia auto-distruttiva e l’impulsività.

Altri autori (Kelly et al., 2012) hanno dimostrato che le emozioni di paura e di vergogna, associate a ridotti livelli di auto-commiserazione e alti livelli di auto-critica, incidono fortemente sulla vulnerabilità del paziente alla sospensione della terapia.

 

La motivazione al trattamento come fattore predittivo

Nella letteratura più recente si riscontrano ulteriori studi che hanno indagato la motivazione al trattamento come fattore predittivo dell’esito del percorso di cura dei disturbi dell’alimentazione. In una ricerca condotta su pazienti con anoressia è emerso il valore predittivo della motivazione al cambiamento rispetto agli esiti del trattamento, in particolar modo riguardo all’aumento di peso e al miglioramento della sintomatologia globale del disturbo alimentare (Hellen et al., 2015).

Un altro autore, Sarin (2015), ha invece approfondito l’effetto predittivo del tipo di motivazione (autonoma vs. controllata) sul cambiamento dei sintomi alimentari, dell’impulsività, dell’ansia e dell’umore in pazienti con anoressia. In generale, la motivazione autonoma predispone i pazienti ad ottenere maggiori benefici sia nel breve che nel lungo termine, mentre la motivazione controllata predice esiti sfavorevoli.

Infine, Zaitsoff et al. (2015) hanno invece indagato quattro costrutti relativi all’aggancio terapeutico: fiducia, accordo sugli obiettivi terapeutici, sicurezza/fiducia nella propria capacità di cambiare, sentimenti di inclusione nelle decisioni terapeutiche. Le analisi hanno rivelato che per l’intero campione con disturbo alimentare tutti e quattro i fattori indagati influenzano l’esito della terapia.

I dati degli studi riportati sollecitano una riflessione sulla necessità, nell’ambito della cura dei Disturbi Alimentari, di focalizzare i primi obiettivi dell’intervento sulla motivazione al trattamento.
Va sottolineato, inoltre, che la programmazione di un trattamento per i Disturbi Alimentari, oltre a tener conto del fattore motivazionale, può variare in relazione al livello di rischio fisico, allo stato nutrizionale e all’eventuale presenza di altri disturbi- sia psichici che internistici.

 

Il trattamento terapeutico

Quale trattamento per il paziente e per i suoi familiari?

Ad oggi per la maggior parte dei pazienti con disturbi alimentari il trattamento d’elezione è rappresentato da psicoterapie individuali e/o di gruppo insieme ad una presa in carico medico-psichiatrica, per alcuni casi- invece- i pazienti con disturbi alimentari hanno bisogno di un trattamento più intensivo che può delinearsi su vari livelli (ospedaliero, in day-hospital, residenziale, domiciliare) in modo da proporre interventi differenziati, appropriati rispetto alla situazione specifica del paziente.

I familiari sono generalmente il supporto principale per i giovani che soffrono di un Disturbo Alimentare ma spesso corrono il rischio di mettere in atto modelli di comportamento non salutari che potrebbero mantenere ed aggravare i comportamenti alimentari patologici. È spesso necessario per i membri della famiglia cambiare alcuni aspetti dei propri schemi di interazione in risposta ai comportamenti alimentari problematici. Nelle linee guida APA (2012) viene riportata come una delle tappe fondamentali al trattamento dei disturbi alimentari cercare la collaborazione e fornire sostegno ed informazioni ai familiari.

La Family Based Treatment è un modello di trattamento che interviene sul contesto familiare del paziente con disturbo alimentare (Treasure, Schmidt, U. & Macdonald, 2010), con l’obiettivo di creare le condizioni domiciliari migliori per il trattamento di tale disturbo.
Ai familiari è richiesto di: diventare competenti nel fornire un supporto attraverso l’ascolto; sviluppare livelli di regolazione emozionale con un atteggiamento mentale sereno e compassionevole; di acquisire le abilità necessarie a comprendere gli altri ad essere flessibili, a prendere decisioni e a pianificare tenendo in mente un progetto di vita e specifici valori.

 

L’intervento a domicilio integrato al trattamento ambulatoriale

Negli ultimi anni l’intervento domiciliare ha ricevuto sempre più attenzione da parte dei clinici, sia come alternativa efficace ed economica al trattamento ospedaliero dei disturbi psichiatrici, sia come trattamento integrato agli interventi ospedalieri. Sono presenti numerosi studi in letteratura riguardo agli interventi domiciliari in ambito psicologico e/o psichiatrico; tuttavia, sono pochi gli studi che hanno valutato uno specifico trattamento domiciliare rivolto a pazienti con disturbi alimentari.

D. Pauli, C. Schräer, N. Hilti hanno steso un programma di trattamento ambulatoriale interdisciplinare all’interno dell’ospedale (University Hospital Zurich, CH) rivolto a bambini e ad adolescenti con disturbi alimentari, includendo la famiglia all’interno della terapia. Si tratta di un programma in corso d’opera sul quale è stato già condotto uno studio preliminare per indagarne l’efficacia. In particolare, lo studio condotto da Pauli e colleghi ha coinvolto 42 adolescenti con anoressia, sottoposte ad un trattamento ambulatoriale che consisteva in un percorso di terapia individuale settimanale e un percorso di Family-Based Treatment (2-4 visite a settimana per 10 settimane). I risultati preliminari dello studio ad oggi in corso sono interessanti, poiché l’83,3% dei pazienti con anoressia ha ottenuto miglioramenti con il trattamento ambulatoriale integrato con il trattamento a domicilio, e solo il 16.7% delle pazienti è ricorso ad un ricovero.

Tali risultati, da considerare tuttavia preliminari, indicherebbero che il trattamento a domicilio, come intervento integrativo/supplementare può potenziare gli esiti della terapia ambulatoriale per adolescenti con disturbi alimentari.
Tali dati andranno verificati in futuro con un campione maggiore e con ulteriori studi.

 

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Nulla succede per caso. Le coincidenze che cambiano la vita (2016) di R. H. Hopcke – Recensione del libro

Nulla succede per caso propone un approccio romanzesco alla sincronicità. Storie presentate come opportunità di crescita interiore e di trasformazione, eventi sincronistici come momenti di rinnovata consapevolezza rispetto al proprio modo di vedere se stessi, gli altri e il mondo.

Valentina Messori – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Frasi fatte come ”Ti succederà quando meno te l’aspetti” riflettono una verità: nel momento in cui siamo più concentrati, oppure più aperti, rispetto ai nostri limitati progetti, attiviamo nell’intreccio della nostra vita una fase di grandi potenzialità.

Come ha scritto Milan Kundera, autore de L’insostenibile leggerezza dell’essere, facciamo bene a rimproverare coloro che sono ciechi alle coincidenze della vita poiché, come questo libro dimostrerà, quelle coincidenze uniche che chiamiamo sincronistiche ci rendono di volta in volta coscienti della bellezza, dell’ordine e del concatenarsi delle storie che stiamo vivendo.

Al centro dell’interesse dell’autore di Nulla succede per casoR. H. Hopcke, ci sono le storie e il ruolo che occupano nella nostra esistenza. La vita di ognuno di noi si fonda sul raccontare. Quando si torna a casa dal lavoro, la prima cosa che viene chiesta è :”Com’è andata oggi?” in altre parole: ”Ti prego raccontami la storia della tua giornata”. Oppure a pranzo da amici: ”Allora, che c’è di nuovo?”, in altre parole: ”Raccontami una storia”.

L’autore afferma che ognuno di noi è un personaggio in molte storie, amici, clienti, colleghi, genitori, chiunque ha da raccontare storie su di noi, storie in cui noi siamo i protagonisti.

 

Nulla succede per caso: il significato delle coincidenze e della sincronicità

Ecco che Nulla succede per caso introduce il concetto di coincidenza: soltanto un qualcosa di esterno dalla storia riuscirebbe a richiamare l’attenzione del personaggio sul carattere della situazione che sta vivendo, quasi ogni giorno si verifica una coincidenza.

Se prestiamo attenzione all’effetto che gli eventi hanno su di noi, possiamo notare a volte che rimaniamo scossi, l’evento ha un carico di significati, Carl Gustav Jung ha chiamato questa coincidenza significativa “Sincronicità

L’autore descrive questo tipo di coincidenza teatrale romanzesca, per il modo in cui uno stato interiore, emotivo si riflette in un evento casuale appartenente al mondo esterno.

Importante quindi l’impatto emotivo che gli eventi producono su di noi, eventi che ci cambiano e ci trasformano. In momenti chiave della nostra esistenza, ci balza all’occhio in seguito a una sorta di convergenza di eventi esterni e condizioni interiori a noi. Gli eventi sincronistici ci offrono una visione diversa di noi stessi, una prospettiva più ampia sulla nostra esistenza, oppure una comprensione più profonda degli altri o del mondo.

Spesso, in Nulla succede per caso, l’autore afferma che noi ci scontriamo con questi eventi, quasi li neghiamo, cerchiamo di non prenderli in considerazione, li sminuiamo. Questo perché ci costringono a misurarci con il fatto che talvolta le storie che raccontiamo sul nostro conto, le storie che vorremmo vivere, non sono necessariamente quelle nelle quali viviamo o nelle quali siamo destinati a vivere.

Nulla succede per caso propone un approccio romanzesco alla sincronicità.

Storie presentate come opportunità di crescita interiore e di trasformazione, eventi sincronistici come momenti di rinnovata consapevolezza rispetto al proprio modo di vedere se stessi, gli altri e il mondo.

Nel primo capitolo l’autore introduce diversi aspetti della sincronicità. Descrive il lavoro di Jung, affermando che quando trattava questo tipo di coincidenze, si chiedeva sempre quali sono le condizioni psicologiche interiori , che toccano la nostra esperienza esterna in modo cosi indimenticabile e determinante. La sincronicità riguarda il significato soggettivo degli eventi per gli individui che ne sono coinvolti.

L’autore afferma che qualcosa è significativo per noi in due modalità: o ha un significato per via dei nostri valori, o ha un effetto perché ha fortemente influenzato la nostra esistenza. Dunque un evento sincronicistico è una coincidenza dotata di un significato soggettivo per la persona coinvolta; trattandosi di elementi  soggettivi, ciò che un individuo ritiene significativo (e dunque dotato di valore/o carico di significati per gli effetti che produce) potrà apparire privo di significato agli occhi di un altro.

 

Le caratteristiche della sincronicità junghiana

L’autore poi descrive le quattro caratteristiche che la sincronicità junghiana possiede.

In primo luogo gli eventi che chiamiamo sincronistici sono collegati in modo acausale. In secondo luogo il loro verificarsi è sempre accompagnato da una profonda esperienza emotiva. In terzo luogo il contenuto dell’esperienza sincronistica ha un carattere invariabilmente simbolico. Come quarto aspetto queste coincidenze si verificano in concomitanza con cambiamenti di vita importanti.

Il primo punto è difficile da accettare, sopratutto nella nostra società: il pensare in termini di causa ed effetto ci consente infatti di sentirci in grado di controllare la situazione, di staccarci dal mondo esterno e di agire su di esso. Secondo questa prospettiva, a limitarci sono soltanto le conseguenze delle nostre azioni, ma se le accettiamo saremo in grado di agire, e anche liberamente.

Un modo diverso di pensare, in particolare quello che ci viene offerto dalla sincronicità, consente invece di fare i conti con la possibilità che eventi casuali siano significativi e non semplicemente privi di significato. Quest’idea mette in dubbio la sensazione di potere e di controllo. L’idea che possano esserci eventi a noi incontrollabili suscita una certa ansia. Questa visione quindi porta una prospettiva diversa, secondo cui l’esperienza soggettiva determina il nostro posto in un universo di eventi accidentali che accadono intorno a noi e a noi, collegati tra loro in base a ciò che significano per chi ne è coinvolto. Il che porta a considerare la seconda caratteristica di cui parla l’autore di Nulla succede per caso: l’emozione.

Gli eventi sincronistici possiedono un tono emotivo, l’effetto profondo che questo tipo di coincidenza esercita sulle nostre sensazioni, costringe l’essere occidentale a dubitare dell’oggettività. Dare loro spazio significa aprirsi all’esperienza , allentando il controllo che ognuno di noi esercita su di sé. Sentire significa essere vulnerabili. Non è solo il timore di perdere il controllo a rendere la vita emotiva una minaccia. La sincronicità richiede che si affermi che le proprie sensazioni siano importanti quanto i pensieri e in determinate situazioni anche di più.

Il terzo punto presentato dall’autore in Nulla succede per caso è il carattere simbolico: un evento sincronistico può significare molte cose. L’autore parla di archetipo, quei modelli che costituiscono l’inconscio collettivo. Un archetipo assomiglia a un modello percettivo.

Ci sono dei periodi di vita in cui l’essere umano si sente stabile; altri momenti in cui si sente l’esigenza di operare dei cambiamenti in un’esistenza diventata paralizzante e noiosa. Durante questi periodi si cerca l’aiuto di qualcuno. L’autore afferma che molti non ricevono soltanto un aiuto esterno, ma anche uno di carattere interno e psicologico, che giunge in una sequenza di eventi accidentali che si verifica nel momento più opportuno per aiutarci a proseguire.

La concezione junghiana della psiche descrive essa come un fenomeno naturale e che tutti i suoi aspetti abbiano la funzione di far sì che lo sviluppo psicologico non si arresti. Ad esempio, le difese servirebbero a preservare un equilibrio mentale. La sincronicità è una specie di sveglia che fa emergere alla coscienza il fatto che si sta verificando una transizione.

Ogni spinta in avanti, ogni momento di crescita si compone di diversi stadi: in un primo momento ci si accorge che la nostra situazione non funziona, a farcelo comprendere possono essere eventi esterni, ad esempio un padre che minaccia di ritirare l’appoggio finanziario; a questo punto inizia una fase di transizione e confusione, iniziamo a immaginare le cose che potrebbero andare in modo diverso; finché non succede qualcosa che sfocia in un modo di essere diverso e più soddisfacente. Ognuno di noi si muove verso un significativo consolidamento del suo io.

 

Amore e sincronicità

Nel secondo capitolo di Nulla succede per caso l’autore tratta la sincronicità all’interno della sfera sentimentale: le svolte dell’amore e dell’amicizia danno alla vita di ognuno di noi la sua forma specifica.

Uno dei tratti distintivi di un evento sincronicistico è che si tratta di un’esperienza sempre unica, ecco perché si ragiona riguardo l’avere incontrato la persona giusta al momento giusto e nelle circostanze appropriate. Una tendenza degli esseri umani è quella di controllare e dirigere la propria esistenza, quindi il decidere consciamente quale storia vivere e fare tutto il possibile, a prescindere dalle conseguenze, perché le cose vadano proprio così, sia il modo per ottenere la felicità e sentirsi realizzati.

Quando non esercitiamo la nostra volontà, accadono a volte eventi che ci mostrano come le nostre vite possano seguire una traccia narrativa del tutto diversa. A volte durante le storie d’ amore, si ricercano segni nelle coincidenze per capire se è o meno la persona giusta. Soltanto un atteggiamento aperto, la capacità di accantonare le proprie aspettative e di accettare il fatto che non siamo riusciti o non abbiamo potuto anticipare la nostra storia, consentirà al significato di ciò che inizialmente sembrava un caso di semplice sfortuna di modellarsi in ciò che è destinato a essere.

Secondo l’autore possiamo trovare occasioni di crescita che non derivano soltanto dall’incontro con la persona giusta ma anche dalla sfortuna di esserci imbattuti in quella sbagliata. La sincronicità ci può aiutare a vedere come un atteggiamento aperto verso il significato che la coincidenza assume nei confronti della nostra vita possa aiutarci a vivere una storia più ricca e completa. Quando decidiamo di modellare le nostre storie sulla base di ciò che sappiamo su di noi, decidendo come farebbe un autore dove collocare l’inizio, la fine e lo svolgimento dell’intreccio, ci dimentichiamo che quanto sappiamo consciamente su di noi non costituisce che una faccia della storia.

Tutte le storie che l’autore narra all’interno del libro Nulla succede per caso, dimostrano che nella vita affettiva l’irruzione di eventi sincronistici può influire in due modi per risvegliare la coscienza: o contraddicendo la direzione che abbiamo scelto, mostrandoci qualcosa di nuovo sul nostro conto o sulla relazione che stiamo portando avanti, oppure confermando e consolidando una relazione rispetto alla quale nutrivamo dei dubbi.

Queste sincronicità di conferma servono a rassicurarci che siamo destinati a stare con la persona con la quale stiamo, e sono spesso parte integrante della storia d’amore che stiamo vivendo.

Le storie d’amore servono per farci maturare. Spesso ciò che ci attrae a prima vista di una persona, è proprio ciò che  a lungo andare ci risulterà intollerabile; e d’ altro canto, le cose che in principio viviamo come differenze sostanziali, una volta apprezzate e rielaborate ci danno molto di più in termini di crescita emotiva. L’amore non è una questione di persone giuste o sbagliate, l’autore afferma che tutto dipende dal nostro atteggiamento interiore.

L’amicizia, come l’amore, è fatta di vicinanza e interessi comuni. Le coincidenze sincronistiche svolgono una funzione di conferma e di sostegno dell’importanza che un individuo assegna ai rapporti con le persone che gli sono più vicine.

L’autore, in Nulla succede per caso, scrive che incontriamo spesso la persona o le persone che dobbiamo incontrare, in momenti di crisi o di grande apertura entra in scena per caso un personaggio che diventa per noi una delle figure principali della nostra storia. In altri momenti quando siamo soddisfatti, si manifestano dei legami che, quasi si trattasse di una forza della natura, sembravano destinati a emergere. In altri momenti ancora, quando per paura o per egoismo ci estraniamo dal mondo, gli eventi sincronistici attivano rapporti che ci ricordano con insistenza, l’impossibilità di ignorare del tutto i nostri legami con gli altri.

La sincronicità di coloro che amiamo risiede nel significato interiore che vediamo e viviamo in queste storie della nostra esistenza.

 

Nulla succede per caso: il legame tra il nostro Io e la nostra vita professionale

Nel terzo capitolo l’autore procede nel riportare storie di eventi sincronistici, questa volta avvenuti nell’ambito professionale, il legame tra il nostro io interiore e il lavoro della nostra vita.

L’autore si chiede se siamo noi a scegliere il lavoro o è il lavoro che sceglie noi: se si vuole che una coincidenza significativa cambi la storia della nostra vita, si deve vagabondare a caso per il mondo e essere pronti ad accogliere qualsiasi cosa la vita offre. Questa apertura mentale implica la capacità di restare in equilibrio sulla linea sottile che divide una realistica consapevolezza delle proprie capacità da un’ostinata cocciutaggine. Essere contemporaneamente determinati e pronti a lasciare andare, sebbene sia difficile per chiunque, è un requisito essenziale se vogliamo trarre dei significati dagli incidenti che accadono. Importante anche la capacità di tollerare l’incertezza, per poter vedere a pieno tutte le potenzialità.

In molte delle storie di Nulla succede per caso si parla dell’insuccesso, l’ammissione della sconfitta, necessaria per spingere l’individuo all’azione. Nell’arco delle esperienze professionali riportate, gli incidenti e i contrattempi hanno costretto le persone a rinunciare a certi atteggiamenti, che li ostacolavano al cambiamento.

A volte le coincidenze sono vissute come conferme, a volte sono occasioni di confronto, a volte sembrano semplicemente accidentali e solo più tardi una volta usciti dalla “tempesta” comprenderne la rilevanza. Anche nell’ambito professionale, l’evento sincronistico, mette in luce aspetti dell’io, permette di guardarsi meglio dentro, rispetto al mondo esterno, in questo caso il mondo lavorativo.

L’autore afferma che è bene non partire dal presupposto di avere già tutte le risposte pronte, una volta e per sempre. Quello che sembra un peggioramento oggi, potrebbe assumere un’aria ben diversa quando la storia sarà giunta alla fine.

Gli eventi sincronistici su di noi hanno un effetto di relativizzazione, ci fanno vedere le cose da una prospettiva più ampia.

Importante mantenere in equilibrio aspetti materiali e non materiali delle nostre motivazioni professionali, facendo delle nostre attività un modo conscio di affermare chi siamo e quali siano le cose che riteniamo importanti.

 

Le coincidenze nei sogni

Nel quarto capitolo di Nulla succede per caso l’autore presenta la coincidenza sincronistica all’interno del mondo onirico, quelle sincronicità che si muovono dall’interno all’esterno.

I nostri sogni vivono di vita propria e forse più di qualsiasi altro fenomeno della nostra vita interiore sono assolutamente privati, unici e soggettivi. Gran parte delle informazioni verso le quali i sogni dirigono la nostra attenzione potrebbe anche riguardare il nostro ambiente interiore, la nostra salute e la nostra maturazione emotiva, il nostro sviluppo spirituale o altri aspetti delle nostre esperienze soggettive, forse cruciali della salute fisica per la nostra sopravvivenza. E ‘ anche vero che i sogni sono analizzati in base al nostro interno, ci aiutano a cogliere aspetti della nostra storia e angolatura del nostro carattere che forse alcuni di noi non hanno apprezzato.

L’autore quindi parla di tutti quei sogni le cui immagini offrono parallelismi con eventi esterni successivi. Talvolta perché un evento sincronistico abbia un effetto trasformativo non è necessario analizzarlo, così come a volte una storia risulta talmente ben congegnata da ottenere l’effetto voluto senza che neppure ce ne accorgiamo. Altri sogni svelano non soltanto quel che avverrà, ma addirittura quel che avviene. Grandi o piccoli, teatrali o realistici che siano, i sogni sincronistici e l’effetto che sortiscono sulle nostre storie ci costringono comunque a riconoscere la casualità significativa dell’intreccio che viviamo.

Vi è anche un fenomeno del sogno condiviso, e cioè di uno stesso sogno che viene fatto da due o più persone contemporaneamente, sottolinea il senso di appartenenza e la coscienza di gruppo.

In conclusione l’autore afferma che il significato che un sogno porta con sé somiglia al significato di un racconto. Importante nell’interpretazione del sogno tenere in considerazione anche la nostra esperienza soggettiva, e cioè come abbiamo reagito al sogno, a cosa ci ha fatto pensare, dove va a collocarsi nella storia complessiva della nostra storia. E’ dalla nostra capacità di valutare l’esperienza soggettiva che dipende la possibilità che queste coincidenze arricchiscano o meno la nostra vita. Se si parte dal presupposto che i sogni significano qualcosa, e se si passa con loro un po’ di tempo nel modo che meglio ci si adatta, scopriremmo più cose sulla nostra vita interiore di quanto abbiamo mai ritenuto possibile, la coscienza si risveglia, ci rendiamo conto di chi siamo e la nostra posizione nell’universo.

 

Sincronicità e vita spirituale

Nel quinto capitolo l’autore tratta della sincronicità presente nella nostra vita spirituale. L’autore porta avanti l’idea che essere umani significa raccontare storie, vivere e usare simboli per dare senso alla nostra vita, cercare un’esperienza profonda e diretta di ciò che trascende la nostra limitata esistenza mortale. Eventi sincronistici hanno formato le storie di certi individui rispetto alla loro vita spirituale. Anche per quanto riguarda aspetti spirituali, quindi, si tratta sempre di un momento di apertura alle trasformazioni, al quale reagiamo passando all’azione, una coincidenza può avere o meno un significato a seconda dell’atteggiamento che abbiamo nei suoi confronti. Un particolare momento in cui la realtà esterna replica la propria vita interiore, grazie alla quale ci si sente giustificati nel proprio processo di maturazione spirituale.

Le sincronicità possono anche assumere la forma di un lento processo dal quale emerge, nella storia di vita di una persona, la totalità, mutamenti interni specifici che hanno migliorato la loro capacità di autocomprensione. Si tratta quindi di coincidenze significative tra una visione interna d un evento esterno, dai contenuti religiosi o spirituali, o comunque decisive per il formarsi di una coscienza spirituale nella persona coinvolta.

 

Le coincidenze nella vita e nella morte

Nell’ultimo capitolo, l’autore tratta le questioni di vita e morte, eventi sincronistici nelle più decisive e universali transizioni. La gravidanza, ad esempio, viene descritta come un particolare momento nella vita di una donna, un momento carico d’incertezza, gravidanze e parti, infatti, iniziano quando vogliono loro, indipendentemente dai nostri desideri, speranze, sforzi, e fantasie. Lezioni sincronistiche sono anche l’accoppiamento genitori figli: talvolta i genitori devono fare i conti con le proprie fantasie egoistiche sul bambino che avrebbero voluto, altre volte forniscono invece eventi sincronistici una conferma di quali sono le cose importanti nella loro esistenza. Il bambino diventa un futuro simbolico del passato di ognuno di noi.

Le nostre esistenze sono piene di eventi significativi che intenzionalmente vogliamo che ci accadano: aspiriamo ad avere una relazione con qualcuno che ci attrae, facciamo domanda per il lavoro che da sempre speriamo di trovare, diamo un nome ai nostri figli. Sono tutte azioni intenzionali.

Gli eventi sincronistici a causa del loro carattere accidentale ci forniscono sulla nostra vita un’altra verità. Il problema che porta l’autore è quello che facciamo quando un colpo accidentale del destino ci porta a rimescolare l’esistenza, mostrandoci qualcosa di inatteso.

L’autore di Nulla succede per caso consiglia un atteggiamento simbolico nell’esplorare la nostra vita, un atteggiamento di curiosità psicologica, emotiva in riferimento agli eventi casuali che ci capitano. Potremmo imparare a sfruttare le coincidenze per comprendere meglio noi stessi.

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