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Aderenza alla restrizione dietetica e implicazioni per il trattamento dell’obesità: i processi cognitivi coinvolti

Anita Jansen e collaboratori dell’Università di Maastricht hanno descritto in una revisione pubblicata su Frontiers in Psychology alcuni processi cognitivi, studiati dalla ricerca scientifica, che sembrano minare l’aderenza alla restrizione dietetica delle persone affette da obesità, e delle strategie specifiche cognitivo comportamentali per affrontarli supportate da risultati preliminari di efficacia.

Massimiliano Sartirana e Riccardo Dalle Grave

 

Obesità e restrizione dietetica: i processi cognitivi coinvolti

I processi cognitivi descritti dagli autori sono i seguenti quattro:

  1. apprendimento del craving per il cibo;
  2. funzioni esecutive;
  3. rinforzi immediati;
  4. bias dell’attenzione.

 

1. Apprendimento del craving per il cibo

Il processo fa riferimento ad un’aumentata reattività a stimoli associati al cibo, come emozioni, pensieri e variabili contestuali (per es. profumo, momento della giornata, vista del cibo, ecc.), prodotta in parte dalla componente genetica e in parte dall’apprendimento attraverso il condizionamento classico.

La procedura proposta per affrontare questo processo è l’esposizione più prevenzione della risposta agli stimoli che anticipano l’alimentazione in eccesso di cibi non salutari. Il principio teorico sottostante è che l’esposizione prolungata allo stimolo alimentare dovrebbe determinare una diminuita reattività agli stimoli e un aumento delle abilità di inibizione (capacità di resistere all’alimentazione in eccesso) perché viene interrotta l’associazione tra stimolo e alimentazione in eccesso e di conseguenza si riduce il desiderio di mangiare.

Da un punto di vista pratico l’esposizione più prevenzione della risposta consiste nell’esporre i soggetti per circa un’ora a stimoli come la vista di cibo non salutare, l’odore e il sapore di cibi preferiti e in specifici contesti associati come luoghi, situazioni, emozioni, pensieri che stimolano l’alimentazione in eccesso. Durante l’esposizione il cibo viene toccato, afferrato, annusato intensamente e in modo prolungato.

L’efficacia di questa procedura è stata confermata da studi sperimentali e da alcuni piccoli studi pilota in cui è stato dimostrato che l’esposizione a stimoli alimentari può essere abbastanza efficace nel ridurre il desiderio di cibo, l’alimentazione in eccesso e gli episodi bulimici. Uno studio recente di neuroimaging ha anche evidenziato che l’esposizione prolungata a stimoli alimentari (l’odore del cibo) senza mangiare determina una riduzione dell’attivazione delle aree cerebrali legate alla ricompensa.

 

2. Funzioni esecutive

Le funzioni esecutive si riferiscono a una serie di abilità e processi legati alla gestione di se stessi e all’uso di risorse cognitive personali al fine di raggiungere un obiettivo o di eseguire azioni orientate a un obiettivo. Le tre abilità esecutive principali sono l’inibizione (cioè l’abilità di fermare il proprio comportamento nel momento appropriato, l’abilità di resistere agli impulsi e alle tentazioni, disattivando cosi azioni orientate all’obiettivo), lo spostamento (cioè l’abilità di pensare in modo flessibile al fine di rispondere in modo appropriato a una situazione) e la memoria di lavoro (cioè la capacità di mantenere in memoria l’informazione per completare un compito).

Alcuni studi sperimentali hanno verificato l’efficacia di un training delle funzioni esecutive nelle persone con obesità nel determinare un miglioramento nelle abilità di inibizione e una conseguente diminuzione dell’alimentazione in eccesso. Per quello che riguarda la memoria di lavoro non risultano studi che abbiano dimostrato l’efficacia di un training specifico su questa funzione, mentre studi condotti su bambini con obesità hanno dimostrato l’efficacia combinata di un training per migliorare le abilità di inibizione e di un training sulla memoria di lavoro nel determinare un recupero di peso significativamente più lento a 8 settimane di follow-up, sebbene questo effetto scompaia a 12 settimane di follow-up.

 

3. Rinforzi immediati

Questo processo fa riferimento al fatto che il consumo di alimenti ricchi di calorie, di grassi, di sale e di zucchero è associato a effetti positivi immediati gratificanti. Il processo di gratificazione immediata con questi alimenti si verifica anche a dispetto della possibilità di ottenere una ricompensa superiore che però è più tardiva, come gli effetti positivi della perdita di peso.

Per migliorare l’abilità di ritardare la gratificazione, gli autori propongono di usare la strategia del pensare agli episodi futuri, che consiste nel proiettarsi nel futuro per immaginare l’esperienza di eventi futuri con l’obiettivo di spostare la scelta da una gratificazione immediata agli effetti positivi ritardati di una perdita di peso. Uno studio ha dimostrato che i soggetti allenati ad applicare questa strategia hanno ridotto la minimizzazione dell’importanza di ritardare le gratificazioni immediate per raggiungere maggiori effetti positivi a lungo termine e diminuito l’assunzione calorica, rispetto a un gruppo di controllo in cui non è stata insegnata questa strategia.

 

4. Bias attentivo

Il bias fa riferimento ad un processo di aumentata attenzione e di orientamento dell’attenzione (per questo definita selettiva) verso alcuni stimoli alimentari a discapito di altri stimoli. Ci sono evidenze che il bias dell’attenzione selettiva verso alcuni alimenti predica l’accentuazione delle aspettative positive per l’assunzione di cibo (craving) e persino la quantità di peso recuperato nei soggetti affetti da obesità.
I risultati degli studi sull’efficacia di training attentivi per spostare l’attenzione da cibi ad alta densità energetica a favore di alimenti meno calorici o di stimoli neutri sono promettenti perché si sono dimostrati in grado di ridurre il desiderio di cibo e l’assunzione di calorie.

 

Conclusioni

Gli autori olandesi nella loro revisione hanno descritto quattro processi cognitivi implicati nel mantenere abitudini non salutari nei confronti dell’alimentazione e hanno suggerito delle strategie per affrontarli. Sebbene le ricerche a sostegno dell’efficacia delle strategie proposte dagli autori siano per il momento solo promettenti perché necessitano di dati derivati da studi controllati e randomizzati, il merito dell’articolo è di aver affrontato l’argomento complesso del trattamento dell’obesità, ponendo attenzione ai processi cognitivi coinvolti nelle difficoltà di aderire alle modificazioni alimentari necessarie per perdere peso.

L’articolo traccia anche la strada per la ricerca futura che potrebbe studiare meglio la relazione tra i processi cognitivi e come si influenzano tra loro (per es. la debolezza nelle abilità esecutive e la sensibilità alla ricompensa potrebbero aumentare la reattività agli stimoli alimentari) per poi verificare se un training su un processo specifico potrebbe non avere un effetto anche sugli altri (per es. un training di estinzione potrebbe ridurre il bias attentivo e la disinibizione). I risultati di questi studi potrebbero avere interessanti implicazioni cliniche e migliorare l’esito del trattamento dell’obesità, tuttora basato in modo riduzionistico su un approccio che prescrive modificazioni comportamentali senza prestare attenzione ai processi cognitivi che le influenzano.

Scienze Cognitive e neuroscienze – Introduzione alla Psicologia

Le scienze cognitive – essendo interdisciplinari – comprendono diverse discipline tra cui psicologia, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, linguistica, antropologia, etologia e filosofia della mente.

Realizzato in collaborazione con Sigmund Freud University, Università di Psicologia a Milano

 

Scienze Cognitive: cosa sono

Sempre più di frequente si parla di scienze cognitive, termine con cui si intende un’area interdisciplinare in cui si studia la cognizione della mente in quanto sistema pensante (sia esso naturale-umano o artificiale), nonchè le sue diverse funzioni.

Le scienze cognitive – essendo interdisciplinari – comprendono diverse discipline tra cui psicologia, informatica, intelligenza artificiale, neuroscienze, linguistica, antropologia, etologia e filosofia della mente. Le scienze cognitive sono costituite, in sostanza, da un insieme di teorie dalle quali si ricavano dei modelli di funzionamento su temi di psicologia generale, come la memoria, l’intelligenza, l’immaginazione, il linguaggio, etc.

 

Breve storia delle Scienze cognitive

Già nell’antica Grecia molti filosofi, a esempio Platone e Aristotele, teorizzarono il meccanismo della conoscenza umana. Lo studio della mente umana per molto tempo fu appannaggio dalla filosofia, ma nel XIX secolo, quando nacque la psicologia sperimentale, Wilhelm Wundt e i suoi collaboratori iniziarono a studiare la mente e i suoi funzionamenti in maniera sistematica.

L’avvento del comportamentismo in psicologia sperimentale porta a focalizzare l’attenzione dei ricercatori sulla relazione esistente tra gli stimoli osservabili e le risposte comportamentali eludendo totalmente il contenuto centrale “invisibile e intangibile” della mente. Infatti, in questo periodo era vietato parlare, in ambito scientifico, di come funzionasse la mente umana al suo interno.

Le scienze cognitive nascono negli anni ’50, quando i ricercatori, afferenti a diversi ambiti disciplinari, cominciarono a sviluppare teorie sul funzionamento della mente partendo da rappresentazioni complesse, elaborazione di simboli e da procedure di computazione e calcolo.

I presupposti storici e teorici per la nascita delle scienze cognitive, però, possono essere identificati nel test ideato da Turing, in cui si considerava la mente umana un sistema di elaborazione di informazioni (Human Information Processing – HIP). Da qui nasce tutta la ricerca sull’intelligenza artificiale e sull’informatica, che ha portato alla creazione dei primo computer. John McCarthy, Marvin Minsky, Allen Newell e Herbert Simon sono considerati anche i primi pionieri delle scienze cognitive.

Secondo l’approccio HIP, la mente possiede delle rappresentazioni mentali simili alle procedure di calcolo, elaborazione di simboli e computazioni presenti nel computer. Queste rappresentazioni mentali sono le regole, i concetti, le immagini e i ricordi che sono utilizzati dalla mente, come algoritmi di calcolo, per affrontare le diverse problematiche che si presentano.

Le sue origini organizzative, però, avvennero esattamente nel 1978, anno in cui a La Jolla (California) si tenne un convegno organizzato dalla Cognitive Science Society cui parteciparono ricercatori psicologi, linguisti, neuroscienziati e filosofi, per riuscire ad avere una maggiore comunicazione tra i diversi ambiti disciplinari e ottenere teorie sempre più complesse ed elaborate circa il funzionamento mentale. Nacque, di conseguenza, la rivista Cognitive Science e da quel momento in poi più di novanta università in Nord America, Europa, Asia e Australia istituirono diversi corsi di scienze cognitive.

Contemporaneamente, il panorama intellettuale cominciò a cambiare radicalmente, con l’avvento di George Miller e dei sui studi sulla memoria perché si ricominciava a parlare esplicitamente di cosa accadesse nella mente umana. Secondo la teoria di Miller la mente riesce a elaborare informazioni grazie alla memoria a breve termine. Essa è in grado di contenere un numero limitato di informazioni, che secondo Miller corrisponde a 7 elementi, numero che può aumentare o diminuire di due unità, in base ai limiti o caratteristiche biologiche che distinguono una persona dall’altra.

Quindi, nel panorama scientifico l’interesse si stava spostando dall’esterno, dalla relazione stimolo-risposta, al funzionamento interno della mente. Anche Noam Chomsky, respinse la teoria comportamentista secondo la quale il linguaggio era un processo appreso rimpiazzandolo con l’ipotesi che la comprensione della lingua derivi da capacità mentali innate, sviluppate e affinate nel rapporto con l’ambiente.

 

Le metodologie delle scienze cognitive

L’assunto di base da cui le scienze cognitive partivano era che la mente umana fosse un elaboratore di informazioni, come il computer, e le ricerche messe a punto in questo ambito avevano lo scopo di individuare modelli di elaborazione dell’informazione sperimentalmente riproducibili, da cui inferire modelli generali di funzionamento altamente realistici.

In tale prospettiva si colloca una vasta gamma di ricerche volte a simulare in forma computazionale il funzionamento della mente, ad esempio come risolvere un problema partendo da processi inferenziali. Newell e Simon (1972), in tale ottica, idearono lo Human Problem Solving, secondo il quale le informazioni utili alla soluzione di un problema, dopo essere state recuperate dalla memoria a lungo termine, possono essere utilizzate per la soluzione di vari sotto-problemi in cui è scomposto il problema di partenza, così si giunge a uno stato finale (stato-meta) che è la soluzione o l’obiettivo perseguito.

In quegli anni i ricercatori ambivano a creare macchine in grado di esibire capacità di ragionamento simili a quelle umane grazie a programmi specifici volti a riprodurre i diversi processi di ragionamento, ricordiamo quella creata da McCarthy e collaboratori. Tra i tanti programmi ideati poniamo l’accento sul programma DENDRAL realizzato da Ed Feigenbaum, Bruce Buchanam e Joshua Lederberg, capace, partendo dalle informazioni derivanti dalla massa molecolare ricavate da uno spettrometro, di ricostruire la struttura di una molecola. Questo programma fu quindi il primo che si basava su un uso intensivo della conoscenza, ovvero evidente esperienza in un determinato scenario di applicazione.

Successivamente, Searle (1992), evidenzia come i programmi di intelligenza artificiale utilizzati per i computer, non riescano a evidenziare la specificità e l’intenzionalità dei fenomeni mentali. Manca, dunque, qualcosa che permetta di individuare la vera natura della mente umana.

A questo punto subentra la psicologia cognitiva in grado di spiegare cosa avviene nella mente a livello di pensieri, ragionamento, cognizioni e emozioni. Il metodo più utilizzato in psicologia cognitiva per capire cosa accade nella mente umana è realizzare esperimenti di laboratorio cui partecipano soggetti umani che possono essere studiati in condizioni controllate. Grazie a questi esperimenti è stato possibile osservare dettagliatamente come avvengono una serie di processi inferenziali e di pianificazione partendo da dati empirici. Divenne importante capire cosa accadeva esattamente nella mente umana mentre si esegue un compito. Di conseguenza, subentra il connessionismo, ovvero quell’area in cui si cerca di dare una riposta ai comportamenti partendo dal presupposto che il cervello è costituito da reti neurali.

 

Le neuroscienze

All’interno delle scienze cognitive un ruolo importante è svolto dalle neuroscienze o neurobiologia. Le neuroscienze rappresentano lo studio scientifico del sistema nervoso. Si tratta di un ambito al quale afferiscono l’anatomia, la biologia molecolare, la matematica, la medicina, la farmacologia , la fisiologia , la fisica, l’ingegneria e la psicologia.

Il termine neuroscienze deriva dall’inglese “neurosciences“, neologismo coniato dal neurofisiologo americano Francis O. Schmitt. Egli sostenne che se si voleva ottenere la totale comprensione della complessità del funzionamento cerebrale e mentale dovevano essere rimosse tutte le barriere tra le diverse discipline scientifiche, unendone le risorse. Il primo gruppo di ricerca creato prese il nome di Neurosciences Research Program, ed era costituito da scienziati di diversa formazione.

Secondo le neuroscienze le rappresentazioni mentali sono modelli di attività neurale e l’inferenza, o ragionamento deduttivo, consiste nell’applicazione di tali modelli alle diverse situazioni per affrontarle e risolverle.

Anche i neuroscienziati eseguono esperimenti controllati, attraverso tecniche di neuroimaging, Risonanza Magnetica funizonale (fMRI), Tomografia Assiale a emissione di Positroni (PET), MagnetoEncefalografia (MEG), Stimolazione Magnetica Transcranica (TMS), etc., che consentono di registrare l’attività di ogni singolo neurone e, di conseguenza, di identificare le regioni del cervello coinvolte nello svolgimento di una serie di attività. In questo modo si ottengono delle mappe funzionali di particolari aree del cervello imputate allo svolgimento di specifici compiti.

Le neuroscienze indagano lo sviluppo, la maturazione ed il mantenimento del sistema nervoso, la sua anatomia, il suo funzionamento, le connessioni esistenti tra le diverse aree cerebrali e i comportamenti manifesti. Le neuroscienze cercano di comprendere non solo come lavora il sistema nervoso in condizioni di sanità, ma anche, quando non funziona adeguatamente. Il funzionamento cerebrale deficitario si mostra attraverso la presenza di disturbi dello sviluppo, psichiatrici e neurologici. Lo scopo delle neuroscienze è anche effettuare studi empirici allo scopo di prevenire il verificarsi di diversi deficit e di curare questi ultimi attraverso una serie di compiti riabilitativi messi a punto ad hoc.

 

Neuropsicologia

Quando si parla di compiti riabilitativi si fa ricorso alla Neuropsicologia: disciplina che deriva dalla psicologia e dalle neuroscienze. La neuropsicologia nasce nel XIX secolo con gli studi su animali e umani aventi lesioni a carico del sistema nervoso, ma divenne fondamentale dopo la seconda guerra mondiale, quando nacque la necessità di trattare i veterani di guerra che riportavano lesioni cerebrali. La neuropsicologia studia l’espressione comportamentale di una serie di deficit cerebrali. Si occupa, specificamente, di come il cervello possa influenzare cognizione e comportamenti in persone che mostrano lesioni o malattie cerebrali. La neuropsicologia è una branca specifica della psicologia clinica specializzata nella valutazione e nel trattamento di pazienti con lesioni cerebrali o malattie a carico del sistema nervoso.

Attraverso l’esame neuropsicologico è possibile valutare le funzioni cognitive, come la memoria, il linguaggio, l’attenzione, l’organizzazione e la pianificazione, e comportamentali e la relazione esistente con il deficit presentato.

La differenza tra un neuropsicologo clinico da altri psicologi clinici è data dalla conoscenza dettagliata che il primo mostra dell’anatomia e del funzionamento delle diverse aree del cervello. Il neuropsicologo si occupa di applicare test standardizzati, aventi lo scopo di valutare deficit cognitivi presentati dai pazienti, e della gestione, del trattamento e della riabilitazione dei pazienti con deterioramento cognitivo.

Un’accurata valutazione neuropsicologica è fondamentale per avere una diagnosi delle funzioni cognitive ed è determinante per un adeguato intervento terapeutico e riabilitativo.
Lo scopo, dunque, della neuropsicologia, è individuare il deficit presentato dal paziente e riabilitarlo, oltre a trattare le diverse implicazioni psicologiche derivanti dal disturbo stesso e riguardanti la sfera emotiva.

 

L’intelligenza artificiale e affective computing

Le emozioni, dunque, svolgono un ruolo fondamentale nei processi di conoscenza e nello studio dei comportamenti. I processi emotivi sono una parte fondamentale da indagare quando si parla di cognizione e di funzionamento mentale. Per questo, in quegli anni, nel campo dell’ intelligenza artificiale, si faceva sempre più evidente l’idea che il pensiero razionale umano dipendesse dall’elaborazione emotiva.

Rosalind Picard fu la prima a parlare di Affective Computing ovvero macchine (computer) capaci di riconoscere, esprimere e comunicare emozioni o stati d’animo.

L’ affective computing consiste nell’interazione tra uomo e computer che si verifica nel momento in cui un dispositivo elettronico risulta essere in grado di rilevare e rispondere in modo appropriato alle emozioni derivanti da uno stimolo umano esterno. Una macchina che mostra questa abilità potrebbe essere fondamentale nel trarre informazioni inerenti a diversi aspetti emotivi, quali espressioni del viso, postura, gesti, linguaggio, variazioni di temperatura corporea, etc.

L’affective computing può offrire una vasta gamma di benefici da applicare in moltissimi ambiti, tra cui ad esempio potrebbe essere altamente utile durante le terapie on-line, ambito sempre più utilizzato, perché consentirebbe di avere spunti emotivi che altrimenti non potrebbero essere accessibili al terapeuta se non attraverso una reale seduta. Quindi, attraverso l’affective computing la postura, i gesti e le espressioni facciali potrebbero essere utilizzati, unitamente al colloquio, per una valutazione più accurata dello stato psichico del paziente.

 

RUBRICA: INTRODUZIONE ALLA PSICOLOGIA

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Come lo stress può portare a disturbi cardiovascolari: il ruolo dell’amigdala

Il fatto che l’esposizione a elevati livelli di stress per prolungati periodi di tempo possa portare a disturbi cardiovascolari è da tempo risaputo, ma, nonostante questo, ancora poco si sa circa il meccanismo sottostante questa relazione.

 

Stress e disturbi cardiovascolari: il ruolo dell’amigdala

L’iperattivazione dell’amigdala risulta essere associata ad un maggiore rischio di sviluppare malattie cardiovascolari.

La presenza di un’iperattivazione a livello dell’amigdala risulta essere associata ad un maggiore rischio di andare incontro a malattie cardiache e ictus, secondo quanto rilevato da uno studio pubblicato recentemente su The Lancet che permetterebbe di fare maggiore chiarezza su quale sia il meccanismo per cui l’esposizione a elevati livelli di stress per prolungati periodi di tempo possa portare a disturbi cardiovascolari.

L’amigdala, piccola struttura cerebrale a forma di mandorla facente parte del sistema limbico, è ritenuta essere uno dei centri di integrazione di processi neurologici superiori come le emozioni, ed in particolar modo la paura, assegnando una valenza emotiva agli stimoli in entrata e permettendo così all’attenzione di rivolgersi agli stimoli più salienti.

Questo insieme di nuclei, infatti, riceve input da tutti i sistemi sensoriali ed invia output per le risposte emotive di tipo comportamentale, autonomico ed endocrino. Lesioni in quest’area portano, tra le altre cose, ad incapacità nel riconoscimento del significato emotivo di eventi o cose, in particolar modo di stimoli che normalmente evocherebbero risposte di paura ed evitamento (la cosiddetta psychic blindness, “cecità psichica”).

Le connessioni di quest’area riflettono quindi il suo ruolo per quanto riguarda l’apprendimento, la memoria e l’attenzione in risposta a stimoli emotivamente pregnanti, permettendo di determinare che cosa sia uno stimolo e cosa ci si debba fare (Pessoa & Adolphs, 2010). Inoltre, l’amigdala contiene anche recettori per numerosi neurotrasmettitori e ormoni, tra i quali i glucocorticoidi, famiglia di ormoni che include anche il cortisolo, associato alla presenza di stress.

 

La relazione tra stress e disturbi cardiovascolari

Il fatto che l’esposizione a elevati livelli di stress per prolungati periodi di tempo possa portare a disturbi cardiovascolari è da tempo risaputo, ma, nonostante questo, ancora poco si sa circa il meccanismo sottostante questa relazione.

Lo stress psicologico porta con sé un gran numero di patologie. Infatti, l’esposizione ad eccessivi livelli di stress contribuisce allo sviluppo di disturbi quali, ad esempio, ipertensione, ulcere, asma e sindrome dell’intestino irritabile. Ben noto è anche l’impatto che lo stress ha sulla salute cardiaca. Per quanto alcuni disturbi cardiovascolari siano una conseguenza secondaria alla messa in atto di strategie maladattive per far fronte allo stress, come ad esempio fumo e alcool, sembrerebbe esistere anche una connessione diretta tra elevati livelli di stress e patologie cardiache.

Per quanto questo link diretto sia ormai ben noto all’interno della comunità scientifica, e anche all’interno del sapere comune, ancora poco si sa circa i processi fisiologici sottostanti. Cosa permette ad un’emozione come lo stress, risultato di elaborazioni a livello cerebrale, di influenzare il benessere fisico a livello cardiaco?

Studi sugli animali avevano già permesso di notare come lo stress aumentasse la produzione di globuli bianchi all’interno del midollo osseo che, a sua volta, andava ad aumentare i livelli di infiammazione. Come questo, però, conduca a disturbi cardiovascolari resta ancora da essere pienamente compreso.

 

Gli studi del Massachusetts General Hospital di Boston

Tawakol, del Massachusetts General Hospital di Boston, e collaboratori, dell’Icahn School of Medicine presso il Mount Sinai di New York, hanno recentemente condotto due studi proprio con lo scopo di indagare maggiormente la natura di questo legame.

All’interno del primo studio gli autori hanno coinvolto un campione di 293 soggetti di circa 30 anni o più, sottoponendoli a scansioni PET (Tomografia ad Emissione di Positroni) e CT (Tomografia Computerizzata). Questi strumenti, utilizzando un radiofarmaco detto fluorodesossiglucosio (FDG) come tracciante, hanno permesso di misurare simultaneamente l’attività cerebrale a riposo e i livelli di infiammazione arteriosa.

Tutti i partecipanti allo studio erano sani al momento della scansione, o comunque senza disturbi cardiovascolari o cancro, e, nei successivi cinque anni, sono stati sottoposti ad almeno tre ulteriori visite mediche. Durante questo periodo di follow-up 22 partecipanti hanno sviluppato un qualche tipo di disturbo a livello cardiovascolare, come ictus, angina o infarto.

Dalle analisi gli autori hanno così potuto notare l’esistenza di un’associazione tra la probabilità di sviluppare un evento cardiaco e l’attività dell’amigdala, regione cerebrale che, come già accennato poc’anzi, risulta essere coinvolta nell’elaborazione emotiva degli stimoli in entrata, andando ad influire così sui livelli di stress percepito.

Sembra quindi che la presenza di un’iperattivazione a livello dell’amigdala, così come emerso dalle scansioni fatte all’inizio dello studio, sia associata ad un più elevato rischio di sviluppare una qualche cardiopatia negli anni successivi. Questa associazione sembrerebbe mantenersi valida anche al netto di possibili altri fattori di rischio cardiovascolari, come ad esempio l’arteriosclerosi.

Inoltre, la relazione tra attività a livello dell’amigdala e disturbi cardiovascolari sembra essere così forte da permettere di operare previsioni circa la tempistica dello sviluppo dell’evento cardiaco. È stato, infatti, rilevato come maggiori livelli di attivazione dell’amigdala alla scansione iniziale sembrino essere associati ad una più precoce occorrenza di eventi cardiaci.

Una maggiore attivazione dell’amigdala sembrerebbe essere associata, anche nell’essere umano, con un aumento nei livelli di metabolismo di aree responsabili della generazione di nuove cellule ematiche (ad es. midollo e milza) e anche nei livelli di infiammazione arteriosa.

Grazie al secondo studio poi, svolto con un campione di 13 soggetti con alle spalle una storia di Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), è stato possibile supportare ulteriormente quanto emerso dal primo. I livelli di stress percepito dai partecipanti, misurati con la Perceived Stress Scale (PSS-10), sono risultati infatti, ancora una volta, essere significativamente associati ai livelli di attivazione dell’amigdala e ai livelli di infiammazione a livello delle arterie.

Nel complesso, quanto emerso permetterebbe di dimostrare a livello empirico l’esistenza di un’effettiva connessione tra disturbi cardiovascolari e stress. Sembrerebbe, infatti esistere un legame molto forte tra l’attività a riposo a livello dell’amigdala e la successiva occorrenza di eventi cardiaci, indipendentemente dai già noti fattori di rischio cardiovascolare. Inoltre, l’attività dell’amigdala risulta essere correlata anche a maggiori livelli di stress percepito, nonché a maggiori livelli di ematopoiesi e infiammazione vascolare.

L’amigdala quindi, così come suggerito dagli autori, potrebbe svolgere il ruolo di struttura chiave all’interno del meccanismo che connette lo stress all’occorrenza di disturbi cardiovascolari, coinvolgendo anche meccanismi quali un’aumentata produzione di cellule ematiche e un’aumentata infiammazione a livello delle arterie.

Ulteriori indagini in merito permetteranno di sviluppare la comprensione inerente la natura di questa associazione, anche per poter mettere a punto interventi più efficaci mirati alla prevenzione e al controllo delle cardiopatie, ponendo particolare attenzione al fattore stress, da trattare come fattore di rischio al pari di altri, quali, ad esempio, l’arteriosclerosi. A tal proposito, in letteratura esistono già evidenze circa l’utilità di affiancare interventi volti alla riduzione dei livelli di stress alla classica riabilitazione cardiaca, in quanto più efficace sulla salute di pazienti con cardiopatie rispetto alla sola riabilitazione cardiaca (Blumenthal et al., 2016).

Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Jacques Lacan e lo stadio dello specchio

Un contributo significativo riguardante il tema del Doppio, in termini di sviluppo più che simbolici è sicuramente la teoria di Jacques Lacan sullo stadio dello specchio.

 

Jacques Lacan: il bambino dinnanzi allo specchio

In sostanza, la presa di coscienza da parte del bambino di fronte alla propria immagine riflessa che ciò che vede nello specchio non è un altro individuo ma sé stesso, rappresenta un momento fondamentale della formazione e dello sviluppo della sua psiche. Secondo la teoria di Jacques Lacan il bambino, tra i sei e i diciotto mesi, si trova a confrontarsi con la propria immagine riflessa nello specchio:

  • nella prima fase egli identifica quest’immagine con quella di un altro, di uno sconosciuto;
  • nella seconda fase egli è in grado di riconoscere l’altro, ma solo come immagine e non come reale;
  • nella terza fase il bambino riconosce l’altro come propria immagine riflessa.

Il bambino, quindi, sarà ora in grado di far corrispondere la propria immagine a quella del proprio corpo, attraversando così un momento decisivo nel suo sviluppo, e arriverà ad acquisire un’immagine di sé unitaria e definita. Inoltre il bambino, specchiandosi, si vede vicino a un altro e si riconosce come separato, quindi per la prima volta riconosce sé stesso separato dagli altri e di conseguenza prende coscienza di sé.

Riconoscersi intero allo specchio comporta una definizione dei propri confini fisici e impone la definizione dei confini che lo separano dalla madre. Spinto fuori dal primo contenitore, secondo Jacques Lacan, il bambino cercherà ospitalità nell’immagine speculare che lo emancipa dalla madre e lo preserva dall’angoscia di annientamento causata dall’essere fuori dalla madre. Lo stadio dello specchio garantisce un collegamento tra l’organismo e l’ambiente, tra il mondo interno e quello esterno.

L’identificazione primaria che secondo Jacques Lacan caratterizza il bambino di fronte alla propria immagine riflessa in una fase fondamentale del suo sviluppo rappresenta la base di tutte le altre eventuali identificazioni che l’individuo può avere nel corso della vita. Il bambino identifica sé stesso con un suo duplicato, con un’immagine che non è lui stesso ma che, comunque, gli permette di riconoscersi. Ciò che si verifica davanti allo specchio è la costituzione del proprio Io. Il riflesso speculare ricopre per il bambino il ruolo che il Doppio assume per il conflitto narcisistico nell’adulto.

Il trattamento della Dissociazione Traumatica – Report dal Seminario di Dolores Mosquera

Il trattamento della Dissociazione Traumatica. I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” è un corso di formazione pratica avanzata che si svolge a Torino dal 21 gennaio 2017 al 10 settembre 2017. Il primo appuntamento è stato tenuto da Dolores Mosquera.

di Valentina Congedo

 

Il corso di formazione sul trattamento della Dissociazione Traumatica

Il trattamento della Dissociazione Traumatica. I molti volti e i molti sintomi della traumatizzazione. Riconoscimento clinico ed intervento” è un corso di formazione pratica avanzata che si svolge a Torino dal 21 gennaio 2017 al 10 settembre 2017. É organizzato in cinque week end, per un totale di dieci giornate di approfondimento teorico e pratico sui temi che ruotano intorno ai concetti di trauma e dissociazione. Si tratta di un master aperto a psicologi, psicoterapeuti e medici, che ha come direttore scientifico Giovanni Tagliavini di Area Trauma ed è organizzato presso il Centro Clinico Crocetta di Torino.

Dissociazione traumatica - Gli sviluppi traumatici di personalità - Seminario con Dolores Mosquera 21-22 gennaio 2017 TorinoIl primo appuntamento del corso sul trattamento della Dissociazione Traumatica, “Gli sviluppi traumatici di personalità. Riconoscere e curare gli elementi traumatici nei disturbi di personalità”, è stato tenuto da Dolores Mosquera, esperta psicoterapeuta ed EMDR Europe Supervisor e Practioner, specializzata nel trattamento dei disturbi di personalità, dei traumi complessi e della dissociazione traumatica.

Le due giornate di formazione si sono snodate lungo un percorso affascinante ma molto complesso; il punto di partenza è stato la distinzione tra disturbi di personalità privi di aspetti dissociativi e disturbi di personalità in cui si riscontrano elementi dissociativi.

Successivamente D. Mosquera si è soffermata sul concetto di trauma e di dissociazione strutturale come meccanismo psichico che, a partire dal trauma, genera patologia. La ricercatrice ha descritto l’organizzazione del sistema psichico del paziente con dissociazione strutturale, diviso in parti o aspetti del sé. Inoltre, ha affrontato la distinzione tra disturbi di personalità con e senza fenomeni dissociativi anche da un punto di vista pratico, evidenziando le differenti modalità di intervento psicoterapeutico. L’aspetto clinico è stato utilmente approfondito mediante l’osservazione di riprese video di sedute e la discussione in aula; un accento particolare è stato posto sul trattamento degli aspetti dissociativi contenuti nel mondo interno del paziente caratterizzato da dissociazione strutturale.

 

Elementi di teoria: i disturbi di personalità

Per iniziare la discussione, D. Mosquera ha condiviso una definizione di personalità come un pattern complesso di  caratteristiche psicologiche interconnesse, molte delle quali espresse automaticamente. Essa si forma a partire da una complicata matrice di predisposizioni biologiche e influenze familiari e ambientali. Sebbene si tratti di un processo di influenza bidirezionale che dura per tutta la vita dell’individuo, nelle fasi precoci dello sviluppo la commistione tra componenti temperamentali innate e le esperienze di attaccamento ha una particolare rilevanza.

La personalità emerge da varie operazioni mentali e di rapporto con la realtà: la costruzione dell’immagine di sé,  l’attribuzione di significato al mondo esterno, le azioni, le relazioni, la ricerca di strategie e soluzioni ai problemi posti dall’ambiente sociale.

Per fare diagnosi di disturbo di personalità, il clinico deve rilevare un deterioramento della qualità della vita causato dal modo di percepire se stessi e di relazionarsi agli altri; esso ha un grave impatto su molte sfere della vita della persona (scuola, lavoro, interazioni coi pari e coi familiari). I tratti che caratterizzano il disturbo sono durevoli, inflessibili, intensi, producono disagio o sofferenza nelle vite dei pazienti e di chi li circonda (DSM).

Le ragioni per cui un individuo arriva alla consultazione clinica possono essere le più svariate; il paziente non affetto da disturbo di personalità solitamente affronta e supera un eventuale periodo critico secondo i propri tempi e risorse, ma, successivamente, recupera appieno la propria funzionalità. Al contrario, quando l’intera personalità è coinvolta nel/i problema/i, se le aree di difficoltà non sono circoscritte, la persona fatica a individuarle e a confrontarsi con esse, il clinico può diagnosticare la presenza di un disturbo di personalità. Spesso la raccolta dell’anamnesi evidenzia che il disagio psichico e le difficoltà di adattamento sono presenti da sempre, o per lo meno dall’adolescenza; le relazioni di attaccamento con le figure significative e quelle interpersonali in generale sono sempre aree problematiche.

 

Dissociazione traumatica nei disturbi di personalità: il trauma e la diagnosi differenziale

In altre situazioni cliniche, D. Mosquera osserva che la descrizione attuale che il paziente fa di sé incontra i criteri per una diagnosi di disturbo di personalità; ma, dall’assessment, emergono due indizi rilevanti che si discostano dal quadro precedente e possono far sospettare la presenza di elementi dissociativi.

Il primo è che la ricerca di un aiuto psicologico è motivata dall’improvvisa interruzione di un lungo periodo di funzionamento adattativo; il secondo è che, durante l’anamnesi, questi pazienti non riportano la presenza di particolari eventi significativi o dolorosi nella loro storia personale e soprattutto relazionale.

Introducendo il concetto di trauma, la ricercatrice afferma che le relazioni di attaccamento non caratterizzate da aggressione esplicita siano le più difficili da cogliere nei loro aspetti disfunzionali. Dalla sua esperienza, osserva che per alcuni clinici solo eventi precisi come l’abuso fisico o sessuale siano classificabili come traumi; invece, ritiene che la casistica dei fenomeni e delle dinamiche traumatiche sia molto più ampia e possa essere estremamente più sottile.

Ad esempio, minacce che derivano dai segnali emozionali del caregiver e dalla sua incapacità di regolazione emotiva possono essere traumi ripetuti che avvengono in fasi precoci dello sviluppo. Anche maltrattamenti verbali, ingiurie, oppure trascuratezza, rotture nell’attaccamento o iperprotezione possono essere traumatici se superano la capacità di sopportazione o contenimento emotivo; minano la continuità dell’esperienza soggettiva e provocano frammentazione a livello psichico.

La mancanza di integrazione nelle percezioni di sé e degli altri si riscontra in tutti i disturbi di personalità, che siano presenti o meno elementi dissociativi.

In assenza di dissociazione traumatica, tutti i disagi relativi ai diversi aspetti del sé, ai differenti ruoli o compiti vitali, sono contemporaneamente presenti nel mondo interno dei pazienti; la difficoltà a maneggiare il conflitto tra opposte visioni di sé e degli altri li spinge a sviluppare molte difese primitive, per di più usate in modo caotico.

La possibilità di riflettere e di contenere tale conflitto dipende dalla capacità integrativa generale; alcuni pazienti hanno buone capacità quando sono stabili, ma le perdono velocemente quando sono attivati emotivamente. Invece, quando non sono attivati o sono in una finestra di regolazione emotiva, riescono a vedere le sfumature e a mettere insieme le rappresentazioni scisse buone e cattive di sé e degli altri.

In alcuni casi, alla mancanza di integrazione si aggiungono difese o sintomi dissociativi; D. Mosquera sottolinea che la diagnosi deve orientarsi in questa direzione se si riscontrano amnesie, soprattutto se riguardano vuoti temporali riguardo alla vita attuale o recente, oppure se nel dialogo col paziente emergono differenti prospettive espresse in prima persona.

In tali casi, il conflitto tra diverse rappresentazioni di sé e degli altri è evitato mediante l’amnesia tra questi aspetti e operando uno switch tra una parte e l’altra.

 

La dissociazione strutturale della personalità

Dissociazione traumatica - Gli sviluppi traumatici di personalità - Seminario con Dolores Mosquera 21-22 gennaio 2017 Torino - Foto 3Dolores Mosquera ha articolato la discussione sul tema della dissociazione traumatica andando oltre i suoi aspetti sintomatici che possono accompagnare i disturbi di personalità; infatti, ha introdotto un ulteriore strumento di lettura del mondo interno del paziente traumatizzato: la teoria della dissociazione strutturale della personalità (Van der Hart, O., Nijenhuis, E.R.S., Steele, K., 2011). Tale teoria è stata la chiave di interpretazione evolutiva della maggior parte del materiale clinico oggetto di confronto durante il seminario, che è stato un potente stimolo per la riflessione e l’apprendimento.

Come già affermato, un evento traumatico diventa tale per la mancanza di risorse, interne ma anche esterne, a cui aggrapparsi per farvi fronte e inserirlo nella continuità della propria storia psichica. La dissociazione traumatica è una difesa biologica, definita dagli autori “animale”, per far fronte a una situazione, di fatto, inaffrontabile.

Ricordando il concetto di personalità sana, esso include quello di integrazione: gli elementi neurobiologici, psicologici e sociali funzionano in modo coerente, flessibile e adattativo.

Nella dissociazione strutturale della personalità si verifica un fallimento integrativo tra sottosistemi del sé che non solo non sono collegati, ma operano in modo indipendente e simultaneo, arrivando a produrre una prospettiva e un senso di sé separati. La patologia è definita dalla mancanza di integrazione fra queste parti del sé che possono operare in modo casuale, possono essere non modulate, immerse in conflitti interni, funzionare troppo o in modo non utile.

Al cuore di tale dissociazione nucleare si annidano i ricordi traumatizzanti e la fobia generata dal rischio del contatto con essi; infatti attorno a tale terrore si sviluppano altre fobie, creando una stratificazione che impedisce al trauma di accedere alla consapevolezza (e al lavoro clinico). Ciò di fatto permette la sopravvivenza psichica, ma chiaramente ha una sua contropartita, un “prezzo da pagare” in termini di salute mentale.

 

L’organizzazione del sistema psichico del paziente con dissociazione strutturale della personalità

Approfondendo l’organizzazione del sistema interno del paziente con dissociazione strutturale, in esso si ritrovano due (o più) “parti”: la Parte Apparentemente Normale (ANP) e  quella Emotiva (EP), che possono essere più di una. La ANP è centrata sulla vita quotidiana e sull’evitamento del trauma; invece la EP è fissata sui ricordi traumatici e nei sistemi di azione difensivi (lotta, fuga, congelamento, sottomissione, attaccamento, ipervigilanza). Quando c’è molto conflitto tra queste diverse e scollegate rappresentazioni interne, tutte queste difese possono attivarsi insieme. In ambito terapeutico, il clinico può osservare che il paziente entra in uno stato di allarme o di dissociazione come reazione a un gesto, a un tono di voce, o a un contenuto. In tal caso, vede attivarsi il sistema di difese del paziente.

A volte la fissazione sul trauma arriva a tal punto che la Parte Emotiva può non aver capito che l’evento non è più in corso o non si ripeterà. Durante il seminario, D. Mosquera ha descritto molto umanamente gli errori in cui è incorsa nel trattamento dei pazienti con dissociazione strutturale, quando ancora non aveva a disposizione queste competenze. Uno di questi è stato dare per scontato che la parte emotiva che si è separata dalle altre sappia che il passato “è finito”; la capacità di differenziazione del paziente non sempre lo permette. Piu spesso, la Parte Apparentemente Normale vive quelle Emotive come parti intrusive di cui liberarsi, non essendo in grado di svolgere una funzione riflessiva.

 

Elementi di pratica clinica per i disturbi di personalità

Affrontando l’area della pratica clinica, D. Mosquera ha ripreso il tema dei disturbi di personalità con e senza aspetti dissociativi.

Ogni paziente con disturbo di personalità ha dei deficit integrativi relativi alle diverse rappresentazioni di sé e degli altri; tali deficit si collocano su un continuum in cui la mancanza di integrazione è presente in gradi e modi diversi.

Il trattamento dovrebbe focalizzarsi sull’integrazione del mondo interno conflittuale, concettualizzata come un processo lento e continuo, non come un evento improvviso.

Di seguito un elenco degli interventi da usare nel trattamento di pazienti con disturbo di personalità senza sintomi dissociativi:

  • la psicoeducazione: fornire informazioni adattive su emozioni, difese, confini, comportamenti autolesivi, cura di sé e regolazione emozionale. La psicoeducazione è utile perché il paziente non può cambiare qualcosa che non conosce. Al tempo stesso deve essere modificato il linguaggio, che si trasformerà in un cambiamento del modo di pensare a se stessi (ad esempio sostituire l’affermazione “Io sono impulsivo” con “Io ho delle reazioni impulsive”);
  • lo sviluppo di risorse e abilità;
  • il lavoro sui confini e sulla differenziazione;
  • il lavoro sulle difese affinché nel loro uso non si ripeta ciò che accade nell’ambiente familiare;
  • la cura di sé;
  • lo sviluppo di un pensiero riflessivo per funzionare in modo adattivo.

Sia in presenza che in assenza di sintomi dissociativi, deve essere riconosciuto e ridotto il conflitto interno; deve essere migliorata la regolazione emozionale; è necessario aumentare la la capacità di pensiero critico e rinforzare la capacità di mentalizzazione o funzione riflessiva e quella di integrazione del se è della personalità.

 

Elementi di pratica clinica per i pazienti con dissociazione strutturale

Molti degli interventi sopracitati sono utili anche per il paziente con disturbo di personalità con aspetti dissociativi, ma con alcuni accorgimenti e differenziazioni.

Questa tipologia di pazienti avrà sia rappresentazioni non integrate di sé e degli altri, sia sintomi di natura dissociativa come la depersonalizzazione e la derealizzazione; inoltre, il suo mondo interno può essere ulteriormente complicato dalla presenza di parti dissociative, come suggerisce la teoria della dissociazione strutturale della personalità.

In tali casi, le difficoltà di integrazione sono maggiori rispetto ai disturbi di personalità scevri da elementi dissociativi.

Tanto più il paziente è dissociato, tanto più sarà utile il lavoro diretto con le sue parti; la ricercatrice suggerisce di chiamarle anche “aspetti”, al fine di trasmettere sempre il messaggio che siano componenti di un intero e non perdere di vista l’obiettivo dell’integrazione. Ognuna di esse è parte del paziente, anche quelle parti che disprezza o che odia, che sono poi quelle che rendono più difficile il lavoro terapeutico.

La visione delle riprese delle sedute svolte da D. Mosquera ha mostrato pazienti con un mondo psichico caratterizzato da una evidente dissociazione tra parti adulte apparentemente normali, parti emotive infantili, sofferenti e vittimizzate e parti emotive aggressive/difensive.

 

Elementi di pratica clinica: strategie di gestione ed elaborazione della dissociazione traumatica

In queste situazioni, lo strumento di base del lavoro è l’esplorazione frequente delle parti del sistema interno e dei bisogni di ognuna; alcune di esse sono molto costanti, altre possono cambiare da seduta a seduta.  L’intervento appropriato è verificare con il paziente quello che sta avvenendo nel suo sistema interno in quel dato momento.

Il fine primario di questo lavoro è il riconoscimento e l’elaborazione del conflitto tra gli aspetti di sé dissociati. Attraverso esercizi di esternalizzazione e consapevolizzazione, emerge l’entità conflitto tra le parti, segnalato dal grado di disagio, disturbo o fobia che una genera verso l’altra. Il terapeuta deve mostrare comprensione verso le parti temute o svalutate, al fine di stabilire una buona alleanza con esse.

La capacità di riflettere sul conflitto dipende dalla capacità integrativa generale: fluttua a seconda di quale parte è presente. Può essere minima o assente in alcuni aspetti di sé dissociati, molto più alta in altri; in tali casi è importante rallentare il lavoro, senza forzare il sistema dissociativo.

Un altro strumento terapeutico utile è il grounding o radicamento corporeo; tale argomento è stato solo accennato nel corso del seminario. Il versante corporeo della dissociazione traumatica è emerso in modo tangenziale, ma sarà il focus di uno degli appuntamenti successivi del master.

È stato sottolineato brevemente che per i pazienti dissociativi non è scontata la consapevolezza che ogni parte di sé abbia lo stesso corpo, o, in altre parole, che ogni parte appartenga allo stesso corpo. Per tali ragioni hanno bisogno degli esercizi del grounding. Molti di loro non sentono il corpo e sono molto in difficoltà a lavorarci, in base al livello di dissociazione da esso. Ad esempio, in terapia li si può sentir dire “La mia testa pensa …” anziché “Io penso …”.

D. Mosquera ha spiegato che, se nel corso della seduta si accorge di un cambiamento corporeo nel paziente, lo esplora con domande aperte, senza esplicitare cosa sta osservando, lavorandoci lentamente.

Se la persona riesce a rispondere, continua a indagare, altrimenti si ferma un passo indietro, senza forzare l’elaborazione. Del resto, molti di questi pazienti hanno come meccanismo di difesa la razionalizzazione, sono abituati a usare solo la testa e a evitare il dolore.

Proseguendo la terapia, è necessario valorizzare gli aspetti positivi delle parti disprezzate o spaventose, capire la loro utilità e che funzione svolgono. Successivamente si chiede al paziente, o alle parti rilevanti del sistema psichico in gioco in quel momento come percepiscono la funzione di una parte spaventosa e temute da altre. Se diminuisce la fobia dissociativa e il conflitto si abbassa, si può lavorare sull’integrazione promuovendo l’empatia, la comunicazione e gli scopi comuni tra le parti.

Prima di fare la psicoeducazione, i pazienti devono essere messi in grado di pensare a se stessi, altrimenti le informazioni trasmesse non si sedimentano e vanno ripetute. La psicoeducazione è specifica e riguarda le risposte traumatiche; serve a favorire la differenziazione e la consapevolezza che il pericolo è finito.

L’elaborazione del trauma sarà uno step avanzato del trattamento; il terapeuta può accordarsi col sistema psichico del paziente che non lavorerà sui ricordi traumatici finché tutte le parti non saranno pronte. Spesso le ANP sono prive di capacità riflessiva e spingono per un’evacuazione delle EP, più che una collaborazione o integrazione. Ne è sintomatico il racconto di eventi dolorosi caratterizzato da indifferenza, o da emozioni incongruenti.

Idealmente, la terapia si dovrebbe concludere quando è avvenuta l’integrazione.

 


I prossimi appuntamenti del corso di formazione pratica avanzata Il trattamento della dissociazione traumatica Programma 2017 (Scarica PDF)


Dissociazione traumatica - Gli sviluppi traumatici di personalità - Seminario con Dolores Mosquera 21-22 gennaio 2017 Torino - Sala congresso

Rituali di corteggiamento e offerte di cacciagione – fluIDsex

Durante la fase iniziale di conoscenza e corteggiamento, esistono dinamiche diverse tra coppie eterosessuali o omosessuali?

 

Archeologi e studiosi analizzando le ceramiche greche del V a.C. (in cui l’omosessualità non era un tabù) in cerca di gesti di seduzione nella comunicazione non verbale, sostengono che molto spesso il dono di selvaggina raffigurato nei vasi antichi rappresenti simbolicamente un preludio all’amore. Gli studiosi in questione tengono a precisare come il valore della selvaggina sia fondamentale nel corteggiamento erotico, sia eterosessuale che omosessuale.

Non essendo un’esperta di seduzione ma piuttosto una persona interessata all’osservazione del comportamento umano, posso evidenziare come l’archetipo della caccia e della lotta di potere fra “preda” e “cacciatore” rimandi effettivamente ad alcune teorie derivanti dall’etologia, circa le strategie di corteggiamento.

Grande differenza fra mondo umano e quello animale è che le nostre strategie per attirare la persona desiderata non sono innate e codificate nel nostro DNA ma culturalmente derivate: i ruoli di preda e predatore diventano fluidi e interscambiabili. Non parliamo più di generi ma parliamo piuttosto di stile di corteggiamento; per questo nella società occidentale nessuno si scandalizza quando una donna prende l’iniziativa nel corteggiare un uomo.

Tornando alla domanda (che io stessa mi sono posta) mi sorge un dubbio: è possibile che quelle che noi crediamo differenze di attegiamento seduttivo tra persone eterosesuali e persone omosessuali dipendano dal contesto culturale invece che dall’orientamento sessuale?

Quale influenza l’identificazione con una comunità (omosessuale o eterosessuale in questo caso, ma potrebbe essere anche Transessuale, Asessuale ecc…) e quindi l’apprendimento di norme culturali da esse derivate, hanno sul comportamento umano? E quanto  incide sulle strategie di corteggiamento la facilità di entrare a contatto con persone dello stesso orientamento sessuale o in generale sessualmente disponibili? Facendo un esempio: un individuo che vive in un piccolo paesino di provincia, dove le occasioni sociali per conoscere potenziali partner sono limitate, metterà in atto le stesse strategie che utilizzerebbe se  si trovasse a vivere in una grande città? O ancora, potrebbero esserci differenze nel comportamento seduttivo fra una  persona omosessuale che vive e frequenta la comunità gay di San Francisco e una che invece frequenta quella di Tokyo?

Quello che ad oggi sappiamo dallo studio della produzione vascolare dell’antica Grecia è che nelle scene raffiguranti atti di corteggiamento, il legame erotico fra i partner viene rappresentato nella medesima maniera sia in scene etero che omo. Chissà se analizzando programmi come “Uomini e Donne” si potrebbe giungere alle medesime conclusioni o invece oggi entrano in gioco talmente tante variabili da non permettere di codificare questi comportamenti sulla base di una sola categoria, come quella dell’orientamento sessuale.

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Identificare in anticipo i Disturbi Alimentari nei bambini potrebbe essere la chiave per salvare le loro vite

L’identificazione e il trattamento di sintomi legati ai Disturbi Alimentari nei bambini il più precocemente possibile potrebbe essere la chiave per aiutare a prevenire lo sviluppo successivo di Disturbi Alimentari potenzialmente mortali, almeno secondo quanto affermato dai ricercatori dell’università inglese di Newcastle.

 

I disturbi alimentari nei bambini

I sintomi dei Disturbi Alimentari, per quanto non siano equiparabili per gravità e specificità alle vere e proprie sindromi conclamate, includono una grande varietà di pensieri e comportamenti disfunzionali riguardanti alimentazione e peso. Questi sintomi, quali ad esempio il seguire regimi dietetici rigidi, mettere in atto abbuffate, star male dopo aver mangiato e avere alti livelli di ansia legati al percepirsi grassi o al poter aumentare di peso, caratterizzano una larga varietà di sindromi cliniche e anche di loro varianti sub-cliniche.

In generale, la maggior parte dei bambini presenta solo qualcuno di questi sintomi, senza mai sviluppare un pieno Disturbo Alimentare, ma, per coloro i quali presentano un sufficiente numero di sintomi tali da soddisfare pienamente i criteri diagnostici, i Disturbi Alimentari rappresentano una condizione patologica estremamente seria ed invalidante che può portare finanche alla morte.

Si può quindi affermare che i Disturbi Alimentari mettono estremamente a repentaglio la salute e il benessere anche di giovani adolescenti, non solo di adolescenti di età maggiore, ma, nonostante questo, gli studi prospettici relativi ai fattori di rischio per lo sviluppo di queste patologie sono ad oggi limitati e questo ha notevolmente limitato la messa in atto di interventi a scopo preventivo.

 

Lo studio longitudinale sui fattori di rischio dei disturbi alimentari nei bambini

In linea con quanto evidenziato da Culbert e collaboratori nel 2015 circa l’importanza di indagare longitudinalmente i fattori di rischio dei Disturbi Alimentari anche su popolazioni non cliniche e di giovane età, Evans e collaboratori, in uno studio prospettico pubblicato dalla rivista Appetite, hanno dimostrato come la maggiore presenza di sintomi a 9 anni sembri essere predittiva di una ancor maggiore presenza di sintomi a 12 anni. Pertanto, l’identificazione precoce di sintomi dei Disturbi Alimentari nei bambini di appena 9 anni permetterebbe la messa in atto di interventi preventivi potenzialmente in grado di salvarne la vita.

Questo studio, così come affermato dagli autori stessi e proprio a partire dalle limitazioni della letteratura presente sul tema, più che avere lo scopo di indagare i Disturbi Alimentari di per sé, è stato appositamente svolto seguendo un’ottica longitudinale per poter in tal modo indagare in modo più approfondito i fattori di rischio legati allo sviluppo di una precoce sintomatologia inerente i Disturbi Alimentari. Infatti, come già accennato precedentemente, la maggior parte delle ricerche precedenti svolte su bambini e giovani adolescenti si è focalizzata prevalentemente sullo studio dei sintomi presenti in una data età, tralasciando un’indagine più in senso longitudinale che permettesse invece di evidenziare quali fattori precedessero e predicessero altri.

Data la mancanza di letteratura sul tema, gli autori hanno deciso di prendere in considerazione quei fattori che sono risultati essere significativamente correlati ai Disturbi Alimentari nell’età adulta e nella tarda adolescenza.

All’interno dello studio, nel quale gli autori hanno seguito i medesimi bambini nel corso del tempo per un totale di sei anni, sono così state identificate tre diverse aree che genitori ed insegnanti dovrebbero monitorare in bambini e preadolescenti, in quanto fattori di rischio apparentemente correlati con lo sviluppo di maggiori sintomi dei Disturbi Alimentari. Tali fattori comprendono: insoddisfazione per il proprio corpo, sintomi depressivi, solo per quanto riguarda il sesso femminile, e presenza di sintomi in fasi più precoci.

La ricerca di Evans e collaboratori risulta così essere innovativa, in quanto specificatamente focalizzata su quei fattori connessi con un successivo sviluppo di sintomi riguardanti i Disturbi Alimentari, in modo da poter identificare anticipatamente i bambini a rischio.

A tal proposito, si è notato come la prevalenza dei Disturbi Alimentari nei giovani aumenti tra l’infanzia e la prima adolescenza e come circa tra i 10 e i 13 anni la sintomatologia dei Disturbi Alimentari sia presente all’interno di popolazioni non cliniche a livelli molto simili rispetto a quelli di popolazioni adolescenti. Questo, nel complesso, suggerisce come sia importante identificare quali siano le condizioni che favoriscono lo sviluppo di questi disturbi ben prima dell’adolescenza.

Riassumendo, i risultati mostrano come ci sia il bisogno di identificare i sintomi dei disturbi alimentari nei bambini precocemente, dal momento che ad una maggiore sintomatologia a 9 anni corrisponde il più alto rischio di sviluppare una maggiore sintomatologia a 12 anni.

Inoltre, all’interno dello studio, i ricercatori hanno somministrato ai bambini partecipanti, sempre seguendo una procedura longitudinale, questionari riguardanti non solo i sintomi dei Disturbi Alimentari, ma anche sintomi depressivi e legati all’insoddisfazione corporea.

Dalle analisi è emerso come alcuni fattori di rischio precedano la comparsa dei sintomi dei Disturbi Alimentari e come altri invece sembrino essere concomitanti ad essi. Ad esempio, a 12 anni, indipendentemente dal sesso, coloro i quali presentano alti livelli di insoddisfazione corporea, manifestano anche il più alto numero di sintomi dei Disturbi Alimentari. L’insoddisfazione corporea sembrerebbe quindi essere un significativo fattore di rischio per lo sviluppo di Disturbi Alimentari. Inoltre, anche la presenza di sintomi depressivi a 12 anni risulta correlare con la presenza di un maggior numero di sintomi dei Disturbi Alimentari, ma solo per quanto riguarda le femmine. Per quanto riguarda solo la popolazione maschile, invece, il seguire un regime alimentare rigido e limitato risulta predire la comparsa di sintomi dei Disturbi Alimentari a 12 anni.

 

Sviluppi futuri della ricerca

Attualmente Evans e collaboratori hanno intenzione di portare avanti le indagini somministrando ancora una volta i questionari alla medesima coorte di bambini, ormai adolescenti di 15 anni, per poter studiare l’evoluzione della sintomatologia in coloro i quali mostravano il maggior numero di sintomi dei Disturbi Alimentari già a 12 anni. Così facendo sarà possibile capire se ciò che è stato rilevato per i bambini si mantenga valido anche con gli adolescenti o se, al contrario, emergano ulteriori fattori di rischio.
Si ritiene che questo tipo di studi possa aprire la strada ad interventi sempre più precoci che possano aiutare anche i giovani pazienti ad affrontare il proprio disturbo alimentare, fin dalle sue prime manifestazioni.

La stimolazione sensoriale nei soggetti con demenza

Un’altra importante frontiera è rappresentata dalla stimolazione sensoriale che per l’appunto va a lavorare sui sensi della persona e per cui non presuppone necessariamente l’esistenza di abilità cognitive; si utilizza infatti per lavorare con persone che hanno un grado di decadimento severo frutto di demenza in fase avanzata o di gravi traumi acquisiti.

Silvia Candido, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

La crescita dei pazienti affetti da demenza: i dati

Il 4 novembre 1906 il neurologo tedesco Alois Alzheimer, presentava a Tubingen il caso di Auguste D. La signora soffriva di una grave forma di demenza progressiva, e nell’anno successivo, il caso venne descritto in un articolo scientifico.

Dalla rivista scientifica “Lancet” sono impressionanti i dati epidemiologici che emergono: un nuovo caso ogni 7 secondi, in totale 24,3 milioni di malati che raddoppieranno ogni vent’anni, per raggiungere gli 81,1 milioni nel 2040.

Le uniche cause di morte in aumento sono la broncopneumopatia e la demenza, in particolare quella di tipo Alzheimer; quest’ultima rappresenta nello specifico l’ottava causa principale di tutta la popolazione in generale e addirittura la terza causa nella popolazione ultrasettantacinquenne. Sorprendente inoltre osservare che i tassi di mortalità di questa malattia si sono più che decuplicati negli ultimi 20 anni, e ciò non ha eguali con nessun’ altra patologia. Questo fenomeno non è dato da un reale aumento di occorrenza, ma dall’allungarsi della vita media e da un maggiore capacità da parte del personale medico di riconoscere e quindi diagnosticare la malattia, prima misconosciuta.

Questa preminenza della patologia Alzheimer non si limita solo agli aspetti quantitativi legati all’aumento assoluto delle persone affette, ma ha rilevanti implicazioni qualitative per l’autonomia funzionale delle persone anziane.

 

Le terapie per la demenza

Si sono raggiunti grandi progressi nella conoscenza dei meccanismi patogenetici, tanto che si conoscono meglio i meccanismi biochimici legati alla morte delle cellule nervose ma c’è ancora tanto da scoprire circa il traguardo che si vuole raggiungere ossia quello della cura e dell’assistenza, sia del malato che di chi lo assiste. Le evidenze portano a concludere che è necessario intervenire in termini diagnostici, terapeutici e riabilitativi. Ad oggi si dispone di una terapia farmacologica (benzodiazepine) di modesta efficacia sugli aspetti cognitivi della persona affetta, mentre da un punto di vista psicosociale si ricorre a un training cognitivo ossia a un allenamento dominio-specifico di tutte le funzioni cognitive a cui segue un guadagno in termini di abilità.

Nello specifico, di grande interesse è la cosiddetta stimolazione cognitiva che mira a rallentare il declino cognitivo in soggetti con demenza lieve/moderata, rinforzando la capacità di “riserva cognitiva” mediante l’apprendimento di specifiche strategie cognitive. Alla base di quest’intervento c’è l’idea che alcuni fenomeni sottostanti la plasticità cerebrale siano ancora parzialmente efficienti per cui mediante l’esercizio delle funzioni residue si cerca di protrarre nel tempo l’autonomia della persona e migliorarne la qualità della vita.

 

La stimolazione sensoriale

Un’altra importante frontiera è rappresentata dalla stimolazione sensoriale che per l’appunto va a lavorare sui sensi della persona e per cui non presuppone necessariamente l’esistenza di abilità cognitive; si utilizza infatti per lavorare con persone che hanno un grado di decadimento severo frutto di demenza in fase avanzata o di gravi traumi acquisiti.

Questo tipo di intervento nasce in Olanda negli anni ’70 per aiutare persone con disturbi dell’apprendimento al fine di ridurre gli effetti della deprivazione sensoriale, da un’idea di Hans Hulsegge e Ad Verheul. Identificano il termine Snoezelen, composto da due verbi: “snuffelen” ossia cercare fuori o esplorare e “doezelen” ossia rilassare o sonnecchiare. Il trattamento infatti avviene in un ambiente multisensoriale, in cui vista, tatto, udito, odorato e gusto sono stimolati e ciò permette di “raggiungere” le memorie più antiche, più profonde, emozioni e ricordi relativi al sé e non al ruolo svolto nella vita (informazione quest’ultima che necessita di una capacità di elaborazione cognitiva). Si parla dunque di stimolazione sensoriale controllata, usata con persone con gravi disabilità intellettive che vengono esposte ad un ambiente “calmante” e “stimolante” chiamato Snoezelen Room (o per l’appunto stanza di stimolazione multisensoriale) che utilizza effetti luminosi, suoni, musiche, profumi, superfici tattili e forme e stimoli gustativi.

La tecnica favorisce il rilassamento e la stimolazione e prevede l’assenza di attività legate a emozioni fallimentari, la non direttività.

Ad oggi, sono disponibili diversi studi in letteratura sull’uso della metodologia Snoezelen come strumento terapeutico. Si è visto che a seguito di sessioni di stimolazione multisensoriale si rileva una riduzione dei comportamenti non adattivi, con un’incentivazione di quelli positivi (Baker 2001; van Diepen 2002; Hope 1998; Long 1992); viene facilitata la comunicazione e l’interazione con persone che hanno evidenti difficoltà linguistico-espressive (Spaull 1998); promuove umore e stati affettivi positivi (Baker 2001; Cox 2004; Pinkney 1997) ed infine si riscontra una diminuzione dello stress nei caregivers, sia formali che informali (McKenzie 1995; Savage 1996).

La tecnica utilizzata è risultata appropriata anche nell’ottica di diminuire l’utilizzo di farmaci al bisogno per la gestione dei problemi comportamentali. Si è visto infatti che favorisce l’addormentamento e il riposo e aiuta l’approccio ai pasti, con conseguente riduzione della contenzione fisica (Champagne e Sayer, 2003).

A tal proposito, è possibile pensare ad un approccio Snoezelen nelle persone con demenza, in quanto si basa sull’uso di stimoli “non sequenziali” e “non eccessivamente strutturati”; questo corrobora il fatto che non sono necessarie delle competenze particolari e che si può utilizzare con persone che hanno un grave decadimento cognitivo, in quanto è richiesto un modesto impegno di risorse per la persona.

Uno studio in letteratura (Behavioral and Mood Effects of Snoezelen Integrated into 24-Hour Dementia Care; Van Weert, 2005) ha valutato gli effetti di un percorso di stimolazione multisensoriale in persone con demenza, residenti in una casa di cura. La stimolazione prevedeva l’utilizzo di una snoezelen room in cui vi erano presenti varie fonti luminose (tubo a bolle, proiettore di immagini, fibre ottiche), musica rilassante e/ o intermittente, poltrone scintillanti e letti vibranti, diffusore di essenze profumate, pannelli interattivi, ecc. Al termine del ciclo di stimolazione, le persone che avevano ricevuto un’assistenza basata sulla stimolazione multisensoriale mostravano un “miglioramento” significativo dei seguenti sintomi comportamentali: apatia, trascuratezza, oppositività (o comportamento ribelle), aggressività e depressione.

Durante l’assistenza del mattino il gruppo sperimentale mostrava miglioramenti significativi sul benessere (umore, serenità, allegria, tristezza) e sui comportamenti adattativi (risposta alle domande, relazione con il caregiver, interazione con l’ambiente). L’assistenza basata sui principi della Snoezelen sembra avere dunque un effetto positivo in particolar modo sul comportamento disturbante e rinunciatario.

In sintesi l’approccio snoezelen permette di gestire i disturbi comportamentali, favorisce il rilassamento, il contatto e la relazione interpersonale, promuove il benessere e la riattivazione della persona. L’operatore dunque si adegua alle forme e alle modalità di comunicazione della persona, è un partner pienamente prova di inserimento testo coinvolto nell’azione in quanto è colui che interagisce e aiuta la persona a interagire con gli oggetti presenti, è la sua guida coscienziosa. è inoltre aperto ai segnali che sono inviati e incoraggia la libera scelta della persona.

Piccoli risultati positivi sulla cognitività e sul comportamento possono condizionare importanti risultati a lungo termine per quanto riguarda la disabilità, la sopravvivenza e la qualità di vita delle donne e degli uomini affetti da demenza o con gravi traumi acquisiti.

Emerge quindi l’importanza di sperimentare sempre nuove modalità d’interazione e di stimolazione con persone che presentano deficit a livello cognitivo e disturbi comportamentali tali da non permettere la “normale” espressione di sé e dei propri bisogni. La stimolazione sensoriale a tal proposito, sembra essere un’ottima modalità d’intervento che ha molteplici ripercussioni, sia a livello comportamentale che sulle modalità d’interazione, soprattutto in ambienti che richiedono un gravoso carico assistenziale.

Il sapore del successo (2015) – Cinema & Psicoterapia

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #38

Il sapore del successo

Diretto da Jhon Wells, con Bradley Cooper, Sienna Miller, Omar Sy, Riccardo Scamarcio, Emma Thompson, Uma Thurman.

 

Il sapore del successo: Arrivare a certi livelli può essere difficile e per farlo si può diventare una persona sgradevole. Uno chef, come tante altre persone che lavorano duramente, può passare al lato oscuro molto facilmente. Arroganza, ribellione, presunzione, si combinano con ricerca del nuovo, passione e ambizione e il mix può distruggere. L’auto esilio in uno stato di vuoto terrifico rappresenta un evitamento, un isolamento da un mondo ostile, incapace di riconoscere il talento, la grandiosità, l’eccellenza.

 

Trama de Il sapore del successo

Un noto chef dopo il fallimento del proprio ristorante a Parigi scompare per tre anni. Alcool e droga riempiono la sua vita. Si trasferisce a New Orleans, dove sguscia ostriche dalla mattina alla sera. Decide di rimettersi in gioco in un ristorante di Londra di proprietà di un suo vecchio amico, Tony.
Cercherà la collaborazione di un team di chef, tra cui Max e Michel suoi vecchi amici e l’affascinante e brava Michelle. Dovrà confrontarsi, però, con Reece che è riuscito ad ottenere la terza stella Michelin.

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Motivi d’interesse

Arrivare a certi livelli può essere difficile e per farlo si può diventare una persona sgradevole. Uno chef, come tante altre persone che lavorano duramente, può passare al lato oscuro molto facilmente.

Arroganza, ribellione, presunzione, si combinano con ricerca del nuovo, passione e ambizione e il mix può distruggere. L’auto esilio in uno stato di vuoto terrifico rappresenta un evitamento, un isolamento da un mondo ostile, incapace di riconoscere il talento, la grandiosità, l’eccellenza.

La sicurezza di sé e la consapevolezza del talento distanziano dagli altri.
Nella vita, tuttavia, c’è sempre una seconda occasione e il ritorno di Bradley Cooper ai fornelli lo testimonia. Dall’esperienza è necessario, però, apprendere e non è certo facile per chi si crede speciale. E’ facile ricadere e tornare a recitare lo stesso copione. Una psicologa (Emma Thompson) cercherà di aiutare lo chef a riconquistare la fiducia in se stesso e delle persone che ha deluso. Il fallimento tormenta Adam Jones e gli impedisce di cambiare fin quando riuscirà a liberarsene lavorando con la sua squadra, cooperando e valorizzando i talenti e le capacità di ognuno.
A quel punto arriveranno persino le tre stelle della Michelin e lo chef finalmente si accomoderà a mangiare nello stesso tavolo con i suoi collaboratori.

 

Indicazioni di utilizzo

Il film propone stati mentali e cicli interpersonali del narcisista. La visione come home work può essere utile per discuterne con i pazienti.

Il tema del doppio attraverso la teoresi psicoanalitica: Carl Gustav Jung e l’Ombra

Secondo Jung l’Ombra è vicina all’uomo e ne cela l’inaccettabile; l’Ombra, la figura proiettata sulla parete, che insegue l’individuo anche quando si allontana, è uguale nella forma ma opposta nei movimenti e direzione. L’Ombra è qualcosa che esiste solo in presenza della luce, poiché un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha Ombra. Luce e Ombra sono quindi considerati come metafore del Bene e del Male, Positivo e Negativo.

 

L'”Ombra” nella psicoanalisi di Jung: la faccia oscura di sè inaccettabile

La psiche umana è “una totalità conscia e inconscia allo stesso tempo”. La coscienza individuale (che è il prolungamento di quella collettiva) è indissolubilmente legata e stabilisce un rapporto di reciproca interazione con l’Io; quest’ultimo ha un posto di estremo rilievo nella totalità della psiche e assume la funzione fondamentale di rapportarsi col mondo interiore e con quello esterno.

Jung, nelle sue teorizzazioni, non parla quindi di Doppio, ma introduce nella psicologia analitica il concetto di “Ombra“, che classifica anche come archetipo.

L’Ombra è vicina all’uomo e ne cela l’inaccettabile; l’Ombra, la figura proiettata sulla parete, che insegue l’individuo anche quando si allontana, è uguale nella forma ma opposta nei movimenti e direzione. L’Ombra è qualcosa che esiste solo in presenza della luce, poiché un corpo immerso nel buio non ha parti oscure, non ha Ombra. Luce e Ombra sono quindi considerati come metafore del Bene e del Male, Positivo e Negativo. Gli aspetti della natura istintiva dell’uomo che, per incompatibilità con la forma di vita scelta coscientemente, non vengono vissute e si uniscono a formare nell’inconscio una personalità parziale relativamente autonoma.

Soprattutto attraverso i sogni, il soggetto viene messo in contatto con questi aspetti della propria personalità che, per varie ragioni, egli tende a ignorare o a disconoscere. L’uomo civile tende a dimenticare la sua faccia oscura, convinto che essa appartenga ad uno stadio infantile, passato. Ma nonostante la sua dimensione sociale, civile, secondo Jung nel nostro intimo siamo tutti dei primitivi. C’è una parte nell’uomo che non gli permette realmente di rinunciare alle sue origini e un’altra che, invece, gli conferisce la sensazione di aver superato da tempo una simile fase. Quest’altra parte è la coscienza che, formatasi e distaccata da quello stato primitivo, selvaggio, incosciente, rende quest’ultimo oggetto, altro da sé, degno di critica e disprezzo.

 

La proiezione dell’Ombra sugli altri o la sua scissione dalla Luce

Un soggetto è spinto, poi, a scorgere negli altri quegli impulsi, quelle mancanze e quei difetti che in realtà sono suoi (appartengono alla sua Ombra) e che egli nega di possedere. Il riconoscimento dell’Ombra, quindi affrontare il proprio negativo, accettare che il Male può essere presente anche dentro di noi, non proiettarlo solo all’esterno, su altre persone, ma accettare la propria intima natura duale, sembra essere la meta desiderata, il risultato di ogni efficace processo di individuazione.

Dato che essa è però per la gran parte inconscia, sarà necessario ricorrere all’analisi del materiale onirico per portare progressivamente alla luce gli aspetti inferiori e nascosti della personalità. Naturalmente questo processo potrà dare all’inizio esiti negativi o comunque difficili. Spesso può accadere che, durante questa fase di riconoscimento dell’Ombra, l’Io non riconosca questa sua parte oscura.

L’immediata conseguenza è il rifiuto più o meno totale della propria Ombra. In questo caso si verifica una scissione. Incapace di riconoscerla e quindi di integrarla in sé, l’Io allontana la propria Ombra, la condanna a vivere un’esistenza autonoma, senza alcuna relazione con il resto della personalità. Facendo questo, però, l’Io conduce una vita psichica parziale, ridotta solo alla parte in luce della sua psiche. E’ proprio questo il processo che porta alla nascita della maggior parte delle tipologie di Doppio. Pensare di non possedere l’Ombra è semplicemente un’idea infantile e la maggior parte di coloro che la rifiutano sono perfettamente consapevoli di questo. Solo nell’oscurità più completa si può non avere l’Ombra. La luce che mi permette di conoscere completamente la mia psiche, inevitabilmente mi mette di fronte anche alla mia Ombra. Ciò che mi appare oscuro e minaccioso, in realtà non fa solo parte di me ma mi definisce, mi circoscrive, in qualche maniera mi dà forma, mi identifica e mi caratterizza. Per Jung solo l’Ombra occultata e allontanata risulta realmente minacciosa, l’Ombra riconosciuta e accettata, invece, è positiva, stimolante e fonte di nuova energia psichica.

La Psicoterapia Cognitiva tra Linee Guida e Protocolli

C’è stato un importante evento SITCC Lombardia in questo fine-settimana che noi del Direttivo SITCC Lombardia vorremmo condividere con voi. Sabato 21 gennaio all’Hotel Madison di Milano si è svolto il Seminario “Psicoterapia Cognitivo comportamentale: tra protocolli e linee guida“. Relatori erano Riccardo dalle Grave, Giuseppe Nicolò e Saverio Ruberti. I membri del Direttivo, Francesco Centorame, Laura Fortunati e Giovanni M. Ruggiero, hanno promosso questa giornata e hanno fatto in modo che non solo avvenisse ma che fosse soprattutto un successo.

Francesco Centorame, Laura Fortunati e Giovanni M. Ruggiero – Direttivo SITCC Lombardia

 

La CBT-E e l’aderenza ai protocolli

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Riccardo Dalle Grave, responsabile dell’Unità di Riabilitazione Nutrizionale della casa di Cura Villa Garda, ha raccontato la sua originale attività di formatore e supervisore della terapia cognitivo comportamentale migliorata (CBT-E) per i disturbi dell’alimentazione sviluppata da Christopher Fairburn. Il nocciolo del suo intervento è mostrare nella pratica clinica le difficoltà di applicazione reale di un protocollo concepito in ambiente universitario. L’operazione di Riccardo rende chiari gli ostacoli ma dimostra anche la sua fattibilità. Lo sforzo di aderenza si rispetta non attraverso una accentuazione della rigidità, di per sé dannosa, ma con un incremento dell’attività di formazione, supervisione e intervisione non generica, ma focalizzata sulle procedure. Molto chiaramente sono stati esposti, nell’intervento di Riccardo, anche i rischi di deterioramento di una pratica clinica abitudinaria, fenomeno osservabile proprio negli operatori più esperti e inclini a fidarsi della propria perizia clinica.

 

Tra pratica privata e servizio pubblico: l’importanza di linee guida applicabili

nicolo-ruberti-seminario-sitcc-lombardiaSulla stessa falsariga ha proseguito Giuseppe Nicolò, nella sua doppia veste di psicoterapeuta privato presso il III Centro di Psicoterapia Cognitiva di Roma che di Direttore del Dipartimento di Salute Mentale ASL Roma 5 e Direttore dell’SPDC Colleferro. Giuseppe ha offerto il suo punto di vista unico sulle diverse caratteristiche che assume l’applicazione della psicoterapia cognitiva nel servizio pubblico e nel privato. Giuseppe ha particolarmente insistito sulla necessità di attenersi a linee guide che si rifacciano a prove di fatto. A differenza di Riccardo, ha maggiormente sottolineato la necessità di linee guida realistiche piuttosto che di veri e propri protocolli, strumenti al momento troppo complessi da eseguire in ambiente pubblico. Tuttavia ha anche sottolineato la necessità di avvicinarsi il più possibile a pratiche cliniche supportate da prove di fatto.

 

I rischi di un applicazione rigida dei protocolli nel servizio pubblico

Saverio Ruberti ha proseguito il discorso, ulteriormente insistendo sulla maggiore applicabilità clinica di linee guida realistiche e in grado di non schiacciare la sensibilità clinica. Anche Saverio vanta una doppia esperienza, essendo sia psicoterapeuta sia direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’ASST (Azienda Socio Sanitaria Territoriale) Nord Milano. Saverio si è mostrato particolarmente sensibile ai rischi di una applicazione rigida dei protocolli di terapia e li distingue dalle Linee Guida che consentono di praticare interventi controllabili in maniera più flessibile.

 

L’importanza di supervisione e intervisione per l’aderenza alle linee guida

Nella discussione finale i vari interventi hanno sottolineato i punti di forza delle varie relazioni. Il realismo clinico delle linee guida è sicuramente da non trascurare, come ha detto Saverio Ruberti. Tuttavia al momento il rischio di un irrigidimento in Italia appare ancora lontano e forse dobbiamo prendere più coscienza delle difficoltà di apprendimento delle abilità necessarie a ottenere una buona e diffusa aderenza almeno alle linee guida, se non ai protocolli. In particolare, le attività di intervisione e supervisione reciproca focalizzate sull’aderenza potrebbero essere maggiormente promosse.

Volontariato in adolescenza: un fattore di protezione contro i reati?

I ricercatori del College of Public Health dell’Università dell’ Iowa hanno scoperto che i teenager che avevano partecipato ad attività di volontariato in adolescenza spontaneamente e senza costrizioni dagli adulti, avevano l’11% in meno di comportamenti illegali dai 18 ai 28 anni di età, rispetto ai teenager che non erano stati volontari.

 

Secondo lo studio, i soggetti che avevano fatto volontariato in adolescenza avevano anche il 31% di arresti in meno e il 39% in meno di condanne. Questo trend continuava quando i soggetti diventavano più grandi; i volontari riportavano il 53% in meno di arresti e il 36% in meno di condanne, tra i 24 e i 34 anni di età.

L’adolescenza è un periodo formativo durante il quale occorre la maggior parte dello sviluppo morale ed emotivo, e le esperienze di crescita personale, come il volontariato, potrebbero promuovere un senso di responsabilità sociale, valore di sé, e felicità che promuoverebbero lo sviluppo morale – sostiene Shabbar Ranapurwala, l’autore principale dello studio e membro della facoltà all’ UI College of Public Health e all’Università del North Carolina allo Chapel Hill – Questi individui, alla crescita, potrebbero diventare più fiduciosi in se stessi ed adulti responsabili che potrebbero non essere coinvolti in attività criminali, più di quanto non lo siano i non volontari – egli sostiene.

 

Il volontariato in adolescenza: lo studio del College of Public Health

I ricercatori hanno raccolto dati utilizzando il National Longitudinal Study of Adolescent to Adult Health. Più di 14.000 studenti  dal secondo anno di elementari al primo anno di medie, hanno risposto a delle domande nel 1994-1995 e di nuovo nel 2001-2002 e nel 2008-2009.

Veniva loro chiesto se avessero messo in atto comportamenti illegali, la maggior parte dei quali concernenti furti, violenza armata, abuso di droghe, frodi o partecipazione a gang.

Lo studio ha anche riguardato teenager che erano stati obbligati dagli adulti a fare attività di volontariato in adolescenza e veniva indagato quanto spesso essi avessero problemi con la legge una volta divenuti adulti. In questo caso, i ricercatori hanno scoperto un quadro più complesso. Coloro i quali erano stati obbligati a fare volontariato in adolescenza riportavano, in futuro, il 20% in più di comportamenti illegali tra i 18 e i 28 anni, e il 10% in più tra i 24 e i 34 anni,  rispetto ai soggetti che non avevano fatto attività di volontariato in adolescenza.

Carri Casteel, professoressa associata di salute ambientale e salute sul lavoro nell’UI College of Public Health e co-autrice dello studio, sostiene che i ricercatori siano insicuri sulle cause di questo risultato; il database non includeva informazioni rilevanti per la comprensione del fenomeno. Tuttavia, l’autrice sostiene che ciò potrebbe dipendere dal tipo di attività di volontariato alle quali i teenager prendevano parte e dalla quantità di tempo che essi impiegavano in queste attività.

Quelli che compiono attività di volontariato spontaneamente, potrebbero compiere diverse attività e avere dei risultati differenti rispetto ai soggetti che sono inviati a fare volontariato, poiché i primi possono scegliere le attività da compiere – dichiara la Casteel.

Tuttavia, i ricercatori hanno trovato un decremento simile negli arresti e nelle condanne tra coloro i quali erano obbligati a fare volontariato in adolescenza dagli adulti, rispetto a coloro i quali facevano spontaneamente i volontari, nonostante il precedente incremento riferito dei comportamenti illegali. Lo studio, infatti, ha riportato che i volontari obbligati dagli adulti avevano il 37% in meno di arresti e il 29% in meno di condanne rispetto ai non volontari, tra i 18 e i 28 anni, e il 29% in meno di arresti e il 19% in meno di condanne tra i 24 e i 34 anni.

Curare il sé traumatizzato: il contributo di Ruth Lanius

Il 24 e il 25 febbraio Ruth Lanius tornerà a Milano per il workshop dal titolo “Momenti Cruciali nel Trattamento del Trauma: Verso l’Integrazione del Sé”: sarà l’occasione per esplorare insieme a lei le sfide che questo tipo di disturbi pongono sia ai terapeuti che ai pazienti, in perenne lotta con una dolorosa frammentazione interna.

 

Un grande contributo alla comprensione e alla cura del trauma è stato dato negli ultimi 10 anni da Ruth Lanius, professoressa di psichiatria, direttrice dell’unità di ricerca sul disturbo da stress post-traumatico (PTSD) presso la University of Western Ontario e autrice di numerose pubblicazioni sul tema del trauma e dei trattamenti evidence-based per la cura dei disturbi post-traumatici e dissociativi.

Il 24 e il 25 febbraio tornerà a Milano il workshop dal titolo “Momenti Cruciali nel Trattamento del Trauma: Verso l’Integrazione del Sé”, organizzato, come nel 2015, dal Btl Workshop, e sarà l’occasione per ascoltare di nuovo il contributo clinico di Ruth Lanius e per esplorare insieme a lei le sfide che questo tipo di disturbi pongono sia ai terapeuti che ai pazienti, in perenne lotta con una dolorosa frammentazione interna.

 

Ruth Lanius: la traumatizzazione cronica nella vita quotidiana

La traumatizzazione cronica può infatti compromettere la capacità di una persona di vivere consapevolmente nel presente, poiché gli effetti del trauma possono manifestarsi  più o meno intensamente nella vita quotidiana attraverso difficoltà nel regolare emozioni intense, flashbacks, derealizzazione, depersonalizzazione, ottundimento, autolesionismo, esperienze di essere “fuori dal corpo”, fino a veri e propri stati dissociativi.

Questo rende difficile svolgere le normali attività quotidiane ed è per questo che risulta molto efficace per questi pazienti acquisire, attraverso un percorso di cura specializzato, innanzitutto strumenti quotidiani di gestione della dissociazione e successivamente metodi che li aiutino lentamente a “re-integrare” aspetti di sé in conflitto, a recuperare una coscienza di sé piena e completa, insieme ad una narrazione della propria storia priva di discontinuità e amnesie; solo l’integrazione di funzioni e aspetti di sé tenuti separati dal trauma può ridurre i sintomi legati alle riattivazioni traumatiche e al re-enactment, molto frequenti in questi pazienti.

 

Healing the Traumatized Self di Ruth Lanius

Uno degli ultimi importanti contributi scientifici di Ruth Lanius è stata la pubblicazione, prossima anche in Italia, del volume Healing the Traumatized Self (Frewen, Lanius, 2015). Il focus del manuale, introdotto con entusiasmo da David Spiegel e Bessel van der Kolk, è offrire ai clinici strumenti utili per orientarsi nello spettro complesso di sofferenze che i pazienti traumatizzati portano in terapia, attraverso la presentazione del modello quadridimensionale di classificazione dei sintomi post traumatici.

Le ricerche condotte negli ultimi anni, sono nate infatti dall’esigenza di definire meglio proprio il concetto stesso di dissociazione in cui finiscono per essere incluse molte differenti sindromi, generando confusioni sia diagnostiche che cliniche (Lanius, 2015). Il DSM-5 ha permesso di affiancare per la prima volta i disturbi dissociativi ai disturbi correlati a stress ed eventi traumatici, sottolineando finalmente il legame tra trauma e dissociazione, ma con il loro Modello a 4 dimensioni gli autori del libro, Paul Frewen e Ruth Lanius, propongono un ulteriore approfondimento; il loro modello offre cioè la possibilità di collocare i sintomi lungo un continnuum tra una normale attività cosciente (Normal waking consciousness, NWC) e la presenza di stati alterati di coscienza legati al trauma (trauma-related altered states of consciousness, TRASC), attraverso l’utilizzo di 4 dimensioni principali: tempo, pensieri, corpo, emozioni (vedi fig.1).

curare il Sé traumatizzato: il contrbuto di Ruth Lanius

Fig. 1 – Modello quadridimensionale di Lanius e Frewer. Le parti in rosa indicano gli stati NWC, normali alterazione dello stato di coscienza, mentre le parti in arancione descrivono alterazioni di coscienza trauma correlate.

 

Osservare la dimensione tempo permette, ad esempio, di differenziare tra flashback intrusivi che portano a rivivere letteralmente il trauma (TRASC) e ricordi intrusivi che generano angoscia (NWC); rispetto alla dimensione dei pensieri è importante distinguere, ad esempio, tra le presenza di voci e allucinazioni uditive (TRASC) e la persistenza, seppur disturbante, di una ruminazione negativa e ricorrente su di sé espressa in prima persona (NWC).

Ancora, l’osservazione della dimensione corporea può aiutare a distinguere tra uno stato di depersonalizzazione (TRASC) e uno stato di iper-arousal (NWC) e infine rispetto alla dimensione emotiva sarà importante distinguere, ad esempio, tra stati di ottundimento/numbing (TRASC) e uno stato emotivo depressivo, quand’anche  generale e pervasivo (NWC). Ognuna di queste dimensioni può aiutare a definire meglio le caratteristiche dei sintomi più difficili da intercettare e ovviamente le dimensioni non si escludono tra loro, ma possono aiutare proprio se considerate insieme. Ad esempio la depersonalizzazione può colpire una sola dimensione, il pensiero, o anche il corpo o una parte del corpo, risultando un sintomo più o meno pervasivo e generalizzato.

 

Attaccamento e trauma

Oltre alla concettualizzazione di questo modello, il lavoro di Ruth Lanius negli ultimi anni si è focalizzato sulla validazione dei trattamenti più efficaci proprio nei casi di traumatizzazione cronica, offrendo contributi scientifici sull’efficacia del neurofeedback nella cura della disregolazione emotiva (Lanius, 2016) e continuando ad approfondire sin dal 2010, anno di pubblicazione del suo importantissimo manuale “The Impact of Early Life Trauma on Health and Disease: The Hidden Epidemic” (di Lanius, Vermetten, Pain), l’impatto di traumi relazionali legati ad esperienze precoci e negative di attaccamento sullo sviluppo cerebrale infantile e dunque sulla possibilità di causare sindromi post traumatiche e psicopatologia in età adulta (Lanius, 2013). Lo stile di attaccamento familiare e la capacità delle figure di accudimento di tenere confini relazionali adeguati, sembra infatti avere un impatto significativo sulla costruzione di una identità propria e integrata a causa dell’influenza che l’assenza di confini ha sulle stesse funzioni cognitive responsabili della costruzione della memoria episodica o autobiografica (Lanius, 2016).

Questi risultati evidenziano come l’impossibilità di costruire una narrazione congrua, ricca e completa della propria storia, impedisca ai pazienti traumatizzati di percepire un senso profondo e stabile della propria identità e ostacoli la possibilità di sentirsi individui in evoluzione con un passato chiaro, un presente percepito come reale e un futuro da costruire.

Curare il sé traumatizzato allora passa da un lento e preciso lavoro di integrazione, che necessita di una comprensione profonda dei processi neurobiologici e fisiologici che i traumi vanno ad alterare, di strumenti di cura appropriati ed efficaci, ma anche della capacità di restare sintonizzati in terapia sull’esperienza emotiva che i pazienti portano, offrendo un modello di attaccamento sicuro, in grado di promuovere un legame nuovo e caratterizzato da confini relazionali chiari e stabili, in un contesto sicuro e non giudicante, che aiuti a disinnescare le risposte di allerta lasciate in eredità dal trauma e permetta una ri-costruzione graduale ma autonoma della propria identità e della strada verso il futuro.

Self/Less (2015) – Cinema & Psicoterapia #37

Self/Less (2015) RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #37

Antonio Scarinci. Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

Film diretto da Tarsem Singh. Protagonisti Ryan Reynolds e Ben Kingsley.

Trama

Nel film Self/Less un miliardario malato di cancro decide di sottoporsi a un intervento che trasferirà la sua coscienza in un nuovo corpo. Il corpo non è stato creato in laboratorio come aveva creduto Damian Hale (Kingley), apparteneva a un uomo (Reynolds) che per curare la propria figlia affetta da una grave malattia lo aveva venduto.

 

Motivi d’interesse

Self/Less contrappone il tema faustiano dell’immortalità e dell’estrema povertà che spinge una parte sempre più larga della popolazione mondiale a mercificare la propria dignità umana. L’eugenetica che sostiene la volontà di estendere la propria vita oltre la naturale fine, oltre ogni limite etico e le estreme condizioni d’indigenza che portano l’uomo a diventare merce di scambio in un mercato dove il denaro consente di avere un potere assoluto.

Un mix di psicofarmaci reprime i ricordi che il corpo riporta alla memoria, ma con il passare delle settimane immagini sconosciute e appartenenti a un’altra vita affollano la mente di Ben Kingsley facendogli scoprire l’amara verità. Il corpo che ha sostituito il suo, malato di cancro, non è stato interamente realizzato in laboratorio ma preso da un obitorio.

Il folle esperimento è destinato a fallire perché le memorie corporee prendono il sopravvento sulla volontà di ingerire gli psicofarmaci. E’ la vittoria del corpo sulla mente corrotta del vecchio miliardario, che proprio con un corpo nuovo prende consapevolezza dei suoi errori e lascia prevalere l’uomo che generosamente per il bene della propria figlia ha sacrificato la sua vita.

Il film Self/Less pone alla riflessione dello spettatore questioni etiche di una forte attualità. Esperimenti come quello proposto non sono ancora praticati e la comunità scientifica al momento è molto scettica sulla possibilità di trapiantare il cervello con successo. Occorre però considerare che a fine 2017 sarà provato per la prima volta da un’equipe di neurochirurghi il primo trapianto di cervello su un soggetto che ha fornito consenso informato a rinunciare al proprio corpo deturpato per trasferire la sua testa su un corpo pienamente funzionante. Altresì nel mondo la vendita e il commercio di organi sono pratiche molto diffuse.

 

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La questione più interessante sembra però quella legata alle possibili conseguenze della coabitazione di un cervello e di un corpo di persone diverse. Nel film Self/Less la “coscienza del corpo” prevale sul cervello grazie alle relazioni che il soggetto riallaccia con la moglie e con la figlia, come se la dimensione interpersonale della coscienza parafrasando Liotti (1994) restituisse la trama narrante che si era interrotta e restituisca identità. Anzi, è proprio il riemergere dell’identità di Reynold che consente a Hale di prendere consapevolezza di quanto la sua vita, tutta incentrata sugli affari e il denaro, gli avesse fatto perdere il valore delle cose importanti, tanto da spingerlo a ricostruire per quanto ormai possibile il legame con sua figlia.

 

Self/Less: indicazioni utili

Non si può escludere l’analisi del corpo quando si vuole produrre un cambiamento.

Il corpo è narrazione è esperienza incarnata. La seduzione delle parole ci tiene spesso lontani dalla conoscenza esperienziale, dall’elaborazione corporea, alla base degli altri tipi di elaborazione: autoconsapevolezza, interpretazione, pensiero astratto e sentimento. La neurobiologia interpersonale ci insegna che il benessere deriva dall’integrazione di mente e corpo. E per questo gli interventi buttom-up vanno ad agire su un livello di elaborazione dell’informazione che non può essere raggiunto attraverso interventi sui processi top-down.

Rivolgendoci al corpo con la consapevolezza dell’esperienza sensoriale del qui e ora i sentieri che portano all’integrazione sono aperti […] verso la flessibilità, l’adattamento, la coerenza e la stabilità (Siegel, 2012).

 

Disprassia evolutiva: criteri clinici e principi di trattamento riabilitativo

La disprassia evolutiva rappresenta per la riabilitazione pediatrica un ambito emergente e di grande interesse: l’incapacità di compiere gesti, siano essi simbolici o di adeguato utilizzo degli oggetti, in assenza di deficit motori, confligge con un normale sviluppo delle funzioni cognitive così come di quelle adattive.

Daniela Voza – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

…non solo i bambini ma anche gli esseri umani di tutte le età sono oltremodo felici e in grado di estrinsecare le loro capacità con il maggior vantaggio possibile quando sono sicuri che dietro di loro ci sono una o più persone che li possono aiutare in caso di difficoltà. La persona fidata fornisce una base sicura su cui appoggiarsi per potere agire” (J. Bowlby, 1973).

 

La disprassia evolutiva rappresenta per la riabilitazione pediatrica un ambito emergente e di grande interesse: l’incapacità di compiere gesti, siano essi simbolici o di adeguato utilizzo degli oggetti, in assenza di deficit motori di tipo piramidale, cerebellare o di disordini del movimento, confligge con un normale sviluppo delle funzioni cognitive così come di quelle adattive. Tuttavia, tra i disordini neuro evolutivi la disprassia è l’entità forse ancor oggi più disattesa o sottostimata o misconosciuta.

Anche in ambito clinico rappresenta una tematica controversa e dibattuta a partire addirittura dalla sua definizione: mentre nel mondo anglosassone continua ad essere ancora chiamata “disprassia evolutiva“, prevale oggi la dizione di “Disturbi della Coordinazione Motoria” in accordo con la scuola canadese (Progetto formativo, Don C. Gnocchi, 2015).

 

Definzione di Disprassia Evolutiva

La patologia che colpisce la prassia è l’Aprassia, intesa come assenza della funzione da perdita o da mancanza e si riferisce all’adulto, mentre in età evolutiva si preferisce il termine Disprassia, intesa come malfunzionamento, anomalia della funzione da disfunzione.

I primi lavori in ambito evolutivo sono quelli di Orton (1937), che identifica la “goffaggine” come uno dei più comuni disordini dello sviluppo; riconosce inoltre differenti tipologie nell’ambito dei disturbi motori e sottolinea che esistono diversi tipi di “disordini motori”.

Trent’anni più tardi Walton, Ellis e Court (1962) e Gubbay et al. (1965) descrivono dettagliatamente i bambini “goffi”, ovvero i cosiddetti clumsy children. I criteri usati per definire la diagnosi di questi bambini sono: la mancanza di destrezza, l’impaccio motorio, l’assenza di abilità, che coincidono clinicamente con la presenza di “varie forme di aprassia e di agnosia”; il criterio “per esclusione” prevede che tale disturbo debba essere attribuito all’aprassia e all’agnosia, dopo aver escluso deficit neurologici e neuropsicologici classici: l’esame neurologico deve risultare negativo, devono risultare nella norma l’energia dei movimenti, le funzioni sensoriali e l’intelligenza.

Lo sviluppo delle abilità prassiche coincide con la nascita dell’intenzione, intesa come capacità da parte di ogni individuo, già in epoca neonatale, di regolare i propri processi cognitivi per organizzare risposte adattive. La disprassia già molti anni fa è stata definita come disturbo dell’integrazione neurosensoriale, in particolare negli aspetti visivi e tattili, interpretabile in tal senso come possibile componente eziologica (Ayres, 1972, Dewey e Kaplan,1994; Dunn et al, 1986). I bambini risultano molto sensibili al tatto, alla luce, a rumori e spesso presentano difficoltà alimentari ovvero sono molto selettivi nel tipo di alimentazione. Si deve inoltre considerare la difficoltà a livello gestuale: gesti transitivi (uso finalizzato degli oggetti) ed intransitivi (gesti simbolici).

La Disprassia si può definire in generale come un disturbo dell’esecuzione di un qualsiasi gesto o azione volontaria, è la difficoltà a programmare, coordinare e controllare gli atti motori necessari a raggiungere uno scopo, da distinguere dal concetto di capacità motorie in senso stretto (Sabbadini, 2013).

I soggetti colpiti da questi disturbi hanno bisogno di pensare alla pianificazione dei movimenti che hanno difficoltà ad automatizzare. Le difficoltà gestuali sono spesso correlate a difficoltà nel separare ed utilizzare adeguatamente le dita delle mani. E’ inoltre presente nella maggioranza dei casi ipotonia degli arti superiori, che risulta particolarmente marcata a questo livello, rispetto all’ipotonia generalizzata degli arti inferiori.

I primi lavori sulla disprassia evolutiva fanno riferimento ad una visione adulto – metrica che conduce a una definizione della stessa in termini di esclusione. Ma è proprio questa modalità di approccio al problema, che è stata utilizzata per l’età evolutiva fino ad un’epoca recente, che ha creato confusione e poca chiarezza rispetto al termine disprassia, che va inteso come incapacità di eseguire atti motori finalizzati e intenzionali e che pertanto va distinto dalla goffaggine e dal disturbo del movimento.

L’esecuzione di un atto intenzionale presuppone l’integrità delle strutture che rendono possibile l’azione. Sabbadini (1994) individua due livelli di controllo: le funzioni di base o strutture processanti (percezione, azione, memoria), che consentono di acquisire le informazioni; e i processi di controllo, che organizzano le funzioni cognitive di base. In un bambino disprattico entrambe le tipologie di strutture sono compromesse; ne deriva un ritardo nell’acquisizione di funzioni e/o la presenza di strategie stereotipate e poco flessibili, che rendono difficile l’apprendimento di compiti nuovi.

 

Disprassia evolutiva ed Embodied cognition

La disprassia evolutiva assume così le caratteristiche di un disturbo multisistemico in cui si rileva la presenza di difficoltà di coordinazione motoria generale e fine, oltre a deficit percettivi, che si traducono in difficoltà nelle autonomie della vita quotidiana e nell’apprendimento, in accordo con il modello della embodied cognition (Thelen, 1995). Secondo l’embodied cognition lo sviluppo cognitivo dipende, infatti, dall’avere un corpo competente dal punto di vista motorio e percettivo, oltre che dalle esperienze che esso può compiere. La conoscenza deriva dalla possibilità di percepire gli stimoli e dall’agire in conseguenza degli stessi.

Nelle ricerche degli ultimi anni basate sulle teorie dell’embodied cognition (Thelen,1995; Iverson e Thelen, 1999; Thelen e Iverson, 2001) si ribadisce sempre più l’ipotesi che le esperienze ricavate dal corpo giocano un ruolo essenziale per lo sviluppo della mente, ovvero per lo sviluppo cognitivo. Secondo questa nuova prospettiva, quindi, rispetto all’emergere di nuovi apprendimenti, viene enfatizzato lo stretto legame percezione-azione-cognizione. La cognizione dipende dal fatto di avere un corpo “capace” in termini di funzioni percettive e motorie e soprattutto dal tipo di esperienze che tale corpo ha avuto possibilità di compiere (Iverson e Thelen, 1999).

In particolare va considerata la recettività sensoriale, i cinque sensi che, sin da subito, mettono l’individuo in relazione con il mondo circostante. La sensazione di poter utilizzare al meglio il proprio corpo, incide inoltre sugli aspetti emotivi e sul personale livello di autostima.

Lo sviluppo va dunque inteso come capacità di tenere insieme vari sistemi percettivi e motori, in grado di attivare quello che il cervello pensa, quello che l’ambiente offre come stimolo e quello che l’interazione tra l’organismo e l’ambiente richiede.

Esso è frutto della capacità di usare i vari sistemi con flessibilità, per l’esecuzione di differenti azioni, che sottendono sempre l’aggregazione di più funzioni e l’attivazione dell’attenzione condivisa.

 

Diagnosi della Disprassia Evolutiva

Nel DSM – IV – TR (APA, 2000) si parla di Disturbo di Sviluppo della Coordinazione. I criteri diagnostici indicati sono:

  • A. Le prestazioni nelle attività quotidiane che richiedono coordinazione motoria sono sostanzialmente inferiori rispetto a quanto previsto in base all’età cronologica del soggetto e alla valutazione psicometrica della sua intelligenza. Questo può manifestarsi con un notevole ritardo nel raggiungimento delle tappe motorie fondamentali (per es., camminare, gattonare, star seduti), col far cadere gli oggetti, con goffaggine, con scadenti prestazioni sportive, o con calligrafia deficitaria.
  • B. L’anomalia descritta al punto A interferisce in modo significativo con l’apprendimento scolastico o con le attività della vita quotidiana.
  • C. L’anomalia non è dovuta ad una condizione medica generale (per es., paralisi cerebrale, emiplegia, o distrofia muscolare) e non soddisfa i criteri per un Disturbo Pervasivo dello Sviluppo.
  • D. Se è presente Ritardo Mentale, le difficoltà motorie vanno al di là di quelle di solito associate con esso.

Nella definizione del DSM-IV-TR la disprassia viene inserita all’interno del Developmental Coordination Disorder (DCD) termine ormai usato e adottato a livello internazionale, che tradotto alla lettera in italiano diventa disordine o disturbo della coordinazione motoria (DCM) e che genera ancora delle ambiguità (Sabbadini, 2013). Nel termine coordinazione è implicito il concetto di programmazione e pianificazione e quindi può essere incluso il concetto di atto motorio finalizzato; questo concetto va oltre quello di movimento, ma manca in questo termine il concetto di azione, troppo spesso poco considerato.

Nella Classificazione dell’ICD – 10 (OMS, 1992) si parla invece di Disturbo evolutivo specifico della Funzione Motoria (F 82).

È abituale che l’impaccio motorio si associ ad una certa compromissione della prestazione nei compiti cognitivi visuospaziali. Il quadro è caratterizzato da:

  • difficoltà di coordinazione, presenti sin dalle prime fasi di sviluppo, e non dipendenti da deficit neurosensoriali o neuromotori;
  • entità della compromissione variabile e modificabile in funzione dell’età;
  • ritardo (non costante) di acquisizione delle tappe di sviluppo neuromotorio (livelli più complessi), a volte accompagnato da ritardo di sviluppo del linguaggio (componenti articolatorie);
  • goffaggine nei movimenti;
  • ritardo nell’organizzazione del gioco e del disegno (tipo deficit costruttivo);
  • presenza (non costante) di segni neurologici sfumati privi di sicuro significato localizzatorio;
  • presenza (non costante) di difficoltà scolastiche e di problemi socio-emotivo-comportamentali.

 

Disprassia Evolutiva: eziologia del disturbo

Nella pratica clinica, attraverso un’accurata raccolta anamnestica, si riscontrano bambini disprattici, che possono avere genitori che hanno avuto gli stessi problemi (familiarità, fattori genetici).

Nel 50% dei casi si sono avuti problemi durante la gravidanza o il parto, quali anche lievi anossie perinatali, senza quindi segni conclamati di patologia, spesso non considerati né riportati nella cartella clinica (Dunn et al., 1986; Gubbay, 1985). La disprassia evolutiva è spesso presente nei bambini prematuri, ma anche postmaturi (41-42° settimana); in particolare la grossa incidenza riguarda gli immaturi a basso peso. In questi casi è spesso presente ipersensibilità o iposensibilità a stimoli sensoriali.

Indagini diagnostiche (TAC, RMf, PET) hanno in alcuni casi messo in evidenza una ecodensità periventricolare della sostanza bianca; si è inoltre riscontrata presenza di microlesioni e assottigliamento della parte posteriore del corpo calloso. Spesso non emerge nulla di significativo dalle RMf a cui vengono sottoposti bambini con disprassia evolutiva.

Nella clinica troviamo soggetti disprattici puri, senza segni neurologici evidenti o sintomi associati, inquadrabili nella disprassia evolutiva “specifica”. L’ipotesi è che nel bambino disprattico alcune aree del SNC non siano sufficientemente mature da permettergli di pianificare, programmare ed eseguire un’azione finalizzata. Sembrerebbe quindi che ci sia un’interruzione nella rete sinaptica e che il processo venga sfalsato per lentezza di trasmissione (Portwood, 1996).

E’ evidente nella clinica che il bambino disprattico, anche quando ha imparato ad eseguire determinate azioni, necessita di tempi più lunghi e manifesta lentezza esecutiva sia in attività della vita quotidiana che nelle attività scolastiche.

Nei casi di disprassia “pura” il livello cognitivo è nella norma e spesso il carico di frustrazione, rispetto alla consapevolezza del proprio deficit, è tale da portare questi soggetti verso disturbi comportamentali o della condotta. Importante quindi un tempestivo riconoscimento del problema e la presa in carico in terapia più precocemente possibile. Tali difficoltà fanno sì che il bambino sperimenti insuccessi e fallimenti che inevitabilmente hanno un impatto sulla vita scolastica, nel rapporto con i pari e sull’autostima e ciò può generare nel piccolo paziente stati di ansia e/o depressione.

 

Aree cerebrali coinvolte nella Disprassia Evolutiva

Il controllo del sistema motorio è deputato a sette aree cerebrali: le aree F1-2-3-4-5, parieto-dipendenti e le aree F6-7, pre-fronto-dipendenti. Nelle aree premotorie esistono singoli neuroni che controllano classi di azioni, come un microchip che si attiva per eseguire azioni multiple con un elevato livello di precisione e velocità (ad es., afferramento con una mano di un oggetto).

Nell’area F5, analoga all’area 44 di Brodman, ossia alla parte posteriore dell’area di Broca, si registra una scarica sia quando si inizia l’azione di afferramento, sia quando la si vede eseguire. La classe di neuroni F5 codifica l’intenzione dell’azione, e non solo la sua esecuzione. Da questa osservazione è nata la teoria dei Neuroni Specchio: il semplice osservare un’azione attiva lo stesso schema motorio attivato da chi la sta eseguendo; l’osservazione di un’azione si traduce in un programma motorio equivalente nella mente dell’osservatore (Rizzolatti, Fogassi e Gallese, 2001).

Le informazioni che partono dal sistema visivo primario sono collegate alle aree premotorie: il sistema dorsale trasmette le informazioni del movimento; il sistema ventrale trasmette un’informazione semantica sul tipo di oggetto. L’analisi visiva è inoltre frazionata: vi è una prima analisi dell’oggetto, per stabilire se è familiare o no, per coglierne il colore e la forma; quindi c’è un’attivazione parietale e motoria in cui vengono codificate le diverse parti dell’oggetto in relazione alle azioni che posso compiere con quell’oggetto. Sono proprio i Neuroni Specchio che agevolano la costruzione di risposte motorie di fronte agli oggetti. E’ dimostrata una diversa attivazione neuronale a seconda dell’intenzione del movimento e lo stesso vale nel momento in cui si osserva l’azione svolta da un altro.

 

Tipologie di disprassia

Nella pratica clinica si riscontrano: la disprassia primaria o pura che non è associata ad altra patologia e che non presenta segni neurologici evidenti e la disprassia secondaria associata invece ad altre patologie e sindromi: PCI, Sindrome di Williams, Sindrome di Down, Disturbi Pervasivi dello Sviluppo, ADD, ADHD ossia Disturbi dell’Attenzione con o senza Iperattività. La disprassia evolutiva comprende un’eterogenea classe di deficit all’interno dei disturbi dello sviluppo (Sabbadini, 1995; 2005; Sabbadini et al., 1993). Possiamo trovare un disturbo della coordinazione generale associato o no ad un deficit più specifico di una funzione prassica.

Accanto alla forma generalizzata di disprassia evolutiva vi sono disturbi più focali ad essa strettamente correlati, può infatti succedere che nello stesso bambino si riscontrino uno o più tipi di disprassia, di cui una tipologia è preminente rispetto ad altri segnali più sfumati. Possiamo evidenziare varie forme di disprassia evolutiva (Sabbadini, 1995) che possono essere così classificate:

  • Disprassia generalizzata;
  • Disprassia dello sguardo;
  • Disprassia degli arti superiori;
  • Disprassia del disegno;
  • Disgrafia;
  • Disprassia costruttiva;
  • Disprassia verbale (con o senza disprassia orale).

La valutazione in casi di Disprassia Evolutiva

La valutazione viene fatta da un’equipe costituita da vari esperti: neuropsichiatra infantile, logopedisti, terapisti della neuropsicomotricità, terapisti occupazionali, che insieme collaborano per mettere a punto un profilo funzionale del soggetto ai fini sia della diagnosi che di un progetto di terapia mirato. Importante l’apporto del pediatra per un’ipotesi diagnostica ed un tempestivo invio a chi di competenza.

Attraverso colloqui con i genitori e con un’attenta osservazione il pediatra può monitorare l’evoluzione del bambino ed aiutare i genitori ad individuare eventuali segnali di disprassia evolutiva. Può essere utile dare ai genitori e poi rivedere insieme il questionario accluso al protocollo APCM (Sabbadini L. et al., 2005).

Anche dal questionario Mc Arthur si possono ricavare preziose informazioni soprattutto rispetto all’emergere del gesto e dell’espressione verbale.

La raccolta dei dati anamnestici ha un significato orientativo, ma diventa importante considerare la correlazione tra diversi elementi che, se isolati, non assumono significato di patologia, mentre possono costituire segnali di rischio qualora risultino combinati.

Le funzioni principali da indagare per consentire un inquadramento delle competenze implicate possono essere:

  • Competenze vusuospaziali: assetto visuopercettivo, memoria visiva e visuospaziale, integrazione intersensoriale delle afferenze;
  • Assetto visuocostruttivo: disegno spontaneo e su copia, costruzioni bi e tridimensionali;
  • Prassie transitive e intransitive;
  • Livello intellettivo (profilo);
  • Memoria procedurale;
  • Processi elaborativi e inferenze (assetto componenti frontali).

Tra i test costruiti per la valutazione dell’input visuopercettivo e l’integrazione visuomotoria il TVPS e il TPV rispondono a questo tipo di costrutto.

Il TVPS (Gardner, 1982) esplora componenti dell’ambito percettivo, chiedendo risposte su indicazione (non verbale) e con item che richiedono livelli di integrazione differente; a prove più strettamente percettive (riconoscimento visivo, figura/sfondo, closure visivo, costanza della forma) si affiancano due item di memoria (visiva e visuospaziale) e uno centrato sull’analisi delle relazioni visuospaziali.

Il TVP (Hammil, Pearson e Voress, 1993) è invece centrato sia sulle componenti percettive che su quelle visuomotorie: coordinazione occhio/mano, posizione nello spazio, copiatura/riproduzione, figura/sfondo, rapporti spaziali, completamento figura, velocità visuomotoria, costanza della forma, richiedendo quindi in maggior misura un atto motorio. Altri test sono utilizzati per valutare più precisamente l’orientamento spaziale (Benton, Varney e Hamsher 1992).

Tra le prove più utilizzate per valutare le capacità visuocostruttive basate su richieste di copia grafica da modello, a livello diverso di complessità, sono il VMI (Beery, 1997), il Santucci Bender, la figura di Rey.

La Valutazione della qualità grafica avviene attraverso prove di dettato e prove di copia: “illeggibile”, “quasi illeggibile”, “appena leggibile”, “leggibile”.

Gli stumenti attualmente in uso in Italia sono:

  • BHK: scala sintetica per la valutazione della scrittura in età evolutiva (adattamento italiano dell’originale olandese di Hamstra-Bletz, De Bie e Den Brinker, a cura di Di Brina e Rossini, 2011)
  • DGM-P: test per la valutazione delle difficoltà grafo-motorie e posturali della scrittura (Borean, Paciulli, Bravar e Zoia, 2012), consiste nel far copiare una frase prima nel modo migliore e poi nel modo più veloce (accuratezza, rapidità, leggibilità)
  • BVSCO-2: batteria per la valutazione della scrittura e della competenza ortografica-2 (Tressoldi, Cornoldi e Re, 2013), stima le competenze del bambino nei tre aspetti della scrittura: grafismo, competenza ortografica e produzione del testo scritto.

La valutazione delle competenze intellettive generali è da prevedere in ogni valutazione neuropsicologica. L’analisi dei risultati ottenuti permette di individuare punti di forza che risulteranno fondamentali nell’ impostazione del trattamento riabilitativo e nell’individuazione delle strategie di compenso da facilitare.

Le componenti funzionali possono essere ad es. le strategie e i compensi utilizzati, il tipo di errore, la faticabilità e quindi la tenuta attentiva sul compito, la capacità o meno di sfruttare le facilitazioni e così via. La motivazione, la possibilità di mobilizzare risorse sia personali che ambientali, la disponibilità nei confronti delle proposte e, al contrario, la scarsa autostima, la reiterazione del fallimento e la tendenza ad eludere il compito perché frustrante e mai appagante, costituiscono alcune delle molte altre variabili che possono influenzare sia la valutazione che il percorso riabilitativo in ogni occasione.

 

Il trattamento riabilitativo della Disprassia Evolutiva

Alla luce dei dati relativi all’organizzazione cerebrale, laddove si individui un problema specifico è utile iniziare a porre le basi per un intervento almeno di facilitazione. Considerata la fascia di età, è necessaria una particolare attenzione alle modalità:

  • Sinergie con altri interventi già in atto;
  • Controlli periodici con indicazioni ai genitori nel corso di un follow-up mirato;
  • Individuazione della tipologia degli stimoli che devono essere utilizzati (distanze, dimensioni, colore, multi o monomodalità, numerosità, ecc.) nelle differenti proposte al fine di consentire una più razionale pianificazione degli obiettivi. E’ necessario l’uso di materiale vario, gradito al bambino, e di situazioni piacevoli come facilitazione per il processo individuato;
  • Attenzione alla modalità di presentazione degli stimoli individuati.

Tra gli obiettivi principali di un’attività svolta in età prescolare possono essere esemplificati:

  • Facilitazione di inseguimento e fissazione: oggetti “interessanti” che devono essere raggiungibili dal bambino dopo l’attività di inseguimento visivo;
  • Localizzazione nello spazio: attività di ricerca sia nello spazio prossimo che in quello più lontano, il gioco del “dov’è” spesso si può unire a quello del “cosa è”;
  • Facilitazioni per le condotte anticipatorie: consentono l’attivazione di strategie flessibili e adattive;
  • Indicazioni e facilitazioni per assetto posturale, presa e manipolazione.

Nella fascia di età successiva, diventa possibile perseguire obiettivi specifici, con differenziazione in funzione della patologia di base e del profilo neuropsicologico.

Gli obiettivi del trattamento dipenderanno strettamente da quanto individuato nella valutazione. A titolo esemplificativo:

  • Miglioramento e funzionalizzazione dell’esplorazione visiva;
  • Facilitazioni per l’integrazione spaziale degli stimoli;
  • Integrazione intersensoriale delle afferenze: individuazione di strategie di compenso;
  • Facilitazione per l’organizzazione prassica: consolidamento di procedure e guida alla sequenzializzazione delle attività; miglioramento delle capacità di programmazione; attivazione di processi di verifica sull’operato e di strategie di compenso; facilitazione all’utilizzazione del modello; ampliamento dell’autonomia nell’operatività; uso del compenso/guida verbale;
  • Individuazione, impostazione e avvio all’utilizzazione di ausili (informatici e non) che facilitano ma non sostituiscono la fase di programmazione delle attività.

 

Conclusioni

La riabilitazione è per definizione un evento limitato nel tempo del bambino, e la possibilità di ottenere risultati significativi è legata all’effetto eco, ovvero alla possibilità che nei diversi contesti esistenziali vengano adottate in modo sinergico strategie facilitanti. Pertanto fa strettamente parte del progetto riabilitativo la modalità di raccordo e di interfaccia con i vari contesti esistenziali (famiglia, scuola e ogni altro contesto significativo).

L’obiettivo finale di ogni intervento terapeutico può essere individuato nel miglioramento dello stato di benessere del piccolo paziente, consentendo di estrinsecare le proprie potenzialità e rimuovendo, se possibile, i fattori sfavorevoli o, in alternativa, riducendone ai minimi termini l’impatto.

L’acquisizione di autonomie operative consentirà a ciascun bambino di percorrere la sua strada evolutiva, facendo i conti con l’esistenza di limiti e vincoli, ma avendo appreso che l’esistenza di ostacoli su un percorso non impedisce, di per sé, di raggiungere la meta.

L’impatto della disoccupazione sui vissuti personali – Da una ricerca online di Standupificio

Oltre all’impatto sociale della disoccupazione, la letteratura scientifica evidenzia una relazione significativa tra la mancanza di lavoro e il ritiro sociale, il peggioramento dei livelli di irritabilità, ansia e depressione, l’insorgenza di disturbi psicosomatici e, nei casi più delicati, del Disturbo da Stress Post Traumatico .

 

Premessa: disoccupazione e disturbi psichici

Il crollo del mercato del lavoro e la mancanza della crescita economica nel nostro Paese sono temi purtroppo sempre attuali. Oltre all’impatto sociale della disoccupazione, la letteratura scientifica evidenzia una relazione significativa tra la mancanza di lavoro e il ritiro sociale, il peggioramento dei livelli di irritabilità, ansia e depressione, l’insorgenza di disturbi psicosomatici (Creed et al, 1999) e, nei casi più delicati, del Disturbo da Stress Post Traumatico (NIMH, 2009).

La disoccupazione può essere dunque considerata come una problematica che assurge a vera e propria emergenza sanitaria. Non si dimentichi che in Italia, nel 2014, i suicidi per motivi economici sono risultati incrementati del 59,2% e i tentativi di suicidio più che raddoppiati rispetto all’anno precedente (La Stampa, 2014).

È fuori di dubbio, quindi, quanto chi non riesce a trovare un’occupazione o perde il proprio posto di lavoro possa trovarsi ad affrontare conseguenze emotivamente e clinicamente significative.

All’interno di questo scenario si colloca la ricerca oggetto di questo lavoro, ideata dal team di psicoterapeuti che operano all’interno di Standupificio, iniziativa promossa dall’Associazione “Dentro un quadro” rivolta ai cittadini in disagio per problematiche inerenti il lavoro.

 

Ipotesi e obiettivo

La ricerca si propone di valutare gli effetti della perdita del lavoro o, in generale, dell’inattività lavorativa, sul benessere psicologico delle persone.

All’interno degli appuntamenti di Standupificio a Milano, i dati finora raccolti sulle persone che hanno preso parte ai percorsi psicoeducativi sembrerebbero confermare la presenza di umore depresso e di difficoltà nella regolazione delle emozioni.

Con questo lavoro l’intento è stato quello di esplorare all’interno di un campione più numeroso le emozioni, i pensieri e i comportamenti messi in atto a fronte di una condizione di presenza o di assenza di attività professionale.

Inoltre, ci si è posti l’obiettivo di verificare le eventuali differenze a livello emotivo, cognitivo e comportamentale tra i soggetti disoccupati e i soggetti occupati che però manifestano un’insoddisfazione circa le proprie condizioni economiche, dunque l’entità degli introiti e la qualità della propria vita.

L’ipotesi è che, se da un lato la disoccupazione risulta avere conseguenze sul piano non solo economico, ma anche e soprattutto psicologico e identitario (Sarchielli et al, 1991), la presenza di attività quotidiana con una condizione economica, però, non apprezzata, possa anch’essa indurre una condizione di disagio ed esercitare effetti psicologici e identitari rilevanti.

 

Metodologia e campionamento

È stato strutturato un questionario quantitativo contenente 10 domande. Il questionario è stato caricato online all’interno della piattaforma Survey Monkey e diffuso nei canali social e nella mailing list dell’associazione Dentro un quadro dal 25 maggio 2016 al 15 luglio 2016.

Il titolo dato alla ricerca è stato “Cosa significa avere, rischiare di perdere o perdere il lavoro”, decidendo in questo modo di invitare alla compilazione del questionario indistintamente occupati e disoccupati di tutta Italia, con una strategia di campionamento casuale.

La scelta del canale online e la totale assenza di controllo sul campionamento inevitabilmente hanno fatto sì che i dati raccolti debbano essere “presi con le pinze” e sicuramente non possano essere generalizzati, consentendo all’indagine una funzione esclusivamente pilota ed esplorativa, finalizzata a stimolare domande e non a fornire risposte definitive.

 

Principali risultati

Il campione

Al questionario hanno risposto 429 soggetti, di cui 337 donne (78,55%) e 92 uomini (21,45%), la maggioranza d’età compresa tra i 30 e 40 anni (41,59%). Il 26,64% ha un’età compresa tra 41 e 50 anni, mentre i giovani risultano essere il 13,32%. In riferimento all’area geografica di appartenenza, il campione risulta per la maggior parte residente nel Nord Italia (60,7%), quasi il 30% (29,65) al Sud e nelle isole maggiori e il restante 9,65% nelle aree del Centro.

Il 55,82% del campione è coniugato e/o convivente, l’8,32% è separato e il 35,86% é single. Il 44,42% del campione ha figli.

Il grado di scolarità è molto alto: il 65% del campione dichiara di essere laureato e il 30 % di aver conseguito una specializzazione.

In merito alla situazione lavorativa, “solo” il 20,25% dichiara di versare in una condizione di disoccupazione, ma la percentuale degli occupati con entrate economiche insoddisfacenti è di ben 36,2%.

Nel complesso, indipendentemente dalla presenza di un lavoro, dunque considerando sia gli occupati sia i disoccupati, è stato rilevato un grado di insoddisfazione economica nel 56,8% del campione. Di questi, la maggioranza è rappresentata dai libero professionisti (18,77%), seguiti dai disoccupati (16,79%), da coloro che possiedono un contratto a tempo indeterminato (13,83%), un contratto di solidarietà, o che risultano essere cassaintegrati o pensionati (1%).

Il 17,94% del campione, infine, dichiara di beneficiare di supporto economico e fra questi il 25% si percepisce a rischio di disoccupazione.

 

Le emozioni

A livello emotivo, le differenze fra disoccupati e occupati emergono in modo nitido.

I soggetti in condizione di disoccupazione dichiarano di aver esperito nelle ultime due settimane prevalentemente tristezza (49,33%), rabbia (45,33%) e paura (36%). Senso di colpa (28%), noia (24%) e vergogna (22,67%) si presentano con un’occorrenza inferiore. Solo il 28% del sottocampione dichiara di aver provato anche gioia.

Gli occupati dichiarano invece di sentirsi nel complesso più gioiosi (52,38%) e meno tristi (33,33%) e arrabbiati (36,73%). Curiosità (31,97%) e orgoglio (20,41%) inoltre arricchiscono la rosa delle emozioni sperimentate nelle ultime due settimane.

Gli occupati economicamente insoddisfatti del proprio reddito, d’altro canto, risultano mediamente più felici dei disoccupati e sembrano – in proporzione – provare meno vergogna e senso di colpa (11,11%).

 

I pensieri

Il pensiero che taglia trasversalmente la quasi totalità del campione (39,47% dei disoccupati e 52,05% degli occupati, per un totale di 91,52%) è “posso contare sulle mie capacità”, seguito da “la situazione migliorerà” (disoccupati: 39,47%; occupati: 45,21%, per un totale di 84,68%) e, con un’occorrenza inferiore ma comunque significativa, da “al mondo ci possono essere opportunità per me” (disoccupati: 22,37%; occupati: 28,77% per un totale di 51,14%).

Nel sottocampione dei disoccupati, però, ben il 25% pensa che non cambierà mai nulla, il 19,74% pensa di essere un perdente e al contempo di essere un fallito, e l’11,24% riferisce pensieri afferenti alla sfera della non amabilità (“nessuno mi ama” per il 6,58% e “non sono una persona degna di essere amata” per il 5,26%).

Infine, per il 13,16% dei disoccupatigli altri possono rappresentare una minaccia”, anche se la stessa identica numerosità nel sottocampione riferisce l’esatto opposto, ovvero di pensare di poter contare sugli altri.

Nel sottocampione degli occupati i pensieri di affidabilità degli altri sono presenti in percentuale più elevata (34,25%) e i pensieri depressivi di non amabilità (“nessuno mi ama”: 4,79%; “non sono una persona degna di essere amata”: 4,11%) e negativi verso se stessi sono presenti in percentuali basse e non significative ( “sono un fallito”: 4,11%; “sono un perdente”: 3,42%).

Le persone soddisfatte della propria condizione economica ritengono inoltre di poter fare affidamento sugli altri più di quanto non facciano quelli che non sono soddisfatti delle proprie entrate economiche.

Dentro questo quadro, il “pensare positivo” sembrerebbe comunque nel complesso discriminare poco i sottocampioni. Il campione nella sua totalità sembra infatti essere propenso ad esprimere ottimismo per il futuro e per le proprie capacità anche quando si dichiara insoddisfatto della propria condizione economica, con differenze poco significative tra chi ha un lavoro (45,57%) o chi versa in uno stato di disoccupazione (39,47%). Al contempo, però, è doveroso rilevare che le percentuali dei pensieri che vanno ad intaccare il senso di identità in termini di valore personale e di competenza – “sono perdente” (19,74%) o “sono un fallito” (19,74%) e di amabilità personale (“nessuno mi ama” (6,58%) o “non sono una persona degna di essere amata” (5,26%) – aumentano a partire da uno stato di disoccupazione superiore ai 6 mesi.

 

I comportamenti

Nel sottocampione dei disoccupati la tendenza all’isolamento e al confinarsi all’interno della propria famiglia (“sono stato soprattutto a casa” 44%; “mi sono dedicato alla mia famiglia” 44%) sembra essere prevalente rispetto a comportamenti di apertura sociale (“ho continuato a coltivare i miei interessi” 41,33%; “ho visto i miei amici” 37,33%; “ho praticato sport” 22,67%; “ho frequentato circoli ricreativi/sportivi con cui condivido un interesse” 13,33%). Attività di impegno sociale, come ad esempio fare attività di volontariato (14,67%) o dedicarsi alla politica (2,67%) risultano infatti meno significative.

Nel dettaglio, se a coloro che hanno indicato come prevalente il comportamento di “stare soprattutto a casa” (44%) si aggiungono coloro che hanno risposto con “sono rimasto prevalentemente da solo” (18,67%), la percentuale diventa ben significativa (62,67%).

Nel sottocampione degli occupati, invece, la tendenza prevalente sembrerebbe quella di mettere in atto comportamenti rivolti al proprio ambito familiare (58,16%) o alla cura degli spazi individuali (“vedere i propri amici” per il 51,77%; “coltivare i propri interessi” per il 43,26%; “praticare sport” per il 26,95%) rispetto ad attività di impegno sociale, come ad esempio fare attività di volontariato (9,22%) o dedicarsi alla politica (3,55%), che vengono rilevati con un’occorrenza significativamente più bassa rispetto al sottocampione dei disoccupati. Anche i comportamenti di isolamento sono indicati in percentuali più basse rispetto ai disoccupati (“sono stato soprattutto a casa” 22,70%; “sono rimasto prevalentemente da solo” 7,80%).

Indagando poi i comportamenti messi in atto dagli occupati che dichiarano un’insoddisfazione rispetto alla propria condizione economica, questi riferiscono in misura maggiore – rispetto al restante sottocampione degli occupati – di trascorrere più tempo a casa (33,77%).

La tendenza all’isolamento, intesa come l’accorpamento di comportamenti quali “sono stato soprattutto a casa” e “sono rimasto prevalentemente da solo”, infine, sembrerebbe aumentare con il protrarsi del tempo di inattività: sembrerebbe infatti più significativa per disoccupati da più di quattro anni (77,27%), da 2 a 4 anni (73,68%) e da 1 a 2 anni (70%), rispetto a disoccupati da 6 a 12 mesi (27,27%).

 

Riflessioni conclusive

I dati raccolti sembrano confermare il disagio vissuto dai soggetti che non hanno attualmente un lavoro: le emozioni maggiormente riferite sono tristezza, rabbia e paura.

Sembrerebbe evidenziarsi anche una rappresentazione di sé negativa in termini di valore personale e di amabilità, che sarebbe interessante approfondire soprattutto pensando all’occorrenza significativa di comportamenti ascrivibili alla sfera del ritiro sociale.

Le persone occupate ma insoddisfatte della propria condizione economica sembrerebbero collocarsi “in mezzo” fra disoccupati e occupati soddisfatti: emozioni e pensieri più “felici” di quelli dei disoccupati, comportamenti maggiormente tendenti all’isolamento rispetto a quelli degli occupati soddisfatti.

Come già sottolineato, il campionamento casuale e la modalità di somministrazione online non consentono alcuna generalizzazione dei risultati né pretesa di conferma di evidenze. Concedono però alcune riflessioni, utili per sollecitare ulteriori indagini.

Di un evento come la perdita o l’assenza di lavoro, è infatti probabile conseguenza che persone con moderata capacità di gestione emotiva tendano ad attribuire l’origine delle proprie convinzioni alla grave situazione che le coinvolge; questa convinzione può ostacolare il contatto con la cognizione e diminuire il senso di agency della persona disoccupata limitandone il ricorso a un ragionamento pragmatico (Dimaggio et al. 2013). Potrebbe essere interessante esplorare l’ipotesi che una condivisione con il disoccupato dei principi cognitivo comportamentali di causalità tra cognizione ed emozione possa essere un fattore protettivo per la gestione degli eventi altamente stressanti in ambito professionale.

Nelle persone disoccupate che hanno risposto all’indagine emerge inoltre una distinzione rispetto agli occupati non solo per quanto riguarda la tipologia di comportamenti, ma anche la loro varietà: le persone disoccupate sembrerebbero avere comportamenti più vari e diversificati tra loro di quanti non ne abbiano i lavoratori. Attività di impegno sociale quali il dedicarsi al volontariato o alla politica, ad esempio. Seppur infatti questa informazione possa risultare semplicistica pensando a come gli occupati trascorrano il proprio tempo principalmente a lavoro, nulla vieta che spendano il tempo libero in modi diversificati quanto i disoccupati, fatto che però sembra non verificarsi.

Come diceva Tolstoj riferendosi alle famiglie, mutatis mutandis potremmo dire: “tutte le persone occupate si somigliano, ogni disoccupato è invece disoccupato a modo suo”.

Sarebbe interessante capire in che modo questa “varietà” rappresenti una risorsa protettiva e/o trasformativa, se più per la relazionalità o più per il “fare” che consente o per entrambi.

Post-Truth: la bufala pseudoscientifica del Blue Monday, il giorno più triste dell’anno

La bufala del Blue Monday (il giorno più triste dell’anno) e la lunga vita di una finta ricerca scientifica costruita ad hoc come strumento pubblicitario. Le ragioni per cui, nell’epoca della post-truth, le credenze sul Blue Monday e su altre bufale pseudoscientifiche sono ancora vive e in ottima salute a distanza di anni dalle loro smentite.

 

Imperversano sui social le discussioni sul Blue Monday, quella che pare essersi consolidata come credenza britannica relativa al giorno più triste dell’anno: il terzo lunedì di gennaio. La scelta della data non sembrerebbe casuale ma frutto di una ricerca scientifica condotta dallo psicologo britannico Cliff Arnall, dell’Università di Cardiff, che avrebbe compiuto complessi e diversificati calcoli matematici tenendo in considerazione molteplici variabili, tra le quali: i propositi falliti per il nuovo anno, le spese sostenute per il Natale, il meteo, ecc. Peccato che si tratti di una bufala, nata come campagna pubblicitaria promossa da un’agenzia di viaggi che ha intrapreso un’interessante strategia di marketing: non solo si propone l’acquisto di un prodotto ma la risoluzione di uno stato emotivo generalmente percepito come disturbante.

Lo psicologo Cliff Arnall avrebbe soltanto firmato questo finto studio, con tanto di conclusioni già scritte, prestando il suo nome ed il volto della sua professione alla ricerca. Perché per incentivare un’attività commerciale si decide di ricorrere ad uno studio scientifico costruito ad hoc? Il linguaggio scientifico è percepito come il linguaggio del reale, nell’immaginario comune l’Autorità Garante della legittimità di un sapere. E ciò è certamente un bene, considerando le difficoltà storiche che la psicologia ha fronteggiato prima di affermarsi come disciplina autonoma dotata di un metodo empirico differente dalla speculazione teoretica.

Eppure si dovrebbe sicuramente prestare maggiore attenzione a non lasciarsi abbindolare dalla parvenza scientifica di un oggetto di studio in ogni modo privo di scientificità, basti pensare alla pressoché impossibilità di operazionalizzare le variabili e di generalizzare i risultati ottenibili dallo studio di Arnall. L’attributo “scientifico” non va inteso come un Re Mida che, una volta affisso, trasforma ogni oggetto in sapere dimostrabile e veritiero.

Potrebbero esservi diverse ragioni per pensare che il Blue Monday, qualunque sia la sua origine, continuerà a godere di ottima salute negli anni a venire, offrendo un duplice vantaggio a commercianti e comuni cittadini. I primi potrebbero sperare di trarne un profitto analogo a quello proveniente dal Black Friday, incentivando l’acquisto come terapia ad una condizione emotiva percepita come dannosa. Per tutti, invece, diventa questa l’occasione per rivalutare un’emozione troppe volte bistrattata e ritenuta “negativa”, da cancellare o nascondere, e riflettere dunque su quanto la tristezza rivesta un ruolo significativo nella vita di tutti i giorni, seguendo la strada già percorsa dalla Pixar con il film d’animazione Inside Out che ha invitato a riconoscere ed attribuire un significato differente a questa emozione primaria.

 

Post-Truth: oltre lo smascheramento della bufala del Blue Monday

Ma oltre al senso del Blue Monday può essere utile riflettere su come sia possibile che una ricerca falsata, smascherata, continui a rappresentare un riferimento comune in Gran Bretagna. Non è forse rassicurante sapere che almeno per un giorno all’anno il malessere che possiamo vivere sia scientificamente lecito? È confortante per una volta dover star male per sentirsi a posto, un’occasione in cui la tristezza vissuta e non confessata può addolcirsi cullata da un’etichetta pronta all’uso, vera o falsa che sia.

Il gran beneficio del Blue Monday risiede proprio nella possibilità di concedersi una deflessione del tono dell’umore in un modo (apparentemente) scientificamente legittimo, dunque normalizzato, e condiviso dalla collettività. Non è un caso forse che sia proprio la Gran Bretagna a restare fedele al mito del Blue Monday, la stessa Gran Bretagna che conta un numero significativamente alto di suicidi, in media 13 al giorno secondo le stime riportate di recente dal Corriere della Sera.

Tristezza non vuol dire depressione, un’emozione non è patologia, ma prendendo a prestito il concetto di rappresentazione sociale (Moscovici) potremmo suggerire che il tema depressivo venga tradotto nella quotidianità fin troppo spesso come esacerbazione di un vissuto di tristezza, una semplificazione estrema che traduce la psicopatologia nel linguaggio della psicologia del senso comune, spicciolo ma comprensibile. Una ricerca inventata, e con uno scopo pubblicitario, potrebbe essersi radicata nel sentire comune per rappresentare l’opportunità di manifestare una preoccupazione che interroga ed avvicina un mondo altro, una realtà clinica a volte astrusa che spinge per esprimersi e farsi ascoltare.

 

La popolarità di studi pseudoscientifici o clamorosamente falsi

Spesso il successo e la popolarità di uno studio risultano assolutamente indipendenti dalla sua veridicità o dalla correttezza metodologica, ma a pesare in modo significativo sono le attese del lettore, che possono trovare conferma in uno scritto scientificamente inammissibile. La letteratura è tristemente ricca di “falsi d’autore”, di pseduo-studi talvolta premeditati e con un chiaro fine politico che rimangono in vita nonostante le smentite.

 

Il caso di Mark Regnerus e dello studio sui figli di coppie omosessuali, finanziato da organizzazioni cattoliche

Alcuni di questi sono stati anche pubblicati su riviste scientifiche, come nel caso dello studio di Mark Regnerus, sociologo dell’Università del Texas di Austin, promosso come autore della più grande ricerca sullo sviluppo dei figli di genitori omosessuali che ha sorpreso l’intera comunità scientifica riportando dati in netto contrasto con tutti gli studi precedentemente condotti sul tema. Le conclusioni di Regnerus appaiono drammatiche: i figli di genitori omosessuali apparirebbero più inclini al suicidio ed al tradimento, propensi a sviluppare disturbi mentali ed a riscontrare difficoltà lavorative. Lo studio, oltre ad essere stato finanziato da organizzazioni cattoliche con una netta posizione in merito all’argomento, ha riportato risultati clamorosi grazie ad un’accurata selezione di un campione non rappresentativo della comunità LGBT in grado di falsarne i risultati; lo stesso Regnerus ha riferito, in seguito alle numerose critiche sollevate da accademici successivamente alla pubblicazione dello studio: “Ho parlato di madri lesbiche e padri gay quando in effetti non sapevo niente sul loro orientamento sessuale”(per approfondire: http://27esimaora.corriere.it/articolo/genitori-gay-se-la-scienza-sceglie-di-alimentare-il-pregiudizio/).

Gli errori metodologici commessi hanno invalidato ogni possibile attendibilità dello studio, eppure lo studio di Regnerus continua ad essere menzionato da chi si oppone all’omogenitorialità ogniqualvolta si accende il dibattito. Vi è un’attitudine a considerare la ricerca qualitativa, in ambito clinico e sociale, più facilmente esposta al rischio di ingerenze da parte dello sperimentatore rispetto alla ricerca neuroscientifica, apparentemente protetta dall’inespugnabile difesa del neuroimaging che illusoriamente elimina il ricercatore dalla scena sperimentale.

 

Le neuroscienze come fonte di legittimazione inconfutabile

Le neuroimmagini hanno conseguito lo scettro del sapere attendibile, certo e oggettivo, costituendosi come la più autorevole fonte del sapere da cui si vorrebbe veder validata ogni tesi. Non vi deve essere il rischio di restare travolti dalle potenzialità di queste tecniche dimenticando che si tratta di strumenti sensibili che restituiscono un dato su cui lo sperimentatore interviene direttamente, con il setup sperimentale, il controllo delle variabili di disturbo, l’acquisizione dei dati e soprattutto, in ultima istanza, con l’analisi dei dati, dove spesso l’applicazione inesatta di metodi di inferenza statistica conduce a risultati troppe volte non replicabili (Legrenzi, Umiltà 2009). L’atteggiamento pregiudiziale del lettore influenza notevolmente la lettura del dato riferito, a tal punto che alcuni studi godono del vantaggio di essere ritenuti attendibili a priori in virtù degli strumenti adoperati (TAC, MEG, PET, fMRI). Uno studio (McCabe e Castel, 2008) ha rilevato come la sola presenza di immagini cerebrali sia sufficiente a trasformare un contenuto fittizio in un’informazione credibile.

(a questo proposito si veda: Neurolatinorum e neurodotti: chi utilizza il linguaggio delle neuroscienze per ottenere autorità scientifica, NdR)

Gli autori hanno indagato il giudizio espresso da studenti universitari nel valutare la credibilità logica di articoli di neuroscienze cognitive totalmente inventati che potevano presentare soltanto testo privo di illustrazioni, testo con istogrammi a barre oppure testo corredato da immagini cerebrali a colori. I risultati mostrano una significativa tendenza a considerare più attendibile e veritiero un testo corredato da immagini rappresentanti aree cerebrali piuttosto che un articolo che ne sia privo, a parità di contenuto. La rappresentazione di un cervello diventa dunque la firma di una garanzia di autenticità dell’informazione, accrescendo la qualità del prodotto.

 

Credere al blue monday nonostante tutto: la necessità di confermare una propria teoria sul mondo

Bisogna approcciarsi alla lettura con senso critico, smascherando le attese e l’atteggiamento pregiudiziale che potrebbe influenzare il diverso peso attribuito agli elementi del testo e la conseguente interpretazione. Esaminare le fonti, comparare un articolo con studi analoghi presenti in letteratura, sono passaggi necessari tanto per chi scrive e divulga quanto per colui che si informa. Il seguito delle pseudoscienze, dell’astrologia o dei tarocchi potrebbe essere motivato dalla stessa ragione del successo del Blue Monday, ricco di anomalie metodologiche che annullano ogni pretesa di scientificità; intercettano e soddisfano un bisogno più forte della ricerca di una verità empirica: la necessità di confermare una propria teoria sul mondo.

Effetti di alcuni antibiotici sulle lesioni cerebrali: evidenze sperimentali su animali

Gli effetti di antibiotici sulle lesioni cerebrali: dato che non esistono farmaci per il trattamento queste lesioni, i ricercatori hanno dimostrato che alcuni antibiotici– che inibiscono la risposta infiammatoria del cervello- sono in grado di dare benefici agli animali che hanno subito un trauma alla testa. Tuttavia secondo un nuovo studio della Drexel University College of Medicine, questo trattamento sembra influenzare negativamente quella parte di cervello che ancora non si è sviluppata.

 

I risultati controversi sugli effetti degli antibiotici sulle lesioni cerebrali: gli studi sugli animali

Una delle principali cause di morte e invalidità nei neonati degli Stati Uniti, sono le lesioni cerebrali traumatiche (TBI) che secondo il Center for Desease Control and Prevention, colpiscono più di mezzo milione di bambini ogni anno.

Dato che non esistono farmaci per il trattamento di queste lesioni, gli scienziati hanno dimostrato che alcuni antibiotici– che inibiscono la risposta infiammatoria del cervello- sono in grado di dare benefici agli animali che hanno subito un colpo alla testa.

Secondo un nuovo studio della Drexel University College of Medicine, questo trattamento sembra influenzare negativamente quella parte di cervello che ancora non si è sviluppata. Si è notato, infatti, che quando ai ratti neonati sono stati somministrati degli antibiotici dopo la lesione, questi hanno esacerbato i deficit cognitivi. Il Professor Ramesh Raghupathi – coordinatore dello studio- ha dichiarato che il cervello in via di sviluppo non è paragonabile ad uno completamente maturo. Questo studio infatti suggerisce che gli interventi di somministrazione degli antibiotici potrebbero non essere una strategia praticabile per il trattamento delle lesioni cerebrali nei neonati.

La minociclina è un farmaco che riduce l’attivazione delle microglia (le cellule immunitarie primarie del cervello e del midollo spinale che lo proteggono dagli agenti patogeni estranei). L’inibizione microgliale sembra essere una strategia efficace per prevenire i danni cerebrali a lungo termine, dal momento che alcuni studi hanno dimostrato la presenza di un’associazione tra la degenerazione neuronale e una maggiore attività delle cellule gliali.

Nel cervello di un animale in età “pediatrica”, gli scienziati han potuto notare una risposta microgliale che somigliava a quella che si vede in un cervello adulto con morte cellulare. Si potrebbe quindi ipotizzare che se si blocca l’attività microgliale si dovrebbe vedere un miglioramento della funzione cerebrale.

Quando Raghupathi e il suo gruppo di ricerca han trattato i ratti appena nati con minociclina con una somministrazione giornaliera per tre giorni, han visto che la loro attività cerebrale non migliorava. Quando successivamente i ricercatori hanno aumentato il dosaggio a nove giorni invece che tre, i modelli animali hanno mostrato significativi problemi di memoria e di altri deficit comportamentali.

 

Considerazioni e possibili ricerche future

Il Dr. Raghupathi crede che il motivo per il quale l’antibiotico abbia avuto effetti negativi sui ratti neonati sia perché le microglia svolgono un ruolo fondamentale durante lo sviluppo cerebrale. Gli antibiotici, prendendo di mira le microglia, sembra che impediscano il normale processo di maturazione del cervello.

Il Dr. Raghupathi paragona le microglia ad un rastrello da giardino che cancella i detriti fuori dal prato per assicurarsi che l’erba cresca correttamente, che elimina le cellule morte per migliorare lo sviluppo cerebrale.

Nei prossimi studi gli scienziati hanno intenzione di aspettare due o tre settimane a seguito della lesione, dando al cervello dell’animale più tempo per svilupparsi prima di somministrare il trattamento con questa tipologia di antibiotici.

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