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Marcatori biologici e comportamento suicidario: nuove prospettive di studio

Alti livelli di DNA mitocondriale sono stati rilevati in campioni di plasma di soggetti con alle spalle tentativi di suicidio.

 

I marcatori biologici dei pazienti depressi con tendenze suicidarie

In uno studio recente, i ricercatori delle università svedesi di Lund e Malmo, in collaborazione con quella della California di San Francisco, hanno misurato, tramite strumentazione in vitro (cell-free system), i livelli di DNA mitocondriale presenti all’interno del plasma sanguigno, correlandolo con una significativa iperattivazione a livello del sistema cerebrale deputato all’elaborazione dello stress, o asse ipotalamo-ipofisi-surrene (asse HPA), in soggetti con tendenze suicidarie. Questo marcatore potrebbe quindi essere efficacemente utilizzato in futuri studi psichiatrici volti alla comprensione della patofisiologia sottostante il comportamento suicidario e la depressione.

I mitocondri sono organelli citoplasmatici presenti all’interno delle cellule eucariote, estremamente importanti per lo svolgimento di una serie di funzioni cellulari, quali l’apoptosi e la necrosi per quanto riguarda la morte cellulare, la regolazione dei radicali liberi, la regolazione dell’espressione genica e la trasduzione di segnali implicati nella proliferazione e nella differenziazione cellulare. Ogni mitocondrio possiede anche il proprio genoma, ereditato dal DNA mitocondriale materno ed implicato nei processi di produzione energetica.

La struttura mitocondriale, inoltre, risulta essere altamente suscettibile allo stress cronico: alti livelli di cortisolo, ormone cruciale per il sistema cerebrale deputato all’elaborazione dello stress, persistenti nel tempo, comportano una riduzione del potenziale di membrana dei mitocondri ed un’aumentata sensibilità all’apoptosi.

Proprio a tal proposito, studi precedenti (Cai et al., 2015; Nicod et al., 2015) avevano già messo in luce come soggetti affetti da disturbo depressivo maggiore mostrassero maggiori livelli di DNA mitocondriale all’interno dei leucociti, cellule immunitarie, presenti in campioni di sangue e saliva, correlando tali livelli con eventi di vita stressanti. Inoltre, studi sugli animali (Gong et al., 2011) avevano già mostrato come maggiori livelli di cortisolo fossero correlati a maggiori livelli di DNA mitocondriale a livello plasmatico e a disfunzioni a livello di aree cerebrali quali l’ippocampo e il talamo, implicate, tra le altre cose, nell’elaborazione di stimoli stressogeni. Lindqvist e collaboratori, per la prima volta, hanno indagato questo aspetto in coorti di pazienti psichiatrici.

 

Lo studio

Più nello specifico, gli autori di questo studio hanno comparato le analisi di 37 pazienti ospedalizzati in cliniche psichiatriche per tentato suicidio con quelle di altrettanti soggetti sani di controllo. L’età media dei pazienti si aggirava intorno ai 40 anni e circa il 70% del campione, sia quello sperimentale sia quello di controllo, era costituito da donne.

Rispetto ai soggetti di controllo, i pazienti mostravano livelli di DNA mitocondriale a livello plasmatico notevolmente elevati. Inoltre, i ricercatori hanno anche rilevato una correlazione significativa tra i livelli di DNA mitocondriale e i livelli di cortisolo presenti nel sangue, valutati tramite il test al Desametasone e segnale di un’iperattivazione dell’asse HPA, così come già rilevato in studi precedenti su pazienti depressi ed ansiosi.

Secondo gli autori, per quanto riguarda i pazienti con tendenze suicidarie, tali indici biologici, presenti in concentrazioni così elevate, sarebbero dovute all’esposizione per prolungati periodi di tempo a gravi fattori stressogeni. In questo senso, alti livelli di cortisolo porterebbero ad un malfunzionamento non solo a livello corticale, ma anche a livello cellulare e ad una disfunzione mitocondriale, che, a sua volta, porterebbe al rilascio di elevati livelli di DNA mitocondriale all’interno del flusso sanguigno.

In conclusione, per quanto non si possa affermare che questo marcatore biologico sia in grado di prevedere chi proverà a mettere in atto tentativi di suicidio, anche perché comune a diverse patologie psichiatriche e anche somatiche caratterizzate da un’esagerata risposta allo stress (ad es. diabete, cancro, traumi), la rilevazione dei livelli di DNA mitocondriale a livello plasmatico potrebbe aiutare ad identificare quei soggetti vulnerabili a condizioni psichiatriche quali ansia e depressione, che, sottoposti ad ingenti livelli di stress, potrebbero essere considerati a rischio suicidario, riuscendo così a predisporre adeguati trattamenti preventivi.

Quindi, nel complesso, quanto emerso suggerisce come lo stress psicologico, rilevato tramite la misurazione dei livelli di cortisolo presenti nel flusso sanguigno, associato a tendenze suicidarie, potrebbe lasciare una traccia rilevabile a livello biologico sotto forma di alti livelli di DNA mitocondriale. Inoltre, come futura prospettiva d’indagine, Lindqvist e collaboratori vorrebbero studiare come i livelli di questo marcatore varino in seguito a psicoterapia, a trattamenti farmacologici e ad interventi sullo stile di vita di pazienti depressi e con tendenze suicidarie.

Solitudine, relazionalità e ritiro sociale in psicopatologia: dalla depressione ai disturbi d’ansia e di personalità

Il vissuto psicopatologico ha per la persona che lo sperimenta significati profondi, a volte difficilmente comunicabili e condivisibili; la possibilità di entrare in relazione con gli altri è spesso compromessa e, talvolta, si concretizza in una caratteristica trasversale a diverse condizioni patologiche: l’isolamento e il ritiro sociale.

 

Il ritiro sociale nella psicopatologia

In ciascun caso, la difficoltà o impossibilità di interagire con persone e contesti può essere connessa ad aspetti specifici del disturbo e la solitudine che deriva dal disagio psichico può assumere diverse forme a seconda della patologia entro la quale si sviluppa.

Di seguito verranno prese in considerazione, da diverse prospettive, talune categorie psicopatologiche che sembrano presentare questo elemento distintivo: le alterazioni patologiche dell’umore, i disturbi d’ansia e alcuni tipi di personalità. Che significato ha, ad esempio, il ritiro sociale e dalle relazioni per un soggetto affetto da depressione? Quali le differenze con la socialità coartata della personalità schizoide o evitante? E come è percepita l’interazione con il mondo esterno da chi convive con un disturbo da attacchi di panico o ansia sociale?

[…] il dolore dell’anima, quello che sgorga dalla coscienza depressiva, […] si rispecchia in una solitudine lacerante e, quasi, insostenibile che è solitudine interiore ma recisa da una qualche riconoscibile comunicazione con il mondo degli altri

Diversi elementi possono contribuire a definire la qualità delle relazioni, sia in condizioni di normalità che nel contesto di specifiche esperienza psicopatologiche, determinando, in alcuni casi, l’incapacità di stare con l’altro e il conseguente ritiro sociale o senso di solitudine.

Nell’ottica della psicologia individuale (Adler, 1935), ad esempio, viene data particolare importanza ai modi in cui l’individuo interagisce con il proprio ambiente. Stando a tale concezione, ciascuno si pone nei confronti del mondo coerentemente con  la visione che ha di sé stesso, non secondo schemi predefiniti, ma in accordo con la propria personale prospettiva.

Il contatto con il mondo esterno sarebbe dunque determinato non tanto da fattori ereditari o ambientali, ma dal modo unico che ognuno ha di intendere e sperimentare questi elementi. Secondo tale approccio, l’esistenza umana sarebbe inoltre caratterizzata da un senso di incompletezza e insoddisfazione, un sentimento di inferiorità che, come spiega Fassino (1996), riprendendo i fondamenti della teoria adleriana, può essere individuato anche nel contesto dei vissuti depressivi.

 

L’Altro nei vissuti depressivi e nelle personalità narcisistiche

È possibile, pertanto, osservare nel soggetto depresso l’attuazione di alcune strategie comportamentali che hanno un’importante ricaduta sulle sue modalità relazionali e su un eventuale ritiro sociale. Esso mette in atto il tentativo di compensare il suo stato di inferiorità aspirando a mete ideali ma difficilmente conseguibili e, di fronte al mancato raggiungimento di tali traguardi, si lamenta arrendevolmente della propria sorte attribuendone implicitamente la responsabilità a fattori esterni, ad un mondo percepito come ostile. L’espressione della propria sofferenza diventa il veicolo per valorizzarsi canalizzando su di sé l’attenzione, mentre gli altri sono sottoposti ad un processo, seppur implicito, di responsabilizzazione. Ne deriva il tentativo di controllare l’altro e ottenere il suo amore attraverso la propria disperazione inconsolabile.

Una quota di distruttività viene così rivolta anche verso l’esterno, oltre che verso il sé, ma ciò avviene in maniera indiretta, tramite l’esposizione ostinata della propria sofferenza, per non correre il rischio di perdere l’altro e restare da solo. Infatti:

La relazione con gli altri è, per questi soggetti, l’unica fonte della propria autostima, la cui perdita, reale o minacciata, è intollerabile e porta all’aumento della distanza tra l’immagine del Sé e l’ideale del Sé […] il Sé ideale del depresso ha bisogno degli altri (Ibidem, p. 66).

Il significato delle relazioni nella personalità narcisistica

Il legame con l’altro come strumento di regolazione dell’immagine di sé, con importanti conseguenze sul piano relazionale, è un concetto che emerge in maniera altrettanto evidente nella descrizione del funzionamento della personalità narcisistica.

Nelle descrizioni “tradizionali”, il narcisista è tipicamente sfruttante, portato all’idealizzazione del sé a discapito dell’altro che viene svalutato e ridotto a strumento per la conferma della propria grandiosità. Vi è una sorta di patologia della relazione che lo rende incapace di dipendere realmente dagli altri, di perseguire con loro scopi comuni o provare empatia ed emozioni profonde. Anche nella relazione terapeutica può apparire non collaborativo o persino competitivo; uno degli scogli principali sembra infatti essere l’incapacità del soggetto di dipendere dal terapeuta, dipendenza che risulterebbe umiliante e andrebbe a scontrarsi con il suo senso di onnipotenza e controllo (Kernberg, 2010).

Indagini recenti svelano però un altro lato della personalità narcisistica. Salvatore, Carcione e Dimaggio (2012), ad esempio, hanno distinto due schemi interpersonali definiti “dipendenza disfunzionale” e “scarsa agentività”: con l’attivazione di tali schemi, in mancanza del sostegno dell’altro, il narcisista va incontro a vissuti depressivi, di isolamento, ritiro sociale e passività; non è in grado di utilizzare emozioni, stati interni e desideri come bussola per le proprie azioni e diventa per lui impossibile raggiungere i propri scopi.

In altri termini, l’attivazione di uno schema relazionale di dipendenza è un meccanismo messo in atto in risposta al senso di bassa autostima; ciò avviene in quanto l’altro, con la sua presenza e ammirazione, consente al narcisista di disconoscere la rappresentazione negativa di sé. È in tali circostanze che il soggetto sembra ricercare insistentemente la relazione. Il rifiuto da parte dell’altro apre a vissuti di tipo depressivo poiché, non riconoscendo la sua presunta superiorità, rischia di portare alla luce il sé svalutato e carente. La risposta del narcisista è una rabbia vendicativa che permette di evitare il passaggio a tale stato attribuendo valenza negativa all’altro e al suo comportamento, ricercando cioè le cause della sua sofferenza in fattori esterni (Ibidem).

Alterazioni della personalità e vissuti depressivi possono dunque presentare aspetti simili, incontrarsi e, talvolta, co-esistere, ma presentano anche importanti elementi distintivi: la capacità empatica può essere maggiormente compromessa nel disturbo di personalità, così come la rabbia risulta più diretta;  l’autostima del depresso non è ipertrofica e la sua rabbia è mascherata. Entrambe le condizioni, però, comportano una compromissione della capacità relazionale, alimentando il rischio di solitudine e ritiro sociale. Il narcisista ha bisogno della relazione per la propria sopravvivenza, ma non tende a preservarla.

Il depresso non arriva ad attaccare direttamente la relazione, ma la sua aggressività emerge sotto forma di contagio della sofferenza. Le modalità comunicative del depresso, infatti, instillano nell’altro il sentimento di essere inutile di fronte a tanto dolore; quella che il soggetto attua come strategia per evitare la solitudine, sortisce l’effetto contrario, finendo per generare l’altrui allontanamento (Fassino, 1996).

 

Solitudine e ritiro sociale nel paziente depresso

Un primo tratto dell’isolamento depressivo potrebbe dunque rintracciarsi in questa modalità distorta di comunicazione dei propri stati interni, unita alla limitata comprensione degli stessi da parte dell’altro che spesso ne è sopraffatto.

Tuttavia, prendendo spunto dagli approcci cognitivi alla depressione, è possibile riconoscere alcune delle caratteristiche del pensiero depressivo altrettanto passibili di indurre il soggetto all’isolamento e al ritiro sociale. Egli, infatti, tenderebbe a ritirarsi dalla vita poiché si percepisce come non all’altezza, carente e non desiderabile socialmente. Queste convinzioni, prevalentemente autocritiche, sottolineano quello che è il tema dominante del pensiero depressivo: la radicata certezza del proprio fallimento, inettitudine e di non essere meritevole d’amore.

Il negativismo del paziente depresso si rivolge non solo all’immagine di sé, ma anche al proprio futuro e al mondo circostante. Questi schemi giocano un ruolo fondamentale nella “scelta” di ritrarsi dalla socialità; se il soggetto attiva tali modalità cognitive nei contesti interpersonali, infatti, gli eventi saranno interpretati in modo da confermarne le convinzioni negative, innestando un circolo vizioso che diviene fattore di mantenimento del disturbo e delle sue conseguenze sul piano comportamentale, quali il ritiro sociale (Rainone, Ferrari, Polli, 2004).

Un approccio maggiormente descrittivo, che mira ad identificare i segni evidenti ed osservabili della patologia, indica la presenza, in corso di episodio depressivo, di una marcata diminuzione di interesse e piacere in quasi tutte le attività (American Psychiatric Association, 2013), aspetto non trascurabile nell’individuazione dei fattori che possono contribuire al ritiro sociale e dagli abituali contesti di vita e di relazione.

 

Differenza tra depressione e disturbi d’ansia

La depressione può essere distinta dai disturbi d’ansia per i suoi contenuti prevalenti. L’ansioso è maggiormente orientato su un versante dominato dal senso di minaccia e di potenziale esposizione al pericolo. Senza entrare nel merito di ciascuno dei singoli disturbi annoverati nelle classificazioni ufficiali, è possibile riferirsi all’ansia come a quella condizione di attivazione neurofisiologica con conseguenze complesse sul piano emotivo, cognitivo e comportamentale che si manifesta in situazioni di pericolo (reale o immaginato) predisponendo il soggetto all’azione o alla fuga.

L’ansia diviene patologica quando si configura in comportamenti disfunzionali ed è eccessiva rispetto alla portata degli oggetti e situazioni che la elicitano; questi acquisiscono per il soggetto un significato talmente minaccioso da invalidarne il funzionamento. È in un simile contesto che emerge l’evitamento (e, in alcuni casi, il conseguente graduale isolamento) come strategia difensiva atta ad escludere le esperienze che, secondo il soggetto, sarebbero in grado di provocare l’avverarsi dei suoi timori e preoccupazioni: l’incontro con l’oggetto della fobia, nel caso di fobia specifica; l’esposizione di sé in contesti socio-relazionali in cui si è potenzialmente esposti al giudizio degli altri, nei casi di ansia sociale; le modificazioni psicofisiche dell’attacco di panico o, ancora, gli avvenimenti pessimistici temuti da chi presenta una condizione di ansia generalizzata, e così via.

 

Il ritiro sociale nei disturbi di personalità schizoide e schizotipico

In altri casi ci si può trovare di fronte ad una forma di ritiro sociale tipica delle alterazioni della personalità, ovvero di quella “struttura” che caratterizza ciascun essere umano in maniera più o meno stabile a partire dalla prima età adulta e ne determina pensieri, comportamenti e stili relazionali. Proprio questi ultimi si manifestano con modalità particolari, difformi dalle norme sociali convenzionali.

Basti pensare ai profili di personalità schizoide e schizotipico i quali tendono a non intrattenere relazioni interpersonali poiché appaiono scarsamente interessati dalle interazioni e dal contatto con gli altri. Non si tratterebbe, però, di un evitamento prevalentemente funzionale a proteggersi dal mondo esterno o dal passare al vaglio dell’altrui giudizio, come avviene nei casi con componenti ansiose/evitanti. La caratteristica preminente alla base del ritiro sociale schizoide e schizotipico sembrerebbe essere l’indifferenza e il disinteresse nei confronti della socialità.

Uno studio condotto da Westen, Shedler, Bradley e DeFife (2012) ha riconosciuto la personalità schizoide-schizotipica tra i prototipi di personalità di tipo internalizzante, fornendone una descrizione che include carenze nelle modalità di comportamento sociale, peculiarità nei modi, nel pensiero e nel linguaggio utilizzato, tanto da percepirsi come degli outsider. Secondo la descrizione emersa dallo studio sopra citato, tali personalità appaiono inoltre difficilmente in grado di interpretare in maniera corretta il comportamento delle altre persone nonché scarsamente capaci di comprendere e descrivere se stessi; presentano limiti nella capacità di sperimentare l’intera gamma di emozioni, tendendo a suscitare anche negli altri risposte di distacco e noia.

 

Il ritiro sociale nella personalità evitante

Vergogna, bassa autostima, timore dell’umiliazione, sembrano invece essere alcuni degli elementi dominanti che contraddistinguono la personalità evitante. Sebbene tale quadro personologico sia apparentemente affine al disturbo d’ansia sociale (o fobia sociale), si tratta di una condizione maggiormente pervasiva, strutturale, costante, in cui l’imbarazzo provocato dall’esposizione di sé non è legato al contesto, al contrario, rappresenta il sottofondo emotivo di una personalità che risente di un forte senso di solitudine. In altre parole:

l’evitante ha una rappresentazione di diversità e/o di inadeguatezza personale che vive come uno stato di fatto, più o meno doloroso, una realtà con cui confrontarsi nella vita; ha la percezione stabile dell’impossibilità a condividere e/o appartenere al mondo relazionale e sociale (Popolo, Dimaggio, Marsigli & Procacci, 2007, p. 318).

Come anticipato, dunque, la difficile comunicabilità di simili esperienze interiori può creare una distanza significativa tra soggetto e mondo esterno; non sempre, infatti, l’altro è predisposto ad accogliere la sofferenza e comprenderla nella sua interezza e autenticità, soprattutto quando si tratta di una forma di dolore che incontra ancora molte resistenze: il dolore psichico.

La condizione dell’uomo, del resto, è intrisa di paradossi e tra i più rilevanti vi è quello che lo vede sempre in bilico tra l’essere da solo e l’essere con l’altro. Nei casi di ritiro sociale e solitudine psicopatologica, siano questi egosintonici o fonte di ulteriore disagio e isolamento per il soggetto, l’instaurarsi di una relazione psicoterapeutica può essere la chiave per offrire al paziente una nuova dimensione relazionale: l’esperienza di un altro realmente disposto a mettersi in ascolto, a rendere il dolore comunicabile e a conciliare i termini di quel paradosso tipicamente umano che ci vede sempre oscillare tra gli estremi di relazionalità e soggettività. Per dirla con Safran (1993, pp. 14-15):

In life we must all inevitably negotiate the paradox that by the very nature of our existence we are both alone and yet inescapably in the world with others. We are alone at a fundamental level […] Although we are able to share many things with other people, many of our most important experiences will never be shared. At the same time we are, by the very nature of our existence inescapably tied to others.

Resistenza non violenta e nuova autorità: un nuovo modello per gestire i comportamenti violenti e conflittuali nelle relazioni

Il concetto di Resistenza non violenta implica uno stravolgimento del modo di rispondere e affrontare le situazioni problematiche: l’intento diventa resistere, affrontare e vincere la violenza senza esserne travolti o adottarla a propria volta ma utilizzando la determinazione della non violenza e della presenza per interrompere l’escalation e comunicare il proprio desiderio di esserci e aiutare. L’elemento centrale su cui si concentra l’intervento non sono quindi i figli o i ragazzi problematici ma i genitori e gli educatori: in altre parole per cambiare i “piccoli” bisogna cambiare i “grandi”, o meglio il loro modo di relazionarsi con coloro che devono aiutare a crescere.

Giuseppe Murelli, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Perchè è stato ideato il modello della Resistenza non violenta?

In un momento in cui certi valori morali e certi modelli educativi stanno vivendo una profonda crisi che mette pesantemente in discussione concetti cardine di una società civile come l’autorità, la genitorialità e il senso di appartenenza a una comunità, lasciando spazio a fenomeni sempre più preoccupanti come bullismo, assenza di rispetto, comportamenti arroganti o prevaricatori e autoaffermazione sfrenata di sé, é più che mai necessario fermarsi e riflettere su ciò che sta avvenendo per capire quale sia il problema e trovare il modo migliore, tra quelli attuabili, per risolverlo. Di questa necessità sono ben consapevoli genitori, insegnanti e educatori.

Il modello di Haim Omer, basato sui concetti di resistenza non violenta, nuova autorità, presenza, àncora e cura vigile, potrebbe rappresentare un’opzione degna di attenzione. A prima vista potrebbe sembrare un modo troppo ambizioso e ideale di intendere l’educazione e l’approccio ai figli, alle famiglie, ai pazienti e, più in generale, alle persone. Dopo aver preso confidenza coi pilastri che lo sorreggono, però, sono certo che concorderete con me nel ritenerlo un insieme di buone pratiche, adatto ad ogni tipo di interazione sociale e, diversamente da come può apparire a prima vista, non così difficile da realizzare con un po’ di impegno, di costanza e di aiuto reciproco.

 

L’autore del modello della Resistenza non violenta

Haim Omer, nato in Brasile da genitori ebrei polacchi (entrambi sopravvissuti dei campi di concentramento), è attualmente docente di Psicologia all’Università di Tel-Aviv. Nel corso dei suoi quarant’anni di carriera come Psicoterapeuta, ricercatore accademico e insegnante ha pubblicato oltre settanta lavori riferiti alla psicologia della demonizzazione, alla “presenza” genitoriale, alla Resistenza Non Violenta (Non Violent Resistance, NVR) in famiglia, nella scuola e nella comunità, alla Nuova Autorità (New Authority, NA) e alla funzione di “àncora” in quanto ponte tra i concetti di autorità e attaccamento.

La sua storia familiare ha suscitato in lui un profondo interesse per le strategie non violente come risposta contro la forza bruta della violenza. L’approfondimento delle dottrine della resistenza non violenta (a partire da figure cardine come Gandhi e Martin Luther King) e la sua formazione in psicoterapia sistemica gli hanno permesso di costruire l’approccio psicologico, psicoterapeutico e relazionale della Nuova Autorità per il quale è conosciuto in campo internazionale.

Infatti, nel 2011 a Tel Aviv insieme a Irit Schorr-Sapir, psicologa clinica e direttrice della clinica Resistenza non violenta per ragazzi con ADHD, ha fondato la Scuola di Resistenza Non Violenta, considerata il luogo ufficiale di insegnamento, supervisione e promozione dell’approccio della Resistenza non violenta e della Nuova autorità per tutti i professionisti che lavorano nel campo della salute mentale (l’enfasi é posta sulla necessità di un contesto multidisciplinare).

Da anni tra le sue attività rientra anche il tenere lezioni e conferenze in tutta Europa sulla Resistenza non violenta e la Nuova autorità (e se vi capitasse l’occasione di poterlo sentire coglietela al volo perché é un ottimo oratore e tra l’altro parla un perfetto italiano!). Il suo modello, oltre a fornire strumenti importanti per intervenire nelle situazioni problematiche, si rivela essere, a mio parere, utile per sviluppare e coltivare delle “buone norme” di comportamento e relazione, utili in tutti i tipi di contesti.
I concetti e i metodi di trattamento sono stati implementati da dei team terapeutici e da centri di trattamento con sede in Israele, Germania, Svizzera, Francia, Austria, Paesi Bassi, Belgio, Inghilterra, Danimarca e Svezia e i risultati degli studi controllati condotti sono stati pubblicati su diverse riviste specializzate.

Tra i suoi otto libri, molti dei quali tradotti in 8 lingue [inglese, tedesco, giapponese, ebreo, francese, portoghese, olandese e, ora finalmente, italiano], é importante ricordare “The new authority: family, school, and community” (2010) [di questo volume è ora disponibile la versione italiana “La nuova autorità: famiglia, scuola e comunità”], “The psychology of demonization: reducing conflict and promoting acceptance”, scritto con Nahi Alon e con una premessa del Dalai Lama, (2006), “Non-Violent Resistance: a new approach for violent and self-destructive children” (2004) e “Parental presence: reclaiming a leadership role in bringing up our children” (2000).

Per citare uno dei tanti esempi di strutture che stanno facendo propri i metodi della Resistenza non violenta si può guardare al lavoro del centro ospedaliero regionale universitario di Saint-Eloi a Montpellier in Francia. Del lavoro innovativo di questo centro (che si occupa di curare non i “bambini tiranni” ma le loro vittime, i genitori [cit.]) ha recentemente scritto anche il Corriere della Sera, costringendoci a prendere atto dell’attualità di questo “nuovo” approccio e di come si stia diffondendo sempre di più anche tra i nostri “vicini di casa”.

 

La Resistenza Non Violenta

La Resistenza Non Violenta è un concetto preso in prestito dal contesto socio-politico.
Nell’ambito della salute mentale, la Resistenza non violenta identifica l’approccio che lo psicologo Haim Omer ha sviluppato in Israele durante il suo lavoro con le famiglie e che riguarda la cura interpersonale a tutti i livelli (genitoriale, psicologica, medica e educativa): si rivolge quindi a chiunque svolga una funzione di caregiver.

L’approccio nasce come un sistema innovativo di terapia volto al superamento della crisi dell’autorità genitoriale e delle difficoltà che i genitori del XXI secolo incontrano quando devono confrontarsi coi comportamenti ribelli o addirittura aggressivi e violenti dei figli. Col tempo, però, si é esteso sempre di più e oggi può essere applicato a un ambito sempre più vasto e vario, fino a comprendere la salute mentale (tra cui ad esempio il trattamento di disturbi d’ansia, ADHD, dipendenza da internet, sindrome di Asperger, disturbi esternalizzanti, abuso di alcol) e alcune aree della società (come la scuola in tutti i suoi componenti, le famiglie adottive e affidatarie e le diverse realtà educative e sociali), agendo sia sulle crisi che, soprattutto, sulla prevenzione.

Il concetto di Resistenza non violenta implica uno stravolgimento del modo di rispondere e affrontare le situazioni problematiche: l’intento diventa resistere, affrontare e vincere la violenza senza esserne travolti o adottarla a propria volta ma utilizzando la determinazione della non violenza e della presenza per interrompere l’escalation e comunicare il proprio desiderio di esserci e aiutare. L’elemento centrale su cui si concentra l’intervento non sono quindi i figli o i ragazzi problematici ma i genitori e gli educatori: in altre parole per cambiare i “piccoli” bisogna cambiare i “grandi”, o meglio il loro modo di relazionarsi con coloro che devono aiutare a crescere.

I principi su cui si basa la Resistenza non violenta elaborata dal gruppo di Omer sono:
– Totale astensione da qualsiasi forma di violenza (fisica, emotiva, psicologica)
– Utilizzare strategie per prevenire o interrompere le escalation, comunicando così la propria presenza: la presenza é la componente più importante del caregiving e le azioni volte a innescare o accrescere l’escalation di fronte alla violenza, ai comportamenti autodistruttivi o all’ansia dei figli vanno nella direzione esattamente opposta
– Autocontrollo: l’unica cosa che possiamo sperare di controllare, forse e solo in parte, siamo noi stessi, perciò il modo che abbiamo per cambiare certe dinamiche é partire dal cambiamento di sé
– Rimandare la reazione: posticipare permette di non farsi guidare dagli impulsi e dal comportamento emotivo, in modo che tutti i partecipanti possano agire lucidamente (come Haim Omer dice saggiamente nel libro “La nuova autorità: famiglia, scuola e comunità” la cosa migliore da fare è “battere il ferro quando è freddo”!)
– Persistere: l’obiettivo non é vincere ma mostrare presenza, comunicare in modo chiaro il proprio proposito e il proprio desiderio di rimanere e continuare!
– Cercare supporto: così come il singolo individuo non può contrastare a lungo la violenza, allo stesso modo, da sola, una famiglia non può riuscire a gestire una situazione difficile. É necessario costruire una rete di supporto fatta dal maggior numero possibile di membri della famiglia, di amici e di conoscenti (“si passa dall’individualismo e dall’isolamento al supporto e all’unione della comunità”)
– Trasparenza: non si dovrebbe mai intraprendere un’azione alle spalle della persona coinvolta (incluso in figlio violento) ma comunicare apertamente cosa si farà e in che modo
– Fine del segreto: bisogna rompere il vincolo di omertà su cui si basa ogni forma di prevaricazione e violenza (incluso il bullismo!). Questi comportamenti si nutrono della vergogna e del concetto di privacy come di un diritto assoluto e inalienabile ma, e questo è uno dei punti fondamentali del modello di Omer, “le regole della privacy non valgono mai in caso di violenza, poiché essa fiorisce proprio nel segreto”.

Oggi la Resistenza non violenta è ben conosciuta e praticata in molti Paesi, soprattutto Europei.
Gli studi condotti (ad esempio Lavi-Levavi, Shachar, & Omer, 2013 e Weinblatt & Omer, 2008 in Israele; Oleffs, von Schlippe, Omer, & Kritz, 2009 in Germania; Newman, Fagan, & Webb, 2014 in Inghilterra; van Holen, Vanderfaeillie, & Omer, 2015 in Belgio) mostrano buoni risultati di efficacia in contesti sociali e culturali diversi, a fronte di un tasso di drop-out variabile tra il 5 e il 25%. In particolare si rileva la riduzione della violenza, di altri comportamenti esternalizzanti e delle escalation, la riduzione del senso di impotenza, l’aumento della capacità di esercitare la presenza e la cura vigile (anche in contesti in cui tali comportamenti sembravano ormai irrealizzabili a causa della continua presenza di conflitti e del loro autoperpetuarsi) e il miglioramento dello stato emotivo di tutti i partecipanti coinvolti.
Sulla Resistenza non violenta sono inoltre state organizzate dozzine di conferenze locali e quattro conferenze internazionali a cui hanno partecipato migliaia di persone.

 

La Nuova Autorità

Il concetto di Nuova Autorità nasce dalla constatazione che i genitori e gli insegnanti di oggi faticano ad affrontare il proprio ruolo e vivono uno stato di impotenza e, a volte, perfino di disperazione nei confronti dei figli e degli studenti, sempre più tiranni e senza regole, nei confronti dei quali non sanno come comportarsi. Questa nuova realtà pone una domanda, sia etica che pratica, su come si è arrivati a questo punto e su come sia possibile aiutare queste figure che hanno perso ogni forma di autorità/autorevolezza.
Haim Omer e il suo Team dello Schneider Children’s Medical Centre di Israele, capitanato da Idan Amiel, rispondono a questo bisogno creando il concetto di “Nuova Autorità” (NA). Essa, basandosi sui principi della Resistenza non violenta, permette a genitori e insegnanti (ma si rivolge in realtà a tutta la società) di superare in modo efficace i comportamenti distruttivi e autodistruttivi dei ragazzi e vincere il senso di impotenza.

Per elaborare il concetto di Nuova autorità bisogna innanzitutto riflettere su quanto successo in passato: questo nuovo modello inizia, infatti, a definirsi guardando i passati fallimenti dei modelli di autorità.

Negli anni ‘60-‘70 l’autorità rigida e controllante era stata riconosciuta come il problema (la causa di gran parte dei problemi emotivi e comportamentali dei bambini): si è quindi tentato di costruire un modello educativo basato sull’idea che i bambini dovessero crescere con amore, comprensione e incoraggiamento per sviluppare la propria autostima e che il seme del proprio sé avrebbe potuto crescere e svilupparsi in modo ottimale solo attraverso libertà e assenza di costrizioni (modello dell’educazione aperta). In questo modo si pensava che i nuovi adulti avrebbero mantenuto questi valori e creato una società affettiva, prosociale e libera. A questo proposito non è possibile non ricordare i contributi di Benjamin Spock (1946) e Fronçoise Dolto (1992), i cui consigli riguardo l’importanza del permissivismo e della necessità di trattare (giustamente) i bambini come persone hanno rappresentato un faro per molti genitori e educatori di quegli anni.

Gli studi successivi, però, hanno evidenziato il naufragio di queste speranze e risultati del tutto diversi: la sola crescita spontanea con assenza di limiti e di presenza genitoriale porta a una soglia più bassa di frustrazione (con conseguente stima di sé minore), più alto abbandono scolastico e di gruppo (poiché i ragazzi non hanno mai dovuto imparare ad adattarsi), maggiore aggressività e maggior rischio di dipendenza da sostanze. Per sviluppare l’autostima non è infatti sufficiente ricevere un rispecchiamento positivo dagli altri ma è anche necessario fare l’esperienza di superare delle difficoltà (che nell’educazione aperta vengono invece eliminate di default) per potersi dire “Ce l’ho fatta! Sono capace!”. La questione da risolvere diventa quindi come esporre il bambino alle esperienze di necessità in modo costruttivo e non distruttivo. Inoltre, la distruzione della vecchia autorità in favore di una nuova più amorevole e permissiva ha in sostanza privato le figure di autorità anche di qualunque autorevolezza. L’altro obbiettivo da raggiungere è, di conseguenza, riuscire a costruire un nuovo modello di autorità che recuperi l’autorevolezza senza includere l’autoritarismo.

La Nuova autorità si sviluppa dalla consapevolezza di questi fallimenti e dalla delusione che ne é conseguita e ne prende le distanze ergendosi sui pilastri che derivano dalle seguenti distinzioni:

– Vecchia autorità VS Nuova Autorità
La vecchia autorità si rivela essere un sorvegliante costante a cui ci si rivolge (o meglio che incombe su di noi) quando si è già commesso un errore e di cui bisogna avere paura perché ci punirà. La Nuova autorità rappresenta invece una presenza continua e rassicurante che al tempo stesso educa, aiuta a crescere e supervisiona in un clima di vicinanza, supporto e comprensione.

– Figura dell’autorità distante dalla nuova generazione VS Presenza decisa, vicinanza ai ragazzi e cura vigile
La vecchia autorità si basa sul mantenimento della distanza e verrebbe persa se questa diminuisse, quindi la figura dell’autorità deve stare sopra, osservare dall’alto ed essere irraggiungibile. La Nuova autorità si realizza invece con la presenza e la vicinanza, interessandosi con rispetto e senza invadenza di ciò che succede fino a quando non ci sono segni di problemi su cui intervenire (vedi in seguito).

– Controllo e cieca obbedienza VS Autonomia, cura vigile e àncora (vedi in seguito)
La vecchia autorità mira a crescere bambini obbedienti che possono essere controllati e forzati a comportarsi in un certo modo. La Nuova autorità aspira a rendere i bambini autonomi senza farli sentire abbandonati e ad insegnare loro a collaborare; per far questo il genitore non deve essere una figura “che controlla” ma una presenza che supervisiona attentamente quello che succede.

– Controllo VS Autocontrollo
La vecchia autorità mira ad avere il controllo sull’altro. La Nuova autorità si basa invece sulla consapevolezza che il controllo dell’altro sia qualcosa di irrealizzabile e che l’unico modo per cambiare le cose sia cambiare se stessi: il controllo diventa quindi un autocontrollo nel decidere come reagire e come non innescare l’escalation.

– Conflitto come gara da vincere per arrivare alla sconfitta dell’altro e affermare la propria superiorità VS Superare i conflitti fuori da una logica competitivo/agonistica
Nella vecchia autorità il conflitto è visto sempre e solo come un litigio, uno scontro tra due persone che può concludersi solo con la vittoria di uno e la sconfitta dell’altro; in tal senso vincere il conflitto significa dimostrare di avere potere. La Nuova autorità, invece, vede il conflitto come una situazione comune in cui due persone hanno obiettivi o strategie diverse: per risolvere un conflitto è quindi necessario mettersi d’accordo e trovare, quando possibile, un punto in comune. In tal senso non solo è inutile (se non addirittura dannoso) scontrarsi e arrivare a litigare, ma il conflitto può perfino diventare una risorsa, in quanto occasione per collaborare, scambiare opinioni, trovare nuove soluzioni insieme e comprendere meglio il punto di vista dell’altro. Lo scopo è risolvere il problema, non vincere una gara o affermare la propria superiorità.

– Gerarchia piramidale rigida, chiusura della famiglia al mondo esterno e forte senso del privato VS Apertura, trasparenza, comunicazione e coinvolgimento dell’altro all’interno del mondo intrafamiliare attraverso la ricerca di aiuto e sostegno esterno per eliminare l’isolamento.
La vecchia autorità si caratterizza per il limite rigido posto intorno a tutte le questioni che la riguardano (il messaggio trasmesso è “ciò che succede in casa mia riguarda solo me e nessuno deve immischiarsi”). La Nuova autorità si basa invece sui concetti di apertura, trasparenza e ricerca di sostegno anche al di fuori delle mura domestiche, abbattendo i concetti di vergogna e privacy nelle situazioni connesse alla violenza: il concetto di immunità allo sguardo altrui è pericoloso e può portare agli abusi di autorità.
Mentre la vecchia autorità trova la propria legittimazione nella persona stessa (“io sono il capo e tu un subalterno che deve obbedire”) la Nuova autorità deriva, invece, proprio dalla rete sociale che la sostiene e di cui si è un rappresentante (si abbandona l’“io” in favore del “noi”).
Lo stesso vale in ambito scolastico, dove la supervisione degli insegnanti non è limitata alle aule e alla sala professori ma si estende a tutti gli spazi della scuola, inclusi quelli “off limits” come cortili, bagni e tragitto casa-scuola.

– Reazioni immediate a qualunque provocazione e a qualunque comportamento problematico VS Rimandare le proprie reazioni
La vecchia autorità segue la regola della fisica dell’azione-reazione prevedendo di reagire immediatamente e, spesso, in modo aggressivo e poco ragionato, portando così all’escalation. La Nuova autorità propone invece di posticipare la reazione per evitare reazioni impulsive (sia del genitore che del ragazzo) e fermare l’escalation

– Autorità onnisciente, onnipotente e infallibile VS Autorità fallibile e che può imparare dagli errori
La vecchia autorità prevede una figura dell’autorità infallibile, che non può mai essere messa in discussione (nel cui caso bisognerebbe reagire immediatamente e rigidamente) e che non può mai ammettere di aver sbagliato: deve proseguire sempre per la strada già intrapresa, non scendere a compromessi con i “sottoposti” e non tollerare eventuali critiche o consigli. La Nuova autorità, al contrario, recupera lo “status di essere umano” della figura dell’autorità, che, proprio come ogni essere umano, può sbagliare, ammettere di aver sbagliato, rimediare, imparare dai propri errori e perfino arrivare a chiedere scusa al figlio, cercando insieme a lui una soluzione o un modo diverso per gestire la situazione

– Errore irrimediabile a cui deve seguire una punizione VS Errore rimediabile
Questo punto deriva da quello precedente. La vecchia autorità si focalizza sull’intolleranza dell’errore, a cui deve sempre seguire una punizione rigida e che non può mai essere completamente rimediato. La Nuova autorità, invece, sottolinea a gran voce la possibilità che il ragazzo possa, anche di propria iniziativa, rimediare ai propri errori e riguadagnare la fiducia e il rispetto degli altri. In una visione in cui l’adulto è il primo ad essere consapevole e ad accettare di poter sbagliare e poter rimediare ai propri errori, il ragazzo imparerà di conseguenza di avere a propria volta questa possibilità.

– Identificazione tra soggetto e comportamento VS totale distinzione tra soggetto (mai in discussione e sempre amato e rispettato) e comportamento (da osteggiare in tutti i modi leciti sempre e ad ogni costo)
La vecchia autorità quando agisce non distingue tra soggetto e comportamento: si attiva in modo rigido colpevolizzando la persona e giudicandola nella sua interezza. La Nuova autorità, invece, distingue le due parti e interviene in modo anche molto determinato sul comportamento problematico ma non giudica né mette mai in discussione la persona che lo commette: seguendo il vecchio detto per cui “si dice il peccato ma non il peccatore” si agisce sul comportamento comunicando in modo chiaro (sia a livello verbale che a livello non verbale) come sia quello l’elemento problematico e non la persona che lo sta mettendo in atto. Il ragazzo, in questo modo, ha sempre la consapevolezza di essere amato, accolto e non giudicato, imparando che può rimediare alle sue azioni e che il suo valore di persona non è mai messo in pericolo. Questo atteggiamento non giudicante elimina ogni rischio di cadere nell’errore di umiliare l’altro, evitando così di spingerlo a difendere il suo orgoglio ad ogni costo.

Questo cambiamento di prospettiva permette anche di vedere e concentrarsi su problemi che in passato sono stati in gran parte ignorati, sottovalutati o normalizzati come “cose che accadono, che sono parte del normale essere delle cose, di cui non c’è bisogno di preoccuparsi o contro cui non si può fare niente”.

Esempi importanti sono la violenza familiare tra fratelli, quella dei figli sui genitori e il bullismo (a cui viene dedicato ampio spazio nel libro “La nuova autorità”) che sempre più si stanno riconoscendo come fattori critici per una crescita e uno sviluppo emotivo e psicologico equilibrati.

Allo stesso tempo il modello si è rivelato efficace anche nel contesto psichiatrico e in quello manageriale. Per quanto riguarda la psichiatria segnalo in particolare il progetto SPACE, che unendo lo stile e i contenuti della CBT ai principi della Resistenza non violenta e della Nuova autorità si rivolge ai genitori di ragazzi con disturbi d’ansia: il programma si pone l’obbiettivo di modificare il comportamento dei genitori e il loro modo di relazionarsi all’ansia e ai comportamenti dei figli, anziché di cambiare direttamente i modelli comportamentali, cognitivi ed emotivi dei ragazzi. Buoni risultati sono stati ottenuti, tra gli altri, anche nel trattamento dell’ADHD, dell’abuso di sostanze e dei disturbi esternalizzanti.

Il modello di Haim Omer, che all’apparenza può sembrare limitato al solo ambito pedagogico, si rivela invece essere una forma mentis, un modo di relazionarsi in modo efficace, funzionale e utile: può così essere esteso a tutto ciò che riguarda le relazioni sociali.

 

La presenza e il concetto di àncora

La Nuova autorità si basa sui principi della Resistenza non violenta e trova i suoi caposaldi nei concetti di presenza e di àncora. Come Haim Omer ricorda sempre nei suoi libri e nelle sue conferenze, “nelle situazioni quotidiane di impulsività, violenza e conflitto i genitori non sono in grado di riflettere sui complessi fattori psicologici in gioco ma hanno bisogno di strategie semplici, rapide e pratiche per gestire quello che succede”. Su questo principio ha elaborato i suoi modelli e le strategie da mettere in atto.

La presenza genitoriale é forse il più potente e il più naturale messaggio che un genitore può offrire a un figlio, e agisce in modo bidirezionale sia sul figlio (“io sono qua e qua rimango, sono il tuo genitore, tu sei mio figlio e non puoi cancellarmi o divorziare da me perché ti voglio bene e non posso smettere di volertene”) che sul genitore stesso (che in questo modo sente di essere presente e di avere un ruolo e un impatto sul figlio).
Nel modello elaborato da Omer vengono individuate e insegnate varie strategie (ad esempio il sit-in o la ronda telefonica) per imparare a ritrovare, aumentare e comunicare la propria presenza resistendo alle escalation (che sono il segnale della diminuzione di presenza e, se non gestite, possono ridurla sempre di più) e separando le parti positive del ragazzo da quelle negative, riconoscendole entrambe e permettendo a quelle positive di essere viste, avvalorate e, così, di espandersi sempre di più.

Il concetto di àncora trova le sue basi nella teoria dell’attaccamento e scaturisce naturalmente da questo nuovo modo di intendere l’autorità.
L’obiettivo del genitore nel tempo é cambiato sempre di più: da far crescere un bambino ben educato a far crescere un bambino sereno offrendogli una struttura stabile e positiva con cui rapportarsi a lui e agli altri per poter crescere libero e responsabile.

Questo cambiamento fa sorgere la domanda “come posso creare un rapporto positivo col bambino in modo che possa crescere bene?”. La risposta a questa domanda trova le basi nella teoria dell’attaccamento con le funzioni genitoriali di:
– riparo sicuro, ovvero accettazione incondizionata da parte dei genitori, in cui il bambino può sempre trovare riparo sicuro e braccia che lo stringono per ricaricarsi quando ne sente il bisogno;
– base sicura, ovvero la percezione di sentirsi già al sicuro col genitore e la certezza che lui c’è e ci sarà sempre, perciò si può andare ad esplorare il mondo sapendo che si potrà sempre tornare indietro se si vorrà farlo (“vai ad esplorare che io resto qui se avrai bisogno di me”).
Queste due funzioni insieme rappresentano l’immagine del porto sicuro, a cui il ragazzo sa di poter sempre tornare perché il porto protegge e ripara ma è anche sempre aperto al mare per ricevere le navi.

Tuttavia questo non é sufficiente a rendere un porto sicuro!
Per diventarlo è necessario introdurre all’interno della teoria dell’attaccamento anche l’autorità, fino ad ora non considerata nell’equazione. L’autorità, rappresentata da un’àncora con catena regolabile, permette al genitore di garantire le altre funzioni necessarie al figlio:
– fare in modo che le piccole navi che stanno pian piano imparando a navigare possano esplorare con una certa libertà ma con un aiuto che eviti eventuali scontri l’una contro l’altra
– fornire il sostegno necessario durante le piccole tempeste
– dare un limite oltre il quale esplorare diventa troppo pericoloso
– lasciare un’adeguata libertà di esplorazione aumentando, quando ragionevolmente possibile, la lunghezza della catena
– mantenere sempre la presenza, ma in un modo che il bambino non percepisce come intrusivo (la piccola nave non percepisce la tensione della catena dell’àncora, ma l’àncora rimane lì per tutto il tempo)
– rimanere saldi, senza farsi trascinare dai comportamenti del figlio, in modo da comunicare la propria presenza determinata e non dare il via a un’escalation (non solo per quanto riguarda la rabbia ma, ad esempio, per l’ansia: se un genitore va in ansia quando vede il proprio figlio in ansia, quest’ultimo vedendo la reazione del genitore potrebbe spaventarsi e quindi aggiungere altra ansia a quella che già sta provando) e, come un mitologico filo di Arianna, lasciare una guida che possa permettere di “ritrovare la strada di casa”.

In questo modo la teoria dell’attaccamento viene allargata e viene superato il limite della sola relazione diadica madre-bambino come unica relazione o relazione più importante, prospettando invece un rapporto come minimo triadico e, meglio ancora, n-adico in cui tutta la rete di sostegno possa rappresentare tanti piccoli ganci a cui il bambino può aggrapparsi quando ne sente il bisogno e che al tempo stesso possono frenarne gli sviluppi problematici e porre dei limiti. Una certa dose di limiti è infatti necessaria per uno sviluppo ottimale. Questa nuova visione sottolinea come la teoria dell’attaccamento sia diventata una “teoria sentimentale” poiché ha sottolineato le qualità di amorevolezza, dolcezza e sensibilità ma ha fatto sparire la forza e la saggezza, ovvero l’autorità. Chi protegge, invece, deve essere sì amorevole, sensibile e accudente ma anche forte e saggio, ritrovando la propria autorità.

L’obiettivo proposto a genitori e educatori é quello di imparare ad essere un’àncora sempre più funzionale, in modo che il ragazzo sia consapevole della presenza, della sicurezza e della disponibilità dell’àncora mentre al tempo stesso può sentirsi libero, senza sentire la tensione della catena fino a quando non si spinge troppo oltre. Per riuscire in questo intento lo strumento consigliato é la cura vigile, l’abilità di rimanere in allerta (con un orecchio sempre in ascolto e pronto a captare gli eventuali pericoli) ma in modo graduale, attraverso un equilibrio dinamico che oscilla tra diversi livelli di vigilanza in base ai segnali di pericolo effettivamente rilevati: dall’attenzione a tutto ciò che succede intorno al figlio a quella focalizzata a uno specifico elemento alla protezione vera e propria.
Oltre il caso singolo e la singola famiglia: verso l’infinito e oltre!

Prendo spunto dal motto di Buzz Lightyear, personaggio immaginario dei film di animazione “Toy Story” (realizzati da Pixar Animation Studios e distribuiti da Walt Disney Pictures), per parlare di come idealmente, ma c’é da augurarsi che lo diventi sempre di più anche concretamente, il modello di Haim Omer non miri a risolvere solo lo specifico problema di quella persona, di quella famiglia o di quella comunità, ma abbia come obiettivo un sogno ben più grande, molto ambizioso, quasi visionario e folle: il coinvolgimento dell’intera società in un cambiamento generale che permetta la convivenza pacifica.

In quest’obiettivo, quasi ideale, posto come traguardo da raggiungere coi concetti di Resistenza non violenta e Nuova autorità, mi sembra quasi di ritrovare le parole che il grande Giacomo Leopardi ha scritto in quella che viene considerata la sua opera postuma, “La ginestra o il fiore del deserto”. Così come il deserto rappresenta la solitudine arida e impotente di fronte alla sofferenza e a un destino di fine e morte certa, così il singolo, la famiglia e la comunità, se lasciati da soli, possono ben poco di fronte allo sbando a cui oggigiorno si sta assistendo sempre di più. Eppure, così come la ginestra può ingentilire l’arido deserto resistendogli e inondandolo con il suo profumo, allo stesso modo la società civile può resistere alle spinte deviazioniste, prevaricatrici e destabilizzanti al suo interno preservando i valori democratici e sociali: una sfida che sembra quasi titanica ma che, a conti fatti, sembra invece raggiungibile e “quasi a portata di mano” se si riesce a rinunciare e superare i vecchi concetti di “resistenza” e “autorità”.

[l’umanità] Costei [la natura] chiama inimica; e incontro a questa
congiunta esser pensando,
siccom’è il vero, ed ordinata in pria
l’umana compagnia,
tutti fra sé confederati estima
gli uomini, e tutti abbraccia
con vero amor, porgendo
valida e pronta ed aspettando aita
negli alterni perigli e nelle angosce
della guerra comune. Ed alle offese
dell’uomo armar la destra, e laccio porre
al vicino ed inciampo,
stolto crede cosí, qual fora in campo
cinto d’oste contraria, in sul piú vivo
incalzar degli assalti,
gl’inimici obbliando, acerbe gare
imprender con gli amici,
e sparger fuga e fulminar col brando
infra i propri guerrieri.

(vv. 126-144)

Così come tutti gli uomini sono uniti, schierati, alleati contro la natura matrigna, allo stesso modo non si possono ottenere risultati davvero significativi contro la violenza e le dinamiche innescate dai valori della “vecchia autorità” senza cooperare: serve una collaborazione che comprenda la società in tutti i suoi livelli, in tutte le sue parti, un’armonia unisona che, come la “social catena” Leopardiana, possa permettere di agire in modo sincrono per ottenere, grazie a questa solidarietà, l’obiettivo comune desiderato.

Sebbene quindi i piccoli (in realtà già grandi e, a volte, difficili da realizzare) interventi nelle piccole realtà siano da apprezzare, incentivare e rafforzare (sono le indispensabili micce da cui il processo può cominciare), é solo con l’attivazione generale e la mobilitazione dell’intera società che il traguardo potrà essere raggiunto. Questo é il grande sogno che Haim Omer sembra, a mio parere a ragion veduta, voler trasmettere.

Una “piccola vittoria” in questa direzione è già stata ottenuta con il programma “City Without Violence” attivato in Israele per combattere i comportamenti antisociali, la violenza (soprattutto giovanile), la delinquenza e i crimini.
Risultati come questo dovrebbero incoraggiarci a credere nella possibilità di realizzare questo obiettivo e a risvegliare dentro di noi la volontà, la determinazione e l’impegno per farlo davvero.
Il logo della resistenza non violenta: quando un’immagine dice più di mille parole

Un cerchio fatto di persone che rappresenta l’importanza della comunità e di ogni individuo che la compone

La figura della nuova autorità è parte integrante della comunità ma offre anche un punto di appoggio per chi dovesse averne bisogno

Il cerchio di persone forma anche un occhio attento che rappresenta l’importanza del coinvolgimento degli altri e della cura vigile

Il cerchio blu rappresenta la nostra speranza che questo concetto si diffonda in tutto il mondo.

 

Conclusioni

Mi si permetta a questo punto un commento personale conclusivo.

Il modello di Haim Omer, basato sui principi della Nuova autorità e della Resistenza non violenta, si propone come un approccio rivolto non solo alle famiglie problematiche in cui si manifestano problemi di violenza o problemi legati alla genitorialità ma anche a tutte le famiglie in generale e a tutte quelle persone che si trovano, per lavoro o per diletto (ad esempio psicologi, insegnanti, educatori, babysitter, catechisti, vicini di casa…), a contatto con bambini e ragazzi e che devono confrontarsi con loro, con le loro necessità, coi loro problemi e con le difficoltà che da tutto ciò conseguono.

È sicuramente vero, e questa rappresenta una delle obiezioni più frequenti quando viene presentato questo modello, che metterlo in pratica comporta un certo impegno e può essere percepito come un “qualcosa in più che deve essere imparato e fatto quando già ci si sente stanchi, sfiniti e scoraggiati”.

Effettivamente a prima vista potrebbe sembrare così. Come per ogni atteggiamento e comportamento, però, nulla obbliga a prendere in considerazione e attuare la Resistenza non violenta e la Nuova autorità come se fossero la risposta necessaria e la verità assoluta. Forse, però, sarebbe più saggio chiedersi cosa ci si perda e quale sarebbe l’utilità a non farlo. Con una modalità presa in prestito dal problem solving, ci si può chiedere quale alternativa, tra il continuare mestamente come si sta facendo e il provare con un briciolo di curiosità a cambiare qualcosa, abbia il maggior numero (in termini sia quantitativi che qualitativi e sia oggettivi che soggettivi) di benefici rispetto ai costi. Provando a riflettere un po’ più a fondo sulla questione sembrerebbe sempre di più che l’alternativa di non provare a utilizzare la Resistenza non violenta e la Nuova autorità risulti meno conveniente di quella di, quanto meno, provare a utilizzarla. Si è sempre in tempo a tornare indietro nel caso lo si ritenga necessario.

Per concludere, verrò probabilmente guardato con sospetto tra pochi attimi, quando azzarderò esageratamente (ma forse non così esageratamente) che vista la “semplicità” del metodo, la sua applicabilità, i livelli di provata efficacia e il possibile bacino di utenza a cui può rivolgersi, l’approccio di Haim Omer potrebbe essere considerato come potenzialmente utile e importante, in ambito psicologico, pedagogico e sociale, quanto si é rivelato essere, nell’ambito della salute mentale, il modello Marsha Linehan per il disturbo borderline di personalità. Saremmo quindi sciocchi e poco lungimiranti a lasciarci scappare una tale “pietra filosofale” (o peggio a lasciarla sfruttare, magari impropriamente, ad altri specialisti!).

Tristezze di Natale

Tutti noi ci siamo un po’ abituati alla ricorrenza festiva, e quelli che stanno lì a farci sapere che a loro il Natale mette tristezza e che odiano sentirsi obbligati a festeggiare si diradano: Il cinismo facile di chi non ci tiene a festeggiare è diventato altrettanto risaputo quanto il consumismo di chi si precipita a festeggiare.

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 24 dicembre 2016

 

A Natale c’è più depressione, ma forse siamo oltre il Christmas Blues, la depressione natalizia. Indifferenti a tutto, abituati alle disregole di un mondo caotico, ormai anche il rifiuto triste e stizzoso dell’obbligo della gioia  programmata delle feste è diventato un anti-conformismo risaputo come le feste stesse. Intendiamoci: è sempre vero che a Natale, e durante le feste in generale, ci sia una depressione dell’umore. Però il fenomeno colpisce soprattutto chi è davvero clinicamente depresso.

Quindi tranquillizziamoci: è soprattutto un problema dei pazienti della mente. Il tempo libero lascia la testa libera di concentrarsi purtroppo sui propri guai. La scienza ci dice che ogni giorno circa tremila pensieri negativi circolano nel nostro cervello, e la lontananza dal lavoro rende più difficile non farci caso a questo nugolo di malinconie che ci tormenta l’anima. C’entra anche il clima invernale, lo scomparire del sole dietro il cielo di marmo della stagione fredda. Eppure, ripetiamolo, si tratta soprattutto di un problema psichiatrico, non di psicologia di massa.

Tutti noi, invece, ci siamo un po’ abituati alla ricorrenza festiva, e quelli che stanno lì a farci sapere che a loro il Natale mette tristezza e che odiano sentirsi obbligati a festeggiare diradano anch’essi. Il cinismo facile di chi non ci tiene a festeggiare è diventato altrettanto risaputo quanto il consumismo di chi si precipita a festeggiare. Ci siamo lasciati alle spalle le polemiche contro il tradizionalismo delle feste e il consumismo della loro mutazione capitalista. Viviamo il Natale così come viene, senza pensarci troppo, forse stanchi ed esausti. Abbiamo perfino iniziato a dire di nuovo “Buon Natale” invece dell’anodino “Buone Feste” e non per un rigurgito cristiano, ma forse perché davvero il cristianesimo ce lo siamo messi alle spalle, e solo i  terroristi ancora non l’hanno capito, e forse è questo secolarismo ormai così naturale che li fa impazzire, anche se ci chiamano “crociati”.

 

Christmas Blues e Disturbo Affettivo Stagionale

Invece chi soffre davvero di depressione si intristisce davvero di più a Natale. Gli americani lo chiamano Christmas Blues e anche noi ci chiediamo come mai la festa natalizia faccia così male all’umore. Gli psichiatri parlano di un vero e proprio disturbo affettivo stagionale. La sintomatologia depressiva ha inizio durante l’autunno, raggiunge il massimo dell’intensità durante il gelido inverno e si risolve, più o meno o anche del tutto, all’inizio della primavera. È una depressione un po’ strana. I depressi natalizi sono un po’ diversi da quelli che lo sono tutto l’anno. Questi ultimi dormono poco e mangiano ancor meno. I depressi del Natale invece dormono tanto e mangiano ancor di più. Insomma ingrassano.  Sono anche irritabili e possono piangere frequentemente. Dormono tanto eppure sono sempre stanchi e assonnati, hanno difficoltà di concentrazione, mancano di energia.

Gli scienziati non si sono mai bene raccapezzati con questa forma particolare di depressione. Alcuni dicono che dipende dalla chimica. Accanto alla serotonina tipicamente sballata del depresso, al depresso natalizio sballa pure la melotonina, sostanza associata al sole, come sappiamo. Il doppio sballo, ridotta serotonina e aumentata melatonina, influenzerebbe i ritmi biologici del sonno e della fame, rendendo tutto più caotico. C’è anche una cura specifica per le tristezze natalizie: è la Light Therapy, o fototerapia, e non poteva essere altrimenti. Contro il buio dell’inverno, ci vuole la terapia della luce. Essa prevede l’esposizione quotidiana, durante i mesi della depressione invernale, ad una fonte luminosa artificiale d’intensità pari a 10.000 lux, prodotta con apposite lampade dotate di filtri per i raggi ultravioletti. Si tratta di un’intensità di luce circa 20 volte superiore all’intensità media della luce in una stanza. Basta una settimana. Una settimana di luce artificiale in cui si riceve un quantitativo uguale e quello di un’intera estate. E forse anche questo è un po’ triste, ma va bene così.

A Natale si può diventare troppo consapevoli della propria solitudine, o al contrario della schiavitù dei legami familiari. Alcuni si deprimono perché il Natale è uno stimolo a rimuginare sull’inadeguatezza della propria vita, soprattutto in chi tende al vittimismo e all’autocommiserazione. Altri ancora diventano ansiosi e preoccupati a Natale a causa della pressione, sia commerciale che auto-indotta, verso gli acquisti con il rischio di spendere troppo per i regali e incorrere in debiti crescenti. E poi ci sono quelli che dicono di temere il Natale a causa dell’obbligo implicito di dover incontrare familiari, amici e conoscenti. Preferirebbero evitare e non frequentarli. Questi anti-conformisti dell’obbligo natalizio  paiono in diminuzione, però.

Infine, e questi sono tanti invece e aumentano sempre di più, molte persone si sentono sole a Natale perché hanno subito la perdita di persone care o dei loro posti di lavoro. E hanno ragione. Forse è soprattutto a questi ultimi che dovremmo essere più vicini. Buon Natale a tutti.

Terapia di gruppo online per combattere la bulimia

I ricercatori della University of North Carolina hanno lanciato un nuovo tipo di sperimentazione clinica per confrontare l’efficacia della terapia di gruppo online con la classica terapia di gruppo per il trattamento della bulimia nervosa.

Mariagrazia Zaccaria

 

Circa otto anni fa i ricercatori della University of North Carolina a Chapel Hill hanno lanciato un nuovo tipo di sperimentazione clinica per confrontare l’efficacia della terapia di gruppo online (distribuita attraverso sessioni di chat di gruppo), con la classica terapia di gruppo “vis à vis” per il trattamento della bulimia nervosadisturbo alimentare caratterizzato da episodi ricorrenti di abbuffate, associato ad atti compensatori come il vomito autoindotto, abuso di lassativi o eccessivo esercizio fisico.

I risultati dello studio mostrano che questa terapia di gruppo online può essere efficace esattamente quanto la terapia di gruppo “vis à vis”, anche se la ripresa potrebbe essere più lenta, ma non per questo meno significativa.

La Dottoressa Stephanie Zerwas, professore associato presso di psichiatria presso la facoltà di medicina (UNC), ha affermato che la bulimia nervosa è una malattia devastante e, a volte, anche mortale, e le numerose ricerche hanno dimostrato che da anni la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) è il trattamento più efficace. Ed inoltre, afferma anche, che molte persone affette da questo disturbo vagano per anni alla ricerca del trattamento giusto, e quindi la terapia online potrebbe aiutare a colmare questa lacuna.

 

Gli effetti della terapia di gruppo online in casi di bulimia: i risultati dello studio

Nello studio, 179 adulti hanno iniziato ben 16 terapie di gruppo con un terapista in uno dei due siti dello studio: UNC-Chapel Hill e Psychiatric Institute e Clinica della University of Pittsburg Medical Center. L’assegnazione del terapeuta per la terapia di gruppo vis à vis era del tutto casuale.

I ricercatori hanno confrontato i risultati dei due gruppi alla fine del trattamento, e poi dopo ulteriori 12 mesi dalla fine del trattamento. Subito dopo il trattamento, il gruppo che frequentava la terapia vis à vis aveva prodotto dei risultati migliori rispetto alla terapia di gruppo online. Ma 12 mesi dopo, il divario che prima c’era tra i due gruppi si era ridotto drasticamente.

La Prof.ssa Cynthia M. Bulik della UNC, ha affermato che alcuni trattamenti evidence-based sono efficaci, ma molte persone non possono accedere a queste cure specialistiche. Questo studio sulla terapia di gruppo online incoraggia ad utilizzare la tecnologia per portare il trattamento nelle case dei pazienti che non possono recarsi in struttura.

 

Criticismo genitoriale: che cos’è e quali effetti produce

Criticismo genitoriale: Dal punto di vista emotivo, le emozioni riscontrate in chi viene rimproverato dipendono dalla personalità e dalle interpretazioni che vengono date alle critiche. Una prima differenza può essere vista nell’accettazione o meno delle critiche subite. Nel primo caso i sentimenti più frequenti sono senso di colpa con la tendenza ad attribuirsi cattive intenzioni e la tristezza per la convinzione di una propria incapacità. Diverso è il caso in cui il rimprovero venga vissuto come ingiusto per cui l’emozione più frequente è la rabbia con più probabili comportamenti di ribellione.

Elisabetta Strina, OPEN SCHOOL PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA DI MILANO

Criticismo genitoriale: in cosa consiste

Il criticismo genitoriale è caratterizzato da un ricorso ripetitivo e pervasivo al rimprovero.
Si manifesta con frequenti commenti critici sostenuti anche da tono severo o perentorio; si esprime per mezzo di espressioni di disapprovazione, di sentimento, rifiuto e svalutazione del rimproverato (ad esempio, “possibile che sbagli sempre?”, “Vergognati per quel che hai fatto!”). L’amore manifestato dai genitori è condizionato alla performance del bambino e le approvazioni sono inconsistenti; il bambino non si sente mai soddisfatto perché il suo comportamento non è mai abbastanza corretto per guadagnare l’approvazione dei genitori e attua uno sforzo continuo per ottenerla.

Il bambino sviluppa così credenze di base su se stesso che possono riguardare la convinzione di incapacità personale, bassa autostima, propensione ad attribuzioni di colpa e disorientamento personale con attitudine a costruirsi un’identità e stima di sé sulla base dell’opinione altrui (Apparigliato, Ruggiero e Sassaroli, 2004). Il soggetto si adegua ad un criterio di valutazione esterno, normativo, favorendo così la formazione della tendenza sistematica all’autocritica tipica delle persone timide e degli ansiosi sociali.

Nei colloqui con i pazienti spesso emerge nella descrizione dei propri genitori una modalità relazionale disfunzionale basata su critiche ripetute nei confronti dei propri figli.

Nel rimproveratore si possono distinguere diversi scopi: spesso cerca di cambiare il comportamento che ritiene sbagliato; può avere il fine di ottenere un risarcimento per un danno subito; può voler rivelare una sofferenza patita a causa del rimproverato; può avere lo scopo di dare sfogo ad una rabbia incontrollabile.

Questo tipo di comunicazione “ inferiorizzante” è un potente strumento di controllo del comportamento dell’altro facendolo sentire dipendente e quindi bisognoso di approvazione. Questo atteggiamento aumenta dunque l’autostima del rimproveratore che recupera potere nella relazione.
Alla base si può riconoscere un deficit metacognitivo nella comprensione della mente altrui, che non è riconosciuta dotata di scopi personali validi, oppure una difficoltà di decentramento, riconoscendo come legittimo solo il proprio punto di vista.

Sembra esserci una trasmissione intergenerazionale del criticismo: nella pratica clinica si è potuto osservare che coloro che sono stati fortemente rimproverati fin da piccoli dai genitori, o da chi si è preso cura di loro, tendono a loro volta a diventare “grandi rimproveratori” (Sassaroli e Ruggiero, 2002); il criticismo messo in atto da chi è stato ripetutamente rimproverato potrebbe essere una forma di apprendimento, in quanto queste persone non hanno avuto la possibilità di apprendere delle modalità relazionali più funzionali con i propri familiari.

Gli effetti che produce il criticismo genitoriale

Dal punto di vista emotivo, le emozioni riscontrate in chi viene rimproverato dipendono dalla personalità e dalle interpretazioni che vengono date alle critiche. Una prima differenza può essere vista nell’accettazione o meno delle critiche subite. Nel primo caso i sentimenti più frequenti sono senso di colpa con la tendenza ad attribuirsi cattive intenzioni e la tristezza per la convinzione di una propria incapacità. Diverso è il caso in cui il rimprovero venga vissuto come ingiusto per cui l’emozione più frequente è la rabbia con più probabili comportamenti di ribellione.

Livelli elevati di criticismo genitoriale (disapprovazione o irritabilità diretti verso il bambino con conseguenti negative reazioni allo stress ) sono collegati a maggiori sintomi somatici negli adolescenti e ai conseguenti problemi psicologici ( ansia e depressione ) che sono fortemente correlati con questi sintomi ( Campo 2012). Cioè gli adolescenti che subiscono un parenting controllante hanno più probabilità di sviluppare un orientamento al perfezionismo maladattivo (caratterizzato da autovalutazioni negative), che a sua volta li rende più vulnerabili ai sintomi depressivi.

Uno stile genitoriale caratterizzato da una bassa cura, alti standard e critiche frequenti è stato associato ad ansia, sintomi depressivi e schemi di sé negativi (Gibb , 2002).
Esiste una relazione tra il livello di critica percepita durante l’infanzia e lo sviluppo di autocriticismo in età adulta . L’autocriticismo è collegato ad una serie di disturbi psicologici primo fra i quali la depressione, comportamenti maladattivi, come la tendenza a reagire negativamente a errori, interpretandoli come equivalenti al fallimento, e la credenza disfunzionale che in seguito al fallimento si perderà il rispetto degli altri.

Una critica pervasiva dei genitori può portare a una vulnerabilità cognitiva per critiche fatte da altri. Inoltre i bambini possono imparare direttamente a relazionarsi con se stessi nella stesso modo critico che i genitori hanno utilizzato per riferirsi a loro ( Brewin et al .1996) . L’autocritica può quindi risultare come strategia impiegata per correggere continuamente se stessi e quindi evitare la possibilità di ricevere critiche da altri e dover far fronte al relativo dolore emotivo. L’autocritica sembra essere una delle più considerevoli componenti patologiche del perfezionismo.

Avere avuto genitori criticisti determina una maggiore intolleranza all’errore che porta ad essere perfezionisti; criticismo genitoriale e perfezionismo sono due concetti fortemente collegati. Criticismo genitoriale e aspettative sono state indicate da Frost (1990) come dimensioni del perfezionismo inteso come concetto multidimensionale. In particolare vengono viste come collegate alla tendenza di concepire l’affetto dei genitori subordinato alla propria capacità di soddisfare le loro aspettative ed evitarne le critiche. Altri autori (Shafran et altri 2002) parlano di perfezionismo clinico come dipendenza eccessiva dalla valutazione di sé. Dunkley et altri (2006) riconoscono la dimensione delle preoccupazioni valutative consistente in valutazioni critiche del proprio comportamento, preoccupazioni e rimuginii rispetto al criticismo degli altri che impediscono di trarre soddisfazione dal proprio successo. Questi fattori contribuiscono a differenziare il perfezionismo sano da quello clinico, il quale evidenzia un eccessivo timore degli errori che porta a insoddisfazione cronica e senso di inefficacia.

La dipendenza dai criteri normativi con la continua preoccupazione che il proprio comportamento sia giusto o sbagliato è riscontrabile nel disturbo ossessivo-compulsivo. In queste persone il senso di responsabilità e timore della colpa è talmente forte da non poter essere immaginato, affrontabile.

Altre persone sviluppano una dipendenza dal contesto relazionale come nei soggetti con disturbo alimentare. Perfezionismo e bassa autostima sono considerate fra le maggiori credenze cognitive disfunzionali dei disturbi alimentari. I soggetti rimuginano sul non essere abbastanza competenti e adatti alle richieste della vita. La valutazione del sé tende ad essere basata sulla forma corporea e sul peso, temendo conseguenze negative nei rapporti interpersonali, come il biasimo o il disprezzo di genitori e coetanei (Sassaroli e al.2007).

Da queste evidenze possiamo comprendere come le critiche continue non consentono di sperimentare, mettersi in gioco, esplorare il mondo alla ricerca di soluzioni personali che incrementino l’autostima e il senso di autoefficacia. Qualsiasi cosa che generalmente viene detta criticamente può essere detta in modo supportivo, ottenendo lo stesso, se non un maggiore effetto. La creazione di un sistema educazionale positivo favorisce negli individui la formazione di un positivo concetto di sé come persona.

Tutto su mia madre (e su mio padre): lo sviluppo dentro di noi – Report dal seminario del professor Massimo Ammaniti

Il seminario di Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore all’Università La Sapienza di Roma, organizzato dall’Associazione Centro studi di Psicoterapia Psicoanalitica, è iniziato con una provocazione: siamo poi così sicuri che le famiglie felici siano davvero tutte uguali? E, soprattutto, che esistano? 

 

Scriveva Tolstoj, in un suo famosissimo incipit: “Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni famiglia infelice è infelice a modo suo”.

La domanda è: siamo poi così sicuri che le famiglie felici siano davvero tutte uguali? E, soprattutto, che esistano?

È iniziato con questa provocazione il seminario di Massimo Ammaniti, psicoanalista e professore all’Università La Sapienza di Roma, organizzato dall’Associazione Centro studi di Psicoterapia Psicoanalitica, nella splendida cornice di Casa Ghirardini a Mantova.

 

Il Prof. Massimo Ammaniti sui cambiamenti della famiglia negli ultimi anni

Nel seminario tenuto da Massimo Ammaniti si è parlato di famiglia, di come questo nucleo sociale abbia risentito dei profondissimi mutamenti collettivi degli ultimi anni, e di come le teorie finora acquisite sui cicli vitali e sulla genitorialità rischino di rivelarsi precipitosamente invecchiate, senza che ce ne siano a disposizione di nuove e più adeguate alla comprensione dei fenomeni attuali, sempre più complessi.

Partiamo dal presupposto che il concetto di famiglia tradizionale (madre e padre entro gli enta, entrambi sotto lo stesso tetto, un paio almeno di bei bambini) è obsoleto come il telefono con la rotella: oggi le famiglie sono spesso monoparentali, ricomposte e ricostituite, omogenitoriali, segnate a volte da lunghi e dolorosi itinerari di fecondazione assistita o di adozione.

In generale l’età media dei genitori si è drasticamente alzata rispetto al passato (una donna ha il primo figlio intorno  ai 32 anni) e questo è un aspetto che cambia radicalmente l’approccio alla genitorialità; si è genitori più ansiosi e insicuri, a volte troppo consapevoli e quindi rigidi, preoccupati, meno spontanei, affaticati fisicamente e psicologicamente. Ma soprattutto, se in passato si poteva distribuire il proprio investimento genitoriale su più figli, oggi il primo figlio rappresenta spesso l’unica occasione di averne (la media in Italia è di 1,37 nati per donna) e diventa così anche l’unico catalizzatore dell’intero investimento narcisistico genitoriale, con tutte le criticità del caso.

 

Le aspettative narcisistiche dei genitori

Kohut sceglie in realtà di non demonizzare questa dimensione (secondo la sua teoria il bambino ha bisogno di sentirsi rispecchiato nell’idealizzazione del propri genitori, per poter creare un sé coeso e coerente) ma non bisogna sottovalutare che, accanto ai naturali aspetti di accudimento e protezione, emerge prepotentemente il rischio che il figlio diventi un prolungamento dei genitori e delle loro ambizioni mancate.

Si tratta dei casi in cui l’iperinvestimento di aspettative narcisistiche fa sì ad esempio che l’erede maschio sia chiamato a diventare quantomeno esploratore o giocatore di serie A, e che la figlia femmina debba diventare prima ballerina della Scala o moglie del rampollo di qualche casa reale.

Il rischio che la genitorialità moderna risenta dell’impatto patologico del narcisismo è concreto, soprattutto nei casi in cui i genitori rientrano in quella nuova categoria sociale nota come degli adultescenti, costituita non solo dai giovani adulti fermi (spesso per difficoltà economiche) nella casa dei genitori, bensì anche da tutte quelle persone che, pur avendo pieno status di adulti, non ne accettano le componenti legate all’invecchiamento e al dover lasciare spazio alle nuove generazioni.

 

Adolescenti e genitori oggi

Erikson diceva che “fino a che il genitore non accetta la propria morte il figlio non potrà entrare nella vita”; se però una donna ha un figlio a trent’anni compiuti si rischia che ci si ritrovi ad affrontare contemporaneamente due importanti crisi esistenziali: quella di mezza età degli adulti (con le difficoltà di coppia, i bilanci, i problemi di salute) e quella adolescenziale dei figli. Massimo Ammaniti ha sottolineato come oggi si vedano sempre più spesso genitori molto in difficoltà con la gestione della propria crisi e che si rivelino quindi di scarso supporto rispetto alla crisi adolescenziale dei figli. Nei casi più gravi i genitori possono arrivare a mettersi addirittura in competizione con i propri figli adolescenti, oppure a tentare di “reincarnarsi” nelle loro fasi di vita, ad esempio intromettendosi attivamente nelle loro vicende sentimentali.

Winnicott definiva l’adolescenzauna malattia normale”, ma perché sia così ancora oggi occorre che i genitori siano abbastanza equilibrati e solidi da affrontarla in modo adeguato, senza arretrare e senza reincarnarsi.

Diversamente l’adolescenza rischia di non essere più una fase evolutiva di distacco e di opposizione orientata all’autonomia, bensì una fase permanente, al cui mantenimento contribuiscono in ugual misura (seppur con motivazioni molto diverse) sia genitori che figli.

In tutto questo i confini generazionali sbiadiscono e gli apparati normativi consueti perdono credibilità, le relazioni tra genitori e figli si organizzano in forma orizzontale e non più verticale, e anche la famiglia finisce per diventare liquida, come la società teorizzata da Bauman.

Nel complesso, esaminato alla perfezione nel seminario di Massimo Ammaniti, la genitorialità è quindi sempre di più una sfida, e il mestiere più difficile del mondo lo è oggi più che in passato; rispetto a questa sfida è chiamata a dare il proprio contributo anche la scuola, anch’essa in difficoltà nello stare al passo coi mutamenti sociali, organizzata com’è su metodi educativi non più sintonizzati con le nuove generazioni e  guidata da un rapporto con le famiglie che oscilla spesso tra rivalità e collusione.

Insomma, uno scenario complesso e non certo incoraggiante, rispetto al quale Massimo Ammaniti non propone né facili soluzioni né risposte consolatorie.

Ma un monito deciso per i genitori, questo sì: quello di cercare di essere sempre giardinieri dei propri figli, e mai falegnami.

Alla ricerca della buddità: il rapporto tra Psicologia Positiva e Buddismo

La pratica del buddismo come pratica di consapevolezza e ricerca dell’identità si ritrova anche nella Psicologia Positiva e la continua necessità di innovazione e cambiamento ha portato allo sviluppo di nuove correnti.

Sofia Nasuf – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

I legami tra il buddismo e psicologia hanno radici molto profonde e antiche, Mark Epstein in una sua opera riporta un episodio in cui lo psicologo William James durante una lezione a Harvard, agli inizi del Novecento scorgendo un monaco buddista tra l’uditorio si interruppe chiedendogli di prendere il suo posto affermando “Lei è più preparato di me a insegnare psicologia. La vostra è la psicologia che tutti studieranno di qui a un quarto di secolo” (Mark Epstein, Pensieri senza un pensatore, 1996).

James ha il merito di aver intuito quella che è la dimensione psicologica dell’esperienza buddista.

Mark Epstein, in un’ottica psicoanalitica, da psicoterapeuta buddista racconta come il buddismo da agli psicoterapeuti contemporanei un essenziale insegnamento, già in passato ha infatti messo a punto tecniche volte allo sradicamento del narcisismo umano, secondo il buddismo lo scopo della vita è essere felici, al di là degli attaccamenti e quindi della visione narcisistica della vita.

 

L’incontro tra buddismo e psicologia

Dalla fine degli anni Sessana e l’inizio degli anni Settanta il pensiero orientale, alimentato dall’adesione allo Zen degli intellettuali beat degli anni Cinquanta dalla controcultura e dal misticismo degli anni Sessanta, si fa strada nella coscienza psicologica occidentale (M. Epstein 1996).

La ruota del samsara, la rappresentazione buddista della ruota della vita, è un’immagine molto conosciuta della tradizione orientale. Si tratta di un mandala che rappresenta i sei regni a cui sono soggetti gli esseri senzienti: il regno umano, il regno animale, il regno infernale, il regno dei preta (spiriti affamati), il regno degli asura (titani o dèi gelosi). Sei sono quelli principali, a loro volta suddivisi in centinaia di regni. Il sentiero che porta alla buddità inizia nel regno umano e porta fuori dalla ruota, solo gli esseri umani possono raggiungere tale illuminazione, tale consapevolezza. Molti movimenti psicoterapeutici hanno studiato e approfondito le sofferenze dei regni, Freud il regno animale e le sue pulsioni; Melanie Klein l’ansia e l’aggressività del regno d’inferno; D. W. Winnicott e Heinz Kohut  con la psicologia del sé  il regno umano del narcisismo; Carl Rogers e Abraham Maslow i regno degli dèi delle esperienze di vetta (M. Epstein 1996).

A proposito del rapporto tra buddismo e psicologia, nell’opera di Abraham Maslow e nella psicologia moderna si riscontra una grande influenza del pensiero buddista. Il buddismo promuove la meditazione come mezzo per la trasformazione della sofferenza umana, il superamento dell’infelicità nevrotica e la lotta interiore per il superamento di quello che viene definito “piccolo io” e la conquista del vero sé.

 

Il buddismo e la psicologia positiva

La pratica buddista come pratica di consapevolezza e ricerca dell’identità si ritrova in correnti più recenti come la Psicologia Positiva e la continua necessità di innovazione e cambiamento ha portato allo sviluppo di nuove correnti.

I fondatori della Psicologia Positiva sono Seligman e Csikszentmihalyi, secondo Seligman i tre fondamenti sono: lo studio delle emozioni positive, lo studio delle caratteristiche positive (virtù personali e punti di forza),  lo studio di istituzioni positive (democrazia, famiglie forti, libera inchiesta pubblica), (Seligman, 2002).

Lo studio dei punti di forza e delle virtù umane consente di comprendere ciò che rende la vita degna di essere vissuta e i processi che fanno muovere nella miglior direzione la società e le istituzioni (Gable e Haidt, 2005).

Per quanto riguarda gli individui  promuove lo sviluppo delle caratteristiche positive connesse con la capacità di provare felicità e gioia (coraggio, ottimismo, speranza, perseveranza, saggezza, perdono).

La Psicologia Positiva oltre che dedicarsi alla malattia integra il raggio d’azione, preoccupandosi di altri aspetti della vita umana, lo sviluppo delle risorse e dei talenti individuali volte al miglioramento della qualità di vita e alla felicità.

La consapevolezza e lo sviluppo dei talenti individuali volti alla costruzione della felicità sono alla base del buddismo di Nichiren Daishonin,  il filosofo buddista Daisaku Ikeda guida della Soka Gakkai  spiega che la filosofia buddista ha implicazioni molto pratiche nella vita quotidiana, consiste nel fare tesoro della vita rendendola degna il più possibile, si tratta di realizzare la propria rivoluzione umana (Daisaku  Ikeda, 2002)

Consiste nell’attivare la buddità innata e migliorando di conseguenza ogni aspetto della vita entrando in armonia con l’energia universale, “la vita assomiglia al vibrare delle note. E l’individuo a uno strumento a corde” scriveva Beethoven nel suo diario.

Se l’individuo non ha la corretta intonazione non può risuonare con ciò che lo circonda.

Applicando nel quotidiano ciò che insegna il buddismo non conta quanto sappiamo di noi stessi ma il modo in cui ci rapportiamo a ciò di cui siamo consapevoli.

 

La felicità ovvero la buddità

Il buddismo insegna a rapportarsi alla vita in maniera positiva, usando come occasione di crescita ogni evento che ci accade. Sviluppare questo atteggiamento consapevole porta ad una solida felicità, che in termini buddisti viene detta buddità.

Felicità deriva dal verbo fèo, fecondo; questo implica che la felicità non è soltanto l’emozione relativa a ciò che di bello ci accade ma bensì il risultato delle nostre azioni migliori, tramite cui produciamo, creiamo. La felicità è  l’effetto di ciò che facciamo nell’ambiente in cui viviamo, (Laudadio, Mancuso, 2015).

A partire dal Novecento, fino a pochi anni fa la psicologia raramente ha preso in considerazione il tema della felicità e si è perlopiù concentrata sulla psicopatologia, sulle emozioni, sui processi cognitivi e i fattori ambientali capaci di compromettere un buon funzionamento psicologico, in definitiva sull’infelicità. Dopo la Seconda Guerra Mondiale le scelte professionali degli psicologi si sono orientate sul trattamento dei disturbi mentali.

Le prime teorie che hanno parlato di felicità risalgono ad Aristippo e ad Aristotele; il primo parla di felicità edonica, principio secondo cui la felicità è data dal piacere, scopo della vita massimizzare il piacere e minimizzare il dolore; Aristotele nell’Etica Nicomachea, elabora il concetto felicità eudaimonica, frutto dell’attuazione piena delle potenzialità individuali: l’uomo deve esprimere le proprie virtù e realizzare la sua natura (Laudadio, Mancuso, 2015).

Maslow nel 1943 ha elaborato la Piramide dei bisogni, secondo cui l’uomo cerca di conquistare la felicità scalando la piramide, partendo dal gradino più basso dei bisogni primari, salendo verso il vertice della piramide attraverso i bisogni di sicurezza, bisogno di appartenenza, bisogno di stima e all’apice l’autorealizzazione.

Bradburn (1969) la felicità consiste in un giudizio globale che formulano le persone comprando i loro affetti positivi e quelli negativi.

La Psicologia Positiva nasce nel 1998 con Martin Seligman, Mihalyi Cskszentmihalyi e Raymond Fowler. Nasce ponendo come presupposti che la psicologia debba occuparsi delle potenzialità e delle debolezze umane; impegnarsi a sostenere tali potenzialità e riparare i danni al fine di migliorare la qualità di vita; tale sforzo deve essere volto a rendere migliore la vita dell’uomo e degna dei essere vissuta.

Scopo della Psicologia Positiva è approfondire lo studio delle emozioni positive, lo studio scientifico delle funzioni umane ottimali, la scoperta e la promozione delle potenzialità umane al fine di migliorare la vita degli individui e della società.

Inoltre lo studio dei tratti positivi e delle virtù volto all’elaborazione di una classificazione delle potenzialità, come il DSM.

Inoltre Seligman si propone lo studio delle istituzioni positive con l’obiettivo di individuare “le grandi strutture che trascendendo il singolo individuo, erano in grado di supportare il carattere positivo” (Seligman, 1995).

Principio basilare del buddismo è il concetto di Karma,  afferma infatti “se vuoi conoscere le cause create nel passato, guarda gli effetti che si manifestano nel presente. Se vuoi conoscere gli effetti che si manifesteranno nel futuro, guarda le cause che stai mettendo nel presente”. Karma è una parola sanscrita che significa azione, qualsiasi azione compiuta (causa), che si tratti di un pensiero un’azione o una parola detta, questa avrà un effetto sull’ambiente.

Di conseguenza è l’individuo, che decidendo se mettere nella propria vita cause positive è artefice della propria felicità.

Abuso di alcol e minor volume della materia grigia: uno studio sugli adolescenti

Un gruppo di ricercatori della University of Eastern Finland, ha condotto una ricerca per indagare l’effetto dell’ abuso di alcol sugli adolescenti. E’ stato scoperto che gli adolescenti che abusano di alcol risulterebbero avere, rispetto ai loro pari, una minore quantità di materia grigia, un’ importante struttura cerebrale che regolerebbe i processi mnemonici, decisionali e di autocontrollo.

 

Gli effetti dell’ abuso di alcol

Secondo Noora Heikkinen, della University of Eastern Finland, [blockquote style=”1″]é stato scoperto che l’ abuso di alcol sarebbe connesso ad isolamento sociale, problemi di salute mentale e al raggiungimento di un grado di educazione inferiore.[/blockquote]

Avere meno materia grigia potrebbe causare problemi simili, poiché questa parte del sistema nervoso contiene la maggior parte dei neuroni e gioca un ruolo importante in funzioni come la memoria, le emozioni, il decision-making e l’autocontrollo.

[blockquote style=”1″]Un mutamento all’interno delle strutture cerebrali potrebbe essere un fattore che contribuisce ai problemi sociali e mentali tra i soggetti che abusano di sostanze[/blockquote] sostiene la Hakkinen.

Per osservare l’effetto dell’ abuso di alcol sullo sviluppo cerebrale dei teenagers, i ricercatori hanno studiato 62 giovani adulti, partecipanti al “Finnish Youth Wellbeing Study”.

Tra il 2013 e il 2015, i partecipanti hanno compilato questionari e risposto a domande riguardanti quanto spesso bevessero e quanti drink consumassero.
Essi avevano inoltre completato questionari simili cinque e dieci anni prima, a partire dall’età di 13 anni.

Tra gli adolescenti, 35 soggetti rientravano nella categoria di “abusatori”. La categoria comprendeva soggetti che bevevano quattro o più volte a settimana, oppure bevevano diversi drink in ogni occasione. Gli altri 27 giovani adulti erano considerati bevitori nella norma.

Nessuno, in entrambi i gruppi, mostrava sintomi depressivi o altri disturbi mentali debilitanti. Entrambe le categorie di bevitori presentavano livelli simili di ansia, disordini di personalità e abuso di droghe. Tuttavia gli abusatori avevano una maggiore propensione al fumo di sigarette.

Le aree cerebrali compromesse dall’ abuso di alcol

Quando i soggetti erano sottoposti a scansioni cerebrali per esaminare la materia grigia ed altre strutture che avrebbero potuto essere danneggiate dall’ abuso di alcol, gli abusatori presentavano una materia grigia di volume significativamente minore in numerose aree cerebrali, comparati agli altri soggetti.

In particolare, ad essere sottosviluppate erano, in media, la corteccia cingolata anteriore bilaterale, la corteccia orbitofrontale destra e prefrontale, il giro temporale superiore destro e la corteccia insulare destra.
Poiché lo studio si è basato sull’osservazione del confronto tra esami strumentali, è stato impossibile stabilire se l’ abuso di alcol abbia effettivamente causato il sottosviluppo cerebrale. Secondo i ricercatori, infatti, i soggetti potrebbero avere uno sviluppo minore della materia grigia a causa di fattori genetici, e questa anormalità potrebbe favorire un maggiore abuso di alcol.

La sezione frontale del cervello, che aiuta le persone a pianificare e prendere decisioni, continua il suo sviluppo, fino a circa i 20 anni di età.
Durante questo periodo di sviluppo, i teenagers sarebbero in una “finestra di vulnerabilità”, in cui sarebbero più predisposti allo sviluppo di problemi legati all’ abuso di sostanze. In aggiunta, se i giovani sviluppano una tendenza a bere molto durante questo periodo sensibile, questo potrebbe causare dei danni alle strutture cerebrali comportando un inasprimento del comportamento di abuso e causando altri problemi di comportamento, come abbandono scolastico o la messa in atto di comportamenti sessuali rischiosi.

Hekkinen sostiene che fermare l’ abuso di alcol in tempo, può comportare l’incremento del volume della materia grigia. [blockquote style=”1″]Tuttavia, quando l’abuso di alcol è prolungato per un lungo periodo di tempo, alcuni cambiamenti nelle strutture cerebrali diventano irreversibili. Gli anni dell’adolescenza sono molto importanti per lo sviluppo cerebrale, e l’ alcol può interferire con questo processo.[/blockquote]

 

Coppie assassine: il caso dei coniugi Bernardo

Non sempre un serial killer si può identificare in un personaggio solitario che dà sfogo ai suoi impulsi aggressivi e mortali; infatti esistono casi di coppie assassine, la cui efferatezza non può considerarsi di certo inferiore.

Le caratteristiche delle coppie assassine

Secondo le ricerche del criminologo Ruben De Luca, incentrate sull’analisi di oltre 2200 casi di omicidi seriali nazionali e internazionali, quelli commessi in coppia ammonterebbero a poco più del 9% (in Italia il valore scende al 5%) (citato in Massaro, 2010).

Circa una vittima su dieci ha quindi incontrato delle coppie assassine, intendendo quella formata da due individui (non necessariamente assassini, se presi singolarmente), che insieme pianificano la cattura di una preda per torturarla e ucciderla.

Nel sottogruppo delle coppie uomo-donna tipicamente la parte femminile mostra una personalità sottomessa e dipendente, e viene soggiogata sessualmente da un compagno sadico sessuale e manipolatore, che pian piano la trasforma in spietata assassina (Massaro, 2010).
In “Team Killers. A comparative study of collaborative criminals”, Jennifer Furio riassume le caratteristiche peculiari della coppie assassine composte da un uomo e una donna, cui attribuisce caratteristiche ben precise (citato in Massaro, 2010).

1. Nella maggioranza dei casi delle coppie assassine uomo e donna sono partner sessuali e la natura dei loro delitti è prevalentemente di tipo sessuale;
2. Di solito la donna è più giovane dell’uomo (è più giovane della donna serial killer che agisce da sola);
3. In genere, la donna è vulnerabile dal punto di vista emotivo;
4. La donna funge da esca per attirare le vittime;
5. L’uomo controlla le azioni della sua partner, come se questa fosse una sorta di bambola da manovrare;
6. La donna accetta il coinvolgimento nei delitti perché teme di sentirsi esclusa dalle fantasie sessuali del partner e, per non perderlo, cerca di assecondare le sue perversioni;
7. Con l’avanzare degli omicidi, la donna cova sempre più risentimento nei confronti dell’uomo: sovente decide di confessare e di patteggiare la pena collaborando con gli inquirenti.

Secondo Roy Hazelwood e collaboratori (2008) la tattica collaudata del sadico consiste nel degradare la vittima da “brava ragazza” a “puttana”, alternando rinforzi positivi (attraverso complimenti per quanto è stata brava) a rinforzi negativi (rifiuti causati dall’insoddisfazione), con lo scopo di isolarla socialmente e sottoporla a punizioni fisiche e psicologiche, tra cui partecipare agli omicidi.

Coppie assassine: il caso dei coniugi Bernardo

Un caso esemplificativo tra le coppie assassine che destò scandalo mediatico, in particolare per i risvolti giudiziari, e che, almeno all’apparenza, contiene molti degli elementi del profilo classico manipolatore-sottomessa, è il caso dei coniugi Bernardo.

Seguendo l’evoluzione della loro storia personale e le modalità del loro incontro, si nota immediatamente l’elevata presenza della componente sessuale quale collante del rapporto e il rapporto di dominanza dell’uomo sulla donna. Un rapporto asimmetrico dichiarato a gran voce, nel processo, quale giustificatorio rispetto alla sequela di atti omicidiari, rientrando nella comune logica del binomio manipolatore-vittima, sebbene non in maniera scontata.

Denominata la coppia “Barbie e Ken”, la coppia Bernaldo-Homolka si incontra quando Karla aveva appena 17 anni e quasi subito il rapporto si caratterizza per una chiara impronta sessuale: infatti normalmente la donna fingeva di essere la vittima di uno stupratore, mentre Paul l’ammanettava e violentava.

Un rapporto violento, così come violenta e insoddisfacente era la vita di entrambi: per esempio, il padre di Karla era dedito all’alcol e i tradimenti alla moglie erano di dominio pubblico, al punto che la ragazza sognava di incontrare il principe azzurro che la portasse via da quella vita.
Un incontro “perfetto” che dava l’opportunità a entrambi di seguire un progetto preciso.
Paul quello di seguire le proprie perversioni sessuali e il suo dominio di potere (considerava le donne solo oggetti sessuali da sottomettere, dominare e manipolare), incoraggiato dall’atteggiamento compiacente e adulatorio della ragazza; per Karla veder concretizzarsi il sogno di una famiglia “perfetta”.

In fatto di obbedienza Paul Bernardo aveva le idee chiare: la sua più grande fantasia sessuale era avere una fattoria piena di vergini pronte a tutto per soddisfarlo. E di obbedienza cieca era composta la vita di Karla: Paul la “istruiva” a scrivere e incollare dietro la porta di camera sua frasi del tipo “ricordati che sei una stupida”, la sua vita girava intorno a lui, la sua obbedienza era totale al punto da condurla all’isolamento sociale, fino ad abbandono degli studi.

Sempre più isolata socialmente e spinta dall’unico desiderio di una famiglia felice, Karla diveniva in tal modo la meccanica esecutrice dei desideri perversi del suo amato. Per lui avrebbe sopportato di tutto, anche il desiderio del suo Ken di prendere la verginità della sorellina quattordicenne, Tammy. Un atto giustificato da un’insoddisfazione sessuale causata anche dalla sua scarsa bravura perché “se fosse stata brava non ne avrebbe sentito il bisogno” (Stunell, 2008).

Il primo omicidio si consumò in modo accidentale: nelle intenzioni dei coniugi l’unico fine era di imbottire Tammy di sedativi per poi permettere a Paul di abusarne, mentre una dose eccessiva di farmaco guastò il loro piano, benchè la morte della ragazzina sarebbe stata archiviata come morte accidentale. Un incidente che, invece che fermare Bernardo, lo incitò a chiedere sempre di più, anche sotto la minaccia di denunciare Karla per la morte della sorellina. A causa della sua negligenza, aveva perso il suo “giocattolo sessuale”: ecco che Karla veniva obbligata a trovare una sostituta, anche spinta dalla promessa di un matrimonio imminente. Un matrimonio che effettivamente avvenne, perché “una moglie non può testimoniare contro suo marito” (Stunell, 2008), ma condito da violenze fisiche e psicologiche, come costringere la neosposa a dormire sul pavimento.

I coniugi Bernardo passeranno alla storia per tre omicidi, al termine di efferate violenze (come nel caso della terza vittima, Kristen, costretta alle peggiori umiliazioni, filmate con dovizia di particolari).
Omicidi ben occultati e che forse non sarebbero mai venuti a galla, se non per una serie di fortunate coincidenze.

Paul Bernardo non era infatti solo l’autore di quei tre macabri crimini, e il suo nome balzò alla cronaca per una serie di stupri (e dopo vari anni di indagini e astuti depistamenti) che lo condannarono alle sbarre come lo stupratore di Scarborough. Un’accusa a cui si affiancò solo secondariamente la stessa denuncia di Karla, spinta da alcuni parenti, ad accusare l’uomo per violenza fisica e l’omicidio delle tre ragazzine, spingendo così gli inquirenti a indagare. Paul Bernardo viene arrestato il 17 Febbraio 1993 con l’accusa di aver ucciso Leslie e Kristen e per altre 53 aggressioni a partire dal 1983.

La giustizia sul caso di “Barbie e Ken” si è conclusa con l’individuazione dell’unico colpevole in Paul Bernardo, condannato all’ergastolo nel carcere di massima sicurezza di Kingston, mentre Karla Homolka ha scontato dodici anni da “complice suo malgrado” ed è oggi in libertà.

Una storia che se sembra risolta, ricalcando la classica coppia uomo-sadico e donna-sottomessa, proprio a questo punto vacilla, mostrando tutte le sue crepe.

Se l’accordo con l’accusa trasformava Karla nella testimone numero uno contro l’ex-marito, in quanto “vittima della coercizione di Paul Bernardo” (di cui assecondava le fantasie per timore di perderlo), concedendole perciò una pena attenuata, molti aspetti della vicenda restavano quantomeno dubbi, fornendo visioni del tutto difformi dall’immagine di innocente e povera vittima.
Alcuni dati infatti contrastavano con l’immagine della donna sottomessa, come le videocassette dei crimini compiuti dalla coppia con una Karla che partecipava volontariamente e con convinzione (da segnalare che il procuratore aveva accettato di stipulare l’accordo senza aver prima visionato le videocassette).

Uno stravolgimento di prospettiva alla frequente combinazione sadico-sottomessa viene fornito dall’analisi della Stunell (2008) dove la natura aggressiva della donna è considerata realtà a sè stante, dove anche la donna è capace di pura crudeltà, smontando un pregiudizio sociale che la vorrebbe fragile e sottomessa, in definitiva innocua. In questo nuovo scenario sarebbe stata Karla a controllare il marito (e non viceversa), fornendogli le vergini da cui era dipendente. Che Karla avesse avuto una parte attiva nei delitti, per la Stunell, appare fatto evidente e inappellabile: prima dell’incontro con Karla, l’uomo aveva infatti sempre liberato le donne che aveva violentato, così come aveva bendato Kristen per poi consentirle di scappare. Nel caso di Tammy, Paul aveva cercato disperatamente di rianimarla, mentre era stata Karla a somministrarle la dose letale di sedativo.
Dimostrando quanto la violenza non conosca differenze di genere e quanto sia pericoloso aderire a norme sociali che attribuiscono al maschio, in quanto tale, il monopolio dell’aggressività e della brutalità.

Insegnare l’ipnosi ai bambini? Nuovi strumenti per i genitori

L’ ipnosi è una disciplina attraverso la quale è possibile accedere a risorse che normalmente rimangono inconsce ed inespresse. Imparare a governare il proprio stato di coscienza si è dimostrato utile in numerosi campi compresi quello medico, sportivo, psicologico e professionale.

Nicoletta Gava 

In quali casi può essere utile l’ ipnosi con i bambini

La maggior parte degli studi in materia si è concentrata su soggetti adulti, ma se l’ipnosi può essere così utile perché non insegnarla anche ai bambini? Ecco 4 ragioni per farlo.

1. Disturbi da somatizzazione
Quando i bambini attraversano periodi di stress emotivo possono manifestare il loro disagio attraverso il corpo piuttosto che con le parole. L’ipnosi si è dimostrata molto utile nel trattamento di questi quadri psicosomatici. Una review del 2013 (Adinolfi & Gava, 2013) ha passato in rassegna gli studi sul tema che hanno coinvolto campioni pediatrici.
Ad esempio gli autori citano uno studio (Anbar & Slothower, 2006) che si è concentrato sulle cosiddette lamentele somatiche infantili, ovvero mal di pancia, mal di testa, dispnea che sembrano non avere cause mediche definite. In tale studio, i bambini trattati con l’ipnosi hanno avuto una risoluzione dei sintomi nell’87% dei casi.
Viene citato inoltre un contributo (Vlieger et al., 2012) che riguarda la sindrome dell’intestino irritabile, una condizione considerata a base psicosomatica. Bambini trattati attraverso metodiche ipnotiche ed addestrati all’autoipnosi mostrano un quadro clinico migliore rispetto ad un campione di controllo e due terzi di essi, a 5 anni dall’intervento, si sono mantenuti asintomatici.
Gli autori concludono riportando dati tratti da studi su caso singolo che supportano l’efficacia di questa metodica anche per il trattamento di quadri dermatologici come dermatite atopica ed eczema cronico. Pur non essendo conclusivi, questi dati incoraggiano l’esplorazione più strutturata della metodica.

2. Se non riposa bene
Circa il 25% dei bambini soffre a causa di una qualche difficoltà legata al sonno (Vriend & Corkum, 2011). Questa può essere causata da vari fattori (es., emotivi, fisici, familiari) e la sonnolenza che ne deriva può interferire con la loro vita quotidiana, nello studio e nei rapporti coi pari e coi familiari. L’ipnosi ha ricevuto conferme di efficacia dalla letteratura. Un esempio è rappresentato da uno studio (Anbar & Slothower, 2006) nel quale i ricercatori hanno esaminato i dati clinici di 84 bambini che erano stati trattati per disturbi del sonno che non avessero cause mediche identificabili. Il risultato delle analisi ha mostrato che oltre il 68% del campione studiato è andato incontro a remissione dopo un massimo di 2 sedute di ipnosi.

3. Dal dentista
Alcune stime dicono che circa una persona su 5 soffre della cosiddetta ansia dentale, ovvero la paura di sottoporsi a cure odontoiatriche (Boari, Breccia & Lajolo, 2007). Nei bambini (ed in circa un adulto su 10) questa può diventare talmente intensa da rendere impossibile rimanere seduti sulla poltrona. L’ipnosi può essere uno strumento utile per la gestione di questo tipo specifico di ansia come dimostrato da uno studio che ha visto ridursi i livelli di dolore e di ansia provati dai bambini che dovevano sottoporsi a questo tipo di trattamenti (Huet et al., 2011). Più specificamente, gli autori hanno reclutato 30 bambini di età compresa tra i 5 ed i 12 anni e li hanno assegnati casualmente a due gruppi. In uno dei due avrebbero partecipato ad una seduta ipnotica mirata a ridurre la percezione di dolore ed ad abbassare i livelli di ansia. I risultati hanno mostrato che una porzione maggiore, statisticamente significativa, di bambini nel gruppo di ipnosi ha riportato di non aver provato dolore o di averne provato solo in misura minima. I due gruppi differivano inoltre in termini di media di intensità di dolore ed ansia percepiti, più bassa nel gruppo sperimentale.

4. Gestione del dolore.
Sono molti gli esempi della letteratura medica che ci dicono che attraverso l’ipnosi è possible gestire vari livelli di dolore, a volte riducendo la quantità di farmaci antidolorifici necessari, a volte permettendo la loro sospensione. Per quanto riguarda i bambini, una analisi degli studi recenti in materia (Kuttner, 2012) ha mostrato che bambini supportati con l’ipnosi che dovevano sottoporsi ad interventi chirurgici provavano meno dolore ed ansia rispetto ai soggetti di controllo. I bambini dei campioni descritti hanno beneficiato di una riduzione dei livelli di ansia e di dolore percepito, prima, durante e dopo le operazioni. Un altro effetto interessante riguardava la durata dei ricoveri, più breve per i soggetti preparati con l’ipnosi. Risultati analoghi sono stati ottenuti in studi in cui sono stati reclutati bambini affetti da dolore cronico. Più specificamente gli autori citano uno studio (Kohen & Zajac, 2007) condotto con 144 soggetti tra bambini ed adolescenti affetti da emicranie ricorrenti. In seguito ad un training in autoipnosi, i partecipanti non soltanto hanno visto abbassarsi la frequenza e l’intensità dei mal di testa, ma hanno anche riportato una maggiore fiducia in se stessi nell’affrontare certe situazioni stressanti. Questi effetti portano inoltre ad un miglioramento del loro umore generale. Dati come questi hanno portato la American Pain Society a raccomandare l’ipnosi come strumento per il trattamento del dolore (American Pain Society, 2001).

Il ruolo della terapia cognitivo-comportamentale nel trattamento dell’ acufene

La terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace in coloro che soffrono di acufene, in quanto agirebbe sulla percezione e assuefazione piuttosto che sull’ acufene in sé.

Sara Palmieri – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

L’ acufene, o tinnito, è una condizione di salute cronica definita come una percezione uditiva di suoni nell’orecchio e/o nella testa in assenza di uno stimolo esterno (Andersson, Baguley, McKenna & McFerran, 2012). Queste sensazioni uditive sono spesso descritte come fischi, sibili o ronzii.

Studi epidemiologici indicano come la prevalenza dell’ acufene negli adulti sia circa del 10 % -15 % (Axelsson & Ringdahl, 1989; Davis & El Refaie, 2000).

L’ acufene (altrimenti noto come tinnito), è più comune negli adulti e negli anziani piuttosto che nei bambini (Davies & El Rafie, 2000); in merito al genere non sono state osservate particolari differenze sebbene alcuni studi mostrino come le donne riportino suoni più complessi (Dineen, Doyle, & Bench, 1997; Meikle & Greist, 1989).

Da un punto di vista eziologico, la principale origine dell’ acufene sarebbe di tipo cocleare, in particolare lesioni delle cellule ciliate dell’orecchio interno dopo un trauma acustico (Londero et al., 2006).

È ben stabilito che una parte sostanziale di individui con acufene riferiscono disagio significativo come conseguenza del loro tinnito (Tyler & Baker, 1983).

Per circa il 3-5 % della popolazione adulta generale l’ acufene è percepito come estremamente fastidioso influendo sul sonno, l’umore, la concentrazione e le emozioni a tal punto che in alcuni soggetti diventa difficile svolgere le attività quotidiane (Davis & El Refaie, 2000).

La comorbidità dell’ acufene con ansia e depressione non è ben studiata in campioni rappresentativi, ma studi su campioni clinici suggeriscono che i pazienti con acufene avrebbero livelli più elevati di depressione e ansia rispetto alla popolazione sana (Andersson, 2002). Tali stati, per di più, aggraverebbero il disagio causato dall’ acufene (Londero et al., 2006).

 

Il trattamento dell’ acufene

L’ acufene, sebbene sia una condizione tipicamente temporanea, in alcuni casi può evolvere in una condizione cronica e difficile da trattare.

Diversi protocolli di trattamento per la gestione dell’ acufene sono stati proposti, come ad esempio l’uso di suoni di mascheramento, farmaci, apparecchi acustici e l’agopuntura (Andersson, Strömgren, Ström, & Lyttkens, 2002). Ciò nonostante, tali trattamenti non rappresenterebbero né una cura per il disturbo né per i disagi associati ad esso.

Tuttavia, vi sarebbero evidenze che suggeriscono come l’associazione del trattamento medico a quello psicologico rappresenterebbe una strada adeguata per poter diminuire i disagi causati dall’ acufene.

 

La psicoterapia cognitivo comportamentale in casi di acufene

In particolare, la terapia cognitivo-comportamentale (CBT) si è rivelata efficace in coloro che soffrono di acufene, in quanto agirebbe sulla percezione e assuefazione piuttosto che sull’ acufene in sé. Il trattamento CBT è solitamente caratterizzato da 6-10 sedute a cadenza settimanale, ma vengono considerate anche le esigenze di ogni singolo paziente (Andersson, 2002).

Un tipico intervento CBT per l’ acufene inizia con informazioni relative ad esso e un adeguato esame medico di potenziali cause e fattori di moderazione. Successivamente, si passa ad un’analisi funzionale per individuare possibili elementi, di natura medica e psicologica, che possono influire sui fastidi associati al tinnito.

Lo step successivo riguarda indicazioni riguardo la perdita dell’udito e il trattamento di questa per quanto possibile. Nello specifico, si invita il paziente all’uso di apparecchi acustici e gli si forniscono consigli comportamentali sotto forma di ”tattiche di udito”. Tali strategie non sono rivolte solo al paziente ma anche alle persone a lui vicine.

Sempre in questa fase vengono proposte al paziente strategie di arricchimento del suono ambientale per facilitare l’assuefazione all’ acufene. Tra queste strategie è possibile includere CD con musiche e suoni, ma soprattutto analisi delle fluttuazioni nel tinnito e i rischi associati al tentativo di mascherarlo (ossia coprirlo).

Lo step seguente, è caratterizzato dall’insegnare al paziente a rilassarsi rapidamente e ad utilizzare l’auto-controllo sul corpo e sulle sensazioni mentali. Lo scopo non è quello di ridurre l’ acufene, bensì di controllare gli effetti di esso ottenendo uno stato di equilibrio psico-fisico. In associazione al training di rilassamento, vengono introdotte tecniche di immaginazione (ad esempio, immaginare una spiaggia).

Successivamente si ricorre alla ristrutturazione cognitiva di pensieri e credenze associati all’ acufene. Il paziente viene aiutato ad identificare il contenuto dei suoi pensieri e impara modalità per contrastare o controllare quei pensieri di solito descritti come poco utili o errati. Possono essere incluse anche tecniche di deviazione dell’attenzione o tecniche di immaginazione.

Nel contesto delle mutevoli convinzioni e pensieri, è importante lavorare verso l’accettazione dell’ acufene e promuovere l’idea che esso non merita tutta l’attenzione che riceve in quel momento da parte del paziente. Durante le fasi successive del trattamento può essere utile lavorare per reinterpretare l’ acufene come qualcosa di più piacevole.

 

La gestione degli stati emotivi e della concentrazione

Uno step complementare ai precedenti riguarda la gestione degli stati emotivi. La paura e l’evitamento, spesso sperimentati da persone che presentato tinniti, possono portare ad una visione negativa degli acufeni come anche a forti reazioni emotive che in alcuni casi possono evolvere in veri e propri attacchi di panico. Oltre a consigli sull’arricchimento del suono, può essere importante affrontare le reazioni avverse al silenzio (quando questo rappresenta un problema). Inoltre, alcuni pazienti sviluppano paura verso i suoni quotidiani (iperacusia) e, in questi casi, è importante esporre gradualmente tali pazienti a suoni ambientali.

Un’altra componente del trattamento è mirata ai problemi di concentrazione, i quali sono spesso una fonte di grande angoscia per il malato di acufene.

Dato l’influenza che gli acufeni possono esercitare sul sonno, una parte integrate del trattamento include le regole di igiene del sonno, il rilassamento, la ristrutturazione cognitiva e regole sulla gestione del worry. Questi metodi possono essere personalizzati in base alle specifiche esigenze del paziente con acufene.

 

La prevenzione della ricaduta

Infine, l’ultima parte dell’intervento è dedicata alla prevenzione della ricaduta (in termini di effetti intrusivi dei tinniti e recidive). Insieme al paziente vengono discussi i fattori di rischio per lo sviluppo di un acufene più grave e la possibile perdita dell’udito; inoltre viene elaborato un piano su cosa fare in caso di peggioramento dell’ acufene, che può includere il riutilizzo di tecniche di rilassamento o delle strategie di arricchimento sonoro.

Dalla letteratura emerge come la CBT potrebbe essere proficuamente applicata nel trattamento dell’ acufene e, in particolare, per il disagio che esso provoca.

Le tecniche di rilassamento possono essere utilizzate per ridurre l’arousal e la ristrutturazione cognitiva per superare credenze disadattive e paure legate al tinnito. Inoltre, la graduale esposizione a situazioni temute (ad esempio, il silenzio o confrontare suoni) potrebbe contribuire a promuovere l’assuefazione all’ acufene.

Nel complesso, l’applicazione della CBT per l’ acufene segue metodi standard sviluppati per altri problemi come l’ansia e il dolore (Hawton, Salkovskis, Kirk, & Clark, 1989; Philips & Rachman, 1996). Sono quindi previsti compiti a casa tra le sessioni di terapia e una spiegazione del razionale è presentata per ogni componente del trattamento. Inoltre, la relazione terapeutica tra terapeuta e paziente è collaborativa, nel senso che ogni sessione e il trattamento nel suo complesso viene negoziato. La motivazione a cambiare le abitudini e il comportamento è fondamentale ed è chiaro al paziente che, per avere effetto il trattamento, è necessaria una partecipazione attiva da parte sua.

 

L’efficacia della CBT in casi di acufene

In merito ai trattamenti per la gestione dell’ acufene, sono stati condotti alcuni studi sull’efficacia del trattamento psicologico in generale e della CBT.

Andersson e Lyttkens (1999), hanno prodotto una meta-analisi sul trattamento psicologico del tinnito, includendo studi su CBT, rilassamento, ipnosi, biofeedback, sessioni educative e di problem solving.

I risultati hanno mostrato effetti da forti a moderati sul fastidio legato all’ acufene, in studi controllati, in disegni pre-post e al follow-up. I risultati sulla sonorità del tinnito sono stati invece più deboli, scomparendo nel follow-up. La stessa meta-analisi (Andersson & Lyttkens, 1999), ha messo in luce come il trattamento cognitivo-comportamentale sia più efficace di altri trattamenti psicologici sul fastidio legato all’ acufene e sulla sua tolleranza, mantenendo un effetto per circa un anno dopo la conclusione del trattamento; vi sarebbe invece una minore efficacia nel lungo termine sul volume percepito del tinnito.

Andersson e Lyttkens (1999), inoltre, sottolineano come vi siano dimensioni dell’effetto più basse per le misure dell’affettività negativa, dell’ansia e per i problemi di sonno.

In sintesi, la CBT sembrerebbe efficace nel trattamento della sofferenza legata all’ acufene, ma i meccanismi attraverso i quali funziona il trattamento rimangono poco chiari. Una varietà di differenti tecniche e procedure sono incluse nel trattamento CBT per l’acufene (Andersson, 2002); proprio tale caratteristica rende difficile verificare quale o quali tecniche siano più efficaci, e quindi da includere o omettere nel trattamento. Al momento non sono stati ancora condotti sufficienti studi che valutano gli effetti dei singoli componenti del trattamento, ma i dati disponibili mostrano come le tecniche di rilassamento da sole non siano efficaci. Inoltre, poco si sa della possibile relazione tra il numero di ore di trattamento e gli outcome.

Alla luce di quanto detto, sono necessarie ulteriori ricerche che si concentrino sui processi o meccanismi di trattamento efficaci per l’ acufene al fine di delineare approcci terapeutici proficui. Inoltre, aspetti che dovrebbero essere ulteriormente indagati in studi futuri riguarderebbero le difficoltà psicosociali, la comorbidità psichiatrica e i livelli subclinici di ansia e depressione, che spesso i pazienti con acufene presentano.

In conclusione, è chiaro che la CBT abbia un ruolo nella gestione del tinnito, e il ricorso a team multidisciplinari che coinvolgano psicologi ad orientamento cognitivo-comportamentale potrebbe rappresentare una strada proficua da percorrere.

Natura vs Contro natura

Come rispondere alla provocazione: “Sì, va bene… ma è contro natura. Voi non potete fare figli senza ricorrere a metodi alternativi”.

Giorgia

 

Cara Giorgia,

quanto per lei il “non poter fare figli senza ricorrere a metodi alternativi” è connesso al concetto di “natura”? Cos’è per lei naturale?

Tutti noi ci costruiamo una verità personale, così come anche ogni filosofo che si è approcciato al tema della natura ne ha dato una sua interpretazione a seconda del tempo, del luogo e del suo pensiero.

Se l’aspettativa che risiede dietro alla sua voglia di dare una bella risposta a queste persone è anche quella di far loro cambiare idea o smuovere in loro qualcosa, forse il suo tentativo l’avvicinerà solo ad un gran bruciore di stomaco. In ogni caso, la miglior risposta che potrà dare sarà la sua risposta personale, con la sua verità e la sua idea di ciò che è naturale o meno.

E se questa provocazione le fa provare rabbia e/o tristezza, tenga a mente che essa racchiude forse la loro visione. Se invece il suo concetto di natura è tutt’altro, non lasci che la prospettiva altrui la metta in dubbio personalmente.

Greta Riboli

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Paura di morire? Basta aumentare la propria creatività

I risultati di un recente studio suggeriscono che coloro che perseguono la creatività e producono contributi creativi significativi potrebbero beneficiare di una sorta di sicurezza esistenziale, che li allontana dalla paura della morte.

 

Creatività e immortalità (simbolica)

La relazione tra creatività e immortalità simbolica era stata da tempo riconosciuta da accademici e ricercatori.

Le persone creative, come il neo-annunciato premio Nobel per la Letteratura Bob Dylan, sono state spesso considerate come persone profondamente motivate  dal desiderio di lasciare un patrimonio culturale duraturo. Ed effettivamente è così: attraverso il loro lavoro di creatività, personaggi come Leonard Cohen e David Bowie continuano a vivere nella nostra cultura, anche dopo averci lasciato. Al contrario, la distruzione di antichi monumenti e manufatti, come è avvenuto in Iraq nel 2015 da parte dello Stato islamico, potrebbe essere interpretato come un atto simbolico volto impattare negativamente sulla società attraverso la distruzione di un patrimonio culturale.

 

Creatività e paura della morte: lo studio di R. Perach

La nuova ricerca condotta da Rotem Perach, dottorando presso la Scuola di Psicologia, supervisionato dal Dr. Arnaud Wisman dell’Università di  Kent (Regno Unito), ha dimostrato che le persone con alti livelli di creatività sono più resistenti alle preoccupazioni che derivano dai pensieri esistenziali, come ad esempio il pensiero della morte. Si pensa che questo sia il primo studio empirico a valutare la funzione della creatività come fattore protettivo dall’ansia tra persone per le quali la creatività costituisce un elemento centrale della propria cultura.

La ricerca ha analizzato i risultati di un gruppo di 108 studenti. Gli studenti hanno completato due questionari per valutare il livello di realizzazione creativa e il livello di ambizione creativa, dopodiché i ricercatori hanno valutato i pensieri elaborati da tutti i partecipanti dopo che era stato chiesto loro esplicitamente di pensare alla propria morte.

Gli studenti con un punteggio molto alto di realizzazione creativa, unito ad alti livelli di ambizione creativa, facevano meno pensieri collegati alla morte, rispetto ai soggetti nella condizione di controllo.

In confronto, tra gli studenti con bassi livelli di ambizione creativa – qualunque fosse il punteggio di realizzazione creativa – pensare alla propria mortalità e alla propria morte non influenzava in alcun modo i livelli di accessibilità al pensiero di morte rispetto ai controlli.

I risultati suggeriscono che coloro che perseguono la creatività e producono contributi creativi significativi potrebbero beneficiare di una sorta di sicurezza esistenziale, ovvero la sensazione che la sopravvivenza è una cosa certa, di fronte al pensiero della morte. La realizzazione creativa potrebbe essere quella via che conduce ad un’immortalità simbolica, consentendo alle persone di “continuare a vivere” anche dopo essere morte.

 

Le parole per dirlo: esprimere il dolore con le parole e non con l’agito – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Tutta la psicoterapia potrebbe essere sintetizzata nell’invito “parliamone” che significa sostituire agli agiti dei sistemi primitivi, le loro rappresentazioni corticali manipolando quest’ultime auspicandosi che poi esse retroagiscano su quegli stessi sistemi.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Le parole per dirlo: esprimere il dolore con con le parole e non con l’agito (Nr. 16)

L’alto tasso di suicidio a Tahiti

Leggendo l’ultimo libro di Gianrico Carofiglio sono rimasto colpito da un capitoletto in cui riporta uno studio degli anni ’50 di Robert I. Levy che voleva capire perché a Tahiti ci fosse un’ incidenza di suicidi enormemente superiore a quella mondiale ed anche a quella di paesi con analoghe situazioni economiche e climatiche. Insomma la domanda lecita era “ ma perché questi si ammazzano come Lemmi pur vivendo in un posto niente male?”

Levy si accorse che nella lingua tahitiana non esistevano parole per indicare il dolore morale o psichico, mentre ce ne erano molte e con diverse sfumature per il dolore fisico. Certamente è improprio stabilire una relazione causale tra i due fatti ma certo il sospetto che ciò che non è esprimibile a parole finisca per essere agito è legittimo.

 

Psicoterapia: un’occasione per esprimere il dolore con le parole

Riporto questo fatto perché mi sembra restituisca dignità ad un lavoro spesso considerato banale, di scarso valore, delegabile ad un testo scritto o addirittura dato per scontato che va sotto il nome di “psicoeducazione emotiva”. Proseguendo su questa linea mi viene da pensare che tutta la psicoterapia potrebbe essere sintetizzata nell’invito “parliamone” che significa sostituire agli agiti dei sistemi primitivi, le loro rappresentazioni corticali manipolando quest’ultime auspicandosi che poi esse retroagiscano su quegli stessi sistemi.

Contemporaneamente fa parte della tradizione comportamentale-cognitivista, ora prepotentemente rinforzata con le strategie della terza ondata ( per usare questo odioso linguaggio da bollettino dei naviganti) la consapevolezza che possenti cambiamenti nelle rappresentazioni corticali si generino proprio a partire dagli agiti, ed anzi talvolta questa è l’unica via percorribile.

Insomma quando facciamo l’assessment e la restituzione invitando il paziente ad essere insieme a noi psicologo di se stesso e gli diamo le parole per completare quell’operazione di mentalizzazione iniziata con le figure di attaccamento, non stiamo semplicemente preparandoci all’intervento terapeutico importante vero e proprio, non gli stiamo rubando tempo e soldi, ma stiamo salvando la vita ad un sacco di tahitiani. Per i lemmi invece non c’è riparo ci vogliono l’EMDR o gli SSRI.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Atleti uomini e donne a confronto: gli uomini falliscono di più sotto pressione

E’ stato rilevato che tutti gli atleti hanno in media la tendenza a fallire sotto la pressione della gara, ma nonostante le donne mostrino in media un calo di performance nelle fasi cruciali, esso rimane inferiore a quello degli uomini del 50%.

 

Gli esiti delle prestazioni sportive “sotto pressione”

Le prestazioni sportive rappresentano delle vere e proprie “sfide” in cui i soggetti mettono in atto una serie di risorse volte al raggiungimento di alcuni obiettivi legati al compito che siano essi personali o riguardanti l’esito del match. Più il livello sportivo è alto, più gli obiettivi si arricchiscono e sale la “pressione” per una buona prestazione e per una vittoria.

I ricercatori della “Ben-Gurion University of Negev” (BGU), hanno condotto uno studio allo scopo di verificare in che modo atleti uomini o donne reagiscano di fronte a questa pressione e usare i risultati per capire il funzionamento del mercato del lavoro maschile e femminile.

In altri termini, si è cercato di capire se in alcuni lavori, come quelli consistenti in una prestazione sportiva, gli uomini guadagnassero di più delle donne a causa della capacità superiore di riuscire a portare a termine le proprie mansioni sotto pressione.
In particolare, sono state analizzate le prestazioni di giocatori di tennis, uomini e donne, che partecipavano ai tornei del Grande Slam.

 

Lo studio

Lo studio ha esaminato le competizioni riguardanti questi atleti di alto livello considerando il match come “un unico scenario in cui due professionisti competono in un contesto di vita reale che prevede un compenso monetario molto alto”.
I ricercatori hanno analizzato i dati dei primi set di tutti e quattro i tornei del Grande Slam del 2010, comparandoli con i dati di 4.127 partite femminili e 4.153 partite maschili di minore importanza rispetto ai 4 tornei del Grande Slam.

E’ stato rilevato che tutti gli atleti hanno in media la tendenza a fallire sotto la pressione di una partita più importante delle altre, ma nonostante le donne mostrino in media un calo di performance nelle fasi cruciali, esso rimane inferiore a quello degli uomini del 50%.
[blockquote style=”1″]I nostri risultati non supportano l’ipotesi che gli uomini guadagnino più delle donne in lavori ad alto livello di stress e pressione per il fatto di rispondere meglio delle donne alla pressione lavorativa [/blockquote]sostiene il Dr. Danny Cohen Zada del Dipartimento di Economia della BGU.

 

Discussione e conclusioni

I ricercatori sostengono che bisognerebbe prestare attenzione a generalizzare i risultati direttamente al mercato del lavoro, per diverse motivazioni: in primo luogo è stato analizzato il modo in cui le tenniste rispondono alla pressione in un contesto omogeneo riguardo al genere, mentre nel mercato del lavoro alle donne è richiesto di rispondere alla pressione della competizione in setting differenti, in cui, ad esempio, esse sarebbero chiamate a competere con uomini; in secondo luogo il campione di tennisti non è rappresentativo del modo in cui i soggetti rispondono generalmente alle pressioni lavorative, poiché esso potrebbe essere caratterizzato da persone aventi differenti caratteristiche rispetto alla popolazione generale.

Tuttavia, l’aver evidenziato che le donne possano rispondere meglio degli uomini alle pressioni di una gara, potrebbe fungere da spunto per ulteriori investigazioni in altri contesti di vita.

In accordo con i ricercatori, lo stress influenzato da un iniziale aumento di livelli di cortisolo, potrebbe essere uno dei possibili colpevoli del calo della prestazione sportiva, come sottolineato da altri studi che hanno dimostrato che livelli elevati di cortisolo correlano con secondi servizi deboli nel tennis e performance peggiori nel golf.

[blockquote style=”1″]Le ricerche indicano che in risposta alle sfide per il risultato, aumentano i livelli di cortisolo e questo avviene più rapidamente negli uomini che nelle donne; gli alti livelli di cortisolo possono inficiare le abilità mentali rilevanti al momento [/blockquote]afferma il co-autore Offer Moshe Shapir (Centre for Business Education and Research alla NYU di Shanghai).

Disclosure: il racconto del trauma nell’abuso sessuale infantile

Dal momento che l’ abuso sessuale infantile è un fenomeno largamente nascosto, la sua identificazione risulta molto complicata. È, dunque, importante che bambini e adolescenti riescano a raccontare a qualcuno l’abuso subìto, attraverso un processo di disclosure.

Elena Parise – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

l bambino ha paura di parlare e, quando lo fa, l’adulto ha paura di ascoltare.

(Gabel, 1992)

 

Negli ultimi anni, la letteratura ha mostrato un sempre maggiore interesse nello studiare il fenomeno dell’ abuso sessuale infantile e della violenza all’infanzia. Oggi, infatti, si sente parlare di infanzia violata molto più di frequente rispetto a quanto avvenisse anni fa.

Nella maggior parte dei casi, le giovani vittime sono le uniche in grado di denunciare il loro abusante e gli abusi subìti: infatti l’abuso sessuale infantile è uno dei reati maggiormente tenuti nascosti. È in questa cornice contestuale, quindi, che si va a inserire l’importanza della disclosure, la quale rappresenta l’aspetto critico e cruciale del processo di denuncia. Rappresenta il primo passo per provare a contrastare e a interrompere il ciclo di abusi, rendendo noti i fatti ad persone, oltre a perpetratore e vittima (Alaggia, 2004; Jensen et al., 2005; Allnock, 2010; D’Ambrosio, 2010).

Proprio a causa del fatto che, nel corso degli ultimi anni, il fenomeno dell’ abuso sessuale infantile è stato ampliamente trattato, approfondito e studiato, le sue definizioni sono molteplici. In particolare, però, L’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS), nel 1999, lo definisce:

Il coinvolgimento di un minore in atti sessuali, con o senza contatto fisico, a cui non può liberamente consentire in ragione dell’età e della preminenza dell’abusante, lo sfruttamento sessuale di un bambino o adolescente, la prostituzione infantile e la pedopornografia.

Più in generale, l’abuso è una violazione dei diritti del minore, che viene a verificarsi quando il comportamento inadeguato di un adulto, volontario o involontario, impedisce e, anzi, interrompe la crescita armonica del bambino, non tenendo in alcun conto i suoi bisogni primari (Caffo et al. 2004).

 

La rivelazione dell’abuso sessuale infantile: la disclosure

Dal momento che l’ abuso sessuale infantile è, come già detto, un fenomeno largamente nascosto, la sua identificazione risulta molto complicata non priva di criticità, rendendo così fondamentali e centrali per l’intera durata dell’iter le vittime stesse. È, dunque, importante che bambini e adolescenti riescano a raccontare a qualcuno l’abuso subìto, così da poter intervenire e interrompere il ciclo di abusi, oltre che ricevere il dovuto aiuto e supporto. La disclosure consiste proprio in questo: è la rivelazione del bambino circa l’abuso o gli abusi subìti (Allnock, 2010).

La rivelazione di un abuso sessuale da parte di un bambino è un processo tutt’altro che semplice e lineare, ma bensì un percorso tortuoso e accidentato. Il bambino, infatti, può, in una certa fase, presentarsi confuso, inaccurato e incerto, passando dall’ammissione al diniego per poi fornire una parte del racconto, magari anche in maniera dettagliata. D’Ambrosio (2010) ritiene che, di frequente, il percorso comporti vari passaggi: la liberazione del segreto, il ritorno della paura con la conseguente negazione e, infine, la ri-affermazione.

Relativamente a ciò, una delle autrici che si è maggiormente occupata di disclosure è Ramona Alaggia (2004), la quale inizialmente individua tre tipologie di disclosure:

  1. Accidental Disclosure: situazioni in cui l’abuso sessuale infantile è stato scoperto da qualcun altro (ad esempio attraverso l’osservazione o attraverso esami di tipo medico);
  2. Purposeful Disclosure: situazioni in cui il minore racconta intenzionalmente a qualcuno l’abuso subìto, forse con l’intento di fermarlo;
  3. Prompted/Elicited Disclosure: situazioni in cui le autorità, i professionisti, i genitori o altri adulti incoraggiano un bambino, restio, a raccontare quanto accaduto.

Tuttavia, l’autrice sostiene che le tre categorie di disclosure da lei stessa considerate non esaurivano la complessità delle esperienze possibili e per questo modifica e amplia la sua concettualizzazione sul tema, aggiungendone altre tre:

  • Behavioural Manifestations: tentativi, sia intenzionali che non, di rivelare l’abuso a livello comportamentale o tramite sintomi comportamentali (ad es. disturbi del sonno, dell’alimentazione, anedonia, ritiro sociale, ipervigilanza);
  • Disclosures Intentionally Withheld: nascondere intenzionalmente l’abuso, negare l’accaduto, scoperte accidentali e disclosure suggerite o elicitate;
  • Triggered Disclosures of Delayed Memories: disclosure seguite, poi, da recupero della memoria che fino a quel momento era risultata inaccessibile a causa, ad esempio, di fattori di sviluppo.

Jensen et al. (2005) suggeriscono che la disclosure è, fondamentalmente, un processo nel quale i bambini hanno bisogno di percepire la possibilità di parlare tranquillamente di quello che gli è capitato. La rivelazione, infatti, è il primo passo di un processo che ha inizio con l’assicurazione che ciò che è stato vissuto è davvero anomalo: ciò che hanno subìto non è stato un gioco, né uno scherzo, non è stato piacevole e agli altri bambini non accade. Chi raccoglie la rivelazione deve funzionare come uno specchio e deve rinviare un dato preciso: subire un abuso non è normale. Pertanto è evidente che il bambino sarà portato a rivelare solo se pensa e crede di poter essere aiutato e se capisce che verrà creduto.

 

A chi rivelare l’abuso? Come i bambini scelgono la figura a cui raccontare il trauma

A tal proposito, numerose sono le ricerche che indagano quale sia la persona a cui il bambino sceglie di rivolgersi. Il bambino appare selettivo nella scelta della figura alla quale svelare l’abuso e, in genere, prima della rivelazione vera e propria, “sonda il terreno”, partendo da affermazioni vaghe o periferiche per arrivare, solo in un secondo momento, alla narrazione centrale, la quale avviene solo dopo aver verificato che la persona prescelta sia effettivamente interessata, disponibile ad ascoltare, a credere e aiutare (D’Ambrosio, 2010).

Da alcune ricerche, nello specifico, emerge che quando i bambini decidono di rivelare l’esperienza di abuso sessuale infantile, frequentemente accade con un amico o con un fratello o sorella. Invece, tra tutti gli altri membri della famiglia, le madri sono quelle scelte maggiormente. Invece, poche rivelazioni spontanee vengono fatte alle autorità o ai professionisti durante l’infanzia, ma tra tutti i professionisti, le maestre sono le più probabili (Allnock, 2010).

Studi sulla memoria infantile hanno confermato che, in generale, in situazioni di benessere psicologico e prive di qualsivoglia trauma, i bambini possiedono buone capacità di ricordare e riferire eventi passati, soprattutto per ciò che concerne gli aspetti più centrali e più salienti delle esperienze vissute (Ceci e Friedman, 2000). Al contrario, nei casi di bambini vittime d’abusi, intervengono fattori sociali ed emotivi che possono inibire le capacità di riferire gli eventi subìti e, pertanto, compromettere la memoria autobiografica (Meesters et al., 2000).

La natura stessa delle conseguenze della violenza può condizionare la capacità di narrare gli abusi: le reazioni acquisiscono una sequenza in cui da una fase acuta, caratterizzata da disorganizzazione, disorientamento, sentimenti di vulnerabilità e incredulità, bisogno di isolarsi e senso di annichilimento, si passa a reazioni a breve termine caratterizzate da emozioni ambivalenti di paura e rabbia, percezione di sé come inadeguato, senso di colpa, vergogna e umiliazione (Di Blasio, 2000).

 

Perché l’abuso sessuale infantile viene taciuto?

Tuttavia, da alcune ricerche, è emerso che rivelare gli abusi contribuisce al benessere del minore; ma allora perché i bambini non sempre decidono di rivelare l’abuso? Di fatto, esistono molte ragioni che spiegano il motivo per cui l’abuso viene taciuto e molte altre che spiegano, invece, il motivo per cui viene rivelato.

In particolare, secondo gli studi di Alaggia (2004) e Alaggia e Kirshenbaum (2005), i fattori-chiave, che possono spiegare il motivo per cui un bambino possa decidere di mantenere taciuto l’abuso, sono:

  • L’essere o il non essere creduto;
  • La vergogna, l’imbarazzo e il senso di colpa;
  • La preoccupazione per gli altri, oltre che per se stesso;
  • La paura.

Oltre a queste, esiste un altro fattore di fondamentale rilevanza nella scelta di non rivelare l’abuso subìto: la minaccia e il tema del segreto. Alcuni bambini hanno paura di confidarsi perché l’abusante, ad esempio, li ha convinti che farà del male ai loro genitori o che la madre morirebbe di dolore se lo venisse a sapere, e così via.

Quindi, mantenere il segreto costituisce, di per sé, un evento traumatico, la cui comparsa e le cui conseguenze emotive rimangono, la maggior parte delle volte, sepolte: il segreto pesa sulla persona, pesa su ogni atto, sulla parola e sulle relazioni con l’altro.

 

Il lavoro col terapeuta in casi di abuso sessuale infantile

È facile quindi intuire come questi bambini abbiano bisogno di ricostruire legami di fiducia che li aiutino a “ripulire” la mente da tutte le bugie e le falsità che sono state fatto loro credere. Per questo motivo, spesso la relazione e il lavoro con il terapeuta hanno l’obiettivo di stabilire quel tipo di legame di fiducia, in modo che il giovane paziente possa finalmente liberare la mente e l’immagine di sé dalla colpa di cui pensa di essere responsabile, grazie a quanto fattogli credere dall’abusante.

Pertanto, recuperare i ricordi e integrarli nell’immagine di sé, senza danneggiarla, significa imparare a contrastare le sensazioni di impotenza e di totale perdita di controllo, vissute durante l’esperienza traumatica dell’ abuso sessuale infantile. Alla luce di ciò, diventa ancora più chiaro come la rivelazione, il pensiero e le emozioni a essa legati contribuiscano a migliorare la salute (Hemenover, 2003, D’Ambrosio, 2010).

E dal momento che la rivelazione può risultare indispensabile per interrompere il ciclo di abusi, diviene allora fondamentale per gli operatori che, a vario titolo, entrano in contatto con questi bambini, conoscere e comprendere le caratteristiche del loro racconto che rimane un valido strumento di lettura dell’esperienza e del livello di elaborazione e metabolizzazione della stessa.

Lo yoga: un valido aiuto per la cura della depressione

E’ stata dimostrata l’efficacia della respirazione yoga come terapia aggiuntiva per pazienti che soffrono di disturbo depressivo maggiore e che non rispondono alle classiche cure farmacologiche.

 

Lo yoga come trattamento aggiuntivo per la depressione maggiore

La cura farmacologica tramite antidepressivi viene attualmente considerata come uno dei trattamenti d’elezione per quanto riguarda il disturbo depressivo maggiore (DDM), ma questo tipo di farmaci non sortisce alcun effetto in circa la metà dei pazienti trattati. A tal proposito, recentemente diversi autori hanno proposto di utilizzare la respirazione yoga come terapia aggiuntiva per incrementare l’efficacia dei trattamenti tradizionalmente usati.

In un recente studio pilota, Sharma e collaboratori dell’università della Pennsylvania hanno dimostrato come anche solo 8 settimane di Sudarshan Kriya yoga (SKY), un tipo di pratica yoga che pone particolare attenzione al controllo ritmico dell’atto respiratorio, riescano a portare ad un significativo miglioramento a livello di sintomi depressivi e ansiosi in pazienti con diagnosi di Disturbo depressivo maggiore non responsivi alle classiche cure farmacologiche.

Quanto rilevato dagli autori risulta essere estremamente rilevante, considerando che la depressione risulta essere, da dati Istat di Luglio 2014, il problema di salute mentale più diffuso; infatti si stima che all’interno della popolazione italiana siano circa 2,6 milioni (4,4%) le persone affette da disturbi depressivi, con tassi di prevalenza maggiore all’interno della popolazione femminile e di quella anziana.

Il DSM-5 (APA, 2013) definisce il Disturbo depressivo maggiore come caratterizzato da sintomi quali umore depresso in modo persistente, marcata diminuzione di interesse per svariate attività, perdita o aumento di peso, insonnia o ipersonnia, agitazione o rallentamento psicomotorio, mancanza di energia, sentimenti di autosvalutazione, ridotta capacità di concentrazione e ricorrenti pensieri di morte. Per ricevere una diagnosi di Disturbo depressivo maggiore è necessario che 5 o più di questi sintomi siano stati contemporaneamente presenti per un periodo di almeno 2 settimane.

I farmaci antidepressivi, come gli inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina (SSRI), rappresentano, insieme alla psicoterapia, una delle scelte preferenziali fatte per il trattamento del Disturbo depressivo maggiore, ma, sfortunatamente, non tutte le persone che soffrono di questo disturbo rispondono a questo tipo di terapia, con la conseguente mancanza di benefici a livello sintomatologico. Inoltre, spesso questo tipo di cure farmacologiche, così come le terapie aggiuntive prescritte nel tentativo di aumentarne l’efficacia, comportano una serie di effetti collaterali che vanno ad incidere negativamente sul livello di compliance del paziente, aumentando il rischio di drop out e di ricadute. Risulta quindi molto importante trovare nuove frontiere di trattamento che possano aiutare al meglio le persone a sconfiggere una patologia come il Disturbo depressivo maggiore.

 

Gli studi sull’efficacia dello yoga per il disturbo depressivo maggiore

Proprio a tal proposito, il Dr. Sharma e collaboratori hanno recentemente suggerito che la respirazione yoga possa rappresentare un tipo di approccio efficace, a basso costo e senza l’utilizzo di farmaci aggiuntivi, nel trattamento di pazienti con disturbo depressivo maggiore che non rispondono ai trattamenti tradizionali. Infatti, lo SKY è una tecnica di meditazione focalizzata prevalentemente su esercizi di controllo ritmico dell’atto respiratorio, con lo scopo, alternando respirazioni più lente ad altre più veloci, di armonizzare il ritmo di corpo, mente ed emozioni, consentendo così di eliminare stress, stanchezza ed emozioni negative. In altre parole, il respiro viene utilizzato come tecnica di rilascio dello stress, consentendo alla mente di rilassarsi, di entrare in un profondo stato meditativo e al tempo stesso di ricaricarsi di energia.

Studi precedenti (Mehta & Sharma, 2010; Brown & Gerberg, 2005; Sharma et al., 2005) avevano dimostrato come la pratica yoga risultasse efficace in pazienti con forme lievi di depressione, con depressione dovuta ad abuso di alcool e anche in pazienti con Disturbo depressivo maggiore. A partire da questi studi era emersa la possibilità di utilizzare lo yoga e altre tecniche di respirazione controllata per poter influire in qualche modo sul sistema nervoso, riducendo in particolar modo i livelli di cortisolo, ormone implicato nella percezione di stress. Nonostante questo, però, Sharma et al. (2016) hanno messo in luce una mancanza in letteratura di studi rigorosi e ben progettati che indagassero i possibili benefici dello yoga per il Disturbo depressivo maggiore o se la pratica yoga fosse effettivamente efficace anche in setting ambulatoriali e non solo con campioni ospedalizzati.

All’interno del loro disegno sperimentale, gli autori hanno coinvolto un campione di 25 soggetti adulti con diagnosi di Disturbo depressivo maggiore e con persistenza di sintomi nonostante l’assunzione di terapie farmacologiche antidepressive da almeno 8 settimane. In seguito, seguendo la logica dei Randomized controlled trial, i pazienti sono stati casualmente divisi in due diversi gruppi: un gruppo di SKY per 8 settimane e un secondo gruppo in lista d’attesa.

Ai soggetti all’interno del gruppo di yoga veniva richiesto di partecipare la prima settimana ad un programma di 6 incontri, comprendente esercizi SKY, posture yoga, meditazione e interventi psicoeducativi sullo stress. Per le rimanenti 7 settimane, invece, a questi soggetti veniva chiesto di partecipare ad una sola sessione settimanale di SKY e di continuare a svolgere gli esercizi a casa. Al contrario, al secondo gruppo in lista d’attesa veniva offerta la possibilità di svolgere il medesimo programma yoga al termine delle 8 settimane, fungendo così da gruppo di controllo. Inoltre, entrambi i gruppi hanno portato avanti la cura farmacologica già in atto per tutta la durata dello studio.

Per poter valutare il miglioramento o meno dei sintomi depressivi ed ansiosi, tutti i soggetti sono stati valutati con la Hamilton Depression Rating Scale (HDRS-17), una scala largamente utilizzata a livello clinico per la valutazione di una vasta gamma di sintomi depressivi, sia all’inizio dello studio sia alla conclusione delle 8 settimane di training. Gli autori hanno così potuto evidenziare come all’inizio dello studio i soggetti presentassero un punteggio medio di 22, indicante livelli gravi di depressione. Dopo 8 settimane, invece, il punteggio medio del gruppo SKY risultava essere di 10, a fronte di un mancato miglioramento nel gruppo di controllo. Un risultato analogo è stato riscontrato dagli autori anche con altre scale di misurazione, come ad esempio il Beck Depression Inventory (BDI). Riassumendo, quindi, il gruppo sottoposto a pratiche SKY dopo sole 8 settimane ha mostrato una significativa diminuzione della sintomatologia depressiva, al contrario del gruppo in lista d’attesa.

A parte da questi risultati, quindi, Sharma e collaboratori hanno potuto affermare che lo SKY sembrerebbe essere una promettente terapia aggiuntiva per pazienti con diagnosi di Disturbo depressivo maggiore, ma refrattari alle cure farmacologiche.

Gli autori, in linea anche con studi precedenti (ad es. Sharma et al., 2006) inoltre stanno attualmente pensando di svolgere ulteriori ricerche con lo scopo di indagare l’efficacia dello SKY su un numero più ampio di pazienti, ponendo particolare attenzione a come questa pratica sia in grado di modificare il cervello, sia a livello funzionale che anatomico.

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