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Viaggiare con la mente: le fantasie sessuali femminili

Fantasie sessuali femminili: a chi non capita almeno una volta nell’arco della giornata di sognare ad occhi aperti? Le fantasie possono essere tra le più varie: immaginarsi su un’isola tropicale, brama di fama, vendetta ecc. Ma senza dubbio le fantasie più intriganti ed anche più comuni sono quelle che riguardano il sesso.

 

Andando oltre alle comuni definizioni, il cervello può essere considerato un organo sessuale a tutti gli effetti. Infatti anche in assenza di una stimolazione fisica, la sola fantasia sessuale è capace di produrre uno stato di attivazione biologica. La fantasia sessuale, definibile come “qualsiasi immagine mentale conscia o sogno a occhi aperti che comprende un’attività sessuale o eccitamento sessuale” (Leitenberg, & Hennin,1995), gioca quindi un ruolo centrale nel comportamento sessuale umano: la fantasia sessuale può essere talmente vivida e sentita da influenzare la prestazione sessuale reale.

Oltretutto, essendo un qualcosa di immaginario, nella fantasia si può pensare a qualsiasi cosa si desideri col vantaggio di non sperimentare imbarazzo o rifiuto sociale. Approssimativamente ben il 95% di uomini e donne confessano di avere fantasie sessuali in diversi contesti: durante il giorno, mentre si masturbano ed anche durante l’attività sessuale col partner.

Nonostante sia quindi dimostrata la frequenza e l’importanza delle fantasie sessuali al fine di esperire un senso di benessere nella vita sessuale, ancora oggi esse rientrano in quelle categorie tabù difficili da indagare. Soprattutto le donne rivelano di sentirsi in colpa a seguito di una fantasia sessuale, probabilmente perché inconsciamente la ritengono qualcosa di anormale e sbagliato. Questo senso di colpa si inscrive all’interno di una società che ha ancora molti pregiudizi sulle donne e il sesso. Sebbene numerose ricerche sostengano che la fantasia sessuale non sia segno né di insoddisfazione sessuale né di patologia (come in passato aveva sostenuto anche Freud) ma che anzi fantasticare sia un ottimo modo per mantenere il desiderio sempre acceso.

 

Quali sono le fantasie sessuali femminili più comuni?

·         Sesso con partner del passato o del presente

·         Sesso con partner sconosciuto/a

·         Sesso in luoghi diversi da quelli abituali

·         Fantasie sulle varie pratiche e posizioni

·         “Fantasia di stupro”: immaginarsi costretta ad un rapporto sessuale

 

La fantasia di stupro nelle donne

A proposito della “fantasia di stupro” una ricerca condotta dall’Università del North Texas (Bivona, & Critelli, 2008) dimostra che su un campione di 355 giovani donne il 24% delle loro fantasie sessuali appartenesse a questa categoria.  La comunità internazionali degli psicologi si interroga da anni sul motivo di queste fantasie al fine di comprendere meglio la sessualità femminile e negli anni si sono susseguite e si susseguono tutt’ora anche diverse spiegazioni del fenomeno (Pelletier, & Herold, 1988).

Infatti per alcuni psicologi la fantasia di stupro consentirebbe alle donne che hanno un elevato senso di colpa nei confronti del sesso di evitare l’ansia e il biasimo che si accompagnano a fantasie di sesso consensuale. Mentre per altri psicologici questo tipo di fantasia è semplicemente l’espressione naturale di un approccio alla sessualità aperto, eccitante e privo di sensi di colpa. La ricerca di Bivona e Critelli (2008) si focalizza sul contenuto emotivo delle fantasie di stupro, dividendole in tre tipi che coesistono su un continuum che va dal repulsivo (il 9% del totale delle fantasie di stupro), all’erotico (45%), includendo l’erotico-repulsivo (46%). Ne consegue che se le fantasie di stupro repulsive spesso generano emozioni negative per colei che le fantastica, quelle erotiche generano invece una costellazione di emozioni positive ed infine quelle erotiche-repulsive fanno esperire alla donna che le fantastica un mix di emozioni sia positive che negative.

 

Mind wandering, l’interesse delle neuroscienze per il fantasticare e le fantasie

Recentemente, la tendenza della mente umana a viaggiare con la mente, definita scientificamente “mind wandering” è stata indagata anche dalle neuroscienze. In una ricerca pubblicata su Science nel 2007 (Mason, Norton, et al.) è stato dimostrato, attraverso l’uso della risonanza magnetica funzionale (fMRI), che il mind wandering è associato a livello neurale all’attività di quella che viene definita “default mode network” (DMN), ovvero una costellazione di regioni cerebrali avente due centri principali: la corteccia anteriore mediale prefrontale e la corteccia del cingolo posteriore. Ancora ad oggi numerosi ricercatori (Smallwood, Tipper, et al., 2013) si interrogano sul perché la nostra mente sia programmata per viaggiare nello spazio e nel tempo ma per ora la spiegazione più esaustiva rimane una: la mente può vagare semplicemente perché è in grado di farlo.

 

Valentina Orlandi

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Corsa e connettività cerebrale: un legame da approfondire

Gli scan dell’ MRI rivelano che il cervello dei fondisti ha più connettività funzionale rispetto al cervello di molti individui sedentari.

Gli scan cerebrali di corridori e di adulti che non svolgono nessuna attività fisica a confronto

I ricercatori dell’università dell’Arizona hanno confrontato gli scan cerebrali di giovani corridori adulti provenienti da vari stati, con quelli di giovani adulti non coinvolti in un’attività fisica regolare.

David Raichlen, professore associato di antropologia, ha progettato lo studio con lo psicologo e professore Gene Alexander che studia l’invecchiamento cerebrale e il morbo di Alzheimer come membro dell’ Evelyn F. McKnight Brain Institute dell’Università dell’Arizona.

I due ricercatori, insieme al loro team di ricerca, hanno confrontato gli scan MRI di un gruppo di corridori maschi di varia provenienza con gli scan di giovani adulti che non erano stati coinvolti in nessuna attività atletica organizzata per almeno un anno. I partecipanti avevano pressappoco la stessa età – dai 18 ai 25 anni – e simili indici di massa corporea e livello di educazione.

Gli effetti benefici della corsa in termini di connettività funzionale

Gli scan hanno misurato la connettività funzionale a riposo, o cosa accadeva a livello cerebrale mentre i partecipanti erano svegli, ma senza svolgere delle attività specifiche.

I corridori, complessivamente, hanno mostrato una maggiore connettività cerebrale, o maggiori connessioni tra regioni cerebrali distinte, in numerose aree cerebrali, inclusa la corteccia frontale, importante per funzioni cognitive come la pianificazione, il decision-making e l’abilità di dirigere l’attenzione da un compito ad un altro.

Sono richieste, tuttavia, ricerche aggiuntive per determinare se queste differenze fisiche nella connettività cerebrale comportino anche differenze nel funzionamento cognitivo. I risultati correnti, pubblicati nella rivista “Frontiers in Human Neuroscience”, potrebbero aiutare i ricercatori a mettere le basi per capire meglio come l’esercizio influenzi il cervello, in particolare nei giovani adulti.

[blockquote style=”1″]Uno dei fattori che ha guidato questa collaborazione è costituito dal fatto che vi è stata una recente proliferazione di studi, negli ultimi 15 anni, che hanno dimostrato che l’attività fisica e l’esercizio possono avere un impatto benefico sul cervello, ma la maggior parte di questi lavori sono stati fatti su adulti più grandi[/blockquote] sostiene Raichlen. [blockquote style=”1″]Cosa accada nel cervello in età minori, non è stato mai veramente indagato molto in profondità. Noi non solo siamo interessati riguardo a ciò che accade nel cervello dei giovani adulti, ma sappiamo che vi sono cose che le persone fanno lungo tutto l’arco di vita che possono impattare con ciò che accade, ed è dunque importante capire cosa stia accadendo a livello cerebrale ad età minori.[/blockquote]

I risultati hanno gettato nuova luce sull’impatto che correre, come forma particolare di esercizio, può avere a livello cerebrale.

Studi precedenti avevano mostrato che attività che richiedono un controllo fine motorio, come suonare strumenti musicali, o che richiedono alti livelli di coordinazione occhio-mano, come giocare a golf, potrebbero alterare la struttura e le funzioni cerebrali. Tuttavia, pochi studi avevano prestato attenzione agli effetti di attività atletiche ripetitive che non richiedono un controllo motorio così preciso, come correre. I risultati di Raichlen e Alexander suggeriscono che questi tipi di attività potrebbero avere simili effetti rispetto a quelle elencate precedentemente.

[blockquote style=”1″]Queste attività, che la gente considera ripetitive, coinvolgono molte funzioni cognitive complesse – come la pianificazione e il decision – making, che potrebbero avere effetti tangibili a livello cerebrale[/blockquote] sostiene Raichlen.

Da quando la connettività funzionale appare spesso alterata negli adulti più anziani ed in particolare in quelli affetti da sindrome di Alzheimer o altri disordini neurodegenerativi, questo risulta un importante fattore da considerare. Ciò che i ricercatori apprendono dal funzionamento cerebrale di giovani adulti, potrebbe avere implicazioni per la possibile prevenzione di disordini cognitivi “età-correlati” in un secondo momento.

Scaffolding: istruzioni pratiche per sostenere il volo dei bambini

Lo scaffolding diventa metafora delle strategie di sostegno offerte da una persona più esperta ad un’altra persona: attraverso la collaborazione, l’esempio o istruzioni esplicite, l’esperto fornisce una impalcatura che sostiene e struttura il loro comportamento, e che viene un po’ alla volta interiorizzata

 

Cosa si intende per Scaffolding?

In origine, si riferisce al lavoro degli operai edili che, per realizzare più agevolmente costruzioni o riparazioni, innalzano una impalcatura, o ponteggio (scaffold). Questo termine assume una nuova connotazione psicologica nel 1976: Wood, Bruner e Ross pubblicano un articolo, destinato a diventare famosissimo, nel quale lo scaffolding diventa metafora delle strategie di sostegno offerte da una persona più esperta ad un’altra persona, che è in fase di apprendimento. Attraverso questa impalcatura, il bambino si “arrampica” per raggiungere un livello superiore.

Sostegno, appunto, non una mera azione formativa: l’adulto (o un coetaneo più esperto) utilizza azioni e tecniche utili ad agevolare l’apprendista (il bambino) nell’effettuare un compito, raggiungere un obiettivo o risolvere un problema, quando non è ancora in grado di farlo da solo. Attraverso la collaborazione, l’esempio o istruzioni esplicite, l’esperto fornisce ai bambini “una impalcatura che sostiene e struttura il loro comportamento, e che viene un po’ alla volta interiorizzata” (Berti e Bombi, 2001). Tale supporto sarà provvisorio e limitato al tempo strettamente necessario affinché il bambino maturi le competenze necessarie a svolgere il compito in autonomia. L’adulto si pone quindi in un ruolo di appoggio, che permette al bambino di emanciparsi progressivamente.

 

Scaffolding e fading

Il processo di graduale acquisizione dell’autonomia da parte del bambino venne definito da Collins ed altri (1995) fading. Attraverso un uso sapiente di scaffolding e fading è quindi possibile costruire la fiducia del bambino nelle proprie possibilità. Ma attenzione: lo scaffolding non è da intendersi come sostegno esclusivamente cognitivo o metacognitivo! La sua valenza si estende anche nel campo emotivo, perché nello stimolare il bambino ad apprendere, lo si incoraggia a superare gli ostacoli, con una ricaduta positiva in termini di motivazione, autostima ed autoefficacia percepita.

 

Come attuare lo scaffolding?

La realizzazione pratica del processo consiste, in primis, nell’individuare il contesto nel quale agire, ovvero quella che Vygotskiji (1990) definì ZSP: zona di sviluppo prossimale, cioè la distanza tra il livello di sviluppo effettivo raggiunto dal bambino e il livello di sviluppo potenzialmente raggiungibile con la collaborazione di un adulto. L’adulto dovrebbe porre al bambino “problemi di livello superiore rispetto alle sue attuali competenze, ma non così difficili da risultargli incomprensibili.” (Devescovi et all., 2003)

Le strategie spontanee messe in atto dai genitori per stimolare gli apprendimenti di base (parlare, camminare, andare in bicicletta etc) sono esemplificative del concetto di scaffolding, come descritto da Cazden (1983), e possono essere utili come esempio pratico da estendere all’apprendistato cognitivo. Nel campo del linguaggio, ad esempio, gli adulti forniscono l’intelaiatura di sostegno all’apprendimento attuando lo scaffolding: inizialmente giocano tutti i ruoli delle interazioni e rispondono ad ogni tentativo di comunicazione del bambino, per poi, in modo graduale, lasciare ai bambini maggiore spazio, incoraggiandoli a dimostrare le competenze acquisite. In pratica, il genitore “smantella” l’impalcatura che ha fornito, man mano che il bambino padroneggia nuove capacità.

 

Le “mosse di scaffolding”

Devescovi (2003) riassume in questo modo le 5 mosse che, secondo Bruner, il caretaker deve eseguire per mettere in pratica lo scaffolding:

  1. Reclutamento: catturare l’interesse del bambino e spronarlo a mettersi alla prova
  2. Riduzione dei gradi di libertà: semplificare il compito, riducendo il numero dei passaggi necessari per raggiungere la soluzione
  3. Guida ed incoraggiamento: tenere alto il livello di motivazione del bambino in modo tale che la soluzione del problema assuma per lui un interesse autonomo;
  4. Indicazione dei punti critici: sottolineare continuamente gli aspetti più importanti del compito, in modo che il bambino individui le discrepanze tra ciò che ha prodotto e la soluzione corretta
  5. Dimostrazione: elaborare i tentativi che il bambino ha già effettuato per la soluzione del problema. In seguito il bambino elaborerà a sua volta il modello fornito dall’adulto e lo perfezionerà ulteriormente.

La tossicodipendenza in Requiem for a dream (2001)

Requiem for a dream (2001) è la drammatica vicenda di Harry, Marion, Tyrone e Sara, tre giovani adulti e una signora anziana affetti da tossicodipendenza: il film dipinge un esempio di tale condizione attraverso i sintomi predominanti, tra cui i crimini effettuati e l’ingente quantità di tempo per procurarsi la sostanza, il consumo nonostante il peggioramento delle condizioni psicofisiche, i deliri e le allucinazioni indotte dall’uso.

 

La trama di Requiem for a dream

Dal punto di vista psicologico la solitudine e l’egoismo sembrano gli elementi preponderanti in ciascun personaggio costretto ad affrontare isolatamente la sofferenza derivata dalla dipendenza e dai traumi pregressi. Partendo dalla coppia madre-figlio, entrambi i protagonisti giocano a recitare una farsa l’uno in presenza dell’altra, fingono un benessere che non possiedono, negano la realtà, si illudono di poter cambiare la propria e altrui situazione, senza affrontare, di fatto il problema principale che li affligge: la morte del terzo membro della triade famigliare, il padre di Harry, nonché marito di Sara.

Il figlio promette ma non mantiene, millanta una vita che non ha e non riesce a costruire a causa della dipendenza, vorrebbe curarsi della madre, ma si affretta a procurarsi l’eroina per non sentire le emozioni disturbanti: oltre a questo, intuisce la necessità di un aiuto esterno, ma anche l’impossibilità di rivolgersi a qualcuno di affidabile; il padre non c’è, la madre finisce anch’essa sotto l’effetto di stupefacenti, il suo migliore amico è continuamente nei guai con la giustizia e la sua ragazza sembra più interessata alla sostanza che all’amore. Non possedendo le risorse per sostenere la rabbia, il vuoto e la disperazione, e in assenza di figure intime e supportive e di interessi alternativi, Harry si inietta una dose dietro l’altra, ricorrendo ad una strategia che garantisce una gratificazione immediata, ma un malessere repentino e implacabile.

Anche Sara si ritrova sola ad affrontare l’incapacità di gestire l’aggressività del figlio presente per derubarla e vantarsi di una vita perfetta e assente per perseguire i suoi scopi antisociali: senza il marito e circondata dalle amiche frivole e invidiose, ingerisce le amfetamine in quantità sempre più elevate con gravi risvolti psicotici: la percezione di sé, degli altri e del mondo ruota attorno alla trasmissione televisiva che assume significati abnormi e distorti, il tema del giudizio è pervasivo, le idee di riferimento e persecutorie ne costituiscono un esempio lampante, mentre l’estetica diventa il solo strumento di approvazione e riscatto per prevenire la delusione esterna e interna.

Diminuire e cambiare le porzioni alimentari è un’impresa ardua che implica uno sforzo eccessivo, non compaiono altre passioni a parte quel programma televisivo e le relazioni sono intrise di superficialità e insoddisfazione: con il passare del tempo la sostanza non basta più a sortire un beneficio imminente e l’aumento delle quantità porta rapidamente agli effetti indesiderati, così l’euforia, l’irritabilità, i deliri e le allucinazioni prendono il sopravvento senza che la donna si accorga della gravità della condizione.

Verso il finale, la trama delirante aggiunge un elemento prezioso sulla relazione madre-figlio: all’interno dello show, oltre alla Sara curata e apprezzata, compare un Harry mai visto, un adulto che ha superato i problemi di dipendenza e si è costruito una quotidianità fatta di lavoro e famiglia, un quadro che ricorda la negazione della realtà percepita come intollerabile e disturbante nella quale il giovane è sull’orlo del precipizio a causa dell’eroina, ricoverato in fin di vita in attesa del ritorno in carcere, solo e abbandonato dalla madre attanagliata dal crollo psicotico e dalla fidanzata ormai sulla via della prostituzione a causa del bisogno impellente delle dosi. La rappresentazione irreale di Harry è significativa del senso di fallimento di Sara che in quel momento non conosce la condizione attuale del figlio, ma ne immagina le conseguenze: inconsciamente la donna avverte la pericolosità della dipendenza da eroina e i suoi potenziali effetti, ma non riesce a fornire l’aiuto necessario.

La lettura psicologica di Requiem for a dream

Relazioni disfunzionali, vissuti di abbandono e la sostanza come gratificazione immediata

Le disfunzioni relazionali si manifestano anche nella coppia sentimentale Harry-Marion: la scena emblematica che definisce i ruoli interni è il sogno ricorrente di Harry intento a rincorrere Marion distratta e sfuggente. Harry, infatti, cerca spesso un contatto emotivo con la partner apparentemente poco coinvolta nel rapporto che assume una veste conflittuale quando manca il denaro per procurarsi la sostanza. In quegli attimi, Marion non gestisce più l’astinenza e diventa aggressiva nei confronti di Harry, fino ad allontanarsi e a mentire sulla prostituzione, che affronta con disperazione e in solitudine: anche lei vive il dramma di una famiglia che l’ha abbandonata in un costoso appartamento e ha delegato al terapeuta il compito di curarla dalla dipendenza, una situazione che lascia intendere la paura del pregiudizio in una famiglia in cui la visibilità ha un valore imprescindibile e la tossicodipendenza si pone come un problema da scacciare con il distacco e i “regali”, più che da avvicinare e affrontare con il sostegno e l’unione tra i membri.

Da un lato Harry sembra intenzionato a sostenere la partner, ma dall’altro ne comprende l’impossibilità di occuparsene: in un letto di ospedale con il braccio amputato, il giovane sprofonda nello sconforto, realizzando di non avere nessun al mondo, nemmeno Marion, con cui condividere il dolore lacerante. In questo attimo di profondo strazio sembra trasparire una concezione della partner, e segretamente della madre, come inaffidabile, che non l’ha protetto, né comparirà mai in suo soccorso, forse perché intuisce di patire una condizione analoga, oppure un senso di colpa per essere finito nei guai e non aver mantenuto la promessa di aiuto.

E infine anche Tyrone si trova ad attraversare l’abbandono e la solitudine, ma a differenza degli altri, il suo caso appare meno definito. Il ricordo d’infanzia di una madre accudente e responsiva si pone come una barriera protettiva nelle situazioni dove prevale la tristezza, un’immagine che “medica” insieme alle sostanze le emozioni disturbanti. Non si comprende la storia di Tyrone, ciò nonostante tale ambiguità può rivelare alcune informazioni sui significati personali: si conosce la madre attraverso un episodio preservato nella mente e non raccontato, nella quale la figura di attaccamento è cristallizzata in una cornice idealizzante. L’unica rappresentazione, per giunta positiva e incontaminata dalla narrazione, suggerisce una tendenza a proteggere il genitore attribuendogli una funzione esclusivamente protettiva: i lati negativi non compaiono, non si dispone pertanto di una visione integrata di questa mamma che non si sa bene che fine abbia fatto, ma resta vivida nei ricordi infantili e culla ancora il suo bambino, ormai cresciuto e con problemi ben più gravi. Il silenzio di Tyrone rivela una possibile percezione degli altri come inaffidabili, da qui il senso di solitudine da cui si difende appigliandosi a quell’inconfessabile immagine per ricostruire in modo allucinatorio l’unica situazione di amore e contenimento verosimile custodita interiormente.

La tossicodipendenza nell’adolescenza

Come si deduce dal film, la tossicodipendenza interferisce con i pensieri, la percezione, le emozioni e più in generale i rapporti interpersonali, impedendo un’elaborazione costruttiva del trauma. Il consumo delle sostanze si rivela in tal senso una strategia di risoluzione dei problemi che garantisce una gratificazione nel qui ed ora, ma con effetti pericolosi per il benessere psicofisico. È necessario ricordare la frequenza di eventi traumatici irrisolti, passati e recenti, medicati con le sostanze: spesso l’esordio e le ricadute avvengono in concomitanza di alcune circostanze che il paziente interpreta come particolarmente rilevanti, connessi prevalentemente alle dinamiche relazionali che concernono le figure primarie o secondarie di attaccamento.

Nel film, ad esempio, si intravedono tematiche di lutto e abbandono da parte dei caregivers, ma anche strategie educative permissive, in cui manca una compresenza di normatività e sostegno emotivo, particolarmente importante nella fase adolescenziale in cui sono cruciali la separazione-individuazione, la costruzione dell’identità, nonché l’interiorizzazione delle norme e dei comportamenti da attuare per non incorrere nelle condotte a rischio per la salute psicofisica.

Le sostanze in adolescenza possono assumere un significato legato alla sperimentazione, tuttavia è fondamentale tenere presente il rischio di esacerbazione o di incursione in una patologia di abuso o dipendenza in età adulta. In questo senso, un’adeguata presenza famigliare, costituita dall’autorevolezza in primis, è necessaria per supervisionare l’andamento delle condotte e fornire il supporto adeguato, mentre la scuola, con l’aiuto dello psicologo, potrebbe svolgere un ruolo importante nella prevenzione e, per di più, nella promozione di comportamenti creativi e costruttivi che sostituiscano i comportamenti pericolosi.

Per tale ragione è imprescindibile l’analisi dei bisogni, pensieri ed emozioni correlati all’uso, nonché dei contesti in cui il giovane sperimenta prevalentemente la sostanza (solitudine o in compagnia) per aiutarlo ad auto-osservare e a circoscrivere l’esperienza in termini emotivi, cognitivi e comportamentali. I significati e i temi frequenti della personalità costituiscono un aiuto per la valutazione delle risorse e dei nodi problematici; ad esempio, in un’organizzazione di significato personale di tipo DEP (Depressiva), nella quale predominano il senso di solitudine, impotenza e  fallimento, la sostanza è assunta in modalità decisamente più distruttive e talvolta suicidarie, rispetto ad un’organizzazione di tipo DAP (Disturbi Alimentari Psicogeni) in cui il consumo è ponderato e connesso al tema della definizione di sé (Guidano, 1988).

I bisogni implicati nell’abuso e nella dipendenza si ricollegano sovente ai compiti di sviluppo principali che concernono, come si è detto, la costruzione di un’identità propria, la separazione-individuazione dalla famiglia e dai pari, nonché la capacità di integrare diverse visioni di sé, dell’altro e della realtà, o ancora, il primo confronto con la sfera dei rapporti sentimentali e l’integrazione di varie tipologie di relazioni. D’altra parte non è raro riscontrare problemi legati alle sostanze o frequenti episodi di abusi e maltrattamenti nelle storie famigliari: laddove sia possibile, è fondamentale allargare l’intervento alla famiglia e ridurre il rischio di intensificazione e aggravamento dei danni psicologici derivati.

Per quanto riguarda i rapporti secondari di attaccamento, nei casi di tossicodipendenza si verifica di frequente, già a partire dall’adolescenza, l’aggregazione a compagnie o a legami sentimentali superficiali, nei quali la sostanza diventa il principale interesse in comune: le difficoltà interpersonali, come le separazioni o i litigi, sorgono così quando alcuni membri decidono di sottoporsi ad un trattamento di disintossicazione e quindi di allontanare la quotidianità precedente.

Nelle ricadute, ad esempio, si evidenzia un riavvicinamento a conoscenze coltivate in vista degli stupefacenti e un allontanamento da quelle che ne disapprovano l’utilizzo: i pari costituiscono una risorsa essenziale in adolescenza e un importante fattore protettivo è proprio la qualità di questi legami che per essere adeguata dovrebbe supporre un’interazione basata sulla reciprocità, il dialogo e l’ascolto, una condivisione di attività piacevoli e strutturate come lo sport, il teatro, la danza o il cinema, in grado di stimolare un impegno e un interesse produttivo. La coltivazione di passioni alternative alla sostanza potrebbe costituire un’importante risorsa psicologica per le sfide evolutive: non bisogna dimenticare che l’insorgenza di una patologia legata alle sostanze si dispiega attraverso l’interazione di vari fattori di rischio e protezione. Di conseguenza, le situazioni più critiche non sono necessariamente costituite da una predominanza di elementi pericolosi, bensì da determinati dati particolarmente salienti per il soggetto che riguardano in misura maggiore i rapporti  interpersonali significativi e le risorse psicologiche nelle gestione delle situazioni emotivamente impattanti: per queste motivazioni, è necessario esaminare la relazione tra rischio e protezione in uno specifico individuo, tendendo conto dell’interpretazione soggettiva degli eventi e del  significato attribuito.

Infine, quando compaiono le manifestazioni psicotiche, è importante comprendere la provenienza del disturbo: nel caso sia indotto dalle sostanze, gli episodi si verificano esclusivamente nelle fasi di intossicazione e disintossicazione.

Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Sigmund Freud e il Perturbante

Se la teoria psicoanalitica ha ragione di affermare che ogni affetto connesso con una emozione, di qualunque tipo essa sia, viene trasformato, in angoscia qualora abbia luogo una rimozione, ne segue che tra le cose angosciose dev’essercene un gruppo nel quale è possibile scorgere che l’elemento angoscioso è qualcosa di rimosso che ritorna…il perturbante (Unheimliche).

 

Il Doppio e la rimozione

Per Freud, il Doppio è connesso al concetto di rimozione. L’Io, attraverso la scissione, proietta sull’Altro desideri rimossi e pulsioni inconsce; proprio questi aspetti, che lo differenziano dal Simile, gli garantiscono la negazione e gli permettono di dire “Io non sono Lui”.

Freud aveva teorizzato come l’Io volesse mantenere una certa unitarietà individuale e combattere quella tendenza alla duplicazione, alla frammentazione e alla scissione, che caratterizza ogni essere umano. Questa tendenza trova più libera espressione nei sogni, popolati da personaggi che sostanzialmente non sono altro che “doppioni” del sognatore. Essi rappresentano personificazioni di aspetti parziali della personalità, di suoi desideri e tendenze contraddittori e censurati dalla coscienza della veglia.

Tramite questi “doppioni”, i desideri proibiti possono finalmente trovare sfogo e appagamento, proprio per mezzo del sogno notturno. Egli aveva perciò individuato una caratteristica fondamentale del Doppio, e cioè la sua capacità di poter concretizzare tutte le occasioni non vissute dall’Io e tutte le possibilità che la persona non era stata in grado di sfruttare. Volendo analizzare i due termini  Heimliche/Unheimliche possiamo notare che:

  • Heimliche significa tranquillità del focolare domestico, è il familiare, l’intimo, l’abituale, ciò che conosciamo e che ci conferisce stabilità.
  • Unheimliche (il perturbante) descrive essenzialmente la sensazione di spaesamento e di estraniamento. E’ il non nascosto, è tutto ciò che non dovrebbe essere rappresentato e che dovrebbe restare segreto, nascosto, intimo ma che invece è riaffiorato, e riemerso, è l’estraneo segretamente familiare che ci perturba, ci mette in uno stato di incertezza e di inquietudine.

Secondo Freud il perturbante è qualcosa che prima era familiare nella vita psichica fin dai tempi antichissimi (credenze superate o rimosse che sopravvivono nei primitivi e, soprattutto, nei bambini) e che poi è stato estraniato dal soggetto attraverso il processo di rimozione; quindi da una parte è qualcosa di superato e dall’altra di rimosso che ritorna.

 

Tra il perturbante e il familiare

L’Unheimliche, quindi, analizzandolo approfonditamente, non risulta altro che Heimliche poiché il perturbante si rivela familiare, l’angoscioso fa in realtà parte della vita psichica fin dai tempi più antichi e si è estraniato da essa solo per mezzo del processo di rimozione. Heimliche afferma Freud «è quindi un termine che sviluppa il suo significato in senso ambivalente, fino a coincidere in conclusione col suo contrario».

Il rimosso riguarda non la realtà materiale ma la realtà psichica. Il rimosso è legato alla libido infantile, è un desiderio infantile; è qualcosa che è accaduto molto tempo fa e che la mente ha rimosso, però ciò che viene rimosso in realtà non è superato, quindi basta un input, un elemento in grado di farlo riemergere e riaffiorare. Molto spesso il rimosso è destinato a ritornare.

Il meccanismo psichico che permette queste rappresentazioni, queste riedizioni del passato, è quello che Freud ha chiamato coazione a ripetere. Il momento in cui il perturbante si presenta è quando il confine tra fantasia e realtà si fa labile, quando appare realmente ai nostri occhi qualcosa che fino a quel momento avevamo considerato fantastico: qualcosa di familiare che è stato rimosso. All’origine della vita godiamo dell’illusione del narcisismo, di essere tutto e tutt’uno con il mondo. Seguono poi le fatiche del riconoscimento del distacco, delle separazioni, delle differenziazioni; per essere “uno” bisogna pagare il prezzo di non essere “tutto”.

Come sottolinea la psicoanalisi, tenere insieme tutte le nostre parti è faticoso; non stupisce che, sedotti dalla possibilità di proiettare su un’altra immagine i nostri aspetti più scomodi, proibiti e inquietanti, ricorriamo alla scissione come difesa. Il problema, infatti, non è la scissione ma quando il rimosso ritorna. In realtà fa parte della storia evolutiva di ciascuno, è la caratteristica comune dello strutturarsi dell’Io, che solo talvolta sfocia nella patologia.

Quindi il perturbante è quell’aspetto di noi che sconvolge perché corrisponde alla nostra oggettivazione, perché vi riconosciamo noi stessi al di fuori di noi. Esso può rappresentare un rafforzamento narcisistico dell’identità, ma può anche assumere il connotato inquietante della persecuzione.

Freud afferma che nel corso della storia l’uomo ha dovuto subire tre gravi ferite narcisistiche. Dapprima, con la rivoluzione copernicana, ha dovuto rinunciare all’illusione di essere il centro dell’universo; poi, con Darwin, di non discendere direttamente da dio; con la psicoanalisi, infine, scopre amaramente di non essere padrone neppure in casa propria, poiché l’Io cosciente non è che la minuscola punta emergente dell’iceberg che metaforicamente rappresenta l’intera personalità.

Il ruolo della famiglia nel disturbo ossessivo compulsivo nei bambini: evoluzione, mantenimento dei sintomi ed opzioni terapeutiche

Il coinvolgimento dei familiari nelle ossessioni e nelle compulsioni in in casi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini viene definito in letteratura come “family accomodation”: esso fa riferimento al modo in cui i i genitori, aiutano i figli nei rituali compulsivi, fornendo rassicurazione o modificando le loro abitudini.

Elisabetta Momo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, Milano

 

Il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) è un disturbo d’ansia caratterizzato da ossessioni, ossia pensieri intrusivi, ripetitivi e non desiderati e comportamenti o rituali mentali che hanno lo scopo di controllare l’ansia, definiti compulsioni. A differenza delle preoccupazioni ordinarie, le ossessioni e le compulsioni, occupano un tempo consistente nella vita del soggetto (più di un’ora al giorno) e interferiscono con le routine quotidiane, causando una compromissione della qualità di vita. Il disturbo ossessivo compulsivo ha una prevalenza del 2-3% nei bambini, con implicazioni in numerosi ambiti (Mullick et al. 2005; Valleni-Basile et al. 1995).

 

Il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini

La diagnosi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini può risultare difficoltosa in questa fascia d’età in quanto i sintomi possono non essere riconosciuti come tali dalla famiglia, dagli insegnanti e dai pari.

Spesso le ossessioni e compulsioni possono venire interpretate come oppositività, inosservanza delle regole o preoccupazioni prive di senso. Inoltre i bambini tendono a nascondere i loro sintomi, soprattutto a scuola. I genitori a casa, invece, possono osservare solo il risultato del disturbo: ore trascorse in bagno o soli nella propria camera, capricci per azioni che non possono attuare a modo loro.

La sintomatologia ossessiva nel disturbo ossessivo compulsivo nei bambini si manifesta con tematiche che riguardano la contaminazione, le aggressioni sia lesive che mortali, la simmetria e l’esattezza. Durante l’adolescenza le ossessioni posso evolversi e riguardare prevalentemente tematiche religiose o sessuali (Geller et al. 2001). Le compulsioni più frequenti invece, riscontrate nell’età evolutiva includono il lavarsi e pulirsi le mani, contare, pregare e controllare (Deacon et al. 2004).

 

Il ruolo della famiglia nello sviluppo e nel mantenimento del disturbo

In letteratura molte ricerche hanno indagato quali siano i fattori legati allo sviluppo e al mantenimento del disturbo ossessivo compulsivo. Tra i fattori individuati sembrano avere un ruolo importante quelli legati alla famiglia (Waters e Barrett 2000). Dato che bambini e adolescenti trascorrono numerose ore al giorno a contatto con la famiglia spesso questa viene attivamente coinvolta nei sintomi. La costante ricerca di rassicurazioni alle loro indecisioni e ai loro dubbi e l’evitamento di situazioni ansiogene portano i bambini affetti da Disturbo Ossessivo Compulsivo a diventare estremamente dipendenti dai familiari, i quali sono spesso portati a sostituirsi nei compiti e nelle responsabilità ai propri figli (Laidlaw et al. 1999).

Il coinvolgimento dei familiari nelle ossessioni e nelle compulsioni in in casi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini viene definito in letteratura come “family accomodation” (Lebowitz e Bloch, 2012). Un concetto che fa riferimento al modo in cui i familiari, solitamente i genitori, aiutano i figli nei rituali compulsivi, fornendo rassicurazione o modificando le loro abitudini allo scopo di allievare o di permettergli di evitare l’ansia. La famiglia può intervenire nel disturbo sia direttamente, inserendosi nei rituali, che indirettamente, modellando ad esempio la routine quotidiana attorno al sintomo. Si è visto che alti livelli di family accomodation sono associati ad una compromissione funzionale più grave nei bambini e a maggiori sintomi internalizzati ed esternalizzati (Storch et al. 2007).

La risposta familiare può essere descritta su un continuum che va dal genitore accomodante (eccessivamente premuroso) a quello antagonista (eccessivamente critico). Naturalmente si possono riscontrare famiglie nelle quali un genitore reagisce più sul versante accomodante e uno all’opposto, su quello antagonista. La risposta accomodante è caratterizzata solitamente da coinvolgimento e supporto dato al rituale dal caregiver, al fine di aiutare il bambino riducendo lo stress. Il genitore antagonista, invece, reagisce in maniera critica e ostile ai sintomi e si rifiuta di partecipare ai rituali. Può arrivare a forzare il bambino a esposizioni traumatiche allo stimolo ansiogeno, pur di interrompere i comportamenti compulsivi. In ogni caso si è dimostrato come entrambe le risposte genitoriali tendano a rinforzare il sintomo, aumentandone la frequenza e l’intensità (Calvocoressi et al. 1995; Lebowitz et al. 2012).

Oltre alla specifica risposta comportamentale che i caregiver forniscono ai figli durante i rituali, altre variabili, più legate all’ambiente familiare, sono implicate nello sviluppo del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini. Queste possono essere delle caratteristiche dello stile genitoriale. L’espressione manifesta di emozioni connotate da criticismo e ostilità è più frequentemente associata a famiglie con bambini che hanno sviluppato un disturbo ossessivo compulsivo, inoltre è anche correlata alla gravità della sintomatologia (Renshaw et al. 2003; Van Noppen et al. 2009). Altre caratteristiche genitoriali associate possono essere un’eccessiva protezione o controllo, una scarsa fiducia nelle capacità del bambino, la mancanza di rinforzi e di stimolazione all’autonomia, basse abilità di problem solving e un atteggiamento connotato da senso di colpa. Queste caratteristiche favoriscono lo sviluppo nel bambino di comportamenti evitanti, preoccupazione e timore verso il mondo. Inoltre anche eventuali psicopatologie genitoriali, in particolare i disturbi d’ansia, possono esacerbare la sintomatologia del bambino (Kohlmann et al. 1988).

Studi condotti su adulti affetti da DOC e le loro famiglie, hanno dimostrato una scarsa correlazione tra la gravità dei sintomi e il livello di coinvolgimento dei familiari nella messa in atto di rituali. La relazione tra le due variabili appare quindi più forte solamente in casi di disturbo ossessivo compulsivo nei bambini, dove il tempo trascorso a casa e la dipendenza dai genitori sono maggiori (Amir et al. 2000; Albert et al. 2010).

Le famiglie entrano pertanto in un circolo vizioso che si autoalimenta in questo modo: il disturbo genera un carico di stress considerevole per i parenti del giovane paziente che, per alleggerirlo, si intromettono nel sintomo, cercando così di alleviare l’ansia. Ma come si è visto l’intervento diretto o indiretto nei rituali non fa che mantenerli, se non aggravarli in intensità e frequenza. Così facendo il carico di stress per la famiglia aumenta ulteriormente.

 

Il trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini

Visti i numerosi studi che dimostrano l’importanza che il ruolo della famiglia ha nel disturbo ossessivo compulsivo nei bambini, i trattamenti per tale disturbo devono tenere conto di questa importante variabile. Il trattamento di prima linea per il DOC è la terapia cognitiva comportamentale (CBT) in abbinamento a psicofarmaci (King et al. 1998). Tuttavia una parte di pazienti non mostrano miglioramenti significativi ai follow up (Garcia et al. 2010). Questo dato può indicare che ci siano alcune variabili che pregiudicano l’efficacia del trattamento.

Una di queste potrebbe essere la family accomodation, che nella CBT centrata prevalentemente sul bambino potrebbe essere sottostimata. Pertanto il coinvolgimento della famiglia è ampiamente consigliato, in modo da fornire un supporto globale al paziente e offrire ai familiari gli strumenti per aiutare il bambino ad applicare il trattamento anche nella quotidianità (POTS, 2004).

Esistono numerosi fattori che rendono il coinvolgimento dei familiari necessario per un buon esito della terapia. Innanzitutto, attraverso una prima fase di psicoeducazione, i familiari possono comprendere la genesi e le problematiche tipiche del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini. In secondo luogo è utile intervenire sul coinvolgimento dei familiari nei rituali, in modo da interromperlo. Infine è importante insegnare ai genitori ad essere dei coach per i propri figli a casa, allo scopo di aumentare l’adesione e la motivazione al trattamento.

In una CBT basata sulla famiglia l’obiettivo del trattamento è quello di migliorare le relazioni familiari e ridurre la sintomatologia ossessiva compulsiva (O’Leary et al. 2009; Kircanski et al. 2011). L’intervento può comprendere delle sessioni individuali o di gruppo con i giovani pazienti e con i genitori separatamente, accompagnate da sessioni familiari con genitori e figli insieme. La CBT familiare per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini si compone di alcune fasi:

  • Psicoeducazione: in questa prima fase l’obiettivo è quello di fornire informazioni circa il disturbo. La sua natura, le cause, l’incidenza sulla popolazione, la durata, i fattori che influiscono su di esso e le opzioni terapeutiche vengono discusse con bambini e familiari. È importante per tutta la famiglia esternalizzare il problema, ossia attribuire i sintomi al disturbo e non al modo di essere del figlio, passando quindi da un’attribuzione interna ad una esterna. Inoltre è utile modificare la credenza, errata ma diffusa, che il paziente possa controllare il sintomo. Questo è importante soprattutto al fine di ridurre criticismo e atteggiamenti ostili nei confronti del bambino, che acuiscono sempre di più la sua ansia. Un ultimo scopo di questa fase è quello di far elaborare il fatto che sia il paziente che i familiari hanno un’influenza sul sintomo e che quindi tutti devono essere motivati e orientati allo stesso obiettivo.
  • Fornire strumenti ai genitori: in questa fase vengono descritti ai genitori degli strumenti da poter applicare quotidianamente allo scopo di aumentare la motivazione al cambiamento del proprio figlio e al contempo gestire efficacemente la sintomatologia. Questi strumenti possono comprendere la gestione dell’attenzione come mezzo di rinforzo, negandola al comportamento indesiderato e dandone di positiva al comportamento adeguato. Altra tecnica utile è quella della token economy, ossia un sistema a punti e rinforzi utilizzato per raggiungere un obiettivo prefissato e concordato col bambino. Infine può essere importante fornire metodologie per aiutare il figlio nella regolazione delle proprie emozioni.
  • Esposizione e prevenzione della risposta (EX/RP): questa tecnica prevede un lavoro attivo da parte di genitori e figli insieme. Ha lo scopo di esporre gradualmente il bambino allo stimolo ansiogeno e contemporaneamente di farlo astenere dall’agire la compulsione. Viene quindi preventivamente creata una scaletta gerarchica delle ossessioni e compulsioni, con il relativo grado d’ansia sperimentato in ognuna. Saranno affrontate per prime le ossessioni con intensità minore, fino ad arrivare a quelle che creano maggior disagio.
  • Homework: i compiti a casa sono tipici delle CBT. Vengono assegnati allo scopo di portare il paziente a raggiungere la padronanza sul proprio disturbo e di applicare quotidianamente gli strumenti appresi in seduta. Nel trattamento del disturbo ossessivo compulsivo nei bambini gli homework possono riguardare i vari step dell’esposizione. I genitori in questa fase avranno il compito di spronare i propri i figli a padroneggiare l’ansia durante l’esposizione, incoraggiandoli in maniera non critica. Dovranno inoltre gestire il proprio stress nell’assistere i figli in questa delicata fase e monitorare progressi e difficoltà incontrate, in modo da fornire informazioni essenziali al terapeuta.
  • Training per la gestione dell’ansia: questa tecnica è particolarmente utile per i pazienti con prevalenti sintomi internalizzati. Può prevedere strumenti come il rilassamento muscolare o la respirazione diaframmatica. Anche in questa fase i genitori possono essere coinvolti per apprendere loro stessi le tecniche, in modo da spronare il figlio ad utilizzarle durante le situazioni ansiogene e le compulsioni o per utilizzarle loro stessi.

Nei trattamenti CBT per il disturbo ossessivo compulsivo particolare attenzione va posta su quelle caratteristiche che possono pregiudicare il buon esito della terapia e favorire il dropout. In letteratura i principali fattori identificati sono: la family accomodation, l’atteggiamento antagonista o al contrario accomodante dei genitori, il criticismo ostile ed un eccessivo coinvolgimento emotivo parentale (Chambless et al.1999). Questi fattori di rischio andrebbero integrati nella terapia ed affrontati con homework specifici per questi aspetti.

In conclusione numerosi studi, come quello recente di Freeman e colleghi del 2014, hanno mostrato come la CBT familiare possa essere un trattamento molto efficace per il disturbo ossessivo compulsivo nei bambini, non solo per gli adolescenti e i pre-adolescenti, ma anche per i bambini più piccoli, dai 5 agli 8 anni. Per aumentare ulteriormente l’efficacia della terapia potrebbe essere preso in considerazione in ricerche future il coinvolgimento, in alcune fasi del trattamento, dei fratelli del giovane paziente (Smorti, 2012). Questa variabile, se trascurata, condurrebbe ad una sottostima di un’importante fattore quale la relazione fraterna, che potrebbe essere sia un ostacolo al trattamento o al contrario un’importante risorsa da sfruttare. Integrandola, invece, si potrebbe avere una visione globale del problema, aumentando quindi le probabilità di un buon esito e riducendo le recidive.

Il successo illusorio inibisce la capacità dei bambini di apprendere dal mondo

Mentre i genitori pensano che far vincere i propri figli contribuisca alla costruzione della loro autostima, in realtà ciò potrebbe non essere vero.

 

Il successo illusorio e la non capacità di cogliere indizi rilevanti dall’ambiente

La professoressa di psicologia all’Amherst College, Carrie Palmquist, e l’ex studentessa Ashleigh Rutherford, hanno scoperto che quando i bambini esperiscono il “successo illusorio” relativamente ad un determinato compito, ne risentirebbe la loro abilità di formulare giudizi sulla propria performance e agire sulla base di essi. Come risultato, i bambini potrebbero diventare propensi a ignorare informazioni importanti che potrebbero utilizzare in processi futuri di decision-making.

Il team di ricercatori ha pubblicato un articolo riguardo alla propria ricerca sulla rivista “Journal of Experimental Child Psychology”, intitolato “Il successo inibisce la capacità dei bambini in età prescolare di costruire una fiducia selettiva”. Esso ha, come co-autore, Vikram Jaswal, professore di psicologia all’Università del Virginia.

L’articolo illustra i risultati di uno studio condotto nel “Palmquist’s Child Learning and Development Lab” del campus universitario.  In una serie di esperimenti, Palmquist e Rutherford hanno chiesto a bambini di 4 e di 5 anni di giocare ad un gioco in cui si nascondevano degli oggetti, con due adulti “sperimentatori” che offrivano degli indizi per ritrovarli. Dei due, uno dava indizi corretti; l’altro dava indizi falsi.

Palmquist e Rutherford, allora, hanno modificato il gioco per metà dei bambini, in maniera tale che essi potessero trovare gli oggetti nascosti indipendentemente da dove venissero cercati; il successo degli altri bambini, invece, era completamente affidato  al caso.

Dopo la fase dei giochi, gli scienziati hanno chiesto ai bambini a quale delle due persone avrebbero preferito chiedere aiuto nel caso di ricerca di nuovi oggetti nascosti.

I bambini che avevano partecipato alla versione modificata del gioco non mostravano preferenze per la persona che aveva dato loro indizi utili, poiché non la percepivano come se avesse loro elargito un aiuto.

I bambini che avevano partecipato alla versione classica del gioco, invece, mostravano una chiara preferenza per la persona che aveva dato loro indizi corretti.

Conclusioni

[blockquote style=”1″]Quando i bambini sperimentavano eccessivamente il successo, sembravano ignorare gli indizi rilevanti, così come chi fosse la migliore fonte d’informazioni[/blockquote] spiega Palmquist. [blockquote style=”1″]Ciò è importante per due ragioni: in primo luogo suggerisce che i bambini potrebbero non essere così astuti come suggeriscono precedenti ricerche; in secondo luogo, che nel mondo reale, quando i bambini esperiscono una grande quantità di successo in un compito – per esempio quando la madre e il padre lo lasciano sempre vincere ad un gioco – essi potrebbero diventare meno attenti ad informazioni importanti che potrebbero utilizzare per imparare dal mondo, perché le percepiscono meno rilevanti per il loro futuro successo. [/blockquote]

Perché gli zuccheri creano dipendenza?

Dipendenza da zuccheri: Attualmente, i cibi in commercio risultano essere a tal punto ricchi di zuccheri da ritenere che proprio questa sia una delle cause principali della vera e propria epidemia di obesità che affligge molti Paesi, soprattutto quelli occidentali. Il sovradosaggio di zuccheri, infatti, non solo porta ad un aumento esponenziale della quantità di calorie ingerite quotidianamente, ma anche ad una vera e propria dipendenza verso questo tipo di nutrienti.

 

La dipendenza da zuccheri

La dipendenza è una condizione medica tale per cui le persone manifestano un desiderio incontrollabile verso l’assunzione di una qualche sostanza o la messa in atto di una qualche attività, anche a fronte della consapevolezza dei rischi e delle possibili conseguenze negative che tali comportamenti possono comportare. Anche l’assunzione di zuccheri può portare, proprio come le classiche droghe, ad una vera e propria dipendenza; molte persone, infatti, non sono in grado di controllare il proprio impulso, definito craving, verso l’assunzione di qualcosa di dolce.

Attualmente, i cibi in commercio risultano essere a tal punto ricchi di zuccheri da ritenere che proprio questa sia una delle cause principali della vera e propria epidemia di obesità che affligge molti paesi, soprattutto quelli occidentali. Il sovradosaggio di zuccheri, infatti, non solo porta ad un aumento esponenziale della quantità di calorie ingerite quotidianamente, ma anche ad una vera e propria dipendenza verso questo tipo di nutrienti, in quanto costituiti da molecole in grado di interagire con diverse sostanze presenti a livello cerebrale, andando ad alterarne i normali livelli. Ad esempio, gli zuccheri possono modificare la concentrazione di dopamina e di altri recettori cerebrali come la serotonina, implicati nella percezione di sentimenti quali felicità e soddisfazione.

La forma più comune di zucchero è il saccarosio che, una volta ingerito, viene scisso in due, glucosio e fruttosio, a livello dell’apparato digerente dell’organismo. Il livello di glucosio nel corpo umano viene regolato da due diversi enzimi, insulina e glucagone, entrambi importanti per il metabolismo di questo zucchero.

In seguito all’ingestione e alla degradazione dello zucchero, le molecole di glucosio vengono poi assorbite e distribuite in tutte le cellule del corpo, principalmente grazie al lavoro di un gruppo di proteine, dette GLUCs, responsabili del trasporto del glucosio all’interno del flusso sanguigno. Il principale trasportatore delle molecole di glucosio fino al cervello viene detto GLUT1.

Il tessuto cerebrale risulta essere il principale tessuto umano a non essere in grado di tollerare bassi livelli di glucosio, da momento che i neuroni non possiedono l’abilità di immagazzinare lo stesso per poi poterlo usare in momenti di carenza di zuccheri, necessitando quindi di continuo apporto energetico. Proprio per questo, il cervello risulta essere il principale consumatore di glucosio, nonché il primo ad essere rifornito di questa sostanza.

Comunemente le persone riportano di mangiare alimenti dolci, per sentirsi più felici e, anatomicamente parlando, non affermano nemmeno il falso. Il consumo di zuccheri, infatti, comporta un maggior rilascio all’interno del sistema del neurotrasmettitore serotonina, responsabile della sensazione di benessere e felicità riportata dalle persone. Gli zuccheri, però, stimolano anche il rilascio di insulina, che, in caso di necessità, normalizza i livelli di glucosio e, quando questi ultimi raggiungono una concentrazione relativamente bassa, l’organismo percepisce nuovamente l’impulso ad assumere zuccheri per ripristinare la sensazione di benessere precedente. Ciò che risulta da questo circolo vizioso di costante consumo di dolci, è, in ultima analisi, la dipendenza da zuccheri, con annessa sovra-alimentazione e, sul lungo periodo, obesità.

Inoltre, è ben noto quanto i bambini amino in particolar modo i cibi dolci, preferendoli ad altri tipi di alimenti fin dalla più tenera età. Recentemente, i ricercatori hanno messo in evidenza come questa preferenza sembri essere data da fattori neurobiologici e non sia la conseguenza di un apprendimento di tipo culturale. La concentrazione dei neurotrasmettitori e dei recettori in infanzia, infatti, risulta essere differente da quella tipica dell’età adulta, differenza che poi si riduce gradualmente nel corso della crescita. La dipendenza da zuccheri si può instaurare già in infanzia e permanere poi per tutta la vita.

Un altro problema, legato alla dipendenza da zuccheri, riguarda anche il tipo di zuccheri consumati, ai quali il cervello tende a rispondere in modi diversi. Ad esempio, il corpo umano necessita di minori livelli di glucosio per poter stare bene e inviare quei segnali di sazietà che spingono l’organismo a smettere di mangiare. Al contrario, il corpo necessita di fruttosio in dosi maggiori per poter inviare gli stessi segnali per sopprimere la sensazione di fame.

Lo studio: come risponde il cervello all’assunzione degli zuccheri

Sono stati i ricercatori della Scuola di Medicina di Yale a scoprire, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI), questo fenomeno. Lo studio, svolto su un campione di soggetti sani non obesi, aveva infatti proprio lo scopo di indagare le differenze insite nella modalità di risposta del cervello ai diversi tipi di zuccheri. Ciò che è emerso è che, in seguito all’assunzione di glucosio, veniva registrata una riduzione di flusso sanguigno in quelle aree cerebrali responsabili della sensazione di appetito (ad es. ipotalamo), del sistema della ricompensa e della motivazione, portando anche ad una sensazione immediata di soddisfazione. Al contrario, in seguito all’assunzione di fruttosio, non è stato rilevato un cambiamento analogo a livello del flusso sanguigno.

Se si pensa al fatto che attualmente il fruttosio risulta essere largamente utilizzato nell’industria alimentare per la produzione di cibi e bevande, si può facilmente immaginare come questo aspetto, alla luce delle scoperte recenti, possa rappresentare un serio problema. Infatti, dal momento che il cervello non sembra essere in grado di controllare in modo adeguato l’assunzione di fruttosio, risulta essere molto più facile la messa in atto di comportamenti di ricerca compulsiva di cibi dolci e di sovra-alimentazione, rendendo così più facile l’emergere di patologie quali l’obesità.

Infine, i ricercatori dell’Università Tecnica di Monaco hanno recentemente messo in luce come gli astrociti, un tipo di cellula gliale, giochino un ruolo estremamente importante per quanto riguarda il consumo di glucosio. Le cellule gliali sono cellule che circondano i neuroni e li sostengono e, in particolar modo, gli astrociti giocano un ruolo cruciale nella creazione di una barriera atta a separare il cervello dal sangue (barriera ematoencefalica). Questo tipo di barriera, più nello specifico, è fondamentale per rendere altamente selettivi i vasi sanguigni che irrorano le diverse regioni del sistema nervoso centrale, controllando così l’interscambio di sostanze, e quindi anche del glucosio, che avviene tra il tessuto cerebrale e il sangue, in entrambe le direzioni.

A tal proposito, Garcìa-Càceres e collaboratori (2016) hanno evidenziato come la funzionalità degli astrociti possa essere controllata proprio da enzimi quali insulina e leptina. Infatti, gli astrociti presentano sulla propria superficie recettori per l’insulina in grado di reagire in base ai livelli di glucosio presenti nel sangue. Da scansioni PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) gli autori hanno rilevato la tendenza dell’insulina ad interagire con gli astrociti al fine di regolarne la permeabilità al glucosio, andando così in generale a modificarne la quantità presente a livello cerebrale. Ad esempio, quando gli astrociti presenti nelle aree cerebrali deputate alla regolazione della sensazione di appetito si attivano, al corpo vengono inviati segnali di soddisfazione. Al contrario, quando gli astrociti non entrano in contatto con il glucosio non si attivano, e ciò comporta per la persona un continuo desiderio e ricerca di glucosio.

Nonostante con le recenti scoperte siano stati fatti passi avanti, la dipendenza da zuccheri, e soprattutto come essa si configuri a livello cerebrale, rimane ad oggi un tema ancora scarsamente studiato. Una migliore comprensione del fenomeno, invece, potrebbe facilitare la messa a punto di interventi terapeutici più efficaci, anche in un’ottica di prevenzione all’interno della lotta all’ormai dilagante epidemia di obesità.

Odontofobia nei bambini: come trattare la paura del dentista nei più piccoli?

L’ odontofobia è stata riconosciuta come una vera e propria malattia, le persone con odontofobia sono normalmente portate a rimandare continuamente le cure, una particolare attenzione viene posta all’infanzia, un periodo delicato in cui l’esordio della paura del dentista e dell’ansia per le cure odontoiatriche è più frequente.

Valentina Pozzesi, Martina Spelta – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

 

Odontofobia: cos’è e come si manifesta

Attualmente l’ansia e la paura dentistica rappresentano un problema clinico essenziale. Reazioni di ansia e paura sono condizioni emotive molto diffuse, ma talvolta possono impedire il corretto svolgimento dei trattamenti odontoiatrici, inficiando sulla salute orale del soggetto.

Per questo, si stanno esplorando differenti vie che possano rendere il trattamento odontoiatrico meno traumatico per il paziente che soffre di ansia o paura e garantire a esso il mantenimento della salute.

L’ odontofobia è stata riconosciuta dall’Organizazione Mondiale della Sanità come una vera e propria malattia, per questo non può più essere considerata un capriccio. È stata inserita nell’International Classification of Disease (ICD-10) tra le fobie specifiche (OMS, 1996).

Secondo le stime dell’OMS riguarderebbe il 15-20% della popolazione. Le persone con odontofobia sono normalmente portate a rimandare continuamente le cure, aggrappandosi a terapie farmacologiche (antibiotici, antidolorifici) che ritardano la soluzione del problema.

 

L’ odontofobia nei bambini

Una particolare attenzione viene posta all’infanzia, un periodo delicato in cui l’esordio della paura del dentista e dell’ansia per le cure odontoiatriche è più frequente.

Indipendentemente dall’età molti bambini sono molto resistenti e in grado di sopportare molto, mentre altri sono vulnerabili e rispondono negativamente anche a piccoli stimoli stressanti. L’equipe odontoiatrica non può influenzare questi fattori, ma dovrebbe dimostrarsi sensibile e adattare a essi la strategia di trattamento. I fattori dentali sono quelli che l’equipe può tenere sotto controllo. Gli aspetti principali sono rappresentati dalla prevenzione del dolore e del disagio e dal tentativo di stabilire una buona relazione psicologica tra il bambino e i genitori da una parte e l’equipe odontoiatrica dall’altra.

 

Il paziente pedodontico

Una classificazione dei pazienti pedodontici risulta utile per conoscere le caratteristiche del bambino con paura del dentista e quindi per facilitare la relazione e il lavoro con esso. Per elaborarla è necessario tenere conto non solo del comportamento manifesto ma anche di eventuali problemi fisici, mentali, psicologici e sociali che possono limitare la terapia odontoiatrica e le misure preventive o aumentare il rischio di insorgenza di determinate patologie (Dorfer, 1997).

Una delle classificazioni più semplici dei pazienti è stata introdotta da Wright (2002). Partendo dal presupposto che la cooperazione sia uno dei fattori principali nella riuscita di un trattamento, essa distingue i bambini collaboranti, i bambini privi di capacità di collaborazione e quelli potenzialmente collaboranti. I pazienti potenzialmente collaboranti, a differenza di quelli che non lo sono, pur non manifestandolo, possono cooperare con l’odontoiatra se aiutati nel modo giusto. Tra i pazienti che non collaborano si trovano di solito soggetti portatori di specifiche patologie fisiche e/o psicologiche, portatori di handicap e soggetti con odontofobia, che manifestano fobie o ansia verso il trattamento.

I pazienti possono essere affetti da diverse tipologie di problemi. I problemi fisici possono riguardare, per esempio, patologie cardiocircolatorie, patologie renali, disturbi endocrini, patologie intestinali croniche, allergie, patologie del sistema immunitario, patologie del sangue, patologie della pelle e patologie del sistema neuromuscolare. Problemi mentali riguardano l’invalidità o patologie mentali croniche come la trisomia 21, l’autismo e il ritardo mentale. Per quanto riguarda i problemi psichici si possono osservare pazienti con disturbi d’ansia o fobie. Infine i problemi di natura sociale possono riguardare soggetti con basso livello socio-culturale o appartenenti a minoranze etniche. I pazienti possono appartenere a più categorie presentando varie caratteristiche.

In passato non era data particolare attenzione alla gestione dei piccoli pazienti, questi si trovano spesso a dover affrontare la prima visita odontoiatrica a causa di una urgenza e quindi senza venire preparati al trattamento ed inoltre i pazienti di qualsiasi età venivano trattati allo stesso modo (Koch e Staehle,1997). Per questo era più facile che il trattamento si trasformasse in una esperienza dolorosa e traumatica portando conseguenze negative sui successivi rapporti col dentista e sulla salute orale. Oggi, invece, un pedodonzista e i suoi collaboratori devono usare una strategia integrata facendo riferimento a più discipline, per avere una visione più ampia possibile delle problematiche che affrontano (Wright, 2002).

 

Il ruolo dello psicologo in campo odontoiatrico

Come precedentemente accennato, riveste una certa importanza il riuscire a discriminare in odontoiatria la presenza di psicopatologie nel paziente come in casi di odontofobia, competenze conoscitive minime, queste, di cui l’operatore odontoiatrico dovrebbe disporre al fine di decidere se intervenire appoggiandosi a qualcuno maggiormente competente, uno psicologo, inviandogli il paziente, in modo tale da poterlo trattare in modo completo.

Gli obiettivi di un lavoro psicologico in ambito odontoiatrico solitamente si concentrano sui temi del rilassamento, della distrazione, di un miglior rapporto con l’equipe (Casilli, D’Avenia, 2006), questi hanno lo scopo di rendere al paziente con odontofobia più facile il sottoporsi alle cure che possono incutere timore. L’invio allo psicologo da parte dell’odontoiatra dovrebbe avvenire quando il paziente è fobico evitante o quando c’è un forte stato di paura e tensione che rende la vita del paziente particolarmente difficile, pur in assenza di fobia (Casilli e D’Avenia, 2006), e quindi non consente all’odontoiatra di intervenire sul paziente stesso.

La richiesta di consulenza dello psicologo pone in primo luogo la necessità di sviluppare un canale comunicativo con l’odontoiatra, in questi casi la differenza di competenze e di ambiti operativi favorisce la costruzione di relazioni equilibrate, la difficoltà che a volte si incontra è quella di conciliare il linguaggio medico con quello psicologico

 

Quale approccio utilizzare con bambini che hanno paura del dentista?

Per facilitare la cooperatività del bambino ci sono dei principi condivisi da vari autori (Wright, 2002; Koch e Staehle,1997) da rispettare, alcuni riguardano l’odontoiatra e le caratteristiche che deve avere per una buona riuscita del trattamento.

Quando un bambino si trova ad affrontare una visita odontoiatrica vari fattori entrano in gioco a determinarne la condotta. Per quanto riguarda il tempo è necessaria una adeguata organizzazione che tenga conto delle caratteristiche dei pazienti, nel caso di un bambino che è alla prima visita, che ha paura del dentista o comunque presenta difficoltà sarebbe sempre meglio disporre gli appuntamenti in modo tale da garantire al paziente il tempo necessario affinché il trattamento sia il migliore possibile che si possa fornire (Pasini, 1992, Wright, 2002) dando al paziente la possibilità di comprendere, adattarsi alla nuova situazione ed evitare l’instaurarsi di ulteriori paure e fobie.

L’approccio degli odontoiatri deve essere lento e graduale, indirizzato verso il gioco e la conquista della fiducia del bambino. L’atteggiamento amichevole e positivo, comprensivo e paziente, dovrebbe avere l’effetto di calmare e rassicurare il bambino con paura del dentista.

Il dentista dovrebbe, inoltre, essere disposto ad un rapporto empatico. L’atteggiamento informale del curante, spesso, ha l’effetto di calmare il paziente.

Odontoiatra e collaboratori dovrebbero essere capaci di affrontare in modo razionale i comportamenti negativi dei bambini essendo quindi tolleranti (Wright, 2002), inoltre un operatore dovrebbe conoscere i propri limiti di tolleranza in modo da evitare la eventuale perdita di autocontrollo.

È considerato controproducente l’utilizzo di minacce o obblighi riferiti al trattamento odontoiatrico, questi non possono che peggiorare la situazione di un bambino che già manifesta paura del dentista o timori riguardo del trattamento stesso. I bambini più maturi e adolescenti non devono essere trattati in maniera accondiscendente, anche se spesso gli atteggiamenti e i loro comportamenti sono provocatori. Essi devono avvertire il livello ragionevole di equità nella situazione.

Quando possibile, si dovrebbe introdurre gradualmente al trattamento il piccolo con paura del dentista o altre ansie relative alla cura odontoiatrica, magari presentando gli strumenti che si utilizzeranno, iniziando da quelli più semplici. Durante la seduta è utile fornire al bambino degli strumenti di controllo sulla situazione come per esempio l’alzare la mano per chiedere una pausa, strategia che aumenta la collaborazione (Guastamacchia e Tosolin, 1997) e permette di diminuire gli stati ansiosi.

Il condizionamento operante ha effetto in pedodonzia nel modificare i comportamenti, sia per aspetti positivi che per aspetti negativi (Magro e collaboratori, 2000; Anolli e Legrenzi, 2001). Si dovrebbero dare rinforzi positivi al bambino con paura del dentista magari congratulandosi con lui per essere stato bravo durante la visita, in ogni caso la conclusione di una seduta deve sempre avere valenza positiva affinché la seduta successiva il paziente mantenga un comportamento collaborante (Koch e Staehle,1997). In senso negativo il condizionamento operante si ha per esempio se una visita è stata interrotta causa di un comportamento del paziente stesso, tale comportamento viene rinforzato poiché il bambino che non è disposto con lavorare lo interpreta con successo, sia quindi un rinforzo negativo perché il bambino nella seduta successiva si comporterà allo stesso modo.

È fondamentale che il bambino si senta sicuro. Per favorire questo è necessario che si sia instaurato un buon rapporto tra il bambino, la persona che lo accompagna e l’equipe odontoiatrica, gli stimoli dolorosi devono essere minimi e il bambino deve avere la percezione di avere la situazione sotto controllo. Lo stabilirsi di una buona relazione si basa sulle competenze comunicative dell’équipe. La modalità di comunicazione deve essere adattata all’età e alla maturità del bambino, può essere verbale o non verbale.

Per i pazienti ansiosi la comunicazione non verbale è importante quanto il linguaggio parlato. Quando il bambino è accompagnato dai genitori, è necessario stabilire una adeguata comunicazione sia con il bambino che con gli adulti. Bisognerebbe evitare di separare i bambini piccoli, soprattutto quando manifestano paura del dentista, dai propri genitori durante la fase iniziale del trattamento, poiché l’ansia per la separazione potrebbe aumentare il loro livello di stress generale e ridurne la capacità di comunicazione. Da un punto di vista pratico innanzitutto ci si pone il problema se far entrare o meno l’accompagnatore durante la visita, se il bambino non ha particolari problemi è consigliato far entrare l’accompagnatore le prime volte per poi renderlo più autonomo le volte successive (Koch e Staehle, 1997). A meno che il bambino si mostra particolarmente disposto a entrare da solo già alle prime visite. Si deve lasciare parlare i bambini per poi porre delle domande, successivamente si inizia la visita.

Prima di intervenire è necessario il consenso dei genitori, per questo devono sempre fornire le informazioni necessarie considerando che anche il bambino sta ascoltando, evitando elementi che potrebbero risultare troppo ansiogeni (Koch e Staehle,1997). Le diagnosi devono essere fatte con chiarezza e spiegate con termini accessibili, anche in base all’età del paziente.

È poi importante che il bambino abbia alcuni appuntamenti con l’odontoiatra senza provare dolore e altri tipi di avversità prima di sperimentare i trattamenti che potrebbero provocare disagio o dolore. Ripetute visite odontoiatriche in assenza di dolore possono vaccinare il bambino contro la paura del dentista o l’ansia legata alle terapie odontoiatriche. Indipendentemente dall’uso di tecniche per ridurre il dolore, prima di un possibile evento doloroso, deve informare il bambino su ciò che sta per accadergli. Grazie alla riduzione degli elementi di sorpresa e all’aumento della prevedibilità e del controllo, ciò potrà condurre a una riduzione delle sensazioni immediate di paura del dentista e avere forse lo stesso effetto in una prospettiva a lungo termine.

Il modellamento del comportamento dei bambini implica una preparazione al confronto con gli strumenti e le tecniche usate dall’odontoiatra. Il modellamento del comportamento è necessario per ogni bambino che siede sulla poltrona dell’odontoiatra. In odontoiatria il tipo di modellamento del comportamento più comunemente accettato si basa sul concetto di esposizione alla terapia. I pazienti sono progressivamente esposti a tecniche e strumenti in grado di provocare ansia potenziale. A ogni tappa si ha un moderato aumento dello stress della paura: i pazienti sono tenuti in queste situazioni di esposizione finché non si ha una riduzione delle loro reazioni di spavento. In tal modo si crea la sensazione di essere capaci ad affrontare questi stimoli. Se una esposizione è interrotta prima che la paura sia ridotta, il livello di paura aumenta e produce una sensazione di sconfitta e perdita delle capacità di affrontare la situazione (Koch e Poulsen, 2001).

Altra tecnica utilizzata è quella della desensibilizzazione. Sono previsti i passaggi relativi al trattamento a cui si ritiene sottoporre il bambino. Per esempio l’utilizzo della anestesia locale è di estrema importanza per il trattamento del dolore dentale, ma per molti bambini la vista della siringa e della tecnica di iniezione è spesso già di per se è in grado di destare paura. I vari passaggi in cui si articola la procedura permettono al bambino di avere una conoscenza sostanziale di ciò che sta accadendo, di avvertire una minima stimolazione dolorosa e di acquisire in qualche misura una sensazione di controllo della situazione. A ogni esposizione l’applicazione di questi temi che dipende dall’età della maturità del bambino.

Il tenere a mente queste strategie molto semplici quando si raccoglie l’anamnesi all’inizio della visita odontoiatrica, come durante il successivo esame orale e trattamento odontoiatrico, è la chiave di volta per la creazione di un buon ambiente psicologico nella situazione di trattamento.

Poiché i problemi comportamentali, la paura del dentista e l’ansia per le terapie odontoiatriche sono sovente motivi più frequenti per cui i pazienti si rivolgono agli odontoiatri infantili, ci si può chiedere se a questi ultimi debba essere attribuita una particolare responsabilità per il trattamento con questi bambini tutti gli odontoiatri che trattano pazienti in età infantile devono possedere una conoscenza sostanziale e atteggiamenti volti a prevenire problemi comportamentali e l’ansia per le terapie odontoiatriche, oltre a essere in grado di occuparsi dei bambini che presentano questi problemi.

È importante che gli odontoiatri infantili siano promotori di una strategia in cui il punto di vista dei bambini sia preso in considerazione dall’inizio alla fine del lavoro. Essi dovrebbero rappresentare il punto di vista dei bambini quando non è possibile un loro coinvolgimento (Koch e Poulsen,2001), cercando di immaginare quali possono essere le loro prospettive e, quando necessario, sostituirsi al loro per salvaguardarne l’autonomia.

 

La paura del dentista nei più piccoli: conclusioni

In conclusione, l’obiettivo da perseguire quando ci si trova a contatto con bambini nel contesto odontoiatrico, dovrebbe essere la presa in carico del paziente nella sua globalità. L’odontoiatra e la sua equipe dovrebbero fare il possibile per mettere il piccolo a suo agio, coinvolgendolo nel trattamento e motivandolo alla prevenzione, al fine di ottenere la sua collaborazione e quella dei genitori, giungendo così a una migliore cura e gestione di esso, garantendogli delle esperienze odontoiatriche positive e un’educazione ottimale verso una corretta igiene orale.

7 minuti: l’influenza della minoranza come arma contro la paura individuale – Cinema & psicologia

In questo credo stia la grandezza di 7 minuti, il nuovo film di Michele Placido. Nell’aver fornito uno strumento contro la paura e nell’averne dimostrato le straordinarie capacità. Perché ciò che permette a quelle undici donne, spaventate dal cambiamento e incredule di fronte a una proposta inimmaginabile, di superare la paura, è l’essere un gruppo, all’interno del quale ogni voce è importante ma non superiore alle altre.

 

Quando vi propongono modifiche al contratto di lavoro

Immaginate di lavorare per un’azienda da poco ceduta ad una grande multinazionale. Immaginate di venir chiamati una mattina dal vostro capo ufficio per rivedere il vostro contratto di lavoro. Persino al più ottimista non sembrerebbe una felice occasione.

Ora immaginate che l’unica modifica contrattuale che vi proponga consista in una riduzione di 7 minuti della pausa giornaliera.

Respiro di sollievo. Un punto per l’ottimista!

La paura di esser licenziati, messi in cassa integrazione o in mobilità cederebbe il posto all’incredulità. Possibile che si tratti veramente solo di questo? Di dover rinunciare a 7 dei trenta minuti di pausa, lasciando invariato tutto il resto? Se non fosse il vostro titolare a dirvelo, pensereste certamente a uno scherzo.

Vi sentireste sollevati,  il vostro posto sarebbe salvo. Non chiedereste altro che poter firmare questa proposta, così da renderla effettiva, concreta, reale.

Immaginate, però, che vi venga offerto un tempo per pensare all’offerta, prima di scegliere se accettarla o meno. Vi sembrerebbe assurdo. A cosa dovreste pensare? In fondo poteva andare molto peggio, potevate perdere il lavoro. Allora sì che avreste desiderato avere tempo per pensare, avreste desiderato poter avere la possibilità di scegliere se accettare o meno.

Due ore. Il tempo che vi viene concesso prima di firmare. E allora, seppur contrariati e infastiditi, forse iniziereste a pensare.

Qual è il senso di questa richiesta? Perché la vostra azienda dovrebbe chiedervi di rinunciare a 7 minuti della pausa alla quale avete diritto? Ma soprattutto, perché all’improvviso, di fronte alla paura di esser licenziati, 7 minuti non sembrano valere nulla? Come avreste reagito a questa proposta se la situazione fosse stata diversa? Se l’azienda per la quale lavorate non fosse stata ceduta, ma anzi stesse attraversando uno dei suoi migliori periodi, avreste accolto di buon grado questa richiesta?  In altre parole, che valore avreste dato a quei sette minuti? Tutto a un tratto vi sarebbero sembrati importanti e vi sareste sentiti in diritto di rifiutare o, perlomeno, ritrattare l’offerta.

Però l’azienda è stata ceduta, questo è un dato di fatto. E le politiche di riduzione del personale sono all’ordine del giorno in questi casi. Quindi, di fronte alla possibilità di perdere il lavoro, scegliereste di rinunciare a quei minuti.

 

Quanto possono valere 7 minuti di lavoro

Immaginate ora che l’azienda per la quale lavorate abbia 300 dipendenti, a ciascuno dei quali è stata proposta  la stessa modifica contrattuale. In termini numerici, questo cosa comporrebbe?

Facciamo un po’ di calcoli. 7 minuti al giorno, per cinque giorni, per 300 dipendenti. 10500 minuti a settimana, 175 ore.

Quelli che, fino a un attimo fa, sembravano solo 7 minuti, all’improvviso diventano 175 ore di lavoro, corrispondenti al monte ore settimanale di circa 6 dipendenti.

Da un giorno all’altro, iniziereste a lavorare come 306 dipendenti, pur essendone 300, continuando a percepire lo stesso stipendio.

Però tutto ha un costo. E se il prezzo da pagare per mantenere il posto di lavoro fosse rinunciare a 7 minuti, pur consapevoli del valore che essi hanno, forse è un prezzo che chiunque sarebbe disposto a pagare.

Ma siamo sicuri di aver compreso realmente il valore di quei minuti?

E se questa modifica contrattuale non fosse altro che una prova per testare quanto siamo disposti a fare, pur di mantenere il posto? Se in realtà, concedendo questi sette minuti, stessimo in realtà dicendo che faremmo qualunque cosa? Che peso avrebbero, in questa luce, quei minuti? Chi di noi potrebbe esser sicuro che, di lì a poco, le richieste non diventeranno ben più onerose, ma stavolta impossibili da rifiutare?

Perché, se ci pensate, nessuno in realtà vi stava costringendo ad accettare quella modifica. Vi era stata proposta, e vi era stato dato un tempo per riflettere. Cosa, allora, vi ha fatto pensare di non avere altra scelta?

La paura. La paura di contraddire il capo, di non compiacerlo. La paura di perdere il lavoro, di essere accompagnati, più o meno gentilmente, alla porta. E quando siamo spaventati, cerchiamo in ogni modo di attenuare questo sentimento. Firmare quella proposta avrebbe attenuato quella paura, prendersi tempo per pensare, invece, l’avrebbe fatta aumentare.

 

La grandezza di 7 minuti nel film di Michele Placido

In questo credo stia la grandezza di 7 minuti, il nuovo film di Michele Placido. Nell’aver fornito uno strumento contro la paura e nell’averne dimostrato le straordinarie capacità. Perché ciò che permette a quelle undici donne, spaventate dal cambiamento e incredule di fronte a una proposta inimmaginabile, di superare la paura, è l’essere un gruppo, all’interno del quale ogni voce è importante ma non superiore alle altre. Un gruppo, dove il dialogo mostra la sua superiorità rispetto al monologo, un gruppo che mostra la sua forza aggregante e dà il coraggio di superare la paura individuale.

Elegante esempio, quello di Ottavia Piccolo, dell’influenza della minoranza di cui parlava Moscovici. Priva di un potere normativo, essa può far leva sulla pressione informativa. Per questo getta la maggioranza nell’incertezza, insinuando dubbi, stimolando il bisogno di andare a fondo e di uscire dai soliti schemi. Così facendo, spinge il gruppo verso un pensiero divergente, non basato sull’accettazione o meno della tesi, ma sul confronto che faccia emergere punti di vista alternativi, allargando così il raggio di idee. In questo risiede il potere della minoranza: nel suo poter essere esercitata soltanto su una visione delle cose che il gruppo arriva a condividere, a partire da una riflessione e dall’approfondimento dei problemi. Mentre la maggioranza può imporre anche l’assurdo, la minoranza può far valere solo ciò che agli occhi del gruppo appare ragionevole.

Le relazioni che curano: la comunità per minori come base sicura

La comunità per minori diventa, per il bambino accolto, lo spazio della sua vita attuale, la sua casa. L’ambiente favorevole in cui si trova ora il minore lo aiuta a rispecchiarsi, a capire ed accettare il suo passato e a trarre spunti per la ricostruzione della propria identità personale.

Sara Scarsi

 

Comunità per minori: storia e classificazione

La nascita delle comunità alloggio per minori in Italia è da collocarsi alla fine degli anni settanta. Queste strutture, intese come alternative agli istituiti tradizionali, hanno avuto una  trasformazione lunga e complessa passata attraverso numerosi interventi legislativi diversificati.

Così come una volta esisteva una sola soluzione, l’istituzionalizzazione, ai tanti problemi dei minori, nel tempo si sono sviluppate la coscienza e la competenza tecnica per realizzare progetti mirati al contesto e alla situazione specifica del minore stesso. E’ sempre più presente inoltre, l’esigenza di un lavoro sui genitori mirato a valutarne le possibilità di recupero, lavoro che, a seconda dei casi, darà esiti differenti. In questo scenario la comunità per minori, la cui funzione sembra essere sempre più incentrata sulla protezione e la tutela del minore, è chiamata ad integrarsi in progetti a più ampio respiro e a svolgere funzioni adeguate alle necessità. Nascono dunque differenti tipologie di comunità, classificate in diverso modo a seconda del criterio utilizzato di volta in volta.

Il problema della classificazione delle strutture residenziali per minori si fa particolarmente attuale dal momento che la recente legge 328 del novembre 2000 prevede, all’ art. 11, che servizi e strutture a ciclo residenziale e semiresidenziale debbano essere autorizzate al funzionamento dai comuni, e che tale autorizzazione dovrà essere rilasciata in conformità a requisiti che saranno stabiliti da una legge regionale; questa legge regionale dovrà, a sua volta, recepire e integrare i requisiti minimi stabiliti con regolamento dal Ministero per la Solidarietà sociale. I Comuni provvederanno, quindi, anche all’accreditamento delle strutture, e corrisponderanno ai soggetti accreditati tariffe per le prestazioni effettuate. Per i criteri di accreditamento saranno riferimento essenziale le Linee guida “Qualità dei servizi residenziali socio-educativi per minori” emanate dal Ministero per la Solidarietà sociale d’intesa. Le Linee Guida riprendono al loro interno, modificandola leggermente, una classificazione dei servizi per minori elaborata dalla Conferenza Stato Regioni nel gennaio del 1999.

In quella prima classificazione, la “comunità per minori” veniva definita “Presidio residenziale socio-assistenziale per minori” (termine usato nella legge 285 del 1997), e ne venivano individuate 4 tipologie: comunità di pronta accoglienza; comunità di tipo familiare; comunità educativa; istituto. Nelle Linee guida si parla invece di “Servizi residenziali socio-educativi per minori”, e la classificazione prevede quindi le altre tre categorie già individuate, con l’aggiunta del “gruppo appartamento giovani”:

  • Comunità educativa. In questo servizio l’azione educativa viene svolta da un’equipe di operatori professionali, che la esercitano come attività di lavoro;
  • Comunità di pronta accoglienza. È una comunità per minori educativa che si caratterizza per la capacità di accogliere il minore in condizioni di disagio estremo e senza un preventivo piano di intervento; la permanenza è breve, per il tempo strettamente necessario a individuare una collocazione più idonea;
  • Comunità di tipo familiare. In questo servizio le attività educative sono svolte da due o più adulti che vivono insieme ai minori, anche con i propri figli, assumendo funzioni genitoriali. Gli adulti generalmente sono un uomo e una donna; possono svolgere attività lavorativa esterna ed essere coadiuvati nelle attività quotidiane da personale retribuito;
  • Gruppo appartamento giovani. Questo servizio accoglie giovani che non possono restare in famiglia, sono vicini o hanno superato i 18 anni e devono ancora completare il percorso educativo per raggiungere l’autonomia e un definitivo inserimento nella società. Le attività quotidiane sono in gran parte gestite dai giovani stessi e l’azione educativa non richiede la presenza continua di operatori interni alla struttura.

 

Comunità per minori vittime di abuso

La comunità che accoglie vittime di maltrattamento e abuso, di cui tratto in questo articolo e che potremmo definire “tutelare”, si pone a cavallo tra due tipologie diverse. Non riconoscendosi all’interno della categoria delle comunità educative, data la necessità di non privilegiarne il taglio pedagogico, la comunità per minori maltrattati e abusati, data la sua capacità di accoglimento anche in situazione di emergenza, viene quindi più naturalmente accomunata alle comunità di pronta accoglienza. D’altra parte, una comunità che accoglie bambini maltrattati e abusati, non può certo limitarsi a dare quella risposta tipica delle situazioni di pronto soccorso, ma dovrà bensì attrezzarsi per proteggere e tutelare i suoi ospiti anche dagli stessi genitori che li hanno abusati. Né potrà esimersi dal collaborare con gli altri servizi, in favore di un’impostazione degli interventi finalizzata alla comprensione delle dinamiche e dei disagi familiari che hanno comportato lo stato di emergenza. Difficilmente questo lavoro potrà essere concluso in tempi brevi, il che contribuisce ad aumentare il grosso valore e l’importanza di questo contesto.

 

Comunità per minori o affido familiare?

Dibattiti molto accesi sono avvenuti sull’opportunità o meno di inserire bambini, soprattutto quando molto piccoli, in comunità per minori. Da più autori è stato affermato come non sia opportuno, ad esempio, inserirvi bambini e ragazzi che dovranno restarvi a lungo, sostenendo l’importanza di privilegiare l’affido familiare perché ritenuto un contesto relazionale più vicino alla normalità, più affettivo e più stabile.

Certamente l’affido etero familiare può essere una risposta adatta per un bambino che, pur non completamente “privo” della sua famiglia, ha sperimentato in essa inadeguatezza, trascuratezza e relazioni distorte; tuttavia questo non è sempre un percorso facilmente praticabile e, nel contesto di uno specifico caso, a volte può rivelarsi inopportuno. Di fatto non sempre si riescono a reperire famiglie affidatarie adeguate e necessariamente preparate ad affrontare le molteplici problematicità dei minori allontanati e delle loro famiglie d’origine.

Problematiche a volte molto gravi, come ad esempio un abuso o un grave maltrattamento, possono rendere difficile un affido familiare per le complesse dinamiche vissute e i susseguenti problemi che si dovranno affrontare. D’altro canto sono spesso i ragazzi stessi a non essere pronti ad un affido, ad “affidarsi” letteralmente a qualcuno, ad un adulto semi-sconosciuto che in breve tempo diventa “la tua famiglia”. Molti di loro sono bambini altamente traumatizzati, con alle spalle storie terribili di maltrattamento, trascuratezza ed abbandono, in altri termini sono semplicemente bambini infelici.

Infelici devono essere considerati in un modo o nell’altro tutti quei bambini della cui esistenza autonoma e dei cui bisogni di differenziazione non ci si accorge da parte di genitori che, per varie ragioni, li usano nei fatti come oggetto di prolungamento del sé invertendo una gerarchia naturale e bloccando un processo evolutivo sano.

Cancrini (2012)

 

Attaccamento nelle comunità per minori

Mentre scrivo queste righe non riesco a non pensare a loro, ai bambini e ragazzi in difficoltà che ho incontrato nel corso della mia esperienza professionale nelle comunità per minori. A Mary, ormai adolescente alle prese da sempre con una madre che l’ha abbandonata da piccola ma riappare due volte l’anno facendola scoppiare di gioia e poi nuovamente disperare ad ogni sparizione; a Luca, 13enne di una zona degradata della città con due genitori che a parole lo adorano ma sempre troppo presi dai loro problemi economici, o da furtarelli qua e là, per rendersi conto dei suoi bisogni; a Claudio, 6 anni nato da una mamma adolescente e da un papà con problemi di alcolismo e che fin da piccolo si faceva carico di prendersi cura delle due sorelline più piccole; a Fabiola, costretta fin dall’adolescenza dalla madre a rapporti sessuali con uomini adulti in cambio di aiuti economici. E ce ne sarebbero molti altri…

Quello che viene immediatamente da chiedersi è: quale sarà il futuro di questi bambini? Chi o che cosa potrà sostituire le cure e le attenzioni di cui avevano bisogno nella loro famiglia di origine? Il trauma dell’attaccamento si potrà riparare?

In questi casi ritengo che la comunità per minori possa risultare, almeno inizialmente, la collocazione più adatta.

Si fa presto ad affermare che “un bambino ha bisogno dei suoi genitori, deve stare con loro”, o  “la propria famiglia, per quanto malridotta, è comunque preferibile ad un istituto”, ma dichiarazioni come queste non tengono conto della realtà dei fatti. Se la famiglia è un “sistema”, se il comportamento di ogni individuo influenza quello degli altri e ne è a sua volta influenzato, come possiamo dire che una famiglia maltrattante o fortemente trascurante sia meglio di niente? I “bambini di comunità” sono bambini che hanno trascorso un’infanzia infelice, che nella maggioranza dei casi si porteranno sempre dietro ferite profonde e le cui ripercussioni sulla vita e sulla personalità adulta possono essere molteplici.

Dunque l’allontanamento del minore da una famiglia d’origine dannosa e maltrattante, nonostante porti con sé una grossa dose di dolore tanto per la famiglia che per il bambino e addirittura per gli operatori coinvolti, resta in una prospettiva futura, la soluzione migliore in molti casi.

Come ben sottolinea Fusi (2010), le comunità, ognuna nella sua specificità, sono portatrici di alcuni elementi che le caratterizzano.

Innanzitutto la comunità per minori è un ambiente terapeutico.

La comunità è per il minore accolto lo spazio della sua vita attuale, la sua casa. L’ambiente favorevole in cui si trova ora il minore lo aiuta a rispecchiarsi, a capire ed accettare il suo passato e a trarre spunti per la ricostruzione della propria identità personale. La comunità intesa quindi in senso terapeutico, come occasione favorevole per crescere serenamente ed essere aiutato a ripensare in modo diverso alla propria difficile storia. Nella comunità per minori vi è naturalmente un interdipendenza fra l’organizzazione della quotidianità e lo sviluppo delle competenze sociali e cognitive dei bambini.

Tutti i momenti della giornata hanno rilevanza terapeutica; momenti in cui si gioca, si mangia, si studia, momenti in cui “non si fa niente” insieme aiutano il minore a ricostruire, o spesso ad incominciare a costruire per la prima volta, una propria identità. La vita quotidiana della comunità per minori è importante perché è riparativa, in un certo senso prevedibile, familiare e quindi rassicurante (Bastianoni, 2000). Moltissimi studi e ricerche hanno confermato come, anche nel caso di bambini molto deprivati o portatori di gravi psicosi, un nuovo ambiente di vita che fornisce al minore quello che gli è mancato nei primi anni di vita può portare a risultati sorprendenti. Fondamentali in quest’ottica sono le relazioni affettive autentiche che si instaurano fra minori ed adulti (in primis gli educatori che condividono con loro la quotidianità), come punto chiave per il recupero di risorse e la nascita di nuove prospettive.

In secondo luogo la comunità per minori è un sistema di relazioni.

Innanzitutto vi sono le relazioni che si instaurano fra coloro che vivono all’interno della comunità: relazioni di adulti con minori, di minori con minori e di adulti che lavorano insieme. Ci sono poi le relazioni con l’esterno: con la famiglia d’origine, con i servizi, con i membri della rete che si prende cura del minore e con il Tribunale per i minorenni. Questa dimensione relazionale comprende sia chi accoglie, sia chi è accolto; la comunità in quest’ottica può essere considerata “luogo strutturato di relazioni e legami significativi” (Fusi, 2010). E, aspetto fondamentale, sono relazioni sane.

Le comunità residenziali di accoglimento sono strutture in grado di ospitare minori maltrattati, o a rischio di maltrattamento, allontanati per ordine del Tribunale per i minorenni che li affida al Servizio Sociale territoriale. La permanenza in comunità per minori è temporanea e dura in media il tempo necessario per la valutazione del caso e la definizione del successivo programma d’intervento. Finalità ultima della presa in carico è attivare il processo di rielaborazione del trauma subito da parte del bambino e, parallelamente, arrivare in tempi brevi alla definizione di un progetto di vita per il minore finalizzato al rientro presso il proprio nucleo familiare o, qualora questo non sia possibile, di affidamento etero familiare o adozione.

Il primo obiettivo, in ordine di tempo, della comunità per minori è quello di aiutare il bambino già traumatizzato dal maltrattamento subito, a superare lo stress dell’allontanamento dei genitori e dell’inserimento in un ambiente sconosciuto. Le comunità per minori vogliono e possono essere luoghi di accoglimento, di sosta, riposo e protezione, dove recuperare energie e prepararsi per il futuro, creando una base sicura da cui ripartire.

All’interno delle comunità opera un’equipe educativa composta da educatori turnanti presenti in struttura 24 h su 24.

I bambini e ragazzi accolti in comunità per minori provengono generalmente da storie di separazioni traumatiche dalle figure genitoriali, condizioni di maltrattamento fisico e psicologico, deprivazione affettiva e instabilità relazionale, o da percorsi interrotti di recupero emotivo-affettivo (un affidamento familiare fallito): nei settori più svantaggiati dell’utenza la gravità delle ferite si osserva con relativa evidenza sul piano dello sviluppo delle competenze cognitive, emotivo-affettive, socio-comunicative. Nelle situazioni più compromesse è il Sé ad apparire come la dimensione più danneggiata da un’inadeguata relazione adulto/bambino in ambiente familiare multiproblematico ad alto rischio psicosociale.

I bambini traumatizzati hanno sperimentato quasi sempre un attaccamento disfunzionale con le figure genitoriali e necessitano di una riparazione a tale trauma primario, sperimentando relazioni significative con figure adulte positive che possano fungere da “base sicura” da cui ripartire.

E’ qui che entrano in gioco gli educatori.

 

Il ruolo degli educatori

Cosa rappresentano dunque gli adulti che in comunità per minori intrecciano rapporti e condividono emozioni, apprendimenti e crescita con i bambini e ragazzi a loro affidati? (Barbanotti, Iacobino, 1998)

Nel contesto di un servizio tutelare residenziale la relazione educatore/ragazzo rappresenta a volte la prima relazione sana che il bambino sperimenta nel corso della sua vita; tale relazione appare quindi fondamentale e si connota di alcune caratteristiche distintive.

In primo luogo tale relazione ha una valenza sostitutiva temporanea della funzione genitoriale: l’educatore intenzionalmente agisce “come se fosse” il genitore ma senza esserlo, in luogo dei genitori reali del ragazzo; è un modello adulto e genitoriale che temporaneamente e parallelamente si affianca  alla famiglia di provenienza.

L’educatore di comunità per minori, al contrario di quelli che operano sul territorio o in centri diurni, “vive” a stretto contatto con i minori con cui lavora, mangia, dorme, guarda la televisione, cucina, passeggia a fianco del ragazzo, in una parola condivide con lui la sua quotidianità per un numero di ore talvolta di notevole importanza. Non di rado dunque si instaura tra i due una relazione forte che assume le caratteristiche di quella genitoriale.

I “bambini di comunità” necessitano di sperimentare un’esperienza relazionale ripartiva positiva, che possa fungere da riparazione rispetto ai traumi subiti con le figure di attaccamento della loro infanzia: ciò di cui hanno bisogno è una relazione affettiva ed emotiva stabile e priva dei vissuti abbandonici che hanno caratterizzato le loro precedenti relazioni significative. Grazie alla relazione con un adulto sano, costantemente presente anche nei momenti difficili, i ragazzi possono sperimentare che esistono adulti “buoni”, in grado di occuparsi di loro e di tollerare la frustrazione che deriva dal rapportarsi ad un bambino così affettivamente danneggiato.

L’educatore, a differenza del genitore adottivo o affidatario, è maggiormente in grado di tollerare il rifiuto e la svalutazione da parte del bambino: è tipica la frase “tu non sei mia mamma!”, gridata in faccia nei momenti di rabbia e sconforto che il percorso comunitario porta inevitabilmente con sé. Ma quale può essere la risposta emotiva di una mamma affidataria che, con mille sforzi e sacrifici, si sta prendendo amorevolmente cura di un ragazzino difficile e che si sente profondamente rifiutata da affermazioni del genere? Certamente non è semplice. Al contrario l’educatore adeguatamente formato, essendo naturalmente più “fuori” dalla relazione ed avendo un investimento consapevolmente e considerevolmente diverso rispetto a quello di un genitore, può comprendere le difficoltà del ragazzo con maggior facilità e sentirsi da lui meno attaccato.

La funzione ripartiva della relazione educativa sta proprio qui: l’educatore funge da contenitore per le emozioni negative, il malessere e la sofferenza del bambino, è in grado di elaborarle insieme a lui e di restituirgliele trasformate rendendole più accettabili e tollerabili.

Un positivo rapporto di attaccamento instauratosi con una figura educativa può inoltre aiutare i ragazzi  migliorando la loro percezione di sé e favorendo l’aumento dell’autostima e della sicurezza. Diventa, come accennavo prima, quella “base sicura” di cui parlava Bowlby (1989) che è tanto fondamentale per poter esplorare il mondo circostante con la consapevolezza di aver un posto sicuro in cui tornare quando se ne ha voglia.

La Carezza – Un racconto di Emiliano Avallone

Il bambino mi fissava spazientito dall’altro lato della strada. Assorbito da quel ricordo, avevo dimenticato di restituirgli il pallone. Lo calciai verso di lui. Lo fermò con il collo del piede e poi agitò la mano in segno di ringraziamento. Lo salutai e ripresi a camminare. Dentro di me sorridevo, ripensando a quella carezza di un giorno di maggio di cinquantasei anni prima.

Emiliano Avallone

 

Abito nel distretto di Tetuan dal 1957, a poche centinaia di metri dal Santiago Bernabeu. Il bar di Miguel si trova nel quartiere di Chamartin, dove sorgeva il vecchio stadio del Real Madrid. Mi fermavo al suo bar ogni pomeriggio a bere un’aranciata prima di andare alla Ciudad Deportiva a vedere gli allenamenti. A quei tempi Miguel aiutava suo padre dopo la scuola. Lo trovavo dritto dietro il bancone a pulire i bicchieri e a versare noccioline nelle ciotole, che i clienti avrebbero svuotato bevendo pinte di vino e cervezas ghiacciate. Lo conosco da più di cinquant’anni, eppure la nostra è sempre stata un’amicizia a distanza: quella del bancone del bar. Nessuno dei due ha mai oltrepassato quel confine, pur scambiandoci molte confidenze fin da quando eravamo adolescenti.

Continuo ad andarci ogni volta che posso. A sessantotto anni non bevi più aranciata ma caffè o brandy, e Miguel ora ha una lavastoviglie per i bicchieri, così abbiamo molto tempo per chiacchierare.

Quella mattina, mentre percorrevo la strada verso il bar, il pallone rotolò verso i miei piedi, interrompendo la mia camminata. Sorpreso, mi guardai intorno per capire da dove provenisse. La voce di un bambino, dall’altro lato della strada, attirò la mia attenzione. <<Senor!>> urlò, facendomi cenno con la mano di tirargli la palla. La presi, facendola girare tra le mani. Era di plastica, liscia e morbida. Non riconoscevo quell’oggetto che pure era tanto familiare. Cercavo la durezza del cuoio e le rughe delle cuciture. Provai ad annusarla, ma non sentii nulla che assomigliasse a un odore di erba o di cuoio.

Quel giorno del 19 maggio 1960 non era stato così. Ricordo che la sera prima il Real aveva vinto la sua quinta Coppa dei Campioni consecutiva, battendo in finale l’Eintracht per 7-3, con quattro reti di Kopa e tre di Di Stefano. Avevo visto la partita al bar di Miguel – a casa non avevamo il televisore – insieme a mio padre. Il mattino successivo mi svegliai presto per andare alla Ciudad Deportiva, sperando – ma forse era più un’illusione – di trovare i blancos ad allenarsi. Arrivai col fiatone e la maglietta zuppa di sudore. All’ingresso il custode non c’era. Scavalcai la staccionata laterale e mi diressi verso il campo principale di allenamento, senza trovare nessuno. Ero deluso.

Ad un tratto un pallone rotolò verso di me dopo alcuni sobbalzi sul terreno. <<Ehi, nino, tiramelo por favor!>> esclamò una voce. Guardai verso il campo secondario e vidi un uomo in tuta con un ciuffo di capelli biondi su una testa ormai calva. Lo riconobbi subito. Era Alfredo Di Stefano, detto la Saeta Rubia, che si allenava da solo su un vecchio campo polveroso. Raccolsi il pallone e lo rigirai tra le mani, sporcandomi con le macchie d’erba e sentendone le cuciture del cuoio. Ero bloccato, eccitato da quell’evento e allo stesso tempo incapace di fare alcun movimento. I battiti del cuore salivano fino in gola.

L’uomo corricchiò con leggerezza, raggiungendomi. Si fermò a pochi passi da me e sorridendo mi chiese se volevo giocare con lui. Iniziammo a scambiare dei passaggi, poi col pallone tra i suoi piedi mi invitava a sottrarglielo, sfidandomi in quei dribbling che tante volte gli avevo visto fare dalle gradinate del Bernabeu. Destro, sinistro, tunnel, finte, palleggi. La palla era incollata alle sue scarpe, i suoi movimenti erano come un tango, danzato da un uomo che, innamorato della sua donna, la conduce con sicurezza e passione. La palla era la sua amante, l’unica alla quale era davvero fedele.

Dopo una decina di minuti si fermò e, ringraziandomi per aver giocato con lui, domandò il mio nome. <<Pablo Morales Ruiz – risposi – ma tutti mi chiamano Pablito>>.

<<Bueno, Pablito. È stato un piacere allenarsi con te>> dichiarò sorridendo.

<<Posso chiederle una cosa, senor Di Stefano?>>

<<Dimmi pure>>

<< Lei è il più grande campione di tutti i tempi, perché è venuto ad allenarsi da solo? Ieri avete vinto la coppa, oggi tutti gli altri giocatori riposano o festeggiano!>>

Rise fragorosamente, compiaciuto della mia domanda. <<Vedi Pablito, il pallone è come una femmina che giura amore, sapendo di mentire. Se tu la trascuri, ti dimentica o, peggio, ti tradisce. Devi pensarci notte e giorno>> rispose col suo accento argentino. Poi mi salutò accarezzandomi la testa e scompigliandomi il mucchietto di capelli sulla fronte.

<<Senor>> sentii urlare ancora. Il bambino mi fissava spazientito dall’altro lato della strada. Assorbito da quel ricordo, avevo dimenticato di restituirgli il pallone. Lo calciai verso di lui. Lo fermò con il collo del piede e poi agitò la mano in segno di ringraziamento.

Lo salutai e ripresi a camminare. Dentro di me sorridevo, ripensando a quella carezza di un giorno di maggio di cinquantasei anni prima.

Chi siamo? Da dove veniamo? – Evitare le domande esistenziali può minare la nostra salute mentale

Secondo un recente studio, la paura di affrontare le tensioni e i conflitti causati da domande esistenziali – le “grandi domande” della vita – mina la nostra salute mentale.

 

La paura di affrontare le tensioni e i conflitti causati da domande esistenziali – le “grandi domande” della vita – mina la nostra salute mentale, traducendosi in livelli più elevati di depressione, ansia, sintomatologia somatica e in una maggiore difficoltà di regolazione emotiva, secondo un nuovo studio della Case Western Reserve University (Cleveland, Ohio).

I dilemmi religiosi e spirituali – Dio o la religione, le domande difficili sulla fede, la morale e il senso della vita – sono spesso argomenti tabù e la tentazione di spingerli via, accantonandoli, è spesso forte – ha detto Julie Exline, professore di Psicologia alla Case Western Reserve e co-autore della ricerca. – Quando le persone evitano queste lotte interiori, i sentimenti di ansia e depressione tendono a manifestarsi in modo più intenso rispetto a quando li si affronta a testa alta.

Pertanto le persone che fanno fronte a queste lotte con salde credenze e valori fondamentali tendono a riferire  una salute mentale migliore rispetto alle persone che non lo fanno.

Porsi domande esistenziali e salute mentale: lo studio di J. Exline

Lo studio, basato su un sondaggio che ha interrogato 307 adulti sulle recenti esperienze di vita, è stato pubblicato sul Journal of Contextual Behavioral Science

La mancanza di volontà nell’accettare e affrontare dilemmi spirituali e domande esistenziali, potrebbe contribuire a importanti malattie sociali, portando le persone a perdere importanti opportunità di interazione con persone provenienti da diversi background culturali e aderenti a differenti credo religiosi, poiché percepite come una minaccia.

Questo evitamento può portare al rifiuto di interi gruppi di persone sulla base della loro differente religione o dell’incongruenza, ad esempio, tra la loro sessualità o l’identità di genere e gli insegnamenti religiosi ricevuti – ha detto Exline.

Gli addetti ai lavori nell’ambito della salute mentale possono trovare utile aiutare i clienti con le loro lotte spirituali suggerendo loro di affrontare tali difficoltà in modo più proattivo.

Le persone sembrano essere più sane, da un punto di vista emotivo, se si dimostrano in grado di accettare i pensieri preoccupanti – ha detto Exline – Guardare i dilemmi spirituali in modo oggettivo sembra aiutare. Si può o non si può lavorare su di loro, ma almeno si può imparare a tollerare la loro presenza.

L’evitamento di per sé non è un problema; piuttosto, il comportamento diventa problematico quando l’evitare diventa dannoso o contrastante con gli obiettivi personali e imposta un modello rigido di fare esperienza, di approcciarsi e rispondere al mondo.

L’evitamento spirituale sistematico può rendere difficile l’identificazione, la manipolazione o l’esperienza di tutte quelle qualità che conferiscono un senso di scopo alla vita.

Utilizzare attivamente energia emotiva e cognitiva per respingere i pensieri, o le domande esistenziali nella fattispecie, non impedisce loro di continuare a intromettersi nella propria vita. Essere continuamente invasi da questi pensieri può creare forti tensioni e minare la salute emotiva, soprattutto se la persona in questione vede questo tipo di interrogarsi come moralmente inaccettabile e pericoloso.

 

La sofferenza dell’altro: il rapporto con lo straniero nella relazione di cura

Come cambia tale capacità nel terapeuta di fronte ad una società globalizzata con sempre più stranieri, sospinta verso una forte integrazione di culture e valori differenti, che portano con sé anche un modo specifico e peculiare di vivere le esperienze dolorose della vita?

Laura Pancrazi, Laura Stefanoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Globalizzazione e modernità: la ridefinizione dei confini

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a cambiamenti che hanno trasformato e stanno ancora trasformando a diversi livelli la nostra società. Principale fenomeno all’origine di tali mutamenti è sicuramente la globalizzazione.

Diversi sono stati gli autori che si sono interrogati sull’argomento (Magatti, Giaccardi, Bauman) al fine di comprendere i meccanismi e gli effetti che tale fenomeno ha in una radicale ristrutturazione non solo della società ma della qualità stessa della vita dei singoli individui, delle loro abitudini e, ad un livello ancora più profondo, della loro identità.

In un contesto globalizzato, i concetti di confine, distanza e tempo sono sempre più evanescenti, tutto appare interconnesso, ognuno fa parte di una comunità più estesa nella quale, grazie soprattutto a internet e alle nuove tecnologie, la comunicazione diviene molto più facile e qualsiasi informazione può circolare liberamente.

All’interno di questa cornice la flessibilità subentra come caratteristica distintiva della società moderna, dove “essere moderni” significa cambiare, compulsivamente e ossessivamente, in un’ottica di miglioramento all’infinito, privo di qualsiasi prospettiva o aspirazione a diventare “definitivo”. È questo un concetto ben riassunto nella definizione di Bauman di “modernità liquida” che, contrapponendosi alla modernità solida della società alle nostre spalle (caratterizzata da rigidità, sicurezza e ripetitività), veicola invece il bisogno di non ipotecare il futuro e di scongiurare qualsiasi rischio di non poter sfruttare le opportunità ancora segrete, ignote e inconoscibili auspicate ed attese per il futuro.

La virtuale vicinanza con ciò che fino al giorno prima è stato qualcosa di lontano ed estraneo facilita dunque l’individuo in questa ricerca di continuo cambiamento, grazie al confronto con qualcosa che è costantemente nuovo e diverso. Se da un lato tutto ciò può rappresentare un’importante fonte di arricchimento e aprire l’individuo ad un variegato ventaglio di possibilità circa la propria esistenza, dall’altro può costituire, tuttavia, un significativo indebolimento e allontanamento da ciò che è familiare. Per l’individuo è pertanto sempre più facile trovarsi senza punti di riferimento.

In virtù di queste caratteristiche, l’individuo viene a percepirsi sempre più vicino a una comunità dai confini potenzialmente infiniti ma, allo stesso tempo, molto lontano dall’essere realmente noto, conosciuto e compreso. Ciò non può che comportare da un lato un sentimento di sofferenza psicologica, derivante dal senso di estraneità e di lontananza sperimentata dall’individuo all’interno della propria comunità, dall’altro aumenta inevitabilmente la paura dell’Altro, sconosciuto e diverso che, in molti casi, induce a rifiutare ciò che non si riesce a trattare e che quindi genera paura (si pensi ad esempio agli episodi di razzismo).

La sofferenza psicologica degli stranieri: l’influenza dell’attaccamento e della dimensione sociale

Se numerosi sono stati gli studi, in ambito della psicologia sociale, condotti sul tema del gruppo e delle relazioni tra ingroup ed outgroup, sul razzismo, stereotipi, pregiudizi, sempre maggiore è tuttavia l’interesse che in tempi recenti sta assumendo la dimensione della sofferenza individuale in risposta ai fenomeni appena descritti.

Con l’espressione dolore sociale s’intende proprio[blockquote style=”1″] la spiacevole esperienza che deriva dalla percezione di una distanza psicologica tra se stessi e gli altri.[/blockquote] In particolare, Eisenberger e Lieberman, tra i principali studiosi dell’argomento, si sono chiesti se la vita sociale e affettiva possa essere paragonata al bisogno umano di aria, acqua e cibo. Per quanto possa sembrare un’ipotesi iperbolica e, forse, anche leggermente sdolcinata, gli studi sul sistema di attaccamento ci insegnano che la ricerca ed il mantenimento di uno stato di vicinanza fisica con la propria figura di accudimento è funzionale alla sopravvivenza dell’individuo, non solo in termini di nutrimento, piuttosto sembra essere fondamentale anche rispetto al bisogno di contatto fisico e psicologico, di compagnia e di calore.

Nei loro studi, Eisenberger e Lieberman hanno dimostrato, inoltre, tramite indagini neurologiche, che il dolore fisico e il dolore sociale condividono le stesse basi neurali, situate nella corteccia cingolata anteriore, specificatamente nella suddivisione dorsale, ovvero aree 24 e 32 di Broadmann. Gli autori propongono l’ipotesi che la condivisione di tali meccanismi di processamento sia alla base di un circuito neurale di allarme funzionale alla sopravvivenza. Se, infatti, all’inizio il sistema entrava in allarme quando il caregiver si separava dal figlio, aumentandone in tal modo l’esposizione al pericolo e quindi i rischi di vita, tale meccanismo sarebbe poi rimasto attivo tutta la vita: questo perché si sarebbe sviluppata una sorta di dipendenza dal contatto con gli altri, che porta gli esseri umani a vivere come necessaria la compagnia altrui, anche quando l’organismo abbia raggiunto una fase matura di sviluppo.

Lo dimostra il fatto che, ad esempio, le persone aventi un attaccamento ansioso, caratterizzato dalla preoccupazione per il rifiuto altrui, e affette da malattie che provocano dolore cronico, tendono ad esperire maggiore dolore rispetto a persone con lo stesso disturbo ma con attaccamento sicuro (Ciechanowsky et. al., 2003). Altri studi hanno rilevato che la percezione del dolore fisico dopo un infarto, durante un parto, o conseguente a un tumore, viene attenuata dalle esperienze di supporto sociale (Dakof et al., 1990). Il contatto con gli altri è dunque una delle cose che ci tiene in vita e, non meno importante, ci aiuta a vivere meglio.

L’empatia nel contesto terapeutico con gli stranieri: le difficoltà del terapeuta

L’importante funzione adattiva svolta dal dolore sociale nel garantire la sopravvivenza dell’individuo ed il suo adattamento all’ambiente, solleva un’interessante questione che ci porta ad ipotizzare che questa particolare forma di dolore condivida con il più classico dolore fisico molto più che le medesime basi neurali. Si potrebbe, infatti, pensare che gli stessi meccanismi di riconoscimento del dolore regolino entrambi i fenomeni. Così, gli studi che dimostrano l’attivazione dei neuroni specchio in seguito all’osservazione di stimoli dolorosi provati da altre persone, considerati come dimostrazione delle basi scientifiche dell’empatia, potrebbero trovare un’importante applicazione negli studi sul dolore sociale.

È questo un tema di particolare interesse soprattutto all’interno del contesto terapeutico, che si fonda proprio sulla capacità di empatia del terapeuta; è Batson (1997) che in The Emphaty-Altruism Hypotesis afferma che l’empatia fungerebbe da motivazione nell’attivazione di schemi d’azione volti alla riduzione della sofferenza altrui.

Ma come cambia tale capacità nel terapeuta di fronte ad una società globalizzata, sospinta verso una forte integrazione di culture e valori differenti, che portano con sé anche un modo specifico e peculiare di vivere le esperienze dolorose della vita?

E’ ovvio che il rapporto con gli stranieri nella cura è complicato dai fattori sociali e culturali. E’ vero, infatti, che ogni individuo è un mondo a sé, e la condivisione di significati è difficile a prescindere, perché ognuno porta in ogni relazione il suo vissuto personale, la cultura familiare, la propria storia. Tuttavia, più ci si allontana dalla propria realtà, più i fattori di complessità aumentano.

In questo senso, la missione del terapeuta che si approcci a questo aspetto della “fluidità” moderna, è quello di impegnarsi nel tentativo di colmare questa distanza con un grande slancio all’ ascolto empatico, ancora più grande di quello che gli è richiesto nella cura con ogni paziente.

Gli stranieri, per definizione, si trovano infatti in una prima situazione difficile, faticosa, che è quella di aver abbandonato il noto per andare verso l’ignoto, per trovarsi a convivere con una cultura, una società, completamente diverse da quella di origine, con tutto ciò che ne consegue. A ciò si aggiungono, spesso, condizioni economiche difficili, episodi più o meno eclatanti di discriminazione, un senso di disorientamento e solitudine. E’ quindi evidentemente fondamentale più che mai che la relazione con il terapeuta diventi un luogo accogliente e sicuro, anche nell’ottica di evitare a queste persone quello che potrebbe essere l’ennesimo episodio di estraneità, lontananza, esclusione sociale.

E’ dunque importante, come propongono alcuni autori, [blockquote style=”1″]approntare, nell’esercizio della psicoterapia con lo straniero, un setting capace di evocare un ambiente oggettuale in grado di garantire il suo senso di identità psichica e culturale[/blockquote] (Anagnostopoulos, Germano, Tumiati, 2007).

Una psicoterapia che contempli anche un democratico rispetto di una realtà diversa dalla nostra. In fondo, come suggerisce Biorci (2009), l’espressione di un disagio e l’idea di salute dipendono principalmente dalle risposte che ciascuno si dà, ovvero dal modo in cui l’individuo interpreta gli eventi intorno a sé, la propria storia di vita e le relazioni causa-effetto che attribuisce agli eventi (Biorci 2009).
Il fenomeno migratorio è relativamente recente in Italia, ma il modo in cui si è presentato nel nostro paese è stato forte, massiccio, imponente, e probabilmente lo sarà sempre di più. Per questo, l’approccio italiano alla psicoterapia cognitivo-comportamentale sta lavorando proprio per imparare a rispondere anche all’esigenza di questi pazienti, sempre più numerosi.

La terapia ad orientamento cognitivo-comportamentale pone in interconnessione comportamenti, pensieri ed emozioni. Più nello specifico, secondo tale modello un disagio psichico si svilupperebbe sulla base della presenza di pensieri disfunzionali troppo rigidi che non solo inficiano il nostro benessere mentale, ma tendono inoltre a preservarsi tramite circoli viziosi di auto-mantenimento (Semerari, 2000).
Questo sarebbe comune a tutti gli esseri umani e, quindi, nella relazione con gli stranieri, più che approntare una terapia ad hoc, sarebbe utile aggiustare alcuni aspetti della terapia classica per andare incontro alle esigenze di ognuno.

La psicoterapia cognitivo comportamentale con pazienti stranieri

Esiste, per esempio, la cosiddetta Chinese Taoist Cognitive Psychotherapy (CTCP), che è una sorta di adattamento della terapia cognitivo-comportamentale ad alcuni valori della cultura cinese (Bianco, Messore, Radice, 2016). In questo caso, il terapeuta, oltre a concentrarsi sui pensieri disfunzionali e sulla loro connessione con le emozioni, assume una funzione prettamente didattica e dedica alcune ore ad illustrare al paziente i 32 caratteri taoisti. Questo perché nella cultura cinese la gerarchia dei ruoli è molto importante, pertanto porsi quale figura didattica autorevole aiuta in questi casi a porre il terapeuta come persona meritevole di fiducia.

Altro esempio è il rapporto di cura con pazienti ispanici. In tal caso, è necessario prestare attenzione a dettagli specifici della loro cultura, che prevedono ad esempio di aderire ad un modello di estremo rispetto nei confronti del paziente esprimendolo tramite forme di cortesia come l’utilizzo degli appellativi señor o señora e in generale di un atteggiamento orientato al para servirla (Organista e Muñoz, 1997).

Al di là degli esempi specifici riportati in questa sede, si potrebbe dire che l’approccio della scuola cognitivo-comportamentale italiana alla psicoterapia con gli stranieri, non modifica tecniche e procedure di base ma cerca piuttosto di integrarle con alcuni values specifici della cultura di appartenenza del soggetto con cui di volta in volta ci si confronta nella relazione di cura, al fine non solo di farlo sentire accolto, ma anche di non trascurare informazioni importanti ai fini della terapia.

In generale, è necessario che qualsiasi tipo, modello, o approccio che si affacci ad affrontare una psicoterapia con pazienti stranieri [blockquote style=”1″]rispetti i principi minimi della democrazia e, in particolare l’introduzione del contraddittorio nell’ambito stesso del dispositivo terapeutico[/blockquote] (Nathan, 2001, p. 77). Non bisogna infatti dimenticare la duplice appartenenza/non appartenenza di tale soggetto a due culture diverse, la fatica di questo essere sospeso tra due mondi spesso molto diversi tra loro. Per fare ciò sarebbe necessario costruire un quadro relazionale ispirato all’ascolto, e al rispetto dei suoi modi di fare, dei suoi oggetti di culto, dei suoi esseri invisibili, e dei suoi dottori (Nathan, 2001).

Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire – Ciottoli di psicopatologia

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire (Nr. 19)

 

Il delirio: quando la propria realtà non è plausibile

A motivo di alcuni miei passati scritti sul tema del delirio e delle psicosi e forse anche per la mia storia di psichiatra territoriale e ruspante del servizio pubblico anche allo studio privato mi arrivano spesso pazienti molto gravi con deliri allo stato nascente o ben strutturati. Non voglio qui ripetere la mia spiegazione del senso del delirio, della sua genesi e del mantenimento ma prendere spunto da esso per reinterpretare la terapia di qualsiasi paziente come la costruzione di un delirio utile e benevolo.

La visione che ciascuno ha di se stesso è il risultato, l’epilogo della narrazione che si fa delle vicende della propria vita. Ognuno è il protagonista, positivo per chi sta bene e negativo per chi soffre, della storia che si racconta. Ciò vale anche per aggregati sovraindividuali come le famiglie o i popoli. Ma questa è un’altra storia, anzi è proprio la Storia e riguarda gli storici. Non ha alcuna importanza che questa storia corrisponda effettivamente alla realtà. I vincoli nella sua costruzione sono piuttosto la coerenza interna e la plausibilità. Quando la realtà propone dati apparentemente contraddittori con essa vengono ignorati o distorti per diventare delle conferme invece che delle invalidazioni (in questa operazione consiste il delirio che appunto si differenzia dal salutare autoinganno solo quantitativamente e non qualitativamente “fanno quello che facciamo tutti ma diavolo, non si regolano”).

Le rappresentazioni della realtà: quando generano sofferenza

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

Detto in termini più pedestri: se è vero che “ognuno se la canta e se la sona”, mentre nel delirante il problema è che lo fa in un modo così personale e originale che gli altri non lo capiscono e nessuno lo va a sentire, perché il “nevrotico” (passatemi questo termine preDSM) lo fa in un modo che non piace proprio a lui? Se fossi un sistemico penserei che quella brutta storia dolorosa sia funzionale e coerente ad una narrazione familiare o culturale più vasta. Per rimanere più cognitivista potrei ipotizzare che il confermazionismo prevale sul cambiamento e, in termini piagetiani, l’assimilazione sull’accomodamento, in nome della coerenza ad un nucleo di sé originario alla cui definizione concorrono fattori genetici e ambientali/relazionali precocissimi. In altri termini ci si mette in testa un’idea di sé e del mondo da come ti trattano i genitori e poi ci si affeziona ad essa e la si conferma sempre. Se in questa paralisi conoscitiva il premio nobel spetta al delirante la grande schiera dei testardi e la più ristretta cerchia dei nevrotici sono lì a insidiarne il primato.

Torniamo alla psicoterapia come costruzione di un delirio utile e benevolo ed al terapeuta come sceneggiatore. Chi è disturbato dalla metafora cinematografica per l’idea di falsità che suscita, pensi alla situazione del pubblico ministero e della difesa in un processo indiziario. I fatti della realtà stanno lì ma la loro concatenazione e il loro significato sono proposti dagli avvocati. E’ utile notare che meno sono i fatti ineludibili che si impongono e di cui la storia deve dar conto, maggiore è la libertà creativa e interpretativa del narratore. L’aspetto teorico si impone con più facilità in carenza di dati. Se la teoria è debole i dati si impongono ad essa e sono loro a dettare legge, siamo in una situazione di massimo empirismo e di facile cambiamento. Al contrario se la teoria è forte e/o irrinunciabile, i dati sono asserviti ad essa che li ignora o li distorce a piacimento, siamo in una situazione di massimo dogmatismo. Non servono molte prove per edificare un delirio ma soprattutto un gran bisogno o meglio la necessità assoluta di pensarla in un certo modo. Si pensi a certe teorie complottiste che generano costruzioni enormi resistenti ad ogni critica che viene trasformata in una corroborazione, a partire da dati quasi inesistenti e solo da un’ intuizione.

Come utilizzare le storie sulla realtà in terapia

Credo che ciascuno per il proprio modo di conoscere potrebbe essere collocato lungo la dimensione empirismo- dogmatismo.
Il grado di certezza con cui crediamo ad una storia è dato ( Kaneman pag 220 e seg) dalla coerenza e dalla facilità di elaborazione della storia stessa che a sua volta è favorita dalla scarsità di elementi concreti perché si è più liberi di creare senza troppi vincoli. Anche le emozioni che suscita tendono a renderla credibile, nonché la somiglianza con vicende conosciute ( è possibile perché è già successo) ancor di più se prototipiche e archetipiche.

Questa teoria delle storie che creano la realtà in cui viviamo la utilizzo in due modi in terapia. Da un lato proprio con i deliranti che si fanno forti delle prove per sostenere il loro pensiero chiedendo loro di immaginare una storia che porti alla conclusione che io sia che so…… un pedofilo,…. un terrorista islamico od un frate di clausura ( non tutto insieme, una cosa per volta) a partire dagli elementi presenti nel mio studio. In genere ci riescono facilmente ed io integro con ulteriori esempi in modo da dimostrare che da tutto si può arrivare a tutto se lo si vuole (per la serie “ chi cerca trova, anche quello che non c’è). Con gli altri pazienti invece una volta ascoltata la loro descrizione dell’attuale situazione che vivono e della storia con cui si spiegano come ci sono arrivati ed il cui “protagonista” in genere non è un gran che, li invito a costruire altre narrazioni del tutto diverse che tuttavia arrivano alla stessa conclusione. Io stesso propongo alcune storie alternative che siano compatibili con i valori del soggetto e vedano un protagonista migliore.

Nelle storie che chiedo al paziente di elaborare a volte chiedo di introdurre obbligatoriamente degli elementi fissi. Ad esempio di fronte ad un uomo che si auto svaluta per il fallimento del suo matrimonio gli posso chiedere di raccontare come può arrivare a ciò un uomo in gamba, intelligente e sensibile. Di fronte ad un fallimento economico cosa potrebbe causarlo oltre l’incompetenza del soggetto. Ovviamente la realtà è così varia che fornisce spunti per costruire storie d’ogni genere, basta guardarsi intorno. Insomma tenendo fermo il punto di arrivo si va ad esplorare quante diverse strade possano condurre ad esso. La stessa procedura chiamata dai consulenti aziendali “post-mortem” è utilizzata per evitare che ci si avventuri, guidati dall’entusiasmo, in progetti rischiosi aiutando a vedere le possibili criticità. Essa consiste nell’immaginare che il progetto sia stato un fallimento totale e che ci si ritrovi sulle macerie fumanti per esaminarne le cause che impreviste prima appaiono ora assolutamente evidenti. Insomma ora che il fallimento c’è stato, a cosa è attribuibile che prima non abbiamo previsto? Al contrario in terapia stante che la situazione attuale è ineludibile, le cose stanno proprio così, quanti diversi percorsi possono aver condotto a ciò e quale versione sosterrebbe l’avvocato difensore dell’autostima del protagonista. Insomma la terapia tenta di sostituire la narrazione che il paziente fa della propria vita che prevede un protagonista negativo ai suoi occhi con un protagonista accettabile se non encomiabile.

 

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il punto cieco: trovarlo scoprendo la propria amabilità e dignità – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa: cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il punto cieco (Nr. 18) 

 

In  supervisione mi riprometto di stare attento a quanto viene detto e rispetto ai casi ma sopratutto al punto di vista dal quale viene detto, insomma sono più interessato ai colleghi che al paziente. Alle premesse dalle quali affermano ciò che affermano. Il panorama che vedono lo descrivono benissimo meglio di come potrei fare io che invece sono preso dai loro occhi.

Insomma la predica è interessante e su di essa dibattiamo e la aggiustiamo ma vuoi mettere il fascino del pulpito. Ancor più utile forse è far caso a ciò che non si vede perché dato per scontato (ovvio, appunto). Il punto cieco credo sia in parte culturale, in parte familiare e in parte individuale (33,33, 33 come diceva Leonardo a Troisi e Benigni).

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco che, se volessimo legarci a tradizioni più nobili potremmo chiamare “Ombra”,  sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi? Forse in supervisione non è decisivo quantunque l’atmosfera relazionale è importante per fare un buon lavoro. Ma certamente in terapia lo è.

Il segreto credo stia nella relazione che permette al paziente di guardarsi nello specchio rappresentato dal terapeuta senza dover per forza distorcere l’immagine per vedere la più bella del reame. Una relazione in cui sono sicuro e riconosciuto permette di non indossare ma guardare come oggetto il “falso sé”  dismesso.

Se consideriamo che una buona relazione consente la metacognizione e se cessa l’allarme lo stesso ragionamento (quello base non solo quello meta) migliora per la gioia di Baron allora la terapia avrebbe come scopo di permettere al soggetto di essere “come è” certo che non perderà l’amore. A questo punto anche a costo di perdere il monopolio della cura dobbiamo ipotizzare che possono esistere relazioni amorose che sono in senso profondo autenticamente terapeutiche. Anche se mi sembra persino una osservazione alla Catalano. Meno ovvio ed un po’ eretica è che una relazione non può essere terapeutica se non è anche d’amore (troppo detto così?, che resti tra noi)

 

Giungere al punto cieco passando da amabilità e dignità

Propongo di ragionare su uno dei due termini che sono stati proposti come oggetto della umana profonda rassicurazione sulla propria dignità e sull’essere amato suggerita dal dottor Conversi (comunicazione personale 2016) come  scopo profondo di tutte le terapie. Ammesso che essere “amabile” una volta eliminato l’equivoco con “essere amato” (che tuttavia presumiamo esserne la causa) sembra essere la percezione di sé come  interessante e appetibile per l’altro, meno chiaro è l’altro termine.

Di “dignità” sono pieni i giornali, gli appelli del papa, le dichiarazioni dei diritti di tutti i generi ed anche io ho imparato ad usarlo, so dove ci sta bene e grossomodo significa valore ma esattamente cosa intendiamo? come la si perde? e come si può incrementare? Non può essere semplicemente qualcosa di superficiale come il “decoro” ma ne sta al confine. Insomma colleghi uno scatto di dignità e definiamolo operativamente.

In sintesi si può dire che “attraverso una relazione umana profondamente rassicurante sulla propria amabilità e dignità si può: lasciare il proprio falso Sé e disappannare il proprio punto cieco, ragionare senza troppi bias e incrementare la metacognizione

Immaginiamo che in principio ci sia il sé autentico (SA) e che questo sperimenti di non essere amato e di non valere (ciò rimanda alla pippa suprema, la madre di tutte le seghe mentali, ne abbiamo accennato all’ultimo incontro, Dio mi perdoni! se il valore sia importante per essere amato o, piuttosto, l’essere amato come prova del proprio valore: siccome questa storia non si striga granché, né teoricamente né per me personalmente, in quanto alcune volte mi sembra in un modo, altre in quello esattamente opposto, come quelle figure care alla gestalt,  la lascerei così, concludendo che valore ed essere amato sono due scopi terminali indispensabili per la sopravvivenza). Se il SA sperimenta di non essere amato per cercare di esserlo si scinde  in due:

  • Un sé sommerso (SS) o ombra che racchiude tutto ciò che non si vuole essere (gli antiscopi identitari).
  • Un sé ideale o IO  che ne costituisce l’opposto (gli scopi identitari).

Il falso sé è la narrazione interiore da un lato e la recita sociale dall’altro, ciò che si fa per credersi IO di valore e amabile. Queste operazioni di autoinganno e camuffamento ancorché faticose e costose fanno sperimentare interiormente un senso di impostura o bluff e danno agli osservatori un senso di inautenticità.

La psicoterapia attraverso una relazione correttiva che come dice San Paolo nell’inno all’amore “tutto comprende, tutto accetta, tutto giustifica, tutto scusa, tutto ama”  ( credo sia più o meno la relazione compassionevole di Gilbert) permette una integrazione dell’ombra e dell’Io in un nuovo sé autentico.

Un ulteriore passo potrebbe essere definire come mappare l’IO e l’Ombra.

Faccio alcune osservazioni così un tanto al chilo: l’Io è il punto di vista dal quale parliamo. Il Pulpito da cui proviene la predica che è, appunto la narrazione del falso sé. Per scoprirlo basta chiedere al soggetto “come è”. Sembrerebbe più preciso chiedere “come vorrebbe essere” ma in realtà lui non si accorge, appunto, della differenza, ci crede davvero.

Altro elemento è che rispetto a quel modello di persona è completamente acritico e ritiene che quelle caratteristiche siano il bene assoluto in modo autoevidente e non necessitino di spiegazioni. Stessa acriticità e autoevidenza la mostra verso le caratteristiche opposte che rappresentano l’Ombra e in genere attribuisce agli altri che considera nemici. Nel caso, anche solo per scherzo, quest’ultime vengano riferite a lui perde ogni forma di autoironia, al punto che si potrebbe elaborare un test fatto di battute chiedendo quali non lo fanno ridere e trova stupide: segnalano i confini dell’ombra.

L’Io è la voce narrante fuori campo, il sé mnemonico semantico che ci racconta chi siamo e le cui belle storie ci aiutano ad addormentarci anche quando sappiamo che non la racconta giusta, e tanto meno tutta.

L’ombra, attenzione, non è quello che non ci piace essere, gli aspetti di noi che critichiamo. A ciò abbiamo ampio accesso cosciente, ce lo diciamo ogni giorno nei rimproveri che ci muoviamo, ed anzi, avere una serie di cose che non si vuole essere non è altro che un ulteriore sostegno e conferma dell’Io “sono talmente così che non vorrei assolutamente essere così e mi sforzo continuamente di non esserlo”.  Insomma l’Ombra è una cosa seria. Per dirla in termini religiosi non è un peccatore per quanto incallito ma Lucifero in persona con coda e zoccoli regolamentari.

Per questo la sua integrazione con l’Io nel rinnovato sé autentico attuabile all’interno di una relazione compassionevole ha più a che vedere con una conversione e la creazione di un “Uomo nuovo” piuttosto che con quello che normalmente si intende per guarigione.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Web delle mie brame: social network, insoddisfazione corporea e disturbi alimentari

Talune ricerche hanno sostenuto l’associazione tra l’uso di social network, l’ insoddisfazione corporea e i disturbi alimentari. Più in generale, hanno evidenziato l’attenzione sociale centrata sulla magrezza e sulla muscolosità, e su come gli ambienti, reali o virtuali, che enfatizzano l’apparenza possano aumentare il rischio di incombere in tali preoccupazioni.

Luisa Resta – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

La ricerca sulle implicazioni psicologiche dell’uso e dell’esposizione ai social network è un’area relativamente nuova della ricerca che prende avvio in tempi abbastanza recenti, e, nello specifico, si è interessata all’influenza dei social sull’immagine corporea e sui disturbi alimentari.

 

L’ insoddisfazione corporea: l’influenza dei Social Network

Spesso, a un primo approccio con le problematiche dell’immagine corporea e a causa di un’eccessiva semplificazione dovuta al filtro dei mezzi di comunicazione di massa, si tende a far coincidere il concetto di immagine corporea con quello dell’apparenza fisica, dell’esser belli o attraenti.

Grogan (2008) ha definito l’immagine corporea come quell’insieme di percezioni, pensieri ed emozioni che una persona esperisce riguardo al suo corpo. Ma non sempre tali percezioni sul proprio corpo hanno un’accezione positiva, né tantomeno coincidono con la forma corporea ideale a livello soggettivo: si parla in tal senso di insoddisfazione per l’immagine corporea. Tale insoddisfazione rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio e di mantenimento dei disturbi legati all’immagine corporea e all’alimentazione (Thompson et al., 1999).

All’origine di tale insoddisfazione corporea, si ritrova molto spesso l’influenza dell’uso dei social network (Facebook, Instagram, Twitter, MySpace) che consentono ai loro utenti di crearsi dei profili online, pubblici o privati, che possono essere usati per sviluppare relazioni, interagire con altri utenti online ma soprattutto di mettersi in mostra in una vetrina cui tutti hanno libero accesso.

L’uso dei social è largamente diffuso tra adolescenti: in Europa circa il 70% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni ne fa uso, e tra questi, il 40% trascorre almeno 2 ore al giorno online (Tsitsika et al., 2014 ). I siti social sono costituiti dai profili personali degli utenti che vengono “personalizzati” tramite descrizioni e foto; inoltre, gli utenti possono guardare voyeuristicamente e commentare le presentazioni degli altri iscritti, e a loro volta leggere i commenti degli amici virtuali sulla propria pagina.

Taluni filoni di ricerche, sia di tipo correlazionale che sperimentale,  hanno sostenuto l’associazione tra l’esposizione ai media, l’ insoddisfazione corporea e i disturbi alimentari in campioni femminili. Più in generale, i modelli eziologici sulle preoccupazioni legate all’immagine corporea e all’alimentazione hanno evidenziato l’attenzione sociale centrata sulla magrezza e sulla muscolosità, e su come gli ambienti, reali o virtuali, che enfatizzano l’apparenza possano aumentare il rischio di incombere in tali preoccupazioni ( Thompson et al., 1999; Madden et al., 2013).

Tra i modelli socioculturali tramite cui è stata indagata l’immagine corporea vi è il modello di influenza tripartito dell’immagine corporea (Thompson et al., 2012). Esso descrive come una varietà di canali socioculturali, in particolar modo i genitori, i pari, e i mass media, trasmettono ideali di bellezza agli individui. Di conseguenza, gli individui interiorizzano tali ideali e, quando la loro apparenza non corrisponde a tali stereotipi, si sentono poco soddisfatti del loro aspetto esteriore e sperimentano insoddisfazione corporea.

 

Uso di social network e insoddisfazione corporea negli adolescenti

Dalle  ricerche che hanno indagato il ruolo esercitato dall’influenza di fonti primarie, quali i media e i pari (Keery et al., 2004), sui livelli di insoddisfazione corporea, è emerso che i soggetti più sensibili a queste influenze sembrano essere gli adolescenti, nei quali l’esposizione a modelli di bellezza ideale sembra predire alti livelli di insoddisfazione corporea (Knauss et al., 2007).

De Vries (2016), in uno studio longitudinale su un campione di adolescenti olandesi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni, ha approfondito la relazione tra l’uso dei social network e l’ insoddisfazione corporea, suggerendo che i social network costituiscono un ulteriore canale socioculturale che influenza l’immagine corporea degli adolescenti; infatti maggiore è il suo utilizzo, maggiore risulta l’ insoddisfazione corporea tra gli adolescenti, sia nei maschi che nelle femmine.

Tra i meccanismi attraverso cui l’uso dei social ha un impatto sulle preoccupazioni legate all’immagine corporea e all’alimentazione vi è il confronto sociale, come emerge dallo studio di Smith et al., (2013). I ricercatori hanno evidenziato come l’uso disadattivo dei social (inteso come l’utilizzo della piattaforma social allo scopo di operare confronti sociali o auto-valutazioni negative) porti ad un aumento dei sintomi bulimici ed episodi di abbuffate, e che tale relazione è mediata dall’ insoddisfazione corporea, che emerge soprattutto quando gli utenti effettuano confronti con le foto dei coetanei, in particolare quelli magri e attraenti (Rodgers & Melioli, 2016).

Fox & Rooney (2015 ), in una ricerca  online  condotta su un campione di 800 maschi americani, con un’età compresa tra i 18 e i 40 anni, hanno esaminato la cosiddetta triade nera (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e l’auto-oggettificazione (intesa come la costruzione sociale del corpo come oggetto, da guardare e valutare in base all’aspetto esteriore) come predittori dell’uso dei social:  l’auto-oggettificazione e i tratti di personalità narcisistica predicevano il tempo trascorso su tali siti. Nello specifico, il narcisismo e la psicopatia predicevano il numero di selfies postati, mentre il narcisismo e l’auto-oggettificazione predicevano il tempo dedicato alla pubblicazione di foto sul social network.

 

I commenti negativi sui social: quale effetto sull’immagine corporea?

L’interesse dei ricercatori si è concentrato anche sui commenti negativi che si ricevono sui social. In uno studio dai contorni innovativi, i ricercatori hanno codificato gli aggiornamenti di stato su facebook dei partecipanti per un periodo di 31 giorni, come pure le altre risposte degli utenti a tali aggiornamenti. I risultati hanno rivelato che la ricezione di commenti negativi in risposta ad aggiornamenti di status è stata associata con livelli più elevati di preoccupazioni riguardanti il peso, la forma e l’alimentazione (Hummel e Smith, 2015). Inoltre, gli individui che tendevano a cercare un feedback su Facebook, ma hanno ricevuto feedback negativi, riportavano livelli più alti di ristrettezze dietetiche.

In uno studio svedese, il cyberbullismo, considerato tra le tipologie più pericolose di commenti negativi, era associato con un basso livello di autostima, in un campione di oltre 1000 bambini e adolescenti di età compresa tra i 10, 12 e i 15 anni (Frisen et al., 2014). Inoltre, la ricezione di feedback negativi da parte degli altri sui social era correlata con un alto livello di preoccupazioni relative all’immagine corporea e all’alimentazione.

 

L’impatto dei siti pro-ana sull’immagine corporea

Per quanto riguarda la relazione tra l’esposizione ai siti a favore dei disturbi alimentari e le preoccupazioni  per l’immagine del corpo e l’alimentazione, in uno studio pilota condotto su un campione di adolescenti di età compresa tra i 13, 15 e i 17 anni, è stato trovato che il visitare siti web pro-anoressia (pro-ana) era associato con un’alta spinta alla magrezza, all’ insoddisfazione corporea e al perfezionismo ( Custers e Van den Bulck, 2009).

Tra le ragazze del college, l’esposizione a siti pro ana è stata associata ad una diminuzione del consumo calorico durante la settimana successiva all’esposizione ( Jett et al . 2010), e a maggiori livelli di insoddisfazione corporea, spinta alla magrezza e sintomi bulimici (Harper et al., 2008). L’interiorizzazione dei messaggi pro-anoressia correla con la spinta alla magrezza e alla muscolosità a prescindere dal genere (Juarez et al . 2012); inoltre, ad un frequente ricorso a tali siti corrispondono livelli maggiori di disturbi alimentari (Peebles et. al, 2012).

Gli studi  incentrati sui social media hanno evidenziato il ruolo del confronto basato sull’apparenza come un meccanismo critico che rende maggiormente complessa la relazione tra social e le preoccupazioni legate all’immagine corporea e al cibo. L’esplorazione di pagine internet a favore dei disturbi alimentari richiama l’idea più ampia di “identità di gruppo”, mettendo in evidenza come questi gruppi online sviluppino un’identità comune, rafforzata dall’ostilità nei confronti degli outgroup, e la fornitura di sostegno sociale per i membri interni al gruppo (Wooldridge et al . 2014).

Tale identità si rafforza attraverso la normalizzazione delle condotte e dei pensieri riferiti al disturbo alimentare, laddove l’anoressia e la bulimia vengono raffigurate come consapevoli e libere scelte di vita (Rodgers et al., 2013), che nella pratica potrebbero favorire o mantenere il disturbo alimentare stesso. Pertanto, il modello dell’ identità sociale può essere utile per una migliore comprensione del modo in cui gli adolescenti utilizzano Internet e dei processi legati allo sviluppo dell’immagine del corpo.

 

L’esposizione a Facebook e gli effetti sull’ insoddisfazione corporea

Ulteriori dati sperimentali sembrano supportare la relazione tra l’esposizione a Facebook e le preoccupazioni sulla forma corporea e l’alimentazione. Ad esempio, in letteratura si ritrovano studi sperimentali sugli effetti dell’esposizione ai contenuti di facebook (reali o artefatti), rispetto a siti web più neutri. In un campione inglese di giovanissime, si è visto che bastavano 10 minuti di consultazione per peggiorare il tono dell’umore, rispetto a quanto accadeva dopo aver visitato altri siti web a contenuto “neutro” (Fardouly et al., 2015). Nello specifico,  tale studio ha evidenziato come l’esposizione a Facebook possa aumentare le preoccupazioni relative all’avere o meno un viso attraente, rispetto al peso e alla forma corporei.

Un anno prima, Mabe et al. (2014) avevano notato, in un campione di studentesse americane, che quelle assegnate alla condizione sperimentale che prevedeva la visione del proprio profilo, in confronto ad una pagina web neutra, mantenevano i livelli iniziali di preoccupazione sul peso e la forma del corpo, mentre quelle assegnate alla condizione che prevedeva un confronto con uno stimolo attivante (es. profilo di un ipotetico utente più attraente) riportavano risultati peggiori al post test.

Paradossalmente, accanto ad un’esposizione massiva di corpi snelli, muscolosi, tonici, veicolati tramite i canali social, si assiste al fenomeno opposto ovvero l’evitamento di esporsi pubblicamente. Questo lato oscuro del web potrebbe celare un disagio più profondo, una grave insoddisfazione corporea e un profondo senso di vergogna, nonché valutazioni negative sul proprio aspetto e tratti di personalità socialmente ansiosa (Rodgers et al., 2015), che portano gli utenti a rimanere nascosti dietro le “quinte”.

Sebbene si possa affermare che i dati sperimentali esistenti sono a sostegno dell’esistenza di una relazione tra Internet, l’ insoddisfazione corporea e le preoccupazioni relative al cibo, è auspicabile che la ricerca continui a interessarsi e ad esplorare i molteplici lati del web, in particolar modo dei social e dei loro meccanismi d’azione sull’ immagine corporea, per contribuire a rendere l’universo online uno spazio con un’accezione prevalentemente positiva.

Stress e problemi cardiaci nelle donne

Molte donne tendono a sovraccaricarsi eccessivamente di stress, in quanto, dovendosi occupare di tutti coloro che stanno attorno a loro, cercano di rendere perfetta ogni cosa. Questo può causare stress e ansia elevati che a loro volta possono portare a gravi problemi cardiaci.

 

Stress e attacchi cardiaci: la relazione presente nelle donne

La Dr.ssa Karla Kurrelmeyer, afferma che alcune donne tendono ad ignorare i primi sintomi di un attacco di cuore.

Durante un attacco di cuore in molti sperimentano gli stessi sintomi, quali dolori al petto, mancanza di respiro ecc., sintomi diversi invece si provano per gli attacchi cardiaci silenziati, in questi casi si hanno sintomi semplici, quasi quotidiani, come una indigestione, sintomi simil-influenzali o semplici dolori alla schiena. Secondo la Dr.ssa Kurrelmeyer, è importante tener presente ogni singolo sintomo sopracitato per evitare danni permanenti. Ignorare i sintomi può essere fatale.

La Dr.ssa Kurrelmeyer afferma che la cardiomiopatia indotta dallo stress, nelle donne, è più frequente in prossimità delle festività. Ciò si verifica quando le donne sono sotto stress per un periodo di tempo breve ma intenso e questo stress si aggiunge a quello di un altro evento traumatico come un lutto in famiglia, un incidente stradale, perdita di denaro, ecc.

La cardiomiopatia indotta da stress è un indebolimento del ventricolo sinistro, ovvero la camera principale che pompa il sangue nel cuore. È causata dal rilascio di ormoni dello stress che mandano in shock il cuore, causando a loro volta dei cambiamenti nella muscolatura del cuore, che saranno poi la causa del mal funzionamento del ventricolo sinistro. La maggior parte delle persone affette da questa condizione sono donne con una età compresa tra i 50 e 70 anni.

Quando qualcuno vive in questa condizione, nella maggior parte dei casi viene trattata con i farmaci beta-bloccanti o ACE-inibitori. L’importante, se si presentano tutti quei sintomi, è sottoporsi a un ecocardiogramma il più presto possibile.

La Dr. Kurrelmeyer dice che molto spesso nelle donne vi è un picco della pressione sanguigna durante le vacanze e che, molto spesso arrivano in pronto soccorso con dolori al petto o palpitazioni e nei casi più gravi, corrono il rischio di un ictus. Inoltre, se in una donna vi è una storia di alta pressione sanguigna è importante monitorarla da vicino e costantemente, soprattutto in quei momenti in cui il livello di stress aumenta.

 

I sintomi più frequenti di problemi cardiaci nelle donne

Di solito, i problemi di cuore nelle donne sono riconoscibili come negli uomini. Alcuni dei sintomi per le donne includono:

– Estrema debolezza, ansia o mancanza di respiro

– Disagio, pesantezza o dolore al torace, al braccio, sotto lo sterno o nel mezzo della schiena

– Sudorazione, nausea, vomito, vertigini

– Pienezza, indigestione

– Battito cardiaco accelerato o irregolare

Secondo la Dr.ssa Kurrelmeyer è importante prendersi del tempo per se stessi durante le vacanze e fare tutto quello che possa in qualche modo alleviare lo stress. L’attività fisica, lo yoga, la meditazione, passeggiate nella natura o tutto ciò che serve o che può essere utile alla persona.

La vacanza deve essere un momento di relax da trascorrere in famiglia e in tranquillità e non con i medici al pronto soccorso per problemi cardiaci.

 

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