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Presenza di comportamenti aggressivi e prosociali in bambini con diverso status sociale: popolarità e aggressività

Negli studi che indagano la relazione tra popolarità e aggressività, vengono misurate aggressività diretta (la quale include assalti fisici e verbali) e aggressività relazionale (include azioni quali ignorare, escludere, sparlare di qualcuno) in modo separato. Lo studio di LaFontana e Cillessen (2002) mostra un’associazione positiva della popolarità con entrambe le forme.

Pastore Valentina, OPEN SCHOOL SCUOLA DI PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA DI MILANO

 

L’importanza delle relazioni con i pari

L’osservazione di un gruppo di bambini in un parco giochi o all’interno di una scuola, evidenzia con chiarezza la presenza di comportamenti molto diversi rispetto alle modalità con cui i bambini interagiscono e si rapportano agli altri, le quali a loro volta riflettono specifiche condizioni sociali all’interno del gruppo dei pari.

Le relazioni con i pari sono in grado di rivelare i meccanismi messi in atto per affrontare il mondo sociale; tali meccanismi sembrano essere stabili negli anni e possono contribuire a prevedere lo sviluppo di futuri problemi di adattamento.
Le relazioni sviluppate con i coetanei, essendo di tipo orizzontale, sono caratterizzate da simmetria, sono di tipo reciproco e finalizzate ad offrire al bambino l’opportunità di apprendere le abilità di cooperazione, competizione, condivisione e assunzione di ruoli (Hartup, 1983).

All’interno delle interazioni tra bambini è possibile osservare comportamenti socialmente disfunzionali tra cui comportamenti aggressivi, ma anche comportamenti di aiuto e cooperazione, meglio conosciuti come comportamenti prosociali.

 

La posizione sociale nel gruppo dei pari

All’interno del gruppo dei pari si creano delle strutture ben precise legate agli scopi comuni, alle norme e alle caratteristiche individuali dei singoli membri e alle preferenze o antipatie che vengono a crearsi (Bombi & Cannoni, 2000).

Già a partire della scuola dell’infanzia si formano gerarchie sulla base delle preferenze e dei rifiuti che ciascun bambino esprime nei confronti dei compagni, su tale base, ogni bambino occupa un posto preciso all’interno del gruppo. Questa posizione, definita “status sociometrico”, rappresenta la posizione che un bambino occupa all’interno del gruppo dei coetanei. Esso viene definito in base al grado in cui ogni soggetto piace oppure non piace ai suoi pari ed è l’indicatore più usato per valutare l’adattamento sociale (Di Norcia, 2009).
All’interno del gruppo dei pari i bambini possono assumere posizioni diverse, che vanno dall’essere popolari, all’essere rifiutati.

Generalmente i bambini popolari sono ammirati poiché capaci di prendere in considerazione i bisogni dell’altro, di offrire aiuto nel caso in cui un loro coetaneo sia in difficoltà, di mantenere il proprio punto di vista senza imporsi con forza. Questi soggetti sono inoltre considerati dei buoni leader e sono disposti a condividere le proprie cose, sono poco aggressivi e predisposti alla messa in atto di comportamenti prosociali (Coie, Dodge, Coppotelli, 1982; Hayvren & Hymel, 1984; Newcomb & Bukowski, 1983).

I bambini rifiutati si collocano all’estremo opposto del continuum, in quanto vengono esclusi dal gruppo da parte dei coetanei. I soggetti che rientrano in questo gruppo generalmente presentano elevati livelli di aggressività mettendo in atto numerose condotte antisociali, sono poco rispettosi delle regole e poco disponibili a condividere le proprie cose con gli altri; questi soggetti manifestano raramente empatia e mettono in atto comportamenti inadeguati nel corso delle interazioni sociali.

Una terza tipologia di status sociale è costituita dall’essere ignorati. Questi bambini all’interno del gruppo dei pari non vengono né scelti né rifiutati dai compagni, come se fossero invisibili. I bambini ignorati presentano comportamenti di isolamento. Alcuni di essi presentano comportamenti solitari di tipo passivo, apparendo quieti, sedentari e impegnati in attività esplorative; altri presentano comportamenti solitari di tipo reticente, mostrando timidezza e ansia nel caso in cui debbano agire in una situazione sociale, sono poco desiderosi di entrare a far parte di un gruppo (Coplan et al., 1994).

Una quarta tipologia di status sociale è costituita dai bambini controversi, cioè coloro che ottengono diverse scelte dai compagni, ma che a differenza dei bambini popolari, ricevono sia scelte positive che negative. Ciò è dovuto al fatto che questi soggetti mettono in atto sia condotte prosociali, mostrando empatia nei confronti degli altri, che condotte aggressive, per questo motivo vengono ammirati da alcuni compagni e rifiutati da altri (Coie & Dodge, 1998; Newcomb, Bukowsky, Pattee, 1993).

L’ultima categoria è rappresentata dai bambini medi: questi soggetti non possiedono né le abilità necessarie per diventare popolari, né condotte aggressive che possono indurre i compagni a rifiutarli o ignorarli. Nonostante in questa categoria rientrino il 60-70% dei soggetti appartenenti ad un gruppo, ha suscitato scarso interesse nei ricercatori (Di Norcia, 2005).

L’assegnazione di uno status sociale piuttosto che un altro avviene in seguito alla somministrazione di strumenti che prendono il nome di “tecniche sociometriche”; con tale termine si intende un insieme di metodi messi a punto da Jacob Moreno (1934), utili a misurare le relazioni positive e negative che si vengono a creare all’interno di un gruppo di persone; per fare ciò è necessario che ogni individuo interno al gruppo, sia in grado di valutare gli altri membri in relazione alle loro caratteristiche o competenze (Cillessen, 2009). Tra le tecniche sociometriche, lo strumento più conosciuto ed utilizzato, è la nomina dei pari (McCandless & Marshall, 1957), intesa come “il processo attraverso il quale i membri di un gruppo valutano in quale misura gli altri membri presentano determinate caratteristiche e condotte” (Pastorelli, 1994). Utilizzando questo strumento è possibile vedere le attrazioni-repulsioni che i soggetti appartenenti ad un gruppo manifestano nei confronti degli altri (Cassibba & Elia, 2009).
Numerosi sono stati gli studi che hanno indagato la presenza di comportamenti aggressivi e prosociali all’interno dei diversi status sociali con particolare interesse ai comportamenti predominanti, il loro sviluppo, l’andamento e le eventuali differenze di genere.

Le ricerche condotte evidenziano con chiarezza come alla base dell’accettazione da parte dei compagni vi sia prevalentemente la competenza sociale precedentemente acquisita: i bambini popolari mettono in atto un numero maggiore di comportamenti altruistici, di aiuto nei confronti dei coetanei, sono più cooperativi, più capaci di negoziare e risolvere i conflitti senza ricorrere all’aggressività, hanno quindi una maggiore capacità di regolare le emozioni; inoltre sembrano maggiormente abili nella gestione della comunicazione e dello scambio sociale. Tali competenze non sono invece presenti nei bambini rifiutati, che appaiono poco graditi perché non sono capaci di interagire efficacemente con gli altri e mostrano un comportamento intrusivo, chiassoso, a volte prepotente e aggressivo (Corsano, 2008).
Quest’ultimo aspetto appare controverso: se inizialmente si tendeva ad affermare l’esistenza di alta correlazione fra l’essere rifiutati dai pari e l’essere aggressivi (Coie & Keane, 1981; Newcomb, Bukowski, Patee, 1993), oggi questa correlazione non è più chiara (Molinari, 2007).

 

Popolarità e aggressività

Per diversi anni il termine “popolare” è stato usato per raggruppare una serie di caratteristiche generalmente positive, che andavano dall’essere bene accetto dal gruppo dei pari, all’avere comportamenti prosociali, bassi livelli di aggressività, elevati livelli di regolazione emotiva, buone abilità sociali e cognitive. La popolarità era desiderata da molti, in quanto indice di buon adattamento e di lodevoli abilità sociali, e non riportava traccia di caratteristiche negative (Mayeux, Houser, Dyches, 2011).

I soggetti percepiti come popolari da parte dei loro coetanei, sono ben voluti, attraenti, possiedono beni desiderabili, sono accettati da altri individui popolari e desiderati dai giovani di sesso opposto (Butcher, 1986; Eder, 1985; Lease et al., 2002), ma oltre a dimostrare caratteristiche a cui viene attribuito valore all’interno della società contemporanea, manifestano anche una certa frequenza di comportamenti aggressivi (Luthar & McMahon, 1996; Parkhurst & Hopmeyer, 1998; Rodkin et al., 2000). Anche le ricerche di La Fontana e Cillessen (1998) giunsero a simili scoperte.

Recentemente, l’immagine del bambino popolare è leggermente cambiata, o meglio sono emersi nuovi pattern comportamentali che prima, si pensava fossero del tutto assenti in questo status sociale. Di conseguenza i ricercatori hanno focalizzato la loro attenzione sull’eterogeneità dei comportamenti presenti all’interno del gruppo di bambini e adolescenti classificati come popolari (Antonius, Cillisen, Rose, 2005).

A questo proposito è opportuno distinguere la popolarità sociometrica (sociometric popularity) dalla popolarità percepita (dominance-based popularity). Nonostante gli autori affermino che esista una correlazione ed una parziale sovrapposizione tra i due costrutti (Hawley, 2003; Cillissen & Mayeux, 2004; La Fontana & Cillisen, 2002), popolarità sociometrica e popolarità percepita non possono essere considerati costrutti identici.

Andando ad esaminare i profili comportamentali, la popolarità sociometrica è associata a caratteristiche prettamente positive come alti livelli di prosocialità, comportamenti di cooperazione e bassi livelli di aggressività (Rubin, Bukowski, Parker, 1998), invece la popolarità percepita è associata sia a caratteristiche positive, che a caratteristiche negative.

La propensione all’aggressività nella vita di bambini e adolescenti è stata spesso concettualizzata dalla psicologia dell’età evolutiva, come un fattore di rischio, per lo sviluppo del disadattamento. La prospettiva evoluzionistica ha modificato tale assunto ribadendo che la presenza di comportamenti aggressivi sia tra i vertebrati che tra gli invertebrati suggerisce che questi siano il prodotto della selezione naturale e possono essere visti come funzionali alla sopravvivenza e al successo riproduttivo.

Le ricerche successive, influenzate da questo orientamento, hanno messo in evidenza le dimensioni funzionali dell’aggressività in termini di dominanza sociale. In accodo con questo lavoro, una combinazione di comportamenti aggressivi e strategie affiliative potrebbero predire centralità nel gruppo dei pari e controllo delle risorse sociali.

Negli studi che indagano la relazione tra popolarità e aggressività, vengono misurate aggressività diretta (la quale include assalti fisici e verbali) e aggressività relazionale (include azioni quali ignorare, escludere, sparlare di qualcuno) in modo separato. Lo studio di LaFontana e Cillessen (2002) mostra un’associazione positiva della popolarità con entrambe le forme.

A conferma di ciò, vi è lo studio di Cillessen e Mayeux (2004), in cui fu seguito longitudinalmente un campione di bambini dalla quinta elementare alla prima superiore e venne valutata la relazione tra popolarità percepita, popolarità sociometrica e aggressività (manifesta e relazionale). Gli autori scoprirono che se da un lato la correlazione negativa tra popolarità percepita e aggressività manifesta tende a diminuire nel tempo fino ad invertire il segno, dall’altro lato l’associazione positiva tra popolarità percepita e aggressività relazionale diventa più forte nel tempo, soprattutto per le femmine.
Gli autori giunsero alla conclusione che la correlazione positiva tra popolarità percepita ed entrambe le forme di aggressività aumenta con l’aumentare degli anni, e affermarono che i soggetti che guadagnano in popolarità, presentano un aumento delle condotte aggressive.

 

La funzione dell’aggressività

Nel tentativo da parte dei vari autori di comprendere la funzione dell’aggressività in soggetti percepiti come popolari, è stata formulata l’ipotesi secondo cui le condotte aggressive vengano messe in atto dai soggetti in modo strategico per aumentare o mantenere il loro status sociale all’interno del gruppo. A conferma di questa ipotesi, vi sono diversi studi longitudinali (Cillessen & Mayeux, 2004; Rose et al., 2004), i quali oltre a confermare la funzione dell’aggressività per i soggetti percepiti come popolari, sottolineano una forte correlazione tra popolarità percepita e aggressività relazionale. Infatti, escludere e ignorare gli altri possono essere mezzi efficaci per manipolare le relazioni (Antonius, Cillessen, Rose, 2005).

Sebbene numerosi studi abbiano esaminato gli antecedenti comportamentali dello status sociometrico (Bukowsky & Newcomb, 1984; Rubin et al., 1998), nessuno studio quantitativo si è dedicato a verificare gli antecedenti comportamentali della popolarità percepita. Tuttavia i ricercatori hanno suggerito che i soggetti potrebbero manifestare aggressività con lo scopo di aumentare la loro popolarità percepita (Adler & Adler, 1998; Lease et al., 2002; Rodkin et al., 2000).

Lo studio di Rose et al. (2004), ha esaminato l’ipotesi opposta, ossia il fatto che essere considerati come popolari porti ad un aumento dell’aggressività. I bambini che hanno raggiunto la popolarità all’interno del gruppo dei pari, si sentono in diritto di soddisfare totalmente i propri bisogni. Questi soggetti si sentono giustificati nell’uso dell’aggressività di fronte a frustrazioni o competizioni, si potrebbe quindi dedurre che la loro abilità nell’aggredire aumenti a causa del loro status sociale (Merten, 1997).

Tali relazioni possono essere anche bidirezionali: l’iniziale aggressività manifestata da un individuo può portare ad un aumento della popolarità, la quale, può ulteriormente accrescere l’aggressività. Aggressività e popolarità risultano implicate in un processo di influenza reciproca (Rose, Sweason, Waller, 2004).

Demenza frontotemporale pre-senile: l’importanza della distinzione precoce dalla psicosi e dal bipolarismo

Diversamente dalle ultime tre che tendono ad esordire dopo i 65 anni, la demenza frontotemporale pre-senile tende ad esordire attorno ai 40 anni e a progredire molto più velocemente degli altri quadri di demenza.

Barbara Magnani – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

 

Esordio e caratteristiche della demenza frontotemporale pre-senile

Negli ultimi 15 anni si è assistito ad un aumento dei casi di demenza frontotemporale pre-senile (FTD). Si tratta della quarta forma più frequente di demenza dopo il morbo di Alzheimer, la demenza vascolare e la demenza a corpi di Lewy.

Diversamente dalle ultime tre che tendono ad esordire dopo i 65 anni, la demenza frontotemporale pre-senile tende ad esordire attorno ai 40 anni e a progredire molto più velocemente degli altri quadri. L’aumento dei casi di demenza frontotemporale pre-senile rappresenta un dato di allarme visto l’esordio in un’età in cui il paziente è nella piena attività della sua vita famigliare, relazionale e lavorativa.

La comunicazione di una diagnosi di demenza provoca sempre profondi disagi nella vita famigliare poiché si tratta di una diagnosi infausta, molto dolorosa da accettare, che implica una progressiva riorganizzazione delle dinamiche per poi culminare con la perdita della persona cara. Se poi questo avviene in una famiglia che si trova ancora nelle fasi iniziali del proprio progetto di vita, magari con figli piccoli, impegni economici importanti o progetti di crescita professionale, il risultato è ancora più drammatico e complesso da affrontare. È su queste premesse che le neuroscienze stanno volgendo particolare attenzione a questo disturbo con l’obiettivo di formulare diagnosi sempre più precoci e delineare piani di intervento che tengano conto dei molteplici livelli che il disturbo coinvolge ovvero personale, professionale, relazionale di coppia, famigliare e sociale.

Storicamente, le caratteristiche cliniche del quadro di demenza frontotemporale pre-senile furono delineate dallo psichiatra Tedesco Arold Pick (Pick, 1982). Il disturbo si può manifestare in tre diverse varianti a seconda delle aree cerebrali inizialmente coinvolte dal deterioramento: afasia non-fluente progressiva, dove degenera inizialmente l’area della produzione del linguaggio ovvero la corteccia frontale dorsolaterale; demenza semantica, dove degenera inizialmente l’area della conoscenza semantica ovvero la corteccia temporale; demenza frontotemporale a variante comportamentale. Quest’ultima forma esordisce con il degenero delle aree responsabili del comportamento sociale, dell’inibizione degli impulsi e del comportamento strategico ovvero le cortecce orbito-frontali e frontali ventro-mediali (vedi Fig. 1).

 

Demenza frontotemporale pre-senile l’importanza della distinzione precoce dalla psicosi e dal bipolarismo - FIG. 1

FIG 1 .La figura rappresenta la sezione sagittale di una risonanza magnetica strutturale (sinistra) e una risonanza magnetica funzionale (destra) di un paziente con demenza frontotemporale a variante comportamentale.

 

Demenza frontotemporale pre-senile e difficoltà nella diagnosi differenziale

Data la riduzione del funzionamento in queste aree, i sintomi visibili assomigliano molto ai quadri psicotici come nel caso di ottundimento emotivo, mancanza di empatia, irritabilità, aggressività, antisocialità, comportamento di accumulo, stereotipie verbali e motorie, o ai quadri bipolari come nel caso di apatia, ipomania e disinibizione (Bathgate et al., 2001).

Vista la somiglianza delle manifestazioni sintomatologiche, la demenza frontotemporale a variante comportamentale viene spesso diagnosticata all’esordio come un disturbo psichiatrico e il paziente viene solitamente inviato ad un medico psichiatra o ad una struttura psichiatrica. A seguito di questo invio, spesso il paziente intraprende un periodo di ricovero o di consulto periodico con lo psichiatra in cui assume una terapia farmacologica indicata per le psicosi, nel caso prevalgano i sintomi simil-psicotici, o per il disturbo bipolare, nel caso prevalga l’ipomania o la disinibizione.

È facile pensare che il trattamento psico-famacologico per altre patologie diverse da quella in atto possa complicare il quadro e contribuire a mascherare per lungo tempo la sindrome primaria, ritardando la diagnosi e i possibili interventi. Trattandosi di un processo di degenerazione delle cortecce cerebrali, il disturbo continuerà a peggiorare coinvolgendo sempre di più aree di funzionamento cognitivo, emotivo e motorio per i quali la terapia psicofarmacologica non è indicata e nemmeno sufficiente per gestire la complessità delle conseguenze del disturbo.

Questo articolo ha lo scopo di descrivere le caratteristiche principali della demenza frontotemporale a variante frontale che la distinguono dalla psicosi e dal bipolarismo e di fornire suggerimenti di carattere pratico per più professionisti della salute mentale, al fine di incentivare il riconoscimento precoce del disturbo e l’immediata attivazione di una rete di servizi adatti alla gestione della patologia nelle diverse aree che compromette.

 

L’importanza della precocità della diagnosi differenziale – il caso di Luigi

Immaginiamoci Luigi, 45 anni, operaio sposato da circa 9 anni con Rosa (42 anni), parrucchiera. Hanno tre bambini di 3, 6 e 8 anni, un cane e un mutuo che estingueranno tra 10 anni. Da qualche tempo Luigi è strano, più irritabile e aggressivo del solito, capita che offenda la moglie e a volte i bambini in modo immotivato. A volte l’umore di Luigi è inspiegabilmente euforico, ride senza apparente motivazione oppure si arrabbia eccessivamente per una battuta ironica. Inoltre al lavoro fatica a portare a termine le proprie mansioni perché non riesce più ad organizzare la linea di produzione come prima, pertanto si irrita e aggredisce i colleghi. Le sue reazioni sul lavoro vengono mal digerite, il capo lo declassa dall’incarico e tutti gli suggeriscono di consultare uno psichiatra. Intanto lo stipendio che arriva a casa è diminuito ma il mutuo no.

Lo psichiatra consiglierà un ricovero di un mese in una clinica psichiatrica dove si cercherà di impostare una terapia farmacologica per una diagnosi di bipolarismo, che prevede stabilizzatori dell’umore. Il paziente risponde bene, i sintomi sembrano rientrare e viene dimesso. Al lavoro lo riaccolgono ma l’atmosfera famigliare è tesa, dato il timore dei bambini di essere aggrediti anche verbalmente dal papà che si allontanano leggermente da lui e non lo cercano per giocare. Rosa teme per sé e per i bambini e non comprende i comportamenti di Luigi, dato che la terapia sembrava aver fatto effetto. Comincia quasi a credere che Luigi ci giochi un po’ su, che lo faccia apposta e che sia responsabile di quelle offese. Reagisce con ritiro e rabbia e la coppia dà segni di sgretolamento.

Luigi peggiora di settimana in settimana. Ha cominciato ad avere un’attrazione particolare per le slot machines e ora passa diverse ore al bar spendendo molti soldi al giorno per giocare. Rosa si accorge che i soldi mancano sempre di più in modo strano. Chiede spiegazioni a Luigi che pare non comprendere per quale motivo Rosa sia preoccupata. Ne nasce un litigio che spinge Rosa ad andare a controllare la situazione del conto in banca. I banchieri raccontano a Rosa che il marito ha prelevato tutti i soldi disponibili sul conto e ora non hanno più alcuna disponibilità. Rosa chiede ai banchieri la cortesia di impedire al marito di prelevare ma i banchieri rispondono che per loro non è legalmente possibile impedire al marito, intestatario del conto, di prelevare.

Rosa litiga col marito e lo obbliga a fare un nuovo consulto psichiatrico. Luigi accetta senza comprendere la motivazione. A questo punto, dopo due anni dall’esordio, oltre all’irritabilità, l’aggressività, l’ipomania e il gioco d’azzardo patologico, Luigi ha sviluppato anche difficoltà cognitive e linguistiche che hanno compromesso il lavoro fino al licenziamento. Gli psichiatri a questo nuovo invio non sono più conviti che si tratti di bipolarismo e inviano il paziente per un approfondimento neuropsicologico.

La diagnosi è chiara: demenza frontotemporale a variante frontale. Rosa è distrutta. Si trova a dover assistere il marito nelle autonomie quotidiane, come gli spostamenti in auto (visto che Luigi non può più guidare), tollerare l’aggressività del marito che a volte oltrepassa il verbale, gestire i debiti lasciati dal gioco e si vede costretta a sospendere il mutuo per un po’, tutto questo oltre all’accudimento dei bambini. È costretta a lasciare il negozio di parrucchiera, troppo impegnativo e si arrangia facendo prestazioni in nero a casa delle clienti.

La diagnosi di demenza tuttavia ben presto dà i suoi frutti. Luigi viene preso in carico da un equipe costituita da uno psichiatra, un neurologo e un geriatra che riescono ad individuare i farmaci adeguati al caso e i sintomi di aggressività si riducono. Il medico di base riesce ad attivare il processo di attribuzione dell’invalidità totale in modo che Luigi possa percepire un sostentamento e Rosa un accompagnamento, e possano così ricominciare a pagare il mutuo. Rosa e i bambini hanno accesso ad un servizio di supporto psicologico che li aiuta a gestire alcune situazioni di emergenza e la famiglia ora funziona un po’ meglio. Ora si attende che le pratiche legali abbiano il loro corso e che Luigi venga affidato ad un tutore legale che lo aiuti ad amministrare i propri averi. Tutto questo richiederà molto tempo. Forse più tempo di quanto servirà alla demenza per raggiungere le fasi finali.

In questo breve racconto si è voluto sottolineare la complessità del disturbo, la quantità di persone coinvolte, le implicazioni mediche ma anche socio-economiche e legali. La demenza frontotemporale pre-senile riduce sempre di più la possibilità del paziente di adattarsi all’ambiente sociale in una situazione di completa incosapevolezza di malattia. Il paziente con demenza frontotemporale pre-senile perde progressivamente le facoltà di intendere e di volere e le stesse risorse per contrastare tale perdita. I sintomi di ipomania o aggressività e antisocialità si aggravano e le capacità inibitorie perdono la loro funzione esponendo il paziente e la sua rete sociale a incombenti rischi. La diagnosi precoce ha la funzione di attivare immediatamente tutti i servizi necessari per limitare danni fisici, economici, emotivi e/o di sviluppo emotivo patologico se sono presenti dei minori, e accompagnare il paziente e la sua famiglia nella gestione del disturbo nel modo più efficace possibile.

 

Elementi per una diagnosi differenziale precoce

Il primo indice utile è senz’altro l’età e l’andamento dei sintomi all’esordio (Woolley et al., 2007). Nel caso di demenza frontotemporale pre-senile abbiamo visto che l’età dei primi sintomi si colloca tra i 40 e i 65 circa. I sintomi che si manifestano hanno un carattere di stabilità e non sembrano oscillare ma solo peggiorare progressivamente. Al contrario, nei quadri psicotici o bipolari i pazienti hanno una storia psichiatrica molto lunga alle spalle, hanno già probabilmente effettuato altri ricoveri, consultato altri psichiatri e intrapreso altre terapie. A volte hanno avuto successo e i sintomi sono rientrati, mentre altre volte, a seguito magari di un evento di vita, si sono acutizzati.

Il secondo indice è la consapevolezza del paziente dei propri sintomi comportamentali. Se chiediamo ad un paziente psicotico o bipolare di raccontarci il suo stato d’animo probabilmente lui saprà raccontarcelo. I pazienti psicotici sanno di non riuscire a gestire la rabbia e il paziente bipolare riconosce la differenza tra il suo stato di depressione e il suo stato di ipomania. Il paziente con demenza frontotemporale pre-senile non riconosce le sue bizzarrie comportamentali perché vengono messe in atto in modo automatico, ovvero non mediato dall’attenzione volontaria. Il piano automatico non può essere inibito, non esiste mediazione cognitiva. Il piano non viene selezionato in base al contesto sociale o in base al raggiungimento di uno scopo. Viene messo in atto e basta. Non può quindi nemmeno essere discusso nell’ambito di un colloquio clinico o di una relazione di coppia. Da parte dei famigliari e dei clinici può solo essere accettato e supportato nella sua gestione.

Il terzo indice sono sintomi comportamentali che solo il paziente con demenza frontotemporale pre-senile mette in atto mentre il paziente psicotico o bipolare non mette in atto in nessuna condizione di intensità sintomatologica. Questi sono i comportamenti di imitazione, dipendenza e utilizzazione ambientale. Questi pazienti tendono a imitare senza richiesta o motivazione le espressioni facciali o i movimenti dell’interlocutore anche quando i movimenti non hanno significato nel contesto. Posti davanti ad oggetti che si utilizzano quotidianamente possono mettere in atto la procedura di utilizzo che l’oggetto evoca. Ad esempio posti davanti ad una caffettiera nel nostro studio durante il colloquio possono avviare il programma motorio necessario per fare il caffè. Oppure berranno dal bicchiere d’acqua che gli sarà posto davanti o taglieranno un foglio di carta se gli verrà fornita una forbice. Tali sintomi sono spiegabili con la riduzione delle funzioni di controllo e di inibizione.

Questi indici sono sufficienti per suggerire l’approfondimento neuropsicologico necessario per indagare il funzionamento cognitivo del paziente che rileva elementi fondamentali per la diagnosi differenziale. Infatti il paziente con demenza frontotemporale pre-senile risulterà compromesso a livello cognitivo mentre il paziente psicotico o bipolare molto probabilmente non lo sarà o lo sarà secondo caratteristiche proprie ai due quadri. In particolare nella demenza frontotemporale pre-senile saranno evidenti deficit di attenzione e di memoria dovuti alla perdita di controllo di queste funzioni da parte dei sistemi cognitivi centrali. Sarà evidente una difficoltà nel selezionare, organizzare il materiale che deve essere immagazzinato o rievocato. Sarà evidente una rigidità cognitiva con difficoltà nella produzione verbale. Deficit nell’astrazione, concettualizzazione, categorizzazione, giudizio e critica e di progettazione e lungimiranza saranno presenti. Questi deficit esecutivi all’esame neuropsicologico escludono la diagnosi di psicosi o bipolarismo e avvallano la diagnosi di demenza frontotemporale a variante comportamentale.

 

Conclusioni

Col presente articolo si è voluto porre l’attenzione sull’emergenza dell’aumento delle demenze frontotemporali ad esordio pre-senile, sulla complessità del quadro e sull’importanza della diagnosi precoce che attivi il prima possibile i servizi adeguati al caso. I clinici possono sospettare della presenza del disturbo quando esordisce tra i 40 e i 60 anni, con una sintomatologia anche a carattere prevalentemente psichiatrico ma stabile o peggiorativa e non fluttuante.

La completa incosapevolezza del paziente dei propri sintomi e comportamenti di imitazione e dipendenza ambientale sono aspetti caratteristici della demenza frontotemporale pre-senile che non si riscontrano nella psicosi e nel bipolarismo. L’esame neuropsicologico è necessario per individuare il funzionamento delle capacità esecutive e confermare o escludere la diagnosi. Una volta posta la diagnosi l’intervento preferibile è la presa in carico del paziente da parte di una equipe formata da uno psichiatra, un neurologo e un geriatra, l’attivazione di supporto psicologico, sociale e legale alla famiglia.

Sala e Raggi: Psicologia del politico sotto accusa

Mentre infuria il dibattito su se abbia fatto meglio Sala a dimettersi o la Raggi a rimanere al suo posto, lo psicologo fa bene a mantenersi defilato. Gli aspetti giuridici e politici prevalgono, giustamente. Lo scenario delle accuse è diverso a Roma e Milano, e diverse sono le conseguenze politiche.

Un articolo di Giovanni Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta.

Nessuno ha la sfera di cristallo, nessuno sa se ne uscirà meglio Sala con la sua rapida auto-sospensione (lungimirante? Affrettata?) o Raggi con la sua attesa (inetta? Lungimirante?). Nessuno ha una verità morale e nemmeno giuridica da condividere con il mondo: la corruzione della politica ormai si contrappone a un potere giuridico che inizia a sua volta a essere sospettato di nascondere talvolta un secondo fine, un desiderio di potere. La psicologia non illumina la politica e viceversa.

Un’azione come quella di Sala potrebbe essere davvero affrettata –per non dire isterica- e nonostante questo rivelarsi una mossa vincente. Se le accuse rientrassero in breve tempo Sala potrebbe tornare a fare il sindaco con forza accresciuta. Oppure no, la procedura giuridica si impantanerà in un iter pluriennale alla fine del quale Sala -che beffa- sarà magari assolto ma svuotato politicamente. L’azione della Raggi può essere un lungimirante muro di gomma, un tirare a campare che non fa mai tirare le cuoia o solo l’inerzia di una politica inetta. Inutile chiedere lumi alla psicologia sul finale di partita, essa non è una scienza esatta e predittiva.

 

Il politico è un capro espiatorio

Qualcosa però si può dire su cosa deve affrontare emotivamente un politico. Che esso ceda o resista, il suo scenario interiore è identico. Il politico è un capro espiatorio fin dall’inizio, una figura che accetta di ricevere su di sé l’odio e il rancore delle moltitudini. Fin da quando nutre l’ambizione di ottenere la fiducia di larghi gruppi di persone, di coordinarle e di dirigerne le decisioni (un tempo si sarebbe detto: di comandarle e di decidere) egli si assume questo carico. Il capro espiatorio può essere non solo l’anello debole, ma anche quello forte della catena.

Una volta fatta questa scelta, nei confronti del politico scatta il meccanismo relazionale del potere, il cosiddetto ciclo interpersonale dell’agonismo. Non lo dice solo la psicologia, lo dicono anche la filosofia e la storia. È la dialettica del padrone e dello schiavo di Hegel, è la riflessione sul potere ad Atene di Tucidide. Una volta che una persona sia stata capace di convincere altri che egli, o lei, sia in grado di coordinarne gli sforzi meglio di chiunque altro, il rancore e il sospetto inizieranno a crescere. Non inganni la terminologia edulcorata di noi moderni: coordinare suona più dolce all’orecchio di comandare, ma il succo rimane aspro e forte. Sarà lo stesso politico a covare il drago mentre scalda il suo popolo con la sua protezione. Quel calore fa crescere la forza del sospetto di chi comunque, anche nella migliore delle politiche, sta sotto. Cittadino suona meglio di suddito e la gerarchia rimane nascosta, ma vivente e corrosiva. Una persona che accetti di farsi coordinare da un’altra è comunque qualcuno che ha accettato di assumere una posizione inferiore. Se non rabbia, se non rancore, se non invidia, almeno dispetto coltiverà il cuore del cittadino verso l’inevitabile arroganza del politico. Quale maggiore e insopportabile prepotenza è quella di colui che avanza la pretesa di sapere decidere meglio di noi al posto nostro? Egli si arroga una maggiore capacità di capire e di dirigere le nostre stesse azioni.

 

Politico e cittadini: come madre e figli

Secondo Melanie Klein, la veneranda e terribile allieva di Freud, perfino la madre deve rassegnarsi all’invidia del bambino, perché la madre esercita comunque un potere e un controllo che genera rancore. Un potere ancora più pervasivo di quello del padre, e per questo Melanie Klein aveva sostituito la dialettica della rivalità edipica del padre con quella ancora più feroce della liberazione dal controllo della madre, che più del padre ha legittimamente potere di vita e di morte sull’infante. La madre combatte contro un infante inetto, il padre contro un adolescente già quasi adulto e forte. Una lotta molto più sbilanciata e più feroce, più capace di generare odio inestinguibile.

La dialettica del potere tra politici e cittadini somiglia più al rapporto tra madre e bambino che a quella tra vecchi e giovani. La cittadinanza, il popolo, e ancora peggio le masse, le folle e infine la gente -in un crescendo di indifferenziazione del corpo dei comandati- sono descritti come un essere infantile. Ricordate Gustave le Bon e la psicologia delle folle? Ma anche il disprezzo di Tucidide per il popolo di Atene con quel discorso apologetico messo in bocca a Pericle e strambamente diventato un elogio della democrazia, quando invece tutto quello che dice Pericle è un avvertimento: ad Atene l’assemblea del popolo non fa disastri solo perché c’è una classe di politici in grado di dirigerla, di coordinarla. È Pericle che da sostanza razionale alle pulsioni del popolo.

 

Il potere e il sospetto per il ruolo politico

Perfino Pericle deve rassegnarsi a caricarsi del suo fardello di odio, invidia, e rancore. Finito lui, si scatena l’odio incontrollato. Prima e dopo Pericle Atene fagocita politici a un ritmo impressionante. E tutti attraverso un meccanismo di sacrificio e di espulsione che è giudiziario. Da Milziade ad Alcibiade tutti processati e fuggiti o esiliati. Il meccanismo è giudiziario perché il politico, in quanto detentore del potere, è intrinsecamente ritenuto corrotto, strutturalmente marcio. È la sua stessa scelta, non tanto le sue azioni, a condannarlo.

Insomma, il politico deve rassegnarsi a essere considerato un individuo moralmente sospetto. Egli si arroga di gestire la cosa pubblica, non solo il denaro, ma l’intero bene pubblico. Come il ladro e il mercante, egli ha in mano qualcosa che lui stesso non ha prodotto. E a questo destino egli deve rassegnarsi. Può essere stato un tecnico, un burocrate, un imprenditore, un demagogo, un incorruttibile o perfino un rivoluzionario, ma appena accede alla soglia del potere egli si deve rassegnare a ricevere il sospetto che ricade su colui che gestisce le nostre risorse, che ce le elargisce o ce le nega secondo il suo giudizio.

Può essere talvolta amato, ma sarà al tempo stesso sempre odiato. Al di fuori della democrazia è possibile cavarsela facendosi temere. In democrazia no. E quindi solo questo può raccomandare lo psicologo a Sala: che la sua decisione di autosospendersi abbia un significato solo morale e politico nella quale le ragioni psicologiche siano messe da parte. Non speri mai il politico di sottrarsi al rapporto ambiguo che egli avrà sempre con la cittadinanza a cui rende conto. Sarà sempre un rendere conto fondato sull’insoddisfazione e sul sospetto, un giudizio intriso di rancore e di colpa, un giudizio che passa quindi per un altro potere, anch’esso carico di significati: il tribunale, il potere giudiziario. Non a caso Tucidide sosteneva che la democrazia si svolge sia nell’assemblea che nei tribunali.

La prima impressione è quella che conta davvero!

La prima impressione che si ha di uno sconosciuto influenza i giudizi successivi con un margine di cambiamento quasi nullo.

 

La prima impressione può influenzare il modo in cui giudica l’altro?

Un famoso modo di dire sostiene che non si debba “giudicare un libro dalla copertina”, ma, al contrario, sembra proprio che le persone abbiano la tendenza a far ciò anche dopo averne letto un capitolo o due.

Secondo un recente studio di Gunaydin, professore presso la Bilkent University ad Ankara, in collaborazione con la Cornell University di New York, le persone continuerebbero ad essere influenzate dall’aspetto altrui, anche dopo averne personalmente approfondito la conoscenza. Sembra infatti che la prima impressione, costruita attraverso l’osservazione di una fotografia, possa predire come una persona giudicherà un’altra, anche dopo avervi interagito faccia a faccia, fino a sei mesi dopo.

L’aspetto di una persona influenzerebbe quindi, anche in modo persistente nel tempo, ciò che gli altri pensano della stessa a proposito di chi siano, cosa facciano, quanto possano essere affidabili o simpatici. Anche una semplice fotografia diviene un indizio molto potente in grado di condizionare le future interazioni, nonostante in seguito possano sopraggiungere nuove informazioni, anche in contrasto con il giudizio stesso, circa la persona rappresentata nella fotografia.

 

Lo studio

Per dimostrare ciò, Gunaydin e collaboratori hanno coinvolto un campione di 55 persone, alle quali hanno mostrato 8 fotografie rappresentanti quattro donne, sorridenti o con un’espressione neutra. Per ogni foto ai partecipanti veniva chiesto di valutare il grado di apprezzamento della donna raffigurata, indicando quanto avrebbero voluto conoscerla e quanto avrebbero potuto divenire amici, oltre ad esprimere un giudizio circa la personalità della stessa, indicando quanto secondo loro potesse essere estroversa, amichevole, emotivamente stabile, coscienziosa ed aperta a nuove esperienze.

In seguito, in un lasso di tempo variabile tra i 30 giorni e i 6 mesi dopo la prima fase dell’esperimento, i partecipanti allo studio incontravano di persona una delle donne rappresentate in foto, senza però che venisse detto loro di averle precedentemente già viste e giudicate. Ai partecipanti veniva infatti detto che avrebbero partecipato ad uno studio sulle interazioni sociali, all’interno del quale avrebbero semplicemente dovuto interagire con un altro partecipante allo stesso studio. L’interazione consisteva in 10 minuti di “trivia game”, gioco con domande di cultura generale di difficoltà variabile, a cui facevano seguito altri 10 minuti di conversazione libera con la consegna di conoscersi l’un l’altro il più possibile. In altri termini, questa seconda fase dello studio è stata costruita dagli autori in modo da simulare un’esperienza di interazione quotidiana con una nuova persona, che solitamente procede da argomenti più superficiali, come quelli del trivia game, ad argomenti più intimi e personali. Alla fine dell’interazione, inoltre, la donna lasciava la stanza e al partecipante veniva chiesto di valutarne il grado di apprezzamento e di giudicarne i tratti di personalità, in modo analogo a quanto fatto nella prima fase dello studio dopo la presentazione delle fotografie.

 

I risultati dello studio: la prima valutazione dell’altro influenza i giudizi successivi

Dalle analisi dei dati, Gunaydin et al. (2016) hanno messo in luce l’esistenza di una forte associazione tra la valutazione dei soggetti basata sulla fotografia, e quindi sul mero aspetto fisico, e quella fatta in seguito all’interazione dal vivo, dopo aver conosciuto in modo più approfondito la persona.

Più nello specifico, i partecipanti che ritenevano che la persona rappresentata in foto fosse piacevole e possedesse una personalità amichevole, coscienziosa, emotivamente stabile e di mentalità aperta, mostravano la tendenza a riportare impressioni analoghe anche dopo l’interazione faccia a faccia con la medesima persona. Similmente, anche coloro i quali riportavano giudizi negativi nei confronti della persona rappresentata in foto, mostravano la tendenza a valutarla in modo analogo anche dopo averla conosciuta di persona.

Quanto ottenuto, nel complesso, risulta essere estremamente degno di nota, considerando anche il fatto che i partecipanti alla seconda fase, pur giungendo a giudizi diametralmente opposti, interagivano in realtà tutti con la stessa persona.

Per poter spiegare quanto emerso a livello del giudizio di piacevolezza, che rimane inalterato anche dopo l’interazione faccia a faccia, gli autori chiamano in causa il cosiddetto bias di conferma del comportamento (behavioral confirmation bias), un tipo di profezia che si auto-avvera che porta i soggetti a comportarsi in modo conforme al primo giudizio espresso. Ad esempio, coloro i quali ritenevano che la donna nella fotografia fosse piacevole e simpatica, mostravano a loro volta la tendenza ad interagire in modo più amichevole e coinvolto. Più nello specifico, questi soggetti sorridevano di più e si avvicinavano maggiormente all’interlocutore, inviando messaggi non verbali più cordiali ed espansivi. Inoltre, quando qualcuno è ben disposto verso qualcun altro, tendenzialmente quest’ultimo se ne accorge e risponde in modo analogo, andando a rinforzare l’iniziale impressione di piacevolezza.

Per quanto riguarda la coerenza nei giudizi circa le caratteristiche di personalità, invece, gli autori ipotizzano la possibile influenza del cosiddetto effetto alone (halo effect). In questo senso, coloro i quali hanno giudicato in modo positivo la persona raffigurata nella fotografia potrebbero aver attribuito alla stessa ulteriori caratteristiche positive; infatti, generalmente si ha la tendenza a ritenere che una persona attraente sia ad esempio socialmente competente, con un matrimonio stabile e figli perfetti. Riassumendo, l’effetto alone mette in luce come generalmente le persone abbiano la tendenza ad andare oltre il semplice giudizio iniziale, superficiale e basato meramente sull’aspetto, attribuendo una serie di ulteriori caratteristiche positive e desiderabili. Proprio questo effetto, secondo gli autori, spiegherebbe come mai i partecipanti allo studio attribuissero caratteristiche di personalità considerate desiderabili a persone ritenute piacevoli e di bell’aspetto.

In conclusione, nonostante in studi precedenti Gunaydin et al. (2012) avessero messo in luce la convinzione dei partecipanti circa un’eventuale revisione dei giudizi dati ai soggetti rappresentati in fotografia se avessero avuto la possibilità di conoscerli personalmente, sembra che le persone abbiano la tendenza ad essere conservative, cioè a giudicare le persone in modo estremamente coerente con la loro prima impressione basata sul solo aspetto fisico. I risultati vanno quindi in parte a confermare l’idea secondo cui anche dopo aver letto un libro, le persone continuino almeno in parte a giudicarlo dalla sua copertina.

Neurolatinorum e neurodotti: chi utilizza il linguaggio delle neuroscienze per ottenere autorità scientifica

Da diverse decadi, un nuovo veicolo di persuasione si fa strada tra i progetti di ricerca e la comunicazione scientifica – un miscuglio curioso di fatti, fattoidi e termini scientifici utilizzati dalle neuroscienze. Molti si sono resi conto di quanto il gergo delle neuroscienze sia capace di conferire un’aura di autorevolezza e novità alle affermazioni più scontate, ai risultati più ovvi, agli esperimenti più banali: il neurolatinorum.

Riccardo Manzotti, Paolo Moderato
Università IULM

 

Il neurolatinorum e il neurodotto

Il vestito non fa il monaco, ma aiuta a farlo credere tale. E, spesso, l’abito è fatto di parole e non di idee; parole che, come nel caso del latinorum di Manzoniana memoria, se usate opportunisticamente conferiscono un’aura di immeritata autorità. Come diceva il Galileo di Brecht, la principale causa di ignoranza della scienza è la sua pretesa di essere sapiente.

Da diverse decadi, un nuovo veicolo di persuasione si fa strada tra i progetti di ricerca e la comunicazione scientifica – un miscuglio curioso di fatti, fattoidi e termini scientifici utilizzati dalle neuroscienze. Molti si sono resi conto di quanto il gergo delle neuroscienze sia capace di conferire un’aura di autorevolezza e novità alle affermazioni più scontate, ai risultati più ovvi, agli esperimenti più banali: il neurolatinorum.

Il bersaglio di questo articolo non sono le neuroscienze in quanto tali. Non vogliamo certo criticare le neuroscienze nel loro proprio dominio: negli ultimi cento anni i progressi di questa disciplina sono stati enormi e i risultati eccellenti. Quello che preoccupa è la tendenza a usare la terminologia delle neuroscienze come un vestito per acquisire una legittimazione scientifica. Non è il neuroscienziato che ci impensierisce, ma il neurodotto, che spesso non è neanche un neuroscienziato: colui che usa le parole e le nozioni prese dalle neuroscienze per avvallare punti di vista discutibili e per acquisire un’aura di autorità scientifica.

Il neurodotto non ha bisogno di costruire una completa catena di deduzioni che, a partire da alcune ipotesi e grazie ed evidenze sperimentali, sostengano una tesi precisa. Il neurodotto ottiene la sua forza di convinzione dal vestito linguistico e concettuale più che dalla forza dei propri ragionamenti. Il neurodotto non convince sul piano logico, ma per forza di autorità. In questo modo, parafrasando Longanesi, il neurodotto diventa bravissimo a spiegare agli altri quello che lui stesso non capisce.

Non è un fenomeno nuovo, anzi è una malattia ricorrente della cultura e della società in genere. Come il Galileo di Brecht, i dotti del seicento abusavano della terminologia sillogistica per fingere di conoscere quello che, in realtà, ignoravano. La risposta ai problemi si trova nelle parole invece che nei fatti o nei ragionamenti. Come nel caso della famosa virtus dormitiva di Moliere, il neurodotto segue una prassi non dissimile. Il neurolatinorum, arricchito da una costellazione di opportuni fatti e fattoidi, si trasforma così in un principio panesplicativo che non ammette di essere falsificato e che, quindi, più che una scienza è una specie di pseudometafisica mascherata.

L’uso di certi termini, quasi come per magia, fa sospendere la capacità critica del pubblico che diventa così pronto ad accettare qualsiasi pseudo-spiegazione. Le teorie panesplicative corrono il rischio di dare l’impressione di sapere tutto ma di non spiegare nulla. La dialettica hegeliana sembrava formidabile, eppure non ha spiegato nulla. Se sei un martello, il mondo è fatto di chiodi.

I fatti vengono sostituiti da fattoidi che, anche se nessuno poi li verifica, continuano a circolare nella nostra cultura e molti di questi sono conseguenza di teorie appena abbozzate nel mondo delle neuroscienze.

Facciamo un esempio abbastanza innocente ma significativo: alcuni giorni fa, in una trasmissione di divulgazione scientifica su Radio Tre, Marco Malvaldi dichiara che arte e letteratura sono costruzioni del cervello. E continua nella sua spiegazione del mondo di Dante in termini di attività cerebrale. In fondo, aggiunge, bisogna distinguere tra il mondo reale e la costruzione mentale che è fatta da, indovina un po’, il nostro cervello.

Malvaldi non è un neuroscienziato, è un chimico che scrive romanzi gialli, ma chiaramente avverte l’attrazione per la spiegazione neurocentrica del mondo. E il conduttore radiofonico, lo asseconda, lo appoggia a ogni riferimento al cervello. Il pubblico sente che il cervello è l’Aristotele dei giorni nostri; che è l’autorità che mette a tacere ogni critica. Il ragionamento è semplice, se il cervello costruisce la letteratura è lì che troveremo la risposta a ogni problema e poco importa se nessuno ha un’idea precisa di come i neuroni diventino romanzi e pensieri. L’utilizzo del neurolatinorum di Malvaldi e altri autori, neurodotti come lui, alimenta questo circolo vizioso per cui si continuano a ripetere formule stereotipate che, per il fatto stesso di essere frequentemente pronunciate, vengono percepite come convincenti.

Il neurodotto, bisogna riconoscergli, si muove in un vuoto epistemico di cui non ha colpa. Questo vuoto si è aperto perché le discipline che si occupavano della mente – filosofia, psicologia e psicoanalisi – non sono mai riuscite a definire fisicamente l’oggetto della loro ricerca. Alla fine dell’800, William James diceva di trattare la psicologia come se fosse una scienza nella speranza che lo diventasse. Un secolo dopo, questa speranza è rimasta tale.

 

Neuroscienze: cosa spiegano e cosa resta inspiegato

Le neuroscienze, al contrario, hanno promesso di trovare le basi fisiche della mente da qualche parte dentro i neuroni e, quindi, di trovare le leggi materiali della nostra esistenza. È una promessa legittima, per una disciplina delle scienze forti. Il problema è che, per quanto riguarda la mente e il suo funzionamento, le neuroscienze non propongono una spiegazione ma una promessa di spiegazione. Non spiegano come i neuroni diventino pensieri, emozioni e sensazioni, ma si limitano a indicare delle aree cerebrali che sarebbero coinvolte con tale funzione. Si confonde il dove con il come e, in molti casi, non si fa nemmeno quello ma si emette, per usare la metafora di Ryle, una cambiale epistemica. Invece di un “pagherò” si emette un “spiegherò”, ma tanto basta perché diventi, come la moneta cattiva, di uso comune nella vulgata scientifico-popolare. Il neurodotto, prende le cambiali e le scambia per moneta vero. Lo spiegherò delle neuroscienze, diventa una spiegazione – sia pure incomprensibile – del neurodotto. Un po’ di neurolatinorum copre i vuoti e le mancanze.

Prendiamo in esame la classica confusione tra localizzazione e spiegazione; la confusione tra dove e perché oggetto di una precisa critica di Legrenzi e Umiltà. Spesso un problema cognitivo viene tradotto nella ricerca del luogo neurale. È un passaggio discutibile per vari motivi. I principali sono: non sappiamo se i fatti cognitivi sono localizzabili in aree neurali, non abbiamo gli strumenti per controllare quello che avviene in termini di attività neurale, la complessità fine dei processi neurali è ancora molti ordini di grandezza superiore ai dati effettivamente misurati, anche se trovassimo dove si trova una certa attività, non sapremmo molto di più del fatto, in sé banale, che il cervello contribuisce a svolgere un’attività cognitiva. Eppure, siamo sommersi di risultati (a volte incerti) circa la localizzazione di svariate attività mentali. Si finisce così in una specie di neurofrenologia che, oltretutto, potrebbe rivelarsi infondata.

Complice un forte supporto mediatico e il vuoto citato sopra, il valore esplicativo dei dati delle neuroscienze si è esteso ben oltre i confini dei laboratori. Grazie a una serie di circostanze favorevoli – quali l’utilizzo di apparecchiature d’avanguardia molto costose, l’incrocio con la teoria dell’informazione, l’uso di termini mutuati dalla intelligenza artificiale e dalla computer science, oltre all’uso di immagini coloratissime del cervello – la loro terminologia è tracimata fuori dalle reti neuronali e si è diffusa negli ambiti più insospettabili. E così le discipline più deboli, vedi l’esempio della psicoanalisi, hanno sentito l’attrazione per questo abbraccio mortale con le promesse delle neuroscienze: una specie di biglietto magico per entrare nel mondo delle scienze forti. Estetica, economia, marketing, teologia, filosofia e molte altre si sono offerte con voluttà all’abbraccio con il prefisso neuro- visto come un’irresistibile promessa di un futuro glorioso. E poco importa se, per ora, è più un’operazione di maquillage accademico che qualcosa di concreto. Ma dove non arrivano le neuroscienze, arrivano i neurodotti.

Come diceva Macluahn, il medium è il messaggio. A causa dei limiti di tempo e di risorse nel quotidiano, la possibilità di comprendere quello che si legge e di valutarne l’effettivo peso scientifico è ridotta. Di conseguenza, il vestito e i termini usati devono dare l’impressione di trasmettere qualcosa di importante, significativo e autorevole – qualcosa che la comunità riconosce subito. La parola chiave, a questo proposito, è riconoscere, come si riconosce il generale dalle stelline, mentre si ignora se abbia effettivamente vinto qualche battaglia o se sia coraggioso e giusto con i suoi uomini; come si riconosce il vino dall’etichetta senza poterne distinguere sapore e struttura; come si riconosce l’opera d’arte dalla galleria che la espone e non dai meriti intrinseci. Nello stesso modo, il neurolatinorum abilmente usato dai neurodotti permette, da parte del pubblico e dei colleghi, questo immediato, agognato e vendibile, riconoscimento. Non ci si deve più sforzare per provare la correttezza dei metodi, l’acutezza dei ragionamenti, l’importanza dei risultati. L’utilizzo del gergo e del vestito delle neuroscienze è sufficiente, consente un immediato riconoscimento.

Il cervello è diventato il nuovo fantasma nella macchina. Sentire dichiarare che il “cervello” fa questo e quello, suona molto più convincente di uno psicologo o di un filosofo che dice che “un soggetto o una mente” fanno questo e quello. Ma le due frasi sono equivalenti. Almeno finché non esisteranno leggi psicofisiche che spiegano in modo intelligibile il passaggio dal fisico al mentale: queste leggi, va detto con forza, non sono neanche lontanamente alla portata delle neuroscienze. Non è altro che la fallacia mereologica denunciata da Bennet e Hacker. Il cervello è un fantasma, è un omuncolo. Chi è il nuovo omuncolo? Il cervello, e i sacerdoti di questa anima materiale che si annida dentro il cranio, i neuroscienziati, con le loro cattedrali, vescovi, e finanziamenti. Il cervello è un articolo di fede. È la promessa di una futura unificazione tra materia e spirito. Il neurodotto, chiaramente, si propone come monaco e officiante di questa, a volte lucrosa, religione laica. Il neurolatinorum – amalgama indistinto di termini, fatti e fattoidi – è la sua bibbia. Sarebbe bello se il pubblico esercitasse un minimo di scetticismo laico.

Marijuana a scopo terapeutico nel trattamento dell’alcolismo e della dipendenza da oppioidi

Quello sull’uso della marijuana è un tema controverso che vede da un lato un acceso dibattito sugli effetti che essa può avere sulla psiche e il comportamento, soprattutto degli abusatori, dall’altro lato si arricchisce di considerazioni cliniche e politico-sociali, dovute agli aspetti che riguardano il suo uso terapeutico e la possibilità di una sua legalizzazione, laddove questa non sia già avvenuta.

 

L’uso terapeutico della marijuana

Un gruppo di ricerca della University of British Columbia (UBC), capeggiata da Zach Walsh, professore associato della facoltà di psicologia all’UBC Okanagan Campus, ha condotto uno studio volto ad analizzare gli scopi del consumo di cannabis e gli effetti che essa ha su vari gruppi di soggetti. La ricerca è consistita in una revisione di 31 articoli collegati al rapporto tra uso terapeutico della cannabis e salute mentale e di 29 articoli riguardanti il rapporto tra uso della cannabis non terapeutico e salute mentale.

Per quanto riguarda l’uso terapeutico, la ricerca ha evidenziato che l’utilizzo della marijuana potrebbe aiutare gli alcolisti e le persone affette da dipendenza da oppioidi ad abbandonare le loro abitudini nocive.

[blockquote style=”1″]I risultati hanno suggerito che le persone potrebbero fare uso terapeutico di cannabinoidi allo scopo di uscire dall’utilizzo di sostanze che sarebbero potenzialmente più nocive, come gli oppioidi utilizzati come antidolorifici[/blockquote] sostiene Zach Walsh.

Inoltre, la revisione sistematica della letteratura sull’utilizzo terapeutico della cannabis e sulla salute mentale, ha anche evidenziato che essa potrebbe essere efficace per la sintomatologia depressiva, per il PTSD (Disturbo Post-Traumatico da Stress) e per l’ansia sociale.

[blockquote style=”1″]Revisionando i risultati, seppur limitati, sull’uso medico della cannabis, sembra che i pazienti e coloro i quali hanno dato il proprio sostegno per l’uso della cannabis come strumento per ridurre i danni e per la salute mentale, abbiano motivazioni valide[/blockquote] sostiene Walsh.

 

Utilizzo non terapeutico della cannabis: le controversie

Più controverso rimane invece il tema dell’utilizzo non terapeutico della cannabis. I risultati che la revisione ha evidenziato hanno infatti portato i ricercatori a concludere che la marijuana potrebbe non essere raccomandata per condizioni psichiche come disturbo bipolare e psicosi. Inoltre intossicazioni acute o uso recente di cannabis porterebbero a deficit reversibili con una potenziale influenza sulla valutazione cognitiva, in particolare sui test di memoria a breve termine.

Il team di ricerca suggerisce che, con la possibile legalizzazione della marijuana in Canada entro il prossimo anno, sia importante identificare delle possibili modalità professionali per agevolare la salute mentale, al di là dello stigma sociale, per riuscire a comprendere meglio i rischi e i benefici connessi al suo utilizzo.

La relazione tra lo Stress e l’infertilità

Negli ultimi tempi diversi autori si sono interessati a studiare il legame che collega l’ infertilità con lo stress: sembra che tra essi si possa instaurare un doppio legame, in cui l’ infertilità stessa si tradurrebbe in una forte stressor per i soggetti che la sperimentano, e a sua volta lo stress stesso, con la sua risposta fisiologica, sembrerebbe interferire con la funzione riproduttiva.

Serena Pattara, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO 

La relazione tra stress e infertilità

Secondi diversi autori, l’infertilità può essere considerata come uno stressor cronico incontrollabile e impraticabile, che può determinare effetti negativi su entrambi i partners della coppia, investendo la loro vita emotiva sociale e di relazione (D’arrigo, 2008).
Sembra inoltre, che gli stress emozionali possano influenzare l’ovulazione e la spermatogenesi. Questa ipotesi è supportata da osservazioni condotte sia in campo animale che umano. La maggior parte dei dati raccolti dalle ricerche endocrinologiche depone per l’esistenza di un effetto soppressivo operato dallo stress sulla funzione gonadica, che dà luogo a determinati squilibri (Valoriani, 2011).

Gli stress emozionali possono influenzare l’ovulazione e la spermatogenesi e possono creare situazioni di estrema rarità (oligozoospermia) o mancanza (azoospermia) di produzione di spermatozoi. Si può ipotizzare che lo stress psicologico che include alti livelli di depressione o ansia, che consegue una diagnosi di infertilità o dovuto alle invasive tecniche procreative, può a sua volta avere un effetto sulle funzioni biologiche, particolarmente sull’equilibrio endocrino e sulle funzioni sessuali tali da creare un circolo vizioso (Basile, Fasolo, Conversano, Lenzi, 2007).

Lo stress è un potente inibitore della fecondazione e lo può fare in maniera prezigotica, quindi agendo sulla produzione delle gonadotropine (LH-FSH), inibendo spermatogenesi e ovulazione, o zigotica, inibendo la formazione dell’embrione o dell’impianto dell’embrione sulla parete dell’utero . (Piccione, Palattella, Ticconi, 2007).

Lo stress più agire creando un’infertilità indotta. Esso causa una riduzione dell’asse ipotalamo-ipofisi-testicoli nella parte di produzione della cellula di Leydig che produce testosterone. Il testosterone serve anche per mantenere gli spermatozoi funzionanti, di conseguenza sembrerebbe che lo stress causi minore produzione di testosterone. Si genera un circolo vizioso in cui l’infertilità è generata dallo stress che diventa infertilità che diventa stress. Se una persona è stressata per l’infertilità, produce spermatozoi meno attivi, meno mobili, in minor quantità, inoltre possono verificarsi problemi di origine sessuale (Ibidem).

Agli endocrinologi e ai ginecologi è nota l’esistenza di una condizione patologica, l’amenorrea ipotalamica, per la quale viene spesso utilizzato il termine di “amenorrea da stress”. Inoltre sembra che un’iperattivazione del sistema catecolaminergico e ipofiso- surrenale, prodotta dallo stress, possa influenzare l’ovulazione, il trasporto dell’ovulo e il suo impianto, nella donna, e nell’uomo, indurre una diminuzione delle gonadotropine responsabili della spermatogenesi (Valoriani, 2011).

I primi autori a interessarsi di infertilità come fattore stressante e come una crisi che coinvolge l’interazione fra i fattori fisici che predispongono all’infertilità, furono Taymor e Bresnick nel 1979. Negli ultimi trent’anni la maggior parte delle ricerche sull’interazione fra stress emotivo e infertilità hanno dimostrato che l’infertilità causa stress ma non che lo stress causa necessariamente infertilità. Differenti fattori giocano un ruolo in questa diversità di interazioni e fra i decisivi vi è sicuramente la cronicità dello stress. Nella fase diagnostica, gli operatori dei centri di PMA dovranno tra le altre cose occuparsi dello stress cronico che la coppia ha accumulato negli anni, questo è direttamente connesso alla durata stessa dell’infertilità (Ibidem).

Diversi studi (Kaufman et al, 2000) hanno indicato che lo stress può provocare modificazioni a lungo termine in differenti sistemi endocrini. I sistemi modulatori dello stress (asse ipotalamo – ipofisi- surrene) hanno sia un effetto protettivo sia un effetto negativo che dipende dalla durata delle loro secrezioni. Nel lungo termine essi provocano quello che è stato chiamato carico allostatico, a significare un cambiamento nella stabilità di importanti sistemi fisiologici con conseguenze negative che influenzano anche la fertilità.

Selye aveva già dimostrato nel 1959 l’ atrofia ovarica nelle femmine di ratto esposte allo stress, Berga nel 1996 ha dimostrato il ruolo dello stress come potenziale inibitore dell’asse ipotalamo – ipofisi- midollare del surrene, che influenza la fertilità femminile.
Il sistema gonadico e quindi della sessualità e della riproduzione può essere inibito dallo stress. Molto noti sono gli effetti negativi dello stress sul comportamento sessuale maschile (impotenza, eiaculazione precoce) e sul ciclo mestruale femminile (amenorrea da stress) (Bottaccioli, 2005).

È stato dimostrato l’impatto negativo che lo stress ha anche sulla fertilità maschile agendo su differenti parametri associati alla qualità spermatica: questa peggiora in pazienti che si sottopongono a FIVET con microiniezione spermatica intracitoplasmatica (FIVET/ICSI), così come sembra abbastanza certo il ruolo e il meccanismo dello stress nella riduzione della qualità e della motilità spermatica (Boivin et al, 1998).

I diversi tipi di risposta allo stress, quella che si definisce la resilienza individuale, cioè la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici, di riorganizzare positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà, ha un ruolo fondamentale. Le caratteristiche psicobiologiche possono aumentare o ridurre la responsività individuale agli stressor. La donna con un’incapacità cronica a mettere in atto meccanismi di coping mostrano un maggior livello di stress anticipatorio che, dal 34 al 59% dei casi, influenza il rilascio di prolattina e cortisolo (Merari et al., 1992).

Altri autori (Demyttenaere et al., 1991) hanno proposto che queste risposte allo stress, dipendenti dai tratti di personalità dell’individuo, influenzino il tasso di probabilità di concepimento in cicli spontanei cosi come in cicli di stimolazione ovarica.
Questi risultati convincono rispetto alla necessità di valutare la componente stressante, prima e durante il trattamento dell’infertilità, attraverso l’attenzione medica e psicologica al suo significato. L’influenza delle caratteristiche di personalità, delle modalità di coping, della suscettibilità individuale allo stress e della resilienza ad essa correlata possono contribuire all’infertilità da molto prima che il problema si manifesti e venga portato all’attenzione dei clinici. Perciò lo stress acuto causato dal problema “infertilità” deve essere distinto dai livelli di stress cronico che i pazienti stanno vivendo, che possono non essere casualmente messi in relazione con l’infertilità (Newton, Hearn, Yuzpe, 1990; Facchinetti et al., 1997; Eugster et al., 2004).

Un disturbo della fertilità come abbiamo già spiegato, può portare il singolo e la coppia ad una crisi che può protrarsi per anni, con sofferenza psicologica notevole che può investire vari ambiti della vita, come quello coniugale, lavorativo, sociale e, tra questi, anche quello sessuale, provocando una serie di ripercussioni sul benessere psichico.

La diagnosi di un disturbo della fertilità è perciò un evento potenzialmente stressante e lo sarà in misura maggiore per quelle persone che percepiscono la procreazione come un qualcosa di fondamentale nella loro vita e che hanno, tra le massime aspirazioni, quella di diventare genitori: per queste persone la condizione di infertilità o di sterilità rappresenta una forte minaccia per il proprio benessere psicologico.
Per chi, invece, considera la genitorialità un’aspirazione marginale o comunque secondaria rispetto ad altre, come ad esempio la carriera lavorativa, tale condizione non sarà troppo stressante. Le diverse modalità di risposta ad uno stesso problema sono quindi dovute a fattori psicologici (Basile Fasolo, Conversano, Lenzi, 2007).

 

La valutazione cognitiva: come l’evento infertilità viene interpretato

Ogni persona sviluppa un proprio sistema per la valutazione cognitiva degli eventi di vita; essa consiste in un processo di pensiero che permette di attribuire ad un evento proprietà e caratteristiche tra cui, ad esempio, la natura benevola o malevola dello stesso e la capacità di facilitare o meno il raggiungimento di uno scopo che la persona si è proposta. Di fronte ad un evento potenzialmente stressante, la valutazione cognitiva dell’evento stesso che ogni persona mette in atto ne determina la reazione specifica (reazione di stress) (Ibidem).
Così, nel caso dei disturbi della fertilità, la diagnosi di infertilità rappresenta un evento potenzialmente stressante, cioè potenzialmente in grado di attivare una risposta di stress che potrà ripercuotersi in vari ambiti della vita, tra cui quello sessuale. Il processo di valutazione cognitiva attiva la risposta di stress se la persona considera l’evento – infertilità minaccioso per il proprio benessere individuale, per la propria autostima, per la propria identità (Froggio, 2000).

Nel caso di un disturbo della fertilità, se il sistema di significato indica il fatto di avere un figlio come una meta particolarmente ambita, il blocco di questa meta (rappresentata dal disturbo della fertilità) innescherà nella persona/coppia emozioni negative, sofferenze, pensieri e immagini intrusivi e ricorrenti che a loro volta alimenteranno il vissuto di sofferenza; se a ciò si aggiunge che la persona/coppia valuta il proprio disturbo della fertilità come un evento dipendente da cause interne, stabili e globali, tale circostanza produrrà una reazione di stress che si ripercuoterà non solo su tutto ciò che rientra nel “campo” di cui la meta fa parte (campo familiare), ma il senso di fallimento, impotenza e di frustrazione invaderà anche gli altri campi, ad esempio quello professionale, sociale, sessuale ( Basile Fasolo, Conversano, Lenzi, 2007).

 

Lo stress associato alla procreazione medicalmente assistita

Lo stress sembra essere anche, una delle conseguenze maggiormente riportate dalle coppie che accedono a un trattamento di procreazione medicalmente assistita, dovuta alle continue visite, intensi e continui controlli, esami, invasioni nella sfera più intima e personale della coppia, i farmaci, la sessualità programmata, il desiderio di arrivare alla tanto aspettata gravidanza (Visigalli, 2011).

Tutti questi esempi, danno un’idea di quanto sia grande la fatica compiuta dalla coppia, tutti questi eventi richiedono dei cambiamenti nelle abitudini della coppia, questa per affrontarli e gestirli in modo efficace, deve possedere ottime capacità di tolleranza allo stress e di adattamento. Inoltre, la coesione e la vicinanza emotiva dei membri della coppia, concorrono nel creare uno stato di stress che assolutamente non aiuta né la fecondazione né i processi fisici naturali (Ibidem).

Un altro fattore che provoca stress è il tempo: lo scorrere inesorabile del tempo, soprattutto quanto la coppia è giunta in età tarda presso un centro di PMA. È soprattutto la donna a risentire del tempo che passa, poiché è consapevole che con l’ aumentare dell’età diminuiscono le probabilità di rimanere incinta. Il fattore tempo diventa così fonte di ansia e stress (Valoriani, 2011).

È importante che durante il percorso di PMA, il supporto psicologico consideri i livelli di stress della coppia, aiuti la coppia ad affrontare le varie situazioni con strategie di coping efficaci e mantenga bassi i livelli di stress.

Una forma particolare di stress è quella che caratterizza le coppie infertili e i soggetti che si sottopongono a tecnologie di riproduzione assistita. In queste condizioni, un effetto negativo dello stress sul conteggio dello sperma, sulla motilità e la morfologia è stato osservato da Harrison e colleghi (1986) e negato da altri. Inoltre è stata dimostrata una relazione tra alessitimia e un effetto negativo sulle variabili seminali (Morelli, 1996).
Sono diversi gli studi che hanno affrontato il fenomeno, tuttavia il legame che collega l’infertilità e lo stress ancora non sembra essere del tutto chiaro, ma alla luce di quanto emerso è comunque importante far riferimento alle linee guida sul counselling della Società Europea di Riproduzione umana e embriologia, che suggerisce di rivolgere particolare attenzione agli aspetti psicologici delle coppie infertili, e soprattutto agli uomini infertili.

Lo stress è considerato un inibitore della fertilità, e una riduzione della fertilità è una risposta strategica comune di mammiferi e animali inferiori a fattori negativi di stress ambientali. In particolare, lo stress psicologico (alti livelli di depressione e ansia) è correlato a tassi di insuccesso inferiori nella gravidanza e nella IVF. Questo suggerisce che la fecondità degli uomini che attraversano un evento molto stressante potrebbe essere momentaneamente ridotta (Jannini, Lenzi, Maggi, 2007).

Queste evidenze cliniche sottolineano l’importanza di controllare i fattori stressanti, comprendere e contenere le ansie e lo stato dell’umore delle coppie infertili, anche durante l’accesso alla fase diagnostica e non solo nel proseguimento delle terapie, lavorando anche sui probabili insuccessi (Valoriani, 2011).

Il quinto anno di State of Mind, il giornale delle scienze psicologiche

Al chiudersi del quinto anno di State of Mind si fanno piccoli bilanci, ci si chiede come vanno le cose: meglio o peggio di un tempo? Sono andata a vedere il compleanno del 2014: eravamo contenti, navigavamo intorno alle 150.000 pagine mensili, avevamo la sensazione di avere cambiato l’informazione sulla psicologia e sulla psicoterapia in modo radicale e che questo cambiamento si stesse vedendo nell’aumento dei lettori, non solo di area specialistica.

Oggi, alla fine del 2016, le pagine visualizzate ogni mese sono tra le 600.000 e le 700.000, il webjournal è considerato una fonte autorevole ed è citato sia come fonte di informazione che come aggiornamento su argomenti innovativi in molte sedi, non solo di specialisti. Si vede una tendenza diffusa a raccontare i fatti della psicologia e della psicoterapia in modo meno arbitrario, più serio, più documentato. Crediamo che questo nostro modo di raccontare abbia cambiato e stia cambiando il modo di fare informazione psicologica in Italia. Vediamo nascere molte iniziative, spesso interessanti e stimolanti che si riferiscono al modo di fare informazione del nostro webjournal. I websites delle scuole e delle società migliorano, si snelliscono divengono più facili da comprendere e da usare. È stato un grande sforzo di un piccolo gruppo di persone, una sfida, una piccola follia! Ma a oggi pensiamo che ne sia valsa la pena, e non solo per noi, ma per il pensiero psicologico e psicoterapico serio, in generale.

Come vediamo il futuro? Il giornale deve crescere, e affrontare argomenti sempre diversi con angolature innovative, deve divenire più bello e conquistare un suo posto stabile nel mondo dei webjournal. Ad esempio, la collaborazione del nostro Direttore con LINKIESTA è un importante allargamento della base dei nostri lettori. Vorremmo ancora allargare il numero e la qualità dei nostri collaboratori e rispondiamo sempre in modo aperto a ogni richiesta di collaborazione. La diffusione delle notizie inerenti eventi e convegni o le uscite di nuovi libri ci consente di avere un ruolo importante nella informazione su ciò che accade in Italia in psicologia, psicoterapia e psichiatria.

Un grazie al Direttore responsabile Giovanni Maria Ruggiero, al caporedattore Flavio Ponzio che si occupa anche di social network management e alla redazione: Linda Confalonieri, Serena Mancioppi che editano e controllano gli articoli oltre a fornire molti contributi e Valentina Davi che cura le informazioni sui congressi e sui libri.  Questo piccolo gruppo di collaboratori è rimasto uguale nel tempo, anche se le vite di molti sono cambiate, oggi infatti Linda Confalonieri, il suo lavoro di collaborazione, lo fa a Shangai. Un grazie anche ai nuovi editor: Marianna Palermo e Marina Morgese, e agli informatici Luca Colombaro e Andrea Deganutti che ci assistono con perizia e pazienza.

Un grande sentitissimo grazie a tutti gli autori del giornale, vecchi e nuovi. Questo progetto non esisterebbe senza il contributo dei tanti psicologi, psicoterapeuti, psichiatri e professionisti della salute mentale che credono nel progetto State of Mind e periodicamente ci inviano i loro articoli, sempre originali, sempre corredati di un solido impianto bibliografico e di metodo scientifico. Il numero di chi collabora e la qualità dei contributi sembra aumentare nel tempo. Grazie anche a Studi cognitivi che continua a mettere a disposizione le risorse per continuare questa nostra bella avventura.

La dimensione diagnostica dei gravi disturbi psicotici e di personalità – Relazione congressuale

La relazione congressuale intitolata “La dimensione diagnostica dei gravi disturbi psicotici e di personalità” fornisce informazioni su come si sia modificato nel tempo il processo diagnostico dei suddetti disturbi, fino ad arrivare alla pubblicazione del DSM-5 con le diatribe e le critiche dei professionisti che questo manuale ha sollevato.

Aristide Tronconi

Nella relazione viene ripercorsa la storia del processo diagnostico dei gravi disturbi psicologici a partire dal 1500, periodo storico ricordato per i processi alle streghe e l’Inquisizione. Nel corso dei secoli l’approccio ai disturbi mentali si è modificato e il processo diagnostico è stato guidato da manuali diagnostici e statistici, tra il il DSM che è giunto alla sua quinta edizione. Ed è proprio sul DSM- 5 che viene focalizzata maggiormente l’attenzione.

“Triora è un borgo di montagna del Ponente ligure, in provincia di Imperia, di circa 500 abitanti, passato alla storia perché lì si tenne, tra il 1587 e il 1589, il più grande processo alle streghe che si fosse mai celebrato in Italia1. Il processo ebbe inizio verso la fine dell’estate del 1587, dopo un lungo periodo di carestia che ridusse alla  fame  l’intera  popolazione.  Gli  abitanti  erano  convinti  che  la  causa  non  fosse  naturale,  ma  dovuta  ai malefici e ai poteri occulti di alcune persone.  Va  ricordato  che  a  quell’epoca,  e  fino  a  tutto  il  secolo  successivo,  le  credenze  magiche  erano  abbastanza diffuse, non solo presso il popolo, ma anche presso gli uomini  di cultura2. Il Parlamento locale e il Podestà, in   accordo   col   Consiglio   degli   anziani,   decisero   quindi   di   avviare   un’indagine   locale   con   l’aiuto dell’Inquisizione, stanziando per le spese 500 scudi, una cifra enorme in relazione alla condizione economica del borgo stesso3. Non solo a Triora, ma anche in altre parti d’Italia e d’Europa, buona parte delle donne riconosciute colpevoli e condannate al rogo per stregoneria erano a conoscenza dei principi  medicamentosi di  molte erbe e piante. Si trattava di un sapere empirico che veniva tramandato in ambito familiare e usato per soccorrere i sofferenti della  comunità.  Poteva  talvolta  succedere  che  per  sensibilità  del  malato,  o  per  dosi  troppo  elevate  dei componenti erboristici, sopraggiungesse la morte per stato di tossicità, per cui la guaritrice veniva assimilata alla strega malvagia. […]

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Scoperto un farmaco che favorisce la neurogenesi dopo aver subito un ictus

I ricercatori dell’Università di Manchester hanno scoperto un nuovo farmaco che riduce il numero di cellule cerebrali distrutte da un ictus e quindi aiuta a riparare il danno.

Mariagrazia Zaccaria

Una riduzione del flusso sanguigno verso il cervello, causato da un ictus, è una delle principali cause di morte o disabilità, e ci sono pochi trattamenti efficaci.

Un team di scienziati dell’Università di Manchester, ha scoperto questo nuovo farmaco che nei roditori ha dimostrato di limitare la morte cellulare delle cellule esistenti e di promuovere anche la nascita di nuovi neuroni (la cosiddetta neurogenesi).

Questa scoperta fornisce un ulteriore supporto per lo sviluppo di un farmaco anti-infiammatorio, interluchina-1 (iL-1Ra), come nuovo trattamento per l’ictus. Il farmaco è già utilizzato dagli essere umani per l’artrite reumatoide, ma diversi studi clinici lo utilizzano nella fase iniziale della cura per l’ictus.

Nella ricerca, gli studiosi mostrano che nei roditori questo trattamento non riduce solo i danni cerebrali che si verificano nella fase iniziale dopo l’ictus, ma diversi giorni dopo si è verificato anche un aumento del numero di neuroni, se trattati con il farmaco iL-1Ra.

E’ importante sottolineare che l’uso della iL-1Ra potrebbe essere migliore di altri farmaci in quanto, non solo limita il danno iniziale alle cellule cerebrali, ma aiuta anche il cervello a ripararsi attraverso la neurogenesi.

Lo studio ha dimostrato che effettivamente il trattamento con iL-1Ra ha aiutato i roditori a riguadagnare le capacità motorie inizialmente perse dopo l’ictus e lo stesso studio suggerisce che potrebbe essere utile anche con gli esseri umani.

Il cibo, una conoscenza resiliente. Anche nell’Alzheimer, è una categoria cognitiva che “resiste”

Una ricerca SISSA, pubblicata all’interno di un numero speciale della rivista Brain and Cognition tutta dedicata alle neuroscienze cognitive del cibo, analizza i deficit lessicali-semantici della categoria cibo in pazienti affetti da malattie neurodegenerative, come l’Alzheimer.

 

Lo studio dimostra che la conoscenza sul cibo tende a preservarsi anche in queste gravi sindromi, più di altre categorie di stimoli. Si mostra inoltre, e anche questa è una novità, che le calorie percepite di un cibo influenzano la capacità di recuperarne il nome: più calorico è l’alimento più la conoscenza viene preservata.

Raffaella Rumiati, professoressa della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, prima autrice del lavoro ed esperta di categorizzazione semantica del cibo, ha anche curato (con Giuseppe di Pellegrino, Università di Bologna) l’intera special issue della rivista, scrivendo anche un commentario introduttivo al numero.

Sarà forse perché è cosi cruciale per la nostra sopravvivenza, ma la conoscenza lessicale e semantica collegata al cibo viene – relativamente – preservata anche in quelle malattie che portano a un calo generalizzato della memoria e delle facoltà cognitive, come l’Alzheimer e l’afasia primaria progressiva.

A osservare questo fenomeno sono stati Raffaella Rumiati e il suo team alla SISSA (in collaborazione con Caterina Silveri del Policlinico Universitario Agostino Gemelli di Roma), che ha verificato le prestazioni cognitive di due gruppi di pazienti e di un gruppo di controllo composto da persone sane in compiti che riguardavano la comprensione e il riconoscimento visivo del cibo.

Non dovrebbe sorprendere che, anche in un calo cognitivo generalizzato, il cibo tenda in qualche modo a resistere meglio – commenta Rumiati – Non è difficile intuire come la pressione evolutiva possa aver spinto verso una maggior robustezza dei processi cognitivi legati al pronto riconoscimento di uno stimolo che forse è il più importante per la sopravvivenza.

Un altro dato generale a supporto di questa supremazia del cibo emerso nella ricerca è che in tutti tre i gruppi, pazienti e controllo, il cibo viene processato meglio del “non-cibo”.

Inoltre – aggiunge Rumiati – sappiamo dalla letteratura che i nomi degli alimenti più calorici sono quelli che vengono acquisiti per primi nel corso della vita.

Rumiati e colleghi hanno anche scoperto un altro particolare interessante: l’apporto calorico, di ogni cibo, così come è percepito dai soggetti è proporzionale a quanto viene risparmiato il ricordo del cibo stesso: più ci sembra calorico, meglio viene preservato.

Anche questo fenomeno potrebbe essere strettamente collegato a quanto detto prima: più il cibo è nutriente, più è importante riconoscerlo.

 

Un numero speciale

Il lavoro di Rumiati e colleghi nasce dalla necessità di ampliare le conoscenze su questo argomento:

Sembra strano eppure gli studi cognitivi sul cibo non sono molti, e solo negli ultimi anni questo argomento sta attirando maggiore attenzione da parte della comunità scientifica.

Questo numero speciale della rivista Brain and Cognition serve quindi anche a dare maggiore vigore a questo campo di studi.

Insieme a Giuseppe Di Pellegrino, dell’Università di Bologna, abbiamo curato il numero speciale e abbiamo anche scritto, su richiesta della rivista, un articolo introduttivo che fa il punto della situazione. Credo che nei prossimi anni questo ambito di ricerca diventerà via via sempre più importante – conclude Rumiati.

Gli effetti del terremoto dell’Aquila nel 2009: valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni

Nel presente studio mi sono interessata agli effetti del terremoto dell’Aquila avvenuto nel 2009. Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare la salute psichica dei bambini e degli adolescenti residenti a L’Aquila, dopo il terremoto.

Ilaria Amalfitani – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Milano

 

Quando alcuni eventi diventano traumatici

Da tempo, la letteratura scientifica, ha riconosciuto che le esperienze di vita stressanti e gli eventi traumatici possono costituire fattori in grado di influenzare lo sviluppo di malattie fisiche e psichiche (Haavet & Grunfeld, 1997; Rutter, 2005).

Per essere traumatico un evento deve procurare nella persona una risposta che comprende paura intensa, il sentirsi inerme, o il provare orrore, questo dovuto all’esposizione del soggetto ad un evento che ha implicato morte o minaccia di morte, sia alla persona stessa che ad altri. Nei bambini solitamente la risposta comprende, inoltre, comportamento disorganizzato o agitazione (American Psychiatric Association, 2014).

Tra gli eventi traumatici a cui un soggetto può essere esposto rientrano i disastri naturali, tra cui i terremoti, che rappresentano una calamità purtroppo frequente in tutto il mondo.

 

L’impatto traumatico dei disastri naturali

Da letteratura si evince come l’esposizione ad un disastro naturale di questo tipo impatta sulla salute fisica e psichica di bambini e adolescenti colpiti, aumentando il rischio di sviluppare sia disturbi internalizzanti che esternalizzanti e provocando quindi conseguenze sulla salute a breve e lungo termine (Stratta, Cataldo, Bonanni, Valenti, Masedu & Rossi, 2012).

 

I disturbi internalizzanti

Per quanto riguarda l’area internalizzante in letteratura sono presenti numerosi studi che si sono interessati alla salute delle persone sopravvissute ad un terremoto. Ad esempio a 18 mesi dal disastro, tra gli effetti del terremoto in Armenia, del 1988, è stata riportata una percentuale di PTSD tra i sopravvissuti dell’87% negli adulti e 69% nei bambini (Armenian, Morikawa, Melkonian, Hovanesian, Akiskal & Akiskal, 2002). Xu, Xie, Li B., Li N. & Yang (2012) hanno rilevato livelli d’ansia in un gruppo di bambini di età compresa tra i 7 e i 15 anni, un anno dopo l’esposizione al terremoto di Wenchuan avvenuto in Cina nel 2008. Ne è risultato che il tasso di prevalenza dei Disturbi d’Ansia è stato del 18.9% tra tutti i partecipanti.

In generale è interessante sottolineare le numerose indagini epidemiologiche secondo cui l’80% dei sopravvissuti ad un terremoto con diagnosi di PTSD (Disturbo da Stress Post Traumatico), presentano una comorbilità psichica con Disturbi d’ansia e dell’umore (Perkonigg, Kessler, Storz & Wittchen, 2000; Pollice, Bianchini, Roncone & Casacchia, 2011b).

 

Gli effetti del terremoto dell’Aquila nel 2009

Nel presente studio mi sono interessata agli effetti del terremoto dell’Aquila avvenuto nel 2009. Dopo uno sciame sismico durato alcuni mesi, il 6 Aprile 2009, alle 03:32 un terremoto di magnitudo 6.3 della scala Richter ha colpito L’Aquila e i paesi limitrofi (Stratta et al., 2012).

Il sisma ha causato la morte di 309 persone e più di 1600 feriti, tra cui 200 ricoverati e 66000 sfollati. Molti edifici sono crollati e la maggior parte sono completamente distrutti. Tutti i residenti sono stati direttamente “esposti” al disastro. Dopo il terremoto tutte le persone sono state posizionate all’interno delle tendopoli allestite fuori dalla città. Solo il 25% degli abitanti un anno dopo il terremoto dell’Aquila è stato in grado di tornare a casa (Stratta et al., 2012).

Questo terremoto è stato registrato come la catastrofe italiana più devastante degli ultimi 300 anni sia per il coinvolgimento delle vittime che in termini di potere distruttivo di una delle principali città storiche e artistiche italiane (Stratta et al., 2012).

A seguito del tragico evento, si sono effettuati diversi studi sugli effetti del terremoto per valutare la condizione di salute mentale della popolazione de L’Aquila (Stratta et al., 2012).

Pollice et al. (2012) valutano il PTSD in 187 giovani sopravvissuti al terremoto. Dai risultati si evince che il 66.7% manifestano elevanti livelli di sintomatologia post traumatica rilevante, mentre una diagnosi di  PTSD è stata riscontrata nel 14% del campione.

Dell’osso et al. (2011) valutano il PTSD 10 mesi dopo il terremoto riscontrando una diagnosi nel 37.5% dei 512 adolescenti reclutati con tassi più elevati nelle donne rispetto che agli uomini.

Questi risultati sugli effetti del terremoto, in linea con la letteratura precedente, confermano gli effetti pervasivi di un disastro nella salute di adulti adolescenti e bambini.

 

Gli effetti del terremoto dell’Aquila sulla salute psichica di bambini e adolescenti

Lo scopo di questo studio è stato quello di valutare la salute psichica dei bambini e degli adolescenti residenti a L’Aquila, dopo il terremoto, in particolare, essendomi interessata agli effetti del terremoto sull’area internalizzante, mi sono soffermata a valutare i Disturbi d’Ansia, il Disturbo Depressivo e il Disturbo di Somatizzazione.

Per fare questo ho confrontato i bambini aquilani con altri due campioni di bambini che non avevano esperito il terremoto (uno clinico e uno di popolazione generale), in modo da vedere se ci sono stati effetti del terremoto sui primi bambini.

L’obiettivo è quello di verificare se esiste un effetto dell’età, del sesso, del gruppo di appartenenza e dell’interazione tra queste variabili nel predire alti livelli di sintomatologia internalizzante.

In totale il campione è composto da 423 soggetti di cui 218 maschi e 205 femmine. L’età media del campione è 9.94 (dai 5 ai 18 anni).

Questo campione è suddiviso in tre sottocampioni:

  • Il campione de L’Aquila: composto da bambini e adolescenti residenti a L’Aquila e reclutati grazie alla collaborazione dell’università. Il campione è composto da 182 soggetti, di cui 92 femmine e 90 maschi, l’età media è di 9.88 anni
  • Un campione Clinico: composto da bambini e adolescenti che hanno afferito al servizio di Psicopatologia dello Sviluppo dell’ospedale San Raffale di Milano. Il campione è composto da 141 bambini di cui 80 maschi e 61 femmine di età compresa tra i 5 e a i 15 anni, con una media di 10.40
  • Un Campione di popolazione generale: composto da bambini e adolescenti che vivono nell’hinterland milanese, costituito da 100 di cui 48 maschi e 52 femmine, tra i 6 e i 17 anni con un’ età media di 9.94.

Il questionario somministrato per la valutazione di questi bambini è stata la Child Behavior Checklist (CBCL) che è uno degli strumenti più utilizzati per valutare le competenze e i problemi emotivo-comportamentali di bambini e adolescenti in campioni sia clinici che epidemiologici  (Achenbach & Rescorla, 2001).

È un questionario standardizzato per i genitori dei bambini di età compresa tra i 6 e i 18 anni, può essere somministrato da un intervistatore o compilato direttamente dai genitori.

Il profilo del soggetto che emerge dal test è composto da otto scale sindromiche e sei scale DSM-Oriented per questo lavoro ho scelto di esplorarne sei: quattro scale sindromiche (Ansia/Depressione – Ritiro Sociale – Lamentele Somatiche – Scala Totale dei Problemi Internalizzanti) e due scale DSM Oriented (Problemi d’Ansia – Problemi Somatici).

Per le analisi di questo studio sugli effetti del terremoto ho usato due software statistici: IBM SPSS Statisticas .20 (SPSS= Statistical Package for Social Science) e Statistica 7. È stato adottato un livello di significatività di 0.05.

Per prima cosa ho condotto analisi preliminari:

  • Ho utilizzato la Correlazioni di Pearson in quanto permette di verificare l’effetto dell’età nelle diverse variabili in esame.
  • Ho correlato le sei scale della CBCL con l’età e l’analisi delle correlazioni come si può vedere dalla Tabella 1 sono risultate tutte significative.
  • Il T- test per campioni indipendenti ci permette di controllare l’effetto del sesso, dunque che media e varianza variano in maschi e femmine.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni TAB.1

Tabella 1. Correlazioni

 

Com’è possibile evincere dalla Tabella 2 il T-test ha evidenziato differenze significative nelle distribuzioni delle variabili in maschi e femmine per:

  • CBCL Ansia/Depressione (Femmine: M = 55.48, SD = 7.97; Maschi M = 57.99 SD = 8.68);
  • CBCL Ritiro (Femmine: M = 55.17, SD = 7.44; Maschi M = 57.59 SD = 8.26);
  • CBCL Totale dei problemi internalizzanti (Femmine: M = 51.89, SD = 11.94; Maschi M = 55.37 SD = 11.57);
  • CBCL Problemi d’ansia DOS (Femmine: M = 56.77, SD = 7.73; Maschi M = 58.93 SD = 8.29);

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni TAB.2

Tabella 2. T-test per campioni indipendenti. Differenze tra femmine e maschi.

 

Per le analisi dei dati, abbiamo utilizzato il Modello Generale Linearizzato (GLM) una generalizzazione dell’analisi della varianza  (Nelder & Backer, 1972), che permette di valutare l’effetto di due o più variabili indipendenti su una variabile dipendente in più di due gruppi, in questo caso, in grado di predire elevati punteggi di sintomatologia ansiosa.

Il vantaggio di questa analisi è che è possibile analizzare il principale effetto per ciascuna variabile indipendente e inoltre esplorare la possibilità di un effetto di interazione. È inoltre possibile includere gli effetti delle covariate e le interazioni tra covariate e fattori.

In questo studio sugli effetti del terremoto, le variabili indipendenti incluse nel GLM sono:

  • L’appartenenza ad uno dei tre campioni (cioè, aquilani, popolazione generale e campione clinico), l’obiettivo come già accennato è stato quello di confrontare i bambini e gli adolescenti che vivono a L’Aquila, che hanno vissuto il terremoto, sia con soggetti sani che con soggetti clinici, che non hanno vissuto l’evento stressante;
  • Sesso;
  • Età (come covariata).

Le variabili dipendenti sono:

  • CBCL Ansia/Depressione;
  • CBCL Ritiro;
  • CBCL Lamentele Somatiche;
  • CBCL Scala totale dei problemi Internalizzanti;
  • CBCL DOS Problemi d’Ansia;
  • CBCL DOS Problemi Somatici.

La letteratura mostra evidenze sull’effetto del sesso e dell’età sull’espressione di psicopatologia, in particolare sui Problemi Internalizzanti.

L’analisi GLM consente di guardare un effetto principale e un effetto d’interazione di queste variabili indipendenti sui punteggi di tutte le scale: CBCL Ansia/Depressione, CBCL Ritiro, CBCL Lamentele Somatiche, CBCL Scala totale dei problemi Internalizzanti, CBCL DOS Problemi d’Ansia e CBCL DOS Problemi Somatici.

Dai risultati emerge che:

  • Per quanto riguarda la variabile Ansia/Depressione è presente un effetto del campione e dai post hoc si può notare che ci sono differenze significative tra tutti e tre i campioni, infatti dal  Grafico 1  si può vedere che al punto 1 i soggetti del campione clinico presentano punteggi medi più elevati rispetto agli altri due campioni, invece al punto 0 i bambini aquilani presentano punteggi inferiori rispetto agli altri due campioni. È inoltre presente un effetto dell’età dove all’aumentare di questa aumentano anche i sintomi e un effetto del sesso con punteggi medi più elevati nei maschi rispetto alle femmine. Stesso identico trend è presente per la variabile Scala Totale dei Problemi Internalizzanti.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni GRAFICO 1

Grafico 1 Modello Lineare Generalizzato. Effetto della variabile campione per la variabile CBCL Ansia/Depressione

 

  • Per la variabile Ritiro Sociale è presente un effetto del campione, in questo caso dai post hoc del grafico 2 abbiamo notato che non è presente una differenza significativa tra il campione de L’aquila al punto 0 e il campione di popolazione generale al punto 2. Questi due campioni però differiscono significativamente dal campione clinico al punto 1 che presenta punteggi medi più elevati rispetto agli altri due campioni.  Questo anche per la variabile Disturbi Somatici DSM Oriented. Per entrambe le variabile è presente inoltre un effetto dell’età dove all’aumentare di questa aumentano anche i sintomi e un effetto del sesso, con la differenza che nella variabile ritiro sociale  i maschi hanno punteggi medi più elevati e nella variabile problemi somatici i punteggi sono più alti nelle femmine.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni GRAFICO 2

Grafico 2 Modello Lineare Generalizzato. Effetto della variabile Campione per la variabile CBCL Ritiro Sociale

 

  • Per le ultime due variabili Lamentele Somatiche e Problemi d’Ansia DOS è presente un effetto del campione e dai post hoc si può notare come non sia presente una differenza statisticamente significativa tra il campione de L’Aquila e il campione di popolazione generale, ma entrambi differiscono significativamente dal campione clinico, che come si può notare dal grafico 3 presenta punteggi medi più elevati rispetto agli altri due campioni. È inoltre presente un effetto dell’età dove all’aumentare di questa aumentano anche i sintomi.

Gli effetti del terremoto dell Aquila nel 2009 valutazione della sintomatologia internalizzante attraverso un confronto tra popolazioni GRAFICO 3

Grafico 3. Modello Lineare Generalizzato. Effetto della variabile Campione per la variabile CBCL Lamentele Somatiche

 

I risultati dello studio sugli effetti del terremoto hanno quindi mostrato la presenza di un effetto dell’età e del gruppo di appartenenza in tutte le sei variabili considerate e un effetto del sesso in quattro variabili: Ansia/Depresione, Ritiro, Scala Totale dei Problemi Internalizzanti, Somatica DOS. In particolare, si evince che è presente una differenza statisticamente significativa tra il campione clinico e i campioni de L’Aquila e di popolazione generale. In questi ultimi gruppi infatti si sono rilevati punteggi statisticamente più bassi in tutte le sei scale sindromiche e cliniche rispetto a quelle del campione clinico.

Pertanto anche le medie riportate dai soggetti appartenenti al campione de L’Aquila, nelle scale della CBCL, sono risultate statisticamente più basse rispetto al campione clinico.

 

Gli effetti del terremoto e la resilienza

Questi dati sugli effetti del terremoto indicano che, a distanza di anni dall’evento traumatico, i soggetti del campione de L’Aquila, differiscono significativamente dal campione clinico e in media, non presentano livelli d’ansia e problemi d’affettività significativamente elevati, se confrontati con bambini appartenenti alla popolazione generale. Questo potrebbe indicare che in media i bambini Aquilani presentano elevati livelli di resilienza.

La resilienza può essere generalmente definita come la capacità di un sistema dinamico di adattarsi o resistere con successo alle perturbazioni che minacciano la sua funzionalità, vitalità e il suo sviluppo (Masten, 2013).

In psicologia, la resilienza può essere intesa come la capacità di far fronte in maniera positiva agli eventi traumatici (che hanno il potenziale di portare danno all’individuo o di bloccare il suo sviluppo), riorganizzando positivamente la propria vita dinanzi alle difficoltà (Panter-Brick & Leckman, 2013).

La resilienza può anche essere pensata come la capacità di un organismo di far fronte alle sfide ambientali e di adattarsi, per resistere alle minacce alla sua stabilità (Karatsoreos, Karatoreos & McEwen, 2013).

La resilienza è influenzata da vari fattori, quali esperienze dell’infanzia, componenti genetiche ed epigenetiche, e infine da circostanze socio-economiche che possono presentarsi fin dall’infanzia (Steptoe, 1991).

Studiare la resilienza sposta il centro dell’attenzione dal valutare il rischio o la vulnerabilità del soggetto, all’indirizzare gli sforzi per migliorarne la capacità di affrontare con successo eventi di vita traumatici.

Analizzando la letteratura sulla resilienza nella Psicologia dello Sviluppo emerge che molta di questa si è concentrata sulla comparsa di un adattamento favorevole a fronte di circostanze avverse, tra cui le catastrofi naturali (Betancourt, 2011; Luthar & Brown, 2007; Sandler et al., 2003).

Negli esseri umani, in genere fattori di stress isolati producono perturbazioni transitorie nel normale funzionamento (Bisconti, Bergeman, & Boker, 2004; De Kloet, Derijk, & Meijer, 2011).

Gli effetti di resilienza ipotizzati nel nostro campione di bambini aquilani si potrebbero definire, in linea con la letteratura, come effetti di resilienza a “impatto minimo”. Questo tipo di resilienza si configura come un insieme di adattamenti positivi in risposta ad uno stress isolato e acuto o ad un evento potenzialemente traumatico. Si misura come una traiettoria relativamente stabile di un adattamento salutare in seguito all’esposizione ad un evento stressante (Bonanno & Diminich, 2013).

Rispetto al fronteggiare un’avversità cronica, che rappresenta per un soggetto notevoli sfide psicologiche e biologiche, fattori di stress isolati e acuti permettono di utilizzare strategie di coping più mirate e circoscritte. Di conseguenza, la resilienza a impatto minimo a seguito di stressor acuti suggerisce poco o nessun impatto duraturo sul funzionamento ed una traiettoria relativamente stabile di una continua e sana regolazione prima e dopo un evento potenzialmente traumatico (Bonanno & Diminich, 2013).

L’adattamento è quindi la chiave per la sopravvivenza: un organismo deve adattarsi alle sfide ambientali per essere in grado di prosperare nell’ambiente in cui si trova.

Questa prospettiva mette in evidenza le capacità personali che portano a mantenere o recuperare la salute mentale, nonostante avversità drammatiche.

 

Effetti del terremoto dell’Aquila su bambini e adolescenti: limiti dello studio e prospettive future

Per quanto concerne il presente studio nonostante non si è a conoscenza della salute mentale dei bambini prima dell’esposizione al terremoto, quello che è emerso è che ad oggi, questi bambini sono in una condizione di benessere pari a quella di un gruppo di bambini appartenenti alla popolazione generale.

I Limiti di questo studio:

  • Non possediamo informazioni circa il funzionamento dei soggetti precedente all’esposizione al terremoto. La presenza di questi dati ci avrebbe permesso di effettuare analisi attraverso uno studio longitudinale, potendo così valutare più approfonditamente l’andamento del funzionamento psicologico dei soggetti.
  • Una seconda limitazione riguarda la raccolta delle informazioni, in quanto in questo studio i dati provenivano da questionari compilati esclusivamente dai genitori. Questo potrebbe aver inficiato la valutazione per due motivi. Il primo è che i resoconti dei bambini sui Disturbi d’Ansia forniscono maggiori informazioni rispetto a quelli dei genitori. Il secondo motivo è che i genitori potrebbero aver sminuito i problemi dei figli.
  • Un terzo limite di questo studio riguarda la collocazione geografica di appartenenza dei tre campioni. Lo stile di vita dei bambini varia in base al luogo in cui si è vissuti e alle abitudini e questo può influenzare oltre che la risposta al trauma anche lo svilupparsi di psicopatologie. Sarebbe infatti interessante poter confrontare il campione Aquilano con altri campioni clinici e di popolazione generale di paesi o regioni limitrofe.

Le prospettive future:

  • Sarebbe interessante effettuare altri confronti, ad esempio tra il nostro campione Aquilano e un altro campione di popolazione generale residente in un’altra città abruzzese, per misurare il funzionamento di questi bambini a confronto. Oppure confrontarlo con un altro campione clinico residente a L’Aquila, che ha vissuto e che vive tuttora la stessa realtà.
  • Misure dirette per la valutazione dei bambini, in quanto, le risposte di questi ultimi forniscono maggiori informazioni rispetto ai resoconti dei genitori sui Disturbi d’Ansia.
  • Infine si potrebbe effettuare un’ analisi più precisa e accurata, inserendo l’età non più come covariata ma stratificandola.  Si divide il campione in classi il più possibile omogenee rispetto alla variabile di cui si intende stimare il valore. In questo caso si potrebbe dividere il campione in più classi partendo dalla mediana, ottenendo così strati omogenei. La conseguenza pratica di tutto ciò è la capacità di generare stime più efficienti.

Comportamenti di acquisto di prodotti biologici: un’applicazione della teoria del comportamento pianificato

Negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di sviluppare modelli psicologici volti a prevedere e spiegare il comportamento di acquisto collocandolo in un più ampio sistema di credenze, valori, norme, atteggiamenti e conoscenze condivise. In tale ambito hanno dominato due modelli fondati sull’assunzione di razionalità dell’attore/consumatore: la teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato.

Serena Marinari, Open School Scuola Cognitiva di Firenze

Psicologia e marketing: come spiegare il comportamento dei consumatori

La psicologia è la scienza più spesso chiamata in causa per spiegare il comportamento del consumatore. La disciplina economica e il marketing si sono tradizionalmente rivolte ad essa – sia pure con una certa dose di diffidenza, attenuata soltanto dalla spiccata simpatia verso la psicologia comportamentista – per esaminare quegli aspetti del consumo che gli strumenti di ricerca a disposizione si mostravano sempre più inadeguati ad indagare (Fabris, 1970). La crescente disponibilità di alternative di consumo fra cui scegliere ed una presunta maggiore “irrazionalità” del consumatore – dissonante rispetto ai criteri economici dell’utilità e della funzionalità – hanno ulteriormente sollecitato, in tempi più recenti, dapprima attenzione e successivamente attesa verso il contributo psicologico, per cui si riteneva che lo psicologo fosse l’unico in grado di studiare proficuamente il comportamento del consumatore (Fabris, 1970).

Il settore su cui, nel corso degli anni, è stato rivolto maggiore interesse è rappresentato dalle motivazioni del consumatore, ma queste non rappresentano che un aspetto del suo comportamento e non possono essere comprese se non inserite nel contesto sociale in cui l’individuo é immerso, di cui è attivamente partecipe e che profondamente influenza le sue azioni. Le motivazioni di consumo, infatti, sono espressione di impulsi e bisogni che si formano a livello individuale ma che hanno anche la loro genesi nel sociale, in quanto plasmate dai processi di apprendimento e di socializzazione e mediate dai processi cognitivi (Fabris, 1970).

All’origine di qualsiasi comportamento c’è uno stato di bisogno che può essere interno all’individuo, e presentarsi sotto forma di deficienza organica o di privazione reale o percepita come tale dal soggetto, oppure essere sollecitato da stimoli ambientali, come ad esempio l’esposizione ad un cartellone pubblicitario (Fabris, 1970).

Le diverse scuole psicologiche hanno proposto una serie di classificazioni dei bisogni, che risultano però largamente insoddisfacenti perché incomplete o troppo generiche (Sirigatti, 1995). I progetti di ricerca devono tendere ad individuare le motivazioni alla base di certi modelli di consumo che intervengono nel processo di formazione di specifiche decisioni di acquisto, piuttosto che tendere a formulare delle categorie astratte o ad individuare “la motivazione” che determina il comportamento del consumatore (Fabris, 1970).

Modelli psicologici della previsione del comportamento: la teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato

Negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di sviluppare modelli psicologici volti a prevedere e spiegare il comportamento di acquisto collocandolo in un più ampio sistema di credenze, valori, norme, atteggiamenti e conoscenze condivise. In tale ambito hanno dominato due modelli fondati sull’assunzione di razionalità dell’attore/consumatore: quello dell’azione ragionata e quello del comportamento pianificato.

La Teoria dell’Azione Ragionata (TRA – Theory of Reasoned Action), sviluppata da Fishbein e Ajzen (1975; Ajzen e Fishbein, 1980) assume che il comportamento sia determinato dall’intenzione, definita in termini di probabilità soggettiva, che un individuo esegua una particolare azione, come ad esempio l’acquisto di un prodotto. L’intenzione, a sua volta, sarebbe determinata dall’atteggiamento – favorevole o meno – verso lo specifico comportamento e dalla norma soggettiva, intesa come la percezione da parte dell’individuo di quanto l’adozione del comportamento sia approvato o disapprovato da specifiche persone o gruppi di riferimento.

Il modello assume, inoltre, che gli atteggiamenti verso il comportamento dipendano dalle credenze relative alle conseguenze, in termini di costi-benefici, dell’adozione del comportamento stesso (credenze comportamentali), nonché dalla valutazione di ognuna di tali conseguenze. Analogamente, le norme soggettive sono considerate funzione della percezione della pressione normativa (credenze normative), nonché della motivazione ad agire in conformità con le aspettative dei gruppi di riferimento.

Con la Teoria del Comportamento Pianificato (TPB – Theory of Planned Behavior), Ajzen e Madden hanno introdotto un nuovo previsore delle intenzioni e del comportamento: il controllo comportamentale percepito, definito come ” la credenza di una persona di quanto facile o difficile è probabile che sia l’esecuzione del comportamento” (Ajzen e Madden, 1986). Tale costrutto è molto vicino nel significato alla nozione di self-efficacy di Bandura (1977), ossia la fiducia di un individuo di essere in grado di eseguire un particolare comportamento. Differisce invece dal concetto di locus of control (Rotter, 1966), in quanto, mentre quest’ultimo rappresenta un’aspettativa generale che rimane stabile nelle diverse situazioni, il controllo percepito varia da situazione a situazione.

Analogamente agli atteggiamenti e alle norme soggettive, il controllo comportamentale percepito è funzione delle credenze di controllo, che rappresentano la stima soggettiva della possibilità di accedere alle risorse e alle opportunità necessarie all’esecuzione del comportamento; esse si basano, in piccola parte, sul comportamento passato, mentre, in misura maggiore, su informazioni indirette e su esperienze di amici e conoscenti (Ajzen e Madden, 1986).

Ajzen e Madden (1986) hanno proposto due versioni del loro modello: la prima si basa sull’assunto che il controllo comportamentale percepito abbia un effetto indipendente sulle intenzioni, nel senso che ci si aspetta che l’intenzione riguardo ad un comportamento si formi soltanto quando la persona crede di avere i mezzi per eseguire il comportamento stesso; la seconda considera anche la possibilità di un’influenza diretta del controllo percepito sul comportamento, che può essere prevista soltanto quando si ipotizza che il controllo comportamentale percepito funzioni come un parziale sostituto per il controllo effettivo sui fattori interni ed esterni che potrebbero interferire con l’esecuzione del comportamento. Quindi, il path diretto dal controllo comportamentale percepito al comportamento rappresenta una determinazione non volitiva dell’azione.

Sempre più numerose ricerche supportano la teoria del comportamento pianificato; le principali verifiche sono state eseguite sull’obiettivo da parte di studenti universitari di conseguire il voto massimo (Ajzen e Madden, 1986) e su quello di perdere peso (Schifter e Ajzen, 1985). In entrambi i domini si è potuto constatare che il costrutto del controllo comportamentale percepito aumentava il potere di previsione del modello originario di Ajzen e Fishbein (1980).

 

Prodotti alimentari biologici e comportamenti di acquisto: presentazione di una ricerca qualitativa

A partire dal successo ottenuto dalla applicazione della Teoria del comportamento pianificato nei diversi ambiti, in particolare per spiegare e predire i comportamenti di acquisto (Caprara, Barbaranelli e Guido, 1998), si intende presentare una ricerca svolta per una tesi di laurea in Psicologia degli Atteggiamenti e delle Opinioni presso la Facoltà di Psicologia di Firenze (Marinari, 2004). Tale studio ha preso in considerazione un argomento ancora oggi molto attuale: l’acquisto di prodotti alimentari biologici, ossia quei prodotti ottenuti senza l’impiego di concimi chimici, antiparassitari o diserbanti e certificati da parte di uno degli organismi preposti per legge a tale funzione (Regolamento CEE/n. 2092/91). (Fig. 3)

L’obiettivo è quello di verificare se e in che misura le intenzioni di acquisto di prodotti “bio” siano influenzate dalle norme soggettive, dal controllo comportamentale percepito e da variabili che, in precedenti studi, avevano dimostrato di aumentare la predittività del modello: il comportamento passato (Fredricks e Dossett, 1983; Caprara, Barbaranelli e Guido, 1998), la soddisfazione relativa a precedenti acquisti (Pierro, Mannetti e Feliziola, 1998; 1999) ed il desiderio (Bagozzi, 1999), facendo riferimento alla teoria del comportamento pianificato.

Il campione utilizzato, reclutato all’interno di residenze universitarie, convitti e luoghi adibiti allo studio, è composto da 135 studenti universitari (51% femmine e 49% maschi) ed ha una età media di 25,08 anni (DS=3,13): il 74% è rappresentato dai consumatori di prodotti alimentari biologici, che in base alla frequenza dell’acquisto si dividono in abituali ed occasionali, mentre il restante 26% è rappresentato dai non consumatori.

Ad essi è stato somministrato un questionario costruito appositamente per la presente ricerca sulla base della Teoria del comportamento pianificato, composto da items che misurano i costrutti considerati nel modello e le variabili aggiuntive.

Per verificare gli obiettivi della ricerca, sono state eseguite due regressioni multiple: una al fine di analizzare quanto i valori dell’intenzione di acquisto dipendano o siano determinati dai valori del controllo comportamentale percepito, delle norme soggettive e del desiderio; l’altra per esaminare se l’intenzione, nei consumatori occasionali, possa essere predetta, oltre che dalle variabili indipendenti sopra menzionate, anche dal comportamento passato e dalla soddisfazione derivata da precedenti acquisti, come emerso in numerose ricerche.

 

Risultati e discussione: la teoria del comportamento pianificato per spiegare l’acquisto di prodotti bio

Dall’ analisi delle risposte del questionario definito sulla base della teoria del comportamento pianificato è emerso che le credenze comportamentali dei consumatori nei confronti dell’acquisto risultano essere qualità, sicurezza e rispetto per l’ambiente, per quanto riguarda i vantaggi; costi elevati e difficile reperimento, per quanto concerne gli svantaggi.

Anche per i non consumatori le credenze comportamentali relative ai vantaggi di un ipotetico acquisto sono la qualità, la sicurezza e il rispetto per l’ambiente, con l’unica differenza che alla sicurezza viene riconosciuta un’importanza maggiore. Gli svantaggi riportati sono i costi elevati e le scarse garanzie di controllo, a testimonianza di una maggiore diffidenza verso questi prodotti e della limitata conoscenza delle normative europee che regolano l’agricoltura biologica.

La riduzione dei prezzi ed una distribuzione più capillare sul mercato sono risultati essere i principali fattori in grado di facilitare l’acquisto di tali prodotti. È emerso, inoltre, il bisogno di una maggiore informazione che permetta una conoscenza più approfondita di tali prodotti e di una maggiore attrattività delle confezioni, che potrebbe invogliare all’acquisto anche i non consumatori. Il fattore che ostacola in modo determinante l’acquisto risulta essere ancora una volta il prezzo, probabilmente perché il campione considerato è costituito da studenti universitari, soprattutto fuori sede.

Questo risultato sembra essere confermato anche dall’atteggiamento nei confronti dell’acquisto, in cui l’aggettivo “dispendioso” è risultato essere quello più adatto a definire l’acquisto stesso, assieme a “maturo” e “attento”.

Relativamente alle credenze normative, da un’analisi delle medie delle risposte dei soggetti, è emerso che i referenti che approverebbero maggiormente l’acquisto sono risultati essere i genitori, oltre al partner (nel caso dei consumatori) e ad altri parenti (per i non consumatori). I consumatori attribuiscono ai genitori ed al partner anche una più elevata importanza circa le loro opinioni, indice di una maggiore motivazione a conformarsi a quello che tali referenti pensano dell’acquisto. Questi risultati sembrano confermare quanto emerso nell’indagine di Zani e Cicognani (1998) che attribuiscono alle norme soggettive, soprattutto quelle relative a genitori e partner, un importante peso nel predire le intenzioni. Per quanto riguarda i non consumatori, invece, nessun referente sembra avere importanza nell’eventuale scelta di acquistare prodotti “bio”.

L’intenzione di acquisto, considerata sia in termini di probabilità di avere l’intenzione di acquistare che come probabilità di compiere effettivamente l’acquisto, risulta dunque essere determinata dalle norme soggettive, soprattutto quelle riguardanti la percezione dell’opinione dei referenti e dal controllo comportamentale relativo alla facilità di acquisto.

I dati ottenuti con le regressioni hanno messo in evidenza il maggiore potere predittivo delle norme soggettive rispetto al controllo comportamentale. Oltre a queste variabili, però, sembra importante il ruolo svolto dal desiderio di effettuare l’acquisto, che presenta il coefficiente più alto. Ciò confermerebbe quanto sostenuto dalla teoria della regolazione di sé, secondo cui i desideri, con il loro carico motivazionale, influenzerebbero le intenzioni (Bagozzi, 1999).

Il comportamento passato non risulta essere una variabile significativa nel predire le intenzioni di acquisto. Infatti, l’avere acquistato in precedenza prodotti alimentari biologici sembra non esercitare alcuna influenza né sulla probabilità di avere l’intenzione di acquistarli né su quella di acquistarli successivamente, a differenza di quanto emerso dagli studi di Caprara, Barbaranelli e Guido (1998).

Anche la soddisfazione risulta essere uno scarso predittore sia della probabilità di avere l’intenzione di acquistare sia della probabilità di compiere effettivamente l’acquisto, contrariamente ai risultati ottenuti dalle ricerche di Pierro, Mannetti e Feliziola (1998, 1999).
Bisogna, comunque, tenere presente che i risultati ottenuti dall’analisi delle regressioni multiple dell’intenzione sul comportamento passato e sulla soddisfazione sono parziali in quanto riguardano solo una piccola parte del campione oggetto di studio.
Il potere predittivo della Teoria del comportamento pianificato sembra essere confermata dai risultati ottenuti dall’analisi statistica.

 

Conclusioni

Nell’ambito della letteratura, la teoria del comportamento pianificato non è mai stata applicata al comportamento di acquisto di prodotti alimentari biologici, un campo che risulta essere ancora inesplorato. L’indagine presentata si limita ad esaminare le intenzioni di acquisto di un campione di studenti universitari ma sarebbe interessante includere, in ricerche future, un target più ampio che comprenda diverse fasce di età. Come è emerso in numerosi studi svolti soprattutto in Europa, infatti, l’acquisto di prodotti “bio” è maggiormente diffuso in famiglie con bambini, a testimonianza dell’importanza del loro aspetto salutistico. In tal senso, l’atto dell’acquisto si può leggere come un fattore di rassicurazione psicologica per i genitori, più attenti al rapporto tra alimentazione e salute dei loro figli.

Inoltre, coerentemente con i suggerimenti delineati da Bagozzi (1999), si avverte la necessità di aumentare la predittività dei modelli di previsione dei comportamenti di acquisto, inserendo sia variabili emozionali che medino la relazione tra atteggiamento verso il prodotto ed intenzione di acquistarlo (desiderio), sia aspetti legati all’identità personale e sociale degli individui.

Nella ricerca presentata il desiderio ha rivestito un ruolo importante nel predire le intenzioni, soprattutto quelle riguardanti la probabilità di compiere effettivamente l’acquisto. Non è, invece, stata presa in considerazione l’identità, la cui rilevanza è stata testimoniata in diversi studi (Sparks e Guthrie, 1998; Rosengard, Adler, Gurvey, Dunlop, Tschann, Millstein e Ellen, 2001). Nell’indagine condotta da Bebetsos, Chroni e Theodorakis (2002), l’identità risultava essere, assieme all’atteggiamento ed alla percezione del controllo comportamentale, maggiormente correlata all’intenzione di mangiare in modo salubre da parte di studenti che praticavano attività fisica.

Alla luce delle credenze comportamentali emerse nella ricerca, un altro suggerimento potrebbe essere quello di costruire campagne pubblicitarie a favore dell’acquisto dei prodotti “bio”, basate su messaggi volti a sottolineare le conseguenze positive di tale acquisto, come la sicurezza per la salute o il rispetto per l’ambiente. Poiché i mass media rappresentano le maggiori fonti di influenza, come hanno dichiarato gli studenti del campione oggetto dello studio, questo potrebbe essere un modo per incentivare l’agricoltura biologica ed incrementarne lo sviluppo anche in Italia.

Smettere di fumare riduce anche l’abuso di alcol e droghe

Un ricercatore della Case Western Reserve University School of Medicine (Ohio), ha provato che gli adolescenti rispondono meglio al trattamento sulla loro tossicodipendenza quando smettono di fumare.

Mariagrazia Zaccaria

Il trattamento per smettere di fumare riduce anche l’abuso di alcol e droghe

Dallo studio è emerso che gli adolescenti che hanno smesso di fumare, hanno anche desiderato di abusare meno di alcool o droghe. Al contrario, i giovani che hanno continuato a fumare sono stati dimessi dal centro con una voglia significativa di abusare di alcool e droghe, aumentando così il rischio di recidiva.

Il 50% dei ragazzi partecipanti allo studio non fumava durante il trattamento, anche a causa del divieto di fumo in struttura. Coloro che han continuato a fumare avevano il permesso di poterlo fare nelle ore d’aria.

La Dr.ssa Pagano, principale autrice dello studio, ha affermato che i risultati della ricerca hanno dimostrato che smettere di fumare diminuisce il desiderio di abusare di droghe e alcool. Chiaramente questo è un risultato positivo per il trattamento da dipendenza da alcol o droghe. Tuttavia, le attività di disassuefazione dal fumo non sono incluse nel programma a causa delle preoccupazioni per un sovraccarico, in quanto già la battaglia contro la dipendenza da alcol o droghe è molto impegnativa di per sé.

I risultati, raccolti in un periodo di due anni, son stati raccolti valutando 195 ragazzi, con un’età compresa tra i 14 e i 18 anni. Ogni settimana i pazienti hanno trascorso circa 20 ore svolgendo attività terapeutiche partecipando anche ad alcuni incontri, previsti dalla comunità, che forniscono un aiuto utile per la disintossicazione dei ragazzi. Circa il 67% di loro, infatti, sono riusciti a dimezzare il loro consumo di sigarette.

 

Non si ottengono gli stessi risultati in caso di presenza di ADHD

Inoltre, secondo la Dr.ssa Pagano lo studio ha rivelato che i pazienti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) non hanno avuto percentuali di successo simili. Questo può esser dovuto al fatto che mentre gli altri ragazzi erano impegnati con tante attività ricreative previste dalla struttura che in qualche modo offrivano loro una distrazione, non era possibile coinvolgere i pazienti affetti da ADHD in queste attività per via dei loro bisogni di essere seguiti in maniera differente durante il percorso.

La Dr.ssa Pagano ha anche sollecitato un maggiore utilizzo dei cerotti alla nicotina, questo per facilitare il processo di disintossicazione ma anche perché se migliorano i risultati che emergono con il trattamento si riducono i costi della spesa sanitaria.

Gli stabilizzatori dell’umore: il Litio

Stabilizzatori dell’umore: il litio è un farmaco molto efficace ma dalla gestione delicata che richiede uno specialista di fiducia e spesso anche la disponibilità di ricovero protetto, una buona psicoeducazione del paziente e dei caregiver.  

Ilaria Matarazzo

 

Gli stabilizzatori dell’umore: indicazioni terapeutiche

Gli stabilizzatori dell’umore sono utilizzati in psichiatra per mantenere in eutimia il paziente e trovano indicazione per la cura e la profilassi dei disturbi dell’umore e vengono impiegate per ridurre l’aggressività e il discontrollo degli impulsi in altre patologie non affettive (psicosi, ritardo mentale, demenze, disturbi di personalità).  Vengono spesso associati agli antipsicotici sia nelle psicosi schizofreniche che nei disturbi bipolari particolarmente gravi o con aspetti psicotici (disturbo bipolare tipo I).

 

Il carbonato di Litio

Il primo stabilizzatore dell’umore è sicuramente il carbonato di Litio, scoperto da Schou oltre un secolo fa ed è ancora oggi uno dei più validi presidi per la cura e la profilassi degli episodi maniacali ed ipomaniacali. E’ considerato il farmaco più efficace per la prevenzione del rischio di suicidio ed è inoltre risultato efficace nella depressione resistente unipolare. Il suo meccanismo d’azione, nonostante sia un farmaco molto usato, non è del tutto noto.

Molto probabilmente il carbonato di Litio agisce sul potenziale di membrana rendendola iperpolarizzata e quindi innalzando la soglia per l’innesco del potenziale d’azione nella cellula nervosa. I Sali monovalenti del litio posseggono caratteristiche in comune con gli ioni sodio e potassio. Si ipotizza che inibisca la depolarizzazione dei canali del calcio voltaggio dipendenti e blocchi il rilascio di dopamina noradrenalina ma non di serotonina.  Inoltre agiscono sulla cascata dell’adenilato ciclasi e della fosfolipasi nella cascata intracellulare degli ormoni vasopressina e  dell’ormone stimolante la tiroide secreto dall’ipofisi. Agisce anche in altre cascate del segnale intracellulare tra cui quelle della proteinchinasi C, glicogeno sintasi chinasi 3beta.

Rispetto alla farmacocinetica, il farmaco viene completamente e rapidamente assorbito per via orale. Le concentrazioni massime vengono raggiunte in 2-4 ore dopo somministrazione di dose orale. Emivita di 20- 24 ore. Escrezione renale antagonista del sodio. La perdita del sodio favorisce l’accumulo di litio.

 

Intossicazione da Litio

Nonostante sia un farmaco efficace, necessita di essere dosato nel sangue periodicamente per evitare il rischio di accumulo e di tossicità da litio, evenienza che richiede il ricovero. I segni dell’intossicazione da litio comprendono: tremore fine, atassia, nausea, vomito, diarrea profusa,  sedazione fino al tremore grossolano ad ampie scosse durante il movimento, confusione mentale, coma. In regime di ricovero nelle fasi acute si considerano accettabili ed efficaci valori tra 0.6 e 1.5 mEq/l. Valori tra 0.6- 1mEq/l sono indicati nella profilassi a lungo termine. Inoltre il paziente che assume Litio deve effettuare esami  della funzionalità renale, epatica, elettrocardiogramma, dosaggio del calcio ematico e degli ormoni tiroidei (TSH, FT3, FT4).

È un farmaco che può essere assunto esclusivamente per via orale. E’ prevista la prossima uscita della formulazione “retard” che richiede monosomministrazione giornaliera mentre attualmente la somministrazione è divisa in due o tre monosomministrazioni.

 

La titolazione del carbonato di Litio

La titolazione del farmaco è graduale e il primo controllo del litio del sangue si effettua dopo una settimana o 5 giorni dalla prima somministrazione. Il dosaggio massimo è 900mg/die.

Da ricordare che il carbonato di litio se sospeso bruscamente può portare a una brusca esacerbazione dei sintomi: senso di disperazione, ansia, angoscia, depressione del tono timico, aumento acuto dell’ideazione suicidaria, confusione, talora anche sintomi psicotici.

Non va mai sospeso bruscamente soprattutto per il concreto rischio di aumento dell’ideazione e dell’intenzionalità suicidaria documentato dalla letteratura.

 

L’interruzione della terapia

Il disturbo bipolare è una patologia cronica con alte percentuali di recidiva. L’interruzione della terapia con stabilizzatori dell’umore può essere presa in considerazione in quei casi in cui ci sia stato un solo episodio  maniacale con lunghi periodi di eutimia. La sospensione della terapia soprattutto nei pazienti bipolari tipo 1 risulta rischiosa in termini di gravità delle ricadute e di potenziale perdita di efficacia del litio qualora venisse reintrodotto. E nei casi in cui possa essere sospeso, la sospensione va assolutamente concordata con uno specialista di fiducia ed eseguita in modalità molto graduale e lenta. La sospensione brusca è autorizzata solo in caso di emergenze mediche di un certo rilievo.

Il litio è un farmaco molto efficace ma dalla gestione delicata che richiede uno specialista di fiducia e spesso anche la disponibilità di ricovero protetto, una buona psicoeducazione del paziente e dei caregiver.

 

Dosaggi pediatrici del Litio

Il litio è approvato per il trattamento del disturbo bipolare negli adolescenti e nei bambini sopra i 12 anni. Nei dosaggi pediatrici il dosaggio va aggiustato per kg/mg e tendenzialmente è maggiore rispetto all’adulto perché il bambino ha un’eliminazione renale maggiore. Vanno monitorati l’incremento ponderale,il tremore oltre che la funzionalità tiroidea, epatica e la piastrinemia.

Rosso è buono: un semaforo nel cervello guida le scelte sul cibo

Se è rosso allora “via libera, abbuffati”, se è verde “hmm, no, lascia stare”: un semaforo “al contrario” nel nostro cervello ci guida quando dobbiamo decidere se mangiare o non mangiare qualcosa.

 

Lo dice uno studio della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, appena pubblicato sulla rivista Scientific Reports, secondo cui la visione, il senso principale che ci guida nelle scelte alimentari, per valutare l’apporto calorico dei cibi si basa su un “codice colore”.

Secondo alcune teorie il nostro sistema visivo si è evoluto per identificare facilmente bacche, frutta e verdura particolarmente nutrienti nel mezzo del fogliame della giungla – spiega Raffaella Rumiati, neuroscienziata della SISSA e coordinatrice del nuovo studio.

Il sistema visivo umano è tricromatico: nella retina, l’organo fotosensibile dell’occhio, ci sono tre classi di fotorecettori (coni) sintonizzate preferenzialmente su tre diverse bande dello spettro visivo. Questo implica che possiamo vedere un gran numero di colori (più degli animali monocromatici e dicromatici, meno di quelli che hanno 4 o addirittura 5, e più, tipi di fotorecettore).

In particolare siamo molto efficienti nel distinguere il rosso dal verde – precisa Rumiati.

La raffinatezza raggiunta da questo nostro senso testimonia il fatto che siamo “animali visivi”, a differenza di altri, come il cane, che per esempio dipendono principalmente dall’olfatto.

È soprattutto il colore degli alimenti a guidarci e i nostri esperimenti finalmente mostrano come – spiega Rumiati. Finora infatti gli studi su questo argomento sono stati davvero pochi.

Cosa cerchiamo in un cibo? Che sia nutriente, ovviamente, cioè che abbia un alto contenuto calorico (e anche proteico).

Nei cibi naturali, non processati, il colore è un buon predittore dell’apporto calorico – spiega Francesco Foroni, ricercatore della SISSA e primo autore della ricerca – Più un cibo non processato tende al rosso più è probabile che sia nutriente, mentre quelli verdi tendono a essere poco calorici.

Il nostro sistema visivo si è evidentemente adattato a questa regolarità .

I partecipanti ai nostri esperimenti valutano come più ‘stimolanti’ e calorici i cibi il cui colore tende al rosso, mentre accade il contrario per quelli verdi – continua Giulio Pergola, ricercatore all’Università di Bari fra gli autori della ricerca – Questo risulta vero anche per i cibi processati, cioè quelli cotti, dove il colore perde la sua efficacia come indicatore delle calorie.

In realtà, la letteratura scientifica mostra chiaramente che i cibi cotti vengono sempre preferiti a quelli naturali e l’effetto si osserva anche in specie diverse da quella umana.

I cibi cotti sono sempre preferiti perché rispetto a quelli naturali, a parità di quantità, offrono più nutrimento – spiega Rumiati. Nel caso del cibo cotto però la dominanza rosso/verde non offre più un’informazione affidabile, quindi si potrebbe pensare che il cervello non applichi questa regola ai cibi processati. Questo però non è vero e dunque ci suggerisce la presenza di meccanismi evolutivi molto antichi, precedenti all’introduzione della cottura

Un ulteriore dato a favore di quest’ipotesi è che il codice colore, negli esperimenti di Rumiati e colleghi, non entra in funzione per oggetti diversi dal cibo:

La preferenza del rosso sul verde non si osserva con oggetti non commestibili – spiega Rumiati – Questo significa che il codice colore del sistema visivo si attiva, correttamente, solo con gli stimoli alimentari.

 

Un semaforo per un’alimentazione più sana

L’osservazione dell’esistenza di questo effetto, oltre ad approfondire le conoscenze sul sistema visivo, offre prospettive interessanti su molti fronti, dal marketing del cibo al trattamento dei disturbi alimentari, quindi con una importante ricaduta sulla gestione della salute pubblica.

Molto si sta facendo oggi per incentivare un’alimentazione più sana – commenta Rumiati – per esempio cercando di convincere il pubblico ad assumere meno cibi ipercalorici. 

In alcuni paesi si è addirittura proposto di bandire certi tipi di alimenti, come le bibite gassate, e altri cibi molto grassi. In alcuni casi si sono introdotti dei disclaimer sulle confezioni, come si è già fatto per le sigarette. Forse anche il colore dei cibi potrebbe essere usato in questo senso, magari con colorazioni artificiali.

La paura di volare e la paura di guidare (2016) – Recensione del libro

Il libro La paura di volare e la paura di guidare intende passare in rassegna i trattamenti attuali più efficaci per la cura della paura di volare e della paura di guidare, con l’obiettivo di proporre un modello integrato di trattamento.

 

Gli autori, Marco Giannini e Luca Napoli, partono da una definizione accurata di ansia, paura e fobie così da permettere anche ad un non addetto ai lavori di comprendere meglio cosa accade alla persona che, a causa di una forte ansia, evita le situazioni temute.

Nel DSM-5 le fobie di volare e di guidare sono inserite tra i disturbi d’ansia, in particolare tra le fobie specifiche di tipo situazionale. I sintomi somatici che si riscontrano più frequentemente sono tachicardia, sudorazione, nausea, vomito, crampi e cefalea, mentre i sintomi psicologici più diffusi sono la paura di morire, di impazzire o di perdere il controllo.

Oltre che sull’inquadramento diagnostico, ne La paura di volare e la paura di guidare gli autori si soffermano sul funzionamento di personalità dei soggetti fobici, riprendendo il modello dell’organizzazione fobica di personalità di Guidano (1988). Secondo tale modello, i soggetti che sviluppano fobie, hanno una personalità che si costruisce e che si muove in maniera polarizzata intorno a due bisogni fondamentali: il bisogno di autonomia/esplorazione e il bisogno di accudimento/protezione, unito ad un costante bisogno di ipercontrollo. Il soggetto tenderà ad oscillare continuamente tra questi due bisogni e a rispondere con intensa ansia e paura nel momento in cui questi vengono minacciati.

 

La paura di volare e la paura di guidare: i principali tipi di trattamento

Dopo una presentazione degli strumenti di valutazione al momento utilizzati, gli autori passano in rassegna i principali tipi di trattamento al momento esistenti. Tra questi sono brevemente illustrate le terapie farmacologiche (benzodiazepine, beta-bloccanti e SSRI) che possono essere utilizzate nella fase iniziale del trattamento, per poi dare ampio spazio ai principali trattamenti psicologici e a corsi e seminari.

Tra i trattamenti psicologici citati in La paura di volare e la paura di guidare, quello di elezione è il trattamento cognitivo-comportamentale, che si articola in diverse fasi: desensibilizzazione sistematica, esposizione agli stimoli temuti sia tramite immagini che in vivo, Virtual Reality Exposure Therapy (VRET) e tecniche di rilassamento.

Vengono poi presentati in maniera dettagliata corsi e seminari organizzati dalle principali compagnie aeree e dalle scuole guida, dove oltre ad una psicoeducazione sull’ansia, vengono fornite informazioni su aerodinamica, aspetti tecnici legati al funzionamento dell’automobile e sicurezza. Inoltre, dopo gli esercizi di rilassamento, sono previste delle esposizioni al volo (dapprima tramite simulatore) o alla guida per permettere alle persone di affrontare le situazioni temute.

L’ultima parte del libro presenta un protocollo di trattamento umanistico e bioenergetico applicato sia alla paura di volare che di guidare che prevede 8 passi, protocollo che deve essere necessariamente adattato al singolo caso:

  1. Sentirsi accolti. In un contesto in cui il terapeuta è empatico, autentico e accentante nei confronti del paziente, viene chiesto al soggetto di rappresentare in forma grafica la sua paura, dopo averla visualizzata.
  2. Imparare a respirare. Il soggetto ansioso avverte spesso la sensazione di “fame d’aria” e viene pertanto guidato nello sperimentare la respirazione diaframmatica.
  3. Dalla fiducia nell’altro alla fiducia in sé. La persona viene guidata dal terapeuta ad abbandonarsi e a fidarsi di lui e, attraverso esercizi di visualizzazione, ha modo di sentire la propria stabilità, sicurezza e acquisire consapevolezza di limiti e risorse.
  4. Vivere il Qui ed Ora e gestire i pensieri disturbanti. Vengono utilizzati protocolli Mindfulness, in particolare il body-scan, con l’obiettivo di avere strumenti di consapevolezza utili per gestire momenti di difficoltà in maniera autonoma.
  5. Imparare a vivere l’attesa. Attraverso la stimolazione del canale emotivo, il paziente viene allenato a sentire e a riconoscere le emozioni, prendendone così distanza per evitare di esserne travolto.
  6. Arricchire la propria identità. L’immagine che la persona fobica ha di sé è spesso quella di una persona incapace o fallita. In questa fase, attraverso lo schema di Johary, il paziente viene invitato a focalizzarsi su aspetti positivi di sé celati o poco valorizzati.
  7. Cadere e rialzarsi. Imparare a rialzarsi nel caso di fallimenti è importante per gestire eventuali ricadute.
  8. Provarci. Il paziente in immaginazione viene esposto alle situazioni temute partendo da una condizione di rilassamento.

Il metodo ABA e l’autismo. Principi, procedure e tecniche di base 

Trent’anni di ricerca hanno dimostrato l’efficacia del metodo ABA nel ridurre comportamenti disfunzionali e nel migliorare e aumentare la comunicazione, l’apprendimento e comportamenti socialmente appropriati (U.S. Departement Of Health and Human Services, 1999).

Monica Pignarolo, OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Milano

Introduzione: che cos’è il metodo ABA

L’ ABA è il ramo applicativo dell’Analisi del Comportamento, la scienza che si occupa di descrivere le relazioni tra il comportamento degli organismi e gli eventi che lo influenzano. In altre parole, come riferito da Cooper, Heron, e Heward (1987; 2007 p.3), l’ABA è [blockquote style=”1″]la scienza che applica al comportamento umano i principi identificati dall’Analisi del Comportamento, allo scopo di affrontare problemi socialmente rilevanti nel contesto della vita quotidiana.[/blockquote] Uno degli scopi principali del metodo ABA è far in modo che la dimostrazione dell’efficacia delle procedure utilizzate per generare il cambiamento avvenga tramite il metodo scientifico.

Applicazioni di successo di questo metodo sono state documentate in diversi soggetti che vanno da quelli gravemente disabili a quelli molto intelligenti, sia giovanissimi che anziani, sia in programmi istituzionali controllati sia in situazioni di gruppo meno strutturate. La gamma dei comportamenti studiati va dalle semplici abilità motorie fino alla soluzione di problemi complessi. Le aree in cui questo tipo di interventi sono maggiormente utilizzati sono l’educazione, il servizio sociale, l’assistenza, la psicologia clinica, la psichiatria, la psicologia di comunità, la medicina, la riabilitazione, gli affari, la gestione aziendale e lo sport (Martin & Pear, 2000)
Ma il campo in cui si è mostrata una più significativa crescita e applicazione è quello riguardante i bambini con disturbo autistico (Viruès-Ortega, 2010; Shook, 2005).

La prima applicazione del metodo ABA in soggetti autistici risale al 1960 per opera di Lovaas, che mise in atto interventi per diminuire gravi comportamenti problematici e stabilire un linguaggio comunicativo (Smith & Eikeseth, 2011). Da qui si aprì la strada a una grande quantità di ricerche che portò all’applicazione sistematica ed intensiva dei principi comportamentali di base e all’uso di tecniche e procedure che diedero vita ad un modello di intervento estremamente efficace su questa popolazione di soggetti, l’intervento comportamentale intensivo precoce (EIBI, Early Intensive Behavioural Intervention) (Eikeseth et al, 2002; Howard et al, 2005; Lovaas, 1973; Lovaas, 1987; McEachin et al., 1993; Sallows & Graupner, 2005; Smith et al, 2000b).

 

Principi, procedure e tecniche di base

I principi fondamentali su cui si basa l’analisi comportamentale applicata sono quelli della teoria dell’apprendimento e del condizionamento operante (Martin & Pear, 2000). Il comportamento viene considerato operante perché opera nell’ambiente per produrre determinate conseguenze. Secondo questo principio, il comportamento viene modellato o plasmato dalle conseguenze che lo stesso riceve. Tali conseguenze ne influenzeranno ed altereranno la forma e la frequenza con cui il comportamento si ripresenterà in futuro. Il comportamento sarà analizzato in base agli stimoli ambientali che lo precedono, gli antecedenti, e ai movimenti dell’individuo in risposta allo stimolo ambientale, le conseguenze.

Collegati a questi principi, i concetti chiave sono quelli di rinforzo, estinzione, controllo degli stimoli e generalizzazione (Granpeesheh et al., 2009).
Il rinforzo è definito come ogni conseguenza del comportamento che rafforza il comportamento stesso, cioè aumenta la frequenza e la probabilità della sua comparsa. Può essere negativo (evitare un potenziale stimolo avversivo) o positivo (ottenere attenzione o avere accesso ad una determinata attività).

Nel momento in cui il rinforzo non viene più applicato, la probabilità futura di comparsa di un comportamento si riduce: questo fenomeno prende il nome di estinzione.
Il controllo degli stimoli si ha nel momento in cui un particolare comportamento, dopo essere stato rinforzato solo in presenza di un particolare stimolo antecedente, inizia a verificarsi solo in presenza di tale stimolo e non in sua assenza.

La generalizzazione permette, invece, di trasferire quanto appreso in un contesto anche in una varietà di contesti e ambienti diversi.
Questi concetti sono applicati attraverso 4 procedure principali (Ricci et al., 2014; Martin & Pear, 2000; Granpeesheh et al., 2009):
1) Prompting: consiste nella presentazione di un indizio o un aiuto in modo da ottenere un comportamento che altrimenti non verrebbe messo in atto, in quanto non ancora presente nel repertorio comportamentale del bambino.
2) Fading: consiste nel ridurre gradualmente e poi eliminare gli aiuti utilizzati, a mano a mano che il bambino mostra di non averne più bisogno, al fine di garantire l’acquisizione del comportamento meta e l’autonomia della risposta.
3) Shaping: è una procedura che prevede il rinforzamento sistematico delle risposte che siano approssimazioni successive sempre più simili al comportamento meta.
4) Chaining: è una procedura utilizzata per insegnare lunghe sequenze comportamentali che per un bambino con autismo sarebbero impossibili da imparare tutte in una volta, ma la cui acquisizione è possibile quando l’intera sequenza viene rotta in piccoli comportamenti.

Chaining, fading e shaping sono dette procedure di cambiamento graduale, in quanto tutte e tre implicano il procedere gradualmente attraverso una serie di passi per produrre un nuovo comportamento. Esistono però delle chiare distinzioni tra le tre procedure: nello shaping, i passi consistono nel rinforzare approssimazioni sempre più vicine alla risposta finale desiderata; nel fading, i passi consistono nel rinforzare la risposta finale desiderata in presenza di approssimazioni sempre più vicine allo stimolo finale desiderato per quella risposta e nel chaining, i passi di solito consistono nel rinforzare sempre più le connessioni stimolo-risposta che costituiscono la catena comportamentale (Martin & Pear, 2000).

Per raggiungere i comportamenti meta possono inoltre essere utilizzati due tipi di setting (Granpeesheh et al., 2009, Ricci et al., 2014): per prove discrete (discrete trial training, DTT) e in ambiente naturale (natural environment training, NET).
Il DTT è costituito dall’apprendimento senza errori, ovvero, l’operatore dà un aiuto (prompt) al bambino per impedirgli di sbagliare e questo gli consente di apprendere nuove abilità. Questo aiuto viene via via ridotto fino ad arrivare a portare il bambino a svolgere l’abilità autonomamente. L’insegnamento per prove discrete avviene in ambiente strutturato e massimizza le opportunità di apprendimento, ripresentando più volte al bambino attività che gli si vogliono insegnare e rinforzandone le risposte corrette. Questa modalità presenta dei limiti: risulta spesso difficile generalizzare il comportamento appreso anche al di fuori del setting strutturato, in ambienti meno formali o all’interno delle routine quotidiane.

Il NET è un tipo di insegnamento che avviene in ambiente naturale e consiste nello sfruttare e/o ricreare situazioni di vita quotidiana, che normalmente si incontrano, per fornire opportunità di apprendimento, partendo dagli interessi e dalle motivazioni del bambino stesso. Il setting naturale viene arricchito con materiale intrinsecamente motivante per il bambino, precedentemente selezionato e disposto dall’operatore. Questo setting risulta particolarmente adatto alla generalizzazione degli apprendimenti e ha come limite il fatto che l’operatore può lavorare su un obiettivo solo fino a quando perdura la motivazione del bambino.

Altra caratteristica importante del metodo ABA è che risulta particolarmente utile per poter lavorare su una serie di comportamenti problema, cioè comportamenti ripetitivi e stereotipati, autolesionismo, aggressività, comportamenti distruttivi e capricci (Granpeesheh et al., 2009). La maggior parte di questi comportamenti, spesso, sono la causa di ritardi o incapacità di comunicazione, ostacolano l’apprendimento e il normale funzionamento nella vita di tutti i giorni; è per questo che è necessario trattarli in maniera efficace attraverso questo tipo di programma.

 

Valutazione dell’efficacia dell’intervento comportamentale intensivo precoce

Trent’anni di ricerca hanno dimostrato l’efficacia del metodo ABA nel ridurre comportamenti disfunzionali e nel migliorare e aumentare la comunicazione, l’apprendimento e comportamenti socialmente appropriati (U.S. Departement Of Health and Human Services, 1999).

Come già detto precedentemente, Lovaas (1987) fu il primo a effettuare ricerche mirate sui soggetti con autismo. Esso dimostrò il primato della formazione linguistica all’interno del processo educativo e la maggiore probabilità di raggiungere un funzionamento normale nel momento in cui l’intervento veniva applicato precocemente e in maniera intensiva (Rosenwasser & Axelrod, 2001).

Nello studio valutativo più importante circa la validità dell’approccio comportamentale su soggetti con autismo, Lovaas (1987) paragonò il progresso di tre gruppi di bambini con autismo. Il gruppo (N=19) coinvolto in un programma di trattamento comportamentale intensivo (40 ore settimanali) e precoce per più di due anni raggiunse risultati significativamente maggiori su tutti i test standardizzati rispetto ai due gruppi di controllo: uno coinvolto in un programma di 10 ore settimanali ed uno che ricevette l’intervento standard statale. Inoltre, il 47% del gruppo sperimentale raggiunse risultati entro la norma in tutte le aree evolutive ed all’età di sette anni era integrato in classi “normali” senza sostegno.
McEachin et al. (1993) dimostrarono come, in adolescenza, otto dei nove bambini del gruppo di Lovaas seguitavano ad andare a scuola senza necessità di sostegno ed erano indistinguibili dai pari.

Una delle critiche spesso rivolte nei confronti degli studi di Lovaas é che l’effetto sul gruppo sperimentale non fosse dovuto all’intervento stesso, ma piuttosto all’intensità con cui venne somministrato. In risposta a questa critica Eikeseth ed altri (2002) paragonarono due gruppi di bambini tra i quattro ed i sette anni: uno coinvolto in un intervento comportamentale intensivo (30 ore) ed un altro in un intervento eclettico, cioè un intervento costituito da diversi approcci (TEACCH, logopedia, terapia sensoriale, occupazionale), ma altrettanto intensivo (30 ore). I risultati favorirono in maniera statisticamente significativa il gruppo comportamentale in tutte le aree dello sviluppo ed in particolare quelle del linguaggio espressivo e recettivo.

Sallows & Gaupner (2005), successivamente, replicarono i risultati di Lovaas, dimostrando che circa la metà dei bambini sottoposti ad un intervento comportamentale precoce ed intensivo raggiungeva entro l’età di sette anni un livello di funzionamento adattivo ed intellettivo pari alla norma.

Possiamo così riassumere le maggiori conclusioni a cui sono arrivati i diversi studi condotti al riguardo:
Il semplice utilizzo del metodo ABA non è sufficiente a produrre i risultati desiderati. Per poter notare miglioramenti importanti deve essere implementato con intensità sufficiente (dalle 30 alle 40 ore settimanali). (Eldevik et al, 2006; Reed et al, 2007; Smith et al, 2000b)
L’intervento ottiene risultati migliori nel momento in cui è implementato per una durata maggiore. I bambini con autismo che hanno ricevuto un intervento comportamentale intensivo precoce dai due anni in su hanno ottenuto migliori risultati terapeutici. (Howard et al., 2005; Eikeseth et al., 2002; Reed et al., 2007; Sallows & Gaupner, 2005; Sheinkopf & Siegel, 1998; Zachor et al., 2007).
L’entità della risposta al trattamento sembra variare in modo significativo tra i diversi bambini. Perciò diversi studi hanno cercato di identificare le caratteristiche dei bambini che permettono di ottenere risultati migliori.
Bono et al. (2004) hanno scoperto che i successi dell’ intervento sono stati correlati con le competenze linguistiche iniziali dei partecipanti e la loro capacità di rispondere alle richieste di attenzione congiunta da parte degli altri.

Sigman & McGovern (2005) hanno scoperto che la capacità di mettere in atto un gioco funzionale e la frequenza con cui vengono fatte richieste predicono l’esito del trattamento. Sallows & Graupner (2005) hanno identificato una relazione tra i risultati del trattamento e le competenze in materia di imitazione, linguaggio e socializzazione presenti prima del trattamento.
Szatmari et al. (2003) hanno anche scoperto che lo sviluppo precoce del linguaggio era predittivo di risultati efficaci, così come le capacità cognitive non verbali.
Anche se questi studi hanno esaminato il legame tra le caratteristiche individuali del bambino e la sua risposta all’intervento, l’eterogeneità dei loro risultati illustra anche l’attuale difficoltà di prevedere con certezza quali bambini beneficeranno maggiormente dell’intervento intensivo precoce.

 

Effetti indiretti dell’applicazione dell’intervento comportamentale intensivo precoce sulla famiglia

Ci sono attualmente pochi studi che presentano dati sull’impatto degli interventi intensivi col metodo ABA sul funzionamento familiare (Hastings, 2003).
Tali dati sarebbero clinicamente significativi per diverse ragioni. Primo, i familiari di bambini con autismo sono maggiormente soggetti a rischio di stress e altri problemi psicologici, tra cui la depressione (Gold, 1993; Koegel et al., 1992). I medici dovrebbero essere consapevoli di qualsiasi possibile effetto negativo sulla famiglia degli interventi ABA, al fine di offrire adeguato supporto.

In secondo luogo, molti genitori sono coinvolti come co-terapeuti nel programma del loro bambino. Così, il disagio psicologico o l’elevato livello di stress potrebbero anche avere un impatto diretto sulla qualità del metodo ABA (Hastings, 2003).
I risultati dello studio di Hastings (2003) non hanno individuato la presenza di effetti negativi sul funzionamento dei fratelli di bambini con autismo sottoposti ad un intervento intensivo col metodo ABA. Questi risultati concordano con i dati pubblicati da altre ricerche esistenti, suggerendo anche un effetto non negativo sul funzionamento dei genitori di bambini autistici impegnati in interventi ABA intensivi. (Birnbrauer & Leach, 1993; Hastings & Johnson, 2001; Smith et al., 2000a,2000b; Remington B. et al., 2007 ).

Altro fattore che è stato studiato è l’impatto del supporto sociale offerto alla famiglia. Hastings (2003) ha dimostrato che quando i bambini avevano un quadro autistico meno grave, i loro fratelli erano meno a rischio rispetto allo sviluppo di problemi comportamentali se la famiglia aveva ricevuto anche alti livelli di supporto sociale. Questo effetto è probabile che sia principalmente rappresentato dal sostegno che la famiglia riceveva dalla sua partecipazione al programma col metodo ABA.

Altre ricerche hanno dimostrato che i genitori i cui figli con autismo erano impegnati in un intervento intensivo col metodo ABA sembravano essere meno stressati dei genitori con figli con autismo sottoposti ad altri interventi o nessun intervento, e che lo stress poteva diminuire nel corso di un intervento ABA (Smith, Buch,& Gamby, 2000a; Smith, Groen, & Wynn, 2000b).

 

Conclusioni

L’intervento comportamentale intensivo e precoce é l’unico intervento educativo scientificamente validato per la riabilitazione degli individui con autismo. L’applicazione di tale intervento é però complessa e richiede una preparazione da parte degli operatori e dei supervisori non indifferente. L’obiettivo finale di un intervento comportamentale, che sia a breve o lungo termine, é il cambiamento radicale di comportamenti socialmente significativi, e per alcuni individui l’inserimento totale ed indipendente nella comunità sociale circostante.

L’autismo è una delle aree in cui l’applicazione dei principi dell’analisi comportamentale si è rivelata più efficace nell’apportare cambiamenti migliorativi a lungo termine, più di qualunque altro tipo di intervento educativo (Green, 1996; Maine Administrators of Services for Children with Disabilities, 2000; New York State Department of Health, 1999; Schreibman, 1988; Smith, 1993).
Sulla base delle ricerche che abbiamo visto rispetto all’efficacia di questo tipo di programma, possiamo concludere che i migliori risultati si ottengono quando il programma è applicato ai bambini in età precoce (a cominciare dai 3/4 anni circa), a partire dalle 30 alle 40 ore a settimana, per un minimo di 2 anni e inizialmente all’interno di un rapporto uno-a-uno con l’operatore.

Il programma dovrebbe, inoltre:
1) rivolgersi a tutte le aree deficitarie di ogni singolo bambino, con obiettivi chiaramente definiti;
2) affrontare tutti i comportamenti problema manifestati dal bambino;
3) essere basato sui principi dell’apprendimento e della motivazione;
4) contenere sia componenti del DTT (discrete trial training) che del NET (natural environment training) in maniera integrata;
5) coinvolgere in maniera massiccia la famiglia, con genitori che partecipano attivamente alla messa in atto dell’intervento;
6) essere inizialmente domiciliare e gradualmente esteso ad altri contesti di vista (es. la scuola);
7) essere guidato da esperti con formazioni e certificazione post-universitaria in ABA ed esperienza di programmazione educativa con persone con autismo (Green, Brennan & Fein, 2002).

 

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