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La sofferenza dell’altro: il rapporto con lo straniero nella relazione di cura

Come cambia tale capacità nel terapeuta di fronte ad una società globalizzata con sempre più stranieri, sospinta verso una forte integrazione di culture e valori differenti, che portano con sé anche un modo specifico e peculiare di vivere le esperienze dolorose della vita?

Laura Pancrazi, Laura Stefanoni, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Globalizzazione e modernità: la ridefinizione dei confini

Negli ultimi anni, abbiamo assistito a cambiamenti che hanno trasformato e stanno ancora trasformando a diversi livelli la nostra società. Principale fenomeno all’origine di tali mutamenti è sicuramente la globalizzazione.

Diversi sono stati gli autori che si sono interrogati sull’argomento (Magatti, Giaccardi, Bauman) al fine di comprendere i meccanismi e gli effetti che tale fenomeno ha in una radicale ristrutturazione non solo della società ma della qualità stessa della vita dei singoli individui, delle loro abitudini e, ad un livello ancora più profondo, della loro identità.

In un contesto globalizzato, i concetti di confine, distanza e tempo sono sempre più evanescenti, tutto appare interconnesso, ognuno fa parte di una comunità più estesa nella quale, grazie soprattutto a internet e alle nuove tecnologie, la comunicazione diviene molto più facile e qualsiasi informazione può circolare liberamente.

All’interno di questa cornice la flessibilità subentra come caratteristica distintiva della società moderna, dove “essere moderni” significa cambiare, compulsivamente e ossessivamente, in un’ottica di miglioramento all’infinito, privo di qualsiasi prospettiva o aspirazione a diventare “definitivo”. È questo un concetto ben riassunto nella definizione di Bauman di “modernità liquida” che, contrapponendosi alla modernità solida della società alle nostre spalle (caratterizzata da rigidità, sicurezza e ripetitività), veicola invece il bisogno di non ipotecare il futuro e di scongiurare qualsiasi rischio di non poter sfruttare le opportunità ancora segrete, ignote e inconoscibili auspicate ed attese per il futuro.

La virtuale vicinanza con ciò che fino al giorno prima è stato qualcosa di lontano ed estraneo facilita dunque l’individuo in questa ricerca di continuo cambiamento, grazie al confronto con qualcosa che è costantemente nuovo e diverso. Se da un lato tutto ciò può rappresentare un’importante fonte di arricchimento e aprire l’individuo ad un variegato ventaglio di possibilità circa la propria esistenza, dall’altro può costituire, tuttavia, un significativo indebolimento e allontanamento da ciò che è familiare. Per l’individuo è pertanto sempre più facile trovarsi senza punti di riferimento.

In virtù di queste caratteristiche, l’individuo viene a percepirsi sempre più vicino a una comunità dai confini potenzialmente infiniti ma, allo stesso tempo, molto lontano dall’essere realmente noto, conosciuto e compreso. Ciò non può che comportare da un lato un sentimento di sofferenza psicologica, derivante dal senso di estraneità e di lontananza sperimentata dall’individuo all’interno della propria comunità, dall’altro aumenta inevitabilmente la paura dell’Altro, sconosciuto e diverso che, in molti casi, induce a rifiutare ciò che non si riesce a trattare e che quindi genera paura (si pensi ad esempio agli episodi di razzismo).

La sofferenza psicologica degli stranieri: l’influenza dell’attaccamento e della dimensione sociale

Se numerosi sono stati gli studi, in ambito della psicologia sociale, condotti sul tema del gruppo e delle relazioni tra ingroup ed outgroup, sul razzismo, stereotipi, pregiudizi, sempre maggiore è tuttavia l’interesse che in tempi recenti sta assumendo la dimensione della sofferenza individuale in risposta ai fenomeni appena descritti.

Con l’espressione dolore sociale s’intende proprio[blockquote style=”1″] la spiacevole esperienza che deriva dalla percezione di una distanza psicologica tra se stessi e gli altri.[/blockquote] In particolare, Eisenberger e Lieberman, tra i principali studiosi dell’argomento, si sono chiesti se la vita sociale e affettiva possa essere paragonata al bisogno umano di aria, acqua e cibo. Per quanto possa sembrare un’ipotesi iperbolica e, forse, anche leggermente sdolcinata, gli studi sul sistema di attaccamento ci insegnano che la ricerca ed il mantenimento di uno stato di vicinanza fisica con la propria figura di accudimento è funzionale alla sopravvivenza dell’individuo, non solo in termini di nutrimento, piuttosto sembra essere fondamentale anche rispetto al bisogno di contatto fisico e psicologico, di compagnia e di calore.

Nei loro studi, Eisenberger e Lieberman hanno dimostrato, inoltre, tramite indagini neurologiche, che il dolore fisico e il dolore sociale condividono le stesse basi neurali, situate nella corteccia cingolata anteriore, specificatamente nella suddivisione dorsale, ovvero aree 24 e 32 di Broadmann. Gli autori propongono l’ipotesi che la condivisione di tali meccanismi di processamento sia alla base di un circuito neurale di allarme funzionale alla sopravvivenza. Se, infatti, all’inizio il sistema entrava in allarme quando il caregiver si separava dal figlio, aumentandone in tal modo l’esposizione al pericolo e quindi i rischi di vita, tale meccanismo sarebbe poi rimasto attivo tutta la vita: questo perché si sarebbe sviluppata una sorta di dipendenza dal contatto con gli altri, che porta gli esseri umani a vivere come necessaria la compagnia altrui, anche quando l’organismo abbia raggiunto una fase matura di sviluppo.

Lo dimostra il fatto che, ad esempio, le persone aventi un attaccamento ansioso, caratterizzato dalla preoccupazione per il rifiuto altrui, e affette da malattie che provocano dolore cronico, tendono ad esperire maggiore dolore rispetto a persone con lo stesso disturbo ma con attaccamento sicuro (Ciechanowsky et. al., 2003). Altri studi hanno rilevato che la percezione del dolore fisico dopo un infarto, durante un parto, o conseguente a un tumore, viene attenuata dalle esperienze di supporto sociale (Dakof et al., 1990). Il contatto con gli altri è dunque una delle cose che ci tiene in vita e, non meno importante, ci aiuta a vivere meglio.

L’empatia nel contesto terapeutico con gli stranieri: le difficoltà del terapeuta

L’importante funzione adattiva svolta dal dolore sociale nel garantire la sopravvivenza dell’individuo ed il suo adattamento all’ambiente, solleva un’interessante questione che ci porta ad ipotizzare che questa particolare forma di dolore condivida con il più classico dolore fisico molto più che le medesime basi neurali. Si potrebbe, infatti, pensare che gli stessi meccanismi di riconoscimento del dolore regolino entrambi i fenomeni. Così, gli studi che dimostrano l’attivazione dei neuroni specchio in seguito all’osservazione di stimoli dolorosi provati da altre persone, considerati come dimostrazione delle basi scientifiche dell’empatia, potrebbero trovare un’importante applicazione negli studi sul dolore sociale.

È questo un tema di particolare interesse soprattutto all’interno del contesto terapeutico, che si fonda proprio sulla capacità di empatia del terapeuta; è Batson (1997) che in The Emphaty-Altruism Hypotesis afferma che l’empatia fungerebbe da motivazione nell’attivazione di schemi d’azione volti alla riduzione della sofferenza altrui.

Ma come cambia tale capacità nel terapeuta di fronte ad una società globalizzata, sospinta verso una forte integrazione di culture e valori differenti, che portano con sé anche un modo specifico e peculiare di vivere le esperienze dolorose della vita?

E’ ovvio che il rapporto con gli stranieri nella cura è complicato dai fattori sociali e culturali. E’ vero, infatti, che ogni individuo è un mondo a sé, e la condivisione di significati è difficile a prescindere, perché ognuno porta in ogni relazione il suo vissuto personale, la cultura familiare, la propria storia. Tuttavia, più ci si allontana dalla propria realtà, più i fattori di complessità aumentano.

In questo senso, la missione del terapeuta che si approcci a questo aspetto della “fluidità” moderna, è quello di impegnarsi nel tentativo di colmare questa distanza con un grande slancio all’ ascolto empatico, ancora più grande di quello che gli è richiesto nella cura con ogni paziente.

Gli stranieri, per definizione, si trovano infatti in una prima situazione difficile, faticosa, che è quella di aver abbandonato il noto per andare verso l’ignoto, per trovarsi a convivere con una cultura, una società, completamente diverse da quella di origine, con tutto ciò che ne consegue. A ciò si aggiungono, spesso, condizioni economiche difficili, episodi più o meno eclatanti di discriminazione, un senso di disorientamento e solitudine. E’ quindi evidentemente fondamentale più che mai che la relazione con il terapeuta diventi un luogo accogliente e sicuro, anche nell’ottica di evitare a queste persone quello che potrebbe essere l’ennesimo episodio di estraneità, lontananza, esclusione sociale.

E’ dunque importante, come propongono alcuni autori, [blockquote style=”1″]approntare, nell’esercizio della psicoterapia con lo straniero, un setting capace di evocare un ambiente oggettuale in grado di garantire il suo senso di identità psichica e culturale[/blockquote] (Anagnostopoulos, Germano, Tumiati, 2007).

Una psicoterapia che contempli anche un democratico rispetto di una realtà diversa dalla nostra. In fondo, come suggerisce Biorci (2009), l’espressione di un disagio e l’idea di salute dipendono principalmente dalle risposte che ciascuno si dà, ovvero dal modo in cui l’individuo interpreta gli eventi intorno a sé, la propria storia di vita e le relazioni causa-effetto che attribuisce agli eventi (Biorci 2009).
Il fenomeno migratorio è relativamente recente in Italia, ma il modo in cui si è presentato nel nostro paese è stato forte, massiccio, imponente, e probabilmente lo sarà sempre di più. Per questo, l’approccio italiano alla psicoterapia cognitivo-comportamentale sta lavorando proprio per imparare a rispondere anche all’esigenza di questi pazienti, sempre più numerosi.

La terapia ad orientamento cognitivo-comportamentale pone in interconnessione comportamenti, pensieri ed emozioni. Più nello specifico, secondo tale modello un disagio psichico si svilupperebbe sulla base della presenza di pensieri disfunzionali troppo rigidi che non solo inficiano il nostro benessere mentale, ma tendono inoltre a preservarsi tramite circoli viziosi di auto-mantenimento (Semerari, 2000).
Questo sarebbe comune a tutti gli esseri umani e, quindi, nella relazione con gli stranieri, più che approntare una terapia ad hoc, sarebbe utile aggiustare alcuni aspetti della terapia classica per andare incontro alle esigenze di ognuno.

La psicoterapia cognitivo comportamentale con pazienti stranieri

Esiste, per esempio, la cosiddetta Chinese Taoist Cognitive Psychotherapy (CTCP), che è una sorta di adattamento della terapia cognitivo-comportamentale ad alcuni valori della cultura cinese (Bianco, Messore, Radice, 2016). In questo caso, il terapeuta, oltre a concentrarsi sui pensieri disfunzionali e sulla loro connessione con le emozioni, assume una funzione prettamente didattica e dedica alcune ore ad illustrare al paziente i 32 caratteri taoisti. Questo perché nella cultura cinese la gerarchia dei ruoli è molto importante, pertanto porsi quale figura didattica autorevole aiuta in questi casi a porre il terapeuta come persona meritevole di fiducia.

Altro esempio è il rapporto di cura con pazienti ispanici. In tal caso, è necessario prestare attenzione a dettagli specifici della loro cultura, che prevedono ad esempio di aderire ad un modello di estremo rispetto nei confronti del paziente esprimendolo tramite forme di cortesia come l’utilizzo degli appellativi señor o señora e in generale di un atteggiamento orientato al para servirla (Organista e Muñoz, 1997).

Al di là degli esempi specifici riportati in questa sede, si potrebbe dire che l’approccio della scuola cognitivo-comportamentale italiana alla psicoterapia con gli stranieri, non modifica tecniche e procedure di base ma cerca piuttosto di integrarle con alcuni values specifici della cultura di appartenenza del soggetto con cui di volta in volta ci si confronta nella relazione di cura, al fine non solo di farlo sentire accolto, ma anche di non trascurare informazioni importanti ai fini della terapia.

In generale, è necessario che qualsiasi tipo, modello, o approccio che si affacci ad affrontare una psicoterapia con pazienti stranieri [blockquote style=”1″]rispetti i principi minimi della democrazia e, in particolare l’introduzione del contraddittorio nell’ambito stesso del dispositivo terapeutico[/blockquote] (Nathan, 2001, p. 77). Non bisogna infatti dimenticare la duplice appartenenza/non appartenenza di tale soggetto a due culture diverse, la fatica di questo essere sospeso tra due mondi spesso molto diversi tra loro. Per fare ciò sarebbe necessario costruire un quadro relazionale ispirato all’ascolto, e al rispetto dei suoi modi di fare, dei suoi oggetti di culto, dei suoi esseri invisibili, e dei suoi dottori (Nathan, 2001).

Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire – Ciottoli di psicopatologia

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Belle balle: quando la propria rappresentazione della realtà fa soffrire (Nr. 19)

 

Il delirio: quando la propria realtà non è plausibile

A motivo di alcuni miei passati scritti sul tema del delirio e delle psicosi e forse anche per la mia storia di psichiatra territoriale e ruspante del servizio pubblico anche allo studio privato mi arrivano spesso pazienti molto gravi con deliri allo stato nascente o ben strutturati. Non voglio qui ripetere la mia spiegazione del senso del delirio, della sua genesi e del mantenimento ma prendere spunto da esso per reinterpretare la terapia di qualsiasi paziente come la costruzione di un delirio utile e benevolo.

La visione che ciascuno ha di se stesso è il risultato, l’epilogo della narrazione che si fa delle vicende della propria vita. Ognuno è il protagonista, positivo per chi sta bene e negativo per chi soffre, della storia che si racconta. Ciò vale anche per aggregati sovraindividuali come le famiglie o i popoli. Ma questa è un’altra storia, anzi è proprio la Storia e riguarda gli storici. Non ha alcuna importanza che questa storia corrisponda effettivamente alla realtà. I vincoli nella sua costruzione sono piuttosto la coerenza interna e la plausibilità. Quando la realtà propone dati apparentemente contraddittori con essa vengono ignorati o distorti per diventare delle conferme invece che delle invalidazioni (in questa operazione consiste il delirio che appunto si differenzia dal salutare autoinganno solo quantitativamente e non qualitativamente “fanno quello che facciamo tutti ma diavolo, non si regolano”).

Le rappresentazioni della realtà: quando generano sofferenza

Nel caso dei pazienti non deliranti troviamo narrazioni nelle quali il protagonista non piace affatto al narratore che per questo motivo viene da noi. Sappiamo come diceva già Epitteto che non sono le cose a farci stare bene o male ma quello che pensiamo di esse. La realtà esiste ma resta sullo sfondo e noi lavoriamo sulle molteplici possibili rappresentazioni di essa come provetti sceneggiatori per far si che il protagonista piaccia al suo narratore nostro cliente.

Detto in termini più pedestri: se è vero che “ognuno se la canta e se la sona”, mentre nel delirante il problema è che lo fa in un modo così personale e originale che gli altri non lo capiscono e nessuno lo va a sentire, perché il “nevrotico” (passatemi questo termine preDSM) lo fa in un modo che non piace proprio a lui? Se fossi un sistemico penserei che quella brutta storia dolorosa sia funzionale e coerente ad una narrazione familiare o culturale più vasta. Per rimanere più cognitivista potrei ipotizzare che il confermazionismo prevale sul cambiamento e, in termini piagetiani, l’assimilazione sull’accomodamento, in nome della coerenza ad un nucleo di sé originario alla cui definizione concorrono fattori genetici e ambientali/relazionali precocissimi. In altri termini ci si mette in testa un’idea di sé e del mondo da come ti trattano i genitori e poi ci si affeziona ad essa e la si conferma sempre. Se in questa paralisi conoscitiva il premio nobel spetta al delirante la grande schiera dei testardi e la più ristretta cerchia dei nevrotici sono lì a insidiarne il primato.

Torniamo alla psicoterapia come costruzione di un delirio utile e benevolo ed al terapeuta come sceneggiatore. Chi è disturbato dalla metafora cinematografica per l’idea di falsità che suscita, pensi alla situazione del pubblico ministero e della difesa in un processo indiziario. I fatti della realtà stanno lì ma la loro concatenazione e il loro significato sono proposti dagli avvocati. E’ utile notare che meno sono i fatti ineludibili che si impongono e di cui la storia deve dar conto, maggiore è la libertà creativa e interpretativa del narratore. L’aspetto teorico si impone con più facilità in carenza di dati. Se la teoria è debole i dati si impongono ad essa e sono loro a dettare legge, siamo in una situazione di massimo empirismo e di facile cambiamento. Al contrario se la teoria è forte e/o irrinunciabile, i dati sono asserviti ad essa che li ignora o li distorce a piacimento, siamo in una situazione di massimo dogmatismo. Non servono molte prove per edificare un delirio ma soprattutto un gran bisogno o meglio la necessità assoluta di pensarla in un certo modo. Si pensi a certe teorie complottiste che generano costruzioni enormi resistenti ad ogni critica che viene trasformata in una corroborazione, a partire da dati quasi inesistenti e solo da un’ intuizione.

Come utilizzare le storie sulla realtà in terapia

Credo che ciascuno per il proprio modo di conoscere potrebbe essere collocato lungo la dimensione empirismo- dogmatismo.
Il grado di certezza con cui crediamo ad una storia è dato ( Kaneman pag 220 e seg) dalla coerenza e dalla facilità di elaborazione della storia stessa che a sua volta è favorita dalla scarsità di elementi concreti perché si è più liberi di creare senza troppi vincoli. Anche le emozioni che suscita tendono a renderla credibile, nonché la somiglianza con vicende conosciute ( è possibile perché è già successo) ancor di più se prototipiche e archetipiche.

Questa teoria delle storie che creano la realtà in cui viviamo la utilizzo in due modi in terapia. Da un lato proprio con i deliranti che si fanno forti delle prove per sostenere il loro pensiero chiedendo loro di immaginare una storia che porti alla conclusione che io sia che so…… un pedofilo,…. un terrorista islamico od un frate di clausura ( non tutto insieme, una cosa per volta) a partire dagli elementi presenti nel mio studio. In genere ci riescono facilmente ed io integro con ulteriori esempi in modo da dimostrare che da tutto si può arrivare a tutto se lo si vuole (per la serie “ chi cerca trova, anche quello che non c’è). Con gli altri pazienti invece una volta ascoltata la loro descrizione dell’attuale situazione che vivono e della storia con cui si spiegano come ci sono arrivati ed il cui “protagonista” in genere non è un gran che, li invito a costruire altre narrazioni del tutto diverse che tuttavia arrivano alla stessa conclusione. Io stesso propongo alcune storie alternative che siano compatibili con i valori del soggetto e vedano un protagonista migliore.

Nelle storie che chiedo al paziente di elaborare a volte chiedo di introdurre obbligatoriamente degli elementi fissi. Ad esempio di fronte ad un uomo che si auto svaluta per il fallimento del suo matrimonio gli posso chiedere di raccontare come può arrivare a ciò un uomo in gamba, intelligente e sensibile. Di fronte ad un fallimento economico cosa potrebbe causarlo oltre l’incompetenza del soggetto. Ovviamente la realtà è così varia che fornisce spunti per costruire storie d’ogni genere, basta guardarsi intorno. Insomma tenendo fermo il punto di arrivo si va ad esplorare quante diverse strade possano condurre ad esso. La stessa procedura chiamata dai consulenti aziendali “post-mortem” è utilizzata per evitare che ci si avventuri, guidati dall’entusiasmo, in progetti rischiosi aiutando a vedere le possibili criticità. Essa consiste nell’immaginare che il progetto sia stato un fallimento totale e che ci si ritrovi sulle macerie fumanti per esaminarne le cause che impreviste prima appaiono ora assolutamente evidenti. Insomma ora che il fallimento c’è stato, a cosa è attribuibile che prima non abbiamo previsto? Al contrario in terapia stante che la situazione attuale è ineludibile, le cose stanno proprio così, quanti diversi percorsi possono aver condotto a ciò e quale versione sosterrebbe l’avvocato difensore dell’autostima del protagonista. Insomma la terapia tenta di sostituire la narrazione che il paziente fa della propria vita che prevede un protagonista negativo ai suoi occhi con un protagonista accettabile se non encomiabile.

 

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il punto cieco: trovarlo scoprendo la propria amabilità e dignità – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa: cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Il punto cieco (Nr. 18) 

 

In  supervisione mi riprometto di stare attento a quanto viene detto e rispetto ai casi ma sopratutto al punto di vista dal quale viene detto, insomma sono più interessato ai colleghi che al paziente. Alle premesse dalle quali affermano ciò che affermano. Il panorama che vedono lo descrivono benissimo meglio di come potrei fare io che invece sono preso dai loro occhi.

Insomma la predica è interessante e su di essa dibattiamo e la aggiustiamo ma vuoi mettere il fascino del pulpito. Ancor più utile forse è far caso a ciò che non si vede perché dato per scontato (ovvio, appunto). Il punto cieco credo sia in parte culturale, in parte familiare e in parte individuale (33,33, 33 come diceva Leonardo a Troisi e Benigni).

Mi viene da pensare che la scoperta del punto cieco che, se volessimo legarci a tradizioni più nobili potremmo chiamare “Ombra”,  sia lo scopo non soltanto della supervisione ma anche della terapia stessa. Il problema allora diventa cosa deve verificarsi perché uno possa vedere i propri punti ciechi? Forse in supervisione non è decisivo quantunque l’atmosfera relazionale è importante per fare un buon lavoro. Ma certamente in terapia lo è.

Il segreto credo stia nella relazione che permette al paziente di guardarsi nello specchio rappresentato dal terapeuta senza dover per forza distorcere l’immagine per vedere la più bella del reame. Una relazione in cui sono sicuro e riconosciuto permette di non indossare ma guardare come oggetto il “falso sé”  dismesso.

Se consideriamo che una buona relazione consente la metacognizione e se cessa l’allarme lo stesso ragionamento (quello base non solo quello meta) migliora per la gioia di Baron allora la terapia avrebbe come scopo di permettere al soggetto di essere “come è” certo che non perderà l’amore. A questo punto anche a costo di perdere il monopolio della cura dobbiamo ipotizzare che possono esistere relazioni amorose che sono in senso profondo autenticamente terapeutiche. Anche se mi sembra persino una osservazione alla Catalano. Meno ovvio ed un po’ eretica è che una relazione non può essere terapeutica se non è anche d’amore (troppo detto così?, che resti tra noi)

 

Giungere al punto cieco passando da amabilità e dignità

Propongo di ragionare su uno dei due termini che sono stati proposti come oggetto della umana profonda rassicurazione sulla propria dignità e sull’essere amato suggerita dal dottor Conversi (comunicazione personale 2016) come  scopo profondo di tutte le terapie. Ammesso che essere “amabile” una volta eliminato l’equivoco con “essere amato” (che tuttavia presumiamo esserne la causa) sembra essere la percezione di sé come  interessante e appetibile per l’altro, meno chiaro è l’altro termine.

Di “dignità” sono pieni i giornali, gli appelli del papa, le dichiarazioni dei diritti di tutti i generi ed anche io ho imparato ad usarlo, so dove ci sta bene e grossomodo significa valore ma esattamente cosa intendiamo? come la si perde? e come si può incrementare? Non può essere semplicemente qualcosa di superficiale come il “decoro” ma ne sta al confine. Insomma colleghi uno scatto di dignità e definiamolo operativamente.

In sintesi si può dire che “attraverso una relazione umana profondamente rassicurante sulla propria amabilità e dignità si può: lasciare il proprio falso Sé e disappannare il proprio punto cieco, ragionare senza troppi bias e incrementare la metacognizione

Immaginiamo che in principio ci sia il sé autentico (SA) e che questo sperimenti di non essere amato e di non valere (ciò rimanda alla pippa suprema, la madre di tutte le seghe mentali, ne abbiamo accennato all’ultimo incontro, Dio mi perdoni! se il valore sia importante per essere amato o, piuttosto, l’essere amato come prova del proprio valore: siccome questa storia non si striga granché, né teoricamente né per me personalmente, in quanto alcune volte mi sembra in un modo, altre in quello esattamente opposto, come quelle figure care alla gestalt,  la lascerei così, concludendo che valore ed essere amato sono due scopi terminali indispensabili per la sopravvivenza). Se il SA sperimenta di non essere amato per cercare di esserlo si scinde  in due:

  • Un sé sommerso (SS) o ombra che racchiude tutto ciò che non si vuole essere (gli antiscopi identitari).
  • Un sé ideale o IO  che ne costituisce l’opposto (gli scopi identitari).

Il falso sé è la narrazione interiore da un lato e la recita sociale dall’altro, ciò che si fa per credersi IO di valore e amabile. Queste operazioni di autoinganno e camuffamento ancorché faticose e costose fanno sperimentare interiormente un senso di impostura o bluff e danno agli osservatori un senso di inautenticità.

La psicoterapia attraverso una relazione correttiva che come dice San Paolo nell’inno all’amore “tutto comprende, tutto accetta, tutto giustifica, tutto scusa, tutto ama”  ( credo sia più o meno la relazione compassionevole di Gilbert) permette una integrazione dell’ombra e dell’Io in un nuovo sé autentico.

Un ulteriore passo potrebbe essere definire come mappare l’IO e l’Ombra.

Faccio alcune osservazioni così un tanto al chilo: l’Io è il punto di vista dal quale parliamo. Il Pulpito da cui proviene la predica che è, appunto la narrazione del falso sé. Per scoprirlo basta chiedere al soggetto “come è”. Sembrerebbe più preciso chiedere “come vorrebbe essere” ma in realtà lui non si accorge, appunto, della differenza, ci crede davvero.

Altro elemento è che rispetto a quel modello di persona è completamente acritico e ritiene che quelle caratteristiche siano il bene assoluto in modo autoevidente e non necessitino di spiegazioni. Stessa acriticità e autoevidenza la mostra verso le caratteristiche opposte che rappresentano l’Ombra e in genere attribuisce agli altri che considera nemici. Nel caso, anche solo per scherzo, quest’ultime vengano riferite a lui perde ogni forma di autoironia, al punto che si potrebbe elaborare un test fatto di battute chiedendo quali non lo fanno ridere e trova stupide: segnalano i confini dell’ombra.

L’Io è la voce narrante fuori campo, il sé mnemonico semantico che ci racconta chi siamo e le cui belle storie ci aiutano ad addormentarci anche quando sappiamo che non la racconta giusta, e tanto meno tutta.

L’ombra, attenzione, non è quello che non ci piace essere, gli aspetti di noi che critichiamo. A ciò abbiamo ampio accesso cosciente, ce lo diciamo ogni giorno nei rimproveri che ci muoviamo, ed anzi, avere una serie di cose che non si vuole essere non è altro che un ulteriore sostegno e conferma dell’Io “sono talmente così che non vorrei assolutamente essere così e mi sforzo continuamente di non esserlo”.  Insomma l’Ombra è una cosa seria. Per dirla in termini religiosi non è un peccatore per quanto incallito ma Lucifero in persona con coda e zoccoli regolamentari.

Per questo la sua integrazione con l’Io nel rinnovato sé autentico attuabile all’interno di una relazione compassionevole ha più a che vedere con una conversione e la creazione di un “Uomo nuovo” piuttosto che con quello che normalmente si intende per guarigione.

 

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Web delle mie brame: social network, insoddisfazione corporea e disturbi alimentari

Talune ricerche hanno sostenuto l’associazione tra l’uso di social network, l’ insoddisfazione corporea e i disturbi alimentari. Più in generale, hanno evidenziato l’attenzione sociale centrata sulla magrezza e sulla muscolosità, e su come gli ambienti, reali o virtuali, che enfatizzano l’apparenza possano aumentare il rischio di incombere in tali preoccupazioni.

Luisa Resta – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva di Firenze

 

La ricerca sulle implicazioni psicologiche dell’uso e dell’esposizione ai social network è un’area relativamente nuova della ricerca che prende avvio in tempi abbastanza recenti, e, nello specifico, si è interessata all’influenza dei social sull’immagine corporea e sui disturbi alimentari.

 

L’ insoddisfazione corporea: l’influenza dei Social Network

Spesso, a un primo approccio con le problematiche dell’immagine corporea e a causa di un’eccessiva semplificazione dovuta al filtro dei mezzi di comunicazione di massa, si tende a far coincidere il concetto di immagine corporea con quello dell’apparenza fisica, dell’esser belli o attraenti.

Grogan (2008) ha definito l’immagine corporea come quell’insieme di percezioni, pensieri ed emozioni che una persona esperisce riguardo al suo corpo. Ma non sempre tali percezioni sul proprio corpo hanno un’accezione positiva, né tantomeno coincidono con la forma corporea ideale a livello soggettivo: si parla in tal senso di insoddisfazione per l’immagine corporea. Tale insoddisfazione rappresenta uno dei maggiori fattori di rischio e di mantenimento dei disturbi legati all’immagine corporea e all’alimentazione (Thompson et al., 1999).

All’origine di tale insoddisfazione corporea, si ritrova molto spesso l’influenza dell’uso dei social network (Facebook, Instagram, Twitter, MySpace) che consentono ai loro utenti di crearsi dei profili online, pubblici o privati, che possono essere usati per sviluppare relazioni, interagire con altri utenti online ma soprattutto di mettersi in mostra in una vetrina cui tutti hanno libero accesso.

L’uso dei social è largamente diffuso tra adolescenti: in Europa circa il 70% degli adolescenti tra i 14 e i 17 anni ne fa uso, e tra questi, il 40% trascorre almeno 2 ore al giorno online (Tsitsika et al., 2014 ). I siti social sono costituiti dai profili personali degli utenti che vengono “personalizzati” tramite descrizioni e foto; inoltre, gli utenti possono guardare voyeuristicamente e commentare le presentazioni degli altri iscritti, e a loro volta leggere i commenti degli amici virtuali sulla propria pagina.

Taluni filoni di ricerche, sia di tipo correlazionale che sperimentale,  hanno sostenuto l’associazione tra l’esposizione ai media, l’ insoddisfazione corporea e i disturbi alimentari in campioni femminili. Più in generale, i modelli eziologici sulle preoccupazioni legate all’immagine corporea e all’alimentazione hanno evidenziato l’attenzione sociale centrata sulla magrezza e sulla muscolosità, e su come gli ambienti, reali o virtuali, che enfatizzano l’apparenza possano aumentare il rischio di incombere in tali preoccupazioni ( Thompson et al., 1999; Madden et al., 2013).

Tra i modelli socioculturali tramite cui è stata indagata l’immagine corporea vi è il modello di influenza tripartito dell’immagine corporea (Thompson et al., 2012). Esso descrive come una varietà di canali socioculturali, in particolar modo i genitori, i pari, e i mass media, trasmettono ideali di bellezza agli individui. Di conseguenza, gli individui interiorizzano tali ideali e, quando la loro apparenza non corrisponde a tali stereotipi, si sentono poco soddisfatti del loro aspetto esteriore e sperimentano insoddisfazione corporea.

 

Uso di social network e insoddisfazione corporea negli adolescenti

Dalle  ricerche che hanno indagato il ruolo esercitato dall’influenza di fonti primarie, quali i media e i pari (Keery et al., 2004), sui livelli di insoddisfazione corporea, è emerso che i soggetti più sensibili a queste influenze sembrano essere gli adolescenti, nei quali l’esposizione a modelli di bellezza ideale sembra predire alti livelli di insoddisfazione corporea (Knauss et al., 2007).

De Vries (2016), in uno studio longitudinale su un campione di adolescenti olandesi di età compresa tra gli 11 e i 18 anni, ha approfondito la relazione tra l’uso dei social network e l’ insoddisfazione corporea, suggerendo che i social network costituiscono un ulteriore canale socioculturale che influenza l’immagine corporea degli adolescenti; infatti maggiore è il suo utilizzo, maggiore risulta l’ insoddisfazione corporea tra gli adolescenti, sia nei maschi che nelle femmine.

Tra i meccanismi attraverso cui l’uso dei social ha un impatto sulle preoccupazioni legate all’immagine corporea e all’alimentazione vi è il confronto sociale, come emerge dallo studio di Smith et al., (2013). I ricercatori hanno evidenziato come l’uso disadattivo dei social (inteso come l’utilizzo della piattaforma social allo scopo di operare confronti sociali o auto-valutazioni negative) porti ad un aumento dei sintomi bulimici ed episodi di abbuffate, e che tale relazione è mediata dall’ insoddisfazione corporea, che emerge soprattutto quando gli utenti effettuano confronti con le foto dei coetanei, in particolare quelli magri e attraenti (Rodgers & Melioli, 2016).

Fox & Rooney (2015 ), in una ricerca  online  condotta su un campione di 800 maschi americani, con un’età compresa tra i 18 e i 40 anni, hanno esaminato la cosiddetta triade nera (narcisismo, machiavellismo e psicopatia) e l’auto-oggettificazione (intesa come la costruzione sociale del corpo come oggetto, da guardare e valutare in base all’aspetto esteriore) come predittori dell’uso dei social:  l’auto-oggettificazione e i tratti di personalità narcisistica predicevano il tempo trascorso su tali siti. Nello specifico, il narcisismo e la psicopatia predicevano il numero di selfies postati, mentre il narcisismo e l’auto-oggettificazione predicevano il tempo dedicato alla pubblicazione di foto sul social network.

 

I commenti negativi sui social: quale effetto sull’immagine corporea?

L’interesse dei ricercatori si è concentrato anche sui commenti negativi che si ricevono sui social. In uno studio dai contorni innovativi, i ricercatori hanno codificato gli aggiornamenti di stato su facebook dei partecipanti per un periodo di 31 giorni, come pure le altre risposte degli utenti a tali aggiornamenti. I risultati hanno rivelato che la ricezione di commenti negativi in risposta ad aggiornamenti di status è stata associata con livelli più elevati di preoccupazioni riguardanti il peso, la forma e l’alimentazione (Hummel e Smith, 2015). Inoltre, gli individui che tendevano a cercare un feedback su Facebook, ma hanno ricevuto feedback negativi, riportavano livelli più alti di ristrettezze dietetiche.

In uno studio svedese, il cyberbullismo, considerato tra le tipologie più pericolose di commenti negativi, era associato con un basso livello di autostima, in un campione di oltre 1000 bambini e adolescenti di età compresa tra i 10, 12 e i 15 anni (Frisen et al., 2014). Inoltre, la ricezione di feedback negativi da parte degli altri sui social era correlata con un alto livello di preoccupazioni relative all’immagine corporea e all’alimentazione.

 

L’impatto dei siti pro-ana sull’immagine corporea

Per quanto riguarda la relazione tra l’esposizione ai siti a favore dei disturbi alimentari e le preoccupazioni  per l’immagine del corpo e l’alimentazione, in uno studio pilota condotto su un campione di adolescenti di età compresa tra i 13, 15 e i 17 anni, è stato trovato che il visitare siti web pro-anoressia (pro-ana) era associato con un’alta spinta alla magrezza, all’ insoddisfazione corporea e al perfezionismo ( Custers e Van den Bulck, 2009).

Tra le ragazze del college, l’esposizione a siti pro ana è stata associata ad una diminuzione del consumo calorico durante la settimana successiva all’esposizione ( Jett et al . 2010), e a maggiori livelli di insoddisfazione corporea, spinta alla magrezza e sintomi bulimici (Harper et al., 2008). L’interiorizzazione dei messaggi pro-anoressia correla con la spinta alla magrezza e alla muscolosità a prescindere dal genere (Juarez et al . 2012); inoltre, ad un frequente ricorso a tali siti corrispondono livelli maggiori di disturbi alimentari (Peebles et. al, 2012).

Gli studi  incentrati sui social media hanno evidenziato il ruolo del confronto basato sull’apparenza come un meccanismo critico che rende maggiormente complessa la relazione tra social e le preoccupazioni legate all’immagine corporea e al cibo. L’esplorazione di pagine internet a favore dei disturbi alimentari richiama l’idea più ampia di “identità di gruppo”, mettendo in evidenza come questi gruppi online sviluppino un’identità comune, rafforzata dall’ostilità nei confronti degli outgroup, e la fornitura di sostegno sociale per i membri interni al gruppo (Wooldridge et al . 2014).

Tale identità si rafforza attraverso la normalizzazione delle condotte e dei pensieri riferiti al disturbo alimentare, laddove l’anoressia e la bulimia vengono raffigurate come consapevoli e libere scelte di vita (Rodgers et al., 2013), che nella pratica potrebbero favorire o mantenere il disturbo alimentare stesso. Pertanto, il modello dell’ identità sociale può essere utile per una migliore comprensione del modo in cui gli adolescenti utilizzano Internet e dei processi legati allo sviluppo dell’immagine del corpo.

 

L’esposizione a Facebook e gli effetti sull’ insoddisfazione corporea

Ulteriori dati sperimentali sembrano supportare la relazione tra l’esposizione a Facebook e le preoccupazioni sulla forma corporea e l’alimentazione. Ad esempio, in letteratura si ritrovano studi sperimentali sugli effetti dell’esposizione ai contenuti di facebook (reali o artefatti), rispetto a siti web più neutri. In un campione inglese di giovanissime, si è visto che bastavano 10 minuti di consultazione per peggiorare il tono dell’umore, rispetto a quanto accadeva dopo aver visitato altri siti web a contenuto “neutro” (Fardouly et al., 2015). Nello specifico,  tale studio ha evidenziato come l’esposizione a Facebook possa aumentare le preoccupazioni relative all’avere o meno un viso attraente, rispetto al peso e alla forma corporei.

Un anno prima, Mabe et al. (2014) avevano notato, in un campione di studentesse americane, che quelle assegnate alla condizione sperimentale che prevedeva la visione del proprio profilo, in confronto ad una pagina web neutra, mantenevano i livelli iniziali di preoccupazione sul peso e la forma del corpo, mentre quelle assegnate alla condizione che prevedeva un confronto con uno stimolo attivante (es. profilo di un ipotetico utente più attraente) riportavano risultati peggiori al post test.

Paradossalmente, accanto ad un’esposizione massiva di corpi snelli, muscolosi, tonici, veicolati tramite i canali social, si assiste al fenomeno opposto ovvero l’evitamento di esporsi pubblicamente. Questo lato oscuro del web potrebbe celare un disagio più profondo, una grave insoddisfazione corporea e un profondo senso di vergogna, nonché valutazioni negative sul proprio aspetto e tratti di personalità socialmente ansiosa (Rodgers et al., 2015), che portano gli utenti a rimanere nascosti dietro le “quinte”.

Sebbene si possa affermare che i dati sperimentali esistenti sono a sostegno dell’esistenza di una relazione tra Internet, l’ insoddisfazione corporea e le preoccupazioni relative al cibo, è auspicabile che la ricerca continui a interessarsi e ad esplorare i molteplici lati del web, in particolar modo dei social e dei loro meccanismi d’azione sull’ immagine corporea, per contribuire a rendere l’universo online uno spazio con un’accezione prevalentemente positiva.

Stress e problemi cardiaci nelle donne

Molte donne tendono a sovraccaricarsi eccessivamente di stress, in quanto, dovendosi occupare di tutti coloro che stanno attorno a loro, cercano di rendere perfetta ogni cosa. Questo può causare stress e ansia elevati che a loro volta possono portare a gravi problemi cardiaci.

 

Stress e attacchi cardiaci: la relazione presente nelle donne

La Dr.ssa Karla Kurrelmeyer, afferma che alcune donne tendono ad ignorare i primi sintomi di un attacco di cuore.

Durante un attacco di cuore in molti sperimentano gli stessi sintomi, quali dolori al petto, mancanza di respiro ecc., sintomi diversi invece si provano per gli attacchi cardiaci silenziati, in questi casi si hanno sintomi semplici, quasi quotidiani, come una indigestione, sintomi simil-influenzali o semplici dolori alla schiena. Secondo la Dr.ssa Kurrelmeyer, è importante tener presente ogni singolo sintomo sopracitato per evitare danni permanenti. Ignorare i sintomi può essere fatale.

La Dr.ssa Kurrelmeyer afferma che la cardiomiopatia indotta dallo stress, nelle donne, è più frequente in prossimità delle festività. Ciò si verifica quando le donne sono sotto stress per un periodo di tempo breve ma intenso e questo stress si aggiunge a quello di un altro evento traumatico come un lutto in famiglia, un incidente stradale, perdita di denaro, ecc.

La cardiomiopatia indotta da stress è un indebolimento del ventricolo sinistro, ovvero la camera principale che pompa il sangue nel cuore. È causata dal rilascio di ormoni dello stress che mandano in shock il cuore, causando a loro volta dei cambiamenti nella muscolatura del cuore, che saranno poi la causa del mal funzionamento del ventricolo sinistro. La maggior parte delle persone affette da questa condizione sono donne con una età compresa tra i 50 e 70 anni.

Quando qualcuno vive in questa condizione, nella maggior parte dei casi viene trattata con i farmaci beta-bloccanti o ACE-inibitori. L’importante, se si presentano tutti quei sintomi, è sottoporsi a un ecocardiogramma il più presto possibile.

La Dr. Kurrelmeyer dice che molto spesso nelle donne vi è un picco della pressione sanguigna durante le vacanze e che, molto spesso arrivano in pronto soccorso con dolori al petto o palpitazioni e nei casi più gravi, corrono il rischio di un ictus. Inoltre, se in una donna vi è una storia di alta pressione sanguigna è importante monitorarla da vicino e costantemente, soprattutto in quei momenti in cui il livello di stress aumenta.

 

I sintomi più frequenti di problemi cardiaci nelle donne

Di solito, i problemi di cuore nelle donne sono riconoscibili come negli uomini. Alcuni dei sintomi per le donne includono:

– Estrema debolezza, ansia o mancanza di respiro

– Disagio, pesantezza o dolore al torace, al braccio, sotto lo sterno o nel mezzo della schiena

– Sudorazione, nausea, vomito, vertigini

– Pienezza, indigestione

– Battito cardiaco accelerato o irregolare

Secondo la Dr.ssa Kurrelmeyer è importante prendersi del tempo per se stessi durante le vacanze e fare tutto quello che possa in qualche modo alleviare lo stress. L’attività fisica, lo yoga, la meditazione, passeggiate nella natura o tutto ciò che serve o che può essere utile alla persona.

La vacanza deve essere un momento di relax da trascorrere in famiglia e in tranquillità e non con i medici al pronto soccorso per problemi cardiaci.

 

Peaceful Mind & co: protocolli CBT per il trattamento dell’ansia nella persona con demenza

La persona con demenza manifesta vissuti di confusione e disorientamento che inducono in loro un senso di vulnerabilità, infatti all’incirca tre malati su quattro sperimentano sintomi di ansia e, tra questi, uno su cinque presenta disturbi d’ansia significativi

Elena Lo Sterzo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

La demenza è al giorno d’oggi una delle più significative problematiche emergenti di salute globale. Le prospettive epidemiologiche prevedono un aumento esponenziale di nuove diagnosi (è stato stimato un raddoppiamento ogni 20 anni), e la stima per l’anno 2030 è che all’incirca 65.7 milioni avranno la demenza (Prince et al., 2013).

Grazie allo sviluppo di metodiche di indagine avanzate e, conseguentemente, alla possibilità di effettuare diagnosi di demenza più precoci, aumenta la necessità di interventi terapeutici che permettano alle persone con questa sindrome e ai loro familiari/caregiver di affrontare al meglio le sfide psicologiche e pratiche associate alla malattia.

 

Il trattamento della persona con demenza: oltre i farmaci

Dal momento che i trattamenti farmacologici attualmente disponibili sono esclusivamente sintomatologici, ed hanno oltretutto risultati limitati e di breve durata (Birks, 2006), c’è un crescente interesse agli approcci psicosociali di supporto alle persone con demenza ed alle loro famiglie, allo scopo di stabilizzare il benessere soggettivo e, qualora possibile, rallentare la progressione della malattia. In base alle evidenze di applicazione su altre malattie degenerative (Dennison & Moss-Morris, 2010), gli interventi psicoterapeutici che includono l’abilità di elaborare la perdita di funzione cognitiva e la depressione concomitante sembrano essere promettenti.

La ricerca sui trattamenti psicologici per le persone con demenza di Alzheimer (AD) di grado lieve e moderato ha evidenziato che, in particolare, tre tipologie di intervento si sono dimostrate più efficaci: 1) la riabilitazione cognitiva, con effetti benefici sulla memoria e l’umore (Wilson, 2002), 2) la terapia della reminiscenza, che riduce la depressione e migliora il benessere e la memoria autobiografica (Cotelli et al., 2012) e 3) la terapia cognitivo-comportamentale, che riduce significativamente la depressione in persone con AD lieve che vivono a casa con i caregiver (Teri et al., 1997).

A causa dell’ampio spettro di deficit cognitivi, comportamentali e di disturbi dell’umore, le revisioni sistematiche sui trattamenti per persone con AD hanno indicato che gli interventi devono essere “tagliati” sulle necessità individuali del paziente (Brodaty & Burns, 2012) e devono prevedere un piano di trattamento multimodale (Carrion et al., 2013). Un elemento di cruciale importanza per l’efficacia del trattamento, che emerge da tutti gli studi citati, è il coinvolgimento del caregiver.

 

L’ansia nella persona con demenza

La persona con demenza manifesta vissuti di confusione e disorientamento che inducono in loro un senso di vulnerabilità, infatti all’incirca tre malati su quattro sperimentano sintomi di ansia, e, tra questi, uno su cinque presenta disturbi d’ansia significativi (Seignourel et al., 2008). Le tematiche ansiose riferite dalle persone con demenza riguardano spesso la reazione degli altri alla diagnosi di demenza, il timore di perdere la memoria ed altre abilità, e le preoccupazioni legate al fatto di diventare un “peso” per la famiglia.

L’ansia contribuisce ad esacerbare ed amplificare le difficoltà neurocognitive, e le sue manifestazioni comportamentali, quali l’agitazione, l’evitamento ed il continuo monitoraggio possono dare l’impressione che la persona abbia deficit cognitivi più severi di quelli che avrebbe senza questi fattori psicologici. A causa della limitata efficacia e degli importanti effetti collaterali dei trattamenti farmacologici per l’ansia (tra cui depressione e deterioramento cognitivo), sono necessarie delle alternative di trattamento psicologico per i sintomi ansiosi: una crescente mole di studi evidence-based  evidenzia che le persona con demenza può imparare e sviluppare nuove abilità, anche quando hanno deficit cognitivi di grado moderato (Spector et al. 2003).

 

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) per il trattamento dell’ansia nella persona con demenza

La terapia cognitivo comportamentale (CBT) è il trattamento di prima scelta per l’ansia nella popolazione generale adulta e anziana. I primi studi controllati randomizzati sul trattamento CBT nelle persone con demenza che presentano sintomi di ansia evidenziano l’applicabilità e l’efficacia di tale intervento anche in questa popolazione (Stanley et al., 2013).

L’approccio CBT presentato nello studio di Charleswort e colleghi del 2015 segue la tradizione degli interventi basati sulla concettualizzazione del modello cognitivo classico di Beck e Clark (1997) per l’ansia generalizzata. Tale modello enfatizza la triade cognitiva di credenze tipiche dell’ansia, ovvero il senso di sé come vulnerabile, il mondo come caotico e il futuro come incerto. Lo scopo della terapia basata su questo modello è la riduzione dell’ansia attraverso la ricerca di alternative ai comportamenti di evitamento e l’aumento delle sensazioni di sicurezza e autoefficacia.

I criteri di inclusione dei soggetti in questo studio sono stati: risiedere a casa (non in strutture), avere una diagnosi da lieve a moderata, presentare livelli clinici di ansia, con o senza sintomi depressivi in comorbidità. I criteri di inclusione richiedevano anche che il soggetto avesse la volontà di partecipare ad una terapia che prevede la discussione su pensieri ed emozioni, e la presenza e disponibilità di un familiare a partecipare al trattamento come caregiver/persona di supporto. Venivano esclusi i partecipanti con sintomi psicotici, disturbi dell’apprendimento congeniti o comportamenti disfunzionali che avrebbero impedito un coinvolgimento proficuo nel trattamento.

La terapia proposta in questo studio prevedeva tre fasi, sviluppate nell’ambito di 10 incontri a cadenza settimanale. Nell’ambito di un trattamento breve e limitato nel tempo, il terapeuta può sentire la pressione di dover completare il protocollo, tuttavia, specialmente con questa tipologia di pazienti, è fondamentale tenere a mente il principio “less is more”: la quantità di materiale presentato e discusso in ogni sessione dev’essere in linea con le abilità del paziente, e un’adeguata quantità di tempo dev’essere dedicata alla ripetizione e al riassunto degli aspetti affrontati. Lo stile di trattamento deve avere, in linea con l’approccio CBT, il carattere di collaborazione e adattamento delle tempistiche al paziente, un agenda di attività centrata sulla persona, e l’attribuzione di compiti a casa.

  • Fase uno: socializzazione al modello, gestione/superamento degli ostacoli alla partecipazione, condivisione degli obiettivi e della formulazione

Come in ogni protocollo CBT, le prime sessioni prevedono la costruzione di una buona alleanza terapeutica, la socializzazione col modello cognitivo, l’elucidazione delle potenziali difficoltà e la determinazione di obiettivi. Per tutti gli elementi della terapia, è importante fornire materiale scritto di supporto alle conversazioni durante la terapia. In aggiunta alla classica psicoeducazione sull’ansia, che prevede ad esempio l’introduzione ai meccanismi “fight or flight”, altri argomenti da affrontare sono i circoli viziosi di mantenimento della preoccupazione e dei problemi di memoria.

E’ necessario individuare le principali aree di preoccupazione del paziente e del caregiver e il grado in cui le abilità del paziente sono compatibili con quelle considerate necessarie per l’appropriatezza della CBT a breve termine. E’ infatti importante determinare quali abilità preliminari alla terapia necessitano di essere sviluppate prima di svolgere un lavoro cognitivo vero e proprio. Pochissime persone che hanno una comorbidità di demenza e ansia sono in grado di accedere ai pensieri automatici, hanno consapevolezza delle emozioni e l’abilità di etichettarle correttamente, hanno la capacità di notare le fluttuazioni  nelle emozioni, focalizzare, stabilire dei collegamenti e generalizzare i concetti. Inoltre, è facile che la persona con demenza non utilizzi un linguaggio psicologico o emotivo per esprimere le loro difficoltà, ma piuttosto fisico o comportamentale (malessere, irrequietezza, apatia). E’ molto utile identificare le rappresentazioni di malattia del paziente e del caregiver poiché ciò aiuta nella comprensione delle reazioni emotive alla demenza, delle abilità percepite di fronteggiare la malattia, e della capacità di distinguere i concetti di ansia e di demenza. I pazienti che sono in grado di distinguere tra i sintomi attribuibili ai deficit di memoria e quelli dovuti all’ansia saranno in grado di effettuare dei cambiamenti più rapidamente.

E’ di fondamentale importanza adattare la terapia alla presenza di eventuali deficit sensoriali (utilizzando ad esempio caratteri di scrittura grandi e chiari), ai problemi di mobilità (pensando all’organizzazione dei trasporti e prevedendo eventualmente visite a casa), alle difficoltà legate alla salute fisica (consentendo ad esempio alle persone con dolore cronico di avere momenti per muoversi durante la terapia), e alle differenze inter-gruppo  di familiarità con i costrutti psicologici e con i processi terapeutici (prevedendo ad esempio una fase di socializzazione alla terapia più ampia, con l’utilizzo delle parole del paziente stesso minimizzando il lessico “psicologhese”).

Le strategie per rendere il trattamento compatibile coi deficit neurocognitivi della demenza variano in base al profilo cognitivo individuale: ad esempio persone con demenza di Alzheimer presenteranno probabilmente deficit di memoria a breve termine e difficoltà a imparare materiale nuovo, mentre le persone con demenza vascolare avranno probabilmente una riduzione della velocità di elaborazione delle informazioni, mentre quelli con demenza fronto-temporale presentano tipicamente deficit nelle funzioni esecutive (come ad esempio difficoltà nella pianificazione, nell’organizzazione e nell’utilizzo di feedback).

La CBT standard prevede delle procedure che di per sé supportano la codifica e la ritenzione delle informazioni. Ad esempio, è molto utile dare al paziente, almeno ogni 10 minuti, brevi riassunti dei concetti presentati e chiarimenti dei nuovi elementi introdotti. E’ anche importante elicitare un feedback dal paziente, in modo da capire se il paziente ha avuto una buona comprensione delle informazioni discusse, e se esse hanno eventualmente attivato vissuti emotivi negativi nella persona. Non c’è una struttura rigida per quanto riguarda i compiti a casa, le linee guida generali da seguire sono che essi riguardino l’argomento trattato nella seduta e che siano utili per raggiungere gli obbiettivi terapeutici generali del paziente.

La concettualizzazione condivisa, che dev’essere il più possibile sintetica e semplice e con un numero di elementi che non ecceda la limitata capacità della memoria di lavoro della persona, può essere utilizzata come stimolo di memoria, per ricordare al paziente il piano di azione stabilito congiuntamente.

Il focus della terapia è il trattamento dell’ansia dalla prospettiva del paziente. Idealmente, il ruolo del caregiver è quello di fornire “appigli” e indizi di memoria  per aiutare il paziente a generalizzare il lavoro fatto in terapia alla vita quotidiana. E’ importante a questo scopo che il familiare comprenda e  concordi con il razionale cognitivo dell’intervento. Il terapeuta potrebbe accorgersi del fatto che la persona con demenza non è consapevole né riconosce i suoi vissuti di ansia come tali e, in tal caso, può essere utile identificare i punti di accordo e quelli di differenza tra il punto di vista della persona con demenza e quello del suo familiare/caregiver.

E’ importante “allenare” il paziente ad espandere il vocabolario emotivo e a differenziare tra pensieri, sensazioni fisiche ed emozioni. La consapevolezza di questi aspetti può essere incrementata attraverso semplici strumenti psicoeducativi di individuazione delle relazioni tra pensieri, emozioni e comportamenti, tramite domande del terapeuta che stimolino la curiosità e la riflessione, e piccoli esercizi di automonitoraggio sia durante la sessione, che a casa, come ad esempio compiti di osservazione, o il diario dei pensieri.  Il processo di automonitoraggio può facilitare l’abilità di assumere una distanza critica dal problema dell’ansia, introducendo una separazione tra la persona e la sua ansia.

Il principio cardine della CBT della formulazione condivisa degli scopi della terapia dev’essere senz’altro rispettato anche nel caso della sua applicazione alla persona con demenza, con la possibilità in questo caso di coinvolgere nella formulazione anche il caregiver. E’ necessario porre attenzione alle eventuali aspettative e credenze irrealistiche sulla cura, come ad esempio che la demenza possa essere curata o fermata: in tal caso bisogna aumentare la consapevolezza del paziente che il target del trattamento è l’ansia, e non i problemi di memoria. Dal momento che, tuttavia, c’è spesso una sovrapposizione tra i sintomi di ansia e i sintomi della demenza, è utile in questa fase discutere dell’influenza importante che ha l’ansia sui problemi di memoria (e, di conseguenza, come il trattamento dell’ansia possa essere utile per gestire meglio le difficoltà mnestiche)

  • Fase 2: processi di cambiamento orientati allo scopo (indicativamente sedute dalla 3 alla 9)

1) Affrontare le reazioni autonomiche: lo scopo di questo modulo è di influenzare in maniera diretta la sensazioni di agitazione, percepite a livello viscerale, di cui fa esperienza la persona con demenza. Trattando le reazioni autonomiche è anche possibile ridurre il senso di vulnerabilità, aumentare il senso di autoefficacia nel controllo di tali reazioni ed aumentare la consapevolezza che i sintomi ansiosi siano separabili dai sintomi della demenza.

Oltre agli aspetti fisiologici dell’ansia è importante tener conto dei sintomi comportamentali (tra cui ad esempio l’aggressività e l’irritabilità), che possono essere letti come una reazione alla sensazione di essere fuori controllo, vulnerabili e ansiosi circa il futuro, essere spaventati dalle richieste che vengono loro fatte. La persona con demenza potrebbe pensare che i suoi comportamenti non abbiano una connessione con i vissuti ansiosi, o potrebbero non essere consapevoli dei loro sintomi comportamentali. Perciò il terapeuta, il paziente ed il caregiver devono lavorare collaborativamente per fare un’analisi funzionale di questi comportamenti per mettere in luce come l’ansia sia la causa e la spiegazione più appropriata di essi.

Le strategie per affrontare le reazioni autonomiche includono la psicoeducazione sulle manifestazioni fisiche e comportamentali dell’ansia, il rilassamento muscolare progressivo, l’identificazione e la messa in pratica di strategie per “sentirsi al sicuro” come ad esempio adattamenti ambientali, la creazione ed il mantenimento di routine, provare nuovi modi per aumentare la percezione di controllo, utilizzare degli stimoli visivi come dei biglietti con i “pensieri tranquillizzanti”. Alcune persone con demenza possono anche beneficiare di training di spostamento dell’attenzione e “consapevolezza mindful”.

2) Affrontare le reazioni strategiche alla minaccia percepita: le possibili minacce percepite dalla persona con demenza sono la diagnosi di una malattia terminale, l’insorgenza di menomazioni fisiche e cognitive e le preoccupazioni interpersonali e sociali. Le reazioni messe in atto per gestire queste paure sono ad esempio i tentativi di evitare o scappare da situazioni potenzialmente ansiogene, l’ipervigilanza agli indizi di pericolo e lo sviluppo di “comportamenti di sicurezza”. E’ importante comprendere i significati personali che sottostanno ai pensieri automatici negativi realistici, e poi mettere indurre la persona a mettere in atto strategie pragmatiche (più che di rilettura cognitiva), come ad esempio la distrazione da una ruminazione eccessiva, l’incoraggiamento di espressioni emotive e l’utilizzo della programmazione della attività per aumentare il controllo percepito.

3) Abbandonare i comportamenti di sicurezza e acquisire strategie di fronteggiamento utili. Alcune delle strategie comuni di fronteggiamento non sono utili poiché contribuiscono al mantenimento dell’ansia: evitare situazioni temute riduce l’ansia nell’immediato ma non permette alla persona di disconfermare le credenze ansiogene.

E’ importante innanzitutto identificare il significato e la funzione di un determinato comportamento, e poi chiedersi se la conseguenza temuta è basata su un’ erronea interpretazione catastrofica o su una reale possibilità che accada una catastrofe. Quando c’è una credenza erronea riguardo ad un potenziale catastrofe è utile intervenire per ridurre l’intensità con cui una persona crede alla possibilità che l’esito temuto si verifichi e potenziare invece la fiducia in un punto di vista alternativo.

Quando invece l’evento temuto potrebbe effettivamente accadere, è più efficacie lavorare su abilità di problem solving allo scopo di incrementare il senso di autoefficacia nel gestire la situazione. Ad esempio, se una persona con demenza evita di incontrare un amico, le strategie per affrontare la sua paura e l’evitamento saranno diverse a seconda che la preoccupazione principale sottostante sia “gli amici penseranno male di me quando verranno a sapere della mia diagnosi di demenza, oppure “potrei perdermi nel percorso per andare ad incontrarlo”. Nel primo caso, la persona non ha mai avuto l’opportunità di scoprire come gli amici effettivamente potrebbero reagire e perciò continua a convivere con un’ansia probabilmente non necessaria. Nel secondo caso invece potrebbero essere suggerite delle strategie pratiche per non perdersi durante il percorso oppure ipotizzare uno o più piani di azione nel caso si perda.

4) Aspetti interpersonali. La diagnosi di demenza ha un impatto importante anche sul sistema familiare in cui la persona è inserita. Sottolineare al paziente a al familiare le differenze nelle percezioni e nelle valutazioni di malattia facilita aiuta entrambi a “mettersi nei panni dell’altro”. Quando l’ansia sembra essere associata al significato della diagnosi o alla valutazione della prognosi, è utile esplorare il significato soggettivo e sociale della demenza, incluse le credenze ed i miti legati all’invecchiamento e alla demenza come “minaccia al sé”.

Ascoltare il punto di vista dell’altro e le sue reazioni emotive può ridefinire una relazione in cui si erano affermati cicli interpersonali dannosi come quello dell’ “attacco-attacco”, “Attacco-difesa” o “difesa-difesa”. Le domande di scoperta guidata possono facilitare la comunicazione, come ad esempio: “Cosa si prova ad avere la demenza?”, “Come ti senti quando il tuo familiare ti dice questo?” L’intervento può includere in questo caso la facilitazione del processo di negoziazione di significati e di compromessi riguardo a come ogni componente vorrebbe trattare l’altro, come vorrebbe essere trattato a sua volta, e rafforzare le due parti nel ruolo comune di alleate contro la demenza, piuttosto che l’una contro l’altra. E’ di fondamentale importanza qui esternalizzare la demenza dalla persona, differenziarla, per evitare che si crei l’identità tra i sintomi della demenza e la persona nella sua interezza.

  • Nella fase conclusiva (che dovrebbe occupare indicativamente le sedute dalla 8 alla 10), vengono  pensate e condivise delle modalità pratiche per mantenere le abilità acquisite, integrarle e generalizzarle  al meglio nella quotidianità.

Paukert e colleghi hanno sviluppato nel 2013 un protocollo di trattamento per i sintomi di ansia nelle persone con demenza, simile a quello sopra citato, chiamato “Peaceful Mind”, che in uno studio pilota (Stanley et al., 2013) ha dimostrato un miglioramento della qualità di vita riferito dai pazienti e una diminuzione dello stress del caregiver legato ai sintomi ansiosi del paziente.

La peculiarità di questo protocollo è la sua ottica community-based, in quanto prevede che gli interventi siano effettuati al domicilio del paziente, e che, dopo una iniziale fase di trattamento (9-12 sedute settimanali) effettuata da un clinico specializzato, il percorso sia continuato dai familiari/caregiver, con una supervisione telefonica costante da parte dello psicologo.

Questa metodologia consente di fornire il trattamento ad una fetta più ampia della popolazione, in quanto può superare barriere di tipo logistico (spostamenti) ed economico. “Peaceful Mind” è un protocollo che enfatizza maggiormente gli interventi comportamentali, rispetto a quelli cognitivi: vengono insegnate strategie per aumentare la consapevolezza, regolare il respiro, utilizzare auto-istruzioni tranquillizzanti, incrementare le attività piacevoli e migliorare l’igiene del sonno. Sono stati anche creati materiali psicoeducativi molto chiari e dettagliati che illustrano le varie fasi dell’intervento e forniscono il materiale di supporto per svolgerlo a casa, reperibile (per adesso in lingua inglese) al sito http://www.mirecc.va.gov/visn16/clinicalEducationProducts.asp (sezione”Anxiety”).

Preoccuparsi troppo può compromettere il rapporto tra madri e figli

Le mamme disturbate da pensieri negativi, ripetitivi e intrusivi derivanti da problemi di vario genere rischiano di avere rapporti qualitativamente peggiori con i propri figli, come mostra una nuova ricerca condotta dai ricercatori dell’Università di Exeter (Regno Unito) pubblicata sul Journal of Child Psychology and Psychiatry.

Anche se è del tutto normale per una mamma con un figlio piccolo preoccuparsi quotidianamente di questioni pratiche o personali, quando il preoccuparsi genera pensieri negativi persistenti e opprimenti (ad esempio: “Perché non mi sento felice?”, “Perché non sono brava come le altre mamme?”), le mamme tendono ad essere meno sensibili e meno reattive nei confronti dei figli rispetto alle madri che non si preoccupano.

Lo studio

Lo studio ha voluto scoprire se gli effetti della ruminazione o dell’eccessiva preoccupazione derivante da pensieri e problemi personali fossero peggiori quando le madri mostravano in concomitanza sintomi di depressione. Tester-Jones e O’Mahen, insieme ad altri psicologi della University of Exeter, hanno valutato se la compresenza di tristezza e ansia nella madre risultasse in interazioni qualitativamente più povere con il bambino durante attività di gioco quotidiano.

Contro le aspettative, i ricercatori hanno scoperto che non importa se le madri si sentono depresse o meno: la ruminazione -definita come la presenza di pensieri ripetitivi, prolungati e ricorrenti circa le preoccupazioni su di sé e sulla propria esperienza- intacca le interazioni con il bambino a prescindere da quanto sia basso l’umore materno.

I ricercatori dell’Università di Exeter hanno osservato, separatamente, 79 madri (39 con umore deflesso e 40 del gruppo di controllo) e i relativi figli di età compresa tra i 3 mesi e 1 anno di età, i quali sono stati reclutati tra i visitatori delle comunità, i pazienti degli ambulatori medici, le partecipanti ai gruppi madre-figlio e i centri per bambini. Lo scopo, come anticipato, era quello di indagare se la ruminazione, in virtù della sua natura auto-concentrata e internalizzante, riducesse la sensibilità delle risposte materne al neonato.

Durante la ricerca, metà delle madri sono state incoraggiate a pensare in modo ripetitivo e negativo ad un problema rilevante per sè; l’altra metà, invece, è stata incoraggiata a pensare in modo mirato ad un problema importante, ma che era stato risolto. I ricercatori hanno valutato le interazioni madre-bambino prima e dopo l’attività di ruminazione. In ciascuna interazione videoregistrata sono stati valutati indicatori materni della qualità della relazione con il figlio come espressione del volto, dialoghi, linguaggio del corpo e azioni rivolte al bambino con lo scopo di valutare se il comportamento della madre fosse sensibile, controllante o non responsivo. Ad esempio, le madri che coglievano rapidamente e con precisione i segnali verbali e non verbali del bambino e rispondevano alle sue esigenze in modo adeguato sono state valutate sensibili.

Le interazioni sono state filmate sia presso l’abitazione che presso l’università in una stanza tranquilla con minime interferenze sonore. Sono stati forniti giocattoli adatti all’età del bambino, una coperta, una palla salterina e un seggiolone. Alle madri è stato chiesto di interagire con il loro bambino in modo normale non curandosi della presenza delle telecamere.

I risultati: la ruminazione compromette la relazione tra madre e bambino

La ruminazione danneggia, in modo causale, la sensibilità materna e tutte le madri indotte a ruminare sui loro problemi hanno dimostrato ridotta sensibilità verso i figli, indipendentemente dalla sintomatologia depressiva. La sensibilità materna è stata rilevata in modi diversi nelle diverse mamme. Ad esempio, alcune madri in seguito alla ruminazione avevano meno contatti visivi con il loro bambino e non lo confortavano in situazioni stressanti, alcune, invece, sceglievano un’attività da fare con il figlio che non era appropriata per la sua età oppure parlavano con il bambino utilizzando un tono di voce piatto o basso.

Conclusioni

Lo studio ha identificato stili di pensiero che contribuiscono a stili genitoriali più o meno empatici. Lo studio suggerisce che agendo sulla ruminazione si possono ridurre le interazioni potenzialmente negative con il bambino. E’ fondamentale che ci sia tra madri e figli un rapporto improntato alla sensibilità dal momento che è stato dimostrato come una scarsa qualità delle interazioni precoci tra madre e figlio possa avere un impatto negativo sullo sviluppo cognitivo e sociale del bambino, così come sulla sua capacità di interazione con i pari ed il suo benessere emotivo.

Gli effetti psicologi della disoccupazione: quando perdere il lavoro non porta solo problemi finanziari

I disturbi psichici più spesso associati alla disoccupazione sono risultati essere l’ansia e gli attacchi di panico, i disturbi del sonno, gravi forme di somatizzazione, disturbi del funzionamento sociale, stress e, soprattutto, la depressione. 

Cecilia Tardini – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena 

 

Negli ultimi anni stiamo attraversando una crisi economico-finanziaria a livello mondiale, che inevitabilmente ha colpito anche l’Italia determinando un aumento del tasso di disoccupazione che continua ancora oggi. In particolare per quanto riguarda il nostro Paese, gli ultimi dati disponibili, riferiti al mese di aprile 2016, evidenziano un tasso di disoccupazione pari all’11,7%, in aumento di 0,1 punti percentuali su marzo (fonte ISTAT periodo di riferimento aprile 2016).

Questa condizione determina prevedibili effetti economici negativi, ma già da qualche anno si sta dando sempre più spazio all’analisi degli effetti della disoccupazione sugli individui dal punto di vista professionale, personale e sociale dimostrando come questo problema agisca in modo profondo sulla vita delle persone, assumendo una connotazione anche esistenziale. Migliore (2007) ha definito in modo dettagliato le conseguenze su queste dimensioni:

  • Professionale: l’uscita dal mercato del lavoro determina una progressiva riduzione delle conoscenze e delle competenze, svalutando il lavoratore, pregiudicando, di conseguenza, la possibilità di trovare altri lavori;
  • Personale: perdita dell’autostima e senso di colpa con conseguente disagio psicologico e perdita della motivazione, che può rendere più passivi gli individui e rendere ancora più problematico il reinserimento nel mondo del lavoro;
  • Sociale: esclusione sociale, riduzione dei rapporti interpersonali, perdita dell’identità e del ruolo sociale.

Da questi dati è possibile affermare come la perdita del lavoro incida sul benessere generale degli individui modificandolo, con ripercussioni sulla salute sia fisica, che psicologica, confermando quanto già evidenziato da molti studi presenti in letteratura (Kessler et al., 1987; Ferrie et al, 2002).

 

In che modo la disoccupazione agisce sulla salute

È da notare come la relazione tra disoccupazione e salute non sia lineare, ma complessa e modulata da alcuni fattori quali la durata della disoccupazione, le caratteristiche personali del disoccupato, i contesti socioculturali in cui il fenomeno si genera e le modalità con cui una società affronta la questione. Non è quindi facile stabilire in modo chiaro un nesso causale e la direzione che assume, ma sembrano essere tre i principali meccanismi attraverso cui la disoccupazione agisce sulla salute (Costa et al., 2004):

  • La povertà, per cui gli effetti sulla salute, in termini di aumento del rischio di depressione e di deterioramento della salute fisica, sarebbero direttamente determinati dai problemi finanziari.
  • La perdita del lavoro come evento di vita stressante e, in quanto tale, vissuto e percepito come un lutto per la perdita di alcuni benefici non economici connessi al lavoro, quali la strutturazione del tempo, l’autostima, il rispetto da parte degli altri, l’uso delle proprie capacità, lo status sociale, i contatti interpersonali e alcune motivazioni esistenziali. Tale stress risulterebbe in un incremento cronico dei livelli di ansia.
  • L’insorgenza di comportamenti dannosi per la salute, soprattutto l’abitudine al fumo e il consumo eccessivo di alcolici o sostanze stupefacenti. Repentine riduzioni del reddito potrebbero inoltre esporre a condotte più francamente rischiose e autodistruttive, esponendo ad un maggiore rischio di suicidio e tentati suicidi (Reeves et al., 2014).

Da quanto riportato emerge come il dramma della disoccupazione tocchi nel vivo l’esistenza delle persone: sono, infatti, frequenti disagio psicologico e insoddisfazione per le condizioni di vita. Molti studi presenti in letteratura hanno indagato gli effetti psicologici e vissuti emotivi caratteristici degli individui che vivono questa condizione. Sono riportati in particolare fallimento e frustrazione, sentimenti di vuoto, di inadeguatezza, di insicurezza e di inutilità che possono combinarsi con vissuti di sconfitta e di rassegnazione, con conseguente peggioramento dell’autostima e aumento del senso di inferiorità, di impotenza e della fiducia in sé stessi, negli altri, nella società e nel futuro (Costa et al., 2004).

Vengono spesso riportati anche vissuti emotivi di vergogna, solitudine, senso di colpa e sentimenti di rivalsa e di vendetta: vergogna in quanto la mancanza di un lavoro è spesso percepita come un difetto che suggerisce inadeguatezza e diversità in relazione alle aspettative del mondo esterno. La vergogna determina un isolamento affettivo, per cui le persone vengono emarginate o si autoescludono per paura di essere giudicate o non capite, una condizione che paralizza e impedisce di mettersi in gioco nuovamente.

Questo accentua ancora di più la solitudine e la possibilità di costruire relazioni d’amicizia, già compromesse a causa della mancanza di un lavoro.

Il senso di colpa scaturisce dalla convinzione di non essere stati capaci di mantenere il proprio posto di lavoro e di non poter così garantire alla propria famiglia e a sé stessi le stesse possibilità economiche e la stessa immagine sociale. Inoltre, a fronte di un sistema che promuove come valori la ricchezza e lo status symbol, chi non ha un lavoro tende a un ripiegamento su di sé e a ritenersi colpevolmente inadatto e senza un posto nella società.

Infine, con il passare del tempo e il prolungamento della condizione di disoccupazione, possono comparire anche sentimenti di rabbia, rivalsa e vendetta nei confronti di un sistema in cui, nel frattempo, gli altri riescono ad integrarsi (Secci, 2015).

 

Disoccupazione ed embitterment

I sentimenti di colpa e di vendetta sono presenti anche nel costrutto dell’embitterment (letteralmente = “amarezza”), definito come uno stato emotivo di lunga durata caratterizzato da una persistente e logorante sensazione di aver subito un torto e di essere vittima di una profonda e grave ingiustizia, a cui seguono sentimenti di umiliazione, impotenza e, appunto, desiderio di vendetta.

È uno stato psicologico che emerge in seguito ad eventi che il soggetto ritiene ingiusti, umilianti e denigratori, i quali vengono continuamente richiamati alla mente, con il rischio di creare nel tempo  un circolo vizioso in cui il soggetto è impegnato a rimuginare intensamente su quanto accaduto, incrementando l’embitterment. Queste persone possono cambiare repentinamente umore e passare dalla disperazione a sorridere al pensiero che possa essere fatta vendetta (Linden et al., 2007).

Sebbene il concetto di embitterment sia stato studiato più approfonditamente in anni successivi, già Zemperl e Frese (1997) hanno individuato per primi questo stato emotivo a seguito della condizione di disoccupazione prolungata. In quest’ultimo caso, come rileva Sensky (2009) il senso di colpa sopra descritto è da intendere non come una colpa verso sé stessi, ma piuttosto come un’attribuzione di colpe ad altri per essere stati trattati ingiustamente.

Più recentemente i dati di Zemperl e Frese sono stati confermati da uno studio di Linden et al. (2008) su un gruppo di disoccupati, rilevando che il 54,9% del campione presentava sintomi di embitterment e che i sintomi di ingiustizia sono frequentemente presenti nelle persone che perdono il lavoro. È stata inoltre confermata una relazione tra la durata della disoccupazione e la presenza di questi sintomi, suggerendo come quest’ultimi tendano ad aggravarsi in relazione alla durata della disoccupazione.

Alcuni autori hanno sistematizzato meglio questi vissuti emotivi in modelli suddivisi in fasi sequenziali, proponendo anche una sorta di adattamento alla condizione di disoccupazione.

Tintori (2007) ha individuato due fasi:

  • La prima è caratterizzata dal sentimento di esclusione e di essere stati rifiutati e dalla percezione di essere stati messi ai margini, non ritenuti più capaci e all’altezza. Da questi vissuti può emergere il dubbio sulle proprie capacità professionali e, per generalizzazione, si sé stessi come individui (autosvalutazione). A questi stati d’animo si può aggiungere anche la delusione che prende le sembianze del sentimento di essere stati traditi. In questa fase possono comparire anche momenti in cui si affaccia la speranza, anche se spesso appare più un atteggiamento, piuttosto che un autentico vissuto interiore: in questi casi l’individuo cerca di rincuorarsi e di intravedere le possibili soluzioni positive arrivando spesso a forzare la realtà. A questo proposito Gagne (1992) parla del ricorso al meccanismo di difesa della negazione: un atteggiamento con il quale il soggetto disconosce involontariamente la realtà, negando l’evidenza e che porta ad interpretare la disoccupazione come un’opportunità e un periodo di crescita personale.
  • La seconda fase è definita di depressione situazionale, legata ad una causa oggettiva che rientra quando il soggetto ne elabora il senso. tale operazione può risolversi in tre effetti psicologici diversi:
    • La ricostruzione di sé, che porta l’individuo a riconsiderare la propria storia e a dare senso all’esperienza negativa collocandosi in una prospettiva futura. In questi casi l’esperienza negativa diventa un punto di partenza e di rinascita, producendo cambiamenti inaspettati anche per chi la vive in prima persona.
    • La sospensione di sé lascia, invece, il soggetto in una condizione di impasse, in cui prevalgono inerzia e fatalità. La prospettiva futura è poco presente, prevale un senso di disillusione e una stato psicologico di malessere e di insoddisfazione.
    • La negazione di sé, in cui l’individuo non riesce a dare alcun senso all’esperienza negativa subita e la depressione situazionale non trova una risoluzione positiva, ma anzi, si consolida in una depressione vera e propria.

 

La disoccupazione come il lutto: le fasi dell’elaborazione

Anche Migliore (2007), concettualizzando la disoccupazione come un evento traumatico e riprendendo le teorizzazioni di Kubler-Ross (1975) relative all’elaborazione del lutto, ha individuato delle fasi che caratterizzano i lavoratori che perdono il posto e ha descritto una curva emotivo-motivazionale definita curva Zeta.

  • La prima fase è caratterizzata, in sequenza, da shock, negazione e liberazione. All’inizio si è sconvolti e si considera il licenziamento come un’aggressione personale verso la quale ci si sente impotenti. Il soggetto si isola per difendersi dalle opinioni degli altri e per evitare altre delusioni. Con la negazione si cerca di interiorizzare ciò che è successo e di affrontarlo. Compare anche rabbia, in quanto si diventa sempre più consapevoli della realtà. Segue poi la liberazione.
  • La seconda fase è, invece, caratterizzata da ottimismo: l’individuo è tranquillo perché può ancora contare su alcune risorse economiche ed è convinto di possedere la necessaria esperienza per trovare un facile ricollocamento nel mondo del lavoro.
  • Con il passare del tempo, però, ci si rende conto che la realtà è molto diversa e che trovare un nuovo lavoro è un’impresa difficile: subentra la terza fase, caratterizzata da pessimismo e paralisi in cui i soggetti perdono la fiducia nelle proprie possibilità e nel futuro. E’ un momento critico perché  subentrano sentimenti di inutilità, inadeguatezza, isolamento e solitudine, con ripercussione sull’umore e la possibile insorgenza di disturbi psicologici conclamati.
  • L’ultima fase è contraddistinta da riflessioni e adattamento: l’individuo soffre per l’assenza di un’occupazione, ma impiega il suo tempo nella ricerca di una nuova attività lavorativa o di impegni che riempiano le giornate, anche se si rimane ancora molto vulnerabili.

Ovviamente queste fasi non si presentano in modo rigido: ognuno, infatti, affronta la disoccupazione secondo le proprie modalità, energie e risorse personali e sociali, e l’impatto di questo evento dipende da come queste vengono messe in atto per far fronte alla perdita. Questo influenzerà in modo diverso l’adattamento a questa condizione (Price et al., 1998).

 

Disturbi psichici associati alla disoccupazione

Gli studi presenti in letteratura evidenziano, infatti, come gli individui disoccupati più vulnerabili e con meno risorse, siano maggiormente predisposti ad una esacerbazione di questi vissuti emotivi negativi, i quali possono facilmente evolvere in disturbi psicopatologici conclamati, soprattutto se non riconosciuti e opportunamente trattati.

I disturbi psichici più spesso riscontrati in questo campione di persone sono risultati essere l’ansia e gli attacchi di panico, i disturbi del sonno, gravi forme di somatizzazione, disturbi del funzionamento sociale, stress e, soprattutto, la depressione, individuato come il problema di salute mentale più diffuso e più sensibile all’impatto della crisi (Linden et al., 2008; Pelzer et al., 2014), portando ad un aumento della domanda di Servizi di Salute Mentale e del consumo di psicofarmaci (Starace et al., 2016).

È stato infine confermato come la disoccupazione giochi un ruolo importante nella maggior incidenza di suicidi (Reeves et al., 2014).

Workaholism: si può affrontare con il Work-Life Balance?

In questo articolo vorrei trattare due temi molto attuali nel panorama del mondo del lavoro: “work life balance” e “workaholism“. La radice di entrambi i termini è “work” ma come vedremo si tratta di due concetti diametralmente opposti.

Valentina Gobbi, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

Workaholism e work life balance: cosa sono

Con “work life balance” vogliamo identificare tutti quegli atteggiamenti, comportamenti e/o iniziative promosse dalle aziende nei confronti dei propri dipendenti per promuovere un corretto e funzionale bilanciamento tra lavoro e vita privata. Con il termine “workaholism” invece si identifica una vera e propria dipendenza nei confronti del lavoro, un atteggiamento disfunzionale che mette l’attività professionale al primo posto e vi fa ruotare attorno il resto dell’esistenza del singolo.

A questo punto si potrebbe erroneamente pensare che porre attenzione al work life balance possa essere la soluzione al workaholism, o almeno una delle possibili, ma vedremo che trattandosi di un vero e proprio disturbo di dipendenza, la questione è più complessa di quel che potrebbe sembrare a prima vista.

Vorrei ora entrare nel vivo dei due concetti esplorandoli nel dettaglio e cercando di capire perché la sola e semplice attenzione al work life balance non può essere la soluzione a una dipendenza marcata come il workaholism.

Work life balance” è un termine oggi molto in voga in Italia e nel mondo, le cui parole che lo compongono possono suonare ancora dissonanti ai più. Ma cosa si intende davvero per work life balance?

Si tratta di un nuovo approccio nella gestione delle risorse umane che cerca di favorire e proporre un “balance”, un equilibrio, tra vita professionale e vita privata dei singoli dipendenti. Il mondo imprenditoriale si rende conto ogni giorno di più che è necessario favorire un equilibrio tra questi due momenti dell’esistenza di una persona. Alcune aziende hanno così iniziato a porre sempre maggiore attenzione alla valorizzazione dei propri dipendenti: iniziando a trattarli come delle persone con proprie esigenze, peculiarità e con una propria vita che continua al di fuori dei confini dell’azienda stessa. Le imprese si sono accorte che solo un lavoratore motivato, sereno, “equilibrato” è un lavoratore valido e produttivo. Motivare un lavoratore d’altronde non significa più soltanto riconoscergli benefici monetari o monetizzabili ma, significa anche permettergli di vivere la sua vita, di godere della sua famiglia, di non aver paura di essere sostituito, di conciliare alle responsabilità lavorative, i propri impegni e ritmi personali.

Il work life balance cerca di dare una risposta a tutte queste esigenze creando un ambiente di lavoro a misura d’uomo, che rispetti le esigenze di tutti, lavoratori e imprese. Come accennato poc’anzi, la valorizzazione delle persone porta così di ritorno indubbi vantaggi e benefici anche all’azienda stessa, il dipendente che si sente maggiormente considerato e valorizzato lavora meglio, con maggiore attenzione e produttività, consiglierà la propria azienda anche ad amici e conoscenti ed attraverso il passaparola l’azienda stessa migliorerà la propria reputazione e credibilità nei confronti della società.

Il percorso che aziende e lavoratori hanno però dovuto affrontare per giungere a questa “conquista” non è stato semplice. Questo perché le imprese, accecate da logiche di profitto, hanno negli anni dimenticato il punto fondamentale che è alla base del loro funzionamento; le imprese sono fatte di persone e sono queste a garantirne lo sviluppo, il funzionamento e l’eventuale successo o declino.

L’azienda riflette nel suo divenire le scelte attuate dagli uomini che la governano, è quindi indispensabile avere alla guida degli uomini sereni, motivati e brillanti: garantendo loro la tranquillità e la sicurezza di potersi dedicare senza stress e/o privazioni anche ai loro impegni privati.

Il work life balance si configura come la conseguenza di una precisa evoluzione che il mercato del lavoro, i lavoratori e la società hanno avuto in questi ultimi anni e che lo porterà ad essere l’elemento centrale, il cuore, di tutte le future politiche di organizzazione e gestione delle risorse umane.

Credo che sia inoltre importante prendere in considerazione la profonda modificazione culturale di attribuzione di significato al lavoro avvenuta in questi ultimi anni. Da una visione meccanicista dell’attività lavorativa individuale, legata ai processi delle macchine (taylorismo), si passa a una impostazione del lavoro in termini di ambito tipico di autorealizzazione personale (Bocca, 1998). Il lavoro si costituisce così come luogo fondamentale per l’introduzione di significati umani nella vita per l’individuo e per la collettività. Ogni persona adulta ha bisogno di lavorare in quanto il lavoro, al di là del proprio contenuto monetario volto al sostentamento, si costituisce come luogo fondamentale di realizzazione di sé e di ricerca di senso (Bocca, 1998). La famiglia e il lavoro sono spesso presentati nella storia come dimensioni di vita contrastanti se non contraddittorie tra loro e l’industrialismo non ha fatto che accentuare tale separazione. Eppure lavoro e famiglia costituiscono due aspetti essenziali per la vita umana, due luoghi al cui interno la persona cerca la realizzazione di sé.

Ma passiamo ora al secondo argomento che vorrei trattare: il “workaholism“. Il termine indica dipendenza da lavoro e deriva dalla fusione di due termini inglesi “work” lavoro e “alcoholism” alcolismo, letteralmente tradotto come “ubriacatura di lavoro”. Questa parola è stata coniata per la prima volta negli Stati Uniti d’America da Wayne Edward Oates nel 1971 in seguito alla pubblicazione del libro “Confession of a Workaholic“. Con esso l’autore descrive una persona il cui comportamento è compulsivo nei confronti del lavoro, nello stesso modo in cui quello dell’alcolista lo è nei confronti dell’alcol (Robinson, B., 1998).

L’eccesso di lavoro, unito all’esclusione di altri interessi, viene così paragonato all’abuso di alcol. Avviene una sorta di sopraffazione del mondo lavorativo sugli altri domini della vita del soggetto come ad esempio la famiglia, gli hobbies o l’attività fisica (Seybold & Salomone, 1994).

Il lavoratore che presenta questo tipo di dipendenza viene definito workaholic ovvero [blockquote style=”1″]una persona la cui necessità di lavorare è diventata così eccessiva che crea un notevole disturbo o interferisce con la salute del suo corpo, la felicità personale, le relazioni interpersonali e il funzionamento sociale[/blockquote] (Oates, 1971, pg.4; Guerreschi, 2009).

E’ così che a partire dagli anni ’70 del secolo scorso gli psicologi hanno iniziato a studiare questo nuovo tipo di dipendenza molto particolare e insidiosa, di questo bisogno ossessivo di lavorare, produrre, decidere e sviluppare la propria attività professionale.

Successivamente, il termine ha iniziato a diventare di uso comune non solo nella letteratura, ma anche nella stampa popolare e nel web; si è ben presto sviluppato in molti Paesi, tanto che in Giappone si è diffuso il termine “Karoshi” mentre in Germania si parla di “Arbeitssucht”, per indicare la nascita di una vera e propria passione ossessiva per il lavoro che impedisce di potersi dedicare ad altre attività creando una forte dipendenza (Heide, 2002). Nonostante si tratti di un tema molto dibattuto, per via della sua correlazione con un’attività quotidiana come quella lavorativa, considerata indispensabile e di interesse comune, sembrerebbe che il workaholism non sia ancora del tutto riconosciuto dalla società come un disagio patologico (Oates, 1971). E’ il caso dell’Italia, ad esempio,  dove il termine risulta essere conosciuto a pochi e non ne esiste una vera e propria traduzione.

Occorre ammettere al proposito che non esiste nemmeno una definizione universalmente accettata di workaholism. Spesso viene descritto attraverso degli ‘slogan’: così si sente parlare della “più pulita delle dipendenze” (Schaef, A., Fassel, D., 1989); “dipendenza rispettabile” (Killinger, B., 1991); “male che gli altri approvano” (Neikirk, J., 1998); “dipendenza ben vestita” (Robinson, B., 1998). Pur con i loro limiti gli slogan ci consentono di riflettere sulle parole che li compongono, si tratta di giustapposizioni di parole logicamente contrastanti che rendono evidente la complessità e la difficoltà nel definire, comprendere e trattare il fenomeno. Si fa riferimento a un problema che alla fin fine è qualificato in termini positivi.  Se per molto tempo si è così sia guardato al workaholism in modo umoristico e scherzoso, progressivamente si sta abbandonando la lente caricaturale e si inizia a osservarlo nelle sue ragioni più profonde.

 

Workaholism: i sintomi e i comportamenti che definiscono la dipendenza dal lavoro

Proverei ora a passare velocemente in rassegna un po’ di letteratura esistente sul tema partendo dai sintomi più frequenti, per aiutare a chiarire meglio la definizione e aiutare ad identificare questa dipendenza:

– il tempo eccessivo dedicato volontariamente e consapevolmente al lavoro (più di 12 ore al giorno, compresi weekend e vacanze) non dovuto a esigenze economiche o a richieste lavorative;

– pensieri ossessivi e preoccupazioni collegati al lavoro (scadenze, appuntamenti, timore di perdere il lavoro);

– poche ore dedicate al sonno notturno con conseguenti irritabilità, aumento di peso, disturbi psicofisici;

– impoverimento emotivo, sbalzi di umore e facile irritabilità;

– sintomi di astinenza in assenza di lavoro (ansia e panico);

– abuso di sostanze stimolanti come la caffeina (Castiello d’Antonio, 2010).

Scott et al. (1997) hanno su queste basi stipulato l’esistenza di tre tipi di comportamento workaholic. La persona dipendente dal lavoro è colei che:

  • spende gran parte del proprio tempo in attività correlate al lavoro, con un conseguente effetto negativo nel funzionamento sociale, nelle relazioni personali e familiari e nello stato di salute;
  • è costantemente focalizzata sul lavoro e alla ricerca di soluzioni per risolvere i problemi lavorativi, anche quando non sta lavorando;
  • lavora oltre le altrui aspettative, richieste o necessità finanziarie e organizzative.

E’ inoltre possibile identificare tre pattern per quanto riguarda gli stili di comportamento:

  • compulsivo-dipendente: correlato positivamente ad ansia, stress, problemi fisici e psicologici, e negativamente a performance lavorative e a livelli di soddisfazione lavorativa e/o personale;
  • perfezionista: correlato positivamente ad alti livelli di stress, problemi fisici e psicologici, relazioni interpersonali ostili, bassa soddisfazione lavorativa, scarsa performance e assenteismo dal lavoro;
  • orientato al successo: positivamente correlato a buona salute fisica e psicologica, soddisfazione lavorativa e personale, e comportamenti pro-sociali.

Precedentemente, Spence e Robbins (1992) coniarono la nozione di triade workaholic, basata su tre concetti chiave: impegno nel lavoro (spendere il proprio tempo libero in progetti ed altre attività lavorative), motivazione nel lavoro (sentirsi obbligati a lavorare anche senza ricavarne alcuna soddisfazione), e piacere ricavato dal lavoro (lavorare più del dovuto, ma per il piacere e il divertimento legati ad esso). Da questa sono stati poi delineati tre profili di workaholic, indagati successivamente anche da altri ricercatori:

  • work addicts (i dipendenti da lavoro) – coloro che mostrano elevato impegno e motivazione nel lavoro ma poco piacere nel lavorare;
  • enthusiastic addicts (i dipendenti entusiasti) – chi mostra elevato impegno e molto piacere ma poca motivazione;
  • work enthusiasts (gli entusiasti del lavoro) – coloro che possiedono marcati tratti di tutte le tre caratteristiche.

Dei tre profili, i work addicts risulterebbero essere i più rigidi, ossessivi e perfezionisti, con aspettative eccessive e obiettivi irrealistici, sperimentando elevate quote di stress ed ansia con la presenza di sintomi fisici (mal di testa, ulcere ed ipertensione tra i più comuni).

Proseguendo in linea temporale, nel 2008 la definizione di Schaufeli e i suoi collaboratori definisce il workaholism come la combinazione di due dimensioni: lavorare eccessivamente e lavorare compulsivamente. Secondo questa definizione il lavorare eccessivamente rappresenta l’elemento comportamentale del costrutto che indica che gli stacanovisti del lavoro dedicano una quantità eccezionale del loro tempo e della loro energia per lavorare andando al di là di quanto sarebbe necessario rispetto alle richieste organizzative o economiche. Lavorare compulsivamente rappresenta la dimensione cognitiva del workaholism e implica che i workaholic sono ossessionati dalla loro professione e pensano costantemente al lavoro, anche quando non stanno lavorando. Pertanto, i maniaci del lavoro tendono a lavorare di più di quanto sia necessario, proprio perché spinti da un impulso interno (Bakker & Schaufeli, 2008).

Il workaholism, così definito, diventa vera dipendenza da lavoro e rientra nel crescente panorama delle dipendenze patologiche, definite “le nuove dipendenze” o “dipendenze sociali” dovute a comportamenti che pur producendo le stesse conseguenze delle tossico-dipendenze si costruiscono e si autoalimentano in assenza di qualsiasi sostanza chimica e hanno a che fare con comportamenti, abitudini, usi del tutto legittimi e socialmente incentivati. Fanno parte di questo gruppo anche lo shopping compulsivo, il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza dal sesso. La work addiction diventa un vero e proprio disturbo ossessivo-compulsivo che si manifesta attraverso richieste autoimposte, incapacità di regolare le abitudini lavorative ed eccessiva indulgenza al lavoro. Tuttavia, rispetto alle classiche dipendenze comportamentali il workaholism differisce leggermente poiché non si riferisce al ricorso a un agente esterno per l’ottenimento diretto di un appagamento istantaneo, come per l’uso di sostanze, bensì ad un’attività che richiede uno sforzo finalizzato alla produzione di un lavoro o di un sevizio, per il quale si prevede una remunerazione. L’attività lavorativa, pertanto, diventerebbe una sorta di scappatoia impiegata dal soggetto per evitare emozioni negative, relazioni o responsabilità.

Una caratteristica peculiare della dipendenza dal lavoro è che questa si instaura a partire da ricompense secondarie, dal piacere indiretto prodotto dall’azione lavorativa protratta e ripetuta, un fattore che permette di comprendere come mai si riesca a diventare dipendenti da un’attività che raramente produce anche qualche ricompensa primaria o diretta. Il lavoro, infatti, non rappresenta un oggetto di appagamento immediato, ma rappresenta un’attività che richiede l’esecuzione di uno sforzo per ottenere una gratificazione economica o di qualunque altro tipo. Questo consente due considerazioni. Innanzitutto, non tutti i lavoro-dipendenti sono masochisti, dal momento che questo modo di manifestare tendenze auto-punitive sembra piuttosto raro. La seconda implicazione è che questa forma di dipendenza è possibile nelle persone in cui si è sviluppato il cosiddetto “processo secondario”, ossia la capacità di rinunciare a un piacere attuale in prospettiva di una ricompensa futura, un aspetto che fa indurre la presenza nei lavoro-dipendenti di una certa “maturità psicologica” rispetto alla gestione dei bisogni e delle mete, un aspetto che spesso manca o è carente in altri tipi di dipendenze.

Le persone affette da questa dipendenza mostrano inoltre una sostanziale aridità personale, una difficoltà nell’affettività e un sostanziale rifiuto delle attività rilassanti che vengono vissute come amorali. Il workaholic giudica il rilassarsi un momento inaccettabile di mollezza e indolenza. Come dicevamo, queste persone arrivano a lavorare anche 14/16 ore al giorno e la loro tragedia è che l’oggetto della loro dipendenza non è qualcosa di “brutto” come avviene per esempio nell’abuso di sostanze psicoattive o nell’alcoolismo, ma anzi è qualcosa di “bello”. Per bello intendiamo qualcosa di socialmente apprezzato e stimabile, su cui il nostro modello occidentale di sviluppo fonda le sue radici. Il workaholic riceve così un grande consenso sociale da parte di chi percepisce il lato positivo, la produttività, o beneficia della dipendenza (il datore di lavoro per esempio), è invece oggetto di fortissime critiche in ambito amicale e affettivo.

I più colpiti sono i figli e il coniuge in quanto il workaholic tende a trascurare la famiglia e all’interno dell’ambiente domestico o privato tende ad ogni modo a rimanere concentrato sull’attività lavorativa senza tregua, tralasciando week-end e festività. Vediamo così che, se nell’ambito professionale questa dipendenza è accettata e quasi premiata, nell’ambito domestico si viene invece ad instaurare una sorta di congiura del silenzio, nessuno deve parlare o permettersi di mettere in discussione lo stile di superlavoro del workaholic che anzi spesso si vanta di essere l’unico sostegno della famiglia, percependo il resto del mondo come stolto e indolente, fa fatica a provare emozioni per i propri cari e ad essere affettuoso con il coniuge o gli amici. L’ambito privato soffre così enormemente dell’assenza fisica ed emotiva della persona.

Una ricerca condotta dalla Grant Thornton ha rilevato che in Inghilterra il 6% dei divorzi dell’anno 2004 è da attribuire alla fuga da parte di uno dei due coniugi dal workaholic. Si potrebbe pensare che la sindrome sia prevalentemente maschile, in realtà la differenza tra uomini e donne pur mostrando una superiorità negli uomini non è così ampia e significativa. Spesso, è la donna che anche come forma di estrema emancipazione si realizza attraverso un’attività lavorativa frenetica e totalizzante, che la porta a estraniarsi dal mondo e dai rapporti affettivi.

Proprio in quanto gode di un certo rinforzo sociale, la dipendenza da lavoro diventa esagerazione di un comportamento normalmente giudicato positivo e quindi molto difficile da identificare e da curare. Il workaholic non si presenta spontaneamente al SERT ma anzi è fiero del suo essere attivo e produttivo. Spesso, solo la crisi familiare lo porta a rivolgersi a uno specialista: quasi sempre però attribuisce la colpa ai familiari e alle persone che non lo capiscono.

Dall’altro lato però vediamo che questa dipendenza nasconde profondi sentimenti depressivi e di inadeguatezza, il workaholic si sente solo e perso, sente di avere pochi strumenti nella vita, ma ha trovato nel lavoro e nell’efficienza professionale qualcosa con la quale mostrare il proprio valore. Il lavoro diventa così un vero e proprio “antidepressivo”, che da senso alle giornate, alle settimane e agli anni.

Proviamo a fare un passo in avanti, se trattiamo il workaholism come ogni dipendenza, dobbiamo considerare l’intera gamma di fattori che lo compongono:

– primo fra tutti la famiglia di origine, la quale sembra avere un ruolo cruciale nello sviluppo di questa dipendenza. Il ruolo principale sarebbe quello dell’apprendimento, i figli imparano dai genitori modalità di azione performanti che cercano di replicare all’interno della propria vita: eccellendo a scuola, nelle attività extracurriculari e nello sport per ricevere approvazione, amore e attenzione da parte dei genitori. Il bambino spesso non è in grado di riconoscere nel genitore un disturbo e lo vive come normalità; oppure accorgendosene prova ad adottare comportamenti adattativi tra cui, ad esempio, un minore investimento nell’area socio-relazionale, che può sfociare in un progressivo “raffreddamento” dei sentimenti e nella negazione delle proprie emozioni (Robinson, 1998);

– altro fattore importante da considerare è l’insieme dei tratti di personalità associati al bisogno di realizzazione individuale e legati alla concezione moderna della realizzazione personale di sé, della motivazione al successo, del perfezionismo e della coscienziosità etica e morale (Ng e colleghi, 2007);

– non bisogna dimenticare l’innovazione tecnologica che oggi svolge un ruolo determinante. L’avvento di Internet, delle e-mails, del teleworking, degli smartphones, dei tablet e di tutti quei dispositivi portatili che ci permettono di essere sempre connessi, reperibili e attivi e che hanno cancellato i fisiologici confini tra sfera professionale e sfera privata, determinando l’“invasione” del lavoro in spazi e tempi precedentemente dedicati ad altro;

– oltre ai fattori familiari e socio-culturali, una delle cause principali nello sviluppo di questo tipo di dipendenza va ricercata nei bisogni insoddisfatti e rimossi, nei sentimenti di inadeguatezza e di non amabilità di base, a conseguenza dei quali la persona sente di dover raggiungere certi standard per essere accettata e non essere sopraffatta da un vuoto interiore. La grande quantità di lavoro e il conseguimento frenetico dei risultati sembrano essere un tentativo di colmare bisogni di autodeterminazione e di evitare il contatto con i propri sentimenti più intimi. Il workaholic soffre di un disturbo compulsivo che lo porta a mascherare una serie di stati emotivi (dalla rabbia alla depressione) e a un’incapacità di adattamento che si manifesta con sentimenti di scarsa stima di sé, paura di perdere il controllo e difficoltà relazionali. Alla base di questo atteggiamento compulsivo c’è un vissuto di vergogna e un forte senso di inadeguatezza, che viene mascherato attraverso il bisogno di controllo, il perfezionismo, l’iperattività: fare sempre di più lo fa stare meglio (Robinson, 1998);

– in ultimo, ma non meno importante, va considerato l’”overwork climate“, ovvero un clima organizzativo tipico dell’azienda moderna, in cui ognuno è strettamente dipendente dagli altri, condiziona ed è condizionato da tutti, soprattutto tra gli impiegati in possesso di caratteristiche individuali, quali: motivazione al successo, perfezionismo, elevate coscienziosità e autoefficacia.

Vorrei soffermarmi brevemente sul mutamento radicale che la società dei giorni nostri ha registrato attraverso eventi quali la globalizzazione e l’avanzamento tecnologico che hanno riportato ad un forte valore dell’etica lavorativa (Cherrington, 1980; Harpaz, 1988; Vecchio, 1980). E’ la nostra società che ha registrato un cambiamento tale da indurre la letteratura scientifica a rivolgere il proprio interesse per lo sviluppo di una vera e propria patologia in ambito lavorativo (Jones, Burke & Westman, 2006; Kinnuen, Geurts & Mauno, 2004; Ng, Sorensen & Feldman, 2007). Le conseguenze di una società sempre di fretta hanno fatto sì che alcuni soggetti (soprattutto i più fragili e i più deboli) dedichino esclusivamente le loro energie e il loro tempo libero alla vita lavorativa (Bakker, Demerouti & Dollard, 2008).

 

L’influenza della società e del clima organizzativo sullo sviluppo del workaholism

L’etica del lavoro si configura così come questo forte impegno nel lavorare sempre di più, che vediamo andare di pari passo con lo sviluppo della nostra società. Lavorare diventa così sempre più un dovere e sempre meno un piacere. E per far fronte a questo impegno crescente impegniamo al massimo le nostre forze fisiche e morali. Lavorare diventa un impegno della psiche e dell’anima diventando così workaholism, una malattia dell’anima, una droga.

Vediamo a questo punto che il potere in mano alle aziende è estremamente forte, queste possono infatti farsi promotrici di un clima e di uno stile di vita e di lavoro sano, quanto di un overwork climate, che rientrerebbe tra i fattori che compongono il workaholism.

Lo studio di Mazzetti, Schaufeli, and Guglielmi del 2014, suggerisce infatti che il workaholism ha più probabilità di aver luogo quando determinate caratteristiche personali interagiscono con uno specifico clima organizzativo. Caratteristiche personali come ad esempio perfezionismo, motivazione al successo, estrema scrupolosità ed efficienza incontrano un ambiente di lavoro sfidante è più probabile avere casi di workaholism. Il clima di lavoro è un ambiente che non riconosce ma ricompensa il comportamento compulsivo al lavoro. Il clima organizzativo è il risultato di pratiche, politiche e procedure previste e ricompensate sul luogo di lavoro. Come conseguenza, un efficace cambiamento del clima può essere raggiunto solo con la modificazione di queste pratiche che porterebbe a una reinterpretazione degli scopi e delle aspettative dell’organizzazione  (Kopelman, Brief, & Guzzo, 1990).

 

Come affrontare il workaholism: il work life balance

Ecco allora che iniziamo a capire come poter utilizzare lo strumento del work life balance all’interno delle aziende. Potrebbe essere utile introdurre brevemente il concetto di work engagement, per designare il benessere del lavoratore che prova uno stretto legame affettivo nei confronti delle sue attività lavorative e si sente capace di occuparsi delle richieste del suo lavoro (Maslach, Schaufeli & Leiter, 2001). Se l’azienda riuscisse a farsi promotrice di engagement e creatrice di un clima organizzativo positivo, riuscirebbe ad evitare di creare le condizione di base favorevoli allo sviluppo della dipendenza da lavoro.

Se l’obiettivo dell’azienda diventa quello di creare engagement nei propri collaboratori verso il loro lavoro, lo strumento giusto diventa proprio il work life balance. Questa attenzione al capitale umano, potrebbe aiutare nell’individuare e supportare i workaholic ed evitare di diventare promotrice attiva di questo tipo di dipendenza. Ad esempio potrebbe essere estremamente proficuo se l’organizzazione fornisse dei feedback positivi ai suoi dipendenti, non tanto rispetto al tempo speso per quel lavoro ma, su strategie di gestione del tempo che rendano il lavoro più produttivo (Holland, 2008). Potrebbe inoltre promuovere la creazione di un clima organizzativo nel quale i dipendenti possano lavorare serenamente raggiungendo gli obiettivi previsti, ma anche godere delle attività extra lavorative.

Un ottimo spunto rispetto a come le aziende potrebbero affrontare il tema del workaholism ci arriva da Bakker e colleghi che trattano il tema del work-engagement in contrapposizione al workaholism. Il work-engagement presuppone il fatto che i lavoratori siano felici di lavorare, trascorrano le ore lavorative impegnandosi con vigore senza rinunciare alle altre attività nel tempo libero e non risultino essere lavoratori infelici che sentono il bisogno impellente di dover lavorare per forza. Nel work-engagement sono fondamentali le risorse lavorative: il supporto dei colleghi e dei supervisori, i feedback, la varietà di abilità, l’autonomia e le opportunità (Bakker & Demerouti, 2008; Halbesleben; Schaufeli & Salanova, 2007).

Per risorse lavorative si intendono gli aspetti fisici, sociali e organizzativi come ad esempio: diminuire le richieste lavorative e i sacrifici fisiologici e psicologici associati; essere stimolati nel raggiungimento degli obiettivi; stimolare la crescita, l’apprendimento e il progresso della persona (Bakker & Demerouti, 2007; Schaufeli & Bakker, 2004). Le risorse lavorative, quindi, agiscono sia sulla motivazione intrinseca incrementando la crescita, l’apprendimento e il progresso, sia sulla motivazione estrinseca con il raggiungimento degli obiettivi lavorativi. Soddisfano i bisogni degli individui di autonomia, competenza e di relazione (Deci & Ryan, 1985; Ryan & Frederick, 1997; Van den Broeck, Vansteenkiste, De Witte, & Lens, 2008). Gli ambienti lavorativi che offrono risorse sollecitano i lavoratori a dedicarsi al proprio lavoro poiché è piacevole dedicarsi ai compiti che vengono svolti con successo e agli obiettivi che vengono raggiunti.

Nell’ambito della ricerca, la definizione di engagement maggiormente utilizzata è quella di Schaufeli, Salanova, González-Romá & Bakker (2002) che definiscono il costrutto come uno stato psicologico positivo, appagante, di legame con il lavoro caratterizzato da:

  • vigore: ovvero alti livelli di energia e di resilienza durante il lavoro, la disponibilità nell’investirvi tutte le proprie forze e la perseveranza dinanzi le difficoltà;
  • dedizione: un senso di importanza, entusiasmo, ispirazione, orgoglio e sfida;
  • assorbimento: l’essere pienamente concentrati e assorti nel proprio lavoro, attraverso il quale il tempo scorre velocemente e si ha difficoltà a staccarsi. L’essere assorbiti è vicino a ciò che può essere definito “flusso” (Csikszentmihalyi, 1990), uno stato ottimale, sebbene duri poco a differenza di uno stato mentale più pervasivo e persistente, come il caso dell’assorbimento.

E’ interessante sottolineare come il livello individuale e quello dell’organizzazione siano contingenti. Lavoratori workaholic hanno infatti esperienze negative legate al lavoro, sperimentano più conflitti al lavoro (Mudrack, 2006), sono meno soddisfatti del proprio lavoro (Burke & MacDermid, 1999) , riportano maggiori interferenze lavoro-vita privata (Schaufeli, Bakker, Van der Heijden, & Prins, 2009; Taris, Schaufeli, & Verhoeven, 2005), e hanno relazioni sociali più povere al di fuori dell’ambito lavorativo (Robinson, 2007; Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008); sono meno soddisfatti della propria vita (Bonebright, Clay, & Ankenmann, 2000) e lamentano maggiori sforzi sul lavoro e problemi di salute (Burke, 1999, 2000).

I lavoratori engaged sperimentano invece esperienze positive (Van Beek, I., Taris, T. W. , Schaufeli, W.  B. , 2011), sono maggiormente soddisfatti del proprio lavoro e sono più committati nei confronti dell’organizzazione  (Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008), mostrano maggiore iniziativa personale (Sonnentag, 2003), performano meglio (Salanova, Agut, & Peiro´, 2005; Xanthopoulou, Bakker, Demerouti, & Schaufeli, 2009), hanno minor motivazione a lasciare l’organizzazione (Schaufeli & Bakker, 2004) e sono meno spesso assenti (Schaufeli, Bakker, & Van Rhenen, 2009). Inoltre spendono tempo a socializzare, hanno attività extra lavorative, hobbies e fanno volontariato (Schaufeli et al., 2001), hanno una maggiore soddisfazione della propria vita in generale e una buona salute fisica e mentale (Schaufeli & Salanova, 2007a; Schaufeli, Taris, & Van Rhenen, 2008). Sebbene lavorino duramente entrambe le tipologie di lavoratori (workaholic e work-engagement) prestando attenzione ai differenti tipi di out-come è chiaro come questi sperimentino differenti stati psicologici, motivo per cui il workaholism è considerato un “male” per il singolo e per l’organizzazione, mentre il work-engagement è considerato per natura un “bene”. (Schaufeli, Taris, & Bakker, 2008). Lo studio di Van Beek e Coll (2011) vuole proprio dimostrare come queste due tipologie di lavoratori, per loro natura differenti, differiscano per regolazione motivazionale e burnout.

In conclusione vediamo confermata l’ipotesi iniziale che postulava che le aziende non possono pensare di risolvere la problematica del workaholism solamente attraverso iniziative di work life balance. Il workaholism è una vera e propria dipendenza e deve essere trattata come tale, l’azienda può quindi agire attivamente per creare e instaurare al suo interno un clima organizzativo positivo che sia terreno fertile di promozione dell’engagement e che allontani il più possibile dalla minaccia del workaholism.

Gli effetti degli eventi avversi sul patrimonio genetico dell’individuo

Gli eventi avversi, che accadono nel corso del ciclo di vita dell’individuo, hanno una lunga ombra: infatti, essi sono in grado di accelerare i processi di invecchiamento cellulare, che predispongono all’insorgenza di varie malattie.

 

Gli eventi stressanti, che accadono nel corso del ciclo di vita dell’individuo, hanno una lunga ombra: infatti, essi sono in grado di accelerare i processi di invecchiamento cellulare, che predispongono all’insorgenza di varie malattie. Lo stress cronico sembra agire sulla lunghezza del telomero, che è la parte terminale del cromosoma, determinando l’accorciamento della catena da cui è composto. L’accorciamento dei telomeri è associato a diverse malattie e ad una precoce mortalità. Le avversità nel corso del ciclo di vita incrementano dell’11% la probabilità di un accorciamento dei telomeri cellulari.

Keywords: avversità, ciclo di vita, DNA, telomeri, invecchiamento.

 

Effetti di stress ed eventi avversi sul cromosoma

Lo stress cronico sembra agire sulla lunghezza del telomero, che è la parte terminale del cromosoma, determinando l’accorciamento della catena da cui è composto (Puterman e coll., 2016).

Negli anni 60 del secolo scorso fu formulata da Hayflick (1965) la teoria della senescenza cellulare. Secondo questo costrutto, alla base della senescenza cellulare ci sarebbe l’accorciamento progressivo dei telomeri durante la replicazione cellulare. La diminuzione della lunghezza dei telomeri determinerebbe un’alterazione della loro funzionalità (Pigliaru, 2014).

Il telomero è una capsula che avvolge la parte terminale del cromosoma, svolgendo una funzione protettiva; in pratica, ha la funzione di prevenire la perdita di informazioni che può accadere durante la replicazione dei cromosomi (Blackburn, 2000). Esso è costituito da DNA, legato a proteine, che forma una catena (de Lange e coll., 1990). Con il passare del tempo e, quindi, con le replicazioni cellulari, i telomeri subiscono un accorciamento (Samassekou e coll., 2010).

 

Dal cromosoma all’insorgenza di malattie

L’invecchiamento della cellula gioca un ruolo determinante nell’insorgenza di malattie. Esso è prodotto dalla diminuzione della lunghezza dei telomeri cellulari (Blasco, 2005; Armanios e Blackburn, 2012). Esperimenti fatti sui roditori hanno evidenziato che telomeri più corti rispetto alla media determinano una minore attività di essi, che causa danni all’apparato mitocondriale della cellula e ciò provoca alcune patologie (Sahin e DePinho, 2012).

L’accorciamento dei telomeri è associato a diverse malattie nell’uomo. Per esempio, dei telomeri più corti nei globuli bianchi sono connessi ad un incremento dell’80% della probabilità di avere una malattia cardiovascolare (Haycock, 2014). Ulteriori ricerche hanno associato la lunghezza dei telomeri nelle cellule con la comparsa di diabete e neoplasie. In pratica, più corti sono i telomeri e più aumenta la probabilità di sviluppare il diabete (Zhao, 2013) o il cancro (Wentzensen e coll., 2011). Altri studi hanno mostrato che telomeri più corti, reperiti in varie sedi del corpo umano, sono correlati ad una precoce mortalità (Glei e coll., 2015).

 

Gli effetti degli eventi avversi passati

Secondo una ricerca nordamericana (Puterman e coll., 2016), gli eventi avversi durante la fanciullezza e l’età adulta incrementano l’accorciamento dei telomeri. Lo studio ha considerato 4598 soggetti, uomini e donne, con un’età uguale o superiore a 50 anni, che avevano vissuto una serie di eventi avversi nel corso del loro ciclo vitale.

Infatti, nella loro storia si potevano trovare, durante la fanciullezza, eventi avversi come gravi rovesci finanziari familiari, abuso di alcol e droghe nei genitori, storie di insuccessi scolastici, episodi delinquenziali. Nell’età adulta, la loro biografia era costellata da altri eventi avversi, come perdita del lavoro, la morte di un figlio o del coniuge, l’aver vissuto una catastrofe naturale, un partner con problemi di dipendenza da alcool e droghe.

Ai soggetti considerati è stata misurata la lunghezza dei telomeri delle ghiandole salivari, attraverso l’analisi della saliva. La ricerca ha stabilito che le avversità nel corso del ciclo di vita incrementano dell’11% la probabilità di un accorciamento dei telomeri cellulari.

La pagina bianca del 2017 – Preoccupati dal nuovo anno? Il segreto è diventare meno attenti

Anno nuovo, nuovo inizio. Entusiasti o preoccupati? Più probabile la seconda, purtroppo. La nostra mente, a torto o a ragione, è specializzata nel produrre pensieri negativi. E se preoccupati, di cosa? Dell’indefinitezza del futuro o della necessità che anche noi concorriamo a scriverlo, questo futuro? E se dobbiamo scriverlo anche noi, cosa scrivere? Come riempire questa pagina bianca?

Un articolo di Giovanni M. Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 31 dicembre 2016

 

 

Lo psicoanalista Bergler riteneva che lo scrittore paralizzato davanti alla pagina bianca fosse un imputato davanti al tribunale del suo super-io. Di qui il blocco. La modernità pragmatica però preferisce spiegazioni più semplici e meno romantiche. La sindrome della pagina bianca non è problema da malati immaginari, è una realtà. Quando non si sa bene ancora cosa fare o cosa scrivere, il blocco deriva banalmente dal fatto che non si sa ancora cosa scrivere.

Avere qualcosa da dire non è cosa da poco e non è un problema immaginario. Come si fa a decidere di avere un’idea, per di più buona? La mente lavora sempre certo, ma il lavoro inventivo non è frutto di decisioni. È un po’ come innamorarsi. Possiamo deciderlo? Semmai decidiamo di creare i presupposti. Di allargare la nostra cerchia sociale, ad esempio, nella speranza che nel giardino delle conoscenze sbocci l’amore.

Se dobbiamo scrivere qualcosa e ancora non sappiamo bene cosa scrivere, possiamo decidere di sistemarci in scrivania davanti alla pagina, che è appunto bianca. Se dobbiamo montare un mobile e non abbiamo idea di come fare, non c’è nemmeno un libretto di istruzioni, possiamo decidere di sistemarci li, in mezzo ai pezzi di un puzzle incomprensibile. E l’attenzione vaga a caso un po’ sui componenti sparsi sul pavimento, un po’ altrove. Possiamo decidere tante cose, possiamo decidere di cercare ma non possiamo decidere di trovare.

Insomma, il senso di vertigine che si ha davanti a un nuovo compito in cui poco o nulla è chiaro non è una debolezza della mente, è un ostacolo reale. La mente, nella sua onnipotenza, può nutrire l’illusione che basti un po’ di volontà. Non è così purtroppo. Anzi, i mezzi che abbiamo a disposizione possono essere dannosi. E questi mezzi quali sono? Nient’altro che la nostra attenzione. Un po’ di attenzione funziona, intendiamoci. Per un po’ di tempo  è giusto passare in rassegna le idee che già conosciamo. Non ci vuole tanto però, si rimane nell’ordine dei minuti. Se in questo intervallo di tempo focalizzato non ci sono venute idee, vuol dire che tutto quel che già sappiamo e sappiamo fare non è sufficiente, non serve, non funziona del tutto.

Saggezza vorrebbe che passassimo ad altro: non possiamo farci venire una buona idea semplicemente volendolo. Per una nuova buona idea abbiamo bisogno di tempo, abbiamo bisogno che la nostra mente apprenda nuove informazioni e cresca su di esse, le connetta a quello che già sa e la elabori, questa nuova buona idea. E per fare questo l’attenzione non è per nulla utile, anzi è deleteria.

L’attenzione non è una facoltà creativa, è solo una capacità esecutiva di concentrare le forze già presenti su una leva, e metterla in azione. È un “Pronti? Via!” Se però queste forze sono insufficienti o la leva scelta è sbagliata, l’attenzione deraglia a un vagabondare sterile e rimuginativo, il mind-wandering e il worry della letteratura scientifica anglofona. E ben presto degrada in un’autoflagellazione.

Insomma, davanti alla pagina bianca che non si riempie crediamo di stare continuando a cercare una buona idea e iniziamo a pensare che siamo degli incapaci. Siamo noi stessi, e non il nostro super-io, che ci giudichiamo spietatamente, e tutto solo perché non accettiamo che, per ora, non sappiamo cosa scrivere. Perché lo facciamo? Perché intestardirsi? È una forma decaduta del vecchio “conosci te stesso”. Un’illusione che l’ostacolo risieda in qualcosa che non va in noi stessi. E così ci impegniamo in una ricerca a vuoto dei nostri difetti, che a sua volta si risolve in una condanna di noi stessi che ulteriormente ci obbliga all’inazione e che in più ci illude di essere un sorta di percorso di conoscenza di sé, di analisi, di crescita. E invece è solo un’autoumiliazione.

Che fare, dunque? Di fronte al non saper che fare, meglio sarebbe concentrare la mente altrove, su qualcosa di fattivo che sappiamo già fare. Così diamo tregua al motore mentale e gli diamo tempo di elaborare una nuova buona idea. Insomma, lasciamo lavorare tranquilla la nostra mente. La nostra pedante, limitata e fastidiosa attenzione esecutiva (questo è il termine tecnico), con la quale troppo spesso erroneamente ci identifichiamo chiamandola pomposamente “Io”, è spesso solo una seccatrice che rallenta il lavoro mentale. Non ci conviene confondere noi stessi con una nostra funzione mentale sopravvalutata. Se la pagina è bianca, distogliamo la nostra attenzione dai nostri problemi e da noi stessi, alziamoci, andiamo a farci una passeggiata e attendiamo con calma che si accenda la lampadina sorseggiando un caffè al bar. Oppure no. Si può anche non scrivere nulla, compreso il proprio futuro. Il futuro è un po’ come la vita: è quel che accade mentre rimugini su altro. Vale anche per il 2017.

Il sesso a portata di un click: dipendenza sessuale ed eccessivo uso di internet

Nel cyberspazio stanno cominciando ad emergere molte patologie sociali definite “dipendenze tecnologiche”, tra queste, un settore che merita un ulteriore esame, è la dipendenza sessuale e il suo rapporto con l’uso eccessivo di Internet.

Martina Tramontano – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Milano

 

L’avvento di nuove tecnologie sempre più sofisticate e la crescita esplosiva dell’accessibilità ad Internet stanno profondamente trasformando la cultura e alterando i modelli di comunicazione sociale e di relazione interpersonale.

Le persone sembrano dedicare sempre più tempo della loro vita quotidiana alla connessione al web e, a tal proposito, alcuni studiosi hanno messo in evidenza come nel cyberspazio stiano cominciando ad emergere molte patologie sociali definite “dipendenze tecnologiche”. Tra queste, un settore che merita un ulteriore esame, è la dipendenza sessuale e il suo rapporto con l’uso eccessivo di Internet. Infatti, il sesso è segnalato per essere l’argomento più frequentemente cercato su Internet (Freeman-Longo & Blanchard, 1998), e il perseguimento del soddisfacimento sessuale online o “cybersex” è un’attività comune tra gli utenti del web.

Ricerca e media si sono molto concentrati, e, talvolta allarmati, sul lato problematico delle attività sessuali online, anche se è stato riscontrato che solo una minoranza dei soggetti ha avuto poi esperienze problematiche.

Cooper, Delmonico, e Burg (2000) hanno trovato che solo circa il 17% di coloro che usano Internet per fini sessuali mostrano problemi legati ad esso. Forse questa eccessiva attenzione orientata al polo problematico deriva da una credenza secondo cui Internet è un settore pericoloso contenente immagini e film pornografici, prostituzione, pedofilia e infedeltà.

Altri ricercatori hanno descritto il comportamento sessuale online come un continuum che si estende dall’adattativo al patologico (Cooper, et al., 1999; Leiblum, 1997). Siccome l’utilizzo di Internet continua ad aumentare e sempre più medici e psicologi si trovano ad incontrare pazienti con problemi derivanti da un comportamento sessuale compulsivo online, diventa importante capire, valutare e trattare questo fenomeno.

In questo articolo partiremo da una panoramica sul concetto di dipendenza sessuale per poi trattare più nel dettaglio la sua relazione con l’utilizzo del web.

 

La dipendenza sessuale

Il fenomeno di un desiderio sessuale eccessivo ed atipico è stato oggetto di molte discussioni cliniche e approfondimenti negli ultimi 30 anni, soprattutto riguardo la legittimità della “dipendenza sessuale” ad essere considerata una vera e propria “malattia medica” o semplicemente una “costruzione sociale-esperenziale” (Kwee, 2007).

Nella comunità medica, scientifica e specialistica della sessuologia non si è raggiunto un consenso sul fatto che esista effettivamente e su come descrivere il fenomeno. Gli esperti che ne sostengono l’esistenza la descrivono come un’effettiva dipendenza: al pari dell’alcolizzato o del tossicodipendente anche i sex addicted non sono in grado di fermare il loro comportamento sessuale autodistruttivo e spesso ignorano le gravi conseguenze fisiche, emotive e interpersonali che esso comporta. Altri studiosi la ritengono una forma di disturbo ossessivo-compulsivo e si riferiscono ad essa come ad una compulsione sessuale (Kingstone, 2008); altri ancora credono che la dipendenza sessuale,  sia un mito in sé, un sottoprodotto di influenze culturali o di altro tipo (Giles, 2006).

La controversia riguarda anche il termine più appropriato da utilizzare per definirla: le etichette hanno spaziato da “dipendenza sessuale” (Carnes, 1983),”impulsività sessuale“(Barth & Kinder, 1987), e “ipersessualità non parafiliaca” (Kafka, 2001), a “comportamento sessuale compulsivo“(Coleman, 1991) e “sessualità disregolata” (Winters, Christof, & Gorzalka, 2010).

Il comportamento sessuale eccessivo (ninfomania e satiriasi) viene identificato come una diagnosi medica (F52.7) nell’ICD-10, il più recente codice medico internazionale (World Health Organization, 2008). Nel DSM-IV-TR viene affrontato solo indirettamente come esempio di un disturbo sessuale NAS (302,9) (American Psychiatric Association, 2000). Il DSM-5 getta le basi per un futuro consenso diagnostico includendo al suo interno il “disordine ipersessuale”.

Nonostante tale dibattito nosologico, clinico, filosofico sulla dipendenza sessuale è evidente l’esistenza di un grosso numero di persone in difficoltà che ricercano un trattamento per un comportamento sessuale incontrollato, compulsivo e patologico (Garcia & Thibaut, 2010).

Diventa rivelante però evidenziare alcune considerazioni diagnostiche riguardo la dipendenza sessuale, perché non tutti i comportamenti sessuali ritenuti non tradizionali possono configurarsi come una dipendenza o risultano essere necessariamente problematici. Esclusivamente quando il comportamento diventa dominante nella vita dell’individuo e sfugge al suo controllo volontario possiamo identificare una dipendenza e giustificare un intervento professionale.

Carnes (1999) definisce la dipendenza sessuale come qualsiasi comportamento compulsivo legato al sesso che interferisce con la vita quotidiana fino al punto di diventare ingestibile. È difficile stabilire l’entità di essa, anche se le stime sembrano variare tra il 3-6% della popolazione (Carnes, 1999).

I ricercatori e gli autori che si sono occupati di definire il costrutto di “dipendenza sessuale”, hanno notato l’esistenza di alcuni pattern che si ripetono nelle storie degli individui affetti da tale patologia. Vediamo quali sono:

  • Storie di abusi: i ricercatori hanno notato una forte correlazione predittiva tra una storia infantile di abusi e lo sviluppo di una dipendenza sessuale in età adulta (Opitz, Tsytsarev, & Froh, 2009). Traumi precoci come l’abuso fisico, emotivo e sessuale, hanno dimostrato di avere un impatto drammatico sullo sviluppo neurologico, che a sua volta è stato associato con problemi nel comportamento sessuale (Katehakis, 2009).
  • Attaccamento insicuro (Ainsworth, 1969): le relazioni caotiche all’interno della famiglia di origine sono il secondo elemento caratterizzante le storie dei sex addicted (Zapf, Greiner, & Carroll, 2008).Violazioni di confine croniche, una storia familiare di dipendenza, “ruoli” rigidi compromettono ulteriormente lo sviluppo portando alla comparsa di sentimenti di vergogna, solitudine, isolamento, rabbia, ansia, e di un profondo senso di inutilità personale (Ferree, 2010). Queste dinamiche producono un impoverimento relazionale e un dannoso senso di vergogna che alimentano i meccanismi auto-rassicuranti della dipendenza sessuale (Flores, 2004).
  • Disturbo nel controllo dell’impulso: deficit dell’attenzione e disturbo dell’iperattività non trattati (ADHD) sembrano essere altamente correlati con la dipendenza sessuale. Sono stati rintracciati diversi parallelismi tra le persone con ADHD e i sexual addicted. Entrambi sono orientati alla ricerca di stimoli, gravitano intorno a comportamenti ad alto rischio, ed hanno una bassa soglia per la noia; anche la disregolazione neurochimica è implicata in entrambi i contesti. I ricercatori suggeriscono che lavorare sul trauma, rilevante per entrambi i disturbi, deve essere una priorità nel trattamento di essi (Blankenship & Laaser, 2004).
  • Comorbidità con i disturbi dell’umore e le altre dipendenze: è stato ampiamente osservato il ruolo di interconnessione assunto dalla comorbidità tra disturbi dell’umore, altre dipendenze e dipendenza sessuale. La dipendenza da sostanze, shopping, lavoro, il gioco d’azzardo compulsivo non solo coesistono,  ma possono anche giocare una parte nel comportamento ritualistico che porta all’acting out del sex addicted (Irons & Schneider, 1994). La ricerca dimostra inoltre che la depressione e l’ansia sono significativamente più alte nella popolazione sessualmente dipendente che nella popolazione generale (Weiss, 2004).

Le conseguenze di un eccessivo comportamento sessuale sono di vasta portata e possono portare alla perdita di relazioni affettive, gravi problemi coniugali e familiari, difficoltà lavorative, problemi finanziari, perdita d’interesse per tutto ciò che non attiene al sesso, bassa autostima e disperazione. Inoltre con il passare del tempo gli individui dipendenti dal sesso sviluppano tolleranza verso tale pratica e non traggono più soddisfazione dalla loro attività sessuale. Tale fenomeno li costringe non solo ad aumentare la frequenza con cui intrattengono esperienze sessuali, ma anche ad andare alla ricerca di attività sessuali insolite e a fare un maggiore utilizzo del materiale pornografico. È bene tenere in considerazione che i modelli di comportamento discussi sono solo indicativi e non escludono altri segni che possono caratterizzare la dipendenza sessuale.

Uno degli sviluppi più interessanti degli ultimi anni è la connessione tra dipendenza sessuale e crescente utilizzo di Internet. La ricerca in questa nuova area è solo agli inizi e sembra di gran lunga aver prodotto più domande che risposte rendendo necessari ulteriori approfondimenti.

 

Dipendenza sessuale e utilizzo del Web

Generalmente quando si parla di sessualità online si fa riferimento a tutte le modalità di impiegare il web allo scopo di raggiungere eccitazione e soddisfazione sessuale.

Tali attività posso comprendere la visione e lo scambio di materiale pornografico, oppure la frequentazione di chat rooms a contenuto sessuale (spesso utilizzando ruoli di fantasia per esplorare i propri desideri sessuali più intimi), la scrittura e la lettura di romanzi erotici, l’uso di web-cam per attività erotiche virtuali e la ricerca di incontri con persone che si prostituiscono.

La cybersexual addiction è la dipendenza da queste attività sessuali virtuali.

Cooper (1998a) ha suggerito che ci sono tre fattori primari che alimentano la sessualità online rendendola un’area attraente per il soddisfacimento sessuale.

Essi sono: accessibilità (milioni di siti disponibili 24 ore al giorno, 7 giorni alla settimana), convenienza (la concorrenza sul web permette di mantenere prezzi bassi e una quantità significativa di materiale sessuale è disponibile senza alcun costo o commissione nominale), anonimato (protegge la persona coinvolta, permette la libera esternazione di fantasie sessuali normalmente represse, dà un maggiore senso di libertà e una riduzione del senso di vergogna).

J. Riemersma e M. Sytsma (2013) descrivono la dipendenza sessuale su Internet (definita da loro “contemporary sexual addiction”) come il prodotto di una trilogia “tossica” tra cronicità, contenuti e cultura. Secondo il loro pensiero la ripetuta e cronica esposizione a contenuti sessuali viene rafforzata dal dilagare di una cultura sempre più sessualizzata: questa forte interazione produce un vortice all’interno del quale vengono ingaggiati e si sviluppano i sex addicted.

Poiché l’esposizione è la variabile fondamentale, le caratteristiche demografiche associate a questa tipologia di dipendenza sono molto diverse e non conformi ai precedenti modelli e, per questo, non può essere trattata mediante le modalità tradizionali d’intervento (Cantor et al., 2013). Ogni tipologia di età, cultura, genere, razza, livello socio-economico, livello d’istruzione sembrano ugualmente colpiti dalla dipendenza per il cybersesso. I precursori della dipendenza sessuale (descritti precedentemente) non sono più implicati come causale, ma possono fungere da moderatori rispetto al grado di gravità con cui si sviluppa la dipendenza sessuale online.

 

La psicoterapia nella dipendenza sessuale online

Nel suo libro, “Tangled in the Web”, Young (2001) fornisce un approccio di recupero integrato che combina le terapie cognitivo-comportamentali e orientate allo stimolo.

Secondo l’autrice il recupero dalla dipendenza sessuale online è molto simile al recupero nelle dipendenze alimentari. Come in quest’ultima il paziente non può semplicemente astenersi dal cibo come parte del suo trattamento, ma deve orientarsi alla scoperta di modalità più funzionali di entrare in contatto e vivere quotidianamente con esso, analogamente i dipendenti dal cybersesso devono ricercare modi più sani di convivenza con il web. Nella società odierna, infatti, la maggior parte delle persone necessitano quotidianamente di un computer per lavorare, e quasi tutte le abitazioni sono fornite di un pc, per cui praticare l’astinenza per un dipendente dal sesso online diventa un’azione più complessa: in queste molteplici situazioni in cui si trova a dover interagire con un computer egli deve mettere in campo forme di autocontrollo per realizzare azioni correttive e astinenza dal cybersesso.

Per raggiungere questo obiettivo, Young (2001) suggerisce che i pazienti devono come primo passo valutare il proprio rapporto con Internet al fine di esaminare la portata e la frequenza di utilizzo del sesso online identificando le situazioni ad alto rischio, i sentimenti, o gli eventi che innescano il comportamento.

Poi devono concentrarsi sul cambiamento comportamentale al fine di raggiungere forme più adattive: dovrebbero ridurre il tempo inutile online e astenersi da ogni comportamento sessuale; evitare le situazioni ad alto rischio che potrebbero portare a ricadute e recuperare le relazioni perdute. Infatti i sex addicted a causa della loro dipendenza finiscono per perdere relazioni significative presenti nella vita reale. Siccome spesso erano proprio questi individui che fornivano loro sostegno, accettazione e amore, la loro assenza fa sentire il paziente inutile e rafforza la concezione del passato di non essere una persona amabile. È importante che il paziente ristabilisca queste relazioni per ritrovare il supporto necessario per combattere la dipendenza. Infine Young sottolinea che il trattamento è un processo di auto-esplorazione che dovrebbe fornire supporto e affermazione per creare un’immagine positiva di sé.

Nella terapia per i sex addicted si dimostra utile anche il lavoro di gruppo che aiuta i pazienti ad apprendere competenze interpersonali, responsabilizzarsi e sviluppare relazioni autentiche. Esistono poi innumerevoli risorse online che possono essere utilizzate allo scopo di migliorare la terapia. Spesso gli individui, infatti, non sono in grado di arrivare agli incontri a causa della distanza o per la preoccupazione e l’imbarazzo di essere identificati. Tutte queste problematiche con il trattamento online vengono completamente risolte o ridotte al minimo.

Una delle opportunità più interessanti in questo senso sono i siti web dove i soggetti possono accedere a narrazioni di altri che stanno attraversando o hanno già passato la stessa lotta con la dipendenza sessuale. Leggere queste storie aiuta i pazienti a sentirsi meno soli rispetto al proprio problema, e li può incoraggiare a rompere il muro della negazione e a sviluppare maggiore empatia. Al di fuori della terapia, invece l’educazione sulla dipendenza sessuale era tradizionalmente fornita ai pazienti attraverso articoli e libri. Ora anche queste risorse sono disponibili online in qualsiasi momento della giornata, da qualsiasi luogo, e senza che l’acquirente si senta inibito come potrebbe verificarsi in una biblioteca o libreria.

Se la dipendenza dal sesso online aspira a legittimare la sua effettiva esistenza, ci devono essere maggiori prove scientifiche a sostegno di essa, una chiarificazione dei criteri accettati da tutti e una quantificazione della sua occorrenza. Sebbene ciò debba ancora verificarsi, esistono sviluppi incoraggianti in tale direzione.

Cooper, Delmonico e Burg (2000) sostengono che, dato il crescente utilizzo di internet, i professionisti incontreranno sempre più pazienti i cui problemi sono connessi al comportamento compulsivo sessuale online. Anche altri ricercatori hanno segnalato un aumento del numero di consulenti e terapisti che hanno in cura pazienti per problemi legati all’attività sessuale sul web (Freeman-Longo, 2000). Tali ipotesi supportano la crescente evidenza empirica secondo cui la dipendenza dal sesso online non coinvolge solo una minoranza di individui e che l’espansione della tecnologia informatica produrrà un aumento di tali problematiche (Orzack & Ross, 2000).

Inoltre la valutazione di questa patologia dimostra che non è la frequenza o il tipo di comportamento ad indicare la presenza di una dipendenza, ma la perdita di controllo, la compulsività e le conseguenze negative che ne derivano.

Queste conclusioni suggeriscono l’importanza di approfondire le ricerche e sviluppare nuove modalità per aumentare la consapevolezza pubblica e professionale riguardo i comportamenti complessi che accompagnano i dipendenti dal cybersex. Inoltre è necessario migliorare l’informazione non solo sui risvolti negativi che l’uso del web può comportare, ma anche sull’utilizzo positivo di questa tecnologia al fine di migliorare la vita e anche i rapporti sessuali.

Abuso di sostanze e conseguenze nel post-partum

Una nuova ricerca della North Carolina State University e della University of British Columbia ha evidenziato che, conoscere i quantitativi di consumo di droga di una donna incinta permette di capire se la donna avrà problemi con la gestione dello stress e dell’ansia dopo il parto. La scoperta è utile in quanto permetterebbe agli operatori sanitari di comprendere meglio la problematica e quindi di fornire un aiuto migliore e più specifico.

 

Abuso di droghe e conseguenze dopo il parto

Sarah Desmarais, professore associato di psicologia presso la NC State University ha affermato che negli ultimi anni si sta ponendo più attenzione alla salute mentale delle donne in gravidanza, soprattutto concentrandosi su quelle donne che sono a rischio di depressione post-partum.

Lo studio non è stato progettato per concentrarsi sul consumo di droga, ma è stato pensato con lo scopo di rispondere ad una domanda più ampia, ovvero se l’uso di alcol o droghe nella donna in qualsiasi momento della sua vita, possa causare problemi di salute mentale dopo il parto.

Ricerche precedenti si sono focalizzate sull’utilizzo di sostanze solo durante la gravidanza. Questi dati sono poco affidabili perché le donne sono meno disposte ad ammettere le loro dipendenze durante la gravidanza per paura di perdere la custodia dei loro figli o di essere emarginate socialmente.

 

Lo studio

Per esaminare questi problemi, i ricercatori hanno utilizzato i dati ottenuti intervistando 100 donne al British Columbia che avevano partorito negli ultimi tre mesi, la maggior parte di esse con un background socio-economico a rischio di problemi di salute mentale. I partecipanti allo studio sono stati reclutati per entrare a far parte di un progetto sulla salute e benessere generale, che non si focalizza esclusivamente sul consumo di sostanze.

Nelle interviste fatte alle partecipanti, è stato chiesto loro di raccontare il consumo di alcool e droghe. Quello che è emerso, è stato utile a prevedere una eventuale situazione di scompenso mentale dopo il parto.

La Prof.ssa Desmarais afferma che comunque il miglior modo per predire problemi di salute mentale, è scoprire se vi sia una certa familiarità per queste patologie, ma il consumo di droghe può aumentarne i rischi.

 

Emozioni criminali: quando le emozioni esplodono in un crimine

Lo psicoterapeuta scopre di applicare una doppia morale, forse l’unica praticabile. Nel suo studio inizia la cura spiegando ai pazienti che non devono accusarsi delle loro passate azioni fallaci: non avevano consapevolezza delle motivazioni che li guidavano, nè controllo sui propri affetti. La responsabilità, in terapia, è la meta cui arrivare. Lo stesso non possiamo affermare se chiamati a far da periti in tribunale.

L’articolo è stato pubblicato da Giancarlo Dimaggio sul Corriere della Sera del 27 novembre 2016

Il caso di Carlos Cienfuegos

Carlos Cienfuegos, studente cileno, entra nella camera della Pensione Dienesen il 6 marzo 1915. Lo scopo: alla sua amante, la contessa Bianca Hamilton, vuol fare una sorpresa. Ne riceve una: una lettera d’amore, ma non indirizzata a lui. Decide di uccidersi. Sopraggiunge la contessa. Che succede? Certo è che spara tre colpi a lei e poi uno a sé, al quale per caso sopravvive. Forse hanno fatto l’amore un’ultima volta, forse perché lei, terrorizzata, voleva placarlo.

L’avvocato difensore di Cienfuegos era Enrico Ferri, criminologo di opinioni mutevoli e d’innegabile abilità: Cienfuegos agì eclissato da una vertigine. Il delitto quasi giustificato a fronte del degrado morale della contessa. Cinque anni e otto mesi sarà la condanna di Cienfuegos. Lo stesso Ferri, collega di Lombroso, era esponente illustre della Scuola Positiva, il tentativo italiano di introdurre l’antropologia nella giurisprudenza.

Nel resoconto di Emilia Musumeci (Emozioni, Crimine, Giustizia. Franco Angeli, pp. 256, €32), Ferri contribuisce a distinguere tra delitti mossi da passioni sociali e antisociali. Il crimine spinto dall’aberrazione di una passione morale, l’amore, la giustizia, non sarebbe punibile. Quello nato da una pulsione antisociale sì. La giurisprudenza si piega sempre alla prassi nell’aula. Ferri aveva sostenuto che il delitto passionale non nasca dall’amore ma dall’“egoismo possessorio”. Nel difendere Cienfuegos sosterrà il contrario e l’avrà vinta. Un altro delinquente passionale salvato.

La Scuola Classica, riassume Musumeci, sosteneva il contrario: il centro è il crimine commesso, non il soggetto agente, non l’emozione. Musumeci si schiera: non esiste un diritto che escluda l’influenza delle emozioni.

 

Come gestire le emozioni criminali e i precedenti penali in psicoterapia

Lo psicoterapeuta scopre di applicare una doppia morale, forse l’unica praticabile. Nel suo studio inizia la cura spiegando ai pazienti che non devono accusarsi delle loro passate azioni fallaci: non avevano consapevolezza delle motivazioni che li guidavano, nè controllo sui propri affetti. La responsabilità, in terapia, è la meta cui arrivare. Lo stesso non possiamo affermare se chiamati a far da periti in tribunale. Dobbiamo essere severi, lasciare l’irresponsabilità delle proprie azioni a chi non è capace di intendere e volere. Due pesi e due misure e io non ho trovato una soluzione migliore a questo dilemma.

Più agevole è raccogliere l’eredità della Scuola Positiva nella pratica riabilitativa. Per i delinquenti a sangue freddo ci si rassegni. Per i delinquenti passionali si può fare molto. Con i colleghi Robert Schweitzer e Dave Misso della Queensland University of Technology di Brisbane stiamo lavorando a un modello di terapia per i perpetratori di violenza domestica. L’obiettivo è farli accedere al senso di vulnerabilità precedente all’esplosione di rabbia che è diventata aggressione. E curare quella ferita. Se si riesce a farlo, si guadagnano un uomo restituito alla società e una vittima in meno all’uscita dal carcere.

Scelte sociali: seguire il naso o seguire gli occhi? È una questione d’età

Psicologi e neuroscienziati hanno studiato approfonditamente il comportamento olfattivo nei neonati e negli adulti. Tuttavia, è ancora poco chiaro come l’olfatto interagisca con gli altri sensi durante infanzia e adolescenza.

 

In uno studio della SISSA in collaborazione con il Please Touch Museum di Philadelphia (un museo interattivo della scienza dedicato ai bambini), più di 150 bambini fra i 3 e gli 11 anni hanno partecipato ad un semplice esperimento che ha permesso di tracciare una curva di sviluppo dell’integrazione visuo-olfattiva. In questa ricerca pubblicata su Developmental Science, i ricercatori hanno osservato che prima dei 5 anni i bambini tendono a non integrare ciò che vedono e ciò che annusano.

L’esperimento era molto semplice – spiega Valentina Parma, ricercatrice della SISSA di Trieste che ha coordinato la ricerca. – I bambini prima annusavano un odore da un pennarello che poteva emanare l’odore di rosa, di pesce marcio e oppure nessun odore e subito dopo veniva chiesto loro di indicare uno fra due volti che apparivano su un monitor. L’espressione delle facce poteva essere neutra, felice o disgustata.

Come spiega Parma, fino a 5 anni i bambini tendono semplicemente a scegliere la faccia con l’espressione felice, senza nessun collegamento con l’odore poco prima annusato:

I bambini preferiscono questi volti perché veicolano un’emozione positiva, è una tendenza generale nota in letteratura

Dopo i cinque anni, però, i bambini cominciano a scegliere la faccia con l’espressione congruente all’odore che hanno appena annusato.

L’odore che giudicavano come soggettivamente meno piacevole – generalmente l’odore di pesce, ma non solo! – incrementava la scelta della faccia disgustata – continua la ricercatrice.

Questo comportamento si fa via via più marcato con il crescere dell’età dei ragazzi.

Il nostro lavoro contribuisce a colmare un vuoto nella letteratura definendo come nello sviluppo tipico olfatto e vista vengono integrati in bambini e pre-adolescenti, indicando il ruolo che l’olfatto ricopre nel modificare la capacità di scelta nei bambini. Diverse sono le ipotesi relative ai meccanismi alla base di questo processo – commenta Parma. – La più probabile è che questo comportamento sia collegato allo sviluppo della teoria della mente, ovvero la capacità di mettersi nei panni degli altri. Sappiamo che attorno ai 5 anni questa capacità migliora significativamente per cui ipotizziamo che la scelta del volto congruente alla piacevolezza dello stimolo olfattivo sia legata alla capacità di mettersi nei panni delle persone il cui volto è presentato sullo schermo.

 

Più in dettaglio…

Un’altra cosa che rende particolarmente originale questo lavoro di ricerca è che la parte sperimentale è stata svolta tutta all’interno del Please Touch Museum di Philadelphia, proprio insieme ai suoi piccoli visitatori.

Il progetto è stato possibile grazie a un finanziamento della National Science Foundation, un importante organismo americano che mette a disposizione dei fondi per portare la ricerca al grande pubblico, mettendo in contatto il mondo della ricerca con quello dei musei della scienza. – conclude Parma. – È stata un’esperienza nuova per noi e devo dire è stata divertente ed istruttiva.

Il disturbo bipolare e il disturbo da abuso di alcol: le difficoltà diagnostiche quando coesistono

Anche se l’eziologia del disturbo bipolare associato al Disturbo da Abuso da Alcool è ancora poco conosciuta, sono state avanzate alcune ipotesi. Entrambe le condizioni condividono traiettorie sovrapponibili sul livello genetico, neurochimico, neurofisiologico e neuroanatomico. E’ ipotizzabile che entrambi i disturbi si sviluppino da una simile vulnerabilità genetica.

Valentina Zanon, OPEN SCHOOL PTCR BOLZANO

Il disturbo bipolare: le difficoltà diagnostiche

Il Disturbo Bipolare (DB) è un disturbo dell’umore caratterizzato dall’alternanza di fasi con sintomi depressivi e fasi di tipo maniacale intercalate da fasi di eutimia. La più recente definizione dei disturbi dell’umore è data dal DSM-5   che ha introdotto il criterio soglia “aumentata  energia/livello  di  attività”  per  la  definizione  dell’  ipomania/mania  e  che considera gli “episodi maniacali indotti da antidepressivi”.

Il Disturbo Bipolare è difficile da diagnosticare e spesso i pazienti ricevono una accurata diagnosi di Disturbo Bipolare solo dopo circa 9 anni dall’esordio e ricevendo quindi un trattamento inadeguato o inappropriato  che può portarli a inficiare le loro prospettive lavorative e sociali (Nasrallah, 2015).

Il DSM-5 non considera inoltre ancora la possibilità di ipotizzare una diagnosi di Disturbo Bipolare in caso di “episodi maniacali indotti da sostanze (non antidepressivi)”, mentre il recente studio internazionale BRIDGE (Bipolar  Disorders:  Improving  Diagnosis,  Guidance  and  Education) suggerisce che pazienti che presentano stati maniacali indotti da sostanze, di fatto presentino caratteristiche bipolari (familiarità, precoce età di insorgenza, stagionalità e resistenza al trattamento antidepressivo). D’altro canto, la presenza di episodi ipomaniacali può essere frequentemente mascherata dall’abuso di sostanze che se non tempestivamente riconosciute potrebbero far propendere per una errata diagnosi di Disturbo Depressivo Maggiore (Angst, Ajdacic-Gross & Rössler, 2015).

 

Il disturbo bipolare e l’abuso di sostanze

Oltre ai rischi connessi ad una errata diagnosi, l’abuso di sostanze frequentemente complica il decorso del Disturbo Bipolare aumentando la presenza di stati misti e aumentando la durata di remissione dagli episodi maniacali. L’incremento nella quantità e nella frequenza del consumo di alcool può precipitare l’insorgenza di episodi depressivi (Jafee et al. 2009). Molti studi evidenziano inoltre il significativo aumento dell’impulsività e del rischio di suicidio tra i pazienti con questa doppia diagnosi (Arias et al. 2016; Oquendo et al. 2010) . Si stima che il 14-16% di questi pazienti completerà infatti un suicidio (Tolliver & Anton, 2015).

L’abuso di sostanze sembra essere la regola piuttosto che l’eccezione, ed è risultato evidente nel 34% dei pazienti con Disturbo Bipolare, i quali hanno fatto uso di: 82% alcool, 30% cocaina, 29% marijuana, 21% sedativi, ipnotici o anfetamine e 13% oppioidi (Goldberg et al., 1999).

Molti studi epidemiologici hanno trovato un’alta percentuale di Abuso di Sostanze tra i pazienti con Disturbo Bipolare. Una recente Meta-analisi ha evidenziato che circa un terzo dei pazienti con disturbo Bipolare soddisfaranno i criteri per una diagnosi di Disturbo da Abuso da Alcool (DAA) durante la vita (44% dei maschi e 22% delle femmine). Generalmente, pazienti con abuso/ dipendenza da sostanze hanno una probabilità di 5/6 volte maggiore rispetto alla popolazione generale di presentare un Disturbo Bipolare. La ricerca ha isolato tre diversi tipi di pazienti in base alla cronologia di esordio delle condizioni : 1) prima Disturbo da Abuso da Alcool 2) prima Disturbo bipolare 3) Esordio simultaneo. Sembrerebbe che il disturbo Bipolare preceduti da Disturbo da Abuso da Alcool rappresentino una forma più lieve della malattia (Balanzá-Martínez et al., 2015).

Anche se l’eziologia del disturbo bipolare associato al Disturbo da Abuso da Alcool è ancora poco conosciuta, sono state avanzate alcune ipotesi. Entrambe le condizioni condividono traiettorie sovrapponibili sul livello genetico, neurochimico, neurofisiologico e neuroanatomico. E’ ipotizzabile che entrambi i disturbi si sviluppino da una simile vulnerabilità genetica. E’ altrettanto possibile che l’abuso di alcool e sostanze rappresenti per alcuni pazienti con disturbo bipolare un tentativo di automedicazione dei sintomi del disturbo dell’umore. E’ possibile che entrambi i disturbi condividano inoltre simili meccanismi quali un’alta impulsività, scarsa modulazione della motivazione e reazione alla ricompensa e una elevata suscettibilità alla sensibilizzazione comportamentale a fattori di stress (ibidem).

Sono stati esplorati anche alcuni fattori clinici in quanto i pazienti manifestano un aumento nel consumo delle sostanze durante le fasi maniacali, possibilmente a causa del comportamento disinibito, della ricerca del piacere e della condotta impulsiva tipica di questi stati. Il consumo di sostanze sembra infatti ridursi durante le fasi depressive (Arias et al. 2016).

A livello clinico, la doppia diagnosi ha un effetto terapeutico e prognostico sfavorevole su entrambi i disturbi. Rispetto a pazienti con disturbo bipolare senza concomitante abuso di alcool e sostanze, i pazienti con entrambi i disturbi presentano esordi più precoci, scarsa aderenza ai trattamenti, episodi più lunghi e frequenti, maggior numero di ricoveri, maggior numero di episodi misti, maggior incidenza di cicli rapidi, maggiore impulsività,  maggiori episodi di comportamenti aggressivi e tentati suicidi. La presenza di Disturbo da Abuso da Alcool può  precipitare il funzionamento dei pazienti con Disturbo bipolare al livello di pazienti schizofrenici. Entrambi i disturbi sono associati infatti a gravi deficit neurocognitivi che aumentano in modo significativo in caso di doppia diagnosi (DB + DAA).

Una recente revisione della lettura supporta la presenza di deficit in quasi tutti i domini neurocognitivi di pazienti con Disturbo Bipolare. Questi deficit sono qualitativamente simili a quelli osservati nella Schizofrenia ma di severità minore. Sembra che i deficit neurocognitivi siano una costante nel Disturbo Bipolare e che si presenti come una caratteristica nucleare del disturbo che può essere attenuata o esasperata dalle specifiche caratteristiche del paziente: età, genere, cultura, fasi della malattia, esposizione farmacologica, comorbidità con altre patologie psichiche e/o organiche e concomitante abuso di alcool o sostanze (Tsitsipa & Fountoulakis, 2015).

L’alcolismo cronico ha effetti nocivi sulla salute cerebrale e comporta un assottigliamento della corteccia. Sono stati descritti anche atrofia cerebrale, allargamento dei solchi, riduzione dell’afflusso ematico e del metabolismo del glucosio specialmente nelle aree pre-frontali. L’abuso cronico di alcol è stato associato a diversi disturbi neurocognitivi della memoria episodica, attenzione, abilità visuo-spaziali, fluenza verbale e nelle funzioni esecutive (problem solving, memoria di lavoro e flessibilità mentale). Circa il 50/80 % dei pazienti presenta disturbi neurocognitivi di varia gravità. Studi prospettici suggeriscono che l’astinenza da alcol risulta in una parziale remissione dei deficit dell’attenzione sostenuta. In particolare i deficit sembrano permanere fino a un anno dalla cessazione dell’assunzione di alcol per poi andare incontro a una remissione; tuttavia i deficit visuo spaziali possono permanere anche per periodi più lunghi di astinenza (Balanzá-Martínez et al., 2015).

 

Il trattamento dei pazienti con disturbo bipolare e disturbo da abuso di alcol

Il trattamento dei pazienti con Disturbo bipolare e disturbo da abuso di alcol risulta complesso. Una recente revisione della letteratura ha esaminato 30 studi sperimentali sull’efficacia di trattamenti psicologici (11) e farmacologici (19) su pazienti con doppia diagnosi. Sembra che terapie psicologiche di gruppo che includono la psico-educazione e l’inclusione dei famigliari portino a una riduzione dei sintomi e possono avere un effetto preventivo sull’abuso di alcool sui dropouts. La quietapina sembra attenuare i sintomi psichiatrici mentre il valproato sembra essere efficace nella riduzione del consumo di alcool (Secades-Álvarez & Fernández- Rodríguez, 2015). Altri studi riportano una povera risposta al Litio, farmaco di elezione per il trattamento del disturbo bipolare (Tolliver & Anton, 2015).

Un numero esiguo di studi a oggi ha esplorato gli effetti della Terapia Cognitivo Comportamentale (TCC) su pazienti con disturbo bipolare con concomitante diagnosi di abuso di alcool o sostanze. La TCC appare efficace nella riduzione dei sintomi maniacali e nell’incremento dei mesi di astinenza. Sembra che la TCC individuale e di gruppo possa migliorare l’aderenza ai trattamenti farmacologici, ma a oggi non sembra esistano studi che hanno indagato questo aspetto nello specifico (Gaudiano, Weinstock & Miller; 2008).

The Young Pope di Paolo Sorrentino: il Finale di stagione – la voce al dolore dei bambini 

The Young Pope: L’intera puntata è centrata sulla trasformazione di Papa XIII e contemporaneamente di coloro che come lui hanno vissuto il trauma dell’abbandono o dell’abuso permettendo di osservare come la mente di un bambino e di un adulto possa in ogni momento della vita iniziare un importante lavoro di elaborazione e trasformazione di sé.

 

Le storie di maltrattamento subite dai bambini nella serie The Young Pope

A noi importa di tutti i bambini. Tutti” questa frase che rappresenta il filo conduttore del Finale di stagione si alza come un monito a tutta l’umanità nel colloquio tra Papa Pio XIII con il Cardinale Kurtwell e Monsignor Gutierrez.

L’attenzione al rispetto, alla protezione e alla cura dei bambini è presentata attraverso le immagini di un’infanzia maltrattata, negata, offesa dagli adulti e di una felice, serena rappresentata dal piccolo Pio, dai giochi dei bambini, dalla piccola Beata Juana.

Le storie di abbandono si intrecciano a quelle di maltrattamento e abuso nei percorsi esistenziali di Papa XIII, del Cardinale Gutierrez e Kurtwell e di David Taniston, figlio rinnegato di quest’ultimo. Ma Sorrentino non si ferma nella semplice denuncia di queste ultime situazioni, permette allo spettatore di comprendere la forza e la potenza delle relazioni nel processo di resilienza come nel caso della relazione di Lenny con Suor Mary e il Cardinale Spencer o del suo contraltare, ovvero nell’assenza di sostegno, nel vuoto relazionale come nel caso di Monsignor Gutierrez o di Kurtwell imprigionati nel passato di abuso sessuale subito e nel conseguente alcolismo del primo e nella riproposizione del comportamento abusante in età adulta del secondo.

 

Il finale di The Young Pope: la maturazione di chi ha subito maltrattamenti o abbandoni nell’infanzia

L’intera puntata è centrata sulla trasformazione di Papa XIII e contemporaneamente di coloro che come lui hanno vissuto il trauma dell’abbandono o dell’abuso permettendo di osservare come la mente di un bambino e di un adulto possa in ogni momento della vita iniziare un importante lavoro di elaborazione e trasformazione di sé.

Sorrentino ci accompagna nell’analisi dei processi psicologici che vivono i suoi protagonisti permettendoci di osservare le emozioni provate dai bambini e dagli adulti, i ricordi dei giochi relazionali subiti – si pensi al Cardinale Kurtwell o al giovane David Taniston – le rappresentazioni di sé interiorizzate in seguito alle esperienze maltrattanti e la dinamica arricchente del sostegno relazionale, affettivo ed emotivo che lavora sulla formazione dell’autostima in ogni età della vita (Gutierrez), sulla consapevolezza delle proprie potenzialità, sulla definizione del proprio progetto di vita, sull’assunzione di responsabilità, sulla riparazione delle sofferenze provocate o subite.

Nel Finale di Stagione il “bambino Papa XIII diventa adulto”, dopo un importante lavoro relazionale con Suor Mary e il Cardinale Spencer di elaborazione del trauma, di comprensione delle potenzialità e definizioni del proprio progetto di vita. Questo è ben visibile quando Papa Pio XIII chiede a Suor Mary “Chi sono io?”. E lei decisa risponde: “Tu sarai, il Papa più amato dalla gente. Tu sei un Santo, un bellissimo Santo. Tu sei il dolce Gesù Cristo sceso sulla terra. Grazie. …..”.

E’ in questo momento che entrambi sono pronti a salutarsi e che Papa Pio XIII è in grado di restituire il progetto di vita che Suor Mary ha sempre portato avanti, sapendo che ognuno può realizzarsi pienamente nella propria vita.

Suor Mary chiede a Papa XIII “ Dove andrò? “ “dove avresti voluto sempre essere con i bambini. Sei un’ orfana, gli orfani vogliono stare con i bambini per sempre”….. Come sai che sono un’orfana? L’ho sempre saputo. Come l’ha saputo ? E’ difficile per un Santo rispondere alle domande degli essere umani”. E’ in questo momento che Lenny restituisce a Suor Mary l’immagine che lei ha sempre cercato di presentargli della sua storia, delle sue capacità, della sua identità. E’ il momento del riconoscimento reciproco e legittimazione come genitori e figli: “Posso tornare a chiamarti Lenny? Solo se posso chiamarti Ma. Si puoi chiamarmi Ma”. E’ qui che il Papa comprende di aver concluso la ricerca dei genitori, riconosce la sua filialità sociale nei confronti di Suor Mary legittimandola come madre. Lenny diventa pienamente consapevole di sé, della sua storia, del suo progetto grazie alle persone che l’hanno sostenuto e restituito un’immagine di sé positiva, coerente con le sue potenzialità e con il suo progetto di vita, rivisitando l’immagine di sé come orfano attraversando l’immagine “dell’amore perso e dell’amore trovato”: “Aveva ragione lo sa, un orfano maturando può trovare un’inedita forma di gioventù dentro di sé”.

La maturità esistenziale di Papa Pio XIII è visibile nella relazione con Gutierrez verso cui assume la funzione di sostegno emotivo e affettivo. Quello che Suor Mary e il Cardinale Spencer avevano svolto nei confronti di Lenny, Papa Pio XIII lo riesce a compiere nei confronti di Gutierrez, offrendogli sin dai primi momenti del suo Pontificato, una visione di sé positiva, basata sulla fiducia, sulle potenzialità di essere e fare.

Papa Pio XIII si fida di Gutierrez e per questo gli assegna un progetto che gli permetterà di attraversare la sua storia, i suoi fantasmi e di trovare la forza di affermarsi, arrivando alle prove degli abusi di Kurtweell. Fino a quando gli chiederà di diventare suo segretario personale confidandogli: “Suor Mary ha terminato il suo compito” …. “Il Papa bambino si è fatto uomo, prima gli serviva una figura materna, ora invece un collaboratore”.

Voiello con delicatezza presenta al Papa XIII, ormai consapevole del fatto che è pronto a parlare della sua storia e del suo abbandono, il tema della scelta della rinuncia alla genitorialità, accennando al tema del “ripudio di un figlio” contrapponendola alla scelta di assunzione della responsabilità genitoriale di Suor Mary visibile nelle numerose storie di adozione e affidamento. Per lui essere genitori significa scegliere ogni giorno di esserci, di stare al fianco di un figlio, mentre chi abbandona, di frequente, sceglie di continuare a farlo, sino a rinnegare un figlio. E’ a questo punto che Papa Pio XIII, ormai diventato uomo, può ritornare alla sua domanda esistenziale più profonda: “Dov’è Dio” e collegando ancora la sua storia di vita al suo progetto personale, risponde: “A Venezia”. “E dove?” “Questa è una cosa che devo ancora scoprire”.

E così, anziché andare in Guatemala, decide di andare nella città lagunare, non per seppellire le bare, ma per incontrare Dio e per scoprire se stesso. Ed ecco che la piazza è piena, l’assenza si è riempita della presenza di Dio, così come il silenzio, il vuoto che ha mosso le folle che cercano Dio. Qui Sorrentino descrive un Papa che non ha paura di rivelarsi, che si riconosce come uomo, figlio, padre e Santo. E’ un Papa che si emoziona, che si lascia trasportare e arriva a spiegare chi è Dio attraverso le parole della piccola Beata Juan: “Dio è una linea che si apre…. Dio non sente, Dio non chiede …. e allora Dio chi è?” …….. “Dio sorride”.

In questo momento Papa Pio XIII si volge alla folla gremita nella piazza e dice: “E adesso io prego tutti voi sorridete”. Poi prende il binocolo, regalatogli da Gutierrez, e guarda ad una ad una le persone ridere. Lì, tra loro, vede i suoi genitori, prima con gli occhi dell’adulto, anziani, con il volto buio, poi con quelli del bambino, giovani, come se li ricordava. Ma come anticipato da Voiello, in quel momento si voltano e vanno via, responsabili non solo dell’abbandono, ma anche del rifiuto di lui come persona. Lenny per due volte vive l’abbandono, il primo quando l’hanno lasciato in Istituto, il secondo quando l’hanno rinnegato come figlio, in quella piazza, nel momento in cui lui ha raggiunto pienamente se stesso. Il dolore è lacerante, come quello vissuto vedendo Suor Mary andare via, ma ormai è adulto: ha la forza di andare avanti e di superare e resistere a quel dolore presentandosi a sé e agli altri nella più profonda autenticità e nella consapevolezza del proprio progetto di vita.

Meglio dirsele. Imparare a litigare bene (2015) di D. Novara – Recensione

Litigare fa bene? Sì, se si litiga bene! Questa è in sintesi la risposta che fornisce l’interessante lettura di Meglio dirsele. Imparare a litigare bene.

 

In Meglio dirsele. Imparare a litigare bene Daniele Novara, pedagogista con una pluriennale esperienza nell’ambito della gestione dei conflitti, indaga e chiarisce gli equivoci più comuni e diffusi che contribuiscono a mantenere una generale preferenza per una “cultura del non conflitto” nel contesto della vita di coppia. Dietro alla tendenza ad evitare o a limitare il più possibile il litigio ci sarebbero infatti diversi fattori da considerare:

  • Il cosiddetto “complesso dell’armonia” sorretto dalla pretesa che l’altro ci fornisca il benessere che non abbiamo, in assenza di elementi conflittuali;
  • La tendenza a privilegiare una modalità di comunicazione implicita con l’aspettativa di una piena comprensione reciproca dei propri stati d’animo e bisogni;
  • La scarsa competenza conflittuale che corrisponde ad una ridotta capacità di tollerare e di affrontare la tensione emotiva considerata una “minaccia insopportabile”.

 

Meglio dirsele. Imparare a litigare bene: come misurare la salute di una coppia?

Secondo l’autore di Meglio dirsele. Imparare a litigare bene, per misurare il grado di salute di una coppia occorre riflettere anche sulla sua capacità di comunicazione e di gestione della conflittualità interna. Piuttosto che focalizzare l’attenzione sulla mera attitudine all’eliminazione dei conflitti, occorrerebbe centrarsi sull’apprendimento della loro gestione efficace e costruttiva.

Riconoscere cosa non bisogna fare durante un conflitto è il primo step per imparare a litigare bene; “tre passi indietro” utili in questa direzione consistono nel:

  • Non ostinarsi a cercare un colpevole: il litigio non è qualcosa di sbagliato in cui occorre colpevolizzare qualcuno;
  • Non dare consigli non richiesti: spesso ciò dà adito a interpretazioni distorte da una parte (chi lo suggerisce si attende che venga accolto e, se così non avviene, se ne risente) e dall’altra (chi lo riceve può percepirlo come un’ingerenza inopportuna che veicola anche un’idea di un’inadeguatezza altrui);
  • Non viverla come una gara in cui vincere: il confronto vissuto a livello agonistico perde il suo potenziale arricchente e costruttivo.

 

Comprendere i conflitti

Le strategie utili (“passi in avanti”) per imparare a comprendere i conflitti, prima che a risolverli prevedono attenzione per questi aspetti:

  • Non identificare il problema con la persona: puntare prioritariamente all’interesse comune permette di uscire dalle improduttive logiche di correzione dei difetti reciproci;
  • Ascoltare senza intervenire per commentare: limitare al minimo le possibili interferenze consente una maggiore sintonizzazione e condivisione dei vissuti espressi, disincentivando le dinamiche difensive;
  • Differenziare il livello del contenuto da quello della relazione: sulla base della buona fede reciproca, occorre evitare di dare eccessiva importanza ai pretesti verbali che rischiano solo di innescare fuorvianti giudizi negativi sulla persona;
  • Privilegiare le informazioni ai consigli non richiesti: comunicazioni neutre e non invadenti a carattere informativo salvaguardano lo spazio individuale all’interno della coppia;
  • Fare proposte piuttosto che impartire ordini: superare posizioni rigide o vittimistiche aiuta ad individuare alternative maggiormente soddisfacenti per entrambi;
  • Verificare la reale disponibilità ad affrontare il confronto in un certo momento ed eventualmente rimandare al momento più opportuno per entrambi: ciò permette di prepararsi meglio psicologicamente all’interno di un clima di rispetto reciproco;
  • Utilizzare domande maieutiche piuttosto che interrogativi tendenziosi: ciò ha una funzione distensiva e aiuta a spostare il conflitto su un piano cooperativo.

In questa prospettiva, in Meglio dirsele. Imparare a litigare bene, il conflitto viene ad assumere un’importante valenza positiva divenendo un elemento benefico poiché fonte di “evoluzione e rinnovamento reciproco”, funzionale perché in grado di contribuire a far maturare maggiore esperienza e consapevolezza di se stesso e delle dinamiche a due e, infine, preventivo per una buona tenuta e un buon esito della relazione di coppia.

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