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Tra orientamento sessuale non conforme e religione cattolica: un’intervista

Una riflessione sul rapporto che una persona con orientamento sessuale non eterosessuale può avere con la fede cattolica. Lo scopo sarà quello di mettere in evidenza la sofferenza psichica a cui una persona può andare incontro nel vivere entrambe queste dimensioni. Si farà riferimento alla religione cristiana cattolica in particolare, in quanto nel contesto italiano è la confessione a cui più persone aderiscono.

 

Alcuni precetti della Chiesa Cattolica

Qui di seguito verranno riportati esigui elementi essenziali della Chiesa Cattolica, per fare questo ci si è serviti del “Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio” redatto da una commissione di Cardinali, presieduta da Papa Benedetto XVI e pubblicato nel 2005.

All’interno della Chiesa Cattolica, l’Eucaristia, più comunemente conosciuta come “Comunione”, “è il segno dell’unità, il vincolo della carità, (…) nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della vita eterna”. Per un fedele l’Eucaristia assume molta importanza, in quanto “è fonte e culmine di tutta la vita cristiana”.

Per poter ricevere la santa Comunione la Chiesa richiede che si sia “pienamente incorporati alla Chiesa cattolica (…), cioè senza coscienza di peccato mortale. Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave deve ricevere il Sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione”.

Un peccato è considerato mortale, anziché veniale, quando “ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso”. In questo caso dunque, per accedere all’Eucaristia, che ricordiamo essere, per il cattolicesimo, l’origine e l’apice della vita cristiana, si devono confessare i propri peccati gravi, impegnandosi a non peccare più, al sacerdote, perché si possa ottenere il perdono. Il perdono ha la potenza di eliminare le azioni ormai compiute ed il peso delle conseguenze di queste, oltre a permettere di tornare allo stato di grazia, di riconciliarsi con la Chiesa, di riappropriarsi della pace e della serenità della coscienza.

 

Identità sessuale e fede religiosa

All’interno della Chiesa Cattolica, una persona con orientamento sessuale non unicamente eterosessuale sentirà l’esigenza di dover “essere in grazia di Dio” per accedere al sacramento dell’Eucaristia, e per questo motivo confesserà i propri atti omosessuali, considerati gravemente contrari alla religione cristiana. La Confessione ruoterà dunque attorno all’atto omosessuale, anziché all’identità sessuale della persona. Eppure questa scissione tra atti ed identità non è così facile da attuarsi, soprattutto in materia di percezione di se stessi.

Ci serviremo a questo proposito delle parole di una grande filosofa come Hannah Arendt, allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers: “Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano (…). Questo rivelarsi del “chi” è qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” – le sue qualità e capacità, i suoi talenti e i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti – è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia. Si può nascondere “chi si è” solo nel completo silenzio e nella perfetta passività”.

In questa cornice i propri sentimenti, atti e la propria identità sembrano essere in contrasto con la morale della propria Chiesa. Questo conflitto potrebbe giocarsi tra il bisogno di vivere serenamente la propria sessualità ed il bisogno che Dio, Gesù e la Chiesa amino ed accettino l’identità sessuale e le azioni che la caratterizzano. Questi bisogni si presentano sia a livello intrapersonale, che interpersonale. Attraverso uno sguardo più propriamente cognitivo potremmo immaginarci due pensieri esemplificativi in opposizione tra loro:

“sono felice di aver avuto un rapporto sessuale con X, persona del mio stesso sesso”; e

“mi pento di aver avuto un rapporto sessuale con X, persona del mio stesso sesso”.

La seconda cognizione è ampliabile a “mi pento davanti agli occhi di Dio, Gesù e della Chiesa di aver avuto un rapporto sessuale con X”. Questa aggiunta cambia sicuramente, da un punto di vista psicologico, il “locus of thought”.

Rimanere all’interno di questo conflitto può creare malessere e stress, dovuti ad una visione non coerente ed univoca di sé e delle proprie credenze. Come riportato in un precedente articolo sul tema della dissonanza cognitiva il disagio aumenta di intensità in relazione all’importanza che gli argomenti in contraddizione rivestono per la persona. In questo caso, sia l’identità di una persona che la sua fede (ed il conseguente o talvolta scisso senso di comunità) sono temi rilevanti.

Nel 2009 una task force dell’American Psychological Association ha approfondito il tema della religione e dell’omosessualità in termini di minority stress e stigma, invitando psicologi e psicoterapeuti a considerare come ciò possa diventare un ulteriore stressor in persone appartenenti ad una minoranza. L’APA invita i professionisti a riconoscere l’importanza della religione, in quanto sistema di significati, comunità, cultura ed identità. Una ricerca condotta in Italia ha portato alla pubblicazione:

 

Religione e omosessualità: uno studio empirico sull’omofobia interiorizzata di persone omosessuali in funzione del grado di religiosità, D. Dèttore, A. Petilli, A. Montano, G.B. Flebus.

Ricerca di cui si riporta l’abstract:

«Secondo i dettami della Congregazione per la Dottrina della Fede, il desiderio omosessuale, ma soprattutto il comportamento omosessuale, sono in netto contrasto con la dottrina cattolica istituzionalizzata. Gay e lesbiche cattolici si trovano quindi in stato di grande conflitto. Con l’intento di favorire lo sviluppo di un’identità in cui fede e omosessualità sono integrate con successo, i gruppi italiani di cristiani omosessuali organizzano numerose attività finalizzate a ridurre lo stigma derivante dalla condanna cattolica dei rapporti omoerotici e a promuovere una fede personale che potrebbe trasformare la religione in una potente risorsa psicologica. Per valutare se tali obiettivi vengano raggiunti, il presente studio si propone di verificare se i livelli di omofobia interiorizzata dei partecipanti siano minori rispetto a quelli mostrati dai gay e dalle lesbiche cattolici che non li hanno mai frequentati e dagli omosessuali non credenti. Benché emerga che i soggetti cattolici dello studio siano più omofobici, le loro condizioni mentali generali non differiscono rispetto a quelle degli omosessuali non credenti. Inoltre, all’aumentare del tempo dedicato alla frequentazione dei gruppi i livelli di omofobia interiorizzata dei partecipanti si riducono mentre migliora il benessere psicologico generale. Nelle conclusioni tali dati sono discussi in relazione all’efficacia di tali gruppi».

 

Tra orientamento sessuale non conforme e religione cattolica: l’intervista

Per concludere, riporterò in seguito alcune delle parole di una donna, omosessuale e cattolica, che si è gentilmente resa disponibile a rispondere a qualche domanda sul suo modo di vivere il rapporto tra questi due nuclei della sua attuale vita.

 

Cos’è per te la Religione?

«Il Cristianesimo è una relazione. La mia conversione è avvenuta con l’incontro con la figura di Gesù e un Dio che è Verità, la Verità che si fa uomo. La Verità che ci porta è che la misura dell’amore è il sacrificio. Il compimento di questa Verità sta nella Passione, che Gesù vive e che è la realizzazione di “non c’è cosa più grande che dare la vita per i propri amici”. Quindi, quando mi dimentico che cos’è l’Amore, quando perdo la bussola, e mi sento confusa, nelle relazioni sentimentali e con gli amici, io guardo la croce e mi ricordo qual è il fine della nostra vita, che in definitiva siamo fatti per Amare, nel suo significato più pieno ed alto. Quindi potrei dire che la religione, la Croce è il mio nord»

 

Cos’è per te il sacramento della Riconciliazione?

«E’ come se Dio ti guardasse e ti dicesse “Peccato! Ti avevo creato per qualcosa di meglio di questo”. E non è il dito puntato. Questo cambia la prospettiva ed è come se ogni volta Dio veramente rinnova quello sguardo di fiducia su di te, e ti ridà la possibilità di far sbocciare dentro di te la tua parte migliore, anche se sa che nella tua debolezza umana molto probabilmente ricadrai. E quindi io veramente quando ricevo l’assoluzione vivo un momento di grandissima commozione»

 

Cos’è per te il sacramento dell’Eucaristia?

«E’ Gesù che compie il sacrificio totale di Sé. E attraverso la partecipazione all’Eucarestia entriamo a far parte del suo corpo mistico, che è la Chiesa, intesa come comunione dei credenti, ovvero di coloro che dovrebbero rinunciare al peccato (risata), e che umanamente fanno quello che possono. E quindi, quando vedo sull’altare rinnovarsi la passione di Cristo nel sacrificio dell’Eucarestia mi rendo conto di che atto di amore enorme sia, sempre per quell’idea che la cosa più grande è sacrificare la propria vita per gli amici. E quindi è un Dio che mi ama tantissimo. Per cui l’Eucaristia è una cosa davanti alla quale provo una commozione fortissima. È un’esperienza meravigliosa vivere l’Eucaristia in questo senso, è proprio un mistero d’amore»

 

Come vivi il rapporto tra Fede e la identità sessuale?

«Sarei un’ipocrita se dicessi che non è una cosa problematica, perché lo è di fatto. La posizione della Chiesa Cattolica bene o male la conoscono tutti, ufficialmente ti dicono: “si va bene se sei omosessuale. Non è un peccato essere in una condizione di omosessualità o di omoaffettività, purché tu non la eserciti, quindi che tu non compia atti omosessuali”. Però a me viene da chiedere “in che misura sono omosessuale?”, non è che io mangio da omosessuale, lavoro da omosessuale, cammino da omosessuale – forse camminare un po’ si (risata) – “ma in che cosa sono omosessuale se non nella mia vita affettiva e sessuale, appunto?”. Quindi la questione è che Tu non mi stai chiedendo di rinunciare ad un atto, mi stai chiedendo di rinunciare ad una fetta veramente grossa della mia identità e questo è un problema»

 

Come vivi il doverti riconciliare con la Chiesa per i tuoi atti omosessuali?

«La vivo male. È una cosa che vivo con grande conflitto perché da una parte lo trovo ingiusto, assurdo, proprio perché so quello che sento e non lo vivo come una perversione, ma come una cosa legata in modo armonioso a quella che è la mia personalità. Però nello stesso tempo io credo nella Chiesa e nel Vangelo e quindi il dubbio che forse hanno ragione Loro c’è sempre. Quindi è un grosso conflitto perché alla fine l’unica cosa che posso dire è “Signore se questa è davvero una cosa che tu non vuoi o che è sbagliata toglimela oppure accettami per come sono”. In fondo nessuno a parte Gesù è in grado di amare in modo perfetto. Amo come posso, quindi questa è un po’ la via d’uscita che mi do. Però senza ombra di dubbio è un grandissimo conflitto che sono costretta a vivere perché nella mia testa echeggiano un sacco di cose, di contraddizioni. Questa cosa mi toglie molta serenità.

Il problema grosso si presenterà il giorno in cui io dovessi avere una relazione. Sarà un problema allacciarsi ai Sacramenti, come lo è per i divorziati. Il peccato per eccellenza è la disobbedienza, dunque, malgrado io senta che in questa cosa non c’è giustizia, non mi farò giudice di quelle che sono le regole e preferirò rinunciare ad una cosa che per me è fondamentale, come l’Eucarestia. Altrimenti potrei trovare un direttore spirituale, che si assumerebbe la responsabilità, ma questa è una cosa che non ho ancora affrontato e che forse sto un po’ rimandando.

Comunque, spesso si chiede che problemi hai a vivere la tua religiosità con il fatto che sei omosessuale, a questo punto io rovescerei anche gli addendi: “che problemi hai tu a vivere nel mondo omosessuale da credente?” È molto difficile perché mi trovo a confrontarmi con persone che hanno una visione di relazione con l’altro che fa a pugni con quella che è la mia, e questo, per me, è molto lacerante.»

 

Greta Riboli

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’orientamento temporale e la prospettiva psico-neuro-metabolica

L’ orientamento temporale offre una prospettiva scientifica originale non solo per cogliere le conseguenze psicologiche e comportamentali ma anche per evidenziare le connessioni con gli aspetti neuro metabolici. 

 

Orientamento temporale: la relazione psicologica col tempo

L’approccio psicologico chiamato Orientamento Temporale (Stolarski et. al. 2014; Zimbardo e Boyd, 2008) studia la relazione psicologica che ciascuno di noi ha nei confronti del tempo presente, passato e futuro.

Dalla specifica configurazione temporale che caratterizza ciascuno di noi corrisponde un peculiare stile cognitivo, emotivo e motivazionale che condiziona il modo di effettuare le scelte, i comportamenti, lo stile di vita che condiziona la nostra qualità di vita.

La tesi coerente con questo approccio temporale che ritengo sia interessante da esplorare è che ciascuna configurazione temporale (chiamata anche profilo temporale) ha una sua modalità specifica di gestione psico-metabolica ed immunitaria dello stress.

Dal filone di ricerca iniziato dal famoso esperimento dei marshmallows del prof. Walter Mischel (Mischel, et.al.,1989) dove si erano trovate correlazioni particolarmente forti e durature tra la capacità di posticipare la gratificazione e fattori chiave per la salute in età adulta (l’indice di massa corporea, il grado di soddisfazione di vita, salute generale, ecc.), il prof. Phil Zimbardo, psicologo di fama mondiale della Stanford University, cominciò ad approfondire l’argomento temporale fino a definire l’attuale ricerca focalizzata sulle dimensioni del tempo. Il prof. Zimbardo, ha condensato più di 30 anni di ricerche scientifiche inerenti la relazione che abbiamo nei confronti del tempo vissuto individualmente, definendo quello che viene chiamato Orientamento Temporale.

 

Orientamento temporale e implicazioni metaboliche e immunitarie

La particolare configurazione temporale che ogni individuo possiede nei confronti del presente, del passato e del futuro influenza in maniera profonda e generalizzata, anche se spesso in modo del tutto automatico ed inconscio, le scelte, le decisioni ed i comportamenti derivanti. Le conseguenze di queste scelte hanno un forte impatto sia sul piano del vissuto esperienziale che comportamentale (Zimbardo e Boyd, 2008) e quindi anche, a mio avviso, nella gestione dello stress con le logiche implicazioni metaboliche ed immunitarie.

Scegliere se mangiare un frutto o uno snack ipercalorico, decidere se procrastinare gli esercizi fisico-motori che si potrebbero fare adesso preferendo invece giocare ad un videogioco, sono banali esempi quotidiani che ci aiutano a capire come i processi decisionali che compiamo continuamente hanno forti conseguenze sia a breve che nel lungo termine per la dinamica cumulativa che possono produrre nel tempo.

L’ipotesi oggetto del mio lavoro di ricerca è che il nostro caratteristico atteggiamento temporale, oltre a determinare molte caratteristiche psicologiche, possa influenzare anche il livello neurale, metabolico ed immunologico per la dinamica intrinsecamente integrata di questi aspetti.

Naturalmente tutte le persone pensano sia ad eventi del Passato che del Presente che del Futuro, ma chiaramente ognuno di noi ha una particolare configurazione relativa a “quanto” frequentemente si focalizza in una o più di queste dimensioni temporali.

Il prof. Zimbardo con il suo gruppo di ricerca ha elaborato un test capace di misurare il rapporto che abbiamo nei confronti del tempo chiamato questionario ZTPI (cioè Zimbardo Time Perspective Inventory), uno strumento validato transculturalmente in 24 nazioni attraverso oltre 15000 persone (Stolarski et. al. 2014). Dall’analisi del test ZTPI emerge una configurazione (il profilo temporale) di valori che rappresentano lo stile cognitivo-emotivo e motivazionale che determina la modalità particolare di effettuare le scelte, i pensieri ed i comportamenti che compiamo. Ogni profilo temporale è modificabile nel tempo, può cambiare cioè, in funzione della specifica tipologia e frequenza di esperienze che facciamo. Le dimensioni analizzate dal questionario ZTPI sono cinque: due relative alle nostre esperienze passate negative e positive (rispettivamente il“Passato Negativo e “Passato Positivo”), due riguardanti il nostro presente (“Presente Fatalistico” legato a quanto ci sentiamo protagonisti attivi degli eventi significativi che sperimentiamo, ed il “Presente Edonistico” che misura invece la frequenza di esperienze piacevoli, sia positive che negative per la nostra salute, che conduciamo) e una attinente il nostro “Futuro”(l’insieme di aspettative sui progetti ed obiettivi che perseguiamo). Queste dimensioni temporali si sono dimostrate significativamente correlate in misura molto solida a specifiche caratteristiche psicologiche (Zimbardo e Boyd, 2008).

Ciascuna dimensione temporale è connessa con alcuni specifici fattori sia d’ordine psicologico che, anche se indirettamente, fisiologico (Zimbardo e Boyd, 2008). Ad esempio, chi è maggiormente focalizzato nel Passato Negativo risulta essere più ansioso, depresso, aggressivo, con minor autostima, stabilità emotiva e controllo dei propri impulsi, meno felice e con un minor livello percepito di energia generale. Chi invece è più focalizzato sul Presente Edonistico ricerca sensazioni “forti”, ha alti livelli di energia, creatività e aggressività e rispetto alla media della popolazione risulta essere più incoerente, possedere un basso livello di controllo dei propri impulsi oltre ad essere meno stabile emotivamente.

Le persone invece maggiormente concentrate sul Futuro pianificano i loro comportamenti e sono più attenti alla loro salute, sono più coerenti e coscienziosi, hanno maggiore energia e più controllo delle loro azioni. Sono meno aggressivi e depressi e cercano meno le sensazioni “forti” anche se tendono ad essere stacanovisti a livello lavorativo. E’ interessante che da uno studio inizialmente strettamente psicologico qual é l’ Orientamento Temporale sia possibile identificare correlazioni statisticamente solide anche sul piano metabolico ed immunologico. Vi potrebbero essere infatti diverse ricadute fisiologiche/metaboliche correlate alle varie configurazioni caratteristiche i vari profili temporali (indice di massa corporea, tendenza ad uno stile depressivo, livelli di energia generale percepita, ecc.).

E’ dunque plausibile ipotizzare che ad ogni tipologia di profilo temporale corrisponda una specifica strategia di gestione dello stress con le sue logiche e profonde conseguenze sia a livello metabolico che immunologico. Come sappiamo allo stress cronico corrisponde una modificazione di almeno due fondamentali architetture con i loro molteplici ed interconnessi effetti: il sistema nervoso (centrale e autonomo) e l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene). Nella condizione di stress cronico queste due strutture risultano fortemente alterate rispetto alla condizione di benessere psicofisico ottimale perché innescano entrambe processi fisiologici metabolici e neurali finalizzati a ripristinare l’equilibrio iniziale tramite azioni compensative ed adattative (si veda in merito il contributo ad esempio di Straub, 2011).

La prospettiva psicologica temporale ci permette in sintesi di comprendere perché, ad esempio, un profilo più focalizzato sul Passato Negativo caratterizzato da una maggiore frequenza di emozioni negative (rimuginii e ruminazioni) e uno stile generale più correlato alla depressione, possa implicare un sistema immunitario compromesso per l’interferenza dell’azione che collega la corteccia prefrontale al tronco encefalico inibendo l’attivazione antiinfiammatoria del nervo vago efferente (cholinergic pathway reflex). Da studi preliminari che ho condotto su 32 persone che hanno la Sindrome Post Traumatica da Stress (Agnoletti, 2016) ho riscontrato che, coerentemente con questa ipotesi, la caratteristica presenza di ricordi intrusivi negativi è correlata non solo ad un profilo temporale con un “alto” valore di Passato Negativo (in accordanza con quanto previsto dalla teoria dell’ Orientamento Temporale) ma anche ad indici infiammatori alterati (compresa la produzione cortisolo) oltre a bassi livelli di funzionamento delle pathways antiinfiammatorie (Agnoletti, 2016).

Sempre a titolo d’esempio, le implicazioni descritte dall’approccio temporale rendono maggiormente evidente la possibile connessione psicofisica tra stile cognitivo-emotivo e motivazionale e conseguenze metaboliche di coloro che risultano essere più proni a sviluppare dipendenze (perché funzionali alla gestione immediata dello stress) cioè di coloro che sono focalizzati sul Presente Edonistico. Le implicazioni di questa tipologia di persone caratterizzate da una specifica gestione dello stress orientata prioritariamente all’evitamento immediato di esperienze spiacevoli ha chiari effetti sulle strategie per contrastarli ad esempio a livello nutrizionale (ricerca di “comfort food”) o di uso/abuso di sostanze che creano dipendenza. Come risulta evidente questa modalità di gestione dello stress risulta essere molto diversa rispetto a quella di coloro che presentano, ad esempio, un profilo temporale maggiormente focalizzato sul Futuro caratterizzato dal non reagire alle situazioni stressanti attraverso l’utilizzazione di strategie edonistiche.

In sintesi ritengo che indagare le connessioni esistenti tra il Profilo Temporale ed il notevole bagaglio di conoscenze fornite dalle scienze biomediche sia molto prezioso per il notevole impatto sulla qualità di vita e la salute e le strategie psicofisiche integrate che si possono sviluppare per migliorarle.

Lo sfregio e la follia: cosa induce a deturpare le opere d’arte

Perché tali eventi di sfregio si sono verificati proprio nel campo dell’arte e non, per esempio, nell’avido mondo della finanza? Cosa può esserci dietro? Per rispondere a queste domande e per comprendere i meccanismi che spingono alcuni individui a scatenare la loro aggressività nei confronti di alcuni capolavori artistici  possono esserci d’aiuto, oltre alla psicologia e alla psichiatria, anche le neuroscienze, in particolare la neuroestetica, neologismo coniato da Semir Zeki (1940), neuroscienziato e Professore di Neurobiologia allo University College di Londra.

Alcuni esempi di capolavori sfregiati

Sono veramente tante le opere d’arte dal valore inestimabile che, nel corso degli anni, sono state sfregiate, spesso irreparabilmente: dalla Pietà (1497-1499) di Michelangelo che, nel 1972, venne vandalizzata da tal László Tóth, il quale, eludendo la sorveglianza vaticana, riuscì a colpire con un martello la Madonna (di cui frantumò il braccio ed il gomito e di cui distrusse il naso e le palpebre) alla tela Black on Maroon (1958) di Mark Rothko che, esposta alla Tate Modern di Londra, nel 2012 fu deturpata con un pennarello nero da tal Vladimir Umanets, che sostenne di aver fatto un’operazione alla Duchamp.

E ancora: era il 1989, quando tal Thomas Lange, nella Pinacoteca dei Musei Vaticani, si avvicinò al capolavoro di Raffaello Madonna di Foligno (1511-1512), vi gettò sopra del liquido infiammabile e poi tentò di darle fuoco; era il 1991, quando tal Pietro Cannata colpì con il martello il David (1501-1504) di Michelangelo al Museo dell’Accademia a Firenze, distruggendo un dito del piede sinistro. Era il 1993, quando il medesimo Cannata scarabocchiò con un pennarello gli affreschi del Lippi nel Duomo di Prato e quando tal Maurizio Pasquino entrò nella Chiesa degli Ermitani a Padova e spruzzò dello spray rosso sull’affresco del Mantegna raffigurante il trasporto del corpo di San Cristoforo (1454-1457).

Questi sono solo alcuni esempi dei tanti capolavori sfregiati: tanti altri eventi simili si sono verificati, nel tempo, per mano di individui diversi. Cosa può esserci dietro a questi gesti? Non è semplice capire i motivi che spingono una persona a sfogare la propria rabbia e la propria aggressività sulle opere d’arte: a volte si tratta di puro teppismo, altre volte, invece, si tratta di azioni di squilibrati, psicopatici o artisti falliti, che riversano la loro insoddisfazione sui capolavori altrui, come nel caso di Cannata, che era stato un ex studente di estetica ed un pittore mancato e che, nel 1999, dopo aver già compiuto altri sfregi, imbrattò a colpi di pennarello i Sentieri ondulati (1947) di Jackson Pollock: un dipinto già molto ingarbugliato di per sé che proprio non gli andava giù.

Cosa scatena questa aggressività verso le opere d’arte: il contributo della neuroestetica

Ma perché tali eventi si sono verificati proprio nel campo dell’arte e non, per esempio, nell’avido mondo della finanza? Cosa può esserci dietro? Per rispondere a queste domande e per comprendere i meccanismi che spingono alcuni individui a scatenare la loro aggressività nei confronti di alcuni capolavori artistici  possono esserci d’aiuto, oltre alla psicologia e alla psichiatria, anche le neuroscienze, in particolare la neuroestetica, neologismo coniato da Semir Zeki (1940), neuroscienziato e Professore di Neurobiologia allo University College di Londra.

Da alcuni anni, infatti, le neuroscienze hanno cominciato ad interessarsi di arte per cercare di capire quali siano le reti neurofisiologiche che consentono di cogliere come bella o come brutta una determinata opera d’arte.

Come si comporta il nostro cervello di fronte ad un capolavoro artistico? Che cosa succede nella nostra mente quando facciamo esperienza di un’opera d’arte come fruitori? La neuroestetica, disciplina nata nella seconda metà degli anni Novanta del XX secolo e derivata dalle neuroscienze, si pone l’obiettivo di esplorare le basi neuronali dell’esperienza artistica. Secondo il professor Zeki l’arte, e in particolare la pittura, è uno strumento straordinario per studiare i processi nervosi attraverso cui il cervello percepisce la realtà e per indagare scientificamente le basi neuronali dei processi cerebrali che governano il godimento di un’opera d’arte.

Il neuroscienziato si è a lungo occupato dei rapporti fra immagini artistiche e operazioni del cervello visivo: […] il cervello partecipa attivamente alla costruzione di ciò che vediamo e, facendo ciò, investe di senso i molti segnali che gli pervengono acquisendo, dunque, conoscenza del mondo (Zeki, 2007). Ogni volta che viene realizzata un’opera d’arte, l’artista vi immette segni e simboli, elementi storici e culturali dell’epoca e dei luoghi in cui è vissuto; ogni volta che un osservatore si trova di fronte ad un capolavoro artistico vi è una variabilità di reazione connessa alla sua personalità, alla sua storia e all’ambiente in cui si svolge l’esperienza estetica.

Ogni volta che formuliamo un giudizio estetico si attivano aree differenti del nostro cervello. Se nel nostro campo visivo entra un’opera che piace e per la quale formuliamo un giudizio estetico positivo, insieme alle aree cerebrali occipitali deputate alla visione, viene attivata l’area orbito-frontale mediale. Se invece il nostro giudizio estetico è negativo si attiva la corteccia motoria sinistra. Negli ultimi quindici anni la fisiologia della fruizione artistica si è arricchita di un elemento rilevante, il cosiddetto rispecchiamento, che si attua attraverso una classe di cellule nervose corticali: si tratta dei neuroni-specchio, capaci di elaborare, contemporaneamente, una rappresentazione dei propri atti ed una rappresentazione degli atti altrui.

Questo meccanismo, che viene definito simulazione incarnata, è un fenomeno per il quale chi rileva un’azione non solo la percepisce, ma anche la simula internamente.

I neuroni-specchio riguardano anche le emozioni, le sensazioni, gli affetti e, come sostengono Freedberg e Gallese nel loro saggio Motion, emotion and empathy in aesthetic experience (2007), persino l’osservazione di immagini statiche di azioni stimola l’atto di simulazione nel cervello dell’osservatore. Questa affermazione è estremamente interessante e significa che ogniqualvolta ci si trova di fronte ad un’immagine statica (quindi di fronte a qualsiasi opera d’arte) si innesca il processo della simulazione incarnata e ciò produce nell’osservatore una reazione di tipo empatico ed emotivo. Cioè: anche di fronte a corpi umani raffigurati sulla tela, per esempio, il corpo del fruitore reagisce come se fosse esso stesso direttamente coinvolto nella scena raffigurata, o come se esso stesso avesse compiuto i gesti necessari a tracciare quelle figure e forme rappresentate nell’opera d’arte.

Per comprendere quali siano le implicazioni empatiche nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una scultura dobbiamo rivolgerci al filosofo Herder, che, nel suo studio dedicato alla scultura, ci descrive l’incontro tra la statua ed il suo fruitore: la nostra anima si incarna nel corpo estraneo e si istituisce una vera e propria simpatia (o antipatia) interiore che pervade il corpo che si confronta con la scultura. Ecco perché il David di Michelangelo, per esempio, simbolo per eccellenza di bellezza ed armonia, può provocare violenti turbamenti emotivi mossi da invidia e gelosia per tanta perfezione, che possono persino sfociare in un istinto vandalico: un desiderio di danneggiare l’opera per riaffermare il proprio Io messo in pericolo da cotanta bellezza.

Neuroestetica: i correlati neurali della percezione estetica

A partire dagli anni Novanta l’opera d’arte diventa uno dei mezzi principali per la comprensione della risposta estetica negli esseri umani. Nel 1994 il neuroscienziato Semir Zeki ha avviato un nuovo ambito di ricerca, definita Neuroestetica, che si propone di studiare i meccanismi biologici alla base della percezione estetica

Clementina Musati, OPEN SCHOOL PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA MILANO

 

Neuroestetica: i meccanismi neurali implicati nella percezione estetica

Grazie al contributo delle tecniche di neuroimaging funzionale e di neurofisiologia, nel corso degli anni è stato possibile localizzare diversi siti corticali implicati in questo processo. Le prime rilevazioni in merito hanno sottolineato il coinvolgimento della corteccia prefrontale, in particolare della regione orbitofrontale e di quella dorsolaterale.

A partire dagli anni Novanta l’opera d’arte diventa uno dei mezzi principali per la comprensione della risposta estetica negli esseri umani. Nel 1994 il neuroscienziato Semir Zeki ha avviato un nuovo ambito di ricerca, definita Neuroestetica, che si propone di studiare i meccanismi biologici alla base della percezione estetica. Grazie al contributo delle tecniche di neuroimaging funzionale e di neurofisiologia, nel corso degli anni è stato possibile localizzare diversi siti corticali implicati in questo processo. Le prime rilevazioni in merito hanno sottolineato il coinvolgimento della corteccia prefrontale, in particolare della regione orbitofrontale e di quella dorsolaterale.

Il coinvolgimento della corteccia orbitofrontale nella percezione estetica è stato rilevato dagli studi di Kawabata e Zeki (2004). Gli autori hanno infatti riscontrato, utilizzando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), un aumento di attività metabolica nelle regioni orbitofrontali in seguito all’osservazione di opere d’arte. Studi successivi (Lumer & Zeki, 2011) hanno riportato che l’intensità dell’attività metabolica in quest’area riflette in modo lineare il grado di bellezza attribuito ad un dipinto da un osservatore. Questo contributo risulta di grande valore perché ha permesso di quantificare una sensazione soggettiva come quella dell’apprezzamento estetico.

Per quanto riguarda invece il ruolo della corteccia dorsolaterale nella stima estetica, recentemente alcuni studiosi hanno rilevato un aumento di attività metabolica in tale area in seguito a compiti relativi alla valutazione della piacevolezza di uno stimolo (Ishizu & Zeki, 2013). Un altro studio ha riscontrato un aumento dell’attività elettrica della corteccia dorsolaterale sinistra in seguito all’osservazione di stimoli considerati belli dai soggetti (Cela-Conde, 2004). Questi risultati, relativi alla lateralizzazione dell’attività cerebrale corrispondente alla percezione di stimoli piacevoli, hanno portato gli studiosi a descrivere il giudizio estetico come una funzione superiore, legata alla dominanza emisferica sinistra. Alla luce delle evidenze riportate, il contributo della corteccia prefrontale durante la percezione estetica, appare fondamentale.

Tuttavia, numerose evidenze empiriche hanno rivolto l’interesse degli studiosi di neuroestetica anche alla corteccia parietale. Cela-Conde et al. (2009) hanno osservato che stimoli visivi valutati positivamente dai soggetti attivano le regioni parietali in maniera più rilevante rispetto a quelli stimoli giudicati meno belli dai soggetti. L’attivazione della corteccia parietale nel giudizio estetico sembra essere associata con l’attenzione spaziale (Soga & Kashimori, 2009) e con la percezione della simmetria e della complessità, i due fattori ritenuti più importanti nella valutazione della bellezza (Jacobsen et al., 2003). Gli studi esplorativi fin qui discussi trovano ulteriore conferma nei casi clinici. Lesioni del lobo parietale destro riducono infatti il senso artistico degli adulti e questo dato ci conferma ancora una volta l’importanza delle regioni parietali nella percezione estetica di opere d’arte (Ramachandran, 2003).

 

Neuroestetica: le aree che si attivano nella percezione dell’arte figurativa e dell’arte astratta

In generale, è possibile differenziare gli stili pittorici in due grandi categorie: l’arte figurativa, nella quale vi è una rappresentazione fedele e accurata del mondo reale, e l’arte astratta, che esula invece dalla rappresentazione oggettiva della realtà. Con il termine “astrattismo” si definiscono quindi quelle forme di espressione artistica visuale in cui non vi siano indizi che permettano di ricondurre l’immagine ad aspetti dell’ambiente circostante.

A partire da queste considerazioni è possibile affermare che l’esperienza estetica non è una semplice registrazione passiva della realtà circostante, ma una costruzione attiva di significati che comporta processi di elaborazione e analisi. Già nel 1876 il fisiologo tedesco Gustav Theodor Fechner sosteneva che fosse possibile effettuare una distinzione tra “estetica dal basso”, che si occupa delle proprietà strutturali degli oggetti, ed “estetica dall’alto”, che comporta invece il coinvolgimento di processi di elaborazione di livello superiore, come il vissuto emotivo, i tratti temperamentali e le differenze individuali. I processi di analisi di livello superiore verrebbero attivati soprattutto durante l’osservazione di opere d’arte astratta. Infatti, mentre la valutazione estetica di opere figurative mostra un elevato grado d’accordo tra i soggetti, la valutazione di opere astratte presenta una concordanza tra i soggetti più bassa: gli autori (Vessell & Rubin, 2010) spiegano questi dati affermando che la visione di scenari reali elicita significati che possono essere facilmente condivisi tra i membri di una cultura, mentre la visione di opere astratte lascerebbe più spazio all’intervento di fattori interni all’individuo.

Le differenze individuate nell’elaborazione dei due stili artistici hanno portato gli studiosi di neuroestetica a concludere che arte astratta e figurativa possano essere processate da regioni corticali differenti. Alcuni studi hanno riscontrato che l’osservazione di diversi tipi di dipinti produce attività in differenti regioni corticali, a seconda della categoria di appartenenza dell’opera d’arte (Zeki et al., 1991). L’osservazione di tele figurative raffiguranti paesaggi, ad esempio, coinvolge i giri ippocampali bilaterali e la corteccia parietale destra, aree normalmente implicate nell’esplorazione di ampie scene visive (Epstein et al., 1999) e nella rappresentazione di relazioni spaziali tra gli elementi (Cuhlam & Kanwisher, 2001). I ritratti attivano aree implicate nell’osservazione di volti, come il giro fusiforme e l’amigdala (Breiter et al., 1996). La visione di immagini astratte, invece, non evidenzia alcuna specifica attività cerebrale.

I meccanismi neurali alla base dell’apprezzamento estetico di opere astratte e figurative sono stati indagati anche nello studio di Cattaneo et al. (2013). Gli autori hanno fatto osservare a 24 soggetti una serie di 70 quadri astratti e 80 quadri figurativi e hanno chiesto di indicare il grado di apprezzamento di ciascuna opera su una scala da 1 a 100. Successivamente, a ciascun partecipante è stata applicata una neuro-stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS) alla corteccia prefrontale dorsolaterale, una regione che risulta determinante nella percezione estetica. Dopo la neuro-stimolazione, i partecipanti hanno osservato una batteria di stimoli corrispondenti (70 immagini astratte e 80 figurative) e hanno espresso nuovamente il proprio apprezzamento per ciascun dipinto. A seguito della stimolazione si è riscontrato un aumento del gradimento del 3% nel caso di quadri figurativi, mentre è rimasto invariato l’apprezzamento di quelli astratti. Questo risultato conferma l’esistenza di processi neurali distinti nell’elaborazione delle due forme artistiche.

Infine, è stato ipotizzato che nell’apprezzamento estetico di opere d’arte possano essere coinvolti anche i cosiddetti neuroni specchio, una particolare popolazione di neuroni, presenti nella corteccia premotoria, che si attivano sia durante l’osservazione di un’azione che durante l’esecuzione della stessa (Rizzolati, 1996). I neuroni specchio esemplificano un meccanismo biologico che permette di correlare le azioni eseguite da altri con il repertorio motorio dell’osservatore. La visione di un’azione induce nell’osservatore l’automatica simulazione di quell’azione; tale meccanismo di rispecchiamento non è limitato al dominio delle azioni, ma riguarda anche quello delle sensazioni e delle emozioni. La risonanza interindividuale, descrivibile in termini funzionali come simulata incarnata, risulta determinante anche per interpretare l’arte e la dimensione estetica dell’esperienza umana (Morelli, 2010) .

Secondo alcuni autori (Gallese & Freedberg, 2008) questi neuroni sarebbero infatti responsabili delle risposte emotive alle opere d’arte, in particolare per quanto riguarda l’immedesimazione con esse. Questa sorta di empatizzazione con l’oggetto artistico è in grado di generare a livello corporeo risposte emotive elicitate dalle opere. Gli autori portano come esempio le sculture incompiute di Michelangelo, Prigioni. Nell’ammirare quest’opera l’osservatore tende ad attivare una serie di distretti muscolari localizzati nelle parti del corpo lasciate incompiute dall’artista. (Figura 1.1.).

Prigioni di Michelangelo

Questo meccanismo di immedesimazione con stimoli artistici non si verifica esclusivamente per le opere d’arte figurative, ma avviene anche per quelle astratte, prive di un riconoscibile contenuto formale. Ad esempio, i quadri di Pollock sono realizzati con una tecnica particolare, chiamata dripping (in italiano sgocciolatura), che comporta l’utilizzo di strumenti quali bastoncini e siringhe per applicare il colore, che viene lasciato cadere liberamente sulla tela. Gallese e Freedberg (2008) hanno riportato che l’osservazione dei quadri di Pollock induce, attraverso il sistema dei neuroni specchio, il coinvolgimento empatico dell’osservatore che è portato inconsapevolmente a simulare il programma motorio compiuto dall’artista per realizzare l’opera. (Figura 1.2.).

Autumn rhythm di Jackson Pollock

È dunque possibile concludere che quando osserviamo un’opera d’arte stiamo entrando in empatia a livello cerebrale con essa e con l’artista che l’ha creata, al di là del tempo e dello spazio (Missana, 2015). Aveva dunque ragione Lucio Fontana quando affermava che [blockquote style=”1″]l’Arte è eterna in quanto un suo gesto non può non continuare a permanere nello spirito dell’uomo.[/blockquote] Oggi la neuroestetica, e i neuroni specchio nello specifico, forniscono un’evidenza empirica a tale intuizione.

Alcolismo e ruminazione – Report dal seminario del Prof. Caselli a Genova

Si è svolto sabato 12 novembre a Genova presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il terzo e penultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia” a Genova. Il Professor Gabriele Caselli ha parlato di Ruminazione e alcolismo.

 

Si è partiti dalla definizione generale di aspettativa intesa come anticipazione circa eventi futuri (Tolman, 1932) per concentrarsi poi sulle aspettative relative all’utilizzo di alcool, le quali si riferiscono a credenze implicite o esplicite sugli effetti della sostanza. Queste possono essere: aspettative positive (l’alcool mi aiuta a rilassarmi) o negative (l’alcool danneggia la mia salute).

Non tutte le aspettative diventano motivazioni in quanto avere aspettative positive sugli effetti dell’alcool non significa necessariamente consumare alcool per realizzarle. È stato sottolineato come le aspettative derivino da credenze metacognitive di base sull’utilizzo di alcool che sembrerebbero essere più frequenti in persone che fanno abuso di alcool piuttosto che nei bevitori sociali.

 

Le credenze sull’utilizzo di alcool

Alcuni esempi di tali credenze sono: bere mi aiuta a ragionare e risolvere problemi, l’alcool mi aiuta a controllare i pensieri, l’alcool mi aiuta a distrarmi da stimoli fastidiosi (sensazioni fisiche e pensieri negativi) e a non dare a peso al giudizio negativo su di me. Si ipotizza pertanto che la principale differenza tra chi fa abuso di alcool e bevitori sociali è che i primi vedono l’ utilizzo di alcool come unica strategia per staccarsi da una modalità disfunzionale di elaborazione delle informazioni.

Ed è a questo punto che viene introdotto il concetto di ruminazione inteso come strategia di coping messa in atto allo scopo di controllare le emozioni negative ed è caratterizzata da uno stile di pensiero persistente e negativo e da attenzione focalizzata su di sé (Lyubomirsky and Nolen-Hoesema 1993).

Le maggiori conseguenze della ruminazione paiono essere l’umore depresso, il giudizio globale e negativo, la demotivazione, l’evitamento. Le caratteristiche distintive della ruminazione sembrano essere la ripetitività, i contenuti negativi, il concentrarsi analiticamente su se stessi, l’incontrollabilità, la cattura delle capacità mentali, l’astrattezza e l’orientamento al passato (Caselli, Giovini, Giuri & Rebecchi, 2011).

Studi recenti mostrano come in persone affette da disturbo di abuso di alcool l’essere portati a ruminare incrementi il desiderio irrefrenabile di bere (Caselli et al. 2013). La ruminazione parrebbe essere sintomo cruciale nei disturbi da utilizzo di alcool e nel processo di ricaduta e fungerebbe da ponte tra emozioni negative e consumo di bevande alcoliche.

Sulla base di tali ipotesi il focus del percorso terapeutico per l’abuso di sostanze alcoliche andrebbe posto sui processi ruminativi in quanto si ipotizza che il soggetto ricorra all’utilizzo di alcool come strategia principale per sopprimere la ruminazione e gli effetti negativi ad essa correlati.

 

Prossimamente a Genova

Il prossimo e ultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova” dal titolo “Perché ci preoccupiamo tanto? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi”, sarà tenuto dal Dott. Giovanni Maria Ruggiero sabato 10 Dicembre 2016 dalle ore 10 alle ore 13 presso il centro Psicoterapia e Scienza cognitiva Genova.

 

VIDEO: un estratto dal seminario di Genova

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Lo sviluppo dell’identità sessuale e l’identità di genere. Parlare ai figli della sessualità: tendenze omosessuali e adolescenti gender variant (2016) – Recensione

E’ un libro nato con l’intento di offrire a tutti i genitori un nuovo punto di vista per comprendere e affrontare il processo di formazione dell’identità di genere nel bambino e nell’adolescente.

 

La prospettiva offerta dagli autori, Emanuela Quagliata e Domenico Di Ceglie, è quella puramente psicoanalitica di alcuni dei maggiori esperti italiani e stranieri degli argomenti trattati e del lavoro con le famiglie.

Il primo capitolo introduce le nozioni della sessualità infantile a partire dalle teorie di Freud (la masturbazione dei bambini, il complesso di Edipo, la bisessualità, ecc.), esaminandone la validità attuale e in che modo tali concetti e definizioni siano stati arricchiti e approfonditi dagli psicoanalisti moderni.

Nel secondo capitolo viene descritto, sempre in ottica psicoanalitica, come l’individuo sviluppi un’identità separata descrivendone il contributo da parte di padre e madre. Gli autori forniscono numerosi esempi di osservazioni cliniche sugli stereotipi di genere. Questi due capitoli, pur essendo di chiara esposizione, conservano un certo grado di complessità, che probabilmente li renderebbe di difficile lettura ad un pubblico di non addetti ai lavori.

Nel terzo capitolo viene affrontato il tema della genitorialità di bambini e adolescenti gender variant, ossia persone la cui modalità di espressione del genere differisce da ciò che ci si aspetterebbe da loro in base al sesso biologico al quale vengono assegnati alla nascita. Gli autori sottolineano, fornendo numerose esemplificazioni cliniche, come gli approcci attuali alla variabilità del genere hanno abbandonato la tendenza patologizzante e correttiva diffusa negli anni sessanta, a favore di un modello genericamente affermativo, in cui prevale la necessità di aspettare e osservare, auspicabilmente da condividere coi genitori.

Nel quarto capitolo, grazie all’esperienza del Gender Identity Development Service (GIDS) attivo presso la Tavistock clinic di Londra, gli autori chiariscono concetti quali la “varianza di genere nei bambini” o “sviluppo atipico dell’identità di genere”, i termini “transessuale” e “transgender”, evidenziando attraverso ulteriori esemplificazioni cliniche quanto sia complesso e delicato il lavoro di aiuto necessario per questi bambini e le loro famiglie. Durante il periodo di sviluppo e anche nella fase adulta, l’incongruenza tra la percezione della propria identità di genere e il corpo è spesso causa di grande sofferenza e di disagio psicologico e sociale. Il termine “Disforia” (mantenuto nel DSM 5) deriva dal greco e indica proprio uno stato di disagio emotivo, ed è stato utilizzato per evidenziare il vissuto soggettivo di questo gruppo di bambini e adolescenti.

Il quinto capitolo si occupa dello sviluppo dell’orientamento omosessuale e dell’identità di genere in adolescenza, sottolineando l’esistenza di molte e differenti sessualità (etero, bi, omo), sempre plasmate dai contesti culturali e dalle aspettative rispetto al genere.

Da un punto di vista psicoanalitico, solo dalla fine del secolo scorso l’omosessualità inizia a liberarsi dal pregiudizio che la voleva come un esito patologico dello sviluppo sessuale dell’individuo. Si aprono così nuovi scenari, e lo spazio per lo studio di una prospettiva evolutiva, dove appare evidente il ruolo del contesto sociale (come la scuola) che fin dai primissimi anni di vita produce pratiche di genere, veicolando stereotipi, rafforzando i ruoli di genere, e la contrapposizione maschile vs femminile, e dove ogni atipicità a partire dai 3-4 anni viene spesso giudicata negativamente e ostacolata, sia dal gruppo dei pari sia dagli adulti, che anche senza volerlo possono proporre stereotipi e pregiudizi di genere, finendo per rinforzare la segregazione sessuale.

Il percorso di scoperta e presa di consapevolezza del proprio orientamento sessuale atipico è per gli autori un processo individuale, che può essere molto diverso da caso a caso; è tuttavia il momento del coming out il crocevia esistenziale che segna un prima e un dopo, per diventare poi un processo decisionale che viene attivato tutte le volte che la situazione interpersonale lo richiede.

L’ultimo capitolo propone delle riflessioni dell’autrice sul “fare informazione”, traendo spunto dalla sua esperienza a contatto con genitori ed educatori che hanno a che fare con un bambino considerato “atipico”, sottolineando l’importanza del rispetto che la famiglia e la scuola sanno portare alle diversità, e le difficoltà del mondo adulto legate all’accettazione delle differenze senza preconcetti.

L’abuso di cannabis può causare psicosi

Il rischio di sviluppare una psicosi è triplicato nei soggetti che fanno abuso di cannabis, secondo quanto è emerso in un nuovo studio sui gemelli pubblicato su Schizhoprenia Bulletin.

 

I ricercatori dell’Istituto Norvegese di Salute Pubblica (NIPH), in collaborazione con i colleghi della Virginia Commonwealth University, hanno esaminato la relazione esistente tra cannabis e psicosi analizzando i dati provenienti da interviste diagnostiche somministrate a coppie di gemelli Norvegesi. Le interviste (Composite International Diagnostic Interview) hanno permesso di constatare la presenza di sintomatologia psicotica e da abuso di cannabis nei soggetti valutati.

Studi precedenti avevano già dimostrato che i pazienti che soffrono di Disturbo Psicotico fanno uso di cannabis in modo più frequente rispetto alla popolazione generale. Tuttavia le ricerche condotte divergevano sul definire l’ abuso di cannabis come possibile causa del Disturbo Psicotico – ha affermato Ragnar Nesvåg, ricercatore anziano presso il NIPH e autore principale dello studio.

Inoltre la scienza ha da tempo evidenziato che numerosi fattori genetici possono influenzare sia l’ abuso di cannabis che la manifestazione di sintomi psicotici, aumentando così il rischio di sviluppare entrambe le problematiche.

La rilevanza di determinati geni nell’eziologia di un disturbo è nota come ereditarietà, e noi sappiamo da precedenti studi condotti qui al NIPH che l’ abuso di cannabis è un fenomeno fortemente ereditario – ha spiegato Eivind Ystrom, ricercatore anziano al NIPH – Per determinare se l’ abuso di cannabis possa portare alla manifestazione di una psicosi, è importante tenere in conto il rischio genetico.

 

Abuso di cannabis: causa o conseguenza di sintomi psicotici?

I ricercatori, pertanto, hanno testato sia l’ipotesi secondo cui la cannabis possa essere la causa scatenante della psicosi sia l’ipotesi secondo cui la presenza di sintomi psicotici conduca ad abuso di cannabis.

L’ipotesi che meglio si adatta ai dati raccolti attraverso le interviste è che l’ abuso di cannabis causi i sintomi della psicosi. Infatti, all’interno di una coppia di gemelli, il gemello che presenta sintomi da abuso di cannabis possiede un rischio 3.5 volte più elevato di sviluppare sintomi psicotici se comparato con il gemello senza sintomatologia da abuso di cannabis.

Le nostre analisi mostrano un’associazione significativa tra abuso di cannabis e sintomi psicotici nella popolazione generale. Abbiamo naturalmente testato anche l’ipotesi opposta, ma tuttavia questa soddisfaceva meno i dati emersi dalle interviste. Pertanto, sembra proprio che sia l’ abuso di cannabis a causare le psicosi, e non il contrario. – ha detto Ystrom.

Studi precedenti avevano dimostrato che l’ abuso di cannabis è un fenomeno ereditario, il che è stato confermato anche in questo studio: quasi l’88% delle cause per cui alcune persone abusano di cannabis ed altre no, può essere attribuito a fattori di rischio genetici.

Nonostante ciò, la ricerca ha anche riscontrato che un comune rischio genetico non è in grado di spiegare l’intera associazione con i sintomi psicotici. Infatti, anche dopo che il rischio genetico e il rischio proveniente dall’ambiente di sviluppo infantile sono stati controllati nelle analisi, le persone che abusavano di cannabis continuavano a manifestare un rischio superiore di sviluppare sintomi psicotici.

Nesvåg ha affermato che le psicosi determinano un elevato costo per la società, pertanto queste scoperte dovrebbero essere tenute in considerazione quando si riflette sui costi che potrebbero avere le politiche volte a rendere disponibile la cannabis, come lo sono la legalizzazione e la decriminalizzazione.

Concludendo, indagare se un particolare fattore di rischio sia la causa di un determinato disturbo richiede la conduzione di studi in cui sia possibile osservare due persone identiche, dove però una viene esposta al fattore di rischio mentre l’altra no.

Per ovvie ragioni, questi esperimenti non  sono fattibili né dal punto di vista pratico, né da quello etico e né tanto meno da quello legale. In quest’ottica gli studi sui gemelli costituiscono alternative disponibili e altrettanto valide dal momento che i gemelli hanno una similarità genetica, sono cresciuti nella stessa famiglia e possiedono lo stesso background socioeconomico.

 

I trattamenti psicoterapeutici nelle sindromi psicotiche croniche

Nel corso degli anni le ricerche compiute in ambito cognitivo, comportamentale e sociale hanno contribuito ad incrementare le conoscenze relative al ruolo giocato dai fattori cognitivi e psicologici nell’insorgenza dei sintomi che caratterizzano le sindromi psicotiche croniche.

 

Sindromi psicotiche croniche

Per gran parte del ventesimo secolo i sintomi psicotici sono stati considerati non ascrivibili al dominio terapeutico psicologico, quanto piuttosto curabili in una dimensione biologica. Nel corso degli anni le ricerche compiute in ambito cognitivo, comportamentale e sociale hanno contribuito ad incrementare le conoscenze relative al ruolo giocato dai fattori cognitivi e psicologici nell’insorgenza dei sintomi, che caratterizzano le sindromi psicotiche croniche.

Fra gli approcci psicoterapeutici alla schizofrenia, quello che gioca un ruolo determinante è rappresentato dalla terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Anche il training metacognitivo (MCT) risulta essere efficace nel trattamento della sintomatologia schizofrenica. Un elemento non trascurabile che incide sul trattamento psicoterapeutico è rappresentato dai fattori individuali, che caratterizzano l’unicità del paziente.

 

I trattamenti psicoterapeutici nelle sindromi psicotiche croniche

Per gran parte del ventesimo secolo i sintomi psicotici sono stati considerati non ascrivibili al dominio terapeutico psicologico, quanto piuttosto curabili in una dimensione biologica, come rivelano Mander e Kingdon (2015). Nel corso degli anni le ricerche compiute in ambito cognitivo, comportamentale e sociale hanno contribuito ad incrementare le conoscenze relative al ruolo giocato dai fattori cognitivi e psicologici nell’insorgenza dei sintomi, che caratterizzano le sindromi psicotiche croniche (Andreou e Moritz, 2016).

Contemporaneamente, i paradigmi terapeutici che prevedevano l’uso esclusivo di farmaci antipsicotici nel trattamento della schizofrenia hanno mostrato dei limiti, soprattutto per quel che concerne la riabilitazione psicosociale del paziente (Jaaskelainen e coll., 2013). Tutto questo, abbinato al fatto che alcuni pazienti aderivano malvolentieri al solo trattamento farmacologico o non avevano risposte soddisfacenti dall’utilizzo di antipsicotici, ha implementato la ricerca nell’ambito dell’utilizzo di strategie psicoterapeutiche nella cura delle sindromi psicotiche croniche (Andreou e Moritz, op. cit.).

Attualmente diversi studi hanno analizzato l’utilizzo, l’efficacia e i meccanismi d’azione dei trattamenti psicoterapeutici nelle sindromi psicotiche croniche. Fra gli approcci psicoterapeutici alla schizofrenia, quello che gioca un ruolo determinante è rappresentato dalla terapia cognitivo – comportamentale (CBT). Essa è stata fra le prime psicoterapie inserite nelle linee guida terapeutiche riguardanti il trattamento della schizofrenia. A questo riguardo, due studi (Peters e coll., 2015 e Mehl e coll., 2015) hanno messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici di derivazione cognitivo – comportamentale nella cura delle sindromi psicotiche croniche. I trattamenti analizzati dalle due ricerche sono basati su di un focus terapeutico, che è finalizzato ad una comprensione cognitiva da parte del paziente dei fattori che concorrono a creare i sintomi psicotici.

Altri lavori scientifici hanno evidenziato che il training metacognitivo (MCT) svolge un ruolo di rilievo nel trattamento della sintomatologia legata alla schizofrenia. Moritz e coll. (2015) e So e coll. (2015) hanno mostrato che un trattamento di poche sedute, effettuato nell’ambito di un training metacognitivo, possa avere dei buoni effetti relativamente alla diminuzione delle mistificazioni che frequentemente alimentano le idee deliranti dei pazienti affetti da psicosi cronica.

Un elemento non trascurabile che incide sul trattamento psicoterapeutico è rappresentato dalla variabilità individuale dei pazienti. Infatti, uno studio di Menon e coll. (2015) sottolinea che nel successo dei trattamenti psicoterapeutici per questo tipo di patologia, un peso considerevole lo hanno i fattori individuali, che caratterizzano l’unicità del paziente. Sembra che la terapia metacognitiva riduca i deficit neurocognitivi associati alla schizofrenia e ciò ha una ripercussione positiva sull’autostima e sul mantenimento nel tempo dei miglioramenti ottenuti (Cella e coll., 2015).

Lombalgia cronica: come gli atteggiamenti degli specialisti influenzano il trattamento e le credenze del paziente

Per un trattamento adeguato della lombalgia cronica sembra opportuna una presa in carico del paziente da parte di diverse figure professionali, tra cui fisioterapisti e psicologi, che possano unire le loro competenze per il benessere del paziente. 

Antonella Sanzò – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La lombalgia cronica è un dolore persistente a livello della zona lombare della schiena e può essere definito un disturbo complesso, in quanto è influenzato non solo da fattori di natura biologica, ma anche psicologica (credenze catastrofiche sul dolore, depressione, ansia, basse aspettative sulla possibilità di guarigione e scarsa motivazione, adozione di strategie passive di coping), sociale (ad esempio, fare un lavoro in cui sono richiesti eccessivi sforzi  fisici) e dallo stile di vita (scarsa attività fisica) (Synnott, O’Keeffe, Bunzli, Dankaerts, O’Sullivan e O’Sullivan, K., 2015).

In alcuni casi, questi fattori contribuiscono ad acuire il disturbo tanto da portare ad una riduzione delle attività svolte normalmente dalla persona e un’assenza prolungata dal lavoro. In genere, non c’è una causa specifica per la lombalgia cronica, ma si possono riscontrare frequentemente problemi di natura muscolo– scheletrici non gravi, quali distorsioni e stiramenti muscolari oppure cause di maggior entità, quali ad esempio forme tumorali o infezioni. Secondo la maggior parte delle ricerche, il mal di schiena lombare si distingue in acuto se ha una durata inferiore alle sei settimane, subacuto se ha una durata di 6 – 12 settimane e cronico se i sintomi hanno una durata superiore alle 12 settimane (Violante, Mattioli e Bonfiglioli, 2015).

Per la maggior parte dei pazienti che presentano mal di schiena acuto il problema si risolve spontaneamente e solo una piccola percentuale di essi sperimenta sintomi cronici. Tuttavia, considerando che la lombalgia può anche cronicizzarsi ed il suo trattamento in tal caso è più difficile e richiede costi elevati, è importante fare degli accertamenti per tempo quando si ha un mal di schiena persistente e curarlo adeguatamente. A tal proposito, le linee guida per la cura della lombalgia generalmente riconoscono l’importanza di un trattamento bio- psico-sociale del paziente, basato su un modello sviluppato da Engel negli anni Ottanta e che pone il malato al centro di un sistema influenzato da diverse variabili di natura organica, psicologica e sociale.

 

L’approccio bio-psico-sociale al trattamento della lombalgia cronica

Una recente revisione di alcuni studi sul tema ha rilevato che nonostante gli specialisti supportino un approccio bio-psico-sociale al trattamento della lombalgia, sono pochi coloro che lo mettono in atto nella pratica. In uno studio condotto su fisioterapisti qualificati che trattavano pazienti con lombalgia cronica si sono indagati quali fossero le percezioni dei professionisti rispetto all’importanza di identificare e trattare fattori cognitivi, psicologici e sociali che possono essere degli ostacoli alla guarigione dei pazienti (Synnott, O’Keeffe, Bunzli, Dankaerts, O’Sullivan e O’Sullivan, 2015); è stato riscontrato che essi soltanto parzialmente riconoscevano l’importanza di tali fattori oppure assumevano un atteggiamento poco comprensivo quando i pazienti alludevano a qualcuno dei precedenti fattori, esprimendo una preferenza maggiore per gli aspetti organici della lombalgia.

Fornendo esclusivamente una spiegazione biomedica del disturbo, basata sulla nozione che il dolore e la disabilità derivano esclusivamente dalla patologia fisica e proponendo un trattamento in linea con questa tesi i fisioterapisti incrementano le credenze dei pazienti basate sull’idea che il dolore dipenda esclusivamente da un danno significativo ai tessuti. Gli studi dimostrano come un approccio bio-psico-sociale, incoraggiando nei pazienti una gestione attiva del problema e una comprensione di esso in tutti i suoi aspetti, potrebbe, invece, risultare più efficace nella riduzione del dolore e della disabilità a lungo termine (Jones, Johnson, Wiles, Chaddock, Phys, Roberts,S Ymmons e Macfarlane., 2006).

 

Gli aspetti psicologici della lombalgia cronica

La percezione del dolore è influenzata anche dal modo in cui l’individuo con lombalgia cronica gestisce le sue sensazioni corporee: alcuni studi hanno rilevato che l’umore depresso e credenze negative sul dolore, ad esempio credere che il proprio stato di malessere fisico persisterà a lungo nel tempo, sono fattori che facilitano una condizione di disabilità prolungata. (Young, Greenberg, Nicassio, Harpin e Hubbard, 2008).

La tendenza alla catastrofizzazione del dolore può essere considerata una modalità tipica del funzionamento cognitivo di alcune persone: essa è caratterizzata dall’amplificazione della sensazione di dolore attraverso il rimuginio su di esso, da un senso di impotenza nell’affrontarlo e incapacità a tollerarlo, con conseguenti emozioni di paura ed ansia. Ciò influisce negativamente sul funzionamento sociale ed emotivo e sulla risposta ai trattamenti (Lo Sterzo 2015).

Tuttavia, questa modalità cognitiva può anche essere influenzata da fattori esterni, quali le informazioni che le persone ricevono sul loro malessere: nel corso delle interazioni tra pazienti e specialisti gli atteggiamenti di questi ultimi rispetto alla patologia potrebbero influenzare quelli dei pazienti.

 

Lombalgia cronica e credenze disfunzionali: uno sguardo alla letterattura

In una review della letteratura (Darlow, Fullen, Dean, Hurley, Baxter e Dowell, 2012) sono stati messi a confronto diciassette studi condotti in otto paesi differenti; lo scopo di tali studi era quello di verificare se ci fosse un’associazione tra atteggiamenti e credenze degli specialisti e atteggiamenti e credenze dei pazienti. Gli specialisti presi in considerazione erano, nello specifico, fisioterapisti, chiropratici, ortopedici, reumatologi e altre figure paramediche. I pazienti erano persone con mal di schiena lombare cronico, acuto o sub acuto o alla prima esperienza di lombalgia.

L’associazione tra gli atteggiamenti e le credenze degli specialisti e quelli dei pazienti erano indagate attraverso i comportamenti riportati dagli stessi specialisti, questionari e interviste fatte ai pazienti, osservazioni, verifiche dei trattamenti oppure attraverso una combinazione di queste misure. Tali studi hanno dimostrato che gli atteggiamenti e le credenze dei pazienti con mal di schiena lombare erano associati agli atteggiamenti e alle credenze dei professionisti che i pazienti avevano consultato.

Molti specialisti avevano credenze di “paura – evitamento” (Linton et al., 2002; Coudeyre et al.,2006; Poiraudeau et al., 2006; Sieben et al., 2009) e ritenevano opportuno suggerire ai pazienti di non fare eccessiva attività fisica, limitando anche l’attività lavorativa; tali credenze erano associate a quelle di evitamento dei pazienti. Le credenze di “paura – evitamento” sono caratterizzate dal pensiero che certe attività dovrebbero essere evitate per non sentire sensazioni fisiche spiacevoli: esse si riscontrano maggiormente in coloro che hanno pensieri catastrofici sul dolore, i quali attuano un continuo monitoraggio delle proprie sensazioni fisiche, interpretando stati di dolore acuto come segnali di pericolo oppure come segnale della presenza di gravi lesioni; ciò induce ad evitare alcune attività per paura di provare dolore; si istaura in tal modo un circolo vizioso in cui la persona riduce sempre di più la sua sfera di azione e ciò incrementa stati emotivi di tristezza, ansia e rabbia per la propria condizione.

Uno studio che ha preso in esame circa 1600 pazienti con mal di schiena cronico ha rilevato che i pazienti che hanno credenze negative sulle loro capacità di far fronte al problema e poca fiducia nella loro possibilità di poter fare delle attività nonostante il dolore, tendono maggiormente al catastrofismo e alla depressione (Foster, Thomas, Bishop, Dunn, e Main, 2010).

Da quanto detto, si può supporre che gli specialisti, in alcuni casi, possano contribuire ad incrementare i comportamenti protettivi dei pazienti con lombalgia cronica, inducendoli anche a lunghi periodo di riposo dal lavoro. In uno studio (Reme, Hagen e Eriksen, 2009) condotto su 246 pazienti che presentavano dolore alla zona lombare della schiena sono stati indagati i fattori che contribuivano ad un congedo dal lavoro per malattia per periodi di  tempo prolungati. Sono risultati influenti diversi fattori, ad esempio l’intensità del dolore percepito durante il periodo di riposo, le aspettative negative nel ritornare al lavoro e l’essere stato in cura da un fisioterapista durante il periodo di malattia; l’influenza  di quest’ultimo fattore è ancora poco chiaro, ma una spiegazione che può essere fornita è che i fisioterapisti potrebbero comunicare eccessive precauzioni ai pazienti, consigliando loro di non tornare a lavoro troppo presto.

Da uno studio (Houben, Ostelo, Vlaeyen, Wolters, Peters e Stomp-van Den Berg,, 2005) sembrerebbe che sono i terapisti con un orientamento maggiormente biomedico a percepire le attività quotidiane come pericolose per i pazienti con lombalgia cronica e non solo rispetto ai terapisti con un orientamento bio-psico-sociale e a consigliare ai loro pazienti di limitare l’attività quotidiana e lavorativa. Un’eccessiva focalizzazione da parte dei clinici su ciò che i pazienti non dovrebbero fare piuttosto che porre l’attenzione sulle attività che essi sono in grado di svolgere  potrebbe rinforzare le credenze disfunzionali dei pazienti di poter guarire solo se sono evitati alcuni movimenti e azioni.

 

L’importanza dell’atteggiamento degli specialisti nel trattamento della lombalgia

Le linee guida per il trattamento del mal di schiena cronico sottolineano l’importanza di motivare il paziente a riprendere le normali attività il prima possibile. Gli studi dimostrano che i comportamenti protettivi non riducono il dolore, quanto piuttosto incrementano la preoccupazione e lo stato di frustrazione dei i pazienti (Darlow, Dowell,  Mathieson,  Perry e  Dean, 2013).

I clinici sono visti come una fonte di certezza e i pazienti hanno una grande fiducia in loro: essi tendono a dare un significato ai propri sintomi tenendo in considerazione ciò che viene detto dagli esperti. Per tale motivo, gli specialisti dovrebbero essere consapevoli dell’impatto che i loro atteggiamenti e credenze hanno sui loro pazienti. Le ricerche dimostrano che anche le aspettative sulla riuscita del trattamento sono influenzate dalle credenze che i terapisti trasmettono ai loro pazienti. (Van Wilgen, Koning e Bouman, 2012).

Quindi, è opportuno che gli specialisti che si occupano del trattamento della lombalgia cronica diventino consapevoli delle loro credenze disfunzionali sulla malattia al fine di modificarle per approcciarsi adeguatamente ai pazienti. A tal proposito, si potrebbe pensare a programmi educativi in cui incrementare tale consapevolezza attraverso l’uso di questionari self report che indaghino le credenze che i fisioterapisti hanno sul dolore, come il “Pain Attitudes and Beliefs Scale for Psysiotherapist” (PABS. PT) (Nijs, Roussel, Van Wilgen, Köke e Smeets, 2013). E’ importante  incrementare anche le conoscenze dei professionisti sul ruolo che hanno i fattori psicologici e sociali nel decorso della lombalgia cronica e non considerare soltanto gli aspetti strettamente organici del problema.

Da quanto è stato esposto sinora, per un trattamento adeguato del dolore lombare cronico sembra opportuna una presa in carico del paziente da parte di diverse figure professionali, tra cui fisioterapisti e psicologi, che possano unire le loro competenze per il benessere del paziente.

Le evidenze sulla riabilitazione di pazienti con lombalgia cronica hanno sottolineato l’importanza di lavorare non solo sugli aspetti organici del disturbo, ma anche sui pensieri catastrofici che il paziente fa sul proprio dolore e sulla malattia, per incrementare il senso di autoefficacia dei pazienti e le loro capacità di gestione del problema (Miles, Pincus, Carnes, Homer, Taylor, Bremner, Rahman e Underwood, 2011).

Omofobia interiorizzata – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Gentile redazione,

sono uno studente di psicologia e sto provando particolare interesse sull’argomento dell’orientamento sessuale, in particolar modo sull’omofobia interiorizzata propria. starei cercando delle letture che possano aiutarmi a fornirmi degli strumenti utili per affrontare questa particolare problematica. l’unico testo che sono riuscito a trovare consultando la vostra pagina è “fluidità sessuale” di D. dettore che a breve acquisterò. Inoltre vorrei chiedervi possibili letture riguardo i seguenti argomenti:

  • Grandi differenze d’età nelle coppie, se e come affrontare il disagio.
  • Gelosia scaturita dalla paura dell’abbandono
  • Paura inconscia della figura femminile
  • Affrontare il distacco emotivo di una storia finita

Chiedo scusa per la “confusione” ma spero mi possiate aiutare. Grazie in anticipo e buona giornata.

 

 

Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano e utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità […]. (Codice deontologico degli psicologi italiani, art. 3)

Con questa citazione si apre il testo di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli, “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali”, edito da Raffaello Cortina Editore, che oggi consigliamo al nostro lettore.

Il testo è dedicato esplicitamente a tutti i professionisti (e anche a quelli in divenire) della salute mentale che desiderano approfondire tematiche legate all’orientamento sessuale.

Lo scopo dei nostri autori, infatti, non è quello di delineare un “trattamento speciale” per persone LGBT bensì di sopperire alle lacune prodotte da una formazione ancora insufficiente riguardo ai temi dell’orientamento sessuale. In Italia, purtroppo, queste lacune sono abbastanza evidenti, sia all’interno dei manuali di psicologia, sia nelle aule universitarie; di conseguenza non vi è da sorprendersi se, come emerge da varie ricerche italiane, molti professionisti della salute mentale non sono esenti da pregiudizi negativi nei confronti degli individui omosessuali (Lingiardi, Capozzi, 2004; Lingiardi, Nardelli, 2011).

In particolare, nel testo troverà un riferimento teorico e clinico al fenomeno dell’omofobia interiorizzata.

Penso quindi che questo libro faccia al caso suo, e la ringraziamo per averci dato la possibilità di ribadire ancora una volta che un continuo aggiornamento e una buona (in)formazione siano gli unici mezzi a nostra disposizione per non farci sopraffare da stereotipi negativi, sia nel privato che nell’esercizio della professione.

Per quanto riguarda gli altri macro temi: siamo piacevolmente colpiti dalla sua copiosa curiosità; ci riserviamo il diritto di “saziarla” nei prossimi appuntamenti della rubrica e darle anche il giusto tempo per affrontare un tema alla volta e non incappare in una facile “confusione”.

La preghiamo di continuare a seguirci e la salutiamo con un arrivederci.

Lorena Lo Bianco

 

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Psicoterapia normale e rivoluzionaria – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Ritengo che entrambe le psicoterapie “normale” e “rivoluzionaria” abbiano la loro ragione d’essere. Addirittura mi viene da dire che quella normale necessiti di competenza, impegno e pazienza superiore, mentre perchè si verifichi il cambiamento di paradigma caratteristico dell’altra devono entrare in gioco una serie di fattori molti dei quali imperscrutabili e certamente poco controllabili. Per dirla in altri termini si deve creare una particolare alchimia in cui la fortuna e il caso hanno la loro parte.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Psicoterapia normale e rivoluzionaria (Nr. 13)

 

Psicoterapia contro le regole “classiche”: violazione del setting o opportunità?

Mi è stato insegnato e continuo tuttora ad insegnare che la psicoterapia è un format preciso che inizia con la richiesta di una persona sofferente ad uno specialista, che i due formulano un contratto preciso che stabilisce obiettivi, ruoli e impegni reciproci cui segue il lavoro psicoterapeutico vero e proprio nello studio accogliente e asettico del professionista che termina con una chiusura e arrivederci e grazie.

I due che si scambiano soltanto parole e soldi, non dovevano conoscersi prima, non hanno altri rapporti durante il comune lavoro e tanto meno ne avranno dopo. Tutto il resto è violazione del setting in odore di eresia e talvolta motivo di scomunica dalle chiese di appartenenza. Il lavoro nel servizio pubblico che ha costituito l’asse portante della mia esperienza mi ha fatto più volte trasgredire queste regole ma l’ho sempre fatto sentendomi in colpa e pronto a scaricarla sulle condizioni esterne che mi impedivano di fare il lavoro “come si deve”. Solo la sfacciataggine dei vecchi mi permette ora a fine carriera di chiedermi senza dover ossequiare i maestri se davvero “si deve”: rifiutare richieste apparentemente improprie, non avere rapporti diversi oltre l’ora della seduta, evitare di conoscere la casa, i parenti e i vicini del nostro paziente, aiutarlo in modi diversi che non le parole.

Non sarà che ciò che con una cornice ristretta è interferenza e rumore di fondo se si ampia la cornice può diventare informazione preziosa e occasione terapeutica. Con una visita domiciliare spesso comprendete il paziente e le dinamiche in cui è immerso più che con 5 sedute dedicate al genogramma e alla storia di vita. Il setting è come il sabato ebraico: nasce per essere al servizio dell’uomo e finisce per renderlo schiavo.

Il setting nasce per favorire la psicoterapia ma a volte sembra che la psicoterapia abbia lo scopo di mantenere un setting corretto e ideale. Sento colleghi e talvolta pazienti (peggio se i due ruoli si sovrappongono) che mi chiedono se questa o quella cosa sia possibile farla. Tanto per esemplificare di cosa sto parlando mi riferisco a mangiare le caramelle presenti sulla scrivania o utilizzare il bagno dello studio che altri precedenti terapeuti hanno interpretato come evidente gesto aggressivo, darsi la mano ad ogni incontro o salutarsi se ci si incontra per caso in altri ambienti. Spiego normalmente che l’essere in un contesto terapeutico non sospende nè il codice penale e civile, nè il galateo e la buona educazione e che troverei invece aggressivo mi defecasse sulla tappezzeria e soprattutto dannoso per il lavoro passasse il tempo concentrato sul controllo degli sfinteri mentre gli parlo di mamma e papà.

Insomma un po’ di normalità in più e qualche sega mentale in meno giovano enormemente alla salute. Oggi quando guardo l’elenco dei pazienti che ho avuto in trent’anni mi accorgo di alcune cose che la vergogna non mi impedisce più di dire anche se ancora mi manca una riflessione teorica che gli dia una cornice unitaria e le trasformi da eccezione appena tollerabile ad un operare corretto, a modo più ampio ma altrettanto legittimo di lavorare.

Innanzitutto moltissimi pazienti continuano ad intrattenere rapporti saltuari con me da vari decenni. Mi ricercano di tanto in tanto in momenti difficili della loro vita e la richiesta non è di un loro cambiamento ma di un sostegno per affrontare snodi cruciali del ciclo esistenziale o improvvise emergenze esterne. Sento già i critici e i Pierini dirmi che evidentemente non erano terapie riuscite e ben concluse con la risoluzione del contratto ed è indubbiamente vero. Se ci mettiamo poi l’aggravante che probabilmente ci siamo un po’ reciprocamente affezionati e non perdermi di vista li fa sentire meno soli; ecco che sento il calore delle fiamme dell’inferno dei terapeuti (come sarà? denso di ingegneri e farmacologi trinariciuti?) lambirmi le chiappe e l’odore di zolfo penetrare i lobi frontali.

 

Terapie di sostegno e psicoterapie vere e proprie

Prima di fare la fine dello stoppino allora allargo il discorso al tema più teorico delle cosiddette “psicoterapie di sostegno”. Cosa sono? In che si differenziano da una terapia vera e propria e in che rapporto stanno con la consulenza. Quest’ultima è la più facile da definire: consiste nella lettura della domanda (problemi e risorse del richiedente), restituzione allo scopo di aumentarne la consapevolezza e restituire agentività e indicazioni di possibili strade di intervento per la risoluzione dei problemi evidenziati.

La psicoterapia vera e propria, invece, consiste nell’evidenziazione e nel cambiamento di quegli scopi/antiscopi e di quelle strategie di perseguimento/fuga che mettono il paziente in un ricorsivo stato di invalidazione dei propri obiettivi esistenziali provocando emozioni negative. Il compito è dunque un cambiamento la cui vastità e profondità non è un valore in sé ma anzi deve limitarsi a garantire la risoluzione possibilmente stabile dei problemi che il paziente avverte come tali. Non si tratta, infatti, di cambiare totalmente il paziente e convertirlo all’ideale di uomo del terapeuta: che Dio ci protegga da santoni e guru d’ogni genere soprattutto se camuffati da terapeuti. Direi che l’immagine che meglio rappresenta il terapeuta è quella dello specchio naturalmente non accondiscendente come quello della regina matrigna di Biancaneve, anzi. Se dovessi definire in due parole il lavoro psicoterapeutico userei “invalidazione controllata” atta ad accomodare gli schemi.

Infine nella terapia di sostegno lo specchio rimane ma si ingentilisce e cerca semplicemente di adattare gli schemi ai nuovi eventi che il soggetto si trova a fronteggiare perché possano essere assimilati e le due parole d’ordine diventano “validazione critica”. Spesso ho avuto l’impressione che i pazienti vengano, prendano ciò che gli serve in quel momento e poi se ne vadano salvo poi ritornare al bisogno identificandoci come una base sicura (scusate se è poco) e ignorando i nostri bisogni di definizione contrattuale, diagnostica e procedurale. Se ne infischiano dei nostri bei progetti e fanno ciò che gli pare e credono gli serva.

Un altro motivo di avvilimento retrospettivo e di preoccupazione per i colleghi giovani è che fin quando si tratta dell’assessment e della ricostruzione del disfunzionamento del paziente andiamo forte e con soddisfazione, mentre quando poi si tratta di operare il cambiamento le difficoltà e il senso di inefficacia si affacciano. Da sempre imbranato nell’utilizzo degli utensili di ogni genere e forse per difesa erroneamente portato a ritenere che aver compreso un problema significhi averlo risolto ( garantisco che non è così) mi aspetto molto per gli altri ma poco per la mia personale pratica dall’avvento delle tecniche della terza ondata ed in particolare di quelle bottom up che arrivano là dove gli approcci top down corticali si mostrano inefficaci.

Tempo fa, a scopo consolatorio, avevo pensato ad una forma di psicoterapia che per “statuto” si limiti espressamente all’assessment ed alla restituzione di consapevolezza lasciando poi al paziente l’onere di immaginare e realizzare eventualmente un cambiamento. Lo avevo addirittura giustificato come una forma estrema di rispetto dell’individualità del paziente.

Altre psicoterapie si pongono dichiaratamente l’obiettivo di aumentare la conoscenza di sé del paziente (prime fra tutte le varie psicoanalisi) e non mettono esplicitamente il sintomo nel mirino lasciando alla nuova consapevolezza del paziente unita alla definizione dei propri valori esistenziali il compito di trovare soluzioni adattive alla realtà che sta vivendo facendo a meno del sintomo sia esso un’ ossessione o un delirio.

L’approccio cognitivo comportamentale, probabilmente per trovare spazio in un mercato già denso, si è accreditato come semplice (ed è stato frainteso spesso come sempliciotto), breve (ed è stato inteso spesso come miracoloso), mirato alla rimozione del sintomo (il che è stato interpretato come superficiale e scarsamente efficace). Per tutte queste cose i guai maggiori sono stati causati dal mondo anglosassone con il suo pragmatismo.

Credo che sia più corretto dire con veltroniana moderazione, che l’approccio cognitivo comportamentale utilizza spiegazioni del comportamento umano simili a quelle che abbiamo innate (psicologia scopi/credenze), che tende a limitarsi al minimo tempo necessario e non è un percorso infinito, che parte dal motivo concreto della sofferenza e dunque dal sintomo ma si estende a quegli aspetti della personalità che ne sono la causa per modificare i quali si occupa della storia anche infantile che ha concorso a plasmarli. Insomma l’obiettivo e il file rouge da seguire è il sintomo ma lo scopo una modificazione, più che profonda direi come nelle ricette q.b. della personalità che lo produce.

Ricorderete Kunh l’epistemologo che parlava di paradigmi scientifici, di nucleo metafisico della conoscenza e di cintura protettiva. Se non lo ricordate o non lo avete mai letto fatelo. Lui parlava di “scienza normale” quando ci si muove all’interno di un paradigma scientifico consolidato e condiviso e se ne sviluppano tutte le potenzialità e di “scienza rivoluzionaria” quando il vecchio paradigma impatta con una anomalia inspiegabile che costringe a sostituirlo con uno nuovo che, in genere include il vecchio come caso particolare e spiega l’anomalia irrisolvibile.

Nel percorso della scienza basta pensare alla rivoluzione copernicana che, appunto, è diventata sinonimo di cambiamento radicale o alla relatività di Einstein, la teoria dei quanti e così via. In ogni scienza troverete dei passaggi improvvisi “on-off” tra un prima e un dopo e altrettanto nella storia: la venuta di Cristo, la scoperta dell’America (non tutti i cambiamenti sono positivi). la rivoluzione francese, la caduta del muro di Berlino. Per i più pigri che non vogliono leggersi Kunh la scorciatoia su questo concetto è una Palladium lecture di Baricco su “you tube” dal titolo “il gusto: Kate Mosse in cui racconta tre passaggi rivoluzionari nella storia sportiva con l’arrivo di fousbory sulle pedane del salto in alto, nella storia della bellezza e della moda con l’affermarsi di Kate Mosse, nella lirica con il trionfo della Callas.

Ogni volta si tratta di un vero e proprio cambio di paradigma inaspettato e in un tempo brevissimo e tutto ciò che c’era prima non è semplicemente superato e migliorato, diviene improvvisamente antico, preistorico. Pensate ad esempio alla rivoluzione informatica. Ieri sera ho tentato di spiegare a mio figlio 22enne cosa fosse la carta carbone. Stentava a crederci e quando l’ho mostrata ha creduto stessi facendo una magia. I PC diventano ogni giorno più potenti e sofisticati facendo cose incredibili ma siamo sempre dentro lo stesso paradigma poi un giorno chissà “flop” e tutto questo ci sembrerà desueto.

E’ chiaro che stando dentro un paradigma non possiamo immaginarci il prossimo, solo grandi geni innovatori ne sono capaci e infatti restano incompresi se non più o meno metaforicamente lapidati. Pensate anche alla politica ed a come noi vissuti nel ‘900 dobbiamo sempre ridurre tutto al paradigma destra/sinistra che esplicativo e utile un tempo, ora imprigiona le nostre menti. Fine della divagazione chi vuole approfondire lo faccia per proprio conto.

 

Psicoterapia normale e psicoterapia rivoluzionaria

Torno alla psicoterapia. Ho l’impressione che anche in psicoterapia si possa parlare di una “psicoterapia normale” e di una “psicoterapia rivoluzionaria”. Nella psicoterapia normale restano inalterati gli assetti di fondo della personalità, i sintomi vengono grandemente ridotti, si trovano strategie alternative più adattive di fronteggiare la realtà e ciò che non cambia viene accettato (a proposito credo che il ruolo dell’accettazione sia gravemente sottovalutato riducendola a mesta rassegnazione, ma ciò meriterebbe un discorso a sè). Insomma il panicoso agorafobico riesce a condurre una vita perfettamente normale libera da evitamenti ma pur sempre panicoso resta.

Nella psicoterapia rivoluzionaria invece avviene un cambiamento improvviso per crisi e il soggetto smette di essere panicoso non solo di comportarsi come tale. Assistere a questi passaggi è infrequente anche in una lunga carriera professionale. Si sentono invece spesso narrare e non ho motivo di dubitare con l’utilizzo di tecniche diverse che non si indirizzano direttamente alla neo corteccia. Sarà capitato anche a voi di ascoltare il resoconto di sedute EMDR in cui avviene un cambiamento improvviso, una netta discontinuità tra il prima e il dopo.

Al di fuori del contesto terapeutico tali esperienze assumono il carattere di conversioni e sono spesso connesse all’esperienza religiosa, mistica o comunque soprannaturale. Nel campo scientifico mi viene in mente l’intuizione della forma circolare della molecola del benzene che risolse in un attimo, addirittura riferito ad un sogno, il rompicapo su cui si lavorava da anni della mancanza degli atomi di carbonio. Molto simile è l’esperienza de “l’eureka” quell’intuizione istantanea ed evidente che pone fine all’angoscioso vissuto del wanstimmung e segna l’ingresso trionfale nel meraviglioso sconfinato e privato territorio del delirio.

Ritengo che entrambe le psicoterapie “normale” e “rivoluzionaria” abbiano la loro ragion d’essere. Addirittura mi viene da dire che quella normale necessiti di competenza, impegno e pazienza superiore, mentre perchè si verifichi il cambiamento di paradigma caratteristico dell’altra devono entrare in gioco una serie di fattori molti dei quali imperscrutabili e certamente poco controllabili. Per dirla in altri termini si deve creare una particolare alchimia in cui la fortuna e il caso hanno la loro parte.

E’ evidente che a tutti noi piacerebbe che tutte le nostre terapie fossero rivoluzionarie per sentirci come Gesù che ordina a Lazzaro “alzati e cammina!” e abbiamo provato irritazione nell’ascoltare la storiella secondo la quale il giovane già un po’ frollato rispondeva “con calma e per favore!”. Quando abbiamo sognato questo lavoro ci siamo immaginati come ipnotisti, maghi, guaritori santoni. Abbiamo immaginato di tirar fuori dal cilindro l’interpretazione definitiva, geniale che tutto spiega e libera da ogni sofferenza. Invece il più delle volte lavoriamo per mesi per ottenere modesti cambiamenti che magari il paziente attribuisce ad altro. Ci pensavamo Maradona e invece ci troviamo a fare i mediani. Ma, come ricorda Ligabue, al centro dello schieramento dell’Italia campione del mondo c’era Oriali. Il lavoro apparentemente meno nobile, lungo e faticoso della “psicoterapia normale” spesso è propedeutico al tempo breve e esaltante della “psicoterapia rivoluzionaria”, ma non sempre è così.
Vorrei concludere ponendo attenzione su due situazioni che incontrandosi potrebbero beneficiarsi a vicenda.

Da un lato la richiesta di psicoterapia è in costante aumento e non tanto o non solo per un aumento della psicopatologia ma per una crescente consapevolezza e aspirazione al benessere ed alla qualità della vita. Dall’altro le risorse destinate alla sanità pubblica sono ridotte e spalmate su un arco vitale sempre più lungo per cui sono pochi coloro che riescono ad ottenere un vero trattamento psicoterapeutico dal servizio pubblico e la terapia privata è accessibile solo ai privilegiati.

Per risolvere questo problema si stanno tentando vari esperimenti come quello della “psicoterapia solidale” che fa incontrare il bisogno di terapia di pazienti non abbienti con il bisogno di esperienza dei giovani terapeuti in formazione. Un’ altra possibilità potrebbe essere l’utilizzo dei mezzi informatici che intanto abbassano i costi eliminando gli spostamenti e poi possono mettere in contatto offerta e richiesta in un mercato unico globale con evidenti vantaggi per la concorrenza. Ai più vecchi ciò può risultare ancora inconsueto ma per i nativi digitali sarà strano il contrario.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Quale relazione tra le ore di sonno e il consumo di bevande nocive per la salute?

Le persone che dormono cinque ore o meno a notte, risulterebbero anche le più predisposte al consumo di bevande dolci e ricche di caffeina, come bevande gassate o “energy drink”. 

 

Uno studio condotto dall’Università di San Francisco è giunto a queste conclusioni analizzando un campione di più di 18000 adulti.

Il consumo di bevande ricche di zuccheri è stato, da diversi studi, associato a condizioni metaboliche peculiari, come iperglicemia ed eccesso di grasso corporeo, fattori che possono portare a problemi di salute, come obesità e diabete di tipo 2.

A sua volta, la mancanza di ore di sonno è associata ad un più alto rischio di disordini metabolici. Di recente, molti studi hanno collegato i due fattori di rischio in bambini di età scolare, dimostrando che coloro i quali dormono meno, sarebbero anche i più predisposti al consumo di bevande gassate e ricche di zuccheri durante il giorno.

 

Abitudini alimentari e stato di salute: lo studio

I precedenti risultati hanno portato Prather, direttore associato del centro UCSF per la Salute e la Comunità, a condurre, insieme al suo team di collaboratori, una ricerca sui dati di 18779 adulti Statunitensi, provenienti dal database (2005-2012) del Nathional Health and Nutrition Survey (NHANES), uno studio sul legame tra abitudini alimentari e stato di salute, gestito dal National Center for Health Statistics.

Nello studio gli adulti riportavano informazioni su quanto dormivano in genere durante una settimana lavorativa e su quanto fosse il loro consumo di varie bevande, incluse bevande ricche di zuccheri, con caffeina o decaffeinate, succhi di frutta, drink con dolcificanti artificiali e caffè, tè, acqua.

 

Risultati dello studio

Tenendo sotto controllo alcune variabili, come fattori sociodemografici e di salute che avrebbero potuto impattare potenzialmente sul consumo di bevande e sulla quantità di sonno, i ricercatori hanno evidenziato che le persone che riferivano di dormire cinque ore o meno per notte, erano anche propense a bere il 21% in più di bevande zuccherate e ricche di caffeina, sia gasate che non, rispetto a coloro i quali riferivano di dormire sette ore o più a notte; invece i soggetti che dormivano in media sei ore a notte, consumavano l’11 %  in più di bevande ricche di zuccheri e caffeina, rispetto al gruppo che dormiva più ore. Non sono stati evidenziati legami tra il consumo di succhi di frutta, tè o drink dietetici e la durata media del sonno.

 

Considerazioni

Alcuni studi hanno, in passato, riportato l’associazione tra deprivazione del sonno e incremento della fame (Knutson et al., 2007 ; Schmid et al., 2008). Le ipotesi elaborate da Prather vanno in questa direzione e in particolare verso l’associazione tra mancanza di sonno e fame per alimenti zuccherati e grassi:

Coloro che dormono poco potrebbero mettere in atto il consumo di bevande dolci per incrementare il livello di allerta e di resistenza al sonno durante il giorno – afferma il ricercatore – Tuttavia non è ancora chiaro se bere queste bevande abbia degli effetti sul sonno, o se le persone che non dormono molto siano più propense a consumarle. I dati di questo studio non permettono di trarre conclusioni su cause ed effetti.

Inoltre, un limite della ricerca può essere quello di affidarsi, per stabilire la durata del sonno individuale, a dei self-report, che potrebbero non riflettere effettivamente i pattern di sonno reali dei soggetti. Questi limiti portano a concludere che dovrebbero essere condotti altri studi per avere un quadro più chiaro dei risultati.

Tuttavia, la ricerca mette in luce degli aspetti importanti del problema del consumo di zuccheri in eccesso,  a livello dell’impatto sulla vita quotidiana delle persone.

Dormire troppo poco e bere troppe bevande zuccherate, sono due fattori entrambi collegati a risultati metabolici negativi per la salute, inclusa l’obesità – afferma Prather – Data la relazione messa in evidenza tra consumo di bevande e deprivazione del sonno, controllare la durata e la qualità del sonno potrebbe rappresentare un nuovo intervento per migliorare la salute e il benessere delle persone che bevono molte bevande zuccherate.

 

Manuale di psicoterapia centrata sulla genitorialità (2016) – Recensione

Un manuale per il clinico di stampo psicodinamico che si trova a lavorare con bambini e genitori. Costituisce uno strumento per affiancare la coppia di genitori e per aiutarla nel delicato percorso evolutivo con il figlio.

 

Un modello di terapia efficace a partire dal concepimento, continuando durante il periodo della gravidanza, lungo i primi mesi di vita del bambino e l’infanzia fino ad arrivare al delicato passaggio nell’adolescenza.

Non hai avuto modo di scegliere i genitori che ti sei trovato, ma hai modo di poter scegliere quale genitore potrai essere. (Marian Wright Edelman)

Il costrutto della genitorialità, termine coniato dallo psichiatra e psicoanalista francese Racamier nel 1961, ha subito un’evoluzione nel tempo. Il focus si è spostato infatti da una genitorialità, spesso sinonimo di maternità, patologica, quindi da curare, al complesso di di relazioni di entrambi i genitori col figlio, lungo la sua crescita.

Diventare genitori viene adesso considerato un nuovo lavoro a cui bisogna prepararsi, un lavoro appagante e fonte di realizzazione, ma anche un compito che richiede competenze per raggiungere l’obiettivo: saper fronteggiare in maniera adattiva le trasformazioni del bambino nelle varie fasi dello sviluppo. Il compito del clinico diventa essere in grado di rispondere alla domanda “Come si fa a diventare un buon genitore ed evitare il fallimento in questo compito così essenziale?”

Nathalie Nanzer, curatrice dell’opera è neuropsichiatra infantile e psicoanalista. Attualmente ricopre il ruolo di responsabile presso l’unità di orientamento infantile del Servizio di psichiatria del bambino e dell’adolescente degli Ospedali Universitari di Ginevra. Il Manuale di psicoterapia centrata sulla genitorialità segue l’opera prima Dépression postnatale. Sortir du silence.

L’opera vede inoltre il contributo di diversi autori: neuropsichiatri infantili, psicologi, psicoanalisti operanti all’interno del servizio di psichiatria del bambino e dell’adolescente di Ginevra.

Nella prefazione all’edizione italiana, scritta da due specialisti dell’età evolutiva, S. Hardt e G. Cafforio, viene presentato il testo sottolineando l’importanza del luogo in cui è stato “partorito”: la Scuola di Ginevra. A partire dagli anni ’70 la città ha sviluppato una comunità dove la medicina incontra la pedagogia, in un dialogo costante che ha prodotto una metodologia di cura di successo e progetti di prevenzione finalizzati al disagio genitoriale e ai disturbi precoci nei bambini. Ginevra è anche un importante polo di ricerca scientifica perinatale, dove operano psicoanalisti di fama internazionale.

Il valore del testo, pubblicato per la prima volta nel 2012 e qui nella prima ristampa italiana, è quello di offrire una un modello teorico e pratico integrato evidence based. Dai fondamenti teorici della scuola di Ginevra si passa all’asse di intervento e agli strumenti tecnici necessari alla terapia. Una sezione è interamente dedicata alla pratica tramite l’esempio di casi clinici. Il background dell’opera è di stampo psicodinamico, ma si arricchisce grazie alle scoperte neuroscientifiche più recenti e agli studi dell’Enfant Research su temi come attaccamento, teoria della mente e teoria sistemica, solo per citarne alcune.

L’attenzione non è solo per gli aspetti patologici o potenzialmente patologici relativi alla sintomatologia del bambino o derivanti da problemi nella relazione genitori – figlio, ma in tutta l’opera ritorna l’attenzione alla comprensione e alla spiegazione dei rapporti esistenti tra la dinamica del bambino e le preoccupazioni genitoriali che col tempo si adattano reciprocamente in una danza costante e che permettono lo sviluppo di competenze che avviano i processi di individuazione sia nei genitori che nel neonato.

L’opera è divisa in tre parti. La prima riguardante i fondamenti teorici della Scuola di Ginevra che spiegano lo sviluppo e la personalità dell’adulto che andranno ad influire sul suo modo di fare il genitore, il processo per diventarlo e i conflitti che ne derivano. La prima parte comprende anche la teoria alla base della psicoterapia centrata sulla genitorialità (PCP): gli assi sui quali interviene, gli obiettivi e i destinatari dell’intervento e il ruolo che il bambino ha nella terapia. Una sezione è dedicata ai diversi modelli di PCP, agli aspetti relativi al setting e agli strumenti tecnici, con particolare attenzione alle diverse strategie di terapia e come adattarle ai destinatari.

Nella seconda parte, Nanzer si occupa delle applicazioni cliniche ovvero quali sono le sfide della genitorialità durante lo sviluppo del bambino. Si toccano argomenti come il rischio di un parto prematuro, la depressione post partum e come la terapia si modifica al modificarsi dell’età del bambino. La sezione ha il pregio di non limitarsi alla dimensione nozionistica, ma offre esempi di casi clinici utili per lo specialista per comprendere a fondo il modello di terapia.

Nella terza parte dell’opera, i contributi degli autori trattano di problematiche specifiche come i disturbi dello sviluppo, i disturbi alimentari e il tema della coniugalità.

In appendice viene offerta un’intervista diagnostica adattata al periodo prenatale messa a punto da Z. Qayoom, I. Le Scouezec, S. Rusconi-Serpa e F. Palacio Espasa.

Il Manuale di psicoterapia centrata sulla genitorialità è un utile strumento per il medico, sia neuropsichiatra infantile che pediatra o per lo psicoanalista che si trova a lavorare con il nucleo familiare.

E’ difficile contenere in manuale pratico tutte le sfaccettature di un mondo così ricco di significati, implicazioni, rimandi sociali e culturali come quello riguardante genitorialità e lo sviluppo infantile. Non tutti i temi sono stati infatti trattati, ad esempio manca un discorso sulla procreazione assistita o sulla genitorialità omosessuale, temi attuali che suscitano spesso un grande interesse e grandi critiche da parte della società, ma come sottolineano gli stessi autori questi temi meritano un discorso a parte.

Nel manuale viene affrontato un approccio terapeutico collaudato da anni che non si ferma alla sintomatologia del bambino o è applicabile solo a una specifica fascia evolutiva, ma abbraccia in maniera globale la complessità della psiche umana fin dal concepimento per arrivare alla vita adulta. Un modello che parte da una visione dinamica dell’esperienza psichica, collegando i temi classici della psicoanalisi infantile affiancandoli sempre ad un discorso basato sui risultati scientifici in materia negli ultimi trent’anni che spaziano dal mondo animale, al linguaggio, allo sviluppo del cervello.

Relazioni tra pari: come lo status sociale nel gruppo classe potrebbe causare disturbi di internalizzazione ed esternalizzazione in età scolare

Ad oggi quindi, il sistema di relazioni tra pari, è considerato un fattore protettivo e/o di rischio che risulta essere tanto determinante quanto il sistema di relazioni verticali che il bambino instaura con l’adulto.

Marzia Paganoni – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Non c’è alcun periodo dello sviluppo nel quale l’essere umano viva al di fuori del regno dei rapporti interpersonali (Sullivan, 1982).

 

Da diversi anni la ricerca (Salmivalli, Isaacs, 2005; Bukowski & Sippola, 2001; Perry, Kusel, & Perry, 1988; Ladd & Troop-Gordon, 2003; Parker & Asher, 1987) si occupa in modo sempre più approfondito di indagare le relazioni che i bambini hanno con i loro coetanei.

Lo sviluppo del bambino infatti è fortemente influenzato dalla rete sociale in cui si trova inserito. È proprio nel contesto delle relazioni tra pari che i bambini imparano a padroneggiare abilità sociali come la comprensione, il rispetto delle regole, l’assunzione del punto di vista altrui e le abilità di negoziazione e gestione dei conflitti (Salmivalli, Isaacs, 2005).

Bagwell et al. (2001) sostengono che le relazioni tra pari rappresentino più di una semplice compagnia. Gli esseri umani hanno infatti un innato bisogno di appartenere che, se soddisfatto, è fortemente legato al benessere e all’euforia mentre, se non soddisfatto porta ad insicurezza, rifiuto e stress.

Le esperienze negative tra pari sono infatti associate, secondo diversi autori (Hawker & Boulton, 2000; Ladd, Kochenderfer, & Coleman, 1997; Parker & Asher, 1987) a problemi nell’adattamento durante l’adolescenza e l’età adulta.

Secondo Zimmer-Gembeck & Pronk (2012), problemi come l’ansia sociale, la solitudine, la depressione, la bassa autostima e l’atteggiamento negativo a scuola rappresentano i precursori di molte forme comuni di disadattamento, che vengono associate a problemi riscontrati nelle relazioni tra pari.

Ad oggi quindi, il sistema di relazioni tra pari, è considerato un fattore protettivo e/o di rischio che risulta essere tanto determinante quanto il sistema di relazioni verticali che il bambino instaura con l’adulto.

Genta (2005) sottolinea come sia proprio per questo motivo che ad oggi sono molto studiati, all’interno del gruppo dei pari, i comportamenti di accettazione e rifiuto, di prosocialità e di empatia, nonché di aggressività diretta ed indiretta.

 

Lo status sociometrico nelle relazioni tra pari

Nell’ambito dello studio delle relazioni tra pari, la dimensione a cui generalmente si fa riferimento è quella del gruppo classe in quanto viene comunemente considerato come un esempio tipico di piccolo gruppo (Genta, 2005).

All’interno delle relazioni tra pari si vengono a creare nel breve tempo situazioni che richiedono la messa in pratica di competenze specifiche da parte dei bambini e, il grado in cui si padroneggiano queste capacità determina la posizione che questi ultimi vengono ad occupare all’interno del gruppo. Questa posizione costituisce il cosiddetto “status sociometrico” che si può definire come il grado in cui i bambini piacciono oppure non piacciono ai coetanei che appartengono al loro stesso gruppo.

La tecnica più usata per la definizione dello status sociometrico è la nomina dei pari. Questo metodo consiste nel chiedere ad ogni bambino, dopo avergli detto che le sue risposte rimarranno riservate, di scegliere, all’interno del gruppo classe, quelli che sono i compagni che preferisce e quelli che gli piacciono di meno, con un massimo di tre nomine positive e tre negative.

Le nomine si basano su due dimensioni: l’impatto sociale, ovvero  la somma delle nomine positive e di quelle negative ricevute da ogni bambino, e la preferenza sociale, cioè la differenza tra nomine positive e negative. Grazie all’osservazione congiunta di questi due indici e all’applicazione di alcune specifiche regole di standardizzazione dei punteggi, i bambini possono essere classificati come appartenenti a cinque diverse categorie di status sociale: popolare, rifiutato, ignorato, controverso e gregario.

I bambini popolari hanno un carattere allegro e positivo, numerose interazioni diadiche, un livello elevato di gioco cooperativo, sono considerati dei buoni leader e sono disposti a condividere (Reffieuna, 2003; Smoti, 2001) mentre i bambini rifiutati hanno un comportamento irruente e inadeguato, sono asociali, litigiosi, tendono a preferire attività solitarie, condividono poco con gli altri i propri oggetti e sono quindi poco cooperativi (Coie, Dodge e Kupersmidt, 1990).

I bambini popolari mostrano generalmente un livello più alto di socializzazioni e maggiori abilità cognitive rispetto ai coetanei non appartenenti a questo status sociale, oltre ad un livello minimo di aggressività ed isolamento sociale mentre, i bambini rifiutati, sono quelli più a rischio di disturbi psicologici futuri come ansia e depressione (Ladd & Troop-Gordon, 2003).

Nello status sociale dei controversi rientrano invece quei bambini che risultano molto apprezzati da alcuni compagni e contemporaneamente anche poco apprezzati da altri (Cassibba e Elia, 2009). Sono bambini che a volte risultano anche molto aggressivi ma che compensano questa loro aggressività con qualità tipiche dei bambini popolari come per esempio buone abilità socio-cognitive e buone capacità di condivisione e cooperazione (Newcomb, Bukowski e Pattee, 1993).

I bambini ignorati sono quei bambini che hanno poco impatto sociale (Cassibba e Elia, 2009), appaiono timidi e tendono a mettere in atto un numero elevato di comportamenti solitari (Coie, Dodge e Kupersmidt, 1990). Questo status sociale tende a rimanere stabile nel tempo mentre si modificano le valutazioni delle condotte di questi bambini da parte dei pari in quanto, il comportamento che in età prescolare era comunque accettato nella relazione tra pari, in età scolare e ancor di più nel periodo pre-adolescenziale, assume una valenza negativa perché, il rimanere ai margini o fuori dal gruppo tende ad essere considerato sempre di più come una deviazione rispetto alla norma (Cassibba e Elia, 2009).

I bambini considerati gregari, che racchiudono circa il 60-70% dei soggetti, non manifestano ne abilità necessarie per diventare popolari né comportamenti problematici che li possono portare ad essere rifiutati o ignorati dal gruppo dei pari (Cassibba e Elia, 2009).

 

Disturbi di Internalizzazione

A partire dalla seconda metà degli anni ’80 hanno preso il via alcuni studi sugli effetti che disturbi ansiosi o depressivi possono avere sulle relazioni sociali dei bambini. Paura e ansia sono molto comuni nell’infanzia ma, il fatto che spesso siano di breve durata e scompaiano in poco tempo, ha portato molti psicologi a dedicar loro poca attenzione (Cartwright-Hatton, McNicol, & Doubleday, 2006).

Negli ultimi decenni questa opinione è però cambiata e difatti, secondo diversi autori (Bell-Dolan & Brezeal, 1993; Costello & Angold, 1995; Gurley, Cohen, Pine, Brook, 1996), i disturbi d’ansia sono i disturbi psichiatrici più comuni tra i bambini e gli adolescenti (2.4%- 17.7%)  in quanto risultano caratterizzati da esordio precoce e da una molteplicità di sintomi che predispongono i soggetti ad una continuità psicopatologica nelle successive fasi di sviluppo. Lo stato d’ansia è da considerarsi patologico quando presenta un’elevata intensità e persistenza, oppure quando il suo scopo principale non risulta più essere quello di segnalare la presenza di un reale pericolo (Kandel, 2007).

I bambini che soffrono di disturbi di internalizzazione, come ansia e depressione, soffrono in silenzio in quanto difficilmente i genitori e/o gli insegnanti riconoscono questa problematica (Albano, Chorpita, Barlow, 2003).

Gli studi effettuati sulle relazioni tra pari hanno evidenziato come i bambini impopolari, di cui fan parte i bambini rifiutati e gli ignorati, si ritrovano spesso in una situazione di totale isolamento e tendono quindi a sviluppare nel tempo sentimenti di solitudine, di ansia e di bassa stima di sé (Asher, Hymel, Renshaw, 1984; Cassidy, Asher, 1992).

Asher et al., (1984), riscontrarono che i bambini di terza elementare appartenenti alla categoria dei rifiutati e degli ignorati avevano più alti livelli di solitudine e insoddisfazione sociale e si percepivano come più negativi rispetto ai bambini popolari.

Altri autori sottolineano come le valutazioni della depressione siano correlate negativamente con la popolarità e positivamente con il rifiuto da parte dei pari (Kennedy, Spence, Hensley, 1989; Asher & Wheeler, 1985; Asher, Hymel, & Renshaw, 1984; Cole & Carpentieri, 1990;  Verduin & Kendall, 2008).

Cole e Carpentieri (1990) conducendo una ricerca su bambini che frequentavano la quarta elementare hanno riscontrato, in accordo con quanto detto poco sopra, che i bambini rifiutati risultano essere più depressi dei bambini popolari, ignorati e gregari e che i popolari risultano significativamente meno depressi rispetto a tutti gli altri gruppi di bambini.

Quando diventano adolescenti e poi adulti molti di loro continuano a provare insicurezza e difficoltà nel rapporto con gli altri e soffrono di depressione e altri problemi psichiatrici (Parker & Asher, 1987).

Un numero spropositato di adulti affetti da gravi disturbi psichiatrici ricordano esperienze sociali dolorose risalenti all’infanzia e alla fanciullezza che descrivono come caratterizzate da un comportamento sociale problematico e cattive relazioni tra pari e, per contro, un numero straordinario di bambini rifiutati sviluppa, crescendo, problemi di comportamento antisociale e di salute mentale legati ad ansia e depressione (Parker et al., 1995).

Strauss e collaboratori (1988) hanno esaminato la relazione che intercorre tra la posizione sociale assunta dai bambini nel gruppo dei pari e la presenza di disturbi d’ansia, individuando livelli di accettazione estremamente inferiori nei bambini con psicopatologia rispetto ai controlli. Ciò sembra essere particolarmente evidente quando è rintracciabile una sintomatologia depressiva in comorbidità. Infatti, secondo quanto osservato dagli autori, i bambini che presentavano solo disturbi d’ansia rientravano nella categoria dei gregari, mentre i bambini con disturbi d’ansia e di depressione risultavano ignorati.

Non è un caso, quindi, che molte ricerche considerino la comorbidità di problemi d’ansia e depressione in infanzia un fattore di rischio maggiore per il rifiuto, o la non considerazione, da parte dei pari rispetto alla presenza di un singolo disturbo (Strauss, Lahey, Frick, Frame, & Hynd, 1988; Hecht, Inderbitzen, & Bukowski, 1998).

Boivin et al. (1995) hanno osservato un gruppo di bambini longitudinalmente per due anni riscontrando come i soggetti vittimizzati dai compagni durante il primo anno di scuola elementare evidenziavano un incremento di comportamenti problema l’anno successivo, fra cui un maggior grado di ritiro sociale e/o un comportamento sociale invadente e immaturo.

L’esposizione agli approcci ostili e alla vittimizzazione da parte dei pari favorisce quindi sentimenti di solitudine, risentimento, ansia, depressione e alienazione (Boivin, Hymel e Bukowski, 1995; Perry, Kusel e Perry, 1988). Asher e Wheeler (1985) avevano riscontrato che i bambini rifiutati riportavano più solitudine e insoddisfazione per le loro relazioni tra pari rispetto agli altri gruppi sociometrici e che i bambini ignorati invece non ottenevano punteggi di solitudine differenti dai pari con elevato status sociometrico.

Crick e Ladd (1993) sostengono inoltre come siano i bambini ignorati a presentare il più alto livello di stress sociale rispetto ai bambini appartenenti agli altri status sociali (popolare, gregario e controverso) che si sentono comunque socialmente stressati.

 

Disturbi di Esternalizzazione

Nei bambini, l’aggressività è un tratto che si accompagna a vari aspetti di disadattamento come il rifiuto, la disregolazione emotiva, la vittimizzazione e la povertà di relazioni tra pari (Card & Little, 2006 ). In generale l’essere di sesso maschile è considerato uno dei fattori di rischio per lo svilupparsi di problematiche esternalizzanti (Gerbino et al., 2002). Tuttavia, diverse ricerche ci dicono che i maschi non sono più aggressivi delle femmine a livello assoluto ma che i primi ricorrono più facilmente all’aggressività diretta, mentre le femmine sembrano prediligere l’aggressività relazionale (Card & Little, 2006).

La relazione tra status sociale e aggressività è stata generalmente rilevata come piuttosto forte e risulta moderata da fattori demografici, social-cognitivi e di personalità (Bukowski, 2011).

Tra i fattori demografici, uno dei più interessanti è l’età. Durante la media fanciullezza, infatti, l’aggressività è associata al rifiuto dei pari, ma lo è molto meno durante la prima infanzia e all’inizio dell’adolescenza. Addirittura, man mano che dall’infanzia si va alla tarda adolescenza sembra che l’aggressività relazionale e l’aggressività fisica incrementino la popolarità di coloro che ne fanno uso (Cillessen & Rose, 2005).

Diversi studi indicano che essere rifiutati o ignorati dai pari sono considerati sia come antecedenti che come conseguenti di problemi emotivi e di comportamento; in particolare sembra che i più alti livelli di aggressività siano riscontrati nei soggetti rifiutati, rispetto agli ignorati (Bierman, 2004; Newcomb et al., 1993). I bambini rifiutati, a differenza di quelli popolari, tendono a ritenere i fallimenti originati da cause interne, sono meno accurati nell’interpretazione degli stimoli esterni e nel decodificare le intenzioni dei pari, di fronte a situazioni nuove mettono in atto soluzioni insufficienti, inefficaci e poco articolate ed infine, ritengono la modalità aggressiva l’unica via possibile alle relazioni tra pari (Newcomb et al., 1993). Secondo Bierman (2004), i bambini che manifestano condotte aggressive tendono ad essere isolati dal gruppo dei pari ed è proprio questo isolamento che li porta a manifestare una quantità e varietà di atti aggressivi tali, da scoraggiare ogni tentativo di approccio sociale da parte dei coetanei, innescando così un vortice di azioni e reazioni.

I bambini aggressivi rifiutati provano infatti una forte attrazione verso i coetanei che presentano le stesse problematiche alimentando così la creazione e la conservazione di legami interpersonali devianti che mantengono i comportamenti problema.

Secondo Card e Little (2006), i comportamenti aggressivi non sono sempre disadattivi in quanto, in certi casi, questo tipo di comportamento è associato a una regolazione positiva. Molti bambini aggressivi vengono infatti percepiti come cool e popolari dai pari (Rodkin, Farmer, Pearl & Van Acker, 2000; Cillessen & Rose, 2005; Rose, Swenson & Carlson, 2004).

Nello specifico, ad esempio, diversi studi hanno dimostrato che, se in certi casi l’aggressività è legata al rifiuto sociale (Salmivalli & Helteenvuori, 2007; Salmivalli & Isaacs 2005), in altri casi, al contrario, è correlata con la popolarità (Bukowski, 2011). Anche secondo Bierman (2004) non sempre l’aggressività si accompagna a rifiuto sociale.

Questo dato potrebbe suggerire come le condotte aggressive favorirebbero uno status sociale popolare se alternate alla messa in atto di comportamenti prosociali mentre porterebbero al rifiuto da parte dei coetanei quando non vengono associate a questi comportamenti positivi.

Gli studi sulla teoria della mente ci riportano infatti come la comprensione degli stati mentali sia importante per lo sviluppo sociale in quanto, fornisce indizi specifici che consentono di attribuire significato al comportamento umano, di formulare ragionamenti sociali, e di manipolare gli stati mentali altrui con l’inganno come riscontrato in quei bambini definiti “machiavellici”.

I teorici della teoria della mente infatti ipotizzano un altro aspetto della cognizione sociale nell’aggressività guardando alla competenze piuttosto che ai deficit che li portano quindi ad associare il comportamento aggressivo anche allo status di bambini popolari e non solo ai bambini classificati come rifiutati (Sutton et al., 1999).

Ovviamente il legame fra rifiuto sociale e aggressività dovrà essere intensamente studiato per numerosi anni prima di poter essere almeno in parte chiarito, poiché gli studi hanno sempre più evidenziato la complessità del tema.

 

Conclusione

In conclusione, diverse ricerche (Asher & Wheeler, 1985; Coie et al., 1990; Strauss, Lahey, Frick, Frame, Hynd, 1988; Cole & Carpentieri, 1990), vanno ad evidenziare l’ipotesi dell’esistenza di un’associazione/relazione significativa tra status sociale, misurato nel gruppo classe, e la presenza di sintomatologia internalizzante ed esternalizzante in età evolutiva.

Nello specifico, l’appartenere alla categoria sociometrica dei rifiutati o degli ignorati può portare il bambino a sviluppare problemi di adattamento futuri ed è spesso legato alla presenza di disturbi sia internalizzanti di tipo ansioso-depressivo che esternalizzanti di tipo aggressivo (Parker & Asher, 1987; Coie et al., 1990; Cole & Carpentieri, 1990).

Terapia cognitiva comportamentale intensiva: un trattamento promettente per i pazienti affetti da anoressia nervosa grave e persistente

E’ stato eseguito presso l’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Behaviour Research and Therapy che ha confrontato gli esiti a breve e a lungo termine dei pazienti con anoressia nervosa grave e persistente e quelli con una minore durata del disturbo (NSE-AN), trattati con un programma riabilitativo ospedaliero basato sulla terapia cognitivo comportamentale e orientata alla guarigione.

Anoressia nervosa grave e persistente

Quando l’ anoressia nervosa (AN) persiste per più di sette anni è definita come grave e persistente (SE-AN). Vari studi hanno evidenziato che i pazienti con anoressia nervosa grave e persistente hanno una scadente qualità della vita, un aumentato rischio di sviluppare gravi comorbilità mediche, (osteoporosi, anomalie cardiovascolari e modificazioni strutturali cerebrali) con associata una ridotta aspettativa di vita. Inoltre, a causa degli alti livelli di disabilità che compromettono la loro capacità lavorativa, costituiscono spesso un carico significativo per le loro famiglie, gli operatori sanitari e lo stato assistenziale.

Gli studi di esito sull’ anoressia nervosa hanno dimostrato che la lunga durata del disturbo prima del trattamento è un fattore prognostico sfavorevole. Questo è il motivo per cui le compagnie di assicurazione americane spesso si rifiutano di finanziare il trattamento dei pazienti con anoressia nervosa grave e persistente e nel Regno Unito offrono a questi pazienti solo un trattamento psichiatrico generale o nessun tipo di cura.

 

Un nuovo trattamento per i pazienti con anoressia nervosa grave e persistente

Recentemente è stato anche proposto un nuovo paradigma di trattamento per i pazienti con anoressia nervosa grave e persistente che sposta gli obiettivi dell’intervento da un modello di cura basato sulla guarigione, in cui è promosso il recupero di peso, a uno finalizzato a migliorare il tasso di ritenzione nel trattamento e la qualità della vita, a minimizzare il danno e a prevenire ulteriori esperienze di fallimento.

A parziale supporto di questo approccio ci sono i dati di un recente studio randomizzato e controllato che ha confrontato due trattamenti psicologici adattati per i pazienti con anoressia nervosa grave e persistente che avevano l’obiettivo di migliorare la qualità della vita ma non di promuovere il recupero di peso: la terapia cognitivo comportamentale (CBT-SE) e la gestione clinica specialista di supporto (SSCM-SE). A 6 mesi di follow-up, nonostante il minimo aumento dell’indice di massa corporea (BMI), i pazienti trattati con la CBT-SE hanno ottenuto valori più bassi al punteggio globale dell’Eating Disorder Examination (EDE) e una maggiore disponibilità a guarire rispetto a quelli trattati con la SSCM-SE. Inoltre, entrambi i trattamenti sono stati associati con un basso tasso di drop-out (15%).

Tuttavia, ci sono forti ragioni per indicare che il pessimismo sulle prospettive di guarigione dei pazienti con anoressia nervosa grave e persistente non sia del tutto giustificato e che sia prematuro abbandonare modelli di trattamento basati sulla guarigione per questo sottogruppo di pazienti. Innanzitutto, la maggior parte degli studi randomizzati e controllati sull’efficacia di trattamenti basati sulla guarigione non ha incluso pazienti con anoressia nervosa grave e persistente e, di conseguenza, non abbiamo dati su come essi rispondano a trattamenti evidence-based, come la terapia cognitivo-comportamentale migliorata (CBT-E) o la terapia basata sulla famiglia (FBT). Inoltre, alcuni resoconti clinici hanno riportato che i pazienti affetti da Anoressia Nervosa da molti anni possono beneficiare di un trattamento aggiuntivo e, in alcuni di essi, anche raggiungere una completa guarigione.

 

Uno studio sull’efficacia della terapia cognitivo comportamentale per l’ anoressia grave e persistente

Alla luce di questi risultati incoraggianti, è stato eseguito presso l’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della Casa di Cura Villa Garda uno studio recentemente pubblicato sulla rivista Behaviour Research and Therapy che ha confrontato gli esiti a breve e a lungo termine dei pazienti con anoressia nervosa grave e persistente e con una minore durata del disturbo (NSE-AN) trattati con un programma riabilitativo ospedaliero basato sulla CBT-E e orientato alla guarigione.

Sessantasei pazienti adulti di età compresa tra 18 e 65 anni affetti da Anoressia Nervosa sono stati reclutati tra i pazienti consecutivamente ricoverati. Il BMI e i punteggi all’EDE e al Brief Symptom Inventory (BSI) sono stati registrati al momento del ricovero, alla fine del trattamento, a 6 e 12 mesi di follow-up.

Per la valutazione dell’outcome sono state usate tre misure:
1 Good BMI Outcome: BMI ≥ 18,5 kg/m2
2 Full Response: BMI of ≥ 18,5 kg/m2 e punteggio globale all’EDE <1,74
3 Definizione di gravità dell’ Anoressia Nervosa secondo il DSM-5: lieve (BMI ≥ 17), moderata (BMI 16 – 16,99), grave (BMI 15 – 15,99), estrema (BMI < 15).

Trentadue pazienti (48,5%) sono stati classificati come anoressia nervosa grave e persistente (cioè con durata del disturbo > 7 anni), e 34 (51,5%) come NSE-AN. Rispetto ai pazienti con SE-AN, quelli classificati come NSE-AN avevano un’età significativamente più bassa e una minore frequenza di uso improprio di lassativi.

Cinquantasei partecipanti (84,8%) hanno completato il trattamento, mentre 10 (15,2%) hanno lasciato il programma prima della fine delle 20 settimane di trattamento previste, senza nessuna differenza tra i gruppi NSE-AN e SE-AN. Durante il trattamento, entrambi i gruppi hanno mostrato un simile e ampio incremento di BMI e un miglioramento significativo della psicopatologia specifica e generale. Dalla dimissione fino ai 6 mesi di follow-up si è verificato un minimo deterioramento che si arresta tra i 6 e i 12 mesi. Inoltre, a 12 mesi di follow-up, entrambi i gruppi hanno mostrato tassi simili di Good BMI Outcome (44,0% e 40,7%, rispettivamente) e di Full Response (32,0% e 33,3%, rispettivamente) .

Per quanto riguarda gli indicatori di gravità, la percentuale di pazienti appartenenti al gruppo NSE-AN di estrema gravità è sceso dal 55,9% al basale al 12% a 12 mesi di follow-up, e simili diminuzioni sono state osservate anche nel gruppo SE-AN (46,9% vs 11,1%).

Lo studio ha prodotto tre risultati principali. Il primo riguarda l’accettabilità dei pazienti ricoverati e trattati con la CBT-E. Oltre l’80% dei pazienti idonei ha accettato di intraprendere il trattamento e l’85% lo ha completato, senza differenze significative tra i gruppi SE-AN e NSE-AN, nonostante l’obiettivo della normalizzazione del peso fosse stato esplicitato prima del ricovero.

Il secondo risultato è che entrambi i gruppi hanno ottenuto un sostanziale aumento del BMI, e miglioramenti significativi della psicopatologia specifica e generale, con la CBT-E ospedaliera. Alla fine del trattamento, la maggior parte dei pazienti che ha completato il percorso terapeutico ha raggiunto un Good BMI Outcome e oltre il 40% ha soddisfatto i criteri per la Full Response. Questi risultati positivi sono evidenti anche a 12 mesi di follow-up, quando oltre il 40% di entrambi i gruppi ha mantenuto un Good BMI Outcome e oltre il 30% una Full Response. Infine, i dati mostrano che tra il basale e i 12 mesi di follow-up, la maggioranza dei pazienti è passata da un livello di gravità estremo a uno lieve.
Il terzo e più importante risultato dello studio è che non ci sono state differenze significative tra i due gruppi negli esiti a breve o lungo termine.

Nonostante si sia osservata una disparità nelle curve di cambiamento del BMI, ad indicare che rispetto ai pazienti con NSE-AN, quelli con SE-AN hanno avuto un più rapido miglioramento iniziale del BMI, un mantenimento più stabile fino a 6 mesi di follow-up, e una diminuzione leggermente più rapida al follow-up di 12 mesi, non c’è alcuna differenza significativa nei punteggi del BMI ai vari tempi.

I risultati dello studio hanno diverse implicazioni cliniche. In primo luogo, i dati dimostrano che la durata dell’ Anoressia Nervosa nei pazienti che sono stati motivati a cambiare non sembra influenzare i risultati di un trattamento intensivo ospedaliero basato su un modello di guarigione. Questo suggerisce che non è ancora il momento di rinunciare a guarire i pazienti con SE-AN. I clinici dovrebbero sempre tenere bene a mente che i pazienti che non raggiungono il normopeso sono destinati a sviluppare complicazioni mediche e danni psicologici di gravità crescente che inevitabilmente comprometteranno la loro qualità di vita. Per questo motivo è raccomandabile che i terapeuti provino sempre ad ingaggiare i pazienti con SE-AN in trattamenti finalizzati alla normalizzazione del peso e alla remissione della psicopatologia, prima di concludere che non sarà possibile trarre beneficio da un trattamento orientato alla guarigione.

I programmi che hanno lo scopo di minimizzare i danni e di migliorare la qualità della vita, de-enfatizzando il recupero del peso, dovrebbero essere considerati solo per i pazienti con Anoressia Nervosa che non hanno avuto alcun successo nei trattamenti ambulatoriali e ospedalieri ben condotti e/o con quelli che hanno una persistente scarsa motivazione al cambiamento, indipendentemente dalla durata del loro disturbo.

Molestie sessuali e pregiudizi: come l’essere considerati più o meno attraenti influisce sulla percezione sociale di una molestia sessuale

E’ davvero possibile affermare che solo donne attraenti possono essere vittime di molestie sessuali? A tal proposito, tre ricercatori dell’Università di Granada hanno recentemente svolto uno studio circa la percezione sociale delle molestie sessuali e come questa possa essere influenzata dall’avvenenza fisica della vittima e del molestatore.

In questo periodo così movimentato per quanto riguarda le elezioni americane, molto è stato detto a riguardo dell’ormai neo-presidente Donald Trump. In particolare, molto scalpore ha fatto il suo aver replicato ad accuse di molestie sessuali con frasi riguardanti la mancanza di avvenenza delle accusatrici, come se questo rendesse automaticamente infondate tali accuse. Ma è davvero possibile affermare che solo donne attraenti possono essere vittime di molestie sessuali?

A tal proposito, tre ricercatori dell’Università di Granada hanno recentemente svolto uno studio circa la percezione sociale delle molestie sessuali e come questa possa essere influenzata dall’avvenenza fisica della vittima e del molestatore.

 

Le molestie sessuali secondo il Codice Penale

Secondo il Codice Penale, art.660, si parla di molestia sessuale in presenza di espressioni volgari a sfondo sessuale, ovvero di atti di corteggiamento invasivo ed insistito (Cass. 12.5.2010 n. 27042); diversamente, un atto che si risolve in un contatto corporeo tale da coinvolgere la sfera fisica della vittima del reato e da mettere in pericolo la libera autodeterminazione della stessa nella sfera sessuale viene definito violenza sessuale (Cass. 26.10.2011 n. 45698).

La molestia sessuale, quindi, prescinde da contatti fisici a sfondo sessuale e normalmente si estrinseca o con petulanti corteggiamenti non graditi o con petulanti telefonate o con espressioni volgari, nelle quali lo sfondo sessuale costituisce un motivo e non un momento della condotta (Cass. 26.10.2005 n. 45957).

Possono inoltre essere considerate molestie quei comportamenti, siano essi espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi lo scopo o l’effetto di violare la dignità di un essere umano e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante o offensivo, come accade ad esempio con affermazioni e comportamenti sessisti.

 

Avvenenza fisica e percezione sociale delle molestie sessuali

Già da questa descrizione emerge anche come la molestia sessuale risulti essere uno dei comportamenti più difficili da percepire e, soprattutto, da provare. Questa tipologia di reato viene infatti spesso analizzata solo a partire dalla denuncia della vittima, unica testimone delle molestie sessuali. Inoltre, si ritiene spesso che questo reato possa essere in qualche modo legato al comportamento della vittima o, addirittura, provocato dalla stessa. A supporto di questa idea stereotipica e pregiudizievole vi sarebbe anche quella secondo cui le persone considerate non attraenti non possano divenire oggetto di tali aggressioni (Herrera et al., 2014).

Herrera e collaboratori (2016) hanno proprio svolto una ricerca su come l’avvenenza fisica della vittima e del colpevole possano influenzare la percezione sociale delle molestie sessuali.

Più nello specifico, i ricercatori hanno presentato la descrizione di una situazione ipotetica ad un campione di 205 studenti universitari (19% maschi, 81% femmine) con un’età compresa tra i 19 e i 54 anni. Tale situazione ipotetica prevedeva la presenza di un impiegato in una compagnia, descritto come attraente o non attraente, che molestava sessualmente (con molestie di tipo sessista) una collega, anch’ella descritta come attraente o non attraente a seconda delle diverse condizioni sperimentali, alle quali i soggetti erano assegnati in modo casuale. Dopo aver letto lo scenario, ai soggetti veniva chiesto di compilare un questionario, con lo scopo di mettere in luce come avessero percepito la molestia, a chi avessero attribuito la responsabilità per l’accaduto, e quali secondo loro potessero essere le motivazioni del molestatore.

Il questionario permetteva, inoltre, di indagare informazioni circa variabili ideologiche riguardanti il sessismo e l’accettazione o meno di luoghi comuni sulle molestie sessuali, definiti come “atteggiamenti e credenze che sono generalmente falsi, ma che vengono mantenuti e difesi in modo persistente, godendo di grande diffusione e popolarità, e che sono usati per negare e giustificare una molestia sessuale” (Lonsway et al., 2008, p. 600). Questo tipo di credenze influenzano notevolmente l’osservatore esterno nella sua valutazione di quanto il molestatore possa essere ritenuto responsabile o, al contrario, di quanto la vittima “se la sia cercata” e “lo volesse”.

Dalle analisi, in linea anche con studi precendenti, è emerso che nel momento in cui si presentava la situazione di una molestia sessuale fatta nei confronti di una donna descritta come attraente, i soggetti avevano una maggior tendenza a percepire effettivamente la situazione come una molestia rispetto alla situazione in cui la vittima veniva descritta come non attraente.

Inoltre, in linea con una sorta di teoria implicita secondo cui “ciò che è bello è anche buono” (Eagly et al., 1991), se il molestatore veniva descritto come attraente, i soggetti avevano la tendenza a vedere il suo comportamento come una modalità per affermare il proprio potere e ascendente, piuttosto che come una molestia con sottostanti motivazioni sessuali. Al contrario, se il molestatore veniva descritto come non attraente e la vittima sì, i soggetti avevano la tendenza ad attribuirgli maggiore responsabilità, andando a confermare l’esistenza di un reale luogo comune circa il fatto che le molestie sessuali vengano perpetrate a danno di persone attraenti da soggetti che invece attraenti non sono.

Gli autori hanno anche dimostrato quanto l’ideologia degli osservatori esterni influenzi la loro percezione del crimine. Infatti, più i soggetti si ritenevano d’accordo con i luoghi comuni riguardanti la molestia sessuale più tendevano ad attribuire la responsabilità alla vittima, nella convinzione che fosse stata lei in qualche modo a provocare un tale comportamento.

Lo studio, quindi, nel complesso mostra come il mero aspetto fisico e alcune caratteristiche delle persone coinvolte in un reato come le molestie sessuali abbiano delle conseguenze per il molestatore, per la vittima e anche per la percezione sociale della situazione. Questi aspetti sembrerebbero essere infatti in grado di assumere una tale importanza da andare a mascherare le reali intenzioni sottostanti il crimine.

Secondo gli autori risulta quindi estremamente importante attivarsi per poter scardinare tali preconcetti, presenti indipendentemente dal sesso dell’osservatore, in quanto determinanti su un piano sociale, politico, lavorativo e anche legale.

L’arte guarisce il cuore: arte terapia ed effetti sulla salute emotiva e psichica

Con il termine arte terapia si indicano un insieme di tecniche e di trattamenti terapeutici che utilizzano le arti visive (e, con un significato più ampio, anche il teatro, la musica e la danza) per promuovere la salute (o favorire la guarigione) dell’individuo nella sfera emotiva, affettiva e relazionale.

 

 

L’idea che l’arte abbia un valore terapeutico è molto antica: la storia delle arti creative, infatti, si è spesso intrecciata, sin dall’antichità, con quella della salute mentale.

Già gli antichi Greci attribuivano una funzione catartica al teatro, che veniva utilizzato per liberare le emozioni represse e ritrovare uno stile di vita equilibrato. Già il teatro greco, quindi, può essere visto oggi come una sorta di “sostegno arte-terapeutico”, anche se è solo nel XX secolo che vennero mossi i primi passi verso l’arte terapia così come viene intesa nell’epoca attuale, grazie alla psicoanalisi; in particolare diedero il loro contributo fondamentale in quest’ambito Sigmund Freud (1856-1939) e Carl Jung (1875-1961).

 

L’arte secondo Freud e Jung

L’opera artistica vanne considerata dagli psicoanalisti come espressione dell’inconscio e come derivato del processo di sublimazione degli istinti di base. Per Freud l’artista è un:

uomo che si distacca dalla realtà poiché non riesce ad adattarsi alla rinuncia al soddisfacimento pulsionale che la realtà inizialmente esige, e lascia che i suoi desideri di amore e di gloria si realizzino nella vita della fantasia. 

E l’opera d’arte è, per Freud, lo specchio del mondo interiore dell’artista, delle sue strutture e dei suoi processi psichici. Seppur da un’ottica diversa, anche Jung considerò l’arte come un mezzo per esprimere le immagini appartenenti all’inconscio.

 

Lo sviluppo dell’ arte terapia

Margaret Naumburg (1890-1983), psicoanalista e seguace di Freud, è considerata la fondatrice dell’ arte terapia in America. Secondo la Naumburg: 

Il processo dell’ arte terapia si basa sul riconoscere che i sentimenti e i pensieri più profondi dell’uomo, derivati dall’inconscio, raggiungono l’espressione di immagini, piuttosto che di parole.

Margaret Nauburg, cioè, considera il prodotto artistico come uno strumento di accesso all’inconscio, da utilizzare nel corso della terapia come materiale da interpretare e favorire la risoluzione dei conflitti interni.

Diversa è l’impostazione di Edith Kramer (1916-20014), artista ed insegnante austriaca di origini ebraiche, che, attraverso l’esperienza sul campo come arte terapeuta con bambini ed adolescenti, propone una precisa linea metodologica, che mette al centro il processo creativo e considera l’arte stessa come fattore di guarigione, mezzo di sostegno dell’Io, espressione di sé. E’ dunque dalla Kramer in poi che si può parlare di arte terapia vera e propria, con lo spostamento dell’attenzione dal prodotto artistico come materiale da interpretare, al processo creativo.

L’ arte terapia come disciplina attinge da una varietà di approcci teorici, come quello psicoanalitico, quello psicodinamico, quello cognitivista, quello gestaltico e, in generale, da tutti quegli approcci terapeutici che mirano a conciliare i conflitti emotivi e promuovere l’autoconsapevolezza e l’accettazione di sé.

Caratteristiche dell’ arte terapia oggi

In generale, oggi, con il termine arte terapia si indicano un insieme di tecniche e di trattamenti terapeutici che utilizzano le arti visive (e, con un significato più ampio, anche il teatro, la musica e la danza) per promuovere la salute (o favorire la guarigione) dell’individuo nella sfera emotiva, affettiva e relazionale.

L’ arte terapia va ad utilizzare le potenzialità, che ciascun individuo possiede, di elaborare artisticamente il proprio vissuto, educando alla trasformazione creativa, dove “educare” va inteso nel suo significato latino di educĕre (cioè trarre fuori, tirar fuori o tirar fuori ciò che sta dentro), e, nella pratica riabilitativa, questo significa portare fuori dal buio per condurre una vita più soddisfacente.

L’ arte terapia permette, cioè, all’individuo di liberarsi delle sue sofferenze, di allontanare le angosce, di ricostruire il suo Io, ritrovando l’interezza della sua personalità. Infatti, poiché la terapia artistica visiva lavora basandosi sulla forza del colore e delle forme, riesce a superare lo stato di coscienza dell’individuo e a raggiungere campi profondi e sconosciuti, dove non arrivano le parole. In questo senso va inteso il titolo di questo scritto, “L’arte guarisce il cuore”.

L’ arte, infatti, non va considerata come un appannaggio di pochi, ma come una modalità di conoscenza e di comunicazione di se stessi e dei propri stati emotivi.

Gli ambiti in cui l’ arte terapia è utilizzata con maggior successo sono essenzialmente tre: in prima istanza nel contesto medico-psichiatrico, poi nella riabilitazione e, infine, nei contesti di educazione-prevenzione. Sin dalla sua nascita, l’ arte terapia si è sviluppata principalmente come strumento di sostegno nelle cure psichiatriche di persone con gravi disturbi psichici, quali psicotici ed autistici ed è nel contesto psichiatrico, infatti, che si inserisce ancora oggi la maggior parte degli interventi di terapia artistica visiva. In situazioni di disabilità psichica, l’ arte terapia rappresenta una modalità particolarmente apprezzata di espressione e condivisione emotiva. Più in generale, in ambito medico l’ arte terapia si è rivelata un ottimo strumento per la regolazione emotiva di pazienti affetti da patologie croniche, o in attesa di essere sottoposti ad importanti interventi chirurgici: gli interventi più comuni sono quelli rivolti ai bambini e ai pazienti oncologici.

I successi ottenuti in ambito psichiatrico hanno portato, negli anni, ad estendere l’uso dell’ arte terapia al campo della riabilitazione di soggetti con danni neurologici o con handicap fisici, ma senza vere e proprie patologie psichiche. Esprimersi in attività creative, infatti, può aiutare gli individui a ridurre la negazione della disabilità, a raggiungere una maggiore autonomia personale e a sviluppare sane relazioni sociali.

Per quanto riguarda, infine, l’area dell’educazione-prevenzione, mi riferisco all’uso dell’ arte terapia anche con persone non portatrici di disagi specifici, ma come forma di educazione alla sensibilità, alla creatività, all’autoconsapevolezza ed all’accettazione di sé. Ritengo infatti che in una società come quella attuale, frenetica e caratterizzata da un eccesso di stimoli, che non ci agevola ad una reale conoscenza di noi stessi, l’ arte terapia possa costituire uno spazio in cui incontrare noi stessi, esprimere le nostre emozioni e confrontarci con i nostri aspetti più profondi.

Il Programma Montessori per la Demenza: oltre il trattamento farmacologico delle demenze

Il Programma Montessori per la Demenza (MPD), ideato da J. Camp, utilizza i principi della didattica montessoriana per mantenere e/o rinforzare le capacità di base e le abilità necessarie a svolgere le attività quotidiane dei pazienti affetti da demenza.

Barbara Sbrolla – OPEN SCHOOL San Benedetto del Tronto

 

A partire dagli anni ’90 si è sviluppato un sempre maggior  interesse per la sperimentazione delle cure non farmacologiche (spesso affiancate ad interventi farmacologici) per il trattamento di persone con deficit cognitivi, in particolare per quanto riguarda il campo delle demenze, visto l’aumentare della prospettiva di vita, e quindi del  livello di anzianità della popolazione.

 

Cosa si intende per demenza

Con il termine demenza si definisce una sindrome che si manifesta con compromissione delle funzioni mnestiche e di almeno un’altra funzione cognitiva, alterazioni  dello stato emozionale e disturbi comportamentali ed implica un’incapacità, da parte dell’individuo affetto, di rispondere alle proprie esigenze quotidiane. Spesso la persona con demenza presenta, accanto a questa sintomatologia, dei disturbi della comunicazione connessi con i deficit cognitivi che rendono impossibile esprimere i propri bisogni utilizzando il linguaggio (Burgeois & Hickey, 2009). Questo rende difficoltoso gestire la malattia e la routine per gli operatori sanitari, i familiari ed i pazienti stessi.

Non va sottovalutato l’aspetto che l’anziano con demenza, nonostante le evidenti compromissioni, continui a possedere dei bisogni di base come sostenere la propria autostima ed autoefficacia, esprimere pensieri ed emozioni, bisogno di appartenenza, di autorealizzazione e senso dell’ordine, specialmente durante i primi stadi della malattia.

Molte manifestazioni che aggravano il quadro della demenza, come la depressione, l’apatia e l’incapacità di gestire adeguatamente gli stress, scaturiscono dal non riuscire più a soddisfare questi bisogni (Paradigma dei bisogni insoddisfatti, Cohen et al. 2001). Si rende necessario quindi lavorare sulle autonomie residue del paziente affetto da demenza, riattivando le abilità utili a permettergli di preservare o riacquistare l’autonomia, in modo che possa ancora esperire l’autoefficacia di provvedere a se stesso ed ai propri bisogni. Ciò deve essere costruito in base alle propensioni ed alla storia di ogni paziente, preservando la dignità e l’autostima della persona.

Questi aspetti personali e relazionali spesso rimangono sullo sfondo della relazione di cura, se non addirittura dimenticati a causa delle numerose problematiche che accompagnano i diversi stadi della malattia e che sembrano esaurire le energie dei caregivers.

 

Il Programma Montessori per la Demenza

Negli ultimi anni, diversi ricercatori hanno evidenziato le correlazioni positive tra l’utilizzo di terapie non farmacologiche e il miglioramento dei sintomi della demenza, nonché della qualità della vita per gli individui affetti da demenza ed i loro caregivers, anche perché risulta spesso evidente come alcuni sintomi comportamentali rispondano solo parzialmente ai farmaci.

E’ in questo scenario che si inserisce il Programma Montessori per la Demenza (MPD), ideato da J. Camp, che utilizza i principi della didattica montessoriana per mantenere e/o rinforzare le capacità di base e le abilità necessarie a svolgere le attività quotidiane dei pazienti affetti da demenza.

I principi mutuati dal metodo Montessori possono essere riassunti in pochi punti, devono essere inseriti in un rapporto diadico, rogersiano, tra operatore e paziente e ben sembrano adattarsi alle esigenze delle persone affette da demenza, in particolare di tutte quelle persone con Alzheimer.

I pazienti con demenza necessitano di setting strutturati ed ordinati in cui poter utilizzare materiale predisposto per attività piacevoli e collegate alla vita quotidiana. E’ importante poter fornire loro delle istruzioni brevi e comprensibili e sviluppare un set di attività in base ad una progressione che si muove da azioni semplici e concrete ad altre più complesse ed astratte.

La progressione tra un’attività e l’altra può essere di due tipi, in base sempre alle esigenze del soggetto e può essere “orizzontale” o “verticale”. Nel primo caso si presentano al soggetto delle attività con difficoltà e procedure simili ad una proposta (che si può lasciar scegliere al paziente, finché possibile, in un’ottica di libertà ed educazione all’autonomia), che vadano quindi ad agire su una stessa abilità-bersaglio; nel secondo caso si decide di semplificare (in caso emergano eventuali frustrazione o apatia) od arricchire la richiesta (se si verifica apprendimento o l’attività risulta troppo semplice), adeguandosi ai tempi del soggetto, ponendo attenzione nel massimizzare le possibilità di successo e, cosa da non sottovalutare, minimizzare le possibilità di insuccesso.

L’obiettivo non è infatti “non sbagliare” o fare “più cose possibili”, ma è l’effetto della stimolazione stessa, inserita in una relazione di cura. Le attività si dividono in: sensoriali (ad esempio esercizi di discriminazione uditiva), motorie (compiere azioni per stimolare la motricità fine e la coordinazione), cognitive e sociali (risolvere problemi, confrontare oggetti, prendersi cura di sé e dell’ambiente), e vengono utilizzate in base al grado di compromissione dei pazienti. Le attività sensoriali sono infatti maggiormente indicate per pazienti con demenze severe, mentre chi si trova ai primi stadi della malattia potrà trarre più coinvolgimento dalle attività cognitive.

Un altro aspetto di fondamentale importanza con questi pazienti è l’insegnamento di sequenze di azioni, cioè la scomposizione di attività che possono essere ri-composte in un secondo momento secondo procedure di ripetizione guidata che forniscono un feedback immediato, che viene utilizzato soprattutto nel campo della cura del sé quotidiana (routine di lavaggio, appendere i vestiti, etc..). In questo modo si lavora sulla memoria procedurale/implicita, che risulta maggiormente preservata rispetto a quella esplicita e permette di minimizzare la parte verbale (spesso compromessa, come già accennato), stimolando la ricerca ed il riconoscimento di indizi esterni per compensare i deficit cognitivi, con la conseguenza di abbassare il livello di stress e frustrazione percepiti, che sono proprio i responsabili di  comportamenti rabbiosi o di agitazione tipici di questi pazienti.

Molti studiosi, nell’ultima decade, hanno rilevato che l’applicazione del Programma Montessori per la Demenza (MPD), secondo delle sessioni bisettimanali di circa 90 minuti ciascuna (30 minuti effettivi di attività, più osservazione pre-  e post- intervento, per un totale di 12 ore per paziente) in concomitanza ad un intervento farmacologico, si è dimostrato più efficace nel diminuire la frequenza di comportamenti aggressivi o di agitazione in pazienti con demenza moderata o severa rispetto ad una situazione di controllo (semplice intervento farmacologico). Inoltre, è stato rilevato nei soggetti un aumento dei comportamenti non aggressivi e dell’espressione di affetti positivi ed una maggior condizione di “presenza” o vigilanza (Van der Ploeg, O’Connor, 2010).

Diversi studi hanno dimostrato che centrare le attività sulla persona in base alle proprie preferenze o ai bisogni esperiti produca una maggiore attivazione, aumento di atteggiamenti e affetti positivi, ed una maggior cura di se stessi con, ad esempio, significativi miglioramenti nella alimentazione (Giroux et al., 2010; Lin et al., 2010). Una spiegazione valida potrebbe essere che il soggetto è motivato a perseguire attività che reputa importanti; in altre parole risulta impegnato attivamente nel raggiungere un obiettivo collegato con un suo bisogno, e questo è correlato con indici di successo degli interventi (Cohen-Mansfield et al, 2009).

Le applicazioni del Programma Montessori per la Demenza sono molteplici: ad esempio, può essere usato per migliorare le relazioni tra caregivers, specialmente familiari, e pazienti ricoverati in case di riposo. I familiari dei pazienti spesso non percepiscono un alleggerimento del carico di responsabilità e stanchezza cronica che la malattia del parente porta con sé, anzi a tutto ciò sembrano aggiungersi gli stress collegati ai costi elevati di ricovero, difficoltà nel seguire gli orari di visita, senso di colpa, risentimento e scambi interpersonali deteriorati e scarsamente soddisfacenti, dovuti anche all’esacerbarsi di confusione, sintomatologie depressive, ansiose o disforiche collegate al ricovero nell’assistito (Yeh et al., 2002).

Formare i parenti alle attività del Programma Montessori per la Demenza da svolgere assieme ai propri familiari affetti da demenza quando si recano a far loro visita aiuta notevolmente a preservare il rapporto tra il paziente ed il caregiver: dagli studi condotti in merito emerge una notevole diminuzione dello stress percepito, anche grazie al viraggio verso una valutazione più positiva della relazione, ed all’aumento della qualità della vita percepita sia da parte dei familiari che dei pazienti (Van Der Ploeg et al., 2012).

Oltre ai parenti, ovviamente, possono essere formati tutti gli operatori che lavorano in un ambito residenziale con la persona affetta da demenza: uno studio ha rilevato una maggiore soddisfazione del personale e dei pazienti immersi in una realtà di ricovero e maggiore capacità di prevenzione di comportamenti aggressivi da parte delle diverse figure professionali  (Janzen et al., 2013).

Un’ulteriore applicazione del Programma Montessori per la Demenza è quella che si avvale della figura del “paziente-leader”, ossia un soggetto ai primi stadi di una demenza che possa fungere da esempio e catalizzatore per altri anziani nella cura giornaliera (in coppia ma anche in piccoli gruppi) o come insegnante per bambini, abbattendo anche il muro intergenerazionale ed aumentandone l’autostima e l’autoefficacia, donando al soggetto un ruolo significativo nella trasmissione di conoscenze, e quindi facendolo riappropriare di una posizione riconosciuta nella società (Camp et al., 2011).

 

Programma Montessori per la Demenza: conclusioni

In conclusione, l’applicazione poliedrica del Programma Montessori per la Demenza apre a nuove prospettive nella cura non farmacologica dei soggetti affetti da demenza, grazie ad un programma facilmente comprensibile ed applicabile (con qualche accorgimento per quanto riguarda il setting) da parenti, operatori e dagli stessi anziani ai primi stadi di demenza. Il punto di forza del Programma Montessori per la Demenza è la semplicità delle attività che permettono di riconoscere dignità a soggetti che spesso vengono infantilizzati ed ostracizzati, rendendo loro l’opportunità di esprimere e soddisfare i propri bisogni, scegliere, impegnarsi attivamente ed essere soddisfatti di loro stessi, comportando ovvie ripercussioni positive sulla percezione della qualità di vita da parte dei caregivers.

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