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Relazione amorosa: emozioni, ricordi e sensi di colpa

Mi frequento con una ragazza da qualche mese, ma ogni volta che torna la mia ex in città, mi sorgono i dubbi. Purtroppo so che la mia ex non è la persona adatta a me e vorrei smettere di pensare a lei. Era tutto per me ed ora che tutto è finito non mi sembra vero. Penso di essere egoista perché sto con la ragazza attuale solo perché ogni tanto sto bene, meglio che star soli.  

(Matteo)

 

Caro Matteo,

non riassumerei tutta la questione nell’egoismo. Vivere un’intensa storia d’amore è un’esperienza che porta con sé innumerevoli stati d’animo, emozioni e ricordi. Quando questa relazione finisce non c’è da sorprendersi se emozioni e  ricordi legati ad una persona con cui si è condiviso tanto non svaniscono in 24 ore, ma anzi tornano alla mente ogni volta che vi sia un qualcosa, da una fotografia a un luogo alla persona stessa, che ci riporta indietro nel tempo.

Si ha la tendenza ad immergere la nostra mente in una situazione alla volta, in questo specifico caso in una relazione. Tendenza che fa vivere come sbagliati pensieri e reazioni che non lo sono. Infatti non c’è niente di male se, come nel tuo caso, pur frequentandosi con una nuova ragazza, la mente a volte ritorna alla relazione passata. Non è possibile decidere di cancellare le nostre memorie, si può solo imparare a riporle nel giusto cassetto dopo il tempo soggettivamente necessario per elaborarle.

Valentina Orlandi

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La paura dell’ignoto e lo sviluppo di disturbi d’ansia

Secondo quanto riportato in un recente studio dai ricercatori dell’Università dell’Illinois di Chicago (UIC) numerosi disturbi d’ansia, tra cui il Disturbo da Attacchi di Panico, la Fobia Sociale e le Fobie Specifiche condividono un tratto sottostante comune: un’aumentata sensibilità a stimoli minacciosi poco chiari, la cosiddetta paura dell’ignoto.

 

Questa scoperta potrebbe aiutare ad orientare i trattamenti di questi disturbi verso una nuova direzione: dalle terapie basate sulle singole diagnosi ai trattamenti delle caratteristiche comuni ai diversi disturbi. [blockquote style=”1″]Un trattamento o un insieme di trattamenti focalizzati sulla paura dell’ ignoto risulterebbe in una modalità di trattamento più efficiente e di forte impatto destinata a numerosi disturbi e sintomi d’ansia[/blockquote] ha detto Stephanie Gorka, assistente ricercatore di psichiatria e psicologa clinica presso l’Istituto di Medicina dell’UIC.

La paura dell’ignoto

Una minaccia incerta e poco chiara è imprevedibile in termini di tempo, intensità, frequenza o durata e suscita una sensazione generalizzata di apprensione e ipervigilanza.

[blockquote style=”1″]E’ ciò che noi chiamiamo ansia anticipatoria. Qualcosa di molto simile a ciò che avviene quando il nostro medico curante ci chiama per comunicarci i risultati degli esami medici a cui ci siamo sottoposti e non sappiamo esattamente cosa aspettarci[/blockquote] ha detto Gorka, autrice dello studio pubblicato sul Journal of Abnormal Psychology.

Quando una persona è sensibile a questo tipo di paura, può finire col passare l’intera giornata immersa nell’ansia e nella preoccupazione che qualcosa di brutto possa succedere da un momento all’altro. Il Disturbo da Attacchi di Panico ne è un esempio molto chiaro: i pazienti che ne soffrono sono costantemente preoccupati dalla possibilità di avere un attacco di panico in qualsiasi momento.

Le minacce prevedibili, al contrario, producono una distinta risposta attacco-o-fuga che ha un chiaro elemento di innesco, come ad esempio un orso che ci corre incontro, e che si riduce una volta che la minaccia è scomparsa.

Precedenti ricerche condotte da Gorka e colleghi avevano già suggerito che l’aumentata sensibilità a minacce incerte potrebbe essere un importante fattore che caratterizza le psicopatologie internalizzanti basate sulla paura, ma la maggior parte delle ricerche si sono focalizzate sul Disturbo di Panico, pertanto il ruolo di tale fattore negli altri disturbi basati sulla paura – in particolare Fobia Sociale e Fobie Specifiche – rimane poco chiaro.

Lo studio

Gorka e colleghi hanno esaminato i dati provenienti da due differenti studi condotti dall’UIC in cui i partecipanti dovevano completare un compito basato su stimoli di paura. I due studi hanno coinvolto soggetti di età compresa tra i 18 e i 65 anni così suddivisi: 25 soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore, 29 con Disturbo d’Ansia Generalizzata, 41 con Fobia Sociale e 24 con una Fobia Specifica. Inoltre, sono stati coinvolti 41 soggetti di controllo senza diagnosi di psicopatologia corrente o precedente.

I ricercatori hanno misurato i battiti di ciglia dei partecipanti in risposta a lievi scosse elettriche (prevedibili o imprevedibili) somministrate al polso. Per elicitare i battiti di ciglia durante il compito della scossa elettrica, i partecipanti udivano brevi toni acustici attraverso cuffie auricolari.
[blockquote style=”1″]Non importa chi sei o qual è il tuo stato di salute mentale, strizzerai gli occhi, battendo le ciglia, in risposta al suono. E’ un riflesso naturale, tutti lo fanno, senza alcuna eccezione[/blockquote] ha detto Gorka.

I ricercatori hanno misurato la forza dei battiti di ciglia di ciascun partecipante usando un elettrodo posizionato sotto ciascun occhio. Hanno inoltre confrontato la forza dei battiti in risposta ai toni somministrati durante scosse prevedibili e la forza dei battiti effettuati durante scosse imprevedibili.

Ciò che è emerso è che i partecipanti con Ansia Sociale o con una Fobia Specifica strizzavano gli occhi con più forza durante le scosse imprevedibili rispetto ai partecipanti senza una diagnosi di psicopatologia o ai partecipanti con un Disturbo Depressivo Maggiore o con un Disturbo di Ansia Generalizzata.

[blockquote style=”1″]Abbiamo ormai classificato tanti diversi disturbi dell’umore e disturbi d’ansia, e per ognuno è stato fornito il proprio set di linee guida per il trattamento, ma se spendessimo del tempo trattando le caratteristiche comuni ai diversi disturbi, potremmo ottenere migliori progressi[/blockquote] ha detto Luan Phan, professore di psichiatria, direttore del programma di ricerca sui disturbi d’ansia e dell’umore e autore senior dello studio. [blockquote style=”1″]Sapere che la paura dell’ ignoto sottostà a tutti i disturbi d’ansia basati sulla paura suggerisce inoltre che i farmaci che agiscono in modo specifico su questa sensibilità potrebbero essere usati o sviluppati per trattare questi disturbi.[/blockquote]

Otto Rank e la simbologia del doppio: analisi del film “Lo studente di Praga”

“Il Doppio” di Otto Rank è un breve saggio che ha introdotto temi e metodi di analisi di grande valore e che ne fanno un piccolo classico della letteratura psicoanalitica. Il libro inizia con l’analisi di un film “Lo studente di Praga” di Stellan Rye (1913), tratto da un racconto di H.H. Ewers.

 

La lettura psicoanalitica di Rank del film “Lo studente di Praga”

Il motivo centrale di questa storia è una variante del patto col diavolo. Il protagonista vende la propria immagine riflessa in uno specchio in cambio di un ingente patrimonio, che gli assicura potere e successo. Nel corso della storia, quest’immagine gli apparirà di fronte, con sembianze identiche, ma autonoma e con iniziative personali, interferendo in maniera disturbante nella sua esistenza. Il tema centrale che viene qui rappresentato è il significativo problema del rapporto dell’uomo col suo Io.

Rank sottolinea diverse caratteristiche della vicenda narrativa:
1) l’angoscia del protagonista per la perdita del proprio riflesso allo specchio;
2) la persecuzione da parte di quest’immagine speculare resasi ormai autonoma che ostacola l’Io sempre e ovunque (con effetti catastrofici soprattutto nell’amore);
3) il fatto che una ferita da lui inferta al suo Doppio gli causerà la morte poiché la vita del Doppio è strettamente legata a quella della persona reale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM:

Elemento essenziale delle storie sul Doppio prese in esame da Rank, è l’autonomia, completa o parziale, della propria immagine, che si tratti di un’ombra, di un riflesso nello specchio, di un sosia in carne e ossa o di un ritratto. Altro elemento caratterizzante è la contrapposizione tra il personaggio e il suo Doppio, che acquista una tonalità negativa e persecutoria.

Rank sintetizza la situazione in questo modo:
Ci imbattiamo sempre in un’immagine che somiglia minuziosamente al protagonista: nel nome, nella voce, nell’abito, e che, “quasi rubata da uno specchio” (Hoffmann), nella maggioranza dei casi si fa avanti proprio attraverso lo specchio.

 

Il rapporto tra l’Io e il Doppio

Il Doppio si contrappone di continuo all’Io. La situazione precipita di solito nel rapporto con la donna, ha una svolta con l’uccisione del persecutore, si conclude con il suicidio. In alcuni casi viene complicata dall’insorgere del delirio di persecuzione; in altri ancora il delirio è al centro del racconto e si evolve in una vera e propria follia paranoica.

Il sosia invece rappresenta un alter ego specifico e paradossale. L’esperienza del sosia, in cui l’Io si presenta a sè medesimo, ricorda il momento della separazione e della perdita che hanno caratterizzato la costituzione stessa dell’Io infantile: un’esperienza che si colloca tra il distacco doloroso dall’oggetto narcisisticamente assimilato e l’angoscia per l’estraneo, tappe che segnano il cammino verso l’individuazione, passando attraverso l’identificazione. Il riconoscimento infantile di sé nello specchio di Lacan è preceduto dal rapporto di specchiamento felice del bambino nella madre. In origine l’Altro materno era inglobato nella coppia madre-bambino.

Nel rapporto Io-me, il desiderio rimosso o le proprie pulsioni inconsce assumono le sembianze di un Altro. L’Io utilizza, come supporto della rimozione, una sua scissione. Questa si appoggia, in certi casi, su un dato di fatto, costituito dagli elementi di diversità dell’Io rispetto al Simile. Perciò i desideri inconsci non appaiono all’Io come cosa propria, ma sotto forma di alterità. Quando l’Altro non è più semplicemente simile o diverso, ma è invece proprio assolutamente identico, si ha l’esperienza del sosia. Il sosia è e allo stesso tempo non è un altro me. L’Io lo riconosce con sembianze identiche ma le intenzioni del sosia, invece, saranno totalmente diverse; l’immagine di sé acquisterà vita propria, sino a non essere più un’immagine, sino a diventare un Altro.

L’immagine speculare, però, ricorda all’Io che i desideri che voleva realizzare e di cui insieme si voleva sbarazzare e che ora vede proiettate nel comportamento del sosia, sono pur sempre aspetti che appartengono all’Io stesso. Siamo allora di fronte a un fallimento della rimozione, a un ritorno del rimosso. In seguito a ciò, il soggetto si ritrova in una situazione che va dal turbamento sino al raccapriccio più tormentoso. La scissione psichica, quindi, crea il Doppio; il Doppio, a sua volta, rappresenta una proiezione del conflitto interiore, la cui creazione porta con sé una liberazione interiore, un alleggerimento, a prezzo però della paura dell’incontro col Doppio.

Il Doppio rappresenta i desideri segreti e sempre repressi della psiche. Bisogna capire quale situazione psicologica determina questa scissione interiore e la conseguente proiezione. Il sintomo più evidente sembra essere un profondo senso di colpa, che spinge il soggetto a non assumersi più le responsabilità di certe sue azioni attribuendole a un altro io, a un Doppio. Questa figura corrisponde alla figura dell’angoscia esistenziale, e quindi della morte. Scudo contro la morte è allo stesso tempo suo messaggero.

Il Doppio da un lato gode a spese del soggetto, osa ciò che il soggetto non oserebbe mai, realizza i suoi desideri rimossi, ma dall’altro opera affinché la colpa ricada su di lui. Inoltre appare sempre quando il soggetto vorrebbe abbracciare o baciare la donna che ama, ossia quando si avvicina troppo alla realizzazione dei propri desideri, quando è sulla soglia del godimento pieno. Solo l’alter ego offre il vero godimento, la donna invece è l’ostacolo al rapporto privilegiato con se stesso, quindi è necessario farla sparire, e se ne incarica il Doppio. Il Doppio tiene in pugno il perduto oggetto primordiale e il soggetto si riappropria del proprio essere primordiale solo a costo della propria vita. Il Doppio introduce così la pulsione di morte e quello che era stato concepito come difesa dalla morte, come protezione del narcisismo, diventa il suo messaggero. Quando appare il Doppio, il tempo è scaduto. Il confronto col Doppio non ha soluzione poiché, come abbiamo visto, fa sprofondare il soggetto nella psicosi.

Essere in ansia per la propria salute porta ad ammalarsi più frequentemente

La preoccupazione legata all’essere ammalati risulta essere associata ad una maggiore probabilità di sviluppare cardiopatie ischemiche (ad es. infarti e trombosi); tale fenomeno può essere contrastato con l’aiuto della psicoterapia.

L’ansia eccessiva per la salute

La maggior parte delle persone si ritiene felice quando gli esiti di esami medici risultano negativi, ma per circa il 5% della popolazione e il 15-20% dei pazienti all’interno di strutture ospedaliere (Wiliams & House, 2014) una tale notizia non è di alcun conforto. Infatti, per quelle persone caratterizzate da elevata ansia per la propria salute, nessun esito di alcun test riesce ad essere rassicurante. Questo tipo di persone presenta infatti, tra le altre cose, la tendenza a leggere attentamente qualsiasi informazione medica (o pseudo-medica) presente sul web alla ricerca di gravi diagnosi che possano essere in grado di spiegare i propri sintomi (“cyberchondria”; Tyrer et al., 2016).

Recentemente, però, Berge e collaboratori (2016) hanno svolto in Norvegia una ricerca su un campione di più di 7,000 soggetti, dimostrando la presenza di un’associazione tra l’ansia per la propria salute e l’effettiva tendenza ad ammalarsi di più. Secondo questo studio, infatti, le persone caratterizzate da questo tipo di ansia avrebbero circa il 73% di probabilità in più, rispetto a soggetti non ansiosi, di sviluppare un problema cardiaco nell’arco di 10 anni.

L’ansia relativa alla propria salute (health anxiety), diagnosi introdotta recentemente, viene definita come una preoccupazione persistente riguardante l’avere o il poter contrarre una qualche patologia estremamente grave. A questa preoccupazione consegue la tendenza a controllare continuamente in modo minuzioso il proprio corpo, spesso mal interpretando ipotetici sintomi e ricercando assiduamente pareri medici in merito, ma senza la possibilità di poter essere rassicurati da esiti negativi a test medici (Berge et al., 2016).

Infatti, questo tipo di pazienti risulta essere caratterizzato da ruminazione, tale per cui una volta che il pensiero relativo ad una qualche malattia si è instaurato nella loro mente, è impossibile per loro smettere di pensarci. Questa condizione si differenzierebbe però dall’ipocondria proprio per l’elevato livello d’ansia che la caratterizza. Infatti, i soggetti caratterizzati da ansia per la propria salute, più che voler essere guariti dai sintomi presenti a livello fisico, desiderano solo smettere di preoccuparsi per la possibilità di essere effettivamente malati (Tyrer et al., 2016). Inoltre, l’ansia relativa alla propria salute, come rilevato anche da Berge e al. (2016), è spesso rilevabile insieme ad effettive patologie fisiche, mentre l’ipocondria può essere diagnosticata solo in loro assenza.

 

L’ansia per la salute e il rischio maggiore di patologie cardiache

Lo studio di Berge et al. (2016), però, più che alleviare questa preoccupazione, sarebbe in verità riuscito ad accrescerla andando a collegare l’ansia per la propria salute con il rischio di sviluppare patologie cardiache. Questo studio, prendendo in considerazione i fattori legati allo stile di vita che possono favorire lo sviluppo di problemi di cuore, ha dimostrato infatti come coloro i quali riportavano maggiori livelli di ansia per la propria salute presentavano anche la tendenza a condurre una vita più sedentaria e a consumare più alcolici e tabacco, fattori di rischio per lo sviluppo di patologie cardiache, rispetto a coloro i quali riportavano minori livelli di ansia per la propria salute. Risulta però impossibile escludere che la presenza di malattie attuali, come il diabete o più in generale uno stile di vita dannoso, possa essere la causa dell’ansia relativa alla propria salute e anche di una futura patologia cardiaca. In altri termini, è impossibile escludere che la presenza di una reale malattia fisica possa moderare la relazione tra ansia per la propria salute e probabilità di sviluppare patologie quali la cardiopatia ischemica.

Per poter valutare la presenza o meno di ansia per la propria salute, autori come Tyrer (2014; 2011) ponevano ai soggetti di cui ne sospettava la presenza tre domande: “Si preoccupa in modo eccessivo per (patologia)? Ha la tendenza a preoccuparsi per la sua salute in generale? Ha mai avuto la sensazione che (patologia) fosse più grave di quanto i medici non le dicessero?”. Se i soggetti rispondevano in modo affermativo anche a solo una di queste domande, Tyrer suggeriva una psicoterapia, in quanto semplici rassicurazioni sono risultate essere insufficienti per placare l’ansia. Al contrario, autori come Berge et al. (2016), hanno valutato la presenza di questa patologia tramite un questionario self-report validato per l’indagine delle diverse dimensioni che caratterizzano questo disturbo, quali fobia, preoccupazione somatica e convinzione di essere malati.

Inoltre, Tyrer e collaboratori (2014, 2011) hanno dimostrato, svolgendo dei randomised controlled trial, come la terapia cognitivo-comportamentale può essere più efficace di un trattamento standard nel diminuire questo tipo di sintomatologia ansiosa e può anche essere necessaria per poter reinterpretare i pensieri ossessivi di queste persone riguardo alla propria salute. Risulta, tra l’altro, essere estremamente efficace il tenere un diario per legare i sintomi alle attività quotidiane. Infatti spesso i sintomi stessi possono essere riconducibili all’ansia ed è importante che le persone operino questa connessione per poter superare la condizione di costante ansia per la propria salute. Ad esempio, una persona potrebbe riportare di percepire un dolore al petto quando si trova a lavoro, ma non quando sta lavorando in giardino, il che renderebbe improbabile che il sintomo possa essere dovuto a cause fisiche e che quindi si possa trattare di un reale disturbo cardiaco.

Secondo Tyrer et al. (2014, 2011), inoltre, l’ansia per la propria salute solitamente avrebbe origine in giovane età in seguito ad eventi scatenanti, e potrebbe essere risolta dopo anche solo 5-10 sessioni di psicoterapia, con benefici anche sul lungo termine (misurazioni effettuate con un follow-up a 1 e 2 anni).

In conclusione, quindi, per coloro i quali controllano minuziosamente e costantemente la propria salute, senza trarre alcun beneficio da, ad esempio, riscontri medici negativi, sembrerebbe essere di grande beneficio il sottoporsi a qualche sessione di psicoterapia cognitivo-comportamentale con protocolli mindfulness o ACT (Acceptance and Commitment Therapy), anche di gruppo (Tyrer et al., 2016), per poter imparare a riconoscere cosa causi i dolori a livello fisico, in un’ottica di somatizzazione di stati d’ansia, che porterebbero poi, come conseguenza ultima in una sorta di circolo vizioso, all’acuirsi dell’ansia per la propria salute. Inoltre, come emerso dagli studi di Berge e collaboratori (2016) risulta essere estremamente importante riconoscere e trattare questa tipologia di ansia, in quanto predittiva di futuri disturbi cardiaci.

Elogio della tiepidezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale

In questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Elogio della tiepidezza (Nr. 15)

Essere dipendenti dagli altri: il senso di inferiorità e la mancanza di scopi

Nel tentativo di programmare una riattivazione comportamentale che fosse basata sui propri gusti e desideri in un paziente gravemente dipendente mi sono scontrato con una difficoltà insormontabile per me che ho lo stesso problema (me lo dicevano i saggi che dovevo fare una analisi didattica, e io duro!!) sulla quale peraltro entrambi facciamo un vistoso secondario di autosvalutazione.

In realtà ad una cosa il mio paziente è molto interessato, la coltiva da sempre e ne è diventato maestro: il gioco del corteggiamento e della seduzione. Lo capisco perfettamente ma si tratta di una strategia da un lato tutta interna alla politica estera del dipendente (teniamoci buoni tutti che non si sa mai), dall’altro tendente inutilmente a ristabilire una autostima vacillante in cerca costante di puntelli. In questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “ quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve. Si tratta di una risposta assolutamente sincera. Davvero non sa cosa desidera. Essendo una strategia di sopravvivenza molto precoce, credo che a lungo andare il monitor che vigila su bisogni interni e desideri vada in stand by o si spenga proprio definitivamente per risparmiare energia (sapete, immagino, che lasciare gli elettromestici in stand by comporta comunque un consumo) e che per riattivarlo più che un intervento psicoterapico, soprattutto “top down” sia necessaria una sorta di riabilitazione all’ascolto del marcatore somatico di Damasio ( nel senso di quello da lui descritto, non del marcatore di Antonio che non risolverebbe niente).

Siccome non tutto il male vien per nuocere ed anche un orologio fermo fa l’ora esatta due volte al giorno voglio pensare che a questa categoria di individui appartengano anche alcuni santi, eroi e benefattori dell’umanità che hanno sacrificato la loro esistenza per gli altri. Buon per noi! Ma non è di questi che dobbiamo occuparci. Indagando meglio sulla sua vita ho scoperto che anche il mio paziente prova un grande senso di inferiorità e forte invidia per gli “appassionati in genere”, non ha importanza se siano collezionisti di francobolli, maniaci della fotografia o ultras della Roma. L’invidia non è per l’oggetto della passione, giudicato talvolta persino ridicolo, ma per la capacità di appassionarsi. La stessa che si può provare di fronte a degli innamorati quando non lo si è.

 

Effetto collaterale della dipendenza: la solitudine

Un effetto collaterale di questa condizione di passioni barzotte, definibile come”patologia generalizzata del desiderio” è la mancanza di appartenenze, talvolta la solitudine. Gli esseri umani si raggruppano a seconda delle passioni condivise. Persino i luoghi di incontro sono definiti dalle passioni e interessi: lo stadio, l’auditorium, la discoteca. Se prova a frequentarli si vive come un ospite, un intruso. In ogni gruppo si sente fuori posto ( ogni tanto dunque alla diagnosi di dipendente aggiunge quella di evitante e si chiede se diventare un appassionato collezionista di diagnosi di asse II°, quelle di narcisista e borderline le sente a portata di mano e per le altre almeno una spruzzatina di comorbilità riuscirebbe a strapparla).

A volte fantastica di fondare un gruppo dei “fuori posto”, di definire l’appartenenza dei non appartenenti, ma è un ossimoro. Al grande raduno mondiale dei non appartenenti non ci sarebbe nessuno, perché quelli che arriverebbero andrebbero cacciati in quanto impostori, quelli veri non vengono. Chi non ha passioni è senza comunità di appartenenza e senza terra, un apolide errante. Ha l’impressione che gli altri vivano pienamente mentre lui galleggia. Pensa che la frase di San Paolo per cui il tiepido sarà vomitato sia stata scritta per lui.

Insomma si autosvaluta pur trattandosi spesso di persona interessante. Infatti non è che non abbia interessi, è che non li approfondisce, non si specializza. Gli piacciono molte cose ma la specializzazione e l’esclusività lo annoiano. Diciamo che preferisce l’ampiezza piuttosto che la profondità. Al contrario di chi dice “poche cose ma ben fatte” lui è per “molte cose come vengono vengono”. Per attaccare il secondario di autosvalutazione gli propongo l’idea dell’uomo libero, del cane sciolto che non si esaurisce in una sola appartenenza, non si iscrive a nessun partito, non si ritrova in nessun corteo (così almeno la diagnosi di narcisista la porta a casa) e gli suggerisco l’orgoglio del decatleta che non vince nessuna specialità però……………. Mi viene in mente ora che questo è anche un buon modo per non essere mai davvero sconfitto, si può sempre dire “ a me non interessava davvero” e poi se la sa cavare in tutti gli ambienti e si adatta ad ogni interlocutore che non è poco per lo scopo della seduzione.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Adhd negli adulti: aspetti clinici e terapeutici

ADHD negli adulti: L’ ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) è un disturbo dell’età evolutiva che esordisce nell’infanzia e spesso persiste nell’età adulta. Negli adulti, il tasso di prevalenza mondiale è tra l’1 e il 7% (de Zwaan et al., 2012). Spesso queste persone soffrono anche di altri disturbi in comorbilità come i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i disturbi di personalità (Miller et al., 2007; Sobanski et al., 2007).

Elisa Zugno, Open School STUDI COGNITIVI MILANO

ADHD

L’ADHD si caratterizza per tre sintomi principali, ovvero disattenzione, iperattività e impulsività, ai quali si associano sintomi di disregolazione emotiva (Corbisiero et al., 2013). Questi sintomi, unitamente ai deficit nelle cosiddette soft skills (per esempio nelle abilità di comunicazione), determinano una grave compromissione del funzionamento nella vita di tutti i giorni. Le persone con ADHD riferiscono problemi a lungo termine a scuola, al lavoro, nella vita familiare e sociale, nelle attività ricreative e con l’organizzazione in generale (Mörstedt et al., 2015; Biederman et al., 2006). Il disturbo, quindi, ha delle conseguenze per lo sviluppo sociale del paziente e anche il funzionamento familiare è più basso nelle famiglie con membri che soffrono di ADHD (Harpin, 2005).

 

La diagnosi dell’ ADHD negli adulti

Il processo diagnostico in età adulta pone alcune difficoltà: i sintomi dell’ ADHD sono più eterogenei rispetto all’età evolutiva e possono sovrapporsi con gli eventuali disturbi in comorbilità (Barkley & Brown, 2008; Stieglitz & Rösler, 2006; Wasserstein, 2005). Inoltre, solo negli ultimi anni sono stati sviluppati specifici strumenti diagnostici e linee guida per gli adulti (Wolraich et al., 2011; Kendall et al., 2008). In aggiunta, c’è evidenza che le persone con ADHD abbiano scarse abilità nelle aree dell’autoriflessività e dell’autovalutazione e questo pone dei dubbi sull’attendibilità delle informazioni che riferiscono rispetto alle proprie difficoltà.

Sta crescendo sempre di più un dibattito sul fatto che la tripartizione della sintomatologia in disattenzione/iperattività/impulsività sia adeguata anche per l’ ADHD negli adulti (Gibbins & Weiss, 2007). Infatti, diversi studi hanno mostrato che queste tre dimensioni non sono stabili nel tempo (Faraone et al., 2006). Un altro argomento del dibattito è l’interrogativo su fino a che punto queste problematiche possano essere intese come conseguenze di disfunzioni nell’area dell’affettività (Surman et al., 2013). Queste riflessioni hanno portato gli studiosi a prendere in considerazione il fenomeno della disregolazione emotiva.

 

La disregolazione emotiva

La “regolazione emotiva” può essere definita come la capacità individuale di modificare uno stato emotivo al fine di promuovere comportamenti adattivi e orientati verso i propri scopi (Shaw et al., 2014). Questa capacità comprende i processi che consentono flessibilmente all’individuo di selezionare, partecipare e valutare gli stimoli emotigeni. La disregolazione emotiva insorge quando questi processi adattivi sono compromessi, conducendo a comportamenti che sono in contrasto con gli interessi dell’individuo (es. espressioni emotive ed esperienze che sono eccessive rispetto alle norme sociali e inappropriate rispetto al contesto oppure cambiamenti repentini e poco controllati dello stato emotivo in termini di labilità); l’espressione clinica è in termini di irritabilità, che spesso si associa ad aggressività reattiva e scoppi di collera (Leibenluft, 2011).

La disregolazione emotiva non è inclusa tra i sintomi principali dell’ADHD, in quanto non è ancora considerata come parte della sintomatologia nucleare del disturbo. Nel DSM-5 è stata creata la categoria “disregolazione dell’umore con disforia” all’interno del capitolo dei disturbi dirompenti.

Wender (1995) definisce la disregolazione emotiva attraverso tre dimensioni, ovvero il controllo della rabbia, la labilità affettiva e l’iper-reattività emotiva (equivalente all’intolleranza per lo stress). Nello specifico, il controllo dell’umore si riferisce a sentimenti di irritabilità e frequenti scoppi di rabbia di breve durata. La labilità affettiva si associa a brevi e imprevedibili passaggi da un umore normale a uno stato depressivo o a una moderata eccitazione. Infine, l’iper-reattività emotiva consiste in una diminuzione della capacità di affrontare i fattori di stress della vita quotidiana, che porta a una costante sensazione di essere vessati e sopraffatti.

I soggetti adulti con ADHD riportano spesso sbalzi d’umore, che cambia in modo significativamente più veloce rispetto a quello che accade nei disturbi dell’umore; quindi, possono esserci forti oscillazioni dell’umore anche nel corso della stessa giornata. Questi pazienti hanno molti problemi ad affrontare le situazioni stressanti e sono frequentemente e rapidamente irritati da piccole cose della vita quotidiana. Questo è coerente con i riscontri teorici sul disturbo: si potrebbe dimostrare che i classici sintomi dell’ADHD si associano non solo con deficit cognitivi e alterazioni del substrato neuroanatomico, ma anche con la variabilità nel tono dell’umore (Skirrow et al., 2009). La disregolazione emotiva nell’ADHD, quindi, dipende da deficit a livelli multipli. Le difficoltà variano da un anormale orientamento precoce verso gli stimoli emotivi, soprattutto quelli negativi, a deficit nei processi cognitivi quali la memoria di lavoro e la capacità di inibizione della risposta. L’eziologia della disregolazione può anche dipendere dal fallimento nella regolazione emotiva da parte dei genitori, che si riflette in un’elevata ostilità espressa che contribuisce allo sviluppo di disregolazione emotiva nel bambino (Surman et al., 2011; Biederman et al., 2012).

 

Il profilo neuropsicologico

I deficit neuropsicologici associati all’ ADHD negli adulti sono sostanzialmente gli stessi che si rilevano nell’età evolutiva. Questi deficit riguardano l’attenzione, l’inibizione del comportamento e la memoria (Hervey et al., 2004). I test più utilizzati per l’assessment neuropsicologico sono quelli che valutano le funzioni esecutive, come il Continuous Performance Test (CPT), il test di Stroop, il Trail Making Test, le fluenze verbali soprattutto fonemiche, il Wisconsin Card Sorting Test; inoltre, viene utilizzata anche la WAIS-R per un inquadramento del funzionamento cognitivo globale. Tuttavia, l’assessment neuropsicologico presenta due limitazioni: 1) non esistono ancora test cognitivi specifici per l’ADHD; 2) la performance ai test potrebbe essere condizionata non solo dall’ADHD ma anche da eventuali disturbi psichiatrici in comorbilità (es. disturbi dell’umore).

 

Il trattamento dell’ ADHD negli adulti

Sebbene il 25-50% degli adulti trattati con i farmaci mostri dei miglioramenti nei sintomi nucleari della patologia, tuttavia presentano delle difficoltà residuali in diversi ambiti di funzionamento, cioè scolastico, lavorativo, alcune abilità come guidare, relazioni sociali (Safren, 2006; vedi Figura 1). Infatti, il miglioramento nei sintomi nucleari non necessariamente corrisponde con un miglioramento del funzionamento globale della persona.

Le molteplici esperienze di fallimento e l’insuccesso cronico contribuiscono allo sviluppo di credenze negative maladattive che abbassano la motivazione e aumentano i comportamenti di evitamento e i disturbi dell’umore; queste problematiche, però, non possono essere gestite solo attraverso la terapia farmacologica (Knouse & Safren, 2010). Inoltre, l’ ADHD negli adulti ha un alto grado di comorbilità con altri disturbi psichiatrici quali l’ansia, i disturbi dell’umore, il controllo degli impulsi e l’abuso di sostanze.

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) è stata presa in considerazione di recente come trattamento aggiuntivo per l’ ADHD negli adulti ed è stato dimostrato che sia più efficace se inserita all’interno di un pacchetto di trattamento multimodale che includa interventi comportamentali finalizzati all’apprendimento e alla pratica di abilità compensatorie, unitamente a interventi cognitivi per trattare le distorsioni del pensiero e le conseguenti emozioni negative che contribuiscono all’evitamento e alla procrastinazione (Knouse & Safren, 2010); oltre a questi interventi, bisogna sempre valutare l’associazione di una terapia farmacologica. Infatti, mentre la CBT ha un impatto limitato sui sintomi nucleari dell’ ADHD, c’è un’evidenza preliminare che invece possa essere efficace sulla disregolazione emotiva (Mongia & Hechtman, 2012). Questo approccio può funzionare per gli adulti in quanto la maggior parte non è in grado di affrontare efficacemente le proprie difficoltà e di conseguenza non riescono a soddisfare le esigenze della vita. La frustrazione che ne deriva favorisce l’insorgenza di ansia e depressione, nonché una bassa autostima e autoefficacia (Newark & Stieglitz, 2010; Weiss et al., 2012).

Nello specifico, i target della terapia sono:
– comprensione e modificazione delle distorsioni cognitive;
– modificazione del comportamento;
– gestione dei problemi dell’umore, dell’ansia e della bassa autostima.

Le strategie terapeutiche utilizzate, invece, sono le seguenti:
– cognitive: ristrutturazione, problem solving, organizzazione, gestione del tempo, gestione della procrastinazione, psicoeducazione, gestione della rabbia, gestione delle relazioni, auto-istruzioni verbali e mindfulness;
– emotive: regolazione e gestione delle emozioni, controllo degli impulsi/autocontrollo/autoregolazione, auto-motivazione, aumento dell’autostima.

Il primo studio che ha valutato l’approccio CBT per il trattamento di persone adulte con ADHD è stato effettuato da McDermott (2000). L’intervento, della durata media di 36 sedute, consisteva nell’insegnare ai pazienti a fermarsi, rivalutare e modificare i pensieri che contribuivano a intensificare le emozioni e i comportamenti disfunzionali. I pazienti imparavano a indentificare gli errori cognitivi e a monitorare e rivalutare sistematicamente i loro pensieri. La terapia, inoltre, includeva la psicoeducazione e strategie di modificazione ambientale (es. organizzazione, programmazione delle attività, problem solving).

Rostain e Ramsay (2006) hanno sviluppato un programma di 16 sedute individuali che prevedevano la psicoeducazione sull’ ADHD, la concettualizzazione delle difficoltà del paziente in un’ottica CBT, un training sulle strategie di coping e il potenziamento dei punti di forza.

 

Dialectical Behavioral Therapy

Il modello della Linehan è stato adattato per poterlo utilizzare per il trattmento dell’ ADHD negli adulti. Hesslinger et al. (2002) hanno deciso di utilizzare questo modello basandosi sulla premessa che l’ADHD e il disturbo borderline di personalità abbiano delle caratteristiche in comune quali le difficoltà nella regolazione affettiva, il controllo degli impulsi, l’autostima e le relazioni interpersonali. L’intervento consisteva in 13 sedute che prevedevano: psicoeducazione sull’ADHD; neurobiologia e training mindlfuness; discussione dei comportamenti disorganizzati seguita da consigli concreti su come pianificare e organizzare la propria vita, analisi del comportamento; regolazione emotiva; psicoeducazione sulla depressione, sul controllo degli impulsi, sullo stress, sulla dipendenza da sostanze; discussione sulle relazioni e il rispetto per se stessi.

 

Terapia Metacognitiva

Solanto et al. (2008) hanno sviluppato un trattamento di gruppo (5-8 persone) mirato per i problemi di gestione del tempo, organizzazione e pianificazione. Hanno definito la terapia metacognitiva come un intervento destinato a “incrementare lo sviluppo di un insieme globale di abilità esecutive di auto-gestione”, enfatizzando la pratica ripetuta delle abilità apprese al fine di renderle più abituali e automatiche. I moduli di trattamento, svolti in 8/12 sedute della durata di due ore, prevedevano la gestione del tempo, l’attivazione comportamentale, la procrastinazione, l’organizzazione e la pianificazione. Ogni incontro iniziava con una discussione dell’applicazione delle abilità a casa durante la settimana, poi i membri del gruppo fornivano i loro feedback e infine venivano insegnate nuove abilità e assegnati gli homework.

 

Meditazione Mindfulness

Zylowska et al. (2008) hanno ipotizzato che il controllo dell’attenzione coltivato nel corso degli esercizi di mindfulness possa migliorare l’attenzione sostenuta e la regolazione delle emozioni e dunque possa essere utile nel trattamento dell’  ADHD negli adulti. Infatti, la meditazione mindfulness è una pratica che implica una certa quota di autoregolazione. Nello specifico dell’ADHD, questo tipo di intervento può avere un impatto sui sintomi comportamentali della disattenzione e dell’impulsività, sui deficit neurocognitivi relativi all’attenzione e alla capacità di inibizione, nonché sugli impairment secondari come lo stress, l’ansia e la depressione. Per quanto riguarda la regolazione delle emozioni, durante il training mindfulness i pazienti imparano a ridurre l’arousal attraverso la respirazione e gli esercizi di rilassamento e ad adottare un atteggiamento aperto e accettante verso le loro esperienze emotive. Sulla base di questo razionale hanno strutturato un intervento di 8 sedute.

Dalle bufale on line ai falsi pettegolezzi tra amici: perché facciamo affidamento su informazioni inaccurate?

Diversi studi dimostrano che le persone tendono a fare affidamento su notizie errate, inaccurate, o parzialmente false e che questo fatto ha il potere di influenzare il loro comportamento futuro. 

 

In un’epoca in cui l’informazione è affidata a diversi mezzi tecnologici ed è diventata, con la rapida diffusione di Internet, appannaggio di tutti in qualunque momento, diventa fondamentale chiedersi quali siano i fattori che ci permettono di selezionare e scegliere correttamente le informazioni; infatti diversi studi dimostrano che le persone tendono a fare affidamento su notizie errate, inaccurate, o parzialmente false e che questo fatto ha il potere di influenzare il loro comportamento futuro.

Lo psicologo David Rapp, della Northwestern University, ha pubblicato una review in cui cerca di spiegare quali siano i meccanismi a causa dei quali le persone farebbero affidamento su informazioni errate.

Secondo il ricercatore, essi si genererebbero come conseguenza di vere e proprie “routine” nei processi cognitivi associati a memoria, problem solving e comprensione.

Tutto dipenderebbe dal fatto che le persone caricano velocemente in memoria affermazioni inaccurate, perché questo sarebbe un processo più facile rispetto alla valutazione critica o all’analisi di ciò che hanno appreso.

In seguito, il cervello richiamerebbe prima le informazioni scorrette poiché farebbe meno fatica a richiamare il materiale presentato più di recente.

Ancora più difficoltoso, è evitare di affidarsi alla disinformazione, quando le informazioni accurate ed inaccurate sono presentate insieme.

Siamo bombardati da tonnellate di informazioni tutti i giorni; è un incubo cercare di valutarle tutte criticamente – spiega Rapp, coeditore del libro “Processare le informazioni inaccurate” – valutare tutto diventa arduo e difficoltoso e comporta il fatto che i soggetti cerchino di conservare le proprie risorse per quando ne avranno realmente bisogno.

Nella sua review, pubblicata all’interno della rivista Current Directions in Psychological Science, Rapp suggerisce anche diverse strategie per evitare le trappole della disinformazione:

  • Valutare criticamente le informazioni il prima possibile: ciò potrebbe aiutare il proprio cervello ad evitare di mettere da parte informazioni non corrette.
  • Considerare la fonte: le persone sono più solite utilizzare informazioni inaccurate da fonti credibili che da fonti inattendibili, in accordo con una precedente ricerca di Rapp.
  • Fare attenzione alle menzogne credibili:

Quando la verità è mischiata ad affermazioni inaccurate, le persone diventano persuase, raggirate e meno valutative,cosa che impedisce loro di notare e rifiutare idee inaccurate – afferma Rapp.

 

Risolvere o accettare – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Quello che possiamo ragionevolmente promettere ai pazienti è lo smussamento degli angoli, un migliore adattamento esistenziale ma il miracolo inverso alla quadratura del cerchio che non ho mai sentito dire ma potrebbe chiamarsi la cerchiatura del quadrato, non è affatto detto che avvenga dipendendo anche da molteplici fattori esterni alla psicoterapia.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Risolvere o accettare (Nr. 14)

Risolvere o accettare se stessi?

A volte già per telefono al momento di prendere l’appuntamento o nella prima seduta o, al più tardi, dopo i primi incontri di assessment arriva la fatidica domanda “lei, dottore, pensa che riuscirò a risolvere questi problemi, potrò davvero guarire?” L’angoscia e l’urgenza che la accompagna è proporzionale sia alla durata del disturbo che ai tentativi di terapia già tentati.

Traspare spesso scoraggiamento e rassegnazione che il terapeuta può sentire come sfiducia nei suoi confronti e pessima premessa per il lavoro da iniziare. Per questo rischia di mostrarsi esageratamente fiducioso e ottimista promettendo facili successi che il paziente peraltro ha già verificato su internet essere poco probabili.

In primo luogo va evitato di criticare i precedenti curanti ( cosa che mi capita di ascoltare frequentemente come paziente) definendoli incapaci e in malafede e ponendosi come il salvatore della patria. Sarete i primi della lista quando riferirà di voi al prossimo terapeuta. Utile è rimandare la risposta al momento della restituzione dell’assessment in sede contrattuale quando sarà più chiaro il problema e l’adesione del paziente al metodo di lavoro illustrato.

La stessa domanda si ripresenterà più avanti in momenti di bilancio del lavoro svolto magari associata al riconoscimento di quanto raggiunto “indubbiamente, dottore, sto molto meglio ma ho proprio l’impressione che certe cose non cambieranno mai, non credo dottore che chi nasce quadrato possa morire tondo”. La risposta stizzita che una volta mi scappò di getto di fronte a questa geometrica metafora della nostra impotenza fu “ Il problema è perchè a chi nasce quadrato non sta bene di avere 4 lati e 4 angoli retti” che poi articolai dicendogli “credo che gli spigoli potremo smussarli ma certamente anche io non credo che sarà mai un cerchio di Giotto, ma il problema è vederne i vantaggi e le opportunità e non accanirsi in un rifiuto della propria natura che, in parte genetica, in parte appresa è comunque un modo di stare al mondo che le ha garantito finora la sopravvivenza.

Accettazione: rendere tollerabile ciò che risulta intollerabile

Introduco così al paziente il tema del problema secondario che, ricordo, i vecchi maestri che mi hanno insegnato la RET dicevano fosse la prima cosa da affrontare e che, mi perdonino per la semplificazione gli amici teorici di questo approccio, rappresenta il focus di intervento della recente “terapia metacognitiva”. Ricordo con vividezza il grande Cesare De Silvestri raccomandarci di esplorare in prima seduta come il paziente si rappresentava la sua vita futura se il sintomo non fosse stato risolto. Qualora il paziente avesse risposto che non voleva neppure pensarci, che lo riteneva intollerabile, il primo lavoro da fare era proprio quella di rendere più articolata, costruita, pensabile e dunque meno spaventosa questa prospettiva.

Rifacendoci alla precedente distinzione tra psicoterapia normale e rivoluzionaria, quello che possiamo ragionevolmente promettere è lo smussamento degli angoli, un migliore adattamento esistenziale ma il miracolo inverso alla quadratura del cerchio che non ho mai sentito dire ma potrebbe chiamarsi la cerchiatura del quadrato, non è affatto detto che avvenga dipendendo anche da molteplici fattori esterni alla psicoterapia.

Immagino la delusione nei vostri occhi che rispecchiano la stessa emozione nello sguardo del paziente che aggiungerà “allora mi devo rassegnare?” Cercherò ora di argomentare che non di rassegnazione si tratta ma di accettazione e che essa rappresenta una forma di guarigione ben più profonda e solida.

Parto da un esempio clinico “i disturbi d’ansia” nei quali l’accettazione prende il nome più specifico di “accettazione del rischio”. In tutti, c’è il timore del verificarsi di un evento ritenuto molto probabile e assolutamente catastrofico ed intollerabile. Un intervento magari rapido ma certamente di basso livello e scarsamente risolutivo si muove nell’ordine della rassicurazione che già parenti e amici hanno inutilmente tentato. Si tratta in sostanza con l’autorevolezza che il ruolo ci conferisce e la competenza che ci consente di evidenziare i bias cognitivi all’opera di dimostrare al paziente che sovrastima enormemente la possibilità che l’evento temuto si verifichi realmente. Detto in parole povere “tranquillo non accadrà”, evidente bugia a meno che non abbiate capacità divinatorie e perigliosa illusione che può spingere il paziente ancora di più sulla scivolosa strada della ricerca della certezza assoluta.

Nessuno può garantire che un certo evento non accada. Un intervento più profondo che un tempo chiamavamo con parola impronunciabile “decatastrofizzazione” sostituibile con la più foneticamente semplice “accettazione” consiste invece nel considerare l’ipotesi negativa e renderla meno impensabile. Si tratta di costruire gli scenari del presunto “day after” per renderlo meno catastrofico per quanto sgradevole. Lo si può fare partendo dall’osservazione di altri che stanno vivendo la stessa situazione. Da ricordi personali in cui si è vissuto qualcosa di analogo per arrivare poi a sperimentarlo con compiti prima immaginativi e poi in vivo. Si può far ossevare anche il fatto che tutti gli esseri umani quando si trovano davvero in una situazione che ritenevano intollerabile ( sia essa una grave malattia, una invalidità o un lutto) sanno cavarsela trovando risorse insperate e scoprendo che “il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge”).

Persino i lamentosi ipocondriaci quando arriva la loro ora mostrano freddezza e dignità insospettabili. Ora tra due bambini che hanno paura del buio direste che è guarito di più quello che si è convinto che la luce non se ne andrà mai, o quello che si è fatto persuaso che nel buio non c’è niente di pericoloso ma solo molte scomodità? Per dirla in termini più teorici mentre la rassicurazione si muove a livello delle strategie previsionali e di fuga per evitare di finire nell’antiscopo ( l’evento temuto), l’accettazione tende a non renderlo più tale declassificandolo a stato non preferito. Ogni antiscopo o come altro lo si voglia chiamare (stato doloroso, punto di fuga, area taboo, ombra) viene eliminato rendendo inutili le strategie coatte ( spesso appunto i sintomi) che si attuavano per starne alla larga e si aumentano i gradi di libertà della persona di decidere la propria vita e questo è il massimo successo della psicoterapia.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il Coaching e il life coach: che cos’è e quali benefici produce

Pubblichiamo con piacere questo interessante, equilibrato ed esaustivo articolo sul coaching, un argomento che interessa molti psicologi. Non è però inutile ricordare che il coaching, sicuramente una pratica utile ed efficace in molti campi professionali -come spiega benissimo l’articolo-, non può e non deve essere utilizzato come succedaneo improvvisato di trattamenti psicoterapeutici per la sofferenza mentale. Vale naturalmente anche il contrario: lo psicoterapeuta non può improvvisarsi coach. Buona lettura.

Giovanni Maria Ruggiero, Direttore

 

 

Cos’è il coaching e il life coach?

Il Coaching è una disciplina relativamente nuova in Italia, che ha radici molto più antiche… Socrate invitava a “Conoscere se stessi”; Pindaro era solito salutare i suoi discepoli dicendo: “Diventa ciò che sei”; Parmenide sosteneva che tutto è possibile: “Basta trovare il coraggio di percorrere la via” ed Eraclito affermava: “L’unica cosa permanente è il cambiamento”. Con l’emergere del movimento Umanista, si comincia a parlare di coaching anche nel mondo del business. Ma la reale innovazione è venuta con la fusione tra lo sport e il mondo degli affari, che ha reinventato questo termine. Tim Gallwey (1974) con il suo Inner Game of Tennis fu uno dei primi promotori del coaching nel contesto degli affari, a cui sono susseguiti rapidamente altri coach sportivi di fama notevole, come John Whitmore (campione di corse automobilistiche) il quale vede il coaching come: «il processo di responsabilizzazione degli altri. Per Coaching non intendiamo semplicemente una tecnica escogitata lì per lì e rigorosamente applicata in determinate circostanze: si tratta piuttosto di un modo di guidare e gestire le persone, un modo di pensare, e quindi anche un modo di essere.»; David Hemery (medaglista olimpico del salto ad ostacoli), David Witaker (coach olimpico di hockey).

Il coaching, nel significato moderno, è stato supportato dalla “Teoria dell’apprendimento costruttivo” di Williams & Irwing (2001), la cui credenza centrale è che non esiste una sola vera interpretazione della realtà. Nel coaching il presupposto è la conoscenza e la consapevolezza di sé, delle proprie risorse e delle aree migliorabili. Si tratta di focalizzare mete specifiche per trovare le strategie più adeguate. E’ un progetto di crescita mirato, con traguardi specifici, che facilita il cambiamento, attraverso un percorso autorigenerativo. Il cliente è responsabile di ogni suo passo, il Coach lo aiuta a diventare consapevole dei suoi obiettivi e a realizzarli al meglio.

Il coaching diventa una strada che permette di conciliare il rispetto delle più profonde caratteristiche della persona con l’esigenza dell’organizzazione di ottenere prestazioni sempre più elevate. Non è una “tecnica”, una modalità superficiale e manipolatoria per spremere le persone e ottenere da esse una performance ottimale, ma una filosofia a cui ispirare la relazione, un modo di trattare le persone che consenta a queste di trovare nella performance il risultato di una scelta, l’espressione e la realizzazione di se stesse. Quindi il coaching è uno stimolo e uno strumento di cambiamento sia a livello culturale, sia individuale che organizzativo.

Il Coaching è uno strumento altamente efficace che aiuta le persone a far quadrare il bilancio della propria vita privata o professionale, a migliorare i rapporti con gli altri, scoprendo le strategie più adeguate per raggiungere i propri obiettivi. Quindi il coaching è visto come una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita. La metodologia di coaching adottata dall’ ICF2 prevede che il cliente sia prima di tutto rispettato, sia dal punto di vista personale che professionale, e venga considerato in grado di gestire efficacemente la propria vita ed il proprio ambito lavorativo. Ogni cliente viene visto come una persona creativa e piena di risorse, non a caso le tecniche utilizzate di interazione del coach sono l’ascolto attivo e domande mirate perché danno la possibilità di porsi come facilitatore nei confronti del coachee. Quindi il coaching è concepito per aiutare i clienti a incrementare le loro conoscenze e performance e migliorare la qualità della vita.

Sulla base di ciò, le responsabilità del coach sono:
1. scoprire, rendere chiari ed allineare gli obiettivi che il cliente desidera raggiungere; guidare il cliente in una scoperta personale di tali obiettivi;
2. far in modo che le soluzioni e le strategie da seguire emergano dal cliente stesso;
3. lasciare piena autonomia e responsabilità al cliente.

Quando richiedere un intervento di coaching

Il cliente nel coaching è una persona o un team che vuole raggiungere uno o più dei seguenti punti: un livello più elevato di performance, di apprendimento o di soddisfazione. Il cliente individuale nel coaching può intraprendere delle azioni per muovere verso un obiettivo con l’aiuto del coach; non sta cercando una guarigione emotiva o sollievi da un dolore psicologico; non è, quindi, eccessivamente limitato sotto il profilo delle sue capacità di iniziativa e di azione, né è così insicuro per impegnarsi in questo genere di progresso. La parola “cliente” è usata per definire la persona che usufruisce del coaching, indipendentemente da chi paga il servizio.

Ci sono molte ragioni per le quali una persona o un team possono scegliere di lavorare con un coach, alcune tra le principali sono:
– c’è qualcosa in gioco (una sfida, un obiettivo protratto o una grossa opportunità) ed è urgente, importante o appassionante, o tutte queste cose insieme;
– c’è una lacuna di consapevolezza, di capacità, di fiducia o di risorse;
– e’ stato richiesto un lavoro a pieno regime ed è a stretta scadenza;
– c’è il desiderio di ottenere risultati più rapidamente;
– c’è bisogno di invertire la direzione presa nel lavoro o nella vita personale a causa di un insuccesso;
– il modo di relazionarsi con gli altri non è efficace o non aiuta la persona a raggiungere i suoi obiettivi prioritari;
– c’è una mancanza di chiarezza nella persona a fronte delle scelte da fare;
– la persona ha molto successo e questo successo comincia a diventare problematico;
– non c’è equilibrio tra il lavoro e la vita privata e questo genera delle conseguenze indesiderate;
– la persona non ha identificato le sue potenzialità principali né sa come utilizzarle al meglio;
– la persona vuole che il lavoro e la vita siano più semplici, meno complicate;
– c’è il bisogno e il desiderio di essere meglio organizzati e sapersi meglio gestire.

Chi è il life coach?

Le Competenze del Coach sono:
– Predisposizione all’ascolto e il desiderio di mettersi sempre in discussione.
– Empatia: creare un rapporto empatico con il coachee senza mai sovrapporsi a lui.
– Saper guidare il coachee nell’autorealizzazione e nella consapevolezza di sé. Senza essere giudicante.
– Un coach non dà consigli o pareri, né dà informazioni. Fornisce supporto nel raggiungimento di un risultato. È un allenatore che migliora le prestazioni del proprio cliente.

Le 11 competenze rilasciate dalla ICF sono raggruppate in 4 sottogruppi, così suddivisi:
a) Porre le basi;
1) soddisfare linee guida etiche e standard professionali;
2) stabilire il contratto di coaching;
b) creare insieme la relazione;
3) stabilire fiducia e confidenza con il cliente;
4) presenza di coaching;
c) comunicare efficacemente;
5) ascoltare attivamente;
6) fare domande potenti;
7) comunicazione diretta;
d) facilitare apprendimento e risultati;
8) creare consapevolezza;
9) progettare azioni;
10) pianificare e definire obiettivi;
11) gestione del progresso e affidabilità.

Il coaching include un approccio elogiativo che si fonda sul riconoscimento di ciò che è giusto, di ciò che funziona, di ciò che è desiderato, di ciò che è necessario per arrivare all’obiettivo. L’approccio elogiativo prevede domande basate sulla scoperta, una modalità proattiva (in opposizione a quella reattiva) nella gestione delle sfide e delle opportunità personali, una formulazione costruttiva di osservazioni e feedback finalizzati ad ottenere reazioni positive dagli altri.

Pertanto la relazione è la base del coaching. Il coach e il cliente sviluppano intenzionalmente una relazione che è caratterizzata da un reciproco e crescente rispetto e apprezzamento come persone. Durante ciascun incontro è il cliente stesso a scegliere l’argomento della conversazione, mentre il coach lo ascolta ponendo osservazioni e domande. Questa interazione contribuisce a creare maggiore chiarezza ed induce il cliente a divenire proattivo. Nel coaching si osserva “dove si trova il cliente oggi”, quale sia cioè la situazione attuale di partenza, e si definisce, in comune accordo, ciò che egli è disposto a fare per raggiungere “la meta in cui vorrebbe trovarsi domani”.. Quindi, il coaching si concentra principalmente sul presente e il futuro, non si concentra sul passato o sull’impatto del passato sul presente, usa le informazioni del passato solo per chiarire la situazione presente. Far muovere il cliente in avanti non può dipendere da fatti del passato.

Come si articola un percorso di coaching

Generalmente un percorso di coaching si avvia con un colloquio personale (fatto di persona oppure telefonicamente) per valutare le attuali opportunità e sfide del cliente, per definire le finalità della relazione, per identificare le priorità di azione e per stabilire quali sono i risultati specifici che si vogliono raggiungere. Le sessioni di coaching possono essere condotte di persona (in presenza) oppure al telefono o tramite sistemi audio/video a distanza (es. Skype); la durata di ogni sessione viene concordata preventivamente, e varia, in genere, da un minimo di mezz’ora a un massimo di due ore.

Tra le sessioni di coaching programmate si può richiedere al cliente di compiere determinate azioni che lo aiutino al raggiungimento dei propri obiettivi prioritari. Il coach, inoltre, può fornire risorse supplementari, sotto forma di articoli, questionari, valutazioni o modelli per aiutare la riflessione e l’azione del cliente. La sessione si divide in tre, la prima sessione riguarda l’apertura, che rappresenta il primo impatto sia per il coachee che per il coach. Si stabiliscono le regole dell’incontro e si esplicita la metodologia di lavoro (cioè quanto durano gli incontri, dove si svolgeranno, che costo avranno, in che modo la partnership è coinvolta…). Si sondano le aspettative del coachee per iniziare a fare una analisi della domanda (esempio del coachee: difficoltà a relazionarsi efficacemente con il capo).

Possiamo identificare una seconda fase, la fase centrale del colloquio dove si mettono in pratica le dinamiche della sessione, si pongono le basi per la relazione ed il lavoro sugli obiettivi. In questa fase si raccolgono le informazioni ed i fatti riportati ma si cerca di lavorare concretamente in relazione all’obiettivo del coachee (esempio il coach cerca di farsi raccontare esattamente quando ed in quali situazioni il coachee si sente non efficace nella relazione con il capo).

Infine possiamo individuare una fase finale, il momento della chiusura. In questa ultima fase, si puntualizzano gli elementi più importanti che sono emersi dal colloquio e si stabilisce l’incontro successivo. Si tende a chiudere sempre con un lavoro pratico che il coachee dovrà fare su se stesso (esempio il coachee si impegna “ogni volta che devo incontrare il capo, per evitare di sentirmi impreparato, simulo una riunione/preparo una scaletta di base per una conversazione”). Occasionalmente si possono dare consigli, opinioni o suggerimenti nel coaching. Entrambe le parti capiscono che il cliente è libero di accettarli o declinarli ed è lui che si assume la responsabilità delle azioni da prendere. Un coach può esprimere richieste affinché il cliente promuova azioni adatte a conseguire un risultato desiderato da lui stesso. Il coach non fa tali richieste per stabilire un problema del cliente o per capirne il passato.

Nel coaching le informazioni ottenute dal cliente sono usate dal coach per stimolare la consapevolezza del cliente e aiutarlo a scegliere il tipo di azione. Questi informazioni non sono usate per valutare la performance o fornire relazioni per qualcuno, fuorché per il cliente stesso. Il coaching ha la libertà e la flessibilità per affrontare una vasta varietà di argomenti personali e professionali. In una relazione di coaching, solo il cliente ed il coach determinano il fine del loro lavoro. Il coaching non è necessariamente limitato ad una discussione strettamente delineata. Nel coaching, ogni contributo dato dal coach per produrre il risultato desiderato dal cliente, viene dato attraverso una progressiva interazione con il cliente. Il ruolo del coach non è di produrre un prodotto o un risultato acquisito al di fuori delle sessioni di coaching. Il coaching è studiato per permettere ai cliente di acquisire una maggiore capacità di produrre risultati e una grande fiducia nelle capacità che gli occorrono. Va da sé che i clienti non abbandonano il coaching con la percezione della necessità di appoggiarsi al coach per produrre simili risultati nel futuro.

La durata di una relazione di coaching varia in funzione dalle esigenze della persona o del team: può variare da un minimo di tre sessioni fino a un massimo di nove o dieci mesi. Per alcuni tipi di coaching mirato, può funzionare bene un periodo dai 3 ai 6 mesi di lavoro; per altri tipi di coaching il cliente può trovare proficuo lavorare più a lungo con il coach. I fattori che possono influire sulla durata comprendono: il tipo di obiettivi e di risultati che si vogliono raggiungere, il modo con cui le persone o i team amano lavorare, la frequenza delle sessioni, le risorse finanziarie disponibili per sostenere il coaching.

 

I benefici del coaching e gli ambiti in cui è richiesto

I benefici: l’attività di coaching accelera la crescita dell’individuo in quanto grazie ad essa ognuno giunge a focalizzare in maniera più efficace e consapevole gli obiettivi da raggiungere e le conseguenti scelte da porre in atto. Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita. I clienti che si impegnano in una relazione di coaching possono aspettarsi di sperimentare nuove prospettive di sfide e opportunità personali, un accrescimento nelle capacità di pensiero e nella presa di decisioni. Inoltre beneficiano di un miglioramento nell’efficienza interpersonale e una maggiore fiducia nell’esprimere i ruoli scelti nella vita e al lavoro. In coerenza con l’impegno a migliorare la loro efficienza personale, i clienti che scelgono un coach possono aspettarsi anche di vedere risultati apprezzabili nelle aree della produttività, della soddisfazione personale nella vita e nel lavoro e del raggiungimento di importanti obiettivi personali.

Attualmente il coaching viene applicato in sette differenti tipologie:
Business coaching, che si rivolge a liberi professionisti e imprenditori di piccole e medie imprese;
Executive coaching, per top manager ed executive;
Corporate coaching, per lo sviluppo di manager in azienda;
Career coaching, aiuta ad affrontare scelte professionali;
Team coaching, interviene su gruppi per migliorare la performance, la collaborazione e la realizzazione di progetti comuni;
Personal coaching, lavora direttamente con il cliente su diverse aree della vita privata e lavorativa;
Life coaching, per privati che decidono di migliorare alcune aree della propria vita.

A differenza del corporate e dell’executive coach, già da anni apprezzati e ricercati da grandi e medie aziende, il life coach è una figura nuova che in Italia si sta sviluppando solo negli ultimi anni. Si occupa soprattutto di tematiche inerenti la sfera della vita privata della persona, e in termini italiani potremmo definirlo un “allenatore della vita”.

 

Conclusioni

Il life coach è un professionista prezioso per tutti coloro che hanno bisogno di risolvere problemi specifici di cui sono già consapevoli, ma anche per coloro che desiderano una migliore qualità della vita e non sanno esattamente su quale aspetto focalizzarsi per poter raggiungere un’armonia generale e un senso di benessere. Il life coach ha quindi un’esperienza non solo nel campo professionale ma anche su tematiche legate al privato.
Il compito di un life coach è quello di aiutare l’individuo a mettere in luce le aree della vita privata che richiedono un maggiore impegno, motivazione o qualche cambiamento. Il compito del cliente, invece, è quello di impegnarsi a seguire le proprie scelte e a mettere in pratica le azioni programmate. Naturalmente, se non c’è la volontà da parte di un individuo di impegnarsi in un percorso di coaching, il lavoro del coach non porterà nessun beneficio.

Una caratteristica fondamentale del life coaching è che il coach non spinge il coachee a ripercorrere le esperienze passate, a focalizzarsi su questioni irrisolte, né tantomeno tenterà di affrontare problematiche di tipo psicologico, bensì parte dal presente per spostarsi verso il futuro, focalizzandosi esclusivamente sulla persona. Indipendentemente da ciò che costituisce la storia di ognuno di noi, secondo la filosofia del coaching, è possibile costruire una strategia personale che possa portare verso un risultato desiderato. L’insieme di azioni, la verifica di ogni passo successivo, la consapevole assunzione di responsabilità, fa sì che ogni cambiamento possa essere duraturo. Il coach non dà suggerimenti e soprattutto non giudica, offre piuttosto un’aspettativa esterna che sostiene il suo cliente e le sue scelte.

Le aree su cui si può intervenire insieme a un life coach sono molte e varie, come relazioni interpersonali, gestione del tempo, equilibrio tra vita privata e lavoro, rimozione di idee bloccanti che impediscono di agire come si vorrebbe, ma anche sviluppo personale e capacità di affrontare eventi straordinari. Tutti questi temi, a volte anche delicati, possono essere affrontati con estrema serenità grazie alla fiducia, la riservatezza e il rispetto, che vengono garantiti dalla relazione di coaching e che sono essenziali per la realizzazione di un percorso efficace.
Un percorso di life coaching ha una durata variabile a seconda del tema da affrontare e degli obiettivi prefissati.

Dott.ssa Simona Di Paolo

Il nuovo libro delle storie sociali (2016) di C. Gray – Recensione

Il nuovo libro delle Storie Sociali è dedicato proprio all’insegnamento delle tecniche e dell’arte di sviluppare Storie Sociali, che, per potersi definire tali, devono rispettare 10 criteri.

 

Le Storie Sociali: create per i bambini con autismo

Esse sono state ideate nei primi anni ‘90 da Carol Gray che, occupandosi dell’educazione di bambini autistici, ha cercato di ideare uno strumento efficace per promuovere la loro comprensione sociale e migliorare la loro capacità di diventare soggetti attivi nella vita quotidiana.

L’obiettivo delle Storie Sociali non è certo quello di correggere un comportamento sbagliato bensì di fornire in modo significativo e sicuro quelle informazioni che permettono di scegliere tra più risposte funzionali; il miglioramento comportamentale è sì atteso ma solo in virtù di una migliore comprensione dell’ambiente fisico e sociale in cui il destinatario è inserito.

Nel momento in cui il bambino autistico inizia infatti a sviluppare abilità di pensiero astratto e capacità relazionali, le tradizionali tecniche comportamentali che fino ad allora probabilmente avevano caratterizzato il suo programma di apprendimento, centrato su stimoli e risposte (prompting, fading, modeling …), non sono più sufficienti. È utile iniziare a prestare una maggiore attenzione ai comportamenti emessi in base ai contenuti di pensiero e le Storie Sociali sono un’utilissima risorsa in tal senso.

 

Il nuovo libro delle Storie Sociali

Il nuovo libro delle Storie Sociali è l’ultimo di una serie di contributi dell’autrice che negli anni ha sempre cercato di migliorare le caratteristiche di questa strategia di intervento, sulla cui efficacia non ci sono più dubbi: le Storie Sociali, se costruite rispettando fedelmente le linee guida, funzionano.

Proprio per questa ragione Carol Gray dedica le prime pagine di questo suo ultimo lavoro per accompagnare il lettore ad un utilizzo consapevole e corretto delle risorse contenute nel libro.

Il capitolo Tutorial 10.2  de Il nuovo libro delle Storie Sociali è dedicato proprio all’insegnamento delle tecniche e dell’arte di sviluppare Storie Sociali, che, per potersi definire tali, devono rispettare 10 criteri.  Ad ogni criterio è dedicato un tutorial, composto dalla descrizione del criterio, da una sua breve discussione, da un’attività che consente di confrontarsi operativamente con esso, dalle risposte corrette riguardo l’attività  precedente e dalle note conclusive.

Affrontare il tutorial permette di comprendere quanto dietro la semplicità di fruizione di una Storia Sociale ci sia un lavoro attento, curato e rigoroso, assolutamente essenziale per garantire l’offerta di un intervento basato sull’evidenza scientifica.

Il libro contiene a seguire 185 storie sociali, scritte dall’autrice per i bambini e i ragazzi con cui ha lavorato, suddivise in capitoli sulla base dell’argomento che trattano. Potrebbero essere riproposte così come sono anche se la maggior parte di esse si prestano a una facile personalizzazione grazie alla voluta ridondanza di informazioni con cui l’autrice ce le presenta. È  piuttosto facile infatti immaginare di omettere alcune frasi di storia, senza modificarne  la struttura portante e conservando gli elementi essenziali definiti dai criteri di realizzazione.

L’utilità operativa di questa preziosa risorsa è dunque fuori discussione ma la lettura di tutte le Storie Sociali è utile anche per comprendere la visione che gli autistici hanno del mondo che li circonda e spesso li opprime.

Un libro per tutti.

La malattia oncologica e l’impatto sulla famiglia: effetti ed interventi

Quella della malattia oncologica rappresenta un’esperienza di vita dolorosa e traumatica, che implica cambiamenti significativi che coinvolgono non solo il singolo malato, ma anche tutto il sistema familiare che si muove attorno a lui. Infatti, eventi che creano ostacoli e difficoltà per la famiglia, e per questo considerabili come vere e proprie crisi, si verificano durante tutto il suo ciclo di vita, tuttavia quella della malattia oncologica rappresenta un’esperienza estremamente complessa da affrontare, che crea sfide nuove e spesso inaspettate.

Laura Pizzacani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Malattia oncologica: l’impatto sulla famiglia

È alla luce di questi mutamenti che si evince l’importanza dell’ambiente familiare, che fornisce il contesto di adattamento in cui la persona reagisce alla diagnosi e valuta l’evento e le proprie capacità di farvi fronte, il tutto in relazione ai significati di cui quella famiglia è portatrice, significati che vengono appresi e trasmessi per via trans-generazionale. In queste condizioni, la storia della patologia e della sofferenza ad essa connessa diventano così prorompenti da interrompere il normale ciclo di vita di tutti i membri del nucleo, imponendo la necessità di preservare sia la propria identità a fronte di tale stravolgimento, come singoli e come membri del gruppo, nonché di adattarsi alle conseguenze più o meno catastrofiche che emergono.

Un approccio corretto al percorso che la patologia inevitabilmente implica, perciò, dovrebbe considerare come essenziali sia i cambiamenti esperiti dal paziente, che quelli che vedono coinvolta la sua famiglia, in un’ ottica multidimensionale che integri l’attenzione al piano fisico con quella per gli aspetti psicologici e pratici.

Numerose ricerche (Rolland, 2005; Valera, Mauri, 2008; Biondi et al., 2014) dimostrano come nel percorso di malattia oncologica si possano identificare tre macro-fasi, ciascuna caratterizzata da specifici bisogni e compiti di sviluppo per tutti coloro che fanno parte della famiglia. Esse possono essere così distinte:
1) fase seguente alla diagnosi, definibile anche come fase di “crisi”: riguarda il periodo iniziale, in cui si viene a conoscenza della diagnosi e si rende necessaria la prima forma di adattamento all’evento inaspettato. È caratterizzata da livelli molto alti di stress, associati ad ansia e depressione sia per il malato, che per i familiari, che iniziano a percepire la difficoltà della gestione emotiva e pratica della situazione stressante, risultando così vulnerabili su più fronti.
2) fase di progressione della malattia oncologica, caratterizzata dal peggioramento dei sintomi, nonché da un decadimento più o meno grave delle funzioni del paziente e un conseguente aumento della sua dipendenza. In questo stadio la famiglia si sforza di mantenere, non senza difficoltà, l’apparenza di una vita normale. Sarebbe perciò utile incoraggiare l’autonomia di ogni suo membro e l’elaborazione dei sentimenti di rabbia e perdita esperiti in relazione al cambiamento, prevenendo circoli viziosi caratterizzati da vergogna e senso di colpa per le emozioni provate, e favorendo lo sviluppo di modalità relazionali più funzionali tra i membri della famiglia.
3) fase terminale della malattia oncologica, in cui, in caso di guarigione, si può elaborare il vissuto connesso all’esperienza e favorire l’inizio di un nuovo “capitolo” di vita slegato dall’ansia e dalla preoccupazione costante, mentre nel caso in cui sia la famiglia che il malato debbano accettare l’idea della fine e della separazione, l’aiuto degli esperti può permettere di far vivere questa fase come un’opportunità di condivisione finale e di riorganizzazione globale del proprio percorso, preparandoli ad affrontare il lutto.

Queste fasi temporali della malattia oncologica possono essere considerate come periodi che portano con sé richieste di sviluppo supplementari e più specifiche rispetto a quelle comunemente affrontate. In particolare nelle ultime due, sia il carico di lavoro oggettivo, dato dalla riduzione del tempo libero e dall’alterazione della routine familiare, che quello soggettivo, dato dalle conseguenze psicologiche connesse alle modalità con cui si è affrontato “l’evento malattia”, determinano una profonda stanchezza per malato e familiari/caregiver.

 

Effetti della malattia oncologica sul paziente

La malattia rappresenta per ciascuno di noi una minaccia per la propria esistenza fisica, perciò la reazione che solitamente si osserva in seguito ad una qualunque diagnosi grave corrisponde ad un vero e proprio “shock da trauma”, che dà luogo ad una transizione dall’idea di sé come persona, all’idea di sé come malato, con una traiettoria di vita incerta e con un corpo che può “tradire” (Costantini, Leverson, Bersani, 2014). Ansia, depressione o rabbia rappresentano delle risposte comuni degli individui all’esperienza che stanno vivendo, e sono assolutamente normali entro certi livelli, tuttavia quando l’intensità di tali emozioni è eccessiva, le reazioni sono relativamente indipendenti dallo stimolo stesso, e devono essere trattate per evitare di minare ulteriormente la capacità del soggetto di funzionare a livello psicologico, sociale e relazionale.

Il permanere di queste emozioni disfunzionali ad alti livelli di intensità, infatti, non fa altro che ridurre la capacità di affrontare i temi principali connessi alla malattia oncologica, tra cui spiccano l’incertezza dovuta al non sapere quale sarà il proprio destino, che già di per sé rappresenta una delle principali fonti di ansia; la capacità di mantenere un buon livello di autostima e il confronto con la dipendenza dagli altri creata da effetti collaterali e difficoltà fisiche.

È bene evidenziare come tutti gli aspetti sopracitati, connessi alla scoperta e al processo di elaborazione della malattia oncologica, nonché alla modalità con cui vengono affrontati i problemi insorti, debbano essere considerati anche alla luce delle caratteristiche di personalità del paziente, aspetto che influenza fortemente la gestione dell’evento in termini personali, e dei rapporti con i familiari e con gli specialisti. Ad esempio, pazienti con tratti di personalità iper-vigilanti, controllanti e ossessivi, potrebbero non accettare di non avere più la gestione completa di sé e del proprio corpo, oppure soffrire particolarmente la mancanza di risposte precise a tutte le loro domande; i pazienti con tratti dipendenti, invece, potrebbero necessitare di costante supporto, ancor più che in situazioni di normalità, finendo per “aggrapparsi” ai familiari o al personale medico ed infermieristico e provocando una loro reazione negativa o rabbiosa, che li farebbe sprofondare in un senso di solitudine e incapacità estremo (Biondi, Costantini, Wise, 2014).

 

Effetti della malattia oncologica sul caregiver

I familiari che ricoprono funzione di caregiver, ossia coloro che si prendono cura e si occupano più attivamente del malato, rivestono un ruolo cruciale in quanto rispondono ai bisogni del paziente sia sul fronte delle cure di base, che su quello emotivo. Questo implica, per loro, l’esposizione ad una serie di fattori stressanti che determinano l’insorgenza di disturbi di tipo fisico e/o psicologico, soprattutto in quelli che sono meno pronti all’utilizzo di efficaci strategie di coping o che faticano ad affrontare il tema della malattia.

Troppo spesso, però, il ruolo dei caregiver e le loro funzioni sono sottovalutate, trascurando i sintomi di stampo ansioso o depressivo di cui possono soffrire a seguito di questa assunzione di responsabilità, sintomi che possono permanere anche per mesi dopo la fine del compito di assistenza.
Questo rende necessario allargare il concetto di burden o carico di malattia, inteso come l’insieme del contributo dei fattori di rischio per lo stato di salute (World Health Organization, 2000), dal singolo paziente alla figura del caregiver, considerando l’insieme delle incombenze da lui percepite, sia in termini di tempo, che di sforzo fisico e mentale necessario per occuparsi di un’altra persona.

Più specificatamente, per identificare al meglio il livello di burden esperito dal caregiver, se ne possono considerare i diversi aspetti che lo determinano (Zavagli et al., 2012):
– aspetti oggettivi, relativi alla restrizione di tempo per sé;
– aspetti evolutivi, ossia connessi alla sensazione del caregiver di essere escluso dalle opportunità che la maggior parte dei propri coetanei o conoscenti hanno;
– aspetti sociali, relativi al cambiamento di ruolo in ambito intra ed extra familiare ;
– aspetti emotivi, associati ai sentimenti di vergogna e rabbia nei confronti del malato, nonché al conseguente senso di colpa in relazione a queste stesse emozioni esperite.
Proprio questi ultimi elementi, di natura emotiva, sono stati messi in luce solo negli ultimi anni, a fronte della crescente consapevolezza degli effetti che la condizione di vita del caregiver determina sui vissuti di ansia e/o depressione che dipendono prettamente dalla responsabilità data dalla necessità di assistenza e dall’incertezza sul futuro del proprio caro, e che conducono, in coloro che dispongono di strategie di coping meno efficaci, ad alti livelli di rimuginio.

 

Valutazione di bisogni e livello di burden del caregiver

Per far fronte alla possibilità di fornire al caregiver un supporto psicologico più strutturato e finalizzato, è bene effettuare un’ adeguata valutazione delle sue condizioni e dei bisogni di cui è portatore. Ciò è reso possibile sia dall’utilizzo di strumenti di valutazione unidimensionali, finalizzati ad indagare costrutti specifici quali ansia o depressione e i livelli ad essi associati, sia strumenti multidimensionali, che analizzano le reazioni psico-fisiche del familiare a diversi livelli e con maggiore complessità.

Strumenti unidimensionali utilizzabili:
1) STAI-Y State Trait Anxiety Inventory, consente di valutare il livello di intensità di ansia di stato e di tratto;
2) PSWQ Penn State Worry Questionnaire, indaga la tendenza a rimuginare, e può essere utilizzato con il caregiver per verificare se questo fenomeno sia presente e quanto influenzi le sue capacità di coping;
3) BDI-II Beck Depression Inventory, finalizzato a misurare l’intensità della depressione.

Strumenti multidimensionali utilizzabili:
1) CRA Caregiver Reaction Assessment, favorisce la misurazione delle reazioni positive e negative dei caregiver all’assunzione di questo ruolo, attraverso un questionario che valuta entrambe queste dimensioni (impatto positivo sull’autostima personale, ma anche aumento di impegni, difficoltà economiche, mancanza di supporto familiare). Nel complesso, valuta le esperienze dei caregiver in cinque dimensioni: attività quotidiane, situazione finanziaria, rapporti di parentela, percezione della salute, autostima personale;
2) CNA Caregiver Need Assessment, questionario costruito per indagare i bisogni relativi all’assistenza percepiti dai caregiver nel momento di assunzione del ruolo, attraverso l’analisi di bisogni emozionali, fisico-funzionali, cognitivo/comportamentali, relazionali, sociali/organizzativi e spirituali;
3) CBI Caregiver Burden Inventory, strumento di valutazione del carico assistenziale che prende in considerazione i vari aspetti del burden (oggettivo, evolutivo, fisico, sociale ed emotivo).

 

Trattamento psicologico per la “famiglia oncologica”

Coloro che si occupano dei servizi sanitari dovrebbero essere consapevoli della complessa interazione tra malattia biologica e stato psicologico del malato, nonché degli effetti che la patologia crea a livello psicologico e relazionale. La conoscenza approfondita di questi fenomeni consentirebbe di programmare interventi di sostegno idonei, finalizzati a migliorare la collaborazione tra i membri della famiglia stessa nonché tra la famiglia e i curanti, e a favorire una migliore elaborazione degli eventi o delle fasi più critiche che questi si trovano ad affrontare.

Infatti, è bene considerare come, nello sviluppo della malattia, i comportamenti individuali e gli stili relazionali di ciascuno si influenzino in modo reciproco secondo una serie di feedback, i quali fanno sì che valori, credenze, comportamenti e stili di pensiero dei membri della famiglia si connettano tra loro secondo una logica complessa di interazioni reciproche, determinando la costruzione di schemi di risposta adattiva, comportamentale ed emotiva modulati dalla storia di ciascuno (Rolland, 2005).

Per meglio comprendere come procedere nel lavoro con i malati oncologici e i loro parenti, è necessario prima di tutto cogliere una serie di aspetti fondamentali: chi prendere in carico, considerando di quale paziente o famiglia si tratti; in quale fase di malattia ci si trova; chi ha diagnosticato lo stato di disagio e perché ci ha inviato i pazienti (Cianfarini, 2010).

Il primo aspetto ci consente di coinvolgere nel lavoro di supporto e/o terapeutico tutti coloro che sono attivamente coinvolti in quel terremoto emotivo costituito dalla malattia oncologica, che modifica progetti e aspettative future di ciascuno.

Successivamente, sarebbe bene chiedersi in quale fase della sua evoluzione si trovi la famiglia e se vi sia la presenza di disturbi pregressi a livello individuale o comunicativo-relazionale nel gruppo, perché ciò condizionerebbe la decisione di chi prendere in carico e di come procedere nel lavoro.
In ultima istanza, sarebbe bene cogliere in che fase della malattia ci si trovi per identificare quali possano essere le priorità che richiedono un intervento immediato: se i pazienti sono in fase di diagnosi, momento in cui maggiormente si attivano le reazioni emotive più forti, con sensazioni di smarrimento, perdita di controllo, impotenza, paura e dolore, l’intervento psicologico contribuirà ad aiutare ad abbassare il livello di arousal emozionale, che essendo molto alto per tutti, può alterare la capacità di recepire e valutare l’emozione in modo adeguato. Qualora, invece, ci si trovasse già in fase di gestione della malattia, l’intervento potrebbe essere più approfondito e focalizzato sull’accettazione ed elaborazione dell’esperienza.

Gli interventi a finalità supportiva o terapeutica da proporre successivamente possono diversificarsi a seconda del setting e dell’orientamento seguito, e sono da selezionare sulla base delle caratteristiche di personalità e delle esigenze del singolo e del nucleo d’appartenenza:
– terapia di gruppo per il paziente o gruppi di auto mutuo aiuto per i caregiver: ha l’obiettivo di facilitare la capacità di affrontare il dolore e incoraggiare la rivisitazione delle priorità per il futuro attraverso la condivisione di esperienze e vissuti in un ambiente supportivo e non giudicante.

Attraverso il lavoro in gruppo si intende favorire anche il miglioramento della relazione di cura con il personale medico e prevenire l’evoluzione in senso depressivo delle emozioni negative iniziali.
– terapia familiare: ha come obiettivo l’ottimizzazione del funzionamento relazionale della famiglia attraverso la promozione di una comunicazione efficace, di una maggiore coesione e di una soluzione adattiva dei conflitti. La capacità della famiglia di fare fronte ad alcune difficoltà specifiche di ciascuna fase è influenzata da aspetti del suo funzionamento: apertura della comunicazione, flessibilità della struttura familiare, adattabilità e capacità di riorganizzazione dei significati personali connessi alla malattia oncologica, risposta a temi esistenziali e di mortalità. (Biondi et al., 2014)
terapia cognitiva-comportamentale: la CBT può essere utilizzata efficacemente per trattare disturbi depressivi e/o ansiosi nei pazienti affetti da un tumore o nei loro parenti più prossimi. L’efficacia della CBT è data dal fatto che dà la possibilità di lavorare per passi risolvendo di volta in volta i problemi di natura emotiva che possono insorgere, focalizzandosi sul problem solving e sull’azione mirata sui pensieri negativi e disfunzionali, riducendo ruminazione o rimuginio.
– tecniche di rilassamento e mindfulness: sono utili soprattutto per la gestione di tutte quelle fasi di attesa che difficilmente possono essere modificate, come quella degli esiti di un esame o dei risultati di un intervento o trattamento, eventi che aumentano esponenzialmente i livelli di ansia e distress psicologico. Le tecniche di rilassamento, da praticare inizialmente con una guida esperta, e successivamente anche in autonomia, consentono di ridurre i sintomi fisiologici connessi all’ansia e l’oppressione emozionale, aumentando la qualità della vita dei pazienti. La mindfulness, invece, permette di concentrarsi sul momento presente e di liberarsi da pensieri negativi e ansietà circa il futuro.

A prescindere dal tipo di orientamento del lavoro svolto, risulta evidente la presenza di obiettivi comuni, tra cui il bisogno di empowerment e sostegno alla famiglia e al paziente, le cui potenzialità positive sono limitate da dinamiche personali ed interpersonali spesso disfunzionali. L’attività di supporto psicologico, di gruppo o individuale che sia, offre infatti uno spazio protetto in cui riconoscere le difficoltà esistenti ed affrontarle nel migliore dei modi. Per farlo, ci si concentrerà sullo sviluppo di maggiori abilità comunicative e di scambio, sulla facilitazione dell’espressività emotiva e sulla condivisione delle emozioni determinate dall’esperienza vissuta, nonché, nei casi più complessi, di ristrutturazione cognitiva dell’esperienza di malattia.

Scegliere la scuola di specializzazione in Psicoterapia: un’esperienza personale

La complessa scelta della scuola di specializzazione in psicoterapia: il racconto di un’esperienza personale

Tanti tra i giovani neolaureati psicologi, affrontano la scelta della scuola di specializzazione in psicoterapia con apprensione, ma anche con tante aspettative, essendo per molti fortemente determinante per il proprio futuro lavorativo. Tale scelta è tanto onerosa quanto complessa, soprattutto perché le Scuole riconosciute dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in Italia sono circa 500 e sono oltre 21 i principali approcci terapeutici, diversi per presupposti, metodologie e tecniche.

 

Dopo la laurea in psicologia: scegliere la scuola di specializzazione in psicoterapia

Il viaggio formativo del giovane psicologo, non finisce con la laurea, anzi forse incomincia veramente dopo. Quando ho finito il mio percorso universitario, avevo abbastanza chiaro in mente che tipo di professionista mi sarebbe piaciuto diventare, quali erano le mie risorse e quali invece le cose su cui dover lavorare, ma tanti erano anche i pregiudizi su molte scuole di specializzazione e i dubbi sulla mia professione primo tra i quali: “Cosa differenzia veramente un professionista da un amico sufficientemente saggio ed empatico?” e ancora :“Oltre all’inquadramento diagnostico COME si costruisce e si attua un percorso terapeutico?”.

Se è vero, come ripetono in tanti, che l’approccio psicoterapeutico che scegliamo è come “un vestito che ci si deve sentire addosso”, il quesito è: come scegliere quel vestito? Questo giustamente nessuno te lo dice, è una cosa che devi scoprire e sentire da solo. E allora leggi, ti informi, ascolti dei consigli, frequenti gli Open Day delle scuole di specializzazione in psicoterapia e speri di fare la scelta giusta per te. Così è successo a me. Ho scelto una scuola, ho fatto il primo anno e l’esame e, nel frattempo, ho preso la difficile decisione, insieme ad altri colleghi, di andare via da una scuola di specializzazione che non rispecchiava l’offerta formativa che ci aspettavamo. Sentivo l’esigenza di trovare infatti una scuola che mi desse uno stabile assetto teorico, che fornisse scientificità e metodo alla mia professione e che utilizzasse la relazione terapeutica, non solo come cornice ma anche come strumento di cura.

 

Frequentare i corsi per un weekend, per scegliere la scuola di specializzazione in psicoterapia

Così è iniziata la mia avventura alla Scuola Cognitiva di Firenze. Quello che per me è stato fondamentale, inizialmente, per intraprendere la nuova scelta, è stata l’accoglienza autentica che ho trovato nel mio colloquio di ammissione con una didatta e soprattutto la possibilità di poter frequentare un intero week end di lezione tra gli studenti, quelli che hanno poi hanno formato la mia classe. Questo è quello che consiglio a tutti: non fermatevi con gli Open Day delle scuole di specializzazione, chiedete agli studenti che già frequentano ed esplorate con mano l’offerta formativa che vi viene proposta.

Una cosa che posso sottolineare con entusiasmo è che ci è stato fornito prima di tutto uno strumento e un metodo di lavoro, fondato su un buon inquadramento diagnostico, fine formulazione e condivisione di un modello di funzionamento del paziente, indispensabile per la creazione di un progetto terapeutico che sia individualizzato e specifico per il paziente stesso. Tutto questo è stato favorito da un’organizzazione della formazione teorica chiara e ben divisa per anni e argomenti che ha visto, ordinatamente illustrati, la clinica e il trattamento dell’Asse I e dei relativi protocolli, dell’Asse II, fino all’area traumatica e della dissociazione.

L’apprendimento di noi studenti è stato inoltre implementato, dall’alternanza tra parti teoriche di lezione frontale e parti pratiche all’interno di ogni giornata di scuola. Ricordo ancora l’evitamento iniziale di ognuno di noi quando i docenti chiedevano chi si volesse offrire nel simulare il terapeuta che si è poi ben presto trasformato nella consapevolezza dell’importanza di questi momenti. Tali esercitazioni di psicoterapia, sono state infatti indispensabili, non solo per applicare una tecnica, ma soprattutto per imparare a fare restituzioni al paziente in un modo per lui comprensibile, per imparare a gestire i tempi della seduta e ancora di più, per modulare i propri stati interni nel colloquio, capacità che solo le esercitazioni pratiche o l’esperienza ti permettono di implementare. Quello che ci è stato offerto, inoltre, è stato un assetto teorico sempre aggiornato, con la possibilità di frequentare Workshop o piccoli moduli specifici per determinati argomenti o per i vari trattamenti per i Disturbi di Personalità, che appartengono al panorama cognitivo di Terza Ondata.

Una delle cose che ho apprezzato maggiormente è stato il clima di accoglienza apertura e dialogo che si respirava tra studenti e didatti della scuola di psicoterapia e il superamento delle vecchie divisioni ideologiche tra psicologi e psichiatri, che ha visto la creazione di un linguaggio condiviso e di un lavoro di rete con tanti professionisti e tra tanti alunni all’interno della scuola. E’ stato inoltre importante per noi studenti che la Scuola fosse prima di tutto anche un Centro di Psicologia Clinica e di Psicoterapia, attivo sia nella ricerca che nell’attività clinica, caratteristica questa che permette di valorizzare i propri studenti e venire incontro alle loro esigenze di formazione pratica.

 

Il programma di psicoterapia solidale e la formazione in psicoterapia

Negli anni, è stata infatti attivata la possibilità di offrire agli studenti a partire dal terzo anno, almeno un paziente da prendere in cura a tutti gli effetti, che partecipava al programma di Psicoterapia Solidale (psicoterapia a tariffa agevolata), sotto la supervisione di gruppo settimanale dei didatti esperti della scuola e gratuita per gli psicoterapeuti in formazione, oltre quella offerta durante le lezioni. Questa, a tutti gli effetti è stata un’esperienza incredibile di apprendimento e formazione, parallela al percorso di studio per ognuno di noi.

Quello che più ricorderò di questa mia formazione è la mia classe, il crescere con loro, partecipare ai gruppi di ricerca, collaborare e presentare i lavori creati da noi, ma soprattutto vederci diventare colleghi e poi amici, favorendo così anche un ottimo lavoro di rete. E’ grazie alla costruzione di un gruppo classe supportivo, accogliente e validante, favorito prima di tutto dai didatti e dal codidatta che hanno sempre stimolato la cooperazione e mai la competizione, che si è potuto creare quel clima di sicurezza e fiducia, che ha permesso inoltre, di lavorare anche sui nostri temi dolorosi, con profondo rispetto per i tempi di ognuno. Quanto sottolineato ci ha fatto crescere negli anni come psicoterapeuti e individui con più consapevolezza e ha costituito la parte più importante di questo mio percorso. In tutto questo, è importante dire che non è la Scuola che fa il terapeuta. Ogni scuola ha i suoi meriti e difetti, sta allo psicologo in formazione, realizzare con consapevolezza, perseveranza, amore e personalità il progetto di diventare uno psicoterapeuta sufficientemente aggiornato, preparato e un professionista autentico. Quindi, auguro a tutti gli studenti come me, di trovare il loro “vestito”  e un buon gruppo di lavoro e soprattutto di completare il proprio percorso con l’ entusiasmo e la voglia di continuare a imparare  a fare in nostro complesso ma appassionante lavoro .

 

Daniela Biagini

Psicologa, Specializzanda IV Anno Scuola Cognitiva di Firenze

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Scuola Cognitiva di Firenze - Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Iron Man ha l’Audi TT che a me ingiustamente manca – Racconto

Cosa c’è al livello successivo di Super Mario?”, mi chiedo spesso. “Il mostro”, mi rispondo. Il mostro che io voglio raggiungere e sconfiggere. È il mio destino, in un certo senso. Un destino che però non scelgo mai.

Un racconto ispirato dal libro “L’illusione del Narcisista” di Giancarlo Dimaggio

 

Succede sempre così, non sono io a decidere il videogioco da mettere nella Playstation. Qualcuno lo inserisce per me. Mi dicono: ehi, puoi farlo, sei bravo, abbiamo bisogno del tuo talento. E io inizio a giocare. Solo per sfida. Livello dopo livello. Ogni lavoro l’ho trovato così. Voglio dire: non l’ho trovato io, sono stato cercato.

Mentre entro in ufficio un ragazzino mi ferma: “Ehi, rassomigli a Tony Stark”. Gli credo. Iron Man è il mio modello. Mi sento di buon umore, corazzato, invincibile. Dovrei ordinare un Audi TT per completare il quadro. Mi irrita molto non avere disponibilità di liquidi al momento.

Ho speso troppo per Ludmilla, mi dico. Ma ne vale la pena. Mia moglie si chiede dove finiscano i soldi che guadagno con la catena di ristoranti di cui sono socio. Mi tocca imbastirle delle scuse, le sciorino conti che lei non capisce e, anche se il sospetto non le passa, le tolgo gli argomenti.

Ludmilla ha occhi azzurri, una bellezza eterea, mezzo sangue ucraino, intuisce tutto quello che desidero. Mi preoccupa la sua sensibilità, a volte è così fragile: indulge nell’aperitivo alle cinque del pomeriggio. Lo prendo anch’io, ma io lo controllo. Le ho detto che rischia di diventare alcolista, credo abbia capito. Rimproverandola, mi prendo cura di lei.

Guardo l’acquario che ho fatto installare da poco, mi dà pace e mi distrae dagli imbecilli a cui sorrido e con cui tutti i giorni mi tocca lavorare, un lavoro che faccio perché il socio di maggioranza mi ha detto: vieni con me, tu puoi farlo. La solita storia: mi ha lusingato, ho accettato. Vengo sempre scelto così e accetto. Perché sentire che mi ammirano è l’unico motore di vita che mi tira avanti.

Ultimamente il socio di maggioranza è scontento di me, dice che non mi impegno. Moralista che non è altro. Come se avessi bisogno di impegnarmi, come se non bastasse il mignolo della mia mano sinistra per fare un lavoro migliore di tutto il resto del team messo insieme. E forse è quello che lo porta a criticarmi, sbagliando naturalmente. L’invidia che inevitabilmente ronza intorno a me.

Mi ha chiesto di trattare con i cinesi per aprire delle sedi da quelle parti, una sorta di ultima chance. A me non piacciono i cinesi, ci invadono e non capisco che significano le loro espressioni facciali. Un sorriso è un sorriso o una minaccia di taglio di una mano? La fanno facile quelli che si fanno eleggere con i muri anti-immigrati. Costruitelo voi un muro anti-cinesi. Dove lo mettere? A parte che la muraglia se l’erano costruita già da soli. E per un be po’ ha funzionato. Ora fa acqua da tutte le parti a quanto pare. Ci stanno comprando tutti e noi gli vendiamo le cose senza neanche capire che significa quello che hanno scritto in faccia. Iron Man li combatte, a me tocca farci affari. Forse ho trovato il senso del mio lavoro: il mostro sono i cinesi. Li devo battere. Super-Mario contro Zung-Mung-Li.

Ho pronte condizioni vantaggiose. Entro in sala riunioni. Non vedo cinesi. Ci sono Ludmilla e mia moglie.  Farei per presentarle, ma già si conoscono. Non dovevo fidarmi di Ludmilla. Pare si sia risentita quando le ho dato dell’alcolista. Un bastardo narcisista sprezzante mi ha detto che sono, e che era il caso che mia moglie lo sapesse.

Il bilancio della giornata: riunione saltata, cinesi a casa, e io non vedo ora con quali soldi potrei comprare la mia Audi TT, quel gioiello che, in tutta franchezza, mi spetterebbe per diritto. Sono irritato.

Perché iniziare una psicoterapia: superare i disturbi psicologici si può, l’esempio del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre

Circa una persona su cinque, nel corso della vita, ha soddisfatto i criteri diagnostici per almeno uno dei disturbi psicologici più conosciuti. Per questo l’obiettivo del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre è garantire adeguati percorsi psicoterapici a chi, in un particolare momento della propria vita, può andare incontro a disturbi psicologici, quali ansia e depressione.

 

 

Disturbi psicologici più frequenti: ansia e depressione

I disturbi psicologici maggiormente diffusi nella nostra società riguardano la dimensione ansioso-depressiva.

In Italia il primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali nell’ambito del progetto europeo European Study on the Epidemiology of Mental Disorders (ESEMeD) ha confermato che i disturbi mentali sono frequenti anche in Italia, al pari di quanto le ricerche internazionali condotte in questi anni hanno messo in luce: circa una persona su cinque ha soddisfatto i criteri diagnostici per almeno un disturbo mentale nel corso della vita. In maniera più specifica, la depressione maggiore, le fobie specifiche e la distimia sono risultati i disturbi psicologici più comuni, con percentuali di prevalenza nel corso della vita rispettivamente pari al 10,1%, al 5,7% ed al 3,4%, seguiti dal disturbo da stress post traumatico, dalla fobia sociale e dal disturbo d’ansia generalizzata (riscontrati nel 2% circa dei soggetti intervistati).

L’indagine Istat 2014 ha mostrato un trend di peggioramento dello “stato di salute psicologica” degli italiani. Una conferma di quanto l’Istituto Superiore di Sanità aveva già evidenziato riscontrando un disturbo depressivo nel 7% della popolazione, con prevalenza tra giovani e donne. Le stime indicano che otto milioni di italiani soffrono di stati d’ansia, quattro di depressione, altri quattro hanno problemi di insonnia e oltre un milione soffre di disturbo post- traumatico da stress: in tutto, sono 17 milioni gli italiani che soffrono di un chiaro disagio psicologico. Ed una quota di questi sono bambini, ragazzi e giovani.

 

La Depressione : come si manifesta

Può capitare una giornata storta, in cui siamo giù di corda, tristi, più irritabili del solito e “ci sentiamo un po’ depressi”. Molto probabilmente non si tratta di un disturbo depressivo, ma di un calo d’umore passeggero.

La depressione clinica invece è un disturbo dell’umore e  presenta sintomi frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza e si perde il piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di frequente umore negativo, con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi e il proprio futuro.

La depressione si manifesta con diversi livelli di gravità e attraverso sintomi di tipo fisico, emotivo, comportamentale e cognitivo.

I sintomi fisici più comuni sono la perdita di energie, il senso di fatica, i disturbi della concentrazione e della memoria, l’agitazione motoria ed il nervosismo, la perdita o l’aumento di peso, i disturbi del sonno, la mancanza di desiderio sessuale, i dolori fisici, il senso di nausea, l’eccessiva sudorazione, il senso di stordimento, l’accelerazione del battito cardiaco e le vampate di calore o i brividi di freddo.

Le emozioni tipiche provate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, il senso di colpa, il vuoto, la mancanza di speranza nel futuro, la perdita di interesse per qualsiasi attività, l’irritabilità e l’ansia.

Da ciò derivano i principali sintomi comportamentali, come la riduzione delle attività quotidiane, la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio.

 

I Disturbi d’ansia

L’ansia, è uno stato fisiologico e psicologico caratterizzato da componenti cognitive, somatiche, emotive e comportamentali. L’ansia, sorella più evoluta rispetto alla paura e squisitamente umana, segnala una minaccia meno evidente, il disagio è più prolungato, è meno intensa della paura e sia l’esordio che la fine sono meno netti.

I disturbi d’ansia sono differenti l’uno dall’altro per la tipologia di oggetti o di situazioni che provocano paura, ansia oppure comportamenti di evitamento, e per l’ideazione cognitiva associata. Differiscono dalla normale paura o ansia evolutive perché sono eccessivi o persistenti rispetto allo stadio di sviluppo. Le persone che soffrono di disturbi d’ansia sopravalutano il pericolo nelle situazioni che temono o evitano.

 

Ansia e depressione: le cause

Secondo le teorie cognitive esiste una connessione fra disturbi psicologici e disturbi del pensiero. In particolare l’ansia e la depressione sono caratterizzate da pensieri automatici negativi e distorsioni di interpretazione della realtà. Si ritiene che le interpretazioni o i pensieri negativi derivino dall’attivazione di convinzioni negative immagazzinate nella memoria a lungo termine.

Le convinzioni sono costrutti di base riguardanti sé e il mondo che hanno carattere assoluto e generale (per es. “sono fragile” “il mondo è un posto pericoloso”) e che vengono considerate come vere.

In memoria conserviamo anche gli assunti che sono la rappresentazione delle relazioni specifiche fra eventi e valutazioni riferite a sé (per es. “se ho dei sintomi fisici inspiegabili, devo essere gravemente malato”).

Il contenuto degli schemi mentali disfunzionali dipende in modo specifico dal tipo di disturbo psicologico. Gli schemi dell’ansia consistono  in convinzioni e assunti relativi al pericolo (Beck, Emery  e Greenberg, 1985) e all’incapacità di fronteggiare una situazione.

Nella depressione invece gli schemi sono incentrati sui temi della triade cognitiva negativa (Beck,1976) ossia quel sistema di convinzioni negative su noi stessi, sul mondo e sul nostro futuro che si costituiscono sin dall’infanzia. Gli schemi disfunzionali introducono delle distorsioni nell’elaborazione e nell’interpretazione delle informazioni che riceviamo dall’ambiente, sottoforma di pensieri automatici negativi all’interno del flusso di coscienza.

Più la nostra tendenza a leggere le avversità in questa prospettiva è stabile e rigida, più siamo vulnerabili a fare esperienza di episodi depressivi.  Questa tendenza delle persone, secondo la teoria metacognitiva, dipende da una eccessiva e incontrollabile ripetizione astratta di pensieri negativi in qualche modo collegati all’evento/problema, chiamata ruminazione.

Il pensiero negativo reiterato è una caratteristica della maggioranza dei tipi di dinfunzione psicologica. La depressione è associata prevalentemente alla attività di ruminazione e l’ansia è associata alla preoccupazione. Questi due generi di pensiero sono simili per diversi aspetti ma possono anche essere distinti (Papageorgiou e Wells, 1999).

La preoccupazione è un aspetto che contraddistingue in modo particolare il DAG (disturbo d’ansia generalizzato). Secondo gli studi sulla preoccupazione, questa può essere considerata un modo sistematico per affrontare le difficoltà (Wells, 1995)  ma può anche svolgere una funzione di evitamento cognitivo e le persone con disturbo DAG (disturbo d’ansia generalizzato) se ne servono per distrarsi  da immagini più angoscianti.

 

Interventi efficaci: la Terapia Cognitivo-Comportamentale

I disturbi psicologici vengono diagnosticati e trattati in media solo nel 30% dei casi e quando trattati ricevono spesso una cura non sempre appropriata fatta solo di farmaci (sempre di più anche nei bambini o adolescenti) e somministrati per lunghi periodi (con evidenti effetti collaterali). Il consumo di antidepressivi ed ansiolitici, secondo i dati dell’Agenzia Italiana del farmaco, è notevolmente aumentato in Italia negli ultimi dieci anni.

Tale situazione deriva da un crescente (e costoso) “gap” tra le evidenze scientifiche e cliniche e l’organizzazione sanitaria. Infatti oggi disponiamo di dati sufficienti per affermare l’efficacia ed i vantaggi economici della psicoterapia.

Solo il 60% di chi riferisce sintomi depressivi ricorre all’aiuto di qualcuno, rivolgendosi soprattutto a medici/operatori sanitari.

 

La diffusione dei disturbi psicologici e la psicoterapia cognitiva in Veneto e Friuli Venezia Giulia

In particolare in Veneto il 5.6% degli intervistati segnala sintomi di depressione, solo il 63.2% richiede aiuto, non molta diversa la situazione in Friuli Venezia Giulia il 6.8% del campione che segnala sintomi di depressione, chiede aiuto solo il 53.6% (Secondo PASSI sistema di sorveglianza del Ministero della Salute della popolazione adulta).

Quando ansia e depressione hanno delle ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, l’attività scolastica o lavorativa è compromessa e prevale la tendenza al ritiro sociale, col passare del tempo vengono compromesse le relazioni con partner, figli, amici e colleghi, ed è importante quanto prima un intervento clinico che possa aiutarci a uscire dal problema e prevenire le ricadute.

 

Il centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre

Alla luce di questo quadro epidemiologico, risulta chiaro l’obiettivo del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre: garantire adeguati percorsi psicoterapici a chi, in un particolare momento della propria vita, può andare incontro a disturbi psicologici, quali ansia e depressione. Punto di forza del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre, è l’ecletticità degli interventi cognitivo-comportamentali offerti, pensati per garantire l’efficace trattamento di ogni disturbo psicologico. Alcune tra le tecniche cognitivo-comportamentali utilizzate, oltre alla CBT Standard: Acceptance and Commitment Therapy (ACT), EMDR (tecnica d’elezione nel trattamento del Disturbo da stress post-traumatico), Terapia Metacognitva Interpersonale, Terapia Dialettico Comportamentale (DBT).

Si sottolinea l’importanza delle strategie psicologiche di intervento precoce (nelle cure primarie) che risultano efficaci e vantaggiose: brevi interventi (due-quattro incontri) in situazioni di depressione insorgente risultano nel 21% efficaci sui sintomi e nel 59% dei casi efficaci anche sui costi (per i costi successivi che evitano): quindi utili per otto persone su dieci ed anche vantaggiose per sei su dieci (Smith, 1980).

La psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale rappresenta la soluzione più efficace per affrontare e superare il disturbo depressivo maggiore, in modo definitivo (NICE, 2011).

Attraverso il colloquio psicoterapeutico cognitivo la persona è incoraggiata ad apprendere tre abilità principali (Ruggero, Sassaroli 2013):

  • Saper riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva consapevole ed  esplicita, ossia ciò che provo e penso posso esprimerlo verbalmente;
  • Saper mettere in discussione la validità di questi pensieri, il loro valore di verità e di utilità;
  • Saper costruire nuovi pensieri più veri, e soprattutto più utili, che andranno a sostituire quelli vecchi, nelle situazioni quotidiane e quindi genereranno emozioni e comportamenti differenti.

Quindi nuovi pensieri, nuove esperienze emozionali, nuove azioni utili per affrontare meglio le difficoltà e generare una migliore qualità di vita.

La Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia mira a eliminare i timori esagerati e i comportamenti di controllo ed evitamento che mantengono i Disturbi d’Ansia (Beck, 1976; Wells, 1997), nel tentativo di riacquisire un senso di sicurezza e di confidenza nelle attività della vita quotidiana.

Nella recente review di Caselli e collaboratori (Caselli et al., 2016) sull’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nei disturbi d’ansia, per esempio per il Disturbo di Panico la Terapia ha mostrato la sua efficacia con miglioramenti nel 78% dei casi (Öst, 2008), con indici elevati di stabilità nel tempo (Norton e Price, 2007).

 

 

Laura Prosdocimo

Referente del Centro di Psicologia Clinica e Psicoterapia di Mestre (VE)

Scopri i servizi offerti dal Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre, lo staff e le tecniche utilizzate.

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L’uso di Photovoice nel Disturbo da Stress Post-Traumatico

Photovoice: la terapia basata sull’utilizzo di fotografie come nuovo approccio per i sopravvissuti a stupro e violenza sessuale.

 

 

Secondo i dati ISTAT nel 2015, circa il 35% delle donne nel mondo, 6 milioni e 788 mila solo in Italia, ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale da parte del proprio partner o di un’altra persona e il 12% di loro non ha avuto la forza di denunciare tale violenza.

Da una serie di ricerche emerge anche che più di un terzo delle donne sopravvissute ad una violenza sessuale sviluppa in seguito sintomi riconducibili al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), ma che non tutte risultano essere responsive ai tradizionali trattamenti per questo disturbo, con la conseguente ricomparsa di sintomi invalidanti nel corso del tempo.

 

Photovoice e PTSD

Recentemente, Rolbiecki, ricercatrice presso la scuola di medicina dell’Università del Missouri, e collaboratori (2016) hanno evidenziato come affiancare ai classici interventi per il trattamento del PTSD l’utilizzo del Photovoice, una tecnica terapeutica di derivazione comunitaria in cui i partecipanti sono invitati ad esprimere i propri pensieri ed emozioni attraverso fotografie ed immagini, possa portare ad una migliore guarigione dal disturbo, con remissione di sintomi persistente nel tempo.

 

Cos’è il Photovoice?

Il Photovoice è una tecnica sviluppata da una ricercatrice statunitense negli anni ’90 (Wang, 1999) con lo scopo, tramite l’utilizzo di fotografie, di permettere alle persone di identificare e riflettere sui punti di forza e sulle problematiche della propria comunità di appartenenza, di favorire lo scambio di opinioni attraverso la creazione di gruppi di discussione e di favorire così anche il miglioramento della stessa comunità.

Il Photovoice offre così alle popolazioni più svantaggiate e vulnerabili la possibilità di esprimere se stesse attraverso modalità alternative, permettendo potenzialmente anche ai sopravvissuti ad esperienze traumatiche di comunicare i propri pensieri e sentimenti. In altre parole, attraverso una combinazione di fotografia e discussioni di gruppo, Photovoice consente di attivare i membri della comunità, accompagnandoli nell’identificazione dei propri punti di vista, per poi utilizzarli come leve per promuovere il cambiamento sociale. La foto diviene così la voce attraverso cui le persone possono esprimersi e grazie alla quale possono divenire più consapevoli della situazione in cui sono immersi, andando anche ad identificare i fattori che concorrono alla determinazione della stessa.

All’interno dello studio di Rolbiecki e collaboratori, invece, Photovoice è stato utilizzato, più che come catalizzatore di processi di cambiamento sociale, come una vera e propria tecnica terapeutica. I partecipanti venivano invitati a raccogliere foto che raffigurassero le proprie debolezze, i propri punti di forza, i triggers, o stimoli attivanti (che portano alla riattualizzazione della sintomatologia PTSD), e i processi intrapresi per guarire e per ottenere giustizia. In questo modo ai partecipanti veniva data la possibilità di esporsi per gradi e in modo meno dirompente ai propri stimoli attivanti, riuscendo così anche a discutere e mettere in discussione i propri pensieri e sentimenti circa l’esperienza traumatica all’interno di un setting sicuro e supportivo.

 

Effetti del Photovoice nel trattamento del PTSD

Secondo i ricercatori, proprio grazie all’uso di Photovoice, sarebbe quindi possibile incrementare l’efficacia dei tradizionali trattamenti per il PTSD. Questi ultimi infatti sembrerebbero essere prevalentemente focalizzati sull’aspetto della gestione dell’ansia nei confronti degli stimoli attivanti, offrendo però poco supporto per quanto riguarda la gestione dei sentimenti di impotenza frequentemente percepiti dalle vittime. Sarebbe al contrario auspicabile aiutare queste ultime nella ri-attribuzione di questi stessi sentimenti all’esperienza traumatica, più che ad una incapacità a livello personale, in modo da incoraggiarle anche a riscrivere la propria storia e a significare correttamente quanto vissuto e ciò che ne è conseguito, abbandonando l’etichetta di vittima inerme. Proprio in questo senso, infatti, le terapie tradizionali non risultano essere focalizzate in modo specifico sulla promozione di una ripresa ed una crescita in seguito al trauma, in un’ottica di empowerment delle vittime sopravvissute.

 

Photovoice e violenza sessuale: lo studio di Rolbiecki

Lo studio di Rolbiecki et al. (2016), più nello specifico, ha coinvolto 9 donne che nel corso della propria vita hanno subito un qualche tipo di violenza sessuale, riportando poi una sintomatologia ascrivibile al PTSD. Ad ogni donna gli sperimentatori hanno fornito una fotocamera, con l’indicazione di scattare foto che raffigurassero l’essenza della violenza subita, così come l’avevano esperita, e il successivo percorso di recupero. Era stato inoltre previsto un incontro settimanale durante il quale le donne potessero incontrarsi per discutere di quanto emerso dalle foto.

Alla fine degli incontri di gruppo, poi, le partecipanti hanno potuto partecipare all’allestimento di una mostra fotografica, con lo scopo di sensibilizzare e informare la comunità circa la realtà della violenza sessuale, delle politiche vigenti al riguardo e delle conseguenze traumatiche da essa derivanti. Infine, dopo la mostra le partecipanti sono state ulteriormente intervistate per poter discutere in modo più approfondito della loro esperienza con la tecnica del Photovoice come intervento terapeutico.

Per quanto riguarda i risultati, alla fine del progetto è emersa da un lato una considerevole riduzione dei sintomi PTSD e di auto-colpevolizzazione, e dall’altro un aumento a livello degli indici di crescita post-traumatica, in particolar modo per quanto riguarda la percezione di sé come coraggiosa e forte.

 

Conclusioni

In conclusione, Photovoice, andando in una direzione contraria rispetto alla tendenza ad etichettare come vittima inerme chi sopravvive ad una violenza sessuale, permette alle persone di ridefinire se stesse come padrone della propria vita, andando oltre la vittimizzazione. Attraverso l’uso di questo strumento è infatti possibile condividere la propria storia mantenendo il controllo di come viene narrata e dando così la possibilità di ricostruire la storia di quanto accaduto, in modo che questo possa infondere forza e permettere di andare avanti più forti di prima. Proprio in questo senso si può affermare che Photovoice abbia implicazioni a livello terapeutico, soprattutto per quanto riguarda il trattamento di eventi traumatici attraverso la creazione e la discussione critica di narrazioni costruite con supporto fotografico.

In modo analogo all’EMDR, questo approccio potrebbe risultare in particolar modo efficace con quei pazienti con difficoltà nella verbalizzazione dell’evento traumatico vissuto. Infatti, l’utilizzo di tecniche non basate su interventi verbali, che possono quindi fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione, permetterebbe un aiuto in modo più efficace ed incisivo a livello della regolazione e della gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione dell’esperienza vissuta.

Il ruolo dell’ Emotività Espressa nell’esordio delle psicosi

Esiste un ampio consenso scientifico sul ruolo dell’alta Emotività Espressa (familiare e non) nel predire le recidive in pazienti psicotici (oltre a svariate altre patologie). Ma per quanto concerne l’ipotesi di un ruolo nell’innesco di un disturbo psicotico il discorso si fa più complesso.

Marina Lustrati – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze 

 

La temperatura emotiva della famiglia: l’ Emotività Espressa

La ricerca psichiatrica sulla famiglia nasce intorno agli studi sulla Schizofrenia, una tra le più gravi patologie mentali. L’ambiente familiare è il primo luogo di espressione dei sintomi del paziente. La famiglia si trova di conseguenza a scontrarsi con tutta una serie di comportamenti disturbati del proprio congiunto, tanto diversi rispetto a quelli passati. Il rischio diviene allora la critica verso questi comportamenti, oppure, all’opposto, la negazione del disturbo (con il conseguente ritardo nella ricerca di un aiuto specialistico) o ancora un atteggiamento iperprotettivo. Ebbene sono proprio queste le dimensioni che definiscono il concetto di Emotività Espressa (EE).

Secondo Christine Vaughn (1988), una delle prime autrici che si è occupata di questo costrutto, l’ Emotività Espressa rappresenta la “temperatura emotiva” della famiglia. Sarebbe quindi l’indicatore dell’intensità emotiva familiare, rivelatore di mancanza di affetto o di interessamento eccessivamente invadente.

Schematizzando, l’ Emotività Espressa familiare è rappresentata quindi dalle dimensioni di:

  • Critica
  • Ostilità
  • Ipercoinvolgimento emotivo

che rappresentano delle scale, cosiddette, di rischio, accanto alle quali troviamo contrapposte le seguenti scale di protezione:

  • Calore affettivo
  • Commenti positivi

Qualsiasi trattazione sul concetto di Emotività Espressa non può prescindere né dalla malattia schizofrenica né dalle recidive; infatti è utile evidenziare che questo concetto è stato coniato a partire dai primi studi compiuti a Londra da George W. Brown e colleghi (1958) proprio per indicare quel particolare stile interazionale familiare che aveva mostrato una correlazione piuttosto forte con le recidive di pazienti psicotici.

Ebbene questa predittività è confermata ancora oggi e sostenuta da un’ampia letteratura in merito (Brown, Birley & Wing, 1972; Vaughn & Leff, 1976; Leff, Kuipers, Berkowitz, Erbelein-Vries & Sturgeon, 1982; Brown, 1985; Vaughn, 1986; Kuipers & Bebbington, 1988; Cazzullo, Bertrando, Bressi, Clerici & Maffei, 1989; Miklowitz et al., 1989; Barrelet, Ferrero, Szigethy, Giddey & Pellizzer, 1990; Bertrando et al., 1992; Bebbington & Kuipers, 1994, analisi aggregata; Hooley, Rosen & Richters, 1995; Heikkila et al., 2002; Pourmand, Kavanagh & Vaughan, 2005; Brent & Giuliano, 2007; Lim, Chong & Keefe, 2009, review).

Alcuni autori hanno allargato gli studi ad altre patologie, confermando il medesimo ruolo predittivo dell’alta Emotività Espressa sulle recidive di pazienti: depressi (Hooley, 1986); Bipolari (Miklowitz, Goldstein, Nuechterlein, Snyder & Doane, 1986; Miklowitz, Biuckians & Richards, 2006); con Disturbi Alimentari (Fischmann-Havstad & Marston, 1984; Szmuckler, Eisler, Russel & Dare, 1985; Sepulveda, 2009) e con patologie organiche (Koenigsberg, 1995; Invernizzi et al., 1991). E’ stata verificata l’influenza di un’alta Emotività Espressa anche rispetto a quanto manifestato dai coniugi dei pazienti (Hooley, Rosen & Richters, 1995) e addirittura dagli operatori dello staff ospedaliero (Berry, Barrowclough & Haddock, 2011, review di 27 studi dal 1990 al 2008). Inoltre l’ Emotività Espressa  viene ormai ritenuto un valido predittore cross-culturale  (Moline, Singh, Morris & Meltzer, 1985; Marom, Munitz, Jones, Weizman & Hermesh, 2002; Healey, Tan & Chong, 2006; Chien & Chan, 2010).

Riassumendo esiste un ampio consenso scientifico sul ruolo dell’alta Emotività Espressa (familiare e non) nel predire le recidive in pazienti psicotici (oltre a svariate altre patologie). Ma per quanto concerne l’ipotesi di un ruolo nell’innesco di un disturbo psicotico il discorso si fa più complesso. Ed è proprio questo che abbiamo cercato di fare nel presente studio.

 

Emotività Espressa ed esordio del disturbo psicotico: cosa dicono gli studi

Per quel che riguarda la letteratura non ci sono accordi univoci in tal senso, tuttavia possiamo scorgere alcuni importanti risultati che convergono verso tale assunto.

La prima ricerca in merito è rappresentata da uno studio prospettico effettuato da Goldstein (1985), su soggetti a rischio e sulle caratteristiche delle loro famiglie. Ebbene questo studio rivela come un’alta Emotività Espressa familiare e i relativi modelli devianti di comunicazione siano associati all’esordio di patologie psicotiche nei soggetti a rischio e nei fratelli di questi soggetti. Un dato ancor più degno di nota è rappresentato dalla costatazione che una tale “temperatura emotiva” sarebbe precedente l’insorgenza della psicosi e quindi non una reazione a comportamenti già disturbati dei soggetti. A tale risultato sono approdati anche Heikkila e colleghi (2002), i quali hanno indicato che l’alta Emotività Espressa non risulta essere associata né con la gravità dei sintomi dei pazienti, né con le caratteristiche premorbose, scartando così la possibilità che possa essere considerata una mera conseguenza.

Un altro studio che merita sicuramente menzione è quello di Tienari e colleghi (2004). Mediante un follow-up a lungo termine sono stati analizzati soggetti adottati (che differivano tra loro in base al fatto che alcuni erano figli naturali di madre schizofrenica) e le loro famiglie adottive. I risultati cui sono pervenuti, portano gli autori a concludere che l’alta Emotività Espressa delle famiglie adottive, riesce a predire l’esordio di schizofrenia nei pazienti ad alto rischio genetico. Ecco un chiaro esempio di come i fattori di vulnerabilità e stress possano agire in concomitanza verso lo sviluppo della malattia, in questo caso quella psicotica.

Il ruolo dell’ Emotività Espressa nel suo senso contrario, ovvero nel senso protettivo, è stato verificato in adolescenti a “imminente rischio” di psicosi (O’Brien et al., 2006). Gli autori hanno infatti evidenziato un evidente miglioramento dei sintomi e del funzionamento sociale nei figli di genitori precedentemente valutati ad alto calore affettivo e con uno stile comunicativo rappresentato da alti livelli di commenti positivi.

Gli studi sopra menzionati, insieme a molti altri compiuti tra il 1966 e il 2007, sono stati oggetto di ricerca di una recente review (Lim, Chong & Keefe, 2009). Gli autori di questo lavoro, oltre a confermare la predittività sulle recidive, definiscono, per la prima volta, l’ Emotività Espressa come trigger, mettendo in luce la possibilità che possa innescare l’esordio psicotico.

 

Emotività Espressa ed esordio delle psicosi: lo studio dell’Unità di Ricerca Life Events

Lo studio che andrò a descrivere, riporta i risultati inerenti il concetto di Emotività Espressa nell’esordio delle Psicosi. Questo studio, riguarda una parte del lavoro svolto dall’Unità di Ricerca Life Events, coordinata dal Professor Carlo Faravelli, all’interno del progetto PIANO, che rappresenta solo uno dei filoni di ricerca rappresentato nel Programma Strategico a rilevanza nazionale GET-UP (Genetics Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis).

L’obiettivo dello studio era rappresentato dalla verifica del ruolo dell’ Emotività Espressa come predittore delle Psicosi. Per quanto concerne i partecipanti, sono stati analizzati 348 soggetti all’esordio psicotico e 200 soggetti di controllo corrispondenti per età e per sesso (vedi tabella 1 e 2). Lo strumento utilizzato è stato il questionario autosomministrato Level of Expressed Emotion Scale (LEE) (Cole & Kazarian, 1988; validazione italiana (Di Paola, Faravelli & Ricca, 2008).

il ruolo dell emotività espressa nell esordio delle psicosi - tab 1
Tabella 1

 

il ruolo dell emotività espressa nell esordio delle psicosi - tab 2
Tabella 2

 

Ebbene, analizzando i dati derivanti dai questionari e utilizzando come cut-off il valore della Mediana del campione di controllo, si rivela che 337 pazienti su 348 (pari al 96.8%) vivono in un ambiente ad Alta Emotività Espressa, indicando che il livello totale di Emotività Espressa nelle relazioni fondamentali dei soggetti psicotici è notevolmente più alto rispetto a quanto evidenziato nei soggetti di controllo (vedi Figura 1), con una differenza statisticamente significativa (vedi Tabella 3). Quest’andamento è inoltre mantenuto per ogni singola sottoscala (scale critiche) esaminata dalla LEE.

Il ruolo dell Emotivita Espressa nell esordio delle psicosi - FIG 1
Figura 1

 

Il ruolo dell Emotivita Espressa nell esordio delle psicosi - TAB 3
Tabella 3

 

Risulta importante compiere qualche precisazione in merito allo strumento utilizzato. Si potrebbe infatti criticare l’utilizzo di un questionario autosomministrato da parte di soggetti psicotici, considerando la possibilità di una divergenza tra l’ Emotività Espressa espressa dai familiari e la percezione di tale “clima familiare” da parte dei pazienti. Anzitutto è bene evidenziare che i familiari sono in grado di valutare il proprio comportamento negativo nei confronti del paziente; infatti la valutazione su se stessi, è sovrapponibile con il livello di Emotività Espressa misurato su di loro tramite altre misurazioni (Friedman e Goldstein, 1993, 1994). Ma i pazienti, come percepiscono i comportamenti dei loro familiari? Dopotutto quando parliamo di pazienti psicotici, dobbiamo necessariamente prendere in considerazione una distorsione dell’esame di realtà. Ebbene, è stato dimostrato invece che la percezione dei pazienti sui comportamenti espressi dalla famiglia, mostra più analogie che discordanze rispetto a quanto manifestato dai familiari. I pazienti, infatti, distinguono molto bene i familiari ad alta Emotività Espressa critica rispetto a quelli a bassa Emotività Espressa, mostrando qualche difficoltà solo nel riconoscimento della sottodimensione Ipercoinvolgimento (Goldstein, 1995; Cutting, Aakre & Docherty, 2006; Onwumere et al., 2009).

Per quanto riguarda il tempo di contatto tra soggetti analizzati e familiari, sono state seguite le raccomandazioni effettuate dagli autori che maggiormente si sono occupati di questo costrutto. In particolare è stato verificato che in entrambi i sottogruppi fosse garantito un tempo minimo di contatto di 35 ore alla settimana, soglia al di sotto della quale gli effetti di un’alta Emotività Espressa potrebbero dimostrarsi non significativi (vedi Tabella 4).

Il ruolo dell Emotività Espressa nell esordio delle psicosi - TAB 4
Tabella 4

 

Concludendo, alla luce di quanto finora detto, i risultati di questo lavoro indicano che l’elevata Emotività Espressa familiare possa essere precedente l’esordio psicotico e quindi può essere considerata a pieno titolo uno fra i fattori di rischio del disturbo. Ovviamente per comprenderne l’azione dovremmo abbandonare il pensiero di una causalità lineare e utilizzare un’ottica più ampia, quella circolare, considerando gli atteggiamenti dei familiari e i comportamenti dei pazienti come uniti fra loro da meccanismi di feedback, tali da innescare un circolo vizioso nel quale un’alta Emotività Espressa si esplicherebbe sotto forma di maggiori richieste e pressioni da parte dei familiari che provocherebbero comportamenti più disturbati dei pazienti, i quali condurrebbero a ulteriori critiche e così via.

Questo studio mostra come sia auspicabile l’implementazione di interventi precoci, che possano aiutare le famiglie e i pazienti a interrompere questo circolo vizioso per trasformarlo, al contrario, in uno virtuoso. Quest’obiettivo può essere raggiunto tramite l’attivazione di interventi di Psicoeducazione mediante i quali insegnare ai familiari a ridurre gli eccessi di richieste e critiche verso i loro congiunti. Questi ultimi, liberi da un eccesso di pressioni, potranno verosimilmente mettere in atto comportamenti meno in grado di innescare risposte emotive eccessive.

Il training di perfezionamento in psicoterapia per medici e psichiatri di Firenze

Quando medici e psichiatri scelgono il training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale: come funziona? 

 

Oltre la farmacoterapia: la psicoterapia

Nel mio percorso di formazione psichiatrica sono stata affascinata della farmacoterapia e dallo straordinario effetto che i farmaci possono indurre sul comportamento e sulle capacità cognitive, modulando i pensieri ed i vissuti interiori più intimi. Con entusiasmo mi sono ritrovata ad affrontare la scelta del farmaco migliore per il paziente, la ricerca del dosaggio adeguato e delle migliori associazioni farmacologiche.

Presto però mi sono accorta che quel potentissimo strumento farmacologico aveva dei limiti: talvolta nel disagio che il paziente riferiva non mi era possibile identificare dei chiari target farmacologici sui quali agire, essendo il problema supportato da dinamiche relazionali o inerenti all’immagine che il paziente aveva di sé stesso.

Anche quando il quadro clinico si risolveva pienamente rimanevano fra me ed il paziente dei dubbi, delle perplessità, delle domande alle quali non eravamo riusciti a trovare una risposta: “perché proprio adesso?”, “perché proprio a me?” e soprattutto “cosa posso fare per non farlo accadere di nuovo?”.

Da qui la necessità di acquisire dei nuovi strumenti di conoscenza del malessere psichico che mi dessero la possibilità di guardare al di là del sintomo e di entrare in contatto più intimo con l’esperienza del paziente.

 

La psicoterapia cognitivo-comportamentale, naturalmente complementare alla psichiatria

Ho ritenuto che un approccio psicoterapico fosse la cornice ideale per instaurare con il paziente un rapporto più empatico ed efficace, per esplorare la sua mente, svelarne il funzionamento, vedere il mondo con i suoi occhi e riuscire così a promuoverne un cambiamento utile, attraverso un meccanismo diverso e sinergico rispetto a quello farmacologico.

Per il mio training di perfezionamento in psicoterapia ho scelto l’approccio cognitivo-comportamentale perché unisce strettamente ed in maniera complementare il mondo della psicologia e quello della psichiatria, senza entrare in conflitto con le mie conoscenze mediche. Mi sono riconosciuta completamente nel nesso causale che lega gli stati emotivi ed i comportamenti ai pensieri e trovo che tale teoria restituisca all’individuo un senso di auto-efficacia, presupposto indispensabile per motivarlo al cambiamento.

Inoltre le evidenze scientifiche di efficacia che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato di avere, i tempi relativamente brevi in cui è possibile ottenere dei risultati significativi e il ricorso a protocolli standardizzati mi hanno definitivamente convinta ad abbracciare questo metodo.

 

Specializzazione in Psicoterapia: la Scuola Cognitiva di Firenze

La scelta di svolgere il training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso la Scuola Cognitiva di Firenze è stata incentivata sia dai consigli di colleghi più anziani che là si erano formati, sia dalla possibilità di un training triennale dedicato agli psichiatri, che mi ha permesso di fruire in tempi più rapidi degli strumenti cognitivo – comportamentali che mi erano utili.

In realtà questa scuola mi ha offerto molto di più di quanto mi aspettassi all’inizio: la professionalità e la varietà dei docenti, l’apertura verso nuove tecniche di psicoterapia (Dialectical Behaviour Therapy, Mindfulness, Schema Therapy, etc) e i numerosi workshop esperienziali mi hanno permesso non solo di approfondire il metodo CBT classico, ma anche di acquisire una conoscenza più ampia sulle cosiddette “terapie di terza generazione”, permettendone l’integrazione nella mia metodologia di lavoro con il paziente.

 

La pratica sul campo con le psicoterapie solidali

La possibilità di effettuare delle “psicoterapie solidali”, vale a dire percorsi di psicoterapia offerti a prezzi agevolati da parte di psicoterapeuti in formazione, con supervisioni settimanali gratuite dei didatti della scuola, è stata un’ opportunità ulteriore di apprendimento e di confronto con i colleghi, che ha arricchito significativamente la mia formazione professionale.

 

L’importanza di formazione e aggiornamento in psicoterapia

Sebbene il mio training di perfezionamento presso la Scuola Cognitiva di Firenze sia ormai concluso, tanti sono gli spunti di approfondimento che restano da seguire, ad ulteriore dimostrazione che questi tre anni di formazione in psicoterapia sono stati densi e ricchi di stimoli interessanti. Servirà ancora tantissima esperienza per padroneggiare con disinvoltura le tecniche cognitivo-comportamentali, ma per il momento sento di aver fatto mio un metodo di approccio al paziente che mi permette realmente di sintonizzarmi sui suoi pensieri, sentimenti ed idee, così da capire il suo modo di fare esperienza degli eventi.

Finalmente mi sento vicina a quel passaggio tanto importante ed auspicabile nel processo terapeutico che consiste nell’integrare il semplice “curare” con il “prendersi cura”.

 

Lorenza Bencini
Medico, Specializzanda in Psichiatria

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Le vittime di bullismo infantile rischiano di essere sovrappeso nell’eta adulta

I bambini che sono stati vittime di bullismo durante la scuola primaria e la scuola secondaria possiedono il doppio delle probabilità di essere sovrappeso all’età di 18 anni rispetto ai coetanei che non hanno vissuto tale esperienza. Questo secondo quanto emerso da un nuovo studio condotto dai ricercatori del King’s College di Londra.

Bullismo infantile e rischio di essere sovrappeso in età adulta

Precedenti ricerche condotte dal team di ricercatori avevano già mostrato che i bambini vittime di bullismo negli anni ’60 erano più probabilmente sovrappeso all’età di 45 anni, sebbene non fosse chiaro se questi effetti a lungo termine fossero presenti anche in anni precedenti e si trattasse o meno di un fenomeno già presente nel passato.

In questo nuovo studio, pubblicato su Psychosomatic Medicine, i ricercatori si sono impegnati nell’esaminare se il bullismo in un contesto moderno avrebbe prodotto effetti simili sul peso, dal momento che le forme odierne di bullismo sono differenti (es: cyberbullismo) rispetto a quelle degli anni ’60 e anche l’ambiente in cui crescono i giovani d’oggi è profondamente cambiato, come dimostra la maggiore disponibilità di cibo spazzatura e la diffusione di stili di vita sedentari.

Lo studio

I ricercatori hanno analizzato i dati provenienti dall’ ”Environment Risk (E-Risk) Longitudinal Twin Study”, uno studio longitudinale di coorte su gemelli che ha seguito lo sviluppo di oltre 2000 bambini provenienti da Inghilterra e Galles dalla nascita fino ai 18 anni. Il team ha valutato le esperienze di bullismo subite durante la scuola primaria (elementari) e la scuola secondaria inferiore (medie) attraverso interviste effettuate alle madri e ai bambini a diverse età del bambino (7, 10 e 12 anni). Inoltre, per ciascun soggetto è stato calcolato il BMI (body masse index ovvero indice di massa corporea) all’età di 18 anni e il rapporto tra circonferenza vita e circonferenza fianchi che fornisce un indicatore della quantità di grasso addominale del soggetto.

I risultati

Il 28% dei bambini dello studio è stato bullizzato durante le scuole elementari o le scuole medie (condizione definita dai ricercatori come “bullismo transitorio”) e il 13% ha invece subito bullismo in entrambe le scuole (condizione definita come “bullismo cronico”).
I bambini che sono stati vittime di bullismo cronico durante l’età scolastica, una volta adulti, sono sovrappeso 1.7 volte in più dei bambini che non erano stati vittime di bullismo. I bambini bullizzati, inoltre, possiedono un BMI più alto e un rapporto vita-fianchi più elevato all’età di 18 anni.

L’associazione evidenziata non dipende da altri fattori di rischio (inclusi status socioeconomico, controllo del cibo in casa, maltrattamenti infantili subiti, QI basso e problemi di salute mentale). In aggiunta, e per la prima volta, le analisi hanno mostrato che i bambini vittime di bullismo cronico sono sovrappeso da adulti indipendentemente dal rischio genetico.

Conclusioni

Il Dr. Andrea Danese dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze (IoPPN) al King’s College ha affermato: [blockquote style=”1″]Il bullismo è comunemente associato a problematiche di salute mentale, ma solo una piccola parte della ricerca si è occupata di definire i problemi fisici a cui vanno incontro le vittime di bullismo infantile. Il nostro studio dimostra che i bambini bullizzati hanno più probabilità di diventare adulti sovrappeso, e questo è vero indipendentemente dal loro patrimonio genetico e solo dopo aver sperimentato il bullismo.[/blockquote]

Jessie Baldwin, anch’esso proveniente dal IoPPN, ha affermato: [blockquote style=”1″]Sebbene non possiamo affermare definitivamente che l’essere vittima di bullismo sia causa del sovrappeso, escludere spiegazioni alternative, come quella dei fattori genetici, consolida la probabilità che si tratti effettivamente di questo. Se l’associazione fosse causale, prevenire il bullismo potrebbe aiutare a ridurre la prevalenza di eccesso di peso tra la popolazione. Così come la prevenzione del bullismo, i nostri risultati enfatizzano l’importanza di supportare i bambini bullizzati per prevenire in loro il problema dell’eccesso di peso, utilizzando ad esempio interventi volti a promuovere attività fisica e alimentazione sana, già in fasi precoci dello sviluppo del bambino.[/blockquote]

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