expand_lessAPRI WIDGET

Diagnosi e terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia in età evolutiva – Report dal corso della Fondazione Don Gnocchi

Il settore formazione della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus ha organizzato e realizzato l’evento rivolto a psicologi, medici e terapisti dell’Età evolutiva. L’evento si è svolto presso il Centro Santa Maria al Castello a Pessano c/B (MI).

 

La direzione scientifica dell’evento è stata affidata al Dr. Flavio Cimorelli, Medico Neuropsichiatra infantile e la conduzione alla Dr.ssa Alessia Incerti, psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale e Practitioner in EMDR. La dottoressa è consulente presso la Fondazione Don Carlo Gnocchi, Pessano (MI), Didatta presso Studi Cognitivi Spa e Responsabile di “Equipe Kairos”.

“…Non si fugge perché si ha paura ma si ha paura perché si fugge…”
(Krohne 1993; Ledoux 1996; Oatley, Johanson Laird 1987).
“Le gazzelle che hanno voluto verificare sperimentalmente tale ipotesi hanno effettivamente provato un senso di grande serenità restando immobili di fronte alla leonessa che le annusava ma non hanno avuto modo di trasmettere geneticamente tale apprendimento a una ricca figliolanza.
Tuttavia ciò è certamente vero soprattutto per gli uomini spesso tutta la vita in fuga da pericoli non oggettivi e credono che fuggire sia cosa buona…”
(Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002; Pardighe, Mancini 2008)

 

I disturbi d’ansia nell’infanzia

Nella prima parte della giornata la dr.ssa Alessia Incerti, ha illustrato le caratteristiche principali dei disturbi d’ansia nell’infanzia secondo la nosografia del DSM 5.

I disturbi d’ansia corrispondono a diverse paure, convinzioni, previsioni negative, preoccupazioni su come potrebbero verificarsi gli eventi temuti e su come fronteggiarli, essi sono sempre più diffusi in età evolutiva e causano disagio non solo nel bambino, ma in tutta la famiglia.

Il DSM 5 descrive i disturbi d’ansia in una categoria specifica e lungo il continuum del ciclo di vita. Essi sono caratterizzati da: sentimenti pervasivi di preoccupazione o ansia con evidenti sintomi fisici, difficili da controllare e che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno sei mesi.

In bambini e adolescenti: preoccupazioni per impegni scolastici o per prestazioni in generale, come gli impegni sportivi, o gli impegni sociali.
Può essere presente una tendenza al perfezionismo che genera uno stato di tensione, che può causare impegno eccessivo o comportamenti di evitamento.

L’ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, scolastico, o di altre aree importanti;
– costante sentimento d’oppressione, “un peso”;
– atteggiamento di attesa di un avvenimento vissuto come spiacevole ed imprevisto;
– sintomi somatici soprattutto nei bambini.

La dottoressa ha descritto nello specifico il funzionamento del bambino ansioso, quali sono i pensieri più tipici, gli errori cognitivi, i comportamenti e i fattori di mantenimento.

Allen e Rapee (2001) individuano il circolo vizioso di trasmissione della paura dal genitore al bambino e dal bambino al genitore, cosa che spesso rende impossibile stabilire dove risieda il problema primario. Spesso i pensieri dei bambini sono infatti conseguenza dei pensieri dei genitori. Non esiste un bambino ansioso, esiste una “famiglia ansiosa”.

 

La terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia nell’infanzia

Nel pomeriggio la relatrice, dott.ssa Alessia Incerti, ha illustrato i principi fondamentali della terapia cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia secondo gli assunti della REBT. La terapia razionale emotiva comportamentale (Rational Emotive Behavior Therapy, REBT), fondata da Albert Ellis negli anni Cinquanta del secolo scorso, è uno dei primi esempi di pratica psicoterapeutica pienamente cognitiva. Come si evince dall’attuale denominazione, è evidente la vocazione integrativa di quest’approccio, che unisce tecniche cognitive, emotive e comportamentali. Ellis riteneva che la sofferenza mentale derivasse da “elaborazioni verbali esplicite che il soggetto si autoinfligge consapevolmente”. Ellis è riuscito a sfiorare la possibilità di disegnare un moderno modello di psicopatologia metacognitiva, in cui la sofferenza emotiva dipende da valutazioni disfunzionali che il cliente fa dei propri stati mentali più che del mondo esterno (Ruggiero e Sarracino, 2014, p. XI, XIII).

Ampio spazio è stato dato alla metodica dell’ABC applicata ai bambini, con suggerimenti anche per rappresentare graficamente la relazione tra eventi, pensieri, emozioni e comportamento.

E’ importante introdurre sia i bambini che i genitori al collegamento tra pensieri e emozioni (ABC) e al modello sulla natura e sulle cause dell’ansia, si insegna loro ad attribuire un nome alle emozioni, attraverso immagini suggestive come il fiore di Plutchik o le vignette di Di Pietro; a collegare le emozioni alle situazioni vissute da altri attraverso storie, fumetti, role play; quantificare l’intensità delle emozioni con l’ausilio di un termometro; adoperare il modello ABC a 3 colonne o a disegni, presentato come un cuore da riempire con l’emozione provata; introdurre il concetto di distorsione cognitiva o “virus”.

Il programma Cool Kids, protocollo di trattamento manualizzato dei Disturbi d’Ansia nei bambini e negli adolescenti rappresenta una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale “Coping Cat” di Kendall e “Coping Koala” di Paula Barrett e Ron Rapee (1996),
esso si basa su un modello d’ansia in cui fattori genetici, stile genitoriale, vulnerabilità individuale e eventi esterni concorrono a generare il disturbo d’ansia; per ognuno dei fattori il protocollo prevede una tranche di terapia che va a lavorare sugli elementi disfunzionali.

E’ un trattamento evidence-based e la sua efficacia è basata su ricerche effettuate in un decennio alla Macquarie University, al Royal North Hospital e alla Queensland University.

I risultati di tali studi hanno dimostrato che: più dell’80% dei bambini che hanno completato il programma sono diagnosis-free o migliorati sensibilmente. Questi effetti si mantengono anche nei 6 anni successivi al trattamento.

Il programma prevede l’inclusione dei genitori ed è basato sull’acquisizione di competenze su come gestire meglio l’ansia, è stato infatti dimostrato che tale coinvolgimento produce risultati migliori rispetto a trattare il bambino da solo.

Il lavoro con i genitori, considerati i massimi “esperti” del proprio bambino, prevede un intervento che riduca l’iperprotettività e favorisca il supporto all’esposizione. Nello specifico, gli obiettivi consistono: nell’acquisire competenze di gestione dell’ansia dei bambini agendo sui fattori di mantenimento del disturbo come l’evitamento, incoraggiandoli all’indipendenza; rinforzare coerentemente i progressi e fornire supporto nei momenti di difficoltà; condividere con il clinico obiettivi realistici; esplorare nuove modalità di interagire con i comportamenti ansiosi del bambino.

Il piccolo paziente apprende invece nuove strategie di gestione dell’ansia; impara a ridurre l’evitamento delle situazioni temute ed affrancarsi dai genitori e dal terapeuta, utilizzando le competenze e conoscenze acquisite.

Gli effetti del programma sono costanti anche per bambini con alti livelli di condizioni di comorbilità, bambini svantaggiati e basso ambiente socioculturale; esso è indirizzato alle famiglie ed utilizza piccoli gruppi, sono stati raggiunti buoni risultati anche su singole famiglie di bambini e adolescenti. I gruppi di partecipanti sono costituiti da circa 5 bambini dello stesso range di età (6/8; 8/10; 11/13; 14/18) con diagnosi di Disturbo d’Ansia (le comorbilità come la depressione possono venire accettate ma devono essere affrontate prima di intervenire sull’ansia), suddivisi per genere; più che per disturbo è fondamentale che i gruppi siano omogenei per livello di gravità. E’ prevista la partecipazione di almeno un genitore a tutti gli incontri.

Ogni sessione tratta un aspetto specifico del trattamento in modo graduale e razionale, i concetti di psicoterapia dell’adulto sono tradotti in formati adatti ai bambini che permettono di lavorare a un livello più pragmatico.

La ristrutturazione cognitiva viene introdotta già nella seconda sessione, attraverso la metafora del detective: ai bambini viene detto che impareranno a fare gli investigatori, che indagheranno sui pensieri che causano la loro paura e che i loro “strumenti del mestiere” saranno delle domande specifiche da utilizzare per contrastare i pensieri dannosi. Dovranno quindi allenarsi sia in seduta sia con homework in concomitanza di eventi che provocano loro emozioni negative ed intense; trovare i pensieri irrazionali attraverso il “detective thinking”, applicare le tecniche apprese per trovare prove contro le proprie previsioni in base all’esperienza passata; mettere in discussione (disputing) i pensieri disfunzionali; generare “pensieri calmanti” basati su una valutazione realistica dell’evento ansiogeno; dopo aver stabilito la gerarchia delle situazioni temute, i piccoli pazienti potranno cimentarsi in esperimenti ed esposizioni graduali allo scopo di consentire loro di capire che la situazione non è minacciosa e che hanno le capacità di affrontarla, illustrare ai genitori la non terapeuticità dell’evitamento.

Dopo le esposizioni le ultime sessioni del programma si incentrano sull’insegnamento di abilità sociali e sul consolidamento di quanto appreso.
La dottoressa ha inoltre arricchito la giornata formativa con numerosi esempi clinici dati dalla sua decennale esperienza di lavoro nell’ambito della neuropsichiatria infantile.

Vivere con l’epilessia: fattori implicati nel benessere psicologico

In questo articolo saranno discussi gli aspetti psicologici legati all’ epilessia: la consapevolezza di essere a rischio di sviluppare crisi epilettiche, infatti, genera diversi cambiamenti nell’immagine di sé e nelle scelte concrete che bisogna prendere quotidianamente.

 

Diversi studi hanno evidenziato le criticità che agiscono sulla personalità e sulla qualità della vita delle persone con epilessia. Riconoscere l’impatto dell’ epilessia sulla psiche dei pazienti permette ai curanti e ai famigliari di prendersi cura anche di quegli aspetti legati al disturbo che possono essere modificati e che aiutano ad accresce il benessere delle persone. Valutare e intervenire sull’impatto psicologico di una patologia che può avere diversi gradi di severità è sicuramente di primaria importanza.

 

Epilessia e percezione di sé

Alcune ricerche mostrano che la percezione di sé, insieme alle restrizioni sociali, influenzano la qualità della vita (Quality of life – QOL) più dei fattori oggettivi collegati all’ epilessia come la frequenza e il tipo di crisi (Hermann et al., 1992).

Lo stigma percepito può variare la sua influenza sulla percezione che il soggetto ha di sé grazie all’effetto protettivo dell’autostima, che è stato ricondotto anche allo sviluppo di problemi psicologici e psichiatrici. A sua volta anche ricevere informazioni adeguate sul proprio stato di salute aiuta a sostenere l’autostima del paziente. Queste premesse riportate da Collings (1995) conducono allo studio delle variabili che influenzano la percezione di sé, dove si è visto che il benessere psicologico, il controllo sulle crisi, seguire una politerapia e una diagnosi incerta aumentano l’impatto dell’ epilessia sulla percezione di sé.

In uno studio (Spector et al., 2000) sulla percezione di sé rispetto all’arrivo di un episodio critico, il 47% dei soggetti riusciva in alcuni casi ad arrestare gli attacchi, e il 15% poteva auto-indursi le crisi. Inoltre, un 65% dei soggetti sapeva identificare uno stato di basso rischio in cui era meno propenso a sostenere una crisi. Per acquisire maggiori certezze sulla possibilità di controllare le scariche si dovrebbero eseguire studi con elettroencefalografia al fine di stabilire l’autenticità di questi comportamenti. La credenza di poter controllare l’insorgere delle crisi infatti potrebbe svelare il sottostante desiderio di acquisire controllo su di esse. È noto uno studio (Woods et al., 2006), su un paziente che descriveva uno specifico stato emozionale capace di indurre in lui le crisi, in cui grazie al monitoraggio video/elettroencefalografico è stato possibile confermare l’episodio e smentire i sospetti di crisi non-epilettiche.

Le persone con epilessia possono temere di venire identificate dagli altri con la propria condizione e di sentirsi in una situazione di svantaggio non superabile, legata al rischio di dimostrare i suoi effetti in modo involontario e indipendente dagli sforzi messi in atto. Per evitare tali effetti sociali possono tentare di nascondere la propria condizione agli altri e, per ridurre l’ansia e l’angoscia relativa agli svantaggi delle crisi, c’è chi ricorre alla negazione della realtà anche a se stesso, adottando così un meccanismo di coping rivolto all’evitamento.

A questo concetto si collega la divisione operata da Brown e Nicassio (1987) di due principali strategie di coping, le strategie attive (rappresentate dal tentativo del paziente di controllare il proprio dolore e mantenere un buon livello funzionale), e le strategie passive di coping (per cui il paziente si affida agli altri e permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore).

 

La  Self-efficacy e il locus of control nella sindrome epilettica

La convivenza con una patologia cronica, quale l’ epilessia e il diabete, ma anche con sintomi psicologici come disturbi dell’umore o attacchi di panico, può ripercuotersi negativamente sui meccanismi cognitivi della self-efficacy (autoefficacia) e del locus of control. Questi due costrutti indicano la percezione personale di essere artefici del proprio destino, padroni delle proprie scelte e consapevoli che le proprie decisioni e azioni contino nel perseguire un fine.

Che cos’è il Locus of Control

Il locus of control è un costrutto individuato dallo psicologo Julian B. Rotter nel 1954, indica in che misura gli individui credono di essere implicati nella generazione degli eventi che li riguardano. Le applicazioni più frequenti si hanno nella psicologia della salute, dove il locus of control viene correlato all’obesità, alla salute mentale da scale specifiche che lo misurano.

Il locus of control può caratterizzarsi per essere orientato all’interno o all’esterno. Un locus of control interno è associato alla percezione di essere in grado di poter influire in una determinata situazione. La persona con un locus of control orientato internamente ritiene di avere le risorse e le competenze necessarie per raggiungere il risultato auspicato. Per esempio si può essere fiduciosi di riuscire ad adottare i comportamenti che possono garantire la propria sicurezza se si dovesse avere una scarica epilettica, oppure di poter mantenere gli impegni famigliari o lavorativi nonostante gli effetti collaterali dei farmaci.

Un locus of control maggiormente orientato all’esterno predispone la persona a considerarsi sottoposta al fato e al destino, oppure a dare eccessivo valore agli eventi esterni immutabili. Potrebbe prevalere l’idea che le crisi non sono controllabili né gestibili, per cui si potrebbe saltare l’assunzione dei farmaci o rinunciare a perseguire i propri scopi nella vita.

Secondo i teorici di questo campo il locus of control può spiegare le differenze tra le persone per quanto riguarda l’essere ottimisti, pessimisti, previdenti o rassegnati essendo queste dovute alla percezione personale degli eventi. Un orientamento di locus of control interno è considerato un predittore positivo per la gestione della malattia e l’adesione alla cura da parte del paziente.

D’altro canto l’eccessiva auto-responsabilizzazione potrebbe portare a un elevato senso di colpa e paralizzare le iniziative, in questo senso bisognerebbe ispirarsi a un sistema di credenze equilibrato ed adattivo, cioè funzionale al benessere dell’individuo, avendo anche aspetti propri del locus of control esterno, per alleggerire il senso di colpa.

I pazienti con locus of control interno mostrano un maggiore senso di autonomia e competenza, tale atteggiamento ha effetti positivi sul controllo della cura di sé (self-care), sull’efficacia del trattamento e sulla sfera psicologica del soggetto. Una ricerca più recente (Baker, 2002) evidenzia correlazioni positive tra Health-related Quality of Life e locus of control in adulti con epilessia.

L’esternalizzazione del locus of control a causa dell’ epilessia è emersa dal confronto con un gruppo di controllo così come in un gruppo di pazienti con epilessia a cui non siano state insegnate risorse di coping focalizzate (Krakowf et a., 1999). La gravità delle crisi è risultata la caratteristica clinica più importante nel predire i livelli di autostima e l’orientamento del locus of control in uno studio con persone con crisi parziali refrattarie, negli adolescemti invece l’impatto più significativo era dato dalla frequenza, con un effetto modulatore positivo dovuto alla conoscenza della propria condizione e dell’ epilessia in generale (Krakowf et a., 1999).

Un locus of control esterno è stato ritenuto responsabile dello sviluppo di problemi psicologici nell’epilessia, e correlato statisticamente a patologie di tipo depressivo, soprattutto se i pazienti soffrono di crisi intrattabili (Krakowf et a., 1999). I fattori che mantengono un locus of control esterno nell’ epilessia sono stati individuati nello stile parentale (atteggiamento dei genitori), nella gravità e frequenza delle crisi e nella percezione che il paziente ha di sé e della malattia.

I bambini con epilessia potrebbero sviluppare una scarsa autostima, isolamento sociale e problemi di comportamento, a causa della mancanza di controllo sul proprio corpo e della ridotta indipendenza rispetto ai coetanei (Collings, 1995).

Tra gli 8 e i 14 anni si inizia ad affermare una consapevole voglia di controllo sugli eventi, e si diventa maggiormente interni (Krakowf et a., 1999). Affrontare in fase evolutiva una condizione cronica come l’ epilessia favorisce invece l’acquisizione di una fuga verso l’esternalità, per questo bisognerebbe puntare su strategie di coping basate sulla padronanza della self-efficacy e delle proprie risorse emotive, che favoriscano l’autostima e le relazioni sociali.

 

Il Senso di Autoefficacia (Self Efficacy)

La Self-Efficacy è stata teorizzata da Albert Bandura che ha sviluppato anche la “Teoria dell’apprendimento sociale“. Questo costrutto indica che nonostante una persona possa ritenere che gli eventi sono da lui determinati (locus of control ), può ritenersi o meno in grado di agire per produrre tali eventi. La Self-Efficacy è la credenza di essere capaci di comportarsi in modo da ottenere un risultato. L’autoefficacia corrisponde a quanto ci sentiamo capaci di produrre un determinato risultato, come l’intraprendere un primo passo verso un obiettivo.

La self-efficacy è misurabile attraverso apposite scale, come quella di Sherer, Madux et al. (1982), e quella di Tedman et al. (1995). Questi ultimi in una ricerca su una popolazione di adulti con epilessia hanno notato che alti livelli di self-efficacy correlano con una maggiore autostima ed i soggetti avvertono minore stigma e limitazioni, mentre bassi punteggi si associano a depressione ed ansia.

Bandura ha sottolineato anche la differenza che corre tra self-efficacy ed autostima (self-esteem), bassa self-efficacy (“non sono capace”) non determina bassa autostima (“sono un incapace”), per esempio; possiamo ritenerci negati a tennis e non ritenerlo un problema perché non ci interessa eccellere in questa disciplina.

Convivere con patologie croniche concorre a sviluppare credenze fataliste rispetto al controllo della propria vita (Locus Of Control esterno), in ogni circostanza, anche quando sarebbe ovvio ritenere l’opposto. Vedere la guarigione come un traguardo irraggiungibile può ridurre la motivazione a seguire le cure. La self-efficacy influenza la credenza che iniziare un comportamento positivo per la salute porti benefici.

E’ possibile predire l’investimento personale alla rinuncia di comportamenti rischiosi, nonché la persistenza nello sforzo di cambiare comportamento nonostante le barriere che minacciano la motivazione. Pertanto è necessariamente implicata nella cura della salute.

Bandura individua dei fattori capaci di influenzare la self-efficacy individuale:

  • Esperienze di successo/insuccesso ed il modo in cui vengono visualizzate e richiamate in futuro.
  • Modellamento su persone prese come esempio: se queste falliscono l’impatto sarà negativo, e viceversa, sulla persona che le osserva.
  • Persuasione sociale, ossia i messaggi incoraggianti o demotivanti che gli altri ci danno. In genere è più facile essere demotivati che motivati dalle opinioni altrui.
  • Fattori psicologici. I sintomi fisiologici come paura, nausea, tremore o stanchezza e come essi vengono ricondotti a una debolezza personale oppure ritenuti normali per la situazione e non deleteri al fine del compito da svolgere.

Abbiamo visto che esistono alcuni aspetti psicologici significativamente correlati al benessere della persona con epilessia. Valutare questi aspetti e prestare un supporto psicologico idoneo (sia da parte dei medici e degli psicologi, che dei famigliari) può fare la differenza rispetto alla qualità della vita della persona e anche rispetto all’adesione alla terapia prescritta.

Tecniche di rilassamento nei pazienti cardiopatici

Per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della cardiopatia ischemica vengono attualmente proposti interventi non esclusivamente medici, ma anche psicologici, tra cui le tecniche di rilassamento come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e la mindfulness.

Silvia Vegetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano

 

 

Cardiopatia: caratteristiche e fattori di rischio

Il termine cardiopatia viene usato per indicare qualsiasi malattia che interessa il cuore, sia essa di natura anatomica o funzionale. La cardiopatia ischemica rappresenta la principale causa di morte nel mondo occidentale e comporta una riduzione dell’apporto di sangue e ossigeno al cuore con conseguente sofferenza d’organo. Quando in una sezione di muscolo cardiaco l’apporto di sangue ossigenato si riduce per un tempo protratto o cessa del tutto, i processi metabolici di quella sede si interrompono e si ha l’infarto con accumulo di materiale catabolico (necrosi). La patogenesi dell’ischemia e dell’infarto miocardico, è, nella maggior parte dei casi, legata all’accumulo di materiale lipidico che si deposita sulla parete arteriosa, modificandone l’elasticità e portando al processo noto come aterosclerosi.

L’accumulo lipidico è responsabile del progressivo restringimento del vaso e della conseguente riduzione del flusso sanguigno, fino alla possibile occlusione completa per la formazione di coagulo lipidico-fibroso (trombosi). La riduzione di flusso, e più ancora la sua cessazione, sono responsabili dei principali sintomi dell’infarto miocardico, come il dolore intenso.

Altre volte dalla placca ateromatosa si può staccare del materiale che a sua volta migra andando ad occludere un vaso più piccolo (embolia). Quando il vaso viene parzialmente ostruito, il flusso sanguigno residuo è comunque sufficiente a garantire un adeguato apporto metabolico nel muscolo cardiaco a riposo. Quando però per uno sforzo fisico, un pasto abbondante o un’emozione intensa, l’attività metabolica cardiaca aumenta, quella stessa quantità di sangue diventa insufficiente e compare ischemia spesso associata a dolore.

La riduzione dell’attività fisica o dell’attivazione emozionale si accompagna solitamente ad un ripristino di circolo adeguato e alla conseguente cessazione del dolore. Col progredire dell’ostruzione l’apporto metabolico al cuore può diventare insufficiente anche a riposo.

I principali fattori di rischio predisponenti, facilitanti o precipitanti la malattia sono:

  • elevati livelli di colesterolo
  • ipertensione arteriosa
  • fumo di sigarette
  • predisposizione familiare
  • abitudini alimentari e stili di vita scorretti
  • eccessiva esposizione ad eventi psicosociali stressanti

 

Il ruolo dell’ipertensione arteriosa e dello stress

La pressione arteriosa (PA) è la forza esercitata dal sangue contro le pareti dei vasi sanguigni. La PA oscilla tra un valore massimo (pressione sistolica) e un valore minimo (pressione diastolica) corrispondenti alle fasi di contrazione e rilassamento cardiaco. Quando i valori pressori risultano stabilmente elevati rispetto ai valori normali della popolazione di riferimento, si parla di ipertensione arteriosa. L’Organizzazione mondiale della sanità stabilisce, quali valori che la PA non deve superare in un individuo adulto, 140mmHg per la sistolica e 90mmHg per la diastolica.

L’ ipertensione arteriosa è largamente determinata da fattori familiari-ereditari, alimentari (eccesso di sale e grassi nella dieta), e abitudini di vita (fumo, sedentarietà, ecc.), ma soprattutto negli stadi iniziali, può essere influenzata dall’iperattivazione del sistema nervoso autonomo simpatico per effetto di situazioni emozionali e stressanti.

Lo stress può essere generato da qualunque stimolo fisico, psicologico, biologico (definito stressor) che produce un cambiamento e che comporta un adattamento da parte dell’individuo. La risposta allo stress prevede 3 fasi: allarme, resistenza (o adattamento) ed esaurimento (sindrome generale di adattamento). Queste tre fasi si susseguono nell’organismo durante ogni reazione da stress. E’ quindi un meccanismo difensivo con cui l’organismo si sforza di superare le difficoltà per poi tornare, al più presto possibile, al suo normale equilibrio (omeostasi).

La reazione allo stress può essere acuta, di breve durata, consistente in una rapida fase di resistenza cui segue un quasi immediato e ben definito ritorno alla normalità; oppure prolungata (stress cronico), con una fase di resistenza che può durare da molti minuti a giorni, settimane, anni e, per qualcuno, tutta la vita. In condizioni di stress acuto, l’informazione relativa allo stressor, percepita dagli organi di senso, raggiunge rapidamente l’amigdala che determina una reazione di attacco o fuga immediata, prima ancora che lo stimolo venga elaborato a livello cognitivo.

L’amigdala invia poi segnali all’ipotalamo che rilascia nell’ipofisi (ghiandola endocrina) il fattore rilasciante la corticotropina, determinando da parte dell’ipofisi l’immissione in circolo dell’ormone adrenocorticotropo; questo a sua volta stimola le ghiandole surrenali affinché liberino adrenalina, noradrenalina e glucocorticoidi, soprattutto cortisolo (l’ormone dello stress). Mentre adrenalina e noradrenalina attivano il sistema nervoso autonomo simpatico determinando un innalzamento degli indici fisiologici (conduttanza cutanea, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, dilatazione pupillare, tensione muscolare, vasodilatazione muscolare), rilascio di betaendorfine e inibizione dell’apparato digestivo, tipici del comportamento di attacco o fuga, il cortisolo influenza soprattutto il sistema immunitario e l’ippocampo.

Quest’ultimo a sua volta invia segnali a feedback negativo all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene per far cessare il rilascio di ormoni. Questa catena di reazioni ha una funzione adattiva in quanto permette all’organismo di reagire prontamente allo stressor. In condizioni di stress cronico invece, sia ha un iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il continuo rilascio di ormoni, soprattutto di cortisolo che può causare svariati disturbi tra cui quelli psicosomatici (cardiovascolari, dermatologici, gastrointestinali ecc.), immunitari (es mononucleosi) e depressione.

 

Le tecniche di rilassamento per il trattamento della cardiopatia

Per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della cardiopatia ischemica vengono attualmente proposti interventi non esclusivamente medici, ma anche psicologici, come le tecniche di rilassamento, mirati alla riduzione dei fattori di rischio psicosociale, alla modificazione dei comportamenti a rischio e alla modulazione della reattività cardiovascolare a situazioni stressanti.

Un intervento appropriato è rivolto alla riduzione della reattività cardiovascolare a situazioni stressanti, attraverso tecniche di rilassamento, come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e la mindfulness.

Una delle tecniche di rilassamento più conosciute, il rilassamento muscolare progressivo, è stato ideato da Edmund Jacobson intorno al 1920, negli Stati Uniti ed è finalizzato sia alla prevenzione che alla terapia di disturbi psicovegetativi, ma anche per le malattie croniche. L’allenamento alle tecniche di rilassamento può incrementare la capacità di superare con successo le tensioni quotidiane, rafforzare la salute e migliorare la qualità di vita. Le modificazioni fisiche e psichiche che compaiono nel contesto di un training di rilassamento, vengono anche chiamate “reazioni distensive” e comprendono anche diverse modificazioni somatiche: rallentamento e regolarizzazione della respirazione, riduzione del consumo di ossigeno, abbassamento della frequenza cardiaca, riduzione della pressione sanguigna (soprattutto nel caso di ipertensione), rilassamento della muscolatura scheletrica, modificazioni dell’attività elettrica cerebrale (indicanti dall’EEG uno stato di calma mentale). L’effetto del training di rilassamento è una crescente tranquillità, che rende possibile un miglior rapporto con le difficoltà quotidiane e un migliore controllo dello stress.

Alcuni studi sulle tecniche di rilassamento hanno dimostrato che il rilassamento progressivo, riducendo la PA, ha effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio riducendo il rischio di una recidiva in pazienti infartuati. Il rilassamento di Jacobson si basa sul rapporto reciproco tra mente e corpo: la psiche esercita un’influenza sul soma e modificazioni somatiche possono produrre cambiamenti nella mente. Attraverso il training deve essere raggiunta in modo sistematico una diminuzione della tensione della muscolatura volontaria, che a sua volta provoca una distensione psichica. La più profonda sensazione di calma induce, a sua volta, una maggiore distensione muscolare determinando una sorta di processo circolare all’interno del quale quanto più si rilassano i muscoli tanto più gli individui diventano calmi; tanto più l’individuo diventa calmo quanto più i muscoli si rilassano e cosi via. L’influenza positiva del training sulla salute non si basa primariamente sul singolo esercizio, ma sull’allenamento regolare, protratto nel tempo.

Tra le altre tecniche di rilassamento più efficaci, la mindfulness è una pratica meditativa di origine buddhista applicata clinicamente per la prima volta, verso la fine del 1970, dal medico americano Jon Kabat-Zinn; viene spesso definita come la capacità di prestare attenzione ai propri processi mentali e fisici, durante lo svolgimento di qualunque attività quotidiana, in modo non giudicante. È stato proposto un modello di concettualizzazione della mindfulness a due componenti, ciascuna delle quali è definita in termini di specifici comportamenti, manifestazioni esperienziali e processi psicologici implicati: la prima componente riguarda l’autoregolazione dell’attenzione, che viene mantenuta sull’esperienza immediata e con ciò favorisce una maggiore capacità di riconoscere gli eventi mentali nel momento presente; la seconda componente riguarda invece il particolare atteggiamento adottato verso la propria esperienza nel momento presente, caratterizzato da curiosità, apertura, accettazione.

Alcune ricerche nel campo delle tecniche di rilassamento indicano l’esistenza di una relazione tra la pratica mindfulness e i fattori di rischio per i disturbi cardiovascolari, come l’attività fisica, il fumo di sigarette, l’alimentazione e la pressione sanguigna. In particolare gli studi, preliminari ma promettenti, dimostrano che la mindfulness disposizionale o di tratto, intesa come la tendenza delle persone a prestare attenzione e ad essere consapevoli a ciò che accade loro nel momento presente, è associata ad un maggiore probabilità di smettere di fumare, di seguire una dieta sana ed equilibrata e di svolgere attività fisica regolarmente dopo un intervento cardiovascolare. Sembra che la mindfulness influenzi la salute, in particolare attraverso un miglioramento della capacità di autoregolazione incrementando il controllo attentivo, la regolazione emotiva e la consapevolezza di sé. In particolare la mindfulness:

  • Migliora l’abilità di prestare attenzione alle esperienze legate al rischio cardiovascolare come il fumo, la dieta, l’attività fisica e l’aderenza al trattamento medico. Infatti l’attenzione consapevole verso ogni esperienza può contribuire a comprendere gli effetti a breve e a lungo termine del fumo e degli altri comportamenti rischiosi, incrementando la motivazione intrinseca ad impegnarsi nell’adesione al trattamento.
  • Riduce lo stress migliorando la consapevolezza delle proprie modalità di risposta agli stressor e delle proprie capacità di fronteggiarli (autoefficacia).
  • Incrementa la capacità di gestire abitudini di vita sregolate come il fumo di sigarette, l’eccessivo consumo di cibo e la sedentarietà. Studi neurofisiologici hanno dimostrato che la mindfulness influenza l’attività delle aree cerebrali coinvolte nelle dipendenze e nei sistemi di ricompensa, in particolare la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia cingolata anteriore.
  • Migliora la consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri pensieri e delle sensazioni fisiche che sono particolarmente importanti per ridurre il rischio cardiovascolare. In particolare, attraverso un incremento della consapevolezza dell’esperienza presente, i pazienti possono apprendere a percepire chiaramente gli effetti a breve e a lungo termine dei comportamenti a rischio cardiovascolare come le limitazioni fisiche associate ad attività fisica inadeguata, letargia conseguente all’eccessivo consumo di zuccheri oppure ancora i dolori articolari associati all’obesità e al fumo di sigarette. Questo potrebbe incrementare la motivazione intrinseca ad assumere un comportamento più sano.

Il cigno nero (2010). Un caso di psicopatologia nella danza – Recensione del film

Protagonista del film Il cigno nero è Nina, una giovane ballerina di una nota compagnia americana, perennemente ostinata a raggiungere la perfezione in ogni piccolo dettaglio. Estremamente dotata dal punto di vista tecnico, la giovane si blocca quando è costretta a mostrare sensualità e sicurezza.

 

 

Il cigno nero: trama del film

Protagonista del film Il cigno nero è Nina, una giovane ballerina di una nota compagnia americana, perennemente ostinata a raggiungere la perfezione in ogni piccolo dettaglio.  Nonostante la fervente dedizione all’esercizio e al perfezionismo, la protagonista non possiede tutte le qualità di un’ineccepibile prima ballerina, tra cui la versatilità e la passione, fondamentali per assumere le personalità dei personaggi.

Estremamente dotata dal punto di vista tecnico e abile ad interpretare le parti in cui predominano la fragilità e l’inibizione, la giovane si blocca quando è costretta a mostrare sensualità e sicurezza, di conseguenza finisce per ripetere lo stesso copione, ma nel personaggio sbagliato.

Per questo motivo, agli occhi dell’esigente coreografo Leroy resta assolutamente inadeguata a ricoprire il ruolo di protagonista in uno dei balletti più complessi del repertorio classico: Il lago dei cigni. In tale frangente la difficoltà complessiva, infatti, non si posa solo sulle competenze tecniche, ma anche, e soprattutto, sulla malleabilità interpretativa.

La storia vede protagoniste due principesse, uguali nell’aspetto, ma dalla personalità antitetica; il cigno bianco, fragile e insicuro, il cigno nero, sensuale e coinvolgente, e spetterà alla prima ballerina interpretarli entrambi. Naturalmente, per sortire un effetto credibile, la finzione deve risultare verosimile e Nina è assolutamente troppo controllata e insicura per calarsi nei panni dell’affascinante e malvagia Odile, sosia e sostituta della principessa Odette creata dal perfido mago Rothbart  per ingannare il principe e consolidare la maledizione che costringerà la principessa a restare un cigno per l’eternità. Decisamente più affine alla delicata e debole Odette, Nina rivela fin da subito la fragilità psicologica che la accompagna dalla nascita.

 

Il rapporto della protagonista con la figura materna

Cresciuta con la madre che a soli 28 anni abbandona controvoglia la carriera da danzatrice per allevare da sé la figlioletta, Nina rimane l’eterna bambina della mamma che si dimostra estremamente disponibile e accudente nei suoi confronti, ma anche carica di rancore e odio per averla indotta, seppur involontariamente, nella condizione di commettere l’errore più grande della sua vita.

Giovane, ma pur sempre adulta, la protagonista de Il cigno nero non sembra aver realizzato una separazione- individuazione dal caregiver che amplifica e rafforza i tratti immaturi; la cameretta piena di giochi, i ritratti eseguiti compulsivamente, gli atteggiamenti invadenti e controllanti da un lato, inibiti e infantili dall’altro, la mancanza di rapporti sentimentali e sociali, sono alcuni degli elementi rilevanti nel rapporto tra Nina e la madre evidenziati con chiarezza ne Il cigno nero.

A tal proposito la ragazza appare un’estensione narcisistica dei bisogni materni: emblematica è la scena in cui la madre l’avverte sulle possibili avances del coreografo, che in passato gli sono costate l’interruzione del suo sogno nel cassetto, dichiarando apertamente il profondo odio nei confronti della figlia, condannata a pagare il prezzo della perfezione da raggiungere anche a costo della vita.

Il perfezionismo è quindi un modo per guadagnare le rassicurazioni esterne, ma anche un probabile “distrattore” dai bisogni di attaccamento: Nina evita i contatti sociali, amicali e sentimentali, l’allenamento è il suo chiodo fisso, fino a quando non basta più a raggiungere la completezza.

 

Tra perfezionismo e delirio

È allora che incontra la rivale Lily, una ballerina anticonformista, tatuata, fumatrice e ritardataria, ma proprio per questo ammirata dal coreografo che vede in lei il cigno nero, sensuale, coinvolgente e sicuro di sé. Imperfetta dal punto di vista tecnico, ma naturale, spontanea e imprecisamente interessante, Lily è sostanzialmente l’esatto opposto di Nina che, sempre più pressata dalle aspettative esterne e confusa sulle soluzioni per diventare la protagonista perfetta, comincia a maturare significativi deliri e allucinazioni a sfondo persecutorio.

Nella trama psicotica, Lily assume una forte valenza, proprio perché possiede i tasselli mancanti per interpretare entrambi i cigni: tuttavia, ogni tentativo di imitarla fallisce perché forzato dall’esterno e coadiuvato dalle sostanze. Nina è attratta dal carattere dell’amica che non teme il giudizio, né si preoccupa di rasentare la perfezione, perché la sua spontaneità è premiata anziché condannata. Lily è tutto ciò che Nina non è e non riesce ad essere per l’eccessivo bisogno di rassicurazioni, interne ed esterne; non è spontanea ma rigidamente ancorata agli standard e agli ideali irraggiungibili, alla necessità di definizione e di perfezione attraverso la minuziosa attenzione ad ogni dettaglio.

Nemmeno Leroy riesce a correggerla efficacemente e a contenere le sue paure, anzi, la istiga a spada tratta, fomentando i dubbi e le paure, forse per spronarla a tirare fuori quel lato di sé nascosto, ma presente. Il cigno nero, sensuale e coinvolgente, ma anche distruttivo e malato, è sempre stato in Nina, ma la riluttanza ad accettare quel lato oscuro di sé diventa un potente deterrente per l’insorgenza della psicosi.

In questo senso, i colleghi vengono visti come pericolosi complottisti che tramano per escluderla dal saggio finale, qualsiasi segnale diventa la conferma che la parte verrà affidata a Lily perché possiede le carte in regola per la protagonista perfetta; l’improvvisa uscita di scena di Beth, la precedente prima ballerina, gli apprezzamenti su Lily che diventa la protagonista “di riserva” nel caso Nina non fosse in forma per il debutto, assumono un significato abnorme e confermano le idee persecutorie di partenza.

Quello che sfugge alla protagonista è, in qualche modo, un principio sottolineato da Leroy: “La perfezione non è solo un problema di controllo, è necessario metterci il cuore. Sorprendi te stessa e sorprenderai chi ti guarda.”  Il coreografo cerca di migliorarla, di indurla ad accettare l’altra sé, il cigno nero, che ha visto in lei poco prima di annunciarla come protagonista. Leroy crede nelle risorse di Nina, ma la incoraggia nel senso sbagliato, prova a farle notare che quella parte è dentro di lei più di quanto immagini, ma le sue direttive sembrano più orientate su precetti che la ragazza interpreta alla lettera, e i confronti con le colleghe non si rivelano ottime strategie di miglioramento, anzi, peggiorano la sintomatologia fino a renderla aggressiva verso gli altri, e infine verso sé.

L’autolesionismo, che prima arrivava a qualche graffio sulla schiena, verso la fine del film sfocia nel suicidio: anche in questo momento, è interessante notare l’oscillazione tra la fantasia delirante e la realtà dei fatti. Nina è convinta di uccidere Lily, dopodiché si sente libera di scatenare il cigno nero, ma quando si confronta con la verità, ovvero che Lily è viva, intatta ed entusiasta per il successo dell’amica, è allora che realizza di non avere altri nemici oltre a se stessa, e ritorna la fragile e debole Odette che si congeda dal mondo dei vivi serafica, per aver raggiunto lo scopo della sua esistenza: essere perfetta.

 

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM 

 

La psicopatologia e il malessere nella danza

Il film Il cigno nero è un ottimo punto di partenza per riflettere sulle possibili problematiche legate al mondo della danza. Il caso di Nina esprime alcune fragilità psicologiche che nella danza possono trovare un terreno fertile per aggravarsi; i confronti svilenti con le compagne, la comunicazione inefficace, l’assenza di supporto psicologico nella preparazione, la competizione e le pressioni esasperanti contribuiscono a peggiorare i sintomi fino al finale tragico.

In tal senso occorre considerare questi fattori di rischio trasversali a varie discipline; la danza, ad esempio, può essere un ottimo strumento terapeutico in grado di promuovere una consapevolezza di sé attraverso l’espressione emotiva intrisa nei movimenti corporei, proprio a questo proposito non devono mancare le strategie di insegnamento più indicate per indurre ogni allievo a raggiungere una coscienza dei pregi e dei difetti personali, al fine di accettarli o valorizzarli e migliorarli.

Nel caso di Nina, Leroy non spiega dettagliatamente il problema, bensì resta su un piano generalizzante, a tal punto che la ragazza in diverse occasioni ripete l’errore e chiede informazioni aggiuntive senza ottenere una risposta esaustiva.

Episodi analoghi accadono con elevata frequenza nel rapporto allievo-docente: spesso gli insegnanti danno per scontati alcuni passaggi o la spontaneità dei gesti, ostinandosi sul proprio punto di vista. Il rischio è quindi di esacerbare un circolo vizioso di incomprensioni, senza la possibilità di focalizzarsi costruttivamente sul problema per risolverlo.

Un altro errore ricorrente è il confronto con gli altri, o addirittura la valorizzazione di un singolo allievo: prendere un soggetto isolatamente come un esempio per eseguire correttamente un esercizio, non si dimostra un mezzo efficace per ottenere un miglioramento, anzi rafforza la competizione tra i compagni evitando la possibilità di intervenire sulle carenze.

È importante trasmettere la motivazione nelle giuste modalità, manifestando empatia e disponibilità ad aiutare ad affrontare il nodo problematico: ad esempio, comunicare la complessità dell’esercizio o dell’espressione delle emozioni in pubblico, specialmente per i principianti, ma anche l’importanza di esercitare le carenze, o in casi estremi, di accettarle come limiti delle proprie capacità può rivelarsi efficace.

Il perfezionismo, infine, non va confuso con la motivazione al cambiamento e al miglioramento delle prestazioni: è necessario distinguere l’esasperazione nel raggiungimento degli obiettivi ad ogni costo, dall’impegno consapevole dei limiti e delle potenzialità.

È opportuno precisare che il caso di Nina è, con molte probabilità, un tipico quadro di una schizofrenia per gli elementi ricorrenti in questa patologia psichiatrica; la famiglia controllante, ipercritica e intrusiva, con pochi contatti sociali, la prevalenza di schemi orientati sulla diffidenza, l’incapacità di coltivare rapporti intimi sentimentali e amicali. Come accade solitamente, la sintomatologia schizofrenica si scatena in seguito ad eventi dove le responsabilità e il carico di lavoro, o di studio, aumentano vertiginosamente, o ancora, quando compare una delusione affettiva.

Per quanto riguarda Nina, tra gli eventi di vita collegati con più frequenza all’esordio spiccano l’audizione per la parte principale del saggio e la conseguente assegnazione del ruolo. Non sono gli episodi presi isolatamente ad essere particolarmente stressanti, bensì l’interpretazione della protagonista che estremamente sensibile al giudizio esterno e alla realizzazione di una performance completa subisce un crollo psicologico quando le strategie utilizzate in precedenza si rivelano fallimentari. In tal senso è fondamentale prendere in considerazione il livello di gravità per un intervento su vari piani volti a ridurre il peggioramento della sintomatologia; ad un intervento psichiatrico e psicoterapico centrato sul paziente, vanno associati gli interventi psicologici rivolti ai famigliari, e la possibilità di un ricovero in fase acuta.

Infine, il film Il cigno nero trasmette un’importante lezione nel contesto artistico: per emozionare il pubblico è necessario emozionarsi, e quindi affrontare ,e allenare, determinate caratteristiche di personalità, come la timidezza ad esempio, o la sensualità. La vicenda insegna che la completezza artistica non comprende solo la padronanza tecnica, ma anche l’importanza di suscitare un impatto emotivo nello spettatore, una competenza che può maturare attraverso le competenze psicologiche, come l’assunzione di molteplici prospettive, il riconoscimento e l’espressione emotiva, l’intraprendenza, per citarne alcune. Da ciò si deduce la necessità di una figura psicologica da affiancare all’insegnante per allenare le potenzialità psichiche implicate nell’espressione artistica.

Con la testa tra le nuvole: il vagare della mente tra creatività e rimuginio

Il vagare della mente corrisponde allo stato naturale della mente a contatto con se stessa, supportata dall’attività di aree cerebrali definite default mode network.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato il 19/11/2016 su La lettura, del Corriere della Sera

 

Avevo bisogno di una scusa. Un dato scientifico che mi garantisse l’assoluzione agli occhi della mia compagna, di tutti i colleghi che so volermi bene, dei miei figli anche. Guardo il libro di Corballis, La mente che vaga, negli occhi lo stesso lampo incredulo di un ladro a cui affidano la cassa del supermercato, “Mi scusi me la controlla un attimo? Il tempo di un caffè”. Lo sfoglio, è mio. Il testimone che cercavo che, agli occhi di una corte arcigna, affermasse che il vagare con la mente è pratica salutare, normale, dignitosa.

Distrazione, testa tra le nuvole la chiamano gli accusatori, gente di senso pratico, capace di saperti indicare ferramenta, idraulico e farmacia in tre quartieri adiacenti senza avvalersi di protesi elettroniche. Ora posso rispondere: il vostro disappunto è infondato. Io e tutti i viaggiatori della mente – mai più osiate chiamarci distratti – svolgiamo mansioni utili. Sia messo a verbale: il vagare della mente corrisponde allo stato naturale della mente a contatto con se stessa, supportata dall’attività di aree cerebrali definite default mode network.

Ottenuta l’assoluzione, mi tocca essere onesto. Il vagare con la mente ha due facce. È associato alla capacità di staccarsi dagli stimoli contingenti, costruire mondi alternativi e, quindi, fornire un basamento della creatività. D’altra parte è infarcito di rimuginio, la tendenza ad aggrovigliarsi sulle proprie preoccupazioni e a farle diventare alte come torri malesi. O facilita il consolidarsi di certezze consolatorie. Per dire, i narcisisti durante il vagare mentale dimorano nelle loro fantasie di un futuro grandioso ma se non lo fanno rivangano un passato inquietante.

Buon antidoto al vagare sterile è la mindfulness, l’arte di coltivare la consapevolezza del presente. Immagino una società di viaggiatori mentali che rivendichi il diritto a essere altrove, indossando una maglietta con l’avviso: “Stiamo creando”. Quel viaggio, non ce lo interrompete.

Come percepiamo gli odori: questione di chimica o di cultura?

Quando due persone odorano la stessa cosa, possono avere reazioni completamente diverse, a seconda di quello che è il loro background culturale. 

Mariagrazia Zaccaria

 

Alcuni ricercatori hanno infatti notato che anche quando due culture condividono la stessa lingua (ad esempio il Quebec e la Francia), le persone reagiscono in maniera diversa agli stessi odori.

In una collaborazione con alcuni ricercatori del Neuroscience Centre di Lione, la Dr.ssa Jelena Djordjevic e il suo gruppo di ricerca al Montreal Neurological Institute hanno testato dei soggetti in Quebec sulle loro impressioni soggettive a diversi profumi, contemporaneamente alcuni loro collaboratori in Francia svolgevano lo stesso lavoro. Hanno scelto per la ricerca sei profumi: anice, lavanda, acero, olio di Wintergreen, rosa e fragola.

Ai partecipanti è stato chiesto di sentire l’odore di ogni essenza prima senza esser a conoscenza di cosa stessero annusando e i soggetti hanno valutato il profumo in termini di gradevolezza, intensità, familiarità e commestibilità.

Gli studiosi hanno anche misurato le reazioni non verbali dei soggetti ogni volta che annusavano un profumo diverso, tra cui: sniffing, l’attività dei muscoli facciali, respirazione e frequenza cardiaca.

I ricercatori hanno anche trovato delle differenze significative tra feedback agli stessi odori tra i francesi e i franco-canadesi.

Ad esempio, i soggetti francesi quando annusano l’olio di Wintergreen, mostrano dei feedback sulla piacevolezza molto più bassi rispetto ai soggetti franco-canadesi. Questo succede perché, in Francia, quest’olio è usato più come medicinale rispetto al Canada, dove si trova anche nelle caramelle.

I soggetti canadesi hanno mostrato più familiarità con odori tipo l’acero e l’olio di Wintergreen rispetto ai soggetti francesi, mentre a loro volta i francesi sono più familiari al profumo di lavanda. Il profumo di anice è stato descritto in maniera molto simile da entrambe le culture, anche se molto spesso in Quebec è stato definita come “liquirizia” e in Francia come “anice”.

Invece, nel momento in cui ai soggetti è stato reso noto il nome di ciò ciò che stavano annusando, si è riscontrato un aumentato della loro sensazione di familiarità e piacevolezza. Inoltre, le differenze culturali sono quasi scomparse o comunque diminuite per la maggior parte dei casi nel momento in cui era noto ciò che si stava annusando. Questo si è verificato anche per le reazioni non verbali ai profumi.

I risultati suggeriscono che le rappresentazioni mentali che si attivano se si associa un nome ad un odore sono molto simili tra le due diverse culture prese in esame. Anche le differenze culturali che si verificano nella percezione degli odori sono molto sottili e facilmente riducibili quando viene fornito ai soggetti il nome di ciò che stanno annusando.

Questo studio supporta l’idea che l’elaborazione del nostro cervello non è dovuta alla sola reazione ai composti chimici che compongono il profumo. Essa è influenzata sia dalla pregressa storia che si ha con quel determinato profumo che dalla sua conoscenza.

La Dr.ssa Djordjevic ha affermato che i processi base come quelli esaminati in questo studio, l’olfatto, sono influenzati dalla nostra cultura e dalle nostre conoscenze.

Il senso dell’olfatto occupa una parte molto antica del nostro cervello e studiarlo, ci aiuta a capire quanto e come ci siamo evoluti come specie. Inoltre, la perdita di funzionalità dell’olfatto è comune perché fa parte del normale processo di invecchiamento di un individuo, ma anche di molte condizioni neurologiche. Lo studio di questi disturbi può fornirci importanti indizi sui meccanismi di questi deficit e aiutarci a capire i modi per trattarli.

 

Bambini maltrattati: ecco come reagisce il loro cervello a parole di rifiuto

I dati di un recente studio clinico portano in evidenza una risposta neurale alterata agli stimoli di rifiuto sociale nei bambini maltrattati under 14.

Mio lì Chiung Ching Wang

 

Diversi studi internazionali – uno dei più celebri è stato eseguito nel 2014 da un’equipe della Graduate School of Education di Sapporo – hanno evidenziato come il cervello dei bambini maltrattati incontri alterazioni di sensibilità per quanto riguarda le risposte agli stimoli facciali di minaccia.

Tuttavia si conoscono poco i meccanismi d’influenza che i maltrattamenti hanno sull’elaborazione generale di una minaccia sociale, e ancor meno si sa riguardo al rischio psichiatrico in caso di elaborazioni atipiche degli spunti di minaccia.

Tutto ciò rappresenta una lacuna sicuramente da colmare per favorire il lavoro dei genitori e degli educatori, che hanno un ruolo fondamentale nel percorso di guarigione che segue un maltrattamento.

 

Come i bambini maltrattati reagiscono al rifiuto emotivo

Un recente studio, condotto da un’equipe attiva presso il dipartimento di psicologia della University College London, ha cercato di chiarire la situazione monitorando le reazioni di 41 bambini da 10 ai 14 anni, sottoposti a uno stimolo di rifiuto emotivo.

Nel suddetto campione sono stati inclusi 21 bambini con una storia documentata di maltrattamenti, e un gruppo di controllo di altri 20 che non avevano alle spalle alcun episodio di quella natura. I gruppi sono stati abbinati per età, sesso, stato puberale, quoziente intellettivo, status socio – economico. Le reazioni neurali allo stimolo di rifiuto emotivo sono state monitorate con la risonanza magnetica.

Rispetto ai loro coetanei, i bambini maltrattati hanno dimostrato una sensibilità ridotta davanti agli stimoli di rifiuto (dato confrontato con le reazioni davanti a stimoli neutrali). Questi risultati sono stati ottenuti osservando delle aree del cervello coinvolte nel disturbo da stress post traumatico successivo all’abuso, ossia l’amigdala sinistra, la corteccia parietale inferiore sinistra e la corteccia visiva.

Non sono state riscontrate sostanziali differenze tra i bambini coinvolti nel gruppo sperimentale e quelli coinvolti nel gruppo di controllo per quanto riguarda l’effetto Stroop, ossia la variazione dei tempi di reazione nell’esecuzione di un determinato compito, ossia la pronuncia ad alta voce del colore usato per stampare una parola.

I dati di questo studio clinico portano in evidenza una risposta neurale alterata agli stimoli di rifiuto sociale nei bambini maltrattati under 14. Rispetto ai loro coetanei hanno infatti mostrato un’attivazione cerebrale minore davanti a segnali di rigetto emotivo, tutto questo in aree del cervello precedentemente interessate da episodi di forte stress.

Tutto questo suggerisce, nei limiti della scarsità quantitativa del campione preso in esame, una reazione alle minacce che è un indice di vulnerabilità latente, futuro terreno per l’insorgenza di psicopatologie e di PTSD (disturbo post traumatico da stress) e che deve essere seguito da un approccio terapeutico mirato volto a prevenire conseguenze critiche in età adulta.

Il funzionamento cognitivo nella sclerosi multipla

Il profilo neuropsicologico caratteristico della sclerosi multipla presenta deficit a carico di diversi domini, quali attenzione, velocità di elaborazione delle informazioni, funzioni esecutive e memoria a lungo termine.

Anna Maria Mirto – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Che cos’è la Sclerosi Multipla?

La sclerosi multipla (SM), anche detta sclerosi a placche, è una patologia cronica autoimmune, infiammatoria e demielinizzante, progressivamente invalidante, a eziopatogenesi non definita, che colpisce il  sistema nervoso centrale (SNC) (Cambier Jean M.M., 2005).

Essa rappresenta la più frequente malattia neurologica tra i giovani adulti (Grossi P., 2008) il cui esordio si manifesta nel 70% dei casi tra i 20 e 40 anni (Vella L., 1985; Grossi P., 2008), con un’età media d’insorgenza di 28 anni (Lanzillo R. et al., 2016).  Negli ultimi anni, si è inoltre osservato un incremento dal 3% al 5% di casi di sclerosi multipla ad esordio precoce, ossia precedente ai 18 anni (Lanzillo R. et al., 2016).

Il termine “sclerosi” attribuito alla malattia deriva dalla presenza di lesioni, caratterizzate da indurimento e cicatrizzazione dei tessuti, che prendono il nome di placche. Queste, nella sclerosi multipla, presentano due aspetti peculiari su cui viene fondata la diagnosi, quali la disseminazione temporale, ossia un andamento progressivo e ingravescente nel corso della malattia, e la disseminazione spaziale. È relativamente a quest’ultima che si spiega il perché dell’aggettivo “multipla”, derivante dalla molteplicità di aree cerebrali e regioni del midollo spinale interessate dal processo patologico di demielinizzazione (o dissociazione assomielinica). In particolare, i siti in cui più frequentemente si localizzano le placche riguardano la sostanza bianca delle regioni periventricolari, del nervo ottico, del tronco encefalico, del cervelletto e nei cordoni anterolaterali e posteriori del midollo spinale (Vella L., 1985).

 

Sintomatologia

L’effetto fisiopatologico del processo di dissociazione assomielinica consiste nella riduzione della velocità di conduzione degli impulsi, la quale si manifesta attraverso un eterogeneo spettro sintomatologico. Infatti, dipendentemente della sede del focolaio di demielinizzazione che va in contro a perdita della propria funzionalità, è possibile osservare l’insorgenza di diversi sintomi (Cambier Jean M.M., 2005):

  • Motori: dovuti ad un interessamento della via piramidale, possono manifestarmi mono- o bilateralmente, distribuendosi in maniera emiparetica (l’emiparesi è la perdita parziale della forza muscolare e della motilità volontaria di un lato del corpo, dx o sx) o, più spesso, paraparetica (la paraparesi è la perdita parziale della forza muscolare e della motilità a entrambi gli arti superiori o inferiori. ). Tra i deficit motori più frequenti rientrano l’alterazione della marcia che assume carattere di spasticità, il segno di Babinski, abolizione dei riflessi addominali superficiali del riflesso velo palatino;
  • Sensitivi: interessano uno o più arti, il tronco e il volto, e possono manifestarsi mono- o bilateralmente. Consistono in parestesie tattile, termica e algica, e segno di Lhermitte (quest’ultimo consiste in una sensazione di scarica elettrica);
  • Cerebellari: si manifestano in disturbi dell’equilibrio e della coordinazione motoria, come l’atassia della marcia, perdita di equilibrio ed insorgenza di vertigini, astenia degli arti, disartria (ovvero disturbo motorio del linguaggio dovuto a disordine fonoarticolatorio caratterizzato da debolezza e mancanza di coordinazione della lingua e della muscolatura orale e facciale.) associata a scarsa fluidità nell’eloquio, lentezza e alterazione della prosodia, disfagia;
  • Deficit dei nervi cranici:  i sintomi variano in funzione del nervo soggetto a demielinizzazione. I più frequenti sono vertigine, disequilibrio e nistagmo, ovvero movimenti oscillatori, ritmici e involontari dei globi oculari (vie vestibolari), ipoacusia (nervo cocleare), miochimie (disturbi del movimento che consistono in contrazioni muscolari involontarie ampie) facciali, paralisi facciale periferica, emispasmo facciale (contrazione unilaterale, involontari ed intermittente dei muscoli della faccia, nervo facciale in particolare), diplopia (nervi oculomotori), neurite ottica retro bulbare (NORB, nervo ottico: essa può essere definita come uno dei sintomi caratteristici della sclerosi multipla in quanto, nel corso dell’evoluzione della malattia, presto o tardi che sia, si manifesta attraverso l’abbassamento dell’acuità visiva);
  • Disfunzioni vegetative: osservabili nella percezione di fatica, nei disturbi intestinali (stipsi o dissenteria), sessuali (perdita sensibilità genitale, diminuzione della libido, disfunzione erettile e perdita della capacità orgasmica), delle vie urinarie (incontinenza);
  • Sintomi parossistici: rappresentano sintomi a insorgenza improvvisa e risoluzione rapida, nella sclerosi multipla ne è un esempio l’epilessia.

L’esame di questi sintomi, e quindi dell’efficienza dei diversi sistemi neurologici funzionali, permette di misurare lo stato di invalidità delle persone affette da sclerosi multipla e di monitorare la progressione della malattia.

Uno degli strumenti utilizzati a tal fine e che nella pratica clinica viene specificatamente impiegato per la valutazione delle strategie terapeutiche è l’Expandend Disability Status Scale (EDSS) (Kurtzke J.F., 1983) [v. Fig. 1].

 

il funzionamento cognitivo nella sclerosi multipla fig 1

Fig. 1 – Expandend Disability Status Scale (EDSS)

 

Questa scala, tuttavia, si mostra inadeguata nel fornire una valutazione globale della sintomatologia caratteristica della Sclerosi Multipla in quanto non prevede l’indagine funzionale dello status degli arti superiori e del quadro cognitivo. A tal proposito, lo strumento per eccellenza raccomandato inoltre dalla Task Force on Clinical Outcomes Assessment of National Multiple Sclerosis Society è il Mulpiple Sclerosis Funcional Composite (MSFC), il quale consente un’indagine multidimensionale dei sintomi clinici della sclerosi multipla (Fischer J.S. et al., 2013).

 

Funzionamento Cognitivo

Come riportato pocanzi, tra i sintomi clinici della sclerosi multipla rientra anche la compromissione degli aspetti cognitivi. Infatti, tra la popolazione affetta da questa patologia si stima un range di prevalenza di alterazione del funzionamento cognitivo che va dal 43% al 70% (Chiaravallotti N.D. e DeLuca J., 2008). Tale ampia variabilità dei dati può essere ricondotta ai differenti criteri clinici di selezione del campione adottati dai diversi studi (es: tipo di decorso, grado di disabilità e durata della malattia) (Planche V. et al., 2015).

Il profilo neuropsicologico caratteristico della sclerosi multipla presenta deficit a carico di diversi domini, quali attenzione (sostenuta, selettiva, divisa e alternata), velocità di elaborazione delle informazioni, funzioni esecutive (concettualizzazione astratta, problem solving, pianificazione, multitasking, fluenza verbale) e memoria a lungo termine (Chiaravallotti N.D. e DeLuca J., 2008). I domini solitamente risparmiati sono, invece, il linguaggio e l’intelligenza generale (Q.I.) (Planche V. et al., 2015).

Alcuni studi hanno osservato differenti quadri di funzionamento cognitivo in correlazione al tipo di variante di sclerosi multipla. In particolare, in una recente ricerca condotta da un gruppo francese (Planche V. et al., 2015), si è tentato di fare chiarezza circa le somiglianze e le differenze cognitive tra le varianti Recidivante-Remittente (RR), Progressiva Secondaria (PS) e Progressiva Primaria (PP).

I domini indagati nel presente studio erano: velocità di elaborazione, working memory, memoria verbale episodica, funzioni esecutive, fluenza verbale, denominazione e prassia costruttiva. Tra questi, la velocità di elaborazione delle informazioni è emersa come la funzione cognitiva più frequentemente danneggiata, seguita poi da memoria verbale episodica, funzioni esecutive, abilità costruttive visuo-spaziali. Relativamente alla correlazione tra tipologia di variante della sclerosi multipla e grado di severità dell’alterazione cognitiva, è emerso che, tra i 101 soggetti inclusi nello studio, il 77% mostrava un declino cognitivo caratterizzato da almeno 1 dominio danneggiato, il 63%, invece, presentava una alterazione severa (almeno 2 domini danneggiati). Tra i partecipanti alla ricerca rientranti in quest’ultima condizione, si è osservata una maggioranza di pazienti con forma progressiva, di cui quelli con variante PS sono risultati essere più frequentemente interessati.

Infine, dalle analisi dei dati sociodemografici e dell’EDSS si sono riscontrate una correlazione positiva tra alterazione cognitiva e disabilità fisica e una correlazione negativa tra declino cognitivo e scolarizzazione. Pertanto, dallo studio di Planche e collaboratori (2015) si evince come le forme progressive, ed in particolare la variante PS, e un grado di disabilità medio (EDSS > 4) rappresentino due predittori del declino cognitivo.

Relativamente ai cambiamenti del funzionamento cognitivo nel corso della progressione della malattia, ad oggi si contano pochi studi longitudinali in letteratura che hanno analizzato questo aspetto. In particolare in un follow-up di 10 anni condotto da Amato e collaboratori (2001) si è stimato un incremento della popolazione con declino cognitivo pari al 30%; in un altro studio, poi, hanno osservato una progressione del declino con estensione verso molti domini cognitivi precedentemente integri (Kujala P. et al., 1996)

 

Depressione e Declino Cognitivo

La presenza di disabilità fisica, unitamente alla percezione di una bassa qualità della vita, hanno, nel malato affetto da sclerosi multipla, un forte impatto sulla sfera psicoemotiva,  influenzando le capacità di coping e lo stato dell’umore (Lynch S.G. et al., 2001; Lanzillo R. et al., 2015; Johansson, S. et al., 2016).  In particolare, il sintomo psichiatrico maggiormente diffuso in questa patologia, già noto ai tempi di Charcot (1879), scopritore della sclerosi multipla, è la depressione.

Data l’alta frequenza con cui questo disordine dell’umore si presenta nella sclerosi multipla, diverse ricerche hanno analizzato la possibile relazione tra questo sintomo e il funzionamento cognitivo. I risultati ad oggi presenti in letteratura, sembrano suggerire una ricaduta negativa della depressione sulla performance cognitiva solo entro i livelli moderato-severo del sintomo psichiatrico e in maniera circoscritta ai domini cognitivi di velocità di elaborazione, working memory e funzioni esecutive (Siegert, R.J. e Abernethy, D.A., 2005).

 

Conclusione

La sclerosi multipla si configura come la prima patologia neurologica a comportare invalidità fisica tra la popolazione giovane. A causa del processo di demielinizzazione caratteristico della malattia e che interessa molteplici siti cerebrali e del midollo spinale, la vita del malato di sclerosi multipla si ritrova costellata da una eterogenea sintomatologia, indicativa della compromissione di diversi domini funzionali, fisico-motori e cognitivi. I deficit che insorgono hanno poi un impatto sull’autonomia dell’individuo, incidendo negativamente, spesso, sulla percezione della qualità di vita e sulla sfera emotiva.

Risulta, pertanto, fondamentale intervenire quanto più precocemente possibile, non solo farmacologicamente per evitare e ritardare la disabilità fisica, ma anche con un supporto psicologico al fine di aiutare il paziente ad affrontare e accettare i cambiamenti dovuti dalla malattia.

Tra orientamento sessuale non conforme e religione cattolica: un’intervista

Una riflessione sul rapporto che una persona con orientamento sessuale non eterosessuale può avere con la fede cattolica. Lo scopo sarà quello di mettere in evidenza la sofferenza psichica a cui una persona può andare incontro nel vivere entrambe queste dimensioni. Si farà riferimento alla religione cristiana cattolica in particolare, in quanto nel contesto italiano è la confessione a cui più persone aderiscono.

 

Alcuni precetti della Chiesa Cattolica

Qui di seguito verranno riportati esigui elementi essenziali della Chiesa Cattolica, per fare questo ci si è serviti del “Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio” redatto da una commissione di Cardinali, presieduta da Papa Benedetto XVI e pubblicato nel 2005.

All’interno della Chiesa Cattolica, l’Eucaristia, più comunemente conosciuta come “Comunione”, “è il segno dell’unità, il vincolo della carità, (…) nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della vita eterna”. Per un fedele l’Eucaristia assume molta importanza, in quanto “è fonte e culmine di tutta la vita cristiana”.

Per poter ricevere la santa Comunione la Chiesa richiede che si sia “pienamente incorporati alla Chiesa cattolica (…), cioè senza coscienza di peccato mortale. Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave deve ricevere il Sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione”.

Un peccato è considerato mortale, anziché veniale, quando “ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso”. In questo caso dunque, per accedere all’Eucaristia, che ricordiamo essere, per il cattolicesimo, l’origine e l’apice della vita cristiana, si devono confessare i propri peccati gravi, impegnandosi a non peccare più, al sacerdote, perché si possa ottenere il perdono. Il perdono ha la potenza di eliminare le azioni ormai compiute ed il peso delle conseguenze di queste, oltre a permettere di tornare allo stato di grazia, di riconciliarsi con la Chiesa, di riappropriarsi della pace e della serenità della coscienza.

 

Identità sessuale e fede religiosa

All’interno della Chiesa Cattolica, una persona con orientamento sessuale non unicamente eterosessuale sentirà l’esigenza di dover “essere in grazia di Dio” per accedere al sacramento dell’Eucaristia, e per questo motivo confesserà i propri atti omosessuali, considerati gravemente contrari alla religione cristiana. La Confessione ruoterà dunque attorno all’atto omosessuale, anziché all’identità sessuale della persona. Eppure questa scissione tra atti ed identità non è così facile da attuarsi, soprattutto in materia di percezione di se stessi.

Ci serviremo a questo proposito delle parole di una grande filosofa come Hannah Arendt, allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers: “Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano (…). Questo rivelarsi del “chi” è qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” – le sue qualità e capacità, i suoi talenti e i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti – è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia. Si può nascondere “chi si è” solo nel completo silenzio e nella perfetta passività”.

In questa cornice i propri sentimenti, atti e la propria identità sembrano essere in contrasto con la morale della propria Chiesa. Questo conflitto potrebbe giocarsi tra il bisogno di vivere serenamente la propria sessualità ed il bisogno che Dio, Gesù e la Chiesa amino ed accettino l’identità sessuale e le azioni che la caratterizzano. Questi bisogni si presentano sia a livello intrapersonale, che interpersonale. Attraverso uno sguardo più propriamente cognitivo potremmo immaginarci due pensieri esemplificativi in opposizione tra loro:

“sono felice di aver avuto un rapporto sessuale con X, persona del mio stesso sesso”; e

“mi pento di aver avuto un rapporto sessuale con X, persona del mio stesso sesso”.

La seconda cognizione è ampliabile a “mi pento davanti agli occhi di Dio, Gesù e della Chiesa di aver avuto un rapporto sessuale con X”. Questa aggiunta cambia sicuramente, da un punto di vista psicologico, il “locus of thought”.

Rimanere all’interno di questo conflitto può creare malessere e stress, dovuti ad una visione non coerente ed univoca di sé e delle proprie credenze. Come riportato in un precedente articolo sul tema della dissonanza cognitiva il disagio aumenta di intensità in relazione all’importanza che gli argomenti in contraddizione rivestono per la persona. In questo caso, sia l’identità di una persona che la sua fede (ed il conseguente o talvolta scisso senso di comunità) sono temi rilevanti.

Nel 2009 una task force dell’American Psychological Association ha approfondito il tema della religione e dell’omosessualità in termini di minority stress e stigma, invitando psicologi e psicoterapeuti a considerare come ciò possa diventare un ulteriore stressor in persone appartenenti ad una minoranza. L’APA invita i professionisti a riconoscere l’importanza della religione, in quanto sistema di significati, comunità, cultura ed identità. Una ricerca condotta in Italia ha portato alla pubblicazione:

 

Religione e omosessualità: uno studio empirico sull’omofobia interiorizzata di persone omosessuali in funzione del grado di religiosità, D. Dèttore, A. Petilli, A. Montano, G.B. Flebus.

Ricerca di cui si riporta l’abstract:

«Secondo i dettami della Congregazione per la Dottrina della Fede, il desiderio omosessuale, ma soprattutto il comportamento omosessuale, sono in netto contrasto con la dottrina cattolica istituzionalizzata. Gay e lesbiche cattolici si trovano quindi in stato di grande conflitto. Con l’intento di favorire lo sviluppo di un’identità in cui fede e omosessualità sono integrate con successo, i gruppi italiani di cristiani omosessuali organizzano numerose attività finalizzate a ridurre lo stigma derivante dalla condanna cattolica dei rapporti omoerotici e a promuovere una fede personale che potrebbe trasformare la religione in una potente risorsa psicologica. Per valutare se tali obiettivi vengano raggiunti, il presente studio si propone di verificare se i livelli di omofobia interiorizzata dei partecipanti siano minori rispetto a quelli mostrati dai gay e dalle lesbiche cattolici che non li hanno mai frequentati e dagli omosessuali non credenti. Benché emerga che i soggetti cattolici dello studio siano più omofobici, le loro condizioni mentali generali non differiscono rispetto a quelle degli omosessuali non credenti. Inoltre, all’aumentare del tempo dedicato alla frequentazione dei gruppi i livelli di omofobia interiorizzata dei partecipanti si riducono mentre migliora il benessere psicologico generale. Nelle conclusioni tali dati sono discussi in relazione all’efficacia di tali gruppi».

 

Tra orientamento sessuale non conforme e religione cattolica: l’intervista

Per concludere, riporterò in seguito alcune delle parole di una donna, omosessuale e cattolica, che si è gentilmente resa disponibile a rispondere a qualche domanda sul suo modo di vivere il rapporto tra questi due nuclei della sua attuale vita.

 

Cos’è per te la Religione?

«Il Cristianesimo è una relazione. La mia conversione è avvenuta con l’incontro con la figura di Gesù e un Dio che è Verità, la Verità che si fa uomo. La Verità che ci porta è che la misura dell’amore è il sacrificio. Il compimento di questa Verità sta nella Passione, che Gesù vive e che è la realizzazione di “non c’è cosa più grande che dare la vita per i propri amici”. Quindi, quando mi dimentico che cos’è l’Amore, quando perdo la bussola, e mi sento confusa, nelle relazioni sentimentali e con gli amici, io guardo la croce e mi ricordo qual è il fine della nostra vita, che in definitiva siamo fatti per Amare, nel suo significato più pieno ed alto. Quindi potrei dire che la religione, la Croce è il mio nord»

 

Cos’è per te il sacramento della Riconciliazione?

«E’ come se Dio ti guardasse e ti dicesse “Peccato! Ti avevo creato per qualcosa di meglio di questo”. E non è il dito puntato. Questo cambia la prospettiva ed è come se ogni volta Dio veramente rinnova quello sguardo di fiducia su di te, e ti ridà la possibilità di far sbocciare dentro di te la tua parte migliore, anche se sa che nella tua debolezza umana molto probabilmente ricadrai. E quindi io veramente quando ricevo l’assoluzione vivo un momento di grandissima commozione»

 

Cos’è per te il sacramento dell’Eucaristia?

«E’ Gesù che compie il sacrificio totale di Sé. E attraverso la partecipazione all’Eucarestia entriamo a far parte del suo corpo mistico, che è la Chiesa, intesa come comunione dei credenti, ovvero di coloro che dovrebbero rinunciare al peccato (risata), e che umanamente fanno quello che possono. E quindi, quando vedo sull’altare rinnovarsi la passione di Cristo nel sacrificio dell’Eucarestia mi rendo conto di che atto di amore enorme sia, sempre per quell’idea che la cosa più grande è sacrificare la propria vita per gli amici. E quindi è un Dio che mi ama tantissimo. Per cui l’Eucaristia è una cosa davanti alla quale provo una commozione fortissima. È un’esperienza meravigliosa vivere l’Eucaristia in questo senso, è proprio un mistero d’amore»

 

Come vivi il rapporto tra Fede e la identità sessuale?

«Sarei un’ipocrita se dicessi che non è una cosa problematica, perché lo è di fatto. La posizione della Chiesa Cattolica bene o male la conoscono tutti, ufficialmente ti dicono: “si va bene se sei omosessuale. Non è un peccato essere in una condizione di omosessualità o di omoaffettività, purché tu non la eserciti, quindi che tu non compia atti omosessuali”. Però a me viene da chiedere “in che misura sono omosessuale?”, non è che io mangio da omosessuale, lavoro da omosessuale, cammino da omosessuale – forse camminare un po’ si (risata) – “ma in che cosa sono omosessuale se non nella mia vita affettiva e sessuale, appunto?”. Quindi la questione è che Tu non mi stai chiedendo di rinunciare ad un atto, mi stai chiedendo di rinunciare ad una fetta veramente grossa della mia identità e questo è un problema»

 

Come vivi il doverti riconciliare con la Chiesa per i tuoi atti omosessuali?

«La vivo male. È una cosa che vivo con grande conflitto perché da una parte lo trovo ingiusto, assurdo, proprio perché so quello che sento e non lo vivo come una perversione, ma come una cosa legata in modo armonioso a quella che è la mia personalità. Però nello stesso tempo io credo nella Chiesa e nel Vangelo e quindi il dubbio che forse hanno ragione Loro c’è sempre. Quindi è un grosso conflitto perché alla fine l’unica cosa che posso dire è “Signore se questa è davvero una cosa che tu non vuoi o che è sbagliata toglimela oppure accettami per come sono”. In fondo nessuno a parte Gesù è in grado di amare in modo perfetto. Amo come posso, quindi questa è un po’ la via d’uscita che mi do. Però senza ombra di dubbio è un grandissimo conflitto che sono costretta a vivere perché nella mia testa echeggiano un sacco di cose, di contraddizioni. Questa cosa mi toglie molta serenità.

Il problema grosso si presenterà il giorno in cui io dovessi avere una relazione. Sarà un problema allacciarsi ai Sacramenti, come lo è per i divorziati. Il peccato per eccellenza è la disobbedienza, dunque, malgrado io senta che in questa cosa non c’è giustizia, non mi farò giudice di quelle che sono le regole e preferirò rinunciare ad una cosa che per me è fondamentale, come l’Eucarestia. Altrimenti potrei trovare un direttore spirituale, che si assumerebbe la responsabilità, ma questa è una cosa che non ho ancora affrontato e che forse sto un po’ rimandando.

Comunque, spesso si chiede che problemi hai a vivere la tua religiosità con il fatto che sei omosessuale, a questo punto io rovescerei anche gli addendi: “che problemi hai tu a vivere nel mondo omosessuale da credente?” È molto difficile perché mi trovo a confrontarmi con persone che hanno una visione di relazione con l’altro che fa a pugni con quella che è la mia, e questo, per me, è molto lacerante.»

 

Greta Riboli

 

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’orientamento temporale e la prospettiva psico-neuro-metabolica

L’ orientamento temporale offre una prospettiva scientifica originale non solo per cogliere le conseguenze psicologiche e comportamentali ma anche per evidenziare le connessioni con gli aspetti neuro metabolici. 

 

Orientamento temporale: la relazione psicologica col tempo

L’approccio psicologico chiamato Orientamento Temporale (Stolarski et. al. 2014; Zimbardo e Boyd, 2008) studia la relazione psicologica che ciascuno di noi ha nei confronti del tempo presente, passato e futuro.

Dalla specifica configurazione temporale che caratterizza ciascuno di noi corrisponde un peculiare stile cognitivo, emotivo e motivazionale che condiziona il modo di effettuare le scelte, i comportamenti, lo stile di vita che condiziona la nostra qualità di vita.

La tesi coerente con questo approccio temporale che ritengo sia interessante da esplorare è che ciascuna configurazione temporale (chiamata anche profilo temporale) ha una sua modalità specifica di gestione psico-metabolica ed immunitaria dello stress.

Dal filone di ricerca iniziato dal famoso esperimento dei marshmallows del prof. Walter Mischel (Mischel, et.al.,1989) dove si erano trovate correlazioni particolarmente forti e durature tra la capacità di posticipare la gratificazione e fattori chiave per la salute in età adulta (l’indice di massa corporea, il grado di soddisfazione di vita, salute generale, ecc.), il prof. Phil Zimbardo, psicologo di fama mondiale della Stanford University, cominciò ad approfondire l’argomento temporale fino a definire l’attuale ricerca focalizzata sulle dimensioni del tempo. Il prof. Zimbardo, ha condensato più di 30 anni di ricerche scientifiche inerenti la relazione che abbiamo nei confronti del tempo vissuto individualmente, definendo quello che viene chiamato Orientamento Temporale.

 

Orientamento temporale e implicazioni metaboliche e immunitarie

La particolare configurazione temporale che ogni individuo possiede nei confronti del presente, del passato e del futuro influenza in maniera profonda e generalizzata, anche se spesso in modo del tutto automatico ed inconscio, le scelte, le decisioni ed i comportamenti derivanti. Le conseguenze di queste scelte hanno un forte impatto sia sul piano del vissuto esperienziale che comportamentale (Zimbardo e Boyd, 2008) e quindi anche, a mio avviso, nella gestione dello stress con le logiche implicazioni metaboliche ed immunitarie.

Scegliere se mangiare un frutto o uno snack ipercalorico, decidere se procrastinare gli esercizi fisico-motori che si potrebbero fare adesso preferendo invece giocare ad un videogioco, sono banali esempi quotidiani che ci aiutano a capire come i processi decisionali che compiamo continuamente hanno forti conseguenze sia a breve che nel lungo termine per la dinamica cumulativa che possono produrre nel tempo.

L’ipotesi oggetto del mio lavoro di ricerca è che il nostro caratteristico atteggiamento temporale, oltre a determinare molte caratteristiche psicologiche, possa influenzare anche il livello neurale, metabolico ed immunologico per la dinamica intrinsecamente integrata di questi aspetti.

Naturalmente tutte le persone pensano sia ad eventi del Passato che del Presente che del Futuro, ma chiaramente ognuno di noi ha una particolare configurazione relativa a “quanto” frequentemente si focalizza in una o più di queste dimensioni temporali.

Il prof. Zimbardo con il suo gruppo di ricerca ha elaborato un test capace di misurare il rapporto che abbiamo nei confronti del tempo chiamato questionario ZTPI (cioè Zimbardo Time Perspective Inventory), uno strumento validato transculturalmente in 24 nazioni attraverso oltre 15000 persone (Stolarski et. al. 2014). Dall’analisi del test ZTPI emerge una configurazione (il profilo temporale) di valori che rappresentano lo stile cognitivo-emotivo e motivazionale che determina la modalità particolare di effettuare le scelte, i pensieri ed i comportamenti che compiamo. Ogni profilo temporale è modificabile nel tempo, può cambiare cioè, in funzione della specifica tipologia e frequenza di esperienze che facciamo. Le dimensioni analizzate dal questionario ZTPI sono cinque: due relative alle nostre esperienze passate negative e positive (rispettivamente il“Passato Negativo e “Passato Positivo”), due riguardanti il nostro presente (“Presente Fatalistico” legato a quanto ci sentiamo protagonisti attivi degli eventi significativi che sperimentiamo, ed il “Presente Edonistico” che misura invece la frequenza di esperienze piacevoli, sia positive che negative per la nostra salute, che conduciamo) e una attinente il nostro “Futuro”(l’insieme di aspettative sui progetti ed obiettivi che perseguiamo). Queste dimensioni temporali si sono dimostrate significativamente correlate in misura molto solida a specifiche caratteristiche psicologiche (Zimbardo e Boyd, 2008).

Ciascuna dimensione temporale è connessa con alcuni specifici fattori sia d’ordine psicologico che, anche se indirettamente, fisiologico (Zimbardo e Boyd, 2008). Ad esempio, chi è maggiormente focalizzato nel Passato Negativo risulta essere più ansioso, depresso, aggressivo, con minor autostima, stabilità emotiva e controllo dei propri impulsi, meno felice e con un minor livello percepito di energia generale. Chi invece è più focalizzato sul Presente Edonistico ricerca sensazioni “forti”, ha alti livelli di energia, creatività e aggressività e rispetto alla media della popolazione risulta essere più incoerente, possedere un basso livello di controllo dei propri impulsi oltre ad essere meno stabile emotivamente.

Le persone invece maggiormente concentrate sul Futuro pianificano i loro comportamenti e sono più attenti alla loro salute, sono più coerenti e coscienziosi, hanno maggiore energia e più controllo delle loro azioni. Sono meno aggressivi e depressi e cercano meno le sensazioni “forti” anche se tendono ad essere stacanovisti a livello lavorativo. E’ interessante che da uno studio inizialmente strettamente psicologico qual é l’ Orientamento Temporale sia possibile identificare correlazioni statisticamente solide anche sul piano metabolico ed immunologico. Vi potrebbero essere infatti diverse ricadute fisiologiche/metaboliche correlate alle varie configurazioni caratteristiche i vari profili temporali (indice di massa corporea, tendenza ad uno stile depressivo, livelli di energia generale percepita, ecc.).

E’ dunque plausibile ipotizzare che ad ogni tipologia di profilo temporale corrisponda una specifica strategia di gestione dello stress con le sue logiche e profonde conseguenze sia a livello metabolico che immunologico. Come sappiamo allo stress cronico corrisponde una modificazione di almeno due fondamentali architetture con i loro molteplici ed interconnessi effetti: il sistema nervoso (centrale e autonomo) e l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene). Nella condizione di stress cronico queste due strutture risultano fortemente alterate rispetto alla condizione di benessere psicofisico ottimale perché innescano entrambe processi fisiologici metabolici e neurali finalizzati a ripristinare l’equilibrio iniziale tramite azioni compensative ed adattative (si veda in merito il contributo ad esempio di Straub, 2011).

La prospettiva psicologica temporale ci permette in sintesi di comprendere perché, ad esempio, un profilo più focalizzato sul Passato Negativo caratterizzato da una maggiore frequenza di emozioni negative (rimuginii e ruminazioni) e uno stile generale più correlato alla depressione, possa implicare un sistema immunitario compromesso per l’interferenza dell’azione che collega la corteccia prefrontale al tronco encefalico inibendo l’attivazione antiinfiammatoria del nervo vago efferente (cholinergic pathway reflex). Da studi preliminari che ho condotto su 32 persone che hanno la Sindrome Post Traumatica da Stress (Agnoletti, 2016) ho riscontrato che, coerentemente con questa ipotesi, la caratteristica presenza di ricordi intrusivi negativi è correlata non solo ad un profilo temporale con un “alto” valore di Passato Negativo (in accordanza con quanto previsto dalla teoria dell’ Orientamento Temporale) ma anche ad indici infiammatori alterati (compresa la produzione cortisolo) oltre a bassi livelli di funzionamento delle pathways antiinfiammatorie (Agnoletti, 2016).

Sempre a titolo d’esempio, le implicazioni descritte dall’approccio temporale rendono maggiormente evidente la possibile connessione psicofisica tra stile cognitivo-emotivo e motivazionale e conseguenze metaboliche di coloro che risultano essere più proni a sviluppare dipendenze (perché funzionali alla gestione immediata dello stress) cioè di coloro che sono focalizzati sul Presente Edonistico. Le implicazioni di questa tipologia di persone caratterizzate da una specifica gestione dello stress orientata prioritariamente all’evitamento immediato di esperienze spiacevoli ha chiari effetti sulle strategie per contrastarli ad esempio a livello nutrizionale (ricerca di “comfort food”) o di uso/abuso di sostanze che creano dipendenza. Come risulta evidente questa modalità di gestione dello stress risulta essere molto diversa rispetto a quella di coloro che presentano, ad esempio, un profilo temporale maggiormente focalizzato sul Futuro caratterizzato dal non reagire alle situazioni stressanti attraverso l’utilizzazione di strategie edonistiche.

In sintesi ritengo che indagare le connessioni esistenti tra il Profilo Temporale ed il notevole bagaglio di conoscenze fornite dalle scienze biomediche sia molto prezioso per il notevole impatto sulla qualità di vita e la salute e le strategie psicofisiche integrate che si possono sviluppare per migliorarle.

Lo sfregio e la follia: cosa induce a deturpare le opere d’arte

Perché tali eventi di sfregio si sono verificati proprio nel campo dell’arte e non, per esempio, nell’avido mondo della finanza? Cosa può esserci dietro? Per rispondere a queste domande e per comprendere i meccanismi che spingono alcuni individui a scatenare la loro aggressività nei confronti di alcuni capolavori artistici  possono esserci d’aiuto, oltre alla psicologia e alla psichiatria, anche le neuroscienze, in particolare la neuroestetica, neologismo coniato da Semir Zeki (1940), neuroscienziato e Professore di Neurobiologia allo University College di Londra.

Alcuni esempi di capolavori sfregiati

Sono veramente tante le opere d’arte dal valore inestimabile che, nel corso degli anni, sono state sfregiate, spesso irreparabilmente: dalla Pietà (1497-1499) di Michelangelo che, nel 1972, venne vandalizzata da tal László Tóth, il quale, eludendo la sorveglianza vaticana, riuscì a colpire con un martello la Madonna (di cui frantumò il braccio ed il gomito e di cui distrusse il naso e le palpebre) alla tela Black on Maroon (1958) di Mark Rothko che, esposta alla Tate Modern di Londra, nel 2012 fu deturpata con un pennarello nero da tal Vladimir Umanets, che sostenne di aver fatto un’operazione alla Duchamp.

E ancora: era il 1989, quando tal Thomas Lange, nella Pinacoteca dei Musei Vaticani, si avvicinò al capolavoro di Raffaello Madonna di Foligno (1511-1512), vi gettò sopra del liquido infiammabile e poi tentò di darle fuoco; era il 1991, quando tal Pietro Cannata colpì con il martello il David (1501-1504) di Michelangelo al Museo dell’Accademia a Firenze, distruggendo un dito del piede sinistro. Era il 1993, quando il medesimo Cannata scarabocchiò con un pennarello gli affreschi del Lippi nel Duomo di Prato e quando tal Maurizio Pasquino entrò nella Chiesa degli Ermitani a Padova e spruzzò dello spray rosso sull’affresco del Mantegna raffigurante il trasporto del corpo di San Cristoforo (1454-1457).

Questi sono solo alcuni esempi dei tanti capolavori sfregiati: tanti altri eventi simili si sono verificati, nel tempo, per mano di individui diversi. Cosa può esserci dietro a questi gesti? Non è semplice capire i motivi che spingono una persona a sfogare la propria rabbia e la propria aggressività sulle opere d’arte: a volte si tratta di puro teppismo, altre volte, invece, si tratta di azioni di squilibrati, psicopatici o artisti falliti, che riversano la loro insoddisfazione sui capolavori altrui, come nel caso di Cannata, che era stato un ex studente di estetica ed un pittore mancato e che, nel 1999, dopo aver già compiuto altri sfregi, imbrattò a colpi di pennarello i Sentieri ondulati (1947) di Jackson Pollock: un dipinto già molto ingarbugliato di per sé che proprio non gli andava giù.

Cosa scatena questa aggressività verso le opere d’arte: il contributo della neuroestetica

Ma perché tali eventi si sono verificati proprio nel campo dell’arte e non, per esempio, nell’avido mondo della finanza? Cosa può esserci dietro? Per rispondere a queste domande e per comprendere i meccanismi che spingono alcuni individui a scatenare la loro aggressività nei confronti di alcuni capolavori artistici  possono esserci d’aiuto, oltre alla psicologia e alla psichiatria, anche le neuroscienze, in particolare la neuroestetica, neologismo coniato da Semir Zeki (1940), neuroscienziato e Professore di Neurobiologia allo University College di Londra.

Da alcuni anni, infatti, le neuroscienze hanno cominciato ad interessarsi di arte per cercare di capire quali siano le reti neurofisiologiche che consentono di cogliere come bella o come brutta una determinata opera d’arte.

Come si comporta il nostro cervello di fronte ad un capolavoro artistico? Che cosa succede nella nostra mente quando facciamo esperienza di un’opera d’arte come fruitori? La neuroestetica, disciplina nata nella seconda metà degli anni Novanta del XX secolo e derivata dalle neuroscienze, si pone l’obiettivo di esplorare le basi neuronali dell’esperienza artistica. Secondo il professor Zeki l’arte, e in particolare la pittura, è uno strumento straordinario per studiare i processi nervosi attraverso cui il cervello percepisce la realtà e per indagare scientificamente le basi neuronali dei processi cerebrali che governano il godimento di un’opera d’arte.

Il neuroscienziato si è a lungo occupato dei rapporti fra immagini artistiche e operazioni del cervello visivo: […] il cervello partecipa attivamente alla costruzione di ciò che vediamo e, facendo ciò, investe di senso i molti segnali che gli pervengono acquisendo, dunque, conoscenza del mondo (Zeki, 2007). Ogni volta che viene realizzata un’opera d’arte, l’artista vi immette segni e simboli, elementi storici e culturali dell’epoca e dei luoghi in cui è vissuto; ogni volta che un osservatore si trova di fronte ad un capolavoro artistico vi è una variabilità di reazione connessa alla sua personalità, alla sua storia e all’ambiente in cui si svolge l’esperienza estetica.

Ogni volta che formuliamo un giudizio estetico si attivano aree differenti del nostro cervello. Se nel nostro campo visivo entra un’opera che piace e per la quale formuliamo un giudizio estetico positivo, insieme alle aree cerebrali occipitali deputate alla visione, viene attivata l’area orbito-frontale mediale. Se invece il nostro giudizio estetico è negativo si attiva la corteccia motoria sinistra. Negli ultimi quindici anni la fisiologia della fruizione artistica si è arricchita di un elemento rilevante, il cosiddetto rispecchiamento, che si attua attraverso una classe di cellule nervose corticali: si tratta dei neuroni-specchio, capaci di elaborare, contemporaneamente, una rappresentazione dei propri atti ed una rappresentazione degli atti altrui.

Questo meccanismo, che viene definito simulazione incarnata, è un fenomeno per il quale chi rileva un’azione non solo la percepisce, ma anche la simula internamente.

I neuroni-specchio riguardano anche le emozioni, le sensazioni, gli affetti e, come sostengono Freedberg e Gallese nel loro saggio Motion, emotion and empathy in aesthetic experience (2007), persino l’osservazione di immagini statiche di azioni stimola l’atto di simulazione nel cervello dell’osservatore. Questa affermazione è estremamente interessante e significa che ogniqualvolta ci si trova di fronte ad un’immagine statica (quindi di fronte a qualsiasi opera d’arte) si innesca il processo della simulazione incarnata e ciò produce nell’osservatore una reazione di tipo empatico ed emotivo. Cioè: anche di fronte a corpi umani raffigurati sulla tela, per esempio, il corpo del fruitore reagisce come se fosse esso stesso direttamente coinvolto nella scena raffigurata, o come se esso stesso avesse compiuto i gesti necessari a tracciare quelle figure e forme rappresentate nell’opera d’arte.

Per comprendere quali siano le implicazioni empatiche nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una scultura dobbiamo rivolgerci al filosofo Herder, che, nel suo studio dedicato alla scultura, ci descrive l’incontro tra la statua ed il suo fruitore: la nostra anima si incarna nel corpo estraneo e si istituisce una vera e propria simpatia (o antipatia) interiore che pervade il corpo che si confronta con la scultura. Ecco perché il David di Michelangelo, per esempio, simbolo per eccellenza di bellezza ed armonia, può provocare violenti turbamenti emotivi mossi da invidia e gelosia per tanta perfezione, che possono persino sfociare in un istinto vandalico: un desiderio di danneggiare l’opera per riaffermare il proprio Io messo in pericolo da cotanta bellezza.

Neuroestetica: i correlati neurali della percezione estetica

A partire dagli anni Novanta l’opera d’arte diventa uno dei mezzi principali per la comprensione della risposta estetica negli esseri umani. Nel 1994 il neuroscienziato Semir Zeki ha avviato un nuovo ambito di ricerca, definita Neuroestetica, che si propone di studiare i meccanismi biologici alla base della percezione estetica

Clementina Musati, OPEN SCHOOL PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA MILANO

 

Neuroestetica: i meccanismi neurali implicati nella percezione estetica

Grazie al contributo delle tecniche di neuroimaging funzionale e di neurofisiologia, nel corso degli anni è stato possibile localizzare diversi siti corticali implicati in questo processo. Le prime rilevazioni in merito hanno sottolineato il coinvolgimento della corteccia prefrontale, in particolare della regione orbitofrontale e di quella dorsolaterale.

A partire dagli anni Novanta l’opera d’arte diventa uno dei mezzi principali per la comprensione della risposta estetica negli esseri umani. Nel 1994 il neuroscienziato Semir Zeki ha avviato un nuovo ambito di ricerca, definita Neuroestetica, che si propone di studiare i meccanismi biologici alla base della percezione estetica. Grazie al contributo delle tecniche di neuroimaging funzionale e di neurofisiologia, nel corso degli anni è stato possibile localizzare diversi siti corticali implicati in questo processo. Le prime rilevazioni in merito hanno sottolineato il coinvolgimento della corteccia prefrontale, in particolare della regione orbitofrontale e di quella dorsolaterale.

Il coinvolgimento della corteccia orbitofrontale nella percezione estetica è stato rilevato dagli studi di Kawabata e Zeki (2004). Gli autori hanno infatti riscontrato, utilizzando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), un aumento di attività metabolica nelle regioni orbitofrontali in seguito all’osservazione di opere d’arte. Studi successivi (Lumer & Zeki, 2011) hanno riportato che l’intensità dell’attività metabolica in quest’area riflette in modo lineare il grado di bellezza attribuito ad un dipinto da un osservatore. Questo contributo risulta di grande valore perché ha permesso di quantificare una sensazione soggettiva come quella dell’apprezzamento estetico.

Per quanto riguarda invece il ruolo della corteccia dorsolaterale nella stima estetica, recentemente alcuni studiosi hanno rilevato un aumento di attività metabolica in tale area in seguito a compiti relativi alla valutazione della piacevolezza di uno stimolo (Ishizu & Zeki, 2013). Un altro studio ha riscontrato un aumento dell’attività elettrica della corteccia dorsolaterale sinistra in seguito all’osservazione di stimoli considerati belli dai soggetti (Cela-Conde, 2004). Questi risultati, relativi alla lateralizzazione dell’attività cerebrale corrispondente alla percezione di stimoli piacevoli, hanno portato gli studiosi a descrivere il giudizio estetico come una funzione superiore, legata alla dominanza emisferica sinistra. Alla luce delle evidenze riportate, il contributo della corteccia prefrontale durante la percezione estetica, appare fondamentale.

Tuttavia, numerose evidenze empiriche hanno rivolto l’interesse degli studiosi di neuroestetica anche alla corteccia parietale. Cela-Conde et al. (2009) hanno osservato che stimoli visivi valutati positivamente dai soggetti attivano le regioni parietali in maniera più rilevante rispetto a quelli stimoli giudicati meno belli dai soggetti. L’attivazione della corteccia parietale nel giudizio estetico sembra essere associata con l’attenzione spaziale (Soga & Kashimori, 2009) e con la percezione della simmetria e della complessità, i due fattori ritenuti più importanti nella valutazione della bellezza (Jacobsen et al., 2003). Gli studi esplorativi fin qui discussi trovano ulteriore conferma nei casi clinici. Lesioni del lobo parietale destro riducono infatti il senso artistico degli adulti e questo dato ci conferma ancora una volta l’importanza delle regioni parietali nella percezione estetica di opere d’arte (Ramachandran, 2003).

 

Neuroestetica: le aree che si attivano nella percezione dell’arte figurativa e dell’arte astratta

In generale, è possibile differenziare gli stili pittorici in due grandi categorie: l’arte figurativa, nella quale vi è una rappresentazione fedele e accurata del mondo reale, e l’arte astratta, che esula invece dalla rappresentazione oggettiva della realtà. Con il termine “astrattismo” si definiscono quindi quelle forme di espressione artistica visuale in cui non vi siano indizi che permettano di ricondurre l’immagine ad aspetti dell’ambiente circostante.

A partire da queste considerazioni è possibile affermare che l’esperienza estetica non è una semplice registrazione passiva della realtà circostante, ma una costruzione attiva di significati che comporta processi di elaborazione e analisi. Già nel 1876 il fisiologo tedesco Gustav Theodor Fechner sosteneva che fosse possibile effettuare una distinzione tra “estetica dal basso”, che si occupa delle proprietà strutturali degli oggetti, ed “estetica dall’alto”, che comporta invece il coinvolgimento di processi di elaborazione di livello superiore, come il vissuto emotivo, i tratti temperamentali e le differenze individuali. I processi di analisi di livello superiore verrebbero attivati soprattutto durante l’osservazione di opere d’arte astratta. Infatti, mentre la valutazione estetica di opere figurative mostra un elevato grado d’accordo tra i soggetti, la valutazione di opere astratte presenta una concordanza tra i soggetti più bassa: gli autori (Vessell & Rubin, 2010) spiegano questi dati affermando che la visione di scenari reali elicita significati che possono essere facilmente condivisi tra i membri di una cultura, mentre la visione di opere astratte lascerebbe più spazio all’intervento di fattori interni all’individuo.

Le differenze individuate nell’elaborazione dei due stili artistici hanno portato gli studiosi di neuroestetica a concludere che arte astratta e figurativa possano essere processate da regioni corticali differenti. Alcuni studi hanno riscontrato che l’osservazione di diversi tipi di dipinti produce attività in differenti regioni corticali, a seconda della categoria di appartenenza dell’opera d’arte (Zeki et al., 1991). L’osservazione di tele figurative raffiguranti paesaggi, ad esempio, coinvolge i giri ippocampali bilaterali e la corteccia parietale destra, aree normalmente implicate nell’esplorazione di ampie scene visive (Epstein et al., 1999) e nella rappresentazione di relazioni spaziali tra gli elementi (Cuhlam & Kanwisher, 2001). I ritratti attivano aree implicate nell’osservazione di volti, come il giro fusiforme e l’amigdala (Breiter et al., 1996). La visione di immagini astratte, invece, non evidenzia alcuna specifica attività cerebrale.

I meccanismi neurali alla base dell’apprezzamento estetico di opere astratte e figurative sono stati indagati anche nello studio di Cattaneo et al. (2013). Gli autori hanno fatto osservare a 24 soggetti una serie di 70 quadri astratti e 80 quadri figurativi e hanno chiesto di indicare il grado di apprezzamento di ciascuna opera su una scala da 1 a 100. Successivamente, a ciascun partecipante è stata applicata una neuro-stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS) alla corteccia prefrontale dorsolaterale, una regione che risulta determinante nella percezione estetica. Dopo la neuro-stimolazione, i partecipanti hanno osservato una batteria di stimoli corrispondenti (70 immagini astratte e 80 figurative) e hanno espresso nuovamente il proprio apprezzamento per ciascun dipinto. A seguito della stimolazione si è riscontrato un aumento del gradimento del 3% nel caso di quadri figurativi, mentre è rimasto invariato l’apprezzamento di quelli astratti. Questo risultato conferma l’esistenza di processi neurali distinti nell’elaborazione delle due forme artistiche.

Infine, è stato ipotizzato che nell’apprezzamento estetico di opere d’arte possano essere coinvolti anche i cosiddetti neuroni specchio, una particolare popolazione di neuroni, presenti nella corteccia premotoria, che si attivano sia durante l’osservazione di un’azione che durante l’esecuzione della stessa (Rizzolati, 1996). I neuroni specchio esemplificano un meccanismo biologico che permette di correlare le azioni eseguite da altri con il repertorio motorio dell’osservatore. La visione di un’azione induce nell’osservatore l’automatica simulazione di quell’azione; tale meccanismo di rispecchiamento non è limitato al dominio delle azioni, ma riguarda anche quello delle sensazioni e delle emozioni. La risonanza interindividuale, descrivibile in termini funzionali come simulata incarnata, risulta determinante anche per interpretare l’arte e la dimensione estetica dell’esperienza umana (Morelli, 2010) .

Secondo alcuni autori (Gallese & Freedberg, 2008) questi neuroni sarebbero infatti responsabili delle risposte emotive alle opere d’arte, in particolare per quanto riguarda l’immedesimazione con esse. Questa sorta di empatizzazione con l’oggetto artistico è in grado di generare a livello corporeo risposte emotive elicitate dalle opere. Gli autori portano come esempio le sculture incompiute di Michelangelo, Prigioni. Nell’ammirare quest’opera l’osservatore tende ad attivare una serie di distretti muscolari localizzati nelle parti del corpo lasciate incompiute dall’artista. (Figura 1.1.).

Prigioni di Michelangelo

Questo meccanismo di immedesimazione con stimoli artistici non si verifica esclusivamente per le opere d’arte figurative, ma avviene anche per quelle astratte, prive di un riconoscibile contenuto formale. Ad esempio, i quadri di Pollock sono realizzati con una tecnica particolare, chiamata dripping (in italiano sgocciolatura), che comporta l’utilizzo di strumenti quali bastoncini e siringhe per applicare il colore, che viene lasciato cadere liberamente sulla tela. Gallese e Freedberg (2008) hanno riportato che l’osservazione dei quadri di Pollock induce, attraverso il sistema dei neuroni specchio, il coinvolgimento empatico dell’osservatore che è portato inconsapevolmente a simulare il programma motorio compiuto dall’artista per realizzare l’opera. (Figura 1.2.).

Autumn rhythm di Jackson Pollock

È dunque possibile concludere che quando osserviamo un’opera d’arte stiamo entrando in empatia a livello cerebrale con essa e con l’artista che l’ha creata, al di là del tempo e dello spazio (Missana, 2015). Aveva dunque ragione Lucio Fontana quando affermava che [blockquote style=”1″]l’Arte è eterna in quanto un suo gesto non può non continuare a permanere nello spirito dell’uomo.[/blockquote] Oggi la neuroestetica, e i neuroni specchio nello specifico, forniscono un’evidenza empirica a tale intuizione.

Alcolismo e ruminazione – Report dal seminario del Prof. Caselli a Genova

Si è svolto sabato 12 novembre a Genova presso il centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva il terzo e penultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia” a Genova. Il Professor Gabriele Caselli ha parlato di Ruminazione e alcolismo.

 

Si è partiti dalla definizione generale di aspettativa intesa come anticipazione circa eventi futuri (Tolman, 1932) per concentrarsi poi sulle aspettative relative all’utilizzo di alcool, le quali si riferiscono a credenze implicite o esplicite sugli effetti della sostanza. Queste possono essere: aspettative positive (l’alcool mi aiuta a rilassarmi) o negative (l’alcool danneggia la mia salute).

Non tutte le aspettative diventano motivazioni in quanto avere aspettative positive sugli effetti dell’alcool non significa necessariamente consumare alcool per realizzarle. È stato sottolineato come le aspettative derivino da credenze metacognitive di base sull’utilizzo di alcool che sembrerebbero essere più frequenti in persone che fanno abuso di alcool piuttosto che nei bevitori sociali.

 

Le credenze sull’utilizzo di alcool

Alcuni esempi di tali credenze sono: bere mi aiuta a ragionare e risolvere problemi, l’alcool mi aiuta a controllare i pensieri, l’alcool mi aiuta a distrarmi da stimoli fastidiosi (sensazioni fisiche e pensieri negativi) e a non dare a peso al giudizio negativo su di me. Si ipotizza pertanto che la principale differenza tra chi fa abuso di alcool e bevitori sociali è che i primi vedono l’ utilizzo di alcool come unica strategia per staccarsi da una modalità disfunzionale di elaborazione delle informazioni.

Ed è a questo punto che viene introdotto il concetto di ruminazione inteso come strategia di coping messa in atto allo scopo di controllare le emozioni negative ed è caratterizzata da uno stile di pensiero persistente e negativo e da attenzione focalizzata su di sé (Lyubomirsky and Nolen-Hoesema 1993).

Le maggiori conseguenze della ruminazione paiono essere l’umore depresso, il giudizio globale e negativo, la demotivazione, l’evitamento. Le caratteristiche distintive della ruminazione sembrano essere la ripetitività, i contenuti negativi, il concentrarsi analiticamente su se stessi, l’incontrollabilità, la cattura delle capacità mentali, l’astrattezza e l’orientamento al passato (Caselli, Giovini, Giuri & Rebecchi, 2011).

Studi recenti mostrano come in persone affette da disturbo di abuso di alcool l’essere portati a ruminare incrementi il desiderio irrefrenabile di bere (Caselli et al. 2013). La ruminazione parrebbe essere sintomo cruciale nei disturbi da utilizzo di alcool e nel processo di ricaduta e fungerebbe da ponte tra emozioni negative e consumo di bevande alcoliche.

Sulla base di tali ipotesi il focus del percorso terapeutico per l’abuso di sostanze alcoliche andrebbe posto sui processi ruminativi in quanto si ipotizza che il soggetto ricorra all’utilizzo di alcool come strategia principale per sopprimere la ruminazione e gli effetti negativi ad essa correlati.

 

Prossimamente a Genova

Il prossimo e ultimo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova” dal titolo “Perché ci preoccupiamo tanto? Il modello cognitivo e i suoi sviluppi”, sarà tenuto dal Dott. Giovanni Maria Ruggiero sabato 10 Dicembre 2016 dalle ore 10 alle ore 13 presso il centro Psicoterapia e Scienza cognitiva Genova.

 

VIDEO: un estratto dal seminario di Genova

Visita la pagina Facebook del Centro di Psicologia e Psicoterapia di Genova

Lo sviluppo dell’identità sessuale e l’identità di genere. Parlare ai figli della sessualità: tendenze omosessuali e adolescenti gender variant (2016) – Recensione

E’ un libro nato con l’intento di offrire a tutti i genitori un nuovo punto di vista per comprendere e affrontare il processo di formazione dell’identità di genere nel bambino e nell’adolescente.

 

La prospettiva offerta dagli autori, Emanuela Quagliata e Domenico Di Ceglie, è quella puramente psicoanalitica di alcuni dei maggiori esperti italiani e stranieri degli argomenti trattati e del lavoro con le famiglie.

Il primo capitolo introduce le nozioni della sessualità infantile a partire dalle teorie di Freud (la masturbazione dei bambini, il complesso di Edipo, la bisessualità, ecc.), esaminandone la validità attuale e in che modo tali concetti e definizioni siano stati arricchiti e approfonditi dagli psicoanalisti moderni.

Nel secondo capitolo viene descritto, sempre in ottica psicoanalitica, come l’individuo sviluppi un’identità separata descrivendone il contributo da parte di padre e madre. Gli autori forniscono numerosi esempi di osservazioni cliniche sugli stereotipi di genere. Questi due capitoli, pur essendo di chiara esposizione, conservano un certo grado di complessità, che probabilmente li renderebbe di difficile lettura ad un pubblico di non addetti ai lavori.

Nel terzo capitolo viene affrontato il tema della genitorialità di bambini e adolescenti gender variant, ossia persone la cui modalità di espressione del genere differisce da ciò che ci si aspetterebbe da loro in base al sesso biologico al quale vengono assegnati alla nascita. Gli autori sottolineano, fornendo numerose esemplificazioni cliniche, come gli approcci attuali alla variabilità del genere hanno abbandonato la tendenza patologizzante e correttiva diffusa negli anni sessanta, a favore di un modello genericamente affermativo, in cui prevale la necessità di aspettare e osservare, auspicabilmente da condividere coi genitori.

Nel quarto capitolo, grazie all’esperienza del Gender Identity Development Service (GIDS) attivo presso la Tavistock clinic di Londra, gli autori chiariscono concetti quali la “varianza di genere nei bambini” o “sviluppo atipico dell’identità di genere”, i termini “transessuale” e “transgender”, evidenziando attraverso ulteriori esemplificazioni cliniche quanto sia complesso e delicato il lavoro di aiuto necessario per questi bambini e le loro famiglie. Durante il periodo di sviluppo e anche nella fase adulta, l’incongruenza tra la percezione della propria identità di genere e il corpo è spesso causa di grande sofferenza e di disagio psicologico e sociale. Il termine “Disforia” (mantenuto nel DSM 5) deriva dal greco e indica proprio uno stato di disagio emotivo, ed è stato utilizzato per evidenziare il vissuto soggettivo di questo gruppo di bambini e adolescenti.

Il quinto capitolo si occupa dello sviluppo dell’orientamento omosessuale e dell’identità di genere in adolescenza, sottolineando l’esistenza di molte e differenti sessualità (etero, bi, omo), sempre plasmate dai contesti culturali e dalle aspettative rispetto al genere.

Da un punto di vista psicoanalitico, solo dalla fine del secolo scorso l’omosessualità inizia a liberarsi dal pregiudizio che la voleva come un esito patologico dello sviluppo sessuale dell’individuo. Si aprono così nuovi scenari, e lo spazio per lo studio di una prospettiva evolutiva, dove appare evidente il ruolo del contesto sociale (come la scuola) che fin dai primissimi anni di vita produce pratiche di genere, veicolando stereotipi, rafforzando i ruoli di genere, e la contrapposizione maschile vs femminile, e dove ogni atipicità a partire dai 3-4 anni viene spesso giudicata negativamente e ostacolata, sia dal gruppo dei pari sia dagli adulti, che anche senza volerlo possono proporre stereotipi e pregiudizi di genere, finendo per rinforzare la segregazione sessuale.

Il percorso di scoperta e presa di consapevolezza del proprio orientamento sessuale atipico è per gli autori un processo individuale, che può essere molto diverso da caso a caso; è tuttavia il momento del coming out il crocevia esistenziale che segna un prima e un dopo, per diventare poi un processo decisionale che viene attivato tutte le volte che la situazione interpersonale lo richiede.

L’ultimo capitolo propone delle riflessioni dell’autrice sul “fare informazione”, traendo spunto dalla sua esperienza a contatto con genitori ed educatori che hanno a che fare con un bambino considerato “atipico”, sottolineando l’importanza del rispetto che la famiglia e la scuola sanno portare alle diversità, e le difficoltà del mondo adulto legate all’accettazione delle differenze senza preconcetti.

L’abuso di cannabis può causare psicosi

Il rischio di sviluppare una psicosi è triplicato nei soggetti che fanno abuso di cannabis, secondo quanto è emerso in un nuovo studio sui gemelli pubblicato su Schizhoprenia Bulletin.

 

I ricercatori dell’Istituto Norvegese di Salute Pubblica (NIPH), in collaborazione con i colleghi della Virginia Commonwealth University, hanno esaminato la relazione esistente tra cannabis e psicosi analizzando i dati provenienti da interviste diagnostiche somministrate a coppie di gemelli Norvegesi. Le interviste (Composite International Diagnostic Interview) hanno permesso di constatare la presenza di sintomatologia psicotica e da abuso di cannabis nei soggetti valutati.

Studi precedenti avevano già dimostrato che i pazienti che soffrono di Disturbo Psicotico fanno uso di cannabis in modo più frequente rispetto alla popolazione generale. Tuttavia le ricerche condotte divergevano sul definire l’ abuso di cannabis come possibile causa del Disturbo Psicotico – ha affermato Ragnar Nesvåg, ricercatore anziano presso il NIPH e autore principale dello studio.

Inoltre la scienza ha da tempo evidenziato che numerosi fattori genetici possono influenzare sia l’ abuso di cannabis che la manifestazione di sintomi psicotici, aumentando così il rischio di sviluppare entrambe le problematiche.

La rilevanza di determinati geni nell’eziologia di un disturbo è nota come ereditarietà, e noi sappiamo da precedenti studi condotti qui al NIPH che l’ abuso di cannabis è un fenomeno fortemente ereditario – ha spiegato Eivind Ystrom, ricercatore anziano al NIPH – Per determinare se l’ abuso di cannabis possa portare alla manifestazione di una psicosi, è importante tenere in conto il rischio genetico.

 

Abuso di cannabis: causa o conseguenza di sintomi psicotici?

I ricercatori, pertanto, hanno testato sia l’ipotesi secondo cui la cannabis possa essere la causa scatenante della psicosi sia l’ipotesi secondo cui la presenza di sintomi psicotici conduca ad abuso di cannabis.

L’ipotesi che meglio si adatta ai dati raccolti attraverso le interviste è che l’ abuso di cannabis causi i sintomi della psicosi. Infatti, all’interno di una coppia di gemelli, il gemello che presenta sintomi da abuso di cannabis possiede un rischio 3.5 volte più elevato di sviluppare sintomi psicotici se comparato con il gemello senza sintomatologia da abuso di cannabis.

Le nostre analisi mostrano un’associazione significativa tra abuso di cannabis e sintomi psicotici nella popolazione generale. Abbiamo naturalmente testato anche l’ipotesi opposta, ma tuttavia questa soddisfaceva meno i dati emersi dalle interviste. Pertanto, sembra proprio che sia l’ abuso di cannabis a causare le psicosi, e non il contrario. – ha detto Ystrom.

Studi precedenti avevano dimostrato che l’ abuso di cannabis è un fenomeno ereditario, il che è stato confermato anche in questo studio: quasi l’88% delle cause per cui alcune persone abusano di cannabis ed altre no, può essere attribuito a fattori di rischio genetici.

Nonostante ciò, la ricerca ha anche riscontrato che un comune rischio genetico non è in grado di spiegare l’intera associazione con i sintomi psicotici. Infatti, anche dopo che il rischio genetico e il rischio proveniente dall’ambiente di sviluppo infantile sono stati controllati nelle analisi, le persone che abusavano di cannabis continuavano a manifestare un rischio superiore di sviluppare sintomi psicotici.

Nesvåg ha affermato che le psicosi determinano un elevato costo per la società, pertanto queste scoperte dovrebbero essere tenute in considerazione quando si riflette sui costi che potrebbero avere le politiche volte a rendere disponibile la cannabis, come lo sono la legalizzazione e la decriminalizzazione.

Concludendo, indagare se un particolare fattore di rischio sia la causa di un determinato disturbo richiede la conduzione di studi in cui sia possibile osservare due persone identiche, dove però una viene esposta al fattore di rischio mentre l’altra no.

Per ovvie ragioni, questi esperimenti non  sono fattibili né dal punto di vista pratico, né da quello etico e né tanto meno da quello legale. In quest’ottica gli studi sui gemelli costituiscono alternative disponibili e altrettanto valide dal momento che i gemelli hanno una similarità genetica, sono cresciuti nella stessa famiglia e possiedono lo stesso background socioeconomico.

 

I trattamenti psicoterapeutici nelle sindromi psicotiche croniche

Nel corso degli anni le ricerche compiute in ambito cognitivo, comportamentale e sociale hanno contribuito ad incrementare le conoscenze relative al ruolo giocato dai fattori cognitivi e psicologici nell’insorgenza dei sintomi che caratterizzano le sindromi psicotiche croniche.

 

Sindromi psicotiche croniche

Per gran parte del ventesimo secolo i sintomi psicotici sono stati considerati non ascrivibili al dominio terapeutico psicologico, quanto piuttosto curabili in una dimensione biologica. Nel corso degli anni le ricerche compiute in ambito cognitivo, comportamentale e sociale hanno contribuito ad incrementare le conoscenze relative al ruolo giocato dai fattori cognitivi e psicologici nell’insorgenza dei sintomi, che caratterizzano le sindromi psicotiche croniche.

Fra gli approcci psicoterapeutici alla schizofrenia, quello che gioca un ruolo determinante è rappresentato dalla terapia cognitivo-comportamentale (CBT). Anche il training metacognitivo (MCT) risulta essere efficace nel trattamento della sintomatologia schizofrenica. Un elemento non trascurabile che incide sul trattamento psicoterapeutico è rappresentato dai fattori individuali, che caratterizzano l’unicità del paziente.

 

I trattamenti psicoterapeutici nelle sindromi psicotiche croniche

Per gran parte del ventesimo secolo i sintomi psicotici sono stati considerati non ascrivibili al dominio terapeutico psicologico, quanto piuttosto curabili in una dimensione biologica, come rivelano Mander e Kingdon (2015). Nel corso degli anni le ricerche compiute in ambito cognitivo, comportamentale e sociale hanno contribuito ad incrementare le conoscenze relative al ruolo giocato dai fattori cognitivi e psicologici nell’insorgenza dei sintomi, che caratterizzano le sindromi psicotiche croniche (Andreou e Moritz, 2016).

Contemporaneamente, i paradigmi terapeutici che prevedevano l’uso esclusivo di farmaci antipsicotici nel trattamento della schizofrenia hanno mostrato dei limiti, soprattutto per quel che concerne la riabilitazione psicosociale del paziente (Jaaskelainen e coll., 2013). Tutto questo, abbinato al fatto che alcuni pazienti aderivano malvolentieri al solo trattamento farmacologico o non avevano risposte soddisfacenti dall’utilizzo di antipsicotici, ha implementato la ricerca nell’ambito dell’utilizzo di strategie psicoterapeutiche nella cura delle sindromi psicotiche croniche (Andreou e Moritz, op. cit.).

Attualmente diversi studi hanno analizzato l’utilizzo, l’efficacia e i meccanismi d’azione dei trattamenti psicoterapeutici nelle sindromi psicotiche croniche. Fra gli approcci psicoterapeutici alla schizofrenia, quello che gioca un ruolo determinante è rappresentato dalla terapia cognitivo – comportamentale (CBT). Essa è stata fra le prime psicoterapie inserite nelle linee guida terapeutiche riguardanti il trattamento della schizofrenia. A questo riguardo, due studi (Peters e coll., 2015 e Mehl e coll., 2015) hanno messo in evidenza l’efficacia dei trattamenti psicoterapeutici di derivazione cognitivo – comportamentale nella cura delle sindromi psicotiche croniche. I trattamenti analizzati dalle due ricerche sono basati su di un focus terapeutico, che è finalizzato ad una comprensione cognitiva da parte del paziente dei fattori che concorrono a creare i sintomi psicotici.

Altri lavori scientifici hanno evidenziato che il training metacognitivo (MCT) svolge un ruolo di rilievo nel trattamento della sintomatologia legata alla schizofrenia. Moritz e coll. (2015) e So e coll. (2015) hanno mostrato che un trattamento di poche sedute, effettuato nell’ambito di un training metacognitivo, possa avere dei buoni effetti relativamente alla diminuzione delle mistificazioni che frequentemente alimentano le idee deliranti dei pazienti affetti da psicosi cronica.

Un elemento non trascurabile che incide sul trattamento psicoterapeutico è rappresentato dalla variabilità individuale dei pazienti. Infatti, uno studio di Menon e coll. (2015) sottolinea che nel successo dei trattamenti psicoterapeutici per questo tipo di patologia, un peso considerevole lo hanno i fattori individuali, che caratterizzano l’unicità del paziente. Sembra che la terapia metacognitiva riduca i deficit neurocognitivi associati alla schizofrenia e ciò ha una ripercussione positiva sull’autostima e sul mantenimento nel tempo dei miglioramenti ottenuti (Cella e coll., 2015).

Lombalgia cronica: come gli atteggiamenti degli specialisti influenzano il trattamento e le credenze del paziente

Per un trattamento adeguato della lombalgia cronica sembra opportuna una presa in carico del paziente da parte di diverse figure professionali, tra cui fisioterapisti e psicologi, che possano unire le loro competenze per il benessere del paziente. 

Antonella Sanzò – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi, San Benedetto del Tronto

 

La lombalgia cronica è un dolore persistente a livello della zona lombare della schiena e può essere definito un disturbo complesso, in quanto è influenzato non solo da fattori di natura biologica, ma anche psicologica (credenze catastrofiche sul dolore, depressione, ansia, basse aspettative sulla possibilità di guarigione e scarsa motivazione, adozione di strategie passive di coping), sociale (ad esempio, fare un lavoro in cui sono richiesti eccessivi sforzi  fisici) e dallo stile di vita (scarsa attività fisica) (Synnott, O’Keeffe, Bunzli, Dankaerts, O’Sullivan e O’Sullivan, K., 2015).

In alcuni casi, questi fattori contribuiscono ad acuire il disturbo tanto da portare ad una riduzione delle attività svolte normalmente dalla persona e un’assenza prolungata dal lavoro. In genere, non c’è una causa specifica per la lombalgia cronica, ma si possono riscontrare frequentemente problemi di natura muscolo– scheletrici non gravi, quali distorsioni e stiramenti muscolari oppure cause di maggior entità, quali ad esempio forme tumorali o infezioni. Secondo la maggior parte delle ricerche, il mal di schiena lombare si distingue in acuto se ha una durata inferiore alle sei settimane, subacuto se ha una durata di 6 – 12 settimane e cronico se i sintomi hanno una durata superiore alle 12 settimane (Violante, Mattioli e Bonfiglioli, 2015).

Per la maggior parte dei pazienti che presentano mal di schiena acuto il problema si risolve spontaneamente e solo una piccola percentuale di essi sperimenta sintomi cronici. Tuttavia, considerando che la lombalgia può anche cronicizzarsi ed il suo trattamento in tal caso è più difficile e richiede costi elevati, è importante fare degli accertamenti per tempo quando si ha un mal di schiena persistente e curarlo adeguatamente. A tal proposito, le linee guida per la cura della lombalgia generalmente riconoscono l’importanza di un trattamento bio- psico-sociale del paziente, basato su un modello sviluppato da Engel negli anni Ottanta e che pone il malato al centro di un sistema influenzato da diverse variabili di natura organica, psicologica e sociale.

 

L’approccio bio-psico-sociale al trattamento della lombalgia cronica

Una recente revisione di alcuni studi sul tema ha rilevato che nonostante gli specialisti supportino un approccio bio-psico-sociale al trattamento della lombalgia, sono pochi coloro che lo mettono in atto nella pratica. In uno studio condotto su fisioterapisti qualificati che trattavano pazienti con lombalgia cronica si sono indagati quali fossero le percezioni dei professionisti rispetto all’importanza di identificare e trattare fattori cognitivi, psicologici e sociali che possono essere degli ostacoli alla guarigione dei pazienti (Synnott, O’Keeffe, Bunzli, Dankaerts, O’Sullivan e O’Sullivan, 2015); è stato riscontrato che essi soltanto parzialmente riconoscevano l’importanza di tali fattori oppure assumevano un atteggiamento poco comprensivo quando i pazienti alludevano a qualcuno dei precedenti fattori, esprimendo una preferenza maggiore per gli aspetti organici della lombalgia.

Fornendo esclusivamente una spiegazione biomedica del disturbo, basata sulla nozione che il dolore e la disabilità derivano esclusivamente dalla patologia fisica e proponendo un trattamento in linea con questa tesi i fisioterapisti incrementano le credenze dei pazienti basate sull’idea che il dolore dipenda esclusivamente da un danno significativo ai tessuti. Gli studi dimostrano come un approccio bio-psico-sociale, incoraggiando nei pazienti una gestione attiva del problema e una comprensione di esso in tutti i suoi aspetti, potrebbe, invece, risultare più efficace nella riduzione del dolore e della disabilità a lungo termine (Jones, Johnson, Wiles, Chaddock, Phys, Roberts,S Ymmons e Macfarlane., 2006).

 

Gli aspetti psicologici della lombalgia cronica

La percezione del dolore è influenzata anche dal modo in cui l’individuo con lombalgia cronica gestisce le sue sensazioni corporee: alcuni studi hanno rilevato che l’umore depresso e credenze negative sul dolore, ad esempio credere che il proprio stato di malessere fisico persisterà a lungo nel tempo, sono fattori che facilitano una condizione di disabilità prolungata. (Young, Greenberg, Nicassio, Harpin e Hubbard, 2008).

La tendenza alla catastrofizzazione del dolore può essere considerata una modalità tipica del funzionamento cognitivo di alcune persone: essa è caratterizzata dall’amplificazione della sensazione di dolore attraverso il rimuginio su di esso, da un senso di impotenza nell’affrontarlo e incapacità a tollerarlo, con conseguenti emozioni di paura ed ansia. Ciò influisce negativamente sul funzionamento sociale ed emotivo e sulla risposta ai trattamenti (Lo Sterzo 2015).

Tuttavia, questa modalità cognitiva può anche essere influenzata da fattori esterni, quali le informazioni che le persone ricevono sul loro malessere: nel corso delle interazioni tra pazienti e specialisti gli atteggiamenti di questi ultimi rispetto alla patologia potrebbero influenzare quelli dei pazienti.

 

Lombalgia cronica e credenze disfunzionali: uno sguardo alla letterattura

In una review della letteratura (Darlow, Fullen, Dean, Hurley, Baxter e Dowell, 2012) sono stati messi a confronto diciassette studi condotti in otto paesi differenti; lo scopo di tali studi era quello di verificare se ci fosse un’associazione tra atteggiamenti e credenze degli specialisti e atteggiamenti e credenze dei pazienti. Gli specialisti presi in considerazione erano, nello specifico, fisioterapisti, chiropratici, ortopedici, reumatologi e altre figure paramediche. I pazienti erano persone con mal di schiena lombare cronico, acuto o sub acuto o alla prima esperienza di lombalgia.

L’associazione tra gli atteggiamenti e le credenze degli specialisti e quelli dei pazienti erano indagate attraverso i comportamenti riportati dagli stessi specialisti, questionari e interviste fatte ai pazienti, osservazioni, verifiche dei trattamenti oppure attraverso una combinazione di queste misure. Tali studi hanno dimostrato che gli atteggiamenti e le credenze dei pazienti con mal di schiena lombare erano associati agli atteggiamenti e alle credenze dei professionisti che i pazienti avevano consultato.

Molti specialisti avevano credenze di “paura – evitamento” (Linton et al., 2002; Coudeyre et al.,2006; Poiraudeau et al., 2006; Sieben et al., 2009) e ritenevano opportuno suggerire ai pazienti di non fare eccessiva attività fisica, limitando anche l’attività lavorativa; tali credenze erano associate a quelle di evitamento dei pazienti. Le credenze di “paura – evitamento” sono caratterizzate dal pensiero che certe attività dovrebbero essere evitate per non sentire sensazioni fisiche spiacevoli: esse si riscontrano maggiormente in coloro che hanno pensieri catastrofici sul dolore, i quali attuano un continuo monitoraggio delle proprie sensazioni fisiche, interpretando stati di dolore acuto come segnali di pericolo oppure come segnale della presenza di gravi lesioni; ciò induce ad evitare alcune attività per paura di provare dolore; si istaura in tal modo un circolo vizioso in cui la persona riduce sempre di più la sua sfera di azione e ciò incrementa stati emotivi di tristezza, ansia e rabbia per la propria condizione.

Uno studio che ha preso in esame circa 1600 pazienti con mal di schiena cronico ha rilevato che i pazienti che hanno credenze negative sulle loro capacità di far fronte al problema e poca fiducia nella loro possibilità di poter fare delle attività nonostante il dolore, tendono maggiormente al catastrofismo e alla depressione (Foster, Thomas, Bishop, Dunn, e Main, 2010).

Da quanto detto, si può supporre che gli specialisti, in alcuni casi, possano contribuire ad incrementare i comportamenti protettivi dei pazienti con lombalgia cronica, inducendoli anche a lunghi periodo di riposo dal lavoro. In uno studio (Reme, Hagen e Eriksen, 2009) condotto su 246 pazienti che presentavano dolore alla zona lombare della schiena sono stati indagati i fattori che contribuivano ad un congedo dal lavoro per malattia per periodi di  tempo prolungati. Sono risultati influenti diversi fattori, ad esempio l’intensità del dolore percepito durante il periodo di riposo, le aspettative negative nel ritornare al lavoro e l’essere stato in cura da un fisioterapista durante il periodo di malattia; l’influenza  di quest’ultimo fattore è ancora poco chiaro, ma una spiegazione che può essere fornita è che i fisioterapisti potrebbero comunicare eccessive precauzioni ai pazienti, consigliando loro di non tornare a lavoro troppo presto.

Da uno studio (Houben, Ostelo, Vlaeyen, Wolters, Peters e Stomp-van Den Berg,, 2005) sembrerebbe che sono i terapisti con un orientamento maggiormente biomedico a percepire le attività quotidiane come pericolose per i pazienti con lombalgia cronica e non solo rispetto ai terapisti con un orientamento bio-psico-sociale e a consigliare ai loro pazienti di limitare l’attività quotidiana e lavorativa. Un’eccessiva focalizzazione da parte dei clinici su ciò che i pazienti non dovrebbero fare piuttosto che porre l’attenzione sulle attività che essi sono in grado di svolgere  potrebbe rinforzare le credenze disfunzionali dei pazienti di poter guarire solo se sono evitati alcuni movimenti e azioni.

 

L’importanza dell’atteggiamento degli specialisti nel trattamento della lombalgia

Le linee guida per il trattamento del mal di schiena cronico sottolineano l’importanza di motivare il paziente a riprendere le normali attività il prima possibile. Gli studi dimostrano che i comportamenti protettivi non riducono il dolore, quanto piuttosto incrementano la preoccupazione e lo stato di frustrazione dei i pazienti (Darlow, Dowell,  Mathieson,  Perry e  Dean, 2013).

I clinici sono visti come una fonte di certezza e i pazienti hanno una grande fiducia in loro: essi tendono a dare un significato ai propri sintomi tenendo in considerazione ciò che viene detto dagli esperti. Per tale motivo, gli specialisti dovrebbero essere consapevoli dell’impatto che i loro atteggiamenti e credenze hanno sui loro pazienti. Le ricerche dimostrano che anche le aspettative sulla riuscita del trattamento sono influenzate dalle credenze che i terapisti trasmettono ai loro pazienti. (Van Wilgen, Koning e Bouman, 2012).

Quindi, è opportuno che gli specialisti che si occupano del trattamento della lombalgia cronica diventino consapevoli delle loro credenze disfunzionali sulla malattia al fine di modificarle per approcciarsi adeguatamente ai pazienti. A tal proposito, si potrebbe pensare a programmi educativi in cui incrementare tale consapevolezza attraverso l’uso di questionari self report che indaghino le credenze che i fisioterapisti hanno sul dolore, come il “Pain Attitudes and Beliefs Scale for Psysiotherapist” (PABS. PT) (Nijs, Roussel, Van Wilgen, Köke e Smeets, 2013). E’ importante  incrementare anche le conoscenze dei professionisti sul ruolo che hanno i fattori psicologici e sociali nel decorso della lombalgia cronica e non considerare soltanto gli aspetti strettamente organici del problema.

Da quanto è stato esposto sinora, per un trattamento adeguato del dolore lombare cronico sembra opportuna una presa in carico del paziente da parte di diverse figure professionali, tra cui fisioterapisti e psicologi, che possano unire le loro competenze per il benessere del paziente.

Le evidenze sulla riabilitazione di pazienti con lombalgia cronica hanno sottolineato l’importanza di lavorare non solo sugli aspetti organici del disturbo, ma anche sui pensieri catastrofici che il paziente fa sul proprio dolore e sulla malattia, per incrementare il senso di autoefficacia dei pazienti e le loro capacità di gestione del problema (Miles, Pincus, Carnes, Homer, Taylor, Bremner, Rahman e Underwood, 2011).

Omofobia interiorizzata – Le risposte di FluIDsex alle domande dei lettori

Gentile redazione,

sono uno studente di psicologia e sto provando particolare interesse sull’argomento dell’orientamento sessuale, in particolar modo sull’omofobia interiorizzata propria. starei cercando delle letture che possano aiutarmi a fornirmi degli strumenti utili per affrontare questa particolare problematica. l’unico testo che sono riuscito a trovare consultando la vostra pagina è “fluidità sessuale” di D. dettore che a breve acquisterò. Inoltre vorrei chiedervi possibili letture riguardo i seguenti argomenti:

  • Grandi differenze d’età nelle coppie, se e come affrontare il disagio.
  • Gelosia scaturita dalla paura dell’abbandono
  • Paura inconscia della figura femminile
  • Affrontare il distacco emotivo di una storia finita

Chiedo scusa per la “confusione” ma spero mi possiate aiutare. Grazie in anticipo e buona giornata.

 

 

Lo psicologo considera suo dovere accrescere le conoscenze sul comportamento umano e utilizzarle per promuovere il benessere psicologico dell’individuo, del gruppo e della comunità […]. (Codice deontologico degli psicologi italiani, art. 3)

Con questa citazione si apre il testo di Vittorio Lingiardi e Nicola Nardelli, “Linee guida per la consulenza psicologica e la psicoterapia con persone lesbiche, gay e bisessuali”, edito da Raffaello Cortina Editore, che oggi consigliamo al nostro lettore.

Il testo è dedicato esplicitamente a tutti i professionisti (e anche a quelli in divenire) della salute mentale che desiderano approfondire tematiche legate all’orientamento sessuale.

Lo scopo dei nostri autori, infatti, non è quello di delineare un “trattamento speciale” per persone LGBT bensì di sopperire alle lacune prodotte da una formazione ancora insufficiente riguardo ai temi dell’orientamento sessuale. In Italia, purtroppo, queste lacune sono abbastanza evidenti, sia all’interno dei manuali di psicologia, sia nelle aule universitarie; di conseguenza non vi è da sorprendersi se, come emerge da varie ricerche italiane, molti professionisti della salute mentale non sono esenti da pregiudizi negativi nei confronti degli individui omosessuali (Lingiardi, Capozzi, 2004; Lingiardi, Nardelli, 2011).

In particolare, nel testo troverà un riferimento teorico e clinico al fenomeno dell’omofobia interiorizzata.

Penso quindi che questo libro faccia al caso suo, e la ringraziamo per averci dato la possibilità di ribadire ancora una volta che un continuo aggiornamento e una buona (in)formazione siano gli unici mezzi a nostra disposizione per non farci sopraffare da stereotipi negativi, sia nel privato che nell’esercizio della professione.

Per quanto riguarda gli altri macro temi: siamo piacevolmente colpiti dalla sua copiosa curiosità; ci riserviamo il diritto di “saziarla” nei prossimi appuntamenti della rubrica e darle anche il giusto tempo per affrontare un tema alla volta e non incappare in una facile “confusione”.

La preghiamo di continuare a seguirci e la salutiamo con un arrivederci.

Lorena Lo Bianco

 

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

cancel