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Abuso di alcol e minor volume della materia grigia: uno studio sugli adolescenti

Un gruppo di ricercatori della University of Eastern Finland, ha condotto una ricerca per indagare l’effetto dell’ abuso di alcol sugli adolescenti. E’ stato scoperto che gli adolescenti che abusano di alcol risulterebbero avere, rispetto ai loro pari, una minore quantità di materia grigia, un’ importante struttura cerebrale che regolerebbe i processi mnemonici, decisionali e di autocontrollo.

 

Gli effetti dell’ abuso di alcol

Secondo Noora Heikkinen, della University of Eastern Finland, [blockquote style=”1″]é stato scoperto che l’ abuso di alcol sarebbe connesso ad isolamento sociale, problemi di salute mentale e al raggiungimento di un grado di educazione inferiore.[/blockquote]

Avere meno materia grigia potrebbe causare problemi simili, poiché questa parte del sistema nervoso contiene la maggior parte dei neuroni e gioca un ruolo importante in funzioni come la memoria, le emozioni, il decision-making e l’autocontrollo.

[blockquote style=”1″]Un mutamento all’interno delle strutture cerebrali potrebbe essere un fattore che contribuisce ai problemi sociali e mentali tra i soggetti che abusano di sostanze[/blockquote] sostiene la Hakkinen.

Per osservare l’effetto dell’ abuso di alcol sullo sviluppo cerebrale dei teenagers, i ricercatori hanno studiato 62 giovani adulti, partecipanti al “Finnish Youth Wellbeing Study”.

Tra il 2013 e il 2015, i partecipanti hanno compilato questionari e risposto a domande riguardanti quanto spesso bevessero e quanti drink consumassero.
Essi avevano inoltre completato questionari simili cinque e dieci anni prima, a partire dall’età di 13 anni.

Tra gli adolescenti, 35 soggetti rientravano nella categoria di “abusatori”. La categoria comprendeva soggetti che bevevano quattro o più volte a settimana, oppure bevevano diversi drink in ogni occasione. Gli altri 27 giovani adulti erano considerati bevitori nella norma.

Nessuno, in entrambi i gruppi, mostrava sintomi depressivi o altri disturbi mentali debilitanti. Entrambe le categorie di bevitori presentavano livelli simili di ansia, disordini di personalità e abuso di droghe. Tuttavia gli abusatori avevano una maggiore propensione al fumo di sigarette.

Le aree cerebrali compromesse dall’ abuso di alcol

Quando i soggetti erano sottoposti a scansioni cerebrali per esaminare la materia grigia ed altre strutture che avrebbero potuto essere danneggiate dall’ abuso di alcol, gli abusatori presentavano una materia grigia di volume significativamente minore in numerose aree cerebrali, comparati agli altri soggetti.

In particolare, ad essere sottosviluppate erano, in media, la corteccia cingolata anteriore bilaterale, la corteccia orbitofrontale destra e prefrontale, il giro temporale superiore destro e la corteccia insulare destra.
Poiché lo studio si è basato sull’osservazione del confronto tra esami strumentali, è stato impossibile stabilire se l’ abuso di alcol abbia effettivamente causato il sottosviluppo cerebrale. Secondo i ricercatori, infatti, i soggetti potrebbero avere uno sviluppo minore della materia grigia a causa di fattori genetici, e questa anormalità potrebbe favorire un maggiore abuso di alcol.

La sezione frontale del cervello, che aiuta le persone a pianificare e prendere decisioni, continua il suo sviluppo, fino a circa i 20 anni di età.
Durante questo periodo di sviluppo, i teenagers sarebbero in una “finestra di vulnerabilità”, in cui sarebbero più predisposti allo sviluppo di problemi legati all’ abuso di sostanze. In aggiunta, se i giovani sviluppano una tendenza a bere molto durante questo periodo sensibile, questo potrebbe causare dei danni alle strutture cerebrali comportando un inasprimento del comportamento di abuso e causando altri problemi di comportamento, come abbandono scolastico o la messa in atto di comportamenti sessuali rischiosi.

Hekkinen sostiene che fermare l’ abuso di alcol in tempo, può comportare l’incremento del volume della materia grigia. [blockquote style=”1″]Tuttavia, quando l’abuso di alcol è prolungato per un lungo periodo di tempo, alcuni cambiamenti nelle strutture cerebrali diventano irreversibili. Gli anni dell’adolescenza sono molto importanti per lo sviluppo cerebrale, e l’ alcol può interferire con questo processo.[/blockquote]

 

Coppie assassine: il caso dei coniugi Bernardo

Non sempre un serial killer si può identificare in un personaggio solitario che dà sfogo ai suoi impulsi aggressivi e mortali; infatti esistono casi di coppie assassine, la cui efferatezza non può considerarsi di certo inferiore.

Le caratteristiche delle coppie assassine

Secondo le ricerche del criminologo Ruben De Luca, incentrate sull’analisi di oltre 2200 casi di omicidi seriali nazionali e internazionali, quelli commessi in coppia ammonterebbero a poco più del 9% (in Italia il valore scende al 5%) (citato in Massaro, 2010).

Circa una vittima su dieci ha quindi incontrato delle coppie assassine, intendendo quella formata da due individui (non necessariamente assassini, se presi singolarmente), che insieme pianificano la cattura di una preda per torturarla e ucciderla.

Nel sottogruppo delle coppie uomo-donna tipicamente la parte femminile mostra una personalità sottomessa e dipendente, e viene soggiogata sessualmente da un compagno sadico sessuale e manipolatore, che pian piano la trasforma in spietata assassina (Massaro, 2010).
In “Team Killers. A comparative study of collaborative criminals”, Jennifer Furio riassume le caratteristiche peculiari della coppie assassine composte da un uomo e una donna, cui attribuisce caratteristiche ben precise (citato in Massaro, 2010).

1. Nella maggioranza dei casi delle coppie assassine uomo e donna sono partner sessuali e la natura dei loro delitti è prevalentemente di tipo sessuale;
2. Di solito la donna è più giovane dell’uomo (è più giovane della donna serial killer che agisce da sola);
3. In genere, la donna è vulnerabile dal punto di vista emotivo;
4. La donna funge da esca per attirare le vittime;
5. L’uomo controlla le azioni della sua partner, come se questa fosse una sorta di bambola da manovrare;
6. La donna accetta il coinvolgimento nei delitti perché teme di sentirsi esclusa dalle fantasie sessuali del partner e, per non perderlo, cerca di assecondare le sue perversioni;
7. Con l’avanzare degli omicidi, la donna cova sempre più risentimento nei confronti dell’uomo: sovente decide di confessare e di patteggiare la pena collaborando con gli inquirenti.

Secondo Roy Hazelwood e collaboratori (2008) la tattica collaudata del sadico consiste nel degradare la vittima da “brava ragazza” a “puttana”, alternando rinforzi positivi (attraverso complimenti per quanto è stata brava) a rinforzi negativi (rifiuti causati dall’insoddisfazione), con lo scopo di isolarla socialmente e sottoporla a punizioni fisiche e psicologiche, tra cui partecipare agli omicidi.

Coppie assassine: il caso dei coniugi Bernardo

Un caso esemplificativo tra le coppie assassine che destò scandalo mediatico, in particolare per i risvolti giudiziari, e che, almeno all’apparenza, contiene molti degli elementi del profilo classico manipolatore-sottomessa, è il caso dei coniugi Bernardo.

Seguendo l’evoluzione della loro storia personale e le modalità del loro incontro, si nota immediatamente l’elevata presenza della componente sessuale quale collante del rapporto e il rapporto di dominanza dell’uomo sulla donna. Un rapporto asimmetrico dichiarato a gran voce, nel processo, quale giustificatorio rispetto alla sequela di atti omicidiari, rientrando nella comune logica del binomio manipolatore-vittima, sebbene non in maniera scontata.

Denominata la coppia “Barbie e Ken”, la coppia Bernaldo-Homolka si incontra quando Karla aveva appena 17 anni e quasi subito il rapporto si caratterizza per una chiara impronta sessuale: infatti normalmente la donna fingeva di essere la vittima di uno stupratore, mentre Paul l’ammanettava e violentava.

Un rapporto violento, così come violenta e insoddisfacente era la vita di entrambi: per esempio, il padre di Karla era dedito all’alcol e i tradimenti alla moglie erano di dominio pubblico, al punto che la ragazza sognava di incontrare il principe azzurro che la portasse via da quella vita.
Un incontro “perfetto” che dava l’opportunità a entrambi di seguire un progetto preciso.
Paul quello di seguire le proprie perversioni sessuali e il suo dominio di potere (considerava le donne solo oggetti sessuali da sottomettere, dominare e manipolare), incoraggiato dall’atteggiamento compiacente e adulatorio della ragazza; per Karla veder concretizzarsi il sogno di una famiglia “perfetta”.

In fatto di obbedienza Paul Bernardo aveva le idee chiare: la sua più grande fantasia sessuale era avere una fattoria piena di vergini pronte a tutto per soddisfarlo. E di obbedienza cieca era composta la vita di Karla: Paul la “istruiva” a scrivere e incollare dietro la porta di camera sua frasi del tipo “ricordati che sei una stupida”, la sua vita girava intorno a lui, la sua obbedienza era totale al punto da condurla all’isolamento sociale, fino ad abbandono degli studi.

Sempre più isolata socialmente e spinta dall’unico desiderio di una famiglia felice, Karla diveniva in tal modo la meccanica esecutrice dei desideri perversi del suo amato. Per lui avrebbe sopportato di tutto, anche il desiderio del suo Ken di prendere la verginità della sorellina quattordicenne, Tammy. Un atto giustificato da un’insoddisfazione sessuale causata anche dalla sua scarsa bravura perché “se fosse stata brava non ne avrebbe sentito il bisogno” (Stunell, 2008).

Il primo omicidio si consumò in modo accidentale: nelle intenzioni dei coniugi l’unico fine era di imbottire Tammy di sedativi per poi permettere a Paul di abusarne, mentre una dose eccessiva di farmaco guastò il loro piano, benchè la morte della ragazzina sarebbe stata archiviata come morte accidentale. Un incidente che, invece che fermare Bernardo, lo incitò a chiedere sempre di più, anche sotto la minaccia di denunciare Karla per la morte della sorellina. A causa della sua negligenza, aveva perso il suo “giocattolo sessuale”: ecco che Karla veniva obbligata a trovare una sostituta, anche spinta dalla promessa di un matrimonio imminente. Un matrimonio che effettivamente avvenne, perché “una moglie non può testimoniare contro suo marito” (Stunell, 2008), ma condito da violenze fisiche e psicologiche, come costringere la neosposa a dormire sul pavimento.

I coniugi Bernardo passeranno alla storia per tre omicidi, al termine di efferate violenze (come nel caso della terza vittima, Kristen, costretta alle peggiori umiliazioni, filmate con dovizia di particolari).
Omicidi ben occultati e che forse non sarebbero mai venuti a galla, se non per una serie di fortunate coincidenze.

Paul Bernardo non era infatti solo l’autore di quei tre macabri crimini, e il suo nome balzò alla cronaca per una serie di stupri (e dopo vari anni di indagini e astuti depistamenti) che lo condannarono alle sbarre come lo stupratore di Scarborough. Un’accusa a cui si affiancò solo secondariamente la stessa denuncia di Karla, spinta da alcuni parenti, ad accusare l’uomo per violenza fisica e l’omicidio delle tre ragazzine, spingendo così gli inquirenti a indagare. Paul Bernardo viene arrestato il 17 Febbraio 1993 con l’accusa di aver ucciso Leslie e Kristen e per altre 53 aggressioni a partire dal 1983.

La giustizia sul caso di “Barbie e Ken” si è conclusa con l’individuazione dell’unico colpevole in Paul Bernardo, condannato all’ergastolo nel carcere di massima sicurezza di Kingston, mentre Karla Homolka ha scontato dodici anni da “complice suo malgrado” ed è oggi in libertà.

Una storia che se sembra risolta, ricalcando la classica coppia uomo-sadico e donna-sottomessa, proprio a questo punto vacilla, mostrando tutte le sue crepe.

Se l’accordo con l’accusa trasformava Karla nella testimone numero uno contro l’ex-marito, in quanto “vittima della coercizione di Paul Bernardo” (di cui assecondava le fantasie per timore di perderlo), concedendole perciò una pena attenuata, molti aspetti della vicenda restavano quantomeno dubbi, fornendo visioni del tutto difformi dall’immagine di innocente e povera vittima.
Alcuni dati infatti contrastavano con l’immagine della donna sottomessa, come le videocassette dei crimini compiuti dalla coppia con una Karla che partecipava volontariamente e con convinzione (da segnalare che il procuratore aveva accettato di stipulare l’accordo senza aver prima visionato le videocassette).

Uno stravolgimento di prospettiva alla frequente combinazione sadico-sottomessa viene fornito dall’analisi della Stunell (2008) dove la natura aggressiva della donna è considerata realtà a sè stante, dove anche la donna è capace di pura crudeltà, smontando un pregiudizio sociale che la vorrebbe fragile e sottomessa, in definitiva innocua. In questo nuovo scenario sarebbe stata Karla a controllare il marito (e non viceversa), fornendogli le vergini da cui era dipendente. Che Karla avesse avuto una parte attiva nei delitti, per la Stunell, appare fatto evidente e inappellabile: prima dell’incontro con Karla, l’uomo aveva infatti sempre liberato le donne che aveva violentato, così come aveva bendato Kristen per poi consentirle di scappare. Nel caso di Tammy, Paul aveva cercato disperatamente di rianimarla, mentre era stata Karla a somministrarle la dose letale di sedativo.
Dimostrando quanto la violenza non conosca differenze di genere e quanto sia pericoloso aderire a norme sociali che attribuiscono al maschio, in quanto tale, il monopolio dell’aggressività e della brutalità.

Insegnare l’ipnosi ai bambini? Nuovi strumenti per i genitori

L’ ipnosi è una disciplina attraverso la quale è possibile accedere a risorse che normalmente rimangono inconsce ed inespresse. Imparare a governare il proprio stato di coscienza si è dimostrato utile in numerosi campi compresi quello medico, sportivo, psicologico e professionale.

Nicoletta Gava 

In quali casi può essere utile l’ ipnosi con i bambini

La maggior parte degli studi in materia si è concentrata su soggetti adulti, ma se l’ipnosi può essere così utile perché non insegnarla anche ai bambini? Ecco 4 ragioni per farlo.

1. Disturbi da somatizzazione
Quando i bambini attraversano periodi di stress emotivo possono manifestare il loro disagio attraverso il corpo piuttosto che con le parole. L’ipnosi si è dimostrata molto utile nel trattamento di questi quadri psicosomatici. Una review del 2013 (Adinolfi & Gava, 2013) ha passato in rassegna gli studi sul tema che hanno coinvolto campioni pediatrici.
Ad esempio gli autori citano uno studio (Anbar & Slothower, 2006) che si è concentrato sulle cosiddette lamentele somatiche infantili, ovvero mal di pancia, mal di testa, dispnea che sembrano non avere cause mediche definite. In tale studio, i bambini trattati con l’ipnosi hanno avuto una risoluzione dei sintomi nell’87% dei casi.
Viene citato inoltre un contributo (Vlieger et al., 2012) che riguarda la sindrome dell’intestino irritabile, una condizione considerata a base psicosomatica. Bambini trattati attraverso metodiche ipnotiche ed addestrati all’autoipnosi mostrano un quadro clinico migliore rispetto ad un campione di controllo e due terzi di essi, a 5 anni dall’intervento, si sono mantenuti asintomatici.
Gli autori concludono riportando dati tratti da studi su caso singolo che supportano l’efficacia di questa metodica anche per il trattamento di quadri dermatologici come dermatite atopica ed eczema cronico. Pur non essendo conclusivi, questi dati incoraggiano l’esplorazione più strutturata della metodica.

2. Se non riposa bene
Circa il 25% dei bambini soffre a causa di una qualche difficoltà legata al sonno (Vriend & Corkum, 2011). Questa può essere causata da vari fattori (es., emotivi, fisici, familiari) e la sonnolenza che ne deriva può interferire con la loro vita quotidiana, nello studio e nei rapporti coi pari e coi familiari. L’ipnosi ha ricevuto conferme di efficacia dalla letteratura. Un esempio è rappresentato da uno studio (Anbar & Slothower, 2006) nel quale i ricercatori hanno esaminato i dati clinici di 84 bambini che erano stati trattati per disturbi del sonno che non avessero cause mediche identificabili. Il risultato delle analisi ha mostrato che oltre il 68% del campione studiato è andato incontro a remissione dopo un massimo di 2 sedute di ipnosi.

3. Dal dentista
Alcune stime dicono che circa una persona su 5 soffre della cosiddetta ansia dentale, ovvero la paura di sottoporsi a cure odontoiatriche (Boari, Breccia & Lajolo, 2007). Nei bambini (ed in circa un adulto su 10) questa può diventare talmente intensa da rendere impossibile rimanere seduti sulla poltrona. L’ipnosi può essere uno strumento utile per la gestione di questo tipo specifico di ansia come dimostrato da uno studio che ha visto ridursi i livelli di dolore e di ansia provati dai bambini che dovevano sottoporsi a questo tipo di trattamenti (Huet et al., 2011). Più specificamente, gli autori hanno reclutato 30 bambini di età compresa tra i 5 ed i 12 anni e li hanno assegnati casualmente a due gruppi. In uno dei due avrebbero partecipato ad una seduta ipnotica mirata a ridurre la percezione di dolore ed ad abbassare i livelli di ansia. I risultati hanno mostrato che una porzione maggiore, statisticamente significativa, di bambini nel gruppo di ipnosi ha riportato di non aver provato dolore o di averne provato solo in misura minima. I due gruppi differivano inoltre in termini di media di intensità di dolore ed ansia percepiti, più bassa nel gruppo sperimentale.

4. Gestione del dolore.
Sono molti gli esempi della letteratura medica che ci dicono che attraverso l’ipnosi è possible gestire vari livelli di dolore, a volte riducendo la quantità di farmaci antidolorifici necessari, a volte permettendo la loro sospensione. Per quanto riguarda i bambini, una analisi degli studi recenti in materia (Kuttner, 2012) ha mostrato che bambini supportati con l’ipnosi che dovevano sottoporsi ad interventi chirurgici provavano meno dolore ed ansia rispetto ai soggetti di controllo. I bambini dei campioni descritti hanno beneficiato di una riduzione dei livelli di ansia e di dolore percepito, prima, durante e dopo le operazioni. Un altro effetto interessante riguardava la durata dei ricoveri, più breve per i soggetti preparati con l’ipnosi. Risultati analoghi sono stati ottenuti in studi in cui sono stati reclutati bambini affetti da dolore cronico. Più specificamente gli autori citano uno studio (Kohen & Zajac, 2007) condotto con 144 soggetti tra bambini ed adolescenti affetti da emicranie ricorrenti. In seguito ad un training in autoipnosi, i partecipanti non soltanto hanno visto abbassarsi la frequenza e l’intensità dei mal di testa, ma hanno anche riportato una maggiore fiducia in se stessi nell’affrontare certe situazioni stressanti. Questi effetti portano inoltre ad un miglioramento del loro umore generale. Dati come questi hanno portato la American Pain Society a raccomandare l’ipnosi come strumento per il trattamento del dolore (American Pain Society, 2001).

Il ruolo della terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento dell’ acufene

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace in coloro che soffrono di acufene, in quanto agirebbe sulla percezione e assuefazione piuttosto che sull’ acufene in sé.

Sara Palmieri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

L’ acufene, o tinnito, è una condizione di salute cronica definita come una percezione uditiva di suoni nell’orecchio e/o nella testa in assenza di uno stimolo esterno (Andersson, Baguley, McKenna & McFerran, 2012). Queste sensazioni uditive sono spesso descritte come fischi, sibili o ronzii.

Studi epidemiologici indicano come la prevalenza dell’ acufene negli adulti sia circa del 10 % -15 % (Axelsson & Ringdahl, 1989; Davis & El Refaie, 2000).

L’ acufene (altrimenti noto come tinnito), è più comune negli adulti e negli anziani piuttosto che nei bambini (Davies & El Rafie, 2000); in merito al genere non sono state osservate particolari differenze sebbene alcuni studi mostrino come le donne riportino suoni più complessi (Dineen, Doyle, & Bench, 1997; Meikle & Greist, 1989).

Da un punto di vista eziologico, la principale origine dell’ acufene sarebbe di tipo cocleare, in particolare lesioni delle cellule ciliate dell’orecchio interno dopo un trauma acustico (Londero et al., 2006).

È ben stabilito che una parte sostanziale di individui con acufene riferiscono disagio significativo come conseguenza del loro tinnito (Tyler & Baker, 1983).

Per circa il 3-5 % della popolazione adulta generale l’ acufene è percepito come estremamente fastidioso influendo sul sonno, l’umore, la concentrazione e le emozioni a tal punto che in alcuni soggetti diventa difficile svolgere le attività quotidiane (Davis & El Refaie, 2000).

La comorbidità dell’ acufene con ansia e depressione non è ben studiata in campioni rappresentativi, ma studi su campioni clinici suggeriscono che i pazienti con acufene avrebbero livelli più elevati di depressione e ansia rispetto alla popolazione sana (Andersson, 2002). Tali stati, per di più, aggraverebbero il disagio causato dall’ acufene (Londero et al., 2006).

 

Il trattamento dell’ acufene

L’ acufene, sebbene sia una condizione tipicamente temporanea, in alcuni casi può evolvere in una condizione cronica e difficile da trattare.

Diversi protocolli di trattamento per la gestione dell’ acufene sono stati proposti, come ad esempio l’uso di suoni di mascheramento, farmaci, apparecchi acustici e l’agopuntura (Andersson, Strömgren, Ström, & Lyttkens, 2002). Ciò nonostante, tali trattamenti non rappresenterebbero né una cura per il disturbo né per i disagi associati ad esso.

Tuttavia, vi sarebbero evidenze che suggeriscono come l’associazione del trattamento medico a quello psicologico rappresenterebbe una strada adeguata per poter diminuire i disagi causati dall’ acufene.

 

La psicoterapia cognitivo comportamentale in casi di acufene

In particolare, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace in coloro che soffrono di acufene, in quanto agirebbe sulla percezione e assuefazione piuttosto che sull’ acufene in sé. Il trattamento CBT è solitamente caratterizzato da 6-10 sedute a cadenza settimanale, ma vengono considerate anche le esigenze di ogni singolo paziente (Andersson, 2002).

Un tipico intervento CBT per l’ acufene inizia con informazioni relative ad esso e un adeguato esame medico di potenziali cause e fattori di moderazione. Successivamente, si passa ad un’analisi funzionale per individuare possibili elementi, di natura medica e psicologica, che possono influire sui fastidi associati al tinnito.

Lo step successivo riguarda indicazioni riguardo la perdita dell’udito e il trattamento di questa per quanto possibile. Nello specifico, si invita il paziente all’uso di apparecchi acustici e gli si forniscono consigli comportamentali sotto forma di ”tattiche di udito”. Tali strategie non sono rivolte solo al paziente ma anche alle persone a lui vicine.

Sempre in questa fase vengono proposte al paziente strategie di arricchimento del suono ambientale per facilitare l’assuefazione all’ acufene. Tra queste strategie è possibile includere CD con musiche e suoni, ma soprattutto analisi delle fluttuazioni nel tinnito e i rischi associati al tentativo di mascherarlo (ossia coprirlo).

Lo step seguente, è caratterizzato dall’insegnare al paziente a rilassarsi rapidamente e ad utilizzare l’auto-controllo sul corpo e sulle sensazioni mentali. Lo scopo non è quello di ridurre l’ acufene, bensì di controllare gli effetti di esso ottenendo uno stato di equilibrio psico-fisico. In associazione al training di rilassamento, vengono introdotte tecniche di immaginazione (ad esempio, immaginare una spiaggia).

Successivamente si ricorre alla ristrutturazione cognitiva di pensieri e credenze associati all’ acufene. Il paziente viene aiutato ad identificare il contenuto dei suoi pensieri e impara modalità per contrastare o controllare quei pensieri di solito descritti come poco utili o errati. Possono essere incluse anche tecniche di deviazione dell’attenzione o tecniche di immaginazione.

Nel contesto delle mutevoli convinzioni e pensieri, è importante lavorare verso l’accettazione dell’ acufene e promuovere l’idea che esso non merita tutta l’attenzione che riceve in quel momento da parte del paziente. Durante le fasi successive del trattamento può essere utile lavorare per reinterpretare l’ acufene come qualcosa di più piacevole.

 

La gestione degli stati emotivi e della concentrazione

Uno step complementare ai precedenti riguarda la gestione degli stati emotivi. La paura e l’evitamento, spesso sperimentati da persone che presentato tinniti, possono portare ad una visione negativa degli acufeni come anche a forti reazioni emotive che in alcuni casi possono evolvere in veri e propri attacchi di panico. Oltre a consigli sull’arricchimento del suono, può essere importante affrontare le reazioni avverse al silenzio (quando questo rappresenta un problema). Inoltre, alcuni pazienti sviluppano paura verso i suoni quotidiani (iperacusia) e, in questi casi, è importante esporre gradualmente tali pazienti a suoni ambientali.

Un’altra componente del trattamento è mirata ai problemi di concentrazione, i quali sono spesso una fonte di grande angoscia per il malato di acufene.

Dato l’influenza che gli acufeni possono esercitare sul sonno, una parte integrate del trattamento include le regole di igiene del sonno, il rilassamento, la ristrutturazione cognitiva e regole sulla gestione del worry. Questi metodi possono essere personalizzati in base alle specifiche esigenze del paziente con acufene.

 

La prevenzione della ricaduta

Infine, l’ultima parte dell’intervento è dedicata alla prevenzione della ricaduta (in termini di effetti intrusivi dei tinniti e recidive). Insieme al paziente vengono discussi i fattori di rischio per lo sviluppo di un acufene più grave e la possibile perdita dell’udito; inoltre viene elaborato un piano su cosa fare in caso di peggioramento dell’ acufene, che può includere il riutilizzo di tecniche di rilassamento o delle strategie di arricchimento sonoro.

Dalla letteratura emerge come la CBT potrebbe essere proficuamente applicata nel trattamento dell’ acufene e, in particolare, per il disagio che esso provoca.

Le tecniche di rilassamento possono essere utilizzate per ridurre l’arousal e la ristrutturazione cognitiva per superare credenze disadattive e paure legate al tinnito. Inoltre, la graduale esposizione a situazioni temute (ad esempio, il silenzio o confrontare suoni) potrebbe contribuire a promuovere l’assuefazione all’ acufene.

Nel complesso, l’applicazione della CBT per l’ acufene segue metodi standard sviluppati per altri problemi come l’ansia e il dolore (Hawton, Salkovskis, Kirk, & Clark, 1989; Philips & Rachman, 1996). Sono quindi previsti compiti a casa tra le sessioni di terapia e una spiegazione del razionale è presentata per ogni componente del trattamento. Inoltre, la relazione terapeutica tra terapeuta e paziente è collaborativa, nel senso che ogni sessione e il trattamento nel suo complesso viene negoziato. La motivazione a cambiare le abitudini e il comportamento è fondamentale ed è chiaro al paziente che, per avere effetto il trattamento, è necessaria una partecipazione attiva da parte sua.

 

L’efficacia della CBT in casi di acufene

In merito ai trattamenti per la gestione dell’ acufene, sono stati condotti alcuni studi sull’efficacia del trattamento psicologico in generale e della CBT.

Andersson e Lyttkens (1999), hanno prodotto una meta-analisi sul trattamento psicologico del tinnito, includendo studi su CBT, rilassamento, ipnosi, biofeedback, sessioni educative e di problem solving.

I risultati hanno mostrato effetti da forti a moderati sul fastidio legato all’ acufene, in studi controllati, in disegni pre-post e al follow-up. I risultati sulla sonorità del tinnito sono stati invece più deboli, scomparendo nel follow-up. La stessa meta-analisi (Andersson & Lyttkens, 1999), ha messo in luce come il trattamento cognitivo-comportamentale sia più efficace di altri trattamenti psicologici sul fastidio legato all’ acufene e sulla sua tolleranza, mantenendo un effetto per circa un anno dopo la conclusione del trattamento; vi sarebbe invece una minore efficacia nel lungo termine sul volume percepito del tinnito.

Andersson e Lyttkens (1999), inoltre, sottolineano come vi siano dimensioni dell’effetto più basse per le misure dell’affettività negativa, dell’ansia e per i problemi di sonno.

In sintesi, la CBT sembrerebbe efficace nel trattamento della sofferenza legata all’ acufene, ma i meccanismi attraverso i quali funziona il trattamento rimangono poco chiari. Una varietà di differenti tecniche e procedure sono incluse nel trattamento CBT per l’acufene (Andersson, 2002); proprio tale caratteristica rende difficile verificare quale o quali tecniche siano più efficaci, e quindi da includere o omettere nel trattamento. Al momento non sono stati ancora condotti sufficienti studi che valutano gli effetti dei singoli componenti del trattamento, ma i dati disponibili mostrano come le tecniche di rilassamento da sole non siano efficaci. Inoltre, poco si sa della possibile relazione tra il numero di ore di trattamento e gli outcome.

Alla luce di quanto detto, sono necessarie ulteriori ricerche che si concentrino sui processi o meccanismi di trattamento efficaci per l’ acufene al fine di delineare approcci terapeutici proficui. Inoltre, aspetti che dovrebbero essere ulteriormente indagati in studi futuri riguarderebbero le difficoltà psicosociali, la comorbidità psichiatrica e i livelli subclinici di ansia e depressione, che spesso i pazienti con acufene presentano.

In conclusione, è chiaro che la CBT abbia un ruolo nella gestione del tinnito, e il ricorso a team multidisciplinari che coinvolgano psicologi ad orientamento cognitivo-comportamentale potrebbe rappresentare una strada proficua da percorrere.

Natura vs Contro natura

Come rispondere alla provocazione: “Sì, va bene… ma è contro natura. Voi non potete fare figli senza ricorrere a metodi alternativi”.

Giorgia

 

Cara Giorgia,

quanto per lei il “non poter fare figli senza ricorrere a metodi alternativi” è connesso al concetto di “natura”? Cos’è per lei naturale?

Tutti noi ci costruiamo una verità personale, così come anche ogni filosofo che si è approcciato al tema della natura ne ha dato una sua interpretazione a seconda del tempo, del luogo e del suo pensiero.

Se l’aspettativa che risiede dietro alla sua voglia di dare una bella risposta a queste persone è anche quella di far loro cambiare idea o smuovere in loro qualcosa, forse il suo tentativo l’avvicinerà solo ad un gran bruciore di stomaco. In ogni caso, la miglior risposta che potrà dare sarà la sua risposta personale, con la sua verità e la sua idea di ciò che è naturale o meno.

E se questa provocazione le fa provare rabbia e/o tristezza, tenga a mente che essa racchiude forse la loro visione. Se invece il suo concetto di natura è tutt’altro, non lasci che la prospettiva altrui la metta in dubbio personalmente.

Greta Riboli

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Paura di morire? Basta aumentare la propria creatività

I risultati di un recente studio suggeriscono che coloro che perseguono la creatività e producono contributi creativi significativi potrebbero beneficiare di una sorta di sicurezza esistenziale, che li allontana dalla paura della morte.

 

Creatività e immortalità (simbolica)

La relazione tra creatività e immortalità simbolica era stata da tempo riconosciuta da accademici e ricercatori.

Le persone creative, come il neo-annunciato premio Nobel per la Letteratura Bob Dylan, sono state spesso considerate come persone profondamente motivate  dal desiderio di lasciare un patrimonio culturale duraturo. Ed effettivamente è così: attraverso il loro lavoro di creatività, personaggi come Leonard Cohen e David Bowie continuano a vivere nella nostra cultura, anche dopo averci lasciato. Al contrario, la distruzione di antichi monumenti e manufatti, come è avvenuto in Iraq nel 2015 da parte dello Stato islamico, potrebbe essere interpretato come un atto simbolico volto impattare negativamente sulla società attraverso la distruzione di un patrimonio culturale.

 

Creatività e paura della morte: lo studio di R. Perach

La nuova ricerca condotta da Rotem Perach, dottorando presso la Scuola di Psicologia, supervisionato dal Dr. Arnaud Wisman dell’Università di  Kent (Regno Unito), ha dimostrato che le persone con alti livelli di creatività sono più resistenti alle preoccupazioni che derivano dai pensieri esistenziali, come ad esempio il pensiero della morte. Si pensa che questo sia il primo studio empirico a valutare la funzione della creatività come fattore protettivo dall’ansia tra persone per le quali la creatività costituisce un elemento centrale della propria cultura.

La ricerca ha analizzato i risultati di un gruppo di 108 studenti. Gli studenti hanno completato due questionari per valutare il livello di realizzazione creativa e il livello di ambizione creativa, dopodiché i ricercatori hanno valutato i pensieri elaborati da tutti i partecipanti dopo che era stato chiesto loro esplicitamente di pensare alla propria morte.

Gli studenti con un punteggio molto alto di realizzazione creativa, unito ad alti livelli di ambizione creativa, facevano meno pensieri collegati alla morte, rispetto ai soggetti nella condizione di controllo.

In confronto, tra gli studenti con bassi livelli di ambizione creativa – qualunque fosse il punteggio di realizzazione creativa – pensare alla propria mortalità e alla propria morte non influenzava in alcun modo i livelli di accessibilità al pensiero di morte rispetto ai controlli.

I risultati suggeriscono che coloro che perseguono la creatività e producono contributi creativi significativi potrebbero beneficiare di una sorta di sicurezza esistenziale, ovvero la sensazione che la sopravvivenza è una cosa certa, di fronte al pensiero della morte. La realizzazione creativa potrebbe essere quella via che conduce ad un’immortalità simbolica, consentendo alle persone di “continuare a vivere” anche dopo essere morte.

 

Le parole per dirlo: esprimere il dolore con le parole e non con l’agito – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Tutta la psicoterapia potrebbe essere sintetizzata nell’invito “parliamone” che significa sostituire agli agiti dei sistemi primitivi, le loro rappresentazioni corticali manipolando quest’ultime auspicandosi che poi esse retroagiscano su quegli stessi sistemi.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Le parole per dirlo: esprimere il dolore con con le parole e non con l’agito (Nr. 16)

L’alto tasso di suicidio a Tahiti

Leggendo l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio sono rimasto colpito da un capitoletto in cui riporta uno studio degli anni ’50 di Robert I. Levy che voleva capire perché a Tahiti ci fosse un’ incidenza di suicidi enormemente superiore a quella mondiale ed anche a quella di paesi con analoghe situazioni economiche e climatiche. Insomma la domanda lecita era “ ma perché questi si ammazzano come Lemmi pur vivendo in un posto niente male?”

Levy si accorse che nella lingua tahitiana non esistevano parole per indicare il dolore morale o psichico, mentre ce ne erano molte e con diverse sfumature per il dolore fisico. Certamente è improprio stabilire una relazione causale tra i due fatti ma certo il sospetto che ciò che non è esprimibile a parole finisca per essere agito è legittimo.

 

Psicoterapia: un’occasione per esprimere il dolore con le parole

Riporto questo fatto perché mi sembra restituisca dignità ad un lavoro spesso considerato banale, di scarso valore, delegabile ad un testo scritto o addirittura dato per scontato che va sotto il nome di “psicoeducazione emotiva”. Proseguendo su questa linea mi viene da pensare che tutta la psicoterapia potrebbe essere sintetizzata nell’invito “parliamone” che significa sostituire agli agiti dei sistemi primitivi, le loro rappresentazioni corticali manipolando quest’ultime auspicandosi che poi esse retroagiscano su quegli stessi sistemi.

Contemporaneamente fa parte della tradizione comportamentale-cognitivista, ora prepotentemente rinforzata con le strategie della terza ondata ( per usare questo odioso linguaggio da bollettino dei naviganti) la consapevolezza che possenti cambiamenti nelle rappresentazioni corticali si generino proprio a partire dagli agiti, ed anzi talvolta questa è l’unica via percorribile.

Insomma quando facciamo l’assessment e la restituzione invitando il paziente ad essere insieme a noi psicologo di se stesso e gli diamo le parole per completare quell’operazione di mentalizzazione iniziata con le figure di attaccamento, non stiamo semplicemente preparandoci all’intervento terapeutico importante vero e proprio, non gli stiamo rubando tempo e soldi, ma stiamo salvando la vita ad un sacco di tahitiani. Per i lemmi invece non c’è riparo ci vogliono l’EMDR o gli SSRI.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Atleti uomini e donne a confronto: gli uomini falliscono di più sotto pressione

E’ stato rilevato che tutti gli atleti hanno in media la tendenza a fallire sotto la pressione della gara, ma nonostante le donne mostrino in media un calo di performance nelle fasi cruciali, esso rimane inferiore a quello degli uomini del 50%.

 

Gli esiti delle prestazioni sportive “sotto pressione”

Le prestazioni sportive rappresentano delle vere e proprie “sfide” in cui i soggetti mettono in atto una serie di risorse volte al raggiungimento di alcuni obiettivi legati al compito che siano essi personali o riguardanti l’esito del match. Più il livello sportivo è alto, più gli obiettivi si arricchiscono e sale la “pressione” per una buona prestazione e per una vittoria.

I ricercatori della “Ben-Gurion University of Negev” (BGU), hanno condotto uno studio allo scopo di verificare in che modo atleti uomini o donne reagiscano di fronte a questa pressione e usare i risultati per capire il funzionamento del mercato del lavoro maschile e femminile.

In altri termini, si è cercato di capire se in alcuni lavori, come quelli consistenti in una prestazione sportiva, gli uomini guadagnassero di più delle donne a causa della capacità superiore di riuscire a portare a termine le proprie mansioni sotto pressione.
In particolare, sono state analizzate le prestazioni di giocatori di tennis, uomini e donne, che partecipavano ai tornei del Grande Slam.

 

Lo studio

Lo studio ha esaminato le competizioni riguardanti questi atleti di alto livello considerando il match come “un unico scenario in cui due professionisti competono in un contesto di vita reale che prevede un compenso monetario molto alto”.
I ricercatori hanno analizzato i dati dei primi set di tutti e quattro i tornei del Grande Slam del 2010, comparandoli con i dati di 4.127 partite femminili e 4.153 partite maschili di minore importanza rispetto ai 4 tornei del Grande Slam.

E’ stato rilevato che tutti gli atleti hanno in media la tendenza a fallire sotto la pressione di una partita più importante delle altre, ma nonostante le donne mostrino in media un calo di performance nelle fasi cruciali, esso rimane inferiore a quello degli uomini del 50%.
[blockquote style=”1″]I nostri risultati non supportano l’ipotesi che gli uomini guadagnino più delle donne in lavori ad alto livello di stress e pressione per il fatto di rispondere meglio delle donne alla pressione lavorativa [/blockquote]sostiene il Dr. Danny Cohen Zada del Dipartimento di Economia della BGU.

 

Discussione e conclusioni

I ricercatori sostengono che bisognerebbe prestare attenzione a generalizzare i risultati direttamente al mercato del lavoro, per diverse motivazioni: in primo luogo è stato analizzato il modo in cui le tenniste rispondono alla pressione in un contesto omogeneo riguardo al genere, mentre nel mercato del lavoro alle donne è richiesto di rispondere alla pressione della competizione in setting differenti, in cui, ad esempio, esse sarebbero chiamate a competere con uomini; in secondo luogo il campione di tennisti non è rappresentativo del modo in cui i soggetti rispondono generalmente alle pressioni lavorative, poiché esso potrebbe essere caratterizzato da persone aventi differenti caratteristiche rispetto alla popolazione generale.

Tuttavia, l’aver evidenziato che le donne possano rispondere meglio degli uomini alle pressioni di una gara, potrebbe fungere da spunto per ulteriori investigazioni in altri contesti di vita.

In accordo con i ricercatori, lo stress influenzato da un iniziale aumento di livelli di cortisolo, potrebbe essere uno dei possibili colpevoli del calo della prestazione sportiva, come sottolineato da altri studi che hanno dimostrato che livelli elevati di cortisolo correlano con secondi servizi deboli nel tennis e performance peggiori nel golf.

[blockquote style=”1″]Le ricerche indicano che in risposta alle sfide per il risultato, aumentano i livelli di cortisolo e questo avviene più rapidamente negli uomini che nelle donne; gli alti livelli di cortisolo possono inficiare le abilità mentali rilevanti al momento [/blockquote]afferma il co-autore Offer Moshe Shapir (Centre for Business Education and Research alla NYU di Shanghai).

Disclosure: il racconto del trauma nell’abuso sessuale infantile

Dal momento che l’ abuso sessuale infantile è un fenomeno largamente nascosto, la sua identificazione risulta molto complicata. È, dunque, importante che bambini e adolescenti riescano a raccontare a qualcuno l’abuso subìto, attraverso un processo di disclosure.

Elena Parise – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

l bambino ha paura di parlare e, quando lo fa, l’adulto ha paura di ascoltare.

(Gabel, 1992)

 

Negli ultimi anni, la letteratura ha mostrato un sempre maggiore interesse nello studiare il fenomeno dell’ abuso sessuale infantile e della violenza all’infanzia. Oggi, infatti, si sente parlare di infanzia violata molto più di frequente rispetto a quanto avvenisse anni fa.

Nella maggior parte dei casi, le giovani vittime sono le uniche in grado di denunciare il loro abusante e gli abusi subìti: infatti l’abuso sessuale infantile è uno dei reati maggiormente tenuti nascosti. È in questa cornice contestuale, quindi, che si va a inserire l’importanza della disclosure, la quale rappresenta l’aspetto critico e cruciale del processo di denuncia. Rappresenta il primo passo per provare a contrastare e a interrompere il ciclo di abusi, rendendo noti i fatti ad persone, oltre a perpetratore e vittima (Alaggia, 2004; Jensen et al., 2005; Allnock, 2010; D’Ambrosio, 2010).

Proprio a causa del fatto che, nel corso degli ultimi anni, il fenomeno dell’ abuso sessuale infantile è stato ampliamente trattato, approfondito e studiato, le sue definizioni sono molteplici. In particolare, però, L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 1999, lo definisce:

Il coinvolgimento di un minore in atti sessuali, con o senza contatto fisico, a cui non può liberamente consentire in ragione dell’età e della preminenza dell’abusante, lo sfruttamento sessuale di un bambino o adolescente, la prostituzione infantile e la pedopornografia.

Più in generale, l’abuso è una violazione dei diritti del minore, che viene a verificarsi quando il comportamento inadeguato di un adulto, volontario o involontario, impedisce e, anzi, interrompe la crescita armonica del bambino, non tenendo in alcun conto i suoi bisogni primari (Caffo et al. 2004).

 

La rivelazione dell’abuso sessuale infantile: la disclosure

Dal momento che l’ abuso sessuale infantile è, come già detto, un fenomeno largamente nascosto, la sua identificazione risulta molto complicata non priva di criticità, rendendo così fondamentali e centrali per l’intera durata dell’iter le vittime stesse. È, dunque, importante che bambini e adolescenti riescano a raccontare a qualcuno l’abuso subìto, così da poter intervenire e interrompere il ciclo di abusi, oltre che ricevere il dovuto aiuto e supporto. La disclosure consiste proprio in questo: è la rivelazione del bambino circa l’abuso o gli abusi subìti (Allnock, 2010).

La rivelazione di un abuso sessuale da parte di un bambino è un processo tutt’altro che semplice e lineare, ma bensì un percorso tortuoso e accidentato. Il bambino, infatti, può, in una certa fase, presentarsi confuso, inaccurato e incerto, passando dall’ammissione al diniego per poi fornire una parte del racconto, magari anche in maniera dettagliata. D’Ambrosio (2010) ritiene che, di frequente, il percorso comporti vari passaggi: la liberazione del segreto, il ritorno della paura con la conseguente negazione e, infine, la ri-affermazione.

Relativamente a ciò, una delle autrici che si è maggiormente occupata di disclosure è Ramona Alaggia (2004), la quale inizialmente individua tre tipologie di disclosure:

  1. Accidental Disclosure: situazioni in cui l’abuso sessuale infantile è stato scoperto da qualcun altro (ad esempio attraverso l’osservazione o attraverso esami di tipo medico);
  2. Purposeful Disclosure: situazioni in cui il minore racconta intenzionalmente a qualcuno l’abuso subìto, forse con l’intento di fermarlo;
  3. Prompted/Elicited Disclosure: situazioni in cui le autorità, i professionisti, i genitori o altri adulti incoraggiano un bambino, restio, a raccontare quanto accaduto.

Tuttavia, l’autrice sostiene che le tre categorie di disclosure da lei stessa considerate non esaurivano la complessità delle esperienze possibili e per questo modifica e amplia la sua concettualizzazione sul tema, aggiungendone altre tre:

  • Behavioural Manifestations: tentativi, sia intenzionali che non, di rivelare l’abuso a livello comportamentale o tramite sintomi comportamentali (ad es. disturbi del sonno, dell’alimentazione, anedonia, ritiro sociale, ipervigilanza);
  • Disclosures Intentionally Withheld: nascondere intenzionalmente l’abuso, negare l’accaduto, scoperte accidentali e disclosure suggerite o elicitate;
  • Triggered Disclosures of Delayed Memories: disclosure seguite, poi, da recupero della memoria che fino a quel momento era risultata inaccessibile a causa, ad esempio, di fattori di sviluppo.

Jensen et al. (2005) suggeriscono che la disclosure è, fondamentalmente, un processo nel quale i bambini hanno bisogno di percepire la possibilità di parlare tranquillamente di quello che gli è capitato. La rivelazione, infatti, è il primo passo di un processo che ha inizio con l’assicurazione che ciò che è stato vissuto è davvero anomalo: ciò che hanno subìto non è stato un gioco, né uno scherzo, non è stato piacevole e agli altri bambini non accade. Chi raccoglie la rivelazione deve funzionare come uno specchio e deve rinviare un dato preciso: subire un abuso non è normale. Pertanto è evidente che il bambino sarà portato a rivelare solo se pensa e crede di poter essere aiutato e se capisce che verrà creduto.

 

A chi rivelare l’abuso? Come i bambini scelgono la figura a cui raccontare il trauma

A tal proposito, numerose sono le ricerche che indagano quale sia la persona a cui il bambino sceglie di rivolgersi. Il bambino appare selettivo nella scelta della figura alla quale svelare l’abuso e, in genere, prima della rivelazione vera e propria, “sonda il terreno”, partendo da affermazioni vaghe o periferiche per arrivare, solo in un secondo momento, alla narrazione centrale, la quale avviene solo dopo aver verificato che la persona prescelta sia effettivamente interessata, disponibile ad ascoltare, a credere e aiutare (D’Ambrosio, 2010).

Da alcune ricerche, nello specifico, emerge che quando i bambini decidono di rivelare l’esperienza di abuso sessuale infantile, frequentemente accade con un amico o con un fratello o sorella. Invece, tra tutti gli altri membri della famiglia, le madri sono quelle scelte maggiormente. Invece, poche rivelazioni spontanee vengono fatte alle autorità o ai professionisti durante l’infanzia, ma tra tutti i professionisti, le maestre sono le più probabili (Allnock, 2010).

Studi sulla memoria infantile hanno confermato che, in generale, in situazioni di benessere psicologico e prive di qualsivoglia trauma, i bambini possiedono buone capacità di ricordare e riferire eventi passati, soprattutto per ciò che concerne gli aspetti più centrali e più salienti delle esperienze vissute (Ceci e Friedman, 2000). Al contrario, nei casi di bambini vittime d’abusi, intervengono fattori sociali ed emotivi che possono inibire le capacità di riferire gli eventi subìti e, pertanto, compromettere la memoria autobiografica (Meesters et al., 2000).

La natura stessa delle conseguenze della violenza può condizionare la capacità di narrare gli abusi: le reazioni acquisiscono una sequenza in cui da una fase acuta, caratterizzata da disorganizzazione, disorientamento, sentimenti di vulnerabilità e incredulità, bisogno di isolarsi e senso di annichilimento, si passa a reazioni a breve termine caratterizzate da emozioni ambivalenti di paura e rabbia, percezione di sé come inadeguato, senso di colpa, vergogna e umiliazione (Di Blasio, 2000).

 

Perché l’abuso sessuale infantile viene taciuto?

Tuttavia, da alcune ricerche, è emerso che rivelare gli abusi contribuisce al benessere del minore; ma allora perché i bambini non sempre decidono di rivelare l’abuso? Di fatto, esistono molte ragioni che spiegano il motivo per cui l’abuso viene taciuto e molte altre che spiegano, invece, il motivo per cui viene rivelato.

In particolare, secondo gli studi di Alaggia (2004) e Alaggia e Kirshenbaum (2005), i fattori-chiave, che possono spiegare il motivo per cui un bambino possa decidere di mantenere taciuto l’abuso, sono:

  • L’essere o il non essere creduto;
  • La vergogna, l’imbarazzo e il senso di colpa;
  • La preoccupazione per gli altri, oltre che per se stesso;
  • La paura.

Oltre a queste, esiste un altro fattore di fondamentale rilevanza nella scelta di non rivelare l’abuso subìto: la minaccia e il tema del segreto. Alcuni bambini hanno paura di confidarsi perché l’abusante, ad esempio, li ha convinti che farà del male ai loro genitori o che la madre morirebbe di dolore se lo venisse a sapere, e così via.

Quindi, mantenere il segreto costituisce, di per sé, un evento traumatico, la cui comparsa e le cui conseguenze emotive rimangono, la maggior parte delle volte, sepolte: il segreto pesa sulla persona, pesa su ogni atto, sulla parola e sulle relazioni con l’altro.

 

Il lavoro col terapeuta in casi di abuso sessuale infantile

È facile quindi intuire come questi bambini abbiano bisogno di ricostruire legami di fiducia che li aiutino a “ripulire” la mente da tutte le bugie e le falsità che sono state fatto loro credere. Per questo motivo, spesso la relazione e il lavoro con il terapeuta hanno l’obiettivo di stabilire quel tipo di legame di fiducia, in modo che il giovane paziente possa finalmente liberare la mente e l’immagine di sé dalla colpa di cui pensa di essere responsabile, grazie a quanto fattogli credere dall’abusante.

Pertanto, recuperare i ricordi e integrarli nell’immagine di sé, senza danneggiarla, significa imparare a contrastare le sensazioni di impotenza e di totale perdita di controllo, vissute durante l’esperienza traumatica dell’ abuso sessuale infantile. Alla luce di ciò, diventa ancora più chiaro come la rivelazione, il pensiero e le emozioni a essa legati contribuiscano a migliorare la salute (Hemenover, 2003, D’Ambrosio, 2010).

E dal momento che la rivelazione può risultare indispensabile per interrompere il ciclo di abusi, diviene allora fondamentale per gli operatori che, a vario titolo, entrano in contatto con questi bambini, conoscere e comprendere le caratteristiche del loro racconto che rimane un valido strumento di lettura dell’esperienza e del livello di elaborazione e metabolizzazione della stessa.

Lo yoga: un valido aiuto per la cura della depressione

E’ stata dimostrata l’efficacia della respirazione yoga come terapia aggiuntiva per pazienti che soffrono di disturbo depressivo maggiore e che non rispondono alle classiche cure farmacologiche.

 

Lo yoga come trattamento aggiuntivo per la depressione maggiore

La cura farmacologica tramite antidepressivi viene attualmente considerata come uno dei trattamenti d’elezione per quanto riguarda il disturbo depressivo maggiore (DDM), ma questo tipo di farmaci non sortisce alcun effetto in circa la metà dei pazienti trattati. A tal proposito, recentemente diversi autori hanno proposto di utilizzare la respirazione yoga come terapia aggiuntiva per incrementare l’efficacia dei trattamenti tradizionalmente usati.

In un recente studio pilota, Sharma e collaboratori dell’università della Pennsylvania hanno dimostrato come anche solo 8 settimane di Sudarshan Kriya yoga (SKY), un tipo di pratica yoga che pone particolare attenzione al controllo ritmico dell’atto respiratorio, riescano a portare ad un significativo miglioramento a livello di sintomi depressivi e ansiosi in pazienti con diagnosi di Disturbo depressivo maggiore non responsivi alle classiche cure farmacologiche.

Quanto rilevato dagli autori risulta essere estremamente rilevante, considerando che la depressione risulta essere, da dati Istat di Luglio 2014, il problema di salute mentale più diffuso; infatti si stima che all’interno della popolazione italiana siano circa 2,6 milioni (4,4%) le persone affette da disturbi depressivi, con tassi di prevalenza maggiore all’interno della popolazione femminile e di quella anziana.

Il DSM-5 (APA, 2013) definisce il Disturbo depressivo maggiore come caratterizzato da sintomi quali umore depresso in modo persistente, marcata diminuzione di interesse per svariate attività, perdita o aumento di peso, insonnia o ipersonnia, agitazione o rallentamento psicomotorio, mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione, ridotta capacità di concentrazione e ricorrenti pensieri di morte. Per ricevere una diagnosi di Disturbo depressivo maggiore è necessario che 5 o più di questi sintomi siano stati contemporaneamente presenti per un periodo di almeno 2 settimane.

I farmaci antidepressivi, come gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), rappresentano, insieme alla psicoterapia, una delle scelte preferenziali fatte per il trattamento del Disturbo depressivo maggiore, ma, sfortunatamente, non tutte le persone che soffrono di questo disturbo rispondono a questo tipo di terapia, con la conseguente mancanza di benefici a livello sintomatologico. Inoltre, spesso questo tipo di cure farmacologiche, così come le terapie aggiuntive prescritte nel tentativo di aumentarne l’efficacia, comportano una serie di effetti collaterali che vanno ad incidere negativamente sul livello di compliance del paziente, aumentando il rischio di drop out e di ricadute. Risulta quindi molto importante trovare nuove frontiere di trattamento che possano aiutare al meglio le persone a sconfiggere una patologia come il Disturbo depressivo maggiore.

 

Gli studi sull’efficacia dello yoga per il disturbo depressivo maggiore

Proprio a tal proposito, il Dr. Sharma e collaboratori hanno recentemente suggerito che la respirazione yoga possa rappresentare un tipo di approccio efficace, a basso costo e senza l’utilizzo di farmaci aggiuntivi, nel trattamento di pazienti con disturbo depressivo maggiore che non rispondono ai trattamenti tradizionali. Infatti, lo SKY è una tecnica di meditazione focalizzata prevalentemente su esercizi di controllo ritmico dell’atto respiratorio, con lo scopo, alternando respirazioni più lente ad altre più veloci, di armonizzare il ritmo di corpo, mente ed emozioni, consentendo così di eliminare stress, stanchezza ed emozioni negative. In altre parole, il respiro viene utilizzato come tecnica di rilascio dello stress, consentendo alla mente di rilassarsi, di entrare in un profondo stato meditativo e al tempo stesso di ricaricarsi di energia.

Studi precedenti (Mehta & Sharma, 2010; Brown & Gerberg, 2005; Sharma et al., 2005) avevano dimostrato come la pratica yoga risultasse efficace in pazienti con forme lievi di depressione, con depressione dovuta ad abuso di alcool e anche in pazienti con Disturbo depressivo maggiore. A partire da questi studi era emersa la possibilità di utilizzare lo yoga e altre tecniche di respirazione controllata per poter influire in qualche modo sul sistema nervoso, riducendo in particolar modo i livelli di cortisolo, ormone implicato nella percezione di stress. Nonostante questo, però, Sharma et al. (2016) hanno messo in luce una mancanza in letteratura di studi rigorosi e ben progettati che indagassero i possibili benefici dello yoga per il Disturbo depressivo maggiore o se la pratica yoga fosse effettivamente efficace anche in setting ambulatoriali e non solo con campioni ospedalizzati.

All’interno del loro disegno sperimentale, gli autori hanno coinvolto un campione di 25 soggetti adulti con diagnosi di Disturbo depressivo maggiore e con persistenza di sintomi nonostante l’assunzione di terapie farmacologiche antidepressive da almeno 8 settimane. In seguito, seguendo la logica dei Randomized controlled trial, i pazienti sono stati casualmente divisi in due diversi gruppi: un gruppo di SKY per 8 settimane e un secondo gruppo in lista d’attesa.

Ai soggetti all’interno del gruppo di yoga veniva richiesto di partecipare la prima settimana ad un programma di 6 incontri, comprendente esercizi SKY, posture yoga, meditazione e interventi psicoeducativi sullo stress. Per le rimanenti 7 settimane, invece, a questi soggetti veniva chiesto di partecipare ad una sola sessione settimanale di SKY e di continuare a svolgere gli esercizi a casa. Al contrario, al secondo gruppo in lista d’attesa veniva offerta la possibilità di svolgere il medesimo programma yoga al termine delle 8 settimane, fungendo così da gruppo di controllo. Inoltre, entrambi i gruppi hanno portato avanti la cura farmacologica già in atto per tutta la durata dello studio.

Per poter valutare il miglioramento o meno dei sintomi depressivi ed ansiosi, tutti i soggetti sono stati valutati con la Hamilton Depression Rating Scale (HDRS-17), una scala largamente utilizzata a livello clinico per la valutazione di una vasta gamma di sintomi depressivi, sia all’inizio dello studio sia alla conclusione delle 8 settimane di training. Gli autori hanno così potuto evidenziare come all’inizio dello studio i soggetti presentassero un punteggio medio di 22, indicante livelli gravi di depressione. Dopo 8 settimane, invece, il punteggio medio del gruppo SKY risultava essere di 10, a fronte di un mancato miglioramento nel gruppo di controllo. Un risultato analogo è stato riscontrato dagli autori anche con altre scale di misurazione, come ad esempio il Beck Depression Inventory (BDI). Riassumendo, quindi, il gruppo sottoposto a pratiche SKY dopo sole 8 settimane ha mostrato una significativa diminuzione della sintomatologia depressiva, al contrario del gruppo in lista d’attesa.

A parte da questi risultati, quindi, Sharma e collaboratori hanno potuto affermare che lo SKY sembrerebbe essere una promettente terapia aggiuntiva per pazienti con diagnosi di Disturbo depressivo maggiore, ma refrattari alle cure farmacologiche.

Gli autori, in linea anche con studi precedenti (ad es. Sharma et al., 2006) inoltre stanno attualmente pensando di svolgere ulteriori ricerche con lo scopo di indagare l’efficacia dello SKY su un numero più ampio di pazienti, ponendo particolare attenzione a come questa pratica sia in grado di modificare il cervello, sia a livello funzionale che anatomico.

Aspetti cognitivi, emotivo-motivazionali e adattivi dei Disturbi Specifici di Apprendimento: uno studio di ricerca

Aspetti cognitivi, emotivo-motivazionali e adattivi dei Disturbi Specifici di Apprendimento: studio di casi con diagnosi tardiva di dislessia e disortografia nella scuola secondaria di 2°grado

R. Carnevale, P. Cappa

La letteratura e la pratica clinica evidenziano come i disturbi specifici dell’apprendimento siano caratterizzati non solo da difficoltà di lettura, scrittura e calcolo ma spesso anche da difficoltà sul piano emotivo-motivazionale e da più o meno severe conseguenze adattive, con ricadute a livello di prestazione e l’attivazione di un circolo vizioso dannoso (Viola, Duca e Cornoldi, 2016). Le abilità scolastiche colpite interferiscono spesso con le attività della vita quotidiana, il rendimento scolastico e lavorativo. La riluttanza o l’evitamento ad impegnarsi in attività che richiedono abilità scolastiche sono comuni nei bambini, negli adolescenti e negli adulti.

Nel DSM-5 (APA, 2013) si sottolineano inoltre le possibili “conseguenze funzionali negative lungo l’arco di vita che includono […] alti livelli di distress psicologico e inferiore salute mentale generale […] l’abbandono scolastico e i co-occorrenti sintomi depressivi aumentano il rischio di esiti negativi in termini di salute mentale generale, tra cui il suicidio mentre alti livelli di supporto emotivo e sociale predicono migliori risultati a livello di salute mentale. Appare quindi importante la valutazione dell’impatto che le difficoltà di apprendimento hanno nella vita di tutti i giorni, con particolare attenzione non solo ai problemi di riuscita scolastica ma anche alle possibili ripercussioni sul piano adattivo ed emotivo-motivazionale. Nel presente lavoro sono descritti e discussi alcuni di questi aspetti attraverso l’esemplificazione di percorsi clinici con tre studenti della scuola secondaria di 2° grado in difficoltà.

 

Presenza di comportamenti aggressivi e prosociali in bambini con diverso status sociale: popolarità e aggressività

Negli studi che indagano la relazione tra popolarità e aggressività, vengono misurate aggressività diretta (la quale include assalti fisici e verbali) e aggressività relazionale (include azioni quali ignorare, escludere, sparlare di qualcuno) in modo separato. Lo studio di LaFontana e Cillessen (2002) mostra un’associazione positiva della popolarità con entrambe le forme.

Pastore Valentina, OPEN SCHOOL SCUOLA DI PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA DI MILANO

 

L’importanza delle relazioni con i pari

L’osservazione di un gruppo di bambini in un parco giochi o all’interno di una scuola, evidenzia con chiarezza la presenza di comportamenti molto diversi rispetto alle modalità con cui i bambini interagiscono e si rapportano agli altri, le quali a loro volta riflettono specifiche condizioni sociali all’interno del gruppo dei pari.

Le relazioni con i pari sono in grado di rivelare i meccanismi messi in atto per affrontare il mondo sociale; tali meccanismi sembrano essere stabili negli anni e possono contribuire a prevedere lo sviluppo di futuri problemi di adattamento.
Le relazioni sviluppate con i coetanei, essendo di tipo orizzontale, sono caratterizzate da simmetria, sono di tipo reciproco e finalizzate ad offrire al bambino l’opportunità di apprendere le abilità di cooperazione, competizione, condivisione e assunzione di ruoli (Hartup, 1983).

All’interno delle interazioni tra bambini è possibile osservare comportamenti socialmente disfunzionali tra cui comportamenti aggressivi, ma anche comportamenti di aiuto e cooperazione, meglio conosciuti come comportamenti prosociali.

 

La posizione sociale nel gruppo dei pari

All’interno del gruppo dei pari si creano delle strutture ben precise legate agli scopi comuni, alle norme e alle caratteristiche individuali dei singoli membri e alle preferenze o antipatie che vengono a crearsi (Bombi & Cannoni, 2000).

Già a partire della scuola dell’infanzia si formano gerarchie sulla base delle preferenze e dei rifiuti che ciascun bambino esprime nei confronti dei compagni, su tale base, ogni bambino occupa un posto preciso all’interno del gruppo. Questa posizione, definita “status sociometrico”, rappresenta la posizione che un bambino occupa all’interno del gruppo dei coetanei. Esso viene definito in base al grado in cui ogni soggetto piace oppure non piace ai suoi pari ed è l’indicatore più usato per valutare l’adattamento sociale (Di Norcia, 2009).
All’interno del gruppo dei pari i bambini possono assumere posizioni diverse, che vanno dall’essere popolari, all’essere rifiutati.

Generalmente i bambini popolari sono ammirati poiché capaci di prendere in considerazione i bisogni dell’altro, di offrire aiuto nel caso in cui un loro coetaneo sia in difficoltà, di mantenere il proprio punto di vista senza imporsi con forza. Questi soggetti sono inoltre considerati dei buoni leader e sono disposti a condividere le proprie cose, sono poco aggressivi e predisposti alla messa in atto di comportamenti prosociali (Coie, Dodge, Coppotelli, 1982; Hayvren & Hymel, 1984; Newcomb & Bukowski, 1983).

I bambini rifiutati si collocano all’estremo opposto del continuum, in quanto vengono esclusi dal gruppo da parte dei coetanei. I soggetti che rientrano in questo gruppo generalmente presentano elevati livelli di aggressività mettendo in atto numerose condotte antisociali, sono poco rispettosi delle regole e poco disponibili a condividere le proprie cose con gli altri; questi soggetti manifestano raramente empatia e mettono in atto comportamenti inadeguati nel corso delle interazioni sociali.

Una terza tipologia di status sociale è costituita dall’essere ignorati. Questi bambini all’interno del gruppo dei pari non vengono né scelti né rifiutati dai compagni, come se fossero invisibili. I bambini ignorati presentano comportamenti di isolamento. Alcuni di essi presentano comportamenti solitari di tipo passivo, apparendo quieti, sedentari e impegnati in attività esplorative; altri presentano comportamenti solitari di tipo reticente, mostrando timidezza e ansia nel caso in cui debbano agire in una situazione sociale, sono poco desiderosi di entrare a far parte di un gruppo (Coplan et al., 1994).

Una quarta tipologia di status sociale è costituita dai bambini controversi, cioè coloro che ottengono diverse scelte dai compagni, ma che a differenza dei bambini popolari, ricevono sia scelte positive che negative. Ciò è dovuto al fatto che questi soggetti mettono in atto sia condotte prosociali, mostrando empatia nei confronti degli altri, che condotte aggressive, per questo motivo vengono ammirati da alcuni compagni e rifiutati da altri (Coie & Dodge, 1998; Newcomb, Bukowsky, Pattee, 1993).

L’ultima categoria è rappresentata dai bambini medi: questi soggetti non possiedono né le abilità necessarie per diventare popolari, né condotte aggressive che possono indurre i compagni a rifiutarli o ignorarli. Nonostante in questa categoria rientrino il 60-70% dei soggetti appartenenti ad un gruppo, ha suscitato scarso interesse nei ricercatori (Di Norcia, 2005).

L’assegnazione di uno status sociale piuttosto che un altro avviene in seguito alla somministrazione di strumenti che prendono il nome di “tecniche sociometriche”; con tale termine si intende un insieme di metodi messi a punto da Jacob Moreno (1934), utili a misurare le relazioni positive e negative che si vengono a creare all’interno di un gruppo di persone; per fare ciò è necessario che ogni individuo interno al gruppo, sia in grado di valutare gli altri membri in relazione alle loro caratteristiche o competenze (Cillessen, 2009). Tra le tecniche sociometriche, lo strumento più conosciuto ed utilizzato, è la nomina dei pari (McCandless & Marshall, 1957), intesa come “il processo attraverso il quale i membri di un gruppo valutano in quale misura gli altri membri presentano determinate caratteristiche e condotte” (Pastorelli, 1994). Utilizzando questo strumento è possibile vedere le attrazioni-repulsioni che i soggetti appartenenti ad un gruppo manifestano nei confronti degli altri (Cassibba & Elia, 2009).
Numerosi sono stati gli studi che hanno indagato la presenza di comportamenti aggressivi e prosociali all’interno dei diversi status sociali con particolare interesse ai comportamenti predominanti, il loro sviluppo, l’andamento e le eventuali differenze di genere.

Le ricerche condotte evidenziano con chiarezza come alla base dell’accettazione da parte dei compagni vi sia prevalentemente la competenza sociale precedentemente acquisita: i bambini popolari mettono in atto un numero maggiore di comportamenti altruistici, di aiuto nei confronti dei coetanei, sono più cooperativi, più capaci di negoziare e risolvere i conflitti senza ricorrere all’aggressività, hanno quindi una maggiore capacità di regolare le emozioni; inoltre sembrano maggiormente abili nella gestione della comunicazione e dello scambio sociale. Tali competenze non sono invece presenti nei bambini rifiutati, che appaiono poco graditi perché non sono capaci di interagire efficacemente con gli altri e mostrano un comportamento intrusivo, chiassoso, a volte prepotente e aggressivo (Corsano, 2008).
Quest’ultimo aspetto appare controverso: se inizialmente si tendeva ad affermare l’esistenza di alta correlazione fra l’essere rifiutati dai pari e l’essere aggressivi (Coie & Keane, 1981; Newcomb, Bukowski, Patee, 1993), oggi questa correlazione non è più chiara (Molinari, 2007).

 

Popolarità e aggressività

Per diversi anni il termine “popolare” è stato usato per raggruppare una serie di caratteristiche generalmente positive, che andavano dall’essere bene accetto dal gruppo dei pari, all’avere comportamenti prosociali, bassi livelli di aggressività, elevati livelli di regolazione emotiva, buone abilità sociali e cognitive. La popolarità era desiderata da molti, in quanto indice di buon adattamento e di lodevoli abilità sociali, e non riportava traccia di caratteristiche negative (Mayeux, Houser, Dyches, 2011).

I soggetti percepiti come popolari da parte dei loro coetanei, sono ben voluti, attraenti, possiedono beni desiderabili, sono accettati da altri individui popolari e desiderati dai giovani di sesso opposto (Butcher, 1986; Eder, 1985; Lease et al., 2002), ma oltre a dimostrare caratteristiche a cui viene attribuito valore all’interno della società contemporanea, manifestano anche una certa frequenza di comportamenti aggressivi (Luthar & McMahon, 1996; Parkhurst & Hopmeyer, 1998; Rodkin et al., 2000). Anche le ricerche di La Fontana e Cillessen (1998) giunsero a simili scoperte.

Recentemente, l’immagine del bambino popolare è leggermente cambiata, o meglio sono emersi nuovi pattern comportamentali che prima, si pensava fossero del tutto assenti in questo status sociale. Di conseguenza i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sull’eterogeneità dei comportamenti presenti all’interno del gruppo di bambini e adolescenti classificati come popolari (Antonius, Cillisen, Rose, 2005).

A questo proposito è opportuno distinguere la popolarità sociometrica (sociometric popularity) dalla popolarità percepita (dominance-based popularity). Nonostante gli autori affermino che esista una correlazione ed una parziale sovrapposizione tra i due costrutti (Hawley, 2003; Cillissen & Mayeux, 2004; La Fontana & Cillisen, 2002), popolarità sociometrica e popolarità percepita non possono essere considerati costrutti identici.

Andando ad esaminare i profili comportamentali, la popolarità sociometrica è associata a caratteristiche prettamente positive come alti livelli di prosocialità, comportamenti di cooperazione e bassi livelli di aggressività (Rubin, Bukowski, Parker, 1998), invece la popolarità percepita è associata sia a caratteristiche positive, che a caratteristiche negative.

La propensione all’aggressività nella vita di bambini e adolescenti è stata spesso concettualizzata dalla psicologia dell’età evolutiva, come un fattore di rischio, per lo sviluppo del disadattamento. La prospettiva evoluzionistica ha modificato tale assunto ribadendo che la presenza di comportamenti aggressivi sia tra i vertebrati che tra gli invertebrati suggerisce che questi siano il prodotto della selezione naturale e possono essere visti come funzionali alla sopravvivenza e al successo riproduttivo.

Le ricerche successive, influenzate da questo orientamento, hanno messo in evidenza le dimensioni funzionali dell’aggressività in termini di dominanza sociale. In accodo con questo lavoro, una combinazione di comportamenti aggressivi e strategie affiliative potrebbero predire centralità nel gruppo dei pari e controllo delle risorse sociali.

Negli studi che indagano la relazione tra popolarità e aggressività, vengono misurate aggressività diretta (la quale include assalti fisici e verbali) e aggressività relazionale (include azioni quali ignorare, escludere, sparlare di qualcuno) in modo separato. Lo studio di LaFontana e Cillessen (2002) mostra un’associazione positiva della popolarità con entrambe le forme.

A conferma di ciò, vi è lo studio di Cillessen e Mayeux (2004), in cui fu seguito longitudinalmente un campione di bambini dalla quinta elementare alla prima superiore e venne valutata la relazione tra popolarità percepita, popolarità sociometrica e aggressività (manifesta e relazionale). Gli autori scoprirono che se da un lato la correlazione negativa tra popolarità percepita e aggressività manifesta tende a diminuire nel tempo fino ad invertire il segno, dall’altro lato l’associazione positiva tra popolarità percepita e aggressività relazionale diventa più forte nel tempo, soprattutto per le femmine.
Gli autori giunsero alla conclusione che la correlazione positiva tra popolarità percepita ed entrambe le forme di aggressività aumenta con l’aumentare degli anni, e affermarono che i soggetti che guadagnano in popolarità, presentano un aumento delle condotte aggressive.

 

La funzione dell’aggressività

Nel tentativo da parte dei vari autori di comprendere la funzione dell’aggressività in soggetti percepiti come popolari, è stata formulata l’ipotesi secondo cui le condotte aggressive vengano messe in atto dai soggetti in modo strategico per aumentare o mantenere il loro status sociale all’interno del gruppo. A conferma di questa ipotesi, vi sono diversi studi longitudinali (Cillessen & Mayeux, 2004; Rose et al., 2004), i quali oltre a confermare la funzione dell’aggressività per i soggetti percepiti come popolari, sottolineano una forte correlazione tra popolarità percepita e aggressività relazionale. Infatti, escludere e ignorare gli altri possono essere mezzi efficaci per manipolare le relazioni (Antonius, Cillessen, Rose, 2005).

Sebbene numerosi studi abbiano esaminato gli antecedenti comportamentali dello status sociometrico (Bukowsky & Newcomb, 1984; Rubin et al., 1998), nessuno studio quantitativo si è dedicato a verificare gli antecedenti comportamentali della popolarità percepita. Tuttavia i ricercatori hanno suggerito che i soggetti potrebbero manifestare aggressività con lo scopo di aumentare la loro popolarità percepita (Adler & Adler, 1998; Lease et al., 2002; Rodkin et al., 2000).

Lo studio di Rose et al. (2004), ha esaminato l’ipotesi opposta, ossia il fatto che essere considerati come popolari porti ad un aumento dell’aggressività. I bambini che hanno raggiunto la popolarità all’interno del gruppo dei pari, si sentono in diritto di soddisfare totalmente i propri bisogni. Questi soggetti si sentono giustificati nell’uso dell’aggressività di fronte a frustrazioni o competizioni, si potrebbe quindi dedurre che la loro abilità nell’aggredire aumenti a causa del loro status sociale (Merten, 1997).

Tali relazioni possono essere anche bidirezionali: l’iniziale aggressività manifestata da un individuo può portare ad un aumento della popolarità, la quale, può ulteriormente accrescere l’aggressività. Aggressività e popolarità risultano implicate in un processo di influenza reciproca (Rose, Sweason, Waller, 2004).

Demenza frontotemporale pre-senile: l’importanza della distinzione precoce dalla psicosi e dal bipolarismo

Diversamente dalle ultime tre che tendono ad esordire dopo i 65 anni, la demenza frontotemporale pre-senile tende ad esordire attorno ai 40 anni e a progredire molto più velocemente degli altri quadri di demenza.

Barbara Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

 

Esordio e caratteristiche della demenza frontotemporale pre-senile

Negli ultimi 15 anni si è assistito ad un aumento dei casi di demenza frontotemporale pre-senile (FTD). Si tratta della quarta forma più frequente di demenza dopo il morbo di Alzheimer, la demenza vascolare e la demenza a corpi di Lewy.

Diversamente dalle ultime tre che tendono ad esordire dopo i 65 anni, la demenza frontotemporale pre-senile tende ad esordire attorno ai 40 anni e a progredire molto più velocemente degli altri quadri. L’aumento dei casi di demenza frontotemporale pre-senile rappresenta un dato di allarme visto l’esordio in un’età in cui il paziente è nella piena attività della sua vita famigliare, relazionale e lavorativa.

La comunicazione di una diagnosi di demenza provoca sempre profondi disagi nella vita famigliare poiché si tratta di una diagnosi infausta, molto dolorosa da accettare, che implica una progressiva riorganizzazione delle dinamiche per poi culminare con la perdita della persona cara. Se poi questo avviene in una famiglia che si trova ancora nelle fasi iniziali del proprio progetto di vita, magari con figli piccoli, impegni economici importanti o progetti di crescita professionale, il risultato è ancora più drammatico e complesso da affrontare. È su queste premesse che le neuroscienze stanno volgendo particolare attenzione a questo disturbo con l’obiettivo di formulare diagnosi sempre più precoci e delineare piani di intervento che tengano conto dei molteplici livelli che il disturbo coinvolge ovvero personale, professionale, relazionale di coppia, famigliare e sociale.

Storicamente, le caratteristiche cliniche del quadro di demenza frontotemporale pre-senile furono delineate dallo psichiatra Tedesco Arold Pick (Pick, 1982). Il disturbo si può manifestare in tre diverse varianti a seconda delle aree cerebrali inizialmente coinvolte dal deterioramento: afasia non-fluente progressiva, dove degenera inizialmente l’area della produzione del linguaggio ovvero la corteccia frontale dorsolaterale; demenza semantica, dove degenera inizialmente l’area della conoscenza semantica ovvero la corteccia temporale; demenza frontotemporale a variante comportamentale. Quest’ultima forma esordisce con il degenero delle aree responsabili del comportamento sociale, dell’inibizione degli impulsi e del comportamento strategico ovvero le cortecce orbito-frontali e frontali ventro-mediali (vedi Fig. 1).

 

Demenza frontotemporale pre-senile l’importanza della distinzione precoce dalla psicosi e dal bipolarismo - FIG. 1

FIG 1 .La figura rappresenta la sezione sagittale di una risonanza magnetica strutturale (sinistra) e una risonanza magnetica funzionale (destra) di un paziente con demenza frontotemporale a variante comportamentale.

 

Demenza frontotemporale pre-senile e difficoltà nella diagnosi differenziale

Data la riduzione del funzionamento in queste aree, i sintomi visibili assomigliano molto ai quadri psicotici come nel caso di ottundimento emotivo, mancanza di empatia, irritabilità, aggressività, antisocialità, comportamento di accumulo, stereotipie verbali e motorie, o ai quadri bipolari come nel caso di apatia, ipomania e disinibizione (Bathgate et al., 2001).

Vista la somiglianza delle manifestazioni sintomatologiche, la demenza frontotemporale a variante comportamentale viene spesso diagnosticata all’esordio come un disturbo psichiatrico e il paziente viene solitamente inviato ad un medico psichiatra o ad una struttura psichiatrica. A seguito di questo invio, spesso il paziente intraprende un periodo di ricovero o di consulto periodico con lo psichiatra in cui assume una terapia farmacologica indicata per le psicosi, nel caso prevalgano i sintomi simil-psicotici, o per il disturbo bipolare, nel caso prevalga l’ipomania o la disinibizione.

È facile pensare che il trattamento psico-famacologico per altre patologie diverse da quella in atto possa complicare il quadro e contribuire a mascherare per lungo tempo la sindrome primaria, ritardando la diagnosi e i possibili interventi. Trattandosi di un processo di degenerazione delle cortecce cerebrali, il disturbo continuerà a peggiorare coinvolgendo sempre di più aree di funzionamento cognitivo, emotivo e motorio per i quali la terapia psicofarmacologica non è indicata e nemmeno sufficiente per gestire la complessità delle conseguenze del disturbo.

Questo articolo ha lo scopo di descrivere le caratteristiche principali della demenza frontotemporale a variante frontale che la distinguono dalla psicosi e dal bipolarismo e di fornire suggerimenti di carattere pratico per più professionisti della salute mentale, al fine di incentivare il riconoscimento precoce del disturbo e l’immediata attivazione di una rete di servizi adatti alla gestione della patologia nelle diverse aree che compromette.

 

L’importanza della precocità della diagnosi differenziale – il caso di Luigi

Immaginiamoci Luigi, 45 anni, operaio sposato da circa 9 anni con Rosa (42 anni), parrucchiera. Hanno tre bambini di 3, 6 e 8 anni, un cane e un mutuo che estingueranno tra 10 anni. Da qualche tempo Luigi è strano, più irritabile e aggressivo del solito, capita che offenda la moglie e a volte i bambini in modo immotivato. A volte l’umore di Luigi è inspiegabilmente euforico, ride senza apparente motivazione oppure si arrabbia eccessivamente per una battuta ironica. Inoltre al lavoro fatica a portare a termine le proprie mansioni perché non riesce più ad organizzare la linea di produzione come prima, pertanto si irrita e aggredisce i colleghi. Le sue reazioni sul lavoro vengono mal digerite, il capo lo declassa dall’incarico e tutti gli suggeriscono di consultare uno psichiatra. Intanto lo stipendio che arriva a casa è diminuito ma il mutuo no.

Lo psichiatra consiglierà un ricovero di un mese in una clinica psichiatrica dove si cercherà di impostare una terapia farmacologica per una diagnosi di bipolarismo, che prevede stabilizzatori dell’umore. Il paziente risponde bene, i sintomi sembrano rientrare e viene dimesso. Al lavoro lo riaccolgono ma l’atmosfera famigliare è tesa, dato il timore dei bambini di essere aggrediti anche verbalmente dal papà che si allontanano leggermente da lui e non lo cercano per giocare. Rosa teme per sé e per i bambini e non comprende i comportamenti di Luigi, dato che la terapia sembrava aver fatto effetto. Comincia quasi a credere che Luigi ci giochi un po’ su, che lo faccia apposta e che sia responsabile di quelle offese. Reagisce con ritiro e rabbia e la coppia dà segni di sgretolamento.

Luigi peggiora di settimana in settimana. Ha cominciato ad avere un’attrazione particolare per le slot machines e ora passa diverse ore al bar spendendo molti soldi al giorno per giocare. Rosa si accorge che i soldi mancano sempre di più in modo strano. Chiede spiegazioni a Luigi che pare non comprendere per quale motivo Rosa sia preoccupata. Ne nasce un litigio che spinge Rosa ad andare a controllare la situazione del conto in banca. I banchieri raccontano a Rosa che il marito ha prelevato tutti i soldi disponibili sul conto e ora non hanno più alcuna disponibilità. Rosa chiede ai banchieri la cortesia di impedire al marito di prelevare ma i banchieri rispondono che per loro non è legalmente possibile impedire al marito, intestatario del conto, di prelevare.

Rosa litiga col marito e lo obbliga a fare un nuovo consulto psichiatrico. Luigi accetta senza comprendere la motivazione. A questo punto, dopo due anni dall’esordio, oltre all’irritabilità, l’aggressività, l’ipomania e il gioco d’azzardo patologico, Luigi ha sviluppato anche difficoltà cognitive e linguistiche che hanno compromesso il lavoro fino al licenziamento. Gli psichiatri a questo nuovo invio non sono più conviti che si tratti di bipolarismo e inviano il paziente per un approfondimento neuropsicologico.

La diagnosi è chiara: demenza frontotemporale a variante frontale. Rosa è distrutta. Si trova a dover assistere il marito nelle autonomie quotidiane, come gli spostamenti in auto (visto che Luigi non può più guidare), tollerare l’aggressività del marito che a volte oltrepassa il verbale, gestire i debiti lasciati dal gioco e si vede costretta a sospendere il mutuo per un po’, tutto questo oltre all’accudimento dei bambini. È costretta a lasciare il negozio di parrucchiera, troppo impegnativo e si arrangia facendo prestazioni in nero a casa delle clienti.

La diagnosi di demenza tuttavia ben presto dà i suoi frutti. Luigi viene preso in carico da un equipe costituita da uno psichiatra, un neurologo e un geriatra che riescono ad individuare i farmaci adeguati al caso e i sintomi di aggressività si riducono. Il medico di base riesce ad attivare il processo di attribuzione dell’invalidità totale in modo che Luigi possa percepire un sostentamento e Rosa un accompagnamento, e possano così ricominciare a pagare il mutuo. Rosa e i bambini hanno accesso ad un servizio di supporto psicologico che li aiuta a gestire alcune situazioni di emergenza e la famiglia ora funziona un po’ meglio. Ora si attende che le pratiche legali abbiano il loro corso e che Luigi venga affidato ad un tutore legale che lo aiuti ad amministrare i propri averi. Tutto questo richiederà molto tempo. Forse più tempo di quanto servirà alla demenza per raggiungere le fasi finali.

In questo breve racconto si è voluto sottolineare la complessità del disturbo, la quantità di persone coinvolte, le implicazioni mediche ma anche socio-economiche e legali. La demenza frontotemporale pre-senile riduce sempre di più la possibilità del paziente di adattarsi all’ambiente sociale in una situazione di completa incosapevolezza di malattia. Il paziente con demenza frontotemporale pre-senile perde progressivamente le facoltà di intendere e di volere e le stesse risorse per contrastare tale perdita. I sintomi di ipomania o aggressività e antisocialità si aggravano e le capacità inibitorie perdono la loro funzione esponendo il paziente e la sua rete sociale a incombenti rischi. La diagnosi precoce ha la funzione di attivare immediatamente tutti i servizi necessari per limitare danni fisici, economici, emotivi e/o di sviluppo emotivo patologico se sono presenti dei minori, e accompagnare il paziente e la sua famiglia nella gestione del disturbo nel modo più efficace possibile.

 

Elementi per una diagnosi differenziale precoce

Il primo indice utile è senz’altro l’età e l’andamento dei sintomi all’esordio (Woolley et al., 2007). Nel caso di demenza frontotemporale pre-senile abbiamo visto che l’età dei primi sintomi si colloca tra i 40 e i 65 circa. I sintomi che si manifestano hanno un carattere di stabilità e non sembrano oscillare ma solo peggiorare progressivamente. Al contrario, nei quadri psicotici o bipolari i pazienti hanno una storia psichiatrica molto lunga alle spalle, hanno già probabilmente effettuato altri ricoveri, consultato altri psichiatri e intrapreso altre terapie. A volte hanno avuto successo e i sintomi sono rientrati, mentre altre volte, a seguito magari di un evento di vita, si sono acutizzati.

Il secondo indice è la consapevolezza del paziente dei propri sintomi comportamentali. Se chiediamo ad un paziente psicotico o bipolare di raccontarci il suo stato d’animo probabilmente lui saprà raccontarcelo. I pazienti psicotici sanno di non riuscire a gestire la rabbia e il paziente bipolare riconosce la differenza tra il suo stato di depressione e il suo stato di ipomania. Il paziente con demenza frontotemporale pre-senile non riconosce le sue bizzarrie comportamentali perché vengono messe in atto in modo automatico, ovvero non mediato dall’attenzione volontaria. Il piano automatico non può essere inibito, non esiste mediazione cognitiva. Il piano non viene selezionato in base al contesto sociale o in base al raggiungimento di uno scopo. Viene messo in atto e basta. Non può quindi nemmeno essere discusso nell’ambito di un colloquio clinico o di una relazione di coppia. Da parte dei famigliari e dei clinici può solo essere accettato e supportato nella sua gestione.

Il terzo indice sono sintomi comportamentali che solo il paziente con demenza frontotemporale pre-senile mette in atto mentre il paziente psicotico o bipolare non mette in atto in nessuna condizione di intensità sintomatologica. Questi sono i comportamenti di imitazione, dipendenza e utilizzazione ambientale. Questi pazienti tendono a imitare senza richiesta o motivazione le espressioni facciali o i movimenti dell’interlocutore anche quando i movimenti non hanno significato nel contesto. Posti davanti ad oggetti che si utilizzano quotidianamente possono mettere in atto la procedura di utilizzo che l’oggetto evoca. Ad esempio posti davanti ad una caffettiera nel nostro studio durante il colloquio possono avviare il programma motorio necessario per fare il caffè. Oppure berranno dal bicchiere d’acqua che gli sarà posto davanti o taglieranno un foglio di carta se gli verrà fornita una forbice. Tali sintomi sono spiegabili con la riduzione delle funzioni di controllo e di inibizione.

Questi indici sono sufficienti per suggerire l’approfondimento neuropsicologico necessario per indagare il funzionamento cognitivo del paziente che rileva elementi fondamentali per la diagnosi differenziale. Infatti il paziente con demenza frontotemporale pre-senile risulterà compromesso a livello cognitivo mentre il paziente psicotico o bipolare molto probabilmente non lo sarà o lo sarà secondo caratteristiche proprie ai due quadri. In particolare nella demenza frontotemporale pre-senile saranno evidenti deficit di attenzione e di memoria dovuti alla perdita di controllo di queste funzioni da parte dei sistemi cognitivi centrali. Sarà evidente una difficoltà nel selezionare, organizzare il materiale che deve essere immagazzinato o rievocato. Sarà evidente una rigidità cognitiva con difficoltà nella produzione verbale. Deficit nell’astrazione, concettualizzazione, categorizzazione, giudizio e critica e di progettazione e lungimiranza saranno presenti. Questi deficit esecutivi all’esame neuropsicologico escludono la diagnosi di psicosi o bipolarismo e avvallano la diagnosi di demenza frontotemporale a variante comportamentale.

 

Conclusioni

Col presente articolo si è voluto porre l’attenzione sull’emergenza dell’aumento delle demenze frontotemporali ad esordio pre-senile, sulla complessità del quadro e sull’importanza della diagnosi precoce che attivi il prima possibile i servizi adeguati al caso. I clinici possono sospettare della presenza del disturbo quando esordisce tra i 40 e i 60 anni, con una sintomatologia anche a carattere prevalentemente psichiatrico ma stabile o peggiorativa e non fluttuante.

La completa incosapevolezza del paziente dei propri sintomi e comportamenti di imitazione e dipendenza ambientale sono aspetti caratteristici della demenza frontotemporale pre-senile che non si riscontrano nella psicosi e nel bipolarismo. L’esame neuropsicologico è necessario per individuare il funzionamento delle capacità esecutive e confermare o escludere la diagnosi. Una volta posta la diagnosi l’intervento preferibile è la presa in carico del paziente da parte di una equipe formata da uno psichiatra, un neurologo e un geriatra, l’attivazione di supporto psicologico, sociale e legale alla famiglia.

Sala e Raggi: Psicologia del politico sotto accusa

Mentre infuria il dibattito su se abbia fatto meglio Sala a dimettersi o la Raggi a rimanere al suo posto, lo psicologo fa bene a mantenersi defilato. Gli aspetti giuridici e politici prevalgono, giustamente. Lo scenario delle accuse è diverso a Roma e Milano, e diverse sono le conseguenze politiche.

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta.

Nessuno ha la sfera di cristallo, nessuno sa se ne uscirà meglio Sala con la sua rapida auto-sospensione (lungimirante? Affrettata?) o Raggi con la sua attesa (inetta? Lungimirante?). Nessuno ha una verità morale e nemmeno giuridica da condividere con il mondo: la corruzione della politica ormai si contrappone a un potere giuridico che inizia a sua volta a essere sospettato di nascondere talvolta un secondo fine, un desiderio di potere. La psicologia non illumina la politica e viceversa.

Un’azione come quella di Sala potrebbe essere davvero affrettata –per non dire isterica- e nonostante questo rivelarsi una mossa vincente. Se le accuse rientrassero in breve tempo Sala potrebbe tornare a fare il sindaco con forza accresciuta. Oppure no, la procedura giuridica si impantanerà in un iter pluriennale alla fine del quale Sala -che beffa- sarà magari assolto ma svuotato politicamente. L’azione della Raggi può essere un lungimirante muro di gomma, un tirare a campare che non fa mai tirare le cuoia o solo l’inerzia di una politica inetta. Inutile chiedere lumi alla psicologia sul finale di partita, essa non è una scienza esatta e predittiva.

 

Il politico è un capro espiatorio

Qualcosa però si può dire su cosa deve affrontare emotivamente un politico. Che esso ceda o resista, il suo scenario interiore è identico. Il politico è un capro espiatorio fin dall’inizio, una figura che accetta di ricevere su di sé l’odio e il rancore delle moltitudini. Fin da quando nutre l’ambizione di ottenere la fiducia di larghi gruppi di persone, di coordinarle e di dirigerne le decisioni (un tempo si sarebbe detto: di comandarle e di decidere) egli si assume questo carico. Il capro espiatorio può essere non solo l’anello debole, ma anche quello forte della catena.

Una volta fatta questa scelta, nei confronti del politico scatta il meccanismo relazionale del potere, il cosiddetto ciclo interpersonale dell’agonismo. Non lo dice solo la psicologia, lo dicono anche la filosofia e la storia. È la dialettica del padrone e dello schiavo di Hegel, è la riflessione sul potere ad Atene di Tucidide. Una volta che una persona sia stata capace di convincere altri che egli, o lei, sia in grado di coordinarne gli sforzi meglio di chiunque altro, il rancore e il sospetto inizieranno a crescere. Non inganni la terminologia edulcorata di noi moderni: coordinare suona più dolce all’orecchio di comandare, ma il succo rimane aspro e forte. Sarà lo stesso politico a covare il drago mentre scalda il suo popolo con la sua protezione. Quel calore fa crescere la forza del sospetto di chi comunque, anche nella migliore delle politiche, sta sotto. Cittadino suona meglio di suddito e la gerarchia rimane nascosta, ma vivente e corrosiva. Una persona che accetti di farsi coordinare da un’altra è comunque qualcuno che ha accettato di assumere una posizione inferiore. Se non rabbia, se non rancore, se non invidia, almeno dispetto coltiverà il cuore del cittadino verso l’inevitabile arroganza del politico. Quale maggiore e insopportabile prepotenza è quella di colui che avanza la pretesa di sapere decidere meglio di noi al posto nostro? Egli si arroga una maggiore capacità di capire e di dirigere le nostre stesse azioni.

 

Politico e cittadini: come madre e figli

Secondo Melanie Klein, la veneranda e terribile allieva di Freud, perfino la madre deve rassegnarsi all’invidia del bambino, perché la madre esercita comunque un potere e un controllo che genera rancore. Un potere ancora più pervasivo di quello del padre, e per questo Melanie Klein aveva sostituito la dialettica della rivalità edipica del padre con quella ancora più feroce della liberazione dal controllo della madre, che più del padre ha legittimamente potere di vita e di morte sull’infante. La madre combatte contro un infante inetto, il padre contro un adolescente già quasi adulto e forte. Una lotta molto più sbilanciata e più feroce, più capace di generare odio inestinguibile.

La dialettica del potere tra politici e cittadini somiglia più al rapporto tra madre e bambino che a quella tra vecchi e giovani. La cittadinanza, il popolo, e ancora peggio le masse, le folle e infine la gente -in un crescendo di indifferenziazione del corpo dei comandati- sono descritti come un essere infantile. Ricordate Gustave le Bon e la psicologia delle folle? Ma anche il disprezzo di Tucidide per il popolo di Atene con quel discorso apologetico messo in bocca a Pericle e strambamente diventato un elogio della democrazia, quando invece tutto quello che dice Pericle è un avvertimento: ad Atene l’assemblea del popolo non fa disastri solo perché c’è una classe di politici in grado di dirigerla, di coordinarla. È Pericle che da sostanza razionale alle pulsioni del popolo.

 

Il potere e il sospetto per il ruolo politico

Perfino Pericle deve rassegnarsi a caricarsi del suo fardello di odio, invidia, e rancore. Finito lui, si scatena l’odio incontrollato. Prima e dopo Pericle Atene fagocita politici a un ritmo impressionante. E tutti attraverso un meccanismo di sacrificio e di espulsione che è giudiziario. Da Milziade ad Alcibiade tutti processati e fuggiti o esiliati. Il meccanismo è giudiziario perché il politico, in quanto detentore del potere, è intrinsecamente ritenuto corrotto, strutturalmente marcio. È la sua stessa scelta, non tanto le sue azioni, a condannarlo.

Insomma, il politico deve rassegnarsi a essere considerato un individuo moralmente sospetto. Egli si arroga di gestire la cosa pubblica, non solo il denaro, ma l’intero bene pubblico. Come il ladro e il mercante, egli ha in mano qualcosa che lui stesso non ha prodotto. E a questo destino egli deve rassegnarsi. Può essere stato un tecnico, un burocrate, un imprenditore, un demagogo, un incorruttibile o perfino un rivoluzionario, ma appena accede alla soglia del potere egli si deve rassegnare a ricevere il sospetto che ricade su colui che gestisce le nostre risorse, che ce le elargisce o ce le nega secondo il suo giudizio.

Può essere talvolta amato, ma sarà al tempo stesso sempre odiato. Al di fuori della democrazia è possibile cavarsela facendosi temere. In democrazia no. E quindi solo questo può raccomandare lo psicologo a Sala: che la sua decisione di autosospendersi abbia un significato solo morale e politico nella quale le ragioni psicologiche siano messe da parte. Non speri mai il politico di sottrarsi al rapporto ambiguo che egli avrà sempre con la cittadinanza a cui rende conto. Sarà sempre un rendere conto fondato sull’insoddisfazione e sul sospetto, un giudizio intriso di rancore e di colpa, un giudizio che passa quindi per un altro potere, anch’esso carico di significati: il tribunale, il potere giudiziario. Non a caso Tucidide sosteneva che la democrazia si svolge sia nell’assemblea che nei tribunali.

La prima impressione è quella che conta davvero!

La prima impressione che si ha di uno sconosciuto influenza i giudizi successivi con un margine di cambiamento quasi nullo.

 

La prima impressione può influenzare il modo in cui giudica l’altro?

Un famoso modo di dire sostiene che non si debba “giudicare un libro dalla copertina”, ma, al contrario, sembra proprio che le persone abbiano la tendenza a far ciò anche dopo averne letto un capitolo o due.

Secondo un recente studio di Gunaydin, professore presso la Bilkent University ad Ankara, in collaborazione con la Cornell University di New York, le persone continuerebbero ad essere influenzate dall’aspetto altrui, anche dopo averne personalmente approfondito la conoscenza. Sembra infatti che la prima impressione, costruita attraverso l’osservazione di una fotografia, possa predire come una persona giudicherà un’altra, anche dopo avervi interagito faccia a faccia, fino a sei mesi dopo.

L’aspetto di una persona influenzerebbe quindi, anche in modo persistente nel tempo, ciò che gli altri pensano della stessa a proposito di chi siano, cosa facciano, quanto possano essere affidabili o simpatici. Anche una semplice fotografia diviene un indizio molto potente in grado di condizionare le future interazioni, nonostante in seguito possano sopraggiungere nuove informazioni, anche in contrasto con il giudizio stesso, circa la persona rappresentata nella fotografia.

 

Lo studio

Per dimostrare ciò, Gunaydin e collaboratori hanno coinvolto un campione di 55 persone, alle quali hanno mostrato 8 fotografie rappresentanti quattro donne, sorridenti o con un’espressione neutra. Per ogni foto ai partecipanti veniva chiesto di valutare il grado di apprezzamento della donna raffigurata, indicando quanto avrebbero voluto conoscerla e quanto avrebbero potuto divenire amici, oltre ad esprimere un giudizio circa la personalità della stessa, indicando quanto secondo loro potesse essere estroversa, amichevole, emotivamente stabile, coscienziosa ed aperta a nuove esperienze.

In seguito, in un lasso di tempo variabile tra i 30 giorni e i 6 mesi dopo la prima fase dell’esperimento, i partecipanti allo studio incontravano di persona una delle donne rappresentate in foto, senza però che venisse detto loro di averle precedentemente già viste e giudicate. Ai partecipanti veniva infatti detto che avrebbero partecipato ad uno studio sulle interazioni sociali, all’interno del quale avrebbero semplicemente dovuto interagire con un altro partecipante allo stesso studio. L’interazione consisteva in 10 minuti di “trivia game”, gioco con domande di cultura generale di difficoltà variabile, a cui facevano seguito altri 10 minuti di conversazione libera con la consegna di conoscersi l’un l’altro il più possibile. In altri termini, questa seconda fase dello studio è stata costruita dagli autori in modo da simulare un’esperienza di interazione quotidiana con una nuova persona, che solitamente procede da argomenti più superficiali, come quelli del trivia game, ad argomenti più intimi e personali. Alla fine dell’interazione, inoltre, la donna lasciava la stanza e al partecipante veniva chiesto di valutarne il grado di apprezzamento e di giudicarne i tratti di personalità, in modo analogo a quanto fatto nella prima fase dello studio dopo la presentazione delle fotografie.

 

I risultati dello studio: la prima valutazione dell’altro influenza i giudizi successivi

Dalle analisi dei dati, Gunaydin et al. (2016) hanno messo in luce l’esistenza di una forte associazione tra la valutazione dei soggetti basata sulla fotografia, e quindi sul mero aspetto fisico, e quella fatta in seguito all’interazione dal vivo, dopo aver conosciuto in modo più approfondito la persona.

Più nello specifico, i partecipanti che ritenevano che la persona rappresentata in foto fosse piacevole e possedesse una personalità amichevole, coscienziosa, emotivamente stabile e di mentalità aperta, mostravano la tendenza a riportare impressioni analoghe anche dopo l’interazione faccia a faccia con la medesima persona. Similmente, anche coloro i quali riportavano giudizi negativi nei confronti della persona rappresentata in foto, mostravano la tendenza a valutarla in modo analogo anche dopo averla conosciuta di persona.

Quanto ottenuto, nel complesso, risulta essere estremamente degno di nota, considerando anche il fatto che i partecipanti alla seconda fase, pur giungendo a giudizi diametralmente opposti, interagivano in realtà tutti con la stessa persona.

Per poter spiegare quanto emerso a livello del giudizio di piacevolezza, che rimane inalterato anche dopo l’interazione faccia a faccia, gli autori chiamano in causa il cosiddetto bias di conferma del comportamento (behavioral confirmation bias), un tipo di profezia che si auto-avvera che porta i soggetti a comportarsi in modo conforme al primo giudizio espresso. Ad esempio, coloro i quali ritenevano che la donna nella fotografia fosse piacevole e simpatica, mostravano a loro volta la tendenza ad interagire in modo più amichevole e coinvolto. Più nello specifico, questi soggetti sorridevano di più e si avvicinavano maggiormente all’interlocutore, inviando messaggi non verbali più cordiali ed espansivi. Inoltre, quando qualcuno è ben disposto verso qualcun altro, tendenzialmente quest’ultimo se ne accorge e risponde in modo analogo, andando a rinforzare l’iniziale impressione di piacevolezza.

Per quanto riguarda la coerenza nei giudizi circa le caratteristiche di personalità, invece, gli autori ipotizzano la possibile influenza del cosiddetto effetto alone (halo effect). In questo senso, coloro i quali hanno giudicato in modo positivo la persona raffigurata nella fotografia potrebbero aver attribuito alla stessa ulteriori caratteristiche positive; infatti, generalmente si ha la tendenza a ritenere che una persona attraente sia ad esempio socialmente competente, con un matrimonio stabile e figli perfetti. Riassumendo, l’effetto alone mette in luce come generalmente le persone abbiano la tendenza ad andare oltre il semplice giudizio iniziale, superficiale e basato meramente sull’aspetto, attribuendo una serie di ulteriori caratteristiche positive e desiderabili. Proprio questo effetto, secondo gli autori, spiegherebbe come mai i partecipanti allo studio attribuissero caratteristiche di personalità considerate desiderabili a persone ritenute piacevoli e di bell’aspetto.

In conclusione, nonostante in studi precedenti Gunaydin et al. (2012) avessero messo in luce la convinzione dei partecipanti circa un’eventuale revisione dei giudizi dati ai soggetti rappresentati in fotografia se avessero avuto la possibilità di conoscerli personalmente, sembra che le persone abbiano la tendenza ad essere conservative, cioè a giudicare le persone in modo estremamente coerente con la loro prima impressione basata sul solo aspetto fisico. I risultati vanno quindi in parte a confermare l’idea secondo cui anche dopo aver letto un libro, le persone continuino almeno in parte a giudicarlo dalla sua copertina.

Neurolatinorum e neurodotti: chi utilizza il linguaggio delle neuroscienze per ottenere autorità scientifica

Da diverse decadi, un nuovo veicolo di persuasione si fa strada tra i progetti di ricerca e la comunicazione scientifica – un miscuglio curioso di fatti, fattoidi e termini scientifici utilizzati dalle neuroscienze. Molti si sono resi conto di quanto il gergo delle neuroscienze sia capace di conferire un’aura di autorevolezza e novità alle affermazioni più scontate, ai risultati più ovvi, agli esperimenti più banali: il neurolatinorum.

Riccardo Manzotti, Paolo Moderato
Università IULM

 

Il neurolatinorum e il neurodotto

Il vestito non fa il monaco, ma aiuta a farlo credere tale. E, spesso, l’abito è fatto di parole e non di idee; parole che, come nel caso del latinorum di Manzoniana memoria, se usate opportunisticamente conferiscono un’aura di immeritata autorità. Come diceva il Galileo di Brecht, la principale causa di ignoranza della scienza è la sua pretesa di essere sapiente.

Da diverse decadi, un nuovo veicolo di persuasione si fa strada tra i progetti di ricerca e la comunicazione scientifica – un miscuglio curioso di fatti, fattoidi e termini scientifici utilizzati dalle neuroscienze. Molti si sono resi conto di quanto il gergo delle neuroscienze sia capace di conferire un’aura di autorevolezza e novità alle affermazioni più scontate, ai risultati più ovvi, agli esperimenti più banali: il neurolatinorum.

Il bersaglio di questo articolo non sono le neuroscienze in quanto tali. Non vogliamo certo criticare le neuroscienze nel loro proprio dominio: negli ultimi cento anni i progressi di questa disciplina sono stati enormi e i risultati eccellenti. Quello che preoccupa è la tendenza a usare la terminologia delle neuroscienze come un vestito per acquisire una legittimazione scientifica. Non è il neuroscienziato che ci impensierisce, ma il neurodotto, che spesso non è neanche un neuroscienziato: colui che usa le parole e le nozioni prese dalle neuroscienze per avvallare punti di vista discutibili e per acquisire un’aura di autorità scientifica.

Il neurodotto non ha bisogno di costruire una completa catena di deduzioni che, a partire da alcune ipotesi e grazie ed evidenze sperimentali, sostengano una tesi precisa. Il neurodotto ottiene la sua forza di convinzione dal vestito linguistico e concettuale più che dalla forza dei propri ragionamenti. Il neurodotto non convince sul piano logico, ma per forza di autorità. In questo modo, parafrasando Longanesi, il neurodotto diventa bravissimo a spiegare agli altri quello che lui stesso non capisce.

Non è un fenomeno nuovo, anzi è una malattia ricorrente della cultura e della società in genere. Come il Galileo di Brecht, i dotti del seicento abusavano della terminologia sillogistica per fingere di conoscere quello che, in realtà, ignoravano. La risposta ai problemi si trova nelle parole invece che nei fatti o nei ragionamenti. Come nel caso della famosa virtus dormitiva di Moliere, il neurodotto segue una prassi non dissimile. Il neurolatinorum, arricchito da una costellazione di opportuni fatti e fattoidi, si trasforma così in un principio panesplicativo che non ammette di essere falsificato e che, quindi, più che una scienza è una specie di pseudometafisica mascherata.

L’uso di certi termini, quasi come per magia, fa sospendere la capacità critica del pubblico che diventa così pronto ad accettare qualsiasi pseudo-spiegazione. Le teorie panesplicative corrono il rischio di dare l’impressione di sapere tutto ma di non spiegare nulla. La dialettica hegeliana sembrava formidabile, eppure non ha spiegato nulla. Se sei un martello, il mondo è fatto di chiodi.

I fatti vengono sostituiti da fattoidi che, anche se nessuno poi li verifica, continuano a circolare nella nostra cultura e molti di questi sono conseguenza di teorie appena abbozzate nel mondo delle neuroscienze.

Facciamo un esempio abbastanza innocente ma significativo: alcuni giorni fa, in una trasmissione di divulgazione scientifica su Radio Tre, Marco Malvaldi dichiara che arte e letteratura sono costruzioni del cervello. E continua nella sua spiegazione del mondo di Dante in termini di attività cerebrale. In fondo, aggiunge, bisogna distinguere tra il mondo reale e la costruzione mentale che è fatta da, indovina un po’, il nostro cervello.

Malvaldi non è un neuroscienziato, è un chimico che scrive romanzi gialli, ma chiaramente avverte l’attrazione per la spiegazione neurocentrica del mondo. E il conduttore radiofonico, lo asseconda, lo appoggia a ogni riferimento al cervello. Il pubblico sente che il cervello è l’Aristotele dei giorni nostri; che è l’autorità che mette a tacere ogni critica. Il ragionamento è semplice, se il cervello costruisce la letteratura è lì che troveremo la risposta a ogni problema e poco importa se nessuno ha un’idea precisa di come i neuroni diventino romanzi e pensieri. L’utilizzo del neurolatinorum di Malvaldi e altri autori, neurodotti come lui, alimenta questo circolo vizioso per cui si continuano a ripetere formule stereotipate che, per il fatto stesso di essere frequentemente pronunciate, vengono percepite come convincenti.

Il neurodotto, bisogna riconoscergli, si muove in un vuoto epistemico di cui non ha colpa. Questo vuoto si è aperto perché le discipline che si occupavano della mente – filosofia, psicologia e psicoanalisi – non sono mai riuscite a definire fisicamente l’oggetto della loro ricerca. Alla fine dell’800, William James diceva di trattare la psicologia come se fosse una scienza nella speranza che lo diventasse. Un secolo dopo, questa speranza è rimasta tale.

 

Neuroscienze: cosa spiegano e cosa resta inspiegato

Le neuroscienze, al contrario, hanno promesso di trovare le basi fisiche della mente da qualche parte dentro i neuroni e, quindi, di trovare le leggi materiali della nostra esistenza. È una promessa legittima, per una disciplina delle scienze forti. Il problema è che, per quanto riguarda la mente e il suo funzionamento, le neuroscienze non propongono una spiegazione ma una promessa di spiegazione. Non spiegano come i neuroni diventino pensieri, emozioni e sensazioni, ma si limitano a indicare delle aree cerebrali che sarebbero coinvolte con tale funzione. Si confonde il dove con il come e, in molti casi, non si fa nemmeno quello ma si emette, per usare la metafora di Ryle, una cambiale epistemica. Invece di un “pagherò” si emette un “spiegherò”, ma tanto basta perché diventi, come la moneta cattiva, di uso comune nella vulgata scientifico-popolare. Il neurodotto, prende le cambiali e le scambia per moneta vero. Lo spiegherò delle neuroscienze, diventa una spiegazione – sia pure incomprensibile – del neurodotto. Un po’ di neurolatinorum copre i vuoti e le mancanze.

Prendiamo in esame la classica confusione tra localizzazione e spiegazione; la confusione tra dove e perché oggetto di una precisa critica di Legrenzi e Umiltà. Spesso un problema cognitivo viene tradotto nella ricerca del luogo neurale. È un passaggio discutibile per vari motivi. I principali sono: non sappiamo se i fatti cognitivi sono localizzabili in aree neurali, non abbiamo gli strumenti per controllare quello che avviene in termini di attività neurale, la complessità fine dei processi neurali è ancora molti ordini di grandezza superiore ai dati effettivamente misurati, anche se trovassimo dove si trova una certa attività, non sapremmo molto di più del fatto, in sé banale, che il cervello contribuisce a svolgere un’attività cognitiva. Eppure, siamo sommersi di risultati (a volte incerti) circa la localizzazione di svariate attività mentali. Si finisce così in una specie di neurofrenologia che, oltretutto, potrebbe rivelarsi infondata.

Complice un forte supporto mediatico e il vuoto citato sopra, il valore esplicativo dei dati delle neuroscienze si è esteso ben oltre i confini dei laboratori. Grazie a una serie di circostanze favorevoli – quali l’utilizzo di apparecchiature d’avanguardia molto costose, l’incrocio con la teoria dell’informazione, l’uso di termini mutuati dalla intelligenza artificiale e dalla computer science, oltre all’uso di immagini coloratissime del cervello – la loro terminologia è tracimata fuori dalle reti neuronali e si è diffusa negli ambiti più insospettabili. E così le discipline più deboli, vedi l’esempio della psicoanalisi, hanno sentito l’attrazione per questo abbraccio mortale con le promesse delle neuroscienze: una specie di biglietto magico per entrare nel mondo delle scienze forti. Estetica, economia, marketing, teologia, filosofia e molte altre si sono offerte con voluttà all’abbraccio con il prefisso neuro- visto come un’irresistibile promessa di un futuro glorioso. E poco importa se, per ora, è più un’operazione di maquillage accademico che qualcosa di concreto. Ma dove non arrivano le neuroscienze, arrivano i neurodotti.

Come diceva Macluahn, il medium è il messaggio. A causa dei limiti di tempo e di risorse nel quotidiano, la possibilità di comprendere quello che si legge e di valutarne l’effettivo peso scientifico è ridotta. Di conseguenza, il vestito e i termini usati devono dare l’impressione di trasmettere qualcosa di importante, significativo e autorevole – qualcosa che la comunità riconosce subito. La parola chiave, a questo proposito, è riconoscere, come si riconosce il generale dalle stelline, mentre si ignora se abbia effettivamente vinto qualche battaglia o se sia coraggioso e giusto con i suoi uomini; come si riconosce il vino dall’etichetta senza poterne distinguere sapore e struttura; come si riconosce l’opera d’arte dalla galleria che la espone e non dai meriti intrinseci. Nello stesso modo, il neurolatinorum abilmente usato dai neurodotti permette, da parte del pubblico e dei colleghi, questo immediato, agognato e vendibile, riconoscimento. Non ci si deve più sforzare per provare la correttezza dei metodi, l’acutezza dei ragionamenti, l’importanza dei risultati. L’utilizzo del gergo e del vestito delle neuroscienze è sufficiente, consente un immediato riconoscimento.

Il cervello è diventato il nuovo fantasma nella macchina. Sentire dichiarare che il “cervello” fa questo e quello, suona molto più convincente di uno psicologo o di un filosofo che dice che “un soggetto o una mente” fanno questo e quello. Ma le due frasi sono equivalenti. Almeno finché non esisteranno leggi psicofisiche che spiegano in modo intelligibile il passaggio dal fisico al mentale: queste leggi, va detto con forza, non sono neanche lontanamente alla portata delle neuroscienze. Non è altro che la fallacia mereologica denunciata da Bennet e Hacker. Il cervello è un fantasma, è un omuncolo. Chi è il nuovo omuncolo? Il cervello, e i sacerdoti di questa anima materiale che si annida dentro il cranio, i neuroscienziati, con le loro cattedrali, vescovi, e finanziamenti. Il cervello è un articolo di fede. È la promessa di una futura unificazione tra materia e spirito. Il neurodotto, chiaramente, si propone come monaco e officiante di questa, a volte lucrosa, religione laica. Il neurolatinorum – amalgama indistinto di termini, fatti e fattoidi – è la sua bibbia. Sarebbe bello se il pubblico esercitasse un minimo di scetticismo laico.

Marijuana a scopo terapeutico nel trattamento dell’alcolismo e della dipendenza da oppioidi

Quello sull’uso della marijuana è un tema controverso che vede da un lato un acceso dibattito sugli effetti che essa può avere sulla psiche e il comportamento, soprattutto degli abusatori, dall’altro lato si arricchisce di considerazioni cliniche e politico-sociali, dovute agli aspetti che riguardano il suo uso terapeutico e la possibilità di una sua legalizzazione, laddove questa non sia già avvenuta.

 

L’uso terapeutico della marijuana

Un gruppo di ricerca della University of British Columbia (UBC), capeggiata da Zach Walsh, professore associato della facoltà di psicologia all’UBC Okanagan Campus, ha condotto uno studio volto ad analizzare gli scopi del consumo di cannabis e gli effetti che essa ha su vari gruppi di soggetti. La ricerca è consistita in una revisione di 31 articoli collegati al rapporto tra uso terapeutico della cannabis e salute mentale e di 29 articoli riguardanti il rapporto tra uso della cannabis non terapeutico e salute mentale.

Per quanto riguarda l’uso terapeutico, la ricerca ha evidenziato che l’utilizzo della marijuana potrebbe aiutare gli alcolisti e le persone affette da dipendenza da oppioidi ad abbandonare le loro abitudini nocive.

[blockquote style=”1″]I risultati hanno suggerito che le persone potrebbero fare uso terapeutico di cannabinoidi allo scopo di uscire dall’utilizzo di sostanze che sarebbero potenzialmente più nocive, come gli oppioidi utilizzati come antidolorifici[/blockquote] sostiene Zach Walsh.

Inoltre, la revisione sistematica della letteratura sull’utilizzo terapeutico della cannabis e sulla salute mentale, ha anche evidenziato che essa potrebbe essere efficace per la sintomatologia depressiva, per il PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress) e per l’ansia sociale.

[blockquote style=”1″]Revisionando i risultati, seppur limitati, sull’uso medico della cannabis, sembra che i pazienti e coloro i quali hanno dato il proprio sostegno per l’uso della cannabis come strumento per ridurre i danni e per la salute mentale, abbiano motivazioni valide[/blockquote] sostiene Walsh.

 

Utilizzo non terapeutico della cannabis: le controversie

Più controverso rimane invece il tema dell’utilizzo non terapeutico della cannabis. I risultati che la revisione ha evidenziato hanno infatti portato i ricercatori a concludere che la marijuana potrebbe non essere raccomandata per condizioni psichiche come disturbo bipolare e psicosi. Inoltre intossicazioni acute o uso recente di cannabis porterebbero a deficit reversibili con una potenziale influenza sulla valutazione cognitiva, in particolare sui test di memoria a breve termine.

Il team di ricerca suggerisce che, con la possibile legalizzazione della marijuana in Canada entro il prossimo anno, sia importante identificare delle possibili modalità professionali per agevolare la salute mentale, al di là dello stigma sociale, per riuscire a comprendere meglio i rischi e i benefici connessi al suo utilizzo.

La relazione tra lo Stress e l’infertilità

Negli ultimi tempi diversi autori si sono interessati a studiare il legame che collega l’ infertilità con lo stress: sembra che tra essi si possa instaurare un doppio legame, in cui l’ infertilità stessa si tradurrebbe in una forte stressor per i soggetti che la sperimentano, e a sua volta lo stress stesso, con la sua risposta fisiologica, sembrerebbe interferire con la funzione riproduttiva.

Serena Pattara, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO 

La relazione tra stress e infertilità

Secondi diversi autori, l’infertilità può essere considerata come uno stressor cronico incontrollabile e impraticabile, che può determinare effetti negativi su entrambi i partners della coppia, investendo la loro vita emotiva sociale e di relazione (D’arrigo, 2008).
Sembra inoltre, che gli stress emozionali possano influenzare l’ovulazione e la spermatogenesi. Questa ipotesi è supportata da osservazioni condotte sia in campo animale che umano. La maggior parte dei dati raccolti dalle ricerche endocrinologiche depone per l’esistenza di un effetto soppressivo operato dallo stress sulla funzione gonadica, che dà luogo a determinati squilibri (Valoriani, 2011).

Gli stress emozionali possono influenzare l’ovulazione e la spermatogenesi e possono creare situazioni di estrema rarità (oligozoospermia) o mancanza (azoospermia) di produzione di spermatozoi. Si può ipotizzare che lo stress psicologico che include alti livelli di depressione o ansia, che consegue una diagnosi di infertilità o dovuto alle invasive tecniche procreative, può a sua volta avere un effetto sulle funzioni biologiche, particolarmente sull’equilibrio endocrino e sulle funzioni sessuali tali da creare un circolo vizioso (Basile, Fasolo, Conversano, Lenzi, 2007).

Lo stress è un potente inibitore della fecondazione e lo può fare in maniera prezigotica, quindi agendo sulla produzione delle gonadotropine (LH-FSH), inibendo spermatogenesi e ovulazione, o zigotica, inibendo la formazione dell’embrione o dell’impianto dell’embrione sulla parete dell’utero . (Piccione, Palattella, Ticconi, 2007).

Lo stress più agire creando un’infertilità indotta. Esso causa una riduzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicoli nella parte di produzione della cellula di Leydig che produce testosterone. Il testosterone serve anche per mantenere gli spermatozoi funzionanti, di conseguenza sembrerebbe che lo stress causi minore produzione di testosterone. Si genera un circolo vizioso in cui l’infertilità è generata dallo stress che diventa infertilità che diventa stress. Se una persona è stressata per l’infertilità, produce spermatozoi meno attivi, meno mobili, in minor quantità, inoltre possono verificarsi problemi di origine sessuale (Ibidem).

Agli endocrinologi e ai ginecologi è nota l’esistenza di una condizione patologica, l’amenorrea ipotalamica, per la quale viene spesso utilizzato il termine di “amenorrea da stress”. Inoltre sembra che un’iperattivazione del sistema catecolaminergico e ipofiso- surrenale, prodotta dallo stress, possa influenzare l’ovulazione, il trasporto dell’ovulo e il suo impianto, nella donna, e nell’uomo, indurre una diminuzione delle gonadotropine responsabili della spermatogenesi (Valoriani, 2011).

I primi autori a interessarsi di infertilità come fattore stressante e come una crisi che coinvolge l’interazione fra i fattori fisici che predispongono all’infertilità, furono Taymor e Bresnick nel 1979. Negli ultimi trent’anni la maggior parte delle ricerche sull’interazione fra stress emotivo e infertilità hanno dimostrato che l’infertilità causa stress ma non che lo stress causa necessariamente infertilità. Differenti fattori giocano un ruolo in questa diversità di interazioni e fra i decisivi vi è sicuramente la cronicità dello stress. Nella fase diagnostica, gli operatori dei centri di PMA dovranno tra le altre cose occuparsi dello stress cronico che la coppia ha accumulato negli anni, questo è direttamente connesso alla durata stessa dell’infertilità (Ibidem).

Diversi studi (Kaufman et al, 2000) hanno indicato che lo stress può provocare modificazioni a lungo termine in differenti sistemi endocrini. I sistemi modulatori dello stress (asse ipotalamo – ipofisi- surrene) hanno sia un effetto protettivo sia un effetto negativo che dipende dalla durata delle loro secrezioni. Nel lungo termine essi provocano quello che è stato chiamato carico allostatico, a significare un cambiamento nella stabilità di importanti sistemi fisiologici con conseguenze negative che influenzano anche la fertilità.

Selye aveva già dimostrato nel 1959 l’ atrofia ovarica nelle femmine di ratto esposte allo stress, Berga nel 1996 ha dimostrato il ruolo dello stress come potenziale inibitore dell’asse ipotalamo – ipofisi- midollare del surrene, che influenza la fertilità femminile.
Il sistema gonadico e quindi della sessualità e della riproduzione può essere inibito dallo stress. Molto noti sono gli effetti negativi dello stress sul comportamento sessuale maschile (impotenza, eiaculazione precoce) e sul ciclo mestruale femminile (amenorrea da stress) (Bottaccioli, 2005).

È stato dimostrato l’impatto negativo che lo stress ha anche sulla fertilità maschile agendo su differenti parametri associati alla qualità spermatica: questa peggiora in pazienti che si sottopongono a FIVET con microiniezione spermatica intracitoplasmatica (FIVET/ICSI), così come sembra abbastanza certo il ruolo e il meccanismo dello stress nella riduzione della qualità e della motilità spermatica (Boivin et al, 1998).

I diversi tipi di risposta allo stress, quella che si definisce la resilienza individuale, cioè la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, ha un ruolo fondamentale. Le caratteristiche psicobiologiche possono aumentare o ridurre la responsività individuale agli stressor. La donna con un’incapacità cronica a mettere in atto meccanismi di coping mostrano un maggior livello di stress anticipatorio che, dal 34 al 59% dei casi, influenza il rilascio di prolattina e cortisolo (Merari et al., 1992).

Altri autori (Demyttenaere et al., 1991) hanno proposto che queste risposte allo stress, dipendenti dai tratti di personalità dell’individuo, influenzino il tasso di probabilità di concepimento in cicli spontanei cosi come in cicli di stimolazione ovarica.
Questi risultati convincono rispetto alla necessità di valutare la componente stressante, prima e durante il trattamento dell’infertilità, attraverso l’attenzione medica e psicologica al suo significato. L’influenza delle caratteristiche di personalità, delle modalità di coping, della suscettibilità individuale allo stress e della resilienza ad essa correlata possono contribuire all’infertilità da molto prima che il problema si manifesti e venga portato all’attenzione dei clinici. Perciò lo stress acuto causato dal problema “infertilità” deve essere distinto dai livelli di stress cronico che i pazienti stanno vivendo, che possono non essere casualmente messi in relazione con l’infertilità (Newton, Hearn, Yuzpe, 1990; Facchinetti et al., 1997; Eugster et al., 2004).

Un disturbo della fertilità come abbiamo già spiegato, può portare il singolo e la coppia ad una crisi che può protrarsi per anni, con sofferenza psicologica notevole che può investire vari ambiti della vita, come quello coniugale, lavorativo, sociale e, tra questi, anche quello sessuale, provocando una serie di ripercussioni sul benessere psichico.

La diagnosi di un disturbo della fertilità è perciò un evento potenzialmente stressante e lo sarà in misura maggiore per quelle persone che percepiscono la procreazione come un qualcosa di fondamentale nella loro vita e che hanno, tra le massime aspirazioni, quella di diventare genitori: per queste persone la condizione di infertilità o di sterilità rappresenta una forte minaccia per il proprio benessere psicologico.
Per chi, invece, considera la genitorialità un’aspirazione marginale o comunque secondaria rispetto ad altre, come ad esempio la carriera lavorativa, tale condizione non sarà troppo stressante. Le diverse modalità di risposta ad uno stesso problema sono quindi dovute a fattori psicologici (Basile Fasolo, Conversano, Lenzi, 2007).

 

La valutazione cognitiva: come l’evento infertilità viene interpretato

Ogni persona sviluppa un proprio sistema per la valutazione cognitiva degli eventi di vita; essa consiste in un processo di pensiero che permette di attribuire ad un evento proprietà e caratteristiche tra cui, ad esempio, la natura benevola o malevola dello stesso e la capacità di facilitare o meno il raggiungimento di uno scopo che la persona si è proposta. Di fronte ad un evento potenzialmente stressante, la valutazione cognitiva dell’evento stesso che ogni persona mette in atto ne determina la reazione specifica (reazione di stress) (Ibidem).
Così, nel caso dei disturbi della fertilità, la diagnosi di infertilità rappresenta un evento potenzialmente stressante, cioè potenzialmente in grado di attivare una risposta di stress che potrà ripercuotersi in vari ambiti della vita, tra cui quello sessuale. Il processo di valutazione cognitiva attiva la risposta di stress se la persona considera l’evento – infertilità minaccioso per il proprio benessere individuale, per la propria autostima, per la propria identità (Froggio, 2000).

Nel caso di un disturbo della fertilità, se il sistema di significato indica il fatto di avere un figlio come una meta particolarmente ambita, il blocco di questa meta (rappresentata dal disturbo della fertilità) innescherà nella persona/coppia emozioni negative, sofferenze, pensieri e immagini intrusivi e ricorrenti che a loro volta alimenteranno il vissuto di sofferenza; se a ciò si aggiunge che la persona/coppia valuta il proprio disturbo della fertilità come un evento dipendente da cause interne, stabili e globali, tale circostanza produrrà una reazione di stress che si ripercuoterà non solo su tutto ciò che rientra nel “campo” di cui la meta fa parte (campo familiare), ma il senso di fallimento, impotenza e di frustrazione invaderà anche gli altri campi, ad esempio quello professionale, sociale, sessuale ( Basile Fasolo, Conversano, Lenzi, 2007).

 

Lo stress associato alla procreazione medicalmente assistita

Lo stress sembra essere anche, una delle conseguenze maggiormente riportate dalle coppie che accedono a un trattamento di procreazione medicalmente assistita, dovuta alle continue visite, intensi e continui controlli, esami, invasioni nella sfera più intima e personale della coppia, i farmaci, la sessualità programmata, il desiderio di arrivare alla tanto aspettata gravidanza (Visigalli, 2011).

Tutti questi esempi, danno un’idea di quanto sia grande la fatica compiuta dalla coppia, tutti questi eventi richiedono dei cambiamenti nelle abitudini della coppia, questa per affrontarli e gestirli in modo efficace, deve possedere ottime capacità di tolleranza allo stress e di adattamento. Inoltre, la coesione e la vicinanza emotiva dei membri della coppia, concorrono nel creare uno stato di stress che assolutamente non aiuta né la fecondazione né i processi fisici naturali (Ibidem).

Un altro fattore che provoca stress è il tempo: lo scorrere inesorabile del tempo, soprattutto quanto la coppia è giunta in età tarda presso un centro di PMA. È soprattutto la donna a risentire del tempo che passa, poiché è consapevole che con l’ aumentare dell’età diminuiscono le probabilità di rimanere incinta. Il fattore tempo diventa così fonte di ansia e stress (Valoriani, 2011).

È importante che durante il percorso di PMA, il supporto psicologico consideri i livelli di stress della coppia, aiuti la coppia ad affrontare le varie situazioni con strategie di coping efficaci e mantenga bassi i livelli di stress.

Una forma particolare di stress è quella che caratterizza le coppie infertili e i soggetti che si sottopongono a tecnologie di riproduzione assistita. In queste condizioni, un effetto negativo dello stress sul conteggio dello sperma, sulla motilità e la morfologia è stato osservato da Harrison e colleghi (1986) e negato da altri. Inoltre è stata dimostrata una relazione tra alessitimia e un effetto negativo sulle variabili seminali (Morelli, 1996).
Sono diversi gli studi che hanno affrontato il fenomeno, tuttavia il legame che collega l’infertilità e lo stress ancora non sembra essere del tutto chiaro, ma alla luce di quanto emerso è comunque importante far riferimento alle linee guida sul counselling della Società Europea di Riproduzione umana e embriologia, che suggerisce di rivolgere particolare attenzione agli aspetti psicologici delle coppie infertili, e soprattutto agli uomini infertili.

Lo stress è considerato un inibitore della fertilità, e una riduzione della fertilità è una risposta strategica comune di mammiferi e animali inferiori a fattori negativi di stress ambientali. In particolare, lo stress psicologico (alti livelli di depressione e ansia) è correlato a tassi di insuccesso inferiori nella gravidanza e nella IVF. Questo suggerisce che la fecondità degli uomini che attraversano un evento molto stressante potrebbe essere momentaneamente ridotta (Jannini, Lenzi, Maggi, 2007).

Queste evidenze cliniche sottolineano l’importanza di controllare i fattori stressanti, comprendere e contenere le ansie e lo stato dell’umore delle coppie infertili, anche durante l’accesso alla fase diagnostica e non solo nel proseguimento delle terapie, lavorando anche sui probabili insuccessi (Valoriani, 2011).

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