Iron Man ha l’Audi TT che a me ingiustamente manca – Racconto
“Cosa c’è al livello successivo di Super Mario?”, mi chiedo spesso. “Il mostro”, mi rispondo. Il mostro che io voglio raggiungere e sconfiggere. È il mio destino, in un certo senso. Un destino che però non scelgo mai.
Un racconto ispirato dal libro “L’illusione del Narcisista” di Giancarlo Dimaggio
Succede sempre così, non sono io a decidere il videogioco da mettere nella Playstation. Qualcuno lo inserisce per me. Mi dicono: ehi, puoi farlo, sei bravo, abbiamo bisogno del tuo talento. E io inizio a giocare. Solo per sfida. Livello dopo livello. Ogni lavoro l’ho trovato così. Voglio dire: non l’ho trovato io, sono stato cercato.
Mentre entro in ufficio un ragazzino mi ferma: “Ehi, rassomigli a Tony Stark”. Gli credo. Iron Man è il mio modello. Mi sento di buon umore, corazzato, invincibile. Dovrei ordinare un Audi TT per completare il quadro. Mi irrita molto non avere disponibilità di liquidi al momento.
Ho speso troppo per Ludmilla, mi dico. Ma ne vale la pena. Mia moglie si chiede dove finiscano i soldi che guadagno con la catena di ristoranti di cui sono socio. Mi tocca imbastirle delle scuse, le sciorino conti che lei non capisce e, anche se il sospetto non le passa, le tolgo gli argomenti.
Ludmilla ha occhi azzurri, una bellezza eterea, mezzo sangue ucraino, intuisce tutto quello che desidero. Mi preoccupa la sua sensibilità, a volte è così fragile: indulge nell’aperitivo alle cinque del pomeriggio. Lo prendo anch’io, ma io lo controllo. Le ho detto che rischia di diventare alcolista, credo abbia capito. Rimproverandola, mi prendo cura di lei.
Guardo l’acquario che ho fatto installare da poco, mi dà pace e mi distrae dagli imbecilli a cui sorrido e con cui tutti i giorni mi tocca lavorare, un lavoro che faccio perché il socio di maggioranza mi ha detto: vieni con me, tu puoi farlo. La solita storia: mi ha lusingato, ho accettato. Vengo sempre scelto così e accetto. Perché sentire che mi ammirano è l’unico motore di vita che mi tira avanti.
Ultimamente il socio di maggioranza è scontento di me, dice che non mi impegno. Moralista che non è altro. Come se avessi bisogno di impegnarmi, come se non bastasse il mignolo della mia mano sinistra per fare un lavoro migliore di tutto il resto del team messo insieme. E forse è quello che lo porta a criticarmi, sbagliando naturalmente. L’invidia che inevitabilmente ronza intorno a me.
Mi ha chiesto di trattare con i cinesi per aprire delle sedi da quelle parti, una sorta di ultima chance. A me non piacciono i cinesi, ci invadono e non capisco che significano le loro espressioni facciali. Un sorriso è un sorriso o una minaccia di taglio di una mano? La fanno facile quelli che si fanno eleggere con i muri anti-immigrati. Costruitelo voi un muro anti-cinesi. Dove lo mettere? A parte che la muraglia se l’erano costruita già da soli. E per un be po’ ha funzionato. Ora fa acqua da tutte le parti a quanto pare. Ci stanno comprando tutti e noi gli vendiamo le cose senza neanche capire che significa quello che hanno scritto in faccia. Iron Man li combatte, a me tocca farci affari. Forse ho trovato il senso del mio lavoro: il mostro sono i cinesi. Li devo battere. Super-Mario contro Zung-Mung-Li.
Ho pronte condizioni vantaggiose. Entro in sala riunioni. Non vedo cinesi. Ci sono Ludmilla e mia moglie. Farei per presentarle, ma già si conoscono. Non dovevo fidarmi di Ludmilla. Pare si sia risentita quando le ho dato dell’alcolista. Un bastardo narcisista sprezzante mi ha detto che sono, e che era il caso che mia moglie lo sapesse.
Il bilancio della giornata: riunione saltata, cinesi a casa, e io non vedo ora con quali soldi potrei comprare la mia Audi TT, quel gioiello che, in tutta franchezza, mi spetterebbe per diritto. Sono irritato.
Perché iniziare una psicoterapia: superare i disturbi psicologici si può, l’esempio del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre
Circa una persona su cinque, nel corso della vita, ha soddisfatto i criteri diagnostici per almeno uno dei disturbi psicologici più conosciuti. Per questo l’obiettivo del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre è garantire adeguati percorsi psicoterapici a chi, in un particolare momento della propria vita, può andare incontro a disturbi psicologici, quali ansia e depressione.
Disturbi psicologici più frequenti: ansia e depressione
I disturbi psicologici maggiormente diffusi nella nostra società riguardano la dimensione ansioso-depressiva.
In Italia il primo studio epidemiologico sulla prevalenza dei disturbi mentali nell’ambito del progetto europeo European Study on the Epidemiology of Mental Disorders (ESEMeD) ha confermato che i disturbi mentali sono frequenti anche in Italia, al pari di quanto le ricerche internazionali condotte in questi anni hanno messo in luce: circa una persona su cinque ha soddisfatto i criteri diagnostici per almeno un disturbo mentale nel corso della vita. In maniera più specifica, la depressione maggiore, le fobie specifiche e la distimia sono risultati i disturbi psicologici più comuni, con percentuali di prevalenza nel corso della vita rispettivamente pari al 10,1%, al 5,7% ed al 3,4%, seguiti dal disturbo da stress post traumatico, dalla fobia sociale e dal disturbo d’ansia generalizzata (riscontrati nel 2% circa dei soggetti intervistati).
L’indagine Istat 2014 ha mostrato un trend di peggioramento dello “stato di salute psicologica” degli italiani. Una conferma di quanto l’Istituto Superiore di Sanità aveva già evidenziato riscontrando un disturbo depressivo nel 7% della popolazione, con prevalenza tra giovani e donne. Le stime indicano che otto milioni di italiani soffrono di stati d’ansia, quattro di depressione, altri quattro hanno problemi di insonnia e oltre un milione soffre di disturbo post- traumatico da stress: in tutto, sono 17 milioni gli italiani che soffrono di un chiaro disagio psicologico. Ed una quota di questi sono bambini, ragazzi e giovani.
La Depressione : come si manifesta
Può capitare una giornata storta, in cui siamo giù di corda, tristi, più irritabili del solito e “ci sentiamo un po’ depressi”. Molto probabilmente non si tratta di un disturbo depressivo, ma di un calo d’umore passeggero.
La depressione clinica invece è un disturbo dell’umore e presenta sintomi frequenti e intensi stati di insoddisfazione e tristezza e si perde il piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di depressione vivono in una condizione di frequente umore negativo, con pensieri negativi e pessimisti circa sé stessi e il proprio futuro.
La depressione si manifesta con diversi livelli di gravità e attraverso sintomi di tipo fisico, emotivo, comportamentale e cognitivo.
I sintomi fisici più comuni sono la perdita di energie, il senso di fatica, i disturbi della concentrazione e della memoria, l’agitazione motoria ed il nervosismo, la perdita o l’aumento di peso, i disturbi del sonno, la mancanza di desiderio sessuale, i dolori fisici, il senso di nausea, l’eccessiva sudorazione, il senso di stordimento, l’accelerazione del battito cardiaco e le vampate di calore o i brividi di freddo.
Le emozioni tipiche provate da chi è depresso sono la tristezza, l’angoscia, la disperazione, il senso di colpa, il vuoto, la mancanza di speranza nel futuro, la perdita di interesse per qualsiasi attività, l’irritabilità e l’ansia.
Da ciò derivano i principali sintomi comportamentali, come la riduzione delle attività quotidiane, la difficoltà nel prendere decisioni e nel risolvere i problemi, l’evitamento delle persone e l’isolamento sociale, i comportamenti passivi, la riduzione dell’attività sessuale e i tentativi di suicidio.
I Disturbi d’ansia
L’ansia, è uno stato fisiologico e psicologico caratterizzato da componenti cognitive, somatiche, emotive e comportamentali. L’ansia, sorella più evoluta rispetto alla paura e squisitamente umana, segnala una minaccia meno evidente, il disagio è più prolungato, è meno intensa della paura e sia l’esordio che la fine sono meno netti.
I disturbi d’ansia sono differenti l’uno dall’altro per la tipologia di oggetti o di situazioni che provocano paura, ansia oppure comportamenti di evitamento, e per l’ideazione cognitiva associata. Differiscono dalla normale paura o ansia evolutive perché sono eccessivi o persistenti rispetto allo stadio di sviluppo. Le persone che soffrono di disturbi d’ansia sopravalutano il pericolo nelle situazioni che temono o evitano.
Ansia e depressione: le cause
Secondo le teorie cognitive esiste una connessione fra disturbi psicologici e disturbi del pensiero. In particolare l’ansia e la depressione sono caratterizzate da pensieri automatici negativi e distorsioni di interpretazione della realtà. Si ritiene che le interpretazioni o i pensieri negativi derivino dall’attivazione di convinzioni negative immagazzinate nella memoria a lungo termine.
Le convinzioni sono costrutti di base riguardanti sé e il mondo che hanno carattere assoluto e generale (per es. “sono fragile” “il mondo è un posto pericoloso”) e che vengono considerate come vere.
In memoria conserviamo anche gli assunti che sono la rappresentazione delle relazioni specifiche fra eventi e valutazioni riferite a sé (per es. “se ho dei sintomi fisici inspiegabili, devo essere gravemente malato”).
Il contenuto degli schemi mentali disfunzionali dipende in modo specifico dal tipo di disturbo psicologico. Gli schemi dell’ansia consistono in convinzioni e assunti relativi al pericolo (Beck, Emery e Greenberg, 1985) e all’incapacità di fronteggiare una situazione.
Nella depressione invece gli schemi sono incentrati sui temi della triade cognitiva negativa (Beck,1976) ossia quel sistema di convinzioni negative su noi stessi, sul mondo e sul nostro futuro che si costituiscono sin dall’infanzia. Gli schemi disfunzionali introducono delle distorsioni nell’elaborazione e nell’interpretazione delle informazioni che riceviamo dall’ambiente, sottoforma di pensieri automatici negativi all’interno del flusso di coscienza.
Più la nostra tendenza a leggere le avversità in questa prospettiva è stabile e rigida, più siamo vulnerabili a fare esperienza di episodi depressivi. Questa tendenza delle persone, secondo la teoria metacognitiva, dipende da una eccessiva e incontrollabile ripetizione astratta di pensieri negativi in qualche modo collegati all’evento/problema, chiamata ruminazione.
Il pensiero negativo reiterato è una caratteristica della maggioranza dei tipi di dinfunzione psicologica. La depressione è associata prevalentemente alla attività di ruminazione e l’ansia è associata alla preoccupazione. Questi due generi di pensiero sono simili per diversi aspetti ma possono anche essere distinti (Papageorgiou e Wells, 1999).
La preoccupazione è un aspetto che contraddistingue in modo particolare il DAG (disturbo d’ansia generalizzato). Secondo gli studi sulla preoccupazione, questa può essere considerata un modo sistematico per affrontare le difficoltà (Wells, 1995) ma può anche svolgere una funzione di evitamento cognitivo e le persone con disturbo DAG (disturbo d’ansia generalizzato) se ne servono per distrarsi da immagini più angoscianti.
Interventi efficaci: la Terapia Cognitivo-Comportamentale
I disturbi psicologici vengono diagnosticati e trattati in media solo nel 30% dei casi e quando trattati ricevono spesso una cura non sempre appropriata fatta solo di farmaci (sempre di più anche nei bambini o adolescenti) e somministrati per lunghi periodi (con evidenti effetti collaterali). Il consumo di antidepressivi ed ansiolitici, secondo i dati dell’Agenzia Italiana del farmaco, è notevolmente aumentato in Italia negli ultimi dieci anni.
Tale situazione deriva da un crescente (e costoso) “gap” tra le evidenze scientifiche e cliniche e l’organizzazione sanitaria. Infatti oggi disponiamo di dati sufficienti per affermare l’efficacia ed i vantaggi economici della psicoterapia.
Solo il 60% di chi riferisce sintomi depressivi ricorre all’aiuto di qualcuno, rivolgendosi soprattutto a medici/operatori sanitari.
La diffusione dei disturbi psicologici e la psicoterapia cognitiva in Veneto e Friuli Venezia Giulia
In particolare in Veneto il 5.6% degli intervistati segnala sintomi di depressione, solo il 63.2% richiede aiuto, non molta diversa la situazione in Friuli Venezia Giulia il 6.8% del campione che segnala sintomi di depressione, chiede aiuto solo il 53.6% (Secondo PASSI sistema di sorveglianza del Ministero della Salute della popolazione adulta).
Quando ansia e depressione hanno delle ripercussioni sulla vita di tutti i giorni, l’attività scolastica o lavorativa è compromessa e prevale la tendenza al ritiro sociale, col passare del tempo vengono compromesse le relazioni con partner, figli, amici e colleghi, ed è importante quanto prima un intervento clinico che possa aiutarci a uscire dal problema e prevenire le ricadute.
Il centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre
Alla luce di questo quadro epidemiologico, risulta chiaro l’obiettivo del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre: garantire adeguati percorsi psicoterapici a chi, in un particolare momento della propria vita, può andare incontro a disturbi psicologici, quali ansia e depressione. Punto di forza del Centro di Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale di Mestre, è l’ecletticità degli interventi cognitivo-comportamentali offerti, pensati per garantire l’efficace trattamento di ogni disturbo psicologico. Alcune tra le tecniche cognitivo-comportamentali utilizzate, oltre alla CBT Standard: Acceptance and Commitment Therapy (ACT), EMDR (tecnica d’elezione nel trattamento del Disturbo da stress post-traumatico), Terapia Metacognitva Interpersonale, Terapia Dialettico Comportamentale (DBT).
Si sottolinea l’importanza delle strategie psicologiche di intervento precoce (nelle cure primarie) che risultano efficaci e vantaggiose: brevi interventi (due-quattro incontri) in situazioni di depressione insorgente risultano nel 21% efficaci sui sintomi e nel 59% dei casi efficaci anche sui costi (per i costi successivi che evitano): quindi utili per otto persone su dieci ed anche vantaggiose per sei su dieci (Smith, 1980).
La psicoterapia di tipo cognitivo-comportamentale rappresenta la soluzione più efficace per affrontare e superare il disturbo depressivo maggiore, in modo definitivo (NICE, 2011).
Attraverso il colloquio psicoterapeutico cognitivo la persona è incoraggiata ad apprendere tre abilità principali (Ruggero, Sassaroli 2013):
Saper riconoscere il legame tra sofferenza emotiva ed elaborazione cognitiva consapevole ed esplicita, ossia ciò che provo e penso posso esprimerlo verbalmente;
Saper mettere in discussione la validità di questi pensieri, il loro valore di verità e di utilità;
Saper costruire nuovi pensieri più veri, e soprattutto più utili, che andranno a sostituire quelli vecchi, nelle situazioni quotidiane e quindi genereranno emozioni e comportamenti differenti.
Quindi nuovi pensieri, nuove esperienze emozionali, nuove azioni utili per affrontare meglio le difficoltà e generare una migliore qualità di vita.
La Terapia Cognitivo Comportamentale per l’ansia mira a eliminare i timori esagerati e i comportamenti di controllo ed evitamento che mantengono i Disturbi d’Ansia (Beck, 1976; Wells, 1997), nel tentativo di riacquisire un senso di sicurezza e di confidenza nelle attività della vita quotidiana.
Nella recente review di Caselli e collaboratori (Caselli et al., 2016) sull’efficacia della Terapia Cognitivo Comportamentale nei disturbi d’ansia, per esempio per il Disturbo di Panico la Terapia ha mostrato la sua efficacia con miglioramenti nel 78% dei casi (Öst, 2008), con indici elevati di stabilità nel tempo (Norton e Price, 2007).
Laura Prosdocimo
Referente del Centro di Psicologia Clinica e Psicoterapia di Mestre (VE)
L’uso di Photovoice nel Disturbo da Stress Post-Traumatico
Photovoice: la terapia basata sull’utilizzo di fotografie come nuovo approccio per i sopravvissuti a stupro e violenza sessuale.
Secondo i dati ISTAT nel 2015, circa il 35% delle donne nel mondo, 6 milioni e 788 mila solo in Italia, ha subito una qualche forma di violenza fisica o sessuale da parte del proprio partner o di un’altra persona e il 12% di loro non ha avuto la forza di denunciare tale violenza.
Da una serie di ricerche emerge anche che più di un terzo delle donne sopravvissute ad una violenza sessuale sviluppa in seguito sintomi riconducibili al Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD), ma che non tutte risultano essere responsive ai tradizionali trattamenti per questo disturbo, con la conseguente ricomparsa di sintomi invalidanti nel corso del tempo.
Photovoice e PTSD
Recentemente, Rolbiecki, ricercatrice presso la scuola di medicina dell’Università del Missouri, e collaboratori (2016) hanno evidenziato come affiancare ai classici interventi per il trattamento del PTSD l’utilizzo del Photovoice, una tecnica terapeutica di derivazione comunitaria in cui i partecipanti sono invitati ad esprimere i propri pensieri ed emozioni attraverso fotografie ed immagini, possa portare ad una migliore guarigione dal disturbo, con remissione di sintomi persistente nel tempo.
Cos’è il Photovoice?
Il Photovoice è una tecnica sviluppata da una ricercatrice statunitense negli anni ’90 (Wang, 1999) con lo scopo, tramite l’utilizzo di fotografie, di permettere alle persone di identificare e riflettere sui punti di forza e sulle problematiche della propria comunità di appartenenza, di favorire lo scambio di opinioni attraverso la creazione di gruppi di discussione e di favorire così anche il miglioramento della stessa comunità.
Il Photovoice offre così alle popolazioni più svantaggiate e vulnerabili la possibilità di esprimere se stesse attraverso modalità alternative, permettendo potenzialmente anche ai sopravvissuti ad esperienze traumatiche di comunicare i propri pensieri e sentimenti. In altre parole, attraverso una combinazione di fotografia e discussioni di gruppo, Photovoice consente di attivare i membri della comunità, accompagnandoli nell’identificazione dei propri punti di vista, per poi utilizzarli come leve per promuovere il cambiamento sociale. La foto diviene così la voce attraverso cui le persone possono esprimersi e grazie alla quale possono divenire più consapevoli della situazione in cui sono immersi, andando anche ad identificare i fattori che concorrono alla determinazione della stessa.
All’interno dello studio di Rolbiecki e collaboratori, invece, Photovoice è stato utilizzato, più che come catalizzatore di processi di cambiamento sociale, come una vera e propria tecnica terapeutica. I partecipanti venivano invitati a raccogliere foto che raffigurassero le proprie debolezze, i propri punti di forza, i triggers, o stimoli attivanti (che portano alla riattualizzazione della sintomatologia PTSD), e i processi intrapresi per guarire e per ottenere giustizia. In questo modo ai partecipanti veniva data la possibilità di esporsi per gradi e in modo meno dirompente ai propri stimoli attivanti, riuscendo così anche a discutere e mettere in discussione i propri pensieri e sentimenti circa l’esperienza traumatica all’interno di un setting sicuro e supportivo.
Effetti del Photovoice nel trattamento del PTSD
Secondo i ricercatori, proprio grazie all’uso di Photovoice, sarebbe quindi possibile incrementare l’efficacia dei tradizionali trattamenti per il PTSD. Questi ultimi infatti sembrerebbero essere prevalentemente focalizzati sull’aspetto della gestione dell’ansia nei confronti degli stimoli attivanti, offrendo però poco supporto per quanto riguarda la gestione dei sentimenti di impotenza frequentemente percepiti dalle vittime. Sarebbe al contrario auspicabile aiutare queste ultime nella ri-attribuzione di questi stessi sentimenti all’esperienza traumatica, più che ad una incapacità a livello personale, in modo da incoraggiarle anche a riscrivere la propria storia e a significare correttamente quanto vissuto e ciò che ne è conseguito, abbandonando l’etichetta di vittima inerme. Proprio in questo senso, infatti, le terapie tradizionali non risultano essere focalizzate in modo specifico sulla promozione di una ripresa ed una crescita in seguito al trauma, in un’ottica di empowerment delle vittime sopravvissute.
Photovoice e violenza sessuale: lo studio di Rolbiecki
Lo studio di Rolbiecki et al. (2016), più nello specifico, ha coinvolto 9 donne che nel corso della propria vita hanno subito un qualche tipo di violenza sessuale, riportando poi una sintomatologia ascrivibile al PTSD. Ad ogni donna gli sperimentatori hanno fornito una fotocamera, con l’indicazione di scattare foto che raffigurassero l’essenza della violenza subita, così come l’avevano esperita, e il successivo percorso di recupero. Era stato inoltre previsto un incontro settimanale durante il quale le donne potessero incontrarsi per discutere di quanto emerso dalle foto.
Alla fine degli incontri di gruppo, poi, le partecipanti hanno potuto partecipare all’allestimento di una mostra fotografica, con lo scopo di sensibilizzare e informare la comunità circa la realtà della violenza sessuale, delle politiche vigenti al riguardo e delle conseguenze traumatiche da essa derivanti. Infine, dopo la mostra le partecipanti sono state ulteriormente intervistate per poter discutere in modo più approfondito della loro esperienza con la tecnica del Photovoice come intervento terapeutico.
Per quanto riguarda i risultati, alla fine del progetto è emersa da un lato una considerevole riduzione dei sintomi PTSD e di auto-colpevolizzazione, e dall’altro un aumento a livello degli indici di crescita post-traumatica, in particolar modo per quanto riguarda la percezione di sé come coraggiosa e forte.
Conclusioni
In conclusione, Photovoice, andando in una direzione contraria rispetto alla tendenza ad etichettare come vittima inerme chi sopravvive ad una violenza sessuale, permette alle persone di ridefinire se stesse come padrone della propria vita, andando oltre la vittimizzazione. Attraverso l’uso di questo strumento è infatti possibile condividere la propria storia mantenendo il controllo di come viene narrata e dando così la possibilità di ricostruire la storia di quanto accaduto, in modo che questo possa infondere forza e permettere di andare avanti più forti di prima. Proprio in questo senso si può affermare che Photovoice abbia implicazioni a livello terapeutico, soprattutto per quanto riguarda il trattamento di eventi traumatici attraverso la creazione e la discussione critica di narrazioni costruite con supporto fotografico.
In modo analogo all’EMDR, questo approccio potrebbe risultare in particolar modo efficace con quei pazienti con difficoltà nella verbalizzazione dell’evento traumatico vissuto. Infatti, l’utilizzo di tecniche non basate su interventi verbali, che possono quindi fornire al paziente un maggior controllo verso le esperienze di esposizione, permetterebbe un aiuto in modo più efficace ed incisivo a livello della regolazione e della gestione delle emozioni intense che potrebbero scaturire durante la fase di elaborazione dell’esperienza vissuta.
Il ruolo dell’ Emotività Espressa nell’esordio delle psicosi
Esiste un ampio consenso scientifico sul ruolo dell’alta Emotività Espressa (familiare e non) nel predire le recidive in pazienti psicotici (oltre a svariate altre patologie). Ma per quanto concerne l’ipotesi di un ruolo nell’innesco di un disturbo psicotico il discorso si fa più complesso.
Marina Lustrati – OPEN SCHOOL Scuola Cognitiva Firenze
La temperatura emotiva della famiglia: l’ Emotività Espressa
La ricerca psichiatrica sulla famiglia nasce intorno agli studi sulla Schizofrenia, una tra le più gravi patologie mentali. L’ambiente familiare è il primo luogo di espressione dei sintomi del paziente. La famiglia si trova di conseguenza a scontrarsi con tutta una serie di comportamenti disturbati del proprio congiunto, tanto diversi rispetto a quelli passati. Il rischio diviene allora la critica verso questi comportamenti, oppure, all’opposto, la negazione del disturbo (con il conseguente ritardo nella ricerca di un aiuto specialistico) o ancora un atteggiamento iperprotettivo. Ebbene sono proprio queste le dimensioni che definiscono il concetto di Emotività Espressa(EE).
Secondo Christine Vaughn (1988), una delle prime autrici che si è occupata di questo costrutto, l’ Emotività Espressa rappresenta la “temperatura emotiva” della famiglia. Sarebbe quindi l’indicatore dell’intensità emotiva familiare, rivelatore di mancanza di affetto o di interessamento eccessivamente invadente.
Schematizzando, l’ Emotività Espressa familiare è rappresentata quindi dalle dimensioni di:
Critica
Ostilità
Ipercoinvolgimento emotivo
che rappresentano delle scale, cosiddette, di rischio, accanto alle quali troviamo contrapposte le seguenti scale di protezione:
Calore affettivo
Commenti positivi
Qualsiasi trattazione sul concetto di Emotività Espressa non può prescindere né dalla malattia schizofrenica né dalle recidive; infatti è utile evidenziare che questo concetto è stato coniato a partire dai primi studi compiuti a Londra da George W. Brown e colleghi (1958) proprio per indicare quel particolare stile interazionale familiare che aveva mostrato una correlazione piuttosto forte con le recidive di pazienti psicotici.
Ebbene questa predittività è confermata ancora oggi e sostenuta da un’ampia letteratura in merito (Brown, Birley & Wing, 1972; Vaughn & Leff, 1976; Leff, Kuipers, Berkowitz, Erbelein-Vries & Sturgeon, 1982; Brown, 1985; Vaughn, 1986; Kuipers & Bebbington, 1988; Cazzullo, Bertrando, Bressi, Clerici & Maffei, 1989; Miklowitz et al., 1989; Barrelet, Ferrero, Szigethy, Giddey & Pellizzer, 1990; Bertrando et al., 1992; Bebbington & Kuipers, 1994, analisi aggregata; Hooley, Rosen & Richters, 1995; Heikkila et al., 2002; Pourmand, Kavanagh & Vaughan, 2005; Brent & Giuliano, 2007; Lim, Chong & Keefe, 2009, review).
Alcuni autori hanno allargato gli studi ad altre patologie, confermando il medesimo ruolo predittivo dell’alta Emotività Espressa sulle recidive di pazienti: depressi (Hooley, 1986); Bipolari (Miklowitz, Goldstein, Nuechterlein, Snyder & Doane, 1986; Miklowitz, Biuckians & Richards, 2006); con Disturbi Alimentari (Fischmann-Havstad & Marston, 1984; Szmuckler, Eisler, Russel & Dare, 1985; Sepulveda, 2009) e con patologie organiche (Koenigsberg, 1995; Invernizzi et al., 1991). E’ stata verificata l’influenza di un’alta Emotività Espressa anche rispetto a quanto manifestato dai coniugi dei pazienti (Hooley, Rosen & Richters, 1995) e addirittura dagli operatori dello staff ospedaliero (Berry, Barrowclough & Haddock, 2011, review di 27 studi dal 1990 al 2008). Inoltre l’ Emotività Espressa viene ormai ritenuto un valido predittore cross-culturale (Moline, Singh, Morris & Meltzer, 1985; Marom, Munitz, Jones, Weizman & Hermesh, 2002; Healey, Tan & Chong, 2006; Chien & Chan, 2010).
Riassumendo esiste un ampio consenso scientifico sul ruolo dell’alta Emotività Espressa (familiare e non) nel predire le recidive in pazienti psicotici (oltre a svariate altre patologie). Ma per quanto concerne l’ipotesi di un ruolo nell’innesco di un disturbo psicotico il discorso si fa più complesso. Ed è proprio questo che abbiamo cercato di fare nel presente studio.
Emotività Espressa ed esordio del disturbo psicotico: cosa dicono gli studi
Per quel che riguarda la letteratura non ci sono accordi univoci in tal senso, tuttavia possiamo scorgere alcuni importanti risultati che convergono verso tale assunto.
La prima ricerca in merito è rappresentata da uno studio prospettico effettuato da Goldstein (1985), su soggetti a rischio e sulle caratteristiche delle loro famiglie. Ebbene questo studio rivela come un’alta Emotività Espressa familiare e i relativi modelli devianti di comunicazione siano associati all’esordio di patologie psicotiche nei soggetti a rischio e nei fratelli di questi soggetti. Un dato ancor più degno di nota è rappresentato dalla costatazione che una tale “temperatura emotiva” sarebbe precedente l’insorgenza della psicosi e quindi non una reazione a comportamenti già disturbati dei soggetti. A tale risultato sono approdati anche Heikkila e colleghi (2002), i quali hanno indicato che l’alta Emotività Espressa non risulta essere associata né con la gravità dei sintomi dei pazienti, né con le caratteristiche premorbose, scartando così la possibilità che possa essere considerata una mera conseguenza.
Un altro studio che merita sicuramente menzione è quello di Tienari e colleghi (2004). Mediante un follow-up a lungo termine sono stati analizzati soggetti adottati (che differivano tra loro in base al fatto che alcuni erano figli naturali di madre schizofrenica) e le loro famiglie adottive. I risultati cui sono pervenuti, portano gli autori a concludere che l’alta Emotività Espressa delle famiglie adottive, riesce a predire l’esordio di schizofrenia nei pazienti ad alto rischio genetico. Ecco un chiaro esempio di come i fattori di vulnerabilità e stress possano agire in concomitanza verso lo sviluppo della malattia, in questo caso quella psicotica.
Il ruolo dell’ Emotività Espressa nel suo senso contrario, ovvero nel senso protettivo, è stato verificato in adolescenti a “imminente rischio” di psicosi (O’Brien et al., 2006). Gli autori hanno infatti evidenziato un evidente miglioramento dei sintomi e del funzionamento sociale nei figli di genitori precedentemente valutati ad alto calore affettivo e con uno stile comunicativo rappresentato da alti livelli di commenti positivi.
Gli studi sopra menzionati, insieme a molti altri compiuti tra il 1966 e il 2007, sono stati oggetto di ricerca di una recente review (Lim, Chong & Keefe, 2009). Gli autori di questo lavoro, oltre a confermare la predittività sulle recidive, definiscono, per la prima volta, l’ Emotività Espressa come trigger, mettendo in luce la possibilità che possa innescare l’esordio psicotico.
Emotività Espressa ed esordio delle psicosi: lo studio dell’Unità di Ricerca Life Events
Lo studio che andrò a descrivere, riporta i risultati inerenti il concetto di Emotività Espressa nell’esordio delle Psicosi. Questo studio, riguarda una parte del lavoro svolto dall’Unità di Ricerca Life Events, coordinata dal Professor Carlo Faravelli, all’interno del progetto PIANO, che rappresenta solo uno dei filoni di ricerca rappresentato nel Programma Strategico a rilevanza nazionale GET-UP (Genetics Endophenotypes and Treatment: Understanding early Psychosis).
L’obiettivo dello studio era rappresentato dalla verifica del ruolo dell’ Emotività Espressa come predittore delle Psicosi. Per quanto concerne i partecipanti, sono stati analizzati 348 soggetti all’esordio psicotico e 200 soggetti di controllo corrispondenti per età e per sesso (vedi tabella 1 e 2). Lo strumento utilizzato è stato il questionario autosomministrato Level of Expressed Emotion Scale (LEE) (Cole & Kazarian, 1988; validazione italiana (Di Paola, Faravelli & Ricca, 2008).
Tabella 1
Tabella 2
Ebbene, analizzando i dati derivanti dai questionari e utilizzando come cut-off il valore della Mediana del campione di controllo, si rivela che 337 pazienti su 348 (pari al 96.8%) vivono in un ambiente ad Alta Emotività Espressa, indicando che il livello totale di Emotività Espressa nelle relazioni fondamentali dei soggetti psicotici è notevolmente più alto rispetto a quanto evidenziato nei soggetti di controllo (vedi Figura 1), con una differenza statisticamente significativa (vedi Tabella 3). Quest’andamento è inoltre mantenuto per ogni singola sottoscala (scale critiche) esaminata dalla LEE.
Figura 1
Tabella 3
Risulta importante compiere qualche precisazione in merito allo strumento utilizzato. Si potrebbe infatti criticare l’utilizzo di un questionario autosomministrato da parte di soggetti psicotici, considerando la possibilità di una divergenza tra l’ Emotività Espressa espressa dai familiari e la percezione di tale “clima familiare” da parte dei pazienti. Anzitutto è bene evidenziare che i familiari sono in grado di valutare il proprio comportamento negativo nei confronti del paziente; infatti la valutazione su se stessi, è sovrapponibile con il livello di Emotività Espressa misurato su di loro tramite altre misurazioni (Friedman e Goldstein, 1993, 1994). Ma i pazienti, come percepiscono i comportamenti dei loro familiari? Dopotutto quando parliamo di pazienti psicotici, dobbiamo necessariamente prendere in considerazione una distorsione dell’esame di realtà. Ebbene, è stato dimostrato invece che la percezione dei pazienti sui comportamenti espressi dalla famiglia, mostra più analogie che discordanze rispetto a quanto manifestato dai familiari. I pazienti, infatti, distinguono molto bene i familiari ad alta Emotività Espressa critica rispetto a quelli a bassa Emotività Espressa, mostrando qualche difficoltà solo nel riconoscimento della sottodimensione Ipercoinvolgimento (Goldstein, 1995; Cutting, Aakre & Docherty, 2006; Onwumere et al., 2009).
Per quanto riguarda il tempo di contatto tra soggetti analizzati e familiari, sono state seguite le raccomandazioni effettuate dagli autori che maggiormente si sono occupati di questo costrutto. In particolare è stato verificato che in entrambi i sottogruppi fosse garantito un tempo minimo di contatto di 35 ore alla settimana, soglia al di sotto della quale gli effetti di un’alta Emotività Espressa potrebbero dimostrarsi non significativi (vedi Tabella 4).
Tabella 4
Concludendo, alla luce di quanto finora detto, i risultati di questo lavoro indicano che l’elevata Emotività Espressa familiare possa essere precedente l’esordio psicotico e quindi può essere considerata a pieno titolo uno fra i fattori di rischio del disturbo. Ovviamente per comprenderne l’azione dovremmo abbandonare il pensiero di una causalità lineare e utilizzare un’ottica più ampia, quella circolare, considerando gli atteggiamenti dei familiari e i comportamenti dei pazienti come uniti fra loro da meccanismi di feedback, tali da innescare un circolo vizioso nel quale un’alta Emotività Espressa si esplicherebbe sotto forma di maggiori richieste e pressioni da parte dei familiari che provocherebbero comportamenti più disturbati dei pazienti, i quali condurrebbero a ulteriori critiche e così via.
Questo studio mostra come sia auspicabile l’implementazione di interventi precoci, che possano aiutare le famiglie e i pazienti a interrompere questo circolo vizioso per trasformarlo, al contrario, in uno virtuoso. Quest’obiettivo può essere raggiunto tramite l’attivazione di interventi di Psicoeducazione mediante i quali insegnare ai familiari a ridurre gli eccessi di richieste e critiche verso i loro congiunti. Questi ultimi, liberi da un eccesso di pressioni, potranno verosimilmente mettere in atto comportamenti meno in grado di innescare risposte emotive eccessive.
Il training di perfezionamento in psicoterapia per medici e psichiatri di Firenze
Quando medici e psichiatri scelgono il training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale: come funziona?
Oltre la farmacoterapia: la psicoterapia
Nel mio percorso di formazione psichiatrica sono stata affascinata dellafarmacoterapia e dallo straordinario effetto che i farmaci possono indurre sul comportamento e sulle capacità cognitive, modulando i pensieri ed i vissuti interiori più intimi. Con entusiasmo mi sono ritrovata ad affrontare la scelta del farmaco migliore per il paziente, la ricerca del dosaggio adeguato e delle migliori associazioni farmacologiche.
Presto però mi sono accorta che quel potentissimo strumento farmacologico aveva dei limiti: talvolta nel disagio che il paziente riferiva non mi era possibile identificare dei chiari target farmacologici sui quali agire, essendo il problema supportato da dinamiche relazionali o inerenti all’immagine che il paziente aveva di sé stesso.
Anche quando il quadro clinico si risolveva pienamente rimanevano fra me ed il paziente dei dubbi, delle perplessità, delle domande alle quali non eravamo riusciti a trovare una risposta: “perché proprio adesso?”, “perché proprio a me?” e soprattutto “cosa posso fare per non farlo accadere di nuovo?”.
Da qui la necessità di acquisire dei nuovi strumenti di conoscenza del malessere psichico che mi dessero la possibilità di guardare al di là del sintomo e di entrare in contatto più intimo con l’esperienza del paziente.
La psicoterapia cognitivo-comportamentale, naturalmente complementare alla psichiatria
Ho ritenuto che un approccio psicoterapico fosse la cornice ideale per instaurare con il paziente un rapporto più empatico ed efficace, per esplorare la sua mente, svelarne il funzionamento, vedere il mondo con i suoi occhi e riuscire così a promuoverne un cambiamento utile, attraverso un meccanismo diverso e sinergico rispetto a quello farmacologico.
Per il mio training di perfezionamento in psicoterapia ho scelto l’approccio cognitivo-comportamentale perché unisce strettamente ed in maniera complementare il mondo della psicologia e quello della psichiatria, senza entrare in conflitto con le mie conoscenze mediche. Mi sono riconosciuta completamente nel nesso causale che lega gli stati emotivi ed i comportamenti ai pensieri e trovo che tale teoria restituisca all’individuo un senso di auto-efficacia, presupposto indispensabile per motivarlo al cambiamento.
Inoltre le evidenze scientifiche di efficacia che la psicoterapia cognitivo-comportamentale ha dimostrato di avere, i tempi relativamente brevi in cui è possibile ottenere dei risultati significativi e il ricorso a protocolli standardizzati mi hanno definitivamente convinta ad abbracciare questo metodo.
Specializzazione in Psicoterapia: la Scuola Cognitiva di Firenze
La scelta di svolgere il training di perfezionamento in psicoterapia cognitivo-comportamentale presso la Scuola Cognitiva di Firenze è stata incentivata sia dai consigli di colleghi più anziani che là si erano formati, sia dalla possibilità di un training triennale dedicato agli psichiatri, che mi ha permesso di fruire in tempi più rapidi degli strumenti cognitivo – comportamentali che mi erano utili.
In realtà questa scuola mi ha offerto molto di più di quanto mi aspettassi all’inizio: la professionalità e la varietà dei docenti, l’apertura verso nuove tecniche di psicoterapia (Dialectical Behaviour Therapy, Mindfulness, Schema Therapy, etc) e i numerosi workshop esperienziali mi hanno permesso non solo di approfondire il metodo CBT classico, ma anche di acquisire una conoscenza più ampia sulle cosiddette “terapie di terza generazione”, permettendone l’integrazione nella mia metodologia di lavoro con il paziente.
La pratica sul campo con le psicoterapie solidali
La possibilità di effettuare delle “psicoterapie solidali”, vale a dire percorsi di psicoterapia offerti a prezzi agevolati da parte di psicoterapeuti in formazione, con supervisioni settimanali gratuite dei didatti della scuola, è stata un’ opportunità ulteriore di apprendimento e di confronto con i colleghi, che ha arricchito significativamente la mia formazione professionale.
L’importanza di formazione e aggiornamento in psicoterapia
Sebbene il mio training di perfezionamento presso la Scuola Cognitiva di Firenze sia ormai concluso, tanti sono gli spunti di approfondimento che restano da seguire, ad ulteriore dimostrazione che questi tre anni di formazione in psicoterapia sono stati densi e ricchi di stimoli interessanti. Servirà ancora tantissima esperienza per padroneggiare con disinvoltura le tecniche cognitivo-comportamentali, ma per il momento sento di aver fatto mio un metodo di approccio al paziente che mi permette realmente di sintonizzarmi sui suoi pensieri, sentimenti ed idee, così da capire il suo modo di fare esperienza degli eventi.
Finalmente mi sento vicina a quel passaggio tanto importante ed auspicabile nel processo terapeutico che consiste nell’integrare il semplice “curare” con il “prendersi cura”.
Lorenza Bencini Medico, Specializzanda in Psichiatria
Le vittime di bullismo infantile rischiano di essere sovrappeso nell’eta adulta
I bambini che sono stati vittime dibullismo durante la scuola primaria e la scuola secondaria possiedono il doppio delle probabilità di essere sovrappeso all’età di 18 anni rispetto ai coetanei che non hanno vissuto tale esperienza. Questo secondo quanto emerso da un nuovo studio condotto dai ricercatori del King’s College di Londra.
Bullismo infantile e rischio di essere sovrappeso in età adulta
Precedenti ricerche condotte dal team di ricercatori avevano già mostrato che i bambini vittime di bullismo negli anni ’60 erano più probabilmente sovrappeso all’età di 45 anni, sebbene non fosse chiaro se questi effetti a lungo termine fossero presenti anche in anni precedenti e si trattasse o meno di un fenomeno già presente nel passato.
In questo nuovo studio, pubblicato su Psychosomatic Medicine, i ricercatori si sono impegnati nell’esaminare se il bullismo in un contesto moderno avrebbe prodotto effetti simili sul peso, dal momento che le forme odierne di bullismo sono differenti (es: cyberbullismo) rispetto a quelle degli anni ’60 e anche l’ambiente in cui crescono i giovani d’oggi è profondamente cambiato, come dimostra la maggiore disponibilità di cibo spazzatura e la diffusione di stili di vita sedentari.
Lo studio
I ricercatori hanno analizzato i dati provenienti dall’ ”Environment Risk (E-Risk) Longitudinal Twin Study”, uno studio longitudinale di coorte su gemelli che ha seguito lo sviluppo di oltre 2000 bambini provenienti da Inghilterra e Galles dalla nascita fino ai 18 anni. Il team ha valutato le esperienze di bullismo subite durante la scuola primaria (elementari) e la scuola secondaria inferiore (medie) attraverso interviste effettuate alle madri e ai bambini a diverse età del bambino (7, 10 e 12 anni). Inoltre, per ciascun soggetto è stato calcolato il BMI (body masse index ovvero indice di massa corporea) all’età di 18 anni e il rapporto tra circonferenza vita e circonferenza fianchi che fornisce un indicatore della quantità di grasso addominale del soggetto.
I risultati
Il 28% dei bambini dello studio è stato bullizzato durante le scuole elementari o le scuole medie (condizione definita dai ricercatori come “bullismo transitorio”) e il 13% ha invece subito bullismo in entrambe le scuole (condizione definita come “bullismo cronico”).
I bambini che sono stati vittime di bullismo cronico durante l’età scolastica, una volta adulti, sono sovrappeso 1.7 volte in più dei bambini che non erano stati vittime di bullismo. I bambini bullizzati, inoltre, possiedono un BMI più alto e un rapporto vita-fianchi più elevato all’età di 18 anni.
L’associazione evidenziata non dipende da altri fattori di rischio (inclusi status socioeconomico, controllo del cibo in casa, maltrattamenti infantili subiti, QI basso e problemi di salute mentale). In aggiunta, e per la prima volta, le analisi hanno mostrato che i bambini vittime di bullismo cronico sono sovrappeso da adulti indipendentemente dal rischio genetico.
Conclusioni
Il Dr. Andrea Danese dell’Istituto di Psichiatria, Psicologia e Neuroscienze (IoPPN) al King’s College ha affermato: [blockquote style=”1″]Il bullismo è comunemente associato a problematiche di salute mentale, ma solo una piccola parte della ricerca si è occupata di definire i problemi fisici a cui vanno incontro le vittime di bullismo infantile. Il nostro studio dimostra che i bambini bullizzati hanno più probabilità di diventare adulti sovrappeso, e questo è vero indipendentemente dal loro patrimonio genetico e solo dopo aver sperimentato il bullismo.[/blockquote]
Jessie Baldwin, anch’esso proveniente dal IoPPN, ha affermato: [blockquote style=”1″]Sebbene non possiamo affermare definitivamente che l’essere vittima di bullismo sia causa del sovrappeso, escludere spiegazioni alternative, come quella dei fattori genetici, consolida la probabilità che si tratti effettivamente di questo. Se l’associazione fosse causale, prevenire il bullismo potrebbe aiutare a ridurre la prevalenza di eccesso di peso tra la popolazione. Così come la prevenzione del bullismo, i nostri risultati enfatizzano l’importanza di supportare i bambini bullizzati per prevenire in loro il problema dell’eccesso di peso, utilizzando ad esempio interventi volti a promuovere attività fisica e alimentazione sana, già in fasi precoci dello sviluppo del bambino.[/blockquote]
Diagnosi e terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia in età evolutiva – Report dal corso della Fondazione Don Gnocchi
Il settore formazione della Fondazione Don Carlo Gnocchi Onlus ha organizzato e realizzato l’evento rivolto a psicologi, medici e terapisti dell’Età evolutiva. L’evento si è svolto presso il Centro Santa Maria al Castello a Pessano c/B (MI).
La direzione scientifica dell’evento è stata affidata al Dr. Flavio Cimorelli, Medico Neuropsichiatra infantile e la conduzione alla Dr.ssa Alessia Incerti, psicologa e psicoterapeuta cognitivo comportamentale e Practitioner in EMDR. La dottoressa è consulente presso la Fondazione Don Carlo Gnocchi, Pessano (MI), Didatta presso Studi Cognitivi Spa e Responsabile di “Equipe Kairos”.
“…Non si fugge perché si ha paura ma si ha paura perché si fugge…”
(Krohne 1993; Ledoux 1996; Oatley, Johanson Laird 1987). “Le gazzelle che hanno voluto verificare sperimentalmente tale ipotesi hanno effettivamente provato un senso di grande serenità restando immobili di fronte alla leonessa che le annusava ma non hanno avuto modo di trasmettere geneticamente tale apprendimento a una ricca figliolanza. Tuttavia ciò è certamente vero soprattutto per gli uomini spesso tutta la vita in fuga da pericoli non oggettivi e credono che fuggire sia cosa buona…”
(Castelfranchi, Mancini, Miceli 2002; Pardighe, Mancini 2008)
I disturbi d’ansia nell’infanzia
Nella prima parte della giornata la dr.ssa Alessia Incerti, ha illustrato le caratteristiche principali dei disturbi d’ansia nell’infanzia secondo la nosografia del DSM 5.
I disturbi d’ansia corrispondono a diverse paure, convinzioni, previsioni negative, preoccupazioni su come potrebbero verificarsi gli eventi temuti e su come fronteggiarli, essi sono sempre più diffusi in età evolutiva e causano disagio non solo nel bambino, ma in tutta la famiglia.
Il DSM 5 descrive i disturbi d’ansia in una categoria specifica e lungo il continuum del ciclo di vita. Essi sono caratterizzati da: sentimenti pervasivi di preoccupazione o ansia con evidenti sintomi fisici, difficili da controllare e che si manifestano per la maggior parte dei giorni per almeno sei mesi.
In bambini e adolescenti: preoccupazioni per impegni scolastici o per prestazioni in generale, come gli impegni sportivi, o gli impegni sociali.
Può essere presente una tendenza al perfezionismo che genera uno stato di tensione, che può causare impegno eccessivo o comportamenti di evitamento.
L’ansia, la preoccupazione, o i sintomi fisici causano disagio clinicamente significativo o menomazione del funzionamento sociale, scolastico, o di altre aree importanti;
– costante sentimento d’oppressione, “un peso”;
– atteggiamento di attesa di un avvenimento vissuto come spiacevole ed imprevisto;
– sintomi somatici soprattutto nei bambini.
La dottoressa ha descritto nello specifico il funzionamento del bambino ansioso, quali sono i pensieri più tipici, gli errori cognitivi, i comportamenti e i fattori di mantenimento.
Allen e Rapee (2001) individuano il circolo vizioso di trasmissione della paura dal genitore al bambino e dal bambino al genitore, cosa che spesso rende impossibile stabilire dove risieda il problema primario. Spesso i pensieri dei bambini sono infatti conseguenza dei pensieri dei genitori. Non esiste un bambino ansioso, esiste una “famiglia ansiosa”.
La terapia cognitivo comportamentale dei disturbi d’ansia nell’infanzia
Nel pomeriggio la relatrice, dott.ssa Alessia Incerti, ha illustrato i principi fondamentali della terapia cognitivo-comportamentale del disturbo d’ansia secondo gli assunti della REBT. La terapia razionale emotiva comportamentale (Rational Emotive Behavior Therapy, REBT), fondata da Albert Ellis negli anni Cinquanta del secolo scorso, è uno dei primi esempi di pratica psicoterapeutica pienamente cognitiva. Come si evince dall’attuale denominazione, è evidente la vocazione integrativa di quest’approccio, che unisce tecniche cognitive, emotive e comportamentali. Ellis riteneva che la sofferenza mentale derivasse da “elaborazioni verbali esplicite che il soggetto si autoinfligge consapevolmente”. Ellis è riuscito a sfiorare la possibilità di disegnare un moderno modello di psicopatologia metacognitiva, in cui la sofferenza emotiva dipende da valutazioni disfunzionali che il cliente fa dei propri stati mentali più che del mondo esterno (Ruggiero e Sarracino, 2014, p. XI, XIII).
Ampio spazio è stato dato alla metodica dell’ABC applicata ai bambini, con suggerimenti anche per rappresentare graficamente la relazione tra eventi, pensieri, emozioni e comportamento.
E’ importante introdurre sia i bambini che i genitori al collegamento tra pensieri e emozioni (ABC) e al modello sulla natura e sulle cause dell’ansia, si insegna loro ad attribuire un nome alle emozioni, attraverso immagini suggestive come il fiore di Plutchik o le vignette di Di Pietro; a collegare le emozioni alle situazioni vissute da altri attraverso storie, fumetti, role play; quantificare l’intensità delle emozioni con l’ausilio di un termometro; adoperare il modello ABC a 3 colonne o a disegni, presentato come un cuore da riempire con l’emozione provata; introdurre il concetto di distorsione cognitiva o “virus”.
Il programma Cool Kids, protocollo di trattamento manualizzato dei Disturbi d’Ansia nei bambini e negli adolescenti rappresenta una versione revisionata dell’originale modello cognitivo-comportamentale “Coping Cat” di Kendall e “Coping Koala” di Paula Barrett e Ron Rapee (1996),
esso si basa su un modello d’ansia in cui fattori genetici, stile genitoriale, vulnerabilità individuale e eventi esterni concorrono a generare il disturbo d’ansia; per ognuno dei fattori il protocollo prevede una tranche di terapia che va a lavorare sugli elementi disfunzionali.
E’ un trattamento evidence-based e la sua efficacia è basata su ricerche effettuate in un decennio alla Macquarie University, al Royal North Hospital e alla Queensland University.
I risultati di tali studi hanno dimostrato che: più dell’80% dei bambini che hanno completato il programma sono diagnosis-free o migliorati sensibilmente. Questi effetti si mantengono anche nei 6 anni successivi al trattamento.
Il programma prevede l’inclusione dei genitori ed è basato sull’acquisizione di competenze su come gestire meglio l’ansia, è stato infatti dimostrato che tale coinvolgimento produce risultati migliori rispetto a trattare il bambino da solo.
Il lavoro con i genitori, considerati i massimi “esperti” del proprio bambino, prevede un intervento che riduca l’iperprotettività e favorisca il supporto all’esposizione. Nello specifico, gli obiettivi consistono: nell’acquisire competenze di gestione dell’ansia dei bambini agendo sui fattori di mantenimento del disturbo come l’evitamento, incoraggiandoli all’indipendenza; rinforzare coerentemente i progressi e fornire supporto nei momenti di difficoltà; condividere con il clinico obiettivi realistici; esplorare nuove modalità di interagire con i comportamenti ansiosi del bambino.
Il piccolo paziente apprende invece nuove strategie di gestione dell’ansia; impara a ridurre l’evitamento delle situazioni temute ed affrancarsi dai genitori e dal terapeuta, utilizzando le competenze e conoscenze acquisite.
Gli effetti del programma sono costanti anche per bambini con alti livelli di condizioni di comorbilità, bambini svantaggiati e basso ambiente socioculturale; esso è indirizzato alle famiglie ed utilizza piccoli gruppi, sono stati raggiunti buoni risultati anche su singole famiglie di bambini e adolescenti. I gruppi di partecipanti sono costituiti da circa 5 bambini dello stesso range di età (6/8; 8/10; 11/13; 14/18) con diagnosi di Disturbo d’Ansia (le comorbilità come la depressione possono venire accettate ma devono essere affrontate prima di intervenire sull’ansia), suddivisi per genere; più che per disturbo è fondamentale che i gruppi siano omogenei per livello di gravità. E’ prevista la partecipazione di almeno un genitore a tutti gli incontri.
Ogni sessione tratta un aspetto specifico del trattamento in modo graduale e razionale, i concetti di psicoterapia dell’adulto sono tradotti in formati adatti ai bambini che permettono di lavorare a un livello più pragmatico.
La ristrutturazione cognitiva viene introdotta già nella seconda sessione, attraverso la metafora del detective: ai bambini viene detto che impareranno a fare gli investigatori, che indagheranno sui pensieri che causano la loro paura e che i loro “strumenti del mestiere” saranno delle domande specifiche da utilizzare per contrastare i pensieri dannosi. Dovranno quindi allenarsi sia in seduta sia con homework in concomitanza di eventi che provocano loro emozioni negative ed intense; trovare i pensieri irrazionali attraverso il “detective thinking”, applicare le tecniche apprese per trovare prove contro le proprie previsioni in base all’esperienza passata; mettere in discussione (disputing) i pensieri disfunzionali; generare “pensieri calmanti” basati su una valutazione realistica dell’evento ansiogeno; dopo aver stabilito la gerarchia delle situazioni temute, i piccoli pazienti potranno cimentarsi in esperimenti ed esposizioni graduali allo scopo di consentire loro di capire che la situazione non è minacciosa e che hanno le capacità di affrontarla, illustrare ai genitori la non terapeuticità dell’evitamento.
Dopo le esposizioni le ultime sessioni del programma si incentrano sull’insegnamento di abilità sociali e sul consolidamento di quanto appreso.
La dottoressa ha inoltre arricchito la giornata formativa con numerosi esempi clinici dati dalla sua decennale esperienza di lavoro nell’ambito della neuropsichiatria infantile.
Vivere con l’epilessia: fattori implicati nel benessere psicologico
In questo articolo saranno discussi gli aspetti psicologici legati all’ epilessia: la consapevolezza di essere a rischio di sviluppare crisi epilettiche, infatti, genera diversi cambiamenti nell’immagine di sé e nelle scelte concrete che bisogna prendere quotidianamente.
Diversi studi hanno evidenziato le criticità che agiscono sulla personalità e sulla qualità della vita delle persone con epilessia. Riconoscere l’impatto dell’ epilessia sulla psiche dei pazienti permette ai curanti e ai famigliari di prendersi cura anche di quegli aspetti legati al disturbo che possono essere modificati e che aiutano ad accresce il benessere delle persone. Valutare e intervenire sull’impatto psicologico di una patologia che può avere diversi gradi di severità è sicuramente di primaria importanza.
Epilessia e percezione di sé
Alcune ricerche mostrano che la percezione di sé, insieme alle restrizioni sociali, influenzano la qualità della vita (Quality of life – QOL) più dei fattori oggettivi collegati all’ epilessia come la frequenza e il tipo di crisi (Hermann et al., 1992).
Lo stigma percepito può variare la sua influenza sulla percezione che il soggetto ha di sé grazie all’effetto protettivo dell’autostima, che è stato ricondotto anche allo sviluppo di problemi psicologici e psichiatrici. A sua volta anche ricevere informazioni adeguate sul proprio stato di salute aiuta a sostenere l’autostima del paziente. Queste premesse riportate da Collings (1995) conducono allo studio delle variabili che influenzano la percezione di sé, dove si è visto che il benessere psicologico, il controllo sulle crisi, seguire una politerapia e una diagnosi incerta aumentano l’impatto dell’ epilessia sulla percezione di sé.
In uno studio (Spector et al., 2000) sulla percezione di sé rispetto all’arrivo di un episodio critico, il 47% dei soggetti riusciva in alcuni casi ad arrestare gli attacchi, e il 15% poteva auto-indursi le crisi. Inoltre, un 65% dei soggetti sapeva identificare uno stato di basso rischio in cui era meno propenso a sostenere una crisi. Per acquisire maggiori certezze sulla possibilità di controllare le scariche si dovrebbero eseguire studi con elettroencefalografia al fine di stabilire l’autenticità di questi comportamenti. La credenza di poter controllare l’insorgere delle crisi infatti potrebbe svelare il sottostante desiderio di acquisire controllo su di esse. È noto uno studio (Woods et al., 2006), su un paziente che descriveva uno specifico stato emozionale capace di indurre in lui le crisi, in cui grazie al monitoraggio video/elettroencefalografico è stato possibile confermare l’episodio e smentire i sospetti di crisi non-epilettiche.
Le persone con epilessia possono temere di venire identificate dagli altri con la propria condizione e di sentirsi in una situazione di svantaggio non superabile, legata al rischio di dimostrare i suoi effetti in modo involontario e indipendente dagli sforzi messi in atto. Per evitare tali effetti sociali possono tentare di nascondere la propria condizione agli altri e, per ridurre l’ansia e l’angoscia relativa agli svantaggi delle crisi, c’è chi ricorre alla negazione della realtà anche a se stesso, adottando così un meccanismo di coping rivolto all’evitamento.
A questo concetto si collega la divisione operata da Brown e Nicassio (1987) di due principali strategie di coping, le strategie attive (rappresentate dal tentativo del paziente di controllare il proprio dolore e mantenere un buon livello funzionale), e le strategie passive di coping (per cui il paziente si affida agli altri e permette che altre aree significative di vita vengano influenzate negativamente dal dolore).
La Self-efficacy e il locus of control nella sindrome epilettica
La convivenza con una patologia cronica, quale l’ epilessia e il diabete, ma anche con sintomi psicologici come disturbi dell’umore o attacchi di panico, può ripercuotersi negativamente sui meccanismi cognitivi della self-efficacy (autoefficacia) e del locus of control. Questi due costrutti indicano la percezione personale di essere artefici del proprio destino, padroni delle proprie scelte e consapevoli che le proprie decisioni e azioni contino nel perseguire un fine.
Che cos’è il Locus of Control
Il locus of control è un costrutto individuato dallo psicologo Julian B. Rotter nel 1954, indica in che misura gli individui credono di essere implicati nella generazione degli eventi che li riguardano. Le applicazioni più frequenti si hanno nella psicologia della salute, dove il locus of control viene correlato all’obesità, alla salute mentale da scale specifiche che lo misurano.
Il locus of control può caratterizzarsi per essere orientato all’interno o all’esterno. Un locus of control interno è associato alla percezione di essere in grado di poter influire in una determinata situazione. La persona con un locus of control orientato internamente ritiene di avere le risorse e le competenze necessarie per raggiungere il risultato auspicato. Per esempio si può essere fiduciosi di riuscire ad adottare i comportamenti che possono garantire la propria sicurezza se si dovesse avere una scarica epilettica, oppure di poter mantenere gli impegni famigliari o lavorativi nonostante gli effetti collaterali dei farmaci.
Un locus of control maggiormente orientato all’esterno predispone la persona a considerarsi sottoposta al fato e al destino, oppure a dare eccessivo valore agli eventi esterni immutabili. Potrebbe prevalere l’idea che le crisi non sono controllabili né gestibili, per cui si potrebbe saltare l’assunzione dei farmaci o rinunciare a perseguire i propri scopi nella vita.
Secondo i teorici di questo campo il locus of control può spiegare le differenze tra le persone per quanto riguarda l’essere ottimisti, pessimisti, previdenti o rassegnati essendo queste dovute alla percezione personale degli eventi. Un orientamento di locus of control interno è considerato un predittore positivo per la gestione della malattia e l’adesione alla cura da parte del paziente.
D’altro canto l’eccessiva auto-responsabilizzazione potrebbe portare a un elevato senso di colpa e paralizzare le iniziative, in questo senso bisognerebbe ispirarsi a un sistema di credenze equilibrato ed adattivo, cioè funzionale al benessere dell’individuo, avendo anche aspetti propri del locus of control esterno, per alleggerire il senso di colpa.
I pazienti con locus of control interno mostrano un maggiore senso di autonomia e competenza, tale atteggiamento ha effetti positivi sul controllo della cura di sé (self-care), sull’efficacia del trattamento e sulla sfera psicologica del soggetto. Una ricerca più recente (Baker, 2002) evidenzia correlazioni positive tra Health-related Quality of Life e locus of control in adulti con epilessia.
L’esternalizzazione del locus of control a causa dell’ epilessia è emersa dal confronto con un gruppo di controllo così come in un gruppo di pazienti con epilessia a cui non siano state insegnate risorse di coping focalizzate (Krakowf et a., 1999). La gravità delle crisi è risultata la caratteristica clinica più importante nel predire i livelli di autostima e l’orientamento del locus of control in uno studio con persone con crisi parziali refrattarie, negli adolescemti invece l’impatto più significativo era dato dalla frequenza, con un effetto modulatore positivo dovuto alla conoscenza della propria condizione e dell’ epilessia in generale (Krakowf et a., 1999).
Un locus of control esterno è stato ritenuto responsabile dello sviluppo di problemi psicologici nell’epilessia, e correlato statisticamente a patologie di tipo depressivo, soprattutto se i pazienti soffrono di crisi intrattabili (Krakowf et a., 1999). I fattori che mantengono un locus of control esterno nell’ epilessia sono stati individuati nello stile parentale (atteggiamento dei genitori), nella gravità e frequenza delle crisi e nella percezione che il paziente ha di sé e della malattia.
I bambini con epilessia potrebbero sviluppare una scarsa autostima, isolamento sociale e problemi di comportamento, a causa della mancanza di controllo sul proprio corpo e della ridotta indipendenza rispetto ai coetanei (Collings, 1995).
Tra gli 8 e i 14 anni si inizia ad affermare una consapevole voglia di controllo sugli eventi, e si diventa maggiormente interni (Krakowf et a., 1999). Affrontare in fase evolutiva una condizione cronica come l’ epilessia favorisce invece l’acquisizione di una fuga verso l’esternalità, per questo bisognerebbe puntare su strategie di coping basate sulla padronanza della self-efficacy e delle proprie risorse emotive, che favoriscano l’autostima e le relazioni sociali.
Il Senso di Autoefficacia (Self Efficacy)
La Self-Efficacy è stata teorizzata da Albert Bandura che ha sviluppato anche la “Teoria dell’apprendimento sociale“. Questo costrutto indica che nonostante una persona possa ritenere che gli eventi sono da lui determinati (locus of control ), può ritenersi o meno in grado di agire per produrre tali eventi. La Self-Efficacy è la credenza di essere capaci di comportarsi in modo da ottenere un risultato. L’autoefficacia corrisponde a quanto ci sentiamo capaci di produrre un determinato risultato, come l’intraprendere un primo passo verso un obiettivo.
La self-efficacy è misurabile attraverso apposite scale, come quella di Sherer, Madux et al. (1982), e quella di Tedman et al. (1995). Questi ultimi in una ricerca su una popolazione di adulti con epilessia hanno notato che alti livelli di self-efficacy correlano con una maggiore autostima ed i soggetti avvertono minore stigma e limitazioni, mentre bassi punteggi si associano a depressione ed ansia.
Bandura ha sottolineato anche la differenza che corre tra self-efficacy ed autostima (self-esteem), bassa self-efficacy (“non sono capace”) non determina bassa autostima (“sono un incapace”), per esempio; possiamo ritenerci negati a tennis e non ritenerlo un problema perché non ci interessa eccellere in questa disciplina.
Convivere con patologie croniche concorre a sviluppare credenze fataliste rispetto al controllo della propria vita (Locus Of Control esterno), in ogni circostanza, anche quando sarebbe ovvio ritenere l’opposto. Vedere la guarigione come un traguardo irraggiungibile può ridurre la motivazione a seguire le cure. La self-efficacy influenza la credenza che iniziare un comportamento positivo per la salute porti benefici.
E’ possibile predire l’investimento personale alla rinuncia di comportamenti rischiosi, nonché la persistenza nello sforzo di cambiare comportamento nonostante le barriere che minacciano la motivazione. Pertanto è necessariamente implicata nella cura della salute.
Bandura individua dei fattori capaci di influenzare la self-efficacy individuale:
Esperienze di successo/insuccesso ed il modo in cui vengono visualizzate e richiamate in futuro.
Modellamento su persone prese come esempio: se queste falliscono l’impatto sarà negativo, e viceversa, sulla persona che le osserva.
Persuasione sociale, ossia i messaggi incoraggianti o demotivanti che gli altri ci danno. In genere è più facile essere demotivati che motivati dalle opinioni altrui.
Fattori psicologici. I sintomi fisiologici come paura, nausea, tremore o stanchezza e come essi vengono ricondotti a una debolezza personale oppure ritenuti normali per la situazione e non deleteri al fine del compito da svolgere.
Abbiamo visto che esistono alcuni aspetti psicologici significativamente correlati al benessere della persona con epilessia. Valutare questi aspetti e prestare un supporto psicologico idoneo (sia da parte dei medici e degli psicologi, che dei famigliari) può fare la differenza rispetto alla qualità della vita della persona e anche rispetto all’adesione alla terapia prescritta.
Tecniche di rilassamento nei pazienti cardiopatici
Per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della cardiopatia ischemica vengono attualmente proposti interventi non esclusivamente medici, ma anche psicologici, tra cui le tecniche di rilassamento come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e la mindfulness.
Silvia Vegetti – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Bolzano
Cardiopatia: caratteristiche e fattori di rischio
Il termine cardiopatia viene usato per indicare qualsiasi malattia che interessa il cuore, sia essa di natura anatomica o funzionale. La cardiopatia ischemica rappresenta la principale causa di morte nel mondo occidentale e comporta una riduzione dell’apporto di sangue e ossigeno al cuore con conseguente sofferenza d’organo. Quando in una sezione di muscolo cardiaco l’apporto di sangue ossigenato si riduce per un tempo protratto o cessa del tutto, i processi metabolici di quella sede si interrompono e si ha l’infarto con accumulo di materiale catabolico (necrosi). La patogenesi dell’ischemia e dell’infarto miocardico, è, nella maggior parte dei casi, legata all’accumulo di materiale lipidico che si deposita sulla parete arteriosa, modificandone l’elasticità e portando al processo noto come aterosclerosi.
L’accumulo lipidico è responsabile del progressivo restringimento del vaso e della conseguente riduzione del flusso sanguigno, fino alla possibile occlusione completa per la formazione di coagulo lipidico-fibroso (trombosi). La riduzione di flusso, e più ancora la sua cessazione, sono responsabili dei principali sintomi dell’infarto miocardico, come il dolore intenso.
Altre volte dalla placca ateromatosa si può staccare del materiale che a sua volta migra andando ad occludere un vaso più piccolo (embolia). Quando il vaso viene parzialmente ostruito, il flusso sanguigno residuo è comunque sufficiente a garantire un adeguato apporto metabolico nel muscolo cardiaco a riposo. Quando però per uno sforzo fisico, un pasto abbondante o un’emozione intensa, l’attività metabolica cardiaca aumenta, quella stessa quantità di sangue diventa insufficiente e compare ischemia spesso associata a dolore.
La riduzione dell’attività fisica o dell’attivazione emozionale si accompagna solitamente ad un ripristino di circolo adeguato e alla conseguente cessazione del dolore. Col progredire dell’ostruzione l’apporto metabolico al cuore può diventare insufficiente anche a riposo.
I principali fattori di rischio predisponenti, facilitanti o precipitanti la malattia sono:
elevati livelli di colesterolo
ipertensione arteriosa
fumo di sigarette
predisposizione familiare
abitudini alimentari e stili di vita scorretti
eccessiva esposizione ad eventi psicosociali stressanti
Il ruolo dell’ipertensione arteriosa e dello stress
La pressione arteriosa (PA) è la forza esercitata dal sangue contro le pareti dei vasi sanguigni. La PA oscilla tra un valore massimo (pressione sistolica) e un valore minimo (pressione diastolica) corrispondenti alle fasi di contrazione e rilassamento cardiaco. Quando i valori pressori risultano stabilmente elevati rispetto ai valori normali della popolazione di riferimento, si parla di ipertensione arteriosa. L’Organizzazione mondiale della sanità stabilisce, quali valori che la PA non deve superare in un individuo adulto, 140mmHg per la sistolica e 90mmHg per la diastolica.
L’ ipertensione arteriosa è largamente determinata da fattori familiari-ereditari, alimentari (eccesso di sale e grassi nella dieta), e abitudini di vita (fumo, sedentarietà, ecc.), ma soprattutto negli stadi iniziali, può essere influenzata dall’iperattivazione del sistema nervoso autonomo simpatico per effetto di situazioni emozionali e stressanti.
Lostresspuò essere generato da qualunque stimolo fisico, psicologico, biologico (definito stressor) che produce un cambiamento e che comporta un adattamento da parte dell’individuo. La risposta allo stress prevede 3 fasi: allarme, resistenza (o adattamento) ed esaurimento (sindrome generale di adattamento). Queste tre fasi si susseguono nell’organismo durante ogni reazione da stress. E’ quindi un meccanismo difensivo con cui l’organismo si sforza di superare le difficoltà per poi tornare, al più presto possibile, al suo normale equilibrio (omeostasi).
La reazione allo stress può essere acuta, di breve durata, consistente in una rapida fase di resistenza cui segue un quasi immediato e ben definito ritorno alla normalità; oppure prolungata (stress cronico), con una fase di resistenza che può durare da molti minuti a giorni, settimane, anni e, per qualcuno, tutta la vita. In condizioni di stress acuto, l’informazione relativa allo stressor, percepita dagli organi di senso, raggiunge rapidamente l’amigdala che determina una reazione di attacco o fuga immediata, prima ancora che lo stimolo venga elaborato a livello cognitivo.
L’amigdala invia poi segnali all’ipotalamo che rilascia nell’ipofisi (ghiandola endocrina) il fattore rilasciante la corticotropina, determinando da parte dell’ipofisi l’immissione in circolo dell’ormone adrenocorticotropo; questo a sua volta stimola le ghiandole surrenali affinché liberino adrenalina, noradrenalina e glucocorticoidi, soprattutto cortisolo (l’ormone dello stress). Mentre adrenalina e noradrenalina attivano il sistema nervoso autonomo simpatico determinando un innalzamento degli indici fisiologici (conduttanza cutanea, frequenza cardiaca, pressione arteriosa, dilatazione pupillare, tensione muscolare, vasodilatazione muscolare), rilascio di betaendorfine e inibizione dell’apparato digestivo, tipici del comportamento di attacco o fuga, il cortisolo influenza soprattutto il sistema immunitario e l’ippocampo.
Quest’ultimo a sua volta invia segnali a feedback negativo all’asse ipotalamo-ipofisi-surrene per far cessare il rilascio di ormoni. Questa catena di reazioni ha una funzione adattiva in quanto permette all’organismo di reagire prontamente allo stressor. In condizioni di stress cronico invece, sia ha un iperattivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e il continuo rilascio di ormoni, soprattutto di cortisolo che può causare svariati disturbi tra cui quelli psicosomatici (cardiovascolari, dermatologici, gastrointestinali ecc.), immunitari (es mononucleosi) e depressione.
Le tecniche di rilassamento per il trattamento della cardiopatia
Per il trattamento dell’ipertensione arteriosa e della cardiopatia ischemica vengono attualmente proposti interventi non esclusivamente medici, ma anche psicologici, come le tecniche di rilassamento, mirati alla riduzione dei fattori di rischio psicosociale, alla modificazione dei comportamenti a rischio e alla modulazione della reattività cardiovascolare a situazioni stressanti.
Un intervento appropriato è rivolto alla riduzione della reattività cardiovascolare a situazioni stressanti, attraverso tecniche di rilassamento, come il rilassamento muscolare progressivo di Jacobson e la mindfulness.
Una delle tecniche di rilassamento più conosciute, il rilassamento muscolare progressivo, è stato ideato da Edmund Jacobson intorno al 1920, negli Stati Uniti ed è finalizzato sia alla prevenzione che alla terapia di disturbi psicovegetativi, ma anche per le malattie croniche. L’allenamento alle tecniche dirilassamento può incrementare la capacità di superare con successo le tensioni quotidiane, rafforzare la salute e migliorare la qualità di vita. Le modificazioni fisiche e psichiche che compaiono nel contesto di un training di rilassamento, vengono anche chiamate “reazioni distensive” e comprendono anche diverse modificazioni somatiche: rallentamento e regolarizzazione della respirazione, riduzione del consumo di ossigeno, abbassamento della frequenza cardiaca, riduzione della pressione sanguigna (soprattutto nel caso di ipertensione), rilassamento della muscolatura scheletrica, modificazioni dell’attività elettrica cerebrale (indicanti dall’EEG uno stato di calma mentale). L’effetto del training di rilassamento è una crescente tranquillità, che rende possibile un miglior rapporto con le difficoltà quotidiane e un migliore controllo dello stress.
Alcuni studi sulle tecniche di rilassamento hanno dimostrato che il rilassamento progressivo, riducendo la PA, ha effetti benefici sul sistema cardiocircolatorio riducendo il rischio di una recidiva in pazienti infartuati. Il rilassamento di Jacobson si basa sul rapporto reciproco tra mente e corpo: la psiche esercita un’influenza sul soma e modificazioni somatiche possono produrre cambiamenti nella mente. Attraverso il training deve essere raggiunta in modo sistematico una diminuzione della tensione della muscolatura volontaria, che a sua volta provoca una distensione psichica. La più profonda sensazione di calma induce, a sua volta, una maggiore distensione muscolare determinando una sorta di processo circolare all’interno del quale quanto più si rilassano i muscoli tanto più gli individui diventano calmi; tanto più l’individuo diventa calmo quanto più i muscoli si rilassano e cosi via. L’influenza positiva del training sulla salute non si basa primariamente sul singolo esercizio, ma sull’allenamento regolare, protratto nel tempo.
Tra le altre tecniche di rilassamento più efficaci, la mindfulness è una pratica meditativa di origine buddhista applicata clinicamente per la prima volta, verso la fine del 1970, dal medico americano Jon Kabat-Zinn; viene spesso definita come la capacità di prestare attenzione ai propri processi mentali e fisici, durante lo svolgimento di qualunque attività quotidiana, in modo non giudicante. È stato proposto un modello di concettualizzazione della mindfulness a due componenti, ciascuna delle quali è definita in termini di specifici comportamenti, manifestazioni esperienziali e processi psicologici implicati: la prima componente riguarda l’autoregolazione dell’attenzione, che viene mantenuta sull’esperienza immediata e con ciò favorisce una maggiore capacità di riconoscere gli eventi mentali nel momento presente; la seconda componente riguarda invece il particolare atteggiamento adottato verso la propria esperienza nel momento presente, caratterizzato da curiosità, apertura, accettazione.
Alcune ricerche nel campo delle tecniche di rilassamento indicano l’esistenza di una relazione tra la pratica mindfulness e i fattori di rischio per i disturbi cardiovascolari, come l’attività fisica, il fumo di sigarette, l’alimentazione e la pressione sanguigna. In particolare gli studi, preliminari ma promettenti, dimostrano che la mindfulness disposizionale o di tratto, intesa come la tendenza delle persone a prestare attenzione e ad essere consapevoli a ciò che accade loro nel momento presente, è associata ad un maggiore probabilità di smettere di fumare, di seguire una dieta sana ed equilibrata e di svolgere attività fisica regolarmente dopo un intervento cardiovascolare. Sembra che la mindfulness influenzi la salute, in particolare attraverso un miglioramento della capacità di autoregolazione incrementando il controllo attentivo, la regolazione emotiva e la consapevolezza di sé. In particolare la mindfulness:
Migliora l’abilità di prestare attenzione alle esperienze legate al rischio cardiovascolare come il fumo, la dieta, l’attività fisica e l’aderenza al trattamento medico. Infatti l’attenzione consapevole verso ogni esperienza può contribuire a comprendere gli effetti a breve e a lungo termine del fumo e degli altri comportamenti rischiosi, incrementando la motivazione intrinseca ad impegnarsi nell’adesione al trattamento.
Riduce lo stress migliorando la consapevolezza delle proprie modalità di risposta agli stressor e delle proprie capacità di fronteggiarli (autoefficacia).
Incrementa la capacità di gestire abitudini di vita sregolate come il fumo di sigarette, l’eccessivo consumo di cibo e la sedentarietà. Studi neurofisiologici hanno dimostrato che la mindfulness influenza l’attività delle aree cerebrali coinvolte nelle dipendenze e nei sistemi di ricompensa, in particolare la corteccia prefrontale dorsolaterale e la corteccia cingolata anteriore.
Migliora la consapevolezza delle proprie emozioni, dei propri pensieri e delle sensazioni fisiche che sono particolarmente importanti per ridurre il rischio cardiovascolare. In particolare, attraverso un incremento della consapevolezza dell’esperienza presente, i pazienti possono apprendere a percepire chiaramente gli effetti a breve e a lungo termine dei comportamenti a rischio cardiovascolare come le limitazioni fisiche associate ad attività fisica inadeguata, letargia conseguente all’eccessivo consumo di zuccheri oppure ancora i dolori articolari associati all’obesità e al fumo di sigarette. Questo potrebbe incrementare la motivazione intrinseca ad assumere un comportamento più sano.
Il cigno nero (2010). Un caso di psicopatologia nella danza – Recensione del film
Protagonista del film Il cigno nero è Nina, una giovane ballerina di una nota compagnia americana, perennemente ostinata a raggiungere la perfezione in ogni piccolo dettaglio. Estremamente dotata dal punto di vista tecnico, la giovane si blocca quando è costretta a mostrare sensualità e sicurezza.
Il cigno nero: trama del film
Protagonista del film Il cigno neroè Nina, una giovane ballerina di una nota compagnia americana, perennemente ostinata a raggiungere la perfezione in ogni piccolo dettaglio. Nonostante la fervente dedizione all’esercizio e al perfezionismo, la protagonista non possiede tutte le qualità di un’ineccepibile prima ballerina, tra cui la versatilità e la passione, fondamentali per assumere le personalità dei personaggi.
Estremamente dotata dal punto di vista tecnico e abile ad interpretare le parti in cui predominano la fragilità e l’inibizione, la giovane si blocca quando è costretta a mostrare sensualità e sicurezza, di conseguenza finisce per ripetere lo stesso copione, ma nel personaggio sbagliato.
Per questo motivo, agli occhi dell’esigente coreografo Leroy resta assolutamente inadeguata a ricoprire il ruolo di protagonista in uno dei balletti più complessi del repertorio classico: Il lago dei cigni. In tale frangente la difficoltà complessiva, infatti, non si posa solo sulle competenze tecniche, ma anche, e soprattutto, sulla malleabilità interpretativa.
La storia vede protagoniste due principesse, uguali nell’aspetto, ma dalla personalità antitetica; il cigno bianco, fragile e insicuro, il cigno nero, sensuale e coinvolgente, e spetterà alla prima ballerina interpretarli entrambi. Naturalmente, per sortire un effetto credibile, la finzione deve risultare verosimile e Nina è assolutamente troppo controllata e insicura per calarsi nei panni dell’affascinante e malvagia Odile, sosia e sostituta della principessa Odette creata dal perfido mago Rothbart per ingannare il principe e consolidare la maledizione che costringerà la principessa a restare un cigno per l’eternità. Decisamente più affine alla delicata e debole Odette, Nina rivela fin da subito la fragilità psicologica che la accompagna dalla nascita.
Il rapporto della protagonista con la figura materna
Cresciuta con la madre che a soli 28 anni abbandona controvoglia la carriera da danzatrice per allevare da sé la figlioletta, Nina rimane l’eterna bambina della mamma che si dimostra estremamente disponibile e accudente nei suoi confronti, ma anche carica di rancore e odio per averla indotta, seppur involontariamente, nella condizione di commettere l’errore più grande della sua vita.
Giovane, ma pur sempre adulta, la protagonista de Il cigno nero non sembra aver realizzato una separazione- individuazione dal caregiver che amplifica e rafforza i tratti immaturi; la cameretta piena di giochi, i ritratti eseguiti compulsivamente, gli atteggiamenti invadenti e controllanti da un lato, inibiti e infantili dall’altro, la mancanza di rapporti sentimentali e sociali, sono alcuni degli elementi rilevanti nel rapporto tra Nina e la madre evidenziati con chiarezza ne Il cigno nero.
A tal proposito la ragazza appare un’estensione narcisistica dei bisogni materni: emblematica è la scena in cui la madre l’avverte sulle possibili avances del coreografo, che in passato gli sono costate l’interruzione del suo sogno nel cassetto, dichiarando apertamente il profondo odio nei confronti della figlia, condannata a pagare il prezzo della perfezione da raggiungere anche a costo della vita.
Il perfezionismo è quindi un modo per guadagnare le rassicurazioni esterne, ma anche un probabile “distrattore” dai bisogni di attaccamento: Nina evita i contatti sociali, amicali e sentimentali, l’allenamento è il suo chiodo fisso, fino a quando non basta più a raggiungere la completezza.
Tra perfezionismo e delirio
È allora che incontra la rivale Lily, una ballerina anticonformista, tatuata, fumatrice e ritardataria, ma proprio per questo ammirata dal coreografo che vede in lei il cigno nero, sensuale, coinvolgente e sicuro di sé. Imperfetta dal punto di vista tecnico, ma naturale, spontanea e imprecisamente interessante, Lily è sostanzialmente l’esatto opposto di Nina che, sempre più pressata dalle aspettative esterne e confusa sulle soluzioni per diventare la protagonista perfetta, comincia a maturare significativi deliri e allucinazioni a sfondo persecutorio.
Nella trama psicotica, Lily assume una forte valenza, proprio perché possiede i tasselli mancanti per interpretare entrambi i cigni: tuttavia, ogni tentativo di imitarla fallisce perché forzato dall’esterno e coadiuvato dalle sostanze. Nina è attratta dal carattere dell’amica che non teme il giudizio, né si preoccupa di rasentare la perfezione, perché la sua spontaneità è premiata anziché condannata. Lily è tutto ciò che Nina non è e non riesce ad essere per l’eccessivo bisogno di rassicurazioni, interne ed esterne; non è spontanea ma rigidamente ancorata agli standard e agli ideali irraggiungibili, alla necessità di definizione e di perfezione attraverso la minuziosa attenzione ad ogni dettaglio.
Nemmeno Leroy riesce a correggerla efficacemente e a contenere le sue paure, anzi, la istiga a spada tratta, fomentando i dubbi e le paure, forse per spronarla a tirare fuori quel lato di sé nascosto, ma presente. Il cigno nero, sensuale e coinvolgente, ma anche distruttivo e malato, è sempre stato in Nina, ma la riluttanza ad accettare quel lato oscuro di sé diventa un potente deterrente per l’insorgenza della psicosi.
In questo senso, i colleghi vengono visti come pericolosi complottisti che tramano per escluderla dal saggio finale, qualsiasi segnale diventa la conferma che la parte verrà affidata a Lily perché possiede le carte in regola per la protagonista perfetta; l’improvvisa uscita di scena di Beth, la precedente prima ballerina, gli apprezzamenti su Lily che diventa la protagonista “di riserva” nel caso Nina non fosse in forma per il debutto, assumono un significato abnorme e confermano le idee persecutorie di partenza.
Quello che sfugge alla protagonista è, in qualche modo, un principio sottolineato da Leroy: “La perfezione non è solo un problema di controllo, è necessario metterci il cuore. Sorprendi te stessa e sorprenderai chi ti guarda.” Il coreografo cerca di migliorarla, di indurla ad accettare l’altra sé, il cigno nero, che ha visto in lei poco prima di annunciarla come protagonista. Leroy crede nelle risorse di Nina, ma la incoraggia nel senso sbagliato, prova a farle notare che quella parte è dentro di lei più di quanto immagini, ma le sue direttive sembrano più orientate su precetti che la ragazza interpreta alla lettera, e i confronti con le colleghe non si rivelano ottime strategie di miglioramento, anzi, peggiorano la sintomatologia fino a renderla aggressiva verso gli altri, e infine verso sé.
L’autolesionismo, che prima arrivava a qualche graffio sulla schiena, verso la fine del film sfocia nel suicidio: anche in questo momento, è interessante notare l’oscillazione tra la fantasia delirante e la realtà dei fatti. Nina è convinta di uccidere Lily, dopodiché si sente libera di scatenare il cigno nero, ma quando si confronta con la verità, ovvero che Lily è viva, intatta ed entusiasta per il successo dell’amica, è allora che realizza di non avere altri nemici oltre a se stessa, e ritorna la fragile e debole Odette che si congeda dal mondo dei vivi serafica, per aver raggiunto lo scopo della sua esistenza: essere perfetta.
L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM
La psicopatologia e il malessere nella danza
Il film Il cigno nero è un ottimo punto di partenza per riflettere sulle possibili problematiche legate al mondo della danza. Il caso di Nina esprime alcune fragilità psicologiche che nella danza possono trovare un terreno fertile per aggravarsi; i confronti svilenti con le compagne, la comunicazione inefficace, l’assenza di supporto psicologico nella preparazione, la competizione e le pressioni esasperanti contribuiscono a peggiorare i sintomi fino al finale tragico.
In tal senso occorre considerare questi fattori di rischio trasversali a varie discipline; la danza, ad esempio, può essere un ottimo strumento terapeutico in grado di promuovere una consapevolezza di sé attraverso l’espressione emotiva intrisa nei movimenti corporei, proprio a questo proposito non devono mancare le strategie di insegnamento più indicate per indurre ogni allievo a raggiungere una coscienza dei pregi e dei difetti personali, al fine di accettarli o valorizzarli e migliorarli.
Nel caso di Nina, Leroy non spiega dettagliatamente il problema, bensì resta su un piano generalizzante, a tal punto che la ragazza in diverse occasioni ripete l’errore e chiede informazioni aggiuntive senza ottenere una risposta esaustiva.
Episodi analoghi accadono con elevata frequenza nel rapporto allievo-docente: spesso gli insegnanti danno per scontati alcuni passaggi o la spontaneità dei gesti, ostinandosi sul proprio punto di vista. Il rischio è quindi di esacerbare un circolo vizioso di incomprensioni, senza la possibilità di focalizzarsi costruttivamente sul problema per risolverlo.
Un altro errore ricorrente è il confronto con gli altri, o addirittura la valorizzazione di un singolo allievo: prendere un soggetto isolatamente come un esempio per eseguire correttamente un esercizio, non si dimostra un mezzo efficace per ottenere un miglioramento, anzi rafforza la competizione tra i compagni evitando la possibilità di intervenire sulle carenze.
È importante trasmettere la motivazione nelle giuste modalità, manifestando empatia e disponibilità ad aiutare ad affrontare il nodo problematico: ad esempio, comunicare la complessità dell’esercizio o dell’espressione delle emozioni in pubblico, specialmente per i principianti, ma anche l’importanza di esercitare le carenze, o in casi estremi, di accettarle come limiti delle proprie capacità può rivelarsi efficace.
Il perfezionismo, infine, non va confuso con la motivazione al cambiamento e al miglioramento delle prestazioni: è necessario distinguere l’esasperazione nel raggiungimento degli obiettivi ad ogni costo, dall’impegno consapevole dei limiti e delle potenzialità.
È opportuno precisare che il caso di Nina è, con molte probabilità, un tipico quadro di una schizofrenia per gli elementi ricorrenti in questa patologia psichiatrica; la famiglia controllante, ipercritica e intrusiva, con pochi contatti sociali, la prevalenza di schemi orientati sulla diffidenza, l’incapacità di coltivare rapporti intimi sentimentali e amicali. Come accade solitamente, la sintomatologia schizofrenica si scatena in seguito ad eventi dove le responsabilità e il carico di lavoro, o di studio, aumentano vertiginosamente, o ancora, quando compare una delusione affettiva.
Per quanto riguarda Nina, tra gli eventi di vita collegati con più frequenza all’esordio spiccano l’audizione per la parte principale del saggio e la conseguente assegnazione del ruolo. Non sono gli episodi presi isolatamente ad essere particolarmente stressanti, bensì l’interpretazione della protagonista che estremamente sensibile al giudizio esterno e alla realizzazione di una performance completa subisce un crollo psicologico quando le strategie utilizzate in precedenza si rivelano fallimentari. In tal senso è fondamentale prendere in considerazione il livello di gravità per un intervento su vari piani volti a ridurre il peggioramento della sintomatologia; ad un intervento psichiatrico e psicoterapico centrato sul paziente, vanno associati gli interventi psicologici rivolti ai famigliari, e la possibilità di un ricovero in fase acuta.
Infine, il film Il cigno nerotrasmette un’importante lezione nel contesto artistico: per emozionare il pubblico è necessario emozionarsi, e quindi affrontare ,e allenare, determinate caratteristiche di personalità, come la timidezza ad esempio, o la sensualità. La vicenda insegna che la completezza artistica non comprende solo la padronanza tecnica, ma anche l’importanza di suscitare un impatto emotivo nello spettatore, una competenza che può maturare attraverso le competenze psicologiche, come l’assunzione di molteplici prospettive, il riconoscimento e l’espressione emotiva, l’intraprendenza, per citarne alcune. Da ciò si deduce la necessità di una figura psicologica da affiancare all’insegnante per allenare le potenzialità psichiche implicate nell’espressione artistica.
Con la testa tra le nuvole: il vagare della mente tra creatività e rimuginio
Il vagare della mente corrisponde allo stato naturale della mente a contatto con se stessa, supportata dall’attività di aree cerebrali definite default mode network.
Avevo bisogno di una scusa. Un dato scientifico che mi garantisse l’assoluzione agli occhi della mia compagna, di tutti i colleghi che so volermi bene, dei miei figli anche. Guardo il libro di Corballis, La mente che vaga, negli occhi lo stesso lampo incredulo di un ladro a cui affidano la cassa del supermercato, “Mi scusi me la controlla un attimo? Il tempo di un caffè”. Lo sfoglio, è mio. Il testimone che cercavo che, agli occhi di una corte arcigna, affermasse che il vagare con la mente è pratica salutare, normale, dignitosa.
Distrazione, testa tra le nuvole la chiamano gli accusatori, gente di senso pratico, capace di saperti indicare ferramenta, idraulico e farmacia in tre quartieri adiacenti senza avvalersi di protesi elettroniche. Ora posso rispondere: il vostro disappunto è infondato. Io e tutti i viaggiatori della mente – mai più osiate chiamarci distratti – svolgiamo mansioni utili. Sia messo a verbale: il vagare della mente corrisponde allo stato naturale della mente a contatto con se stessa, supportata dall’attività di aree cerebrali definite default mode network.
Ottenuta l’assoluzione, mi tocca essere onesto. Il vagare con la mente ha due facce. È associato alla capacità di staccarsi dagli stimoli contingenti, costruire mondi alternativi e, quindi, fornire un basamento della creatività. D’altra parte è infarcito di rimuginio, la tendenza ad aggrovigliarsi sulle proprie preoccupazioni e a farle diventare alte come torri malesi. O facilita il consolidarsi di certezze consolatorie. Per dire, i narcisisti durante il vagare mentale dimorano nelle loro fantasie di un futuro grandioso ma se non lo fanno rivangano un passato inquietante.
Buon antidoto al vagare sterile è la mindfulness, l’arte di coltivare la consapevolezza del presente. Immagino una società di viaggiatori mentali che rivendichi il diritto a essere altrove, indossando una maglietta con l’avviso: “Stiamo creando”. Quel viaggio, non ce lo interrompete.
Come percepiamo gli odori: questione di chimica o di cultura?
Quando due persone odorano la stessa cosa, possono avere reazioni completamente diverse, a seconda di quello che è il loro background culturale.
Mariagrazia Zaccaria
Alcuni ricercatori hanno infatti notato che anche quando due culture condividono la stessa lingua (ad esempio il Quebec e la Francia), le persone reagiscono in maniera diversa agli stessi odori.
In una collaborazione con alcuni ricercatori del Neuroscience Centre di Lione, la Dr.ssa Jelena Djordjevic e il suo gruppo di ricerca al Montreal Neurological Institute hanno testato dei soggetti in Quebec sulle loro impressioni soggettive a diversi profumi, contemporaneamente alcuni loro collaboratori in Francia svolgevano lo stesso lavoro. Hanno scelto per la ricerca sei profumi: anice, lavanda, acero, olio di Wintergreen, rosa e fragola.
Ai partecipanti è stato chiesto di sentire l’odore di ogni essenza prima senza esser a conoscenza di cosa stessero annusando e i soggetti hanno valutato il profumo in termini di gradevolezza, intensità, familiarità e commestibilità.
Gli studiosi hanno anche misurato le reazioni non verbali dei soggetti ogni volta che annusavano un profumo diverso, tra cui: sniffing, l’attività dei muscoli facciali, respirazione e frequenza cardiaca.
I ricercatori hanno anche trovato delle differenze significative tra feedback agli stessi odori tra i francesi e i franco-canadesi.
Ad esempio, i soggetti francesi quando annusano l’olio di Wintergreen, mostrano dei feedback sulla piacevolezza molto più bassi rispetto ai soggetti franco-canadesi. Questo succede perché, in Francia, quest’olio è usato più come medicinale rispetto al Canada, dove si trova anche nelle caramelle.
I soggetti canadesi hanno mostrato più familiarità con odori tipo l’acero e l’olio di Wintergreen rispetto ai soggetti francesi, mentre a loro volta i francesi sono più familiari al profumo di lavanda. Il profumo di anice è stato descritto in maniera molto simile da entrambe le culture, anche se molto spesso in Quebec è stato definita come “liquirizia” e in Francia come “anice”.
Invece, nel momento in cui ai soggetti è stato reso noto il nome di ciò ciò che stavano annusando, si è riscontrato un aumentato della loro sensazione di familiarità e piacevolezza. Inoltre, le differenze culturali sono quasi scomparse o comunque diminuite per la maggior parte dei casi nel momento in cui era noto ciò che si stava annusando. Questo si è verificato anche per le reazioni non verbali ai profumi.
I risultati suggeriscono che le rappresentazioni mentali che si attivano se si associa un nome ad un odore sono molto simili tra le due diverse culture prese in esame. Anche le differenze culturali che si verificano nella percezione degli odori sono molto sottili e facilmente riducibili quando viene fornito ai soggetti il nome di ciò che stanno annusando.
Questo studio supporta l’idea che l’elaborazione del nostro cervello non è dovuta alla sola reazione ai composti chimici che compongono il profumo. Essa è influenzata sia dalla pregressa storia che si ha con quel determinato profumo che dalla sua conoscenza.
La Dr.ssa Djordjevic ha affermato che i processi base come quelli esaminati in questo studio, l’olfatto, sono influenzati dalla nostra cultura e dalle nostre conoscenze.
Il senso dell’olfatto occupa una parte molto antica del nostro cervello e studiarlo, ci aiuta a capire quanto e come ci siamo evoluti come specie. Inoltre, la perdita di funzionalità dell’olfatto è comune perché fa parte del normale processo di invecchiamento di un individuo, ma anche di molte condizioni neurologiche. Lo studio di questi disturbi può fornirci importanti indizi sui meccanismi di questi deficit e aiutarci a capire i modi per trattarli.
Bambini maltrattati: ecco come reagisce il loro cervello a parole di rifiuto
I dati di un recente studio clinico portano in evidenza una risposta neurale alterata agli stimoli di rifiuto sociale nei bambini maltrattati under 14.
Mio lì Chiung Ching Wang
Diversi studi internazionali – uno dei più celebri è stato eseguito nel 2014 da un’equipe della Graduate School of Education di Sapporo – hanno evidenziato come il cervello dei bambini maltrattati incontri alterazioni di sensibilità per quanto riguarda le risposte agli stimoli facciali di minaccia.
Tuttavia si conoscono poco i meccanismi d’influenza che i maltrattamenti hanno sull’elaborazione generale di una minaccia sociale, e ancor meno si sa riguardo al rischio psichiatrico in caso di elaborazioni atipiche degli spunti di minaccia.
Tutto ciò rappresenta una lacuna sicuramente da colmare per favorire il lavoro dei genitori e degli educatori, che hanno un ruolo fondamentale nel percorso di guarigione che segue un maltrattamento.
Come i bambini maltrattati reagiscono al rifiuto emotivo
Un recente studio, condotto da un’equipe attiva presso il dipartimento di psicologia della University College London, ha cercato di chiarire la situazione monitorando le reazioni di 41 bambini da 10 ai 14 anni, sottoposti a uno stimolo di rifiuto emotivo.
Nel suddetto campione sono stati inclusi 21 bambini con una storia documentata di maltrattamenti, e un gruppo di controllo di altri 20 che non avevano alle spalle alcun episodio di quella natura. I gruppi sono stati abbinati per età, sesso, stato puberale, quoziente intellettivo, status socio – economico. Le reazioni neurali allo stimolo di rifiuto emotivo sono state monitorate con la risonanza magnetica.
Rispetto ai loro coetanei, i bambini maltrattati hanno dimostrato una sensibilità ridotta davanti agli stimoli di rifiuto (dato confrontato con le reazioni davanti a stimoli neutrali). Questi risultati sono stati ottenuti osservando delle aree del cervello coinvolte nel disturbo da stress post traumatico successivo all’abuso, ossia l’amigdala sinistra, la corteccia parietale inferiore sinistra e la corteccia visiva.
Non sono state riscontrate sostanziali differenze tra i bambini coinvolti nel gruppo sperimentale e quelli coinvolti nel gruppo di controllo per quanto riguarda l’effetto Stroop, ossia la variazione dei tempi di reazione nell’esecuzione di un determinato compito, ossia la pronuncia ad alta voce del colore usato per stampare una parola.
I dati di questo studio clinico portano in evidenza una risposta neurale alterata agli stimoli di rifiuto sociale nei bambini maltrattati under 14. Rispetto ai loro coetanei hanno infatti mostrato un’attivazione cerebrale minore davanti a segnali di rigetto emotivo, tutto questo in aree del cervello precedentemente interessate da episodi di forte stress.
Tutto questo suggerisce, nei limiti della scarsità quantitativa del campione preso in esame, una reazione alle minacce che è un indice di vulnerabilità latente, futuro terreno per l’insorgenza di psicopatologie e di PTSD (disturbo post traumatico da stress) e che deve essere seguito da un approccio terapeutico mirato volto a prevenire conseguenze critiche in età adulta.
Il funzionamento cognitivo nella sclerosi multipla
Il profilo neuropsicologico caratteristico della sclerosi multipla presenta deficit a carico di diversi domini, quali attenzione, velocità di elaborazione delle informazioni, funzioni esecutive e memoria a lungo termine.
Anna Maria Mirto – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena
Che cos’è la Sclerosi Multipla?
La sclerosi multipla (SM), anche detta sclerosi a placche, è una patologia cronica autoimmune, infiammatoria e demielinizzante, progressivamente invalidante, a eziopatogenesi non definita, che colpisce il sistema nervoso centrale (SNC) (Cambier Jean M.M., 2005).
Essa rappresenta la più frequente malattia neurologica tra i giovani adulti (Grossi P., 2008) il cui esordio si manifesta nel 70% dei casi tra i 20 e 40 anni (Vella L., 1985; Grossi P., 2008), con un’età media d’insorgenza di 28 anni (Lanzillo R. et al., 2016). Negli ultimi anni, si è inoltre osservato un incremento dal 3% al 5% di casi di sclerosi multipla ad esordio precoce, ossia precedente ai 18 anni (Lanzillo R. et al., 2016).
Il termine “sclerosi” attribuito alla malattia deriva dalla presenza di lesioni, caratterizzate da indurimento e cicatrizzazione dei tessuti, che prendono il nome di placche. Queste, nella sclerosi multipla, presentano due aspetti peculiari su cui viene fondata la diagnosi, quali la disseminazione temporale, ossia un andamento progressivo e ingravescente nel corso della malattia, e la disseminazione spaziale. È relativamente a quest’ultima che si spiega il perché dell’aggettivo “multipla”, derivante dalla molteplicità di aree cerebrali e regioni del midollo spinale interessate dal processo patologico di demielinizzazione (o dissociazione assomielinica). In particolare, i siti in cui più frequentemente si localizzano le placche riguardano la sostanza bianca delle regioni periventricolari, del nervo ottico, del tronco encefalico, del cervelletto e nei cordoni anterolaterali e posteriori del midollo spinale (Vella L., 1985).
Sintomatologia
L’effetto fisiopatologico del processo di dissociazione assomielinica consiste nella riduzione della velocità di conduzione degli impulsi, la quale si manifesta attraverso un eterogeneo spettro sintomatologico. Infatti, dipendentemente della sede del focolaio di demielinizzazione che va in contro a perdita della propria funzionalità, è possibile osservare l’insorgenza di diversi sintomi (Cambier Jean M.M., 2005):
Motori: dovuti ad un interessamento della via piramidale, possono manifestarmi mono- o bilateralmente, distribuendosi in maniera emiparetica (l’emiparesi è la perdita parziale della forza muscolare e della motilità volontaria di un lato del corpo, dx o sx) o, più spesso, paraparetica (la paraparesi è la perdita parziale della forza muscolare e della motilità a entrambi gli arti superiori o inferiori. ). Tra i deficit motori più frequenti rientrano l’alterazione della marcia che assume carattere di spasticità, il segno di Babinski, abolizione dei riflessi addominali superficiali del riflesso velo palatino;
Sensitivi: interessano uno o più arti, il tronco e il volto, e possono manifestarsi mono- o bilateralmente. Consistono in parestesie tattile, termica e algica, e segno di Lhermitte (quest’ultimo consiste in una sensazione di scarica elettrica);
Cerebellari: si manifestano in disturbi dell’equilibrio e della coordinazione motoria, come l’atassia della marcia, perdita di equilibrio ed insorgenza di vertigini, astenia degli arti, disartria (ovvero disturbo motorio del linguaggio dovuto a disordine fonoarticolatorio caratterizzato da debolezza e mancanza di coordinazione della lingua e della muscolatura orale e facciale.) associata a scarsa fluidità nell’eloquio, lentezza e alterazione della prosodia, disfagia;
Deficit dei nervi cranici: i sintomi variano in funzione del nervo soggetto a demielinizzazione. I più frequenti sono vertigine, disequilibrio e nistagmo, ovvero movimenti oscillatori, ritmici e involontari dei globi oculari (vie vestibolari), ipoacusia (nervo cocleare), miochimie (disturbi del movimento che consistono in contrazioni muscolari involontarie ampie) facciali, paralisi facciale periferica, emispasmo facciale (contrazione unilaterale, involontari ed intermittente dei muscoli della faccia, nervo facciale in particolare), diplopia (nervi oculomotori), neurite ottica retro bulbare (NORB, nervo ottico: essa può essere definita come uno dei sintomi caratteristici della sclerosi multipla in quanto, nel corso dell’evoluzione della malattia, presto o tardi che sia, si manifesta attraverso l’abbassamento dell’acuità visiva);
Disfunzioni vegetative: osservabili nella percezione di fatica, nei disturbi intestinali (stipsi o dissenteria), sessuali (perdita sensibilità genitale, diminuzione della libido, disfunzione erettile e perdita della capacità orgasmica), delle vie urinarie (incontinenza);
Sintomi parossistici: rappresentano sintomi a insorgenza improvvisa e risoluzione rapida, nella sclerosi multipla ne è un esempio l’epilessia.
L’esame di questi sintomi, e quindi dell’efficienza dei diversi sistemi neurologici funzionali, permette di misurare lo stato di invalidità delle persone affette da sclerosi multipla e di monitorare la progressione della malattia.
Uno degli strumenti utilizzati a tal fine e che nella pratica clinica viene specificatamente impiegato per la valutazione delle strategie terapeutiche è l’Expandend Disability Status Scale (EDSS) (Kurtzke J.F., 1983) [v. Fig. 1].
Fig. 1 – Expandend Disability Status Scale (EDSS)
Questa scala, tuttavia, si mostra inadeguata nel fornire una valutazione globale della sintomatologia caratteristica della Sclerosi Multipla in quanto non prevede l’indagine funzionale dello status degli arti superiori e del quadro cognitivo. A tal proposito, lo strumento per eccellenza raccomandato inoltre dalla Task Force on Clinical Outcomes Assessment of National Multiple Sclerosis Society è il Mulpiple Sclerosis Funcional Composite (MSFC), il quale consente un’indagine multidimensionale dei sintomi clinici della sclerosi multipla (Fischer J.S. et al., 2013).
Funzionamento Cognitivo
Come riportato pocanzi, tra i sintomi clinici della sclerosi multipla rientra anche la compromissione degli aspetti cognitivi. Infatti, tra la popolazione affetta da questa patologia si stima un range di prevalenza di alterazione del funzionamento cognitivo che va dal 43% al 70% (Chiaravallotti N.D. e DeLuca J., 2008). Tale ampia variabilità dei dati può essere ricondotta ai differenti criteri clinici di selezione del campione adottati dai diversi studi (es: tipo di decorso, grado di disabilità e durata della malattia) (Planche V. et al., 2015).
Il profilo neuropsicologico caratteristico della sclerosi multipla presenta deficit a carico di diversi domini, quali attenzione (sostenuta, selettiva, divisa e alternata), velocità di elaborazione delle informazioni, funzioni esecutive (concettualizzazione astratta, problem solving, pianificazione, multitasking, fluenza verbale) e memoria a lungo termine (Chiaravallotti N.D. e DeLuca J., 2008). I domini solitamente risparmiati sono, invece, il linguaggio e l’intelligenza generale (Q.I.) (Planche V. et al., 2015).
Alcuni studi hanno osservato differenti quadri di funzionamento cognitivo in correlazione al tipo di variante di sclerosi multipla. In particolare, in una recente ricerca condotta da un gruppo francese (Planche V. et al., 2015), si è tentato di fare chiarezza circa le somiglianze e le differenze cognitive tra le varianti Recidivante-Remittente (RR), Progressiva Secondaria (PS) e Progressiva Primaria (PP).
I domini indagati nel presente studio erano: velocità di elaborazione, working memory, memoria verbale episodica, funzioni esecutive, fluenza verbale, denominazione e prassia costruttiva. Tra questi, la velocità di elaborazione delle informazioni è emersa come la funzione cognitiva più frequentemente danneggiata, seguita poi da memoria verbale episodica, funzioni esecutive, abilità costruttive visuo-spaziali. Relativamente alla correlazione tra tipologia di variante della sclerosi multipla e grado di severità dell’alterazione cognitiva, è emerso che, tra i 101 soggetti inclusi nello studio, il 77% mostrava un declino cognitivo caratterizzato da almeno 1 dominio danneggiato, il 63%, invece, presentava una alterazione severa (almeno 2 domini danneggiati). Tra i partecipanti alla ricerca rientranti in quest’ultima condizione, si è osservata una maggioranza di pazienti con forma progressiva, di cui quelli con variante PS sono risultati essere più frequentemente interessati.
Infine, dalle analisi dei dati sociodemografici e dell’EDSS si sono riscontrate una correlazione positiva tra alterazione cognitiva e disabilità fisica e una correlazione negativa tra declino cognitivo e scolarizzazione. Pertanto, dallo studio di Planche e collaboratori (2015) si evince come le forme progressive, ed in particolare la variante PS, e un grado di disabilità medio (EDSS > 4) rappresentino due predittori del declino cognitivo.
Relativamente ai cambiamenti del funzionamento cognitivo nel corso della progressione della malattia, ad oggi si contano pochi studi longitudinali in letteratura che hanno analizzato questo aspetto. In particolare in un follow-up di 10 anni condotto da Amato e collaboratori (2001) si è stimato un incremento della popolazione con declino cognitivo pari al 30%; in un altro studio, poi, hanno osservato una progressione del declino con estensione verso molti domini cognitivi precedentemente integri (Kujala P. et al., 1996)
Depressione e Declino Cognitivo
La presenza di disabilità fisica, unitamente alla percezione di una bassa qualità della vita, hanno, nel malato affetto dasclerosi multipla, un forte impatto sulla sfera psicoemotiva, influenzando le capacità di coping e lo stato dell’umore (Lynch S.G. et al., 2001; Lanzillo R. et al., 2015; Johansson, S. et al., 2016). In particolare, il sintomo psichiatrico maggiormente diffuso in questa patologia, già noto ai tempi di Charcot (1879), scopritore della sclerosi multipla, è la depressione.
Data l’alta frequenza con cui questo disordine dell’umore si presenta nella sclerosi multipla, diverse ricerche hanno analizzato la possibile relazione tra questo sintomo e il funzionamento cognitivo. I risultati ad oggi presenti in letteratura, sembrano suggerire una ricaduta negativa della depressione sulla performance cognitiva solo entro i livelli moderato-severo del sintomo psichiatrico e in maniera circoscritta ai domini cognitivi di velocità di elaborazione, working memory e funzioni esecutive (Siegert, R.J. e Abernethy, D.A., 2005).
Conclusione
La sclerosi multipla si configura come la prima patologia neurologica a comportare invalidità fisica tra la popolazione giovane. A causa del processo di demielinizzazione caratteristico della malattia e che interessa molteplici siti cerebrali e del midollo spinale, la vita del malato di sclerosi multipla si ritrova costellata da una eterogenea sintomatologia, indicativa della compromissione di diversi domini funzionali, fisico-motori e cognitivi. I deficit che insorgono hanno poi un impatto sull’autonomia dell’individuo, incidendo negativamente, spesso, sulla percezione della qualità di vita e sulla sfera emotiva.
Risulta, pertanto, fondamentale intervenire quanto più precocemente possibile, non solo farmacologicamente per evitare e ritardare la disabilità fisica, ma anche con un supporto psicologico al fine di aiutare il paziente ad affrontare e accettare i cambiamenti dovuti dalla malattia.
Tra orientamento sessuale non conforme e religione cattolica: un’intervista
Una riflessione sul rapporto che una persona con orientamento sessuale non eterosessuale può avere con la fede cattolica. Lo scopo sarà quello di mettere in evidenza la sofferenza psichica a cui una persona può andare incontro nel vivere entrambe queste dimensioni. Si farà riferimento alla religione cristiana cattolica in particolare, in quanto nel contesto italiano è la confessione a cui più persone aderiscono.
Alcuni precetti della Chiesa Cattolica
Qui di seguito verranno riportati esigui elementi essenziali della Chiesa Cattolica, per fare questo ci si è serviti del “Catechismo della Chiesa Cattolica. Compendio” redatto da una commissione di Cardinali, presieduta da Papa Benedetto XVI e pubblicato nel 2005.
All’interno della Chiesa Cattolica, l’Eucaristia, più comunemente conosciuta come “Comunione”, “è il segno dell’unità, il vincolo della carità, (…) nel quale si riceve Cristo, l’anima viene ricolmata di grazia e viene dato il pegno della vita eterna”. Per un fedele l’Eucaristia assume molta importanza, in quanto “è fonte e culmine di tutta la vita cristiana”.
Per poter ricevere la santa Comunione la Chiesa richiede che si sia “pienamente incorporati alla Chiesa cattolica (…), cioè senza coscienza di peccato mortale. Chi è consapevole di aver commesso un peccato grave deve ricevere il Sacramento della Riconciliazione prima di accedere alla Comunione”.
Un peccato è considerato mortale, anziché veniale, quando “ci sono nel contempo materia grave, piena consapevolezza e deliberato consenso”. In questo caso dunque, per accedere all’Eucaristia, che ricordiamo essere, per il cattolicesimo, l’origine e l’apice della vita cristiana, si devono confessare i propri peccati gravi, impegnandosi a non peccare più, al sacerdote, perché si possa ottenere il perdono. Il perdono ha la potenza di eliminare le azioni ormai compiute ed il peso delle conseguenze di queste, oltre a permettere di tornare allo stato di grazia, di riconciliarsi con la Chiesa, di riappropriarsi della pace e della serenità della coscienza.
Identità sessuale e fede religiosa
All’interno della Chiesa Cattolica, una persona con orientamento sessuale non unicamente eterosessuale sentirà l’esigenza di dover “essere in grazia di Dio” per accedere al sacramento dell’Eucaristia, e per questo motivo confesserà i propri atti omosessuali, considerati gravemente contrari alla religione cristiana. La Confessione ruoterà dunque attorno all’atto omosessuale, anziché all’identità sessuale della persona. Eppure questa scissione tra atti ed identità non è così facile da attuarsi, soprattutto in materia di percezione di se stessi.
Ci serviremo a questo proposito delle parole di una grande filosofa come Hannah Arendt, allieva di Husserl, Heidegger e Jaspers: “Agendo e parlando gli uomini mostrano chi sono, rivelano attivamente l’unicità della loro identità personale, e fanno così la loro apparizione nel mondo umano (…). Questo rivelarsi del “chi” è qualcuno è, in contrasto con il “che cosa” – le sue qualità e capacità, i suoi talenti e i suoi difetti, che può esporre o tenere nascosti – è implicito in qualunque cosa egli dica o faccia. Si può nascondere “chi si è” solo nel completo silenzio e nella perfetta passività”.
In questa cornice i propri sentimenti, atti e la propria identità sembrano essere in contrasto con la morale della propria Chiesa. Questo conflitto potrebbe giocarsi tra il bisogno di vivere serenamente la propria sessualità ed il bisogno che Dio, Gesù e la Chiesa amino ed accettino l’identità sessuale e le azioni che la caratterizzano. Questi bisogni si presentano sia a livello intrapersonale, che interpersonale. Attraverso uno sguardo più propriamente cognitivo potremmo immaginarci due pensieri esemplificativi in opposizione tra loro:
“sono felice di aver avuto un rapporto sessuale con X, persona del mio stesso sesso”; e
“mi pento di aver avuto un rapporto sessuale con X, persona del mio stesso sesso”.
La seconda cognizione è ampliabile a “mi pento davanti agli occhi di Dio, Gesù e della Chiesa di aver avuto un rapporto sessuale con X”. Questa aggiunta cambia sicuramente, da un punto di vista psicologico, il “locus of thought”.
Rimanere all’interno di questo conflitto può creare malessere e stress, dovuti ad una visione non coerente ed univoca di sé e delle proprie credenze. Come riportato in un precedente articolo sul tema della dissonanza cognitiva il disagio aumenta di intensità in relazione all’importanza che gli argomenti in contraddizione rivestono per la persona. In questo caso, sia l’identità di una persona che la sua fede (ed il conseguente o talvolta scisso senso di comunità) sono temi rilevanti.
Nel 2009 una task force dell’American Psychological Association ha approfondito il tema della religione e dell’omosessualità in termini di minority stress e stigma, invitando psicologi e psicoterapeuti a considerare come ciò possa diventare un ulteriore stressor in persone appartenenti ad una minoranza. L’APA invita i professionisti a riconoscere l’importanza della religione, in quanto sistema di significati, comunità, cultura ed identità. Una ricerca condotta in Italia ha portato alla pubblicazione:
Religione e omosessualità: uno studio empirico sull’omofobia interiorizzata di persone omosessuali in funzione del grado di religiosità, D. Dèttore, A. Petilli, A. Montano, G.B. Flebus.
Ricerca di cui si riporta l’abstract:
«Secondo i dettami della Congregazione per la Dottrina della Fede, il desiderio omosessuale, ma soprattutto il comportamento omosessuale, sono in netto contrasto con la dottrina cattolica istituzionalizzata. Gay e lesbiche cattolici si trovano quindi in stato di grande conflitto. Con l’intento di favorire lo sviluppo di un’identità in cui fede e omosessualità sono integrate con successo, i gruppi italiani di cristiani omosessuali organizzano numerose attività finalizzate a ridurre lo stigma derivante dalla condanna cattolica dei rapporti omoerotici e a promuovere una fede personale che potrebbe trasformare la religione in una potente risorsa psicologica. Per valutare se tali obiettivi vengano raggiunti, il presente studio si propone di verificare se i livelli di omofobia interiorizzata dei partecipanti siano minori rispetto a quelli mostrati dai gay e dalle lesbiche cattolici che non li hanno mai frequentati e dagli omosessuali non credenti. Benché emerga che i soggetti cattolici dello studio siano più omofobici, le loro condizioni mentali generali non differiscono rispetto a quelle degli omosessuali non credenti. Inoltre, all’aumentare del tempo dedicato alla frequentazione dei gruppi i livelli di omofobia interiorizzata dei partecipanti si riducono mentre migliora il benessere psicologico generale. Nelle conclusioni tali dati sono discussi in relazione all’efficacia di tali gruppi».
Tra orientamento sessuale non conforme e religione cattolica: l’intervista
Per concludere, riporterò in seguito alcune delle parole di una donna, omosessuale e cattolica, che si è gentilmente resa disponibile a rispondere a qualche domanda sul suo modo di vivere il rapporto tra questi due nuclei della sua attuale vita.
Cos’è per te la Religione?
«Il Cristianesimo è una relazione. La mia conversione è avvenuta con l’incontro con la figura di Gesù e un Dio che è Verità, la Verità che si fa uomo. La Verità che ci porta è che la misura dell’amore è il sacrificio. Il compimento di questa Verità sta nella Passione, che Gesù vive e che è la realizzazione di “non c’è cosa più grande che dare la vita per i propri amici”. Quindi, quando mi dimentico che cos’è l’Amore, quando perdo la bussola, e mi sento confusa, nelle relazioni sentimentali e con gli amici, io guardo la croce e mi ricordo qual è il fine della nostra vita, che in definitiva siamo fatti per Amare, nel suo significato più pieno ed alto. Quindi potrei dire che la religione, la Croce è il mio nord»
Cos’è per te il sacramento della Riconciliazione?
«E’ come se Dio ti guardasse e ti dicesse “Peccato! Ti avevo creato per qualcosa di meglio di questo”. E non è il dito puntato. Questo cambia la prospettiva ed è come se ogni volta Dio veramente rinnova quello sguardo di fiducia su di te, e ti ridà la possibilità di far sbocciare dentro di te la tua parte migliore, anche se sa che nella tua debolezza umana molto probabilmente ricadrai. E quindi io veramente quando ricevo l’assoluzione vivo un momento di grandissima commozione»
Cos’è per te il sacramento dell’Eucaristia?
«E’ Gesù che compie il sacrificio totale di Sé. E attraverso la partecipazione all’Eucarestia entriamo a far parte del suo corpo mistico, che è la Chiesa, intesa come comunione dei credenti, ovvero di coloro che dovrebbero rinunciare al peccato (risata), e che umanamente fanno quello che possono. E quindi, quando vedo sull’altare rinnovarsi la passione di Cristo nel sacrificio dell’Eucarestia mi rendo conto di che atto di amore enorme sia, sempre per quell’idea che la cosa più grande è sacrificare la propria vita per gli amici. E quindi è un Dio che mi ama tantissimo. Per cui l’Eucaristia è una cosa davanti alla quale provo una commozione fortissima. È un’esperienza meravigliosa vivere l’Eucaristia in questo senso, è proprio un mistero d’amore»
Come vivi il rapporto tra Fede e la identità sessuale?
«Sarei un’ipocrita se dicessi che non è una cosa problematica, perché lo è di fatto. La posizione della Chiesa Cattolica bene o male la conoscono tutti, ufficialmente ti dicono: “si va bene se sei omosessuale. Non è un peccato essere in una condizione di omosessualità o di omoaffettività, purché tu non la eserciti, quindi che tu non compia atti omosessuali”. Però a me viene da chiedere “in che misura sono omosessuale?”, non è che io mangio da omosessuale, lavoro da omosessuale, cammino da omosessuale – forse camminare un po’ si (risata) – “ma in che cosa sono omosessuale se non nella mia vita affettiva e sessuale, appunto?”. Quindi la questione è che Tu non mi stai chiedendo di rinunciare ad un atto, mi stai chiedendo di rinunciare ad una fetta veramente grossa della mia identità e questo è un problema»
Come vivi il doverti riconciliare con la Chiesa per i tuoi atti omosessuali?
«La vivo male. È una cosa che vivo con grande conflitto perché da una parte lo trovo ingiusto, assurdo, proprio perché so quello che sento e non lo vivo come una perversione, ma come una cosa legata in modo armonioso a quella che è la mia personalità. Però nello stesso tempo io credo nella Chiesa e nel Vangelo e quindi il dubbio che forse hanno ragione Loro c’è sempre. Quindi è un grosso conflitto perché alla fine l’unica cosa che posso dire è “Signore se questa è davvero una cosa che tu non vuoi o che è sbagliata toglimela oppure accettami per come sono”. In fondo nessuno a parte Gesù è in grado di amare in modo perfetto. Amo come posso, quindi questa è un po’ la via d’uscita che mi do. Però senza ombra di dubbio è un grandissimo conflitto che sono costretta a vivere perché nella mia testa echeggiano un sacco di cose, di contraddizioni. Questa cosa mi toglie molta serenità.
Il problema grosso si presenterà il giorno in cui io dovessi avere una relazione. Sarà un problema allacciarsi ai Sacramenti, come lo è per i divorziati. Il peccato per eccellenza è la disobbedienza, dunque, malgrado io senta che in questa cosa non c’è giustizia, non mi farò giudice di quelle che sono le regole e preferirò rinunciare ad una cosa che per me è fondamentale, come l’Eucarestia. Altrimenti potrei trovare un direttore spirituale, che si assumerebbe la responsabilità, ma questa è una cosa che non ho ancora affrontato e che forse sto un po’ rimandando.
Comunque, spesso si chiede che problemi hai a vivere la tua religiosità con il fatto che sei omosessuale, a questo punto io rovescerei anche gli addendi: “che problemi hai tu a vivere nel mondo omosessuale da credente?” È molto difficile perché mi trovo a confrontarmi con persone che hanno una visione di relazione con l’altro che fa a pugni con quella che è la mia, e questo, per me, è molto lacerante.»
Greta Riboli
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L’orientamento temporale e la prospettiva psico-neuro-metabolica
L’ orientamento temporale offre una prospettiva scientifica originale non solo per cogliere le conseguenze psicologiche e comportamentali ma anche per evidenziare le connessioni con gli aspetti neuro metabolici.
Orientamento temporale: la relazione psicologica col tempo
L’approccio psicologico chiamato Orientamento Temporale (Stolarski et. al. 2014; Zimbardo e Boyd, 2008) studia la relazione psicologica che ciascuno di noi ha nei confronti del tempo presente, passato e futuro.
Dalla specifica configurazione temporale che caratterizza ciascuno di noi corrisponde un peculiare stile cognitivo, emotivo e motivazionale che condiziona il modo di effettuare le scelte, i comportamenti, lo stile di vita che condiziona la nostra qualità di vita.
La tesi coerente con questo approccio temporale che ritengo sia interessante da esplorare è che ciascuna configurazione temporale (chiamata anche profilo temporale) ha una sua modalità specifica di gestione psico-metabolica ed immunitaria dello stress.
Dal filone di ricerca iniziato dal famoso esperimento dei marshmallows del prof. Walter Mischel (Mischel, et.al.,1989) dove si erano trovate correlazioni particolarmente forti e durature tra la capacità di posticipare la gratificazione e fattori chiave per la salute in età adulta (l’indice di massa corporea, il grado di soddisfazione di vita, salute generale, ecc.), il prof. Phil Zimbardo, psicologo di fama mondiale della Stanford University, cominciò ad approfondire l’argomento temporale fino a definire l’attuale ricerca focalizzata sulle dimensioni del tempo. Il prof. Zimbardo, ha condensato più di 30 anni di ricerche scientifiche inerenti la relazione che abbiamo nei confronti del tempo vissuto individualmente, definendo quello che viene chiamato Orientamento Temporale.
Orientamento temporale e implicazioni metaboliche e immunitarie
La particolare configurazione temporale che ogni individuo possiede nei confronti del presente, del passato e del futuro influenza in maniera profonda e generalizzata, anche se spesso in modo del tutto automatico ed inconscio, le scelte, le decisioni ed i comportamenti derivanti. Le conseguenze di queste scelte hanno un forte impatto sia sul piano del vissuto esperienziale che comportamentale (Zimbardo e Boyd, 2008) e quindi anche, a mio avviso, nella gestione dello stress con le logiche implicazioni metaboliche ed immunitarie.
Scegliere se mangiare un frutto o uno snack ipercalorico, decidere se procrastinare gli esercizi fisico-motori che si potrebbero fare adesso preferendo invece giocare ad un videogioco, sono banali esempi quotidiani che ci aiutano a capire come i processi decisionali che compiamo continuamente hanno forti conseguenze sia a breve che nel lungo termine per la dinamica cumulativa che possono produrre nel tempo.
L’ipotesi oggetto del mio lavoro di ricerca è che il nostro caratteristico atteggiamento temporale, oltre a determinare molte caratteristiche psicologiche, possa influenzare anche il livello neurale, metabolico ed immunologico per la dinamica intrinsecamente integrata di questi aspetti.
Naturalmente tutte le persone pensano sia ad eventi del Passato che del Presente che del Futuro, ma chiaramente ognuno di noi ha una particolare configurazione relativa a “quanto” frequentemente si focalizza in una o più di queste dimensioni temporali.
Il prof. Zimbardo con il suo gruppo di ricerca ha elaborato un test capace di misurare il rapporto che abbiamo nei confronti del tempo chiamato questionario ZTPI (cioè Zimbardo Time Perspective Inventory), uno strumento validato transculturalmente in 24 nazioni attraverso oltre 15000 persone (Stolarski et. al. 2014). Dall’analisi del test ZTPI emerge una configurazione (il profilo temporale) di valori che rappresentano lo stile cognitivo-emotivo e motivazionale che determina la modalità particolare di effettuare le scelte, i pensieri ed i comportamenti che compiamo. Ogni profilo temporale è modificabile nel tempo, può cambiare cioè, in funzione della specifica tipologia e frequenza di esperienze che facciamo. Le dimensioni analizzate dal questionario ZTPI sono cinque: due relative alle nostre esperienze passate negative e positive (rispettivamente il“Passato Negativo e “Passato Positivo”), due riguardanti il nostro presente (“Presente Fatalistico” legato a quanto ci sentiamo protagonisti attivi degli eventi significativi che sperimentiamo, ed il “Presente Edonistico” che misura invece la frequenza di esperienze piacevoli, sia positive che negative per la nostra salute, che conduciamo) e una attinente il nostro “Futuro”(l’insieme di aspettative sui progetti ed obiettivi che perseguiamo). Queste dimensioni temporali si sono dimostrate significativamente correlate in misura molto solida a specifiche caratteristiche psicologiche (Zimbardo e Boyd, 2008).
Ciascuna dimensione temporale è connessa con alcuni specifici fattori sia d’ordine psicologico che, anche se indirettamente, fisiologico (Zimbardo e Boyd, 2008). Ad esempio, chi è maggiormente focalizzato nel Passato Negativo risulta essere più ansioso, depresso, aggressivo, con minor autostima, stabilità emotiva e controllo dei propri impulsi, meno felice e con un minor livello percepito di energia generale. Chi invece è più focalizzato sul Presente Edonistico ricerca sensazioni “forti”, ha alti livelli di energia, creatività e aggressività e rispetto alla media della popolazione risulta essere più incoerente, possedere un basso livello di controllo dei propri impulsi oltre ad essere meno stabile emotivamente.
Le persone invece maggiormente concentrate sul Futuro pianificano i loro comportamenti e sono più attenti alla loro salute, sono più coerenti e coscienziosi, hanno maggiore energia e più controllo delle loro azioni. Sono meno aggressivi e depressi e cercano meno le sensazioni “forti” anche se tendono ad essere stacanovisti a livello lavorativo. E’ interessante che da uno studio inizialmente strettamente psicologico qual é l’ Orientamento Temporale sia possibile identificare correlazioni statisticamente solide anche sul piano metabolico ed immunologico. Vi potrebbero essere infatti diverse ricadute fisiologiche/metaboliche correlate alle varie configurazioni caratteristiche i vari profili temporali (indice di massa corporea, tendenza ad uno stile depressivo, livelli di energia generale percepita, ecc.).
E’ dunque plausibile ipotizzare che ad ogni tipologia di profilo temporale corrisponda una specifica strategia di gestione dello stress con le sue logiche e profonde conseguenze sia a livello metabolico che immunologico. Come sappiamo allo stress cronico corrisponde una modificazione di almeno due fondamentali architetture con i loro molteplici ed interconnessi effetti: il sistema nervoso (centrale e autonomo) e l’asse HPA (ipotalamo-ipofisi-surrene). Nella condizione di stress cronico queste due strutture risultano fortemente alterate rispetto alla condizione di benessere psicofisico ottimale perché innescano entrambe processi fisiologici metabolici e neurali finalizzati a ripristinare l’equilibrio iniziale tramite azioni compensative ed adattative (si veda in merito il contributo ad esempio di Straub, 2011).
La prospettiva psicologica temporale ci permette in sintesi di comprendere perché, ad esempio, un profilo più focalizzato sul Passato Negativo caratterizzato da una maggiore frequenza di emozioni negative (rimuginii e ruminazioni) e uno stile generale più correlato alla depressione, possa implicare un sistema immunitario compromesso per l’interferenza dell’azione che collega la corteccia prefrontale al tronco encefalico inibendo l’attivazione antiinfiammatoria del nervo vago efferente (cholinergic pathway reflex). Da studi preliminari che ho condotto su 32 persone che hanno la Sindrome Post Traumatica da Stress (Agnoletti, 2016) ho riscontrato che, coerentemente con questa ipotesi, la caratteristica presenza di ricordi intrusivi negativi è correlata non solo ad un profilo temporale con un “alto” valore di Passato Negativo (in accordanza con quanto previsto dalla teoria dell’ Orientamento Temporale) ma anche ad indici infiammatori alterati (compresa la produzione cortisolo) oltre a bassi livelli di funzionamento delle pathways antiinfiammatorie (Agnoletti, 2016).
Sempre a titolo d’esempio, le implicazioni descritte dall’approccio temporale rendono maggiormente evidente la possibile connessione psicofisica tra stile cognitivo-emotivo e motivazionale e conseguenze metaboliche di coloro che risultano essere più proni a sviluppare dipendenze (perché funzionali alla gestione immediata dello stress) cioè di coloro che sono focalizzati sul Presente Edonistico. Le implicazioni di questa tipologia di persone caratterizzate da una specifica gestione dello stress orientata prioritariamente all’evitamento immediato di esperienze spiacevoli ha chiari effetti sulle strategie per contrastarli ad esempio a livello nutrizionale (ricerca di “comfort food”) o di uso/abuso di sostanze che creano dipendenza. Come risulta evidente questa modalità di gestione dello stress risulta essere molto diversa rispetto a quella di coloro che presentano, ad esempio, un profilo temporale maggiormente focalizzato sul Futuro caratterizzato dal non reagire alle situazioni stressanti attraverso l’utilizzazione di strategie edonistiche.
In sintesi ritengo che indagare le connessioni esistenti tra il Profilo Temporale ed il notevole bagaglio di conoscenze fornite dalle scienze biomediche sia molto prezioso per il notevole impatto sulla qualità di vita e la salute e le strategie psicofisiche integrate che si possono sviluppare per migliorarle.
Lo sfregio e la follia: cosa induce a deturpare le opere d’arte
Perché tali eventi di sfregio si sono verificati proprio nel campo dell’arte e non, per esempio, nell’avido mondo della finanza? Cosa può esserci dietro? Per rispondere a queste domande e per comprendere i meccanismi che spingono alcuni individui a scatenare la loro aggressività nei confronti di alcuni capolavori artistici possono esserci d’aiuto, oltre alla psicologia e alla psichiatria, anche le neuroscienze, in particolare la neuroestetica, neologismo coniato da Semir Zeki (1940), neuroscienziato e Professore di Neurobiologia allo University College di Londra.
Alcuni esempi di capolavori sfregiati
Sono veramente tante le opere d’arte dal valore inestimabile che, nel corso degli anni, sono state sfregiate, spesso irreparabilmente: dalla Pietà (1497-1499) di Michelangelo che, nel 1972, venne vandalizzata da tal László Tóth, il quale, eludendo la sorveglianza vaticana, riuscì a colpire con un martello la Madonna (di cui frantumò il braccio ed il gomito e di cui distrusse il naso e le palpebre) alla tela Black on Maroon (1958) di Mark Rothko che, esposta alla Tate Modern di Londra, nel 2012 fu deturpata con un pennarello nero da tal Vladimir Umanets, che sostenne di aver fatto un’operazione alla Duchamp.
E ancora: era il 1989, quando tal Thomas Lange, nella Pinacoteca dei Musei Vaticani, si avvicinò al capolavoro di Raffaello Madonna di Foligno (1511-1512), vi gettò sopra del liquido infiammabile e poi tentò di darle fuoco; era il 1991, quando tal Pietro Cannata colpì con il martello il David (1501-1504) di Michelangelo al Museo dell’Accademia a Firenze, distruggendo un dito del piede sinistro. Era il 1993, quando il medesimo Cannata scarabocchiò con un pennarello gli affreschi del Lippi nel Duomo di Prato e quando tal Maurizio Pasquino entrò nella Chiesa degli Ermitani a Padova e spruzzò dello spray rosso sull’affresco del Mantegna raffigurante il trasporto del corpo di San Cristoforo (1454-1457).
Questi sono solo alcuni esempi dei tanti capolavori sfregiati: tanti altri eventi simili si sono verificati, nel tempo, per mano di individui diversi. Cosa può esserci dietro a questi gesti? Non è semplice capire i motivi che spingono una persona a sfogare la propria rabbia e la propria aggressività sulle opere d’arte: a volte si tratta di puro teppismo, altre volte, invece, si tratta di azioni di squilibrati, psicopatici o artisti falliti, che riversano la loro insoddisfazione sui capolavori altrui, come nel caso di Cannata, che era stato un ex studente di estetica ed un pittore mancato e che, nel 1999, dopo aver già compiuto altri sfregi, imbrattò a colpi di pennarello i Sentieri ondulati (1947) di Jackson Pollock: un dipinto già molto ingarbugliato di per sé che proprio non gli andava giù.
Cosa scatena questa aggressività verso le opere d’arte: il contributo della neuroestetica
Ma perché tali eventi si sono verificati proprio nel campo dell’arte e non, per esempio, nell’avido mondo della finanza? Cosa può esserci dietro? Per rispondere a queste domande e per comprendere i meccanismi che spingono alcuni individui a scatenare la loro aggressività nei confronti di alcuni capolavori artistici possono esserci d’aiuto, oltre alla psicologia e alla psichiatria, anche le neuroscienze, in particolare la neuroestetica, neologismo coniato da Semir Zeki (1940), neuroscienziato e Professore di Neurobiologia allo University College di Londra.
Da alcuni anni, infatti, le neuroscienze hanno cominciato ad interessarsi di arte per cercare di capire quali siano le reti neurofisiologiche che consentono di cogliere come bella o come brutta una determinata opera d’arte.
Come si comporta il nostro cervello di fronte ad un capolavoro artistico? Che cosa succede nella nostra mente quando facciamo esperienza di un’opera d’arte come fruitori? La neuroestetica, disciplina nata nella seconda metà degli anni Novanta del XX secolo e derivata dalle neuroscienze, si pone l’obiettivo di esplorare le basi neuronali dell’esperienza artistica. Secondo il professor Zeki l’arte, e in particolare la pittura, è uno strumento straordinario per studiare i processi nervosi attraverso cui il cervello percepisce la realtà e per indagare scientificamente le basi neuronali dei processi cerebrali che governano il godimento di un’opera d’arte.
Il neuroscienziato si è a lungo occupato dei rapporti fra immagini artistiche e operazioni del cervello visivo: […] il cervello partecipa attivamente alla costruzione di ciò che vediamo e, facendo ciò, investe di senso i molti segnali che gli pervengono acquisendo, dunque, conoscenza del mondo (Zeki, 2007). Ogni volta che viene realizzata un’opera d’arte, l’artista vi immette segni e simboli, elementi storici e culturali dell’epoca e dei luoghi in cui è vissuto; ogni volta che un osservatore si trova di fronte ad un capolavoro artistico vi è una variabilità di reazione connessa alla sua personalità, alla sua storia e all’ambiente in cui si svolge l’esperienza estetica.
Ogni volta che formuliamo un giudizio estetico si attivano aree differenti del nostro cervello. Se nel nostro campo visivo entra un’opera che piace e per la quale formuliamo un giudizio estetico positivo, insieme alle aree cerebrali occipitali deputate alla visione, viene attivata l’area orbito-frontale mediale. Se invece il nostro giudizio estetico è negativo si attiva la corteccia motoria sinistra. Negli ultimi quindici anni la fisiologia della fruizione artistica si è arricchita di un elemento rilevante, il cosiddetto rispecchiamento, che si attua attraverso una classe di cellule nervose corticali: si tratta dei neuroni-specchio, capaci di elaborare, contemporaneamente, una rappresentazione dei propri atti ed una rappresentazione degli atti altrui.
Questo meccanismo, che viene definito simulazione incarnata, è un fenomeno per il quale chi rileva un’azione non solo la percepisce, ma anche la simula internamente.
I neuroni-specchio riguardano anche le emozioni, le sensazioni, gli affetti e, come sostengono Freedberg e Gallese nel loro saggio Motion, emotion and empathy in aesthetic experience (2007), persino l’osservazione di immagini statiche di azioni stimola l’atto di simulazione nel cervello dell’osservatore. Questa affermazione è estremamente interessante e significa che ogniqualvolta ci si trova di fronte ad un’immagine statica (quindi di fronte a qualsiasi opera d’arte) si innesca il processo della simulazione incarnata e ciò produce nell’osservatore una reazione di tipo empatico ed emotivo. Cioè: anche di fronte a corpi umani raffigurati sulla tela, per esempio, il corpo del fruitore reagisce come se fosse esso stesso direttamente coinvolto nella scena raffigurata, o come se esso stesso avesse compiuto i gesti necessari a tracciare quelle figure e forme rappresentate nell’opera d’arte.
Per comprendere quali siano le implicazioni empatiche nel momento in cui ci troviamo di fronte ad una scultura dobbiamo rivolgerci al filosofo Herder, che, nel suo studio dedicato alla scultura, ci descrive l’incontro tra la statua ed il suo fruitore: la nostra anima si incarna nel corpo estraneo e si istituisce una vera e propria simpatia (o antipatia) interiore che pervade il corpo che si confronta con la scultura. Ecco perché il David di Michelangelo, per esempio, simbolo per eccellenza di bellezza ed armonia, può provocare violenti turbamenti emotivi mossi da invidia e gelosia per tanta perfezione, che possono persino sfociare in un istinto vandalico: un desiderio di danneggiare l’opera per riaffermare il proprio Io messo in pericolo da cotanta bellezza.
Neuroestetica: i correlati neurali della percezione estetica
A partire dagli anni Novanta l’opera d’arte diventa uno dei mezzi principali per la comprensione della risposta estetica negli esseri umani. Nel 1994 il neuroscienziato Semir Zeki ha avviato un nuovo ambito di ricerca, definita Neuroestetica, che si propone di studiare i meccanismi biologici alla base della percezione estetica.
Clementina Musati, OPEN SCHOOL PSICOTERAPIA COGNITIVA E RICERCA MILANO
Neuroestetica: i meccanismi neurali implicati nella percezione estetica
Grazie al contributo delle tecniche di neuroimaging funzionale e di neurofisiologia, nel corso degli anni è stato possibile localizzare diversi siti corticali implicati in questo processo. Le prime rilevazioni in merito hanno sottolineato il coinvolgimento della corteccia prefrontale, in particolare della regione orbitofrontale e di quella dorsolaterale.
A partire dagli anni Novanta l’opera d’arte diventa uno dei mezzi principali per la comprensione della risposta estetica negli esseri umani. Nel 1994 il neuroscienziato Semir Zeki ha avviato un nuovo ambito di ricerca, definita Neuroestetica, che si propone di studiare i meccanismi biologici alla base della percezione estetica. Grazie al contributo delle tecniche di neuroimaging funzionale e di neurofisiologia, nel corso degli anni è stato possibile localizzare diversi siti corticali implicati in questo processo. Le prime rilevazioni in merito hanno sottolineato il coinvolgimento della corteccia prefrontale, in particolare della regione orbitofrontale e di quella dorsolaterale.
Il coinvolgimento della corteccia orbitofrontale nella percezione estetica è stato rilevato dagli studi di Kawabata e Zeki (2004). Gli autori hanno infatti riscontrato, utilizzando la tecnica della risonanza magnetica funzionale (fMRI), un aumento di attività metabolica nelle regioni orbitofrontali in seguito all’osservazione di opere d’arte. Studi successivi (Lumer & Zeki, 2011) hanno riportato che l’intensità dell’attività metabolica in quest’area riflette in modo lineare il grado di bellezza attribuito ad un dipinto da un osservatore. Questo contributo risulta di grande valore perché ha permesso di quantificare una sensazione soggettiva come quella dell’apprezzamento estetico.
Per quanto riguarda invece il ruolo della corteccia dorsolaterale nella stima estetica, recentemente alcuni studiosi hanno rilevato un aumento di attività metabolica in tale area in seguito a compiti relativi alla valutazione della piacevolezza di uno stimolo (Ishizu & Zeki, 2013). Un altro studio ha riscontrato un aumento dell’attività elettrica della corteccia dorsolaterale sinistra in seguito all’osservazione di stimoli considerati belli dai soggetti (Cela-Conde, 2004). Questi risultati, relativi alla lateralizzazione dell’attività cerebrale corrispondente alla percezione di stimoli piacevoli, hanno portato gli studiosi a descrivere il giudizio estetico come una funzione superiore, legata alla dominanza emisferica sinistra. Alla luce delle evidenze riportate, il contributo della corteccia prefrontale durante la percezione estetica, appare fondamentale.
Tuttavia, numerose evidenze empiriche hanno rivolto l’interesse degli studiosi di neuroestetica anche alla corteccia parietale. Cela-Conde et al. (2009) hanno osservato che stimoli visivi valutati positivamente dai soggetti attivano le regioni parietali in maniera più rilevante rispetto a quelli stimoli giudicati meno belli dai soggetti. L’attivazione della corteccia parietale nel giudizio estetico sembra essere associata con l’attenzione spaziale (Soga & Kashimori, 2009) e con la percezione della simmetria e della complessità, i due fattori ritenuti più importanti nella valutazione della bellezza (Jacobsen et al., 2003). Gli studi esplorativi fin qui discussi trovano ulteriore conferma nei casi clinici. Lesioni del lobo parietale destro riducono infatti il senso artistico degli adulti e questo dato ci conferma ancora una volta l’importanza delle regioni parietali nella percezione estetica di opere d’arte (Ramachandran, 2003).
Neuroestetica: le aree che si attivano nella percezione dell’arte figurativa e dell’arte astratta
In generale, è possibile differenziare gli stili pittorici in due grandi categorie: l’arte figurativa, nella quale vi è una rappresentazione fedele e accurata del mondo reale, e l’arte astratta, che esula invece dalla rappresentazione oggettiva della realtà. Con il termine “astrattismo” si definiscono quindi quelle forme di espressione artistica visuale in cui non vi siano indizi che permettano di ricondurre l’immagine ad aspetti dell’ambiente circostante.
A partire da queste considerazioni è possibile affermare che l’esperienza estetica non è una semplice registrazione passiva della realtà circostante, ma una costruzione attiva di significati che comporta processi di elaborazione e analisi. Già nel 1876 il fisiologo tedesco Gustav Theodor Fechner sosteneva che fosse possibile effettuare una distinzione tra “estetica dal basso”, che si occupa delle proprietà strutturali degli oggetti, ed “estetica dall’alto”, che comporta invece il coinvolgimento di processi di elaborazione di livello superiore, come il vissuto emotivo, i tratti temperamentali e le differenze individuali. I processi di analisi di livello superiore verrebbero attivati soprattutto durante l’osservazione di opere d’arte astratta. Infatti, mentre la valutazione estetica di opere figurative mostra un elevato grado d’accordo tra i soggetti, la valutazione di opere astratte presenta una concordanza tra i soggetti più bassa: gli autori (Vessell & Rubin, 2010) spiegano questi dati affermando che la visione di scenari reali elicita significati che possono essere facilmente condivisi tra i membri di una cultura, mentre la visione di opere astratte lascerebbe più spazio all’intervento di fattori interni all’individuo.
Le differenze individuate nell’elaborazione dei due stili artistici hanno portato gli studiosi di neuroestetica a concludere che arte astratta e figurativa possano essere processate da regioni corticali differenti. Alcuni studi hanno riscontrato che l’osservazione di diversi tipi di dipinti produce attività in differenti regioni corticali, a seconda della categoria di appartenenza dell’opera d’arte (Zeki et al., 1991). L’osservazione di tele figurative raffiguranti paesaggi, ad esempio, coinvolge i giri ippocampali bilaterali e la corteccia parietale destra, aree normalmente implicate nell’esplorazione di ampie scene visive (Epstein et al., 1999) e nella rappresentazione di relazioni spaziali tra gli elementi (Cuhlam & Kanwisher, 2001). I ritratti attivano aree implicate nell’osservazione di volti, come il giro fusiforme e l’amigdala (Breiter et al., 1996). La visione di immagini astratte, invece, non evidenzia alcuna specifica attività cerebrale.
I meccanismi neurali alla base dell’apprezzamento estetico di opere astratte e figurative sono stati indagati anche nello studio di Cattaneo et al. (2013). Gli autori hanno fatto osservare a 24 soggetti una serie di 70 quadri astratti e 80 quadri figurativi e hanno chiesto di indicare il grado di apprezzamento di ciascuna opera su una scala da 1 a 100. Successivamente, a ciascun partecipante è stata applicata una neuro-stimolazione transcranica a corrente continua (tDCS) alla corteccia prefrontale dorsolaterale, una regione che risulta determinante nella percezione estetica. Dopo la neuro-stimolazione, i partecipanti hanno osservato una batteria di stimoli corrispondenti (70 immagini astratte e 80 figurative) e hanno espresso nuovamente il proprio apprezzamento per ciascun dipinto. A seguito della stimolazione si è riscontrato un aumento del gradimento del 3% nel caso di quadri figurativi, mentre è rimasto invariato l’apprezzamento di quelli astratti. Questo risultato conferma l’esistenza di processi neurali distinti nell’elaborazione delle due forme artistiche.
Infine, è stato ipotizzato che nell’apprezzamento estetico di opere d’arte possano essere coinvolti anche i cosiddetti neuroni specchio, una particolare popolazione di neuroni, presenti nella corteccia premotoria, che si attivano sia durante l’osservazione di un’azione che durante l’esecuzione della stessa (Rizzolati, 1996). I neuroni specchio esemplificano un meccanismo biologico che permette di correlare le azioni eseguite da altri con il repertorio motorio dell’osservatore. La visione di un’azione induce nell’osservatore l’automatica simulazione di quell’azione; tale meccanismo di rispecchiamento non è limitato al dominio delle azioni, ma riguarda anche quello delle sensazioni e delle emozioni. La risonanza interindividuale, descrivibile in termini funzionali come simulata incarnata, risulta determinante anche per interpretare l’arte e la dimensione estetica dell’esperienza umana (Morelli, 2010) .
Secondo alcuni autori (Gallese & Freedberg, 2008) questi neuroni sarebbero infatti responsabili delle risposte emotive alle opere d’arte, in particolare per quanto riguarda l’immedesimazione con esse. Questa sorta di empatizzazione con l’oggetto artistico è in grado di generare a livello corporeo risposte emotive elicitate dalle opere. Gli autori portano come esempio le sculture incompiute di Michelangelo, Prigioni. Nell’ammirare quest’opera l’osservatore tende ad attivare una serie di distretti muscolari localizzati nelle parti del corpo lasciate incompiute dall’artista. (Figura 1.1.).
Questo meccanismo di immedesimazione con stimoli artistici non si verifica esclusivamente per le opere d’arte figurative, ma avviene anche per quelle astratte, prive di un riconoscibile contenuto formale. Ad esempio, i quadri di Pollock sono realizzati con una tecnica particolare, chiamata dripping (in italiano sgocciolatura), che comporta l’utilizzo di strumenti quali bastoncini e siringhe per applicare il colore, che viene lasciato cadere liberamente sulla tela. Gallese e Freedberg (2008) hanno riportato che l’osservazione dei quadri di Pollock induce, attraverso il sistema dei neuroni specchio, il coinvolgimento empatico dell’osservatore che è portato inconsapevolmente a simulare il programma motorio compiuto dall’artista per realizzare l’opera. (Figura 1.2.).
È dunque possibile concludere che quando osserviamo un’opera d’arte stiamo entrando in empatia a livello cerebrale con essa e con l’artista che l’ha creata, al di là del tempo e dello spazio (Missana, 2015). Aveva dunque ragione Lucio Fontana quando affermava che [blockquote style=”1″]l’Arte è eterna in quanto un suo gesto non può non continuare a permanere nello spirito dell’uomo.[/blockquote] Oggi la neuroestetica, e i neuroni specchio nello specifico, forniscono un’evidenza empirica a tale intuizione.