expand_lessAPRI WIDGET

Benefici della Pratica della consapevolezza: cambiare il modo di vedere la realtà e se stessi

La consapevolezza è un’osservazione non giudicante ed è dunque la capacità della mente di osservare senza criticare. In questo modo è possibile vedere ogni cosa senza condanna e senza meravigliarsi di nulla. Inoltre, la consapevolezza è “osservazione partecipante” ossia il meditante è sia osservatore dei propri stati emotivi che partecipante, cioè nello stesso tempo le prova, le esperisce.

La pratica della consapevolezza: in cosa consiste

Secondo l’ottica Buddhista, noi esseri umani viviamo in un modo particolare, considerando le cose come permanenti anche quando esse non lo sono. Non siamo difatti abituati a percepire le cose in continua evoluzione, in continuo cambiamento, come in realtà sono.

Con la Meditazione vipassana, è possibile coltivare un modo speciale e diverso di guardare la vita: vederla così come esattamente è. Questo è un modo particolare di percepire chiamato “Consapevolezza“. Questo processo della Consapevolezza è molto diverso dunque dal modo abituale di conoscere ed esperire la realtà, cui siamo abituati. In genere infatti guardiamo le cose attraverso uno schermo di concetti e pensieri e scambiamo questi oggetti mentali per la realtà. In questo modo trascuriamo quasi tutti gli stimoli sensoriali che riceviamo, nonostante le risposte percettive siano intrinseche alla struttura stessa del sistema nervoso, per consolidare nella mente nient’altro che oggetti mentali.

La meditazione può invece insegnare ad esaminare, con grande precisione, tutto il processo della percezione. Esercitando la Consapevolezza si diviene sempre più consci di ciò che realmente è la vita. E’ un’educazione mentale che consentirà di fare un’esperienza del mondo completamente nuova. Non solo ci si renderà conto di cosa realmente sta accadendo intorno a noi ma consentirà, allo stesso tempo, una progressiva scoperta di se stessi. Si potrà dunque essere in grado di percepire le cose così come sono e dunque in continuo movimento, cambiamento.

La pratica della consapevolezza è detta vipassana bhavana. Vipassana deriva da “passana” che significa percepire, vedere e “vi” che ha una serie di significati tra i quali “in profondità”. Potrebbe dunque essere tradotto come “guardare all’interno delle cose con chiarezza”. Bhavana deriva da bhu che significa diventare, crescere, coltivare ed è sempre usata con riferimento alla mente per cui può essere tradotta come “coltivare la mente”. Tale coltivazione si ripromette di favorire un modo particolare di vedere le cose capace di generare profonda comprensione della realtà. Nel processo di percezione normalmente la fase della consapevolezza è molto veloce, tanto che è difficile osservarla. E’ quello stato di consapevolezza presimbolico e di brevissima durata che consiste nel mettere a fuoco la vista e la mente sull’oggetto, senza ancora oggettivarlo.

La consapevolezza è un’osservazione non giudicante ed è dunque la capacità della mente di osservare senza criticare. In questo modo è possibile vedere ogni cosa senza condanna e senza meravigliarsi di nulla. Inoltre, la consapevolezza è “osservazione partecipante” ossia il meditante è sia osservatore dei propri stati emotivi che partecipante, cioè nello stesso tempo le prova, le esperisce.

 

Le attività della consapevolezza e le finalità

La consapevolezza comprende tre attività fondamentali: il ricordarci quello che stiamo facendo, farci vedere le cose così come sono e farci vedere la natura profonda di tutti i fenomeni. Quando la mente si distoglie da ciò che stiamo facendo è infatti la consapevolezza a ricordarci cosa stavamo facendo. Essa non aggiunge altro a ciò che si percepisce, non distorce nulla. E’ grazie ad essa che dunque ci si rende conto della vera natura profonda dei fenomeni ed in particolare delle tre caratteristiche insegnate dal buddhismo sull’esistenza umana: “anicca” l’impermanenza, “dukka” l’insoddisfazione e “anatta” l’assenza di un io. La consapevolezza è il metodo col quale è possibile investigare queste verità universale col fine di farci conoscere un livello di realtà più profondo.

A questo livello di indagine più profondo, accessibile all’osservazione umana, ci si rende conto che:
– tutte le cose sono transitorie;
– qualsiasi cosa nel modo è insoddisfacente;
– non esistono entità immutevoli o permanenti, si tratta solo di processi.

La consapevolezza rappresenta così il cuore della meditazione ed è proprio in virtù dello sviluppo della consapevolezza meditativa che cambia il modo di percepire la vita: la realtà stessa viene percepita nel momento presente, nell’attimo stesso in cui accade. In questo stato percettivo ci si rende conto di come nulla resta uguale a se stesso per due momenti consecutivi. Tutto è in costate trasformazione. Ogni cosa nasce, cresce e muore, senza alcuna eccezione. Tutto è in continua trasformazione: sorge, aumenta, diminuisce e svanisce. Le esperienze piacevoli, come quelle spiacevoli, sorgono e svaniscono senza alcun controllo e non durano in eterno. Quest’impermanenza non è tuttavia causa di dolore ma solo il normale succedersi delle cose. Mentre si continua ad osservare questi cambiamenti ci si accorge di come tutto si tiene insieme, ci si rende conto della intima connessione tra tutti i fenomeni mentali, sensoriali ed affettivi. Ogni pensiero ne genera un altro, le sensazioni ed i desideri sono tutti collegati.

Il modo abituale di percepire e vedere la realtà e noi stessi è spesso causa di malessere e disagio. Di continuo ci ritroviamo a lottare per cacciare via situazioni spiacevoli e avvertiamo un profondo senso di fallimento e malessere perchè ciò non è sempre possibile. Allo stesso modo non possiamo aspettarci che le esperienze piacevoli durino in eterno ed anche questo diventa talvolta fonte di disagio. Dunque questa nuova concezione può consentire l’osservazione di ogni cosa, compreso il dolore psichico, come tale: qualcosa che sorge ed inevitabilmente tende a svanire.
Ecco dunque il beneficio della pratica della consapevolezza: cambiare il modo di vedere la realtà e se stessi.

Francesca Woodman e l’arte della fotografia: “E’ una questione di convenienza: io sono sempre disponibile”

Francesca Woodman (1958-1981), una delle figure più emblematiche dell’arte fotografica degli ultimi quarant’anni, era solita fotografarsi in maniera quasi ossessiva.

 

E spiegava così il perché ad un’amica, con un misto di ironia e di pragamatismo:

E’ una questione di convenienza: io sono sempre disponibile.

Francesca Woodman cominciò a lavorare con il mezzo fotografico a soli tredici anni, quando realizzò il suo primo autoscatto (“Self-portrait at thirteen”). Nei nove anni che separano questo esordio dalla sua morte (si suicidò nel gennaio del 1981) l’artista continuò a fotografare se stessa negli ambienti più disparati.

Francesca Woodman e l'arte della fotografia: "E' una questione di convenienza: io sono sempre disponibile" - self portrait at 13
Francesca Woodman – Self Portrait at thirteen

 

Francesca Woodman e il rapporto tra corpo e spazio

Al centro dell’obiettivo c’è sempre il suo corpo, nudo, accostato ad elementi naturali o deformato con vetri, lacci o, ancora, trasformato in statua o in oggetto inanimato. Anche le pose sono molto interessanti, in parecchie foto assai sensuali, si tratta di una sensualità intimamente legata al dolore e alla morte, possibile rappresentazione della morte psichica cui si va incontro se il corpo non trova una sua dimensione ed un suo spazio nella realtà.

L’opera di Francesca Woodman si sviluppa attorno allo studio del rapporto tra il proprio corpo e lo spazio, e al modo in cui questo rapporto viene rappresentato attraverso la fotografia. Il corpo femminile diventa oggetto di studio ed autoriflessione; l’impiego del proprio corpo è per Francesca un’attività totalizzante e durissima, è molto più di una ricerca puramente estetica, è un “gioco psicologico” profondo e drammatico.

Ci ritroviamo quindi a riflettere su alcune dimensioni fondamentali dello psichico attraverso gli scatti di Francesca Woodman. In altre parole, la Woodman costruisce fotografie di forte carattere introspettivo, quasi a voler scavare nel profondo del proprio animo, cercando di esternare, attraverso l’arte fotografica, le sue paure ed i suoi incubi.

 

L’autoritratto e la fotografia in psicoterapia

Con i suoi autoritratti Francesca Woodman esplora la sua anima e la sua psiche. Non a caso, infatti, l’autoritratto è oggetto di studio anche in psicologia. Autoritratto, in campo psicologico, non significa solo scattarsi delle fotografie, ma si intende soprattutto il rapporto che ognuno ha con la rappresentazione della propria immagine.

Quella della Woodman potrebbe essere definita una “fotografia terapeutica”, uno strumento facilitatore per acquistare maggiore consapevolezza di alcuni aspetti della propria personalità.

L’autoritratto è una tecnica molto valida per mettere a nudo quelle emozioni faticose da esprimere e che scuotono l’interiorità, motivo per cui la fotografia viene usata anche per trattamenti terapeutici, per esempio in persone affette da anoressia o bulimia, in persone che hanno bisogno di riaccettare la propria immagine dopo un incidente o una malattia, oppure in individui che soffrono di ansia o di disturbi dell’umore, o in soggetti che costituzionalmente hanno un deficit linguistico, o disfunzioni cerebrali.

La fotografia è infatti un medium artistico molto potente da un punto di vista emotivo e può essere molto efficace nelle cure psicoterapeutiche (fototerapia). Quindi, mentre la “fotografia terapeutica” viene utilizzata dalle persone, come da Francesca Woodman, per l’analisi e la scoperta di se stesse, la fototerapia viene utilizzata dagli psicoterapeuti per assistere altre persone che hanno bisogno di aiuto per risolvere i loro problemi. In entrambi i casi, il mezzo fotografico è un potentissimo alleato che ci aiuta ad entrare in contatto con noi stessi molto profondamente.

 

La dissociazione e il questionario PSQ nell’ ottica della Terapia Cognitiva Analitica

La CAT (Cognitive Analytic Therapy – Terapia Cognitiva Analitica) è una tecnica terapeutica evidence based di tipo collaborativo per esaminare le modalità secondo cui una persona pensa, esperisce le emozioni, agisce nel mondo rispetto agli eventi di vita e le relazioni interpersonali che sono connesse a queste esperienze.

Ilenia Sidoli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

CAT: la terapia cognitiva analitica

Sviluppata all’inizio degli anni ‘80 da Dr. Anthony Ryle a Londra all’interno del Sistema sanitario nazionale, è una terapia breve che, solitamente, prevede 16 sedute ed è applicabile ad una varietà di disturbi mentali.

Viene oggi utilizzata in diversi settori e per diversi tipi di patologia, con un numero sempre maggiore di studi randomizzati controllati di efficacia (Treasure et. al. (1995), Dare et. al. (2001) Chanen et. al. (2008) Fosbury et. al. (1997)¸ Clarke S1et al., 2013).

La terapia cognitiva analitica è influenzata da diverse correnti. In particolare dal cognitivo assorbe il modello misto di elaborazione sequenziale e in parallelo dell’informazione, l’insegnamento al paziente di abilità di automonitoraggio circa il proprio umore, pensieri e sintomi; dalla psicanalisi ha mutuato concetti relativi ai meccanismi di difesa, transfert e controtransfert, i conflitti, le relazioni oggettuali, l’importanza delle esperienze infantili e della loro valenza affettiva come base su cui in età adulta si strutturano i modelli relazionali; da Kelly la teoria dei costrutti personali e le griglie di repertorio; da Vygotskji i concetti di zona di sviluppo prossimale e da Bakhtin il concetto di “mente dialogica”.

Lo sviluppo teorico della terapia cognitiva analitica si dipana lungo due linee di ricerca che hanno guidato il lavoro di Antony Ryle : uno focalizzato sul perchè gli esiti negativi di pensieri e azioni disfunzionali non portino alla revisione da parte dei centri superiori, l’altro utilizza tecniche di investigazione delle relazioni e dei processi del sè. Ryle si chiedeva quindi come mai le persone continuino ad avere pensieri e comportamenti disfunzionali nonostante vedano gli esiti negativi dei propri comportamenti.

Ryle ha così individuato tre tipologie di procedure generali che generano nei pazienti problemi di revisione delle proprie tecniche: trappole che sostenendo le assunzioni negative ne rinforzano gli esiti, intoppi che bloccano i desideri poiché provocano o potrebbero provocare esiti negativi (sarebbe bene ma..), dilemmi, dove le scelte sono polarizzate in due possibilità opposte senza possibili soluzioni intermedie.

Ciò che si propone di fare la terapia cognitiva analitica è riconoscere e modificare le distorsioni imposte da pattern intra ed interpersonali disfunzionali. Attraverso l’utilizzo dello Psychotherapy file si vogliono indagare spiegazioni di sintomi, descrivere le trappole, intoppi e dilemmi negativi degli stati problematici ed aiutare i pazienti ad identificarli. Sulla formazione di questi schemi assumono un ruolo essenziale le esperienze relazionali precoci poichè esse vengono interiorizzate ed il senso di sè è trovato o elicitato nelle risposte reciproche dell’altro.

La terapia cognitiva analitica descrive le internalizzazioni di modelli relazionali precoci in termini di Ruoli Reciproci (RR), per cui le nostre primissime relazioni con le figure di accudimento significative vengono ripetute nelle nostre relazioni mature in modo inconsapevole. Per esempio l’esperienza di essere stati accuditi e amati nell’infanzia, permette di consolidare modelli di relazioni future con se stessi e con gli altri connotate dall’accudire e ricevere accudimento, mentre l’essere stati in una relazione criticante e giudicante, si ripercuote in un atteggiamento di critica e giudizio verso se stessi e gli altri, e al contempo nel percepire se stessi e mettere gli altri nella stessa posizione di esame e disapprovazione.

Nell’adulto i ruoli reciproci predominanti in base alle proprie esperienze relazionali (amato in modo condizionale, criticato, maltrattato) e le procedure collegate a questi ruoli (per es. mi sforzo per essere benvoluto dagli altri, ma poi mi sento usato e torno al RR di amato in modo condizionale), possono essere “interpretati” in momenti diversi, o all’interno della stessa relazione. Questi schemi ripetitivi sono la causa del dolore più profondo poichè restringono la gamma delle nostre scelte e si autoalimentano e la loro identificazione diventa essenziale ( McCormick E.W. 1996 “Change for the Better”Self Help Through Practical Psychotherapy”Cassell) . In questi schemi legati al bambino e all’adulto interni diventa allora importante riconoscere come ognuno di questi ruoli mantenga la nostra primissima esperienza di dolore. Il sé bambino vive questo dolore ogni volta come se fosse la prima ed il sé adulto continua ad infliggere gli stessi schemi limitanti (come tipologia) nelle relazioni, sia a livello interno che esterno.

Nella terapia cognitiva analitica è centrale il concetto di sé. Sulla base genotipica si sviluppano i concetti di relazione reciproca che vengono poi influenzati lungo tutto il percorso di vita dall’ambiente ed in particolare dall’internalizzazione di ruolo reciproco e dalle esperienze socioculturali. Il sé è costituito da più livelli di cui alcuni inconsci ed altri più consci tra cui le funzioni psicologiche quali il pensiero, attenzione, memoria…

Il sé comprende anche le capacità più propriamente meta cognitive, l’empatia, il senso di coerenza e continuità, l’identità e l’abilità relazionale.
In alcuni pazienti è stato notato un contrasto tra i vari stati del sè non meglio spiegati da circostanze esterne. Coloro che hanno avuto esperienze di mancato controllo, abuso, abbandono o rifiuto richiedono l’identificazione di due o più stati del sè. Spesso questi ruoli non sono riconosciuti dal paziente che includono angoscia o basso tono dell’umore e confusi con la sintomatologia depressiva.

 

PSQ: Personality Structure Questionnaire per indagare la dissociazione

Questi stati multipli del sè o dissociazione possono essere identificati attraverso la somministrazione del PSQ (Personality Structure Questionnaire) (Pollock e al. 2001;Ryle 2007; Bedford e al. 2009) . Il PSQ individua una povertà di integrazione della personalità (Pollock, Broadbent, Clarke et al., 2001, Bedford et al., 2009) e la ri-somministrazione durante il percorso terapeutico indica il grado di ristrutturazione in corso.

Una personalità adulta integrata è concettualizzata da un senso di continuità delle esperienze e considerazione di sè e degli altri come complessi e multisfaccettati dotati di qualità sia positive che negative ma tollerabili (McQuitty, 2006). Esperienze di mancata integrazione avvengono quando le prime relazioni non sono solide o addirittura deprivanti/abusanti ed i disturbi di integrazione della personalità sono frequenti tra i disturbi di personalità e nelle diagnosi di disturbo borderline (Adler et al.,2012).

Deficit di integrazione della personalità si concettualizzano nella teoria degli stati multipli del sè, concetto centrale della terapia cognitiva analitica. In presenza della dissociazione il paziente si sente talmente travolto dalla condizione emotiva temporanea da avere una mancata integrazione di tutte le altre parti di sè o stati alternativi potenziali (CAT; Ryle, 1995). La mancata integrazione può essere dovuta ad una flessibilità ristretta ed il disturbo dell’identità può essere descritto come la mancata integrazione di stati contrastanti.

La dissociazione si configura come una distruzione delle funzioni sovrastanti al sé che spesso si manifesta in de-realizzazione, depersonalizzazione e amnesia. Neurologicamente sembra associata all’abnorme attivazione delle regioni frontali e temporali, l’amigdala ed il precuneo. Questo penalizza i processi di attivazione del sé compresa l’identità ma anche le funzioni esecutive superiori che impedirebbero l’integrazione dei vari aspetti del sé nei ruoli reciproci.

Dalenberg et al.(2012) evidenziano che la dissociazione può essere un risvolto traumatico con cui si resta in relazione. La dissociazione può essere vista anche come il tentativo di bloccare una presa di coscienza rispetto a qualcosa che non vogliamo ricordare (Elzinga, Phaf, Ardon, & Van Dyck, 2003).

Ryle (1995) tentò di creare uno strumento utile a misurare la dissociazione attraverso una scala composta da otto item testati in due studi separati in Gran Bretagna: il “Personality Structure Questionnaire (PSQ)” .

Il primo studio di validazione (Pollock, Broadbent, Clarke, Dorrian, & Ryle, 2001) fu effettuato su due campioni clinici (pazienti psichiatrici un gruppo di 20 e uno da 52 ed un campione di persone prese dalla comunità composto da 255 soggetti).

Il secondo studio fu effettuato su un campione più ampio da Bedford et al. (2009) di pazienti in attesa di ricevere un trattamento.

Per la validazione italiana (Berrios, R., Kellett, S., Fiorani, C., & Poggioli, M., 2015) lo studio fu effettuato su un campione di 296 studenti o lavoratori in Italia che hanno compilato il PSQ volontariamente ed autonomamente e che non avevano mai ricevuto terapie, senza disabilità intellettuali, di un’ età compresa tra i 18 ed i 65 anni, con un livello culturale adeguato. Il secondo campione era invece composto da 237 soggetti con esperienza di psicopatologia cronica in trattamento presso il Sistema Sanitario Nazionale italiano con diagnosi effettuata secondo i criteri del DSM IV e classificati secondo quattro assi: depressione-schizofrenia; disturbi di personalità; condizioni mediche acute o disordini fisici; fattori psicosociali o ambientali che acutizzano lo stress.

Ai partecipanti fu richiesto di rispondere ad 8 item bipolari che riflettono il proprio senso di sè e 5 in scala Likert con valori da uno a cinque rispetto a quanto l’item rappresenta il sè.
Alti livelli di PSQ sono correlati a alti livelli di disturbo rivelando possibili presenze di più stati di sè, presenza di umore variabile, e comportamenti rivelanti la perdita di controllo. La validazione per la popolazione italiana ha rilevato che il PSQ ha caratteristiche di transculturalità. (Berrios, R., Kellett, S., Fiorani, C., & Poggioli, M., 2015).

Inoltre lo studio sottolinea come la possibilità di individuare attraverso un test molto breve la presenza di una dissociazione dei molteplici sè, sia ampiamente indicativo per il trattamento da utilizzare (Ryle & Kerr, 2002). Il PSQ può essere usato sia in fase diagnostica che valutativa del funzionamento della terapia anche utilizzando metodologie affini alla terapia cognitiva analitica come la Schema Therapy (Kellett, Bennett, Ryle, & Thake, 2013).

Lo studio di validazione ha quindi evidenziato l’utilità del PSQ come strumento di assessment per l’identificazione della confusione identitaria anche nel campione italiano. La sua semplicità nell’essere compreso e la possibilità valutativa dei tre fattori (diversi stati, diversi umori e perdita del senso di controllo) indicano come può essere usato come strumento di individuazione e diagnostico di differenti aspetti del disturbo dell’identità.

Inoltre il PSQ è un valido contributo rispetto all’identificazione dei bisogni dei pazienti che presentano disturbi dissociativi dell’identità ed il cuore dei loro problemi di disregolazione (Adler et al., 2012).

Il PSQ ha dimostrato di essere una misurazione self-report e analisi fattoriale affidabile utile ad indagare la dissociazione e costrutti relativi ai disturbi dell’identità.

I dati relativi al test pilota della standardizzazione italiana suggeriscono la possibilità di rilevare differenze significative in termini di integrazione della personalità attraverso l’utilizzo del questionario PSQ prima e dopo un trattamento di psicoterapia (Fioranzi e Poggioli, 2011).

Ulteriori studi (in atto) su campioni più ampi si focalizzeranno sull’ item analysis e sull’effetto della terapia covariando per età e per tipologia di patologia.

Perché il cervello delle Anoressiche e delle Bulimiche è in grado di ignorare la fame?

I ricercatori dell’Università del Colorado presso l’Anschultz Medical Campus, guidati da Guido Frank, hanno scoperto il meccanismo neurale che consente al cervello delle Anoressiche e delle Bulimiche di ignorare lo stimolo della fame.

 

In uno studio pubblicato dalla rivista Translational Psychiatry, i ricercatori hanno dimostrato che i normali pattern cerebrali dell’appetito sono, in effetti, alterati e ribaltati in coloro che soffrono di disturbi alimentari.

I segnali cerebrali provenienti da altre aree possono far sì che il segnale ipotalamico venga ignorato, nonostante l’ipotalamo sia una regione cruciale per la regolazione dell’appetito, in quanto guida la motivazione ad alimentarsi.

Nel mondo scientifico e clinico noi lo chiamiamo “la mente domina la materia” (in lingua originale: “Mind Over Matter”) – ha affermato Guido Frank, autore principale dello studio e professore associato di psichiatria e neuroscienze presso la Scuola di Medicina dell’Università del Colorado – Ora, abbiamo un’evidenza fisiologica a sostegno di quest’idea.

Frank, esperto di disturbi del comportamento alimentare, si è avviato alla scoperta dell’organizzazione gerarchica che all’interno del cervello regola l’appetito e l’assunzione di cibo. L’obiettivo era quello di comprendere il meccanismo neurale che si cela dietro al fatto che alcune persone si nutrono quando hanno fame mentre altre non lo fanno.

 

Cosa succede nel cervello delle anoressiche e delle bulimiche: lo studio

Con l’ausilio di immagini di risonanza magnetica cerebrale, i ricercatori hanno esaminato la reazione del cervello in seguito all’assunzione di una soluzione zuccherata di 26 donne prive di un disturbo alimentare, 26 donne con diagnosi di anoressia nervosa e 25 con diagnosi di bulimia.

Il team ha scoperto che le partecipanti con un disturbo alimentare mostravano diffuse alterazioni nella struttura dei circuiti cerebrali di ricompensa del gusto e di regolazione dell’appetito.

Tali alterazioni sono state osservate non tanto a livello strutturale, quanto piuttosto a livello della sostanza bianca, fondamentale per coordinare la comunicazione tra le diverse parti del cervello. Sono emerse anche importanti differenze nel ruolo giocato dall’ipotalamo nei due diversi gruppi sperimentali.

 

I risultati

All’interno del gruppo privo di disturbi alimentari, le regioni cerebrali responsabili dell’assunzione di cibo ricevevano il loro segnale d’azione dall’ipotalamo; mentre nel cervello delle anoressiche e delle bulimiche il circuito ipotalamico era significativamente più debole e l’informazione viaggiava in direzione opposta, pertanto, si dirigeva dalla corteccia cingolata anteriore, che ha implicazioni a livello emozionale e può essere considerata il nostro “sistema di allarme”, verso l’ipotalamo.

Il risultato di questo ribaltamento, quindi, è la capacità del cervello delle anoressiche e delle bulimiche, grazie all’influenza top down cognitivo-emozionale del cingolo anteriore, di ignorare l’ipotalamo respingendo il segnale “mangia” e prolungando, inoltre, la restrizione alimentare.

 

Conclusioni

La regione dell’appetito nel cervello dovrebbe spingere ciascuno di noi ad alzarsi dalla sedia in cerca di qualcosa da mangiare – ha detto Frank – Ma nei pazienti che soffrono di anoressia nervosa o bulimia nervosa questo non avviene.

Secondo lo studio, gli esseri umani sono programmati fin dalla nascita per apprezzare il gusto dolce, ma chi soffre di un disturbo alimentare tendenzialmente inizia proprio con l’evitare cibi dolci per paura di ingrassare. Si potrebbe interpretare questo evitamento come un comportamento appreso e, più specificatamente, un condizionamento operante, dove l’aumento di peso rappresenta la punizione temuta che rafforza l’abitudine a non cibarsi.

Questo evitamento potrebbe, col tempo, alterare i circuiti cerebrali dell’appetito e della nutrizione. I ricercatori suggeriscono che la paura di mangiare certi cibi può influenzare i meccanismi di elaborazione cerebrale del circuito di ricompensa del gusto riducendo il potere dell’ipotalamo.

Grazie a questo studio, noi comprendiamo meglio a livello biologico come fanno coloro che soffrono di un disturbo alimentare ad ignorare la spinta a nutrirsi – ha detto Frank. – Prossimamente abbiamo bisogno, rivolgendoci ai bambini, di comprendere quando tutto questo inizia ad innescarsi.

 

Gli effetti positivi della musicoterapia nei bambini e adolescenti

I ricercatori delle Bournemouth University e Queen University di Belfast hanno scoperto come la musicoterapia, associata ad un trattamento terapeutico tradizionale riduca ulteriormente i sintomi depressivi nei bambini e adolescenti che presentano problemi comportamentali ed emotivi.

Mariagrazia Zaccaria

In collaborazione con Every Day Harmony (marchio della Irlanda del Nord Music Therapy Trust), i ricercatori hanno scoperto come dei bambini e dei ragazzi con una età compresa tra gli 8 e i 16 anni, che sono stati sottoposti alla musicoterapia, siano notevolmente migliorati nei loro sintomi depressivi rispetto a coloro che hanno ricevuto un trattamento tradizionale senza musicoterapia.

Lo studio, ha anche scoperto che i ragazzi di 13 anni (e più) che hanno ricevuto un trattamento musicoterapico hanno migliorato anche le loro abilità comunicative e interattive, riscontrando anche come la musicoterapia abbia portato ad un miglior funzionamento sociale nel corso del tempo in tutte le fasce d’età.

In questo studio sono stati coinvolti 251 ragazzi, divisi in due gruppi: 128 di loro hanno ricevuto un trattamento tradizionale mentre i rimanenti 123 soggetti dello studio hanno ricevuto la musicoterapia in aggiunta alla terapia tradizionale. Ognuno di loro è stato trattato per problemi emotivi, di sviluppo o comportamentali.

Il Professor Sam Porter del Dipartimento di Scienze Sociali e Lavoro Sociale presso l’Università di Bournemouth, ha affermato che questo studio è estremamente significativo per determinare quali siano i trattamenti efficaci per i bambini e i ragazzi che presentano problemi comportamentali.

La Dottoressa Valeria Holmes, co-ricercatrice dello studio presso la Queen University di Belfast ha aggiunto che questo è il più grande studio che sia mai stato effettuato con la capacità di aiutare, con la musicoterapia associata a terapie tradizionali, un gruppo di ragazzi vulnerabili.

Ciara Reilly, anch’essa collaboratrice della ricerca ha dichiarato che la musicoterapia è stata spesso utilizzata con i ragazzi con particolari esigenze di salute mentale, ma che solo in questo studio, per la prima volta è stata dimostrata la sua efficacia in aggiunta al trattamento standard.

L’intervento a domicilio nella depressione post partum

Le visite domiciliari sono state strutturate inizialmente per prevenire l’abuso e il neglect infantile ed è stato inoltre valutato come, tramite un intervento a domicilio su un campione di madri con depressione post partum, al diminuire della sintomatologia depressiva fosse presente un miglioramento dell’adattamento del bambino.

 

La depressione post partum

La depressione post partum si presenta con sintomi simili a quelli di un episodio depressivo maggiore, insorge entro 3-6 mesi dopo la nascita e dura nel tempo. La prevalenza è del 10-15% rispetto alla popolazione generale ed il rischio di sviluppare una depressione postnatale è maggiore nelle 5 settimane dopo il parto (Scottish Intercollegiate Guidelines Network, 2002). Tra il 20 e 40% delle donne con episodio di depressione post natale hanno un’alta possibilità di ricaduta in una successiva gravidanza (Beyondblue Clinical Practice Guidelines, DRAFT, 2010).

L’intervento sulla depressione post partum è suddiviso in: prevenzione (intervento psicoeducativo e di sostegno sociale) e trattamento (terapia individuale, terapia di gruppo, terapia psicofarmacologica).
In letteratura inoltre rileviamo la presenza di diversi studi su interventi a domicilio per la depressione post partum. Tali interventi possono essere condotti sia a scopo preventivo (visite domiciliari ad esempio durante il periodo prenatale) sia a scopo terapeutico quando la Depressione Post Partum è già conclamata.

 

L’intervento a domicilio per il trattamento della depressione post partum

Tali tipi di interventi mirano sia al benessere della madre sia a quello del bambino. Le visite domiciliari sono state strutturate inizialmente per prevenire l’abuso e il neglect infantile ed è stato inoltre valutato come, tramite un intervento a domicilio su un campione di madri con depressione post partum, al diminuire della sintomatologia depressiva fosse presente un miglioramento dell’adattamento del bambino (Gelfand et al., 1996). Negli Stati Uniti, dove è nato tale approccio e dove è maggiormente diffuso, ci sono almeno 500.000 coppie madri/bambino inserite nei programmi delle visite a domicilio (Astuto & Allen ,2009).

Le madri tipicamente inserite nei trattamenti a domicilio hanno come caratteristiche i fattori di rischio per la depressione quali l’isolamento sociale, la povertà e una storia traumatica (Ammerman et al, 2010) .

In una review sugli interventi a domicilio per il trattamento e la prevenzione della Depressione Post Partum (Leis et. al 2008) viene riportato come questo tipi di interventi possano avere un potenziale nell’affrontare la depressione post partum in un modo efficace per le seguenti ragioni:

  • I dati presenti in letteratura suggeriscono che l’individuazione e il trattamento della depressione postpartum rimane problematica nonostante le donne in gravidanza possano interagire maggiormente con il sistema sanitario rispetto a una qualunque altro periodo della propria vita ( Kelly et al 2001 ; Lumley et al 2004 ; US Department of Health and Human Services 2001) . Generalmente infatti le madri depresse raramente ricevono un trattamento (Lennon et al 2001). Le visite a domicilio sono potenzialmente un importante setting nel quale le madri depresse possono essere identificate e trattate (Guterman et al. 2001). Il setting a domicilio potrebbe rimuovere un ostacolo nell’ottenere la cura della salute mentale (Ammerman et al 2011).
  • Gli interventi a domicilio appaiono utili per l’alto rischio, per le famiglie a basso reddito che probabilmente hanno una maggiore necessità dei servizi di salute mentale ma che tuttavia devono affrontare numerose barriere per ottenere il trattamento.
  • I programmi home-based sono un luogo naturale per integrare la prevenzione e/o il trattamento della depressione post partum perchè tali programmi, in USA, già trattano un gran numero di donne in gravidanza o che hanno recentemente partorito.

Per quanto concerne l’approccio cognitivo-comportamentale in letteratura sono presenti evidenze sull’efficacia della CBT per il trattamento e la prevenzione della depressione post partum (Sockol, 2015). Appare inoltre come efficace un maggiore sostegno sociale (Milgrom et. al 2013). La CBT appare essere un trattamento maggiormente efficace per la sintomatologia depressiva; inoltre appare importante cercare di adattare il trattamento al contesto e ai bisogni di quel target, in quanto potrebbero essere la causa della patologia e della resistenza al trattamento presso uno studio/ambulatorio.

 

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale a domicilio

Per tale motivo è stata strutturata, all’interno di programmi già strutturati di home-visit, la In-Home Cognitive Behavior Therapy (IH-CBT) che ha riadattato il protocollo CBT di Beck alla depressione post partum e al setting domiciliare. Tale trattamento risponde alle esigenze delle home visit di fornire un approccio evidence-based e di rispondere alle esigenze specifiche delle nuove madri che sono socialmente isolate e vivono in povertà, e utilizza chi effettua la visita domiciliare per facilitare l’ingaggio e per massimizzare i risultati per mamme e bambini.

I dati in letteratura riferiscono un significativo miglioramento della sintomatologia depressiva, un maggiore sostegno sociale e livelli inferiori di altri sintomi psichiatrici se si confrontano due gruppi composti da madri depresse trattate con IH-CBT vs Home visit. (Ammerman et. al., 2012). Attualmente tuttavia non sono presenti studi in letteratura che confrontino la psicoterapia a domicilio con la psicoterapia in studio rispetto a tale campione.

Il manuale di IH CBT non è stato ancora pubblicato, tuttavia successivamente è stato strutturato un programma “Moving Beyond Depression”, basato su IH-CBT e strutturato dagli stessi autori (Johnson K., Ammerman R.T., Van Ginkel J.B.; 2014). Nello specifico tale trattamento si rivolge maggiormente alle madri più giovani che hanno affrontato per la prima volta la gravidanza.

E’ presente inoltre in letteratura un protocollo specifico CBT (Milgrom et al., 2013) per il trattamento del post partum che può essere sia di gruppo sia individuale in ambulatorio. Inoltre nei casi clinici riportati l’autore riferisce di aver compiuto degli interventi individuali a domicilio per migliorare le abilità di uscire di casa per poi successivamente inserire una paziente nel trattamento di gruppo psicoterapeutico.

 

Conclusioni

In letteratura è riportato come siano presenti delle barriere al trattamento della depressione post partum, uno dei problemi associati al trattamento del post partum è l’inabilità delle donne di recarsi in terapia a causa delle responsabilità legate alla cure infantili (Ugarriza, 2004).

A partire dai dati riportati ci chiediamo quindi se l’intervento domiciliare sulla depressione post partum potrebbe essere utile in alcuni casi specifici. Gli interventi individuali a domicilio potrebbero essere utilizzati con il fine di migliorare le abilità di uscire di casa per poi successivamente poter accedere alla terapia individuale e/o di gruppo maggiormente adatta a quella persona in accordo con un terapeuta esperto.

 

SCOPRI GLI INTERVENTI PSICOLOGICI A DOMICILIO 59141

Drunkoressia: tra binge drinking e restrizioni alimentari

Nel 2008 è stato coniato dai media popolari del “New York Times”, il termine drunkoressia per descrivere con tale termine, la pratica della restrizione delle calorie in modo da poter consumare più alcol e non aumentare di peso (CBS News, 2008; Kershaw, 2008; Smith, 2008; Stoppler, 2008).
Ciò che attrae gli adolescenti e i giovani adulti è la tendenza a continuare a consumare grandi quantità di alcol, pur mantenendo, o forse diminuendo, il peso corporeo.

Maria Carlucci, OPEN SCHOOL SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Il binge drinking

L’abuso di alcol e i disturbi alimentari rappresentano due fenomeni popolari in tutto il mondo. Negli ultimi anni, diverse ricerche scientifiche hanno dimostrato un’associazione tra abuso di alcol e abitudini alimentari non salutari, soprattutto tra i giovani. La globalizzazione dei modelli di consumo alcolico ha causato l’ingresso in Italia di abitudini proprie degli Stati Uniti e dell’Europa del Nord, come il binge drinking (Lupi et al. 2013).

Il binge drinking consiste nell’assunzione di 5 o più bevande alcoliche in successione per gli uomini e 4 o più bevande alcoliche in successione per le donne in un’unica o più occasioni nel corso delle ultime 2 settimane. In questa definizione non è importante il tipo di sostanza che viene ingerita né l’eventuale dipendenza alcolica: lo scopo principale di queste “abbuffate alcoliche” è l’ubriacatura immediata nonché la perdita di controllo (Wechsler H & Nelson TF 2001).

Numerosi studi evidenziano che, la popolazione maggiormente suscettibile a comportamenti binge drinking, sono i giovani studenti iscritti al primo anno di college (Larimer & Cronce, 2002).

Secondo diversi autori, tra i fattori che sembrano contribuire all’aumento delle “abbuffate alcoliche” vi sono: le norme sociali dei campus universitari che promuovono l’uso di alcol e il drastico calo della supervisione dei genitori durante il passaggio alla vita del college (Baer, 2002; Baer & Bray, 1999; Baer, Kivlahan, e Marlatt, 1995; Schulenburg & Maggs, 2002; Schulenburg et al, 2001).

Inoltre, secondo la National Eating Disorder Association (2006), circa il 20% degli studenti universitari, sia maschi che femmine, hanno riferito di aver avuto almeno un disturbo del comportamento alimentare (Forman-Hoffman, 2004; Mints & Betz, 1988; Tylka & Subich, 2002.).

Potrebbe quindi esserci una co-occorrenza tra abuso di alcol e disturbi del comportamento alimentare?

 

Binge drinking e disturbi del comportamento alimentare

Da un rapporto del Centro Nazionale sulle Dipendenze e Abuso di Sostanze della Columbia University (CASA) 2001, si è stimato che circa il 30-50% degli individui con bulimia e il 12-18% degli individui con anoressia abusano di alcol o ne sono dipendenti. Peraltro, i risultati hanno indicato una comorbidità netta tra la dipendenza da sostanze e i disturbi del comportamento alimentare a favore del fatto che circa il 35% di persone tossicodipendenti o che fanno abuso di alcol, manifestano un disturbo alimentare (Cooley & Toray, 1996; Krahn, Kurth, Gomberg, & Drewnowski, 2004; Anderson, Simmons, Martens, Ferrier, & Sheehy, 2006; Krahn, Kurth, Demitrack, & Drewnowski, 1992).

Krahn et al. (1992) hanno osservato una relazione positiva tra la gravità dello stare a dieta, la frequenza con cui si consuma alcol ed il binge drinking. Stewart et al. (2000) hanno trovato risultati simili, indicando che i livelli più elevati di restrizione alimentare sono associati ad un aumento di episodi legati al bere eccessivo e alla probabilità di essere classificato come un “bevitore binge”. Gli studi hanno avvalorato un’associazione tra uso di alcol e abitudini alimentari insalubri tra gli studenti universitari (Krahn et al. 2004).

Il digiunare volontariamente, allo scopo di consumare alcol successivamente, risulta nocivo e pericoloso soprattutto per le donne; a differenza dei maschi, queste ultime, generalmente pesano di meno, hanno meno enzimi che metabolizzano l’alcol (alcol deidrogenasi), e in genere hanno meno acqua corporea totale per diluire l’alcol nel sangue. Indipendentemente dal genere, maschio o femmina, bere a stomaco vuoto favorisce all’alcol di entrare nel corpo più velocemente, il che aumenta il livello alcolemico portando un aumentato rischio di disturbi cerebrali (black-out) e conseguenze negative sulla salute e sul comportamento (White, 2004).

 

La drunkoressia

Nel 2008 è stato coniato dai media popolari del “New York Times”, il termine drunkoressia per descrivere con tale termine, la pratica della restrizione delle calorie in modo da poter consumare più alcol e non aumentare di peso (CBS News, 2008; Kershaw, 2008; Smith, 2008; Stoppler, 2008).
Ciò che attrae gli adolescenti e i giovani adulti è la tendenza a continuare a consumare grandi quantità di alcol, pur mantenendo, o forse diminuendo, il peso corporeo.

Anche se non c’è una definizione sistematica e non sia riconosciuto dalla medicina ufficiale, la drunkoressia è comunemente caratterizzata dai seguenti comportamenti: a) saltare i pasti, al fine di “evitare” le calorie o compensare l’aumentato apporto calorico dal consumo di bevande alcoliche, b) eccessivo esercizio fisico al fine di compensare le calorie consumate dal bere, e / o c) bere quantità eccessive di alcol al fine di avere la nausea e vomitare (Chambers 2008). Come risulta dalle caratteristiche comportamentali sopra elencate, il concetto di drunkoressia è quindi composto da tre dimensioni distinte: l’uso o abuso di alcol, disturbi alimentari e attività fisica.

Questa abitudine potrebbe quindi essere influenzata dalla pressione sociale per cui si tende a ricorrere a comportamenti estremi?

Le pressioni sociali rispetto alla perfetta forma fisica e al controllo del peso corporeo o quelle legate al consumo di alcolici, possono esercitare una forte influenza sugli adolescenti e sui giovani adulti; in particolare sulle ragazze, che rischiano così di ricorrere sempre più frequentemente a misure estreme quali drunkoressia ed eccessiva attività sportiva (Mond et al. 2008). Si pratica esercizio fisico allo scopo di modificare il peso, la forma o il tono muscolare e si associano sensi di colpa nel caso in cui l’esercizio viene posticipato o cancellato (Mond et al. 2008). Le donne, spesso, cercano di bruciare drasticamente quantità eccessive di calorie, per ridurre il peso corporeo e la percentuale di grasso (Johnstone and Rickard 2006).

La drunkoressia è ormai approdata anche in Italia, infatti, uno studio italiano del 2014, su un campione di circa 3000 soggetti, dimostra come questo sia un fenomeno comune anche tra i giovani adulti italiani con una prevalenza del 32.2% e riguarda anche la popolazione maschile, non solo quella femminile, come quanto riportato dai media (Lupi et al. 2014).

Allo scopo di fornire benefici per la diagnosi, il trattamento e il recupero, sarebbe auspicabile approfondire maggiormente tale fenomeno e capire quali siano i fattori psicologici che muovono i giovani in questa nuova tendenza. Potrebbe quindi, essere utile individuare i soggetti più a rischio ed attuare adeguati e mirati programmi di educazione e prevenzione.

Drunkoressia: quando si mangia di meno e si beve di più

The Young Pope di Paolo Sorrentino: una lezione di psicologia su abbandono e resilienza

E’ stata sufficiente la prima puntata dell’opera The Young Pope del regista pluripremiato agli Oscar Paolo Sorrentino, per comprendere che eravamo di fronte ad una lezione di psicologia della personalità, dello sviluppo, della famiglia e delle organizzazioni.

Ogni personaggio, ogni ambiente, ogni evento di The Young Pope descrivono l’uomo nella sua complessità, attraversando i temi più attuali dell’esistenza umana, delle relazioni socio-politiche, della famiglia, del confronto tra i popoli, le generazioni e i generi. Le mura del Vaticano rappresentano l’ambiente scelto per descrivere l’Uomo nella sua più profonda ambiguità e  contraddizione, passando dal paradosso e dal grottesco come strumento per narrare le contraddizioni e le ingiustizie. Ambizione, umiltà, lealtà, amore, odio, umanità, santità, ipocrisia e ogni altra sfumatura del comportamento umano prendono vita dalle storie dei diversi protagonisti chiamati ad esprimere le tensioni tra il sacro e il profano, l’umanità e la santità.

Come di fronte ad ogni capolavoro lo sguardo di una persona è solo un punto di vista all’interno di una rete di significati che attraversa i molteplici piani interpretativi presenti nell’opera, come quello della genitorialità e fratellanza sociale, delle diversità tra i popoli, delle diversità tra i generi.

The Young Pope si presenta anche come una sofisticata lezione di sociologia, di politiche organizzative, di filosofia e semantica ponendo al centro la storia di abbandono di Lenny Belardo (Papa Pio XIII) che rappresenta uno dei piani narrativi più interessanti della proposta cinematografica, per noi psicologi.

In The Young Pope è descritto in modo particolareggiato il significato cognitivo ed emotivo dell’abbandono sino alla delineazione della personalità di Pio XIII che si struttura infatti intorno al tema della perdita dei genitori biologici.

 

Il vissuto dell’abbandono in The Young Pope: Lenny Belardo, il Papa orfano

Pio XIII (Jude Law) in ogni occasione si presenta come un orfano: questa esperienza di vita si trasforma in un elemento della sua identità. Il cardinale Andrew Dussolier (Scott Shepherd), fratello nella vita, gli chiede:  “Chi sei tu Lenny”  e Papa Pio XIII  “Sono un orfano come te”. “E quando crescerai?”  e Lenny risponde:  “Mai, un prete non cresce mai perché non può diventare padre, sarà per sempre figlio”.

Il vissuto dell’essere un orfano arriva a ribaltare il principio del prete – padre,  lasciando la vocazione nell’esperienza della filialità, anziché nella paternità o di entrambe: la frase “un prete non cresce mai perché non può diventare padre, sarà per sempre figlio”  infatti è legata alla sovrapposizione del vissuto dell’essere orfano, con quello dell’impossibilità della paternità biologica, senza vedere la paternità sociale della vocazione che permette invece al prete di essere padre e figlio. In realtà è come se dicesse: “chi è orfano non può fare il padre, perché non ha potuto essere figlio”. E’ la filialità che ci permette di vivere la paternità intesa come progetto consapevole di assunzione della responsabilità e della cura nei confronti di un’altra persona, e se un bambino non ha fatto esperienza di una relazione di filialità questo progetto è difficile, quasi impossibile.

Sullo stesso tema Paolo Sorrentino aggiunge il concetto che un bambino abbandonato “non può fare il bambino e non può essere  un bambino”: il dolore dell’abbandono si trasforma nella ricerca di un sé che sfugge in continuazione quando non è possibile  arrivare alle risposte alle domande più profonde della vita come “chi sono io?”, “da dove vengo?”, “Perché mi hanno abbandonato?”

Nella narrazione della personalità di Pio XIII infatti queste domande si presentano come un’ossessione che, in qualche caso, ostacolano la piena realizzazione di sé.  Il peso della sofferenza offusca l’infanzia che non può essere vissuta in modo sereno  perché interrompe i processi di crescita, di maturazione che si compiono all’interno di una “relazione sufficientemente buona”  con genitori biologici o sociali.

Lenny Belardo, il giovane Papa in The Young Pope, vive l’abbandono come un dato reale e attuale: rivive continuamente con flash back improvvisi il momento in cui viene lasciato dai genitori davanti il cancello dell’orfanotrofio, dove i genitori sono ricordati con volti idealizzati che diventano un’ossessione nella vita quotidiana. Odori, sapori, rumori rievocano il passato rendendo visibile la dinamica tra la memoria traumatica e autobiografica. Le percezioni si accavallano nell’esperienza del Papa portandolo a vivere situazioni di estremo dolore visibile nel suo apice nella 7^ puntata, quando Suor Mary,  “madre sostituta” attenta al percorso di crescita del proprio figlio, comprende il travaglio esistenziale del Papa e l’influenza di questo sul Pontificato. Il profilo di Suor Mary (Diane Keaton), del Cardinale Michael Spencer (James Cromwell), e di Andrew Dussolier permettono di aprire la riflessione sul ruolo della genitorialità e fratellanza sociale  con particolare riferimento all’influenza che hanno sui processi di resilienza.

 


VIDEO: The Young Pope (2016) Trailer italiano:

Nei prossimi giorni pubblicheremo la seconda parte di questo articolo.

Chemsex: quando il sesso senza droghe diventa grigio

Chemsex: uomini che fanno uso di specifiche sostanze psicotrope con l’obiettivo di avere esperienze sessuali con altri uomini: da Londra un fenomeno in crescita che colpisce la comunità gay e non solo.

Lorena Lo Bianco

 

Sex & Drugs and Rock & Roll” cantava l’artista londinese, Ian Dury, nel 1977. Quasi quarant’anni dopo, l’assioma che unisce sesso e uso di sostanze stupefacenti è ancora del tutto valido. Sempre dalla scena londinese, polo europeo nel commercio di droghe (come sottolineato anche da Roberto Saviano), proviene quel fenomeno chiamato Chemsex : termine colloquiale, diffuso all’interno della comunità gay, per descrivere l’uso di sostanze psicoattive, in particolare mefedrone, GHB/GBL e metanfetamine, durante i rapporti sessuali. Queste tre sostanze producono un effetto rilassante che in alcuni casi facilita (sia fisicamente che psicologicamente) delle pratiche sessuali, come il sesso anale, ancora oggi appesantite da una forte stigmatizzazione sociale.

 

Chemsex in Italia

Il fenomeno del chemsex sta prendendo piede anche in Italia, come riportato dall’associazione Lgbt Plus di Bologna che, per prima, lo ha inquadrato e ha prodotto una brochure informativa  dedicata ai “consumatori”. La mancanza di dati al riguardo e l’insorgenza dei primi casi di problematiche legate al chemsex (sono già 7 i casi riportati dal Sert negli ultimi 6 mesi ) ha spinto il tossicologo dell’Ausl di Bologna, Salvatore Giancane, a lanciare un’indagine su Facebook, alla voce “Piacere chimico”, per analizzare il mondo dei cosiddetti “chill-out party”.

Per le associazioni come quella bolognese, il focus è incentrato sulla prevenzione e sui rischi derivanti dall’uso di sostanze stupefacenti; riducendo il grado di inibizione di chi ne fa uso, esse aumentano la probabilità di sottovalutare i rischi di alcune pratiche sessuali. Sebbene non sia possibile dimostrare che l’abuso di sostanze chimiche durante i rapporti sessuali causi comportamenti sessualmente rischiosi, risulta evidente una forte associazione fra i due fenomeni, come riportato anche dalla letteratura a riguardo (Fisher et al, 2011; Forrest et al, 2010). E’ altresì’ importante sottolineare come l’assunzione di queste droghe insieme ad altre sostanze chimiche (come certi farmaci per l’HIV) aumenti il rischio di overdose e in certi casi di decesso.

 

Capire il fenomeno chemsex: Perché colpisce maggiormente la comunità gay (o meglio, perché viene associato con il sesso omosessuale)?

Nonostante sia difficile fare una generalizzazione, data l’eterogeneità (per età, ceto sociale, identità e orientamento sessuale) del campione, il chemsex è prettamente legato al sesso fra uomini.

È importante fare una distinzione fra l’uso di droghe in sé, che in seguito porta ad un’attività sessuale, e il chemsex: in quest’ultimo, il desiderio di avere un rapporto sessuale rappresenta la spinta motivazionale che porta all’uso di stupefacenti.

Secondo molti studiosi questo principio è uno dei punti cardine per capire questo comportamento e perché esso coinvolga principalmente il genere maschile.

La maggior parte delle teorie si sofferma soprattutto sulle ripercussioni psicologiche del minority stress  e dell’omofobia interiorizzata (Mayer., 1995), che colpiscono particolarmente uomini gay e bisessuali o uomini che si identificano come eterosessuali ma praticano sesso con altri uomini. In questi casi l’uso di droghe è vissuto come un modo per liberarsi da limitazioni, interne o esterne, e mettere in pratica i propri desideri sessuali. Non raramente, infatti, i frequentatori dei chemsex party sono persone che conducono una doppia vita.

Un altro approccio per capire il  fenomeno potrebbe essere quello socio-relazionale. Secondo il professor Kane Race (University of Sidney), non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, piuttosto una modernizzazione nelle pratiche di socializzazione all’interno della comunità LGBT. Attività che prima si svolgevano in luoghi pubblici come saune e discoteche, sono state gradualmente rilocate all’interno di abitazioni private, e grazie all’uso delle dating app, rese più semplici da organizzare.

In accordo con quanto detto, il vice presidente dell’associazione Plus Onlus, Giulio Maria Corbelli, ci dà una sua lettura del fenomeno:

“È un modo per ritrovarsi. Il chemsex è diverso dal rimorchiare in discoteca – dove pure quelle sostanze sono comuni – perché supera il culto dell’immagine che c’è in discoteca o in altre forme di socializzazione gay. Il chemsex viene letto da alcuni come una reazione al senso di esclusione che è possibile provare nell’ambiente gay, da altri come una moda”.

 

Impatto delle droghe su piacere sessuale e relazioni affettive

Nel Regno Unito, dove ormai il chemsex è un fenomeno culturalmente radicato (non è raro trovare nella descrizione utente su Grindr la dicitura “chems friendly”), i servizi di salute mentale stanno iniziando ad indagare la dipendenza psicologica prodotta da questo comportamento, oltre a quella fisiologica causata dalle sostanze chimiche.

Sebbene inizialmente le droghe vengono viste dai consumatori come un medium per avvicinarsi all’altro e trovare un’immediata intimità, molti di questi riportano una riduzione nell’empatia verso l’altro, privilegiando invece la ricerca di una soddisfazione personale (Bourne et al, 2015). Altri ancora riportano le enormi difficoltà nell’avere rapporti sessuali o relazioni drug-free; come in qualsiasi dipendenza il chemsex può portare ad una assuefazione che produce una costante ricerca di stimoli sempre più forti per poter soddisfare i propri desideri sessuali.

Chi cerca di disintossicarsi da questo tipo di dipendenza molto spesso si ritrova a dover ridefinire il proprio concetto di intimità e la visione del rapporto con l’altro.

Infine, nonostante il fenomeno sia circoscritto agli ambienti gay maschili, alcune review riportano anche all’interno della comunità lesbica un meccanismo simile. Sebbene mefedrone, ghb e metanfetamine non vengano massicciamente usate, fra le donne è più frequente l’associazione tra cannabis e sesso, che comporta minori rischi diretti ma potrebbe ugualmente portare ad un aumento di comportamenti sessualmente a rischio.

Tipicamente la ricerca scientifica che indaga l’utilizzo di stupefacenti all’interno della comunità gay maschile si è focalizzata sul rapporto fra droghe e l’aumento di comportamenti sessualmente rischiosi (Carey et al., 2009). Sono molto pochi invece gli studi che si sono interessati al ruolo che le sostanze psicotrope hanno all’interno della vita sessuale dei consumatori e quali sono i danni che essi potrebbero fronteggiare, al di là della salute sessuale. Per esempio ad oggi non esistono chiari protocolli (se non alcune buone pratiche) a supporto di coloro che sentono il bisogno di “controllare” l’uso di queste sostanze. Speriamo che in un immediato futuro si possa sopperire alla lacuna presente all’interno del panorama clinico e di ricerca.

 

 

Chemsex, supporto e informazione

Per chi volesse approfondire l’argomento, segnaliamo l’evento organizzato dalla Sezione Cultura del CIG – Arcigay Milano in collaborazione con PLUS Onlus (BO):“Chemsex, supporto e informazione – Che cos’è, i dati sull’Italia, dipendenza?” che si svolgerà Martedì 22 Novembre alle 21:00 presso CIG Arcigay Milano – Via Bezzecca 3.

I relatori, Giulio Maria Corbelli  ed Emiliano Costa – operatore della Sezione Salute del CIG, parleranno dei motivi per cui questo fenomeno è così in espansione nella comunità gay, delle sostanze psicoattive usate e dei modi d’uso. Partendo da storie reali si discuterà di come questo fenomeno complesso può influire nella vita personale di un individuo.

 

VIDEO: Chemsex (2015), official trailer


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Intimità

Lucia è stata la prima donna in presenza della quale ho scoreggiato. Non ho mai scoreggiato prima in presenza di una donna. Non ho mai capito come fanno uomini e donne a dormire insieme, a vivere insieme, dal momento che questo implica inevitabilmente fare le scoregge in presenza dell’altro.

Questa è probabilmente una delle ragioni principali per cui, prima di Lucia, non sono mai rimasto legato a una donna per il tempo sufficiente a far accadere una cosa del genere. E anche con Lucia, questo aspetto ha pilotato da un luogo sotterraneo il percorso verso il fisiologico raggiungimento dell’intimità. Prolungandolo, rendendolo tortuoso. È passato più di un anno dall’inizio del nostro rapporto prima che riuscissi a trascorrere un’intera notte con lei. Evitavo accuratamente.

Quando si presentava l’occasione, che ovviamente proveniva da lei, a casa sua, quando i genitori non c’erano, fuggivo verso le tre di notte. Mentre lei dormiva profondamente. Avevo imparato alla perfezione i ritmi del suo sonno. Verso le tre di notte era completamente soggiogata dal sonno. Riusciva al massimo ad emettere un gemito di protesta priva di determinazione quando allentavo il lucchetto dell’abbraccio in cui mi aveva serrato addormentandosi, e scivolavo via. Ma non riusciva a svegliarsi. La scusa, quando ci saremmo sentiti più tardi, era sempre la stessa. Non ce l’avevo fatta a lasciare solo mio padre per tutta la notte. Era troppo forte l’angoscia legata al pensiero che proprio quella notte si sarebbe potuto svegliare stringendo il pugno sul pigiama all’altezza dello sterno (per chi non lo sa, è il gesto tipico di chi ha un infarto), chiamandomi con voce strozzata. All’inizio la intenerivo, poi ha iniziato a far finta di crederci. Fatto sta che almeno per un anno ho procrastinato.

Tutto questo – sempre, prima di Lucia, e almeno per un anno con lei – per evitare il momento più pericoloso. Il risveglio. Insieme. Trascorrere la notte con una donna aumenta esponenzialmente la probabilità di avere un testimone al mattino, quando il mio tubo di scappamento rivendica con più intensità la massima libertà di espressione. E quello è sempre stato un momento molto intimo, di intesa totale con me stesso, di autoassoluzione. Un momento refrattario a qualsiasi forma di inibizione. Al mattino devo scoreggiare biblicamente per venire a patti con la mia fragilità di essere umano cui è capitata la condanna della coscienza e di un tubo digerente. E prima di Lucia non ce l’ho mai fatta a farlo davanti a una donna. Non era pensabile per me. Non riuscivo a immaginarlo. Non che non ci provassi, ad immaginarlo. Mi dicevo:

ok, è già la quarta volta che con, che so, Giovanna, siamo a letto insieme. Già per tre volte sono scappato nel cuore della notte come un ladro. Una volta anche da un albergo con spa in cui lei, per sorprendermi, aveva prenotato caparbiamente quello che gli alberghi con spa chiamano week end romantico, (o peggio fuga romantica), dicendole che mio padre si era sentito male. Ora siamo sotto il piumone (non so perchè, ma in questi esercizi dell’immaginazione è sempre inverno). Magari abbiamo fatto l’amore o ci siamo sbaciucchiati mentre siamo ancora tiepidi di sonno. Poi rimaniamo abbracciati. Sento per la prima volta l’odore che lei ha al mattino. Una miscela di tracce sbiadite: cosmetici, il suo sesso asciugato e rappreso qua e là sul mio corpo, l’eco dell’odore che doveva avere da bambina appena sveglia. E io che faccio? Mi lascio scappare una puzza? E che faccio mentre mi scappa e subito dopo? Guardo da un’altra parte facendo finta di niente, come se ci fosse arrivato un rumore strano dai vicini? Oppure ridacchio come un bambino che ha fatto una marachella? E che faccio con il tanfo (che qualche volta ha stupito pure me). Lascio che ci raggiunga filtrando dagli interstizi tra il piumone e i nostri corpi? Oppure sollevo un lembo del piumone dal lato opposto a lei nella speranza infantile che il gas abbia lo stesso comportamento dell’acqua sotto pressione, defluendo dalla prima apertura che le si offre. E se lei – mentre veniamo inghiottiti dalla miscela di azoto, ossigeno (da non credersi, ma nelle scoregge c’è ossigeno), metano, biossido di carbonio e solfuro di idrogeno – fa la cosa più umiliante di tutte: finta di niente? Magari peggio: finta di niente mentre una smorfia appena percepibile le contrae le narici e le sopracciglia. A quel punto verrebbe giù la maschera, senza possibilità di appello.

Perchè per me era impensabile, fino a Lucia, scoreggiare davanti a una donna che hai sedotto come seducevo io. Dopo aver sedotto col modus operandi di uno psicopatico ad altissimo funzionamento cognitivo. Va spiegato, questo modus operandi, così verrà da sè il senso della sua incompatibilità con qualsiasi atto che rimandi all’esistenza di funzioni escretrici dell’organismo. Il primo incontro, magari a cena di amici, a una festa. Conoscevo una donna, ci conversavo per tutta la serata, l’attenzione totalmente paralizzata su di lei, come se gli altri presenti fossero solo suppellettili di scena. Più che parlare, ascoltavo, intervenendo solo poche volte, ma con la scelta di tempo giusta per alimentare il ritmo dei pensieri di lei, che probabilmente si sentiva veramente ascoltata forse per la prima volta in vita sua. Mettevo in scena il pressocchè totale autoannullamento al servizio dell’altro. Non ascoltavo semplicemente con la massima attenzione. Diventavo attenzione. E mi identificavo totalmente con l’altro. Poi, all’improvviso, facevo detonare frasi che riproponevano il contenuto di quanto lei mi aveva detto in una veste nuova, che la lasciava attonita. Di quelle frasi che iniziano con apparente umiltà, “quindi mi stai dicendo che…”, e poi scavano un solco nella coscienza dell’altro. Insomma, ero dotato di una forma di empatia pericolosissima. Quella che serve a ottenere qualcosa. Quell’empatia che non è guidata dal fine di prestare aiuto emotivo, trasmettere vicinanza, quanto da quello di vedersi firmare dall’altra un’ipoteca sulla sua futura perdita di coordinate interne. Il rapido determinarsi nella sua mente dell’impossibilità di non pensare a me.

Se l’altra si mostrava disponibile a darmi tutto la sera stessa, io declinavo. Ma non, banalmente, per rendermi più desiderabile. Semmai il contrario: trovavo banale avere un rapporto sessuale la sera del primo incontro. Al punto che in quel primo incontro non trovavo dentro me alcuna traccia di desiderio sessuale. Piuttosto, mi facevo dare il suo numero. Così, dopo l’intera serata trascorsa a parlare, dopo aver praticamente stordito l’altra toccandola nella sua zona più vulnerabile, quella che non risparmia nessuno – il bisogno di essere finalmente, totalmente vista – poche ore dopo averla salutata con un’espressione grata, comunicandole senza parole che per me tutto quello che di meglio può accadere tra un uomo e una donna era appena accaduto, le inviavo un sms (odio whatsupp, non sono nemmeno sicuro che si scriva con due p finali!).

Ero un maestro della comunicazione via sms. Ci sono persone che si fanno odiare via sms a causa della loro stringatezza, che li fa sembrare sempre irritati. Altre che non ne distinguono l’uso rispetto alla comunicazione orale, e risultano prolissi con entrambi i mezzi, solo che via sms quella prolissità, quella pretesa di dire tutto, ma proprio tutto, come se per l’altro fosse indispensabile saperlo, diventa grottesca. Io riuscivo via sms ad essere sintetico, essenziale, letale. Non dovevo pensare molto a cosa scrivere. Veniva fuori da sé, come prodotto di una formula matematica a due variabili: totale, crudele sintonizzazione con l’altro, e ritmo del linguaggio. Riuscivo a scrivere sempre la cosa giusta. Ciò che lei aveva bisogno che scrivessi nel momento in cui lei aveva bisogno che lo scrivessi. Dopo la prima sera, una settimana di scambi di sms. Senza chiederle di rivederla. A quel punto avevo creato nella sua mente la giusta combinazione di ossessività e paura. Io oggetto di entrambe.

Una volta, dopo una settimana di scambi del genere, inviai a una donna un sms: nome e l’indirizzo di un hotel a cinque stelle sulla costa, un giorno, un’ora. Al suo arrivo lei aveva trovato la porta della stanza socchiusa. Io mi ero nascosto. Era entrata. Con un telecomando avevo fatto partire l’impianto stereo a tutto volume. Whole lotta love dei Led Zeppelin. Ero uscito all’improvviso e l’avevo presa da dietro, premendola davanti allo specchio, costringendola a guardarsi. Aveva tremato a lungo dopo aver goduto. Avevo pagato il conto in anticipo. Me ne ero andato alle quattro del mattino. Come dicevo, il mattino dopo un numero come quello di Whole lotta love non si può scoreggiare. A stento si può tollerare l’avere organi interni. L’essere reale, e non solo un’idea nella mente di una donna.

Con Lucia, invece.

 

La prima notte che passammo insieme non fu certo per mia decisione. Come ho detto, stavamo insieme da poco più di un anno. Aveva organizzato una cenetta a casa sua. I suoi non c’erano. Aveva pensato a tutto. Anche al mio vino preferito. O meglio, quella sera aveva pensato anche ad insegnarmi quale fosse il mio vino preferito, visto che fino a quella sera non avevo un vino preferito. Fatto sta che bevvi troppo. Andammo a letto. Facemmo l’amore lentamente, poi fortissimo. Durante l’amplesso ci insultammo, ci picchiammo piano, ci fissammo continuamente, in preda allo stupore, urlandoci a vicenda con lo sguardo che eravamo fottuti ora che la nostra vita era totalmente nelle mani dell’altro. Che il sesso era l’unico mezzo a nostra disposizione ma, anche se così intenso, era inadeguato, insufficiente a farci entrare a vicenda l’uno nel corpo dell’altro in modo anche lontanamente simile a come si confondevano l’una nell’altra quello che per brevità chiamerò le nostre anime.

E poi ci addormentammo, esausti.

Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto. L’imbarazzo iniziato subito prima di aprire gli occhi. Lei era vicino a me. Mi guardava, calma.

«Buongiorno.»

«Ciao», risposi, mandando una sonda nel mio intestino per monitorare il livello di pressione. Sapevo che da un momento all’altro avrei avuto bisogno di sganciarne una, e aspettavo il momento giusto per alzarmi e guadagnare il bagno.

«Dormito bene, tesoro?»

«Sì», risposi, stiracchiandomi.

Rimanemmo stretti. In silenzio. La sua testa sul mio petto e la sua mano lunga, affusolata sul mio sterno. Non so esattamente per quanto. In quella sospensione temporale e spaziale che avevo imparato con lei.

Dopo un po’ sentii aumentare la pressione, il gas farsi strada verso il basso. Trattenni. Stavo per scappare in bagno quando accadde l’unica cosa che non mi sarei mai aspettato. Un rumore stridulo, breve. Un peto delicatissimo, seguito da una risatina soffocata, la testa nascosta sotto il mio braccio per un imbarazzo provato solo a metà.

«Falla anche tu, dai! Per solidarietà». E rise di nuovo.

Insomma, me lo dico spesso: forse sto ancora con Lucia perchè quella mattina, abbarbicata a me, dopo aver dormito insieme, praticamente mi chiese di diventare il suo compagno di scoregge.

 

Mal di empatia: le patologie del non sentire e del sentire troppo

L’importanza dell’ empatia per la salute psichica è stata confermata. Ciononostante, si tratta di un fenomeno complesso, anche per quanto riguarda le sue implicazioni per la psicopatologia. Nuove linee di ricerca approfondiscono il ruolo differenziale delle diverse sottocomponenti empatiche nel generare sofferenza psichica, come anche ipotizzano quadri clinici originanti da un “eccesso” di empatia.

Lo psicologo Bateson, di fronte al dilemma se “siamo altruisti per natura o no” rispose a favore di un other-oriented empathic concern, che contrappose alla dottrina dell’edonismo psicologico. Se distinguiamo due forme di tale edonismo, osserva Bateson, una più forte secondo la quale lo scopo dell’uomo è il proprio piacere personale, e una più debole secondo la quale il piacere è una conseguenza secondaria al raggiungimento di ogni scopo ma non lo scopo stesso, e se accettiamo di queste la seconda forma, allora è lasciato libero lo spazio per poter immaginare un altro scopo, un’ “emozione orientata all’altro e avente come scopo il suo benessere”, e questo implicherebbe una revisione consistente delle nostre assunzioni circa la natura umana, e soprattutto il potenziale umano (Bateson et al., 2009). Alla luce di tale revisione, anche le psicopatologie acquisiscono nuovi particolari tratti, riflettendo le diverse deviazioni che un’esperienza di empatia così connotata può subire.

Verso un mondo fatto di relazione

L’esplosione dell’interesse per l’ empatia, la “capacità di inferire lo stato affettivo di un’altra persona generando uno stato affettivo isomorfico nel sé, con la contemporanea consapevolezza che la causa di tale stato affettivo è l’altro” (Singer et al., 2004), approda in psicoanalisi a partire dagli anni ‘50, quando, grazie alla svolta relazionale impressa da modelli quali le relazioni oggettuali di M. Klein, la teoria del campo di K. Lewin o gli studi sull’interpersonalità di H. Sullivan, il costrutto di einfühlung (“immedesimazione”), originariamente introdotto da Freud, si arricchisce degli apporti di sempre nuovi nuclei teorici; è fondamentale a tal proposito il contributo della disciplina allora emergente dell’infant-research, che descrisse il fenomeno della sintonizzazione degli affetti come presente fin dalla vita intra-uterina del bambino (Castiello et al., 2010).

La scoperta dei neuroni specchio, coloro che si attivarono provvidenzialmente nella scimmia del neuro-scienziato Giacomo Rizzolatti mentre quest’ultimo mangiava il gelato nel 1996, e che gli fecero capire che la corteccia premotoria f5 comune a tutti i primati scarica sia quando il soggetto compie un’azione, sia quando la vede compiere, dopotutto non fece che suggellare quella che per gli psicoanalisti “illuminati” ormai era una certezza: l’individuo intrapsichico non esiste, come non esiste nemmeno una “mente isolata” ( Storolow & Atwood, 2013) aprioristica rispetto all’Altro. Il mondo è, in senso quantistico, relazione.

Lo studio dell’ empatia rappresenta al giorno d’oggi uno degli scenari più affascinanti ed allo stesso tempo controversi del panorama scientifico. Studi dimostrano come una buona funzione empatica sia fondamentale per godere di una vita sociale soddisfacente, come anche per la strutturazione stessa della nostra identità (Gallese, 2005). Il DSM-5 esplicita il requisito di una funzionalità sociale positiva tra quelli necessari alla definizione di un’adeguata salute psichica; rispetto alla salienza per la strutturazione identitaria, la capacità di “appropriarsi” dell’azione altrui tramite imitazione implicita è risultata cruciale nei processi di apprendimento, al punto da porsi come pilastro di nuove teorie dell’apprendimento cosiddette simulazioniste, secondo lo slogan “imito ergo sum” coniato da Vittorio Gallese, il “padrino” del mirror network.

L’ empatia è un costrutto complesso dai confini flessibili, alla cui definizione, nonché suddivisione in sottocomponenti specifiche, lavorano autori eminenti. All’attuale stato dell’arte, una delle categorizzazioni più condivise è quella di Decety (2011), che propone una chiave interpretativa filogenetica ed ontogenetica per differenziare gli strumenti relazionali a nostra disposizione in affective arousal, implicante una rapida ed automatica valutazione dello stimolo, empathic concern, o emozionalità rivolta all’altro, evolutasi da legami primari di attaccamento sociale e dalle cure parentali, e infine empathic understanding, cioè la consapevolezza riflessiva delle intenzioni e degli stati mentali altrui.

Tale suddivisione rifletterebbe una segregazione importante a livello neuronale (Shamay-Tsoory et al., 2009): mentre i primi due sottosistemi empatici sono implementati in circuiti cerebrali filogeneticamente precedenti, quali il sistema nervoso rettiliano e il sistema limbico, ritrovabili anche in specie non-umane, l’ empatia “cognitiva”, chiamata anche “Teoria della Mente”, riposa su circuiti neuronali di fatto umano-specifici e per lo più dichiarativo-espliciti quali le aree esecutive frontali. Molta parte della ricerca in passato si era focalizzata sulla teoria della mente, solo recentemente si è riacceso l’interesse per la componente emotiva dell’ empatia e per le conseguenze importanti che la parziale indipendenza dei due sistemi implicherebbe sul piano psicopatologico. La validazione empirica dei correlati biologici dell’ empatia rimane uno degli obiettivi più ambiziosi della ricerca.

Empatia e patologie: i casi di chi non sente l’altro

Se assumiamo che la salute psichica prescinde da una relazionalità positiva, assumiamo con ciò che la psicopatologia diventa tout court psicopatologia relazionale. Come spiega Simon Baron-Cohen, la “curva empatica” descrive fluttuazioni, di tipo contingente ma anche di tipo intra-soggettivamente stabile, per ognuno di noi. Nel suo testo “La scienza del male” (2012), egli colloca l’ empatia su livelli, ognuno di essi implicando a livello fenomenico una diversa attitudine relazionale. Dal livello 0 che corrisponde pressappoco alla psicopatologia di tipo psicopatico-antisociale, incapace di rimorso, gratitudine e genuino orientamento all’altro, la psicopatologia tradizionalmente associata al comportamento criminale, passiamo attraverso diversi gradi di empatia fino ad arrivare al livello 6 che configurerebbe uno sbilanciamento verso l’altro sopra la media, utilizzato dalle persone così caratterizzate “quasi per uscire da sé ed essere di conforto”.

Le cose potrebbero essere in realtà un po’ più complesse di così. In primo luogo, perché l’ empatia come trattata da Baron-Cohen non fa distinzioni tra componente affettiva e cognitiva, al contrario spesso aderisce alla nozione di teoria della mente. Se seguiamo invece il modello della segregazione parziale dei due sottosistemi empatici, vediamo che le diverse psicopatologie riflettono tale ripartizione. Cruciali sono gli studi recenti sulla doppia dissociazione di psicopatia e psicopatologia borderline di personalità (tra gli altri: Ritter et al., 2011): secondo tale filone di ricerca, nella psicopatia si riscontrerebbe una totale incapacità a livello affettivo di sentire l’altro, confermata a livello neurofisiologico da studi che riportano una ridotta attivazione dei marker somatici, quali la conduttanza cutanea, di fronte a stimoli emotivamente carichi (Blair, 2013), a fronte di una non-compromissione della teoria della mente; a dire che tali individui comprendono bene le intenzioni e lo stato mentale dell’altro, ma non essendo provvisti di un affetto etero-orientato utilizzano tali informazioni contro l’altro per il proprio personale tornaconto. Nella patologia borderline, al contrario, si configurerebbe una sensibilità alla risonanza empatica molto alta, non compensata da un’altrettanta capacità di contenere tale risonanza con adeguate operazioni di comprensione cognitiva: l’individuo borderline “sente” tutto ma non comprende cosa avviene nella mente dell’altro, in tal modo non “contiene” l’affetto e ne viene travolto, con le note conseguenze di assenza subita di confini e fragilità manifesta a livello relazionale.

Una seconda linea di studio non approfondita dalla trattazione di Baron-Cohen riguarda invece i livelli “alti” di empatia, tradizionalmente associati a fenotipi relazionali positivi, a persone dalle spiccate doti altruistiche, i cosiddetti buoni samaritani o animati da un instancabile istinto sociale. Alcuni studi suggeriscono però che “sentire troppo” non vuol dire necessariamente “sentire meglio”.

Empatia e patologie: il caso di chi sente troppo l’altro

Lo psicoterapeuta e pediatra Donald Winnicott si dedicò allo studio della relazione madre-bambino, e descrisse il fenomeno secondo il quale la madre durante i primi mesi di vita del bambino presenta una sensibilità empatica sopra la media ad avvertire i bisogni del bambino, una sorta di iper-vigilanza senza sosta su di esso e di iper-eccitazione agli stimoli da esso provenienti, per poter apprendere a leggere i suoi bisogni e poter modellare il proprio ritmo psicobiologico sul suo: questa condizione viene battezzata da Winnicott come “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1965), concetto utile a chiarire come avvenga l’iniziale imprinting madre bambino, e viene paragonata dall’autore a una “malattia transitoria”.

Il termine, di per sé forte, di “malattia” è inteso nel senso di una condizione che, per quanto adattiva ed indispensabile per gettare le basi della sintonizzazione madre-bambino, risulta estremamente costosa per la madre, e che perciò deve rimanere nei margini della transitorietà, pena il rischio di implicazioni negative nel prosieguo della relazione. Una madre troppo centrata sui propri bisogni sarà incapace di sbilanciarsi adeguatamente verso quelli del bambino, determinando un mancato raggiungimento di sintonia nella diade; una madre che però si sbilancia in modo eccessivo verso il bambino, o che mantiene in modo prolungato la “preoccupazione primaria” senza riuscire a ripristinare lo stato omeostatico di attivazione una volta finito il periodo critico, secondo schemi francamente ansiosi, mina anch’essa il successo della sintonizzazione con il bambino, in quanto spende troppe energie a cercare di leggere l’altro, –che di fatto in quanto “altro” oppone una quota irriducibile di “alterità”– a discapito della propria auto-regolazione. In tal modo, la madre ansiosa troppo attenta ai bisogni del figlio rischia di contribuire ad una relazione etero-sbilanciata, poco naturale, poco nutriente, presumibilmente simbiotica se la risposta pronta ad ogni bisogno del bambino determina in esso un’incapacità ad imparare a rispondere da solo: secondo Winnicott, tali relazioni sarebbero l’humus ideale per il configurarsi di quadri psicotici di non differenziazione nel bambino, con gravissime conseguenze nella crescita.

Una innovativa ipotesi di ricerca, per ora poco esplorata dalla letteratura, suggerisce che alterazioni dell’ empatia oltre il “livello 6”, per dirla con Baron-Cohen, possono risultare problematiche: anche “sentire troppo” è un deficit. Questa ipotesi troverebbe le prime conferme in ambito neuro-scientifico: ad esempio, uno studio recente sull’autismo (Spengler et al., 2010) smentirebbe le teorie attuali che vedono nell’autismo un sistema mirror deficitario, dimostrando al contrario un’attivazione eccessiva non inibita di esso nei soggetti con tale patologia: la persona con autismo non sarebbe, come molti pensano, incapace di sentire l’altro, bensì sarebbe “incapace di non sentirlo”, di silenziare il suo sistema-specchio, trovandosi continuamente eccitato dagli stimoli da esso provenienti e nella necessità di proteggersi da tale bombardamento con manovre costosissime e poco adattive di etero-regolazione e abbassamento della tensione.

Anche le stereotipie tipiche del disturbo andrebbero a conferma dell’ipotesi: ecolalie e ecoprassie, caratterizzate dalla ripetizione incontrollata di parole e gesti altrui, sarebbero nient’altro che il risultato di un uso smodato della tecnica di apprendimento “simulazionista” di cui parla Gallese, testimoniando perciò anch’esse un sistema mirror iperattivo. Vanno in questa direzione anche gli studi che indagano la presenza di un’ empatia superiore alla media nei disturbi d’ansia (tra gli altri: Varlet et al., 2014), nei quali si assisterebbe ad un’adesione all’altro “a bassa soglia” nel senso di una eccessiva sensibilità non contenuta da adeguate misure di inibizione del rispecchiamento. Inoltre, un’autrice che si occupa di disturbi alimentari porta l’esempio dell’ “altruismo patologico” in queste patologie, nelle quali cioè l’annullarsi per l’altro –che nel caso dell’accezione psicoanalitica è in prima istanza la madre– porta la paziente a sopprimere i propri bisogni, fino a vietarsi il cibo (Oakley et al., 2011).

Alla luce di tali recenti spunti d’indagine, ricerche future avrebbero il compito di approfondire i rispettivi ruoli giocati dai diversi processi, ma anche dai diversi “livelli” di empatia nel determinare esiti sociali disfunzionali, sia nel senso del “difetto” di chi fallisce la relazione perché non sente sufficientemente l’altro, sia nel senso opposto di un “eccesso” di esposizione a ricevere l’emozionalità altrui, una condizione sicuramente meno deplorevole sul piano morale ma forse altrettanto prognostica di sofferenza su quello interpersonale.

Il ruolo della memoria di lavoro nell’apprendimento di una seconda lingua

Una rassegna della ricerca sviluppata da Juffs e Harrington (2012) mette in evidenza come l’ apprendimento di una seconda lingua (L2) e il suo uso siano facilitati da una vasta gamma di processi cognitivi, tra i quali la memoria di lavoro.

Stefania Pedroni – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

La memoria di lavoro può essere definita come un sistema di immagazzinamento temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato, per consentire l’utilizzo dell’informazione stessa nell’immediato. L’informazione così disponibile può essere elaborata e utilizzata, mentre si eseguono compiti cognitivi di alto livello come comprendere, apprendere e ragionare (Baddeley e Logie, 1999) o mentre lavoriamo, ascoltiamo o dobbiamo interagire in un discorso. La memoria di lavoro è quindi un sistema cognitivo complesso che contiene ed elabora informazioni per brevi periodi di tempo, nel corso di attività cognitive continue.

 

La memoria di lavoro secondo Baddeley e Hitch

Il modello originale di Baddeley e Hitch (1974) descrive la memoria di lavoro come costituita da tre elementi: due magazzini a breve termine (fonologico e visuospaziale) e un esecutivo centrale, che controlla il flusso di informazioni tra questi magazzini e altri processi cognitivi. I magazzini di memoria a breve termine (MBT) trattengono un numero limitato di informazioni che rimangono disponibili solo per pochi secondi, prima che vengano perse. Il limite della capacità della MBT si riferisce sia al numero di informazioni che possono essere trattenute (span) sia al tempo in cui queste informazioni rimangono disponibili. Il magazzino fonologico trattiene informazioni verbali, mentre quello visuospaziale gestisce informazioni visive e spaziali. In seguito Baddeley (2000) aggiunge un terzo magazzino, denominato episodico, che delinea il luogo in cui vari tipi di informazione vengono temporaneamente immagazzinati e integrati. I tre magazzini a breve termine rappresentano dei depositi di informazione, controllati dal sistema esecutivo centrale.

 

Il ruolo della memoria di lavoro nell'apprendimento di una seconda lingua - GraficoGrafico 1 -La memoria di lavoro secondo Baddeley

 

Per quanto riguarda la ricerca sui singoli magazzini a breve termine, la memoria visuospaziale è risultata quella che ha ricevuto minore attenzione da parte dei ricercatori (Juffs e Harrington, 2012). L’elaborazione dell’informazione fonologica, invece, è stata tenuta in primaria considerazione nella ricerca sull’ apprendimento di una seconda lingua (L2), (Juffs e Harrington, 2012). Nel modello di Baddeley (1986) la memoria a breve termine fonologica (o memoria fonologica) è responsabile dell’elaborazione e del mantenimento temporaneo dell’informazione verbale nuova e familiare.

Baddeley, Gathercole e Papagno (1998) hanno dimostrato che l’abilità di ricordare non-parole (come misurato nei Test di ripetizione di non-parole, ovvero parole che non esistono, per esempio ‘tambilina’, ‘verdusape’) sia un predittore dello sviluppo del vocabolario nella prima infanzia. Questo mette in evidenza come la funzione del magazzino fonologico non sia solo quella di ricordare parole familiari, ma anche di sostenere l’apprendimento di nuove parole. Oltre all’apprendimento del vocabolario nella prima lingua, la memoria fonologica è anche legata allo sviluppo più generale del linguaggio parlato: i bambini con una più elevata capacità di memoria fonologica producono frasi di maggiore lunghezza e racconti di maggiore complessità grammaticale e semantica rispetto a quelli con una minore capacità (Adams e Gathercole, 1996).

L’apporto più recente al modello di Baddeley è il magazzino episodico, inserito per spiegare le adeguate prestazioni linguistiche di persone con significativi deficit di magazzino fonologico (Baddeley, 2000). Questi individui ottengono risultati molto bassi a test che misurano la memoria fonologica e hanno difficoltà ad apprendere nuovo materiale. Tuttavia la loro prestazione linguistica non è completamente danneggiata, dal momento che sono in grado di ricordare racconti. E’ stato quindi ipotizzato che sia il magazzino episodico a permettere a queste informazioni di essere trattenute e riutilizzate (Baddeley et al., 2002). Non ci sono però ricerche sul suo possibile ruolo nell’ apprendimento di una seconda lingua e nel suo uso (Juffs e Harrington, 2012).

I tre meccanismi di magazzino a breve termine vengono controllati dall’esecutivo centrale, che lega in un episodio coerente le informazioni, coordinando il lavoro dei diversi magazzini (Baddeley, 1986). Inoltre esso controlla l’attenzione selettiva, che permette di mantenere il focus e di inibire le informazioni che potrebbero interferire con l’esecuzione corretta di un compito (Engle e Kane, 2004).

In tutti gli approcci sulla memoria di lavoro che sono stati utilizzati nella ricerca sull’ apprendimento di una seconda lingua, il controllo dell’attenzione viene considerato come la prima funzione dell’esecutivo centrale (Cowan, 2005). Apprendere una seconda lingua richiede di focalizzarsi su aspetti rilevanti della nuova lingua, ignorando le distrazioni e sopprimendo interferenze da parte di strutture linguistiche diverse (Bialystok, 2001). Il parlato è uno stimolo percettibilmente complesso che contiene informazioni acustiche che cambiano velocemente e i processi esecutivi potrebbero individuare quale enorme quantità di informazioni sensoriali necessiti di essere elaborata in dettaglio (Astheimer e Sanders, 2009).

 

Memoria di lavoro e apprendimento di una seconda lingua

La memoria di lavoro sembrerebbe quindi implicata nei processi di linguaggio, con la memoria fonologica e le funzioni di controllo esecutivo come elementi particolarmente importanti nell’acquisizione della lingua madre e di una seconda lingua (Juffs e Harrington, 2012). Rispetto alla ricerca sviluppata negli ultimi anni, alcuni studiosi si sono interessati di come le differenze individuali nella memoria di lavoro possano spiegare le variazioni nell’ apprendimento di una seconda lingua e nel suo uso (Juffs e Harrington, 2012). In particolare hanno esaminato il ruolo della memoria di lavoro in vari processi in cui è coinvolto il linguaggio, compresa la lettura, la scrittura, l’elaborazione di frasi, il parlato, il vocabolario e l’apprendimento della grammatica (Juffs e Harrington, 2012).

L’obiettivo dello studio di Martin ed Ellis (2012) è quello di indagare la relazione tra memoria a breve termine fonologica, memoria di lavoro e abilità di imparare vocaboli e configurazioni grammaticali in una lingua straniera “artificiale”. I partecipanti erano complessivamente 40 (36 femmine e 4 maschi), di età compresa tra i 18 e i 45 anni, monolingue (di lingua madre inglese), reclutati da un’università americana nel Midwest.

Vengono utilizzati tre test di memoria: il listening span per valutare la memoria di lavoro (Harrington e Sawyer, 1992), la ripetizione di non-parole (Gathercole, Pickering et al., 2001) e il riconoscimento di non-parole (O’Brien et al., 2007) per la memoria a breve termine fonologica.

Il listening span consiste nell’ascoltare una frase, decidere se abbia senso oppure no e memorizzare l’ultima parola. Le frasi sono scorrette, quando l’ordine delle parole le rende senza senso. Alla fine di un gruppo di frasi, ai partecipanti viene chiesto di rievocare la parola finale di ogni frase. Il numero di parole correttamente ricordate nel relativo ordine viene usato come punteggio di memoria di lavoro. I giudizi sul senso della frase non hanno un punteggio, ma servono come doppio compito, per attivare la memoria di lavoro: far elaborare ai partecipanti ogni frase (elaborazione), mentre cercano di ricordarne l’ultima parola (immagazzinamento) è un compito complesso che permette di misurare la memoria di lavoro (Turner ed Engle, 1989).

Nella ripetizione di non-parole, i partecipanti ascoltano una lista di non-parole di una sillaba a cui segue la richiesta di ripeterle più accuratamente possibile. Ci sono quattro liste per ogni condizione: tre, quattro, cinque e sei parole. Tutti i partecipanti ascoltano le liste nello stesso ordine, iniziando da quelle più corte e continuando con quelle di lunghezza crescente (le non-parole sono state prese da Gathercole, Pickering e collaboratori, 2001).

Il riconoscimento di non-parole viene usato come misura aggiuntiva di memoria fonologica a breve termine: i partecipanti ascoltano la pronuncia di due non-parole e decidono se siano simili o differenti tra loro.

I meccanismi di magazzino a breve termine sono generalmente valutati attraverso semplici compiti di span, che richiedono di mantenere un certo numero di informazioni per un breve periodo di tempo, senza inserire elementi di distrazione. La capacità di memoria di lavoro invece è comunemente valutata da compiti complessi di span, che richiedono di elaborare e immagazzinare informazioni contemporaneamente (Turner ed Engle, 1989). Compiti complessi e semplici di span sono simili nel fatto che entrambi richiedono un magazzino temporaneo, ma differiscono perché i compiti complessi richiedono processi esecutivi aggiuntivi (Engel de Abreu e Gathercole, 2012).

Dopo la valutazione della memoria, nella ricerca segue la fase sperimentale, in cui le persone devono imparare parole (alla forma singolare) e frasi, in una lingua straniera “artificiale”. Per il linguaggio artificiale i ricercatori hanno utilizzato, come stimoli, le non-parole presentate precedentemente nelle prove di riconoscimento, in modo che i partecipanti avessero potuto familiarizzare con forme fonotattiche differenti. Successivamente vengono esposti a forme plurali, all’interno di frasi, senza istruzioni su come si componga il plurale. Vengono poi valutati sulla loro produzione e comprensione di 50 frasi, che includono nuove espressioni plurali. Le misure delle loro abilità di linguaggio (conoscenza e uso di indicatori plurali e generalizzazione a nuove frasi) vengono usate come variabili dipendenti. I punteggi riflettono non solo la conoscenza delle strutture, ma anche l’abilità di generalizzarle a nuove parole e frasi.

Tre ipotesi specifiche guidano lo studio: 1. Ci sarà una correlazione positiva tra memoria a breve termine fonologica e vocabolario. Questa affermazione si basava sull’ipotesi di Baddeley (2003), secondo cui il magazzino fonologico supporta l’apprendimento del linguaggio, incluso lo sviluppo del vocabolario. Le sue scoperte vanno infatti nella direzione di una forte associazione tra memoria fonologica e apprendimento del vocabolario di una seconda lingua (Baddeley, Papagno e Vallar, 1988). 2. Ci sarà una correlazione positiva tra memoria a breve termine fonologica, memoria di lavoro e grammatica. Questa ipotesi si basa sul fatto che l’apprendimento della grammatica è un processo complesso e fa affidamento alla memorizzazione di stimoli e all’elaborazione di relazioni tra loro (Martin ed Ellis, 2012). 3. Ci sarà una correlazione positiva tra vocabolario e grammatica. Questa previsione invece si basa su precedenti ricerche che dimostrano una relazione tra conoscenza di vocabolario e abilità grammaticali nella lingua madre (Bates e Goodman, 1997) e in una seconda lingua (Service e Kohonen, 1995).

L’analisi dei risultati mostra, come ipotizzato, correlazioni positive tra la memoria a breve termine fonologica e il vocabolario: in particolare, la ripetizione e il riconoscimento di non parole correlano con la produzione e la comprensione del vocabolario. Invece la memoria di lavoro correla solo con il vocabolario in produzione e non con quello in comprensione (vocabolario ricettivo). Quest’ultimo risultato era meno aspettato, poiché la memoria di lavoro è solitamente associata a variabili come la comprensione del testo scritto, piuttosto che al vocabolario espressivo (Sunderman e Kroll, 2009). La forza della correlazione tra la memoria di lavoro e il vocabolario è comunque più debole di quella tra la memoria a breve termine fonologica e il vocabolario. Si è giunti quindi alla considerazione che la memoria fonologica e quella di lavoro forniscono contributi significativi e indipendenti all’apprendimento del vocabolario della lingua straniera artificiale. Sembra dunque che esse siano costrutti correlati, ma separati (Martin ed Ellis, 2012).

Lo studio ha confermato anche l’ipotesi di una relazione tra le misure di memoria e l’apprendimento della grammatica. La forza della relazione tra la memoria a breve termine fonologica e la grammatica è simile a quella tra memoria fonologica e vocabolario. Ciò sottolinea l’importanza di questa memoria per entrambi i domini linguistici.

Anche la memoria di lavoro correla con la grammatica e in particolare la correlazione è più forte di quella tra memoria fonologica e grammatica. Questi risultati probabilmente dipendono dal fatto che la memoria di lavoro comprende magazzino ed elaborazione di informazione (Baddeley, 2003): la componente di magazzino spiegherebbe la relazione con l’apprendimento del vocabolario, mentre l’apprendimento della grammatica dipenderebbe da molti più processi cognitivi della semplice memorizzazione. L’apprendimento del vocabolario riguarda i suoni delle parole e il loro significato arbitrario, invece l’apprendimento della grammatica riguarda l’astrazione della relazione tra le parole e l’identificazione del loro significato funzionale (Ellis, 1996). Le configurazioni grammaticali quindi sono più complesse, perché si applicano alle affermazioni intere, non solo alle parole singole. Perciò richiedono una maggiore capacità di elaborazione, il mantenimento nel tempo di una grande quantità di informazioni e l’identificazione e la correlazione di caratteristiche rilevanti. La memoria di lavoro, come un sistema di controllo attentivo, potrebbe sostenere il mantenimento di informazioni salienti e la regolazione dell’elaborazione durante operazioni complesse (Mackey et al., 2002).

 

Relazione tra vocabolario e grammatica

Come ipotizzato, si è trovata inoltre una forte relazione tra il vocabolario e la grammatica. Così forti correlazioni possono essere inaspettate, se vengono considerate nella cornice interpretativa tradizionale, che ipotizza che grammatica e vocabolario vengono apprese separatamente e fanno affidamento su differenti meccanismi di elaborazione (Pinker, 1991). Una modalità di funzionamento diverso viene descritta dal modello di Bates e Goodman (1997), secondo cui nell’acquisizione della lingua madre, il vocabolario e la grammatica sono elaborati e appresi a partire da un sistema unitario, dove la grammatica dipende dal vocabolario, a cui fornisce un’organizzazione.

Bates e Goodman (1997) la chiamano ipotesi di quantità critica poiché presume che il vocabolario debba raggiungere un minimo di quantità di parole, prima che si presenti l’induzione grammaticale. Questo dibattito si è diffuso ampiamente nella letteratura sulla lingua madre, con poca estensione all’ apprendimento di una seconda lingua (Martin ed Ellis, 2012). Al di là delle differenze tra lingua madre e seconda lingua, comunque, la ricerca empirica dimostra la profonda interdipendenza di lessico e grammatica, durante l’uso del linguaggio, sia all’inizio sia agli ultimi stadi dell’apprendimento (Römer, 2009). Questo studio evidenzia la forte interdipendenza di vocabolario e grammatica, soprattutto agli stadi iniziali dell’ apprendimento di una seconda lingua. Le analisi di regressione mostrano ulteriori informazioni: effetti indipendenti di memoria fonologica e memoria di lavoro sul vocabolario, effetti del vocabolario sulla grammatica, effetti indiretti (mediati dal vocabolario) della memoria fonologica e della memoria di lavoro sulla grammatica ed effetti diretti di memoria fonologica e memoria di lavoro sulla grammatica. Quindi ci sono effetti indipendenti significativi di memoria fonologica e memoria di lavoro sull’apprendimento del vocabolario e della grammatica di una seconda lingua – in parte mediati dal vocabolario e in parte diretti. Questi sistemi di memoria influiscono quindi sull’apprendimento del vocabolario, ma sono anche coinvolti nell’induzione grammaticale.

Questo studio potrebbe essere replicato con altre popolazioni e altre strutture linguistiche, esaminando altresì lo sviluppo longitudinale (in itinere) delle abilità grammaticali e di vocabolario, piuttosto che solo il loro conseguimento finale. Tuttavia occorre tenere in considerazione i limiti rispetto a quanto i risultati possano essere generalizzati a situazioni di apprendimento del linguaggio nella vita reale, dal momento che si riferiscono all’apprendimento di un linguaggio artificiale di laboratorio.

 

Apprendimento del linguaggio nella vita reale

Uno studio che ha preso in considerazione diversi linguaggi reali è quello di Engel de Abreu e Gathercole (2012), che hanno esplorato i legami tra processi esecutivi di memoria di lavoro, memoria a breve termine fonologica, consapevolezza fonologica e competenza nella prima (L1), seconda (L2) e terza lingua (L3). I soggetti sperimentali, bambini di 8-9 anni che frequentano una scuola con educazione multilingue, hanno affrontato prove di competenza in alcuni domini linguistici (vocabolario, grammatica e letteratura), in lingua lussemburghese (L1), tedesco (L2 familiare) e francese (L3 non familiare).

La consapevolezza fonologica può essere descritta come l’abilità di fornire giudizi sui suoni delle parole, indipendentemente dai loro significati (Ziegler e Goswami, 2005). Esempi di compiti standard di consapevolezza fonologica includono il riconoscimento di rime (Bradley e Bryant, 1983), la combinazione di suoni (Mann e Liberman, 1984) e compiti di spoonerismo (Walton e Brooks, 1995). Gli studi sull’apprendimento della lingua madre (L1) hanno identificato forti legami tra consapevolezza fonologica e abilità precoci di letto-scrittura (Goswami e Bryant, 1990) e alcune ricerche hanno riconosciuto un contributo della consapevolezza fonologica all’apprendimento del vocabolario (Bowey, 2006).

Alcuni studiosi ritengono che la memoria a breve termine fonologica e la consapevolezza fonologica debbano essere considerate come meccanismi distinti, mentre altri sostengono che esse si basino su un sistema fonologico unico, pur essendo separabili, ossia manifestazioni superficiali differenti della medesima abilità sottostante (Bowey, 2006): mentre i compiti di consapevolezza fonologica riflettono prevalentemente una conoscenza consapevole della struttura di suono delle parole (Boada e Pennington, 2006), la memoria fonologica si riferisce all’abilità di codificare e recuperare l’ordine delle sequenze dei suoni (Majerus, Poncelet et al., 2006).

Vanno nella direzione dell’ipotesi di separazione anche i risultati della ricerca di Engel de Abreu e Gathercole (2012), che mostrano come la memoria di lavoro, la memoria a breve termine fonologica e la consapevolezza fonologica siano processi distinti ma correlati. Infatti le loro rispettive associazioni con i diversi domini linguistici sono differenziate: in particolare, la memoria fonologica è legata al vocabolario in L1 e L2 (lingua strutturalmente simile); i processi esecutivi (memoria di lavoro) sono legati alla grammatica e, trasversalmente, al linguaggio, alla comprensione del testo scritto e all’ortografia; la consapevolezza fonologica fornisce contributi specifici alla lettura delle parole, all’ortografia e alla competenza linguistica in L3 (lingua strutturalmente diversa).

Queste scoperte sono in linea anche con l’ipotesi che la memoria a breve termine e la consapevolezza fonologica rappresentino domini cognitivi distinti (Gathercole, Tiffany et al., 2005), estendendo la dimostrazione a bambini multilingue. La memoria fonologica risulta correlata indirettamente anche ad altri domini linguistici: i legami con la grammatica sono mediati dalla conoscenza di vocabolario e i legami con lettura e scrittura sono mediati da processi condivisi con la consapevolezza fonologica. Legami estremamente specifici sono emersi inoltre tra abilità esecutive (memoria di lavoro) e grammatica, in modo indipendente dalla conoscenza di vocabolario della lingua madre: questo risultato può essere coerente se si considera che, per comprendere con successo frasi sintatticamente complesse, varie informazioni devono essere integrate in una rappresentazione coerente e significativa. I processi esecutivi permetterebbero di mantenere attive le informazioni rilevanti, mentre si esegue l’integrazione.

L’elaborazione esecutiva è anche significativamente associata alla comprensione del testo scritto e all’ortografia ma non alla decodifica delle parole (lettura). Leggere singole parole in tedesco è un’attività estremamente automatizzata in bambini lussemburghesi, dopo 18 mesi di insegnamento (il tedesco è una lingua con forti relazioni grafema-fonema e l’accuratezza di lettura, in questa popolazione, è quindi abbastanza semplice), (de Jong e van der Leij, 2002). Probabilmente nei lettori novelli la lettura delle parole rappresenta un’attività cognitivamente faticosa, che dipende dai processi esecutivi (Engel de Abreu, Gathercole e Martin, 2011). I contributi dei processi esecutivi alla lettura possono diminuire man mano si sviluppa la competenza, rimanendo invece evidenti nelle attività di lettura e scrittura più cognitivamente faticose, come la comprensione del testo e l’ortografia. Comprendere testi scritti in tedesco (L2) è un compito cognitivamente impegnativo per bambini lussemburghesi, che devono elaborare la L2, mentre simultaneamente analizzano il testo per dargli significato. Similmente, l’ortografia della L2 è un’attività cognitiva complessa che coinvolge la ricodifica fonologica in aggiunta alla produzione manuale di simboli scritti che non è ancora automatica in bambini di questa età (Bourdin e Fayol, 1994).

Secondo gli autori (Engel de Abreu e Gathercole, 2012), una possibile interpretazione dei risultati riguarda il fatto che l’acquisizione precoce di una seconda lingua, strutturalmente diversa dalla lingua madre (L3), ricorre a meccanismi diversi dall’apprendimento di nuove parole in una seconda lingua strutturalmente simile (L2). Alti gradi di sovrapposizione fonologica tra L1 e L2 (somiglianza) potrebbero favorire una strategia di apprendimento che si basa sulla conoscenza già consolidata della lingua madre (strategie di mediazione lessicali e semantiche). Apprendere nuove parole in una seconda lingua fonologicamente diversa, invece, non trarrebbe vantaggio dalla conoscenza esistente, andando a dipendere quindi da processi cognitivi più basici, come la consapevolezza fonologica (Masoura e Gathercole, 2005). Lo studio indica perciò che la familiarità del linguaggio può essere un importante fattore da considerare.

La capacità di distinguere il sistema di suono di una lingua (consapevolezza fonologica) risulterebbe quindi particolarmente importante negli stadi precoci di acquisizione di una seconda lingua con una fonologia non familiare. I bambini dovrebbero riuscire ad analizzare ed estrarre i dettagli fonetici delle parole, per consolidare una rappresentazione fonologica nella memoria a breve termine (memoria fonologica), che potrebbe quindi condurre all’apprendimento lessicale a lungo termine (vocabolario). I bambini in questo studio venivano valutati solo dopo quattro mesi di insegnamento della lingua non familiare (L3 – francese) e non era stata loro insegnata esplicitamente la fonologia francese (perché non era previsto nel programma formativo). Quindi è probabile che non avessero ancora creato rappresentazioni stabili delle differenti unità di suono nella lingua francese, mettendo in ombra il contributo del magazzino a breve termine all’apprendimento del vocabolario.

Ulteriori studi sarebbero necessari per esplorare se altri legami significativi possano emergere a stadi più tardivi dell’apprendimento della L3. Il limite maggiore di questo studio è, infatti, il fatto che i bambini hanno imparato il tedesco (L2) per più tempo del francese (L3). Studi longitudinali potrebbero indagare se i risultati osservati siano correlati alla tipologia di linguaggio (familiare o non familiare) piuttosto che alla durata dell’insegnamento.

 

Conclusioni

Concludendo, è stato molto studiato il ruolo della memoria di lavoro rispetto alle prestazioni linguistiche di adulti e bambini sia relativamente alla lingua madre sia a una seconda lingua (Juffs e Harrington, 2012). Una componente della memoria di lavoro che ha ricevuto grande attenzione, in riferimento all’ apprendimento di una seconda lingua, è la memoria a breve termine fonologica. Si è teorizzato che essa fornisca un magazzino temporaneo in cui trattenere nuove configurazioni di suono e da cui astrarre rappresentazioni fonologico-lessicali più stabili (Baddeley, Gathercole e Papagno, 1998). Nella rassegna della ricerca di Juffs e Harrington (2012), come negli studi esposti dettagliatamente sopra, la memoria fonologica è risultata importante nell’apprendimento di nuove configurazioni di suono, fondamentale all’acquisizione del vocabolario di una seconda lingua, in bambini e adulti (French e O’Brien, 2008), oltre ad essere implicata anche nell’apprendimento della grammatica (Speciale, Ellis e Bywater, 2004).

Molti ricercatori hanno tentato di riconoscere se i limiti della capacità della memoria di lavoro possano spiegare le differenze tra le persone, nell’abilità di acquisire una seconda lingua, in una varietà di contesti. Si è arrivati ad affermare che molto probabilmente una memoria di lavoro più elevata comporti un maggiore successo nell’apprendimento (Juffs e Harrington, 2012). Tuttavia, sebbene essa possa essere un fattore che spiega una parte della variabilità tra gli allievi, altri elementi possono essere influenti, come si evince anche dagli studi precedentemente descritti.

Un altro aspetto che emerge è l’effetto della memoria di lavoro sull’apprendimento, nel corso dello sviluppo. Per esempio, O’Brien e colleghi (2006) hanno mostrato che la memoria fonologica gioca un ruolo significativo nel vocabolario precoce e più tardi anche sulla grammatica (French e O’Brien, 2008). Nella ricerca futura si auspica una maggiore comprensione di questi cambiamenti nel corso dello sviluppo. Inoltre risulta molto importante l’attenzione, definita in termini di processi che ne implicano il mantenimento, oltre alla resistenza alla distrazione: la ricerca sulla memoria di lavoro sembra una strada di accesso a una migliore comprensione del ruolo dell’attenzione nell’acquisizione della L2 (Juffs e Harrington, 2012).

Infine la metodologia è una caratteristica importante: sono stati introdotti nuovi test, come lo Speaking span test (Weissheimer e Mota, 2009), il compito di completamento di frasi usato da Abu-Rabia (2001) e le misure del tempo della risposta per valutare l’elaborazione più direttamente (Walter, 2006). Poiché i ricercatori sulla L2 impiegano misure sempre più sofisticate, dalla ricerca futura si attende una comprensione sempre maggiore del ruolo della capacità di memoria di lavoro nell’ apprendimento di una seconda lingua.

Processi ecologici della mente autopoiesi e dimensione narrativa – Seminario

Giornate seminariali siciliane di psicologia e psicoterapia cognitiva

locandina-master-x-sofm-680

SCARICA LA LOCANDINA

Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo – MAPS 2017

MAPS 2017 è un Master avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo rivolto a psicoterapeuti specializzati o specializzandi (quarto anno) e neuropsichiatri infantili che padroneggino il modello cognitivo comportamentale e che conclusa la propria formazione nell’ambito della clinica dell’età adulta intendono:

– potenziare e ampliare le competenze cliniche di base nell’ambito della psicopatologia dell’infanzia e dell’adolescenza.
– analizzare processi, principi e modelli teorici nella psicopatologia dello sviluppo
– acquisire metodologie per l’assessment, la concettualizzazione del caso e l’intervento secondo i più recenti modelli di sviluppo delle terapie comportamentali e cognitive: Rational Emotive Behavior Therapy (REBT), Acceptance and Commitment Therapy (ACT), Functional Analytic Therapy (FAP).

Scarica la BROCHURE del MASTER MAPS 2017LOCANDINA MASTER MAPS 2017


Programma del Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo

I anno (16 giornate): Strategie e procedure di assessment in età evolutiva – Modelli di concettualizzazione e trattamento dei principali disturbi – casi clinici
II anno (opzionale): 50 ore di supervisione su casi clinici in piccolo gruppo. Il secondo anno sarà attivato su richiesta degli allievi.

L’attestato di partecipazione sarà consegnato alla conclusione del primo anno di lezione a coloro che avranno frequentato almeno il 75% delle lezioni e superato la prova finale che consisterà nella presentazione e nella discussione di un caso clinico.

Scarica il PROGRAMMA DEL MASTER MAPS 2017 (PDF)


Docenti del Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo

Roberto Anchisi: Psicologo psicoterapeuta, autore di oltre 100 pubblicazioni tra articoli e volumi sull’analisi e la terapia del comportamento. Primo Presidente AIAMC, docente presso l’Università di Parma di Teoria e Tecniche del Colloquio Psicologico. Direttore scientifico di ASCCO

Fabio Celi: Psicologo psicoterapeuta dirigente presso ASL di Massa-Carrara, autore di numerose pubblicazioni relative a problemi cognitivi ed emozionali e disturbi dell’apprendimento e di un conosciutissimo e apprezzato volume sulla psicopatologia dello sviluppo. Docente di psicopatologia dello sviluppo all’Università di Parma.

Lisa W. Coyne: psicologa clinica è membro della facoltà di psichiatria alla Harvard Medical School, e direttore del Child and Adolescent OCD Institute (OCDI Jr.) al McLean Hospital. È professore associato in psicologia clinica presso la Suffolk University di Boston,trainer ACT riconosciuta a livello internazionale. Ha pubblicato numerosi articoli peer-reviewed e capitoli sui temi dell’ansia, del disturbo ossessivo compulsivo, e della genitorialità. È autrice di The Joy of Parenting: An Acceptance and Commitment Therapy Guide to Effective Parenting in the Early Years.

Carmelo Dambone: Psicologo psicoterapeuta, mediatore familiare, perfezionato in criminologia, abilitato EMDR. Docente di “Comunicazione, Mass Media e Crimine”presso l’Università IULM di Milano e di “Psicologia Clinica Forense” presso varie scuole in Italia di Specializzazione in Psicoterapia. Presidente della S.I.P.C.F. (Società Italiana di Psicologia Clinica Forense).

Mario Di Pietro: Psicologo psicoterapeuta presso l’AULS di Este-Monselice (PD), si occupa di problematiche emotive e comportamentali dell’età evolutiva. Si è specializzato presso l’Institute for Rational-Emotive Therapy di New York. È autore di numerose pubblicazioni tra cui un celebre volume con Kendal, è docente di psicodiagnostica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova

Paolo Moderato: Psicologo psicoterapeuta, ordinario di Psicologia Generale presso l’Università IULM di Milano. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in TCC, specialistica per infanzia e adolescenza, Humanitas, sede di Milano. Past President EABCT e autore di oltre 200 pubblicazioni. Dirige la collana Pratiche Comportamentali e Cognitive per Franco Angeli Editore.

Francesca Pergolizzi: Psicologa psicoterapeuta. Docente e supervisore presso ASCCO Parma e Humanitas di Milano. Docente e supervisore AIAMC, esperta di psicopatologia infantile, coordina lo Special Interest Group ACT 4 Kids & Teens di ACT Italia.

Giovambattista Presti: Medico, specializzato in psicologia clinica. Professore Associato di Psicologia Generale presso l’Università Kore di Enna. Trainer ACT riconosciuto dall’ACBS. Ha curato la pubblicazione italiana di articoli e volumi sull’Acceptance and Commitment Therapy.

Alessandra Vanni: Psicologa psicoterapeuta, già docente di psicologia presso l’università di Parma e di Bergamo. Coordinatrice delle attività di psicoterapia presso il Centro di Eccellenza sull’Adolescenza, Villa San Benedetto e CEDANS Milano, della Congregazione Suore Ospedaliere.


Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo – INFORMAZIONI PRATICHE

DATA E ORARIO

11 febbraio – 19 novembre 2017
(16 giornate) Ore 9-18

LUOGO

Il Master si terrà a Roma a c/o Itaca, Via Terminillo n.3 (zona P.za Sempione-M.te Sacro. Da staz.Termini => 90 Express. Da staz. Tiburtina => Metro B fermata Conca d’Orco)

DESTINATARI

Il Master è rivolto a psicoterapeuti specializzati o specializzandi (quarto anno) e neuropsichiatri infantili che padroneggino il modello cognitivo comportamentale

CREDITI ECM

50 crediti per psicologi e neuropsichiatri.

COSTI

Il costo per la frequenza del primo anno del master è di € 2.450,00 (IVA esente art. 10, comma 1, numero 20 del D.P.R. n. 633 26 ottobre 1972).

Il pagamento della quota di iscrizione potrà essere effettuato mediante bonifico bancario intestato a Accademia Scienze Comportamentali Cognitive (codice IBAN: IT02I0623012704000035864479) secondo le seguenti modalità:
€ 850,00 all’atto dell’iscrizione
€ 800,00 seconda rata (entro il 1 giugno 2017)
€ 800,00 terza rata (550 € per chi usufruisce dello sconto ACT ITALIA e Alumni IESCUM – specializzandi) (entro il 1° settembre 2016)

ISCRIZIONI

Il Master è a numero chiuso, con un massimo di 25 posti disponibili. I posti verranno assegnati in ordine di iscrizione.
Le iscrizioni chiudono il 1 febbraio 2017.
Per chi si iscrive entro il 31-12-2016 è prevista una riduzione sul costo d’iscrizione (vedi colonna a sinistra).
Le iscrizioni sono attualmente aperte (ci sono posti disponibili).
Per iscrivervi al Master, effettuate il pagamento della prima rata (1) e compilate la scheda di iscrizione (2).
Una volta effettuato il pagamento e compilata la scheda d’iscrizione, l’iscrizione è automaticamente confermata: NON riceverete ulteriori email di conferma.

1. PAGAMENTO
La prima rata è di € 850,00. Ricordatevi di indicare nella descrizione del bonifico il nome e cognome della persona che si iscrive.

Pagamento dell’iscrizione
Seguite queste indicazioni per effettuare il pagamento e completare così l’iscrizione ad un evento formativo.
ATTENZIONE: una volta effettuato il pagamento l’iscrizione è automaticamente confermata. NON riceverete ulteriori email di conferma.
Per informazioni o assistenza riguardo al pagamento, scrivete a [email protected]
È possibile effettuare il pagamento per questo evento formativo esclusivamente tramite bonifico bancario alle seguenti coordinate:

C/c intestato ad Accademia Scienze Comportamentali Cognitive
codice IBAN: IT02I0623012704000035864479

ATTENZIONE: nella causale del bonifico è NECESSARIO inserire NOME E COGNOME della persona che viene iscritta.
2. ISCRIZIONE
La scheda d’iscrizione richiede di inserire la ricevuta del versamento della prima rata.

SCHEDA DI ISCRIZIONE ONLINE

RIDUZIONI

È prevista una riduzione del 10% (€ 2200,00) per i soci ACT ITALIA, per gli iscritti a IESCUM Alumni e per gli studenti specializzandi delle scuole di psicoterapia (IV anno).

Lo sconto è inoltre applicato a tutti coloro che effettueranno l’iscrizione entro il 31-12-2016.

INFORMAZIONI

Per informazioni potete contattare l’indirizzo [email protected]

PERNOTTAMENTO

È possibile pernottare presso la struttura che ospita le lezioni del Master:

Ospitalità: SCARICA LA PRESENTAZIONESCARICA LA BROCHURE

La sinistra ha un problema con i leader donna?

C’è un problema a sinistra con i leader donna? Non c’è mica solo Hillary Clinton. C’è stata anche Ségolène Royal. Due scalate al potere in due grandi paesi occidentali, due fallimenti. Mentre a destra incontriamo almeno tre successi: Margaret Thatcher, Angela Merkel e Theresa May.

Giovanni M. Ruggiero e Sandra Sassaroli

 

Insomma, nella destra politica dei grandi paesi d’Occidente si sono fatte largo figure femminili che hanno fatto la storia in misura paragonabile agli uomini. Poche, ma ci sono. Thatcher  sta di fianco a Pitt, Peel e Churchill e Merkel sta di fianco ad Adenauer e Kohl. Vedremo se entrerà nella storia anche la May, che però intanto governa. A sinistra, invece, Royal e Clinton non ci sono purtroppo riuscite. Ad aggravare la situazione c’è che sia Royal che Clinton hanno fatto strada anche come donne del capo: Royal di fianco a Hollande, Hillary di fianco a Bill. La vedete una Thatcher che per farsi luce nel partito conservatore si mette con un maschio? No, queste leader di destra hanno scelto degli affettuosi ometti come consorti. Il coraggio di scegliersi un uomo riservato, devoto e senza carisma politico; forse anche questo dovrebbero imparare le donne di sinistra che vogliono comandare, invece di inseguire il mito del consorte paritario.

Vediamo se ci soccorrono le solite democrazie scandinave. Ci saranno donne di sinistra che sono diventate premier da quelle parti? Facciamo una rapida ricerca sul web e troviamo Mari Kiviniemi in Finlandia ed Erna Solberg in Norvegia. Un momento, però. Come? Sono di centro o di destra anche queste due? Allora è un vizio. Probabilmente, se ci si mette d’impegno lo troviamo un primo ministro di sinistra donna occidentale. Ci si potrebbe ricordare della laburista israeliana Golda Meir, oppure della premier argentina Cristina Fernández de Kirchner, peronista ma di sinistra. Va bene, ma non basta. La domanda è un’altra: la sinistra di un grande paese in Europa o Nord America è capace di avere un leader donna? Quindi una eventuale premier donna scandinava, israeliana o argentina non bastano. Cerchiamo un analogo a sinistra di Thatcher o Merkel in uno dei grandi paesi europei o negli Stati Uniti. Invece, ci vengono in mente altre leader di paesi decisamente non occidentali: Indira Ghandi, Benazir Bhutto e Aung San Suu Kyi.
Insomma, i maschi occidentali di destra e maschi non occidentali di sinistra o quasi sanno seguire un capo politico donna. Il maschio occidentale di sinistra sembra non ancora.

C’è qualcosa di marcio a sinistra in occidente con i capi donna? Qual è il problema dell’elettore di sinistra con i leader donna? Hillary Clinton rispetto a Obama ha perso oltre 6 milioni di voti. E Trump ha vinto prendendo meno voti del perdente repubblicano di 4 anni fa, Romney. Hillary ha perso per lo scarso trasporto dei suoi potenziali elettori. E speriamo solo degli elettori e non anche delle elettrici. Tocca analizzare il voto. Sarà stato lo scarso entusiasmo dei giovani per il suo legame con il big business? Certo, forse anche quello. O forse la sua postura politicamente corretta che riduce ogni conversazione a una passeggiata sulle uova? No, non c’entra, questo magari allontana l’elettore  di centro, non quello di sinistra. Oppure vi è una spiegazione più triste. La coalizione delle minoranze non premia le donne. Ispanici e neri non si sono entusiasmati per un donna? Può darsi. Oggi in TV i commentatori dicevano che il voto nero in North Carolina ha tradito Hillary. Bell’affare: i maschi delle minoranze etniche protette dalla sinistra non impazziscono dalla voglia di votare una donna? Speriamo non sia così. Una cosa è certa: la sinistra europea e nordamericana deve dimostrare di saper eleggere una donna. La destra lo ha già fatto, smentendo un pregiudizio. Forse anche questo ha irritato il “deplorable” elettore bianco maschio. Lui, in fondo, il suo dovere con le donne in politica lo ha fatto.

L’altra faccia dell’autostima: un costrutto troppo sopravvalutato?

Investire sull’ autostima è pressoché una regola aurea, così come darne una valutazione positiva. Essa infatti appare come l’unica importante base capace di decretare la salute psichica di un individuo ed è spesso investita del ruolo di totale panacea.    

 

Per i non addetti ai lavori, l’ autostima sembra essere quasi il tema portante della psicologia, tanto che la sua assenza è nell’opinione comune quasi la causa di molte problematiche manifeste sin dalla tenera età. Investire sull’ autostima è pressoché una regola aurea, così come darne una valutazione positiva. Essa infatti appare come l’unica importante base capace di decretare la salute psichica di un individuo ed è spesso investita del ruolo di totale panacea.

 

Come potrebbe non avere tale importanza la famosissima autostima?

Il suo influsso nella tradizione psicologica è decisamente preponderante e lo si evince da una delle sue più antiche definizioni. Proprio uno dei padri fondatori della psicologia occidentale, William James, ha infatti tentato di tentare di darne una spiegazione completa, intendendola come “conseguenza della percezione di competenza in un ambito importante” (James, 1890).

Questa semplice definizione sottolinea come l’ autostima sia intrinsecamente soggettiva, dal momento che è l’esito di un’abilità in un dominio che ha un valore solo per l’individuo stesso. In linea cronologica lo sviluppo successivo di questo costrutto si deve a Charles Horton Cooley. Egli ne ha sottolineato come implicitamente sottesa l’importanza del giudizio dell’altro, un “guardarsi allo specchio”, elemento che generalmente fa sì che ciascuno di noi si confronti con uno standard prefissato (Cooley, 1902).

Già in questo breve quadro storico si nasconde una delle varie criticità insite nel concetto di autostima: essa non è la causa delle azioni, ma solo il frutto dell’azione messa in atto.

In quest’ottica si ha una percezione di autostima solo al raggiungimento di un potenziale obiettivo, non nella presenza di quest’ultimo. Proprio per questo suo aspetto negativo essa può essere molto instabile: se legata infatti all’andamento degli eventi, rischia di divenire fluttuante ed esporre nel lungo termine a una depressione di natura non clinica.

La sua natura deleteria si può riscontrare anche in altri aspetti. Essa sembra spesso nascondere il bisogno di essere superiori (a volte così forte da far considerare disdicevole la possibilità di essere pari alla media) in un gioco dicotomico di ipervalutazione di sé e svalutazione del prossimo.

Quando il forte bias di autoaccrescimento fa perdere qualsiasi orientamento oggettivo sulla realtà, si rischia di nutrire una visione irreale del proprio sé con conseguenze narcisistiche.

Se tale modalità di lettura del mondo esterno si amplia dalla dimensione individuale a quella del proprio gruppo sociale, dal momento che l’ autostima stessa presuppone un confronto, può essere persino feconda genesi per situazioni di pregiudizio per gli altri gruppi sociali fino a raggiungere addirittura condizioni estreme.

Quando infatti si crede che la propria dimensione di appartenenza non abbia avuto il rispetto che le dovrebbe essere concesso, si può sfociare in episodi di rabbia e aggressività manifesta verso gli altri (Baumeister, Smart, e Boden, 1996).

 

Autostima: un costrutto da demonizzare totalmente?

Sicuramente sopravvalutata nel tempo, l’ autostima ha connotati positivi quando può essere definita sana. Deci e Ryan (1995) a tal proposito parlano “vera autostima”, definendola “una modalità di valutazione di sé autonoma e determinata dall’individuo, che non dipende dagli eventi o dall’approvazione sociale”.

In una visione più equilibrata, tra i potenziali punti cardine alla base della salute psichica essa potrebbe comunque essere accompagnata, o addirittura sostituita, da ulteriori nuovi costrutti proposti dalla psicologia moderna che non presuppongano perciò un confronto di se stessi con il mondo esterno, sia esso fatto di soggetti potenzialmente più capaci o di standard prestabiliti da raggiungere.

Il dolore da arto fantasma dopo un’amputazione: possibili trattamenti

Un pool di ricercatori delle università di Osaka e di Cambridge, ha cercato di scoprire la causa del dolore da arto fantasma, dolore cronico in soggetti con un arto amputato e con severe lesioni a carico dei nervi. Lo studio ha permesso di ipotizzare la possibilità di un trattamento che si serva dell’intelligenza artificiale, in luogo delle terapie farmacologiche.

 

La sindrome dell’arto fantasma è una condizione che colpisce individui a cui è stato amputato un arto a seguito di numerose cause, alcune delle più diffuse legate a patologie di tipo vascolare. Essa consiste nella “sensazione” dell’arto amputato, che viene percepito come presente e si può accompagnare a sensazioni di dolore anche molto forti attribuite proprio all’arto mancante. Questa condizione è nota come dolore da arto fantasma.

Il dolore da arto fantasma e la riorganizzazione cerebrale

Un gruppo di ricerca dell’Università di Osaka in Giappone, in collaborazione con l’Università di Cambridge, ha scoperto che la causa del dolore da arto fantasma che caratterizza i soggetti affetti da questa sindrome sarebbe da ricercare nella “riorganizzazione” dei circuiti cerebrali. In particolare, vi sarebbero circuiti difettosi nella corteccia sensomotoria. Essa dovrebbe processare gli impulsi sensoriali e l’esecuzione dei movimenti. Nel caso di un’amputazione, vi sarebbe una discrepanza tra il movimento e la percezione del movimento.

Nello studio è stata utilizzata un’interfaccia cervello-macchina che permetteva a 10 soggetti di controllare, attraverso il pensiero, cioè attraverso l’attività cerebrale, un braccio meccanico, grazie alla decodifica dell’attività neurale collegata all’azione mentale che permetteva ad essi di muovere l’arto fantasma.

 

Risultati e conclusione

E’ stato dimostrato che, quando i soggetti cercavano di associare il movimento della macchina a quello dell’arto mancante, il dolore aumentava; quando invece il movimento era associato al braccio integro, il dolore diminuiva. Il cambiamento è stato associato al fatto che la corteccia sensomotoria dell’emisfero deputato al controllo dell’arto fantasma risentisse del fenomeno sopracitato, motivo per cui i soggetti venivano, tramite l’interfaccia cervello-macchina, “addestrati” ad utilizzare la corteccia sensomotoria dell’emisfero opposto, collegato all’utilizzo dell’arto sano. Quando i soggetti imparavano a controllare l’arto artificiale in questo modo, ne traeva vantaggio la plasticità (l’abilità del cervello di riorganizzarsi e di imparare nuove abilità) della corteccia sensomotoria, dimostrando un collegamento tra plasticità e dolore.

Anche se i risultati lasciano ben sperare, gli effetti del trattamento sono solo temporanei e richiedono al momento dei costi troppo elevati.
Tuttavia, lo studio mette in risalto la possibilità di poter creare, in futuro, un trattamento basato su queste tecniche e secondo Seymour e colleghi, questo passo potrà essere fatto tra i prossimi cinque-dieci anni.

Sesso sadomaso: posizione sociale e disinibizione

Un’idea diffusa è che il sadomaso sia un modo di sottolineare le differenze di potere tra i due sessi, che porta il più potente ad assumere il ruolo di sadico, mentre il più debole ad adottare un ruolo passivo.

 

Le ipotesi che spiegano il sesso sadomaso

Il successo dato da oltre 100 milioni di copie vendute del libro 50 sfumature di grigio rappresenta la curiosità di alcune persone nei confronti delle pratiche sadomaso e il desiderio di altri di comprendere il motivo per il quale una coppia dovrebbe mischiare il sesso, la dominazione e il dolore.
Solo poche persone praticano sadomaso, ma molti esperiscono un certo arousal alla visione di scene erotiche di quel tipo (Weinberg & Kamel, 1983).
Un’idea diffusa è che il sadomaso sia un modo di sottolineare le differenze di potere tra i due sessi, che porta il più potente ad assumere il ruolo di sadico, mentre il più debole ad adottare un ruolo passivo. Questo concetto origina dalle teorie freudiane, che concepiscono il sadismo come un’ aberrazione dell’istinto aggressivo di esercitare il potere sugli altri, mentre il masochismo derivererebbe da una sorta di bisogno inconscio di subire una pena.

Recentemente questa ipotesi è stata messa in dubbio dalla cosiddetta “ipotesi della disinibizione”. Questa teoria afferma che il potere conduce ad uno stato di disinibizione comportamentale che permette al potente di esercitare i suoi impulsi. Questo stato di disinibizione aiuterebbe i partners ad ignorare o sopportare alcune pressioni situazionali e a meglio realizzare i propri desideri a letto.

A parte ciò, dato il ruolo centrale che il potere ha nel sadomaso, una domanda interessante è: il potere sociale orienta in qualche modo l’attrazione verso il sadomasochismo, e se sì, come?
Il termine-ombrello BDSM abbraccia una serie di pratiche erotiche svolte da adulti consenzienti, come il bondage – ossia attività sessuali basate su costrizioni fisiche quali l’essere legati, imbavagliati, etc. – e il sadomasochismo.

 

Posizione sociale e pratiche sadomaso

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Social Psychology & Personality Science, le persone con maggior potere sociale sarebbero più propense a dedicarsi a pratiche BDSM.

Il team di ricerca ha indagato la relazione tra potere dato dalla posizione sociale e tendenza a coinvolgersi in pratiche sadomaso con il partner in un campione di 14306 uomini e donne.

Secondo i risultati della ricerca, i soggetti che occupavano posizioni più elevate al lavoro avevano una probabilità significativamente maggiore di attivarsi con pensieri riguardanti il sadismo o il masochismo. Dai risultati, inoltre, emergeva come tra i soggetti con forte potere sociale, le donne tendevano ad evidenziare maggiore eccitazione per il sadismo, mentre gli uomini per il masochismo.

Tra i pregi di questa ricerca sicuramente annoveriamo l’ampiezza del campione, che garantisce un ottimo effect size tra le variabili in questione. In aggiunta, dai risultati si evince che anche la vita sessuale delle donne è influenzata dal potere sociale, sconfermando peraltro la credenza che vede le donne più inclini alla sottomissione e gli uomini alla dominazione.

 

Conclusioni

Secondo i ricercatori, la disinibizione condurrebbe i partner a sorvolare i tabù sessuali e le norme associate al genere durante i rapporti sadomaso. Perciò, stando alle loro conclusioni, sarebbe lecito affermare che il potere sociale influenza e modifica i tradizionali pattern associati al genere durante l’atto sessuale.

cancel