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Comportamenti di acquisto di prodotti biologici: un’applicazione della teoria del comportamento pianificato

Negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di sviluppare modelli psicologici volti a prevedere e spiegare il comportamento di acquisto collocandolo in un più ampio sistema di credenze, valori, norme, atteggiamenti e conoscenze condivise. In tale ambito hanno dominato due modelli fondati sull’assunzione di razionalità dell’attore/consumatore: la teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato.

Serena Marinari, Open School Scuola Cognitiva di Firenze

Psicologia e marketing: come spiegare il comportamento dei consumatori

La psicologia è la scienza più spesso chiamata in causa per spiegare il comportamento del consumatore. La disciplina economica e il marketing si sono tradizionalmente rivolte ad essa – sia pure con una certa dose di diffidenza, attenuata soltanto dalla spiccata simpatia verso la psicologia comportamentista – per esaminare quegli aspetti del consumo che gli strumenti di ricerca a disposizione si mostravano sempre più inadeguati ad indagare (Fabris, 1970). La crescente disponibilità di alternative di consumo fra cui scegliere ed una presunta maggiore “irrazionalità” del consumatore – dissonante rispetto ai criteri economici dell’utilità e della funzionalità – hanno ulteriormente sollecitato, in tempi più recenti, dapprima attenzione e successivamente attesa verso il contributo psicologico, per cui si riteneva che lo psicologo fosse l’unico in grado di studiare proficuamente il comportamento del consumatore (Fabris, 1970).

Il settore su cui, nel corso degli anni, è stato rivolto maggiore interesse è rappresentato dalle motivazioni del consumatore, ma queste non rappresentano che un aspetto del suo comportamento e non possono essere comprese se non inserite nel contesto sociale in cui l’individuo é immerso, di cui è attivamente partecipe e che profondamente influenza le sue azioni. Le motivazioni di consumo, infatti, sono espressione di impulsi e bisogni che si formano a livello individuale ma che hanno anche la loro genesi nel sociale, in quanto plasmate dai processi di apprendimento e di socializzazione e mediate dai processi cognitivi (Fabris, 1970).

All’origine di qualsiasi comportamento c’è uno stato di bisogno che può essere interno all’individuo, e presentarsi sotto forma di deficienza organica o di privazione reale o percepita come tale dal soggetto, oppure essere sollecitato da stimoli ambientali, come ad esempio l’esposizione ad un cartellone pubblicitario (Fabris, 1970).

Le diverse scuole psicologiche hanno proposto una serie di classificazioni dei bisogni, che risultano però largamente insoddisfacenti perché incomplete o troppo generiche (Sirigatti, 1995). I progetti di ricerca devono tendere ad individuare le motivazioni alla base di certi modelli di consumo che intervengono nel processo di formazione di specifiche decisioni di acquisto, piuttosto che tendere a formulare delle categorie astratte o ad individuare “la motivazione” che determina il comportamento del consumatore (Fabris, 1970).

Modelli psicologici della previsione del comportamento: la teoria dell’azione ragionata e la teoria del comportamento pianificato

Negli ultimi anni si è avvertita l’esigenza di sviluppare modelli psicologici volti a prevedere e spiegare il comportamento di acquisto collocandolo in un più ampio sistema di credenze, valori, norme, atteggiamenti e conoscenze condivise. In tale ambito hanno dominato due modelli fondati sull’assunzione di razionalità dell’attore/consumatore: quello dell’azione ragionata e quello del comportamento pianificato.

La Teoria dell’Azione Ragionata (TRA – Theory of Reasoned Action), sviluppata da Fishbein e Ajzen (1975; Ajzen e Fishbein, 1980) assume che il comportamento sia determinato dall’intenzione, definita in termini di probabilità soggettiva, che un individuo esegua una particolare azione, come ad esempio l’acquisto di un prodotto. L’intenzione, a sua volta, sarebbe determinata dall’atteggiamento – favorevole o meno – verso lo specifico comportamento e dalla norma soggettiva, intesa come la percezione da parte dell’individuo di quanto l’adozione del comportamento sia approvato o disapprovato da specifiche persone o gruppi di riferimento.

Il modello assume, inoltre, che gli atteggiamenti verso il comportamento dipendano dalle credenze relative alle conseguenze, in termini di costi-benefici, dell’adozione del comportamento stesso (credenze comportamentali), nonché dalla valutazione di ognuna di tali conseguenze. Analogamente, le norme soggettive sono considerate funzione della percezione della pressione normativa (credenze normative), nonché della motivazione ad agire in conformità con le aspettative dei gruppi di riferimento.

Con la Teoria del Comportamento Pianificato (TPB – Theory of Planned Behavior), Ajzen e Madden hanno introdotto un nuovo previsore delle intenzioni e del comportamento: il controllo comportamentale percepito, definito come ” la credenza di una persona di quanto facile o difficile è probabile che sia l’esecuzione del comportamento” (Ajzen e Madden, 1986). Tale costrutto è molto vicino nel significato alla nozione di self-efficacy di Bandura (1977), ossia la fiducia di un individuo di essere in grado di eseguire un particolare comportamento. Differisce invece dal concetto di locus of control (Rotter, 1966), in quanto, mentre quest’ultimo rappresenta un’aspettativa generale che rimane stabile nelle diverse situazioni, il controllo percepito varia da situazione a situazione.

Analogamente agli atteggiamenti e alle norme soggettive, il controllo comportamentale percepito è funzione delle credenze di controllo, che rappresentano la stima soggettiva della possibilità di accedere alle risorse e alle opportunità necessarie all’esecuzione del comportamento; esse si basano, in piccola parte, sul comportamento passato, mentre, in misura maggiore, su informazioni indirette e su esperienze di amici e conoscenti (Ajzen e Madden, 1986).

Ajzen e Madden (1986) hanno proposto due versioni del loro modello: la prima si basa sull’assunto che il controllo comportamentale percepito abbia un effetto indipendente sulle intenzioni, nel senso che ci si aspetta che l’intenzione riguardo ad un comportamento si formi soltanto quando la persona crede di avere i mezzi per eseguire il comportamento stesso; la seconda considera anche la possibilità di un’influenza diretta del controllo percepito sul comportamento, che può essere prevista soltanto quando si ipotizza che il controllo comportamentale percepito funzioni come un parziale sostituto per il controllo effettivo sui fattori interni ed esterni che potrebbero interferire con l’esecuzione del comportamento. Quindi, il path diretto dal controllo comportamentale percepito al comportamento rappresenta una determinazione non volitiva dell’azione.

Sempre più numerose ricerche supportano la teoria del comportamento pianificato; le principali verifiche sono state eseguite sull’obiettivo da parte di studenti universitari di conseguire il voto massimo (Ajzen e Madden, 1986) e su quello di perdere peso (Schifter e Ajzen, 1985). In entrambi i domini si è potuto constatare che il costrutto del controllo comportamentale percepito aumentava il potere di previsione del modello originario di Ajzen e Fishbein (1980).

 

Prodotti alimentari biologici e comportamenti di acquisto: presentazione di una ricerca qualitativa

A partire dal successo ottenuto dalla applicazione della Teoria del comportamento pianificato nei diversi ambiti, in particolare per spiegare e predire i comportamenti di acquisto (Caprara, Barbaranelli e Guido, 1998), si intende presentare una ricerca svolta per una tesi di laurea in Psicologia degli Atteggiamenti e delle Opinioni presso la Facoltà di Psicologia di Firenze (Marinari, 2004). Tale studio ha preso in considerazione un argomento ancora oggi molto attuale: l’acquisto di prodotti alimentari biologici, ossia quei prodotti ottenuti senza l’impiego di concimi chimici, antiparassitari o diserbanti e certificati da parte di uno degli organismi preposti per legge a tale funzione (Regolamento CEE/n. 2092/91). (Fig. 3)

L’obiettivo è quello di verificare se e in che misura le intenzioni di acquisto di prodotti “bio” siano influenzate dalle norme soggettive, dal controllo comportamentale percepito e da variabili che, in precedenti studi, avevano dimostrato di aumentare la predittività del modello: il comportamento passato (Fredricks e Dossett, 1983; Caprara, Barbaranelli e Guido, 1998), la soddisfazione relativa a precedenti acquisti (Pierro, Mannetti e Feliziola, 1998; 1999) ed il desiderio (Bagozzi, 1999), facendo riferimento alla teoria del comportamento pianificato.

Il campione utilizzato, reclutato all’interno di residenze universitarie, convitti e luoghi adibiti allo studio, è composto da 135 studenti universitari (51% femmine e 49% maschi) ed ha una età media di 25,08 anni (DS=3,13): il 74% è rappresentato dai consumatori di prodotti alimentari biologici, che in base alla frequenza dell’acquisto si dividono in abituali ed occasionali, mentre il restante 26% è rappresentato dai non consumatori.

Ad essi è stato somministrato un questionario costruito appositamente per la presente ricerca sulla base della Teoria del comportamento pianificato, composto da items che misurano i costrutti considerati nel modello e le variabili aggiuntive.

Per verificare gli obiettivi della ricerca, sono state eseguite due regressioni multiple: una al fine di analizzare quanto i valori dell’intenzione di acquisto dipendano o siano determinati dai valori del controllo comportamentale percepito, delle norme soggettive e del desiderio; l’altra per esaminare se l’intenzione, nei consumatori occasionali, possa essere predetta, oltre che dalle variabili indipendenti sopra menzionate, anche dal comportamento passato e dalla soddisfazione derivata da precedenti acquisti, come emerso in numerose ricerche.

 

Risultati e discussione: la teoria del comportamento pianificato per spiegare l’acquisto di prodotti bio

Dall’ analisi delle risposte del questionario definito sulla base della teoria del comportamento pianificato è emerso che le credenze comportamentali dei consumatori nei confronti dell’acquisto risultano essere qualità, sicurezza e rispetto per l’ambiente, per quanto riguarda i vantaggi; costi elevati e difficile reperimento, per quanto concerne gli svantaggi.

Anche per i non consumatori le credenze comportamentali relative ai vantaggi di un ipotetico acquisto sono la qualità, la sicurezza e il rispetto per l’ambiente, con l’unica differenza che alla sicurezza viene riconosciuta un’importanza maggiore. Gli svantaggi riportati sono i costi elevati e le scarse garanzie di controllo, a testimonianza di una maggiore diffidenza verso questi prodotti e della limitata conoscenza delle normative europee che regolano l’agricoltura biologica.

La riduzione dei prezzi ed una distribuzione più capillare sul mercato sono risultati essere i principali fattori in grado di facilitare l’acquisto di tali prodotti. È emerso, inoltre, il bisogno di una maggiore informazione che permetta una conoscenza più approfondita di tali prodotti e di una maggiore attrattività delle confezioni, che potrebbe invogliare all’acquisto anche i non consumatori. Il fattore che ostacola in modo determinante l’acquisto risulta essere ancora una volta il prezzo, probabilmente perché il campione considerato è costituito da studenti universitari, soprattutto fuori sede.

Questo risultato sembra essere confermato anche dall’atteggiamento nei confronti dell’acquisto, in cui l’aggettivo “dispendioso” è risultato essere quello più adatto a definire l’acquisto stesso, assieme a “maturo” e “attento”.

Relativamente alle credenze normative, da un’analisi delle medie delle risposte dei soggetti, è emerso che i referenti che approverebbero maggiormente l’acquisto sono risultati essere i genitori, oltre al partner (nel caso dei consumatori) e ad altri parenti (per i non consumatori). I consumatori attribuiscono ai genitori ed al partner anche una più elevata importanza circa le loro opinioni, indice di una maggiore motivazione a conformarsi a quello che tali referenti pensano dell’acquisto. Questi risultati sembrano confermare quanto emerso nell’indagine di Zani e Cicognani (1998) che attribuiscono alle norme soggettive, soprattutto quelle relative a genitori e partner, un importante peso nel predire le intenzioni. Per quanto riguarda i non consumatori, invece, nessun referente sembra avere importanza nell’eventuale scelta di acquistare prodotti “bio”.

L’intenzione di acquisto, considerata sia in termini di probabilità di avere l’intenzione di acquistare che come probabilità di compiere effettivamente l’acquisto, risulta dunque essere determinata dalle norme soggettive, soprattutto quelle riguardanti la percezione dell’opinione dei referenti e dal controllo comportamentale relativo alla facilità di acquisto.

I dati ottenuti con le regressioni hanno messo in evidenza il maggiore potere predittivo delle norme soggettive rispetto al controllo comportamentale. Oltre a queste variabili, però, sembra importante il ruolo svolto dal desiderio di effettuare l’acquisto, che presenta il coefficiente più alto. Ciò confermerebbe quanto sostenuto dalla teoria della regolazione di sé, secondo cui i desideri, con il loro carico motivazionale, influenzerebbero le intenzioni (Bagozzi, 1999).

Il comportamento passato non risulta essere una variabile significativa nel predire le intenzioni di acquisto. Infatti, l’avere acquistato in precedenza prodotti alimentari biologici sembra non esercitare alcuna influenza né sulla probabilità di avere l’intenzione di acquistarli né su quella di acquistarli successivamente, a differenza di quanto emerso dagli studi di Caprara, Barbaranelli e Guido (1998).

Anche la soddisfazione risulta essere uno scarso predittore sia della probabilità di avere l’intenzione di acquistare sia della probabilità di compiere effettivamente l’acquisto, contrariamente ai risultati ottenuti dalle ricerche di Pierro, Mannetti e Feliziola (1998, 1999).
Bisogna, comunque, tenere presente che i risultati ottenuti dall’analisi delle regressioni multiple dell’intenzione sul comportamento passato e sulla soddisfazione sono parziali in quanto riguardano solo una piccola parte del campione oggetto di studio.
Il potere predittivo della Teoria del comportamento pianificato sembra essere confermata dai risultati ottenuti dall’analisi statistica.

 

Conclusioni

Nell’ambito della letteratura, la teoria del comportamento pianificato non è mai stata applicata al comportamento di acquisto di prodotti alimentari biologici, un campo che risulta essere ancora inesplorato. L’indagine presentata si limita ad esaminare le intenzioni di acquisto di un campione di studenti universitari ma sarebbe interessante includere, in ricerche future, un target più ampio che comprenda diverse fasce di età. Come è emerso in numerosi studi svolti soprattutto in Europa, infatti, l’acquisto di prodotti “bio” è maggiormente diffuso in famiglie con bambini, a testimonianza dell’importanza del loro aspetto salutistico. In tal senso, l’atto dell’acquisto si può leggere come un fattore di rassicurazione psicologica per i genitori, più attenti al rapporto tra alimentazione e salute dei loro figli.

Inoltre, coerentemente con i suggerimenti delineati da Bagozzi (1999), si avverte la necessità di aumentare la predittività dei modelli di previsione dei comportamenti di acquisto, inserendo sia variabili emozionali che medino la relazione tra atteggiamento verso il prodotto ed intenzione di acquistarlo (desiderio), sia aspetti legati all’identità personale e sociale degli individui.

Nella ricerca presentata il desiderio ha rivestito un ruolo importante nel predire le intenzioni, soprattutto quelle riguardanti la probabilità di compiere effettivamente l’acquisto. Non è, invece, stata presa in considerazione l’identità, la cui rilevanza è stata testimoniata in diversi studi (Sparks e Guthrie, 1998; Rosengard, Adler, Gurvey, Dunlop, Tschann, Millstein e Ellen, 2001). Nell’indagine condotta da Bebetsos, Chroni e Theodorakis (2002), l’identità risultava essere, assieme all’atteggiamento ed alla percezione del controllo comportamentale, maggiormente correlata all’intenzione di mangiare in modo salubre da parte di studenti che praticavano attività fisica.

Alla luce delle credenze comportamentali emerse nella ricerca, un altro suggerimento potrebbe essere quello di costruire campagne pubblicitarie a favore dell’acquisto dei prodotti “bio”, basate su messaggi volti a sottolineare le conseguenze positive di tale acquisto, come la sicurezza per la salute o il rispetto per l’ambiente. Poiché i mass media rappresentano le maggiori fonti di influenza, come hanno dichiarato gli studenti del campione oggetto dello studio, questo potrebbe essere un modo per incentivare l’agricoltura biologica ed incrementarne lo sviluppo anche in Italia.

Smettere di fumare riduce anche l’abuso di alcol e droghe

Un ricercatore della Case Western Reserve University School of Medicine (Ohio), ha provato che gli adolescenti rispondono meglio al trattamento sulla loro tossicodipendenza quando smettono di fumare.

Mariagrazia Zaccaria

Il trattamento per smettere di fumare riduce anche l’abuso di alcol e droghe

Dallo studio è emerso che gli adolescenti che hanno smesso di fumare, hanno anche desiderato di abusare meno di alcool o droghe. Al contrario, i giovani che hanno continuato a fumare sono stati dimessi dal centro con una voglia significativa di abusare di alcool e droghe, aumentando così il rischio di recidiva.

Il 50% dei ragazzi partecipanti allo studio non fumava durante il trattamento, anche a causa del divieto di fumo in struttura. Coloro che han continuato a fumare avevano il permesso di poterlo fare nelle ore d’aria.

La Dr.ssa Pagano, principale autrice dello studio, ha affermato che i risultati della ricerca hanno dimostrato che smettere di fumare diminuisce il desiderio di abusare di droghe e alcool. Chiaramente questo è un risultato positivo per il trattamento da dipendenza da alcol o droghe. Tuttavia, le attività di disassuefazione dal fumo non sono incluse nel programma a causa delle preoccupazioni per un sovraccarico, in quanto già la battaglia contro la dipendenza da alcol o droghe è molto impegnativa di per sé.

I risultati, raccolti in un periodo di due anni, son stati raccolti valutando 195 ragazzi, con un’età compresa tra i 14 e i 18 anni. Ogni settimana i pazienti hanno trascorso circa 20 ore svolgendo attività terapeutiche partecipando anche ad alcuni incontri, previsti dalla comunità, che forniscono un aiuto utile per la disintossicazione dei ragazzi. Circa il 67% di loro, infatti, sono riusciti a dimezzare il loro consumo di sigarette.

 

Non si ottengono gli stessi risultati in caso di presenza di ADHD

Inoltre, secondo la Dr.ssa Pagano lo studio ha rivelato che i pazienti con Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) non hanno avuto percentuali di successo simili. Questo può esser dovuto al fatto che mentre gli altri ragazzi erano impegnati con tante attività ricreative previste dalla struttura che in qualche modo offrivano loro una distrazione, non era possibile coinvolgere i pazienti affetti da ADHD in queste attività per via dei loro bisogni di essere seguiti in maniera differente durante il percorso.

La Dr.ssa Pagano ha anche sollecitato un maggiore utilizzo dei cerotti alla nicotina, questo per facilitare il processo di disintossicazione ma anche perché se migliorano i risultati che emergono con il trattamento si riducono i costi della spesa sanitaria.

Gli stabilizzatori dell’umore: il Litio

Stabilizzatori dell’umore: il litio è un farmaco molto efficace ma dalla gestione delicata che richiede uno specialista di fiducia e spesso anche la disponibilità di ricovero protetto, una buona psicoeducazione del paziente e dei caregiver.  

Ilaria Matarazzo

 

Gli stabilizzatori dell’umore: indicazioni terapeutiche

Gli stabilizzatori dell’umore sono utilizzati in psichiatra per mantenere in eutimia il paziente e trovano indicazione per la cura e la profilassi dei disturbi dell’umore e vengono impiegate per ridurre l’aggressività e il discontrollo degli impulsi in altre patologie non affettive (psicosi, ritardo mentale, demenze, disturbi di personalità).  Vengono spesso associati agli antipsicotici sia nelle psicosi schizofreniche che nei disturbi bipolari particolarmente gravi o con aspetti psicotici (disturbo bipolare tipo I).

 

Il carbonato di Litio

Il primo stabilizzatore dell’umore è sicuramente il carbonato di Litio, scoperto da Schou oltre un secolo fa ed è ancora oggi uno dei più validi presidi per la cura e la profilassi degli episodi maniacali ed ipomaniacali. E’ considerato il farmaco più efficace per la prevenzione del rischio di suicidio ed è inoltre risultato efficace nella depressione resistente unipolare. Il suo meccanismo d’azione, nonostante sia un farmaco molto usato, non è del tutto noto.

Molto probabilmente il carbonato di Litio agisce sul potenziale di membrana rendendola iperpolarizzata e quindi innalzando la soglia per l’innesco del potenziale d’azione nella cellula nervosa. I Sali monovalenti del litio posseggono caratteristiche in comune con gli ioni sodio e potassio. Si ipotizza che inibisca la depolarizzazione dei canali del calcio voltaggio dipendenti e blocchi il rilascio di dopamina noradrenalina ma non di serotonina.  Inoltre agiscono sulla cascata dell’adenilato ciclasi e della fosfolipasi nella cascata intracellulare degli ormoni vasopressina e  dell’ormone stimolante la tiroide secreto dall’ipofisi. Agisce anche in altre cascate del segnale intracellulare tra cui quelle della proteinchinasi C, glicogeno sintasi chinasi 3beta.

Rispetto alla farmacocinetica, il farmaco viene completamente e rapidamente assorbito per via orale. Le concentrazioni massime vengono raggiunte in 2-4 ore dopo somministrazione di dose orale. Emivita di 20- 24 ore. Escrezione renale antagonista del sodio. La perdita del sodio favorisce l’accumulo di litio.

 

Intossicazione da Litio

Nonostante sia un farmaco efficace, necessita di essere dosato nel sangue periodicamente per evitare il rischio di accumulo e di tossicità da litio, evenienza che richiede il ricovero. I segni dell’intossicazione da litio comprendono: tremore fine, atassia, nausea, vomito, diarrea profusa,  sedazione fino al tremore grossolano ad ampie scosse durante il movimento, confusione mentale, coma. In regime di ricovero nelle fasi acute si considerano accettabili ed efficaci valori tra 0.6 e 1.5 mEq/l. Valori tra 0.6- 1mEq/l sono indicati nella profilassi a lungo termine. Inoltre il paziente che assume Litio deve effettuare esami  della funzionalità renale, epatica, elettrocardiogramma, dosaggio del calcio ematico e degli ormoni tiroidei (TSH, FT3, FT4).

È un farmaco che può essere assunto esclusivamente per via orale. E’ prevista la prossima uscita della formulazione “retard” che richiede monosomministrazione giornaliera mentre attualmente la somministrazione è divisa in due o tre monosomministrazioni.

 

La titolazione del carbonato di Litio

La titolazione del farmaco è graduale e il primo controllo del litio del sangue si effettua dopo una settimana o 5 giorni dalla prima somministrazione. Il dosaggio massimo è 900mg/die.

Da ricordare che il carbonato di litio se sospeso bruscamente può portare a una brusca esacerbazione dei sintomi: senso di disperazione, ansia, angoscia, depressione del tono timico, aumento acuto dell’ideazione suicidaria, confusione, talora anche sintomi psicotici.

Non va mai sospeso bruscamente soprattutto per il concreto rischio di aumento dell’ideazione e dell’intenzionalità suicidaria documentato dalla letteratura.

 

L’interruzione della terapia

Il disturbo bipolare è una patologia cronica con alte percentuali di recidiva. L’interruzione della terapia con stabilizzatori dell’umore può essere presa in considerazione in quei casi in cui ci sia stato un solo episodio  maniacale con lunghi periodi di eutimia. La sospensione della terapia soprattutto nei pazienti bipolari tipo 1 risulta rischiosa in termini di gravità delle ricadute e di potenziale perdita di efficacia del litio qualora venisse reintrodotto. E nei casi in cui possa essere sospeso, la sospensione va assolutamente concordata con uno specialista di fiducia ed eseguita in modalità molto graduale e lenta. La sospensione brusca è autorizzata solo in caso di emergenze mediche di un certo rilievo.

Il litio è un farmaco molto efficace ma dalla gestione delicata che richiede uno specialista di fiducia e spesso anche la disponibilità di ricovero protetto, una buona psicoeducazione del paziente e dei caregiver.

 

Dosaggi pediatrici del Litio

Il litio è approvato per il trattamento del disturbo bipolare negli adolescenti e nei bambini sopra i 12 anni. Nei dosaggi pediatrici il dosaggio va aggiustato per kg/mg e tendenzialmente è maggiore rispetto all’adulto perché il bambino ha un’eliminazione renale maggiore. Vanno monitorati l’incremento ponderale,il tremore oltre che la funzionalità tiroidea, epatica e la piastrinemia.

Rosso è buono: un semaforo nel cervello guida le scelte sul cibo

Se è rosso allora “via libera, abbuffati”, se è verde “hmm, no, lascia stare”: un semaforo “al contrario” nel nostro cervello ci guida quando dobbiamo decidere se mangiare o non mangiare qualcosa.

 

Lo dice uno studio della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, appena pubblicato sulla rivista Scientific Reports, secondo cui la visione, il senso principale che ci guida nelle scelte alimentari, per valutare l’apporto calorico dei cibi si basa su un “codice colore”.

Secondo alcune teorie il nostro sistema visivo si è evoluto per identificare facilmente bacche, frutta e verdura particolarmente nutrienti nel mezzo del fogliame della giungla – spiega Raffaella Rumiati, neuroscienziata della SISSA e coordinatrice del nuovo studio.

Il sistema visivo umano è tricromatico: nella retina, l’organo fotosensibile dell’occhio, ci sono tre classi di fotorecettori (coni) sintonizzate preferenzialmente su tre diverse bande dello spettro visivo. Questo implica che possiamo vedere un gran numero di colori (più degli animali monocromatici e dicromatici, meno di quelli che hanno 4 o addirittura 5, e più, tipi di fotorecettore).

In particolare siamo molto efficienti nel distinguere il rosso dal verde – precisa Rumiati.

La raffinatezza raggiunta da questo nostro senso testimonia il fatto che siamo “animali visivi”, a differenza di altri, come il cane, che per esempio dipendono principalmente dall’olfatto.

È soprattutto il colore degli alimenti a guidarci e i nostri esperimenti finalmente mostrano come – spiega Rumiati. Finora infatti gli studi su questo argomento sono stati davvero pochi.

Cosa cerchiamo in un cibo? Che sia nutriente, ovviamente, cioè che abbia un alto contenuto calorico (e anche proteico).

Nei cibi naturali, non processati, il colore è un buon predittore dell’apporto calorico – spiega Francesco Foroni, ricercatore della SISSA e primo autore della ricerca – Più un cibo non processato tende al rosso più è probabile che sia nutriente, mentre quelli verdi tendono a essere poco calorici.

Il nostro sistema visivo si è evidentemente adattato a questa regolarità .

I partecipanti ai nostri esperimenti valutano come più ‘stimolanti’ e calorici i cibi il cui colore tende al rosso, mentre accade il contrario per quelli verdi – continua Giulio Pergola, ricercatore all’Università di Bari fra gli autori della ricerca – Questo risulta vero anche per i cibi processati, cioè quelli cotti, dove il colore perde la sua efficacia come indicatore delle calorie.

In realtà, la letteratura scientifica mostra chiaramente che i cibi cotti vengono sempre preferiti a quelli naturali e l’effetto si osserva anche in specie diverse da quella umana.

I cibi cotti sono sempre preferiti perché rispetto a quelli naturali, a parità di quantità, offrono più nutrimento – spiega Rumiati. Nel caso del cibo cotto però la dominanza rosso/verde non offre più un’informazione affidabile, quindi si potrebbe pensare che il cervello non applichi questa regola ai cibi processati. Questo però non è vero e dunque ci suggerisce la presenza di meccanismi evolutivi molto antichi, precedenti all’introduzione della cottura

Un ulteriore dato a favore di quest’ipotesi è che il codice colore, negli esperimenti di Rumiati e colleghi, non entra in funzione per oggetti diversi dal cibo:

La preferenza del rosso sul verde non si osserva con oggetti non commestibili – spiega Rumiati – Questo significa che il codice colore del sistema visivo si attiva, correttamente, solo con gli stimoli alimentari.

 

Un semaforo per un’alimentazione più sana

L’osservazione dell’esistenza di questo effetto, oltre ad approfondire le conoscenze sul sistema visivo, offre prospettive interessanti su molti fronti, dal marketing del cibo al trattamento dei disturbi alimentari, quindi con una importante ricaduta sulla gestione della salute pubblica.

Molto si sta facendo oggi per incentivare un’alimentazione più sana – commenta Rumiati – per esempio cercando di convincere il pubblico ad assumere meno cibi ipercalorici. 

In alcuni paesi si è addirittura proposto di bandire certi tipi di alimenti, come le bibite gassate, e altri cibi molto grassi. In alcuni casi si sono introdotti dei disclaimer sulle confezioni, come si è già fatto per le sigarette. Forse anche il colore dei cibi potrebbe essere usato in questo senso, magari con colorazioni artificiali.

La paura di volare e la paura di guidare (2016) – Recensione del libro

Il libro La paura di volare e la paura di guidare intende passare in rassegna i trattamenti attuali più efficaci per la cura della paura di volare e della paura di guidare, con l’obiettivo di proporre un modello integrato di trattamento.

 

Gli autori, Marco Giannini e Luca Napoli, partono da una definizione accurata di ansia, paura e fobie così da permettere anche ad un non addetto ai lavori di comprendere meglio cosa accade alla persona che, a causa di una forte ansia, evita le situazioni temute.

Nel DSM-5 le fobie di volare e di guidare sono inserite tra i disturbi d’ansia, in particolare tra le fobie specifiche di tipo situazionale. I sintomi somatici che si riscontrano più frequentemente sono tachicardia, sudorazione, nausea, vomito, crampi e cefalea, mentre i sintomi psicologici più diffusi sono la paura di morire, di impazzire o di perdere il controllo.

Oltre che sull’inquadramento diagnostico, ne La paura di volare e la paura di guidare gli autori si soffermano sul funzionamento di personalità dei soggetti fobici, riprendendo il modello dell’organizzazione fobica di personalità di Guidano (1988). Secondo tale modello, i soggetti che sviluppano fobie, hanno una personalità che si costruisce e che si muove in maniera polarizzata intorno a due bisogni fondamentali: il bisogno di autonomia/esplorazione e il bisogno di accudimento/protezione, unito ad un costante bisogno di ipercontrollo. Il soggetto tenderà ad oscillare continuamente tra questi due bisogni e a rispondere con intensa ansia e paura nel momento in cui questi vengono minacciati.

 

La paura di volare e la paura di guidare: i principali tipi di trattamento

Dopo una presentazione degli strumenti di valutazione al momento utilizzati, gli autori passano in rassegna i principali tipi di trattamento al momento esistenti. Tra questi sono brevemente illustrate le terapie farmacologiche (benzodiazepine, beta-bloccanti e SSRI) che possono essere utilizzate nella fase iniziale del trattamento, per poi dare ampio spazio ai principali trattamenti psicologici e a corsi e seminari.

Tra i trattamenti psicologici citati in La paura di volare e la paura di guidare, quello di elezione è il trattamento cognitivo-comportamentale, che si articola in diverse fasi: desensibilizzazione sistematica, esposizione agli stimoli temuti sia tramite immagini che in vivo, Virtual Reality Exposure Therapy (VRET) e tecniche di rilassamento.

Vengono poi presentati in maniera dettagliata corsi e seminari organizzati dalle principali compagnie aeree e dalle scuole guida, dove oltre ad una psicoeducazione sull’ansia, vengono fornite informazioni su aerodinamica, aspetti tecnici legati al funzionamento dell’automobile e sicurezza. Inoltre, dopo gli esercizi di rilassamento, sono previste delle esposizioni al volo (dapprima tramite simulatore) o alla guida per permettere alle persone di affrontare le situazioni temute.

L’ultima parte del libro presenta un protocollo di trattamento umanistico e bioenergetico applicato sia alla paura di volare che di guidare che prevede 8 passi, protocollo che deve essere necessariamente adattato al singolo caso:

  1. Sentirsi accolti. In un contesto in cui il terapeuta è empatico, autentico e accentante nei confronti del paziente, viene chiesto al soggetto di rappresentare in forma grafica la sua paura, dopo averla visualizzata.
  2. Imparare a respirare. Il soggetto ansioso avverte spesso la sensazione di “fame d’aria” e viene pertanto guidato nello sperimentare la respirazione diaframmatica.
  3. Dalla fiducia nell’altro alla fiducia in sé. La persona viene guidata dal terapeuta ad abbandonarsi e a fidarsi di lui e, attraverso esercizi di visualizzazione, ha modo di sentire la propria stabilità, sicurezza e acquisire consapevolezza di limiti e risorse.
  4. Vivere il Qui ed Ora e gestire i pensieri disturbanti. Vengono utilizzati protocolli Mindfulness, in particolare il body-scan, con l’obiettivo di avere strumenti di consapevolezza utili per gestire momenti di difficoltà in maniera autonoma.
  5. Imparare a vivere l’attesa. Attraverso la stimolazione del canale emotivo, il paziente viene allenato a sentire e a riconoscere le emozioni, prendendone così distanza per evitare di esserne travolto.
  6. Arricchire la propria identità. L’immagine che la persona fobica ha di sé è spesso quella di una persona incapace o fallita. In questa fase, attraverso lo schema di Johary, il paziente viene invitato a focalizzarsi su aspetti positivi di sé celati o poco valorizzati.
  7. Cadere e rialzarsi. Imparare a rialzarsi nel caso di fallimenti è importante per gestire eventuali ricadute.
  8. Provarci. Il paziente in immaginazione viene esposto alle situazioni temute partendo da una condizione di rilassamento.

Il metodo ABA e l’autismo. Principi, procedure e tecniche di base 

Trent’anni di ricerca hanno dimostrato l’efficacia del metodo ABA nel ridurre comportamenti disfunzionali e nel migliorare e aumentare la comunicazione, l’apprendimento e comportamenti socialmente appropriati (U.S. Departement Of Health and Human Services, 1999).

Monica Pignarolo, OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Milano

Introduzione: che cos’è il metodo ABA

L’ ABA è il ramo applicativo dell’Analisi del Comportamento, la scienza che si occupa di descrivere le relazioni tra il comportamento degli organismi e gli eventi che lo influenzano. In altre parole, come riferito da Cooper, Heron, e Heward (1987; 2007 p.3), l’ABA è [blockquote style=”1″]la scienza che applica al comportamento umano i principi identificati dall’Analisi del Comportamento, allo scopo di affrontare problemi socialmente rilevanti nel contesto della vita quotidiana.[/blockquote] Uno degli scopi principali del metodo ABA è far in modo che la dimostrazione dell’efficacia delle procedure utilizzate per generare il cambiamento avvenga tramite il metodo scientifico.

Applicazioni di successo di questo metodo sono state documentate in diversi soggetti che vanno da quelli gravemente disabili a quelli molto intelligenti, sia giovanissimi che anziani, sia in programmi istituzionali controllati sia in situazioni di gruppo meno strutturate. La gamma dei comportamenti studiati va dalle semplici abilità motorie fino alla soluzione di problemi complessi. Le aree in cui questo tipo di interventi sono maggiormente utilizzati sono l’educazione, il servizio sociale, l’assistenza, la psicologia clinica, la psichiatria, la psicologia di comunità, la medicina, la riabilitazione, gli affari, la gestione aziendale e lo sport (Martin & Pear, 2000)
Ma il campo in cui si è mostrata una più significativa crescita e applicazione è quello riguardante i bambini con disturbo autistico (Viruès-Ortega, 2010; Shook, 2005).

La prima applicazione del metodo ABA in soggetti autistici risale al 1960 per opera di Lovaas, che mise in atto interventi per diminuire gravi comportamenti problematici e stabilire un linguaggio comunicativo (Smith & Eikeseth, 2011). Da qui si aprì la strada a una grande quantità di ricerche che portò all’applicazione sistematica ed intensiva dei principi comportamentali di base e all’uso di tecniche e procedure che diedero vita ad un modello di intervento estremamente efficace su questa popolazione di soggetti, l’intervento comportamentale intensivo precoce (EIBI, Early Intensive Behavioural Intervention) (Eikeseth et al, 2002; Howard et al, 2005; Lovaas, 1973; Lovaas, 1987; McEachin et al., 1993; Sallows & Graupner, 2005; Smith et al, 2000b).

 

Principi, procedure e tecniche di base

I principi fondamentali su cui si basa l’analisi comportamentale applicata sono quelli della teoria dell’apprendimento e del condizionamento operante (Martin & Pear, 2000). Il comportamento viene considerato operante perché opera nell’ambiente per produrre determinate conseguenze. Secondo questo principio, il comportamento viene modellato o plasmato dalle conseguenze che lo stesso riceve. Tali conseguenze ne influenzeranno ed altereranno la forma e la frequenza con cui il comportamento si ripresenterà in futuro. Il comportamento sarà analizzato in base agli stimoli ambientali che lo precedono, gli antecedenti, e ai movimenti dell’individuo in risposta allo stimolo ambientale, le conseguenze.

Collegati a questi principi, i concetti chiave sono quelli di rinforzo, estinzione, controllo degli stimoli e generalizzazione (Granpeesheh et al., 2009).
Il rinforzo è definito come ogni conseguenza del comportamento che rafforza il comportamento stesso, cioè aumenta la frequenza e la probabilità della sua comparsa. Può essere negativo (evitare un potenziale stimolo avversivo) o positivo (ottenere attenzione o avere accesso ad una determinata attività).

Nel momento in cui il rinforzo non viene più applicato, la probabilità futura di comparsa di un comportamento si riduce: questo fenomeno prende il nome di estinzione.
Il controllo degli stimoli si ha nel momento in cui un particolare comportamento, dopo essere stato rinforzato solo in presenza di un particolare stimolo antecedente, inizia a verificarsi solo in presenza di tale stimolo e non in sua assenza.

La generalizzazione permette, invece, di trasferire quanto appreso in un contesto anche in una varietà di contesti e ambienti diversi.
Questi concetti sono applicati attraverso 4 procedure principali (Ricci et al., 2014; Martin & Pear, 2000; Granpeesheh et al., 2009):
1) Prompting: consiste nella presentazione di un indizio o un aiuto in modo da ottenere un comportamento che altrimenti non verrebbe messo in atto, in quanto non ancora presente nel repertorio comportamentale del bambino.
2) Fading: consiste nel ridurre gradualmente e poi eliminare gli aiuti utilizzati, a mano a mano che il bambino mostra di non averne più bisogno, al fine di garantire l’acquisizione del comportamento meta e l’autonomia della risposta.
3) Shaping: è una procedura che prevede il rinforzamento sistematico delle risposte che siano approssimazioni successive sempre più simili al comportamento meta.
4) Chaining: è una procedura utilizzata per insegnare lunghe sequenze comportamentali che per un bambino con autismo sarebbero impossibili da imparare tutte in una volta, ma la cui acquisizione è possibile quando l’intera sequenza viene rotta in piccoli comportamenti.

Chaining, fading e shaping sono dette procedure di cambiamento graduale, in quanto tutte e tre implicano il procedere gradualmente attraverso una serie di passi per produrre un nuovo comportamento. Esistono però delle chiare distinzioni tra le tre procedure: nello shaping, i passi consistono nel rinforzare approssimazioni sempre più vicine alla risposta finale desiderata; nel fading, i passi consistono nel rinforzare la risposta finale desiderata in presenza di approssimazioni sempre più vicine allo stimolo finale desiderato per quella risposta e nel chaining, i passi di solito consistono nel rinforzare sempre più le connessioni stimolo-risposta che costituiscono la catena comportamentale (Martin & Pear, 2000).

Per raggiungere i comportamenti meta possono inoltre essere utilizzati due tipi di setting (Granpeesheh et al., 2009, Ricci et al., 2014): per prove discrete (discrete trial training, DTT) e in ambiente naturale (natural environment training, NET).
Il DTT è costituito dall’apprendimento senza errori, ovvero, l’operatore dà un aiuto (prompt) al bambino per impedirgli di sbagliare e questo gli consente di apprendere nuove abilità. Questo aiuto viene via via ridotto fino ad arrivare a portare il bambino a svolgere l’abilità autonomamente. L’insegnamento per prove discrete avviene in ambiente strutturato e massimizza le opportunità di apprendimento, ripresentando più volte al bambino attività che gli si vogliono insegnare e rinforzandone le risposte corrette. Questa modalità presenta dei limiti: risulta spesso difficile generalizzare il comportamento appreso anche al di fuori del setting strutturato, in ambienti meno formali o all’interno delle routine quotidiane.

Il NET è un tipo di insegnamento che avviene in ambiente naturale e consiste nello sfruttare e/o ricreare situazioni di vita quotidiana, che normalmente si incontrano, per fornire opportunità di apprendimento, partendo dagli interessi e dalle motivazioni del bambino stesso. Il setting naturale viene arricchito con materiale intrinsecamente motivante per il bambino, precedentemente selezionato e disposto dall’operatore. Questo setting risulta particolarmente adatto alla generalizzazione degli apprendimenti e ha come limite il fatto che l’operatore può lavorare su un obiettivo solo fino a quando perdura la motivazione del bambino.

Altra caratteristica importante del metodo ABA è che risulta particolarmente utile per poter lavorare su una serie di comportamenti problema, cioè comportamenti ripetitivi e stereotipati, autolesionismo, aggressività, comportamenti distruttivi e capricci (Granpeesheh et al., 2009). La maggior parte di questi comportamenti, spesso, sono la causa di ritardi o incapacità di comunicazione, ostacolano l’apprendimento e il normale funzionamento nella vita di tutti i giorni; è per questo che è necessario trattarli in maniera efficace attraverso questo tipo di programma.

 

Valutazione dell’efficacia dell’intervento comportamentale intensivo precoce

Trent’anni di ricerca hanno dimostrato l’efficacia del metodo ABA nel ridurre comportamenti disfunzionali e nel migliorare e aumentare la comunicazione, l’apprendimento e comportamenti socialmente appropriati (U.S. Departement Of Health and Human Services, 1999).

Come già detto precedentemente, Lovaas (1987) fu il primo a effettuare ricerche mirate sui soggetti con autismo. Esso dimostrò il primato della formazione linguistica all’interno del processo educativo e la maggiore probabilità di raggiungere un funzionamento normale nel momento in cui l’intervento veniva applicato precocemente e in maniera intensiva (Rosenwasser & Axelrod, 2001).

Nello studio valutativo più importante circa la validità dell’approccio comportamentale su soggetti con autismo, Lovaas (1987) paragonò il progresso di tre gruppi di bambini con autismo. Il gruppo (N=19) coinvolto in un programma di trattamento comportamentale intensivo (40 ore settimanali) e precoce per più di due anni raggiunse risultati significativamente maggiori su tutti i test standardizzati rispetto ai due gruppi di controllo: uno coinvolto in un programma di 10 ore settimanali ed uno che ricevette l’intervento standard statale. Inoltre, il 47% del gruppo sperimentale raggiunse risultati entro la norma in tutte le aree evolutive ed all’età di sette anni era integrato in classi “normali” senza sostegno.
McEachin et al. (1993) dimostrarono come, in adolescenza, otto dei nove bambini del gruppo di Lovaas seguitavano ad andare a scuola senza necessità di sostegno ed erano indistinguibili dai pari.

Una delle critiche spesso rivolte nei confronti degli studi di Lovaas é che l’effetto sul gruppo sperimentale non fosse dovuto all’intervento stesso, ma piuttosto all’intensità con cui venne somministrato. In risposta a questa critica Eikeseth ed altri (2002) paragonarono due gruppi di bambini tra i quattro ed i sette anni: uno coinvolto in un intervento comportamentale intensivo (30 ore) ed un altro in un intervento eclettico, cioè un intervento costituito da diversi approcci (TEACCH, logopedia, terapia sensoriale, occupazionale), ma altrettanto intensivo (30 ore). I risultati favorirono in maniera statisticamente significativa il gruppo comportamentale in tutte le aree dello sviluppo ed in particolare quelle del linguaggio espressivo e recettivo.

Sallows & Gaupner (2005), successivamente, replicarono i risultati di Lovaas, dimostrando che circa la metà dei bambini sottoposti ad un intervento comportamentale precoce ed intensivo raggiungeva entro l’età di sette anni un livello di funzionamento adattivo ed intellettivo pari alla norma.

Possiamo così riassumere le maggiori conclusioni a cui sono arrivati i diversi studi condotti al riguardo:
Il semplice utilizzo del metodo ABA non è sufficiente a produrre i risultati desiderati. Per poter notare miglioramenti importanti deve essere implementato con intensità sufficiente (dalle 30 alle 40 ore settimanali). (Eldevik et al, 2006; Reed et al, 2007; Smith et al, 2000b)
L’intervento ottiene risultati migliori nel momento in cui è implementato per una durata maggiore. I bambini con autismo che hanno ricevuto un intervento comportamentale intensivo precoce dai due anni in su hanno ottenuto migliori risultati terapeutici. (Howard et al., 2005; Eikeseth et al., 2002; Reed et al., 2007; Sallows & Gaupner, 2005; Sheinkopf & Siegel, 1998; Zachor et al., 2007).
L’entità della risposta al trattamento sembra variare in modo significativo tra i diversi bambini. Perciò diversi studi hanno cercato di identificare le caratteristiche dei bambini che permettono di ottenere risultati migliori.
Bono et al. (2004) hanno scoperto che i successi dell’ intervento sono stati correlati con le competenze linguistiche iniziali dei partecipanti e la loro capacità di rispondere alle richieste di attenzione congiunta da parte degli altri.

Sigman & McGovern (2005) hanno scoperto che la capacità di mettere in atto un gioco funzionale e la frequenza con cui vengono fatte richieste predicono l’esito del trattamento. Sallows & Graupner (2005) hanno identificato una relazione tra i risultati del trattamento e le competenze in materia di imitazione, linguaggio e socializzazione presenti prima del trattamento.
Szatmari et al. (2003) hanno anche scoperto che lo sviluppo precoce del linguaggio era predittivo di risultati efficaci, così come le capacità cognitive non verbali.
Anche se questi studi hanno esaminato il legame tra le caratteristiche individuali del bambino e la sua risposta all’intervento, l’eterogeneità dei loro risultati illustra anche l’attuale difficoltà di prevedere con certezza quali bambini beneficeranno maggiormente dell’intervento intensivo precoce.

 

Effetti indiretti dell’applicazione dell’intervento comportamentale intensivo precoce sulla famiglia

Ci sono attualmente pochi studi che presentano dati sull’impatto degli interventi intensivi col metodo ABA sul funzionamento familiare (Hastings, 2003).
Tali dati sarebbero clinicamente significativi per diverse ragioni. Primo, i familiari di bambini con autismo sono maggiormente soggetti a rischio di stress e altri problemi psicologici, tra cui la depressione (Gold, 1993; Koegel et al., 1992). I medici dovrebbero essere consapevoli di qualsiasi possibile effetto negativo sulla famiglia degli interventi ABA, al fine di offrire adeguato supporto.

In secondo luogo, molti genitori sono coinvolti come co-terapeuti nel programma del loro bambino. Così, il disagio psicologico o l’elevato livello di stress potrebbero anche avere un impatto diretto sulla qualità del metodo ABA (Hastings, 2003).
I risultati dello studio di Hastings (2003) non hanno individuato la presenza di effetti negativi sul funzionamento dei fratelli di bambini con autismo sottoposti ad un intervento intensivo col metodo ABA. Questi risultati concordano con i dati pubblicati da altre ricerche esistenti, suggerendo anche un effetto non negativo sul funzionamento dei genitori di bambini autistici impegnati in interventi ABA intensivi. (Birnbrauer & Leach, 1993; Hastings & Johnson, 2001; Smith et al., 2000a,2000b; Remington B. et al., 2007 ).

Altro fattore che è stato studiato è l’impatto del supporto sociale offerto alla famiglia. Hastings (2003) ha dimostrato che quando i bambini avevano un quadro autistico meno grave, i loro fratelli erano meno a rischio rispetto allo sviluppo di problemi comportamentali se la famiglia aveva ricevuto anche alti livelli di supporto sociale. Questo effetto è probabile che sia principalmente rappresentato dal sostegno che la famiglia riceveva dalla sua partecipazione al programma col metodo ABA.

Altre ricerche hanno dimostrato che i genitori i cui figli con autismo erano impegnati in un intervento intensivo col metodo ABA sembravano essere meno stressati dei genitori con figli con autismo sottoposti ad altri interventi o nessun intervento, e che lo stress poteva diminuire nel corso di un intervento ABA (Smith, Buch,& Gamby, 2000a; Smith, Groen, & Wynn, 2000b).

 

Conclusioni

L’intervento comportamentale intensivo e precoce é l’unico intervento educativo scientificamente validato per la riabilitazione degli individui con autismo. L’applicazione di tale intervento é però complessa e richiede una preparazione da parte degli operatori e dei supervisori non indifferente. L’obiettivo finale di un intervento comportamentale, che sia a breve o lungo termine, é il cambiamento radicale di comportamenti socialmente significativi, e per alcuni individui l’inserimento totale ed indipendente nella comunità sociale circostante.

L’autismo è una delle aree in cui l’applicazione dei principi dell’analisi comportamentale si è rivelata più efficace nell’apportare cambiamenti migliorativi a lungo termine, più di qualunque altro tipo di intervento educativo (Green, 1996; Maine Administrators of Services for Children with Disabilities, 2000; New York State Department of Health, 1999; Schreibman, 1988; Smith, 1993).
Sulla base delle ricerche che abbiamo visto rispetto all’efficacia di questo tipo di programma, possiamo concludere che i migliori risultati si ottengono quando il programma è applicato ai bambini in età precoce (a cominciare dai 3/4 anni circa), a partire dalle 30 alle 40 ore a settimana, per un minimo di 2 anni e inizialmente all’interno di un rapporto uno-a-uno con l’operatore.

Il programma dovrebbe, inoltre:
1) rivolgersi a tutte le aree deficitarie di ogni singolo bambino, con obiettivi chiaramente definiti;
2) affrontare tutti i comportamenti problema manifestati dal bambino;
3) essere basato sui principi dell’apprendimento e della motivazione;
4) contenere sia componenti del DTT (discrete trial training) che del NET (natural environment training) in maniera integrata;
5) coinvolgere in maniera massiccia la famiglia, con genitori che partecipano attivamente alla messa in atto dell’intervento;
6) essere inizialmente domiciliare e gradualmente esteso ad altri contesti di vista (es. la scuola);
7) essere guidato da esperti con formazioni e certificazione post-universitaria in ABA ed esperienza di programmazione educativa con persone con autismo (Green, Brennan & Fein, 2002).

 

Relazione amorosa: emozioni, ricordi e sensi di colpa

Mi frequento con una ragazza da qualche mese, ma ogni volta che torna la mia ex in città, mi sorgono i dubbi. Purtroppo so che la mia ex non è la persona adatta a me e vorrei smettere di pensare a lei. Era tutto per me ed ora che tutto è finito non mi sembra vero. Penso di essere egoista perché sto con la ragazza attuale solo perché ogni tanto sto bene, meglio che star soli.  

(Matteo)

 

Caro Matteo,

non riassumerei tutta la questione nell’egoismo. Vivere un’intensa storia d’amore è un’esperienza che porta con sé innumerevoli stati d’animo, emozioni e ricordi. Quando questa relazione finisce non c’è da sorprendersi se emozioni e  ricordi legati ad una persona con cui si è condiviso tanto non svaniscono in 24 ore, ma anzi tornano alla mente ogni volta che vi sia un qualcosa, da una fotografia a un luogo alla persona stessa, che ci riporta indietro nel tempo.

Si ha la tendenza ad immergere la nostra mente in una situazione alla volta, in questo specifico caso in una relazione. Tendenza che fa vivere come sbagliati pensieri e reazioni che non lo sono. Infatti non c’è niente di male se, come nel tuo caso, pur frequentandosi con una nuova ragazza, la mente a volte ritorna alla relazione passata. Non è possibile decidere di cancellare le nostre memorie, si può solo imparare a riporle nel giusto cassetto dopo il tempo soggettivamente necessario per elaborarle.

Valentina Orlandi

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

La paura dell’ignoto e lo sviluppo di disturbi d’ansia

Secondo quanto riportato in un recente studio dai ricercatori dell’Università dell’Illinois di Chicago (UIC) numerosi disturbi d’ansia, tra cui il Disturbo da Attacchi di Panico, la Fobia Sociale e le Fobie Specifiche condividono un tratto sottostante comune: un’aumentata sensibilità a stimoli minacciosi poco chiari, la cosiddetta paura dell’ignoto.

 

Questa scoperta potrebbe aiutare ad orientare i trattamenti di questi disturbi verso una nuova direzione: dalle terapie basate sulle singole diagnosi ai trattamenti delle caratteristiche comuni ai diversi disturbi. [blockquote style=”1″]Un trattamento o un insieme di trattamenti focalizzati sulla paura dell’ ignoto risulterebbe in una modalità di trattamento più efficiente e di forte impatto destinata a numerosi disturbi e sintomi d’ansia[/blockquote] ha detto Stephanie Gorka, assistente ricercatore di psichiatria e psicologa clinica presso l’Istituto di Medicina dell’UIC.

La paura dell’ignoto

Una minaccia incerta e poco chiara è imprevedibile in termini di tempo, intensità, frequenza o durata e suscita una sensazione generalizzata di apprensione e ipervigilanza.

[blockquote style=”1″]E’ ciò che noi chiamiamo ansia anticipatoria. Qualcosa di molto simile a ciò che avviene quando il nostro medico curante ci chiama per comunicarci i risultati degli esami medici a cui ci siamo sottoposti e non sappiamo esattamente cosa aspettarci[/blockquote] ha detto Gorka, autrice dello studio pubblicato sul Journal of Abnormal Psychology.

Quando una persona è sensibile a questo tipo di paura, può finire col passare l’intera giornata immersa nell’ansia e nella preoccupazione che qualcosa di brutto possa succedere da un momento all’altro. Il Disturbo da Attacchi di Panico ne è un esempio molto chiaro: i pazienti che ne soffrono sono costantemente preoccupati dalla possibilità di avere un attacco di panico in qualsiasi momento.

Le minacce prevedibili, al contrario, producono una distinta risposta attacco-o-fuga che ha un chiaro elemento di innesco, come ad esempio un orso che ci corre incontro, e che si riduce una volta che la minaccia è scomparsa.

Precedenti ricerche condotte da Gorka e colleghi avevano già suggerito che l’aumentata sensibilità a minacce incerte potrebbe essere un importante fattore che caratterizza le psicopatologie internalizzanti basate sulla paura, ma la maggior parte delle ricerche si sono focalizzate sul Disturbo di Panico, pertanto il ruolo di tale fattore negli altri disturbi basati sulla paura – in particolare Fobia Sociale e Fobie Specifiche – rimane poco chiaro.

Lo studio

Gorka e colleghi hanno esaminato i dati provenienti da due differenti studi condotti dall’UIC in cui i partecipanti dovevano completare un compito basato su stimoli di paura. I due studi hanno coinvolto soggetti di età compresa tra i 18 e i 65 anni così suddivisi: 25 soggetti con Disturbo Depressivo Maggiore, 29 con Disturbo d’Ansia Generalizzata, 41 con Fobia Sociale e 24 con una Fobia Specifica. Inoltre, sono stati coinvolti 41 soggetti di controllo senza diagnosi di psicopatologia corrente o precedente.

I ricercatori hanno misurato i battiti di ciglia dei partecipanti in risposta a lievi scosse elettriche (prevedibili o imprevedibili) somministrate al polso. Per elicitare i battiti di ciglia durante il compito della scossa elettrica, i partecipanti udivano brevi toni acustici attraverso cuffie auricolari.
[blockquote style=”1″]Non importa chi sei o qual è il tuo stato di salute mentale, strizzerai gli occhi, battendo le ciglia, in risposta al suono. E’ un riflesso naturale, tutti lo fanno, senza alcuna eccezione[/blockquote] ha detto Gorka.

I ricercatori hanno misurato la forza dei battiti di ciglia di ciascun partecipante usando un elettrodo posizionato sotto ciascun occhio. Hanno inoltre confrontato la forza dei battiti in risposta ai toni somministrati durante scosse prevedibili e la forza dei battiti effettuati durante scosse imprevedibili.

Ciò che è emerso è che i partecipanti con Ansia Sociale o con una Fobia Specifica strizzavano gli occhi con più forza durante le scosse imprevedibili rispetto ai partecipanti senza una diagnosi di psicopatologia o ai partecipanti con un Disturbo Depressivo Maggiore o con un Disturbo di Ansia Generalizzata.

[blockquote style=”1″]Abbiamo ormai classificato tanti diversi disturbi dell’umore e disturbi d’ansia, e per ognuno è stato fornito il proprio set di linee guida per il trattamento, ma se spendessimo del tempo trattando le caratteristiche comuni ai diversi disturbi, potremmo ottenere migliori progressi[/blockquote] ha detto Luan Phan, professore di psichiatria, direttore del programma di ricerca sui disturbi d’ansia e dell’umore e autore senior dello studio. [blockquote style=”1″]Sapere che la paura dell’ ignoto sottostà a tutti i disturbi d’ansia basati sulla paura suggerisce inoltre che i farmaci che agiscono in modo specifico su questa sensibilità potrebbero essere usati o sviluppati per trattare questi disturbi.[/blockquote]

Otto Rank e la simbologia del doppio: analisi del film “Lo studente di Praga”

“Il Doppio” di Otto Rank è un breve saggio che ha introdotto temi e metodi di analisi di grande valore e che ne fanno un piccolo classico della letteratura psicoanalitica. Il libro inizia con l’analisi di un film “Lo studente di Praga” di Stellan Rye (1913), tratto da un racconto di H.H. Ewers.

 

La lettura psicoanalitica di Rank del film “Lo studente di Praga”

Il motivo centrale di questa storia è una variante del patto col diavolo. Il protagonista vende la propria immagine riflessa in uno specchio in cambio di un ingente patrimonio, che gli assicura potere e successo. Nel corso della storia, quest’immagine gli apparirà di fronte, con sembianze identiche, ma autonoma e con iniziative personali, interferendo in maniera disturbante nella sua esistenza. Il tema centrale che viene qui rappresentato è il significativo problema del rapporto dell’uomo col suo Io.

Rank sottolinea diverse caratteristiche della vicenda narrativa:
1) l’angoscia del protagonista per la perdita del proprio riflesso allo specchio;
2) la persecuzione da parte di quest’immagine speculare resasi ormai autonoma che ostacola l’Io sempre e ovunque (con effetti catastrofici soprattutto nell’amore);
3) il fatto che una ferita da lui inferta al suo Doppio gli causerà la morte poiché la vita del Doppio è strettamente legata a quella della persona reale.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM:

Elemento essenziale delle storie sul Doppio prese in esame da Rank, è l’autonomia, completa o parziale, della propria immagine, che si tratti di un’ombra, di un riflesso nello specchio, di un sosia in carne e ossa o di un ritratto. Altro elemento caratterizzante è la contrapposizione tra il personaggio e il suo Doppio, che acquista una tonalità negativa e persecutoria.

Rank sintetizza la situazione in questo modo:
Ci imbattiamo sempre in un’immagine che somiglia minuziosamente al protagonista: nel nome, nella voce, nell’abito, e che, “quasi rubata da uno specchio” (Hoffmann), nella maggioranza dei casi si fa avanti proprio attraverso lo specchio.

 

Il rapporto tra l’Io e il Doppio

Il Doppio si contrappone di continuo all’Io. La situazione precipita di solito nel rapporto con la donna, ha una svolta con l’uccisione del persecutore, si conclude con il suicidio. In alcuni casi viene complicata dall’insorgere del delirio di persecuzione; in altri ancora il delirio è al centro del racconto e si evolve in una vera e propria follia paranoica.

Il sosia invece rappresenta un alter ego specifico e paradossale. L’esperienza del sosia, in cui l’Io si presenta a sè medesimo, ricorda il momento della separazione e della perdita che hanno caratterizzato la costituzione stessa dell’Io infantile: un’esperienza che si colloca tra il distacco doloroso dall’oggetto narcisisticamente assimilato e l’angoscia per l’estraneo, tappe che segnano il cammino verso l’individuazione, passando attraverso l’identificazione. Il riconoscimento infantile di sé nello specchio di Lacan è preceduto dal rapporto di specchiamento felice del bambino nella madre. In origine l’Altro materno era inglobato nella coppia madre-bambino.

Nel rapporto Io-me, il desiderio rimosso o le proprie pulsioni inconsce assumono le sembianze di un Altro. L’Io utilizza, come supporto della rimozione, una sua scissione. Questa si appoggia, in certi casi, su un dato di fatto, costituito dagli elementi di diversità dell’Io rispetto al Simile. Perciò i desideri inconsci non appaiono all’Io come cosa propria, ma sotto forma di alterità. Quando l’Altro non è più semplicemente simile o diverso, ma è invece proprio assolutamente identico, si ha l’esperienza del sosia. Il sosia è e allo stesso tempo non è un altro me. L’Io lo riconosce con sembianze identiche ma le intenzioni del sosia, invece, saranno totalmente diverse; l’immagine di sé acquisterà vita propria, sino a non essere più un’immagine, sino a diventare un Altro.

L’immagine speculare, però, ricorda all’Io che i desideri che voleva realizzare e di cui insieme si voleva sbarazzare e che ora vede proiettate nel comportamento del sosia, sono pur sempre aspetti che appartengono all’Io stesso. Siamo allora di fronte a un fallimento della rimozione, a un ritorno del rimosso. In seguito a ciò, il soggetto si ritrova in una situazione che va dal turbamento sino al raccapriccio più tormentoso. La scissione psichica, quindi, crea il Doppio; il Doppio, a sua volta, rappresenta una proiezione del conflitto interiore, la cui creazione porta con sé una liberazione interiore, un alleggerimento, a prezzo però della paura dell’incontro col Doppio.

Il Doppio rappresenta i desideri segreti e sempre repressi della psiche. Bisogna capire quale situazione psicologica determina questa scissione interiore e la conseguente proiezione. Il sintomo più evidente sembra essere un profondo senso di colpa, che spinge il soggetto a non assumersi più le responsabilità di certe sue azioni attribuendole a un altro io, a un Doppio. Questa figura corrisponde alla figura dell’angoscia esistenziale, e quindi della morte. Scudo contro la morte è allo stesso tempo suo messaggero.

Il Doppio da un lato gode a spese del soggetto, osa ciò che il soggetto non oserebbe mai, realizza i suoi desideri rimossi, ma dall’altro opera affinché la colpa ricada su di lui. Inoltre appare sempre quando il soggetto vorrebbe abbracciare o baciare la donna che ama, ossia quando si avvicina troppo alla realizzazione dei propri desideri, quando è sulla soglia del godimento pieno. Solo l’alter ego offre il vero godimento, la donna invece è l’ostacolo al rapporto privilegiato con se stesso, quindi è necessario farla sparire, e se ne incarica il Doppio. Il Doppio tiene in pugno il perduto oggetto primordiale e il soggetto si riappropria del proprio essere primordiale solo a costo della propria vita. Il Doppio introduce così la pulsione di morte e quello che era stato concepito come difesa dalla morte, come protezione del narcisismo, diventa il suo messaggero. Quando appare il Doppio, il tempo è scaduto. Il confronto col Doppio non ha soluzione poiché, come abbiamo visto, fa sprofondare il soggetto nella psicosi.

Essere in ansia per la propria salute porta ad ammalarsi più frequentemente

La preoccupazione legata all’essere ammalati risulta essere associata ad una maggiore probabilità di sviluppare cardiopatie ischemiche (ad es. infarti e trombosi); tale fenomeno può essere contrastato con l’aiuto della psicoterapia.

L’ansia eccessiva per la salute

La maggior parte delle persone si ritiene felice quando gli esiti di esami medici risultano negativi, ma per circa il 5% della popolazione e il 15-20% dei pazienti all’interno di strutture ospedaliere (Wiliams & House, 2014) una tale notizia non è di alcun conforto. Infatti, per quelle persone caratterizzate da elevata ansia per la propria salute, nessun esito di alcun test riesce ad essere rassicurante. Questo tipo di persone presenta infatti, tra le altre cose, la tendenza a leggere attentamente qualsiasi informazione medica (o pseudo-medica) presente sul web alla ricerca di gravi diagnosi che possano essere in grado di spiegare i propri sintomi (“cyberchondria”; Tyrer et al., 2016).

Recentemente, però, Berge e collaboratori (2016) hanno svolto in Norvegia una ricerca su un campione di più di 7,000 soggetti, dimostrando la presenza di un’associazione tra l’ansia per la propria salute e l’effettiva tendenza ad ammalarsi di più. Secondo questo studio, infatti, le persone caratterizzate da questo tipo di ansia avrebbero circa il 73% di probabilità in più, rispetto a soggetti non ansiosi, di sviluppare un problema cardiaco nell’arco di 10 anni.

L’ansia relativa alla propria salute (health anxiety), diagnosi introdotta recentemente, viene definita come una preoccupazione persistente riguardante l’avere o il poter contrarre una qualche patologia estremamente grave. A questa preoccupazione consegue la tendenza a controllare continuamente in modo minuzioso il proprio corpo, spesso mal interpretando ipotetici sintomi e ricercando assiduamente pareri medici in merito, ma senza la possibilità di poter essere rassicurati da esiti negativi a test medici (Berge et al., 2016).

Infatti, questo tipo di pazienti risulta essere caratterizzato da ruminazione, tale per cui una volta che il pensiero relativo ad una qualche malattia si è instaurato nella loro mente, è impossibile per loro smettere di pensarci. Questa condizione si differenzierebbe però dall’ipocondria proprio per l’elevato livello d’ansia che la caratterizza. Infatti, i soggetti caratterizzati da ansia per la propria salute, più che voler essere guariti dai sintomi presenti a livello fisico, desiderano solo smettere di preoccuparsi per la possibilità di essere effettivamente malati (Tyrer et al., 2016). Inoltre, l’ansia relativa alla propria salute, come rilevato anche da Berge e al. (2016), è spesso rilevabile insieme ad effettive patologie fisiche, mentre l’ipocondria può essere diagnosticata solo in loro assenza.

 

L’ansia per la salute e il rischio maggiore di patologie cardiache

Lo studio di Berge et al. (2016), però, più che alleviare questa preoccupazione, sarebbe in verità riuscito ad accrescerla andando a collegare l’ansia per la propria salute con il rischio di sviluppare patologie cardiache. Questo studio, prendendo in considerazione i fattori legati allo stile di vita che possono favorire lo sviluppo di problemi di cuore, ha dimostrato infatti come coloro i quali riportavano maggiori livelli di ansia per la propria salute presentavano anche la tendenza a condurre una vita più sedentaria e a consumare più alcolici e tabacco, fattori di rischio per lo sviluppo di patologie cardiache, rispetto a coloro i quali riportavano minori livelli di ansia per la propria salute. Risulta però impossibile escludere che la presenza di malattie attuali, come il diabete o più in generale uno stile di vita dannoso, possa essere la causa dell’ansia relativa alla propria salute e anche di una futura patologia cardiaca. In altri termini, è impossibile escludere che la presenza di una reale malattia fisica possa moderare la relazione tra ansia per la propria salute e probabilità di sviluppare patologie quali la cardiopatia ischemica.

Per poter valutare la presenza o meno di ansia per la propria salute, autori come Tyrer (2014; 2011) ponevano ai soggetti di cui ne sospettava la presenza tre domande: “Si preoccupa in modo eccessivo per (patologia)? Ha la tendenza a preoccuparsi per la sua salute in generale? Ha mai avuto la sensazione che (patologia) fosse più grave di quanto i medici non le dicessero?”. Se i soggetti rispondevano in modo affermativo anche a solo una di queste domande, Tyrer suggeriva una psicoterapia, in quanto semplici rassicurazioni sono risultate essere insufficienti per placare l’ansia. Al contrario, autori come Berge et al. (2016), hanno valutato la presenza di questa patologia tramite un questionario self-report validato per l’indagine delle diverse dimensioni che caratterizzano questo disturbo, quali fobia, preoccupazione somatica e convinzione di essere malati.

Inoltre, Tyrer e collaboratori (2014, 2011) hanno dimostrato, svolgendo dei randomised controlled trial, come la terapia cognitivo-comportamentale può essere più efficace di un trattamento standard nel diminuire questo tipo di sintomatologia ansiosa e può anche essere necessaria per poter reinterpretare i pensieri ossessivi di queste persone riguardo alla propria salute. Risulta, tra l’altro, essere estremamente efficace il tenere un diario per legare i sintomi alle attività quotidiane. Infatti spesso i sintomi stessi possono essere riconducibili all’ansia ed è importante che le persone operino questa connessione per poter superare la condizione di costante ansia per la propria salute. Ad esempio, una persona potrebbe riportare di percepire un dolore al petto quando si trova a lavoro, ma non quando sta lavorando in giardino, il che renderebbe improbabile che il sintomo possa essere dovuto a cause fisiche e che quindi si possa trattare di un reale disturbo cardiaco.

Secondo Tyrer et al. (2014, 2011), inoltre, l’ansia per la propria salute solitamente avrebbe origine in giovane età in seguito ad eventi scatenanti, e potrebbe essere risolta dopo anche solo 5-10 sessioni di psicoterapia, con benefici anche sul lungo termine (misurazioni effettuate con un follow-up a 1 e 2 anni).

In conclusione, quindi, per coloro i quali controllano minuziosamente e costantemente la propria salute, senza trarre alcun beneficio da, ad esempio, riscontri medici negativi, sembrerebbe essere di grande beneficio il sottoporsi a qualche sessione di psicoterapia cognitivo-comportamentale con protocolli mindfulness o ACT (Acceptance and Commitment Therapy), anche di gruppo (Tyrer et al., 2016), per poter imparare a riconoscere cosa causi i dolori a livello fisico, in un’ottica di somatizzazione di stati d’ansia, che porterebbero poi, come conseguenza ultima in una sorta di circolo vizioso, all’acuirsi dell’ansia per la propria salute. Inoltre, come emerso dagli studi di Berge e collaboratori (2016) risulta essere estremamente importante riconoscere e trattare questa tipologia di ansia, in quanto predittiva di futuri disturbi cardiaci.

Elogio della tiepidezza – Ciottoli di Psicopatologia Generale

In questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Elogio della tiepidezza (Nr. 15)

Essere dipendenti dagli altri: il senso di inferiorità e la mancanza di scopi

Nel tentativo di programmare una riattivazione comportamentale che fosse basata sui propri gusti e desideri in un paziente gravemente dipendente mi sono scontrato con una difficoltà insormontabile per me che ho lo stesso problema (me lo dicevano i saggi che dovevo fare una analisi didattica, e io duro!!) sulla quale peraltro entrambi facciamo un vistoso secondario di autosvalutazione.

In realtà ad una cosa il mio paziente è molto interessato, la coltiva da sempre e ne è diventato maestro: il gioco del corteggiamento e della seduzione. Lo capisco perfettamente ma si tratta di una strategia da un lato tutta interna alla politica estera del dipendente (teniamoci buoni tutti che non si sa mai), dall’altro tendente inutilmente a ristabilire una autostima vacillante in cerca costante di puntelli. In questi soggetti la domanda “ma tu cosa desideri, cosa veramente vorresti?” ottiene sempre esplicitamente o meno la risposta “ quello che preferisce l’altro”. Lo scopo strumentale sempre attivo in loro è far contento l’altro, quale che sia quello terminale a cui serve. Si tratta di una risposta assolutamente sincera. Davvero non sa cosa desidera. Essendo una strategia di sopravvivenza molto precoce, credo che a lungo andare il monitor che vigila su bisogni interni e desideri vada in stand by o si spenga proprio definitivamente per risparmiare energia (sapete, immagino, che lasciare gli elettromestici in stand by comporta comunque un consumo) e che per riattivarlo più che un intervento psicoterapico, soprattutto “top down” sia necessaria una sorta di riabilitazione all’ascolto del marcatore somatico di Damasio ( nel senso di quello da lui descritto, non del marcatore di Antonio che non risolverebbe niente).

Siccome non tutto il male vien per nuocere ed anche un orologio fermo fa l’ora esatta due volte al giorno voglio pensare che a questa categoria di individui appartengano anche alcuni santi, eroi e benefattori dell’umanità che hanno sacrificato la loro esistenza per gli altri. Buon per noi! Ma non è di questi che dobbiamo occuparci. Indagando meglio sulla sua vita ho scoperto che anche il mio paziente prova un grande senso di inferiorità e forte invidia per gli “appassionati in genere”, non ha importanza se siano collezionisti di francobolli, maniaci della fotografia o ultras della Roma. L’invidia non è per l’oggetto della passione, giudicato talvolta persino ridicolo, ma per la capacità di appassionarsi. La stessa che si può provare di fronte a degli innamorati quando non lo si è.

 

Effetto collaterale della dipendenza: la solitudine

Un effetto collaterale di questa condizione di passioni barzotte, definibile come”patologia generalizzata del desiderio” è la mancanza di appartenenze, talvolta la solitudine. Gli esseri umani si raggruppano a seconda delle passioni condivise. Persino i luoghi di incontro sono definiti dalle passioni e interessi: lo stadio, l’auditorium, la discoteca. Se prova a frequentarli si vive come un ospite, un intruso. In ogni gruppo si sente fuori posto ( ogni tanto dunque alla diagnosi di dipendente aggiunge quella di evitante e si chiede se diventare un appassionato collezionista di diagnosi di asse II°, quelle di narcisista e borderline le sente a portata di mano e per le altre almeno una spruzzatina di comorbilità riuscirebbe a strapparla).

A volte fantastica di fondare un gruppo dei “fuori posto”, di definire l’appartenenza dei non appartenenti, ma è un ossimoro. Al grande raduno mondiale dei non appartenenti non ci sarebbe nessuno, perché quelli che arriverebbero andrebbero cacciati in quanto impostori, quelli veri non vengono. Chi non ha passioni è senza comunità di appartenenza e senza terra, un apolide errante. Ha l’impressione che gli altri vivano pienamente mentre lui galleggia. Pensa che la frase di San Paolo per cui il tiepido sarà vomitato sia stata scritta per lui.

Insomma si autosvaluta pur trattandosi spesso di persona interessante. Infatti non è che non abbia interessi, è che non li approfondisce, non si specializza. Gli piacciono molte cose ma la specializzazione e l’esclusività lo annoiano. Diciamo che preferisce l’ampiezza piuttosto che la profondità. Al contrario di chi dice “poche cose ma ben fatte” lui è per “molte cose come vengono vengono”. Per attaccare il secondario di autosvalutazione gli propongo l’idea dell’uomo libero, del cane sciolto che non si esaurisce in una sola appartenenza, non si iscrive a nessun partito, non si ritrova in nessun corteo (così almeno la diagnosi di narcisista la porta a casa) e gli suggerisco l’orgoglio del decatleta che non vince nessuna specialità però……………. Mi viene in mente ora che questo è anche un buon modo per non essere mai davvero sconfitto, si può sempre dire “ a me non interessava davvero” e poi se la sa cavare in tutti gli ambienti e si adatta ad ogni interlocutore che non è poco per lo scopo della seduzione.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Adhd negli adulti: aspetti clinici e terapeutici

ADHD negli adulti: L’ ADHD (Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) è un disturbo dell’età evolutiva che esordisce nell’infanzia e spesso persiste nell’età adulta. Negli adulti, il tasso di prevalenza mondiale è tra l’1 e il 7% (de Zwaan et al., 2012). Spesso queste persone soffrono anche di altri disturbi in comorbilità come i disturbi dell’umore, i disturbi d’ansia, l’abuso di sostanze e i disturbi di personalità (Miller et al., 2007; Sobanski et al., 2007).

Elisa Zugno, Open School STUDI COGNITIVI MILANO

ADHD

L’ADHD si caratterizza per tre sintomi principali, ovvero disattenzione, iperattività e impulsività, ai quali si associano sintomi di disregolazione emotiva (Corbisiero et al., 2013). Questi sintomi, unitamente ai deficit nelle cosiddette soft skills (per esempio nelle abilità di comunicazione), determinano una grave compromissione del funzionamento nella vita di tutti i giorni. Le persone con ADHD riferiscono problemi a lungo termine a scuola, al lavoro, nella vita familiare e sociale, nelle attività ricreative e con l’organizzazione in generale (Mörstedt et al., 2015; Biederman et al., 2006). Il disturbo, quindi, ha delle conseguenze per lo sviluppo sociale del paziente e anche il funzionamento familiare è più basso nelle famiglie con membri che soffrono di ADHD (Harpin, 2005).

 

La diagnosi dell’ ADHD negli adulti

Il processo diagnostico in età adulta pone alcune difficoltà: i sintomi dell’ ADHD sono più eterogenei rispetto all’età evolutiva e possono sovrapporsi con gli eventuali disturbi in comorbilità (Barkley & Brown, 2008; Stieglitz & Rösler, 2006; Wasserstein, 2005). Inoltre, solo negli ultimi anni sono stati sviluppati specifici strumenti diagnostici e linee guida per gli adulti (Wolraich et al., 2011; Kendall et al., 2008). In aggiunta, c’è evidenza che le persone con ADHD abbiano scarse abilità nelle aree dell’autoriflessività e dell’autovalutazione e questo pone dei dubbi sull’attendibilità delle informazioni che riferiscono rispetto alle proprie difficoltà.

Sta crescendo sempre di più un dibattito sul fatto che la tripartizione della sintomatologia in disattenzione/iperattività/impulsività sia adeguata anche per l’ ADHD negli adulti (Gibbins & Weiss, 2007). Infatti, diversi studi hanno mostrato che queste tre dimensioni non sono stabili nel tempo (Faraone et al., 2006). Un altro argomento del dibattito è l’interrogativo su fino a che punto queste problematiche possano essere intese come conseguenze di disfunzioni nell’area dell’affettività (Surman et al., 2013). Queste riflessioni hanno portato gli studiosi a prendere in considerazione il fenomeno della disregolazione emotiva.

 

La disregolazione emotiva

La “regolazione emotiva” può essere definita come la capacità individuale di modificare uno stato emotivo al fine di promuovere comportamenti adattivi e orientati verso i propri scopi (Shaw et al., 2014). Questa capacità comprende i processi che consentono flessibilmente all’individuo di selezionare, partecipare e valutare gli stimoli emotigeni. La disregolazione emotiva insorge quando questi processi adattivi sono compromessi, conducendo a comportamenti che sono in contrasto con gli interessi dell’individuo (es. espressioni emotive ed esperienze che sono eccessive rispetto alle norme sociali e inappropriate rispetto al contesto oppure cambiamenti repentini e poco controllati dello stato emotivo in termini di labilità); l’espressione clinica è in termini di irritabilità, che spesso si associa ad aggressività reattiva e scoppi di collera (Leibenluft, 2011).

La disregolazione emotiva non è inclusa tra i sintomi principali dell’ADHD, in quanto non è ancora considerata come parte della sintomatologia nucleare del disturbo. Nel DSM-5 è stata creata la categoria “disregolazione dell’umore con disforia” all’interno del capitolo dei disturbi dirompenti.

Wender (1995) definisce la disregolazione emotiva attraverso tre dimensioni, ovvero il controllo della rabbia, la labilità affettiva e l’iper-reattività emotiva (equivalente all’intolleranza per lo stress). Nello specifico, il controllo dell’umore si riferisce a sentimenti di irritabilità e frequenti scoppi di rabbia di breve durata. La labilità affettiva si associa a brevi e imprevedibili passaggi da un umore normale a uno stato depressivo o a una moderata eccitazione. Infine, l’iper-reattività emotiva consiste in una diminuzione della capacità di affrontare i fattori di stress della vita quotidiana, che porta a una costante sensazione di essere vessati e sopraffatti.

I soggetti adulti con ADHD riportano spesso sbalzi d’umore, che cambia in modo significativamente più veloce rispetto a quello che accade nei disturbi dell’umore; quindi, possono esserci forti oscillazioni dell’umore anche nel corso della stessa giornata. Questi pazienti hanno molti problemi ad affrontare le situazioni stressanti e sono frequentemente e rapidamente irritati da piccole cose della vita quotidiana. Questo è coerente con i riscontri teorici sul disturbo: si potrebbe dimostrare che i classici sintomi dell’ADHD si associano non solo con deficit cognitivi e alterazioni del substrato neuroanatomico, ma anche con la variabilità nel tono dell’umore (Skirrow et al., 2009). La disregolazione emotiva nell’ADHD, quindi, dipende da deficit a livelli multipli. Le difficoltà variano da un anormale orientamento precoce verso gli stimoli emotivi, soprattutto quelli negativi, a deficit nei processi cognitivi quali la memoria di lavoro e la capacità di inibizione della risposta. L’eziologia della disregolazione può anche dipendere dal fallimento nella regolazione emotiva da parte dei genitori, che si riflette in un’elevata ostilità espressa che contribuisce allo sviluppo di disregolazione emotiva nel bambino (Surman et al., 2011; Biederman et al., 2012).

 

Il profilo neuropsicologico

I deficit neuropsicologici associati all’ ADHD negli adulti sono sostanzialmente gli stessi che si rilevano nell’età evolutiva. Questi deficit riguardano l’attenzione, l’inibizione del comportamento e la memoria (Hervey et al., 2004). I test più utilizzati per l’assessment neuropsicologico sono quelli che valutano le funzioni esecutive, come il Continuous Performance Test (CPT), il test di Stroop, il Trail Making Test, le fluenze verbali soprattutto fonemiche, il Wisconsin Card Sorting Test; inoltre, viene utilizzata anche la WAIS-R per un inquadramento del funzionamento cognitivo globale. Tuttavia, l’assessment neuropsicologico presenta due limitazioni: 1) non esistono ancora test cognitivi specifici per l’ADHD; 2) la performance ai test potrebbe essere condizionata non solo dall’ADHD ma anche da eventuali disturbi psichiatrici in comorbilità (es. disturbi dell’umore).

 

Il trattamento dell’ ADHD negli adulti

Sebbene il 25-50% degli adulti trattati con i farmaci mostri dei miglioramenti nei sintomi nucleari della patologia, tuttavia presentano delle difficoltà residuali in diversi ambiti di funzionamento, cioè scolastico, lavorativo, alcune abilità come guidare, relazioni sociali (Safren, 2006; vedi Figura 1). Infatti, il miglioramento nei sintomi nucleari non necessariamente corrisponde con un miglioramento del funzionamento globale della persona.

Le molteplici esperienze di fallimento e l’insuccesso cronico contribuiscono allo sviluppo di credenze negative maladattive che abbassano la motivazione e aumentano i comportamenti di evitamento e i disturbi dell’umore; queste problematiche, però, non possono essere gestite solo attraverso la terapia farmacologica (Knouse & Safren, 2010). Inoltre, l’ ADHD negli adulti ha un alto grado di comorbilità con altri disturbi psichiatrici quali l’ansia, i disturbi dell’umore, il controllo degli impulsi e l’abuso di sostanze.

 

Terapia Cognitivo-Comportamentale

La psicoterapia cognitivo-comportamentale (CBT) è stata presa in considerazione di recente come trattamento aggiuntivo per l’ ADHD negli adulti ed è stato dimostrato che sia più efficace se inserita all’interno di un pacchetto di trattamento multimodale che includa interventi comportamentali finalizzati all’apprendimento e alla pratica di abilità compensatorie, unitamente a interventi cognitivi per trattare le distorsioni del pensiero e le conseguenti emozioni negative che contribuiscono all’evitamento e alla procrastinazione (Knouse & Safren, 2010); oltre a questi interventi, bisogna sempre valutare l’associazione di una terapia farmacologica. Infatti, mentre la CBT ha un impatto limitato sui sintomi nucleari dell’ ADHD, c’è un’evidenza preliminare che invece possa essere efficace sulla disregolazione emotiva (Mongia & Hechtman, 2012). Questo approccio può funzionare per gli adulti in quanto la maggior parte non è in grado di affrontare efficacemente le proprie difficoltà e di conseguenza non riescono a soddisfare le esigenze della vita. La frustrazione che ne deriva favorisce l’insorgenza di ansia e depressione, nonché una bassa autostima e autoefficacia (Newark & Stieglitz, 2010; Weiss et al., 2012).

Nello specifico, i target della terapia sono:
– comprensione e modificazione delle distorsioni cognitive;
– modificazione del comportamento;
– gestione dei problemi dell’umore, dell’ansia e della bassa autostima.

Le strategie terapeutiche utilizzate, invece, sono le seguenti:
– cognitive: ristrutturazione, problem solving, organizzazione, gestione del tempo, gestione della procrastinazione, psicoeducazione, gestione della rabbia, gestione delle relazioni, auto-istruzioni verbali e mindfulness;
– emotive: regolazione e gestione delle emozioni, controllo degli impulsi/autocontrollo/autoregolazione, auto-motivazione, aumento dell’autostima.

Il primo studio che ha valutato l’approccio CBT per il trattamento di persone adulte con ADHD è stato effettuato da McDermott (2000). L’intervento, della durata media di 36 sedute, consisteva nell’insegnare ai pazienti a fermarsi, rivalutare e modificare i pensieri che contribuivano a intensificare le emozioni e i comportamenti disfunzionali. I pazienti imparavano a indentificare gli errori cognitivi e a monitorare e rivalutare sistematicamente i loro pensieri. La terapia, inoltre, includeva la psicoeducazione e strategie di modificazione ambientale (es. organizzazione, programmazione delle attività, problem solving).

Rostain e Ramsay (2006) hanno sviluppato un programma di 16 sedute individuali che prevedevano la psicoeducazione sull’ ADHD, la concettualizzazione delle difficoltà del paziente in un’ottica CBT, un training sulle strategie di coping e il potenziamento dei punti di forza.

 

Dialectical Behavioral Therapy

Il modello della Linehan è stato adattato per poterlo utilizzare per il trattmento dell’ ADHD negli adulti. Hesslinger et al. (2002) hanno deciso di utilizzare questo modello basandosi sulla premessa che l’ADHD e il disturbo borderline di personalità abbiano delle caratteristiche in comune quali le difficoltà nella regolazione affettiva, il controllo degli impulsi, l’autostima e le relazioni interpersonali. L’intervento consisteva in 13 sedute che prevedevano: psicoeducazione sull’ADHD; neurobiologia e training mindlfuness; discussione dei comportamenti disorganizzati seguita da consigli concreti su come pianificare e organizzare la propria vita, analisi del comportamento; regolazione emotiva; psicoeducazione sulla depressione, sul controllo degli impulsi, sullo stress, sulla dipendenza da sostanze; discussione sulle relazioni e il rispetto per se stessi.

 

Terapia Metacognitiva

Solanto et al. (2008) hanno sviluppato un trattamento di gruppo (5-8 persone) mirato per i problemi di gestione del tempo, organizzazione e pianificazione. Hanno definito la terapia metacognitiva come un intervento destinato a “incrementare lo sviluppo di un insieme globale di abilità esecutive di auto-gestione”, enfatizzando la pratica ripetuta delle abilità apprese al fine di renderle più abituali e automatiche. I moduli di trattamento, svolti in 8/12 sedute della durata di due ore, prevedevano la gestione del tempo, l’attivazione comportamentale, la procrastinazione, l’organizzazione e la pianificazione. Ogni incontro iniziava con una discussione dell’applicazione delle abilità a casa durante la settimana, poi i membri del gruppo fornivano i loro feedback e infine venivano insegnate nuove abilità e assegnati gli homework.

 

Meditazione Mindfulness

Zylowska et al. (2008) hanno ipotizzato che il controllo dell’attenzione coltivato nel corso degli esercizi di mindfulness possa migliorare l’attenzione sostenuta e la regolazione delle emozioni e dunque possa essere utile nel trattamento dell’  ADHD negli adulti. Infatti, la meditazione mindfulness è una pratica che implica una certa quota di autoregolazione. Nello specifico dell’ADHD, questo tipo di intervento può avere un impatto sui sintomi comportamentali della disattenzione e dell’impulsività, sui deficit neurocognitivi relativi all’attenzione e alla capacità di inibizione, nonché sugli impairment secondari come lo stress, l’ansia e la depressione. Per quanto riguarda la regolazione delle emozioni, durante il training mindfulness i pazienti imparano a ridurre l’arousal attraverso la respirazione e gli esercizi di rilassamento e ad adottare un atteggiamento aperto e accettante verso le loro esperienze emotive. Sulla base di questo razionale hanno strutturato un intervento di 8 sedute.

Dalle bufale on line ai falsi pettegolezzi tra amici: perché facciamo affidamento su informazioni inaccurate?

Diversi studi dimostrano che le persone tendono a fare affidamento su notizie errate, inaccurate, o parzialmente false e che questo fatto ha il potere di influenzare il loro comportamento futuro. 

 

In un’epoca in cui l’informazione è affidata a diversi mezzi tecnologici ed è diventata, con la rapida diffusione di Internet, appannaggio di tutti in qualunque momento, diventa fondamentale chiedersi quali siano i fattori che ci permettono di selezionare e scegliere correttamente le informazioni; infatti diversi studi dimostrano che le persone tendono a fare affidamento su notizie errate, inaccurate, o parzialmente false e che questo fatto ha il potere di influenzare il loro comportamento futuro.

Lo psicologo David Rapp, della Northwestern University, ha pubblicato una review in cui cerca di spiegare quali siano i meccanismi a causa dei quali le persone farebbero affidamento su informazioni errate.

Secondo il ricercatore, essi si genererebbero come conseguenza di vere e proprie “routine” nei processi cognitivi associati a memoria, problem solving e comprensione.

Tutto dipenderebbe dal fatto che le persone caricano velocemente in memoria affermazioni inaccurate, perché questo sarebbe un processo più facile rispetto alla valutazione critica o all’analisi di ciò che hanno appreso.

In seguito, il cervello richiamerebbe prima le informazioni scorrette poiché farebbe meno fatica a richiamare il materiale presentato più di recente.

Ancora più difficoltoso, è evitare di affidarsi alla disinformazione, quando le informazioni accurate ed inaccurate sono presentate insieme.

Siamo bombardati da tonnellate di informazioni tutti i giorni; è un incubo cercare di valutarle tutte criticamente – spiega Rapp, coeditore del libro “Processare le informazioni inaccurate” – valutare tutto diventa arduo e difficoltoso e comporta il fatto che i soggetti cerchino di conservare le proprie risorse per quando ne avranno realmente bisogno.

Nella sua review, pubblicata all’interno della rivista Current Directions in Psychological Science, Rapp suggerisce anche diverse strategie per evitare le trappole della disinformazione:

  • Valutare criticamente le informazioni il prima possibile: ciò potrebbe aiutare il proprio cervello ad evitare di mettere da parte informazioni non corrette.
  • Considerare la fonte: le persone sono più solite utilizzare informazioni inaccurate da fonti credibili che da fonti inattendibili, in accordo con una precedente ricerca di Rapp.
  • Fare attenzione alle menzogne credibili:

Quando la verità è mischiata ad affermazioni inaccurate, le persone diventano persuase, raggirate e meno valutative,cosa che impedisce loro di notare e rifiutare idee inaccurate – afferma Rapp.

 

Risolvere o accettare – Ciottoli di Psicopatologia Generale

Quello che possiamo ragionevolmente promettere ai pazienti è lo smussamento degli angoli, un migliore adattamento esistenziale ma il miracolo inverso alla quadratura del cerchio che non ho mai sentito dire ma potrebbe chiamarsi la cerchiatura del quadrato, non è affatto detto che avvenga dipendendo anche da molteplici fattori esterni alla psicoterapia.

CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE – Risolvere o accettare (Nr. 14)

Risolvere o accettare se stessi?

A volte già per telefono al momento di prendere l’appuntamento o nella prima seduta o, al più tardi, dopo i primi incontri di assessment arriva la fatidica domanda “lei, dottore, pensa che riuscirò a risolvere questi problemi, potrò davvero guarire?” L’angoscia e l’urgenza che la accompagna è proporzionale sia alla durata del disturbo che ai tentativi di terapia già tentati.

Traspare spesso scoraggiamento e rassegnazione che il terapeuta può sentire come sfiducia nei suoi confronti e pessima premessa per il lavoro da iniziare. Per questo rischia di mostrarsi esageratamente fiducioso e ottimista promettendo facili successi che il paziente peraltro ha già verificato su internet essere poco probabili.

In primo luogo va evitato di criticare i precedenti curanti ( cosa che mi capita di ascoltare frequentemente come paziente) definendoli incapaci e in malafede e ponendosi come il salvatore della patria. Sarete i primi della lista quando riferirà di voi al prossimo terapeuta. Utile è rimandare la risposta al momento della restituzione dell’assessment in sede contrattuale quando sarà più chiaro il problema e l’adesione del paziente al metodo di lavoro illustrato.

La stessa domanda si ripresenterà più avanti in momenti di bilancio del lavoro svolto magari associata al riconoscimento di quanto raggiunto “indubbiamente, dottore, sto molto meglio ma ho proprio l’impressione che certe cose non cambieranno mai, non credo dottore che chi nasce quadrato possa morire tondo”. La risposta stizzita che una volta mi scappò di getto di fronte a questa geometrica metafora della nostra impotenza fu “ Il problema è perchè a chi nasce quadrato non sta bene di avere 4 lati e 4 angoli retti” che poi articolai dicendogli “credo che gli spigoli potremo smussarli ma certamente anche io non credo che sarà mai un cerchio di Giotto, ma il problema è vederne i vantaggi e le opportunità e non accanirsi in un rifiuto della propria natura che, in parte genetica, in parte appresa è comunque un modo di stare al mondo che le ha garantito finora la sopravvivenza.

Accettazione: rendere tollerabile ciò che risulta intollerabile

Introduco così al paziente il tema del problema secondario che, ricordo, i vecchi maestri che mi hanno insegnato la RET dicevano fosse la prima cosa da affrontare e che, mi perdonino per la semplificazione gli amici teorici di questo approccio, rappresenta il focus di intervento della recente “terapia metacognitiva”. Ricordo con vividezza il grande Cesare De Silvestri raccomandarci di esplorare in prima seduta come il paziente si rappresentava la sua vita futura se il sintomo non fosse stato risolto. Qualora il paziente avesse risposto che non voleva neppure pensarci, che lo riteneva intollerabile, il primo lavoro da fare era proprio quella di rendere più articolata, costruita, pensabile e dunque meno spaventosa questa prospettiva.

Rifacendoci alla precedente distinzione tra psicoterapia normale e rivoluzionaria, quello che possiamo ragionevolmente promettere è lo smussamento degli angoli, un migliore adattamento esistenziale ma il miracolo inverso alla quadratura del cerchio che non ho mai sentito dire ma potrebbe chiamarsi la cerchiatura del quadrato, non è affatto detto che avvenga dipendendo anche da molteplici fattori esterni alla psicoterapia.

Immagino la delusione nei vostri occhi che rispecchiano la stessa emozione nello sguardo del paziente che aggiungerà “allora mi devo rassegnare?” Cercherò ora di argomentare che non di rassegnazione si tratta ma di accettazione e che essa rappresenta una forma di guarigione ben più profonda e solida.

Parto da un esempio clinico “i disturbi d’ansia” nei quali l’accettazione prende il nome più specifico di “accettazione del rischio”. In tutti, c’è il timore del verificarsi di un evento ritenuto molto probabile e assolutamente catastrofico ed intollerabile. Un intervento magari rapido ma certamente di basso livello e scarsamente risolutivo si muove nell’ordine della rassicurazione che già parenti e amici hanno inutilmente tentato. Si tratta in sostanza con l’autorevolezza che il ruolo ci conferisce e la competenza che ci consente di evidenziare i bias cognitivi all’opera di dimostrare al paziente che sovrastima enormemente la possibilità che l’evento temuto si verifichi realmente. Detto in parole povere “tranquillo non accadrà”, evidente bugia a meno che non abbiate capacità divinatorie e perigliosa illusione che può spingere il paziente ancora di più sulla scivolosa strada della ricerca della certezza assoluta.

Nessuno può garantire che un certo evento non accada. Un intervento più profondo che un tempo chiamavamo con parola impronunciabile “decatastrofizzazione” sostituibile con la più foneticamente semplice “accettazione” consiste invece nel considerare l’ipotesi negativa e renderla meno impensabile. Si tratta di costruire gli scenari del presunto “day after” per renderlo meno catastrofico per quanto sgradevole. Lo si può fare partendo dall’osservazione di altri che stanno vivendo la stessa situazione. Da ricordi personali in cui si è vissuto qualcosa di analogo per arrivare poi a sperimentarlo con compiti prima immaginativi e poi in vivo. Si può far ossevare anche il fatto che tutti gli esseri umani quando si trovano davvero in una situazione che ritenevano intollerabile ( sia essa una grave malattia, una invalidità o un lutto) sanno cavarsela trovando risorse insperate e scoprendo che “il diavolo non è poi così brutto come lo si dipinge”).

Persino i lamentosi ipocondriaci quando arriva la loro ora mostrano freddezza e dignità insospettabili. Ora tra due bambini che hanno paura del buio direste che è guarito di più quello che si è convinto che la luce non se ne andrà mai, o quello che si è fatto persuaso che nel buio non c’è niente di pericoloso ma solo molte scomodità? Per dirla in termini più teorici mentre la rassicurazione si muove a livello delle strategie previsionali e di fuga per evitare di finire nell’antiscopo ( l’evento temuto), l’accettazione tende a non renderlo più tale declassificandolo a stato non preferito. Ogni antiscopo o come altro lo si voglia chiamare (stato doloroso, punto di fuga, area taboo, ombra) viene eliminato rendendo inutili le strategie coatte ( spesso appunto i sintomi) che si attuavano per starne alla larga e si aumentano i gradi di libertà della persona di decidere la propria vita e questo è il massimo successo della psicoterapia.

RUBRICA CIOTTOLI DI PSICOPATOLOGIA GENERALE

Il Coaching e il life coach: che cos’è e quali benefici produce

Pubblichiamo con piacere questo interessante, equilibrato ed esaustivo articolo sul coaching, un argomento che interessa molti psicologi. Non è però inutile ricordare che il coaching, sicuramente una pratica utile ed efficace in molti campi professionali -come spiega benissimo l’articolo-, non può e non deve essere utilizzato come succedaneo improvvisato di trattamenti psicoterapeutici per la sofferenza mentale. Vale naturalmente anche il contrario: lo psicoterapeuta non può improvvisarsi coach. Buona lettura.

Giovanni Maria Ruggiero, Direttore

 

 

Cos’è il coaching e il life coach?

Il Coaching è una disciplina relativamente nuova in Italia, che ha radici molto più antiche… Socrate invitava a “Conoscere se stessi”; Pindaro era solito salutare i suoi discepoli dicendo: “Diventa ciò che sei”; Parmenide sosteneva che tutto è possibile: “Basta trovare il coraggio di percorrere la via” ed Eraclito affermava: “L’unica cosa permanente è il cambiamento”. Con l’emergere del movimento Umanista, si comincia a parlare di coaching anche nel mondo del business. Ma la reale innovazione è venuta con la fusione tra lo sport e il mondo degli affari, che ha reinventato questo termine. Tim Gallwey (1974) con il suo Inner Game of Tennis fu uno dei primi promotori del coaching nel contesto degli affari, a cui sono susseguiti rapidamente altri coach sportivi di fama notevole, come John Whitmore (campione di corse automobilistiche) il quale vede il coaching come: «il processo di responsabilizzazione degli altri. Per Coaching non intendiamo semplicemente una tecnica escogitata lì per lì e rigorosamente applicata in determinate circostanze: si tratta piuttosto di un modo di guidare e gestire le persone, un modo di pensare, e quindi anche un modo di essere.»; David Hemery (medaglista olimpico del salto ad ostacoli), David Witaker (coach olimpico di hockey).

Il coaching, nel significato moderno, è stato supportato dalla “Teoria dell’apprendimento costruttivo” di Williams & Irwing (2001), la cui credenza centrale è che non esiste una sola vera interpretazione della realtà. Nel coaching il presupposto è la conoscenza e la consapevolezza di sé, delle proprie risorse e delle aree migliorabili. Si tratta di focalizzare mete specifiche per trovare le strategie più adeguate. E’ un progetto di crescita mirato, con traguardi specifici, che facilita il cambiamento, attraverso un percorso autorigenerativo. Il cliente è responsabile di ogni suo passo, il Coach lo aiuta a diventare consapevole dei suoi obiettivi e a realizzarli al meglio.

Il coaching diventa una strada che permette di conciliare il rispetto delle più profonde caratteristiche della persona con l’esigenza dell’organizzazione di ottenere prestazioni sempre più elevate. Non è una “tecnica”, una modalità superficiale e manipolatoria per spremere le persone e ottenere da esse una performance ottimale, ma una filosofia a cui ispirare la relazione, un modo di trattare le persone che consenta a queste di trovare nella performance il risultato di una scelta, l’espressione e la realizzazione di se stesse. Quindi il coaching è uno stimolo e uno strumento di cambiamento sia a livello culturale, sia individuale che organizzativo.

Il Coaching è uno strumento altamente efficace che aiuta le persone a far quadrare il bilancio della propria vita privata o professionale, a migliorare i rapporti con gli altri, scoprendo le strategie più adeguate per raggiungere i propri obiettivi. Quindi il coaching è visto come una partnership con i clienti che, attraverso un processo creativo, stimola la riflessione, ispirandoli a massimizzare il proprio potenziale personale e professionale.

Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita. La metodologia di coaching adottata dall’ ICF2 prevede che il cliente sia prima di tutto rispettato, sia dal punto di vista personale che professionale, e venga considerato in grado di gestire efficacemente la propria vita ed il proprio ambito lavorativo. Ogni cliente viene visto come una persona creativa e piena di risorse, non a caso le tecniche utilizzate di interazione del coach sono l’ascolto attivo e domande mirate perché danno la possibilità di porsi come facilitatore nei confronti del coachee. Quindi il coaching è concepito per aiutare i clienti a incrementare le loro conoscenze e performance e migliorare la qualità della vita.

Sulla base di ciò, le responsabilità del coach sono:
1. scoprire, rendere chiari ed allineare gli obiettivi che il cliente desidera raggiungere; guidare il cliente in una scoperta personale di tali obiettivi;
2. far in modo che le soluzioni e le strategie da seguire emergano dal cliente stesso;
3. lasciare piena autonomia e responsabilità al cliente.

Quando richiedere un intervento di coaching

Il cliente nel coaching è una persona o un team che vuole raggiungere uno o più dei seguenti punti: un livello più elevato di performance, di apprendimento o di soddisfazione. Il cliente individuale nel coaching può intraprendere delle azioni per muovere verso un obiettivo con l’aiuto del coach; non sta cercando una guarigione emotiva o sollievi da un dolore psicologico; non è, quindi, eccessivamente limitato sotto il profilo delle sue capacità di iniziativa e di azione, né è così insicuro per impegnarsi in questo genere di progresso. La parola “cliente” è usata per definire la persona che usufruisce del coaching, indipendentemente da chi paga il servizio.

Ci sono molte ragioni per le quali una persona o un team possono scegliere di lavorare con un coach, alcune tra le principali sono:
– c’è qualcosa in gioco (una sfida, un obiettivo protratto o una grossa opportunità) ed è urgente, importante o appassionante, o tutte queste cose insieme;
– c’è una lacuna di consapevolezza, di capacità, di fiducia o di risorse;
– e’ stato richiesto un lavoro a pieno regime ed è a stretta scadenza;
– c’è il desiderio di ottenere risultati più rapidamente;
– c’è bisogno di invertire la direzione presa nel lavoro o nella vita personale a causa di un insuccesso;
– il modo di relazionarsi con gli altri non è efficace o non aiuta la persona a raggiungere i suoi obiettivi prioritari;
– c’è una mancanza di chiarezza nella persona a fronte delle scelte da fare;
– la persona ha molto successo e questo successo comincia a diventare problematico;
– non c’è equilibrio tra il lavoro e la vita privata e questo genera delle conseguenze indesiderate;
– la persona non ha identificato le sue potenzialità principali né sa come utilizzarle al meglio;
– la persona vuole che il lavoro e la vita siano più semplici, meno complicate;
– c’è il bisogno e il desiderio di essere meglio organizzati e sapersi meglio gestire.

Chi è il life coach?

Le Competenze del Coach sono:
– Predisposizione all’ascolto e il desiderio di mettersi sempre in discussione.
– Empatia: creare un rapporto empatico con il coachee senza mai sovrapporsi a lui.
– Saper guidare il coachee nell’autorealizzazione e nella consapevolezza di sé. Senza essere giudicante.
– Un coach non dà consigli o pareri, né dà informazioni. Fornisce supporto nel raggiungimento di un risultato. È un allenatore che migliora le prestazioni del proprio cliente.

Le 11 competenze rilasciate dalla ICF sono raggruppate in 4 sottogruppi, così suddivisi:
a) Porre le basi;
1) soddisfare linee guida etiche e standard professionali;
2) stabilire il contratto di coaching;
b) creare insieme la relazione;
3) stabilire fiducia e confidenza con il cliente;
4) presenza di coaching;
c) comunicare efficacemente;
5) ascoltare attivamente;
6) fare domande potenti;
7) comunicazione diretta;
d) facilitare apprendimento e risultati;
8) creare consapevolezza;
9) progettare azioni;
10) pianificare e definire obiettivi;
11) gestione del progresso e affidabilità.

Il coaching include un approccio elogiativo che si fonda sul riconoscimento di ciò che è giusto, di ciò che funziona, di ciò che è desiderato, di ciò che è necessario per arrivare all’obiettivo. L’approccio elogiativo prevede domande basate sulla scoperta, una modalità proattiva (in opposizione a quella reattiva) nella gestione delle sfide e delle opportunità personali, una formulazione costruttiva di osservazioni e feedback finalizzati ad ottenere reazioni positive dagli altri.

Pertanto la relazione è la base del coaching. Il coach e il cliente sviluppano intenzionalmente una relazione che è caratterizzata da un reciproco e crescente rispetto e apprezzamento come persone. Durante ciascun incontro è il cliente stesso a scegliere l’argomento della conversazione, mentre il coach lo ascolta ponendo osservazioni e domande. Questa interazione contribuisce a creare maggiore chiarezza ed induce il cliente a divenire proattivo. Nel coaching si osserva “dove si trova il cliente oggi”, quale sia cioè la situazione attuale di partenza, e si definisce, in comune accordo, ciò che egli è disposto a fare per raggiungere “la meta in cui vorrebbe trovarsi domani”.. Quindi, il coaching si concentra principalmente sul presente e il futuro, non si concentra sul passato o sull’impatto del passato sul presente, usa le informazioni del passato solo per chiarire la situazione presente. Far muovere il cliente in avanti non può dipendere da fatti del passato.

Come si articola un percorso di coaching

Generalmente un percorso di coaching si avvia con un colloquio personale (fatto di persona oppure telefonicamente) per valutare le attuali opportunità e sfide del cliente, per definire le finalità della relazione, per identificare le priorità di azione e per stabilire quali sono i risultati specifici che si vogliono raggiungere. Le sessioni di coaching possono essere condotte di persona (in presenza) oppure al telefono o tramite sistemi audio/video a distanza (es. Skype); la durata di ogni sessione viene concordata preventivamente, e varia, in genere, da un minimo di mezz’ora a un massimo di due ore.

Tra le sessioni di coaching programmate si può richiedere al cliente di compiere determinate azioni che lo aiutino al raggiungimento dei propri obiettivi prioritari. Il coach, inoltre, può fornire risorse supplementari, sotto forma di articoli, questionari, valutazioni o modelli per aiutare la riflessione e l’azione del cliente. La sessione si divide in tre, la prima sessione riguarda l’apertura, che rappresenta il primo impatto sia per il coachee che per il coach. Si stabiliscono le regole dell’incontro e si esplicita la metodologia di lavoro (cioè quanto durano gli incontri, dove si svolgeranno, che costo avranno, in che modo la partnership è coinvolta…). Si sondano le aspettative del coachee per iniziare a fare una analisi della domanda (esempio del coachee: difficoltà a relazionarsi efficacemente con il capo).

Possiamo identificare una seconda fase, la fase centrale del colloquio dove si mettono in pratica le dinamiche della sessione, si pongono le basi per la relazione ed il lavoro sugli obiettivi. In questa fase si raccolgono le informazioni ed i fatti riportati ma si cerca di lavorare concretamente in relazione all’obiettivo del coachee (esempio il coach cerca di farsi raccontare esattamente quando ed in quali situazioni il coachee si sente non efficace nella relazione con il capo).

Infine possiamo individuare una fase finale, il momento della chiusura. In questa ultima fase, si puntualizzano gli elementi più importanti che sono emersi dal colloquio e si stabilisce l’incontro successivo. Si tende a chiudere sempre con un lavoro pratico che il coachee dovrà fare su se stesso (esempio il coachee si impegna “ogni volta che devo incontrare il capo, per evitare di sentirmi impreparato, simulo una riunione/preparo una scaletta di base per una conversazione”). Occasionalmente si possono dare consigli, opinioni o suggerimenti nel coaching. Entrambe le parti capiscono che il cliente è libero di accettarli o declinarli ed è lui che si assume la responsabilità delle azioni da prendere. Un coach può esprimere richieste affinché il cliente promuova azioni adatte a conseguire un risultato desiderato da lui stesso. Il coach non fa tali richieste per stabilire un problema del cliente o per capirne il passato.

Nel coaching le informazioni ottenute dal cliente sono usate dal coach per stimolare la consapevolezza del cliente e aiutarlo a scegliere il tipo di azione. Questi informazioni non sono usate per valutare la performance o fornire relazioni per qualcuno, fuorché per il cliente stesso. Il coaching ha la libertà e la flessibilità per affrontare una vasta varietà di argomenti personali e professionali. In una relazione di coaching, solo il cliente ed il coach determinano il fine del loro lavoro. Il coaching non è necessariamente limitato ad una discussione strettamente delineata. Nel coaching, ogni contributo dato dal coach per produrre il risultato desiderato dal cliente, viene dato attraverso una progressiva interazione con il cliente. Il ruolo del coach non è di produrre un prodotto o un risultato acquisito al di fuori delle sessioni di coaching. Il coaching è studiato per permettere ai cliente di acquisire una maggiore capacità di produrre risultati e una grande fiducia nelle capacità che gli occorrono. Va da sé che i clienti non abbandonano il coaching con la percezione della necessità di appoggiarsi al coach per produrre simili risultati nel futuro.

La durata di una relazione di coaching varia in funzione dalle esigenze della persona o del team: può variare da un minimo di tre sessioni fino a un massimo di nove o dieci mesi. Per alcuni tipi di coaching mirato, può funzionare bene un periodo dai 3 ai 6 mesi di lavoro; per altri tipi di coaching il cliente può trovare proficuo lavorare più a lungo con il coach. I fattori che possono influire sulla durata comprendono: il tipo di obiettivi e di risultati che si vogliono raggiungere, il modo con cui le persone o i team amano lavorare, la frequenza delle sessioni, le risorse finanziarie disponibili per sostenere il coaching.

 

I benefici del coaching e gli ambiti in cui è richiesto

I benefici: l’attività di coaching accelera la crescita dell’individuo in quanto grazie ad essa ognuno giunge a focalizzare in maniera più efficace e consapevole gli obiettivi da raggiungere e le conseguenti scelte da porre in atto. Grazie all’attività svolta dal coach, i clienti sono in grado di apprendere ed elaborare le tecniche e le strategie di azione che permetteranno loro di migliorare sia le performance che la qualità della propria vita. I clienti che si impegnano in una relazione di coaching possono aspettarsi di sperimentare nuove prospettive di sfide e opportunità personali, un accrescimento nelle capacità di pensiero e nella presa di decisioni. Inoltre beneficiano di un miglioramento nell’efficienza interpersonale e una maggiore fiducia nell’esprimere i ruoli scelti nella vita e al lavoro. In coerenza con l’impegno a migliorare la loro efficienza personale, i clienti che scelgono un coach possono aspettarsi anche di vedere risultati apprezzabili nelle aree della produttività, della soddisfazione personale nella vita e nel lavoro e del raggiungimento di importanti obiettivi personali.

Attualmente il coaching viene applicato in sette differenti tipologie:
Business coaching, che si rivolge a liberi professionisti e imprenditori di piccole e medie imprese;
Executive coaching, per top manager ed executive;
Corporate coaching, per lo sviluppo di manager in azienda;
Career coaching, aiuta ad affrontare scelte professionali;
Team coaching, interviene su gruppi per migliorare la performance, la collaborazione e la realizzazione di progetti comuni;
Personal coaching, lavora direttamente con il cliente su diverse aree della vita privata e lavorativa;
Life coaching, per privati che decidono di migliorare alcune aree della propria vita.

A differenza del corporate e dell’executive coach, già da anni apprezzati e ricercati da grandi e medie aziende, il life coach è una figura nuova che in Italia si sta sviluppando solo negli ultimi anni. Si occupa soprattutto di tematiche inerenti la sfera della vita privata della persona, e in termini italiani potremmo definirlo un “allenatore della vita”.

 

Conclusioni

Il life coach è un professionista prezioso per tutti coloro che hanno bisogno di risolvere problemi specifici di cui sono già consapevoli, ma anche per coloro che desiderano una migliore qualità della vita e non sanno esattamente su quale aspetto focalizzarsi per poter raggiungere un’armonia generale e un senso di benessere. Il life coach ha quindi un’esperienza non solo nel campo professionale ma anche su tematiche legate al privato.
Il compito di un life coach è quello di aiutare l’individuo a mettere in luce le aree della vita privata che richiedono un maggiore impegno, motivazione o qualche cambiamento. Il compito del cliente, invece, è quello di impegnarsi a seguire le proprie scelte e a mettere in pratica le azioni programmate. Naturalmente, se non c’è la volontà da parte di un individuo di impegnarsi in un percorso di coaching, il lavoro del coach non porterà nessun beneficio.

Una caratteristica fondamentale del life coaching è che il coach non spinge il coachee a ripercorrere le esperienze passate, a focalizzarsi su questioni irrisolte, né tantomeno tenterà di affrontare problematiche di tipo psicologico, bensì parte dal presente per spostarsi verso il futuro, focalizzandosi esclusivamente sulla persona. Indipendentemente da ciò che costituisce la storia di ognuno di noi, secondo la filosofia del coaching, è possibile costruire una strategia personale che possa portare verso un risultato desiderato. L’insieme di azioni, la verifica di ogni passo successivo, la consapevole assunzione di responsabilità, fa sì che ogni cambiamento possa essere duraturo. Il coach non dà suggerimenti e soprattutto non giudica, offre piuttosto un’aspettativa esterna che sostiene il suo cliente e le sue scelte.

Le aree su cui si può intervenire insieme a un life coach sono molte e varie, come relazioni interpersonali, gestione del tempo, equilibrio tra vita privata e lavoro, rimozione di idee bloccanti che impediscono di agire come si vorrebbe, ma anche sviluppo personale e capacità di affrontare eventi straordinari. Tutti questi temi, a volte anche delicati, possono essere affrontati con estrema serenità grazie alla fiducia, la riservatezza e il rispetto, che vengono garantiti dalla relazione di coaching e che sono essenziali per la realizzazione di un percorso efficace.
Un percorso di life coaching ha una durata variabile a seconda del tema da affrontare e degli obiettivi prefissati.

Dott.ssa Simona Di Paolo

Il nuovo libro delle storie sociali (2016) di C. Gray – Recensione

Il nuovo libro delle Storie Sociali è dedicato proprio all’insegnamento delle tecniche e dell’arte di sviluppare Storie Sociali, che, per potersi definire tali, devono rispettare 10 criteri.

 

Le Storie Sociali: create per i bambini con autismo

Esse sono state ideate nei primi anni ‘90 da Carol Gray che, occupandosi dell’educazione di bambini autistici, ha cercato di ideare uno strumento efficace per promuovere la loro comprensione sociale e migliorare la loro capacità di diventare soggetti attivi nella vita quotidiana.

L’obiettivo delle Storie Sociali non è certo quello di correggere un comportamento sbagliato bensì di fornire in modo significativo e sicuro quelle informazioni che permettono di scegliere tra più risposte funzionali; il miglioramento comportamentale è sì atteso ma solo in virtù di una migliore comprensione dell’ambiente fisico e sociale in cui il destinatario è inserito.

Nel momento in cui il bambino autistico inizia infatti a sviluppare abilità di pensiero astratto e capacità relazionali, le tradizionali tecniche comportamentali che fino ad allora probabilmente avevano caratterizzato il suo programma di apprendimento, centrato su stimoli e risposte (prompting, fading, modeling …), non sono più sufficienti. È utile iniziare a prestare una maggiore attenzione ai comportamenti emessi in base ai contenuti di pensiero e le Storie Sociali sono un’utilissima risorsa in tal senso.

 

Il nuovo libro delle Storie Sociali

Il nuovo libro delle Storie Sociali è l’ultimo di una serie di contributi dell’autrice che negli anni ha sempre cercato di migliorare le caratteristiche di questa strategia di intervento, sulla cui efficacia non ci sono più dubbi: le Storie Sociali, se costruite rispettando fedelmente le linee guida, funzionano.

Proprio per questa ragione Carol Gray dedica le prime pagine di questo suo ultimo lavoro per accompagnare il lettore ad un utilizzo consapevole e corretto delle risorse contenute nel libro.

Il capitolo Tutorial 10.2  de Il nuovo libro delle Storie Sociali è dedicato proprio all’insegnamento delle tecniche e dell’arte di sviluppare Storie Sociali, che, per potersi definire tali, devono rispettare 10 criteri.  Ad ogni criterio è dedicato un tutorial, composto dalla descrizione del criterio, da una sua breve discussione, da un’attività che consente di confrontarsi operativamente con esso, dalle risposte corrette riguardo l’attività  precedente e dalle note conclusive.

Affrontare il tutorial permette di comprendere quanto dietro la semplicità di fruizione di una Storia Sociale ci sia un lavoro attento, curato e rigoroso, assolutamente essenziale per garantire l’offerta di un intervento basato sull’evidenza scientifica.

Il libro contiene a seguire 185 storie sociali, scritte dall’autrice per i bambini e i ragazzi con cui ha lavorato, suddivise in capitoli sulla base dell’argomento che trattano. Potrebbero essere riproposte così come sono anche se la maggior parte di esse si prestano a una facile personalizzazione grazie alla voluta ridondanza di informazioni con cui l’autrice ce le presenta. È  piuttosto facile infatti immaginare di omettere alcune frasi di storia, senza modificarne  la struttura portante e conservando gli elementi essenziali definiti dai criteri di realizzazione.

L’utilità operativa di questa preziosa risorsa è dunque fuori discussione ma la lettura di tutte le Storie Sociali è utile anche per comprendere la visione che gli autistici hanno del mondo che li circonda e spesso li opprime.

Un libro per tutti.

La malattia oncologica e l’impatto sulla famiglia: effetti ed interventi

Quella della malattia oncologica rappresenta un’esperienza di vita dolorosa e traumatica, che implica cambiamenti significativi che coinvolgono non solo il singolo malato, ma anche tutto il sistema familiare che si muove attorno a lui. Infatti, eventi che creano ostacoli e difficoltà per la famiglia, e per questo considerabili come vere e proprie crisi, si verificano durante tutto il suo ciclo di vita, tuttavia quella della malattia oncologica rappresenta un’esperienza estremamente complessa da affrontare, che crea sfide nuove e spesso inaspettate.

Laura Pizzacani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Malattia oncologica: l’impatto sulla famiglia

È alla luce di questi mutamenti che si evince l’importanza dell’ambiente familiare, che fornisce il contesto di adattamento in cui la persona reagisce alla diagnosi e valuta l’evento e le proprie capacità di farvi fronte, il tutto in relazione ai significati di cui quella famiglia è portatrice, significati che vengono appresi e trasmessi per via trans-generazionale. In queste condizioni, la storia della patologia e della sofferenza ad essa connessa diventano così prorompenti da interrompere il normale ciclo di vita di tutti i membri del nucleo, imponendo la necessità di preservare sia la propria identità a fronte di tale stravolgimento, come singoli e come membri del gruppo, nonché di adattarsi alle conseguenze più o meno catastrofiche che emergono.

Un approccio corretto al percorso che la patologia inevitabilmente implica, perciò, dovrebbe considerare come essenziali sia i cambiamenti esperiti dal paziente, che quelli che vedono coinvolta la sua famiglia, in un’ ottica multidimensionale che integri l’attenzione al piano fisico con quella per gli aspetti psicologici e pratici.

Numerose ricerche (Rolland, 2005; Valera, Mauri, 2008; Biondi et al., 2014) dimostrano come nel percorso di malattia oncologica si possano identificare tre macro-fasi, ciascuna caratterizzata da specifici bisogni e compiti di sviluppo per tutti coloro che fanno parte della famiglia. Esse possono essere così distinte:
1) fase seguente alla diagnosi, definibile anche come fase di “crisi”: riguarda il periodo iniziale, in cui si viene a conoscenza della diagnosi e si rende necessaria la prima forma di adattamento all’evento inaspettato. È caratterizzata da livelli molto alti di stress, associati ad ansia e depressione sia per il malato, che per i familiari, che iniziano a percepire la difficoltà della gestione emotiva e pratica della situazione stressante, risultando così vulnerabili su più fronti.
2) fase di progressione della malattia oncologica, caratterizzata dal peggioramento dei sintomi, nonché da un decadimento più o meno grave delle funzioni del paziente e un conseguente aumento della sua dipendenza. In questo stadio la famiglia si sforza di mantenere, non senza difficoltà, l’apparenza di una vita normale. Sarebbe perciò utile incoraggiare l’autonomia di ogni suo membro e l’elaborazione dei sentimenti di rabbia e perdita esperiti in relazione al cambiamento, prevenendo circoli viziosi caratterizzati da vergogna e senso di colpa per le emozioni provate, e favorendo lo sviluppo di modalità relazionali più funzionali tra i membri della famiglia.
3) fase terminale della malattia oncologica, in cui, in caso di guarigione, si può elaborare il vissuto connesso all’esperienza e favorire l’inizio di un nuovo “capitolo” di vita slegato dall’ansia e dalla preoccupazione costante, mentre nel caso in cui sia la famiglia che il malato debbano accettare l’idea della fine e della separazione, l’aiuto degli esperti può permettere di far vivere questa fase come un’opportunità di condivisione finale e di riorganizzazione globale del proprio percorso, preparandoli ad affrontare il lutto.

Queste fasi temporali della malattia oncologica possono essere considerate come periodi che portano con sé richieste di sviluppo supplementari e più specifiche rispetto a quelle comunemente affrontate. In particolare nelle ultime due, sia il carico di lavoro oggettivo, dato dalla riduzione del tempo libero e dall’alterazione della routine familiare, che quello soggettivo, dato dalle conseguenze psicologiche connesse alle modalità con cui si è affrontato “l’evento malattia”, determinano una profonda stanchezza per malato e familiari/caregiver.

 

Effetti della malattia oncologica sul paziente

La malattia rappresenta per ciascuno di noi una minaccia per la propria esistenza fisica, perciò la reazione che solitamente si osserva in seguito ad una qualunque diagnosi grave corrisponde ad un vero e proprio “shock da trauma”, che dà luogo ad una transizione dall’idea di sé come persona, all’idea di sé come malato, con una traiettoria di vita incerta e con un corpo che può “tradire” (Costantini, Leverson, Bersani, 2014). Ansia, depressione o rabbia rappresentano delle risposte comuni degli individui all’esperienza che stanno vivendo, e sono assolutamente normali entro certi livelli, tuttavia quando l’intensità di tali emozioni è eccessiva, le reazioni sono relativamente indipendenti dallo stimolo stesso, e devono essere trattate per evitare di minare ulteriormente la capacità del soggetto di funzionare a livello psicologico, sociale e relazionale.

Il permanere di queste emozioni disfunzionali ad alti livelli di intensità, infatti, non fa altro che ridurre la capacità di affrontare i temi principali connessi alla malattia oncologica, tra cui spiccano l’incertezza dovuta al non sapere quale sarà il proprio destino, che già di per sé rappresenta una delle principali fonti di ansia; la capacità di mantenere un buon livello di autostima e il confronto con la dipendenza dagli altri creata da effetti collaterali e difficoltà fisiche.

È bene evidenziare come tutti gli aspetti sopracitati, connessi alla scoperta e al processo di elaborazione della malattia oncologica, nonché alla modalità con cui vengono affrontati i problemi insorti, debbano essere considerati anche alla luce delle caratteristiche di personalità del paziente, aspetto che influenza fortemente la gestione dell’evento in termini personali, e dei rapporti con i familiari e con gli specialisti. Ad esempio, pazienti con tratti di personalità iper-vigilanti, controllanti e ossessivi, potrebbero non accettare di non avere più la gestione completa di sé e del proprio corpo, oppure soffrire particolarmente la mancanza di risposte precise a tutte le loro domande; i pazienti con tratti dipendenti, invece, potrebbero necessitare di costante supporto, ancor più che in situazioni di normalità, finendo per “aggrapparsi” ai familiari o al personale medico ed infermieristico e provocando una loro reazione negativa o rabbiosa, che li farebbe sprofondare in un senso di solitudine e incapacità estremo (Biondi, Costantini, Wise, 2014).

 

Effetti della malattia oncologica sul caregiver

I familiari che ricoprono funzione di caregiver, ossia coloro che si prendono cura e si occupano più attivamente del malato, rivestono un ruolo cruciale in quanto rispondono ai bisogni del paziente sia sul fronte delle cure di base, che su quello emotivo. Questo implica, per loro, l’esposizione ad una serie di fattori stressanti che determinano l’insorgenza di disturbi di tipo fisico e/o psicologico, soprattutto in quelli che sono meno pronti all’utilizzo di efficaci strategie di coping o che faticano ad affrontare il tema della malattia.

Troppo spesso, però, il ruolo dei caregiver e le loro funzioni sono sottovalutate, trascurando i sintomi di stampo ansioso o depressivo di cui possono soffrire a seguito di questa assunzione di responsabilità, sintomi che possono permanere anche per mesi dopo la fine del compito di assistenza.
Questo rende necessario allargare il concetto di burden o carico di malattia, inteso come l’insieme del contributo dei fattori di rischio per lo stato di salute (World Health Organization, 2000), dal singolo paziente alla figura del caregiver, considerando l’insieme delle incombenze da lui percepite, sia in termini di tempo, che di sforzo fisico e mentale necessario per occuparsi di un’altra persona.

Più specificatamente, per identificare al meglio il livello di burden esperito dal caregiver, se ne possono considerare i diversi aspetti che lo determinano (Zavagli et al., 2012):
– aspetti oggettivi, relativi alla restrizione di tempo per sé;
– aspetti evolutivi, ossia connessi alla sensazione del caregiver di essere escluso dalle opportunità che la maggior parte dei propri coetanei o conoscenti hanno;
– aspetti sociali, relativi al cambiamento di ruolo in ambito intra ed extra familiare ;
– aspetti emotivi, associati ai sentimenti di vergogna e rabbia nei confronti del malato, nonché al conseguente senso di colpa in relazione a queste stesse emozioni esperite.
Proprio questi ultimi elementi, di natura emotiva, sono stati messi in luce solo negli ultimi anni, a fronte della crescente consapevolezza degli effetti che la condizione di vita del caregiver determina sui vissuti di ansia e/o depressione che dipendono prettamente dalla responsabilità data dalla necessità di assistenza e dall’incertezza sul futuro del proprio caro, e che conducono, in coloro che dispongono di strategie di coping meno efficaci, ad alti livelli di rimuginio.

 

Valutazione di bisogni e livello di burden del caregiver

Per far fronte alla possibilità di fornire al caregiver un supporto psicologico più strutturato e finalizzato, è bene effettuare un’ adeguata valutazione delle sue condizioni e dei bisogni di cui è portatore. Ciò è reso possibile sia dall’utilizzo di strumenti di valutazione unidimensionali, finalizzati ad indagare costrutti specifici quali ansia o depressione e i livelli ad essi associati, sia strumenti multidimensionali, che analizzano le reazioni psico-fisiche del familiare a diversi livelli e con maggiore complessità.

Strumenti unidimensionali utilizzabili:
1) STAI-Y State Trait Anxiety Inventory, consente di valutare il livello di intensità di ansia di stato e di tratto;
2) PSWQ Penn State Worry Questionnaire, indaga la tendenza a rimuginare, e può essere utilizzato con il caregiver per verificare se questo fenomeno sia presente e quanto influenzi le sue capacità di coping;
3) BDI-II Beck Depression Inventory, finalizzato a misurare l’intensità della depressione.

Strumenti multidimensionali utilizzabili:
1) CRA Caregiver Reaction Assessment, favorisce la misurazione delle reazioni positive e negative dei caregiver all’assunzione di questo ruolo, attraverso un questionario che valuta entrambe queste dimensioni (impatto positivo sull’autostima personale, ma anche aumento di impegni, difficoltà economiche, mancanza di supporto familiare). Nel complesso, valuta le esperienze dei caregiver in cinque dimensioni: attività quotidiane, situazione finanziaria, rapporti di parentela, percezione della salute, autostima personale;
2) CNA Caregiver Need Assessment, questionario costruito per indagare i bisogni relativi all’assistenza percepiti dai caregiver nel momento di assunzione del ruolo, attraverso l’analisi di bisogni emozionali, fisico-funzionali, cognitivo/comportamentali, relazionali, sociali/organizzativi e spirituali;
3) CBI Caregiver Burden Inventory, strumento di valutazione del carico assistenziale che prende in considerazione i vari aspetti del burden (oggettivo, evolutivo, fisico, sociale ed emotivo).

 

Trattamento psicologico per la “famiglia oncologica”

Coloro che si occupano dei servizi sanitari dovrebbero essere consapevoli della complessa interazione tra malattia biologica e stato psicologico del malato, nonché degli effetti che la patologia crea a livello psicologico e relazionale. La conoscenza approfondita di questi fenomeni consentirebbe di programmare interventi di sostegno idonei, finalizzati a migliorare la collaborazione tra i membri della famiglia stessa nonché tra la famiglia e i curanti, e a favorire una migliore elaborazione degli eventi o delle fasi più critiche che questi si trovano ad affrontare.

Infatti, è bene considerare come, nello sviluppo della malattia, i comportamenti individuali e gli stili relazionali di ciascuno si influenzino in modo reciproco secondo una serie di feedback, i quali fanno sì che valori, credenze, comportamenti e stili di pensiero dei membri della famiglia si connettano tra loro secondo una logica complessa di interazioni reciproche, determinando la costruzione di schemi di risposta adattiva, comportamentale ed emotiva modulati dalla storia di ciascuno (Rolland, 2005).

Per meglio comprendere come procedere nel lavoro con i malati oncologici e i loro parenti, è necessario prima di tutto cogliere una serie di aspetti fondamentali: chi prendere in carico, considerando di quale paziente o famiglia si tratti; in quale fase di malattia ci si trova; chi ha diagnosticato lo stato di disagio e perché ci ha inviato i pazienti (Cianfarini, 2010).

Il primo aspetto ci consente di coinvolgere nel lavoro di supporto e/o terapeutico tutti coloro che sono attivamente coinvolti in quel terremoto emotivo costituito dalla malattia oncologica, che modifica progetti e aspettative future di ciascuno.

Successivamente, sarebbe bene chiedersi in quale fase della sua evoluzione si trovi la famiglia e se vi sia la presenza di disturbi pregressi a livello individuale o comunicativo-relazionale nel gruppo, perché ciò condizionerebbe la decisione di chi prendere in carico e di come procedere nel lavoro.
In ultima istanza, sarebbe bene cogliere in che fase della malattia ci si trovi per identificare quali possano essere le priorità che richiedono un intervento immediato: se i pazienti sono in fase di diagnosi, momento in cui maggiormente si attivano le reazioni emotive più forti, con sensazioni di smarrimento, perdita di controllo, impotenza, paura e dolore, l’intervento psicologico contribuirà ad aiutare ad abbassare il livello di arousal emozionale, che essendo molto alto per tutti, può alterare la capacità di recepire e valutare l’emozione in modo adeguato. Qualora, invece, ci si trovasse già in fase di gestione della malattia, l’intervento potrebbe essere più approfondito e focalizzato sull’accettazione ed elaborazione dell’esperienza.

Gli interventi a finalità supportiva o terapeutica da proporre successivamente possono diversificarsi a seconda del setting e dell’orientamento seguito, e sono da selezionare sulla base delle caratteristiche di personalità e delle esigenze del singolo e del nucleo d’appartenenza:
– terapia di gruppo per il paziente o gruppi di auto mutuo aiuto per i caregiver: ha l’obiettivo di facilitare la capacità di affrontare il dolore e incoraggiare la rivisitazione delle priorità per il futuro attraverso la condivisione di esperienze e vissuti in un ambiente supportivo e non giudicante.

Attraverso il lavoro in gruppo si intende favorire anche il miglioramento della relazione di cura con il personale medico e prevenire l’evoluzione in senso depressivo delle emozioni negative iniziali.
– terapia familiare: ha come obiettivo l’ottimizzazione del funzionamento relazionale della famiglia attraverso la promozione di una comunicazione efficace, di una maggiore coesione e di una soluzione adattiva dei conflitti. La capacità della famiglia di fare fronte ad alcune difficoltà specifiche di ciascuna fase è influenzata da aspetti del suo funzionamento: apertura della comunicazione, flessibilità della struttura familiare, adattabilità e capacità di riorganizzazione dei significati personali connessi alla malattia oncologica, risposta a temi esistenziali e di mortalità. (Biondi et al., 2014)
terapia cognitiva-comportamentale: la CBT può essere utilizzata efficacemente per trattare disturbi depressivi e/o ansiosi nei pazienti affetti da un tumore o nei loro parenti più prossimi. L’efficacia della CBT è data dal fatto che dà la possibilità di lavorare per passi risolvendo di volta in volta i problemi di natura emotiva che possono insorgere, focalizzandosi sul problem solving e sull’azione mirata sui pensieri negativi e disfunzionali, riducendo ruminazione o rimuginio.
– tecniche di rilassamento e mindfulness: sono utili soprattutto per la gestione di tutte quelle fasi di attesa che difficilmente possono essere modificate, come quella degli esiti di un esame o dei risultati di un intervento o trattamento, eventi che aumentano esponenzialmente i livelli di ansia e distress psicologico. Le tecniche di rilassamento, da praticare inizialmente con una guida esperta, e successivamente anche in autonomia, consentono di ridurre i sintomi fisiologici connessi all’ansia e l’oppressione emozionale, aumentando la qualità della vita dei pazienti. La mindfulness, invece, permette di concentrarsi sul momento presente e di liberarsi da pensieri negativi e ansietà circa il futuro.

A prescindere dal tipo di orientamento del lavoro svolto, risulta evidente la presenza di obiettivi comuni, tra cui il bisogno di empowerment e sostegno alla famiglia e al paziente, le cui potenzialità positive sono limitate da dinamiche personali ed interpersonali spesso disfunzionali. L’attività di supporto psicologico, di gruppo o individuale che sia, offre infatti uno spazio protetto in cui riconoscere le difficoltà esistenti ed affrontarle nel migliore dei modi. Per farlo, ci si concentrerà sullo sviluppo di maggiori abilità comunicative e di scambio, sulla facilitazione dell’espressività emotiva e sulla condivisione delle emozioni determinate dall’esperienza vissuta, nonché, nei casi più complessi, di ristrutturazione cognitiva dell’esperienza di malattia.

Scegliere la scuola di specializzazione in Psicoterapia: un’esperienza personale

La complessa scelta della scuola di specializzazione in psicoterapia: il racconto di un’esperienza personale

Tanti tra i giovani neolaureati psicologi, affrontano la scelta della scuola di specializzazione in psicoterapia con apprensione, ma anche con tante aspettative, essendo per molti fortemente determinante per il proprio futuro lavorativo. Tale scelta è tanto onerosa quanto complessa, soprattutto perché le Scuole riconosciute dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca in Italia sono circa 500 e sono oltre 21 i principali approcci terapeutici, diversi per presupposti, metodologie e tecniche.

 

Dopo la laurea in psicologia: scegliere la scuola di specializzazione in psicoterapia

Il viaggio formativo del giovane psicologo, non finisce con la laurea, anzi forse incomincia veramente dopo. Quando ho finito il mio percorso universitario, avevo abbastanza chiaro in mente che tipo di professionista mi sarebbe piaciuto diventare, quali erano le mie risorse e quali invece le cose su cui dover lavorare, ma tanti erano anche i pregiudizi su molte scuole di specializzazione e i dubbi sulla mia professione primo tra i quali: “Cosa differenzia veramente un professionista da un amico sufficientemente saggio ed empatico?” e ancora :“Oltre all’inquadramento diagnostico COME si costruisce e si attua un percorso terapeutico?”.

Se è vero, come ripetono in tanti, che l’approccio psicoterapeutico che scegliamo è come “un vestito che ci si deve sentire addosso”, il quesito è: come scegliere quel vestito? Questo giustamente nessuno te lo dice, è una cosa che devi scoprire e sentire da solo. E allora leggi, ti informi, ascolti dei consigli, frequenti gli Open Day delle scuole di specializzazione in psicoterapia e speri di fare la scelta giusta per te. Così è successo a me. Ho scelto una scuola, ho fatto il primo anno e l’esame e, nel frattempo, ho preso la difficile decisione, insieme ad altri colleghi, di andare via da una scuola di specializzazione che non rispecchiava l’offerta formativa che ci aspettavamo. Sentivo l’esigenza di trovare infatti una scuola che mi desse uno stabile assetto teorico, che fornisse scientificità e metodo alla mia professione e che utilizzasse la relazione terapeutica, non solo come cornice ma anche come strumento di cura.

 

Frequentare i corsi per un weekend, per scegliere la scuola di specializzazione in psicoterapia

Così è iniziata la mia avventura alla Scuola Cognitiva di Firenze. Quello che per me è stato fondamentale, inizialmente, per intraprendere la nuova scelta, è stata l’accoglienza autentica che ho trovato nel mio colloquio di ammissione con una didatta e soprattutto la possibilità di poter frequentare un intero week end di lezione tra gli studenti, quelli che hanno poi hanno formato la mia classe. Questo è quello che consiglio a tutti: non fermatevi con gli Open Day delle scuole di specializzazione, chiedete agli studenti che già frequentano ed esplorate con mano l’offerta formativa che vi viene proposta.

Una cosa che posso sottolineare con entusiasmo è che ci è stato fornito prima di tutto uno strumento e un metodo di lavoro, fondato su un buon inquadramento diagnostico, fine formulazione e condivisione di un modello di funzionamento del paziente, indispensabile per la creazione di un progetto terapeutico che sia individualizzato e specifico per il paziente stesso. Tutto questo è stato favorito da un’organizzazione della formazione teorica chiara e ben divisa per anni e argomenti che ha visto, ordinatamente illustrati, la clinica e il trattamento dell’Asse I e dei relativi protocolli, dell’Asse II, fino all’area traumatica e della dissociazione.

L’apprendimento di noi studenti è stato inoltre implementato, dall’alternanza tra parti teoriche di lezione frontale e parti pratiche all’interno di ogni giornata di scuola. Ricordo ancora l’evitamento iniziale di ognuno di noi quando i docenti chiedevano chi si volesse offrire nel simulare il terapeuta che si è poi ben presto trasformato nella consapevolezza dell’importanza di questi momenti. Tali esercitazioni di psicoterapia, sono state infatti indispensabili, non solo per applicare una tecnica, ma soprattutto per imparare a fare restituzioni al paziente in un modo per lui comprensibile, per imparare a gestire i tempi della seduta e ancora di più, per modulare i propri stati interni nel colloquio, capacità che solo le esercitazioni pratiche o l’esperienza ti permettono di implementare. Quello che ci è stato offerto, inoltre, è stato un assetto teorico sempre aggiornato, con la possibilità di frequentare Workshop o piccoli moduli specifici per determinati argomenti o per i vari trattamenti per i Disturbi di Personalità, che appartengono al panorama cognitivo di Terza Ondata.

Una delle cose che ho apprezzato maggiormente è stato il clima di accoglienza apertura e dialogo che si respirava tra studenti e didatti della scuola di psicoterapia e il superamento delle vecchie divisioni ideologiche tra psicologi e psichiatri, che ha visto la creazione di un linguaggio condiviso e di un lavoro di rete con tanti professionisti e tra tanti alunni all’interno della scuola. E’ stato inoltre importante per noi studenti che la Scuola fosse prima di tutto anche un Centro di Psicologia Clinica e di Psicoterapia, attivo sia nella ricerca che nell’attività clinica, caratteristica questa che permette di valorizzare i propri studenti e venire incontro alle loro esigenze di formazione pratica.

 

Il programma di psicoterapia solidale e la formazione in psicoterapia

Negli anni, è stata infatti attivata la possibilità di offrire agli studenti a partire dal terzo anno, almeno un paziente da prendere in cura a tutti gli effetti, che partecipava al programma di Psicoterapia Solidale (psicoterapia a tariffa agevolata), sotto la supervisione di gruppo settimanale dei didatti esperti della scuola e gratuita per gli psicoterapeuti in formazione, oltre quella offerta durante le lezioni. Questa, a tutti gli effetti è stata un’esperienza incredibile di apprendimento e formazione, parallela al percorso di studio per ognuno di noi.

Quello che più ricorderò di questa mia formazione è la mia classe, il crescere con loro, partecipare ai gruppi di ricerca, collaborare e presentare i lavori creati da noi, ma soprattutto vederci diventare colleghi e poi amici, favorendo così anche un ottimo lavoro di rete. E’ grazie alla costruzione di un gruppo classe supportivo, accogliente e validante, favorito prima di tutto dai didatti e dal codidatta che hanno sempre stimolato la cooperazione e mai la competizione, che si è potuto creare quel clima di sicurezza e fiducia, che ha permesso inoltre, di lavorare anche sui nostri temi dolorosi, con profondo rispetto per i tempi di ognuno. Quanto sottolineato ci ha fatto crescere negli anni come psicoterapeuti e individui con più consapevolezza e ha costituito la parte più importante di questo mio percorso. In tutto questo, è importante dire che non è la Scuola che fa il terapeuta. Ogni scuola ha i suoi meriti e difetti, sta allo psicologo in formazione, realizzare con consapevolezza, perseveranza, amore e personalità il progetto di diventare uno psicoterapeuta sufficientemente aggiornato, preparato e un professionista autentico. Quindi, auguro a tutti gli studenti come me, di trovare il loro “vestito”  e un buon gruppo di lavoro e soprattutto di completare il proprio percorso con l’ entusiasmo e la voglia di continuare a imparare  a fare in nostro complesso ma appassionante lavoro .

 

Daniela Biagini

Psicologa, Specializzanda IV Anno Scuola Cognitiva di Firenze

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Scuola Cognitiva di Firenze - Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

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