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I segreti del cervello che ride: dalle basi neuronali alla clownterapia

Clownterapia: La risata spesso viene confusa con l’umorismo, tuttavia se l’umorismo è la capacità di cogliere ed esprimere il lato curioso e incongruente della realtà, la risata è l’espressione sia di emozioni positive di allegria e benessere sia negative quali rabbia o agitazione (risata nervosa). Considerare la risata solo come la risposta a qualcosa di divertente è riduttivo, infatti ci sono notevoli differenze nei modi in cui si esprime la risata e nel messaggio che veicola e, come per l’umorismo, la risata non è facilmente definibile in quanto può essere di tipi diversi: genuina, sarcastica, fittizia.

Giada Sera, Laura Ranzini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

[blockquote style=”1″]Il senso dell’umorismo in sè non guarisce tutti i problemi emotivi, ma imparare a non prendere troppo sul serio ogni avvenimento spiacevole della vita rappresenta un ottimo passo in questa direzione.[/blockquote] Albert Ellis

Umorismo, risata e sorriso

L’umorismo è un processo mentale complesso considerato esclusivo dell’uomo, al contrario del sorriso e della risata che sono invece risposte fisiologico-comportamentali condivise, nei loro aspetti basilari, con altri animali. In particolare, è possibile affermare che l’umorismo è di dominio esclusivo della mente umana poiché esso dipende dalla Teoria della Mente, ovvero dalla capacità che gli uomini hanno di comprendere gli stati mentali altrui. Inoltre, bisogna considerare che per comprendere l’umorismo è necessario un certo sforzo cognitivo: esso infatti nasce quando, entro uno schema narrativo, si inserisce un elemento incongruente; la scoperta di tale incongruenza richiede un certo sforzo che solo chi fa parte della specie umana riesce a compiere.

L’umorismo è fondamentale e pervasivo nella vita dell’uomo e pertanto viene considerato in stretta relazione con la salute fisica e il benessere psicologico (Martin & Lefcourt, 2004). Lo studio dell’umorismo, e, di conseguenza, la sua definizione, ha inizio in Gran Bretagna e in Germania in ambito filosofico fino ad essere oggetto di molti studi negli Stati Uniti negli anni ’60: è proprio a questi anni che risale il saggio sulla Psicologia dello Humor di Paul Mc Ghree, fondamentale per la definizione del concetto.

Lo studio dell’umorismo è stato affrontato in diversi ambiti quali quello linguistico, cognitivo o sociale e sono state elaborate diverse teorie che spiegano quando uno stimolo può essere definito umoristico.
In un primo momento, l’umorismo viene considerato solo nella sua concezione positiva, tuttavia è necessario tener presente che esiste anche un umorismo non benevolo, quale il sarcasmo o l’ironia (Ruch, 2008).
Dopo questa prima ed essenziale considerazione può essere fatta un’ulteriore distinzione che considera la finalità dell’umorismo: esso può avere infatti finalità affiliative (ridere con qualcuno con lo scopo di creare delle relazioni), autorinforzative (ridere di se stessi e di ciò che succede), aggressive (far battute sugli altri con lo scopo di deriderli), autosvalutative (commenti svalutanti su se stessi per ottenere l’appoggio e l’approvazione degli altri) (Martin et al., 20013).

In definitiva, possiamo affermare che l’umorismo si configura come un costrutto che può presentarsi in diverse modalità linguistiche (quali barzellette o indovinelli), può comparire in diverse forme (per esempio ironia o sarcasmo) e può avere diverse finalità (tra cui il divertimento o la presa in giro). In letteratura si fa riferimento al termine humor per identificare l’insieme di questi aspetti.

La risata spesso viene confusa con l’umorismo, tuttavia se l’umorismo è la capacità di cogliere ed esprimere il lato curioso e incongruente della realtà, la risata è l’espressione sia di emozioni positive di allegria e benessere sia negative quali rabbia o agitazione (risata nervosa). Considerare la risata solo come la risposta a qualcosa di divertente è riduttivo, infatti ci sono notevoli differenze nei modi in cui si esprime la risata e nel messaggio che veicola e, come per l’umorismo, la risata non è facilmente definibile in quanto può essere di tipi diversi: genuina, sarcastica, fittizia.

In letteratura vi sono numerosi studi che si prefiggono lo scopo di indagare i motivi che possono scatenare la risata e i contesti in cui si manifesta.
Ridere è considerata un’attività tipica soprattutto (ma non solo) dell’essere umano e si ritiene che si sia sviluppata, come il pianto e il gemito, prima del linguaggio. La risata ha base innata, compare verso la decima settimana di vita, rappresenta uno dei primi segnali dell’interazione umana (McGhee, 2010) ed è universale, ovvero presente in ogni cultura.

La risata può però anche presentarsi, quale reazione incontrollata, irrefrenabile, improvvisa e non congruente agli stimoli ambientali, in alcune malattie neurologiche (per esempio, lesioni cerebrovascolari, traumi cranici, sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, demenza di Alzheimer o tumori cerebrali); tale condizione, comune a diversi disturbi neurologici, si definisce come sindrome pseudobulbare.

Con il termine sorriso, infine, si indica un’espressione del volto che coinvolge la bocca, le labbra e gli occhi. Il sorriso può diventare risata ma si differenzia da questa perché meno impulsivo e più duraturo.
Il sorriso non è però solo associato al riso ma possiede diverse funzioni: potrebbe, per esempio, essere la risposta a qualcosa di delicato e problematico (Ekman & Friesen, 1982; Ruck & Ekman, 2001).

 

Le basi neurali

Definire che cosa succede nel cervello che ride non è cosa semplice.
La risata e il sorriso coinvolgono principalmente le aree mimico-motorie mentre con l’umorismo vero e proprio quasi tutto il cervello “si accende” poiché si tratta di un processo di alto livello che coinvolge componenti affettive, relazionali, emotive, espressive, motorie.

Partiamo dalle basi neurali della risata: essa è rappresentata nella parte rostrale dell’area motoria supplementare (Fried et al., 1998).

Interessante a questo proposito è lo studio condotto da Wildgruber e coll. (2013) in cui i soggetti sperimentali ascoltavano e dovevano classificare tre differenti tipi di risata (risata provocata dal solletico, risata di scherno e risata di gioia), mentre veniva registrata la loro attività cerebrale attraverso la risonanza magnetica funzionale.
Nel caso della risata da solletico si è osservata un’attivazione delle aree prefrontali e della corteccia associativa uditiva, probabilmente dovuta alla maggiore complessità acustica del suono di questo tipo di risata.
La risata sociale (sia essa di scherno o di gioia) attiva invece una serie più articolata di connessioni fra la corteccia associativa uditiva, la regione dorsolaterale prefrontale e diverse aree della corteccia legate ai processi di mentalizzazione e all’immaginazione visiva.
Queste attivazioni indicherebbero che vi è un’analisi automatica delle caratteristiche acustiche della risata sociale, e le capacità attentive di working memory sarebbero dirette verso gli aspetti informativi della risata per poterne valutare il significato. Questi processi possono essere associati con l’immaginazione visiva che sostiene la formazione delle inferenze sulle intenzioni dei nostri interlocutori sociali.

Vediamo ora quali sono le basi neurali dell’umorismo.
A tale scopo sono stati condotti studi molto diversi tra loro, utilizzando stimoli vari quali stimoli verbali o visivi che spaziavano dall’umorismo nonsense al sarcasmo. Quello che è stato osservato è che, pur variando, gli stimoli venivano sempre analizzati, a livello neurale, da due distinti ma connessi processi: uno cognitivo e uno emotivo (Vrticka et al., 2013).

La componente cognitiva è coinvolta poiché l’umorismo scaturisce proprio quando riusciamo a risolvere una situazione che presenta elementi incongruenti e incompatibili. Naturalmente, durante un compito del genere non possiamo pensare di trovare il coinvolgimento di una sola area cerebrale: a seconda del tipo di stimolo può esserci un coinvolgimento della corteccia visiva o uditiva, delle aree del linguaggio, della memoria semantica, e delle aree che normalmente si attivano nella Teoria della Mente (se bisogna considerare i pensieri e le emozioni degli altri). Secondo Reiss tutti questi meccanismi convergono essenzialmente su un’area preposta al rilevamento e alla risoluzione di ciò che è incongruo, ovvero la giunzione temporo-parietale e temporo-occipito-parietale.

Per quanto riguarda la componente emotiva, dagli studi emerge il coinvolgimento del sistema dopaminergico mesocorticolimbico, ovvero di aree che si attivano normalmente nelle situazioni gratificanti in generale. Nel caso dell’umorismo la gratificazione sembra derivare dall’aver risolto gli elementi incompatibili di una certa scena.
Inoltre, vi è un coinvolgimento dell’amigdala. L’amigdala ha infatti il ruolo di selezionare le informazioni importanti per i nostri obiettivi e poiché il valore evolutivo degli stimoli è anche dato dall’ambiguità e dall’imprevedibilità, ecco che l’amigdala si attiva nel cercare un nesso tra gli stimoli che fanno ridere. In particolare, se l’amigdala si attiva prima della rivelazione finale allora significa che l’associazione di idee è banale e non fa ridere.

Interessante è anche ciò che i ricercatori hanno trovato relativamente all’umorismo e alle differenze di genere (Vrticka et al., 2013; Azim et al., 2005). L’umorismo fungerebbe da elemento che le donne utilizzano per una valutazione degli uomini: un buon senso dell’umorismo sembrerebbe essere un indicatore generale di intelligenza, creatività, resilienza e abilità sociali, elementi che non possono essere direttamente desunti dall’aspetto fisico. Di conseguenza, gli uomini investono più impegno nella produzione di umorismo per fare una buona impressione sulle donne.

 

La psicologia dell’umorismo

[blockquote style=”1″]..Se si può ridere di un problema, esso può essere superato.[/blockquote] (Borcherdt, 2002)

Come accennato in precedenza non esiste una sola definizione di “sense of humour” e, infatti, solo in alcuni casi esso risulta correlato con la salute fisica.
Risulta quindi necessario per i ricercatori definire l’accezione di umorismo alla quale faranno riferimento: una volta fatto questo sarà possibile implementare interventi terapeutici esecutivi.

Sono stati proposti quattro potenziali meccanismi, ciascuno dei quali coinvolge un aspetto differente dell’umorismo, un diverso approccio alla ricerca e, di conseguenza, differenti suggerimenti riguardo gli interventi di assistenza sanitaria (Martin, 2001).
Innanzitutto, i benefici per la salute possono derivare da numerosi cambiamenti fisiologici del corpo che accompagnano il riso, quali i cambiamenti muscolo-scheletrici, cardiovascolari, endocrini, immunitari e del sistema neurale. Secondo questo modello teorico, la risata è la componente fondamentale della connessione tra umorismo e benessere e, di conseguenza, l’ umorismo e il divertimento senza risate non porterebbero a eventuali benefici per la salute. In effetti la risata dovrebbe avere effetti positivi anche senza humor (ad esempio una risata finta o una risata forzata), come sostenuto dal leader del movimento del Club della Risata (ad esempio, Kataria 2002). Da questo punto di vista, la persona con un ”sano” senso dell’umorismo è colui che ride fragorosamente il più spesso possibile, più che colui che gode di un umorismo “contenuto” accompagnato solo dalla risatina occasionale o da un sorriso. Secondo questo modello, gli interventi di umorismo dovrebbero consistere nell’incoraggiare le persone a impegnarsi in risate frequenti e intense.

Il secondo meccanismo attraverso il quale l’umorismo potrebbe potenzialmente influenzare la salute riguarda, invece, gli stati emotivi positivi che accompagnano umorismo e risate. Infatti le emozioni positive, indipendentemente da come vengono generate, possono avere effetti benefici sulla salute, come ad esempio aumentare la tolleranza del dolore (Bruehl et al., 1993), migliorare la risposta del sistema immunitario (Stone et al., 1987), o annullare le conseguenze cardiovascolari di emozioni negative (Fredrickson,1998).

Questo secondo modello non riconosce la necessità della risata per ottenere benefici poichè l’umorismo e il divertimento possono indurre stati d’animo positivi anche in assenza della risata. Inoltre, questo modello conferisce un ruolo meno esclusivo all’umorismo e alla risata nel miglioramento della salute, in quanto ci sono particolari mezzi per aumentare le emozioni positive, insieme alla felicità, all’amore, alla gioia e all’ottimismo.

Quindi, un ”sano” senso dell’umorismo comporterebbe un temperamento allegro caratterizzato da felicità, ottimismo e un approccio ludico alla vita (Ruch,1993). Sulla base di questo modello, gli interventi terapeutici dovrebbero mirare ad accrescere le emozioni positive delle persone con diverse modalità, tra cui il ricorso dell’umorismo, e quindi la promozione della risata non sarebbe necessaria.

Il terzo potenziale meccanismo sostiene che la salute può indirettamente beneficiare dell’umorismo in quanto questo modererebbe gli effetti negativi dello stress psicosociale. Vi sono numerosi studi che dimostrano che esperienze di vita stressanti, cui consegue la produzione cronica di ormoni legati allo stress (ad esempio le catecolamine e il cortisolo) possono avere effetti negativi su vari aspetti della salute, quali la soppressione del sistema immunitario (Adler & Hillhouse, 1996) e un aumento del rischio di malattie cardiache (Esler,1998). Inoltre da numerose ricerche è emerso che alcune variabili di personalità e certi stili di coping possono moderare il grado di influenza dei fattori di stress sulla salute (ad esempio, Cohen & Edwards, 1989). Quindi, una visione umoristica della vita e la capacità di vedere il lato divertente dei propri problemi permetterebbe di affrontare in modo più efficace le situazioni di stress, migliorando le capacità di affrontare le avversità (Lefcourt & Martin, 1986; Martin et al., 1993; Martin & Lefcourt, 1983).

Secondo questo punto di vista dello stress-moderatore, gli aspetti cognitivo-percettivi dell’umorismo sono più rilevanti della semplice risata e risulta particolarmente importante la capacità di mantenere una visione umoristica durante i periodi di stress: l’umorismo e la risata sembrerebbero avere minor rilievo durante i periodi poco stressanti.

Gli interventi terapeutici proposti, sulla base di questa visione, dovrebbero comprendere una formazione incentrata sulla gestione dello stress, con attenzione all’uso dell’umorismo per far fronte allo stress nella loro vita quotidiana.
Infine, l’umorismo può indirettamente portare ad effetti positivi sulla salute aumentando la propria rete di supporto sociale. Coloro che sono in grado di usare l’umorismo in maniera efficace per ridurre i conflitti interpersonali e le tensioni con gli altri possono di conseguenza godere di più numerose e soddisfacenti relazioni sociali. A loro volta, il maggior sostegno sociale che deriva da queste relazioni porta a effetti positivi sulla salute (Cohen & Wills, 1985).

Quindi, secondo questo modello, l’attenzione va posta agli aspetti interpersonali di umorismo e alla competenza sociale dell’uso dell’umorismo nelle relazioni sociali, piuttosto che alla frequenza della risata; un “sano” senso dell’umorismo comporterebbe l’uso dello stesso per migliorare le relazioni con gli altri, rendendole meno ostili. Sulla base di questa visione, gli interventi terapeutici proposti dovrebbero riguardare le competenze sociali, in particolare, insegnare alle persone a usare l’umorismo per facilitare le relazioni sociali.

Per riassumere, riportiamo le principali funzioni che può assumere l’umorismo, sulla base delle numerose ricerche effettuate.

  • Strategia di coping: l’umorismo offre una visione alternativa nell’affrontare stati mentali dolorosi. La maggior parte delle situazioni ha un aspetto umoristico che però non viene sempre percepito a causa delle emozioni negative ad esso associate (McGhee, 2010); spesso, infatti, solo con il tempo si riesce a cogliere il lato divertente dell’evento in quanto è diminuito l’aspetto dolente e l’intensità delle emozioni negative. Questo sostiene quanto affermato da Ellis (1977) riguardo all’utilizzo dell’umorismo da parte dei pazienti per trasformare emozioni e sentimenti negativi. In particolare, il terapeuta, grazie a un intervento umoristico, può sottolineare gli aspetti ironici di un evento con lo scopo di modificare la sua visione rigida, favorendo così una ristrutturazione cognitiva, aiutandolo a vivere l’evento con maggior distacco e a gestire meglio le emozioni negative;
  • Capacità di cambiare prospettiva e maggior capacità di problem solving (Gelkopf & Kreitler, 1996;
  • Sperimentazione di emozioni positive come gioia, ottimismo e fiducia (Gelkopf & Kreitler, 1996);
  • Comunicare in modo protetto ed esprimere emozioni e sentimenti che solitamente vengono bloccati dal paziente per una mancanza di presa di coscienza e per imbarazzo (Winick, 1976);
  • Favorire l’alleanza terapeutica (Jeffrey, 2009) grazie all’incremento del comportamento affiliativo (Nelson, 2008): studi di Meyer (2000) dimostrano come l’umorismo riduca il silenzio nelle sedute e favorisca conversazioni aperte e maggiormente rilassate;
  • Aumentare l’autostima: la capacità di ridere di se stessi favorisce l’accettazione. Studi sostengono che l’umorismo favorisca lo sviluppo del benessere personale: la capacità di ridere di se stessi aumenta la tolleranza per le emozioni negative e riduce la possibilità di sviluppare sintomi depressivi (Martin et al., 2003);
  • Abbassare le difese del paziente favorendo la comunicazione di pensieri, sentimenti e comportamenti che altrimenti non sarebbero emersi. L’umorismo permette di portare i propri difetti e mancanze in maniera non minacciosa così da affronatre in maniera positiva le relazioni (Borcherdt, 2002).

In letteratura sono presenti numerosi studi su questo argomento, sia ricerche sperimentali che correlazionali, dalle quali tuttavia emergono dubbi sulla semplice relazione tra umorismo e salute; tuttavia tali risultati potrebbero derivare anche da errori metodologici (definizione di costrutti e variabili, metodi di misurazione) (Martin (2010). Martin (2010) suggerisce di proseguire con gli studi in questo ambito, data l’importanza di tali constatazioni, con più attente formulazioni teoriche e più sofisticati e rigorosi metodi di indagine.

Tuttavia, negli ultimi anni, sulla base di questi studi e dell’idea che l’umorismo può essere un elemento per promuovere emozioni positive e aumentare il benessere personale, anche la medicina e la psicologia hanno cominciato ad interessarsi all’argomento.
Martin (2010) sottolinea un crescente interesse nell’inserire l’umorismo nelle sedute psicoterapeutiche come tecnica terapeutica, anche se l’inserimento effettivo non è ancora cosi diffuso: gli psicoterapeuti ne limitano ancora l’uso per paura di essere fraintesi o di svalutare la loro figura professionale (Franzini, 2001). Questo potrebbe essere dovuto anche alla natura multiforme dell’umorismo: ciò che può essere percepito in maniera umoristica da qualcuno può assumere un significato diverso da un altro soggetto.

 

La clownterapia

Come sottolineato finora, la popolazione scientifica ha mostrato un interesse sempre maggiore verso il tema dell’umorismo. La figura del Clown, sempre presente in più contesti, è divenuta sia uno strumento di formazione psicopedagogica che una figura di supporto psicologico.

La figura del clown ha un’origine molto antica e in moltissime culture era legata a pratiche magico-religiose. Nei secoli la figura del clown è cambiata e all’interno del mondo sociale si è avvicinata all’espressione della polemica sociale e del sarcasmo: il clown, attraverso l’amplificazione grottesca ed esagerata, esprime disapprovazione, risentimento e critica popolare. Un elemento comune alle diverse culture è vedere questa figura come depositario di una sapienza “altra”, nonostante sia apparentemente sciocco, con il compito di mettere in evidenza le contraddizioni delle leggi, delle parole dei potenti, delle consuetudini (Fioravanti & Spina, 1999); questa caratteristica è ancora presente nell’immaginario attuale.

Nei corsi di formazione di arte clownesca vengono studiati i meccanismi che innescano la risata, che non è legata a cadute o smorfie del clown ma, al contrario, scatta nel momento del fallimento: non fa ridere il personaggio ma l’uomo mostratosi cosi come è, “a nudo”.

L’aspetto di strumento pedagogico del clown sta proprio nel concetto di fallimento, di inadeguatezza di ogni uomo nei confronti della realtà.
La “piccola” maschera del clown, un semplice naso rosso, in realtà ha un grande significato e funge da strumento pedagogico. Quando questo viene indossato permette di scoprire i lati più nascosti della propria personalità, le proprie debolezze e fragilità; si annulla la differenza tra attore e clown, ed è in questo momento che il soggetto accetta i proprio difetti e le proprie insicurezze, ride di se stesso per poter far ridere gli altri.

Il clown diventa il portatore di una filosofia di vita alternativa, una filosofia in cui non esistono convinzioni sociali, in cui ci si libera da schemi mentali e sociali arrivando a un’emancipazione totale; solo così può emergere l’unicità della persona e la sua forza personale.

Dato il maggior interesse per i vantaggi dell’umorismo negli ultimi anni, il clown è stato usato come strumento di intervento per l’emancipazione dal disagio personale e collettivo ed è sempre più presente in strutture come scuole, ospedali, carceri minorili, case di riposo. Numerose associazioni ONLUS promuovono l’utilizzo della clownterapia, cioè l’attuazione di tecniche clownesche in contesti di disagio con il fine di migliorare l’umore delle persone (Dionigi).

La funzione terapeutica del clown è la capacità di capovolgere gli schemi standard e abituali, questo significa avere maggior flessibilità mentale riuscendo a trovare un maggior numero di soluzioni ai problemi e ad affrontare in maniera più funzionale lo stress.
Quindi la clownterapia aiuta le persone ad acquisire un nuovo punto di vista sulle situazioni problematiche e ad affrontare la vita in maniera più ottimistica, grazie ad esercizi sistemici di autoironia che permettono di distaccarsi dal problema, percependolo ridimensionato e spesso possibile oggetto di cambiamento (Dionigi & Gremigni, 2010).

Per suscitare la risata, il clown sovverte gli schemi standard mostrando le sue debolezze, e, pertanto, la clownterapia diventa una terapia della vergogna in cui anche lo spettatore ride delle sue debolezze, nonostante la sua posizione superiore e distante dal clown (Farneti, 2004).

Il clown dottore è colui che, a prescindere dal titolo di studio, opera nei contesti di disagio unendo l’arte clownesca e le conoscenze psico-socio-sanitarie al fine di agire sulle emozioni: è una figura di sostegno e aiuto ai pazienti ospedalizzati che collabora con l’equipe ospedaliera, ha un camice colorato che serve per ironizzare sulla figura medica e sovvertire la sua immagine, rendendola più umana. Il bambino e i genitori decidono liberamente se accettare l’intervento del clown dottore, poichè talvolta il dolore è troppo forte per permettere il gioco in serenità.

I clown dottori si basano sull’improvvisazione, si lasciano ispirare dal momento facendo riferimento a conoscenze sulla giocoleria, sull’arte clownesca e sull’espressività teatrale con particolare attenzione alle reazioni dei bambini. I bambini vengono coinvolti negli sketch o nei giochi in modo da aumentare la loro sensazione di essere artefici di qualcosa di speciale, sentondosi importanti per il clown. Questo rinforza la fiducia e la stima in se stessi e la loro disponibilità verso gli altri.

In letteratura ci sono numerosi studi che vanno ad indagare l’effetto dell’intervento dei clown dottori sui bambini ospedalizzati.
Per esempio, Vagnoli e collaboratori (2005) mostrano che la presenza dei dottori clown, insieme ai genitori, durante l’induzione dell’anestesia ha effetto sulla gestione dell’ansia durante il periodo pre-operatorio. Gli autori promuovono questa “procedura di distrazione” nel trattamento dei bambini che richiedono intervento, tuttavia la resistenza del personale medico può rendere difficile inserire questo programma nelle attività della sala operatoria.

Lo studio di Agostini e collaboratori (2013) mostra che l’intervento dei clown dottori ha inoltre un effetto significativo anche sull’ansia pre-operatoria delle madri: infatti questa era minore nelle madri del gruppo dei bambini in compagnia dei clown rispetto a quelle del gruppo di controllo senza l’intervento dei clown.

La riduzione dell’ansia nei bambini e nei genitori in seguito alla presenza dei clown dottori è stato confermato anche nello studio di Dionigi e collaboratori (2014) su un campione di 77 bambini e 119 genitori.

I giochi dei bambini: oltre il ruolo e l’espressione di genere

Genitorialità e gioco, oltre il ruolo e l’espressione di genere

 

Buongiorno, sono il padre di un bambino di 4 anni, dal primo anno di asilo Mirko chiede solamente giochi da bambina ed io e mia moglie non sappiamo se accontentarlo o meno. Se dovessimo assecondare le sue richieste abbiamo paura che gli altri bambini lo possano prendere in giro ed isolare, ma notiamo che dall’altro lato ad ogni macchinina o gioco del genere, lui si rattrista e comunque evita di giocarci. Per il momento optiamo per giochi che riteniamo unisex come le costruzioni, la fattoria degli animali. Cosa consigliereste?

Abbiamo paura.

Massimo e Rita

 

 

Buongiorno,

per quanto riguarda un bambino di quattro anni, ancora in fase di piena esplorazione, certi interessi non sono necessariamente connessi ad un disturbo di identità di genere. Dunque anche se Mirko adora giocare con giocattoli, ritenuti dalla nostra cultura, femminili, questo non significa che Mirko si senta o voglia essere una bambina. Detto ciò, ritengo importante lasciare a qualsiasi bambino uno spazio di gioco libero, in cui possa attingere a ciò che egli preferisce. E qualora gli si volessero presentare giochi nuovi, per stimolarlo, non lo farei nell’ottica giochi da bambina, da bambino, o unisex (essendo queste delle distinzioni culturali, sono sicuramente più chiare a voi adulti che a lui, nonostante a questa età stia iniziando anche lui a prendere consapevolezza di ciò).

Ritengo altresì utile (sebbene esuli leggermente dal tema in questione) mettere nello spazio ludico pochi giochi a disposizione alla volta, in modo da lasciargli una scelta, e permettere al contempo un’immersione nel gioco. Ciò permette di evitare di disperdere l’attenzione tra le molteplici opzioni o considerare ormai arredo privo di interesse quei giochi lasciati in fondo alla cesta da mesi (meglio archiviarli altrove, per un secondo momento di interesse).

Tornando al focus della vostra domanda, sembrate riportare due paure più o meno specifiche ed una paura indefinita generale:

se vostro figlio si diverte con giochi, ritenuti, femminili potrebbe essere oggetto di derisioni.

se vi doveste opporre al desiderio ludico di vostro figlio, Mirko potrebbe essere triste o disinteressato al gioco.

Riportate infine un “abbiamo paura” molto generale. Vi chiedo di rifletterci, pensando a voi stessi, Massimo e Rita, vorreste che Mirko giocasse con le macchinine? Vorreste che Mirko si comportasse diversamente? Avete delle aspettative nei suoi confronti? Ciò che sicuramente potrebbe influire sulla felicità o meno del vostro bambino, più dell’eventuale presa in giro da parte di suoi coetanei (dalla vostra domanda non sembra si sia ancora verificato un episodio del genere), è la percezione di un rifiuto ed un’aspettativa di cambiamento da parte vostra, come genitori.

Greta Riboli

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’orgasmo? E’ tutta una questione di ritmo!

In molti hanno avanzato ipotesi sulla funzione evolutiva dell’ orgasmo umano, mentre rimangono tutt’oggi sconosciuti i meccanismi che sottostanno ad esso. In un recente studio pubblicato su Socioaffective, Neuroscience and Psychology, Adam Safron, ricercatore della Northwestern University, ha cercato di far luce sul quesito: “Come funziona l’orgasmo nel cervello?”.

 

Ritmo dell’attività sessuale, ritmi cerebrali e orgasmo

Adam Safron, neuroscienziato e ricercatore del dipartimento di Psicologia del programma Brain Behavior Cognition del Weinberg College of Arts and Science alla Northwestern University, ha revisionato decine di studi offrendo un modello esplicativo in cui il ritmo dell’attività sessuale influenza direttamente i ritmi cerebrali.

Safron descrive come la stimolazione ritmica possa influenzare le onde cerebrali, aumentandone le frequenze; una situazione molto simile a ciò che avviene quando si spinge qualcuno su un’altalena. Attraverso questo processo, chiamato “trascinamento neurale”, se la stimolazione sessuale è abbastanza intensa e sufficientemente prolungata, l’attività sincronizzata riuscirebbe a diffondersi in tutto il cervello.

Questa sincronia potrebbe generare una focalizzazione così intensa da far sì che l’attività sessuale oltrepassi l’usuale stato di auto-consapevolezza che consente al soggetto il contatto con la propria coscienza, producendo uno nuovo di assorbimento sensoriale e trance. Questa condizione sarebbe cruciale per consentire un’esperienza sufficientemente intensa da scatenare il meccanismo dell’ orgasmo.

La sincronizzazione e il ritmo sono elementi importanti per la trasmissione del segnale all’interno del cervello, perché è più probabile che i neuroni inneschino una reazione se vengono stimolati molteplici volte all’interno di una finestra temporale ridotta – ha affermato Safron – Altrimenti, il segnale finisce col decadere come parte di un meccanismo generale di regolazione invece di sommarsi generando una reazione.

Safron ha continuato:

Quest’evidenza mi ha portato ad ipotizzare che il “trascinamento neurale” sia il meccanismo principale attraverso cui la soglia dell’ orgasmo viene superata.

Questa ricerca potrebbe essere molto rilevante per migliorare il funzionamento sessuale di molti, incoraggiando le persone a focalizzarsi maggiormente sull’aspetto ritmico della sessualità.

 

Sesso e trance

L’idea che le esperienze sessuali possano generare uno stato simile a quello di trance è in qualche modo arcaica; ma quest’idea ora è supportata da moderne conoscenze neuroscientifiche.

In teoria, questo potrebbe cambiare il modo in cui le persone vedono i loro rapporti sessuali. Il sesso è indubbiamente fonte di sensazioni piacevoli e connessione emotiva, ma oltre a questo, è effettivamente uno stato di coscienza alterato – ha detto Safron.

Prima di questo studio, la scienza aveva da tempo scoperto quali aree fossero attive nel cervello quando le persone raggiungono l’ orgasmo e sapeva molto sui fattori ormonali e neurochimici coinvolti nell’ orgasmo degli animali non umani, ma non sapeva bene perché il sesso e l’ orgasmo venissero avvertiti nel modo in cui sono avvertiti.

Sauron ha concluso:

Questa ricerca fornisce un livello di dettaglio meccanicistico che era precedentemente mancante. L’ orgasmo è questione di ritmo.

 

Dioniso: alcol e disturbi correlati. Concettualizzazione e trattamento secondo l’orientamento cognitivo – Recensione

Il libro si compone di otto capitoli che vanno dalle caratteristiche e distinzione delle bevande alcoliche, ai disturbi da uso di alcol quale processo dinamico e complesso, dalla Psicofisiologia Applicata, passando attraverso i processi di prevenzione e le tipologie di trattamento, al modello cognitivo-comportamentale per la terapia del disturbo da uso di alcol. A conclusione, gli aspetti concettuali e metodologici del protocollo Dioniso ed il caso clinico.

 

Tullio Scrimali, autore del libro Dioniso: alcol e disturbi correlati, è un medico, psicologo, psichiatra e psicoterapeuta. Attualmente insegna a Catania, in qualità di professore aggregato, Psicologia Clinica presso il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e presso il CdL Magistrale in Psicologia.

La monografia affronta il tema complesso dei disturbi da uso di alcol, considerandone l’incremento soprattutto fra i giovani. Sono stati documentati gli sforzi, attuati dal gruppo di ricerca e di lavoro clinico presso il Centro Clinico Aleteia, per sviluppare un nuovo protocollo terapeutico di orientamento cognitivo-complesso, denominato Dioniso. I dati raccolti nell’ambito di un single case research study, rappresentano una svolta nell’ambito del trattamento della dipendenza alcolica, il cui protocollo terapeutico può essere attuato anche in ambito ambulatoriale e presso strutture del privato sociale.

Il libro si compone di otto capitoli che vanno dalle caratteristiche e distinzione delle bevande alcoliche, ai disturbi da uso di alcol quale processo dinamico e complesso, dalla Psicofisiologia Applicata, passando attraverso i processi di prevenzione e le tipologie di trattamento, al modello cognitivo-comportamentale per la terapia del disturbo da uso di alcol. A conclusione, gli aspetti concettuali e metodologici del protocollo Dioniso ed il caso clinico.

[blockquote style=”1″]Dioniso era il dio del vino, ma anche e soprattutto delle feste Dionisie, caratterizzate dalla ricerca di un’alterazione dello stato della mente (…)Di giorno si rappresentava nei teatri l’arte tragica e la bellezza, di notte gli ateniesi si abbandonavano al piacere e alla spensieratezza.[/blockquote]

Ecco che l’alcologia, considerata dall’Autore metafora della complessità, si consustanzia di bene e male, gioia e degrado, ricchezza intesa come risorsa del territorio e rovina per l’individuo che ne abusa.

Le due principali tecniche utilizzate nel setting del Centro Clinico Aleteia per lo studio psicofisiologico della condizione alcolica, sono l’elettroencefalografia quantitativa con mapping cerebrale dello spettro EEG e il monitoraggio digitale dell’attività elettrotermica. Per mezzo del primo, la somministrazione acuta di alcol provoca un immediato effetto sul tracciato EEG, correlato alla dose assunta, con il secondo si ottiene la registrazione delle risposte riconducibili alla contrazione delle fibre mio epiteliali che circondano il dotto delle ghiandole sudoripare e la cui azione provoca una rapida fuoriuscita di sudore dal dotto ghiandolare (Edelberg, 1967). In tal modo, è possibile valutare, in termini oggettivi, la reale risonanza emotiva di situazioni perturbanti ma anche gratificanti (Davis,1929).

Da un punto di vista clinico dunque, la sistematica valutazione dell’attività elettrotermica può servire per monitorare la condizione di stress del paziente, al fine di intervenire tempestivamente sia farmacologicamente che in termini di neuroterapia, nel caso in cui si prospetti una ricaduta anticipata da crescenti livelli di arousal.

Messaggio conclusivo del volume é quello relativo all’importanza, considerato l’incremento della dipendenza alcolica tra i giovani, di campagne psico-educative.

La prevenzione diretta ai giovani ed in particolare ai giovanissimi può essere efficace se attuata attraverso un approccio precoce, sia di tipo informativo sui rischi e sui danni derivanti dal consumo di alcol, che di tipo educativo, che promuova  il rispetto di se stessi e degli altri, e che fornisca una guida nel gestire le proprie emozioni e nello sviluppo del senso critico, utile al fine di instaurare relazioni più efficaci.

Qualcosa di buono (2014) e Padri e Figlie (2015): trovare il senso della vita anche nella sofferenza – Cinema & Psicologia

Qualcosa di buono e Padri e Figlie parlano della vita, della morte, del timore di perdere le persone care, eventi che riguardano tutti noi e con i quali, ognuno si deve prima o poi confrontare.

 

Qualcosa di buono (You’re Not You)

Film  diretto da George C. Wolfe con  Hilary Swank. USA 2014. Adattamento cinematografico del romanzo di Michelle Wildgen

 

Trama

Una pianista di nome Kate è affetta da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Bec, una studentessa priva di esperienza, si prende cura di lei. Tra le due donne si creerà una relazione affettiva che travalica le diversità. Kate elegante, sposata, affascinante pianista conduce una vita agiata, Bec scapestrata studentessa, conduce una vita sregolata all’insegna del “mordi e fuggi”. Tra confessioni, risate, liti e rimpianti, nasce tra le due protagoniste una complicità femminile che le porterà a dare significato a questo frammento di vita  caratterizzato da dolore e sofferenza e a riconoscere ciò che vale. Il contrappunto tra un mondo borghese patinato e poco incline a considerare il tragico della vita e il vissuto doloroso di Kate aprono la narrazione a una visione empatica verso una condizione che riguarda tutti, nessuno escluso.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM QUALCOSA DI BUONO:

 

Padri e figlie (Fathers and Daughters)

Film diretto da Gabriele Muccino. Interpretato da Russel Crowe, Amanda Seyfried e Jane Fonda. USA 2015

 

Trama

Il film racconta il rapporto tra un padre e una figlia. La narrazione si snoda su due piani, il passato e il presente.

Jake Davis, vincitore di un premio Pulitzer, vive a New York con sua moglie e sua figlia di nome Katie. Una sera, tornando a casa, sono vittime di un incidente in cui muore la moglie. Jake è ricoverato in ospedale, uscirà dopo un lungo periodo di degenza affetto da gravi crisi epilettiche. Si prende cura amorevolmente della figlia, ma è costretto a ricoverarsi di nuovo in un ospedale psichiatrico per i gravi disturbi che lo affliggono. E’ costretto a lasciare Katie dagli zii William ed Elizabeth, membri dell’alta borghesia newyorkese. La zia vuole adottare Katie, anche perché Jake ha difficoltà economiche e problemi di salute. Il padre della bambina non ha alcuna intenzione di affidare la figlia agli zii materni. William, avvocato di professione, sembra riuscire subdolamente a spuntarla. E a nulla valgono i tentativi di Jake che in poche settimane, per sostenere la battaglia processuale, scrive un libro che otterrà un grande successo. Quando tutto sembra perduto, il caso ci mette lo zampino e William ed Elizabeth sono costretti a ritirare la causa per l’affidamento. Jake può restare accanto a sua figlia, ma per poco, il tempo di scrivere il suo romanzo più famoso “Padri e figlie”.  Una crisi lo coglie di sorpresa e muore battendo la testa.

Venticinque anni dopo Katie Davis si sta laureando in psicologia. E’ disregolata, sesso senza limiti e alcol. Le viene affidata per il tirocinio una bambina di nome Lucy orfana di madre e con un padre assente. Katie riesce a conquistare la fiducia della bambina e farla parlare. Si rivede in lei, cresce una forte relazione, fino all’adozione di Lucy. Nel frattempo conosce un ragazzo, Cameron. Il suo romanzo preferito è Padri e figlie. I due s’innamorano, Katie prova sensazioni ed emozioni nuove, ma la paura dell’abbandono la porta a tradire apertamente Cameron. Riesce, comunque a raccontare al suo partner la sua incapacità di abbandonarsi all’amore, lui la comprende e i due tornano insieme.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM PADRI E FIGLIE:

 

Qualcosa di buono e Padri e Figlie: motivi d’interesse

I due film estremamente commoventi e coinvolgenti portano all’attenzione vicende tragiche della vita. E’ possibile che un genitore con gravi disturbi psichici riesca ad accudire i figli fornendogli quella base sicura necessaria a uno sviluppo evolutivo funzionale?

Il contatto con la sofferenza può essere una via di maturazione per chi sta ancora cercando il proprio posto nel mondo?

Qualcosa di buono e Padri e Figlie parlano della vita, della morte, del timore di perdere le persone care, eventi che riguardano tutti noi e con i quali, ognuno si deve prima o poi confrontare.

Mentre scrivo il terremoto incombe in larghe zone del nostro amato bel paese e i residenti sono sgomenti e impotenti di fronte a un evento catastrofico che distrugge mementi storici della vita personale e collettiva delle popolazioni coinvolte dal sisma. In queste circostanze la solidarietà si stringe intorno all’enorme sofferenza e al dolore, la partecipazione empatica cerca di colmare il vuoto e il senso di straniamento che è vissuto e che può generare fenomeni dissociativi, derealizzazione, depersonalizzazione.

Ciò che accompagna per altri motivi Jake che tenta, dopo la morte della moglie, di uscire dal tunnel della destabilizzazione per prendersi cura dell’amata figlia e Katie, traumatizzata da un’infanzia difficile e ancora invischiata con la figura paterna che non riesce a costruirsi una vita affettiva. Tuttavia, proprio l’affettività imbastisce uno sviluppo migliore rispetto all’alternativa fredda e strumentale offerta dagli zii materni, che pensano più al loro desiderio di avere una figlia che al bene della nipote. Certo, le ferite si sanano con sofferenza nel tempo, lasciano cicatrici evidenti, ma le storie ci dicono che una base sicura si può ricostruire.

Anche in Qualcosa di Buono Kate e Bec pur attraversando la turbolenza di una malattia molto invalidante ed esiziale riescono, costruendo e recuperando rapporti affettivi a dare senso, a capire cosa nella vita ha veramente valore.

Relazioni armoniose e significative, direzione consapevole del proprio impegno, accettazione e defusione (Hayes, Strosahl, 2005; Lorenzini, Scarinci, 2013) possono farci attraversare il mare tempestoso della vita dandole un senso.

Trattamenti evidence-based per il disturbo borderline di personalità in età adulta e in adolescenza

Il Disturbo Borderline di Personalità, come gli altri Disturbi di Personalità, è una patologia pervasiva che inficia il funzionamento sociale, le relazioni interpersonali e l’andamento lavorativo di chi ne soffre; gli individui che ne sono affetti hanno inoltre, spesso problemi economici e legali

Naomi Aceto e Giulia Meloni  – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La letteratura scientifica, nel corso degli ultimi trent’anni, si è ampiamente concentrata in maniera crescente sul tema dei Disturbi di Personalità, la cui classificazione è stata oggetto di controversie durante la stesura del DSM V 5 (Paris, 2014). Secondo alcuni autori, infatti, la classificazione potrebbe essere talvolta arbitraria, data la frequente sovrapposizione di sintomi e manifestazioni cliniche. Dal punto di vista epidemiologico, sono disturbi comuni e diffusi ma spesso non riconosciuti o riconosciuti tardivamente (Tyrer, 2015).

Un’ulteriore difficoltà è quella relativa alla diagnosi in età evolutiva: esiste, d’altra parte, oramai un’ampia letteratura a sostegno della possibilità di porre diagnosi di disturbo di personalità anche in età evolutiva, impostazione accettata anche dal DSM 5 (APA, 2013), il quale asserisce che “l’esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza”. La presenza di un disturbo di personalità in età adolescenziale comporta senza dubbio un impatto sul funzionamento del ragazzo e un rischio di ricadute negli anni a seguire, questo risulta essere uno dei principali fattori a sostegno di una diagnosi precoce, al fine di poter strutturare un intervento adeguato e tempestivo in una fascia d’età duttile e particolarmente suscettibile al cambiamento (Larrivee, 2013).

 

Il Disturbo Borderline di Personalità

Tra i Disturbi di Personalità, il Disturbo Borderline di personalità è indubbiamente uno dei più frequenti e meglio studiati. La sua prevalenza sembrerebbe aggirarsi, a seconda degli studi, intorno al 2% nella popolazione generale, fino ad arrivare circa al 10% in campioni estratti dall’utenza dei Servizi di Salute Mentale (Tomko, 2014). Sembrerebbe essere più diffuso nel sesso femminile ed è spesso accompagnato, da altri disturbi in comorbidità, come i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore e i disturbi legati all’uso di sostanze.

Il Disturbo Borderline di Personalità, come gli altri Disturbi di Personalità, è una patologia pervasiva che inficia il funzionamento sociale, le relazioni interpersonali e l’andamento lavorativo di chi ne soffre; gli individui che ne sono affetti hanno inoltre, spesso problemi economici e legali (Coid, 2009).

Il Disturbo Borderline di Personalità (Bordeline Personality Disorder, BDP) è una patologia caratterizzata da un’elevata impulsività e da una considerevole instabilità nelle relazioni interpersonali e nell’immagine di sé.

Le relazioni sono caratterizzate da una pervasiva paura dell’abbandono, la quale il più delle volte può potare a gesti impulsivi nel tentativo di non rimanere da soli. Generalmente l’impulsività può essere rivolta verso se stessi, attraverso tentativi di suicidio, automutilazioni, e più in generale, varie forme di autolesionismo, oppure può dare luogo a comportamenti disfunzionali, quali abuso di sostanze, scoppi di ira, guida spericolata etc.

Tra le persone affette da Disturbo Borderline di Personalità è frequente una forte instabilità emotiva, che si manifesta, il più delle volte, attraverso marcati e improvvisi cambiamenti dell’umore: queste persone possono oscillare infatti, in maniera repentina, tra serenità e tristezza, tra rabbia e senso di colpa o vergogna. Tali emozioni contrastanti, a volte si presentano contemporaneamente, creando confusione nel soggetto e nelle persone a lui vicine.

Sono frequenti sensazioni di angoscia e di vuoto interiore e stati mentali di natura non psicotica, come la convinzione di essere persone cattive e le frequenti esperienze di dissociazione, quali depersonalizzazione e derealizzazione.

I pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità sono riconosciuti dalla letteratura come ad alto rischio suicidario e sono spesso ospedalizzati in situazioni acute in cui evidenziano crisi emotive, comportamenti autolesivi anche se non suicidari e comportamenti invece di tipo suicidario (Nelson, 2013).

La disregolazione emotiva, l’impulsività, il carico di sofferenza individuale e familiare e la significativa disabilità psicosociale impongono la necessità di trattamenti specifici. La sola terapia farmacologica, a lungo utilizzata per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, sembrerebbe essere piuttosto fallimentare, ad eccezione dell’impulsività, così come la sola psicoterapia, sembrerebbe essere associata ad alti livelli di drop-out.

 

Il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità

Sembrerebbe fondamentale dunque, nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, un lavoro d’équipe che condivida i riferimenti concettuali che fondano il trattamento, al fine di evitare la scissione tra l’intervento del terapeuta e quello di altre figure professionali. Una formazione specifica su un tipo di trattamento quindi non solo permette di applicare un modello psicoterapico validato, ma dà anche coerenza all’insieme degli interventi multidisciplinari.

In letteratura la terapia farmacologica non viene considerata il trattamento elettivo dei disturbi di personalità, mentre la psicoterapia individuale è ritenuta generalmente la pietra miliare della maggior parte dei trattamenti (NICE, 2009; National Health and Medical Research Council, 2012).

Orientamenti teorici diversi hanno realizzato diversi tipi di terapie per la cura dei disturbi di personalità. Attualmente vi sono alcuni trattamenti validati empiricamente tramite RCT (Beatson, Rao, 2014), tra questi sono presenti: la Transference Focused Psychotherapy (TFP), la Dialectical Behavior Therapy (DBT), la Schema Focused Therapy (SFT) e la Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving (STEPPS).

 

Psicoterapia focalizzata sul transfert

La psicoterapia focalizzata sul transfert (Transference-Focused Psychotherapy, FTP), sviluppata da Otto Kernberg e il suo gruppo di ricerca, è un trattamento psicodinamico basato sul modello delle relazioni oggettuali (Clarkin, Yeomans, Kernberg, 2011).  Secondo il modello delle relazioni oggettuali, il Disturbo Borderline di Personalità, nasce da conflitti inconsci del passato, radicati nella psiche, come modelli di relazione interiorizzati, che vengono riprodotti simbolicamente dal paziente ed esperiti come una realtà nella vita attuale. La patologia del paziente dunque, viene vista come una ripetizione inconscia nel qui e ora, delle relazioni patogene interiorizzate in passato (Kernberg, 1975).

Il principale obiettivo della terapia è quello di aiutare il paziente a sviluppare immagini di sé e degli altri multidimensionali, coese e integrate e l’enfasi di tale terapia è posta sulle distorsioni del transfert e sulla loro interpretazione. Clarkin e colleghi (2001) in uno studio preliminare volto a valutare l’efficacia della psicoterapia focalizzata sul transfert, hanno rilevato che dopo un anno di trattamento, nessuno di coloro che ha partecipato con costanza alla terapia, ha mostrato sintomi di peggioramento e che il 52% circa dei soggetti, non soddisfaceva più i criteri DSM IV-TR per una diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità.

 

Dialectical Behavior Therapy

La Dialectical Behavior Therapy (DBT), sviluppata da Marsha M. Linehan, professore di Psicologia Clinica presso la Washington University di Seattle (USA), è un trattamento cognitivo-comportamentale complesso originariamente sviluppato per soggetti con tendenze suicidarie e autolesionistiche, in seguito applicato a soggetti che soffrono di Disturbo Borderline di Personalità. La Dialectical Behavior Therapy si basa sul modello dialettico, il quale presuppone che individuo e ambiente si trovino in un rapporto di mutua e continua interazione, reciprocità e interdipendenza.

La ricerca empirica ha ampiamente dimostrato l’efficacia della Dialectical Behavior Therapy nel Disturbo Borderline di Personalità soprattutto nel ridurre i comportamenti suicidari, i ricoveri in ambiente psichiatrico, l’abbandono delle cure, l’abuso di sostanze, la disregolazione emozionale e le difficoltà interpersonali. Uno studio del 2001 (Koons, Robin, Tweed, 2001) volto a verificare l’efficacia della Dialectical Behavior Therapy in un campione di donne veterane con comportamenti parasuicidari, ha mostrato già dopo soli sei mesi di trattamento, una significativa diminuzione dei sintomi di rabbia, depressione, ideazione suicidaria e gesti autolesivi.

L’ipotesi della Linehan è che i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità siano persone emotivamente instabili e incapaci di controllo sulla propria sfera emozionale a causa di una predisposizione biologica esacerbata da un ambiente invalidante, in altri termini, l’espressione dei propri stati interni non solo non è riconosciuta, ma durante l’infanzia è probabile che sia stata spesso punita o banalizzata.

La Dialectical Behavior Therapy è un trattamento ambulatoriale strutturato, che si muove su due livelli principali di intervento: una psicoterapia individuale e, in contemporanea, una terapia di gruppo centrata sull’apprendimento di abilità emotive (skills training). A questi interventi si aggiunge la possibilità di una consulenza telefonica con il terapeuta tra una seduta e l’altra e la possibilità di partecipare a gruppi di sostegno.

 

Schema Focused Therapy

La Schema Focused Therapy (SFT) è un trattamento psicoterapeutico messo a punto da Jeffrey Young (Young, Klosko, Weishar, 2003) che si fonda su tre concetti base: gli schemi, gli stili di coping e le modalità (mode). Gli stili di coping disfunzionali, secondo l’autore, sono le modalità con cui l’individuo cerca di far fronte alle minacce, rimanendo intrappolato però nei propri schemi maladattivi, mentre per modalità o mode si intende l’insieme delle risposte di coping, sia adattive sia disfunzionali. I pazienti borderline presentano un cospicuo numero di schemi e una continua oscillazione di stati affettivi e risposte di coping differenti; inoltre non hanno possibilità di accedere ad altri mode quando in loro se ne attiva uno specifico: le diverse modalità sono totalmente dissociate le une dalle altre. Secondo Young (2003), in seguito a esperienze negative vissute durante l’infanzia, il soggetto sviluppa, quelli che egli definisce, schemi maladattivi precoci. Tali schemi, secondo l’autore sono all’origine di tratti di personalità patologica e talvolta di veri e propri disturbi di personalità, come il Disturbo Borderline di Personalità.

 

Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving

Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving (STEPPS) è un trattamento ambulatoriale di stampo cognitivo-comportamentale basato su gruppi di skills sviluppato per pazienti con Disturbo Borderline di Personalità e con difficoltà nella regolazione emotiva e comportamentale (Blum, 2012; Alesiania, 2014). Il fondamento teorico della Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving è che il deficit centrale nei soggetti affetti da Disturbo Borderline di Personalità sia l’incapacità di regolare e controllare l’intensità emotiva. Come risultato, il paziente borderline è ciclicamente vittima di picchi emotivi intensi e intollerabili che lo portano a cercare sollievo mediante comportamenti disfunzionali quali auto-mutilazione, agiti spericolati e abuso di sostanze. Il programma terapeutico si compone di un trattamento di psicoeducazione e di un modulo di skills training, per una durata di 20 settimane.

La STEPPS è stata descritta dalla United States Substance Abuse and Mental Health Administration come un trattamento evidence based ed è stata inserita nel National Registry for Evidence-Based Practices come un programma di trattamento completo per il Disturbo Borderline di Personalità e/o come supplemento o aggiunta alle terapie già esistenti e utilizzate. L’obiettivo della terapia è aiutare i pazienti ad acquisire nuove strategie di coping, al fine di modulare e ridurre i dolorosi picchi emotivi e i comportamenti impulsivi. L’acquisizione di queste abilità permette al paziente di anticipare situazioni stressanti e incrementare la fiducia nelle proprie capacità nel gestire il proprio disturbo. Il programma della STEPPS prevede tre componenti principali: consapevolezza della malattia, skills training per controllo emotivo, skills training per controllo comportamentale.

Recentemente alcuni autori (Madeddu et al. 2012) hanno messo a confronto differenti modelli di trattamento, validati empiricamente tramite RCT, ed hanno concluso che tutti possono essere considerati efficaci nella cura del Disturbo Borderline di Personalità o, quantomeno, idonei al trattamento di specifici sintomi ad esso associati.

 

Disturbo Borderline di Personalità negli adolescenti

L’ampliamento della diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità agli adolescenti (Miller, 2008) ha reso necessario l’adattamento delle tecniche di intervento messe a punto per l’adulto, all’età adolescenziale.  Tra i protocolli sopracitati solo Dialectical Behavior Therapy e Psicoterapia Focalizzata sul Transfert sono stati adattati per l’adolescente.

La DBT-A per l’adolescente (Miller 2008) prevede innanzitutto il coinvolgimento dei familiari del ragazzo, un adattamento dei contenuti e del linguaggio degli skills training e la riduzione della durata del protocollo da 1 anno a 16 settimane con la possibilità di accedere ad una seconda fase opzionale.

Anche la TFP-A prevede un adattamento del linguaggio per l’età evolutiva e comprende il coinvolgimento dei familiari nel trattamento. Il modello, manualizzato da Kernberg e colleghi, contempla anche un adattamento delle tecniche ed è focalizzato a sviluppare relazioni più adeguate sia in ambito familiare che extra-familiare (Kernberg et al. 2008). Non vi sono al momento studi di valutazione di efficacia dell’applicazione del modello in adolescenti con Disturbo Borderline di Personalità.

I disturbi neurocognitivi come segnale precoce per la schizofrenia: una possibile prevenzione

Uno studio condotto da un gruppo di psicologi del “Beth Israel Deaconess Medical Center” (BIDMC), ha scoperto che, in una fase precedente alle manifestazioni psicotiche, che chiameremo “fase prodromica”, questi sintomi neurocognitivi sarebbero già evidenti.

Col termine “schizofrenia” indichiamo un disturbo psicotico che implica disfunzioni cognitive, comportamentali ed emotive. Secondo la classificazione del DSM 5, la sintomatologia associata a questa condizione prevede, per una parte di tempo significativa durante il periodo di un mese, la presenza di due o più dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento emotivo o affettivo). Per avere una diagnosi vera e propria di schizofrenia, deve essere sempre presente almeno uno dei primi tre sintomi elencati e la condizione descritta deve durare per un periodo di almeno sei mesi, in cui, come visto in precedenza, un mese di sintomi sopracitati e gli altri mesi che comprendono sintomi prodromici o residui. Inoltre il quadro patologico deve compromettere in modo marcato il livello di funzionamento del soggetto in una o più aree (lavoro, relazioni, cura di sé ecc.).

Si tratta dunque di una problematica pervasiva, che, benché sia conosciuta a causa dei sintomi più francamente psicotici come allucinazioni e deliri e nell’immaginario comune sia a loro associata, in realtà risulta essere caratterizzata anche da deficit neurocognitivi cronici, come problemi di memoria e di attenzione.

 

Lo studio

Uno studio condotto da un gruppo di psicologi del “Beth Israel Deaconess Medical Center” (BIDMC), ha scoperto che, in una fase precedente alle manifestazioni psicotiche, che chiameremo “fase prodromica”, questi sintomi neurocognitivi sarebbero già evidenti. I risultati potrebbero essere utili per stabilire dei segnali che consentirebbero di evidenziare la possibile presenza della malattia fin dalle fasi precoci, ed eventualmente elaborare degli interventi per mitigare la manifestazione dei disordini psicotici e incrementare le funzioni cognitive.

I metodi

Nella ricerca, condotta in quattro anni da Seidman et al. all’interno di otto università di Stati Uniti e Canada su pazienti esterni, sono stati confrontati 689 uomini e donne classificati come “ad alto rischio clinico” (CHR) di sviluppare psicosi, con 264 uomini e donne classificati come gruppo di controllo (HC). Ad entrambi i gruppi sono stati somministrati 19 test standard che valutavano le funzioni esecutive, le abilità visuospaziali, l’attenzione, la working memory, le abilità verbali e la memoria dichiarativa. Negli anni successivi gli stessi soggetti sono stati monitorati per l’eventuale sviluppo di patologie dello spettro psicotico.

E’ stato dimostrato che il gruppo ad alto rischio aveva punteggi significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo in tutti i 19 test. Inoltre, all’interno del gruppo CHR, coloro i quali avrebbero successivamente sviluppato una patologia dello spettro psicotico avevano performance significativamente peggiori degli altri soggetti ad alto rischio ma senza il successivo sviluppo di disordini psicotici.

Le funzioni neurocognitive

Secondo i ricercatori, le due funzioni neurocognitive chiave danneggiate nei soggetti ad alto rischio, nella fase prodromica della malattia, sarebbero la working memory e la memoria dichiarativa.
Il danneggiamento di queste abilità, secondo Seidman, sarebbe corrispondente alle difficoltà riferite da molti soggetti affetti da schizofrenia, che riporterebbero difficoltà di concentrazione, nella lettura, o nella rievocazione di materiale mnemonico nei giorni precedenti all’insorgenza.

Seidman sostiene che, benché nella nostra cultura siano allucinazioni e deliri a rendere paurosa una malattia come la schizofrenia, in realtà circa l’80% delle persone che ne sono affette non è in grado di far fronte alla vita quotidiana o di proseguire un percorso lavorativo o scolastico proprio a causa dei disturbi della sfera neurocognitiva.

[blockquote style=”1″]I soggetti possono sentire le voci e funzionare comunque abbastanza bene, ma essi non riescono a funzionare praticamente per nulla quando le loro funzioni cognitive sono compromesse. Il nostro gruppo sta testando una serie di rimedi di tipo cognitivo e dei trattamenti di miglioramento per determinare il loro ruolo nell’evoluzione della malattia. Esiste più di un’evidenza del fatto che interventi precoci riducano il numero di persone che arrivano alla schizofrenia. [/blockquote] dichiara il ricercatore.

Gli sviluppi della ricerca

Questo studio ha costituito la seconda fase del NAPLS (North American Prodrome Longitudinal Study), un consorzio di ricerca formato nel 2003 allo scopo di focalizzarsi sull’intervento precoce e sulla prevenzione della schizofrenia. I ricercatori del NAPLS hanno potuto identificare, attraverso i propri dati, individui ad alto rischio per lo sviluppo di un disturbo psicotico e i fattori biologici associati alle psicosi, risultati che hanno portato il gruppo, capeggiato da ricercatori dell’università di Yale, a pubblicare un “calcolatore di rischio” che potrebbe aiutare i professionisti a “prevedere” l’eventuale evoluzione a psicosi di soggetti a rischio.

[blockquote style=”1″]Un significativo numero di persone riesce a continuare o a ritornare a lavoro e a scuola. Questo approccio, che prevede un intervento rapido, sta dando alle persone più speranze, ed è questo ciò che conta davvero.[/blockquote]

Benefici della Pratica della consapevolezza: cambiare il modo di vedere la realtà e se stessi

La consapevolezza è un’osservazione non giudicante ed è dunque la capacità della mente di osservare senza criticare. In questo modo è possibile vedere ogni cosa senza condanna e senza meravigliarsi di nulla. Inoltre, la consapevolezza è “osservazione partecipante” ossia il meditante è sia osservatore dei propri stati emotivi che partecipante, cioè nello stesso tempo le prova, le esperisce.

La pratica della consapevolezza: in cosa consiste

Secondo l’ottica Buddhista, noi esseri umani viviamo in un modo particolare, considerando le cose come permanenti anche quando esse non lo sono. Non siamo difatti abituati a percepire le cose in continua evoluzione, in continuo cambiamento, come in realtà sono.

Con la Meditazione vipassana, è possibile coltivare un modo speciale e diverso di guardare la vita: vederla così come esattamente è. Questo è un modo particolare di percepire chiamato “Consapevolezza“. Questo processo della Consapevolezza è molto diverso dunque dal modo abituale di conoscere ed esperire la realtà, cui siamo abituati. In genere infatti guardiamo le cose attraverso uno schermo di concetti e pensieri e scambiamo questi oggetti mentali per la realtà. In questo modo trascuriamo quasi tutti gli stimoli sensoriali che riceviamo, nonostante le risposte percettive siano intrinseche alla struttura stessa del sistema nervoso, per consolidare nella mente nient’altro che oggetti mentali.

La meditazione può invece insegnare ad esaminare, con grande precisione, tutto il processo della percezione. Esercitando la Consapevolezza si diviene sempre più consci di ciò che realmente è la vita. E’ un’educazione mentale che consentirà di fare un’esperienza del mondo completamente nuova. Non solo ci si renderà conto di cosa realmente sta accadendo intorno a noi ma consentirà, allo stesso tempo, una progressiva scoperta di se stessi. Si potrà dunque essere in grado di percepire le cose così come sono e dunque in continuo movimento, cambiamento.

La pratica della consapevolezza è detta vipassana bhavana. Vipassana deriva da “passana” che significa percepire, vedere e “vi” che ha una serie di significati tra i quali “in profondità”. Potrebbe dunque essere tradotto come “guardare all’interno delle cose con chiarezza”. Bhavana deriva da bhu che significa diventare, crescere, coltivare ed è sempre usata con riferimento alla mente per cui può essere tradotta come “coltivare la mente”. Tale coltivazione si ripromette di favorire un modo particolare di vedere le cose capace di generare profonda comprensione della realtà. Nel processo di percezione normalmente la fase della consapevolezza è molto veloce, tanto che è difficile osservarla. E’ quello stato di consapevolezza presimbolico e di brevissima durata che consiste nel mettere a fuoco la vista e la mente sull’oggetto, senza ancora oggettivarlo.

La consapevolezza è un’osservazione non giudicante ed è dunque la capacità della mente di osservare senza criticare. In questo modo è possibile vedere ogni cosa senza condanna e senza meravigliarsi di nulla. Inoltre, la consapevolezza è “osservazione partecipante” ossia il meditante è sia osservatore dei propri stati emotivi che partecipante, cioè nello stesso tempo le prova, le esperisce.

 

Le attività della consapevolezza e le finalità

La consapevolezza comprende tre attività fondamentali: il ricordarci quello che stiamo facendo, farci vedere le cose così come sono e farci vedere la natura profonda di tutti i fenomeni. Quando la mente si distoglie da ciò che stiamo facendo è infatti la consapevolezza a ricordarci cosa stavamo facendo. Essa non aggiunge altro a ciò che si percepisce, non distorce nulla. E’ grazie ad essa che dunque ci si rende conto della vera natura profonda dei fenomeni ed in particolare delle tre caratteristiche insegnate dal buddhismo sull’esistenza umana: “anicca” l’impermanenza, “dukka” l’insoddisfazione e “anatta” l’assenza di un io. La consapevolezza è il metodo col quale è possibile investigare queste verità universale col fine di farci conoscere un livello di realtà più profondo.

A questo livello di indagine più profondo, accessibile all’osservazione umana, ci si rende conto che:
– tutte le cose sono transitorie;
– qualsiasi cosa nel modo è insoddisfacente;
– non esistono entità immutevoli o permanenti, si tratta solo di processi.

La consapevolezza rappresenta così il cuore della meditazione ed è proprio in virtù dello sviluppo della consapevolezza meditativa che cambia il modo di percepire la vita: la realtà stessa viene percepita nel momento presente, nell’attimo stesso in cui accade. In questo stato percettivo ci si rende conto di come nulla resta uguale a se stesso per due momenti consecutivi. Tutto è in costate trasformazione. Ogni cosa nasce, cresce e muore, senza alcuna eccezione. Tutto è in continua trasformazione: sorge, aumenta, diminuisce e svanisce. Le esperienze piacevoli, come quelle spiacevoli, sorgono e svaniscono senza alcun controllo e non durano in eterno. Quest’impermanenza non è tuttavia causa di dolore ma solo il normale succedersi delle cose. Mentre si continua ad osservare questi cambiamenti ci si accorge di come tutto si tiene insieme, ci si rende conto della intima connessione tra tutti i fenomeni mentali, sensoriali ed affettivi. Ogni pensiero ne genera un altro, le sensazioni ed i desideri sono tutti collegati.

Il modo abituale di percepire e vedere la realtà e noi stessi è spesso causa di malessere e disagio. Di continuo ci ritroviamo a lottare per cacciare via situazioni spiacevoli e avvertiamo un profondo senso di fallimento e malessere perchè ciò non è sempre possibile. Allo stesso modo non possiamo aspettarci che le esperienze piacevoli durino in eterno ed anche questo diventa talvolta fonte di disagio. Dunque questa nuova concezione può consentire l’osservazione di ogni cosa, compreso il dolore psichico, come tale: qualcosa che sorge ed inevitabilmente tende a svanire.
Ecco dunque il beneficio della pratica della consapevolezza: cambiare il modo di vedere la realtà e se stessi.

Francesca Woodman e l’arte della fotografia: “E’ una questione di convenienza: io sono sempre disponibile”

Francesca Woodman (1958-1981), una delle figure più emblematiche dell’arte fotografica degli ultimi quarant’anni, era solita fotografarsi in maniera quasi ossessiva.

 

E spiegava così il perché ad un’amica, con un misto di ironia e di pragamatismo:

E’ una questione di convenienza: io sono sempre disponibile.

Francesca Woodman cominciò a lavorare con il mezzo fotografico a soli tredici anni, quando realizzò il suo primo autoscatto (“Self-portrait at thirteen”). Nei nove anni che separano questo esordio dalla sua morte (si suicidò nel gennaio del 1981) l’artista continuò a fotografare se stessa negli ambienti più disparati.

Francesca Woodman e l'arte della fotografia: "E' una questione di convenienza: io sono sempre disponibile" - self portrait at 13
Francesca Woodman – Self Portrait at thirteen

 

Francesca Woodman e il rapporto tra corpo e spazio

Al centro dell’obiettivo c’è sempre il suo corpo, nudo, accostato ad elementi naturali o deformato con vetri, lacci o, ancora, trasformato in statua o in oggetto inanimato. Anche le pose sono molto interessanti, in parecchie foto assai sensuali, si tratta di una sensualità intimamente legata al dolore e alla morte, possibile rappresentazione della morte psichica cui si va incontro se il corpo non trova una sua dimensione ed un suo spazio nella realtà.

L’opera di Francesca Woodman si sviluppa attorno allo studio del rapporto tra il proprio corpo e lo spazio, e al modo in cui questo rapporto viene rappresentato attraverso la fotografia. Il corpo femminile diventa oggetto di studio ed autoriflessione; l’impiego del proprio corpo è per Francesca un’attività totalizzante e durissima, è molto più di una ricerca puramente estetica, è un “gioco psicologico” profondo e drammatico.

Ci ritroviamo quindi a riflettere su alcune dimensioni fondamentali dello psichico attraverso gli scatti di Francesca Woodman. In altre parole, la Woodman costruisce fotografie di forte carattere introspettivo, quasi a voler scavare nel profondo del proprio animo, cercando di esternare, attraverso l’arte fotografica, le sue paure ed i suoi incubi.

 

L’autoritratto e la fotografia in psicoterapia

Con i suoi autoritratti Francesca Woodman esplora la sua anima e la sua psiche. Non a caso, infatti, l’autoritratto è oggetto di studio anche in psicologia. Autoritratto, in campo psicologico, non significa solo scattarsi delle fotografie, ma si intende soprattutto il rapporto che ognuno ha con la rappresentazione della propria immagine.

Quella della Woodman potrebbe essere definita una “fotografia terapeutica”, uno strumento facilitatore per acquistare maggiore consapevolezza di alcuni aspetti della propria personalità.

L’autoritratto è una tecnica molto valida per mettere a nudo quelle emozioni faticose da esprimere e che scuotono l’interiorità, motivo per cui la fotografia viene usata anche per trattamenti terapeutici, per esempio in persone affette da anoressia o bulimia, in persone che hanno bisogno di riaccettare la propria immagine dopo un incidente o una malattia, oppure in individui che soffrono di ansia o di disturbi dell’umore, o in soggetti che costituzionalmente hanno un deficit linguistico, o disfunzioni cerebrali.

La fotografia è infatti un medium artistico molto potente da un punto di vista emotivo e può essere molto efficace nelle cure psicoterapeutiche (fototerapia). Quindi, mentre la “fotografia terapeutica” viene utilizzata dalle persone, come da Francesca Woodman, per l’analisi e la scoperta di se stesse, la fototerapia viene utilizzata dagli psicoterapeuti per assistere altre persone che hanno bisogno di aiuto per risolvere i loro problemi. In entrambi i casi, il mezzo fotografico è un potentissimo alleato che ci aiuta ad entrare in contatto con noi stessi molto profondamente.

 

La dissociazione e il questionario PSQ nell’ ottica della Terapia Cognitiva Analitica

La CAT (Cognitive Analytic Therapy – Terapia Cognitiva Analitica) è una tecnica terapeutica evidence based di tipo collaborativo per esaminare le modalità secondo cui una persona pensa, esperisce le emozioni, agisce nel mondo rispetto agli eventi di vita e le relazioni interpersonali che sono connesse a queste esperienze.

Ilenia Sidoli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

CAT: la terapia cognitiva analitica

Sviluppata all’inizio degli anni ‘80 da Dr. Anthony Ryle a Londra all’interno del Sistema sanitario nazionale, è una terapia breve che, solitamente, prevede 16 sedute ed è applicabile ad una varietà di disturbi mentali.

Viene oggi utilizzata in diversi settori e per diversi tipi di patologia, con un numero sempre maggiore di studi randomizzati controllati di efficacia (Treasure et. al. (1995), Dare et. al. (2001) Chanen et. al. (2008) Fosbury et. al. (1997)¸ Clarke S1et al., 2013).

La terapia cognitiva analitica è influenzata da diverse correnti. In particolare dal cognitivo assorbe il modello misto di elaborazione sequenziale e in parallelo dell’informazione, l’insegnamento al paziente di abilità di automonitoraggio circa il proprio umore, pensieri e sintomi; dalla psicanalisi ha mutuato concetti relativi ai meccanismi di difesa, transfert e controtransfert, i conflitti, le relazioni oggettuali, l’importanza delle esperienze infantili e della loro valenza affettiva come base su cui in età adulta si strutturano i modelli relazionali; da Kelly la teoria dei costrutti personali e le griglie di repertorio; da Vygotskji i concetti di zona di sviluppo prossimale e da Bakhtin il concetto di “mente dialogica”.

Lo sviluppo teorico della terapia cognitiva analitica si dipana lungo due linee di ricerca che hanno guidato il lavoro di Antony Ryle : uno focalizzato sul perchè gli esiti negativi di pensieri e azioni disfunzionali non portino alla revisione da parte dei centri superiori, l’altro utilizza tecniche di investigazione delle relazioni e dei processi del sè. Ryle si chiedeva quindi come mai le persone continuino ad avere pensieri e comportamenti disfunzionali nonostante vedano gli esiti negativi dei propri comportamenti.

Ryle ha così individuato tre tipologie di procedure generali che generano nei pazienti problemi di revisione delle proprie tecniche: trappole che sostenendo le assunzioni negative ne rinforzano gli esiti, intoppi che bloccano i desideri poiché provocano o potrebbero provocare esiti negativi (sarebbe bene ma..), dilemmi, dove le scelte sono polarizzate in due possibilità opposte senza possibili soluzioni intermedie.

Ciò che si propone di fare la terapia cognitiva analitica è riconoscere e modificare le distorsioni imposte da pattern intra ed interpersonali disfunzionali. Attraverso l’utilizzo dello Psychotherapy file si vogliono indagare spiegazioni di sintomi, descrivere le trappole, intoppi e dilemmi negativi degli stati problematici ed aiutare i pazienti ad identificarli. Sulla formazione di questi schemi assumono un ruolo essenziale le esperienze relazionali precoci poichè esse vengono interiorizzate ed il senso di sè è trovato o elicitato nelle risposte reciproche dell’altro.

La terapia cognitiva analitica descrive le internalizzazioni di modelli relazionali precoci in termini di Ruoli Reciproci (RR), per cui le nostre primissime relazioni con le figure di accudimento significative vengono ripetute nelle nostre relazioni mature in modo inconsapevole. Per esempio l’esperienza di essere stati accuditi e amati nell’infanzia, permette di consolidare modelli di relazioni future con se stessi e con gli altri connotate dall’accudire e ricevere accudimento, mentre l’essere stati in una relazione criticante e giudicante, si ripercuote in un atteggiamento di critica e giudizio verso se stessi e gli altri, e al contempo nel percepire se stessi e mettere gli altri nella stessa posizione di esame e disapprovazione.

Nell’adulto i ruoli reciproci predominanti in base alle proprie esperienze relazionali (amato in modo condizionale, criticato, maltrattato) e le procedure collegate a questi ruoli (per es. mi sforzo per essere benvoluto dagli altri, ma poi mi sento usato e torno al RR di amato in modo condizionale), possono essere “interpretati” in momenti diversi, o all’interno della stessa relazione. Questi schemi ripetitivi sono la causa del dolore più profondo poichè restringono la gamma delle nostre scelte e si autoalimentano e la loro identificazione diventa essenziale ( McCormick E.W. 1996 “Change for the Better”Self Help Through Practical Psychotherapy”Cassell) . In questi schemi legati al bambino e all’adulto interni diventa allora importante riconoscere come ognuno di questi ruoli mantenga la nostra primissima esperienza di dolore. Il sé bambino vive questo dolore ogni volta come se fosse la prima ed il sé adulto continua ad infliggere gli stessi schemi limitanti (come tipologia) nelle relazioni, sia a livello interno che esterno.

Nella terapia cognitiva analitica è centrale il concetto di sé. Sulla base genotipica si sviluppano i concetti di relazione reciproca che vengono poi influenzati lungo tutto il percorso di vita dall’ambiente ed in particolare dall’internalizzazione di ruolo reciproco e dalle esperienze socioculturali. Il sé è costituito da più livelli di cui alcuni inconsci ed altri più consci tra cui le funzioni psicologiche quali il pensiero, attenzione, memoria…

Il sé comprende anche le capacità più propriamente meta cognitive, l’empatia, il senso di coerenza e continuità, l’identità e l’abilità relazionale.
In alcuni pazienti è stato notato un contrasto tra i vari stati del sè non meglio spiegati da circostanze esterne. Coloro che hanno avuto esperienze di mancato controllo, abuso, abbandono o rifiuto richiedono l’identificazione di due o più stati del sè. Spesso questi ruoli non sono riconosciuti dal paziente che includono angoscia o basso tono dell’umore e confusi con la sintomatologia depressiva.

 

PSQ: Personality Structure Questionnaire per indagare la dissociazione

Questi stati multipli del sè o dissociazione possono essere identificati attraverso la somministrazione del PSQ (Personality Structure Questionnaire) (Pollock e al. 2001;Ryle 2007; Bedford e al. 2009) . Il PSQ individua una povertà di integrazione della personalità (Pollock, Broadbent, Clarke et al., 2001, Bedford et al., 2009) e la ri-somministrazione durante il percorso terapeutico indica il grado di ristrutturazione in corso.

Una personalità adulta integrata è concettualizzata da un senso di continuità delle esperienze e considerazione di sè e degli altri come complessi e multisfaccettati dotati di qualità sia positive che negative ma tollerabili (McQuitty, 2006). Esperienze di mancata integrazione avvengono quando le prime relazioni non sono solide o addirittura deprivanti/abusanti ed i disturbi di integrazione della personalità sono frequenti tra i disturbi di personalità e nelle diagnosi di disturbo borderline (Adler et al.,2012).

Deficit di integrazione della personalità si concettualizzano nella teoria degli stati multipli del sè, concetto centrale della terapia cognitiva analitica. In presenza della dissociazione il paziente si sente talmente travolto dalla condizione emotiva temporanea da avere una mancata integrazione di tutte le altre parti di sè o stati alternativi potenziali (CAT; Ryle, 1995). La mancata integrazione può essere dovuta ad una flessibilità ristretta ed il disturbo dell’identità può essere descritto come la mancata integrazione di stati contrastanti.

La dissociazione si configura come una distruzione delle funzioni sovrastanti al sé che spesso si manifesta in de-realizzazione, depersonalizzazione e amnesia. Neurologicamente sembra associata all’abnorme attivazione delle regioni frontali e temporali, l’amigdala ed il precuneo. Questo penalizza i processi di attivazione del sé compresa l’identità ma anche le funzioni esecutive superiori che impedirebbero l’integrazione dei vari aspetti del sé nei ruoli reciproci.

Dalenberg et al.(2012) evidenziano che la dissociazione può essere un risvolto traumatico con cui si resta in relazione. La dissociazione può essere vista anche come il tentativo di bloccare una presa di coscienza rispetto a qualcosa che non vogliamo ricordare (Elzinga, Phaf, Ardon, & Van Dyck, 2003).

Ryle (1995) tentò di creare uno strumento utile a misurare la dissociazione attraverso una scala composta da otto item testati in due studi separati in Gran Bretagna: il “Personality Structure Questionnaire (PSQ)” .

Il primo studio di validazione (Pollock, Broadbent, Clarke, Dorrian, & Ryle, 2001) fu effettuato su due campioni clinici (pazienti psichiatrici un gruppo di 20 e uno da 52 ed un campione di persone prese dalla comunità composto da 255 soggetti).

Il secondo studio fu effettuato su un campione più ampio da Bedford et al. (2009) di pazienti in attesa di ricevere un trattamento.

Per la validazione italiana (Berrios, R., Kellett, S., Fiorani, C., & Poggioli, M., 2015) lo studio fu effettuato su un campione di 296 studenti o lavoratori in Italia che hanno compilato il PSQ volontariamente ed autonomamente e che non avevano mai ricevuto terapie, senza disabilità intellettuali, di un’ età compresa tra i 18 ed i 65 anni, con un livello culturale adeguato. Il secondo campione era invece composto da 237 soggetti con esperienza di psicopatologia cronica in trattamento presso il Sistema Sanitario Nazionale italiano con diagnosi effettuata secondo i criteri del DSM IV e classificati secondo quattro assi: depressione-schizofrenia; disturbi di personalità; condizioni mediche acute o disordini fisici; fattori psicosociali o ambientali che acutizzano lo stress.

Ai partecipanti fu richiesto di rispondere ad 8 item bipolari che riflettono il proprio senso di sè e 5 in scala Likert con valori da uno a cinque rispetto a quanto l’item rappresenta il sè.
Alti livelli di PSQ sono correlati a alti livelli di disturbo rivelando possibili presenze di più stati di sè, presenza di umore variabile, e comportamenti rivelanti la perdita di controllo. La validazione per la popolazione italiana ha rilevato che il PSQ ha caratteristiche di transculturalità. (Berrios, R., Kellett, S., Fiorani, C., & Poggioli, M., 2015).

Inoltre lo studio sottolinea come la possibilità di individuare attraverso un test molto breve la presenza di una dissociazione dei molteplici sè, sia ampiamente indicativo per il trattamento da utilizzare (Ryle & Kerr, 2002). Il PSQ può essere usato sia in fase diagnostica che valutativa del funzionamento della terapia anche utilizzando metodologie affini alla terapia cognitiva analitica come la Schema Therapy (Kellett, Bennett, Ryle, & Thake, 2013).

Lo studio di validazione ha quindi evidenziato l’utilità del PSQ come strumento di assessment per l’identificazione della confusione identitaria anche nel campione italiano. La sua semplicità nell’essere compreso e la possibilità valutativa dei tre fattori (diversi stati, diversi umori e perdita del senso di controllo) indicano come può essere usato come strumento di individuazione e diagnostico di differenti aspetti del disturbo dell’identità.

Inoltre il PSQ è un valido contributo rispetto all’identificazione dei bisogni dei pazienti che presentano disturbi dissociativi dell’identità ed il cuore dei loro problemi di disregolazione (Adler et al., 2012).

Il PSQ ha dimostrato di essere una misurazione self-report e analisi fattoriale affidabile utile ad indagare la dissociazione e costrutti relativi ai disturbi dell’identità.

I dati relativi al test pilota della standardizzazione italiana suggeriscono la possibilità di rilevare differenze significative in termini di integrazione della personalità attraverso l’utilizzo del questionario PSQ prima e dopo un trattamento di psicoterapia (Fioranzi e Poggioli, 2011).

Ulteriori studi (in atto) su campioni più ampi si focalizzeranno sull’ item analysis e sull’effetto della terapia covariando per età e per tipologia di patologia.

Perché il cervello delle Anoressiche e delle Bulimiche è in grado di ignorare la fame?

I ricercatori dell’Università del Colorado presso l’Anschultz Medical Campus, guidati da Guido Frank, hanno scoperto il meccanismo neurale che consente al cervello delle Anoressiche e delle Bulimiche di ignorare lo stimolo della fame.

 

In uno studio pubblicato dalla rivista Translational Psychiatry, i ricercatori hanno dimostrato che i normali pattern cerebrali dell’appetito sono, in effetti, alterati e ribaltati in coloro che soffrono di disturbi alimentari.

I segnali cerebrali provenienti da altre aree possono far sì che il segnale ipotalamico venga ignorato, nonostante l’ipotalamo sia una regione cruciale per la regolazione dell’appetito, in quanto guida la motivazione ad alimentarsi.

Nel mondo scientifico e clinico noi lo chiamiamo “la mente domina la materia” (in lingua originale: “Mind Over Matter”) – ha affermato Guido Frank, autore principale dello studio e professore associato di psichiatria e neuroscienze presso la Scuola di Medicina dell’Università del Colorado – Ora, abbiamo un’evidenza fisiologica a sostegno di quest’idea.

Frank, esperto di disturbi del comportamento alimentare, si è avviato alla scoperta dell’organizzazione gerarchica che all’interno del cervello regola l’appetito e l’assunzione di cibo. L’obiettivo era quello di comprendere il meccanismo neurale che si cela dietro al fatto che alcune persone si nutrono quando hanno fame mentre altre non lo fanno.

 

Cosa succede nel cervello delle anoressiche e delle bulimiche: lo studio

Con l’ausilio di immagini di risonanza magnetica cerebrale, i ricercatori hanno esaminato la reazione del cervello in seguito all’assunzione di una soluzione zuccherata di 26 donne prive di un disturbo alimentare, 26 donne con diagnosi di anoressia nervosa e 25 con diagnosi di bulimia.

Il team ha scoperto che le partecipanti con un disturbo alimentare mostravano diffuse alterazioni nella struttura dei circuiti cerebrali di ricompensa del gusto e di regolazione dell’appetito.

Tali alterazioni sono state osservate non tanto a livello strutturale, quanto piuttosto a livello della sostanza bianca, fondamentale per coordinare la comunicazione tra le diverse parti del cervello. Sono emerse anche importanti differenze nel ruolo giocato dall’ipotalamo nei due diversi gruppi sperimentali.

 

I risultati

All’interno del gruppo privo di disturbi alimentari, le regioni cerebrali responsabili dell’assunzione di cibo ricevevano il loro segnale d’azione dall’ipotalamo; mentre nel cervello delle anoressiche e delle bulimiche il circuito ipotalamico era significativamente più debole e l’informazione viaggiava in direzione opposta, pertanto, si dirigeva dalla corteccia cingolata anteriore, che ha implicazioni a livello emozionale e può essere considerata il nostro “sistema di allarme”, verso l’ipotalamo.

Il risultato di questo ribaltamento, quindi, è la capacità del cervello delle anoressiche e delle bulimiche, grazie all’influenza top down cognitivo-emozionale del cingolo anteriore, di ignorare l’ipotalamo respingendo il segnale “mangia” e prolungando, inoltre, la restrizione alimentare.

 

Conclusioni

La regione dell’appetito nel cervello dovrebbe spingere ciascuno di noi ad alzarsi dalla sedia in cerca di qualcosa da mangiare – ha detto Frank – Ma nei pazienti che soffrono di anoressia nervosa o bulimia nervosa questo non avviene.

Secondo lo studio, gli esseri umani sono programmati fin dalla nascita per apprezzare il gusto dolce, ma chi soffre di un disturbo alimentare tendenzialmente inizia proprio con l’evitare cibi dolci per paura di ingrassare. Si potrebbe interpretare questo evitamento come un comportamento appreso e, più specificatamente, un condizionamento operante, dove l’aumento di peso rappresenta la punizione temuta che rafforza l’abitudine a non cibarsi.

Questo evitamento potrebbe, col tempo, alterare i circuiti cerebrali dell’appetito e della nutrizione. I ricercatori suggeriscono che la paura di mangiare certi cibi può influenzare i meccanismi di elaborazione cerebrale del circuito di ricompensa del gusto riducendo il potere dell’ipotalamo.

Grazie a questo studio, noi comprendiamo meglio a livello biologico come fanno coloro che soffrono di un disturbo alimentare ad ignorare la spinta a nutrirsi – ha detto Frank. – Prossimamente abbiamo bisogno, rivolgendoci ai bambini, di comprendere quando tutto questo inizia ad innescarsi.

 

Gli effetti positivi della musicoterapia nei bambini e adolescenti

I ricercatori delle Bournemouth University e Queen University di Belfast hanno scoperto come la musicoterapia, associata ad un trattamento terapeutico tradizionale riduca ulteriormente i sintomi depressivi nei bambini e adolescenti che presentano problemi comportamentali ed emotivi.

Mariagrazia Zaccaria

In collaborazione con Every Day Harmony (marchio della Irlanda del Nord Music Therapy Trust), i ricercatori hanno scoperto come dei bambini e dei ragazzi con una età compresa tra gli 8 e i 16 anni, che sono stati sottoposti alla musicoterapia, siano notevolmente migliorati nei loro sintomi depressivi rispetto a coloro che hanno ricevuto un trattamento tradizionale senza musicoterapia.

Lo studio, ha anche scoperto che i ragazzi di 13 anni (e più) che hanno ricevuto un trattamento musicoterapico hanno migliorato anche le loro abilità comunicative e interattive, riscontrando anche come la musicoterapia abbia portato ad un miglior funzionamento sociale nel corso del tempo in tutte le fasce d’età.

In questo studio sono stati coinvolti 251 ragazzi, divisi in due gruppi: 128 di loro hanno ricevuto un trattamento tradizionale mentre i rimanenti 123 soggetti dello studio hanno ricevuto la musicoterapia in aggiunta alla terapia tradizionale. Ognuno di loro è stato trattato per problemi emotivi, di sviluppo o comportamentali.

Il Professor Sam Porter del Dipartimento di Scienze Sociali e Lavoro Sociale presso l’Università di Bournemouth, ha affermato che questo studio è estremamente significativo per determinare quali siano i trattamenti efficaci per i bambini e i ragazzi che presentano problemi comportamentali.

La Dottoressa Valeria Holmes, co-ricercatrice dello studio presso la Queen University di Belfast ha aggiunto che questo è il più grande studio che sia mai stato effettuato con la capacità di aiutare, con la musicoterapia associata a terapie tradizionali, un gruppo di ragazzi vulnerabili.

Ciara Reilly, anch’essa collaboratrice della ricerca ha dichiarato che la musicoterapia è stata spesso utilizzata con i ragazzi con particolari esigenze di salute mentale, ma che solo in questo studio, per la prima volta è stata dimostrata la sua efficacia in aggiunta al trattamento standard.

L’intervento a domicilio nella depressione post partum

Le visite domiciliari sono state strutturate inizialmente per prevenire l’abuso e il neglect infantile ed è stato inoltre valutato come, tramite un intervento a domicilio su un campione di madri con depressione post partum, al diminuire della sintomatologia depressiva fosse presente un miglioramento dell’adattamento del bambino.

 

La depressione post partum

La depressione post partum si presenta con sintomi simili a quelli di un episodio depressivo maggiore, insorge entro 3-6 mesi dopo la nascita e dura nel tempo. La prevalenza è del 10-15% rispetto alla popolazione generale ed il rischio di sviluppare una depressione postnatale è maggiore nelle 5 settimane dopo il parto (Scottish Intercollegiate Guidelines Network, 2002). Tra il 20 e 40% delle donne con episodio di depressione post natale hanno un’alta possibilità di ricaduta in una successiva gravidanza (Beyondblue Clinical Practice Guidelines, DRAFT, 2010).

L’intervento sulla depressione post partum è suddiviso in: prevenzione (intervento psicoeducativo e di sostegno sociale) e trattamento (terapia individuale, terapia di gruppo, terapia psicofarmacologica).
In letteratura inoltre rileviamo la presenza di diversi studi su interventi a domicilio per la depressione post partum. Tali interventi possono essere condotti sia a scopo preventivo (visite domiciliari ad esempio durante il periodo prenatale) sia a scopo terapeutico quando la Depressione Post Partum è già conclamata.

 

L’intervento a domicilio per il trattamento della depressione post partum

Tali tipi di interventi mirano sia al benessere della madre sia a quello del bambino. Le visite domiciliari sono state strutturate inizialmente per prevenire l’abuso e il neglect infantile ed è stato inoltre valutato come, tramite un intervento a domicilio su un campione di madri con depressione post partum, al diminuire della sintomatologia depressiva fosse presente un miglioramento dell’adattamento del bambino (Gelfand et al., 1996). Negli Stati Uniti, dove è nato tale approccio e dove è maggiormente diffuso, ci sono almeno 500.000 coppie madri/bambino inserite nei programmi delle visite a domicilio (Astuto & Allen ,2009).

Le madri tipicamente inserite nei trattamenti a domicilio hanno come caratteristiche i fattori di rischio per la depressione quali l’isolamento sociale, la povertà e una storia traumatica (Ammerman et al, 2010) .

In una review sugli interventi a domicilio per il trattamento e la prevenzione della Depressione Post Partum (Leis et. al 2008) viene riportato come questo tipi di interventi possano avere un potenziale nell’affrontare la depressione post partum in un modo efficace per le seguenti ragioni:

  • I dati presenti in letteratura suggeriscono che l’individuazione e il trattamento della depressione postpartum rimane problematica nonostante le donne in gravidanza possano interagire maggiormente con il sistema sanitario rispetto a una qualunque altro periodo della propria vita ( Kelly et al 2001 ; Lumley et al 2004 ; US Department of Health and Human Services 2001) . Generalmente infatti le madri depresse raramente ricevono un trattamento (Lennon et al 2001). Le visite a domicilio sono potenzialmente un importante setting nel quale le madri depresse possono essere identificate e trattate (Guterman et al. 2001). Il setting a domicilio potrebbe rimuovere un ostacolo nell’ottenere la cura della salute mentale (Ammerman et al 2011).
  • Gli interventi a domicilio appaiono utili per l’alto rischio, per le famiglie a basso reddito che probabilmente hanno una maggiore necessità dei servizi di salute mentale ma che tuttavia devono affrontare numerose barriere per ottenere il trattamento.
  • I programmi home-based sono un luogo naturale per integrare la prevenzione e/o il trattamento della depressione post partum perchè tali programmi, in USA, già trattano un gran numero di donne in gravidanza o che hanno recentemente partorito.

Per quanto concerne l’approccio cognitivo-comportamentale in letteratura sono presenti evidenze sull’efficacia della CBT per il trattamento e la prevenzione della depressione post partum (Sockol, 2015). Appare inoltre come efficace un maggiore sostegno sociale (Milgrom et. al 2013). La CBT appare essere un trattamento maggiormente efficace per la sintomatologia depressiva; inoltre appare importante cercare di adattare il trattamento al contesto e ai bisogni di quel target, in quanto potrebbero essere la causa della patologia e della resistenza al trattamento presso uno studio/ambulatorio.

 

Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale a domicilio

Per tale motivo è stata strutturata, all’interno di programmi già strutturati di home-visit, la In-Home Cognitive Behavior Therapy (IH-CBT) che ha riadattato il protocollo CBT di Beck alla depressione post partum e al setting domiciliare. Tale trattamento risponde alle esigenze delle home visit di fornire un approccio evidence-based e di rispondere alle esigenze specifiche delle nuove madri che sono socialmente isolate e vivono in povertà, e utilizza chi effettua la visita domiciliare per facilitare l’ingaggio e per massimizzare i risultati per mamme e bambini.

I dati in letteratura riferiscono un significativo miglioramento della sintomatologia depressiva, un maggiore sostegno sociale e livelli inferiori di altri sintomi psichiatrici se si confrontano due gruppi composti da madri depresse trattate con IH-CBT vs Home visit. (Ammerman et. al., 2012). Attualmente tuttavia non sono presenti studi in letteratura che confrontino la psicoterapia a domicilio con la psicoterapia in studio rispetto a tale campione.

Il manuale di IH CBT non è stato ancora pubblicato, tuttavia successivamente è stato strutturato un programma “Moving Beyond Depression”, basato su IH-CBT e strutturato dagli stessi autori (Johnson K., Ammerman R.T., Van Ginkel J.B.; 2014). Nello specifico tale trattamento si rivolge maggiormente alle madri più giovani che hanno affrontato per la prima volta la gravidanza.

E’ presente inoltre in letteratura un protocollo specifico CBT (Milgrom et al., 2013) per il trattamento del post partum che può essere sia di gruppo sia individuale in ambulatorio. Inoltre nei casi clinici riportati l’autore riferisce di aver compiuto degli interventi individuali a domicilio per migliorare le abilità di uscire di casa per poi successivamente inserire una paziente nel trattamento di gruppo psicoterapeutico.

 

Conclusioni

In letteratura è riportato come siano presenti delle barriere al trattamento della depressione post partum, uno dei problemi associati al trattamento del post partum è l’inabilità delle donne di recarsi in terapia a causa delle responsabilità legate alla cure infantili (Ugarriza, 2004).

A partire dai dati riportati ci chiediamo quindi se l’intervento domiciliare sulla depressione post partum potrebbe essere utile in alcuni casi specifici. Gli interventi individuali a domicilio potrebbero essere utilizzati con il fine di migliorare le abilità di uscire di casa per poi successivamente poter accedere alla terapia individuale e/o di gruppo maggiormente adatta a quella persona in accordo con un terapeuta esperto.

 

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Drunkoressia: tra binge drinking e restrizioni alimentari

Nel 2008 è stato coniato dai media popolari del “New York Times”, il termine drunkoressia per descrivere con tale termine, la pratica della restrizione delle calorie in modo da poter consumare più alcol e non aumentare di peso (CBS News, 2008; Kershaw, 2008; Smith, 2008; Stoppler, 2008).
Ciò che attrae gli adolescenti e i giovani adulti è la tendenza a continuare a consumare grandi quantità di alcol, pur mantenendo, o forse diminuendo, il peso corporeo.

Maria Carlucci, OPEN SCHOOL SAN BENEDETTO DEL TRONTO

Il binge drinking

L’abuso di alcol e i disturbi alimentari rappresentano due fenomeni popolari in tutto il mondo. Negli ultimi anni, diverse ricerche scientifiche hanno dimostrato un’associazione tra abuso di alcol e abitudini alimentari non salutari, soprattutto tra i giovani. La globalizzazione dei modelli di consumo alcolico ha causato l’ingresso in Italia di abitudini proprie degli Stati Uniti e dell’Europa del Nord, come il binge drinking (Lupi et al. 2013).

Il binge drinking consiste nell’assunzione di 5 o più bevande alcoliche in successione per gli uomini e 4 o più bevande alcoliche in successione per le donne in un’unica o più occasioni nel corso delle ultime 2 settimane. In questa definizione non è importante il tipo di sostanza che viene ingerita né l’eventuale dipendenza alcolica: lo scopo principale di queste “abbuffate alcoliche” è l’ubriacatura immediata nonché la perdita di controllo (Wechsler H & Nelson TF 2001).

Numerosi studi evidenziano che, la popolazione maggiormente suscettibile a comportamenti binge drinking, sono i giovani studenti iscritti al primo anno di college (Larimer & Cronce, 2002).

Secondo diversi autori, tra i fattori che sembrano contribuire all’aumento delle “abbuffate alcoliche” vi sono: le norme sociali dei campus universitari che promuovono l’uso di alcol e il drastico calo della supervisione dei genitori durante il passaggio alla vita del college (Baer, 2002; Baer & Bray, 1999; Baer, Kivlahan, e Marlatt, 1995; Schulenburg & Maggs, 2002; Schulenburg et al, 2001).

Inoltre, secondo la National Eating Disorder Association (2006), circa il 20% degli studenti universitari, sia maschi che femmine, hanno riferito di aver avuto almeno un disturbo del comportamento alimentare (Forman-Hoffman, 2004; Mints & Betz, 1988; Tylka & Subich, 2002.).

Potrebbe quindi esserci una co-occorrenza tra abuso di alcol e disturbi del comportamento alimentare?

 

Binge drinking e disturbi del comportamento alimentare

Da un rapporto del Centro Nazionale sulle Dipendenze e Abuso di Sostanze della Columbia University (CASA) 2001, si è stimato che circa il 30-50% degli individui con bulimia e il 12-18% degli individui con anoressia abusano di alcol o ne sono dipendenti. Peraltro, i risultati hanno indicato una comorbidità netta tra la dipendenza da sostanze e i disturbi del comportamento alimentare a favore del fatto che circa il 35% di persone tossicodipendenti o che fanno abuso di alcol, manifestano un disturbo alimentare (Cooley & Toray, 1996; Krahn, Kurth, Gomberg, & Drewnowski, 2004; Anderson, Simmons, Martens, Ferrier, & Sheehy, 2006; Krahn, Kurth, Demitrack, & Drewnowski, 1992).

Krahn et al. (1992) hanno osservato una relazione positiva tra la gravità dello stare a dieta, la frequenza con cui si consuma alcol ed il binge drinking. Stewart et al. (2000) hanno trovato risultati simili, indicando che i livelli più elevati di restrizione alimentare sono associati ad un aumento di episodi legati al bere eccessivo e alla probabilità di essere classificato come un “bevitore binge”. Gli studi hanno avvalorato un’associazione tra uso di alcol e abitudini alimentari insalubri tra gli studenti universitari (Krahn et al. 2004).

Il digiunare volontariamente, allo scopo di consumare alcol successivamente, risulta nocivo e pericoloso soprattutto per le donne; a differenza dei maschi, queste ultime, generalmente pesano di meno, hanno meno enzimi che metabolizzano l’alcol (alcol deidrogenasi), e in genere hanno meno acqua corporea totale per diluire l’alcol nel sangue. Indipendentemente dal genere, maschio o femmina, bere a stomaco vuoto favorisce all’alcol di entrare nel corpo più velocemente, il che aumenta il livello alcolemico portando un aumentato rischio di disturbi cerebrali (black-out) e conseguenze negative sulla salute e sul comportamento (White, 2004).

 

La drunkoressia

Nel 2008 è stato coniato dai media popolari del “New York Times”, il termine drunkoressia per descrivere con tale termine, la pratica della restrizione delle calorie in modo da poter consumare più alcol e non aumentare di peso (CBS News, 2008; Kershaw, 2008; Smith, 2008; Stoppler, 2008).
Ciò che attrae gli adolescenti e i giovani adulti è la tendenza a continuare a consumare grandi quantità di alcol, pur mantenendo, o forse diminuendo, il peso corporeo.

Anche se non c’è una definizione sistematica e non sia riconosciuto dalla medicina ufficiale, la drunkoressia è comunemente caratterizzata dai seguenti comportamenti: a) saltare i pasti, al fine di “evitare” le calorie o compensare l’aumentato apporto calorico dal consumo di bevande alcoliche, b) eccessivo esercizio fisico al fine di compensare le calorie consumate dal bere, e / o c) bere quantità eccessive di alcol al fine di avere la nausea e vomitare (Chambers 2008). Come risulta dalle caratteristiche comportamentali sopra elencate, il concetto di drunkoressia è quindi composto da tre dimensioni distinte: l’uso o abuso di alcol, disturbi alimentari e attività fisica.

Questa abitudine potrebbe quindi essere influenzata dalla pressione sociale per cui si tende a ricorrere a comportamenti estremi?

Le pressioni sociali rispetto alla perfetta forma fisica e al controllo del peso corporeo o quelle legate al consumo di alcolici, possono esercitare una forte influenza sugli adolescenti e sui giovani adulti; in particolare sulle ragazze, che rischiano così di ricorrere sempre più frequentemente a misure estreme quali drunkoressia ed eccessiva attività sportiva (Mond et al. 2008). Si pratica esercizio fisico allo scopo di modificare il peso, la forma o il tono muscolare e si associano sensi di colpa nel caso in cui l’esercizio viene posticipato o cancellato (Mond et al. 2008). Le donne, spesso, cercano di bruciare drasticamente quantità eccessive di calorie, per ridurre il peso corporeo e la percentuale di grasso (Johnstone and Rickard 2006).

La drunkoressia è ormai approdata anche in Italia, infatti, uno studio italiano del 2014, su un campione di circa 3000 soggetti, dimostra come questo sia un fenomeno comune anche tra i giovani adulti italiani con una prevalenza del 32.2% e riguarda anche la popolazione maschile, non solo quella femminile, come quanto riportato dai media (Lupi et al. 2014).

Allo scopo di fornire benefici per la diagnosi, il trattamento e il recupero, sarebbe auspicabile approfondire maggiormente tale fenomeno e capire quali siano i fattori psicologici che muovono i giovani in questa nuova tendenza. Potrebbe quindi, essere utile individuare i soggetti più a rischio ed attuare adeguati e mirati programmi di educazione e prevenzione.

Drunkoressia: quando si mangia di meno e si beve di più

The Young Pope di Paolo Sorrentino: una lezione di psicologia su abbandono e resilienza

E’ stata sufficiente la prima puntata dell’opera The Young Pope del regista pluripremiato agli Oscar Paolo Sorrentino, per comprendere che eravamo di fronte ad una lezione di psicologia della personalità, dello sviluppo, della famiglia e delle organizzazioni.

Ogni personaggio, ogni ambiente, ogni evento di The Young Pope descrivono l’uomo nella sua complessità, attraversando i temi più attuali dell’esistenza umana, delle relazioni socio-politiche, della famiglia, del confronto tra i popoli, le generazioni e i generi. Le mura del Vaticano rappresentano l’ambiente scelto per descrivere l’Uomo nella sua più profonda ambiguità e  contraddizione, passando dal paradosso e dal grottesco come strumento per narrare le contraddizioni e le ingiustizie. Ambizione, umiltà, lealtà, amore, odio, umanità, santità, ipocrisia e ogni altra sfumatura del comportamento umano prendono vita dalle storie dei diversi protagonisti chiamati ad esprimere le tensioni tra il sacro e il profano, l’umanità e la santità.

Come di fronte ad ogni capolavoro lo sguardo di una persona è solo un punto di vista all’interno di una rete di significati che attraversa i molteplici piani interpretativi presenti nell’opera, come quello della genitorialità e fratellanza sociale, delle diversità tra i popoli, delle diversità tra i generi.

The Young Pope si presenta anche come una sofisticata lezione di sociologia, di politiche organizzative, di filosofia e semantica ponendo al centro la storia di abbandono di Lenny Belardo (Papa Pio XIII) che rappresenta uno dei piani narrativi più interessanti della proposta cinematografica, per noi psicologi.

In The Young Pope è descritto in modo particolareggiato il significato cognitivo ed emotivo dell’abbandono sino alla delineazione della personalità di Pio XIII che si struttura infatti intorno al tema della perdita dei genitori biologici.

 

Il vissuto dell’abbandono in The Young Pope: Lenny Belardo, il Papa orfano

Pio XIII (Jude Law) in ogni occasione si presenta come un orfano: questa esperienza di vita si trasforma in un elemento della sua identità. Il cardinale Andrew Dussolier (Scott Shepherd), fratello nella vita, gli chiede:  “Chi sei tu Lenny”  e Papa Pio XIII  “Sono un orfano come te”. “E quando crescerai?”  e Lenny risponde:  “Mai, un prete non cresce mai perché non può diventare padre, sarà per sempre figlio”.

Il vissuto dell’essere un orfano arriva a ribaltare il principio del prete – padre,  lasciando la vocazione nell’esperienza della filialità, anziché nella paternità o di entrambe: la frase “un prete non cresce mai perché non può diventare padre, sarà per sempre figlio”  infatti è legata alla sovrapposizione del vissuto dell’essere orfano, con quello dell’impossibilità della paternità biologica, senza vedere la paternità sociale della vocazione che permette invece al prete di essere padre e figlio. In realtà è come se dicesse: “chi è orfano non può fare il padre, perché non ha potuto essere figlio”. E’ la filialità che ci permette di vivere la paternità intesa come progetto consapevole di assunzione della responsabilità e della cura nei confronti di un’altra persona, e se un bambino non ha fatto esperienza di una relazione di filialità questo progetto è difficile, quasi impossibile.

Sullo stesso tema Paolo Sorrentino aggiunge il concetto che un bambino abbandonato “non può fare il bambino e non può essere  un bambino”: il dolore dell’abbandono si trasforma nella ricerca di un sé che sfugge in continuazione quando non è possibile  arrivare alle risposte alle domande più profonde della vita come “chi sono io?”, “da dove vengo?”, “Perché mi hanno abbandonato?”

Nella narrazione della personalità di Pio XIII infatti queste domande si presentano come un’ossessione che, in qualche caso, ostacolano la piena realizzazione di sé.  Il peso della sofferenza offusca l’infanzia che non può essere vissuta in modo sereno  perché interrompe i processi di crescita, di maturazione che si compiono all’interno di una “relazione sufficientemente buona”  con genitori biologici o sociali.

Lenny Belardo, il giovane Papa in The Young Pope, vive l’abbandono come un dato reale e attuale: rivive continuamente con flash back improvvisi il momento in cui viene lasciato dai genitori davanti il cancello dell’orfanotrofio, dove i genitori sono ricordati con volti idealizzati che diventano un’ossessione nella vita quotidiana. Odori, sapori, rumori rievocano il passato rendendo visibile la dinamica tra la memoria traumatica e autobiografica. Le percezioni si accavallano nell’esperienza del Papa portandolo a vivere situazioni di estremo dolore visibile nel suo apice nella 7^ puntata, quando Suor Mary,  “madre sostituta” attenta al percorso di crescita del proprio figlio, comprende il travaglio esistenziale del Papa e l’influenza di questo sul Pontificato. Il profilo di Suor Mary (Diane Keaton), del Cardinale Michael Spencer (James Cromwell), e di Andrew Dussolier permettono di aprire la riflessione sul ruolo della genitorialità e fratellanza sociale  con particolare riferimento all’influenza che hanno sui processi di resilienza.

 


VIDEO: The Young Pope (2016) Trailer italiano:

Nei prossimi giorni pubblicheremo la seconda parte di questo articolo.

Chemsex: quando il sesso senza droghe diventa grigio

Chemsex: uomini che fanno uso di specifiche sostanze psicotrope con l’obiettivo di avere esperienze sessuali con altri uomini: da Londra un fenomeno in crescita che colpisce la comunità gay e non solo.

Lorena Lo Bianco

 

Sex & Drugs and Rock & Roll” cantava l’artista londinese, Ian Dury, nel 1977. Quasi quarant’anni dopo, l’assioma che unisce sesso e uso di sostanze stupefacenti è ancora del tutto valido. Sempre dalla scena londinese, polo europeo nel commercio di droghe (come sottolineato anche da Roberto Saviano), proviene quel fenomeno chiamato Chemsex : termine colloquiale, diffuso all’interno della comunità gay, per descrivere l’uso di sostanze psicoattive, in particolare mefedrone, GHB/GBL e metanfetamine, durante i rapporti sessuali. Queste tre sostanze producono un effetto rilassante che in alcuni casi facilita (sia fisicamente che psicologicamente) delle pratiche sessuali, come il sesso anale, ancora oggi appesantite da una forte stigmatizzazione sociale.

 

Chemsex in Italia

Il fenomeno del chemsex sta prendendo piede anche in Italia, come riportato dall’associazione Lgbt Plus di Bologna che, per prima, lo ha inquadrato e ha prodotto una brochure informativa  dedicata ai “consumatori”. La mancanza di dati al riguardo e l’insorgenza dei primi casi di problematiche legate al chemsex (sono già 7 i casi riportati dal Sert negli ultimi 6 mesi ) ha spinto il tossicologo dell’Ausl di Bologna, Salvatore Giancane, a lanciare un’indagine su Facebook, alla voce “Piacere chimico”, per analizzare il mondo dei cosiddetti “chill-out party”.

Per le associazioni come quella bolognese, il focus è incentrato sulla prevenzione e sui rischi derivanti dall’uso di sostanze stupefacenti; riducendo il grado di inibizione di chi ne fa uso, esse aumentano la probabilità di sottovalutare i rischi di alcune pratiche sessuali. Sebbene non sia possibile dimostrare che l’abuso di sostanze chimiche durante i rapporti sessuali causi comportamenti sessualmente rischiosi, risulta evidente una forte associazione fra i due fenomeni, come riportato anche dalla letteratura a riguardo (Fisher et al, 2011; Forrest et al, 2010). E’ altresì’ importante sottolineare come l’assunzione di queste droghe insieme ad altre sostanze chimiche (come certi farmaci per l’HIV) aumenti il rischio di overdose e in certi casi di decesso.

 

Capire il fenomeno chemsex: Perché colpisce maggiormente la comunità gay (o meglio, perché viene associato con il sesso omosessuale)?

Nonostante sia difficile fare una generalizzazione, data l’eterogeneità (per età, ceto sociale, identità e orientamento sessuale) del campione, il chemsex è prettamente legato al sesso fra uomini.

È importante fare una distinzione fra l’uso di droghe in sé, che in seguito porta ad un’attività sessuale, e il chemsex: in quest’ultimo, il desiderio di avere un rapporto sessuale rappresenta la spinta motivazionale che porta all’uso di stupefacenti.

Secondo molti studiosi questo principio è uno dei punti cardine per capire questo comportamento e perché esso coinvolga principalmente il genere maschile.

La maggior parte delle teorie si sofferma soprattutto sulle ripercussioni psicologiche del minority stress  e dell’omofobia interiorizzata (Mayer., 1995), che colpiscono particolarmente uomini gay e bisessuali o uomini che si identificano come eterosessuali ma praticano sesso con altri uomini. In questi casi l’uso di droghe è vissuto come un modo per liberarsi da limitazioni, interne o esterne, e mettere in pratica i propri desideri sessuali. Non raramente, infatti, i frequentatori dei chemsex party sono persone che conducono una doppia vita.

Un altro approccio per capire il  fenomeno potrebbe essere quello socio-relazionale. Secondo il professor Kane Race (University of Sidney), non si tratta di un fenomeno del tutto nuovo, piuttosto una modernizzazione nelle pratiche di socializzazione all’interno della comunità LGBT. Attività che prima si svolgevano in luoghi pubblici come saune e discoteche, sono state gradualmente rilocate all’interno di abitazioni private, e grazie all’uso delle dating app, rese più semplici da organizzare.

In accordo con quanto detto, il vice presidente dell’associazione Plus Onlus, Giulio Maria Corbelli, ci dà una sua lettura del fenomeno:

“È un modo per ritrovarsi. Il chemsex è diverso dal rimorchiare in discoteca – dove pure quelle sostanze sono comuni – perché supera il culto dell’immagine che c’è in discoteca o in altre forme di socializzazione gay. Il chemsex viene letto da alcuni come una reazione al senso di esclusione che è possibile provare nell’ambiente gay, da altri come una moda”.

 

Impatto delle droghe su piacere sessuale e relazioni affettive

Nel Regno Unito, dove ormai il chemsex è un fenomeno culturalmente radicato (non è raro trovare nella descrizione utente su Grindr la dicitura “chems friendly”), i servizi di salute mentale stanno iniziando ad indagare la dipendenza psicologica prodotta da questo comportamento, oltre a quella fisiologica causata dalle sostanze chimiche.

Sebbene inizialmente le droghe vengono viste dai consumatori come un medium per avvicinarsi all’altro e trovare un’immediata intimità, molti di questi riportano una riduzione nell’empatia verso l’altro, privilegiando invece la ricerca di una soddisfazione personale (Bourne et al, 2015). Altri ancora riportano le enormi difficoltà nell’avere rapporti sessuali o relazioni drug-free; come in qualsiasi dipendenza il chemsex può portare ad una assuefazione che produce una costante ricerca di stimoli sempre più forti per poter soddisfare i propri desideri sessuali.

Chi cerca di disintossicarsi da questo tipo di dipendenza molto spesso si ritrova a dover ridefinire il proprio concetto di intimità e la visione del rapporto con l’altro.

Infine, nonostante il fenomeno sia circoscritto agli ambienti gay maschili, alcune review riportano anche all’interno della comunità lesbica un meccanismo simile. Sebbene mefedrone, ghb e metanfetamine non vengano massicciamente usate, fra le donne è più frequente l’associazione tra cannabis e sesso, che comporta minori rischi diretti ma potrebbe ugualmente portare ad un aumento di comportamenti sessualmente a rischio.

Tipicamente la ricerca scientifica che indaga l’utilizzo di stupefacenti all’interno della comunità gay maschile si è focalizzata sul rapporto fra droghe e l’aumento di comportamenti sessualmente rischiosi (Carey et al., 2009). Sono molto pochi invece gli studi che si sono interessati al ruolo che le sostanze psicotrope hanno all’interno della vita sessuale dei consumatori e quali sono i danni che essi potrebbero fronteggiare, al di là della salute sessuale. Per esempio ad oggi non esistono chiari protocolli (se non alcune buone pratiche) a supporto di coloro che sentono il bisogno di “controllare” l’uso di queste sostanze. Speriamo che in un immediato futuro si possa sopperire alla lacuna presente all’interno del panorama clinico e di ricerca.

 

 

Chemsex, supporto e informazione

Per chi volesse approfondire l’argomento, segnaliamo l’evento organizzato dalla Sezione Cultura del CIG – Arcigay Milano in collaborazione con PLUS Onlus (BO):“Chemsex, supporto e informazione – Che cos’è, i dati sull’Italia, dipendenza?” che si svolgerà Martedì 22 Novembre alle 21:00 presso CIG Arcigay Milano – Via Bezzecca 3.

I relatori, Giulio Maria Corbelli  ed Emiliano Costa – operatore della Sezione Salute del CIG, parleranno dei motivi per cui questo fenomeno è così in espansione nella comunità gay, delle sostanze psicoattive usate e dei modi d’uso. Partendo da storie reali si discuterà di come questo fenomeno complesso può influire nella vita personale di un individuo.

 

VIDEO: Chemsex (2015), official trailer


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Intimità

Lucia è stata la prima donna in presenza della quale ho scoreggiato. Non ho mai scoreggiato prima in presenza di una donna. Non ho mai capito come fanno uomini e donne a dormire insieme, a vivere insieme, dal momento che questo implica inevitabilmente fare le scoregge in presenza dell’altro.

Questa è probabilmente una delle ragioni principali per cui, prima di Lucia, non sono mai rimasto legato a una donna per il tempo sufficiente a far accadere una cosa del genere. E anche con Lucia, questo aspetto ha pilotato da un luogo sotterraneo il percorso verso il fisiologico raggiungimento dell’intimità. Prolungandolo, rendendolo tortuoso. È passato più di un anno dall’inizio del nostro rapporto prima che riuscissi a trascorrere un’intera notte con lei. Evitavo accuratamente.

Quando si presentava l’occasione, che ovviamente proveniva da lei, a casa sua, quando i genitori non c’erano, fuggivo verso le tre di notte. Mentre lei dormiva profondamente. Avevo imparato alla perfezione i ritmi del suo sonno. Verso le tre di notte era completamente soggiogata dal sonno. Riusciva al massimo ad emettere un gemito di protesta priva di determinazione quando allentavo il lucchetto dell’abbraccio in cui mi aveva serrato addormentandosi, e scivolavo via. Ma non riusciva a svegliarsi. La scusa, quando ci saremmo sentiti più tardi, era sempre la stessa. Non ce l’avevo fatta a lasciare solo mio padre per tutta la notte. Era troppo forte l’angoscia legata al pensiero che proprio quella notte si sarebbe potuto svegliare stringendo il pugno sul pigiama all’altezza dello sterno (per chi non lo sa, è il gesto tipico di chi ha un infarto), chiamandomi con voce strozzata. All’inizio la intenerivo, poi ha iniziato a far finta di crederci. Fatto sta che almeno per un anno ho procrastinato.

Tutto questo – sempre, prima di Lucia, e almeno per un anno con lei – per evitare il momento più pericoloso. Il risveglio. Insieme. Trascorrere la notte con una donna aumenta esponenzialmente la probabilità di avere un testimone al mattino, quando il mio tubo di scappamento rivendica con più intensità la massima libertà di espressione. E quello è sempre stato un momento molto intimo, di intesa totale con me stesso, di autoassoluzione. Un momento refrattario a qualsiasi forma di inibizione. Al mattino devo scoreggiare biblicamente per venire a patti con la mia fragilità di essere umano cui è capitata la condanna della coscienza e di un tubo digerente. E prima di Lucia non ce l’ho mai fatta a farlo davanti a una donna. Non era pensabile per me. Non riuscivo a immaginarlo. Non che non ci provassi, ad immaginarlo. Mi dicevo:

ok, è già la quarta volta che con, che so, Giovanna, siamo a letto insieme. Già per tre volte sono scappato nel cuore della notte come un ladro. Una volta anche da un albergo con spa in cui lei, per sorprendermi, aveva prenotato caparbiamente quello che gli alberghi con spa chiamano week end romantico, (o peggio fuga romantica), dicendole che mio padre si era sentito male. Ora siamo sotto il piumone (non so perchè, ma in questi esercizi dell’immaginazione è sempre inverno). Magari abbiamo fatto l’amore o ci siamo sbaciucchiati mentre siamo ancora tiepidi di sonno. Poi rimaniamo abbracciati. Sento per la prima volta l’odore che lei ha al mattino. Una miscela di tracce sbiadite: cosmetici, il suo sesso asciugato e rappreso qua e là sul mio corpo, l’eco dell’odore che doveva avere da bambina appena sveglia. E io che faccio? Mi lascio scappare una puzza? E che faccio mentre mi scappa e subito dopo? Guardo da un’altra parte facendo finta di niente, come se ci fosse arrivato un rumore strano dai vicini? Oppure ridacchio come un bambino che ha fatto una marachella? E che faccio con il tanfo (che qualche volta ha stupito pure me). Lascio che ci raggiunga filtrando dagli interstizi tra il piumone e i nostri corpi? Oppure sollevo un lembo del piumone dal lato opposto a lei nella speranza infantile che il gas abbia lo stesso comportamento dell’acqua sotto pressione, defluendo dalla prima apertura che le si offre. E se lei – mentre veniamo inghiottiti dalla miscela di azoto, ossigeno (da non credersi, ma nelle scoregge c’è ossigeno), metano, biossido di carbonio e solfuro di idrogeno – fa la cosa più umiliante di tutte: finta di niente? Magari peggio: finta di niente mentre una smorfia appena percepibile le contrae le narici e le sopracciglia. A quel punto verrebbe giù la maschera, senza possibilità di appello.

Perchè per me era impensabile, fino a Lucia, scoreggiare davanti a una donna che hai sedotto come seducevo io. Dopo aver sedotto col modus operandi di uno psicopatico ad altissimo funzionamento cognitivo. Va spiegato, questo modus operandi, così verrà da sè il senso della sua incompatibilità con qualsiasi atto che rimandi all’esistenza di funzioni escretrici dell’organismo. Il primo incontro, magari a cena di amici, a una festa. Conoscevo una donna, ci conversavo per tutta la serata, l’attenzione totalmente paralizzata su di lei, come se gli altri presenti fossero solo suppellettili di scena. Più che parlare, ascoltavo, intervenendo solo poche volte, ma con la scelta di tempo giusta per alimentare il ritmo dei pensieri di lei, che probabilmente si sentiva veramente ascoltata forse per la prima volta in vita sua. Mettevo in scena il pressocchè totale autoannullamento al servizio dell’altro. Non ascoltavo semplicemente con la massima attenzione. Diventavo attenzione. E mi identificavo totalmente con l’altro. Poi, all’improvviso, facevo detonare frasi che riproponevano il contenuto di quanto lei mi aveva detto in una veste nuova, che la lasciava attonita. Di quelle frasi che iniziano con apparente umiltà, “quindi mi stai dicendo che…”, e poi scavano un solco nella coscienza dell’altro. Insomma, ero dotato di una forma di empatia pericolosissima. Quella che serve a ottenere qualcosa. Quell’empatia che non è guidata dal fine di prestare aiuto emotivo, trasmettere vicinanza, quanto da quello di vedersi firmare dall’altra un’ipoteca sulla sua futura perdita di coordinate interne. Il rapido determinarsi nella sua mente dell’impossibilità di non pensare a me.

Se l’altra si mostrava disponibile a darmi tutto la sera stessa, io declinavo. Ma non, banalmente, per rendermi più desiderabile. Semmai il contrario: trovavo banale avere un rapporto sessuale la sera del primo incontro. Al punto che in quel primo incontro non trovavo dentro me alcuna traccia di desiderio sessuale. Piuttosto, mi facevo dare il suo numero. Così, dopo l’intera serata trascorsa a parlare, dopo aver praticamente stordito l’altra toccandola nella sua zona più vulnerabile, quella che non risparmia nessuno – il bisogno di essere finalmente, totalmente vista – poche ore dopo averla salutata con un’espressione grata, comunicandole senza parole che per me tutto quello che di meglio può accadere tra un uomo e una donna era appena accaduto, le inviavo un sms (odio whatsupp, non sono nemmeno sicuro che si scriva con due p finali!).

Ero un maestro della comunicazione via sms. Ci sono persone che si fanno odiare via sms a causa della loro stringatezza, che li fa sembrare sempre irritati. Altre che non ne distinguono l’uso rispetto alla comunicazione orale, e risultano prolissi con entrambi i mezzi, solo che via sms quella prolissità, quella pretesa di dire tutto, ma proprio tutto, come se per l’altro fosse indispensabile saperlo, diventa grottesca. Io riuscivo via sms ad essere sintetico, essenziale, letale. Non dovevo pensare molto a cosa scrivere. Veniva fuori da sé, come prodotto di una formula matematica a due variabili: totale, crudele sintonizzazione con l’altro, e ritmo del linguaggio. Riuscivo a scrivere sempre la cosa giusta. Ciò che lei aveva bisogno che scrivessi nel momento in cui lei aveva bisogno che lo scrivessi. Dopo la prima sera, una settimana di scambi di sms. Senza chiederle di rivederla. A quel punto avevo creato nella sua mente la giusta combinazione di ossessività e paura. Io oggetto di entrambe.

Una volta, dopo una settimana di scambi del genere, inviai a una donna un sms: nome e l’indirizzo di un hotel a cinque stelle sulla costa, un giorno, un’ora. Al suo arrivo lei aveva trovato la porta della stanza socchiusa. Io mi ero nascosto. Era entrata. Con un telecomando avevo fatto partire l’impianto stereo a tutto volume. Whole lotta love dei Led Zeppelin. Ero uscito all’improvviso e l’avevo presa da dietro, premendola davanti allo specchio, costringendola a guardarsi. Aveva tremato a lungo dopo aver goduto. Avevo pagato il conto in anticipo. Me ne ero andato alle quattro del mattino. Come dicevo, il mattino dopo un numero come quello di Whole lotta love non si può scoreggiare. A stento si può tollerare l’avere organi interni. L’essere reale, e non solo un’idea nella mente di una donna.

Con Lucia, invece.

 

La prima notte che passammo insieme non fu certo per mia decisione. Come ho detto, stavamo insieme da poco più di un anno. Aveva organizzato una cenetta a casa sua. I suoi non c’erano. Aveva pensato a tutto. Anche al mio vino preferito. O meglio, quella sera aveva pensato anche ad insegnarmi quale fosse il mio vino preferito, visto che fino a quella sera non avevo un vino preferito. Fatto sta che bevvi troppo. Andammo a letto. Facemmo l’amore lentamente, poi fortissimo. Durante l’amplesso ci insultammo, ci picchiammo piano, ci fissammo continuamente, in preda allo stupore, urlandoci a vicenda con lo sguardo che eravamo fottuti ora che la nostra vita era totalmente nelle mani dell’altro. Che il sesso era l’unico mezzo a nostra disposizione ma, anche se così intenso, era inadeguato, insufficiente a farci entrare a vicenda l’uno nel corpo dell’altro in modo anche lontanamente simile a come si confondevano l’una nell’altra quello che per brevità chiamerò le nostre anime.

E poi ci addormentammo, esausti.

Il mattino seguente mi svegliai di soprassalto. L’imbarazzo iniziato subito prima di aprire gli occhi. Lei era vicino a me. Mi guardava, calma.

«Buongiorno.»

«Ciao», risposi, mandando una sonda nel mio intestino per monitorare il livello di pressione. Sapevo che da un momento all’altro avrei avuto bisogno di sganciarne una, e aspettavo il momento giusto per alzarmi e guadagnare il bagno.

«Dormito bene, tesoro?»

«Sì», risposi, stiracchiandomi.

Rimanemmo stretti. In silenzio. La sua testa sul mio petto e la sua mano lunga, affusolata sul mio sterno. Non so esattamente per quanto. In quella sospensione temporale e spaziale che avevo imparato con lei.

Dopo un po’ sentii aumentare la pressione, il gas farsi strada verso il basso. Trattenni. Stavo per scappare in bagno quando accadde l’unica cosa che non mi sarei mai aspettato. Un rumore stridulo, breve. Un peto delicatissimo, seguito da una risatina soffocata, la testa nascosta sotto il mio braccio per un imbarazzo provato solo a metà.

«Falla anche tu, dai! Per solidarietà». E rise di nuovo.

Insomma, me lo dico spesso: forse sto ancora con Lucia perchè quella mattina, abbarbicata a me, dopo aver dormito insieme, praticamente mi chiese di diventare il suo compagno di scoregge.

 

Mal di empatia: le patologie del non sentire e del sentire troppo

L’importanza dell’ empatia per la salute psichica è stata confermata. Ciononostante, si tratta di un fenomeno complesso, anche per quanto riguarda le sue implicazioni per la psicopatologia. Nuove linee di ricerca approfondiscono il ruolo differenziale delle diverse sottocomponenti empatiche nel generare sofferenza psichica, come anche ipotizzano quadri clinici originanti da un “eccesso” di empatia.

Lo psicologo Bateson, di fronte al dilemma se “siamo altruisti per natura o no” rispose a favore di un other-oriented empathic concern, che contrappose alla dottrina dell’edonismo psicologico. Se distinguiamo due forme di tale edonismo, osserva Bateson, una più forte secondo la quale lo scopo dell’uomo è il proprio piacere personale, e una più debole secondo la quale il piacere è una conseguenza secondaria al raggiungimento di ogni scopo ma non lo scopo stesso, e se accettiamo di queste la seconda forma, allora è lasciato libero lo spazio per poter immaginare un altro scopo, un’ “emozione orientata all’altro e avente come scopo il suo benessere”, e questo implicherebbe una revisione consistente delle nostre assunzioni circa la natura umana, e soprattutto il potenziale umano (Bateson et al., 2009). Alla luce di tale revisione, anche le psicopatologie acquisiscono nuovi particolari tratti, riflettendo le diverse deviazioni che un’esperienza di empatia così connotata può subire.

Verso un mondo fatto di relazione

L’esplosione dell’interesse per l’ empatia, la “capacità di inferire lo stato affettivo di un’altra persona generando uno stato affettivo isomorfico nel sé, con la contemporanea consapevolezza che la causa di tale stato affettivo è l’altro” (Singer et al., 2004), approda in psicoanalisi a partire dagli anni ‘50, quando, grazie alla svolta relazionale impressa da modelli quali le relazioni oggettuali di M. Klein, la teoria del campo di K. Lewin o gli studi sull’interpersonalità di H. Sullivan, il costrutto di einfühlung (“immedesimazione”), originariamente introdotto da Freud, si arricchisce degli apporti di sempre nuovi nuclei teorici; è fondamentale a tal proposito il contributo della disciplina allora emergente dell’infant-research, che descrisse il fenomeno della sintonizzazione degli affetti come presente fin dalla vita intra-uterina del bambino (Castiello et al., 2010).

La scoperta dei neuroni specchio, coloro che si attivarono provvidenzialmente nella scimmia del neuro-scienziato Giacomo Rizzolatti mentre quest’ultimo mangiava il gelato nel 1996, e che gli fecero capire che la corteccia premotoria f5 comune a tutti i primati scarica sia quando il soggetto compie un’azione, sia quando la vede compiere, dopotutto non fece che suggellare quella che per gli psicoanalisti “illuminati” ormai era una certezza: l’individuo intrapsichico non esiste, come non esiste nemmeno una “mente isolata” ( Storolow & Atwood, 2013) aprioristica rispetto all’Altro. Il mondo è, in senso quantistico, relazione.

Lo studio dell’ empatia rappresenta al giorno d’oggi uno degli scenari più affascinanti ed allo stesso tempo controversi del panorama scientifico. Studi dimostrano come una buona funzione empatica sia fondamentale per godere di una vita sociale soddisfacente, come anche per la strutturazione stessa della nostra identità (Gallese, 2005). Il DSM-5 esplicita il requisito di una funzionalità sociale positiva tra quelli necessari alla definizione di un’adeguata salute psichica; rispetto alla salienza per la strutturazione identitaria, la capacità di “appropriarsi” dell’azione altrui tramite imitazione implicita è risultata cruciale nei processi di apprendimento, al punto da porsi come pilastro di nuove teorie dell’apprendimento cosiddette simulazioniste, secondo lo slogan “imito ergo sum” coniato da Vittorio Gallese, il “padrino” del mirror network.

L’ empatia è un costrutto complesso dai confini flessibili, alla cui definizione, nonché suddivisione in sottocomponenti specifiche, lavorano autori eminenti. All’attuale stato dell’arte, una delle categorizzazioni più condivise è quella di Decety (2011), che propone una chiave interpretativa filogenetica ed ontogenetica per differenziare gli strumenti relazionali a nostra disposizione in affective arousal, implicante una rapida ed automatica valutazione dello stimolo, empathic concern, o emozionalità rivolta all’altro, evolutasi da legami primari di attaccamento sociale e dalle cure parentali, e infine empathic understanding, cioè la consapevolezza riflessiva delle intenzioni e degli stati mentali altrui.

Tale suddivisione rifletterebbe una segregazione importante a livello neuronale (Shamay-Tsoory et al., 2009): mentre i primi due sottosistemi empatici sono implementati in circuiti cerebrali filogeneticamente precedenti, quali il sistema nervoso rettiliano e il sistema limbico, ritrovabili anche in specie non-umane, l’ empatia “cognitiva”, chiamata anche “Teoria della Mente”, riposa su circuiti neuronali di fatto umano-specifici e per lo più dichiarativo-espliciti quali le aree esecutive frontali. Molta parte della ricerca in passato si era focalizzata sulla teoria della mente, solo recentemente si è riacceso l’interesse per la componente emotiva dell’ empatia e per le conseguenze importanti che la parziale indipendenza dei due sistemi implicherebbe sul piano psicopatologico. La validazione empirica dei correlati biologici dell’ empatia rimane uno degli obiettivi più ambiziosi della ricerca.

Empatia e patologie: i casi di chi non sente l’altro

Se assumiamo che la salute psichica prescinde da una relazionalità positiva, assumiamo con ciò che la psicopatologia diventa tout court psicopatologia relazionale. Come spiega Simon Baron-Cohen, la “curva empatica” descrive fluttuazioni, di tipo contingente ma anche di tipo intra-soggettivamente stabile, per ognuno di noi. Nel suo testo “La scienza del male” (2012), egli colloca l’ empatia su livelli, ognuno di essi implicando a livello fenomenico una diversa attitudine relazionale. Dal livello 0 che corrisponde pressappoco alla psicopatologia di tipo psicopatico-antisociale, incapace di rimorso, gratitudine e genuino orientamento all’altro, la psicopatologia tradizionalmente associata al comportamento criminale, passiamo attraverso diversi gradi di empatia fino ad arrivare al livello 6 che configurerebbe uno sbilanciamento verso l’altro sopra la media, utilizzato dalle persone così caratterizzate “quasi per uscire da sé ed essere di conforto”.

Le cose potrebbero essere in realtà un po’ più complesse di così. In primo luogo, perché l’ empatia come trattata da Baron-Cohen non fa distinzioni tra componente affettiva e cognitiva, al contrario spesso aderisce alla nozione di teoria della mente. Se seguiamo invece il modello della segregazione parziale dei due sottosistemi empatici, vediamo che le diverse psicopatologie riflettono tale ripartizione. Cruciali sono gli studi recenti sulla doppia dissociazione di psicopatia e psicopatologia borderline di personalità (tra gli altri: Ritter et al., 2011): secondo tale filone di ricerca, nella psicopatia si riscontrerebbe una totale incapacità a livello affettivo di sentire l’altro, confermata a livello neurofisiologico da studi che riportano una ridotta attivazione dei marker somatici, quali la conduttanza cutanea, di fronte a stimoli emotivamente carichi (Blair, 2013), a fronte di una non-compromissione della teoria della mente; a dire che tali individui comprendono bene le intenzioni e lo stato mentale dell’altro, ma non essendo provvisti di un affetto etero-orientato utilizzano tali informazioni contro l’altro per il proprio personale tornaconto. Nella patologia borderline, al contrario, si configurerebbe una sensibilità alla risonanza empatica molto alta, non compensata da un’altrettanta capacità di contenere tale risonanza con adeguate operazioni di comprensione cognitiva: l’individuo borderline “sente” tutto ma non comprende cosa avviene nella mente dell’altro, in tal modo non “contiene” l’affetto e ne viene travolto, con le note conseguenze di assenza subita di confini e fragilità manifesta a livello relazionale.

Una seconda linea di studio non approfondita dalla trattazione di Baron-Cohen riguarda invece i livelli “alti” di empatia, tradizionalmente associati a fenotipi relazionali positivi, a persone dalle spiccate doti altruistiche, i cosiddetti buoni samaritani o animati da un instancabile istinto sociale. Alcuni studi suggeriscono però che “sentire troppo” non vuol dire necessariamente “sentire meglio”.

Empatia e patologie: il caso di chi sente troppo l’altro

Lo psicoterapeuta e pediatra Donald Winnicott si dedicò allo studio della relazione madre-bambino, e descrisse il fenomeno secondo il quale la madre durante i primi mesi di vita del bambino presenta una sensibilità empatica sopra la media ad avvertire i bisogni del bambino, una sorta di iper-vigilanza senza sosta su di esso e di iper-eccitazione agli stimoli da esso provenienti, per poter apprendere a leggere i suoi bisogni e poter modellare il proprio ritmo psicobiologico sul suo: questa condizione viene battezzata da Winnicott come “preoccupazione materna primaria” (Winnicott, 1965), concetto utile a chiarire come avvenga l’iniziale imprinting madre bambino, e viene paragonata dall’autore a una “malattia transitoria”.

Il termine, di per sé forte, di “malattia” è inteso nel senso di una condizione che, per quanto adattiva ed indispensabile per gettare le basi della sintonizzazione madre-bambino, risulta estremamente costosa per la madre, e che perciò deve rimanere nei margini della transitorietà, pena il rischio di implicazioni negative nel prosieguo della relazione. Una madre troppo centrata sui propri bisogni sarà incapace di sbilanciarsi adeguatamente verso quelli del bambino, determinando un mancato raggiungimento di sintonia nella diade; una madre che però si sbilancia in modo eccessivo verso il bambino, o che mantiene in modo prolungato la “preoccupazione primaria” senza riuscire a ripristinare lo stato omeostatico di attivazione una volta finito il periodo critico, secondo schemi francamente ansiosi, mina anch’essa il successo della sintonizzazione con il bambino, in quanto spende troppe energie a cercare di leggere l’altro, –che di fatto in quanto “altro” oppone una quota irriducibile di “alterità”– a discapito della propria auto-regolazione. In tal modo, la madre ansiosa troppo attenta ai bisogni del figlio rischia di contribuire ad una relazione etero-sbilanciata, poco naturale, poco nutriente, presumibilmente simbiotica se la risposta pronta ad ogni bisogno del bambino determina in esso un’incapacità ad imparare a rispondere da solo: secondo Winnicott, tali relazioni sarebbero l’humus ideale per il configurarsi di quadri psicotici di non differenziazione nel bambino, con gravissime conseguenze nella crescita.

Una innovativa ipotesi di ricerca, per ora poco esplorata dalla letteratura, suggerisce che alterazioni dell’ empatia oltre il “livello 6”, per dirla con Baron-Cohen, possono risultare problematiche: anche “sentire troppo” è un deficit. Questa ipotesi troverebbe le prime conferme in ambito neuro-scientifico: ad esempio, uno studio recente sull’autismo (Spengler et al., 2010) smentirebbe le teorie attuali che vedono nell’autismo un sistema mirror deficitario, dimostrando al contrario un’attivazione eccessiva non inibita di esso nei soggetti con tale patologia: la persona con autismo non sarebbe, come molti pensano, incapace di sentire l’altro, bensì sarebbe “incapace di non sentirlo”, di silenziare il suo sistema-specchio, trovandosi continuamente eccitato dagli stimoli da esso provenienti e nella necessità di proteggersi da tale bombardamento con manovre costosissime e poco adattive di etero-regolazione e abbassamento della tensione.

Anche le stereotipie tipiche del disturbo andrebbero a conferma dell’ipotesi: ecolalie e ecoprassie, caratterizzate dalla ripetizione incontrollata di parole e gesti altrui, sarebbero nient’altro che il risultato di un uso smodato della tecnica di apprendimento “simulazionista” di cui parla Gallese, testimoniando perciò anch’esse un sistema mirror iperattivo. Vanno in questa direzione anche gli studi che indagano la presenza di un’ empatia superiore alla media nei disturbi d’ansia (tra gli altri: Varlet et al., 2014), nei quali si assisterebbe ad un’adesione all’altro “a bassa soglia” nel senso di una eccessiva sensibilità non contenuta da adeguate misure di inibizione del rispecchiamento. Inoltre, un’autrice che si occupa di disturbi alimentari porta l’esempio dell’ “altruismo patologico” in queste patologie, nelle quali cioè l’annullarsi per l’altro –che nel caso dell’accezione psicoanalitica è in prima istanza la madre– porta la paziente a sopprimere i propri bisogni, fino a vietarsi il cibo (Oakley et al., 2011).

Alla luce di tali recenti spunti d’indagine, ricerche future avrebbero il compito di approfondire i rispettivi ruoli giocati dai diversi processi, ma anche dai diversi “livelli” di empatia nel determinare esiti sociali disfunzionali, sia nel senso del “difetto” di chi fallisce la relazione perché non sente sufficientemente l’altro, sia nel senso opposto di un “eccesso” di esposizione a ricevere l’emozionalità altrui, una condizione sicuramente meno deplorevole sul piano morale ma forse altrettanto prognostica di sofferenza su quello interpersonale.

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