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Il Coaching e il life coach: che cos’è e quali benefici produce

Pubblichiamo con piacere questo interessante, equilibrato ed esaustivo articolo sul coaching, un argomento che interessa molti psicologi. Non è però inutile ricordare che il coaching, sicuramente una pratica utile ed efficace in molti campi professionali -come spiega benissimo l’articolo-, non può e non deve essere utilizzato come succedaneo improvvisato di trattamenti psicoterapeutici per la sofferenza mentale. Vale naturalmente anche il contrario: lo psicoterapeuta non può improvvisarsi coach. Buona lettura.

Giovanni Maria Ruggiero, Direttore

 

 

Cos’è il coaching e il life coach?

Il Coaching è una disciplina relativamente nuova in Italia, che ha radici molto più antiche… Socrate invitava a “Conoscere se stessi”; Pindaro era solito salutare i suoi discepoli dicendo: “Diventa ciò che sei”; Parmenide sosteneva che tutto è possibile: “Basta trovare il coraggio di percorrere la via” ed Eraclito affermava: “L’unica cosa permanente è il cambiamento”. Con l’emergere del movimento Umanista, si comincia a parlare di coaching anche nel mondo del business. Ma la reale innovazione è venuta con la fusione tra lo sport e il mondo degli affari, che ha reinventato questo termine. Tim Gallwey (1974) con il suo Inner Game of Tennis fu uno dei primi promotori del coaching nel contesto degli affari, a cui sono susseguiti rapidamente altri coach sportivi di fama notevole, come John Whitmore (campione di corse automobilistiche) il quale vede il coaching come: «il processo di responsabilizzazione degli altri. Per Coaching non intendiamo semplicemente una tecnica escogitata lì per lì e rigorosamente applicata in determinate circostanze: si tratta piuttosto di un modo di guidare e gestire le persone, un modo di pensare, e quindi anche un modo di essere.»; David Hemery (medaglista olimpico del salto ad ostacoli), David Witaker (coach olimpico di hockey).

Il coaching, nel significato moderno, è stato supportato dalla “Teoria dell’apprendimento costruttivo” di Williams & Irwing (2001), la cui credenza centrale è che non esiste una sola vera interpretazione della realtà. Nel coaching il presupposto è la conoscenza e la consapevolezza di sé, delle proprie risorse e delle aree migliorabili. Si tratta di focalizzare mete specifiche per trovare le strategie più adeguate. E’ un progetto di crescita mirato, con traguardi specifici, che facilita il cambiamento, attraverso un percorso autorigenerativo. Il cliente è responsabile di ogni suo passo, il Coach lo aiuta a diventare consapevole dei suoi obiettivi e a realizzarli al meglio.

Il coaching diventa una strada che permette di conciliare il rispetto delle più profonde caratteristiche della persona con l’esigenza dell’organizzazione di ottenere prestazioni sempre più elevate. Non è una “tecnica”, una modalità superficiale e manipolatoria per spremere le persone e ottenere da esse una performance ottimale, ma una filosofia a cui ispirare la relazione, un modo di trattare le persone che consenta a queste di trovare nella performance il risultato di una scelta, l’espressione e la realizzazione di se stesse. Quindi il coaching è uno stimolo e uno strumento di cambiamento sia a livello culturale, sia individuale che organizzativo.

Il Coaching è uno strumento altamente efficace che aiuta le persone a far quadrare il bilancio della propria vita privata o professionale, a migliorare i rapporti con gli altri, scoprendo le strategie più adeguate per raggiungere i propri obiettivi. Quindi il coaching è visto come una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita. La metodologia di coaching adottata dall’ ICF2 prevede che il cliente sia prima di tutto rispettato, sia dal punto di vista personale che professionale, e venga considerato in grado di gestire efficacemente la propria vita ed il proprio ambito lavorativo. Ogni cliente viene visto come una persona creativa e piena di risorse, non a caso le tecniche utilizzate di interazione del coach sono l’ascolto attivo e domande mirate perché danno la possibilità di porsi come facilitatore nei confronti del coachee. Quindi il coaching è concepito per aiutare i clienti a incrementare le loro conoscenze e performance e migliorare la qualità della vita.

Sulla base di ciò, le responsabilità del coach sono:
1. scoprire, rendere chiari ed allineare gli obiettivi che il cliente desidera raggiungere; guidare il cliente in una scoperta personale di tali obiettivi;
2. far in modo che le soluzioni e le strategie da seguire emergano dal cliente stesso;
3. lasciare piena autonomia e responsabilità al cliente.

Quando richiedere un intervento di coaching

Il cliente nel coaching è una persona o un team che vuole raggiungere uno o più dei seguenti punti: un livello più elevato di performance, di apprendimento o di soddisfazione. Il cliente individuale nel coaching può intraprendere delle azioni per muovere verso un obiettivo con l’aiuto del coach; non sta cercando una guarigione emotiva o sollievi da un dolore psicologico; non è, quindi, eccessivamente limitato sotto il profilo delle sue capacità di iniziativa e di azione, né è così insicuro per impegnarsi in questo genere di progresso. La parola “cliente” è usata per definire la persona che usufruisce del coaching, indipendentemente da chi paga il servizio.

Ci sono molte ragioni per le quali una persona o un team possono scegliere di lavorare con un coach, alcune tra le principali sono:
– c’è qualcosa in gioco (una sfida, un obiettivo protratto o una grossa opportunità) ed è urgente, importante o appassionante, o tutte queste cose insieme;
– c’è una lacuna di consapevolezza, di capacità, di fiducia o di risorse;
– e’ stato richiesto un lavoro a pieno regime ed è a stretta scadenza;
– c’è il desiderio di ottenere risultati più rapidamente;
– c’è bisogno di invertire la direzione presa nel lavoro o nella vita personale a causa di un insuccesso;
– il modo di relazionarsi con gli altri non è efficace o non aiuta la persona a raggiungere i suoi obiettivi prioritari;
– c’è una mancanza di chiarezza nella persona a fronte delle scelte da fare;
– la persona ha molto successo e questo successo comincia a diventare problematico;
– non c’è equilibrio tra il lavoro e la vita privata e questo genera delle conseguenze indesiderate;
– la persona non ha identificato le sue potenzialità principali né sa come utilizzarle al meglio;
– la persona vuole che il lavoro e la vita siano più semplici, meno complicate;
– c’è il bisogno e il desiderio di essere meglio organizzati e sapersi meglio gestire.

Chi è il life coach?

Le Competenze del Coach sono:
– Predisposizione all’ascolto e il desiderio di mettersi sempre in discussione.
– Empatia: creare un rapporto empatico con il coachee senza mai sovrapporsi a lui.
– Saper guidare il coachee nell’autorealizzazione e nella consapevolezza di sé. Senza essere giudicante.
– Un coach non dà consigli o pareri, né dà informazioni. Fornisce supporto nel raggiungimento di un risultato. È un allenatore che migliora le prestazioni del proprio cliente.

Le 11 competenze rilasciate dalla ICF sono raggruppate in 4 sottogruppi, così suddivisi:
a) Porre le basi;
1) soddisfare linee guida etiche e standard professionali;
2) stabilire il contratto di coaching;
b) creare insieme la relazione;
3) stabilire fiducia e confidenza con il cliente;
4) presenza di coaching;
c) comunicare efficacemente;
5) ascoltare attivamente;
6) fare domande potenti;
7) comunicazione diretta;
d) facilitare apprendimento e risultati;
8) creare consapevolezza;
9) progettare azioni;
10) pianificare e definire obiettivi;
11) gestione del progresso e affidabilità.

Il coaching include un approccio elogiativo che si fonda sul riconoscimento di ciò che è giusto, di ciò che funziona, di ciò che è desiderato, di ciò che è necessario per arrivare all’obiettivo. L’approccio elogiativo prevede domande basate sulla scoperta, una modalità proattiva (in opposizione a quella reattiva) nella gestione delle sfide e delle opportunità personali, una formulazione costruttiva di osservazioni e feedback finalizzati ad ottenere reazioni positive dagli altri.

Pertanto la relazione è la base del coaching. Il coach e il cliente sviluppano intenzionalmente una relazione che è caratterizzata da un reciproco e crescente rispetto e apprezzamento come persone. Durante ciascun incontro è il cliente stesso a scegliere l’argomento della conversazione, mentre il coach lo ascolta ponendo osservazioni e domande. Questa interazione contribuisce a creare maggiore chiarezza ed induce il cliente a divenire proattivo. Nel coaching si osserva “dove si trova il cliente oggi”, quale sia cioè la situazione attuale di partenza, e si definisce, in comune accordo, ciò che egli è disposto a fare per raggiungere “la meta in cui vorrebbe trovarsi domani”.. Quindi, il coaching si concentra principalmente sul presente e il futuro, non si concentra sul passato o sull’impatto del passato sul presente, usa le informazioni del passato solo per chiarire la situazione presente. Far muovere il cliente in avanti non può dipendere da fatti del passato.

Come si articola un percorso di coaching

Generalmente un percorso di coaching si avvia con un colloquio personale (fatto di persona oppure telefonicamente) per valutare le attuali opportunità e sfide del cliente, per definire le finalità della relazione, per identificare le priorità di azione e per stabilire quali sono i risultati specifici che si vogliono raggiungere. Le sessioni di coaching possono essere condotte di persona (in presenza) oppure al telefono o tramite sistemi audio/video a distanza (es. Skype); la durata di ogni sessione viene concordata preventivamente, e varia, in genere, da un minimo di mezz’ora a un massimo di due ore.

Tra le sessioni di coaching programmate si può richiedere al cliente di compiere determinate azioni che lo aiutino al raggiungimento dei propri obiettivi prioritari. Il coach, inoltre, può fornire risorse supplementari, sotto forma di articoli, questionari, valutazioni o modelli per aiutare la riflessione e l’azione del cliente. La sessione si divide in tre, la prima sessione riguarda l’apertura, che rappresenta il primo impatto sia per il coachee che per il coach. Si stabiliscono le regole dell’incontro e si esplicita la metodologia di lavoro (cioè quanto durano gli incontri, dove si svolgeranno, che costo avranno, in che modo la partnership è coinvolta…). Si sondano le aspettative del coachee per iniziare a fare una analisi della domanda (esempio del coachee: difficoltà a relazionarsi efficacemente con il capo).

Possiamo identificare una seconda fase, la fase centrale del colloquio dove si mettono in pratica le dinamiche della sessione, si pongono le basi per la relazione ed il lavoro sugli obiettivi. In questa fase si raccolgono le informazioni ed i fatti riportati ma si cerca di lavorare concretamente in relazione all’obiettivo del coachee (esempio il coach cerca di farsi raccontare esattamente quando ed in quali situazioni il coachee si sente non efficace nella relazione con il capo).

Infine possiamo individuare una fase finale, il momento della chiusura. In questa ultima fase, si puntualizzano gli elementi più importanti che sono emersi dal colloquio e si stabilisce l’incontro successivo. Si tende a chiudere sempre con un lavoro pratico che il coachee dovrà fare su se stesso (esempio il coachee si impegna “ogni volta che devo incontrare il capo, per evitare di sentirmi impreparato, simulo una riunione/preparo una scaletta di base per una conversazione”). Occasionalmente si possono dare consigli, opinioni o suggerimenti nel coaching. Entrambe le parti capiscono che il cliente è libero di accettarli o declinarli ed è lui che si assume la responsabilità delle azioni da prendere. Un coach può esprimere richieste affinché il cliente promuova azioni adatte a conseguire un risultato desiderato da lui stesso. Il coach non fa tali richieste per stabilire un problema del cliente o per capirne il passato.

Nel coaching le informazioni ottenute dal cliente sono usate dal coach per stimolare la consapevolezza del cliente e aiutarlo a scegliere il tipo di azione. Questi informazioni non sono usate per valutare la performance o fornire relazioni per qualcuno, fuorché per il cliente stesso. Il coaching ha la libertà e la flessibilità per affrontare una vasta varietà di argomenti personali e professionali. In una relazione di coaching, solo il cliente ed il coach determinano il fine del loro lavoro. Il coaching non è necessariamente limitato ad una discussione strettamente delineata. Nel coaching, ogni contributo dato dal coach per produrre il risultato desiderato dal cliente, viene dato attraverso una progressiva interazione con il cliente. Il ruolo del coach non è di produrre un prodotto o un risultato acquisito al di fuori delle sessioni di coaching. Il coaching è studiato per permettere ai cliente di acquisire una maggiore capacità di produrre risultati e una grande fiducia nelle capacità che gli occorrono. Va da sé che i clienti non abbandonano il coaching con la percezione della necessità di appoggiarsi al coach per produrre simili risultati nel futuro.

La durata di una relazione di coaching varia in funzione dalle esigenze della persona o del team: può variare da un minimo di tre sessioni fino a un massimo di nove o dieci mesi. Per alcuni tipi di coaching mirato, può funzionare bene un periodo dai 3 ai 6 mesi di lavoro; per altri tipi di coaching il cliente può trovare proficuo lavorare più a lungo con il coach. I fattori che possono influire sulla durata comprendono: il tipo di obiettivi e di risultati che si vogliono raggiungere, il modo con cui le persone o i team amano lavorare, la frequenza delle sessioni, le risorse finanziarie disponibili per sostenere il coaching.

 

I benefici del coaching e gli ambiti in cui è richiesto

I benefici: l’attività di coaching accelera la crescita dell’individuo in quanto grazie ad essa ognuno giunge a focalizzare in maniera più efficace e consapevole gli obiettivi da raggiungere e le conseguenti scelte da porre in atto. Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita. I clienti che si impegnano in una relazione di coaching possono aspettarsi di sperimentare nuove prospettive di sfide e opportunità personali, un accrescimento nelle capacità di pensiero e nella presa di decisioni. Inoltre beneficiano di un miglioramento nell’efficienza interpersonale e una maggiore fiducia nell’esprimere i ruoli scelti nella vita e al lavoro. In coerenza con l’impegno a migliorare la loro efficienza personale, i clienti che scelgono un coach possono aspettarsi anche di vedere risultati apprezzabili nelle aree della produttività, della soddisfazione personale nella vita e nel lavoro e del raggiungimento di importanti obiettivi personali.

Attualmente il coaching viene applicato in sette differenti tipologie:
Business coaching, che si rivolge a liberi professionisti e imprenditori di piccole e medie imprese;
Executive coaching, per top manager ed executive;
Corporate coaching, per lo sviluppo di manager in azienda;
Career coaching, aiuta ad affrontare scelte professionali;
Team coaching, interviene su gruppi per migliorare la performance, la collaborazione e la realizzazione di progetti comuni;
Personal coaching, lavora direttamente con il cliente su diverse aree della vita privata e lavorativa;
Life coaching, per privati che decidono di migliorare alcune aree della propria vita.

A differenza del corporate e dell’executive coach, già da anni apprezzati e ricercati da grandi e medie aziende, il life coach è una figura nuova che in Italia si sta sviluppando solo negli ultimi anni. Si occupa soprattutto di tematiche inerenti la sfera della vita privata della persona, e in termini italiani potremmo definirlo un “allenatore della vita”.

 

Conclusioni

Il life coach è un professionista prezioso per tutti coloro che hanno bisogno di risolvere problemi specifici di cui sono già consapevoli, ma anche per coloro che desiderano una migliore qualità della vita e non sanno esattamente su quale aspetto focalizzarsi per poter raggiungere un’armonia generale e un senso di benessere. Il life coach ha quindi un’esperienza non solo nel campo professionale ma anche su tematiche legate al privato.
Il compito di un life coach è quello di aiutare l’individuo a mettere in luce le aree della vita privata che richiedono un maggiore impegno, motivazione o qualche cambiamento. Il compito del cliente, invece, è quello di impegnarsi a seguire le proprie scelte e a mettere in pratica le azioni programmate. Naturalmente, se non c’è la volontà da parte di un individuo di impegnarsi in un percorso di coaching, il lavoro del coach non porterà nessun beneficio.

Una caratteristica fondamentale del life coaching è che il coach non spinge il coachee a ripercorrere le esperienze passate, a focalizzarsi su questioni irrisolte, né tantomeno tenterà di affrontare problematiche di tipo psicologico, bensì parte dal presente per spostarsi verso il futuro, focalizzandosi esclusivamente sulla persona. Indipendentemente da ciò che costituisce la storia di ognuno di noi, secondo la filosofia del coaching, è possibile costruire una strategia personale che possa portare verso un risultato desiderato. L’insieme di azioni, la verifica di ogni passo successivo, la consapevole assunzione di responsabilità, fa sì che ogni cambiamento possa essere duraturo. Il coach non dà suggerimenti e soprattutto non giudica, offre piuttosto un’aspettativa esterna che sostiene il suo cliente e le sue scelte.

Le aree su cui si può intervenire insieme a un life coach sono molte e varie, come relazioni interpersonali, gestione del tempo, equilibrio tra vita privata e lavoro, rimozione di idee bloccanti che impediscono di agire come si vorrebbe, ma anche sviluppo personale e capacità di affrontare eventi straordinari. Tutti questi temi, a volte anche delicati, possono essere affrontati con estrema serenità grazie alla fiducia, la riservatezza e il rispetto, che vengono garantiti dalla relazione di coaching e che sono essenziali per la realizzazione di un percorso efficace.
Un percorso di life coaching ha una durata variabile a seconda del tema da affrontare e degli obiettivi prefissati.

Dott.ssa Simona Di Paolo

Il nuovo libro delle storie sociali (2016) di C. Gray – Recensione

Il nuovo libro delle Storie Sociali è dedicato proprio all’insegnamento delle tecniche e dell’arte di sviluppare Storie Sociali, che, per potersi definire tali, devono rispettare 10 criteri.

 

Le Storie Sociali: create per i bambini con autismo

Esse sono state ideate nei primi anni ‘90 da Carol Gray che, occupandosi dell’educazione di bambini autistici, ha cercato di ideare uno strumento efficace per promuovere la loro comprensione sociale e migliorare la loro capacità di diventare soggetti attivi nella vita quotidiana.

L’obiettivo delle Storie Sociali non è certo quello di correggere un comportamento sbagliato bensì di fornire in modo significativo e sicuro quelle informazioni che permettono di scegliere tra più risposte funzionali; il miglioramento comportamentale è sì atteso ma solo in virtù di una migliore comprensione dell’ambiente fisico e sociale in cui il destinatario è inserito.

Nel momento in cui il bambino autistico inizia infatti a sviluppare abilità di pensiero astratto e capacità relazionali, le tradizionali tecniche comportamentali che fino ad allora probabilmente avevano caratterizzato il suo programma di apprendimento, centrato su stimoli e risposte (prompting, fading, modeling …), non sono più sufficienti. È utile iniziare a prestare una maggiore attenzione ai comportamenti emessi in base ai contenuti di pensiero e le Storie Sociali sono un’utilissima risorsa in tal senso.

 

Il nuovo libro delle Storie Sociali

Il nuovo libro delle Storie Sociali è l’ultimo di una serie di contributi dell’autrice che negli anni ha sempre cercato di migliorare le caratteristiche di questa strategia di intervento, sulla cui efficacia non ci sono più dubbi: le Storie Sociali, se costruite rispettando fedelmente le linee guida, funzionano.

Proprio per questa ragione Carol Gray dedica le prime pagine di questo suo ultimo lavoro per accompagnare il lettore ad un utilizzo consapevole e corretto delle risorse contenute nel libro.

Il capitolo Tutorial 10.2  de Il nuovo libro delle Storie Sociali è dedicato proprio all’insegnamento delle tecniche e dell’arte di sviluppare Storie Sociali, che, per potersi definire tali, devono rispettare 10 criteri.  Ad ogni criterio è dedicato un tutorial, composto dalla descrizione del criterio, da una sua breve discussione, da un’attività che consente di confrontarsi operativamente con esso, dalle risposte corrette riguardo l’attività  precedente e dalle note conclusive.

Affrontare il tutorial permette di comprendere quanto dietro la semplicità di fruizione di una Storia Sociale ci sia un lavoro attento, curato e rigoroso, assolutamente essenziale per garantire l’offerta di un intervento basato sull’evidenza scientifica.

Il libro contiene a seguire 185 storie sociali, scritte dall’autrice per i bambini e i ragazzi con cui ha lavorato, suddivise in capitoli sulla base dell’argomento che trattano. Potrebbero essere riproposte così come sono anche se la maggior parte di esse si prestano a una facile personalizzazione grazie alla voluta ridondanza di informazioni con cui l’autrice ce le presenta. È  piuttosto facile infatti immaginare di omettere alcune frasi di storia, senza modificarne  la struttura portante e conservando gli elementi essenziali definiti dai criteri di realizzazione.

L’utilità operativa di questa preziosa risorsa è dunque fuori discussione ma la lettura di tutte le Storie Sociali è utile anche per comprendere la visione che gli autistici hanno del mondo che li circonda e spesso li opprime.

Un libro per tutti.

La malattia oncologica e l’impatto sulla famiglia: effetti ed interventi

Quella della malattia oncologica rappresenta un’esperienza di vita dolorosa e traumatica, che implica cambiamenti significativi che coinvolgono non solo il singolo malato, ma anche tutto il sistema familiare che si muove attorno a lui. Infatti, eventi che creano ostacoli e difficoltà per la famiglia, e per questo considerabili come vere e proprie crisi, si verificano durante tutto il suo ciclo di vita, tuttavia quella della malattia oncologica rappresenta un’esperienza estremamente complessa da affrontare, che crea sfide nuove e spesso inaspettate.

Laura Pizzacani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Malattia oncologica: l’impatto sulla famiglia

È alla luce di questi mutamenti che si evince l’importanza dell’ambiente familiare, che fornisce il contesto di adattamento in cui la persona reagisce alla diagnosi e valuta l’evento e le proprie capacità di farvi fronte, il tutto in relazione ai significati di cui quella famiglia è portatrice, significati che vengono appresi e trasmessi per via trans-generazionale. In queste condizioni, la storia della patologia e della sofferenza ad essa connessa diventano così prorompenti da interrompere il normale ciclo di vita di tutti i membri del nucleo, imponendo la necessità di preservare sia la propria identità a fronte di tale stravolgimento, come singoli e come membri del gruppo, nonché di adattarsi alle conseguenze più o meno catastrofiche che emergono.

Un approccio corretto al percorso che la patologia inevitabilmente implica, perciò, dovrebbe considerare come essenziali sia i cambiamenti esperiti dal paziente, che quelli che vedono coinvolta la sua famiglia, in un’ ottica multidimensionale che integri l’attenzione al piano fisico con quella per gli aspetti psicologici e pratici.

Numerose ricerche (Rolland, 2005; Valera, Mauri, 2008; Biondi et al., 2014) dimostrano come nel percorso di malattia oncologica si possano identificare tre macro-fasi, ciascuna caratterizzata da specifici bisogni e compiti di sviluppo per tutti coloro che fanno parte della famiglia. Esse possono essere così distinte:
1) fase seguente alla diagnosi, definibile anche come fase di “crisi”: riguarda il periodo iniziale, in cui si viene a conoscenza della diagnosi e si rende necessaria la prima forma di adattamento all’evento inaspettato. È caratterizzata da livelli molto alti di stress, associati ad ansia e depressione sia per il malato, che per i familiari, che iniziano a percepire la difficoltà della gestione emotiva e pratica della situazione stressante, risultando così vulnerabili su più fronti.
2) fase di progressione della malattia oncologica, caratterizzata dal peggioramento dei sintomi, nonché da un decadimento più o meno grave delle funzioni del paziente e un conseguente aumento della sua dipendenza. In questo stadio la famiglia si sforza di mantenere, non senza difficoltà, l’apparenza di una vita normale. Sarebbe perciò utile incoraggiare l’autonomia di ogni suo membro e l’elaborazione dei sentimenti di rabbia e perdita esperiti in relazione al cambiamento, prevenendo circoli viziosi caratterizzati da vergogna e senso di colpa per le emozioni provate, e favorendo lo sviluppo di modalità relazionali più funzionali tra i membri della famiglia.
3) fase terminale della malattia oncologica, in cui, in caso di guarigione, si può elaborare il vissuto connesso all’esperienza e favorire l’inizio di un nuovo “capitolo” di vita slegato dall’ansia e dalla preoccupazione costante, mentre nel caso in cui sia la famiglia che il malato debbano accettare l’idea della fine e della separazione, l’aiuto degli esperti può permettere di far vivere questa fase come un’opportunità di condivisione finale e di riorganizzazione globale del proprio percorso, preparandoli ad affrontare il lutto.

Queste fasi temporali della malattia oncologica possono essere considerate come periodi che portano con sé richieste di sviluppo supplementari e più specifiche rispetto a quelle comunemente affrontate. In particolare nelle ultime due, sia il carico di lavoro oggettivo, dato dalla riduzione del tempo libero e dall’alterazione della routine familiare, che quello soggettivo, dato dalle conseguenze psicologiche connesse alle modalità con cui si è affrontato “l’evento malattia”, determinano una profonda stanchezza per malato e familiari/caregiver.

 

Effetti della malattia oncologica sul paziente

La malattia rappresenta per ciascuno di noi una minaccia per la propria esistenza fisica, perciò la reazione che solitamente si osserva in seguito ad una qualunque diagnosi grave corrisponde ad un vero e proprio “shock da trauma”, che dà luogo ad una transizione dall’idea di sé come persona, all’idea di sé come malato, con una traiettoria di vita incerta e con un corpo che può “tradire” (Costantini, Leverson, Bersani, 2014). Ansia, depressione o rabbia rappresentano delle risposte comuni degli individui all’esperienza che stanno vivendo, e sono assolutamente normali entro certi livelli, tuttavia quando l’intensità di tali emozioni è eccessiva, le reazioni sono relativamente indipendenti dallo stimolo stesso, e devono essere trattate per evitare di minare ulteriormente la capacità del soggetto di funzionare a livello psicologico, sociale e relazionale.

Il permanere di queste emozioni disfunzionali ad alti livelli di intensità, infatti, non fa altro che ridurre la capacità di affrontare i temi principali connessi alla malattia oncologica, tra cui spiccano l’incertezza dovuta al non sapere quale sarà il proprio destino, che già di per sé rappresenta una delle principali fonti di ansia; la capacità di mantenere un buon livello di autostima e il confronto con la dipendenza dagli altri creata da effetti collaterali e difficoltà fisiche.

È bene evidenziare come tutti gli aspetti sopracitati, connessi alla scoperta e al processo di elaborazione della malattia oncologica, nonché alla modalità con cui vengono affrontati i problemi insorti, debbano essere considerati anche alla luce delle caratteristiche di personalità del paziente, aspetto che influenza fortemente la gestione dell’evento in termini personali, e dei rapporti con i familiari e con gli specialisti. Ad esempio, pazienti con tratti di personalità iper-vigilanti, controllanti e ossessivi, potrebbero non accettare di non avere più la gestione completa di sé e del proprio corpo, oppure soffrire particolarmente la mancanza di risposte precise a tutte le loro domande; i pazienti con tratti dipendenti, invece, potrebbero necessitare di costante supporto, ancor più che in situazioni di normalità, finendo per “aggrapparsi” ai familiari o al personale medico ed infermieristico e provocando una loro reazione negativa o rabbiosa, che li farebbe sprofondare in un senso di solitudine e incapacità estremo (Biondi, Costantini, Wise, 2014).

 

Effetti della malattia oncologica sul caregiver

I familiari che ricoprono funzione di caregiver, ossia coloro che si prendono cura e si occupano più attivamente del malato, rivestono un ruolo cruciale in quanto rispondono ai bisogni del paziente sia sul fronte delle cure di base, che su quello emotivo. Questo implica, per loro, l’esposizione ad una serie di fattori stressanti che determinano l’insorgenza di disturbi di tipo fisico e/o psicologico, soprattutto in quelli che sono meno pronti all’utilizzo di efficaci strategie di coping o che faticano ad affrontare il tema della malattia.

Troppo spesso, però, il ruolo dei caregiver e le loro funzioni sono sottovalutate, trascurando i sintomi di stampo ansioso o depressivo di cui possono soffrire a seguito di questa assunzione di responsabilità, sintomi che possono permanere anche per mesi dopo la fine del compito di assistenza.
Questo rende necessario allargare il concetto di burden o carico di malattia, inteso come l’insieme del contributo dei fattori di rischio per lo stato di salute (World Health Organization, 2000), dal singolo paziente alla figura del caregiver, considerando l’insieme delle incombenze da lui percepite, sia in termini di tempo, che di sforzo fisico e mentale necessario per occuparsi di un’altra persona.

Più specificatamente, per identificare al meglio il livello di burden esperito dal caregiver, se ne possono considerare i diversi aspetti che lo determinano (Zavagli et al., 2012):
– aspetti oggettivi, relativi alla restrizione di tempo per sé;
– aspetti evolutivi, ossia connessi alla sensazione del caregiver di essere escluso dalle opportunità che la maggior parte dei propri coetanei o conoscenti hanno;
– aspetti sociali, relativi al cambiamento di ruolo in ambito intra ed extra familiare ;
– aspetti emotivi, associati ai sentimenti di vergogna e rabbia nei confronti del malato, nonché al conseguente senso di colpa in relazione a queste stesse emozioni esperite.
Proprio questi ultimi elementi, di natura emotiva, sono stati messi in luce solo negli ultimi anni, a fronte della crescente consapevolezza degli effetti che la condizione di vita del caregiver determina sui vissuti di ansia e/o depressione che dipendono prettamente dalla responsabilità data dalla necessità di assistenza e dall’incertezza sul futuro del proprio caro, e che conducono, in coloro che dispongono di strategie di coping meno efficaci, ad alti livelli di rimuginio.

 

Valutazione di bisogni e livello di burden del caregiver

Per far fronte alla possibilità di fornire al caregiver un supporto psicologico più strutturato e finalizzato, è bene effettuare un’ adeguata valutazione delle sue condizioni e dei bisogni di cui è portatore. Ciò è reso possibile sia dall’utilizzo di strumenti di valutazione unidimensionali, finalizzati ad indagare costrutti specifici quali ansia o depressione e i livelli ad essi associati, sia strumenti multidimensionali, che analizzano le reazioni psico-fisiche del familiare a diversi livelli e con maggiore complessità.

Strumenti unidimensionali utilizzabili:
1) STAI-Y State Trait Anxiety Inventory, consente di valutare il livello di intensità di ansia di stato e di tratto;
2) PSWQ Penn State Worry Questionnaire, indaga la tendenza a rimuginare, e può essere utilizzato con il caregiver per verificare se questo fenomeno sia presente e quanto influenzi le sue capacità di coping;
3) BDI-II Beck Depression Inventory, finalizzato a misurare l’intensità della depressione.

Strumenti multidimensionali utilizzabili:
1) CRA Caregiver Reaction Assessment, favorisce la misurazione delle reazioni positive e negative dei caregiver all’assunzione di questo ruolo, attraverso un questionario che valuta entrambe queste dimensioni (impatto positivo sull’autostima personale, ma anche aumento di impegni, difficoltà economiche, mancanza di supporto familiare). Nel complesso, valuta le esperienze dei caregiver in cinque dimensioni: attività quotidiane, situazione finanziaria, rapporti di parentela, percezione della salute, autostima personale;
2) CNA Caregiver Need Assessment, questionario costruito per indagare i bisogni relativi all’assistenza percepiti dai caregiver nel momento di assunzione del ruolo, attraverso l’analisi di bisogni emozionali, fisico-funzionali, cognitivo/comportamentali, relazionali, sociali/organizzativi e spirituali;
3) CBI Caregiver Burden Inventory, strumento di valutazione del carico assistenziale che prende in considerazione i vari aspetti del burden (oggettivo, evolutivo, fisico, sociale ed emotivo).

 

Trattamento psicologico per la “famiglia oncologica”

Coloro che si occupano dei servizi sanitari dovrebbero essere consapevoli della complessa interazione tra malattia biologica e stato psicologico del malato, nonché degli effetti che la patologia crea a livello psicologico e relazionale. La conoscenza approfondita di questi fenomeni consentirebbe di programmare interventi di sostegno idonei, finalizzati a migliorare la collaborazione tra i membri della famiglia stessa nonché tra la famiglia e i curanti, e a favorire una migliore elaborazione degli eventi o delle fasi più critiche che questi si trovano ad affrontare.

Infatti, è bene considerare come, nello sviluppo della malattia, i comportamenti individuali e gli stili relazionali di ciascuno si influenzino in modo reciproco secondo una serie di feedback, i quali fanno sì che valori, credenze, comportamenti e stili di pensiero dei membri della famiglia si connettano tra loro secondo una logica complessa di interazioni reciproche, determinando la costruzione di schemi di risposta adattiva, comportamentale ed emotiva modulati dalla storia di ciascuno (Rolland, 2005).

Per meglio comprendere come procedere nel lavoro con i malati oncologici e i loro parenti, è necessario prima di tutto cogliere una serie di aspetti fondamentali: chi prendere in carico, considerando di quale paziente o famiglia si tratti; in quale fase di malattia ci si trova; chi ha diagnosticato lo stato di disagio e perché ci ha inviato i pazienti (Cianfarini, 2010).

Il primo aspetto ci consente di coinvolgere nel lavoro di supporto e/o terapeutico tutti coloro che sono attivamente coinvolti in quel terremoto emotivo costituito dalla malattia oncologica, che modifica progetti e aspettative future di ciascuno.

Successivamente, sarebbe bene chiedersi in quale fase della sua evoluzione si trovi la famiglia e se vi sia la presenza di disturbi pregressi a livello individuale o comunicativo-relazionale nel gruppo, perché ciò condizionerebbe la decisione di chi prendere in carico e di come procedere nel lavoro.
In ultima istanza, sarebbe bene cogliere in che fase della malattia ci si trovi per identificare quali possano essere le priorità che richiedono un intervento immediato: se i pazienti sono in fase di diagnosi, momento in cui maggiormente si attivano le reazioni emotive più forti, con sensazioni di smarrimento, perdita di controllo, impotenza, paura e dolore, l’intervento psicologico contribuirà ad aiutare ad abbassare il livello di arousal emozionale, che essendo molto alto per tutti, può alterare la capacità di recepire e valutare l’emozione in modo adeguato. Qualora, invece, ci si trovasse già in fase di gestione della malattia, l’intervento potrebbe essere più approfondito e focalizzato sull’accettazione ed elaborazione dell’esperienza.

Gli interventi a finalità supportiva o terapeutica da proporre successivamente possono diversificarsi a seconda del setting e dell’orientamento seguito, e sono da selezionare sulla base delle caratteristiche di personalità e delle esigenze del singolo e del nucleo d’appartenenza:
– terapia di gruppo per il paziente o gruppi di auto mutuo aiuto per i caregiver: ha l’obiettivo di facilitare la capacità di affrontare il dolore e incoraggiare la rivisitazione delle priorità per il futuro attraverso la condivisione di esperienze e vissuti in un ambiente supportivo e non giudicante.

Attraverso il lavoro in gruppo si intende favorire anche il miglioramento della relazione di cura con il personale medico e prevenire l’evoluzione in senso depressivo delle emozioni negative iniziali.
– terapia familiare: ha come obiettivo l’ottimizzazione del funzionamento relazionale della famiglia attraverso la promozione di una comunicazione efficace, di una maggiore coesione e di una soluzione adattiva dei conflitti. La capacità della famiglia di fare fronte ad alcune difficoltà specifiche di ciascuna fase è influenzata da aspetti del suo funzionamento: apertura della comunicazione, flessibilità della struttura familiare, adattabilità e capacità di riorganizzazione dei significati personali connessi alla malattia oncologica, risposta a temi esistenziali e di mortalità. (Biondi et al., 2014)
terapia cognitiva-comportamentale: la CBT può essere utilizzata efficacemente per trattare disturbi depressivi e/o ansiosi nei pazienti affetti da un tumore o nei loro parenti più prossimi. L’efficacia della CBT è data dal fatto che dà la possibilità di lavorare per passi risolvendo di volta in volta i problemi di natura emotiva che possono insorgere, focalizzandosi sul problem solving e sull’azione mirata sui pensieri negativi e disfunzionali, riducendo ruminazione o rimuginio.
– tecniche di rilassamento e mindfulness: sono utili soprattutto per la gestione di tutte quelle fasi di attesa che difficilmente possono essere modificate, come quella degli esiti di un esame o dei risultati di un intervento o trattamento, eventi che aumentano esponenzialmente i livelli di ansia e distress psicologico. Le tecniche di rilassamento, da praticare inizialmente con una guida esperta, e successivamente anche in autonomia, consentono di ridurre i sintomi fisiologici connessi all’ansia e l’oppressione emozionale, aumentando la qualità della vita dei pazienti. La mindfulness, invece, permette di concentrarsi sul momento presente e di liberarsi da pensieri negativi e ansietà circa il futuro.

A prescindere dal tipo di orientamento del lavoro svolto, risulta evidente la presenza di obiettivi comuni, tra cui il bisogno di empowerment e sostegno alla famiglia e al paziente, le cui potenzialità positive sono limitate da dinamiche personali ed interpersonali spesso disfunzionali. L’attività di supporto psicologico, di gruppo o individuale che sia, offre infatti uno spazio protetto in cui riconoscere le difficoltà esistenti ed affrontarle nel migliore dei modi. Per farlo, ci si concentrerà sullo sviluppo di maggiori abilità comunicative e di scambio, sulla facilitazione dell’espressività emotiva e sulla condivisione delle emozioni determinate dall’esperienza vissuta, nonché, nei casi più complessi, di ristrutturazione cognitiva dell’esperienza di malattia.

Scegliere la scuola di specializzazione in Psicoterapia: un’esperienza personale

La complessa scelta della scuola di specializzazione in psicoterapia: il racconto di un’esperienza personale

Tanti tra i giovani neolaureati psicologi, affrontano la scelta della scuola di specializzazione in psicoterapia con apprensione, ma anche con tante aspettative, essendo per molti fortemente determinante per il proprio futuro lavorativo. Tale scelta è tanto onerosa quanto complessa, soprattutto perché le Scuole riconosciute dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in Italia sono circa 500 e sono oltre 21 i principali approcci terapeutici, diversi per presupposti, metodologie e tecniche.

 

Dopo la laurea in psicologia: scegliere la scuola di specializzazione in psicoterapia

Il viaggio formativo del giovane psicologo, non finisce con la laurea, anzi forse incomincia veramente dopo. Quando ho finito il mio percorso universitario, avevo abbastanza chiaro in mente che tipo di professionista mi sarebbe piaciuto diventare, quali erano le mie risorse e quali invece le cose su cui dover lavorare, ma tanti erano anche i pregiudizi su molte scuole di specializzazione e i dubbi sulla mia professione primo tra i quali: “Cosa differenzia veramente un professionista da un amico sufficientemente saggio ed empatico?” e ancora :“Oltre all’inquadramento diagnostico COME si costruisce e si attua un percorso terapeutico?”.

Se è vero, come ripetono in tanti, che l’approccio psicoterapeutico che scegliamo è come “un vestito che ci si deve sentire addosso”, il quesito è: come scegliere quel vestito? Questo giustamente nessuno te lo dice, è una cosa che devi scoprire e sentire da solo. E allora leggi, ti informi, ascolti dei consigli, frequenti gli Open Day delle scuole di specializzazione in psicoterapia e speri di fare la scelta giusta per te. Così è successo a me. Ho scelto una scuola, ho fatto il primo anno e l’esame e, nel frattempo, ho preso la difficile decisione, insieme ad altri colleghi, di andare via da una scuola di specializzazione che non rispecchiava l’offerta formativa che ci aspettavamo. Sentivo l’esigenza di trovare infatti una scuola che mi desse uno stabile assetto teorico, che fornisse scientificità e metodo alla mia professione e che utilizzasse la relazione terapeutica, non solo come cornice ma anche come strumento di cura.

 

Frequentare i corsi per un weekend, per scegliere la scuola di specializzazione in psicoterapia

Così è iniziata la mia avventura alla Scuola Cognitiva di Firenze. Quello che per me è stato fondamentale, inizialmente, per intraprendere la nuova scelta, è stata l’accoglienza autentica che ho trovato nel mio colloquio di ammissione con una didatta e soprattutto la possibilità di poter frequentare un intero week end di lezione tra gli studenti, quelli che hanno poi hanno formato la mia classe. Questo è quello che consiglio a tutti: non fermatevi con gli Open Day delle scuole di specializzazione, chiedete agli studenti che già frequentano ed esplorate con mano l’offerta formativa che vi viene proposta.

Una cosa che posso sottolineare con entusiasmo è che ci è stato fornito prima di tutto uno strumento e un metodo di lavoro, fondato su un buon inquadramento diagnostico, fine formulazione e condivisione di un modello di funzionamento del paziente, indispensabile per la creazione di un progetto terapeutico che sia individualizzato e specifico per il paziente stesso. Tutto questo è stato favorito da un’organizzazione della formazione teorica chiara e ben divisa per anni e argomenti che ha visto, ordinatamente illustrati, la clinica e il trattamento dell’Asse I e dei relativi protocolli, dell’Asse II, fino all’area traumatica e della dissociazione.

L’apprendimento di noi studenti è stato inoltre implementato, dall’alternanza tra parti teoriche di lezione frontale e parti pratiche all’interno di ogni giornata di scuola. Ricordo ancora l’evitamento iniziale di ognuno di noi quando i docenti chiedevano chi si volesse offrire nel simulare il terapeuta che si è poi ben presto trasformato nella consapevolezza dell’importanza di questi momenti. Tali esercitazioni di psicoterapia, sono state infatti indispensabili, non solo per applicare una tecnica, ma soprattutto per imparare a fare restituzioni al paziente in un modo per lui comprensibile, per imparare a gestire i tempi della seduta e ancora di più, per modulare i propri stati interni nel colloquio, capacità che solo le esercitazioni pratiche o l’esperienza ti permettono di implementare. Quello che ci è stato offerto, inoltre, è stato un assetto teorico sempre aggiornato, con la possibilità di frequentare Workshop o piccoli moduli specifici per determinati argomenti o per i vari trattamenti per i Disturbi di Personalità, che appartengono al panorama cognitivo di Terza Ondata.

Una delle cose che ho apprezzato maggiormente è stato il clima di accoglienza apertura e dialogo che si respirava tra studenti e didatti della scuola di psicoterapia e il superamento delle vecchie divisioni ideologiche tra psicologi e psichiatri, che ha visto la creazione di un linguaggio condiviso e di un lavoro di rete con tanti professionisti e tra tanti alunni all’interno della scuola. E’ stato inoltre importante per noi studenti che la Scuola fosse prima di tutto anche un Centro di Psicologia Clinica e di Psicoterapia, attivo sia nella ricerca che nell’attività clinica, caratteristica questa che permette di valorizzare i propri studenti e venire incontro alle loro esigenze di formazione pratica.

 

Il programma di psicoterapia solidale e la formazione in psicoterapia

Negli anni, è stata infatti attivata la possibilità di offrire agli studenti a partire dal terzo anno, almeno un paziente da prendere in cura a tutti gli effetti, che partecipava al programma di Psicoterapia Solidale (psicoterapia a tariffa agevolata), sotto la supervisione di gruppo settimanale dei didatti esperti della scuola e gratuita per gli psicoterapeuti in formazione, oltre quella offerta durante le lezioni. Questa, a tutti gli effetti è stata un’esperienza incredibile di apprendimento e formazione, parallela al percorso di studio per ognuno di noi.

Quello che più ricorderò di questa mia formazione è la mia classe, il crescere con loro, partecipare ai gruppi di ricerca, collaborare e presentare i lavori creati da noi, ma soprattutto vederci diventare colleghi e poi amici, favorendo così anche un ottimo lavoro di rete. E’ grazie alla costruzione di un gruppo classe supportivo, accogliente e validante, favorito prima di tutto dai didatti e dal codidatta che hanno sempre stimolato la cooperazione e mai la competizione, che si è potuto creare quel clima di sicurezza e fiducia, che ha permesso inoltre, di lavorare anche sui nostri temi dolorosi, con profondo rispetto per i tempi di ognuno. Quanto sottolineato ci ha fatto crescere negli anni come psicoterapeuti e individui con più consapevolezza e ha costituito la parte più importante di questo mio percorso. In tutto questo, è importante dire che non è la Scuola che fa il terapeuta. Ogni scuola ha i suoi meriti e difetti, sta allo psicologo in formazione, realizzare con consapevolezza, perseveranza, amore e personalità il progetto di diventare uno psicoterapeuta sufficientemente aggiornato, preparato e un professionista autentico. Quindi, auguro a tutti gli studenti come me, di trovare il loro “vestito”  e un buon gruppo di lavoro e soprattutto di completare il proprio percorso con l’ entusiasmo e la voglia di continuare a imparare  a fare in nostro complesso ma appassionante lavoro .

 

Daniela Biagini

Psicologa, Specializzanda IV Anno Scuola Cognitiva di Firenze

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Scuola Cognitiva di Firenze - Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Iron Man ha l’Audi TT che a me ingiustamente manca – Racconto

Cosa c’è al livello successivo di Super Mario?”, mi chiedo spesso. “Il mostro”, mi rispondo. Il mostro che io voglio raggiungere e sconfiggere. È il mio destino, in un certo senso. Un destino che però non scelgo mai.

Un racconto ispirato dal libro “L’illusione del Narcisista” di Giancarlo Dimaggio

 

Succede sempre così, non sono io a decidere il videogioco da mettere nella Playstation. Qualcuno lo inserisce per me. Mi dicono: ehi, puoi farlo, sei bravo, abbiamo bisogno del tuo talento. E io inizio a giocare. Solo per sfida. Livello dopo livello. Ogni lavoro l’ho trovato così. Voglio dire: non l’ho trovato io, sono stato cercato.

Mentre entro in ufficio un ragazzino mi ferma: “Ehi, rassomigli a Tony Stark”. Gli credo. Iron Man è il mio modello. Mi sento di buon umore, corazzato, invincibile. Dovrei ordinare un Audi TT per completare il quadro. Mi irrita molto non avere disponibilità di liquidi al momento.

Ho speso troppo per Ludmilla, mi dico. Ma ne vale la pena. Mia moglie si chiede dove finiscano i soldi che guadagno con la catena di ristoranti di cui sono socio. Mi tocca imbastirle delle scuse, le sciorino conti che lei non capisce e, anche se il sospetto non le passa, le tolgo gli argomenti.

Ludmilla ha occhi azzurri, una bellezza eterea, mezzo sangue ucraino, intuisce tutto quello che desidero. Mi preoccupa la sua sensibilità, a volte è così fragile: indulge nell’aperitivo alle cinque del pomeriggio. Lo prendo anch’io, ma io lo controllo. Le ho detto che rischia di diventare alcolista, credo abbia capito. Rimproverandola, mi prendo cura di lei.

Guardo l’acquario che ho fatto installare da poco, mi dà pace e mi distrae dagli imbecilli a cui sorrido e con cui tutti i giorni mi tocca lavorare, un lavoro che faccio perché il socio di maggioranza mi ha detto: vieni con me, tu puoi farlo. La solita storia: mi ha lusingato, ho accettato. Vengo sempre scelto così e accetto. Perché sentire che mi ammirano è l’unico motore di vita che mi tira avanti.

Ultimamente il socio di maggioranza è scontento di me, dice che non mi impegno. Moralista che non è altro. Come se avessi bisogno di impegnarmi, come se non bastasse il mignolo della mia mano sinistra per fare un lavoro migliore di tutto il resto del team messo insieme. E forse è quello che lo porta a criticarmi, sbagliando naturalmente. L’invidia che inevitabilmente ronza intorno a me.

Mi ha chiesto di trattare con i cinesi per aprire delle sedi da quelle parti, una sorta di ultima chance. A me non piacciono i cinesi, ci invadono e non capisco che significano le loro espressioni facciali. Un sorriso è un sorriso o una minaccia di taglio di una mano? La fanno facile quelli che si fanno eleggere con i muri anti-immigrati. Costruitelo voi un muro anti-cinesi. Dove lo mettere? A parte che la muraglia se l’erano costruita già da soli. E per un be po’ ha funzionato. Ora fa acqua da tutte le parti a quanto pare. Ci stanno comprando tutti e noi gli vendiamo le cose senza neanche capire che significa quello che hanno scritto in faccia. Iron Man li combatte, a me tocca farci affari. Forse ho trovato il senso del mio lavoro: il mostro sono i cinesi. Li devo battere. Super-Mario contro Zung-Mung-Li.

Ho pronte condizioni vantaggiose. Entro in sala riunioni. Non vedo cinesi. Ci sono Ludmilla e mia moglie.  Farei per presentarle, ma già si conoscono. Non dovevo fidarmi di Ludmilla. Pare si sia risentita quando le ho dato dell’alcolista. Un bastardo narcisista sprezzante mi ha detto che sono, e che era il caso che mia moglie lo sapesse.

Il bilancio della giornata: riunione saltata, cinesi a casa, e io non vedo ora con quali soldi potrei comprare la mia Audi TT, quel gioiello che, in tutta franchezza, mi spetterebbe per diritto. Sono irritato.

Perché iniziare una psicoterapia: superare i disturbi psicologici si può, l’esempio del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre

Circa una persona su cinque, nel corso della vita, ha soddisfatto i criteri diagnostici per almeno uno dei disturbi psicologici più conosciuti. Per questo l’obiettivo del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre è garantire adeguati percorsi psicoterapici a chi, in un particolare momento della propria vita, può andare incontro a disturbi psicologici, quali ansia e depressione.

 

 

Disturbi psicologici più frequenti: ansia e depressione

I disturbi psicologici maggiormente diffusi nella nostra società riguardano la dimensione ansioso-depressiva.

In Italia il primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali nell’ambito del progetto europeo European Study on the Epidemiology of Mental Disorders (ESEMeD) ha confermato che i disturbi mentali sono frequenti anche in Italia, al pari di quanto le ricerche internazionali condotte in questi anni hanno messo in luce: circa una persona su cinque ha soddisfatto i criteri diagnostici per almeno un disturbo mentale nel corso della vita. In maniera più specifica, la depressione maggiore, le fobie specifiche e la distimia sono risultati i disturbi psicologici più comuni, con percentuali di prevalenza nel corso della vita rispettivamente pari al 10,1%, al 5,7% ed al 3,4%, seguiti dal disturbo da stress post traumatico, dalla fobia sociale e dal disturbo d’ansia generalizzata (riscontrati nel 2% circa dei soggetti intervistati).

L’indagine Istat 2014 ha mostrato un trend di peggioramento dello “stato di salute psicologica” degli italiani. Una conferma di quanto l’Istituto Superiore di Sanità aveva già evidenziato riscontrando un disturbo depressivo nel 7% della popolazione, con prevalenza tra giovani e donne. Le stime indicano che otto milioni di italiani soffrono di stati d’ansia, quattro di depressione, altri quattro hanno problemi di insonnia e oltre un milione soffre di disturbo post- traumatico da stress: in tutto, sono 17 milioni gli italiani che soffrono di un chiaro disagio psicologico. Ed una quota di questi sono bambini, ragazzi e giovani.

 

La Depressione : come si manifesta

Può capitare una giornata storta, in cui siamo giù di corda, tristi, più irritabili del solito e “ci sentiamo un po’ depressi”. Molto probabilmente non si tratta di un disturbo depressivo, ma di un calo d’umore passeggero.

La depressione clinica invece è un disturbo dell’umore e  presenta sintomi frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza e si perde il piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di frequente umore negativo, con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi e il proprio futuro.

La depressione si manifesta con diversi livelli di gravità e attraverso sintomi di tipo fisico, emotivo, comportamentale e cognitivo.

I sintomi fisici più comuni sono la perdita di energie, il senso di fatica, i disturbi della concentrazione e della memoria, l’agitazione motoria ed il nervosismo, la perdita o l’aumento di peso, i disturbi del sonno, la mancanza di desiderio sessuale, i dolori fisici, il senso di nausea, l’eccessiva sudorazione, il senso di stordimento, l’accelerazione del battito cardiaco e le vampate di calore o i brividi di freddo.

Le emozioni tipiche provate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, il senso di colpa, il vuoto, la mancanza di speranza nel futuro, la perdita di interesse per qualsiasi attività, l’irritabilità e l’ansia.

Da ciò derivano i principali sintomi comportamentali, come la riduzione delle attività quotidiane, la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio.

 

I Disturbi d’ansia

L’ansia, è uno stato fisiologico e psicologico caratterizzato da componenti cognitive, somatiche, emotive e comportamentali. L’ansia, sorella più evoluta rispetto alla paura e squisitamente umana, segnala una minaccia meno evidente, il disagio è più prolungato, è meno intensa della paura e sia l’esordio che la fine sono meno netti.

I disturbi d’ansia sono differenti l’uno dall’altro per la tipologia di oggetti o di situazioni che provocano paura, ansia oppure comportamenti di evitamento, e per l’ideazione cognitiva associata. Differiscono dalla normale paura o ansia evolutive perché sono eccessivi o persistenti rispetto allo stadio di sviluppo. Le persone che soffrono di disturbi d’ansia sopravalutano il pericolo nelle situazioni che temono o evitano.

 

Ansia e depressione: le cause

Secondo le teorie cognitive esiste una connessione fra disturbi psicologici e disturbi del pensiero. In particolare l’ansia e la depressione sono caratterizzate da pensieri automatici negativi e distorsioni di interpretazione della realtà. Si ritiene che le interpretazioni o i pensieri negativi derivino dall’attivazione di convinzioni negative immagazzinate nella memoria a lungo termine.

Le convinzioni sono costrutti di base riguardanti sé e il mondo che hanno carattere assoluto e generale (per es. “sono fragile” “il mondo è un posto pericoloso”) e che vengono considerate come vere.

In memoria conserviamo anche gli assunti che sono la rappresentazione delle relazioni specifiche fra eventi e valutazioni riferite a sé (per es. “se ho dei sintomi fisici inspiegabili, devo essere gravemente malato”).

Il contenuto degli schemi mentali disfunzionali dipende in modo specifico dal tipo di disturbo psicologico. Gli schemi dell’ansia consistono  in convinzioni e assunti relativi al pericolo (Beck, Emery  e Greenberg, 1985) e all’incapacità di fronteggiare una situazione.

Nella depressione invece gli schemi sono incentrati sui temi della triade cognitiva negativa (Beck,1976) ossia quel sistema di convinzioni negative su noi stessi, sul mondo e sul nostro futuro che si costituiscono sin dall’infanzia. Gli schemi disfunzionali introducono delle distorsioni nell’elaborazione e nell’interpretazione delle informazioni che riceviamo dall’ambiente, sottoforma di pensieri automatici negativi all’interno del flusso di coscienza.

Più la nostra tendenza a leggere le avversità in questa prospettiva è stabile e rigida, più siamo vulnerabili a fare esperienza di episodi depressivi.  Questa tendenza delle persone, secondo la teoria metacognitiva, dipende da una eccessiva e incontrollabile ripetizione astratta di pensieri negativi in qualche modo collegati all’evento/problema, chiamata ruminazione.

Il pensiero negativo reiterato è una caratteristica della maggioranza dei tipi di dinfunzione psicologica. La depressione è associata prevalentemente alla attività di ruminazione e l’ansia è associata alla preoccupazione. Questi due generi di pensiero sono simili per diversi aspetti ma possono anche essere distinti (Papageorgiou e Wells, 1999).

La preoccupazione è un aspetto che contraddistingue in modo particolare il DAG (disturbo d’ansia generalizzato). Secondo gli studi sulla preoccupazione, questa può essere considerata un modo sistematico per affrontare le difficoltà (Wells, 1995)  ma può anche svolgere una funzione di evitamento cognitivo e le persone con disturbo DAG (disturbo d’ansia generalizzato) se ne servono per distrarsi  da immagini più angoscianti.

 

Interventi efficaci: la Terapia Cognitivo-Comportamentale

I disturbi psicologici vengono diagnosticati e trattati in media solo nel 30% dei casi e quando trattati ricevono spesso una cura non sempre appropriata fatta solo di farmaci (sempre di più anche nei bambini o adolescenti) e somministrati per lunghi periodi (con evidenti effetti collaterali). Il consumo di antidepressivi ed ansiolitici, secondo i dati dell’Agenzia Italiana del farmaco, è notevolmente aumentato in Italia negli ultimi dieci anni.

Tale situazione deriva da un crescente (e costoso) “gap” tra le evidenze scientifiche e cliniche e l’organizzazione sanitaria. Infatti oggi disponiamo di dati sufficienti per affermare l’efficacia ed i vantaggi economici della psicoterapia.

Solo il 60% di chi riferisce sintomi depressivi ricorre all’aiuto di qualcuno, rivolgendosi soprattutto a medici/operatori sanitari.

 

La diffusione dei disturbi psicologici e la psicoterapia cognitiva in Veneto e Friuli Venezia Giulia

In particolare in Veneto il 5.6% degli intervistati segnala sintomi di depressione, solo il 63.2% richiede aiuto, non molta diversa la situazione in Friuli Venezia Giulia il 6.8% del campione che segnala sintomi di depressione, chiede aiuto solo il 53.6% (Secondo PASSI sistema di sorveglianza del Ministero della Salute della popolazione adulta).

Quando ansia e depressione hanno delle ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, l’attività scolastica o lavorativa è compromessa e prevale la tendenza al ritiro sociale, col passare del tempo vengono compromesse le relazioni con partner, figli, amici e colleghi, ed è importante quanto prima un intervento clinico che possa aiutarci a uscire dal problema e prevenire le ricadute.

 

Il centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre

Alla luce di questo quadro epidemiologico, risulta chiaro l’obiettivo del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre: garantire adeguati percorsi psicoterapici a chi, in un particolare momento della propria vita, può andare incontro a disturbi psicologici, quali ansia e depressione. Punto di forza del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre, è l’ecletticità degli interventi cognitivo-comportamentali offerti, pensati per garantire l’efficace trattamento di ogni disturbo psicologico. Alcune tra le tecniche cognitivo-comportamentali utilizzate, oltre alla CBT Standard: Acceptance and Commitment Therapy (ACT), EMDR (tecnica d’elezione nel trattamento del Disturbo da stress post-traumatico), Terapia Metacognitva Interpersonale, Terapia Dialettico Comportamentale (DBT).

Si sottolinea l’importanza delle strategie psicologiche di intervento precoce (nelle cure primarie) che risultano efficaci e vantaggiose: brevi interventi (due-quattro incontri) in situazioni di depressione insorgente risultano nel 21% efficaci sui sintomi e nel 59% dei casi efficaci anche sui costi (per i costi successivi che evitano): quindi utili per otto persone su dieci ed anche vantaggiose per sei su dieci (Smith, 1980).

La psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale rappresenta la soluzione più efficace per affrontare e superare il disturbo depressivo maggiore, in modo definitivo (NICE, 2011).

Attraverso il colloquio psicoterapeutico cognitivo la persona è incoraggiata ad apprendere tre abilità principali (Ruggero, Sassaroli 2013):

  • Saper riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva consapevole ed  esplicita, ossia ciò che provo e penso posso esprimerlo verbalmente;
  • Saper mettere in discussione la validità di questi pensieri, il loro valore di verità e di utilità;
  • Saper costruire nuovi pensieri più veri, e soprattutto più utili, che andranno a sostituire quelli vecchi, nelle situazioni quotidiane e quindi genereranno emozioni e comportamenti differenti.

Quindi nuovi pensieri, nuove esperienze emozionali, nuove azioni utili per affrontare meglio le difficoltà e generare una migliore qualità di vita.

La Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia mira a eliminare i timori esagerati e i comportamenti di controllo ed evitamento che mantengono i Disturbi d’Ansia (Beck, 1976; Wells, 1997), nel tentativo di riacquisire un senso di sicurezza e di confidenza nelle attività della vita quotidiana.

Nella recente review di Caselli e collaboratori (Caselli et al., 2016) sull’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nei disturbi d’ansia, per esempio per il Disturbo di Panico la Terapia ha mostrato la sua efficacia con miglioramenti nel 78% dei casi (Öst, 2008), con indici elevati di stabilità nel tempo (Norton e Price, 2007).

 

 

Laura Prosdocimo

Referente del Centro di Psicologia Clinica e Psicoterapia di Mestre (VE)

Scopri i servizi offerti dal Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre, lo staff e le tecniche utilizzate.

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L’uso di Photovoice nel Disturbo da Stress Post-Traumatico

Photovoice: la terapia basata sull’utilizzo di fotografie come nuovo approccio per i sopravvissuti a stupro e violenza sessuale.

 

 

Secondo i dati ISTAT nel 2015, circa il 35% delle donne nel mondo, 6 milioni e 788 mila solo in Italia, ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale da parte del proprio partner o di un’altra persona e il 12% di loro non ha avuto la forza di denunciare tale violenza.

Da una serie di ricerche emerge anche che più di un terzo delle donne sopravvissute ad una violenza sessuale sviluppa in seguito sintomi riconducibili al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), ma che non tutte risultano essere responsive ai tradizionali trattamenti per questo disturbo, con la conseguente ricomparsa di sintomi invalidanti nel corso del tempo.

 

Photovoice e PTSD

Recentemente, Rolbiecki, ricercatrice presso la scuola di medicina dell’Università del Missouri, e collaboratori (2016) hanno evidenziato come affiancare ai classici interventi per il trattamento del PTSD l’utilizzo del Photovoice, una tecnica terapeutica di derivazione comunitaria in cui i partecipanti sono invitati ad esprimere i propri pensieri ed emozioni attraverso fotografie ed immagini, possa portare ad una migliore guarigione dal disturbo, con remissione di sintomi persistente nel tempo.

 

Cos’è il Photovoice?

Il Photovoice è una tecnica sviluppata da una ricercatrice statunitense negli anni ’90 (Wang, 1999) con lo scopo, tramite l’utilizzo di fotografie, di permettere alle persone di identificare e riflettere sui punti di forza e sulle problematiche della propria comunità di appartenenza, di favorire lo scambio di opinioni attraverso la creazione di gruppi di discussione e di favorire così anche il miglioramento della stessa comunità.

Il Photovoice offre così alle popolazioni più svantaggiate e vulnerabili la possibilità di esprimere se stesse attraverso modalità alternative, permettendo potenzialmente anche ai sopravvissuti ad esperienze traumatiche di comunicare i propri pensieri e sentimenti. In altre parole, attraverso una combinazione di fotografia e discussioni di gruppo, Photovoice consente di attivare i membri della comunità, accompagnandoli nell’identificazione dei propri punti di vista, per poi utilizzarli come leve per promuovere il cambiamento sociale. La foto diviene così la voce attraverso cui le persone possono esprimersi e grazie alla quale possono divenire più consapevoli della situazione in cui sono immersi, andando anche ad identificare i fattori che concorrono alla determinazione della stessa.

All’interno dello studio di Rolbiecki e collaboratori, invece, Photovoice è stato utilizzato, più che come catalizzatore di processi di cambiamento sociale, come una vera e propria tecnica terapeutica. I partecipanti venivano invitati a raccogliere foto che raffigurassero le proprie debolezze, i propri punti di forza, i triggers, o stimoli attivanti (che portano alla riattualizzazione della sintomatologia PTSD), e i processi intrapresi per guarire e per ottenere giustizia. In questo modo ai partecipanti veniva data la possibilità di esporsi per gradi e in modo meno dirompente ai propri stimoli attivanti, riuscendo così anche a discutere e mettere in discussione i propri pensieri e sentimenti circa l’esperienza traumatica all’interno di un setting sicuro e supportivo.

 

Effetti del Photovoice nel trattamento del PTSD

Secondo i ricercatori, proprio grazie all’uso di Photovoice, sarebbe quindi possibile incrementare l’efficacia dei tradizionali trattamenti per il PTSD. Questi ultimi infatti sembrerebbero essere prevalentemente focalizzati sull’aspetto della gestione dell’ansia nei confronti degli stimoli attivanti, offrendo però poco supporto per quanto riguarda la gestione dei sentimenti di impotenza frequentemente percepiti dalle vittime. Sarebbe al contrario auspicabile aiutare queste ultime nella ri-attribuzione di questi stessi sentimenti all’esperienza traumatica, più che ad una incapacità a livello personale, in modo da incoraggiarle anche a riscrivere la propria storia e a significare correttamente quanto vissuto e ciò che ne è conseguito, abbandonando l’etichetta di vittima inerme. Proprio in questo senso, infatti, le terapie tradizionali non risultano essere focalizzate in modo specifico sulla promozione di una ripresa ed una crescita in seguito al trauma, in un’ottica di empowerment delle vittime sopravvissute.

 

Photovoice e violenza sessuale: lo studio di Rolbiecki

Lo studio di Rolbiecki et al. (2016), più nello specifico, ha coinvolto 9 donne che nel corso della propria vita hanno subito un qualche tipo di violenza sessuale, riportando poi una sintomatologia ascrivibile al PTSD. Ad ogni donna gli sperimentatori hanno fornito una fotocamera, con l’indicazione di scattare foto che raffigurassero l’essenza della violenza subita, così come l’avevano esperita, e il successivo percorso di recupero. Era stato inoltre previsto un incontro settimanale durante il quale le donne potessero incontrarsi per discutere di quanto emerso dalle foto.

Alla fine degli incontri di gruppo, poi, le partecipanti hanno potuto partecipare all’allestimento di una mostra fotografica, con lo scopo di sensibilizzare e informare la comunità circa la realtà della violenza sessuale, delle politiche vigenti al riguardo e delle conseguenze traumatiche da essa derivanti. Infine, dopo la mostra le partecipanti sono state ulteriormente intervistate per poter discutere in modo più approfondito della loro esperienza con la tecnica del Photovoice come intervento terapeutico.

Per quanto riguarda i risultati, alla fine del progetto è emersa da un lato una considerevole riduzione dei sintomi PTSD e di auto-colpevolizzazione, e dall’altro un aumento a livello degli indici di crescita post-traumatica, in particolar modo per quanto riguarda la percezione di sé come coraggiosa e forte.

 

Conclusioni

In conclusione, Photovoice, andando in una direzione contraria rispetto alla tendenza ad etichettare come vittima inerme chi sopravvive ad una violenza sessuale, permette alle persone di ridefinire se stesse come padrone della propria vita, andando oltre la vittimizzazione. Attraverso l’uso di questo strumento è infatti possibile condividere la propria storia mantenendo il controllo di come viene narrata e dando così la possibilità di ricostruire la storia di quanto accaduto, in modo che questo possa infondere forza e permettere di andare avanti più forti di prima. Proprio in questo senso si può affermare che Photovoice abbia implicazioni a livello terapeutico, soprattutto per quanto riguarda il trattamento di eventi traumatici attraverso la creazione e la discussione critica di narrazioni costruite con supporto fotografico.

In modo analogo all’EMDR, questo approccio potrebbe risultare in particolar modo efficace con quei pazienti con difficoltà nella verbalizzazione dell’evento traumatico vissuto. Infatti, l’utilizzo di tecniche non basate su interventi verbali, che possono quindi fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione, permetterebbe un aiuto in modo più efficace ed incisivo a livello della regolazione e della gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione dell’esperienza vissuta.

Il ruolo dell’ Emotività Espressa nell’esordio delle psicosi

Esiste un ampio consenso scientifico sul ruolo dell’alta Emotività Espressa (familiare e non) nel predire le recidive in pazienti psicotici (oltre a svariate altre patologie). Ma per quanto concerne l’ipotesi di un ruolo nell’innesco di un disturbo psicotico il discorso si fa più complesso.

Marina Lustrati – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze 

 

La temperatura emotiva della famiglia: l’ Emotività Espressa

La ricerca psichiatrica sulla famiglia nasce intorno agli studi sulla Schizofrenia, una tra le più gravi patologie mentali. L’ambiente familiare è il primo luogo di espressione dei sintomi del paziente. La famiglia si trova di conseguenza a scontrarsi con tutta una serie di comportamenti disturbati del proprio congiunto, tanto diversi rispetto a quelli passati. Il rischio diviene allora la critica verso questi comportamenti, oppure, all’opposto, la negazione del disturbo (con il conseguente ritardo nella ricerca di un aiuto specialistico) o ancora un atteggiamento iperprotettivo. Ebbene sono proprio queste le dimensioni che definiscono il concetto di Emotività Espressa (EE).

Secondo Christine Vaughn (1988), una delle prime autrici che si è occupata di questo costrutto, l’ Emotività Espressa rappresenta la “temperatura emotiva” della famiglia. Sarebbe quindi l’indicatore dell’intensità emotiva familiare, rivelatore di mancanza di affetto o di interessamento eccessivamente invadente.

Schematizzando, l’ Emotività Espressa familiare è rappresentata quindi dalle dimensioni di:

  • Critica
  • Ostilità
  • Ipercoinvolgimento emotivo

che rappresentano delle scale, cosiddette, di rischio, accanto alle quali troviamo contrapposte le seguenti scale di protezione:

  • Calore affettivo
  • Commenti positivi

Qualsiasi trattazione sul concetto di Emotività Espressa non può prescindere né dalla malattia schizofrenica né dalle recidive; infatti è utile evidenziare che questo concetto è stato coniato a partire dai primi studi compiuti a Londra da George W. Brown e colleghi (1958) proprio per indicare quel particolare stile interazionale familiare che aveva mostrato una correlazione piuttosto forte con le recidive di pazienti psicotici.

Ebbene questa predittività è confermata ancora oggi e sostenuta da un’ampia letteratura in merito (Brown, Birley & Wing, 1972; Vaughn & Leff, 1976; Leff, Kuipers, Berkowitz, Erbelein-Vries & Sturgeon, 1982; Brown, 1985; Vaughn, 1986; Kuipers & Bebbington, 1988; Cazzullo, Bertrando, Bressi, Clerici & Maffei, 1989; Miklowitz et al., 1989; Barrelet, Ferrero, Szigethy, Giddey & Pellizzer, 1990; Bertrando et al., 1992; Bebbington & Kuipers, 1994, analisi aggregata; Hooley, Rosen & Richters, 1995; Heikkila et al., 2002; Pourmand, Kavanagh & Vaughan, 2005; Brent & Giuliano, 2007; Lim, Chong & Keefe, 2009, review).

Alcuni autori hanno allargato gli studi ad altre patologie, confermando il medesimo ruolo predittivo dell’alta Emotività Espressa sulle recidive di pazienti: depressi (Hooley, 1986); Bipolari (Miklowitz, Goldstein, Nuechterlein, Snyder & Doane, 1986; Miklowitz, Biuckians & Richards, 2006); con Disturbi Alimentari (Fischmann-Havstad & Marston, 1984; Szmuckler, Eisler, Russel & Dare, 1985; Sepulveda, 2009) e con patologie organiche (Koenigsberg, 1995; Invernizzi et al., 1991). E’ stata verificata l’influenza di un’alta Emotività Espressa anche rispetto a quanto manifestato dai coniugi dei pazienti (Hooley, Rosen & Richters, 1995) e addirittura dagli operatori dello staff ospedaliero (Berry, Barrowclough & Haddock, 2011, review di 27 studi dal 1990 al 2008). Inoltre l’ Emotività Espressa  viene ormai ritenuto un valido predittore cross-culturale  (Moline, Singh, Morris & Meltzer, 1985; Marom, Munitz, Jones, Weizman & Hermesh, 2002; Healey, Tan & Chong, 2006; Chien & Chan, 2010).

Riassumendo esiste un ampio consenso scientifico sul ruolo dell’alta Emotività Espressa (familiare e non) nel predire le recidive in pazienti psicotici (oltre a svariate altre patologie). Ma per quanto concerne l’ipotesi di un ruolo nell’innesco di un disturbo psicotico il discorso si fa più complesso. Ed è proprio questo che abbiamo cercato di fare nel presente studio.

 

Emotività Espressa ed esordio del disturbo psicotico: cosa dicono gli studi

Per quel che riguarda la letteratura non ci sono accordi univoci in tal senso, tuttavia possiamo scorgere alcuni importanti risultati che convergono verso tale assunto.

La prima ricerca in merito è rappresentata da uno studio prospettico effettuato da Goldstein (1985), su soggetti a rischio e sulle caratteristiche delle loro famiglie. Ebbene questo studio rivela come un’alta Emotività Espressa familiare e i relativi modelli devianti di comunicazione siano associati all’esordio di patologie psicotiche nei soggetti a rischio e nei fratelli di questi soggetti. Un dato ancor più degno di nota è rappresentato dalla costatazione che una tale “temperatura emotiva” sarebbe precedente l’insorgenza della psicosi e quindi non una reazione a comportamenti già disturbati dei soggetti. A tale risultato sono approdati anche Heikkila e colleghi (2002), i quali hanno indicato che l’alta Emotività Espressa non risulta essere associata né con la gravità dei sintomi dei pazienti, né con le caratteristiche premorbose, scartando così la possibilità che possa essere considerata una mera conseguenza.

Un altro studio che merita sicuramente menzione è quello di Tienari e colleghi (2004). Mediante un follow-up a lungo termine sono stati analizzati soggetti adottati (che differivano tra loro in base al fatto che alcuni erano figli naturali di madre schizofrenica) e le loro famiglie adottive. I risultati cui sono pervenuti, portano gli autori a concludere che l’alta Emotività Espressa delle famiglie adottive, riesce a predire l’esordio di schizofrenia nei pazienti ad alto rischio genetico. Ecco un chiaro esempio di come i fattori di vulnerabilità e stress possano agire in concomitanza verso lo sviluppo della malattia, in questo caso quella psicotica.

Il ruolo dell’ Emotività Espressa nel suo senso contrario, ovvero nel senso protettivo, è stato verificato in adolescenti a “imminente rischio” di psicosi (O’Brien et al., 2006). Gli autori hanno infatti evidenziato un evidente miglioramento dei sintomi e del funzionamento sociale nei figli di genitori precedentemente valutati ad alto calore affettivo e con uno stile comunicativo rappresentato da alti livelli di commenti positivi.

Gli studi sopra menzionati, insieme a molti altri compiuti tra il 1966 e il 2007, sono stati oggetto di ricerca di una recente review (Lim, Chong & Keefe, 2009). Gli autori di questo lavoro, oltre a confermare la predittività sulle recidive, definiscono, per la prima volta, l’ Emotività Espressa come trigger, mettendo in luce la possibilità che possa innescare l’esordio psicotico.

 

Emotività Espressa ed esordio delle psicosi: lo studio dell’Unità di Ricerca Life Events

Lo studio che andrò a descrivere, riporta i risultati inerenti il concetto di Emotività Espressa nell’esordio delle Psicosi. Questo studio, riguarda una parte del lavoro svolto dall’Unità di Ricerca Life Events, coordinata dal Professor Carlo Faravelli, all’interno del progetto PIANO, che rappresenta solo uno dei filoni di ricerca rappresentato nel Programma Strategico a rilevanza nazionale GET-UP (Genetics Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis).

L’obiettivo dello studio era rappresentato dalla verifica del ruolo dell’ Emotività Espressa come predittore delle Psicosi. Per quanto concerne i partecipanti, sono stati analizzati 348 soggetti all’esordio psicotico e 200 soggetti di controllo corrispondenti per età e per sesso (vedi tabella 1 e 2). Lo strumento utilizzato è stato il questionario autosomministrato Level of Expressed Emotion Scale (LEE) (Cole & Kazarian, 1988; validazione italiana (Di Paola, Faravelli & Ricca, 2008).

il ruolo dell emotività espressa nell esordio delle psicosi - tab 1
Tabella 1

 

il ruolo dell emotività espressa nell esordio delle psicosi - tab 2
Tabella 2

 

Ebbene, analizzando i dati derivanti dai questionari e utilizzando come cut-off il valore della Mediana del campione di controllo, si rivela che 337 pazienti su 348 (pari al 96.8%) vivono in un ambiente ad Alta Emotività Espressa, indicando che il livello totale di Emotività Espressa nelle relazioni fondamentali dei soggetti psicotici è notevolmente più alto rispetto a quanto evidenziato nei soggetti di controllo (vedi Figura 1), con una differenza statisticamente significativa (vedi Tabella 3). Quest’andamento è inoltre mantenuto per ogni singola sottoscala (scale critiche) esaminata dalla LEE.

Il ruolo dell Emotivita Espressa nell esordio delle psicosi - FIG 1
Figura 1

 

Il ruolo dell Emotivita Espressa nell esordio delle psicosi - TAB 3
Tabella 3

 

Risulta importante compiere qualche precisazione in merito allo strumento utilizzato. Si potrebbe infatti criticare l’utilizzo di un questionario autosomministrato da parte di soggetti psicotici, considerando la possibilità di una divergenza tra l’ Emotività Espressa espressa dai familiari e la percezione di tale “clima familiare” da parte dei pazienti. Anzitutto è bene evidenziare che i familiari sono in grado di valutare il proprio comportamento negativo nei confronti del paziente; infatti la valutazione su se stessi, è sovrapponibile con il livello di Emotività Espressa misurato su di loro tramite altre misurazioni (Friedman e Goldstein, 1993, 1994). Ma i pazienti, come percepiscono i comportamenti dei loro familiari? Dopotutto quando parliamo di pazienti psicotici, dobbiamo necessariamente prendere in considerazione una distorsione dell’esame di realtà. Ebbene, è stato dimostrato invece che la percezione dei pazienti sui comportamenti espressi dalla famiglia, mostra più analogie che discordanze rispetto a quanto manifestato dai familiari. I pazienti, infatti, distinguono molto bene i familiari ad alta Emotività Espressa critica rispetto a quelli a bassa Emotività Espressa, mostrando qualche difficoltà solo nel riconoscimento della sottodimensione Ipercoinvolgimento (Goldstein, 1995; Cutting, Aakre & Docherty, 2006; Onwumere et al., 2009).

Per quanto riguarda il tempo di contatto tra soggetti analizzati e familiari, sono state seguite le raccomandazioni effettuate dagli autori che maggiormente si sono occupati di questo costrutto. In particolare è stato verificato che in entrambi i sottogruppi fosse garantito un tempo minimo di contatto di 35 ore alla settimana, soglia al di sotto della quale gli effetti di un’alta Emotività Espressa potrebbero dimostrarsi non significativi (vedi Tabella 4).

Il ruolo dell Emotività Espressa nell esordio delle psicosi - TAB 4
Tabella 4

 

Concludendo, alla luce di quanto finora detto, i risultati di questo lavoro indicano che l’elevata Emotività Espressa familiare possa essere precedente l’esordio psicotico e quindi può essere considerata a pieno titolo uno fra i fattori di rischio del disturbo. Ovviamente per comprenderne l’azione dovremmo abbandonare il pensiero di una causalità lineare e utilizzare un’ottica più ampia, quella circolare, considerando gli atteggiamenti dei familiari e i comportamenti dei pazienti come uniti fra loro da meccanismi di feedback, tali da innescare un circolo vizioso nel quale un’alta Emotività Espressa si esplicherebbe sotto forma di maggiori richieste e pressioni da parte dei familiari che provocherebbero comportamenti più disturbati dei pazienti, i quali condurrebbero a ulteriori critiche e così via.

Questo studio mostra come sia auspicabile l’implementazione di interventi precoci, che possano aiutare le famiglie e i pazienti a interrompere questo circolo vizioso per trasformarlo, al contrario, in uno virtuoso. Quest’obiettivo può essere raggiunto tramite l’attivazione di interventi di Psicoeducazione mediante i quali insegnare ai familiari a ridurre gli eccessi di richieste e critiche verso i loro congiunti. Questi ultimi, liberi da un eccesso di pressioni, potranno verosimilmente mettere in atto comportamenti meno in grado di innescare risposte emotive eccessive.

Il training di perfezionamento in psicoterapia per medici e psichiatri di Firenze

Quando medici e psichiatri scelgono il training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale: come funziona? 

 

Oltre la farmacoterapia: la psicoterapia

Nel mio percorso di formazione psichiatrica sono stata affascinata della farmacoterapia e dallo straordinario effetto che i farmaci possono indurre sul comportamento e sulle capacità cognitive, modulando i pensieri ed i vissuti interiori più intimi. Con entusiasmo mi sono ritrovata ad affrontare la scelta del farmaco migliore per il paziente, la ricerca del dosaggio adeguato e delle migliori associazioni farmacologiche.

Presto però mi sono accorta che quel potentissimo strumento farmacologico aveva dei limiti: talvolta nel disagio che il paziente riferiva non mi era possibile identificare dei chiari target farmacologici sui quali agire, essendo il problema supportato da dinamiche relazionali o inerenti all’immagine che il paziente aveva di sé stesso.

Anche quando il quadro clinico si risolveva pienamente rimanevano fra me ed il paziente dei dubbi, delle perplessità, delle domande alle quali non eravamo riusciti a trovare una risposta: “perché proprio adesso?”, “perché proprio a me?” e soprattutto “cosa posso fare per non farlo accadere di nuovo?”.

Da qui la necessità di acquisire dei nuovi strumenti di conoscenza del malessere psichico che mi dessero la possibilità di guardare al di là del sintomo e di entrare in contatto più intimo con l’esperienza del paziente.

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale, naturalmente complementare alla psichiatria

Ho ritenuto che un approccio psicoterapico fosse la cornice ideale per instaurare con il paziente un rapporto più empatico ed efficace, per esplorare la sua mente, svelarne il funzionamento, vedere il mondo con i suoi occhi e riuscire così a promuoverne un cambiamento utile, attraverso un meccanismo diverso e sinergico rispetto a quello farmacologico.

Per il mio training di perfezionamento in psicoterapia ho scelto l’approccio cognitivo-comportamentale perché unisce strettamente ed in maniera complementare il mondo della psicologia e quello della psichiatria, senza entrare in conflitto con le mie conoscenze mediche. Mi sono riconosciuta completamente nel nesso causale che lega gli stati emotivi ed i comportamenti ai pensieri e trovo che tale teoria restituisca all’individuo un senso di auto-efficacia, presupposto indispensabile per motivarlo al cambiamento.

Inoltre le evidenze scientifiche di efficacia che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato di avere, i tempi relativamente brevi in cui è possibile ottenere dei risultati significativi e il ricorso a protocolli standardizzati mi hanno definitivamente convinta ad abbracciare questo metodo.

 

Specializzazione in Psicoterapia: la Scuola Cognitiva di Firenze

La scelta di svolgere il training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso la Scuola Cognitiva di Firenze è stata incentivata sia dai consigli di colleghi più anziani che là si erano formati, sia dalla possibilità di un training triennale dedicato agli psichiatri, che mi ha permesso di fruire in tempi più rapidi degli strumenti cognitivo – comportamentali che mi erano utili.

In realtà questa scuola mi ha offerto molto di più di quanto mi aspettassi all’inizio: la professionalità e la varietà dei docenti, l’apertura verso nuove tecniche di psicoterapia (Dialectical Behaviour Therapy, Mindfulness, Schema Therapy, etc) e i numerosi workshop esperienziali mi hanno permesso non solo di approfondire il metodo CBT classico, ma anche di acquisire una conoscenza più ampia sulle cosiddette “terapie di terza generazione”, permettendone l’integrazione nella mia metodologia di lavoro con il paziente.

 

La pratica sul campo con le psicoterapie solidali

La possibilità di effettuare delle “psicoterapie solidali”, vale a dire percorsi di psicoterapia offerti a prezzi agevolati da parte di psicoterapeuti in formazione, con supervisioni settimanali gratuite dei didatti della scuola, è stata un’ opportunità ulteriore di apprendimento e di confronto con i colleghi, che ha arricchito significativamente la mia formazione professionale.

 

L’importanza di formazione e aggiornamento in psicoterapia

Sebbene il mio training di perfezionamento presso la Scuola Cognitiva di Firenze sia ormai concluso, tanti sono gli spunti di approfondimento che restano da seguire, ad ulteriore dimostrazione che questi tre anni di formazione in psicoterapia sono stati densi e ricchi di stimoli interessanti. Servirà ancora tantissima esperienza per padroneggiare con disinvoltura le tecniche cognitivo-comportamentali, ma per il momento sento di aver fatto mio un metodo di approccio al paziente che mi permette realmente di sintonizzarmi sui suoi pensieri, sentimenti ed idee, così da capire il suo modo di fare esperienza degli eventi.

Finalmente mi sento vicina a quel passaggio tanto importante ed auspicabile nel processo terapeutico che consiste nell’integrare il semplice “curare” con il “prendersi cura”.

 

Lorenza Bencini
Medico, Specializzanda in Psichiatria

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Scuola Cognitiva di Firenze - Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Le vittime di bullismo infantile rischiano di essere sovrappeso nell’eta adulta

I bambini che sono stati vittime di bullismo durante la scuola primaria e la scuola secondaria possiedono il doppio delle probabilità di essere sovrappeso all’età di 18 anni rispetto ai coetanei che non hanno vissuto tale esperienza. Questo secondo quanto emerso da un nuovo studio condotto dai ricercatori del King’s College di Londra.

Bullismo infantile e rischio di essere sovrappeso in età adulta

Precedenti ricerche condotte dal team di ricercatori avevano già mostrato che i bambini vittime di bullismo negli anni ’60 erano più probabilmente sovrappeso all’età di 45 anni, sebbene non fosse chiaro se questi effetti a lungo termine fossero presenti anche in anni precedenti e si trattasse o meno di un fenomeno già presente nel passato.

In questo nuovo studio, pubblicato su Psychosomatic Medicine, i ricercatori si sono impegnati nell’esaminare se il bullismo in un contesto moderno avrebbe prodotto effetti simili sul peso, dal momento che le forme odierne di bullismo sono differenti (es: cyberbullismo) rispetto a quelle degli anni ’60 e anche l’ambiente in cui crescono i giovani d’oggi è profondamente cambiato, come dimostra la maggiore disponibilità di cibo spazzatura e la diffusione di stili di vita sedentari.

Lo studio

I ricercatori hanno analizzato i dati provenienti dall’ ”Environment Risk (E-Risk) Longitudinal Twin Study”, uno studio longitudinale di coorte su gemelli che ha seguito lo sviluppo di oltre 2000 bambini provenienti da Inghilterra e Galles dalla nascita fino ai 18 anni. Il team ha valutato le esperienze di bullismo subite durante la scuola primaria (elementari) e la scuola secondaria inferiore (medie) attraverso interviste effettuate alle madri e ai bambini a diverse età del bambino (7, 10 e 12 anni). Inoltre, per ciascun soggetto è stato calcolato il BMI (body masse index ovvero indice di massa corporea) all’età di 18 anni e il rapporto tra circonferenza vita e circonferenza fianchi che fornisce un indicatore della quantità di grasso addominale del soggetto.

I risultati

Il 28% dei bambini dello studio è stato bullizzato durante le scuole elementari o le scuole medie (condizione definita dai ricercatori come “bullismo transitorio”) e il 13% ha invece subito bullismo in entrambe le scuole (condizione definita come “bullismo cronico”).
I bambini che sono stati vittime di bullismo cronico durante l’età scolastica, una volta adulti, sono sovrappeso 1.7 volte in più dei bambini che non erano stati vittime di bullismo. I bambini bullizzati, inoltre, possiedono un BMI più alto e un rapporto vita-fianchi più elevato all’età di 18 anni.

L’associazione evidenziata non dipende da altri fattori di rischio (inclusi status socioeconomico, controllo del cibo in casa, maltrattamenti infantili subiti, QI basso e problemi di salute mentale). In aggiunta, e per la prima volta, le analisi hanno mostrato che i bambini vittime di bullismo cronico sono sovrappeso da adulti indipendentemente dal rischio genetico.

Conclusioni

Il Dr. Andrea Danese dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze (IoPPN) al King’s College ha affermato: [blockquote style=”1″]Il bullismo è comunemente associato a problematiche di salute mentale, ma solo una piccola parte della ricerca si è occupata di definire i problemi fisici a cui vanno incontro le vittime di bullismo infantile. Il nostro studio dimostra che i bambini bullizzati hanno più probabilità di diventare adulti sovrappeso, e questo è vero indipendentemente dal loro patrimonio genetico e solo dopo aver sperimentato il bullismo.[/blockquote]

Jessie Baldwin, anch’esso proveniente dal IoPPN, ha affermato: [blockquote style=”1″]Sebbene non possiamo affermare definitivamente che l’essere vittima di bullismo sia causa del sovrappeso, escludere spiegazioni alternative, come quella dei fattori genetici, consolida la probabilità che si tratti effettivamente di questo. Se l’associazione fosse causale, prevenire il bullismo potrebbe aiutare a ridurre la prevalenza di eccesso di peso tra la popolazione. Così come la prevenzione del bullismo, i nostri risultati enfatizzano l’importanza di supportare i bambini bullizzati per prevenire in loro il problema dell’eccesso di peso, utilizzando ad esempio interventi volti a promuovere attività fisica e alimentazione sana, già in fasi precoci dello sviluppo del bambino.[/blockquote]

Diagnosi e terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia in età evolutiva – Report dal corso della Fondazione Don Gnocchi

Il settore formazione della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus ha organizzato e realizzato l’evento rivolto a psicologi, medici e terapisti dell’Età evolutiva. L’evento si è svolto presso il Centro Santa Maria al Castello a Pessano c/B (MI).

 

La direzione scientifica dell’evento è stata affidata al Dr. Flavio Cimorelli, Medico Neuropsichiatra infantile e la conduzione alla Dr.ssa Alessia Incerti, psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale e Practitioner in EMDR. La dottoressa è consulente presso la Fondazione Don Carlo Gnocchi, Pessano (MI), Didatta presso Studi Cognitivi Spa e Responsabile di “Equipe Kairos”.

“…Non si fugge perché si ha paura ma si ha paura perché si fugge…”
(Krohne 1993; Ledoux 1996; Oatley, Johanson Laird 1987).
“Le gazzelle che hanno voluto verificare sperimentalmente tale ipotesi hanno effettivamente provato un senso di grande serenità restando immobili di fronte alla leonessa che le annusava ma non hanno avuto modo di trasmettere geneticamente tale apprendimento a una ricca figliolanza.
Tuttavia ciò è certamente vero soprattutto per gli uomini spesso tutta la vita in fuga da pericoli non oggettivi e credono che fuggire sia cosa buona…”
(Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002; Pardighe, Mancini 2008)

 

I disturbi d’ansia nell’infanzia

Nella prima parte della giornata la dr.ssa Alessia Incerti, ha illustrato le caratteristiche principali dei disturbi d’ansia nell’infanzia secondo la nosografia del DSM 5.

I disturbi d’ansia corrispondono a diverse paure, convinzioni, previsioni negative, preoccupazioni su come potrebbero verificarsi gli eventi temuti e su come fronteggiarli, essi sono sempre più diffusi in età evolutiva e causano disagio non solo nel bambino, ma in tutta la famiglia.

Il DSM 5 descrive i disturbi d’ansia in una categoria specifica e lungo il continuum del ciclo di vita. Essi sono caratterizzati da: sentimenti pervasivi di preoccupazione o ansia con evidenti sintomi fisici, difficili da controllare e che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno sei mesi.

In bambini e adolescenti: preoccupazioni per impegni scolastici o per prestazioni in generale, come gli impegni sportivi, o gli impegni sociali.
Può essere presente una tendenza al perfezionismo che genera uno stato di tensione, che può causare impegno eccessivo o comportamenti di evitamento.

L’ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, scolastico, o di altre aree importanti;
– costante sentimento d’oppressione, “un peso”;
– atteggiamento di attesa di un avvenimento vissuto come spiacevole ed imprevisto;
– sintomi somatici soprattutto nei bambini.

La dottoressa ha descritto nello specifico il funzionamento del bambino ansioso, quali sono i pensieri più tipici, gli errori cognitivi, i comportamenti e i fattori di mantenimento.

Allen e Rapee (2001) individuano il circolo vizioso di trasmissione della paura dal genitore al bambino e dal bambino al genitore, cosa che spesso rende impossibile stabilire dove risieda il problema primario. Spesso i pensieri dei bambini sono infatti conseguenza dei pensieri dei genitori. Non esiste un bambino ansioso, esiste una “famiglia ansiosa”.

 

La terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia nell’infanzia

Nel pomeriggio la relatrice, dott.ssa Alessia Incerti, ha illustrato i principi fondamentali della terapia cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia secondo gli assunti della REBT. La terapia razionale emotiva comportamentale (Rational Emotive Behavior Therapy, REBT), fondata da Albert Ellis negli anni Cinquanta del secolo scorso, è uno dei primi esempi di pratica psicoterapeutica pienamente cognitiva. Come si evince dall’attuale denominazione, è evidente la vocazione integrativa di quest’approccio, che unisce tecniche cognitive, emotive e comportamentali. Ellis riteneva che la sofferenza mentale derivasse da “elaborazioni verbali esplicite che il soggetto si autoinfligge consapevolmente”. Ellis è riuscito a sfiorare la possibilità di disegnare un moderno modello di psicopatologia metacognitiva, in cui la sofferenza emotiva dipende da valutazioni disfunzionali che il cliente fa dei propri stati mentali più che del mondo esterno (Ruggiero e Sarracino, 2014, p. XI, XIII).

Ampio spazio è stato dato alla metodica dell’ABC applicata ai bambini, con suggerimenti anche per rappresentare graficamente la relazione tra eventi, pensieri, emozioni e comportamento.

E’ importante introdurre sia i bambini che i genitori al collegamento tra pensieri e emozioni (ABC) e al modello sulla natura e sulle cause dell’ansia, si insegna loro ad attribuire un nome alle emozioni, attraverso immagini suggestive come il fiore di Plutchik o le vignette di Di Pietro; a collegare le emozioni alle situazioni vissute da altri attraverso storie, fumetti, role play; quantificare l’intensità delle emozioni con l’ausilio di un termometro; adoperare il modello ABC a 3 colonne o a disegni, presentato come un cuore da riempire con l’emozione provata; introdurre il concetto di distorsione cognitiva o “virus”.

Il programma Cool Kids, protocollo di trattamento manualizzato dei Disturbi d’Ansia nei bambini e negli adolescenti rappresenta una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale “Coping Cat” di Kendall e “Coping Koala” di Paula Barrett e Ron Rapee (1996),
esso si basa su un modello d’ansia in cui fattori genetici, stile genitoriale, vulnerabilità individuale e eventi esterni concorrono a generare il disturbo d’ansia; per ognuno dei fattori il protocollo prevede una tranche di terapia che va a lavorare sugli elementi disfunzionali.

E’ un trattamento evidence-based e la sua efficacia è basata su ricerche effettuate in un decennio alla Macquarie University, al Royal North Hospital e alla Queensland University.

I risultati di tali studi hanno dimostrato che: più dell’80% dei bambini che hanno completato il programma sono diagnosis-free o migliorati sensibilmente. Questi effetti si mantengono anche nei 6 anni successivi al trattamento.

Il programma prevede l’inclusione dei genitori ed è basato sull’acquisizione di competenze su come gestire meglio l’ansia, è stato infatti dimostrato che tale coinvolgimento produce risultati migliori rispetto a trattare il bambino da solo.

Il lavoro con i genitori, considerati i massimi “esperti” del proprio bambino, prevede un intervento che riduca l’iperprotettività e favorisca il supporto all’esposizione. Nello specifico, gli obiettivi consistono: nell’acquisire competenze di gestione dell’ansia dei bambini agendo sui fattori di mantenimento del disturbo come l’evitamento, incoraggiandoli all’indipendenza; rinforzare coerentemente i progressi e fornire supporto nei momenti di difficoltà; condividere con il clinico obiettivi realistici; esplorare nuove modalità di interagire con i comportamenti ansiosi del bambino.

Il piccolo paziente apprende invece nuove strategie di gestione dell’ansia; impara a ridurre l’evitamento delle situazioni temute ed affrancarsi dai genitori e dal terapeuta, utilizzando le competenze e conoscenze acquisite.

Gli effetti del programma sono costanti anche per bambini con alti livelli di condizioni di comorbilità, bambini svantaggiati e basso ambiente socioculturale; esso è indirizzato alle famiglie ed utilizza piccoli gruppi, sono stati raggiunti buoni risultati anche su singole famiglie di bambini e adolescenti. I gruppi di partecipanti sono costituiti da circa 5 bambini dello stesso range di età (6/8; 8/10; 11/13; 14/18) con diagnosi di Disturbo d’Ansia (le comorbilità come la depressione possono venire accettate ma devono essere affrontate prima di intervenire sull’ansia), suddivisi per genere; più che per disturbo è fondamentale che i gruppi siano omogenei per livello di gravità. E’ prevista la partecipazione di almeno un genitore a tutti gli incontri.

Ogni sessione tratta un aspetto specifico del trattamento in modo graduale e razionale, i concetti di psicoterapia dell’adulto sono tradotti in formati adatti ai bambini che permettono di lavorare a un livello più pragmatico.

La ristrutturazione cognitiva viene introdotta già nella seconda sessione, attraverso la metafora del detective: ai bambini viene detto che impareranno a fare gli investigatori, che indagheranno sui pensieri che causano la loro paura e che i loro “strumenti del mestiere” saranno delle domande specifiche da utilizzare per contrastare i pensieri dannosi. Dovranno quindi allenarsi sia in seduta sia con homework in concomitanza di eventi che provocano loro emozioni negative ed intense; trovare i pensieri irrazionali attraverso il “detective thinking”, applicare le tecniche apprese per trovare prove contro le proprie previsioni in base all’esperienza passata; mettere in discussione (disputing) i pensieri disfunzionali; generare “pensieri calmanti” basati su una valutazione realistica dell’evento ansiogeno; dopo aver stabilito la gerarchia delle situazioni temute, i piccoli pazienti potranno cimentarsi in esperimenti ed esposizioni graduali allo scopo di consentire loro di capire che la situazione non è minacciosa e che hanno le capacità di affrontarla, illustrare ai genitori la non terapeuticità dell’evitamento.

Dopo le esposizioni le ultime sessioni del programma si incentrano sull’insegnamento di abilità sociali e sul consolidamento di quanto appreso.
La dottoressa ha inoltre arricchito la giornata formativa con numerosi esempi clinici dati dalla sua decennale esperienza di lavoro nell’ambito della neuropsichiatria infantile.

Vivere con l’epilessia: fattori implicati nel benessere psicologico

In questo articolo saranno discussi gli aspetti psicologici legati all’ epilessia: la consapevolezza di essere a rischio di sviluppare crisi epilettiche, infatti, genera diversi cambiamenti nell’immagine di sé e nelle scelte concrete che bisogna prendere quotidianamente.

 

Diversi studi hanno evidenziato le criticità che agiscono sulla personalità e sulla qualità della vita delle persone con epilessia. Riconoscere l’impatto dell’ epilessia sulla psiche dei pazienti permette ai curanti e ai famigliari di prendersi cura anche di quegli aspetti legati al disturbo che possono essere modificati e che aiutano ad accresce il benessere delle persone. Valutare e intervenire sull’impatto psicologico di una patologia che può avere diversi gradi di severità è sicuramente di primaria importanza.

 

Epilessia e percezione di sé

Alcune ricerche mostrano che la percezione di sé, insieme alle restrizioni sociali, influenzano la qualità della vita (Quality of life – QOL) più dei fattori oggettivi collegati all’ epilessia come la frequenza e il tipo di crisi (Hermann et al., 1992).

Lo stigma percepito può variare la sua influenza sulla percezione che il soggetto ha di sé grazie all’effetto protettivo dell’autostima, che è stato ricondotto anche allo sviluppo di problemi psicologici e psichiatrici. A sua volta anche ricevere informazioni adeguate sul proprio stato di salute aiuta a sostenere l’autostima del paziente. Queste premesse riportate da Collings (1995) conducono allo studio delle variabili che influenzano la percezione di sé, dove si è visto che il benessere psicologico, il controllo sulle crisi, seguire una politerapia e una diagnosi incerta aumentano l’impatto dell’ epilessia sulla percezione di sé.

In uno studio (Spector et al., 2000) sulla percezione di sé rispetto all’arrivo di un episodio critico, il 47% dei soggetti riusciva in alcuni casi ad arrestare gli attacchi, e il 15% poteva auto-indursi le crisi. Inoltre, un 65% dei soggetti sapeva identificare uno stato di basso rischio in cui era meno propenso a sostenere una crisi. Per acquisire maggiori certezze sulla possibilità di controllare le scariche si dovrebbero eseguire studi con elettroencefalografia al fine di stabilire l’autenticità di questi comportamenti. La credenza di poter controllare l’insorgere delle crisi infatti potrebbe svelare il sottostante desiderio di acquisire controllo su di esse. È noto uno studio (Woods et al., 2006), su un paziente che descriveva uno specifico stato emozionale capace di indurre in lui le crisi, in cui grazie al monitoraggio video/elettroencefalografico è stato possibile confermare l’episodio e smentire i sospetti di crisi non-epilettiche.

Le persone con epilessia possono temere di venire identificate dagli altri con la propria condizione e di sentirsi in una situazione di svantaggio non superabile, legata al rischio di dimostrare i suoi effetti in modo involontario e indipendente dagli sforzi messi in atto. Per evitare tali effetti sociali possono tentare di nascondere la propria condizione agli altri e, per ridurre l’ansia e l’angoscia relativa agli svantaggi delle crisi, c’è chi ricorre alla negazione della realtà anche a se stesso, adottando così un meccanismo di coping rivolto all’evitamento.

A questo concetto si collega la divisione operata da Brown e Nicassio (1987) di due principali strategie di coping, le strategie attive (rappresentate dal tentativo del paziente di controllare il proprio dolore e mantenere un buon livello funzionale), e le strategie passive di coping (per cui il paziente si affida agli altri e permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore).

 

La  Self-efficacy e il locus of control nella sindrome epilettica

La convivenza con una patologia cronica, quale l’ epilessia e il diabete, ma anche con sintomi psicologici come disturbi dell’umore o attacchi di panico, può ripercuotersi negativamente sui meccanismi cognitivi della self-efficacy (autoefficacia) e del locus of control. Questi due costrutti indicano la percezione personale di essere artefici del proprio destino, padroni delle proprie scelte e consapevoli che le proprie decisioni e azioni contino nel perseguire un fine.

Che cos’è il Locus of Control

Il locus of control è un costrutto individuato dallo psicologo Julian B. Rotter nel 1954, indica in che misura gli individui credono di essere implicati nella generazione degli eventi che li riguardano. Le applicazioni più frequenti si hanno nella psicologia della salute, dove il locus of control viene correlato all’obesità, alla salute mentale da scale specifiche che lo misurano.

Il locus of control può caratterizzarsi per essere orientato all’interno o all’esterno. Un locus of control interno è associato alla percezione di essere in grado di poter influire in una determinata situazione. La persona con un locus of control orientato internamente ritiene di avere le risorse e le competenze necessarie per raggiungere il risultato auspicato. Per esempio si può essere fiduciosi di riuscire ad adottare i comportamenti che possono garantire la propria sicurezza se si dovesse avere una scarica epilettica, oppure di poter mantenere gli impegni famigliari o lavorativi nonostante gli effetti collaterali dei farmaci.

Un locus of control maggiormente orientato all’esterno predispone la persona a considerarsi sottoposta al fato e al destino, oppure a dare eccessivo valore agli eventi esterni immutabili. Potrebbe prevalere l’idea che le crisi non sono controllabili né gestibili, per cui si potrebbe saltare l’assunzione dei farmaci o rinunciare a perseguire i propri scopi nella vita.

Secondo i teorici di questo campo il locus of control può spiegare le differenze tra le persone per quanto riguarda l’essere ottimisti, pessimisti, previdenti o rassegnati essendo queste dovute alla percezione personale degli eventi. Un orientamento di locus of control interno è considerato un predittore positivo per la gestione della malattia e l’adesione alla cura da parte del paziente.

D’altro canto l’eccessiva auto-responsabilizzazione potrebbe portare a un elevato senso di colpa e paralizzare le iniziative, in questo senso bisognerebbe ispirarsi a un sistema di credenze equilibrato ed adattivo, cioè funzionale al benessere dell’individuo, avendo anche aspetti propri del locus of control esterno, per alleggerire il senso di colpa.

I pazienti con locus of control interno mostrano un maggiore senso di autonomia e competenza, tale atteggiamento ha effetti positivi sul controllo della cura di sé (self-care), sull’efficacia del trattamento e sulla sfera psicologica del soggetto. Una ricerca più recente (Baker, 2002) evidenzia correlazioni positive tra Health-related Quality of Life e locus of control in adulti con epilessia.

L’esternalizzazione del locus of control a causa dell’ epilessia è emersa dal confronto con un gruppo di controllo così come in un gruppo di pazienti con epilessia a cui non siano state insegnate risorse di coping focalizzate (Krakowf et a., 1999). La gravità delle crisi è risultata la caratteristica clinica più importante nel predire i livelli di autostima e l’orientamento del locus of control in uno studio con persone con crisi parziali refrattarie, negli adolescemti invece l’impatto più significativo era dato dalla frequenza, con un effetto modulatore positivo dovuto alla conoscenza della propria condizione e dell’ epilessia in generale (Krakowf et a., 1999).

Un locus of control esterno è stato ritenuto responsabile dello sviluppo di problemi psicologici nell’epilessia, e correlato statisticamente a patologie di tipo depressivo, soprattutto se i pazienti soffrono di crisi intrattabili (Krakowf et a., 1999). I fattori che mantengono un locus of control esterno nell’ epilessia sono stati individuati nello stile parentale (atteggiamento dei genitori), nella gravità e frequenza delle crisi e nella percezione che il paziente ha di sé e della malattia.

I bambini con epilessia potrebbero sviluppare una scarsa autostima, isolamento sociale e problemi di comportamento, a causa della mancanza di controllo sul proprio corpo e della ridotta indipendenza rispetto ai coetanei (Collings, 1995).

Tra gli 8 e i 14 anni si inizia ad affermare una consapevole voglia di controllo sugli eventi, e si diventa maggiormente interni (Krakowf et a., 1999). Affrontare in fase evolutiva una condizione cronica come l’ epilessia favorisce invece l’acquisizione di una fuga verso l’esternalità, per questo bisognerebbe puntare su strategie di coping basate sulla padronanza della self-efficacy e delle proprie risorse emotive, che favoriscano l’autostima e le relazioni sociali.

 

Il Senso di Autoefficacia (Self Efficacy)

La Self-Efficacy è stata teorizzata da Albert Bandura che ha sviluppato anche la “Teoria dell’apprendimento sociale“. Questo costrutto indica che nonostante una persona possa ritenere che gli eventi sono da lui determinati (locus of control ), può ritenersi o meno in grado di agire per produrre tali eventi. La Self-Efficacy è la credenza di essere capaci di comportarsi in modo da ottenere un risultato. L’autoefficacia corrisponde a quanto ci sentiamo capaci di produrre un determinato risultato, come l’intraprendere un primo passo verso un obiettivo.

La self-efficacy è misurabile attraverso apposite scale, come quella di Sherer, Madux et al. (1982), e quella di Tedman et al. (1995). Questi ultimi in una ricerca su una popolazione di adulti con epilessia hanno notato che alti livelli di self-efficacy correlano con una maggiore autostima ed i soggetti avvertono minore stigma e limitazioni, mentre bassi punteggi si associano a depressione ed ansia.

Bandura ha sottolineato anche la differenza che corre tra self-efficacy ed autostima (self-esteem), bassa self-efficacy (“non sono capace”) non determina bassa autostima (“sono un incapace”), per esempio; possiamo ritenerci negati a tennis e non ritenerlo un problema perché non ci interessa eccellere in questa disciplina.

Convivere con patologie croniche concorre a sviluppare credenze fataliste rispetto al controllo della propria vita (Locus Of Control esterno), in ogni circostanza, anche quando sarebbe ovvio ritenere l’opposto. Vedere la guarigione come un traguardo irraggiungibile può ridurre la motivazione a seguire le cure. La self-efficacy influenza la credenza che iniziare un comportamento positivo per la salute porti benefici.

E’ possibile predire l’investimento personale alla rinuncia di comportamenti rischiosi, nonché la persistenza nello sforzo di cambiare comportamento nonostante le barriere che minacciano la motivazione. Pertanto è necessariamente implicata nella cura della salute.

Bandura individua dei fattori capaci di influenzare la self-efficacy individuale:

  • Esperienze di successo/insuccesso ed il modo in cui vengono visualizzate e richiamate in futuro.
  • Modellamento su persone prese come esempio: se queste falliscono l’impatto sarà negativo, e viceversa, sulla persona che le osserva.
  • Persuasione sociale, ossia i messaggi incoraggianti o demotivanti che gli altri ci danno. In genere è più facile essere demotivati che motivati dalle opinioni altrui.
  • Fattori psicologici. I sintomi fisiologici come paura, nausea, tremore o stanchezza e come essi vengono ricondotti a una debolezza personale oppure ritenuti normali per la situazione e non deleteri al fine del compito da svolgere.

Abbiamo visto che esistono alcuni aspetti psicologici significativamente correlati al benessere della persona con epilessia. Valutare questi aspetti e prestare un supporto psicologico idoneo (sia da parte dei medici e degli psicologi, che dei famigliari) può fare la differenza rispetto alla qualità della vita della persona e anche rispetto all’adesione alla terapia prescritta.

Tecniche di rilassamento nei pazienti cardiopatici

Per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della cardiopatia ischemica vengono attualmente proposti interventi non esclusivamente medici, ma anche psicologici, tra cui le tecniche di rilassamento come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e la mindfulness.

Silvia Vegetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

 

Cardiopatia: caratteristiche e fattori di rischio

Il termine cardiopatia viene usato per indicare qualsiasi malattia che interessa il cuore, sia essa di natura anatomica o funzionale. La cardiopatia ischemica rappresenta la principale causa di morte nel mondo occidentale e comporta una riduzione dell’apporto di sangue e ossigeno al cuore con conseguente sofferenza d’organo. Quando in una sezione di muscolo cardiaco l’apporto di sangue ossigenato si riduce per un tempo protratto o cessa del tutto, i processi metabolici di quella sede si interrompono e si ha l’infarto con accumulo di materiale catabolico (necrosi). La patogenesi dell’ischemia e dell’infarto miocardico, è, nella maggior parte dei casi, legata all’accumulo di materiale lipidico che si deposita sulla parete arteriosa, modificandone l’elasticità e portando al processo noto come aterosclerosi.

L’accumulo lipidico è responsabile del progressivo restringimento del vaso e della conseguente riduzione del flusso sanguigno, fino alla possibile occlusione completa per la formazione di coagulo lipidico-fibroso (trombosi). La riduzione di flusso, e più ancora la sua cessazione, sono responsabili dei principali sintomi dell’infarto miocardico, come il dolore intenso.

Altre volte dalla placca ateromatosa si può staccare del materiale che a sua volta migra andando ad occludere un vaso più piccolo (embolia). Quando il vaso viene parzialmente ostruito, il flusso sanguigno residuo è comunque sufficiente a garantire un adeguato apporto metabolico nel muscolo cardiaco a riposo. Quando però per uno sforzo fisico, un pasto abbondante o un’emozione intensa, l’attività metabolica cardiaca aumenta, quella stessa quantità di sangue diventa insufficiente e compare ischemia spesso associata a dolore.

La riduzione dell’attività fisica o dell’attivazione emozionale si accompagna solitamente ad un ripristino di circolo adeguato e alla conseguente cessazione del dolore. Col progredire dell’ostruzione l’apporto metabolico al cuore può diventare insufficiente anche a riposo.

I principali fattori di rischio predisponenti, facilitanti o precipitanti la malattia sono:

  • elevati livelli di colesterolo
  • ipertensione arteriosa
  • fumo di sigarette
  • predisposizione familiare
  • abitudini alimentari e stili di vita scorretti
  • eccessiva esposizione ad eventi psicosociali stressanti

 

Il ruolo dell’ipertensione arteriosa e dello stress

La pressione arteriosa (PA) è la forza esercitata dal sangue contro le pareti dei vasi sanguigni. La PA oscilla tra un valore massimo (pressione sistolica) e un valore minimo (pressione diastolica) corrispondenti alle fasi di contrazione e rilassamento cardiaco. Quando i valori pressori risultano stabilmente elevati rispetto ai valori normali della popolazione di riferimento, si parla di ipertensione arteriosa. L’Organizzazione mondiale della sanità stabilisce, quali valori che la PA non deve superare in un individuo adulto, 140mmHg per la sistolica e 90mmHg per la diastolica.

L’ ipertensione arteriosa è largamente determinata da fattori familiari-ereditari, alimentari (eccesso di sale e grassi nella dieta), e abitudini di vita (fumo, sedentarietà, ecc.), ma soprattutto negli stadi iniziali, può essere influenzata dall’iperattivazione del sistema nervoso autonomo simpatico per effetto di situazioni emozionali e stressanti.

Lo stress può essere generato da qualunque stimolo fisico, psicologico, biologico (definito stressor) che produce un cambiamento e che comporta un adattamento da parte dell’individuo. La risposta allo stress prevede 3 fasi: allarme, resistenza (o adattamento) ed esaurimento (sindrome generale di adattamento). Queste tre fasi si susseguono nell’organismo durante ogni reazione da stress. E’ quindi un meccanismo difensivo con cui l’organismo si sforza di superare le difficoltà per poi tornare, al più presto possibile, al suo normale equilibrio (omeostasi).

La reazione allo stress può essere acuta, di breve durata, consistente in una rapida fase di resistenza cui segue un quasi immediato e ben definito ritorno alla normalità; oppure prolungata (stress cronico), con una fase di resistenza che può durare da molti minuti a giorni, settimane, anni e, per qualcuno, tutta la vita. In condizioni di stress acuto, l’informazione relativa allo stressor, percepita dagli organi di senso, raggiunge rapidamente l’amigdala che determina una reazione di attacco o fuga immediata, prima ancora che lo stimolo venga elaborato a livello cognitivo.

L’amigdala invia poi segnali all’ipotalamo che rilascia nell’ipofisi (ghiandola endocrina) il fattore rilasciante la corticotropina, determinando da parte dell’ipofisi l’immissione in circolo dell’ormone adrenocorticotropo; questo a sua volta stimola le ghiandole surrenali affinché liberino adrenalina, noradrenalina e glucocorticoidi, soprattutto cortisolo (l’ormone dello stress). Mentre adrenalina e noradrenalina attivano il sistema nervoso autonomo simpatico determinando un innalzamento degli indici fisiologici (conduttanza cutanea, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, dilatazione pupillare, tensione muscolare, vasodilatazione muscolare), rilascio di betaendorfine e inibizione dell’apparato digestivo, tipici del comportamento di attacco o fuga, il cortisolo influenza soprattutto il sistema immunitario e l’ippocampo.

Quest’ultimo a sua volta invia segnali a feedback negativo all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene per far cessare il rilascio di ormoni. Questa catena di reazioni ha una funzione adattiva in quanto permette all’organismo di reagire prontamente allo stressor. In condizioni di stress cronico invece, sia ha un iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il continuo rilascio di ormoni, soprattutto di cortisolo che può causare svariati disturbi tra cui quelli psicosomatici (cardiovascolari, dermatologici, gastrointestinali ecc.), immunitari (es mononucleosi) e depressione.

 

Le tecniche di rilassamento per il trattamento della cardiopatia

Per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della cardiopatia ischemica vengono attualmente proposti interventi non esclusivamente medici, ma anche psicologici, come le tecniche di rilassamento, mirati alla riduzione dei fattori di rischio psicosociale, alla modificazione dei comportamenti a rischio e alla modulazione della reattività cardiovascolare a situazioni stressanti.

Un intervento appropriato è rivolto alla riduzione della reattività cardiovascolare a situazioni stressanti, attraverso tecniche di rilassamento, come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e la mindfulness.

Una delle tecniche di rilassamento più conosciute, il rilassamento muscolare progressivo, è stato ideato da Edmund Jacobson intorno al 1920, negli Stati Uniti ed è finalizzato sia alla prevenzione che alla terapia di disturbi psicovegetativi, ma anche per le malattie croniche. L’allenamento alle tecniche di rilassamento può incrementare la capacità di superare con successo le tensioni quotidiane, rafforzare la salute e migliorare la qualità di vita. Le modificazioni fisiche e psichiche che compaiono nel contesto di un training di rilassamento, vengono anche chiamate “reazioni distensive” e comprendono anche diverse modificazioni somatiche: rallentamento e regolarizzazione della respirazione, riduzione del consumo di ossigeno, abbassamento della frequenza cardiaca, riduzione della pressione sanguigna (soprattutto nel caso di ipertensione), rilassamento della muscolatura scheletrica, modificazioni dell’attività elettrica cerebrale (indicanti dall’EEG uno stato di calma mentale). L’effetto del training di rilassamento è una crescente tranquillità, che rende possibile un miglior rapporto con le difficoltà quotidiane e un migliore controllo dello stress.

Alcuni studi sulle tecniche di rilassamento hanno dimostrato che il rilassamento progressivo, riducendo la PA, ha effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio riducendo il rischio di una recidiva in pazienti infartuati. Il rilassamento di Jacobson si basa sul rapporto reciproco tra mente e corpo: la psiche esercita un’influenza sul soma e modificazioni somatiche possono produrre cambiamenti nella mente. Attraverso il training deve essere raggiunta in modo sistematico una diminuzione della tensione della muscolatura volontaria, che a sua volta provoca una distensione psichica. La più profonda sensazione di calma induce, a sua volta, una maggiore distensione muscolare determinando una sorta di processo circolare all’interno del quale quanto più si rilassano i muscoli tanto più gli individui diventano calmi; tanto più l’individuo diventa calmo quanto più i muscoli si rilassano e cosi via. L’influenza positiva del training sulla salute non si basa primariamente sul singolo esercizio, ma sull’allenamento regolare, protratto nel tempo.

Tra le altre tecniche di rilassamento più efficaci, la mindfulness è una pratica meditativa di origine buddhista applicata clinicamente per la prima volta, verso la fine del 1970, dal medico americano Jon Kabat-Zinn; viene spesso definita come la capacità di prestare attenzione ai propri processi mentali e fisici, durante lo svolgimento di qualunque attività quotidiana, in modo non giudicante. È stato proposto un modello di concettualizzazione della mindfulness a due componenti, ciascuna delle quali è definita in termini di specifici comportamenti, manifestazioni esperienziali e processi psicologici implicati: la prima componente riguarda l’autoregolazione dell’attenzione, che viene mantenuta sull’esperienza immediata e con ciò favorisce una maggiore capacità di riconoscere gli eventi mentali nel momento presente; la seconda componente riguarda invece il particolare atteggiamento adottato verso la propria esperienza nel momento presente, caratterizzato da curiosità, apertura, accettazione.

Alcune ricerche nel campo delle tecniche di rilassamento indicano l’esistenza di una relazione tra la pratica mindfulness e i fattori di rischio per i disturbi cardiovascolari, come l’attività fisica, il fumo di sigarette, l’alimentazione e la pressione sanguigna. In particolare gli studi, preliminari ma promettenti, dimostrano che la mindfulness disposizionale o di tratto, intesa come la tendenza delle persone a prestare attenzione e ad essere consapevoli a ciò che accade loro nel momento presente, è associata ad un maggiore probabilità di smettere di fumare, di seguire una dieta sana ed equilibrata e di svolgere attività fisica regolarmente dopo un intervento cardiovascolare. Sembra che la mindfulness influenzi la salute, in particolare attraverso un miglioramento della capacità di autoregolazione incrementando il controllo attentivo, la regolazione emotiva e la consapevolezza di sé. In particolare la mindfulness:

  • Migliora l’abilità di prestare attenzione alle esperienze legate al rischio cardiovascolare come il fumo, la dieta, l’attività fisica e l’aderenza al trattamento medico. Infatti l’attenzione consapevole verso ogni esperienza può contribuire a comprendere gli effetti a breve e a lungo termine del fumo e degli altri comportamenti rischiosi, incrementando la motivazione intrinseca ad impegnarsi nell’adesione al trattamento.
  • Riduce lo stress migliorando la consapevolezza delle proprie modalità di risposta agli stressor e delle proprie capacità di fronteggiarli (autoefficacia).
  • Incrementa la capacità di gestire abitudini di vita sregolate come il fumo di sigarette, l’eccessivo consumo di cibo e la sedentarietà. Studi neurofisiologici hanno dimostrato che la mindfulness influenza l’attività delle aree cerebrali coinvolte nelle dipendenze e nei sistemi di ricompensa, in particolare la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia cingolata anteriore.
  • Migliora la consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri pensieri e delle sensazioni fisiche che sono particolarmente importanti per ridurre il rischio cardiovascolare. In particolare, attraverso un incremento della consapevolezza dell’esperienza presente, i pazienti possono apprendere a percepire chiaramente gli effetti a breve e a lungo termine dei comportamenti a rischio cardiovascolare come le limitazioni fisiche associate ad attività fisica inadeguata, letargia conseguente all’eccessivo consumo di zuccheri oppure ancora i dolori articolari associati all’obesità e al fumo di sigarette. Questo potrebbe incrementare la motivazione intrinseca ad assumere un comportamento più sano.

Il cigno nero (2010). Un caso di psicopatologia nella danza – Recensione del film

Protagonista del film Il cigno nero è Nina, una giovane ballerina di una nota compagnia americana, perennemente ostinata a raggiungere la perfezione in ogni piccolo dettaglio. Estremamente dotata dal punto di vista tecnico, la giovane si blocca quando è costretta a mostrare sensualità e sicurezza.

 

 

Il cigno nero: trama del film

Protagonista del film Il cigno nero è Nina, una giovane ballerina di una nota compagnia americana, perennemente ostinata a raggiungere la perfezione in ogni piccolo dettaglio.  Nonostante la fervente dedizione all’esercizio e al perfezionismo, la protagonista non possiede tutte le qualità di un’ineccepibile prima ballerina, tra cui la versatilità e la passione, fondamentali per assumere le personalità dei personaggi.

Estremamente dotata dal punto di vista tecnico e abile ad interpretare le parti in cui predominano la fragilità e l’inibizione, la giovane si blocca quando è costretta a mostrare sensualità e sicurezza, di conseguenza finisce per ripetere lo stesso copione, ma nel personaggio sbagliato.

Per questo motivo, agli occhi dell’esigente coreografo Leroy resta assolutamente inadeguata a ricoprire il ruolo di protagonista in uno dei balletti più complessi del repertorio classico: Il lago dei cigni. In tale frangente la difficoltà complessiva, infatti, non si posa solo sulle competenze tecniche, ma anche, e soprattutto, sulla malleabilità interpretativa.

La storia vede protagoniste due principesse, uguali nell’aspetto, ma dalla personalità antitetica; il cigno bianco, fragile e insicuro, il cigno nero, sensuale e coinvolgente, e spetterà alla prima ballerina interpretarli entrambi. Naturalmente, per sortire un effetto credibile, la finzione deve risultare verosimile e Nina è assolutamente troppo controllata e insicura per calarsi nei panni dell’affascinante e malvagia Odile, sosia e sostituta della principessa Odette creata dal perfido mago Rothbart  per ingannare il principe e consolidare la maledizione che costringerà la principessa a restare un cigno per l’eternità. Decisamente più affine alla delicata e debole Odette, Nina rivela fin da subito la fragilità psicologica che la accompagna dalla nascita.

 

Il rapporto della protagonista con la figura materna

Cresciuta con la madre che a soli 28 anni abbandona controvoglia la carriera da danzatrice per allevare da sé la figlioletta, Nina rimane l’eterna bambina della mamma che si dimostra estremamente disponibile e accudente nei suoi confronti, ma anche carica di rancore e odio per averla indotta, seppur involontariamente, nella condizione di commettere l’errore più grande della sua vita.

Giovane, ma pur sempre adulta, la protagonista de Il cigno nero non sembra aver realizzato una separazione- individuazione dal caregiver che amplifica e rafforza i tratti immaturi; la cameretta piena di giochi, i ritratti eseguiti compulsivamente, gli atteggiamenti invadenti e controllanti da un lato, inibiti e infantili dall’altro, la mancanza di rapporti sentimentali e sociali, sono alcuni degli elementi rilevanti nel rapporto tra Nina e la madre evidenziati con chiarezza ne Il cigno nero.

A tal proposito la ragazza appare un’estensione narcisistica dei bisogni materni: emblematica è la scena in cui la madre l’avverte sulle possibili avances del coreografo, che in passato gli sono costate l’interruzione del suo sogno nel cassetto, dichiarando apertamente il profondo odio nei confronti della figlia, condannata a pagare il prezzo della perfezione da raggiungere anche a costo della vita.

Il perfezionismo è quindi un modo per guadagnare le rassicurazioni esterne, ma anche un probabile “distrattore” dai bisogni di attaccamento: Nina evita i contatti sociali, amicali e sentimentali, l’allenamento è il suo chiodo fisso, fino a quando non basta più a raggiungere la completezza.

 

Tra perfezionismo e delirio

È allora che incontra la rivale Lily, una ballerina anticonformista, tatuata, fumatrice e ritardataria, ma proprio per questo ammirata dal coreografo che vede in lei il cigno nero, sensuale, coinvolgente e sicuro di sé. Imperfetta dal punto di vista tecnico, ma naturale, spontanea e imprecisamente interessante, Lily è sostanzialmente l’esatto opposto di Nina che, sempre più pressata dalle aspettative esterne e confusa sulle soluzioni per diventare la protagonista perfetta, comincia a maturare significativi deliri e allucinazioni a sfondo persecutorio.

Nella trama psicotica, Lily assume una forte valenza, proprio perché possiede i tasselli mancanti per interpretare entrambi i cigni: tuttavia, ogni tentativo di imitarla fallisce perché forzato dall’esterno e coadiuvato dalle sostanze. Nina è attratta dal carattere dell’amica che non teme il giudizio, né si preoccupa di rasentare la perfezione, perché la sua spontaneità è premiata anziché condannata. Lily è tutto ciò che Nina non è e non riesce ad essere per l’eccessivo bisogno di rassicurazioni, interne ed esterne; non è spontanea ma rigidamente ancorata agli standard e agli ideali irraggiungibili, alla necessità di definizione e di perfezione attraverso la minuziosa attenzione ad ogni dettaglio.

Nemmeno Leroy riesce a correggerla efficacemente e a contenere le sue paure, anzi, la istiga a spada tratta, fomentando i dubbi e le paure, forse per spronarla a tirare fuori quel lato di sé nascosto, ma presente. Il cigno nero, sensuale e coinvolgente, ma anche distruttivo e malato, è sempre stato in Nina, ma la riluttanza ad accettare quel lato oscuro di sé diventa un potente deterrente per l’insorgenza della psicosi.

In questo senso, i colleghi vengono visti come pericolosi complottisti che tramano per escluderla dal saggio finale, qualsiasi segnale diventa la conferma che la parte verrà affidata a Lily perché possiede le carte in regola per la protagonista perfetta; l’improvvisa uscita di scena di Beth, la precedente prima ballerina, gli apprezzamenti su Lily che diventa la protagonista “di riserva” nel caso Nina non fosse in forma per il debutto, assumono un significato abnorme e confermano le idee persecutorie di partenza.

Quello che sfugge alla protagonista è, in qualche modo, un principio sottolineato da Leroy: “La perfezione non è solo un problema di controllo, è necessario metterci il cuore. Sorprendi te stessa e sorprenderai chi ti guarda.”  Il coreografo cerca di migliorarla, di indurla ad accettare l’altra sé, il cigno nero, che ha visto in lei poco prima di annunciarla come protagonista. Leroy crede nelle risorse di Nina, ma la incoraggia nel senso sbagliato, prova a farle notare che quella parte è dentro di lei più di quanto immagini, ma le sue direttive sembrano più orientate su precetti che la ragazza interpreta alla lettera, e i confronti con le colleghe non si rivelano ottime strategie di miglioramento, anzi, peggiorano la sintomatologia fino a renderla aggressiva verso gli altri, e infine verso sé.

L’autolesionismo, che prima arrivava a qualche graffio sulla schiena, verso la fine del film sfocia nel suicidio: anche in questo momento, è interessante notare l’oscillazione tra la fantasia delirante e la realtà dei fatti. Nina è convinta di uccidere Lily, dopodiché si sente libera di scatenare il cigno nero, ma quando si confronta con la verità, ovvero che Lily è viva, intatta ed entusiasta per il successo dell’amica, è allora che realizza di non avere altri nemici oltre a se stessa, e ritorna la fragile e debole Odette che si congeda dal mondo dei vivi serafica, per aver raggiunto lo scopo della sua esistenza: essere perfetta.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM 

 

La psicopatologia e il malessere nella danza

Il film Il cigno nero è un ottimo punto di partenza per riflettere sulle possibili problematiche legate al mondo della danza. Il caso di Nina esprime alcune fragilità psicologiche che nella danza possono trovare un terreno fertile per aggravarsi; i confronti svilenti con le compagne, la comunicazione inefficace, l’assenza di supporto psicologico nella preparazione, la competizione e le pressioni esasperanti contribuiscono a peggiorare i sintomi fino al finale tragico.

In tal senso occorre considerare questi fattori di rischio trasversali a varie discipline; la danza, ad esempio, può essere un ottimo strumento terapeutico in grado di promuovere una consapevolezza di sé attraverso l’espressione emotiva intrisa nei movimenti corporei, proprio a questo proposito non devono mancare le strategie di insegnamento più indicate per indurre ogni allievo a raggiungere una coscienza dei pregi e dei difetti personali, al fine di accettarli o valorizzarli e migliorarli.

Nel caso di Nina, Leroy non spiega dettagliatamente il problema, bensì resta su un piano generalizzante, a tal punto che la ragazza in diverse occasioni ripete l’errore e chiede informazioni aggiuntive senza ottenere una risposta esaustiva.

Episodi analoghi accadono con elevata frequenza nel rapporto allievo-docente: spesso gli insegnanti danno per scontati alcuni passaggi o la spontaneità dei gesti, ostinandosi sul proprio punto di vista. Il rischio è quindi di esacerbare un circolo vizioso di incomprensioni, senza la possibilità di focalizzarsi costruttivamente sul problema per risolverlo.

Un altro errore ricorrente è il confronto con gli altri, o addirittura la valorizzazione di un singolo allievo: prendere un soggetto isolatamente come un esempio per eseguire correttamente un esercizio, non si dimostra un mezzo efficace per ottenere un miglioramento, anzi rafforza la competizione tra i compagni evitando la possibilità di intervenire sulle carenze.

È importante trasmettere la motivazione nelle giuste modalità, manifestando empatia e disponibilità ad aiutare ad affrontare il nodo problematico: ad esempio, comunicare la complessità dell’esercizio o dell’espressione delle emozioni in pubblico, specialmente per i principianti, ma anche l’importanza di esercitare le carenze, o in casi estremi, di accettarle come limiti delle proprie capacità può rivelarsi efficace.

Il perfezionismo, infine, non va confuso con la motivazione al cambiamento e al miglioramento delle prestazioni: è necessario distinguere l’esasperazione nel raggiungimento degli obiettivi ad ogni costo, dall’impegno consapevole dei limiti e delle potenzialità.

È opportuno precisare che il caso di Nina è, con molte probabilità, un tipico quadro di una schizofrenia per gli elementi ricorrenti in questa patologia psichiatrica; la famiglia controllante, ipercritica e intrusiva, con pochi contatti sociali, la prevalenza di schemi orientati sulla diffidenza, l’incapacità di coltivare rapporti intimi sentimentali e amicali. Come accade solitamente, la sintomatologia schizofrenica si scatena in seguito ad eventi dove le responsabilità e il carico di lavoro, o di studio, aumentano vertiginosamente, o ancora, quando compare una delusione affettiva.

Per quanto riguarda Nina, tra gli eventi di vita collegati con più frequenza all’esordio spiccano l’audizione per la parte principale del saggio e la conseguente assegnazione del ruolo. Non sono gli episodi presi isolatamente ad essere particolarmente stressanti, bensì l’interpretazione della protagonista che estremamente sensibile al giudizio esterno e alla realizzazione di una performance completa subisce un crollo psicologico quando le strategie utilizzate in precedenza si rivelano fallimentari. In tal senso è fondamentale prendere in considerazione il livello di gravità per un intervento su vari piani volti a ridurre il peggioramento della sintomatologia; ad un intervento psichiatrico e psicoterapico centrato sul paziente, vanno associati gli interventi psicologici rivolti ai famigliari, e la possibilità di un ricovero in fase acuta.

Infine, il film Il cigno nero trasmette un’importante lezione nel contesto artistico: per emozionare il pubblico è necessario emozionarsi, e quindi affrontare ,e allenare, determinate caratteristiche di personalità, come la timidezza ad esempio, o la sensualità. La vicenda insegna che la completezza artistica non comprende solo la padronanza tecnica, ma anche l’importanza di suscitare un impatto emotivo nello spettatore, una competenza che può maturare attraverso le competenze psicologiche, come l’assunzione di molteplici prospettive, il riconoscimento e l’espressione emotiva, l’intraprendenza, per citarne alcune. Da ciò si deduce la necessità di una figura psicologica da affiancare all’insegnante per allenare le potenzialità psichiche implicate nell’espressione artistica.

Con la testa tra le nuvole: il vagare della mente tra creatività e rimuginio

Il vagare della mente corrisponde allo stato naturale della mente a contatto con se stessa, supportata dall’attività di aree cerebrali definite default mode network.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 19/11/2016 su La lettura, del Corriere della Sera

 

Avevo bisogno di una scusa. Un dato scientifico che mi garantisse l’assoluzione agli occhi della mia compagna, di tutti i colleghi che so volermi bene, dei miei figli anche. Guardo il libro di Corballis, La mente che vaga, negli occhi lo stesso lampo incredulo di un ladro a cui affidano la cassa del supermercato, “Mi scusi me la controlla un attimo? Il tempo di un caffè”. Lo sfoglio, è mio. Il testimone che cercavo che, agli occhi di una corte arcigna, affermasse che il vagare con la mente è pratica salutare, normale, dignitosa.

Distrazione, testa tra le nuvole la chiamano gli accusatori, gente di senso pratico, capace di saperti indicare ferramenta, idraulico e farmacia in tre quartieri adiacenti senza avvalersi di protesi elettroniche. Ora posso rispondere: il vostro disappunto è infondato. Io e tutti i viaggiatori della mente – mai più osiate chiamarci distratti – svolgiamo mansioni utili. Sia messo a verbale: il vagare della mente corrisponde allo stato naturale della mente a contatto con se stessa, supportata dall’attività di aree cerebrali definite default mode network.

Ottenuta l’assoluzione, mi tocca essere onesto. Il vagare con la mente ha due facce. È associato alla capacità di staccarsi dagli stimoli contingenti, costruire mondi alternativi e, quindi, fornire un basamento della creatività. D’altra parte è infarcito di rimuginio, la tendenza ad aggrovigliarsi sulle proprie preoccupazioni e a farle diventare alte come torri malesi. O facilita il consolidarsi di certezze consolatorie. Per dire, i narcisisti durante il vagare mentale dimorano nelle loro fantasie di un futuro grandioso ma se non lo fanno rivangano un passato inquietante.

Buon antidoto al vagare sterile è la mindfulness, l’arte di coltivare la consapevolezza del presente. Immagino una società di viaggiatori mentali che rivendichi il diritto a essere altrove, indossando una maglietta con l’avviso: “Stiamo creando”. Quel viaggio, non ce lo interrompete.

Come percepiamo gli odori: questione di chimica o di cultura?

Quando due persone odorano la stessa cosa, possono avere reazioni completamente diverse, a seconda di quello che è il loro background culturale. 

Mariagrazia Zaccaria

 

Alcuni ricercatori hanno infatti notato che anche quando due culture condividono la stessa lingua (ad esempio il Quebec e la Francia), le persone reagiscono in maniera diversa agli stessi odori.

In una collaborazione con alcuni ricercatori del Neuroscience Centre di Lione, la Dr.ssa Jelena Djordjevic e il suo gruppo di ricerca al Montreal Neurological Institute hanno testato dei soggetti in Quebec sulle loro impressioni soggettive a diversi profumi, contemporaneamente alcuni loro collaboratori in Francia svolgevano lo stesso lavoro. Hanno scelto per la ricerca sei profumi: anice, lavanda, acero, olio di Wintergreen, rosa e fragola.

Ai partecipanti è stato chiesto di sentire l’odore di ogni essenza prima senza esser a conoscenza di cosa stessero annusando e i soggetti hanno valutato il profumo in termini di gradevolezza, intensità, familiarità e commestibilità.

Gli studiosi hanno anche misurato le reazioni non verbali dei soggetti ogni volta che annusavano un profumo diverso, tra cui: sniffing, l’attività dei muscoli facciali, respirazione e frequenza cardiaca.

I ricercatori hanno anche trovato delle differenze significative tra feedback agli stessi odori tra i francesi e i franco-canadesi.

Ad esempio, i soggetti francesi quando annusano l’olio di Wintergreen, mostrano dei feedback sulla piacevolezza molto più bassi rispetto ai soggetti franco-canadesi. Questo succede perché, in Francia, quest’olio è usato più come medicinale rispetto al Canada, dove si trova anche nelle caramelle.

I soggetti canadesi hanno mostrato più familiarità con odori tipo l’acero e l’olio di Wintergreen rispetto ai soggetti francesi, mentre a loro volta i francesi sono più familiari al profumo di lavanda. Il profumo di anice è stato descritto in maniera molto simile da entrambe le culture, anche se molto spesso in Quebec è stato definita come “liquirizia” e in Francia come “anice”.

Invece, nel momento in cui ai soggetti è stato reso noto il nome di ciò ciò che stavano annusando, si è riscontrato un aumentato della loro sensazione di familiarità e piacevolezza. Inoltre, le differenze culturali sono quasi scomparse o comunque diminuite per la maggior parte dei casi nel momento in cui era noto ciò che si stava annusando. Questo si è verificato anche per le reazioni non verbali ai profumi.

I risultati suggeriscono che le rappresentazioni mentali che si attivano se si associa un nome ad un odore sono molto simili tra le due diverse culture prese in esame. Anche le differenze culturali che si verificano nella percezione degli odori sono molto sottili e facilmente riducibili quando viene fornito ai soggetti il nome di ciò che stanno annusando.

Questo studio supporta l’idea che l’elaborazione del nostro cervello non è dovuta alla sola reazione ai composti chimici che compongono il profumo. Essa è influenzata sia dalla pregressa storia che si ha con quel determinato profumo che dalla sua conoscenza.

La Dr.ssa Djordjevic ha affermato che i processi base come quelli esaminati in questo studio, l’olfatto, sono influenzati dalla nostra cultura e dalle nostre conoscenze.

Il senso dell’olfatto occupa una parte molto antica del nostro cervello e studiarlo, ci aiuta a capire quanto e come ci siamo evoluti come specie. Inoltre, la perdita di funzionalità dell’olfatto è comune perché fa parte del normale processo di invecchiamento di un individuo, ma anche di molte condizioni neurologiche. Lo studio di questi disturbi può fornirci importanti indizi sui meccanismi di questi deficit e aiutarci a capire i modi per trattarli.

 

Bambini maltrattati: ecco come reagisce il loro cervello a parole di rifiuto

I dati di un recente studio clinico portano in evidenza una risposta neurale alterata agli stimoli di rifiuto sociale nei bambini maltrattati under 14.

Mio lì Chiung Ching Wang

 

Diversi studi internazionali – uno dei più celebri è stato eseguito nel 2014 da un’equipe della Graduate School of Education di Sapporo – hanno evidenziato come il cervello dei bambini maltrattati incontri alterazioni di sensibilità per quanto riguarda le risposte agli stimoli facciali di minaccia.

Tuttavia si conoscono poco i meccanismi d’influenza che i maltrattamenti hanno sull’elaborazione generale di una minaccia sociale, e ancor meno si sa riguardo al rischio psichiatrico in caso di elaborazioni atipiche degli spunti di minaccia.

Tutto ciò rappresenta una lacuna sicuramente da colmare per favorire il lavoro dei genitori e degli educatori, che hanno un ruolo fondamentale nel percorso di guarigione che segue un maltrattamento.

 

Come i bambini maltrattati reagiscono al rifiuto emotivo

Un recente studio, condotto da un’equipe attiva presso il dipartimento di psicologia della University College London, ha cercato di chiarire la situazione monitorando le reazioni di 41 bambini da 10 ai 14 anni, sottoposti a uno stimolo di rifiuto emotivo.

Nel suddetto campione sono stati inclusi 21 bambini con una storia documentata di maltrattamenti, e un gruppo di controllo di altri 20 che non avevano alle spalle alcun episodio di quella natura. I gruppi sono stati abbinati per età, sesso, stato puberale, quoziente intellettivo, status socio – economico. Le reazioni neurali allo stimolo di rifiuto emotivo sono state monitorate con la risonanza magnetica.

Rispetto ai loro coetanei, i bambini maltrattati hanno dimostrato una sensibilità ridotta davanti agli stimoli di rifiuto (dato confrontato con le reazioni davanti a stimoli neutrali). Questi risultati sono stati ottenuti osservando delle aree del cervello coinvolte nel disturbo da stress post traumatico successivo all’abuso, ossia l’amigdala sinistra, la corteccia parietale inferiore sinistra e la corteccia visiva.

Non sono state riscontrate sostanziali differenze tra i bambini coinvolti nel gruppo sperimentale e quelli coinvolti nel gruppo di controllo per quanto riguarda l’effetto Stroop, ossia la variazione dei tempi di reazione nell’esecuzione di un determinato compito, ossia la pronuncia ad alta voce del colore usato per stampare una parola.

I dati di questo studio clinico portano in evidenza una risposta neurale alterata agli stimoli di rifiuto sociale nei bambini maltrattati under 14. Rispetto ai loro coetanei hanno infatti mostrato un’attivazione cerebrale minore davanti a segnali di rigetto emotivo, tutto questo in aree del cervello precedentemente interessate da episodi di forte stress.

Tutto questo suggerisce, nei limiti della scarsità quantitativa del campione preso in esame, una reazione alle minacce che è un indice di vulnerabilità latente, futuro terreno per l’insorgenza di psicopatologie e di PTSD (disturbo post traumatico da stress) e che deve essere seguito da un approccio terapeutico mirato volto a prevenire conseguenze critiche in età adulta.

Il funzionamento cognitivo nella sclerosi multipla

Il profilo neuropsicologico caratteristico della sclerosi multipla presenta deficit a carico di diversi domini, quali attenzione, velocità di elaborazione delle informazioni, funzioni esecutive e memoria a lungo termine.

Anna Maria Mirto – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Che cos’è la Sclerosi Multipla?

La sclerosi multipla (SM), anche detta sclerosi a placche, è una patologia cronica autoimmune, infiammatoria e demielinizzante, progressivamente invalidante, a eziopatogenesi non definita, che colpisce il  sistema nervoso centrale (SNC) (Cambier Jean M.M., 2005).

Essa rappresenta la più frequente malattia neurologica tra i giovani adulti (Grossi P., 2008) il cui esordio si manifesta nel 70% dei casi tra i 20 e 40 anni (Vella L., 1985; Grossi P., 2008), con un’età media d’insorgenza di 28 anni (Lanzillo R. et al., 2016).  Negli ultimi anni, si è inoltre osservato un incremento dal 3% al 5% di casi di sclerosi multipla ad esordio precoce, ossia precedente ai 18 anni (Lanzillo R. et al., 2016).

Il termine “sclerosi” attribuito alla malattia deriva dalla presenza di lesioni, caratterizzate da indurimento e cicatrizzazione dei tessuti, che prendono il nome di placche. Queste, nella sclerosi multipla, presentano due aspetti peculiari su cui viene fondata la diagnosi, quali la disseminazione temporale, ossia un andamento progressivo e ingravescente nel corso della malattia, e la disseminazione spaziale. È relativamente a quest’ultima che si spiega il perché dell’aggettivo “multipla”, derivante dalla molteplicità di aree cerebrali e regioni del midollo spinale interessate dal processo patologico di demielinizzazione (o dissociazione assomielinica). In particolare, i siti in cui più frequentemente si localizzano le placche riguardano la sostanza bianca delle regioni periventricolari, del nervo ottico, del tronco encefalico, del cervelletto e nei cordoni anterolaterali e posteriori del midollo spinale (Vella L., 1985).

 

Sintomatologia

L’effetto fisiopatologico del processo di dissociazione assomielinica consiste nella riduzione della velocità di conduzione degli impulsi, la quale si manifesta attraverso un eterogeneo spettro sintomatologico. Infatti, dipendentemente della sede del focolaio di demielinizzazione che va in contro a perdita della propria funzionalità, è possibile osservare l’insorgenza di diversi sintomi (Cambier Jean M.M., 2005):

  • Motori: dovuti ad un interessamento della via piramidale, possono manifestarmi mono- o bilateralmente, distribuendosi in maniera emiparetica (l’emiparesi è la perdita parziale della forza muscolare e della motilità volontaria di un lato del corpo, dx o sx) o, più spesso, paraparetica (la paraparesi è la perdita parziale della forza muscolare e della motilità a entrambi gli arti superiori o inferiori. ). Tra i deficit motori più frequenti rientrano l’alterazione della marcia che assume carattere di spasticità, il segno di Babinski, abolizione dei riflessi addominali superficiali del riflesso velo palatino;
  • Sensitivi: interessano uno o più arti, il tronco e il volto, e possono manifestarsi mono- o bilateralmente. Consistono in parestesie tattile, termica e algica, e segno di Lhermitte (quest’ultimo consiste in una sensazione di scarica elettrica);
  • Cerebellari: si manifestano in disturbi dell’equilibrio e della coordinazione motoria, come l’atassia della marcia, perdita di equilibrio ed insorgenza di vertigini, astenia degli arti, disartria (ovvero disturbo motorio del linguaggio dovuto a disordine fonoarticolatorio caratterizzato da debolezza e mancanza di coordinazione della lingua e della muscolatura orale e facciale.) associata a scarsa fluidità nell’eloquio, lentezza e alterazione della prosodia, disfagia;
  • Deficit dei nervi cranici:  i sintomi variano in funzione del nervo soggetto a demielinizzazione. I più frequenti sono vertigine, disequilibrio e nistagmo, ovvero movimenti oscillatori, ritmici e involontari dei globi oculari (vie vestibolari), ipoacusia (nervo cocleare), miochimie (disturbi del movimento che consistono in contrazioni muscolari involontarie ampie) facciali, paralisi facciale periferica, emispasmo facciale (contrazione unilaterale, involontari ed intermittente dei muscoli della faccia, nervo facciale in particolare), diplopia (nervi oculomotori), neurite ottica retro bulbare (NORB, nervo ottico: essa può essere definita come uno dei sintomi caratteristici della sclerosi multipla in quanto, nel corso dell’evoluzione della malattia, presto o tardi che sia, si manifesta attraverso l’abbassamento dell’acuità visiva);
  • Disfunzioni vegetative: osservabili nella percezione di fatica, nei disturbi intestinali (stipsi o dissenteria), sessuali (perdita sensibilità genitale, diminuzione della libido, disfunzione erettile e perdita della capacità orgasmica), delle vie urinarie (incontinenza);
  • Sintomi parossistici: rappresentano sintomi a insorgenza improvvisa e risoluzione rapida, nella sclerosi multipla ne è un esempio l’epilessia.

L’esame di questi sintomi, e quindi dell’efficienza dei diversi sistemi neurologici funzionali, permette di misurare lo stato di invalidità delle persone affette da sclerosi multipla e di monitorare la progressione della malattia.

Uno degli strumenti utilizzati a tal fine e che nella pratica clinica viene specificatamente impiegato per la valutazione delle strategie terapeutiche è l’Expandend Disability Status Scale (EDSS) (Kurtzke J.F., 1983) [v. Fig. 1].

 

il funzionamento cognitivo nella sclerosi multipla fig 1

Fig. 1 – Expandend Disability Status Scale (EDSS)

 

Questa scala, tuttavia, si mostra inadeguata nel fornire una valutazione globale della sintomatologia caratteristica della Sclerosi Multipla in quanto non prevede l’indagine funzionale dello status degli arti superiori e del quadro cognitivo. A tal proposito, lo strumento per eccellenza raccomandato inoltre dalla Task Force on Clinical Outcomes Assessment of National Multiple Sclerosis Society è il Mulpiple Sclerosis Funcional Composite (MSFC), il quale consente un’indagine multidimensionale dei sintomi clinici della sclerosi multipla (Fischer J.S. et al., 2013).

 

Funzionamento Cognitivo

Come riportato pocanzi, tra i sintomi clinici della sclerosi multipla rientra anche la compromissione degli aspetti cognitivi. Infatti, tra la popolazione affetta da questa patologia si stima un range di prevalenza di alterazione del funzionamento cognitivo che va dal 43% al 70% (Chiaravallotti N.D. e DeLuca J., 2008). Tale ampia variabilità dei dati può essere ricondotta ai differenti criteri clinici di selezione del campione adottati dai diversi studi (es: tipo di decorso, grado di disabilità e durata della malattia) (Planche V. et al., 2015).

Il profilo neuropsicologico caratteristico della sclerosi multipla presenta deficit a carico di diversi domini, quali attenzione (sostenuta, selettiva, divisa e alternata), velocità di elaborazione delle informazioni, funzioni esecutive (concettualizzazione astratta, problem solving, pianificazione, multitasking, fluenza verbale) e memoria a lungo termine (Chiaravallotti N.D. e DeLuca J., 2008). I domini solitamente risparmiati sono, invece, il linguaggio e l’intelligenza generale (Q.I.) (Planche V. et al., 2015).

Alcuni studi hanno osservato differenti quadri di funzionamento cognitivo in correlazione al tipo di variante di sclerosi multipla. In particolare, in una recente ricerca condotta da un gruppo francese (Planche V. et al., 2015), si è tentato di fare chiarezza circa le somiglianze e le differenze cognitive tra le varianti Recidivante-Remittente (RR), Progressiva Secondaria (PS) e Progressiva Primaria (PP).

I domini indagati nel presente studio erano: velocità di elaborazione, working memory, memoria verbale episodica, funzioni esecutive, fluenza verbale, denominazione e prassia costruttiva. Tra questi, la velocità di elaborazione delle informazioni è emersa come la funzione cognitiva più frequentemente danneggiata, seguita poi da memoria verbale episodica, funzioni esecutive, abilità costruttive visuo-spaziali. Relativamente alla correlazione tra tipologia di variante della sclerosi multipla e grado di severità dell’alterazione cognitiva, è emerso che, tra i 101 soggetti inclusi nello studio, il 77% mostrava un declino cognitivo caratterizzato da almeno 1 dominio danneggiato, il 63%, invece, presentava una alterazione severa (almeno 2 domini danneggiati). Tra i partecipanti alla ricerca rientranti in quest’ultima condizione, si è osservata una maggioranza di pazienti con forma progressiva, di cui quelli con variante PS sono risultati essere più frequentemente interessati.

Infine, dalle analisi dei dati sociodemografici e dell’EDSS si sono riscontrate una correlazione positiva tra alterazione cognitiva e disabilità fisica e una correlazione negativa tra declino cognitivo e scolarizzazione. Pertanto, dallo studio di Planche e collaboratori (2015) si evince come le forme progressive, ed in particolare la variante PS, e un grado di disabilità medio (EDSS > 4) rappresentino due predittori del declino cognitivo.

Relativamente ai cambiamenti del funzionamento cognitivo nel corso della progressione della malattia, ad oggi si contano pochi studi longitudinali in letteratura che hanno analizzato questo aspetto. In particolare in un follow-up di 10 anni condotto da Amato e collaboratori (2001) si è stimato un incremento della popolazione con declino cognitivo pari al 30%; in un altro studio, poi, hanno osservato una progressione del declino con estensione verso molti domini cognitivi precedentemente integri (Kujala P. et al., 1996)

 

Depressione e Declino Cognitivo

La presenza di disabilità fisica, unitamente alla percezione di una bassa qualità della vita, hanno, nel malato affetto da sclerosi multipla, un forte impatto sulla sfera psicoemotiva,  influenzando le capacità di coping e lo stato dell’umore (Lynch S.G. et al., 2001; Lanzillo R. et al., 2015; Johansson, S. et al., 2016).  In particolare, il sintomo psichiatrico maggiormente diffuso in questa patologia, già noto ai tempi di Charcot (1879), scopritore della sclerosi multipla, è la depressione.

Data l’alta frequenza con cui questo disordine dell’umore si presenta nella sclerosi multipla, diverse ricerche hanno analizzato la possibile relazione tra questo sintomo e il funzionamento cognitivo. I risultati ad oggi presenti in letteratura, sembrano suggerire una ricaduta negativa della depressione sulla performance cognitiva solo entro i livelli moderato-severo del sintomo psichiatrico e in maniera circoscritta ai domini cognitivi di velocità di elaborazione, working memory e funzioni esecutive (Siegert, R.J. e Abernethy, D.A., 2005).

 

Conclusione

La sclerosi multipla si configura come la prima patologia neurologica a comportare invalidità fisica tra la popolazione giovane. A causa del processo di demielinizzazione caratteristico della malattia e che interessa molteplici siti cerebrali e del midollo spinale, la vita del malato di sclerosi multipla si ritrova costellata da una eterogenea sintomatologia, indicativa della compromissione di diversi domini funzionali, fisico-motori e cognitivi. I deficit che insorgono hanno poi un impatto sull’autonomia dell’individuo, incidendo negativamente, spesso, sulla percezione della qualità di vita e sulla sfera emotiva.

Risulta, pertanto, fondamentale intervenire quanto più precocemente possibile, non solo farmacologicamente per evitare e ritardare la disabilità fisica, ma anche con un supporto psicologico al fine di aiutare il paziente ad affrontare e accettare i cambiamenti dovuti dalla malattia.

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