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Il quinto anno di State of Mind, il giornale delle scienze psicologiche

Al chiudersi del quinto anno di State of Mind si fanno piccoli bilanci, ci si chiede come vanno le cose: meglio o peggio di un tempo? Sono andata a vedere il compleanno del 2014: eravamo contenti, navigavamo intorno alle 150.000 pagine mensili, avevamo la sensazione di avere cambiato l’informazione sulla psicologia e sulla psicoterapia in modo radicale e che questo cambiamento si stesse vedendo nell’aumento dei lettori, non solo di area specialistica.

Oggi, alla fine del 2016, le pagine visualizzate ogni mese sono tra le 600.000 e le 700.000, il webjournal è considerato una fonte autorevole ed è citato sia come fonte di informazione che come aggiornamento su argomenti innovativi in molte sedi, non solo di specialisti. Si vede una tendenza diffusa a raccontare i fatti della psicologia e della psicoterapia in modo meno arbitrario, più serio, più documentato. Crediamo che questo nostro modo di raccontare abbia cambiato e stia cambiando il modo di fare informazione psicologica in Italia. Vediamo nascere molte iniziative, spesso interessanti e stimolanti che si riferiscono al modo di fare informazione del nostro webjournal. I websites delle scuole e delle società migliorano, si snelliscono divengono più facili da comprendere e da usare. È stato un grande sforzo di un piccolo gruppo di persone, una sfida, una piccola follia! Ma a oggi pensiamo che ne sia valsa la pena, e non solo per noi, ma per il pensiero psicologico e psicoterapico serio, in generale.

Come vediamo il futuro? Il giornale deve crescere, e affrontare argomenti sempre diversi con angolature innovative, deve divenire più bello e conquistare un suo posto stabile nel mondo dei webjournal. Ad esempio, la collaborazione del nostro Direttore con LINKIESTA è un importante allargamento della base dei nostri lettori. Vorremmo ancora allargare il numero e la qualità dei nostri collaboratori e rispondiamo sempre in modo aperto a ogni richiesta di collaborazione. La diffusione delle notizie inerenti eventi e convegni o le uscite di nuovi libri ci consente di avere un ruolo importante nella informazione su ciò che accade in Italia in psicologia, psicoterapia e psichiatria.

Un grazie al Direttore responsabile Giovanni Maria Ruggiero, al caporedattore Flavio Ponzio che si occupa anche di social network management e alla redazione: Linda Confalonieri, Serena Mancioppi che editano e controllano gli articoli oltre a fornire molti contributi e Valentina Davi che cura le informazioni sui congressi e sui libri.  Questo piccolo gruppo di collaboratori è rimasto uguale nel tempo, anche se le vite di molti sono cambiate, oggi infatti Linda Confalonieri, il suo lavoro di collaborazione, lo fa a Shangai. Un grazie anche ai nuovi editor: Marianna Palermo e Marina Morgese, e agli informatici Luca Colombaro e Andrea Deganutti che ci assistono con perizia e pazienza.

Un grande sentitissimo grazie a tutti gli autori del giornale, vecchi e nuovi. Questo progetto non esisterebbe senza il contributo dei tanti psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e professionisti della salute mentale che credono nel progetto State of Mind e periodicamente ci inviano i loro articoli, sempre originali, sempre corredati di un solido impianto bibliografico e di metodo scientifico. Il numero di chi collabora e la qualità dei contributi sembra aumentare nel tempo. Grazie anche a Studi cognitivi che continua a mettere a disposizione le risorse per continuare questa nostra bella avventura.

La dimensione diagnostica dei gravi disturbi psicotici e di personalità – Relazione congressuale

La relazione congressuale intitolata “La dimensione diagnostica dei gravi disturbi psicotici e di personalità” fornisce informazioni su come si sia modificato nel tempo il processo diagnostico dei suddetti disturbi, fino ad arrivare alla pubblicazione del DSM-5 con le diatribe e le critiche dei professionisti che questo manuale ha sollevato.

Aristide Tronconi

Nella relazione viene ripercorsa la storia del processo diagnostico dei gravi disturbi psicologici a partire dal 1500, periodo storico ricordato per i processi alle streghe e l’Inquisizione. Nel corso dei secoli l’approccio ai disturbi mentali si è modificato e il processo diagnostico è stato guidato da manuali diagnostici e statistici, tra il il DSM che è giunto alla sua quinta edizione. Ed è proprio sul DSM- 5 che viene focalizzata maggiormente l’attenzione.

“Triora è un borgo di montagna del Ponente ligure, in provincia di Imperia, di circa 500 abitanti, passato alla storia perché lì si tenne, tra il 1587 e il 1589, il più grande processo alle streghe che si fosse mai celebrato in Italia1. Il processo ebbe inizio verso la fine dell’estate del 1587, dopo un lungo periodo di carestia che ridusse alla  fame  l’intera  popolazione.  Gli  abitanti  erano  convinti  che  la  causa  non  fosse  naturale,  ma  dovuta  ai malefici e ai poteri occulti di alcune persone.  Va  ricordato  che  a  quell’epoca,  e  fino  a  tutto  il  secolo  successivo,  le  credenze  magiche  erano  abbastanza diffuse, non solo presso il popolo, ma anche presso gli uomini  di cultura2. Il Parlamento locale e il Podestà, in   accordo   col   Consiglio   degli   anziani,   decisero   quindi   di   avviare   un’indagine   locale   con   l’aiuto dell’Inquisizione, stanziando per le spese 500 scudi, una cifra enorme in relazione alla condizione economica del borgo stesso3. Non solo a Triora, ma anche in altre parti d’Italia e d’Europa, buona parte delle donne riconosciute colpevoli e condannate al rogo per stregoneria erano a conoscenza dei principi  medicamentosi di  molte erbe e piante. Si trattava di un sapere empirico che veniva tramandato in ambito familiare e usato per soccorrere i sofferenti della  comunità.  Poteva  talvolta  succedere  che  per  sensibilità  del  malato,  o  per  dosi  troppo  elevate  dei componenti erboristici, sopraggiungesse la morte per stato di tossicità, per cui la guaritrice veniva assimilata alla strega malvagia. […]

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Scoperto un farmaco che favorisce la neurogenesi dopo aver subito un ictus

I ricercatori dell’Università di Manchester hanno scoperto un nuovo farmaco che riduce il numero di cellule cerebrali distrutte da un ictus e quindi aiuta a riparare il danno.

Mariagrazia Zaccaria

Una riduzione del flusso sanguigno verso il cervello, causato da un ictus, è una delle principali cause di morte o disabilità, e ci sono pochi trattamenti efficaci.

Un team di scienziati dell’Università di Manchester, ha scoperto questo nuovo farmaco che nei roditori ha dimostrato di limitare la morte cellulare delle cellule esistenti e di promuovere anche la nascita di nuovi neuroni (la cosiddetta neurogenesi).

Questa scoperta fornisce un ulteriore supporto per lo sviluppo di un farmaco anti-infiammatorio, interluchina-1 (iL-1Ra), come nuovo trattamento per l’ictus. Il farmaco è già utilizzato dagli essere umani per l’artrite reumatoide, ma diversi studi clinici lo utilizzano nella fase iniziale della cura per l’ictus.

Nella ricerca, gli studiosi mostrano che nei roditori questo trattamento non riduce solo i danni cerebrali che si verificano nella fase iniziale dopo l’ictus, ma diversi giorni dopo si è verificato anche un aumento del numero di neuroni, se trattati con il farmaco iL-1Ra.

E’ importante sottolineare che l’uso della iL-1Ra potrebbe essere migliore di altri farmaci in quanto, non solo limita il danno iniziale alle cellule cerebrali, ma aiuta anche il cervello a ripararsi attraverso la neurogenesi.

Lo studio ha dimostrato che effettivamente il trattamento con iL-1Ra ha aiutato i roditori a riguadagnare le capacità motorie inizialmente perse dopo l’ictus e lo stesso studio suggerisce che potrebbe essere utile anche con gli esseri umani.

Il cibo, una conoscenza resiliente. Anche nell’Alzheimer, è una categoria cognitiva che “resiste”

Una ricerca SISSA, pubblicata all’interno di un numero speciale della rivista Brain and Cognition tutta dedicata alle neuroscienze cognitive del cibo, analizza i deficit lessicali-semantici della categoria cibo in pazienti affetti da malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer.

 

Lo studio dimostra che la conoscenza sul cibo tende a preservarsi anche in queste gravi sindromi, più di altre categorie di stimoli. Si mostra inoltre, e anche questa è una novità, che le calorie percepite di un cibo influenzano la capacità di recuperarne il nome: più calorico è l’alimento più la conoscenza viene preservata.

Raffaella Rumiati, professoressa della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, prima autrice del lavoro ed esperta di categorizzazione semantica del cibo, ha anche curato (con Giuseppe di Pellegrino, Università di Bologna) l’intera special issue della rivista, scrivendo anche un commentario introduttivo al numero.

Sarà forse perché è cosi cruciale per la nostra sopravvivenza, ma la conoscenza lessicale e semantica collegata al cibo viene – relativamente – preservata anche in quelle malattie che portano a un calo generalizzato della memoria e delle facoltà cognitive, come l’Alzheimer e l’afasia primaria progressiva.

A osservare questo fenomeno sono stati Raffaella Rumiati e il suo team alla SISSA (in collaborazione con Caterina Silveri del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma), che ha verificato le prestazioni cognitive di due gruppi di pazienti e di un gruppo di controllo composto da persone sane in compiti che riguardavano la comprensione e il riconoscimento visivo del cibo.

Non dovrebbe sorprendere che, anche in un calo cognitivo generalizzato, il cibo tenda in qualche modo a resistere meglio – commenta Rumiati – Non è difficile intuire come la pressione evolutiva possa aver spinto verso una maggior robustezza dei processi cognitivi legati al pronto riconoscimento di uno stimolo che forse è il più importante per la sopravvivenza.

Un altro dato generale a supporto di questa supremazia del cibo emerso nella ricerca è che in tutti tre i gruppi, pazienti e controllo, il cibo viene processato meglio del “non-cibo”.

Inoltre – aggiunge Rumiati – sappiamo dalla letteratura che i nomi degli alimenti più calorici sono quelli che vengono acquisiti per primi nel corso della vita.

Rumiati e colleghi hanno anche scoperto un altro particolare interessante: l’apporto calorico, di ogni cibo, così come è percepito dai soggetti è proporzionale a quanto viene risparmiato il ricordo del cibo stesso: più ci sembra calorico, meglio viene preservato.

Anche questo fenomeno potrebbe essere strettamente collegato a quanto detto prima: più il cibo è nutriente, più è importante riconoscerlo.

 

Un numero speciale

Il lavoro di Rumiati e colleghi nasce dalla necessità di ampliare le conoscenze su questo argomento:

Sembra strano eppure gli studi cognitivi sul cibo non sono molti, e solo negli ultimi anni questo argomento sta attirando maggiore attenzione da parte della comunità scientifica.

Questo numero speciale della rivista Brain and Cognition serve quindi anche a dare maggiore vigore a questo campo di studi.

Insieme a Giuseppe Di Pellegrino, dell’Università di Bologna, abbiamo curato il numero speciale e abbiamo anche scritto, su richiesta della rivista, un articolo introduttivo che fa il punto della situazione. Credo che nei prossimi anni questo ambito di ricerca diventerà via via sempre più importante – conclude Rumiati.

Gli effetti del terremoto dell’Aquila nel 2009: valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni

Nel presente studio mi sono interessata agli effetti del terremoto dell’Aquila avvenuto nel 2009. Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare la salute psichica dei bambini e degli adolescenti residenti a L’Aquila, dopo il terremoto.

Ilaria Amalfitani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Quando alcuni eventi diventano traumatici

Da tempo, la letteratura scientifica, ha riconosciuto che le esperienze di vita stressanti e gli eventi traumatici possono costituire fattori in grado di influenzare lo sviluppo di malattie fisiche e psichiche (Haavet & Grunfeld, 1997; Rutter, 2005).

Per essere traumatico un evento deve procurare nella persona una risposta che comprende paura intensa, il sentirsi inerme, o il provare orrore, questo dovuto all’esposizione del soggetto ad un evento che ha implicato morte o minaccia di morte, sia alla persona stessa che ad altri. Nei bambini solitamente la risposta comprende, inoltre, comportamento disorganizzato o agitazione (American Psychiatric Association, 2014).

Tra gli eventi traumatici a cui un soggetto può essere esposto rientrano i disastri naturali, tra cui i terremoti, che rappresentano una calamità purtroppo frequente in tutto il mondo.

 

L’impatto traumatico dei disastri naturali

Da letteratura si evince come l’esposizione ad un disastro naturale di questo tipo impatta sulla salute fisica e psichica di bambini e adolescenti colpiti, aumentando il rischio di sviluppare sia disturbi internalizzanti che esternalizzanti e provocando quindi conseguenze sulla salute a breve e lungo termine (Stratta, Cataldo, Bonanni, Valenti, Masedu & Rossi, 2012).

 

I disturbi internalizzanti

Per quanto riguarda l’area internalizzante in letteratura sono presenti numerosi studi che si sono interessati alla salute delle persone sopravvissute ad un terremoto. Ad esempio a 18 mesi dal disastro, tra gli effetti del terremoto in Armenia, del 1988, è stata riportata una percentuale di PTSD tra i sopravvissuti dell’87% negli adulti e 69% nei bambini (Armenian, Morikawa, Melkonian, Hovanesian, Akiskal & Akiskal, 2002). Xu, Xie, Li B., Li N. & Yang (2012) hanno rilevato livelli d’ansia in un gruppo di bambini di età compresa tra i 7 e i 15 anni, un anno dopo l’esposizione al terremoto di Wenchuan avvenuto in Cina nel 2008. Ne è risultato che il tasso di prevalenza dei Disturbi d’Ansia è stato del 18.9% tra tutti i partecipanti.

In generale è interessante sottolineare le numerose indagini epidemiologiche secondo cui l’80% dei sopravvissuti ad un terremoto con diagnosi di PTSD (Disturbo da Stress Post Traumatico), presentano una comorbilità psichica con Disturbi d’ansia e dell’umore (Perkonigg, Kessler, Storz & Wittchen, 2000; Pollice, Bianchini, Roncone & Casacchia, 2011b).

 

Gli effetti del terremoto dell’Aquila nel 2009

Nel presente studio mi sono interessata agli effetti del terremoto dell’Aquila avvenuto nel 2009. Dopo uno sciame sismico durato alcuni mesi, il 6 Aprile 2009, alle 03:32 un terremoto di magnitudo 6.3 della scala Richter ha colpito L’Aquila e i paesi limitrofi (Stratta et al., 2012).

Il sisma ha causato la morte di 309 persone e più di 1600 feriti, tra cui 200 ricoverati e 66000 sfollati. Molti edifici sono crollati e la maggior parte sono completamente distrutti. Tutti i residenti sono stati direttamente “esposti” al disastro. Dopo il terremoto tutte le persone sono state posizionate all’interno delle tendopoli allestite fuori dalla città. Solo il 25% degli abitanti un anno dopo il terremoto dell’Aquila è stato in grado di tornare a casa (Stratta et al., 2012).

Questo terremoto è stato registrato come la catastrofe italiana più devastante degli ultimi 300 anni sia per il coinvolgimento delle vittime che in termini di potere distruttivo di una delle principali città storiche e artistiche italiane (Stratta et al., 2012).

A seguito del tragico evento, si sono effettuati diversi studi sugli effetti del terremoto per valutare la condizione di salute mentale della popolazione de L’Aquila (Stratta et al., 2012).

Pollice et al. (2012) valutano il PTSD in 187 giovani sopravvissuti al terremoto. Dai risultati si evince che il 66.7% manifestano elevanti livelli di sintomatologia post traumatica rilevante, mentre una diagnosi di  PTSD è stata riscontrata nel 14% del campione.

Dell’osso et al. (2011) valutano il PTSD 10 mesi dopo il terremoto riscontrando una diagnosi nel 37.5% dei 512 adolescenti reclutati con tassi più elevati nelle donne rispetto che agli uomini.

Questi risultati sugli effetti del terremoto, in linea con la letteratura precedente, confermano gli effetti pervasivi di un disastro nella salute di adulti adolescenti e bambini.

 

Gli effetti del terremoto dell’Aquila sulla salute psichica di bambini e adolescenti

Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare la salute psichica dei bambini e degli adolescenti residenti a L’Aquila, dopo il terremoto, in particolare, essendomi interessata agli effetti del terremoto sull’area internalizzante, mi sono soffermata a valutare i Disturbi d’Ansia, il Disturbo Depressivo e il Disturbo di Somatizzazione.

Per fare questo ho confrontato i bambini aquilani con altri due campioni di bambini che non avevano esperito il terremoto (uno clinico e uno di popolazione generale), in modo da vedere se ci sono stati effetti del terremoto sui primi bambini.

L’obiettivo è quello di verificare se esiste un effetto dell’età, del sesso, del gruppo di appartenenza e dell’interazione tra queste variabili nel predire alti livelli di sintomatologia internalizzante.

In totale il campione è composto da 423 soggetti di cui 218 maschi e 205 femmine. L’età media del campione è 9.94 (dai 5 ai 18 anni).

Questo campione è suddiviso in tre sottocampioni:

  • Il campione de L’Aquila: composto da bambini e adolescenti residenti a L’Aquila e reclutati grazie alla collaborazione dell’università. Il campione è composto da 182 soggetti, di cui 92 femmine e 90 maschi, l’età media è di 9.88 anni
  • Un campione Clinico: composto da bambini e adolescenti che hanno afferito al servizio di Psicopatologia dello Sviluppo dell’ospedale San Raffale di Milano. Il campione è composto da 141 bambini di cui 80 maschi e 61 femmine di età compresa tra i 5 e a i 15 anni, con una media di 10.40
  • Un Campione di popolazione generale: composto da bambini e adolescenti che vivono nell’hinterland milanese, costituito da 100 di cui 48 maschi e 52 femmine, tra i 6 e i 17 anni con un’ età media di 9.94.

Il questionario somministrato per la valutazione di questi bambini è stata la Child Behavior Checklist (CBCL) che è uno degli strumenti più utilizzati per valutare le competenze e i problemi emotivo-comportamentali di bambini e adolescenti in campioni sia clinici che epidemiologici  (Achenbach & Rescorla, 2001).

È un questionario standardizzato per i genitori dei bambini di età compresa tra i 6 e i 18 anni, può essere somministrato da un intervistatore o compilato direttamente dai genitori.

Il profilo del soggetto che emerge dal test è composto da otto scale sindromiche e sei scale DSM-Oriented per questo lavoro ho scelto di esplorarne sei: quattro scale sindromiche (Ansia/Depressione – Ritiro Sociale – Lamentele Somatiche – Scala Totale dei Problemi Internalizzanti) e due scale DSM Oriented (Problemi d’Ansia – Problemi Somatici).

Per le analisi di questo studio sugli effetti del terremoto ho usato due software statistici: IBM SPSS Statisticas .20 (SPSS= Statistical Package for Social Science) e Statistica 7. È stato adottato un livello di significatività di 0.05.

Per prima cosa ho condotto analisi preliminari:

  • Ho utilizzato la Correlazioni di Pearson in quanto permette di verificare l’effetto dell’età nelle diverse variabili in esame.
  • Ho correlato le sei scale della CBCL con l’età e l’analisi delle correlazioni come si può vedere dalla Tabella 1 sono risultate tutte significative.
  • Il T- test per campioni indipendenti ci permette di controllare l’effetto del sesso, dunque che media e varianza variano in maschi e femmine.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni TAB.1

Tabella 1. Correlazioni

 

Com’è possibile evincere dalla Tabella 2 il T-test ha evidenziato differenze significative nelle distribuzioni delle variabili in maschi e femmine per:

  • CBCL Ansia/Depressione (Femmine: M = 55.48, SD = 7.97; Maschi M = 57.99 SD = 8.68);
  • CBCL Ritiro (Femmine: M = 55.17, SD = 7.44; Maschi M = 57.59 SD = 8.26);
  • CBCL Totale dei problemi internalizzanti (Femmine: M = 51.89, SD = 11.94; Maschi M = 55.37 SD = 11.57);
  • CBCL Problemi d’ansia DOS (Femmine: M = 56.77, SD = 7.73; Maschi M = 58.93 SD = 8.29);

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni TAB.2

Tabella 2. T-test per campioni indipendenti. Differenze tra femmine e maschi.

 

Per le analisi dei dati, abbiamo utilizzato il Modello Generale Linearizzato (GLM) una generalizzazione dell’analisi della varianza  (Nelder & Backer, 1972), che permette di valutare l’effetto di due o più variabili indipendenti su una variabile dipendente in più di due gruppi, in questo caso, in grado di predire elevati punteggi di sintomatologia ansiosa.

Il vantaggio di questa analisi è che è possibile analizzare il principale effetto per ciascuna variabile indipendente e inoltre esplorare la possibilità di un effetto di interazione. È inoltre possibile includere gli effetti delle covariate e le interazioni tra covariate e fattori.

In questo studio sugli effetti del terremoto, le variabili indipendenti incluse nel GLM sono:

  • L’appartenenza ad uno dei tre campioni (cioè, aquilani, popolazione generale e campione clinico), l’obiettivo come già accennato è stato quello di confrontare i bambini e gli adolescenti che vivono a L’Aquila, che hanno vissuto il terremoto, sia con soggetti sani che con soggetti clinici, che non hanno vissuto l’evento stressante;
  • Sesso;
  • Età (come covariata).

Le variabili dipendenti sono:

  • CBCL Ansia/Depressione;
  • CBCL Ritiro;
  • CBCL Lamentele Somatiche;
  • CBCL Scala totale dei problemi Internalizzanti;
  • CBCL DOS Problemi d’Ansia;
  • CBCL DOS Problemi Somatici.

La letteratura mostra evidenze sull’effetto del sesso e dell’età sull’espressione di psicopatologia, in particolare sui Problemi Internalizzanti.

L’analisi GLM consente di guardare un effetto principale e un effetto d’interazione di queste variabili indipendenti sui punteggi di tutte le scale: CBCL Ansia/Depressione, CBCL Ritiro, CBCL Lamentele Somatiche, CBCL Scala totale dei problemi Internalizzanti, CBCL DOS Problemi d’Ansia e CBCL DOS Problemi Somatici.

Dai risultati emerge che:

  • Per quanto riguarda la variabile Ansia/Depressione è presente un effetto del campione e dai post hoc si può notare che ci sono differenze significative tra tutti e tre i campioni, infatti dal  Grafico 1  si può vedere che al punto 1 i soggetti del campione clinico presentano punteggi medi più elevati rispetto agli altri due campioni, invece al punto 0 i bambini aquilani presentano punteggi inferiori rispetto agli altri due campioni. È inoltre presente un effetto dell’età dove all’aumentare di questa aumentano anche i sintomi e un effetto del sesso con punteggi medi più elevati nei maschi rispetto alle femmine. Stesso identico trend è presente per la variabile Scala Totale dei Problemi Internalizzanti.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni GRAFICO 1

Grafico 1 Modello Lineare Generalizzato. Effetto della variabile campione per la variabile CBCL Ansia/Depressione

 

  • Per la variabile Ritiro Sociale è presente un effetto del campione, in questo caso dai post hoc del grafico 2 abbiamo notato che non è presente una differenza significativa tra il campione de L’aquila al punto 0 e il campione di popolazione generale al punto 2. Questi due campioni però differiscono significativamente dal campione clinico al punto 1 che presenta punteggi medi più elevati rispetto agli altri due campioni.  Questo anche per la variabile Disturbi Somatici DSM Oriented. Per entrambe le variabile è presente inoltre un effetto dell’età dove all’aumentare di questa aumentano anche i sintomi e un effetto del sesso, con la differenza che nella variabile ritiro sociale  i maschi hanno punteggi medi più elevati e nella variabile problemi somatici i punteggi sono più alti nelle femmine.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni GRAFICO 2

Grafico 2 Modello Lineare Generalizzato. Effetto della variabile Campione per la variabile CBCL Ritiro Sociale

 

  • Per le ultime due variabili Lamentele Somatiche e Problemi d’Ansia DOS è presente un effetto del campione e dai post hoc si può notare come non sia presente una differenza statisticamente significativa tra il campione de L’Aquila e il campione di popolazione generale, ma entrambi differiscono significativamente dal campione clinico, che come si può notare dal grafico 3 presenta punteggi medi più elevati rispetto agli altri due campioni. È inoltre presente un effetto dell’età dove all’aumentare di questa aumentano anche i sintomi.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni GRAFICO 3

Grafico 3. Modello Lineare Generalizzato. Effetto della variabile Campione per la variabile CBCL Lamentele Somatiche

 

I risultati dello studio sugli effetti del terremoto hanno quindi mostrato la presenza di un effetto dell’età e del gruppo di appartenenza in tutte le sei variabili considerate e un effetto del sesso in quattro variabili: Ansia/Depresione, Ritiro, Scala Totale dei Problemi Internalizzanti, Somatica DOS. In particolare, si evince che è presente una differenza statisticamente significativa tra il campione clinico e i campioni de L’Aquila e di popolazione generale. In questi ultimi gruppi infatti si sono rilevati punteggi statisticamente più bassi in tutte le sei scale sindromiche e cliniche rispetto a quelle del campione clinico.

Pertanto anche le medie riportate dai soggetti appartenenti al campione de L’Aquila, nelle scale della CBCL, sono risultate statisticamente più basse rispetto al campione clinico.

 

Gli effetti del terremoto e la resilienza

Questi dati sugli effetti del terremoto indicano che, a distanza di anni dall’evento traumatico, i soggetti del campione de L’Aquila, differiscono significativamente dal campione clinico e in media, non presentano livelli d’ansia e problemi d’affettività significativamente elevati, se confrontati con bambini appartenenti alla popolazione generale. Questo potrebbe indicare che in media i bambini Aquilani presentano elevati livelli di resilienza.

La resilienza può essere generalmente definita come la capacità di un sistema dinamico di adattarsi o resistere con successo alle perturbazioni che minacciano la sua funzionalità, vitalità e il suo sviluppo (Masten, 2013).

In psicologia, la resilienza può essere intesa come la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici (che hanno il potenziale di portare danno all’individuo o di bloccare il suo sviluppo), riorganizzando positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà (Panter-Brick & Leckman, 2013).

La resilienza può anche essere pensata come la capacità di un organismo di far fronte alle sfide ambientali e di adattarsi, per resistere alle minacce alla sua stabilità (Karatsoreos, Karatoreos & McEwen, 2013).

La resilienza è influenzata da vari fattori, quali esperienze dell’infanzia, componenti genetiche ed epigenetiche, e infine da circostanze socio-economiche che possono presentarsi fin dall’infanzia (Steptoe, 1991).

Studiare la resilienza sposta il centro dell’attenzione dal valutare il rischio o la vulnerabilità del soggetto, all’indirizzare gli sforzi per migliorarne la capacità di affrontare con successo eventi di vita traumatici.

Analizzando la letteratura sulla resilienza nella Psicologia dello Sviluppo emerge che molta di questa si è concentrata sulla comparsa di un adattamento favorevole a fronte di circostanze avverse, tra cui le catastrofi naturali (Betancourt, 2011; Luthar & Brown, 2007; Sandler et al., 2003).

Negli esseri umani, in genere fattori di stress isolati producono perturbazioni transitorie nel normale funzionamento (Bisconti, Bergeman, & Boker, 2004; De Kloet, Derijk, & Meijer, 2011).

Gli effetti di resilienza ipotizzati nel nostro campione di bambini aquilani si potrebbero definire, in linea con la letteratura, come effetti di resilienza a “impatto minimo”. Questo tipo di resilienza si configura come un insieme di adattamenti positivi in risposta ad uno stress isolato e acuto o ad un evento potenzialemente traumatico. Si misura come una traiettoria relativamente stabile di un adattamento salutare in seguito all’esposizione ad un evento stressante (Bonanno & Diminich, 2013).

Rispetto al fronteggiare un’avversità cronica, che rappresenta per un soggetto notevoli sfide psicologiche e biologiche, fattori di stress isolati e acuti permettono di utilizzare strategie di coping più mirate e circoscritte. Di conseguenza, la resilienza a impatto minimo a seguito di stressor acuti suggerisce poco o nessun impatto duraturo sul funzionamento ed una traiettoria relativamente stabile di una continua e sana regolazione prima e dopo un evento potenzialmente traumatico (Bonanno & Diminich, 2013).

L’adattamento è quindi la chiave per la sopravvivenza: un organismo deve adattarsi alle sfide ambientali per essere in grado di prosperare nell’ambiente in cui si trova.

Questa prospettiva mette in evidenza le capacità personali che portano a mantenere o recuperare la salute mentale, nonostante avversità drammatiche.

 

Effetti del terremoto dell’Aquila su bambini e adolescenti: limiti dello studio e prospettive future

Per quanto concerne il presente studio nonostante non si è a conoscenza della salute mentale dei bambini prima dell’esposizione al terremoto, quello che è emerso è che ad oggi, questi bambini sono in una condizione di benessere pari a quella di un gruppo di bambini appartenenti alla popolazione generale.

I Limiti di questo studio:

  • Non possediamo informazioni circa il funzionamento dei soggetti precedente all’esposizione al terremoto. La presenza di questi dati ci avrebbe permesso di effettuare analisi attraverso uno studio longitudinale, potendo così valutare più approfonditamente l’andamento del funzionamento psicologico dei soggetti.
  • Una seconda limitazione riguarda la raccolta delle informazioni, in quanto in questo studio i dati provenivano da questionari compilati esclusivamente dai genitori. Questo potrebbe aver inficiato la valutazione per due motivi. Il primo è che i resoconti dei bambini sui Disturbi d’Ansia forniscono maggiori informazioni rispetto a quelli dei genitori. Il secondo motivo è che i genitori potrebbero aver sminuito i problemi dei figli.
  • Un terzo limite di questo studio riguarda la collocazione geografica di appartenenza dei tre campioni. Lo stile di vita dei bambini varia in base al luogo in cui si è vissuti e alle abitudini e questo può influenzare oltre che la risposta al trauma anche lo svilupparsi di psicopatologie. Sarebbe infatti interessante poter confrontare il campione Aquilano con altri campioni clinici e di popolazione generale di paesi o regioni limitrofe.

Le prospettive future:

  • Sarebbe interessante effettuare altri confronti, ad esempio tra il nostro campione Aquilano e un altro campione di popolazione generale residente in un’altra città abruzzese, per misurare il funzionamento di questi bambini a confronto. Oppure confrontarlo con un altro campione clinico residente a L’Aquila, che ha vissuto e che vive tuttora la stessa realtà.
  • Misure dirette per la valutazione dei bambini, in quanto, le risposte di questi ultimi forniscono maggiori informazioni rispetto ai resoconti dei genitori sui Disturbi d’Ansia.
  • Infine si potrebbe effettuare un’ analisi più precisa e accurata, inserendo l’età non più come covariata ma stratificandola.  Si divide il campione in classi il più possibile omogenee rispetto alla variabile di cui si intende stimare il valore. In questo caso si potrebbe dividere il campione in più classi partendo dalla mediana, ottenendo così strati omogenei. La conseguenza pratica di tutto ciò è la capacità di generare stime più efficienti.

Comportamenti di acquisto di prodotti biologici: un’applicazione della teoria del comportamento pianificato

Negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di sviluppare modelli psicologici volti a prevedere e spiegare il comportamento di acquisto collocandolo in un più ampio sistema di credenze, valori, norme, atteggiamenti e conoscenze condivise. In tale ambito hanno dominato due modelli fondati sull’assunzione di razionalità dell’attore/consumatore: la teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato.

Serena Marinari, Open School Scuola Cognitiva di Firenze

Psicologia e marketing: come spiegare il comportamento dei consumatori

La psicologia è la scienza più spesso chiamata in causa per spiegare il comportamento del consumatore. La disciplina economica e il marketing si sono tradizionalmente rivolte ad essa – sia pure con una certa dose di diffidenza, attenuata soltanto dalla spiccata simpatia verso la psicologia comportamentista – per esaminare quegli aspetti del consumo che gli strumenti di ricerca a disposizione si mostravano sempre più inadeguati ad indagare (Fabris, 1970). La crescente disponibilità di alternative di consumo fra cui scegliere ed una presunta maggiore “irrazionalità” del consumatore – dissonante rispetto ai criteri economici dell’utilità e della funzionalità – hanno ulteriormente sollecitato, in tempi più recenti, dapprima attenzione e successivamente attesa verso il contributo psicologico, per cui si riteneva che lo psicologo fosse l’unico in grado di studiare proficuamente il comportamento del consumatore (Fabris, 1970).

Il settore su cui, nel corso degli anni, è stato rivolto maggiore interesse è rappresentato dalle motivazioni del consumatore, ma queste non rappresentano che un aspetto del suo comportamento e non possono essere comprese se non inserite nel contesto sociale in cui l’individuo é immerso, di cui è attivamente partecipe e che profondamente influenza le sue azioni. Le motivazioni di consumo, infatti, sono espressione di impulsi e bisogni che si formano a livello individuale ma che hanno anche la loro genesi nel sociale, in quanto plasmate dai processi di apprendimento e di socializzazione e mediate dai processi cognitivi (Fabris, 1970).

All’origine di qualsiasi comportamento c’è uno stato di bisogno che può essere interno all’individuo, e presentarsi sotto forma di deficienza organica o di privazione reale o percepita come tale dal soggetto, oppure essere sollecitato da stimoli ambientali, come ad esempio l’esposizione ad un cartellone pubblicitario (Fabris, 1970).

Le diverse scuole psicologiche hanno proposto una serie di classificazioni dei bisogni, che risultano però largamente insoddisfacenti perché incomplete o troppo generiche (Sirigatti, 1995). I progetti di ricerca devono tendere ad individuare le motivazioni alla base di certi modelli di consumo che intervengono nel processo di formazione di specifiche decisioni di acquisto, piuttosto che tendere a formulare delle categorie astratte o ad individuare “la motivazione” che determina il comportamento del consumatore (Fabris, 1970).

Modelli psicologici della previsione del comportamento: la teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato

Negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di sviluppare modelli psicologici volti a prevedere e spiegare il comportamento di acquisto collocandolo in un più ampio sistema di credenze, valori, norme, atteggiamenti e conoscenze condivise. In tale ambito hanno dominato due modelli fondati sull’assunzione di razionalità dell’attore/consumatore: quello dell’azione ragionata e quello del comportamento pianificato.

La Teoria dell’Azione Ragionata (TRA – Theory of Reasoned Action), sviluppata da Fishbein e Ajzen (1975; Ajzen e Fishbein, 1980) assume che il comportamento sia determinato dall’intenzione, definita in termini di probabilità soggettiva, che un individuo esegua una particolare azione, come ad esempio l’acquisto di un prodotto. L’intenzione, a sua volta, sarebbe determinata dall’atteggiamento – favorevole o meno – verso lo specifico comportamento e dalla norma soggettiva, intesa come la percezione da parte dell’individuo di quanto l’adozione del comportamento sia approvato o disapprovato da specifiche persone o gruppi di riferimento.

Il modello assume, inoltre, che gli atteggiamenti verso il comportamento dipendano dalle credenze relative alle conseguenze, in termini di costi-benefici, dell’adozione del comportamento stesso (credenze comportamentali), nonché dalla valutazione di ognuna di tali conseguenze. Analogamente, le norme soggettive sono considerate funzione della percezione della pressione normativa (credenze normative), nonché della motivazione ad agire in conformità con le aspettative dei gruppi di riferimento.

Con la Teoria del Comportamento Pianificato (TPB – Theory of Planned Behavior), Ajzen e Madden hanno introdotto un nuovo previsore delle intenzioni e del comportamento: il controllo comportamentale percepito, definito come ” la credenza di una persona di quanto facile o difficile è probabile che sia l’esecuzione del comportamento” (Ajzen e Madden, 1986). Tale costrutto è molto vicino nel significato alla nozione di self-efficacy di Bandura (1977), ossia la fiducia di un individuo di essere in grado di eseguire un particolare comportamento. Differisce invece dal concetto di locus of control (Rotter, 1966), in quanto, mentre quest’ultimo rappresenta un’aspettativa generale che rimane stabile nelle diverse situazioni, il controllo percepito varia da situazione a situazione.

Analogamente agli atteggiamenti e alle norme soggettive, il controllo comportamentale percepito è funzione delle credenze di controllo, che rappresentano la stima soggettiva della possibilità di accedere alle risorse e alle opportunità necessarie all’esecuzione del comportamento; esse si basano, in piccola parte, sul comportamento passato, mentre, in misura maggiore, su informazioni indirette e su esperienze di amici e conoscenti (Ajzen e Madden, 1986).

Ajzen e Madden (1986) hanno proposto due versioni del loro modello: la prima si basa sull’assunto che il controllo comportamentale percepito abbia un effetto indipendente sulle intenzioni, nel senso che ci si aspetta che l’intenzione riguardo ad un comportamento si formi soltanto quando la persona crede di avere i mezzi per eseguire il comportamento stesso; la seconda considera anche la possibilità di un’influenza diretta del controllo percepito sul comportamento, che può essere prevista soltanto quando si ipotizza che il controllo comportamentale percepito funzioni come un parziale sostituto per il controllo effettivo sui fattori interni ed esterni che potrebbero interferire con l’esecuzione del comportamento. Quindi, il path diretto dal controllo comportamentale percepito al comportamento rappresenta una determinazione non volitiva dell’azione.

Sempre più numerose ricerche supportano la teoria del comportamento pianificato; le principali verifiche sono state eseguite sull’obiettivo da parte di studenti universitari di conseguire il voto massimo (Ajzen e Madden, 1986) e su quello di perdere peso (Schifter e Ajzen, 1985). In entrambi i domini si è potuto constatare che il costrutto del controllo comportamentale percepito aumentava il potere di previsione del modello originario di Ajzen e Fishbein (1980).

 

Prodotti alimentari biologici e comportamenti di acquisto: presentazione di una ricerca qualitativa

A partire dal successo ottenuto dalla applicazione della Teoria del comportamento pianificato nei diversi ambiti, in particolare per spiegare e predire i comportamenti di acquisto (Caprara, Barbaranelli e Guido, 1998), si intende presentare una ricerca svolta per una tesi di laurea in Psicologia degli Atteggiamenti e delle Opinioni presso la Facoltà di Psicologia di Firenze (Marinari, 2004). Tale studio ha preso in considerazione un argomento ancora oggi molto attuale: l’acquisto di prodotti alimentari biologici, ossia quei prodotti ottenuti senza l’impiego di concimi chimici, antiparassitari o diserbanti e certificati da parte di uno degli organismi preposti per legge a tale funzione (Regolamento CEE/n. 2092/91). (Fig. 3)

L’obiettivo è quello di verificare se e in che misura le intenzioni di acquisto di prodotti “bio” siano influenzate dalle norme soggettive, dal controllo comportamentale percepito e da variabili che, in precedenti studi, avevano dimostrato di aumentare la predittività del modello: il comportamento passato (Fredricks e Dossett, 1983; Caprara, Barbaranelli e Guido, 1998), la soddisfazione relativa a precedenti acquisti (Pierro, Mannetti e Feliziola, 1998; 1999) ed il desiderio (Bagozzi, 1999), facendo riferimento alla teoria del comportamento pianificato.

Il campione utilizzato, reclutato all’interno di residenze universitarie, convitti e luoghi adibiti allo studio, è composto da 135 studenti universitari (51% femmine e 49% maschi) ed ha una età media di 25,08 anni (DS=3,13): il 74% è rappresentato dai consumatori di prodotti alimentari biologici, che in base alla frequenza dell’acquisto si dividono in abituali ed occasionali, mentre il restante 26% è rappresentato dai non consumatori.

Ad essi è stato somministrato un questionario costruito appositamente per la presente ricerca sulla base della Teoria del comportamento pianificato, composto da items che misurano i costrutti considerati nel modello e le variabili aggiuntive.

Per verificare gli obiettivi della ricerca, sono state eseguite due regressioni multiple: una al fine di analizzare quanto i valori dell’intenzione di acquisto dipendano o siano determinati dai valori del controllo comportamentale percepito, delle norme soggettive e del desiderio; l’altra per esaminare se l’intenzione, nei consumatori occasionali, possa essere predetta, oltre che dalle variabili indipendenti sopra menzionate, anche dal comportamento passato e dalla soddisfazione derivata da precedenti acquisti, come emerso in numerose ricerche.

 

Risultati e discussione: la teoria del comportamento pianificato per spiegare l’acquisto di prodotti bio

Dall’ analisi delle risposte del questionario definito sulla base della teoria del comportamento pianificato è emerso che le credenze comportamentali dei consumatori nei confronti dell’acquisto risultano essere qualità, sicurezza e rispetto per l’ambiente, per quanto riguarda i vantaggi; costi elevati e difficile reperimento, per quanto concerne gli svantaggi.

Anche per i non consumatori le credenze comportamentali relative ai vantaggi di un ipotetico acquisto sono la qualità, la sicurezza e il rispetto per l’ambiente, con l’unica differenza che alla sicurezza viene riconosciuta un’importanza maggiore. Gli svantaggi riportati sono i costi elevati e le scarse garanzie di controllo, a testimonianza di una maggiore diffidenza verso questi prodotti e della limitata conoscenza delle normative europee che regolano l’agricoltura biologica.

La riduzione dei prezzi ed una distribuzione più capillare sul mercato sono risultati essere i principali fattori in grado di facilitare l’acquisto di tali prodotti. È emerso, inoltre, il bisogno di una maggiore informazione che permetta una conoscenza più approfondita di tali prodotti e di una maggiore attrattività delle confezioni, che potrebbe invogliare all’acquisto anche i non consumatori. Il fattore che ostacola in modo determinante l’acquisto risulta essere ancora una volta il prezzo, probabilmente perché il campione considerato è costituito da studenti universitari, soprattutto fuori sede.

Questo risultato sembra essere confermato anche dall’atteggiamento nei confronti dell’acquisto, in cui l’aggettivo “dispendioso” è risultato essere quello più adatto a definire l’acquisto stesso, assieme a “maturo” e “attento”.

Relativamente alle credenze normative, da un’analisi delle medie delle risposte dei soggetti, è emerso che i referenti che approverebbero maggiormente l’acquisto sono risultati essere i genitori, oltre al partner (nel caso dei consumatori) e ad altri parenti (per i non consumatori). I consumatori attribuiscono ai genitori ed al partner anche una più elevata importanza circa le loro opinioni, indice di una maggiore motivazione a conformarsi a quello che tali referenti pensano dell’acquisto. Questi risultati sembrano confermare quanto emerso nell’indagine di Zani e Cicognani (1998) che attribuiscono alle norme soggettive, soprattutto quelle relative a genitori e partner, un importante peso nel predire le intenzioni. Per quanto riguarda i non consumatori, invece, nessun referente sembra avere importanza nell’eventuale scelta di acquistare prodotti “bio”.

L’intenzione di acquisto, considerata sia in termini di probabilità di avere l’intenzione di acquistare che come probabilità di compiere effettivamente l’acquisto, risulta dunque essere determinata dalle norme soggettive, soprattutto quelle riguardanti la percezione dell’opinione dei referenti e dal controllo comportamentale relativo alla facilità di acquisto.

I dati ottenuti con le regressioni hanno messo in evidenza il maggiore potere predittivo delle norme soggettive rispetto al controllo comportamentale. Oltre a queste variabili, però, sembra importante il ruolo svolto dal desiderio di effettuare l’acquisto, che presenta il coefficiente più alto. Ciò confermerebbe quanto sostenuto dalla teoria della regolazione di sé, secondo cui i desideri, con il loro carico motivazionale, influenzerebbero le intenzioni (Bagozzi, 1999).

Il comportamento passato non risulta essere una variabile significativa nel predire le intenzioni di acquisto. Infatti, l’avere acquistato in precedenza prodotti alimentari biologici sembra non esercitare alcuna influenza né sulla probabilità di avere l’intenzione di acquistarli né su quella di acquistarli successivamente, a differenza di quanto emerso dagli studi di Caprara, Barbaranelli e Guido (1998).

Anche la soddisfazione risulta essere uno scarso predittore sia della probabilità di avere l’intenzione di acquistare sia della probabilità di compiere effettivamente l’acquisto, contrariamente ai risultati ottenuti dalle ricerche di Pierro, Mannetti e Feliziola (1998, 1999).
Bisogna, comunque, tenere presente che i risultati ottenuti dall’analisi delle regressioni multiple dell’intenzione sul comportamento passato e sulla soddisfazione sono parziali in quanto riguardano solo una piccola parte del campione oggetto di studio.
Il potere predittivo della Teoria del comportamento pianificato sembra essere confermata dai risultati ottenuti dall’analisi statistica.

 

Conclusioni

Nell’ambito della letteratura, la teoria del comportamento pianificato non è mai stata applicata al comportamento di acquisto di prodotti alimentari biologici, un campo che risulta essere ancora inesplorato. L’indagine presentata si limita ad esaminare le intenzioni di acquisto di un campione di studenti universitari ma sarebbe interessante includere, in ricerche future, un target più ampio che comprenda diverse fasce di età. Come è emerso in numerosi studi svolti soprattutto in Europa, infatti, l’acquisto di prodotti “bio” è maggiormente diffuso in famiglie con bambini, a testimonianza dell’importanza del loro aspetto salutistico. In tal senso, l’atto dell’acquisto si può leggere come un fattore di rassicurazione psicologica per i genitori, più attenti al rapporto tra alimentazione e salute dei loro figli.

Inoltre, coerentemente con i suggerimenti delineati da Bagozzi (1999), si avverte la necessità di aumentare la predittività dei modelli di previsione dei comportamenti di acquisto, inserendo sia variabili emozionali che medino la relazione tra atteggiamento verso il prodotto ed intenzione di acquistarlo (desiderio), sia aspetti legati all’identità personale e sociale degli individui.

Nella ricerca presentata il desiderio ha rivestito un ruolo importante nel predire le intenzioni, soprattutto quelle riguardanti la probabilità di compiere effettivamente l’acquisto. Non è, invece, stata presa in considerazione l’identità, la cui rilevanza è stata testimoniata in diversi studi (Sparks e Guthrie, 1998; Rosengard, Adler, Gurvey, Dunlop, Tschann, Millstein e Ellen, 2001). Nell’indagine condotta da Bebetsos, Chroni e Theodorakis (2002), l’identità risultava essere, assieme all’atteggiamento ed alla percezione del controllo comportamentale, maggiormente correlata all’intenzione di mangiare in modo salubre da parte di studenti che praticavano attività fisica.

Alla luce delle credenze comportamentali emerse nella ricerca, un altro suggerimento potrebbe essere quello di costruire campagne pubblicitarie a favore dell’acquisto dei prodotti “bio”, basate su messaggi volti a sottolineare le conseguenze positive di tale acquisto, come la sicurezza per la salute o il rispetto per l’ambiente. Poiché i mass media rappresentano le maggiori fonti di influenza, come hanno dichiarato gli studenti del campione oggetto dello studio, questo potrebbe essere un modo per incentivare l’agricoltura biologica ed incrementarne lo sviluppo anche in Italia.

Smettere di fumare riduce anche l’abuso di alcol e droghe

Un ricercatore della Case Western Reserve University School of Medicine (Ohio), ha provato che gli adolescenti rispondono meglio al trattamento sulla loro tossicodipendenza quando smettono di fumare.

Mariagrazia Zaccaria

Il trattamento per smettere di fumare riduce anche l’abuso di alcol e droghe

Dallo studio è emerso che gli adolescenti che hanno smesso di fumare, hanno anche desiderato di abusare meno di alcool o droghe. Al contrario, i giovani che hanno continuato a fumare sono stati dimessi dal centro con una voglia significativa di abusare di alcool e droghe, aumentando così il rischio di recidiva.

Il 50% dei ragazzi partecipanti allo studio non fumava durante il trattamento, anche a causa del divieto di fumo in struttura. Coloro che han continuato a fumare avevano il permesso di poterlo fare nelle ore d’aria.

La Dr.ssa Pagano, principale autrice dello studio, ha affermato che i risultati della ricerca hanno dimostrato che smettere di fumare diminuisce il desiderio di abusare di droghe e alcool. Chiaramente questo è un risultato positivo per il trattamento da dipendenza da alcol o droghe. Tuttavia, le attività di disassuefazione dal fumo non sono incluse nel programma a causa delle preoccupazioni per un sovraccarico, in quanto già la battaglia contro la dipendenza da alcol o droghe è molto impegnativa di per sé.

I risultati, raccolti in un periodo di due anni, son stati raccolti valutando 195 ragazzi, con un’età compresa tra i 14 e i 18 anni. Ogni settimana i pazienti hanno trascorso circa 20 ore svolgendo attività terapeutiche partecipando anche ad alcuni incontri, previsti dalla comunità, che forniscono un aiuto utile per la disintossicazione dei ragazzi. Circa il 67% di loro, infatti, sono riusciti a dimezzare il loro consumo di sigarette.

 

Non si ottengono gli stessi risultati in caso di presenza di ADHD

Inoltre, secondo la Dr.ssa Pagano lo studio ha rivelato che i pazienti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) non hanno avuto percentuali di successo simili. Questo può esser dovuto al fatto che mentre gli altri ragazzi erano impegnati con tante attività ricreative previste dalla struttura che in qualche modo offrivano loro una distrazione, non era possibile coinvolgere i pazienti affetti da ADHD in queste attività per via dei loro bisogni di essere seguiti in maniera differente durante il percorso.

La Dr.ssa Pagano ha anche sollecitato un maggiore utilizzo dei cerotti alla nicotina, questo per facilitare il processo di disintossicazione ma anche perché se migliorano i risultati che emergono con il trattamento si riducono i costi della spesa sanitaria.

Gli stabilizzatori dell’umore: il Litio

Stabilizzatori dell’umore: il litio è un farmaco molto efficace ma dalla gestione delicata che richiede uno specialista di fiducia e spesso anche la disponibilità di ricovero protetto, una buona psicoeducazione del paziente e dei caregiver.  

Ilaria Matarazzo

 

Gli stabilizzatori dell’umore: indicazioni terapeutiche

Gli stabilizzatori dell’umore sono utilizzati in psichiatra per mantenere in eutimia il paziente e trovano indicazione per la cura e la profilassi dei disturbi dell’umore e vengono impiegate per ridurre l’aggressività e il discontrollo degli impulsi in altre patologie non affettive (psicosi, ritardo mentale, demenze, disturbi di personalità).  Vengono spesso associati agli antipsicotici sia nelle psicosi schizofreniche che nei disturbi bipolari particolarmente gravi o con aspetti psicotici (disturbo bipolare tipo I).

 

Il carbonato di Litio

Il primo stabilizzatore dell’umore è sicuramente il carbonato di Litio, scoperto da Schou oltre un secolo fa ed è ancora oggi uno dei più validi presidi per la cura e la profilassi degli episodi maniacali ed ipomaniacali. E’ considerato il farmaco più efficace per la prevenzione del rischio di suicidio ed è inoltre risultato efficace nella depressione resistente unipolare. Il suo meccanismo d’azione, nonostante sia un farmaco molto usato, non è del tutto noto.

Molto probabilmente il carbonato di Litio agisce sul potenziale di membrana rendendola iperpolarizzata e quindi innalzando la soglia per l’innesco del potenziale d’azione nella cellula nervosa. I Sali monovalenti del litio posseggono caratteristiche in comune con gli ioni sodio e potassio. Si ipotizza che inibisca la depolarizzazione dei canali del calcio voltaggio dipendenti e blocchi il rilascio di dopamina noradrenalina ma non di serotonina.  Inoltre agiscono sulla cascata dell’adenilato ciclasi e della fosfolipasi nella cascata intracellulare degli ormoni vasopressina e  dell’ormone stimolante la tiroide secreto dall’ipofisi. Agisce anche in altre cascate del segnale intracellulare tra cui quelle della proteinchinasi C, glicogeno sintasi chinasi 3beta.

Rispetto alla farmacocinetica, il farmaco viene completamente e rapidamente assorbito per via orale. Le concentrazioni massime vengono raggiunte in 2-4 ore dopo somministrazione di dose orale. Emivita di 20- 24 ore. Escrezione renale antagonista del sodio. La perdita del sodio favorisce l’accumulo di litio.

 

Intossicazione da Litio

Nonostante sia un farmaco efficace, necessita di essere dosato nel sangue periodicamente per evitare il rischio di accumulo e di tossicità da litio, evenienza che richiede il ricovero. I segni dell’intossicazione da litio comprendono: tremore fine, atassia, nausea, vomito, diarrea profusa,  sedazione fino al tremore grossolano ad ampie scosse durante il movimento, confusione mentale, coma. In regime di ricovero nelle fasi acute si considerano accettabili ed efficaci valori tra 0.6 e 1.5 mEq/l. Valori tra 0.6- 1mEq/l sono indicati nella profilassi a lungo termine. Inoltre il paziente che assume Litio deve effettuare esami  della funzionalità renale, epatica, elettrocardiogramma, dosaggio del calcio ematico e degli ormoni tiroidei (TSH, FT3, FT4).

È un farmaco che può essere assunto esclusivamente per via orale. E’ prevista la prossima uscita della formulazione “retard” che richiede monosomministrazione giornaliera mentre attualmente la somministrazione è divisa in due o tre monosomministrazioni.

 

La titolazione del carbonato di Litio

La titolazione del farmaco è graduale e il primo controllo del litio del sangue si effettua dopo una settimana o 5 giorni dalla prima somministrazione. Il dosaggio massimo è 900mg/die.

Da ricordare che il carbonato di litio se sospeso bruscamente può portare a una brusca esacerbazione dei sintomi: senso di disperazione, ansia, angoscia, depressione del tono timico, aumento acuto dell’ideazione suicidaria, confusione, talora anche sintomi psicotici.

Non va mai sospeso bruscamente soprattutto per il concreto rischio di aumento dell’ideazione e dell’intenzionalità suicidaria documentato dalla letteratura.

 

L’interruzione della terapia

Il disturbo bipolare è una patologia cronica con alte percentuali di recidiva. L’interruzione della terapia con stabilizzatori dell’umore può essere presa in considerazione in quei casi in cui ci sia stato un solo episodio  maniacale con lunghi periodi di eutimia. La sospensione della terapia soprattutto nei pazienti bipolari tipo 1 risulta rischiosa in termini di gravità delle ricadute e di potenziale perdita di efficacia del litio qualora venisse reintrodotto. E nei casi in cui possa essere sospeso, la sospensione va assolutamente concordata con uno specialista di fiducia ed eseguita in modalità molto graduale e lenta. La sospensione brusca è autorizzata solo in caso di emergenze mediche di un certo rilievo.

Il litio è un farmaco molto efficace ma dalla gestione delicata che richiede uno specialista di fiducia e spesso anche la disponibilità di ricovero protetto, una buona psicoeducazione del paziente e dei caregiver.

 

Dosaggi pediatrici del Litio

Il litio è approvato per il trattamento del disturbo bipolare negli adolescenti e nei bambini sopra i 12 anni. Nei dosaggi pediatrici il dosaggio va aggiustato per kg/mg e tendenzialmente è maggiore rispetto all’adulto perché il bambino ha un’eliminazione renale maggiore. Vanno monitorati l’incremento ponderale,il tremore oltre che la funzionalità tiroidea, epatica e la piastrinemia.

Rosso è buono: un semaforo nel cervello guida le scelte sul cibo

Se è rosso allora “via libera, abbuffati”, se è verde “hmm, no, lascia stare”: un semaforo “al contrario” nel nostro cervello ci guida quando dobbiamo decidere se mangiare o non mangiare qualcosa.

 

Lo dice uno studio della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, appena pubblicato sulla rivista Scientific Reports, secondo cui la visione, il senso principale che ci guida nelle scelte alimentari, per valutare l’apporto calorico dei cibi si basa su un “codice colore”.

Secondo alcune teorie il nostro sistema visivo si è evoluto per identificare facilmente bacche, frutta e verdura particolarmente nutrienti nel mezzo del fogliame della giungla – spiega Raffaella Rumiati, neuroscienziata della SISSA e coordinatrice del nuovo studio.

Il sistema visivo umano è tricromatico: nella retina, l’organo fotosensibile dell’occhio, ci sono tre classi di fotorecettori (coni) sintonizzate preferenzialmente su tre diverse bande dello spettro visivo. Questo implica che possiamo vedere un gran numero di colori (più degli animali monocromatici e dicromatici, meno di quelli che hanno 4 o addirittura 5, e più, tipi di fotorecettore).

In particolare siamo molto efficienti nel distinguere il rosso dal verde – precisa Rumiati.

La raffinatezza raggiunta da questo nostro senso testimonia il fatto che siamo “animali visivi”, a differenza di altri, come il cane, che per esempio dipendono principalmente dall’olfatto.

È soprattutto il colore degli alimenti a guidarci e i nostri esperimenti finalmente mostrano come – spiega Rumiati. Finora infatti gli studi su questo argomento sono stati davvero pochi.

Cosa cerchiamo in un cibo? Che sia nutriente, ovviamente, cioè che abbia un alto contenuto calorico (e anche proteico).

Nei cibi naturali, non processati, il colore è un buon predittore dell’apporto calorico – spiega Francesco Foroni, ricercatore della SISSA e primo autore della ricerca – Più un cibo non processato tende al rosso più è probabile che sia nutriente, mentre quelli verdi tendono a essere poco calorici.

Il nostro sistema visivo si è evidentemente adattato a questa regolarità .

I partecipanti ai nostri esperimenti valutano come più ‘stimolanti’ e calorici i cibi il cui colore tende al rosso, mentre accade il contrario per quelli verdi – continua Giulio Pergola, ricercatore all’Università di Bari fra gli autori della ricerca – Questo risulta vero anche per i cibi processati, cioè quelli cotti, dove il colore perde la sua efficacia come indicatore delle calorie.

In realtà, la letteratura scientifica mostra chiaramente che i cibi cotti vengono sempre preferiti a quelli naturali e l’effetto si osserva anche in specie diverse da quella umana.

I cibi cotti sono sempre preferiti perché rispetto a quelli naturali, a parità di quantità, offrono più nutrimento – spiega Rumiati. Nel caso del cibo cotto però la dominanza rosso/verde non offre più un’informazione affidabile, quindi si potrebbe pensare che il cervello non applichi questa regola ai cibi processati. Questo però non è vero e dunque ci suggerisce la presenza di meccanismi evolutivi molto antichi, precedenti all’introduzione della cottura

Un ulteriore dato a favore di quest’ipotesi è che il codice colore, negli esperimenti di Rumiati e colleghi, non entra in funzione per oggetti diversi dal cibo:

La preferenza del rosso sul verde non si osserva con oggetti non commestibili – spiega Rumiati – Questo significa che il codice colore del sistema visivo si attiva, correttamente, solo con gli stimoli alimentari.

 

Un semaforo per un’alimentazione più sana

L’osservazione dell’esistenza di questo effetto, oltre ad approfondire le conoscenze sul sistema visivo, offre prospettive interessanti su molti fronti, dal marketing del cibo al trattamento dei disturbi alimentari, quindi con una importante ricaduta sulla gestione della salute pubblica.

Molto si sta facendo oggi per incentivare un’alimentazione più sana – commenta Rumiati – per esempio cercando di convincere il pubblico ad assumere meno cibi ipercalorici. 

In alcuni paesi si è addirittura proposto di bandire certi tipi di alimenti, come le bibite gassate, e altri cibi molto grassi. In alcuni casi si sono introdotti dei disclaimer sulle confezioni, come si è già fatto per le sigarette. Forse anche il colore dei cibi potrebbe essere usato in questo senso, magari con colorazioni artificiali.

La paura di volare e la paura di guidare (2016) – Recensione del libro

Il libro La paura di volare e la paura di guidare intende passare in rassegna i trattamenti attuali più efficaci per la cura della paura di volare e della paura di guidare, con l’obiettivo di proporre un modello integrato di trattamento.

 

Gli autori, Marco Giannini e Luca Napoli, partono da una definizione accurata di ansia, paura e fobie così da permettere anche ad un non addetto ai lavori di comprendere meglio cosa accade alla persona che, a causa di una forte ansia, evita le situazioni temute.

Nel DSM-5 le fobie di volare e di guidare sono inserite tra i disturbi d’ansia, in particolare tra le fobie specifiche di tipo situazionale. I sintomi somatici che si riscontrano più frequentemente sono tachicardia, sudorazione, nausea, vomito, crampi e cefalea, mentre i sintomi psicologici più diffusi sono la paura di morire, di impazzire o di perdere il controllo.

Oltre che sull’inquadramento diagnostico, ne La paura di volare e la paura di guidare gli autori si soffermano sul funzionamento di personalità dei soggetti fobici, riprendendo il modello dell’organizzazione fobica di personalità di Guidano (1988). Secondo tale modello, i soggetti che sviluppano fobie, hanno una personalità che si costruisce e che si muove in maniera polarizzata intorno a due bisogni fondamentali: il bisogno di autonomia/esplorazione e il bisogno di accudimento/protezione, unito ad un costante bisogno di ipercontrollo. Il soggetto tenderà ad oscillare continuamente tra questi due bisogni e a rispondere con intensa ansia e paura nel momento in cui questi vengono minacciati.

 

La paura di volare e la paura di guidare: i principali tipi di trattamento

Dopo una presentazione degli strumenti di valutazione al momento utilizzati, gli autori passano in rassegna i principali tipi di trattamento al momento esistenti. Tra questi sono brevemente illustrate le terapie farmacologiche (benzodiazepine, beta-bloccanti e SSRI) che possono essere utilizzate nella fase iniziale del trattamento, per poi dare ampio spazio ai principali trattamenti psicologici e a corsi e seminari.

Tra i trattamenti psicologici citati in La paura di volare e la paura di guidare, quello di elezione è il trattamento cognitivo-comportamentale, che si articola in diverse fasi: desensibilizzazione sistematica, esposizione agli stimoli temuti sia tramite immagini che in vivo, Virtual Reality Exposure Therapy (VRET) e tecniche di rilassamento.

Vengono poi presentati in maniera dettagliata corsi e seminari organizzati dalle principali compagnie aeree e dalle scuole guida, dove oltre ad una psicoeducazione sull’ansia, vengono fornite informazioni su aerodinamica, aspetti tecnici legati al funzionamento dell’automobile e sicurezza. Inoltre, dopo gli esercizi di rilassamento, sono previste delle esposizioni al volo (dapprima tramite simulatore) o alla guida per permettere alle persone di affrontare le situazioni temute.

L’ultima parte del libro presenta un protocollo di trattamento umanistico e bioenergetico applicato sia alla paura di volare che di guidare che prevede 8 passi, protocollo che deve essere necessariamente adattato al singolo caso:

  1. Sentirsi accolti. In un contesto in cui il terapeuta è empatico, autentico e accentante nei confronti del paziente, viene chiesto al soggetto di rappresentare in forma grafica la sua paura, dopo averla visualizzata.
  2. Imparare a respirare. Il soggetto ansioso avverte spesso la sensazione di “fame d’aria” e viene pertanto guidato nello sperimentare la respirazione diaframmatica.
  3. Dalla fiducia nell’altro alla fiducia in sé. La persona viene guidata dal terapeuta ad abbandonarsi e a fidarsi di lui e, attraverso esercizi di visualizzazione, ha modo di sentire la propria stabilità, sicurezza e acquisire consapevolezza di limiti e risorse.
  4. Vivere il Qui ed Ora e gestire i pensieri disturbanti. Vengono utilizzati protocolli Mindfulness, in particolare il body-scan, con l’obiettivo di avere strumenti di consapevolezza utili per gestire momenti di difficoltà in maniera autonoma.
  5. Imparare a vivere l’attesa. Attraverso la stimolazione del canale emotivo, il paziente viene allenato a sentire e a riconoscere le emozioni, prendendone così distanza per evitare di esserne travolto.
  6. Arricchire la propria identità. L’immagine che la persona fobica ha di sé è spesso quella di una persona incapace o fallita. In questa fase, attraverso lo schema di Johary, il paziente viene invitato a focalizzarsi su aspetti positivi di sé celati o poco valorizzati.
  7. Cadere e rialzarsi. Imparare a rialzarsi nel caso di fallimenti è importante per gestire eventuali ricadute.
  8. Provarci. Il paziente in immaginazione viene esposto alle situazioni temute partendo da una condizione di rilassamento.

Il metodo ABA e l’autismo. Principi, procedure e tecniche di base 

Trent’anni di ricerca hanno dimostrato l’efficacia del metodo ABA nel ridurre comportamenti disfunzionali e nel migliorare e aumentare la comunicazione, l’apprendimento e comportamenti socialmente appropriati (U.S. Departement Of Health and Human Services, 1999).

Monica Pignarolo, OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Milano

Introduzione: che cos’è il metodo ABA

L’ ABA è il ramo applicativo dell’Analisi del Comportamento, la scienza che si occupa di descrivere le relazioni tra il comportamento degli organismi e gli eventi che lo influenzano. In altre parole, come riferito da Cooper, Heron, e Heward (1987; 2007 p.3), l’ABA è [blockquote style=”1″]la scienza che applica al comportamento umano i principi identificati dall’Analisi del Comportamento, allo scopo di affrontare problemi socialmente rilevanti nel contesto della vita quotidiana.[/blockquote] Uno degli scopi principali del metodo ABA è far in modo che la dimostrazione dell’efficacia delle procedure utilizzate per generare il cambiamento avvenga tramite il metodo scientifico.

Applicazioni di successo di questo metodo sono state documentate in diversi soggetti che vanno da quelli gravemente disabili a quelli molto intelligenti, sia giovanissimi che anziani, sia in programmi istituzionali controllati sia in situazioni di gruppo meno strutturate. La gamma dei comportamenti studiati va dalle semplici abilità motorie fino alla soluzione di problemi complessi. Le aree in cui questo tipo di interventi sono maggiormente utilizzati sono l’educazione, il servizio sociale, l’assistenza, la psicologia clinica, la psichiatria, la psicologia di comunità, la medicina, la riabilitazione, gli affari, la gestione aziendale e lo sport (Martin & Pear, 2000)
Ma il campo in cui si è mostrata una più significativa crescita e applicazione è quello riguardante i bambini con disturbo autistico (Viruès-Ortega, 2010; Shook, 2005).

La prima applicazione del metodo ABA in soggetti autistici risale al 1960 per opera di Lovaas, che mise in atto interventi per diminuire gravi comportamenti problematici e stabilire un linguaggio comunicativo (Smith & Eikeseth, 2011). Da qui si aprì la strada a una grande quantità di ricerche che portò all’applicazione sistematica ed intensiva dei principi comportamentali di base e all’uso di tecniche e procedure che diedero vita ad un modello di intervento estremamente efficace su questa popolazione di soggetti, l’intervento comportamentale intensivo precoce (EIBI, Early Intensive Behavioural Intervention) (Eikeseth et al, 2002; Howard et al, 2005; Lovaas, 1973; Lovaas, 1987; McEachin et al., 1993; Sallows & Graupner, 2005; Smith et al, 2000b).

 

Principi, procedure e tecniche di base

I principi fondamentali su cui si basa l’analisi comportamentale applicata sono quelli della teoria dell’apprendimento e del condizionamento operante (Martin & Pear, 2000). Il comportamento viene considerato operante perché opera nell’ambiente per produrre determinate conseguenze. Secondo questo principio, il comportamento viene modellato o plasmato dalle conseguenze che lo stesso riceve. Tali conseguenze ne influenzeranno ed altereranno la forma e la frequenza con cui il comportamento si ripresenterà in futuro. Il comportamento sarà analizzato in base agli stimoli ambientali che lo precedono, gli antecedenti, e ai movimenti dell’individuo in risposta allo stimolo ambientale, le conseguenze.

Collegati a questi principi, i concetti chiave sono quelli di rinforzo, estinzione, controllo degli stimoli e generalizzazione (Granpeesheh et al., 2009).
Il rinforzo è definito come ogni conseguenza del comportamento che rafforza il comportamento stesso, cioè aumenta la frequenza e la probabilità della sua comparsa. Può essere negativo (evitare un potenziale stimolo avversivo) o positivo (ottenere attenzione o avere accesso ad una determinata attività).

Nel momento in cui il rinforzo non viene più applicato, la probabilità futura di comparsa di un comportamento si riduce: questo fenomeno prende il nome di estinzione.
Il controllo degli stimoli si ha nel momento in cui un particolare comportamento, dopo essere stato rinforzato solo in presenza di un particolare stimolo antecedente, inizia a verificarsi solo in presenza di tale stimolo e non in sua assenza.

La generalizzazione permette, invece, di trasferire quanto appreso in un contesto anche in una varietà di contesti e ambienti diversi.
Questi concetti sono applicati attraverso 4 procedure principali (Ricci et al., 2014; Martin & Pear, 2000; Granpeesheh et al., 2009):
1) Prompting: consiste nella presentazione di un indizio o un aiuto in modo da ottenere un comportamento che altrimenti non verrebbe messo in atto, in quanto non ancora presente nel repertorio comportamentale del bambino.
2) Fading: consiste nel ridurre gradualmente e poi eliminare gli aiuti utilizzati, a mano a mano che il bambino mostra di non averne più bisogno, al fine di garantire l’acquisizione del comportamento meta e l’autonomia della risposta.
3) Shaping: è una procedura che prevede il rinforzamento sistematico delle risposte che siano approssimazioni successive sempre più simili al comportamento meta.
4) Chaining: è una procedura utilizzata per insegnare lunghe sequenze comportamentali che per un bambino con autismo sarebbero impossibili da imparare tutte in una volta, ma la cui acquisizione è possibile quando l’intera sequenza viene rotta in piccoli comportamenti.

Chaining, fading e shaping sono dette procedure di cambiamento graduale, in quanto tutte e tre implicano il procedere gradualmente attraverso una serie di passi per produrre un nuovo comportamento. Esistono però delle chiare distinzioni tra le tre procedure: nello shaping, i passi consistono nel rinforzare approssimazioni sempre più vicine alla risposta finale desiderata; nel fading, i passi consistono nel rinforzare la risposta finale desiderata in presenza di approssimazioni sempre più vicine allo stimolo finale desiderato per quella risposta e nel chaining, i passi di solito consistono nel rinforzare sempre più le connessioni stimolo-risposta che costituiscono la catena comportamentale (Martin & Pear, 2000).

Per raggiungere i comportamenti meta possono inoltre essere utilizzati due tipi di setting (Granpeesheh et al., 2009, Ricci et al., 2014): per prove discrete (discrete trial training, DTT) e in ambiente naturale (natural environment training, NET).
Il DTT è costituito dall’apprendimento senza errori, ovvero, l’operatore dà un aiuto (prompt) al bambino per impedirgli di sbagliare e questo gli consente di apprendere nuove abilità. Questo aiuto viene via via ridotto fino ad arrivare a portare il bambino a svolgere l’abilità autonomamente. L’insegnamento per prove discrete avviene in ambiente strutturato e massimizza le opportunità di apprendimento, ripresentando più volte al bambino attività che gli si vogliono insegnare e rinforzandone le risposte corrette. Questa modalità presenta dei limiti: risulta spesso difficile generalizzare il comportamento appreso anche al di fuori del setting strutturato, in ambienti meno formali o all’interno delle routine quotidiane.

Il NET è un tipo di insegnamento che avviene in ambiente naturale e consiste nello sfruttare e/o ricreare situazioni di vita quotidiana, che normalmente si incontrano, per fornire opportunità di apprendimento, partendo dagli interessi e dalle motivazioni del bambino stesso. Il setting naturale viene arricchito con materiale intrinsecamente motivante per il bambino, precedentemente selezionato e disposto dall’operatore. Questo setting risulta particolarmente adatto alla generalizzazione degli apprendimenti e ha come limite il fatto che l’operatore può lavorare su un obiettivo solo fino a quando perdura la motivazione del bambino.

Altra caratteristica importante del metodo ABA è che risulta particolarmente utile per poter lavorare su una serie di comportamenti problema, cioè comportamenti ripetitivi e stereotipati, autolesionismo, aggressività, comportamenti distruttivi e capricci (Granpeesheh et al., 2009). La maggior parte di questi comportamenti, spesso, sono la causa di ritardi o incapacità di comunicazione, ostacolano l’apprendimento e il normale funzionamento nella vita di tutti i giorni; è per questo che è necessario trattarli in maniera efficace attraverso questo tipo di programma.

 

Valutazione dell’efficacia dell’intervento comportamentale intensivo precoce

Trent’anni di ricerca hanno dimostrato l’efficacia del metodo ABA nel ridurre comportamenti disfunzionali e nel migliorare e aumentare la comunicazione, l’apprendimento e comportamenti socialmente appropriati (U.S. Departement Of Health and Human Services, 1999).

Come già detto precedentemente, Lovaas (1987) fu il primo a effettuare ricerche mirate sui soggetti con autismo. Esso dimostrò il primato della formazione linguistica all’interno del processo educativo e la maggiore probabilità di raggiungere un funzionamento normale nel momento in cui l’intervento veniva applicato precocemente e in maniera intensiva (Rosenwasser & Axelrod, 2001).

Nello studio valutativo più importante circa la validità dell’approccio comportamentale su soggetti con autismo, Lovaas (1987) paragonò il progresso di tre gruppi di bambini con autismo. Il gruppo (N=19) coinvolto in un programma di trattamento comportamentale intensivo (40 ore settimanali) e precoce per più di due anni raggiunse risultati significativamente maggiori su tutti i test standardizzati rispetto ai due gruppi di controllo: uno coinvolto in un programma di 10 ore settimanali ed uno che ricevette l’intervento standard statale. Inoltre, il 47% del gruppo sperimentale raggiunse risultati entro la norma in tutte le aree evolutive ed all’età di sette anni era integrato in classi “normali” senza sostegno.
McEachin et al. (1993) dimostrarono come, in adolescenza, otto dei nove bambini del gruppo di Lovaas seguitavano ad andare a scuola senza necessità di sostegno ed erano indistinguibili dai pari.

Una delle critiche spesso rivolte nei confronti degli studi di Lovaas é che l’effetto sul gruppo sperimentale non fosse dovuto all’intervento stesso, ma piuttosto all’intensità con cui venne somministrato. In risposta a questa critica Eikeseth ed altri (2002) paragonarono due gruppi di bambini tra i quattro ed i sette anni: uno coinvolto in un intervento comportamentale intensivo (30 ore) ed un altro in un intervento eclettico, cioè un intervento costituito da diversi approcci (TEACCH, logopedia, terapia sensoriale, occupazionale), ma altrettanto intensivo (30 ore). I risultati favorirono in maniera statisticamente significativa il gruppo comportamentale in tutte le aree dello sviluppo ed in particolare quelle del linguaggio espressivo e recettivo.

Sallows & Gaupner (2005), successivamente, replicarono i risultati di Lovaas, dimostrando che circa la metà dei bambini sottoposti ad un intervento comportamentale precoce ed intensivo raggiungeva entro l’età di sette anni un livello di funzionamento adattivo ed intellettivo pari alla norma.

Possiamo così riassumere le maggiori conclusioni a cui sono arrivati i diversi studi condotti al riguardo:
Il semplice utilizzo del metodo ABA non è sufficiente a produrre i risultati desiderati. Per poter notare miglioramenti importanti deve essere implementato con intensità sufficiente (dalle 30 alle 40 ore settimanali). (Eldevik et al, 2006; Reed et al, 2007; Smith et al, 2000b)
L’intervento ottiene risultati migliori nel momento in cui è implementato per una durata maggiore. I bambini con autismo che hanno ricevuto un intervento comportamentale intensivo precoce dai due anni in su hanno ottenuto migliori risultati terapeutici. (Howard et al., 2005; Eikeseth et al., 2002; Reed et al., 2007; Sallows & Gaupner, 2005; Sheinkopf & Siegel, 1998; Zachor et al., 2007).
L’entità della risposta al trattamento sembra variare in modo significativo tra i diversi bambini. Perciò diversi studi hanno cercato di identificare le caratteristiche dei bambini che permettono di ottenere risultati migliori.
Bono et al. (2004) hanno scoperto che i successi dell’ intervento sono stati correlati con le competenze linguistiche iniziali dei partecipanti e la loro capacità di rispondere alle richieste di attenzione congiunta da parte degli altri.

Sigman & McGovern (2005) hanno scoperto che la capacità di mettere in atto un gioco funzionale e la frequenza con cui vengono fatte richieste predicono l’esito del trattamento. Sallows & Graupner (2005) hanno identificato una relazione tra i risultati del trattamento e le competenze in materia di imitazione, linguaggio e socializzazione presenti prima del trattamento.
Szatmari et al. (2003) hanno anche scoperto che lo sviluppo precoce del linguaggio era predittivo di risultati efficaci, così come le capacità cognitive non verbali.
Anche se questi studi hanno esaminato il legame tra le caratteristiche individuali del bambino e la sua risposta all’intervento, l’eterogeneità dei loro risultati illustra anche l’attuale difficoltà di prevedere con certezza quali bambini beneficeranno maggiormente dell’intervento intensivo precoce.

 

Effetti indiretti dell’applicazione dell’intervento comportamentale intensivo precoce sulla famiglia

Ci sono attualmente pochi studi che presentano dati sull’impatto degli interventi intensivi col metodo ABA sul funzionamento familiare (Hastings, 2003).
Tali dati sarebbero clinicamente significativi per diverse ragioni. Primo, i familiari di bambini con autismo sono maggiormente soggetti a rischio di stress e altri problemi psicologici, tra cui la depressione (Gold, 1993; Koegel et al., 1992). I medici dovrebbero essere consapevoli di qualsiasi possibile effetto negativo sulla famiglia degli interventi ABA, al fine di offrire adeguato supporto.

In secondo luogo, molti genitori sono coinvolti come co-terapeuti nel programma del loro bambino. Così, il disagio psicologico o l’elevato livello di stress potrebbero anche avere un impatto diretto sulla qualità del metodo ABA (Hastings, 2003).
I risultati dello studio di Hastings (2003) non hanno individuato la presenza di effetti negativi sul funzionamento dei fratelli di bambini con autismo sottoposti ad un intervento intensivo col metodo ABA. Questi risultati concordano con i dati pubblicati da altre ricerche esistenti, suggerendo anche un effetto non negativo sul funzionamento dei genitori di bambini autistici impegnati in interventi ABA intensivi. (Birnbrauer & Leach, 1993; Hastings & Johnson, 2001; Smith et al., 2000a,2000b; Remington B. et al., 2007 ).

Altro fattore che è stato studiato è l’impatto del supporto sociale offerto alla famiglia. Hastings (2003) ha dimostrato che quando i bambini avevano un quadro autistico meno grave, i loro fratelli erano meno a rischio rispetto allo sviluppo di problemi comportamentali se la famiglia aveva ricevuto anche alti livelli di supporto sociale. Questo effetto è probabile che sia principalmente rappresentato dal sostegno che la famiglia riceveva dalla sua partecipazione al programma col metodo ABA.

Altre ricerche hanno dimostrato che i genitori i cui figli con autismo erano impegnati in un intervento intensivo col metodo ABA sembravano essere meno stressati dei genitori con figli con autismo sottoposti ad altri interventi o nessun intervento, e che lo stress poteva diminuire nel corso di un intervento ABA (Smith, Buch,& Gamby, 2000a; Smith, Groen, & Wynn, 2000b).

 

Conclusioni

L’intervento comportamentale intensivo e precoce é l’unico intervento educativo scientificamente validato per la riabilitazione degli individui con autismo. L’applicazione di tale intervento é però complessa e richiede una preparazione da parte degli operatori e dei supervisori non indifferente. L’obiettivo finale di un intervento comportamentale, che sia a breve o lungo termine, é il cambiamento radicale di comportamenti socialmente significativi, e per alcuni individui l’inserimento totale ed indipendente nella comunità sociale circostante.

L’autismo è una delle aree in cui l’applicazione dei principi dell’analisi comportamentale si è rivelata più efficace nell’apportare cambiamenti migliorativi a lungo termine, più di qualunque altro tipo di intervento educativo (Green, 1996; Maine Administrators of Services for Children with Disabilities, 2000; New York State Department of Health, 1999; Schreibman, 1988; Smith, 1993).
Sulla base delle ricerche che abbiamo visto rispetto all’efficacia di questo tipo di programma, possiamo concludere che i migliori risultati si ottengono quando il programma è applicato ai bambini in età precoce (a cominciare dai 3/4 anni circa), a partire dalle 30 alle 40 ore a settimana, per un minimo di 2 anni e inizialmente all’interno di un rapporto uno-a-uno con l’operatore.

Il programma dovrebbe, inoltre:
1) rivolgersi a tutte le aree deficitarie di ogni singolo bambino, con obiettivi chiaramente definiti;
2) affrontare tutti i comportamenti problema manifestati dal bambino;
3) essere basato sui principi dell’apprendimento e della motivazione;
4) contenere sia componenti del DTT (discrete trial training) che del NET (natural environment training) in maniera integrata;
5) coinvolgere in maniera massiccia la famiglia, con genitori che partecipano attivamente alla messa in atto dell’intervento;
6) essere inizialmente domiciliare e gradualmente esteso ad altri contesti di vista (es. la scuola);
7) essere guidato da esperti con formazioni e certificazione post-universitaria in ABA ed esperienza di programmazione educativa con persone con autismo (Green, Brennan & Fein, 2002).

 

Relazione amorosa: emozioni, ricordi e sensi di colpa

Mi frequento con una ragazza da qualche mese, ma ogni volta che torna la mia ex in città, mi sorgono i dubbi. Purtroppo so che la mia ex non è la persona adatta a me e vorrei smettere di pensare a lei. Era tutto per me ed ora che tutto è finito non mi sembra vero. Penso di essere egoista perché sto con la ragazza attuale solo perché ogni tanto sto bene, meglio che star soli.  

(Matteo)

 

Caro Matteo,

non riassumerei tutta la questione nell’egoismo. Vivere un’intensa storia d’amore è un’esperienza che porta con sé innumerevoli stati d’animo, emozioni e ricordi. Quando questa relazione finisce non c’è da sorprendersi se emozioni e  ricordi legati ad una persona con cui si è condiviso tanto non svaniscono in 24 ore, ma anzi tornano alla mente ogni volta che vi sia un qualcosa, da una fotografia a un luogo alla persona stessa, che ci riporta indietro nel tempo.

Si ha la tendenza ad immergere la nostra mente in una situazione alla volta, in questo specifico caso in una relazione. Tendenza che fa vivere come sbagliati pensieri e reazioni che non lo sono. Infatti non c’è niente di male se, come nel tuo caso, pur frequentandosi con una nuova ragazza, la mente a volte ritorna alla relazione passata. Non è possibile decidere di cancellare le nostre memorie, si può solo imparare a riporle nel giusto cassetto dopo il tempo soggettivamente necessario per elaborarle.

Valentina Orlandi

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La paura dell’ignoto e lo sviluppo di disturbi d’ansia

Secondo quanto riportato in un recente studio dai ricercatori dell’Università dell’Illinois di Chicago (UIC) numerosi disturbi d’ansia, tra cui il Disturbo da Attacchi di Panico, la Fobia Sociale e le Fobie Specifiche condividono un tratto sottostante comune: un’aumentata sensibilità a stimoli minacciosi poco chiari, la cosiddetta paura dell’ignoto.

 

Questa scoperta potrebbe aiutare ad orientare i trattamenti di questi disturbi verso una nuova direzione: dalle terapie basate sulle singole diagnosi ai trattamenti delle caratteristiche comuni ai diversi disturbi. [blockquote style=”1″]Un trattamento o un insieme di trattamenti focalizzati sulla paura dell’ ignoto risulterebbe in una modalità di trattamento più efficiente e di forte impatto destinata a numerosi disturbi e sintomi d’ansia[/blockquote] ha detto Stephanie Gorka, assistente ricercatore di psichiatria e psicologa clinica presso l’Istituto di Medicina dell’UIC.

La paura dell’ignoto

Una minaccia incerta e poco chiara è imprevedibile in termini di tempo, intensità, frequenza o durata e suscita una sensazione generalizzata di apprensione e ipervigilanza.

[blockquote style=”1″]E’ ciò che noi chiamiamo ansia anticipatoria. Qualcosa di molto simile a ciò che avviene quando il nostro medico curante ci chiama per comunicarci i risultati degli esami medici a cui ci siamo sottoposti e non sappiamo esattamente cosa aspettarci[/blockquote] ha detto Gorka, autrice dello studio pubblicato sul Journal of Abnormal Psychology.

Quando una persona è sensibile a questo tipo di paura, può finire col passare l’intera giornata immersa nell’ansia e nella preoccupazione che qualcosa di brutto possa succedere da un momento all’altro. Il Disturbo da Attacchi di Panico ne è un esempio molto chiaro: i pazienti che ne soffrono sono costantemente preoccupati dalla possibilità di avere un attacco di panico in qualsiasi momento.

Le minacce prevedibili, al contrario, producono una distinta risposta attacco-o-fuga che ha un chiaro elemento di innesco, come ad esempio un orso che ci corre incontro, e che si riduce una volta che la minaccia è scomparsa.

Precedenti ricerche condotte da Gorka e colleghi avevano già suggerito che l’aumentata sensibilità a minacce incerte potrebbe essere un importante fattore che caratterizza le psicopatologie internalizzanti basate sulla paura, ma la maggior parte delle ricerche si sono focalizzate sul Disturbo di Panico, pertanto il ruolo di tale fattore negli altri disturbi basati sulla paura – in particolare Fobia Sociale e Fobie Specifiche – rimane poco chiaro.

Lo studio

Gorka e colleghi hanno esaminato i dati provenienti da due differenti studi condotti dall’UIC in cui i partecipanti dovevano completare un compito basato su stimoli di paura. I due studi hanno coinvolto soggetti di età compresa tra i 18 e i 65 anni così suddivisi: 25 soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore, 29 con Disturbo d’Ansia Generalizzata, 41 con Fobia Sociale e 24 con una Fobia Specifica. Inoltre, sono stati coinvolti 41 soggetti di controllo senza diagnosi di psicopatologia corrente o precedente.

I ricercatori hanno misurato i battiti di ciglia dei partecipanti in risposta a lievi scosse elettriche (prevedibili o imprevedibili) somministrate al polso. Per elicitare i battiti di ciglia durante il compito della scossa elettrica, i partecipanti udivano brevi toni acustici attraverso cuffie auricolari.
[blockquote style=”1″]Non importa chi sei o qual è il tuo stato di salute mentale, strizzerai gli occhi, battendo le ciglia, in risposta al suono. E’ un riflesso naturale, tutti lo fanno, senza alcuna eccezione[/blockquote] ha detto Gorka.

I ricercatori hanno misurato la forza dei battiti di ciglia di ciascun partecipante usando un elettrodo posizionato sotto ciascun occhio. Hanno inoltre confrontato la forza dei battiti in risposta ai toni somministrati durante scosse prevedibili e la forza dei battiti effettuati durante scosse imprevedibili.

Ciò che è emerso è che i partecipanti con Ansia Sociale o con una Fobia Specifica strizzavano gli occhi con più forza durante le scosse imprevedibili rispetto ai partecipanti senza una diagnosi di psicopatologia o ai partecipanti con un Disturbo Depressivo Maggiore o con un Disturbo di Ansia Generalizzata.

[blockquote style=”1″]Abbiamo ormai classificato tanti diversi disturbi dell’umore e disturbi d’ansia, e per ognuno è stato fornito il proprio set di linee guida per il trattamento, ma se spendessimo del tempo trattando le caratteristiche comuni ai diversi disturbi, potremmo ottenere migliori progressi[/blockquote] ha detto Luan Phan, professore di psichiatria, direttore del programma di ricerca sui disturbi d’ansia e dell’umore e autore senior dello studio. [blockquote style=”1″]Sapere che la paura dell’ ignoto sottostà a tutti i disturbi d’ansia basati sulla paura suggerisce inoltre che i farmaci che agiscono in modo specifico su questa sensibilità potrebbero essere usati o sviluppati per trattare questi disturbi.[/blockquote]

Otto Rank e la simbologia del doppio: analisi del film “Lo studente di Praga”

“Il Doppio” di Otto Rank è un breve saggio che ha introdotto temi e metodi di analisi di grande valore e che ne fanno un piccolo classico della letteratura psicoanalitica. Il libro inizia con l’analisi di un film “Lo studente di Praga” di Stellan Rye (1913), tratto da un racconto di H.H. Ewers.

 

La lettura psicoanalitica di Rank del film “Lo studente di Praga”

Il motivo centrale di questa storia è una variante del patto col diavolo. Il protagonista vende la propria immagine riflessa in uno specchio in cambio di un ingente patrimonio, che gli assicura potere e successo. Nel corso della storia, quest’immagine gli apparirà di fronte, con sembianze identiche, ma autonoma e con iniziative personali, interferendo in maniera disturbante nella sua esistenza. Il tema centrale che viene qui rappresentato è il significativo problema del rapporto dell’uomo col suo Io.

Rank sottolinea diverse caratteristiche della vicenda narrativa:
1) l’angoscia del protagonista per la perdita del proprio riflesso allo specchio;
2) la persecuzione da parte di quest’immagine speculare resasi ormai autonoma che ostacola l’Io sempre e ovunque (con effetti catastrofici soprattutto nell’amore);
3) il fatto che una ferita da lui inferta al suo Doppio gli causerà la morte poiché la vita del Doppio è strettamente legata a quella della persona reale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM:

Elemento essenziale delle storie sul Doppio prese in esame da Rank, è l’autonomia, completa o parziale, della propria immagine, che si tratti di un’ombra, di un riflesso nello specchio, di un sosia in carne e ossa o di un ritratto. Altro elemento caratterizzante è la contrapposizione tra il personaggio e il suo Doppio, che acquista una tonalità negativa e persecutoria.

Rank sintetizza la situazione in questo modo:
Ci imbattiamo sempre in un’immagine che somiglia minuziosamente al protagonista: nel nome, nella voce, nell’abito, e che, “quasi rubata da uno specchio” (Hoffmann), nella maggioranza dei casi si fa avanti proprio attraverso lo specchio.

 

Il rapporto tra l’Io e il Doppio

Il Doppio si contrappone di continuo all’Io. La situazione precipita di solito nel rapporto con la donna, ha una svolta con l’uccisione del persecutore, si conclude con il suicidio. In alcuni casi viene complicata dall’insorgere del delirio di persecuzione; in altri ancora il delirio è al centro del racconto e si evolve in una vera e propria follia paranoica.

Il sosia invece rappresenta un alter ego specifico e paradossale. L’esperienza del sosia, in cui l’Io si presenta a sè medesimo, ricorda il momento della separazione e della perdita che hanno caratterizzato la costituzione stessa dell’Io infantile: un’esperienza che si colloca tra il distacco doloroso dall’oggetto narcisisticamente assimilato e l’angoscia per l’estraneo, tappe che segnano il cammino verso l’individuazione, passando attraverso l’identificazione. Il riconoscimento infantile di sé nello specchio di Lacan è preceduto dal rapporto di specchiamento felice del bambino nella madre. In origine l’Altro materno era inglobato nella coppia madre-bambino.

Nel rapporto Io-me, il desiderio rimosso o le proprie pulsioni inconsce assumono le sembianze di un Altro. L’Io utilizza, come supporto della rimozione, una sua scissione. Questa si appoggia, in certi casi, su un dato di fatto, costituito dagli elementi di diversità dell’Io rispetto al Simile. Perciò i desideri inconsci non appaiono all’Io come cosa propria, ma sotto forma di alterità. Quando l’Altro non è più semplicemente simile o diverso, ma è invece proprio assolutamente identico, si ha l’esperienza del sosia. Il sosia è e allo stesso tempo non è un altro me. L’Io lo riconosce con sembianze identiche ma le intenzioni del sosia, invece, saranno totalmente diverse; l’immagine di sé acquisterà vita propria, sino a non essere più un’immagine, sino a diventare un Altro.

L’immagine speculare, però, ricorda all’Io che i desideri che voleva realizzare e di cui insieme si voleva sbarazzare e che ora vede proiettate nel comportamento del sosia, sono pur sempre aspetti che appartengono all’Io stesso. Siamo allora di fronte a un fallimento della rimozione, a un ritorno del rimosso. In seguito a ciò, il soggetto si ritrova in una situazione che va dal turbamento sino al raccapriccio più tormentoso. La scissione psichica, quindi, crea il Doppio; il Doppio, a sua volta, rappresenta una proiezione del conflitto interiore, la cui creazione porta con sé una liberazione interiore, un alleggerimento, a prezzo però della paura dell’incontro col Doppio.

Il Doppio rappresenta i desideri segreti e sempre repressi della psiche. Bisogna capire quale situazione psicologica determina questa scissione interiore e la conseguente proiezione. Il sintomo più evidente sembra essere un profondo senso di colpa, che spinge il soggetto a non assumersi più le responsabilità di certe sue azioni attribuendole a un altro io, a un Doppio. Questa figura corrisponde alla figura dell’angoscia esistenziale, e quindi della morte. Scudo contro la morte è allo stesso tempo suo messaggero.

Il Doppio da un lato gode a spese del soggetto, osa ciò che il soggetto non oserebbe mai, realizza i suoi desideri rimossi, ma dall’altro opera affinché la colpa ricada su di lui. Inoltre appare sempre quando il soggetto vorrebbe abbracciare o baciare la donna che ama, ossia quando si avvicina troppo alla realizzazione dei propri desideri, quando è sulla soglia del godimento pieno. Solo l’alter ego offre il vero godimento, la donna invece è l’ostacolo al rapporto privilegiato con se stesso, quindi è necessario farla sparire, e se ne incarica il Doppio. Il Doppio tiene in pugno il perduto oggetto primordiale e il soggetto si riappropria del proprio essere primordiale solo a costo della propria vita. Il Doppio introduce così la pulsione di morte e quello che era stato concepito come difesa dalla morte, come protezione del narcisismo, diventa il suo messaggero. Quando appare il Doppio, il tempo è scaduto. Il confronto col Doppio non ha soluzione poiché, come abbiamo visto, fa sprofondare il soggetto nella psicosi.

Essere in ansia per la propria salute porta ad ammalarsi più frequentemente

La preoccupazione legata all’essere ammalati risulta essere associata ad una maggiore probabilità di sviluppare cardiopatie ischemiche (ad es. infarti e trombosi); tale fenomeno può essere contrastato con l’aiuto della psicoterapia.

L’ansia eccessiva per la salute

La maggior parte delle persone si ritiene felice quando gli esiti di esami medici risultano negativi, ma per circa il 5% della popolazione e il 15-20% dei pazienti all’interno di strutture ospedaliere (Wiliams & House, 2014) una tale notizia non è di alcun conforto. Infatti, per quelle persone caratterizzate da elevata ansia per la propria salute, nessun esito di alcun test riesce ad essere rassicurante. Questo tipo di persone presenta infatti, tra le altre cose, la tendenza a leggere attentamente qualsiasi informazione medica (o pseudo-medica) presente sul web alla ricerca di gravi diagnosi che possano essere in grado di spiegare i propri sintomi (“cyberchondria”; Tyrer et al., 2016).

Recentemente, però, Berge e collaboratori (2016) hanno svolto in Norvegia una ricerca su un campione di più di 7,000 soggetti, dimostrando la presenza di un’associazione tra l’ansia per la propria salute e l’effettiva tendenza ad ammalarsi di più. Secondo questo studio, infatti, le persone caratterizzate da questo tipo di ansia avrebbero circa il 73% di probabilità in più, rispetto a soggetti non ansiosi, di sviluppare un problema cardiaco nell’arco di 10 anni.

L’ansia relativa alla propria salute (health anxiety), diagnosi introdotta recentemente, viene definita come una preoccupazione persistente riguardante l’avere o il poter contrarre una qualche patologia estremamente grave. A questa preoccupazione consegue la tendenza a controllare continuamente in modo minuzioso il proprio corpo, spesso mal interpretando ipotetici sintomi e ricercando assiduamente pareri medici in merito, ma senza la possibilità di poter essere rassicurati da esiti negativi a test medici (Berge et al., 2016).

Infatti, questo tipo di pazienti risulta essere caratterizzato da ruminazione, tale per cui una volta che il pensiero relativo ad una qualche malattia si è instaurato nella loro mente, è impossibile per loro smettere di pensarci. Questa condizione si differenzierebbe però dall’ipocondria proprio per l’elevato livello d’ansia che la caratterizza. Infatti, i soggetti caratterizzati da ansia per la propria salute, più che voler essere guariti dai sintomi presenti a livello fisico, desiderano solo smettere di preoccuparsi per la possibilità di essere effettivamente malati (Tyrer et al., 2016). Inoltre, l’ansia relativa alla propria salute, come rilevato anche da Berge e al. (2016), è spesso rilevabile insieme ad effettive patologie fisiche, mentre l’ipocondria può essere diagnosticata solo in loro assenza.

 

L’ansia per la salute e il rischio maggiore di patologie cardiache

Lo studio di Berge et al. (2016), però, più che alleviare questa preoccupazione, sarebbe in verità riuscito ad accrescerla andando a collegare l’ansia per la propria salute con il rischio di sviluppare patologie cardiache. Questo studio, prendendo in considerazione i fattori legati allo stile di vita che possono favorire lo sviluppo di problemi di cuore, ha dimostrato infatti come coloro i quali riportavano maggiori livelli di ansia per la propria salute presentavano anche la tendenza a condurre una vita più sedentaria e a consumare più alcolici e tabacco, fattori di rischio per lo sviluppo di patologie cardiache, rispetto a coloro i quali riportavano minori livelli di ansia per la propria salute. Risulta però impossibile escludere che la presenza di malattie attuali, come il diabete o più in generale uno stile di vita dannoso, possa essere la causa dell’ansia relativa alla propria salute e anche di una futura patologia cardiaca. In altri termini, è impossibile escludere che la presenza di una reale malattia fisica possa moderare la relazione tra ansia per la propria salute e probabilità di sviluppare patologie quali la cardiopatia ischemica.

Per poter valutare la presenza o meno di ansia per la propria salute, autori come Tyrer (2014; 2011) ponevano ai soggetti di cui ne sospettava la presenza tre domande: “Si preoccupa in modo eccessivo per (patologia)? Ha la tendenza a preoccuparsi per la sua salute in generale? Ha mai avuto la sensazione che (patologia) fosse più grave di quanto i medici non le dicessero?”. Se i soggetti rispondevano in modo affermativo anche a solo una di queste domande, Tyrer suggeriva una psicoterapia, in quanto semplici rassicurazioni sono risultate essere insufficienti per placare l’ansia. Al contrario, autori come Berge et al. (2016), hanno valutato la presenza di questa patologia tramite un questionario self-report validato per l’indagine delle diverse dimensioni che caratterizzano questo disturbo, quali fobia, preoccupazione somatica e convinzione di essere malati.

Inoltre, Tyrer e collaboratori (2014, 2011) hanno dimostrato, svolgendo dei randomised controlled trial, come la terapia cognitivo-comportamentale può essere più efficace di un trattamento standard nel diminuire questo tipo di sintomatologia ansiosa e può anche essere necessaria per poter reinterpretare i pensieri ossessivi di queste persone riguardo alla propria salute. Risulta, tra l’altro, essere estremamente efficace il tenere un diario per legare i sintomi alle attività quotidiane. Infatti spesso i sintomi stessi possono essere riconducibili all’ansia ed è importante che le persone operino questa connessione per poter superare la condizione di costante ansia per la propria salute. Ad esempio, una persona potrebbe riportare di percepire un dolore al petto quando si trova a lavoro, ma non quando sta lavorando in giardino, il che renderebbe improbabile che il sintomo possa essere dovuto a cause fisiche e che quindi si possa trattare di un reale disturbo cardiaco.

Secondo Tyrer et al. (2014, 2011), inoltre, l’ansia per la propria salute solitamente avrebbe origine in giovane età in seguito ad eventi scatenanti, e potrebbe essere risolta dopo anche solo 5-10 sessioni di psicoterapia, con benefici anche sul lungo termine (misurazioni effettuate con un follow-up a 1 e 2 anni).

In conclusione, quindi, per coloro i quali controllano minuziosamente e costantemente la propria salute, senza trarre alcun beneficio da, ad esempio, riscontri medici negativi, sembrerebbe essere di grande beneficio il sottoporsi a qualche sessione di psicoterapia cognitivo-comportamentale con protocolli mindfulness o ACT (Acceptance and Commitment Therapy), anche di gruppo (Tyrer et al., 2016), per poter imparare a riconoscere cosa causi i dolori a livello fisico, in un’ottica di somatizzazione di stati d’ansia, che porterebbero poi, come conseguenza ultima in una sorta di circolo vizioso, all’acuirsi dell’ansia per la propria salute. Inoltre, come emerso dagli studi di Berge e collaboratori (2016) risulta essere estremamente importante riconoscere e trattare questa tipologia di ansia, in quanto predittiva di futuri disturbi cardiaci.

Elogio della tiepidezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale

In questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Elogio della tiepidezza (Nr. 15)

Essere dipendenti dagli altri: il senso di inferiorità e la mancanza di scopi

Nel tentativo di programmare una riattivazione comportamentale che fosse basata sui propri gusti e desideri in un paziente gravemente dipendente mi sono scontrato con una difficoltà insormontabile per me che ho lo stesso problema (me lo dicevano i saggi che dovevo fare una analisi didattica, e io duro!!) sulla quale peraltro entrambi facciamo un vistoso secondario di autosvalutazione.

In realtà ad una cosa il mio paziente è molto interessato, la coltiva da sempre e ne è diventato maestro: il gioco del corteggiamento e della seduzione. Lo capisco perfettamente ma si tratta di una strategia da un lato tutta interna alla politica estera del dipendente (teniamoci buoni tutti che non si sa mai), dall’altro tendente inutilmente a ristabilire una autostima vacillante in cerca costante di puntelli. In questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “ quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve. Si tratta di una risposta assolutamente sincera. Davvero non sa cosa desidera. Essendo una strategia di sopravvivenza molto precoce, credo che a lungo andare il monitor che vigila su bisogni interni e desideri vada in stand by o si spenga proprio definitivamente per risparmiare energia (sapete, immagino, che lasciare gli elettromestici in stand by comporta comunque un consumo) e che per riattivarlo più che un intervento psicoterapico, soprattutto “top down” sia necessaria una sorta di riabilitazione all’ascolto del marcatore somatico di Damasio ( nel senso di quello da lui descritto, non del marcatore di Antonio che non risolverebbe niente).

Siccome non tutto il male vien per nuocere ed anche un orologio fermo fa l’ora esatta due volte al giorno voglio pensare che a questa categoria di individui appartengano anche alcuni santi, eroi e benefattori dell’umanità che hanno sacrificato la loro esistenza per gli altri. Buon per noi! Ma non è di questi che dobbiamo occuparci. Indagando meglio sulla sua vita ho scoperto che anche il mio paziente prova un grande senso di inferiorità e forte invidia per gli “appassionati in genere”, non ha importanza se siano collezionisti di francobolli, maniaci della fotografia o ultras della Roma. L’invidia non è per l’oggetto della passione, giudicato talvolta persino ridicolo, ma per la capacità di appassionarsi. La stessa che si può provare di fronte a degli innamorati quando non lo si è.

 

Effetto collaterale della dipendenza: la solitudine

Un effetto collaterale di questa condizione di passioni barzotte, definibile come”patologia generalizzata del desiderio” è la mancanza di appartenenze, talvolta la solitudine. Gli esseri umani si raggruppano a seconda delle passioni condivise. Persino i luoghi di incontro sono definiti dalle passioni e interessi: lo stadio, l’auditorium, la discoteca. Se prova a frequentarli si vive come un ospite, un intruso. In ogni gruppo si sente fuori posto ( ogni tanto dunque alla diagnosi di dipendente aggiunge quella di evitante e si chiede se diventare un appassionato collezionista di diagnosi di asse II°, quelle di narcisista e borderline le sente a portata di mano e per le altre almeno una spruzzatina di comorbilità riuscirebbe a strapparla).

A volte fantastica di fondare un gruppo dei “fuori posto”, di definire l’appartenenza dei non appartenenti, ma è un ossimoro. Al grande raduno mondiale dei non appartenenti non ci sarebbe nessuno, perché quelli che arriverebbero andrebbero cacciati in quanto impostori, quelli veri non vengono. Chi non ha passioni è senza comunità di appartenenza e senza terra, un apolide errante. Ha l’impressione che gli altri vivano pienamente mentre lui galleggia. Pensa che la frase di San Paolo per cui il tiepido sarà vomitato sia stata scritta per lui.

Insomma si autosvaluta pur trattandosi spesso di persona interessante. Infatti non è che non abbia interessi, è che non li approfondisce, non si specializza. Gli piacciono molte cose ma la specializzazione e l’esclusività lo annoiano. Diciamo che preferisce l’ampiezza piuttosto che la profondità. Al contrario di chi dice “poche cose ma ben fatte” lui è per “molte cose come vengono vengono”. Per attaccare il secondario di autosvalutazione gli propongo l’idea dell’uomo libero, del cane sciolto che non si esaurisce in una sola appartenenza, non si iscrive a nessun partito, non si ritrova in nessun corteo (così almeno la diagnosi di narcisista la porta a casa) e gli suggerisco l’orgoglio del decatleta che non vince nessuna specialità però……………. Mi viene in mente ora che questo è anche un buon modo per non essere mai davvero sconfitto, si può sempre dire “ a me non interessava davvero” e poi se la sa cavare in tutti gli ambienti e si adatta ad ogni interlocutore che non è poco per lo scopo della seduzione.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Adhd negli adulti: aspetti clinici e terapeutici

ADHD negli adulti: L’ ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) è un disturbo dell’età evolutiva che esordisce nell’infanzia e spesso persiste nell’età adulta. Negli adulti, il tasso di prevalenza mondiale è tra l’1 e il 7% (de Zwaan et al., 2012). Spesso queste persone soffrono anche di altri disturbi in comorbilità come i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i disturbi di personalità (Miller et al., 2007; Sobanski et al., 2007).

Elisa Zugno, Open School STUDI COGNITIVI MILANO

ADHD

L’ADHD si caratterizza per tre sintomi principali, ovvero disattenzione, iperattività e impulsività, ai quali si associano sintomi di disregolazione emotiva (Corbisiero et al., 2013). Questi sintomi, unitamente ai deficit nelle cosiddette soft skills (per esempio nelle abilità di comunicazione), determinano una grave compromissione del funzionamento nella vita di tutti i giorni. Le persone con ADHD riferiscono problemi a lungo termine a scuola, al lavoro, nella vita familiare e sociale, nelle attività ricreative e con l’organizzazione in generale (Mörstedt et al., 2015; Biederman et al., 2006). Il disturbo, quindi, ha delle conseguenze per lo sviluppo sociale del paziente e anche il funzionamento familiare è più basso nelle famiglie con membri che soffrono di ADHD (Harpin, 2005).

 

La diagnosi dell’ ADHD negli adulti

Il processo diagnostico in età adulta pone alcune difficoltà: i sintomi dell’ ADHD sono più eterogenei rispetto all’età evolutiva e possono sovrapporsi con gli eventuali disturbi in comorbilità (Barkley & Brown, 2008; Stieglitz & Rösler, 2006; Wasserstein, 2005). Inoltre, solo negli ultimi anni sono stati sviluppati specifici strumenti diagnostici e linee guida per gli adulti (Wolraich et al., 2011; Kendall et al., 2008). In aggiunta, c’è evidenza che le persone con ADHD abbiano scarse abilità nelle aree dell’autoriflessività e dell’autovalutazione e questo pone dei dubbi sull’attendibilità delle informazioni che riferiscono rispetto alle proprie difficoltà.

Sta crescendo sempre di più un dibattito sul fatto che la tripartizione della sintomatologia in disattenzione/iperattività/impulsività sia adeguata anche per l’ ADHD negli adulti (Gibbins & Weiss, 2007). Infatti, diversi studi hanno mostrato che queste tre dimensioni non sono stabili nel tempo (Faraone et al., 2006). Un altro argomento del dibattito è l’interrogativo su fino a che punto queste problematiche possano essere intese come conseguenze di disfunzioni nell’area dell’affettività (Surman et al., 2013). Queste riflessioni hanno portato gli studiosi a prendere in considerazione il fenomeno della disregolazione emotiva.

 

La disregolazione emotiva

La “regolazione emotiva” può essere definita come la capacità individuale di modificare uno stato emotivo al fine di promuovere comportamenti adattivi e orientati verso i propri scopi (Shaw et al., 2014). Questa capacità comprende i processi che consentono flessibilmente all’individuo di selezionare, partecipare e valutare gli stimoli emotigeni. La disregolazione emotiva insorge quando questi processi adattivi sono compromessi, conducendo a comportamenti che sono in contrasto con gli interessi dell’individuo (es. espressioni emotive ed esperienze che sono eccessive rispetto alle norme sociali e inappropriate rispetto al contesto oppure cambiamenti repentini e poco controllati dello stato emotivo in termini di labilità); l’espressione clinica è in termini di irritabilità, che spesso si associa ad aggressività reattiva e scoppi di collera (Leibenluft, 2011).

La disregolazione emotiva non è inclusa tra i sintomi principali dell’ADHD, in quanto non è ancora considerata come parte della sintomatologia nucleare del disturbo. Nel DSM-5 è stata creata la categoria “disregolazione dell’umore con disforia” all’interno del capitolo dei disturbi dirompenti.

Wender (1995) definisce la disregolazione emotiva attraverso tre dimensioni, ovvero il controllo della rabbia, la labilità affettiva e l’iper-reattività emotiva (equivalente all’intolleranza per lo stress). Nello specifico, il controllo dell’umore si riferisce a sentimenti di irritabilità e frequenti scoppi di rabbia di breve durata. La labilità affettiva si associa a brevi e imprevedibili passaggi da un umore normale a uno stato depressivo o a una moderata eccitazione. Infine, l’iper-reattività emotiva consiste in una diminuzione della capacità di affrontare i fattori di stress della vita quotidiana, che porta a una costante sensazione di essere vessati e sopraffatti.

I soggetti adulti con ADHD riportano spesso sbalzi d’umore, che cambia in modo significativamente più veloce rispetto a quello che accade nei disturbi dell’umore; quindi, possono esserci forti oscillazioni dell’umore anche nel corso della stessa giornata. Questi pazienti hanno molti problemi ad affrontare le situazioni stressanti e sono frequentemente e rapidamente irritati da piccole cose della vita quotidiana. Questo è coerente con i riscontri teorici sul disturbo: si potrebbe dimostrare che i classici sintomi dell’ADHD si associano non solo con deficit cognitivi e alterazioni del substrato neuroanatomico, ma anche con la variabilità nel tono dell’umore (Skirrow et al., 2009). La disregolazione emotiva nell’ADHD, quindi, dipende da deficit a livelli multipli. Le difficoltà variano da un anormale orientamento precoce verso gli stimoli emotivi, soprattutto quelli negativi, a deficit nei processi cognitivi quali la memoria di lavoro e la capacità di inibizione della risposta. L’eziologia della disregolazione può anche dipendere dal fallimento nella regolazione emotiva da parte dei genitori, che si riflette in un’elevata ostilità espressa che contribuisce allo sviluppo di disregolazione emotiva nel bambino (Surman et al., 2011; Biederman et al., 2012).

 

Il profilo neuropsicologico

I deficit neuropsicologici associati all’ ADHD negli adulti sono sostanzialmente gli stessi che si rilevano nell’età evolutiva. Questi deficit riguardano l’attenzione, l’inibizione del comportamento e la memoria (Hervey et al., 2004). I test più utilizzati per l’assessment neuropsicologico sono quelli che valutano le funzioni esecutive, come il Continuous Performance Test (CPT), il test di Stroop, il Trail Making Test, le fluenze verbali soprattutto fonemiche, il Wisconsin Card Sorting Test; inoltre, viene utilizzata anche la WAIS-R per un inquadramento del funzionamento cognitivo globale. Tuttavia, l’assessment neuropsicologico presenta due limitazioni: 1) non esistono ancora test cognitivi specifici per l’ADHD; 2) la performance ai test potrebbe essere condizionata non solo dall’ADHD ma anche da eventuali disturbi psichiatrici in comorbilità (es. disturbi dell’umore).

 

Il trattamento dell’ ADHD negli adulti

Sebbene il 25-50% degli adulti trattati con i farmaci mostri dei miglioramenti nei sintomi nucleari della patologia, tuttavia presentano delle difficoltà residuali in diversi ambiti di funzionamento, cioè scolastico, lavorativo, alcune abilità come guidare, relazioni sociali (Safren, 2006; vedi Figura 1). Infatti, il miglioramento nei sintomi nucleari non necessariamente corrisponde con un miglioramento del funzionamento globale della persona.

Le molteplici esperienze di fallimento e l’insuccesso cronico contribuiscono allo sviluppo di credenze negative maladattive che abbassano la motivazione e aumentano i comportamenti di evitamento e i disturbi dell’umore; queste problematiche, però, non possono essere gestite solo attraverso la terapia farmacologica (Knouse & Safren, 2010). Inoltre, l’ ADHD negli adulti ha un alto grado di comorbilità con altri disturbi psichiatrici quali l’ansia, i disturbi dell’umore, il controllo degli impulsi e l’abuso di sostanze.

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) è stata presa in considerazione di recente come trattamento aggiuntivo per l’ ADHD negli adulti ed è stato dimostrato che sia più efficace se inserita all’interno di un pacchetto di trattamento multimodale che includa interventi comportamentali finalizzati all’apprendimento e alla pratica di abilità compensatorie, unitamente a interventi cognitivi per trattare le distorsioni del pensiero e le conseguenti emozioni negative che contribuiscono all’evitamento e alla procrastinazione (Knouse & Safren, 2010); oltre a questi interventi, bisogna sempre valutare l’associazione di una terapia farmacologica. Infatti, mentre la CBT ha un impatto limitato sui sintomi nucleari dell’ ADHD, c’è un’evidenza preliminare che invece possa essere efficace sulla disregolazione emotiva (Mongia & Hechtman, 2012). Questo approccio può funzionare per gli adulti in quanto la maggior parte non è in grado di affrontare efficacemente le proprie difficoltà e di conseguenza non riescono a soddisfare le esigenze della vita. La frustrazione che ne deriva favorisce l’insorgenza di ansia e depressione, nonché una bassa autostima e autoefficacia (Newark & Stieglitz, 2010; Weiss et al., 2012).

Nello specifico, i target della terapia sono:
– comprensione e modificazione delle distorsioni cognitive;
– modificazione del comportamento;
– gestione dei problemi dell’umore, dell’ansia e della bassa autostima.

Le strategie terapeutiche utilizzate, invece, sono le seguenti:
– cognitive: ristrutturazione, problem solving, organizzazione, gestione del tempo, gestione della procrastinazione, psicoeducazione, gestione della rabbia, gestione delle relazioni, auto-istruzioni verbali e mindfulness;
– emotive: regolazione e gestione delle emozioni, controllo degli impulsi/autocontrollo/autoregolazione, auto-motivazione, aumento dell’autostima.

Il primo studio che ha valutato l’approccio CBT per il trattamento di persone adulte con ADHD è stato effettuato da McDermott (2000). L’intervento, della durata media di 36 sedute, consisteva nell’insegnare ai pazienti a fermarsi, rivalutare e modificare i pensieri che contribuivano a intensificare le emozioni e i comportamenti disfunzionali. I pazienti imparavano a indentificare gli errori cognitivi e a monitorare e rivalutare sistematicamente i loro pensieri. La terapia, inoltre, includeva la psicoeducazione e strategie di modificazione ambientale (es. organizzazione, programmazione delle attività, problem solving).

Rostain e Ramsay (2006) hanno sviluppato un programma di 16 sedute individuali che prevedevano la psicoeducazione sull’ ADHD, la concettualizzazione delle difficoltà del paziente in un’ottica CBT, un training sulle strategie di coping e il potenziamento dei punti di forza.

 

Dialectical Behavioral Therapy

Il modello della Linehan è stato adattato per poterlo utilizzare per il trattmento dell’ ADHD negli adulti. Hesslinger et al. (2002) hanno deciso di utilizzare questo modello basandosi sulla premessa che l’ADHD e il disturbo borderline di personalità abbiano delle caratteristiche in comune quali le difficoltà nella regolazione affettiva, il controllo degli impulsi, l’autostima e le relazioni interpersonali. L’intervento consisteva in 13 sedute che prevedevano: psicoeducazione sull’ADHD; neurobiologia e training mindlfuness; discussione dei comportamenti disorganizzati seguita da consigli concreti su come pianificare e organizzare la propria vita, analisi del comportamento; regolazione emotiva; psicoeducazione sulla depressione, sul controllo degli impulsi, sullo stress, sulla dipendenza da sostanze; discussione sulle relazioni e il rispetto per se stessi.

 

Terapia Metacognitiva

Solanto et al. (2008) hanno sviluppato un trattamento di gruppo (5-8 persone) mirato per i problemi di gestione del tempo, organizzazione e pianificazione. Hanno definito la terapia metacognitiva come un intervento destinato a “incrementare lo sviluppo di un insieme globale di abilità esecutive di auto-gestione”, enfatizzando la pratica ripetuta delle abilità apprese al fine di renderle più abituali e automatiche. I moduli di trattamento, svolti in 8/12 sedute della durata di due ore, prevedevano la gestione del tempo, l’attivazione comportamentale, la procrastinazione, l’organizzazione e la pianificazione. Ogni incontro iniziava con una discussione dell’applicazione delle abilità a casa durante la settimana, poi i membri del gruppo fornivano i loro feedback e infine venivano insegnate nuove abilità e assegnati gli homework.

 

Meditazione Mindfulness

Zylowska et al. (2008) hanno ipotizzato che il controllo dell’attenzione coltivato nel corso degli esercizi di mindfulness possa migliorare l’attenzione sostenuta e la regolazione delle emozioni e dunque possa essere utile nel trattamento dell’  ADHD negli adulti. Infatti, la meditazione mindfulness è una pratica che implica una certa quota di autoregolazione. Nello specifico dell’ADHD, questo tipo di intervento può avere un impatto sui sintomi comportamentali della disattenzione e dell’impulsività, sui deficit neurocognitivi relativi all’attenzione e alla capacità di inibizione, nonché sugli impairment secondari come lo stress, l’ansia e la depressione. Per quanto riguarda la regolazione delle emozioni, durante il training mindfulness i pazienti imparano a ridurre l’arousal attraverso la respirazione e gli esercizi di rilassamento e ad adottare un atteggiamento aperto e accettante verso le loro esperienze emotive. Sulla base di questo razionale hanno strutturato un intervento di 8 sedute.

Dalle bufale on line ai falsi pettegolezzi tra amici: perché facciamo affidamento su informazioni inaccurate?

Diversi studi dimostrano che le persone tendono a fare affidamento su notizie errate, inaccurate, o parzialmente false e che questo fatto ha il potere di influenzare il loro comportamento futuro. 

 

In un’epoca in cui l’informazione è affidata a diversi mezzi tecnologici ed è diventata, con la rapida diffusione di Internet, appannaggio di tutti in qualunque momento, diventa fondamentale chiedersi quali siano i fattori che ci permettono di selezionare e scegliere correttamente le informazioni; infatti diversi studi dimostrano che le persone tendono a fare affidamento su notizie errate, inaccurate, o parzialmente false e che questo fatto ha il potere di influenzare il loro comportamento futuro.

Lo psicologo David Rapp, della Northwestern University, ha pubblicato una review in cui cerca di spiegare quali siano i meccanismi a causa dei quali le persone farebbero affidamento su informazioni errate.

Secondo il ricercatore, essi si genererebbero come conseguenza di vere e proprie “routine” nei processi cognitivi associati a memoria, problem solving e comprensione.

Tutto dipenderebbe dal fatto che le persone caricano velocemente in memoria affermazioni inaccurate, perché questo sarebbe un processo più facile rispetto alla valutazione critica o all’analisi di ciò che hanno appreso.

In seguito, il cervello richiamerebbe prima le informazioni scorrette poiché farebbe meno fatica a richiamare il materiale presentato più di recente.

Ancora più difficoltoso, è evitare di affidarsi alla disinformazione, quando le informazioni accurate ed inaccurate sono presentate insieme.

Siamo bombardati da tonnellate di informazioni tutti i giorni; è un incubo cercare di valutarle tutte criticamente – spiega Rapp, coeditore del libro “Processare le informazioni inaccurate” – valutare tutto diventa arduo e difficoltoso e comporta il fatto che i soggetti cerchino di conservare le proprie risorse per quando ne avranno realmente bisogno.

Nella sua review, pubblicata all’interno della rivista Current Directions in Psychological Science, Rapp suggerisce anche diverse strategie per evitare le trappole della disinformazione:

  • Valutare criticamente le informazioni il prima possibile: ciò potrebbe aiutare il proprio cervello ad evitare di mettere da parte informazioni non corrette.
  • Considerare la fonte: le persone sono più solite utilizzare informazioni inaccurate da fonti credibili che da fonti inattendibili, in accordo con una precedente ricerca di Rapp.
  • Fare attenzione alle menzogne credibili:

Quando la verità è mischiata ad affermazioni inaccurate, le persone diventano persuase, raggirate e meno valutative,cosa che impedisce loro di notare e rifiutare idee inaccurate – afferma Rapp.

 

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