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De Chirico: le fasi pittoriche e l’influenza dell’aura emicranica

Le scelte estetiche di De Chirico, durante l’intero arco dell’attività artistica, non furono libere, ma determinate da una malattia che il pittore non sapeva di avere; in altre parole il fattore estetico dechirichiano va analizzato tenendo conto di una base neurologica: l’artista, infatti, soffriva di aura emicranica, una malattia che non gli fu mai diagnosticata. L’aura emicranica si manifesta con algie gastriche e dolori addominali, visioni ed allucinazioni.

 

Giorgio De Chirico: la biografia e le fasi pittoriche

Giorgio De Chirico (1888-1978), uno dei principali esponenti della corrente artistica della pittura metafisica, era un uomo dal carattere difficile: era sovente malinconico e scontroso, inoltre era oltremodo egocentrico e talmente vanitoso da considerarsi il più grande pittore di tutti i tempi e firmare molte delle sue opere come “Pictor Optimus”.

L’opera pittorica di De Chirico si svolge nell’arco di circa settant’anni, a partire dal 1909 e fino quasi alla sua morte ed attraversa diverse fasi, che vengono scandite da alcuni eventi della vita del pittore: dalla relazione con la madre e il fratello Savinio, dall’incontro con le opere di Nietzsche e Schopenhauer, dalle relazioni sentimentali con Raissa ed Isabella.

Il ciclo pittorico della Metafisica (1909-1918) è ritenuto universalmente quello migliore quanto ad espressione artistica e può considerarsi il prodotto finale dell’ elaborazione del lutto paterno, della collaborazione invidiosa con il fratello Alberto e della lettura di Nietzsche.

La seconda fase pittorica di De Chirico – definita “neoclassica”- ha inizio intorno al 1920: appartengono a questo periodo, per esempio, il “ciclo dei Gladiatori” (1926-1929), che è la manifestazione artistica della conflittualità con il fratello Savinio, anch’egli pittore e i “Mobili nella Valle”(1926-1929), che richiamano gli stressanti spostamenti di residenza decisi dalla madre per inseguire il successo musicale del figlio Alberto.

Giorgio De Chirico era ossessionato dai traslochi, dal continuo spostarsi e quindi dalla mancanza di una casa come punto di riferimento solido e sicuro ed era ossessionato anche dal ricordo infantile di mobili e materassi portati all’esterno delle abitazioni, nella piazza, a causa di una serie di terremoti che sconvolsero la Grecia, mentre Giorgio viveva, da bambino, in quella terra con la famiglia.

Ecco come lui stesso ricorda quegli episodi: [blockquote style=”1″]Gli abitanti del quartiere, compresi noi, portavano i materassi fuori, in piazza, per dormire all’aperto. Anche in quell’occasione il cuoco Nicola si prodigò in mille modi; portava fuori materassi, valigie e perfino alcuni mobili e la mattina riportava tutto in casa; inoltre si occupava di me e di mio fratello come una vera bambinaia[/blockquote] (Memorie della mia vita, 1945).

La terza fase pittorica di De Chirico, infine, (il cosiddetto periodo neometafisico) ha inizio nel secondo dopoguerra e durerà fin quasi alla morte dell’artista ed è un vero e proprio ritorno alla tradizione. In questo periodo, infatti, il pittore si rende conto che la critica ed il pubblico apprezzano maggiormente le sue opere iniziali e che sono proprio queste ad essere maggiormente valutate da un punto di vista economico. In questo periodo De Chirico, oltre a riprodurre moltissime versioni delle primissime opere, comincia a falsificare la data di produzione degli ultimi dipinti: retrodata, cioè, l’opera con la speranza che ottenga una maggiore valutazione economica, ma anche per prendersi gioco di quei critici d’arte che, a suo avviso, non erano in grado di apprezzare i suoi ultimi lavori.

 

L’influenza dell’aura emicranica sulle scelte estetiche di De Chirico

Le scelte estetiche di De Chirico, durante l’intero arco dell’attività artistica, non furono libere, ma determinate da una malattia che il pittore non sapeva di avere; in altre parole il fattore estetico dechirichiano va analizzato tenendo conto di una base neurologica: l’artista, infatti, soffriva di aura emicranica, una malattia che non gli fu mai diagnosticata. L’aura emicranica si manifesta con algie gastriche e dolori addominali, visioni ed allucinazioni.

Quella di cui soffriva De Chirico era un’emicrania aura particolare, che prende il nome di “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie”, un disturbo neurologico che interessa la sfera percettiva, portando l’individuo a percepire in modo irreale le dimensioni di alcune parti del suo corpo e degli oggetti esterni: proprio come Alice nel romanzo di Lewis Carroll, ci si ritrova di fronte a stati di accrescimento o di riduzione del proprio corpo o di ciò che ci circonda, sicchè chi soffre di questo disturbo subisce una forte distorsione della realtà, con conseguente disorientamento e deformazione dei sensi. Così come fu descritta da Todd nel 1955, la AIWS (Alice in Wonderland Syndrome) denota una serie di disturbi parossistici dello schema corporeo (sintomi essenziali dell’AIWS), che possono essere correlati a fenomeni di depersonalizzazione, illusioni visive ed alterazioni nella percezione del tempo (sintomi accessori dell’AIWS).

Giorgio De Chrico non sapeva di essere affetto dalla “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie”, anche se, in “Memorie della mia vita, scrive di essere affetto da dolori addominali e crisi gastrointestinali e parla di “coliche saturnine”, facendo riferimento alla teoria rinascimentale secondo cui i geni nascono sotto il segno di Saturno. Inoltre, in un breve scritto dedicato a Carlo Carrà, De Chirico racconta l’esperienza della cefalea attraverso un “sogno lucido”: “Dormo. Porto l’elmo del palombaro. Il pulsare del mio cervello si spacca in tante bollicine sulla piattaforma laccata del mio settimo soffitto”.

I sintomi che influenzarono profondamente (anche se inconsapevolmente) l’arte di De Chirico furono le aure visive ed i disturbi di coscienza determinati da “deja vu” (già visto), “deja vecu” (già vissuto) e “jamais vu” (mai visto), ovvero un’alterazione dello stato di coscienza che conduce ad un’erronea percezione della realtà, come se l’individuo avesse già visto o vissuto una situazione per lui nuova o, viceversa, mai visto una situazione a lui nota. De Chirico, pur non conoscendo il significato clinico di tali fenomeni, percepì comunque la loro importanza nella genesi della propria arte e definì “rivelazioni” le alterazioni di coscienza e “febbri spirituali” le manifestazioni auratiche. L’artista, non essendo a conoscenza della propria malattia e non essendo neppure uomo di fede, attribuì a tali manifestazioni un carattere gioioso, creativo e raro e considerò i sintomi della malattia come sogni premonitori, attribuendosi delle facoltà superiori di chiaroveggenza, ciò anche in relazione all’influenza esercitata su di lui da Nietzsche e dall’idea di Übermensch, ovvero l’Oltreuomo (o Superuomo, in una traduzione più diffusa ma forse meno precisa ed efficace).

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio: strategie di intervento

Il disturbo oppositivo provocatorio (DOP) è un disturbo del comportamento che si manifesta in bambini di età scolare o prescolare ed è caratterizzato da umore collerico e irritabile e da comportamenti vendicativi e oppositivi,  che si verificano in modo frequente per un periodo di almeno sei mesi.

Alessandra Ascenzi , Francesca Damen – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Che cos’è il Disturbo oppositivo provocatorio

I criteri diagnostici specificano inoltre che la sintomatologia deve manifestarsi tutti i giorni per almeno sei mesi per bambini al di sotto dei 5 anni e almeno una vota a settimana nei casi di esordio oltre i 5 anni (APA, 2014).

Il bambino affetto da disturbo oppositivo provocatorio litiga spesso con adulti e coetanei, si rifiuta di rispettare le richieste e le regole, spesso ride se sgridato, irrita deliberatamente gli altri e li accusa dei proprio errori. Questa modalità di comportamento compromette significativamente il funzionamento sia a casa che a scuola, interferendo negativamente nel rapporto con insegnanti e genitori, nonché nella relazione con i coetanei. A seconda della gravità questo disturbo può colpire uno solo o tutti gli ambiti indicati (APA, 2014).

Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare l’eziologia del disturbo oppositivo provocatorio; alcune di esse fanno rifermenti a fattori di rischio di tipo temperamentale, come un’elevata reattività emozionale, una scarsa tolleranza alla frustrazione o tratti di iperattività (Bates, Bayles, Bennett, Ridge, & Brown, 1991).

Altre ipotesi attribuiscono invece una rilevanza maggiore ad aspetti di natura ambientale, quali pratiche educative troppo rigide e incoerenti (Bearss& Eyberg & Hoza, 2002), una instabilità familiare o l’esposizione a cambiamenti particolarmente stressanti (Cambpbell, 1998) nonché trascuratezza o abusi.

In particolare, si ritiene che un’educazione troppo rigida possa instaurare un circolo vizioso in cui viene posta maggiore attenzione agli aspetti comportamentali problematici del bambino. In questo modo il bambino stesso fa sua l’immagine del bambino “cattivo” e ciò lo porta, per effetto paradosso, a reiterare maggiormente i comportamenti indesiderati. D’altro canto il mancato rinforzo di azioni positive rischia di farle passare in secondo piano così che il bambino si senta meno incoraggiato a metterle in atto (Farrugia et al, 2008).

Inoltre, se all’interno della famiglia sono presenti dinamiche aggressive come violenti litigi o addirittura percosse, è possibile che il bambino assuma il modello appreso dalle figure di riferimento e lo riproponga anche in altri contesti come quello dei pari.

Il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente si presenta in comorbidità con altre psicopatologie dell’età evolutiva. E’ stato evidenziato, in particolare come si manifesti spesso in associazione al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Loeber & Keenan, 1994).

Rispetto alla prognosi, se sviluppato durante l’infanzia il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente esita in un disturbo della condotta, sopratutto se i sintomi predominanti sono quelli relativi alla provocatorietà e la vendicatività. Tuttavia non tutti i bambini con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio sviluppano successivamente un disturbo della condotta (APA,2014).

Per i soggetti caratterizza da una predominanza dei sintomi legati alla collera e all’irritabilità è maggiormente probabile l’emergere di un disturbo emotivo.

In generale i bambini con disturbo oppositivo provocatorio sono maggiormente esposti al rischio da adulti di sviluppare di problemi nel controllo degli impulsi, abuso di sostanze, ansia e depressione (Hanish, Tolan,& Guerra 1996). Tale rischio rende fondamentale intervenire, a seguito della diagnosi, con un trattamento precoce e specifico.

 

Trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Si riportano diverse tipologie di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che coinvolgono sia il bambino che la coppia genitoriale. Generalmente si predilige la combinazione di interventi che in letteratura hanno mostrato maggiore efficacia, ovvero quelli focalizzati sul fornire strategie educative più adeguate ai genitori, sul potenziare le competenze relazionali del bambino, le sue capacità di problem solving e di gestione della rabbia.

Inoltre nei casi di maggior compromissione può essere valutato il ricorso anche a una terapia farmacologica.

Frequentemente la tipologia di trattamento si differenzia sulla base della fascia di età dei soggetti coinvolti. Per i bambini in età prescolare l’intervento spesso si concentra solo su una psico-educazione rivolta ai genitori; per l’età scolare invece risulta maggiormente efficace un lavoro che coinvolga la scuola oltre che un intervento di psico-educazione genitoriale ed una terapia individuale con il bambino. Infine per gli adolescenti la modalità più efficace di trattamento risulta quella della terapia individuale associata ad un parent training (AACAP, 2009).

In tutte  le fascia di età, l’intervento individuale basato sul potenziamento delle competenze di problem solving si è dimostrato ampiamente efficace nel migliorare il comportamento di bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio (AACAP, 2009).

 

Parent-management training

L’intervento rivolto ai genitori produce risultati significativi nella riduzione dei comportamenti sintomatologici del disturbo oppositivo provocatorio in tutti i gruppi d’età. Il parent-management training insegna ai genitori in modo pratico a fronteggiare i comportamenti del proprio figlio in modo positivo e prevede tecniche disciplinari e una supervisione adatta all’età del bambino. Questa modalità di trattamento di fonda sui seguenti principi (ACCAP, 2009):

  • Incrementare positivamente il parenting attraverso una supervisione supportiva e coerente;
  • Favorire l’instaurarsi di una disciplina autorevole;
  • Diminuire le pratiche parentali inefficaci, come l’uso di punizioni dure o che si focalizzano sui comportamenti negativi;
  • Favorire la capacità di attuare punizioni adeguate dei comportamenti oppositivi/distruttivi;

Il Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA) del US Health and Human Services (US-HHS) ha segnalato come efficaci diverse tipologie di parent training:

  • Incredible years (per bambini fino agli 8 anni)
  • Triple P Positive Parent Trainig (per ragazzi fino ai 13 anni)
  • Parent-Child Interaction Therapy (PCIT) (per bambini fino agli 8 anni)
  • Center for Collaborative Problem Solving (per ragazzi fino ai 18 anni)
  • The Adolescent Transitions Program (ATP) (per ragazzi dagli 11 ai 13 anni)

Tra questi, la parent child interaction therapy (PCIT) presenta una caratteristica particolare in quanto, a differenza di altri percorsi di psicoeducazione, prevede il coinvolgimento non solo della coppia genitoriale ma anche del bambino.

Il  PCIT è stato pensato per bambini dai 2 agli 8 anni, con un ampio raggio di comportamenti ed emozioni problematiche in concomitanza a difficoltà familiari, diviso in due fasi precise: la Child-Directed Interaction (CDI) e la Parent-Directed Interaction (PDI).  La prima fase si concentra sul bambino e sul potenziamento dell’attaccamento sicuro genitore-figlio, la seconda sottolinea l’importanza di un uso coerente della disciplina e delle direttive impartite dal genitore.

I fondamenti teorici del CDI si ritrovano nella teoria dell’attaccamento e nel principio secondo il quale negli anni prescolari il bambino è più suscettibile alle risposte date dal genitore piuttosto che a quelle fornite dai pari o dalle figure di riferimento scolastiche e ciò influenza in modo determinante le sue risposte comportamentali (Eyberg, Schumann, & Rey, 1998). Si ritiene inoltre che i comportamenti problematici siano mantenuti da uno stile relazionale coercitivo che si instaura nella diade genitore-figlio, in cui entrambe le parti cercano di sovrastare e controllare il comportamento dell’altro (Patterson, DeBaryshe, & Ramsey, 1989).

Lo scopo del trattamento è quello di ridurre i comportamenti problematici attraverso l’insegnamento di nuove modalità di rinforzo positivo che il genitore potrà attuare con il figlio, così da aumentare il senso di efficacia di quest’ultimo. L’ acquisizione di queste tecniche avviene in un setting in cui il terapeuta guida attivamente il caregiver. In questo modo l’adulto riceve un feedback immediato sull’efficacia dei rinforzi appresi e sarà poi in grado di ripeterli autonomamente anche all’interno del contesto domestico.

Sono previste sessioni settimanali di un’ora, per un trattamento medio di circa 14 incontri (con un minimo di 10 e un massimo di circa 20 sedute), tuttavia i genitori proseguono l’intervento fino a quando non mostrano di aver imparato a padroneggiare adeguatamente il metodo.

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto al bambino sono:

  • Costruire una relazione genitore-figlio basata su strategie positive di attenzione;
  • Abbassare il livello di frustrazione e rabbia del bambino;
  • Aiutare il bambino a sentirsi al sicuro e calmo nella relazione col caregiver;
  • Accrescere l’autostima del bambino e le sue competenze nel gioco (Hood & Eyberg, 2003).

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto all’adulto sono:

  • Insegnare al genitore tecniche specifiche che possano aiutare il bambino ad ascoltare le istruzioni e a seguire le consegne;
  • Aiutare i genitori a sviluppare maggior confidenza nella gestione dei comportamenti del figlio sia a casa che in pubblico;
  • Insegnare al genitore a comunicare con un bambino con attenzione relativamente breve;
  • Educare il genitore a insegnare nuove competenze al proprio figlio senza che questo causi frustrazione in entrambi (Hood & Eyberg, 2003).

Nella pratica questa terapia viene condotta in un setting che prevede due stanze connesse l’una con l’altra attraverso uno specchio unidirezionale cosicché il terapeuta possa coadiuvare l’interazione della diade senza interferirvi.

Per entrambe le fasi CDI e PDI sono previsti momenti di psicoeducazione dove vengono spiegati i fondamenti teorici alla base delle nuove abilità relazionali che verranno insegnate ai genitori, a ciò si alternano modeling e role-playing.

Nel corso della CDI  si incrementa la capacità dell’adulto di dare attenzione positiva e di rinforzo ai comportamenti positivi del figlio riservando minor peso a quelli negativi.

Vengono fornite delle indicazioni su frasi di lode che il genitore può usare per rinforzare  i comportamenti desiderabili, contemporaneamente viene spiegato come parafrasare e mettere in parola il linguaggio del bambino, così che esso riesca ad esprimere attraverso il canale verbale le sue emozioni e trovare quindi sfogo anche attraverso le parole e non solo agendo azioni distruttive. (Herschell et al., 2002)

Al fine di non focalizzare troppo l’attenzione sui comportamenti negativi viene consigliato di evitare comandi eccessivamente fermi, domande o critiche che possano essere vissute come troppo intrusive.

In seguito alla prima sessione terapeuta e genitore comunicano attraverso un set wireless dove il terapeuta è fornito di microfono e il genitore di un auricolare, è così possibile una comunicazione attiva dove il terapeuta consiglia passo dopo passo le tecniche specifiche.

I primi cinque minuti di ogni sessione vengono registrati per controllare l’andamento dell’apprendimento, riportando ogni abilità specifica in un grafico che serve da immediato feedback. Sono inoltre previsti degli homework che consistono in 5 minuti al giorno di interazione bambino-genitore nei quali quest’ultimo possa mettere in pratica le competenze apprese in seduta (Chaffin, Funderburk, Bard, Valle & Gurwitch, 2011).

La parent child interaction therapy offre la possibilità di partecipare a sessioni di gruppo (90 minuti) nelle quali sono presenti 3 o 4 famiglie e in cui si lavora per circa 20 minuti con ogni diade mentre il resto dei genitori osservano e forniscono a loro volta feedback.

L’efficacia della PCIT è stata provata statisticamente e clinicamente da un significativo miglioramento delle tecniche interazionali dei genitori e dei comportamenti dei bambini sia a scuola che a casa (Eisenstadt, Eyberg, McNIel, Newcomb, & Funderburk,1993), i genitori inoltre riportano maggiore fiducia nelle loro capacità di far fronte ai comportamenti aggressivi dei figli, alla frustrazione e al distress di entrambi.

Cognitive Problem-Solving Skills Training (CPSST) per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Il Cognitive problem-solving skills training (CPSST) è una modalità di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che si inserisce nell’ambito dell’approccio cognitivo – comportamentale.

L’intervento si pone lo scopo di ridurre i comportamenti inappropriati e dirompenti attraverso l’insegnamento di nuovi metodi per far fronte a situazioni fortemente attivanti per il bambino.

Il presupposto teorico alla base consiste nel ritenere che le persone con disturbi della condotta e aggressività presentino delle distorsioni nei processi cognitivi e per tale motivo vengono offerte un’ampia gamma di alternative cognitive che possano di conseguenza generare soluzioni alternative ai problemi interpersonali, esercitando i ragazzi a soffermarsi sulle conseguenze delle proprie azioni, identificando il significato dei propri e altrui gesti e la percezione di cosa possono provare gli altri (Kazdin, 1997). L’approccio cognitivo pone l’attenzione sul modo in cui l’individuo percepisce, decodifica e fa esperienza del mondo. L’aggressività non è di per sé dettata dagli eventi, ma piuttosto dal modo in cui vengono percepiti e processati, attribuendo ostilità intenzionale negli altri (Crick & Dodge, 1994). Il bambino è spinto ad esplorare nuove possibilità, sino a quel momento mai prese in considerazione, che non prevedono l’uso di risposte negative, facendole diventare parte integrante delle sue possibilità di azione.

Spesso il bambino con disturbo oppositivo provocatorio presenta infatti una gamma ristretta di risposte agli stimoli del mondo esterno, motivo per cui persevera nell’uso di quelle negative. Usando sia tecniche cognitive che comportamentali e focalizzando l’attenzione sul bambino più che sulla coppia genitoriale o sulla triade, la CPSST aiuta i ragazzi ad accrescere il loro autocontrollo su pensieri, azioni ed emozioni ed a interagire in modo appropriato con coetanei ed adulti esplorando nuove prospettive e soluzioni. Le nuove tecniche di problem solving intervengono nel mettere in discussione i pensieri disfunzionali e di conseguenza modificano i comportamenti (Kazdin, 1996).

Seppure esistano diverse variazioni di questo metodo, assunti costanti sono l’approccio step-by-step per far fronte ai problemi interpersonali, volto a porre l’attenzione su determinati aspetti del prblema che portano alla definizione di una effettiva soluzione. Le nuove soluzioni prosociali adottate (modeling e rinforzo diretto) sono parte integrante della terapia. E’ previsto l’uso di giochi, attività e storie al fine di metabolizzare e far proprie le nuove capacità apprese (Kazdin, 1997).

Durante il trattamento il bambino viene visto settimanalmente per circa un’ora per un periodo che varia da qualche mese a un anno. La parte cognitiva del progetto consiste nel cambiare la sua visione fallace e ristretta della quotidianità, confrontando le interpretazioni irrazionali relative al comportamento degli altri, disputando gli assunti disfunzionali che sottostanno ai comportamenti problematici ed elaborando insieme al terapeuta soluzioni alternative. Partendo da un esempio puntuale (come una sospensione per aver attaccato fisicamente un compagno) il terapeuta analizza l’accaduto col ragazzo indagando pensieri ed emozioni provate in quel contesto. Ripercorrendo un singolo accaduto si focalizza l’attenzione sul ruolo attivo che ha avuto il ragazzo nell’interazione (in questo caso con il compagno), così da migliorare il suo insight. La riflessione viene quindi indirizzata verso l’interno e non più verso i fattori esterni. Attribuendo importanza al proprio contributo nella relazione, si investe il bambino di un nuovo valore, inoltre è di fondamentale importanza scardinare l’immagine rigida e globale che il ragazzo ha di sé come “cattivo” (Kazdin, 1996).

Gli aspetti comportamentali invece interessano il modeling di nuove condotte positive, il role-playing e l’utilizzo di ricompense per le nuove condotte apprese. Vengono valutate insieme una gamma di possibilità alternative di reagire agli stimoli attivanti attraverso un brainstorming fra ragazzo e terapeuta, stabilendo insieme ogni passo in direzione dell’obiettivo stabilito.

Al bambino vengono inoltre assegnati degli homework volti a implementare i nuovi modi di pensare e di agire elaborati in seduta, egli dovrà metterli in pratica a casa, a scuola e con il gruppo dei pari. Può venir data consegna di appuntarsi per alcuni giorni i pensieri negativi che possono accorrere. Il terapeuta può chiedere al bambino di fare un esperimento: provare a mettere in atto uno dei pensieri e comportamenti alternativi visti insieme e comparare i risultati dati dalla loro applicazione. Il bambino verrà premiato nella seduta seguente con lodi, abbracci, o punti guadagnati che lo avvicinano ad una ricompensa prestabilita (Kazdin, 1997).

 

Social Skills Training per il disturbo oppositivo provocatorio

Un ulteriore intervento per il disturbo oppositivo provocatorio è quello incentrato sul potenziamento delle competenze sociali (Social Skills Training), che insegna dunque al bambino ad interagire in una modalità maggiormente positiva ed adeguata con i pari.

Questa tipologia di intervento risulta particolarmente efficace quando viene condotta in un contesto di vita abituale del bambino, come la scuola o il gruppo di coetanei di riferimento, al fine di ottenere una maggiore generalizzazione degli apprendimenti (AACAP, 2009).

Si tratta di un modello di intervento di derivazione comportamentista il cui fondamento teorico consiste nel ritenere che i bambini possano apprendere ed utilizzare nuove competenze attraverso l’osservazione, l’ascolto e il modellamento. Inoltre si ritiene che l’utilizzo di vari rinforzi può incrementare la frequenza dei comportamenti desiderati (Smith, 1996).

Il ricorso a programmi di apprendimento delle abilità sociali si basa sull’evidenza che spesso la sintomatologia del disturbo oppositivo provocatorio interferisce significativamente con il funzionamento sociale in quanto molti bambini e adolescenti con tale patologia mostrano specifiche difficoltà nel riconoscimento e nella valutazione degli indizi sociali (Tasman et al, 2015). In particolare tendono ad interpretare in una modalità distorta, tipicamente come minaccia, gli eventi e l’ambiente circostante (Hendren, 1999).

Un intervento di Social Skills Training si pone pertanto come obiettivo quello di potenziare la flessibilità, le competenze relazionali e la tolleranza alla frustrazione per aiutare bambini e adolescenti a ridurre i comportamenti problematici derivanti da una incapacità di gestione della rabbia e a contenere il loro approccio di sfida alle regole (AACAP, 2009).

Tale obiettivo viene perseguito ricorrendo all’utilizzo di quattro tecniche principali (Marini, 2015):

  • La dimostrazione dell’uso appropriato delle abilità target. Tali abilità dovranno essere selezionate sulla base di obiettivi adeguati all’età di sviluppo del paziente, al contesto ambientale in cui è inserito e ad una accurata osservazione e raccolta di informazioni su quelli che sono i comportamenti che maggiormente ne compromettono il funzionamento(Smith, 1996);
  • Role-playing del paziente nelle situazione interpersonali;
  • Interventi di feedback correttivo;
  • Rinforzo.

Un particolare esempio di training delle abilità sociali impiegato nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio è il Training Sostitutivo dell’Aggressività – Aggression Replacement Training ART (Goldstein, Glick & Rainer 1987) , che integra strategie intente a promuovere l’uso positivo delle competenze sociali, la gestione della rabbia e il ragionamento morale, al posto di alternative comportamentali oppositive o aggressive (Flamez & Sheperis, 2015).

Il metodo ART è un programma strutturato e multi modale che combina l’uso di tecniche di terapia cognitiva e di terapia comportamentale.

Secondo gli autori di tale trattamento, i comportamenti aggressivi si costituiscono di una componente affettiva, una comportamentale ed una cognitiva. Dunque il programma si propone di intervenire su tutti i diversi aspetti coinvolti,  insegnando comportamenti prosociali, che interessano la componente comportamentale, il controllo della rabbia, che riguarda la componente affettiva e il ragionamento morale che fa riferimento alla componente cognitiva (Goldstein et al 1987).

Sviluppando il ragionamento morale si impara ciò che non si deve fare, con le tecniche di autocontrollo si interrompe l’automatismo tra provocazione e aggressività e quindi si impara come riuscire a evitare di fare ciò che non si deve, con l’apprendimento delle abilità sociali si impara con cosa sostituire la propria aggressività (Manin, 2004).

In accordo con il manuale originario (Goldstein, Glick & Rainer 1987) il programma ART si articola in 10 settimane, con 30 ore complessive di intervento svolto in gruppi di 8-12 ragazzi, per tre volte alla settimana.

Nel dettaglio, la componente comportamentale dell’ ART consiste in un training di abilità sociali, volto ad insegnare il comportamento pro-sociale ai soggetti che mancano di tali competenze o mostrano una specifica fragilità su questi aspetti (Kaunitz et al 2010). A livello teorico il metodo è fondato sulla teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1973).

Il manuale fornisce una checklist composta di 50 competenze sociali desiderate per permettere di identificare su quali i soggetti sono carenti e pertanto su quali dovrà essere incentrato l’intervento. Viene comunque garantita una certa flessibilità per poter modificare o sostituire alcune di tali competenze in base alle specifiche caratteristiche dei singoli pazienti (Kaunitz et al 2010).

Le competenze sociali che i ragazzi apprendono attraverso questo specifico training rientrano in una delle 6 categorie che compongono l’intero programma e comprendono (Goldestein, 1994):

  1. Abilità sociali iniziali (ad esempio, iniziare una conversazione, presentare se stessi, fare una complimento).
  2. Abilità sociali avanzate (ad esempio, per chiedere aiuto, scusarsi, dare istruzioni).
  3. Competenze per la gestione delle emozioni (ad esempio, affrontare la rabbia di qualcuno, esprimere affetto,gestire la paura).
  4. Alternative alla aggressività (ad esempio, rispondendo alle prese in giro, la negoziazione,aiutare gli altri).
  5. Competenze per affrontare lo stress (ad esempio la preparazione per una conversazione stressante).
  6. Capacità di pianificazione (ad esempio, definizione degli obiettivi, il processo decisionale).

La componente del programma relativa alla gestione della rabbia ha invece i suoi fondamenti teorici  nei primi lavori sul controllo dell’aggressività di  Novaco (1975) and Meichenbaum (1977).

Si tratta di un programma costituito da più fasi sequenziali. I soggetti vengono prima aiutati a comprendere come in genere tendano a percepire ed interpretare il comportamento degli altri in una modalità che suscita rabbia. Dunque il lavoro si concentra inizialmente sulla capacità di identificare i trigger interni ed esterni che innescano le reazioni aggressive.

Si lavora poi sul riconoscimento degli indizi fisici (ad esempio la contrattura dei muscoli) che permettono al bambino/ragazzo di comprendere che l’emozione che sta sperimentando è quella della rabbia. Successivamente viene introdotto l’uso di promemoria come le auto-indicazioni (ad esempio “stai calmo”) o la spiegazione del comportamento degli altri in modo non ostile insieme all’introduzione di tecniche volte alla riduzione della rabbia, come la respirazione profonda, il conteggio all’indietro, l’immaginazione di una scena pacifica o delle conseguenze del proprio comportamento, tecniche di cui il terapeuta mostra il corretto utilizzo (Kaunitz et al 2010).

Infine si insegna ai pazienti la tecnica dell’autovalutazione, ovvero a lodare o premiare se stessi in tutti quei casi in cui si è riusciti a mettere in atto un’adeguata gestione della rabbia (Goldestein, 1994).

Infine la terza componente del programma ART, il training sul ragionamento morale, si fonda sul modello teorico di Kohlberg (1973) di sviluppo della morale.

Lo scopo è quello di incrementare il ragionamento morale per rendere l’individuo in grado di prendere decisioni più adeguate in situazioni sociali.  Tale scopo viene perseguito attraverso discussioni di gruppo su dilemmi di natura morale. Concretamente il conduttore del gruppo presenta dilemmi in cui i soggetti possono scegliere tra diverse alternative di comportamento motivando la propria scelta. Il manuale fornisce dieci situazioni strutturate in modo da offrire ai partecipanti del gruppo la possibilità di considerare il punto di vista degli altri (Kaunitz et al 2010).

 

Trattamento farmacologico per il disturbo oppositivo provocatorio

E’ possibile intervenire nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio anche attraverso il ricorso alla terapia farmacologica. Va tuttavia sottolineato come ad oggi non esistono specifici farmaci per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio e il solo utilizzo del farmaco non è stato dimostrato efficacie come modalità di intervento per questa patologia (AACAP, 2009).

I farmaci possono essere utilizzati come parte di un trattamento più ampio ed integrato, sopratutto nei casi in cui sono presenti altri disturbi in comorbidità (Connor, 2002; Pappadopulos et al., 2003, Schur et al., 2003, Steiner et al., 2003) come il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD), disturbi d’ansia o disturbi dell’umore.

I farmaci principalmente utilizzati sono gli psicostimolanti, gli stabilizzatori dell’umore e gli antidepressivi. I primi, in particolare il Ritalin, vengono utilizzati nei casi di comorbidità tra disturbo oppositivo provocatorio e ADHD e si sono dimostrati efficaci nel ridurre la sintomatologia comportamentale (Connor & Glatt, 2002;Newcorn et al., 2005).

Mentre un numero più limitato di ricerche suggerisce che l’uso di stabilizzatori dell’umore e antidepressivi possa essere d’aiuto nel trattamento di bambini e adolescenti che oltre ad un disturbo oppositivo presentano anche disturbi d’ansia o dell’umore, come il disturbo bipolare o una depressione maggiore (Steiner et al., 2003, Steiner et al., 2003).

Infine nonostante la mancanza di ricerca in merito, gli antipsicotici atipici come ad esempio il Risperidone rappresentano ad oggi il farmaco principalmente prescritto per il trattamento dei comportamenti aggressivi associati al disturbo oppositivo provocatorio.

Tuttavia è importante sottolineare come i comportamenti aggressivi e oppositivi possano in alcuni casi riflettere temporanei cambiamenti ambientali. Utilizzare pertanto farmaci in queste circostante può indurre una erronea attribuzione di efficacia alla terapia farmacologica piuttosto che ad una stabilizzazione del contesto ambientale e dunque può determinare una non necessaria esposizione dei bambini ai possibili effetti collaterali del farmaco (AACAP, 2009).

 

Conclusioni

Diverse sono dunque le possibilità di intervento nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio. L’integrazione di modalità differenti rimane tuttavia l’approccio d’elezione e con una maggiore efficacia riscontrata (ACCAP,2009).

Date le importanti ricadute che la sintomatologia caratteristica del disturbo oppositivo provocatorio può avere nel funzionamento a lungo termine del bambino e dunque in età adulta, rimane fondamentale che l’identificazione e il trattamento del disturbo siano precoci e che si prediligano interventi evidence-based.

Ciascun trattamento proposto, rappresenta una possibilità di intervento che la lettura riporta come efficace per il disturbo oppositivo provocatorio, con o senza altre patologie in comorbidità. Tuttavia l’applicazione di tale protocolli non dovrebbe avvenire in maniera meccanica e acritica ma risulta fondamentale, per la buona riuscita dell’intervento, modulare la procedura rispetto alle caratteristiche e le specifiche peculiarità del bambino e della sua famiglia.

Infine si ricorda che il trattamento farmacologico, pur non essendo considerato d’elezione per il disturbo oppositivo provocatorio, rimane comunque una possibilità da valutare da parte di un neuropsichiatra infantile, nei casi in cui la sintomatologia sia particolarmente grave ed invalidante e/o siano presenti altre patologie associate che compromettono significativamente il funzionamento del bambino.

L’insonnia e le alterazioni cerebrali ad essa associate

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori della Università di Pittsburg School of Medicine, vi sono alcune regioni specifiche del cervello, tra le quali si citano quelle coinvolte nella consapevolezza di sé e la tendenza a rimuginare, che mostrano una attività alterata nei pazienti che soffrono di insonnia.

Mariagrazia Zaccaria

 

Insonnia e alterazione cerebrali: lo studio del prof. Buysse

Daniel Buysse, professore di psichiatria e di scienze cliniche, guida il gruppo di ricerca per quello che è il più grande studio sull’insonnia. Il professore ha individuato le differenze di attività cerebrali che vi sono tra gli stati di sonno e gli stati di veglia in pazienti con diagnosi di insonnia.

Buysse, afferma che:

Mentre i pazienti che soffrono di insonnia spesso vedono i loro sintomi banalizzati da amici, familiari e a volte dai medici stessi, i risultati di questo studio aggiungono una nuova visione sull’insonnia, poiché trattata come una condizione neurobiologica

Lo studio mostra anche che l’attività cerebrale durante il sonno è più sfumata di quanto si pensasse.

I risultati di questo studio possono aiutare a migliorare gli attuali trattamenti che si utilizzano per curare l’insonnia, come la stimolazione magnetica transcranica, e aumentare la comprensione del perché alcuni trattamenti, come la meditazione, in alcuni pazienti è più efficace.

I ricercatori hanno utilizzato scansioni di tomografia ad emissione di positroni (PET), durante le quali ai partecipanti è stato iniettato un tracciante, ovvero una soluzione di molecole di glucosio. Le regioni cerebrali con maggiore attività sono metabolicamente più attive ed evidenti sulle scansioni PET.

I dati delle scansioni hanno rivelato delle differenze di attività relative a regioni specifiche del cervello tra gli stati di sonno e veglia nei pazienti con insonnia. Le differenze possono essere attribuite ad una diminuita attività durante la veglia o all’intensificarsi delle attività di tale regioni durante il sonno.

 

Conclusioni

Secondo gli autori dello studio, alcune disfunzioni in determinate regioni del cervello possono essere correlate a specifici sintomi in pazienti con insonnia, tra cui disturbi di consapevolezza di sé e disturbi dell’umore, deficit della memoria e la ruminazione.

 

 

Cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario: esiste un collegamento?

Un nuovo studio Inglese ha cercato di stabilire un legame tra cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario, individuando, nei soggetti coinvolti nel fenomeno, vittime, bulli e bulli-vittime, la tendenza ad entrare in contatto con contenuti web riguardanti autolesionismo o suidicio.

 

Col termine cyberbullismo vengono generalmente definiti tutti gli atti di tipo offensivo e prevaricatorio perpetrati attraverso l’utilizzo della rete internet. Nell’era della tecnologia il cyberbullismo è una problematica sempre più diffusa e ci sono evidenze scientifiche che lo collegano, al pari del bullismo fisico, a pensieri e comportamenti suicidari, prevalenti nelle vittime (Hinduja  e Patchin, 2010).

 

Cyberbullismo e rischio suicidio: lo studio

Un nuovo studio, condotto dalla Dott.ssa Anke Gorzig (LSE’s Department of Media and Communications) ha portato all’attenzione il legame tra cyberbullismo e alcuni comportamenti disfunzionali, che potrebbero essere predittori di tendenze suicidarie.

In particolare, è stato utilizzato un campione proveniente dallo studio “LSE Kids online”, composto da 25.000 bambini Europei di età compresa tra i 9 e i 16 anni. Il 6% del campione riportava di essere vittima di cyberbullismo, il 2,4% riportava di compiere atti di cyberbullismo e un 1,7% riportava di essere sia vittima che bullo. Di questi soggetti, il 4,1% riportava problemi nella gestione delle emozioni, il 16.8% problemi comportamentali, il 15,8% aveva problemi a relazionarsi con i propri pari.

Per quanto riguarda i comportamenti, è stata presa in considerazione la visione di contenuti web riguardanti autolesionismo o suicidi.

Nell’intero campione il 6,8% dei soggetti riportava la visione di contenuti web di autolesionismo, il 4,3% visionava contenuti web riguardanti il suicidio. Questi soggetti costituivano una bassa percentuale di coloro i quali non erano coinvolti in fenomeni di cyberbullismo. Invece, circa 1/5 dei delle vittime e dei bulli e 1/3 dei soggetti sia bulli che vittime, era in contatto con contenuti web di autolesionismo; inoltre tra le vittime di cyberbullismo e tra coloro che ricoprivano il ruolo sia di vittime che di bulli, era alta la percentuale di bambini che entravano a contatto con contenuti web riguardanti suicidi, mentre questa percentuale rimaneva bassa per i soggetti identificati solo come bulli.

Il trend relativo a chi entrava a contatto con contenuti di autolesionismo era due volte più alto per il gruppo delle vittime e per il gruppo dei bulli, e da tre a quattro volte più alto per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti nel fenomeno; invece il trend relativo a chi entrava in contatto con contenuti di suicidio era da due a tre volte più alto per le vittime e per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti.

 

Conclusioni

Ne è stato concluso che, in generale, i soggetti che presentano tratti sia di vittima che di bullo sono quelli più vulnerabili e potrebbero necessitare di un maggior supporto in presenza di problemi psicologici.

Molti soggetti coinvolti nel fenomeno sarebbero favorevoli ad essere aiutati attraverso risorse web ed una possibile passo verso questa soluzione potrebbe essere quello di creare strumenti d’aiuto utilizzabili tramite piattaforme Internet.

Problemi uditivi? Non è colpa delle orecchie, ma del tuo cervello!

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Maryland ha determinato che avviene qualcosa nel cervello dei più anziani con sospetti problemi uditivi che li induce a sforzarsi per seguire un discorso, distinguendolo dal rumore di fondo, anche quando l’udito non è realmente compromesso.

 

Siete ad un pranzo in famiglia, state dialogando con i membri più anziani ed uno di loro vi dice: “scusa, puoi ripetere?”. Il motivo per cui è necessario ripetere due volte la stessa cosa, potrebbe non dipendere da problemi uditivi del vostro interlocutore, ma da altro.

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Maryland (UMD), composto da membri associati del Brain and Behavior Initiative, ha determinato che avviene qualcosa nel cervello dei più anziani che li induce a sforzarsi per seguire un discorso, distinguendolo dal rumore di fondo, anche quando l’udito non è compromesso.

In uno studio pubblicato dal Journal of Neurophysiology, i ricercatori Samira Anderson, Jonathan Z. Simone e Alessandro Presacco hanno scoperto che le persone di età compresa tra 61 e 73 anni, seppur in assenza di problemi uditivi ma dotate di un udito normale, ottengono prestazioni significativamente peggiori nella comprensione di discorsi in ambienti rumorosi rispetto alle persone di età compresa tra 18 e 30 anni, anch’esse dotate di un udito funzionale.

 

Problemi uditivi o problemi di elaborazione cerebrale?

Attraverso due diversi tipi di scansione dell’attività elettrica cerebrale rilevata durante un compito di ascolto di discorsi, i ricercatori sono stati in grado di osservare ciò che avveniva nel cervello dei partecipanti nel momento in cui veniva chiesto loro ciò che un interlocutore stava dicendo, in due diverse condizioni sperimentali: ambiente tranquillo e ambiente rumoroso. I ricercatori hanno studiato due aree cerebrali distinte: il mesencefalo (l’area “più arcaica” del cervello, posseduta dalla maggior parte degli animali vertebrati), che si occupa dell’elaborazione base di tutti i suoni e la corteccia cerebrale, di cui una parte è specializzata nell’elaborazione dei discorsi.

Nel gruppo di soggetti più giovani, il mesencefalo ha generato un segnale comparabile per entrambe le condizioni del compito. Al contrario, nel gruppo di soggetti più anziani, la qualità della risposta al segnale vocale era deteriorata già nell’ambiente tranquillo e peggiore nell’ambiente rumoroso. I segnali neurali registrati, invece, a livello corticale hanno dimostrato che gli adulti più giovani sono in grado di elaborare un discorso in modo efficace in un tempo relativamente breve. Al contrario, la corteccia uditiva dei soggetti più anziani impiega più tempo a rappresentare la stessa quantità di informazioni.

 

Perché avviene questo?

Parte dei problemi di comprensione sperimentati dalle persone più anziane, in entrambe le condizioni, potrebbe essere legato ad uno squilibrio tra processi cerebrali eccitatori e inibitori dovuti all’età. Questo squilibrio comprometterebbe la capacità del cervello di elaborare correttamente stimoli uditivi e rappresenta la causa principale dell’anormale risposta corticale osservata nello studio. Ha osservato Simon:

Le persone anziane hanno bisogno di più tempo per capire cosa sta dicendo un’altra persona”. Impiegano più risorse e uno sforzo maggiore

Questa erosione della funzione cerebrale sembra essere tipica degli anziani e parte naturale del processo di invecchiamento.

I ricercatori stanno ora esaminando se utilizzando tecniche di training cognitivo sia possibile aiutare gli anziani con sospetti problemi uditivi a migliorare la loro comprensione del parlato.

Anche dei semplici accorgimenti possono aiutare. Dal momento che la possibilità di vedere e sentire la persona che sta parlando aiuta l’elaborazione di un discorso, sarebbe una buona idea guardare direttamente gli anziani mentre si sta parlando con loro, e assicurarsi di avere la loro attenzione, prima di iniziare un discorso.

Il cervello più vecchio semplicemente perde parte del segnale vocale, nonostante le orecchie lo abbiano catturato tutto in modo integro. – ha detto Simon – Quando qualcuno può guardare l’interlocutore, oltre che ascoltarlo, invece, il sistema visivo a volte può compensare quella perdita.

Samira Anderson aggiunge:

Il messaggio principale che vogliamo dare è che i soggetti più anziani, nel nostro studio, hanno un udito normale, come è emerso da una valutazione eseguita con audiogramma, ma hanno difficoltà a comprendere tracce audio acquisite in ambiente rumoroso, perché gli aspetti temporali del segnale vocale non vengono accuratamente codificati. Dal momento che hanno un udito normale, parlare più forte non aiuta. Quindi, se qualcuno sta avendo problemi nella comprensione in un ristorante rumoroso o in una stanza affollata, è più importante parlare con chiarezza in modo normale o al massimo leggermente più lento, piuttosto che aumentare il tono della voce.

 

Come funziona la proteina prionica: due studi coordinati dalla SISSA descrivono la funzione di PrPC

Sono due i nuovi studi coordinati dalla SISSA che svelano dettagli importanti sulla funzione fisiologica della proteina prionica, la forma non patologica del famigerato prione, la proteina degenerata che provoca, fra le altre cose, la “malattia della mucca pazza”.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Gli studi

Secondo le nuove osservazioni la proteina nella sua forma fisiologica svolge un’importante funzione di promozione della crescita dei neuriti, le proiezioni dei neuroni lungo le quali viaggia il segnale nervoso. I due studi si completano idealmente fornendo, uno, pubblicato sul Journal of Cell Science, una visione di insieme e l’altro, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, un focus su un particolare stadio del processo, con una completezza e un dettaglio che finora erano mancati.

È una proteina con due facce diametralmente opposte: tristemente nota nella sua forma “degenerata”, il prione che provoca malattie neurodegenerative gravi e incurabili come la “mucca pazza” nei bovini e la sindrome di Creutzfeldt-Jakob negli esseri umani, nella sua forma fisiologica la proteina prionica (PrPC) svolge invece una funzione vitale per il cervello. La sua azione positiva però fino a oggi non era mai stata definita con chiarezza. Due nuovi studi, entrambi coordinati da Giuseppe Legname, professore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, offrono finalmente una descrizione dettagliata dei meccanismi biochimici con cui questa proteina stimola e guida la crescita dei neuriti, le proiezioni (assoni e dendriti) della membrana del neuroni così importanti per la trasmissione del segnale nervoso.

Il primo, uno studio ampio e strutturato, è stato appena pubblicato sul Journal of Cell Science. [blockquote style=”1″]In questo lavoro, che abbiamo svolto in collaborazione con l’Optical Manipulation Lab (CNR- IOM, Trieste), abbiamo usato una tecnica innovativa che ci ha permesso di osservare da vicino l’interazione fra PrPC e i neuriti in fase di crescita.[/blockquote] La metodologia, sviluppata da Dan Cojoc, ricercatore SISSA/CNR-IOM, prevedeva l’inserzione delle proteine PrPC all’interno di micro vescicole che venivano poi poste con precisione, con delle pinzette ottiche, in vicinanza dei coni di crescita di neuroni ippocampali. I coni di crescita sono porzioni “attive” della membrana del neurone dove si svolge la crescita del neurite. Una volta posizionate, le vescicole venivano “aperte” mediate brevi lampi di luce UV, così che la proteina venisse rilasciata in prossimità del cono di crescita.

[blockquote style=”1″]Con questa tecnica di precisione abbiamo potuto osservare la reazione del cono di crescita a basse concentrazioni di proteina prionica. Negli esperimenti la presenza di PrPC provocava il rapido accrescimento dei neuriti e il posizionamento del cono di crescita in direzione della massima concentrazione di proteina prionica. In fasi successive dello stesso lavoro abbiamo inoltre osservato che PrPC, quando anziché essere libera e disciolta nel mezzo extracellulare è ancorata alla membrana cellulare, funziona come un recettore che si lega ad altre proteine prioniche libere, che possono partecipare a processi biochimici diversi[/blockquote] spiega Legname.

Quando una molecola interagisce selettivamente con molecole a lei identiche, come in questo caso, si parla di interazione “omofilica”. [blockquote style=”1″]In questo studio abbiamo osservato anche che sono proprio queste interazioni omofiliche a guidare il processo di crescita dei neuriti, attraverso l’intervento di particolari molecole, chiamate molecole di adesione delle cellule neurali (NCAM)[/blockquote] continua Legname.

Focus sul legame

Ed è proprio il secondo studio, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, a gettare luce su quest’ultimo passaggio del processo, aggiudicandosi per il suo valore anche la copertina dell’edizione corrente.

[blockquote style=”1″]Insieme al gruppo di Janez Plavec del Centro Risonanza Nucleare Magnetica di Lubiana abbiamo condotto un’analisi strutturale dell’interazione fra PrPC e NCAM[/blockquote] spiega Legname.

[blockquote style=”1″]Abbiamo visto che NCAM si lega in maniera molto stretta con il terminale N della proteina prionica[/blockquote] spiega Gabriele Giachin, ex studente e ricercatore SISSA, attualmente in forza al European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble in Francia, che insieme a Giulia Salzano, dottoranda della SISSA, ha contribuito allo studio. PrPC è infatti costituita da due domini: una parte strettamente impacchettata che per sua natura non interagisce con altre molecole, e una parte non strutturata, libera, il terminale N, che è invece la zona attiva della molecola. [blockquote style=”1″]La nostra osservazione mostra che NCAM promuove la crescita del neurite attraverso il suo legame con PrPC, proprio legandosi alla sua parte non strutturata[/blockquote] continua Giachin.

I due studi si completano, offrendo il primo una visione d’insieme dell’intero processo e il secondo un focus su uno stadio importante, formando insieme un quadro coerente. [blockquote style=”1″]Siamo molto soddisfatti di questo grande lavoro che ha unito competenze e visioni molto diverse, oltre a gruppi di paesi diversi[/blockquote] conclude Legname che spiega anche che questa osservazione non solo amplia la conoscenza sui meccanismi fisiologici di PrPC: [blockquote style=”1″]ora che conosciamo meglio l’azione normale della proteina prionica abbiamo maggiori elementi anche per comprendere cosa succede quando il processo non funziona e si innesca la sua azione patologica[/blockquote] conclude lo scienziato.

LINK UTILI:
Link agli articoli originali: Journal of Cell Science https://goo.gl/OfwZC2, e Journal of Biological Chemistry https://goo.gl/AUqUm5

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La sindrome del cuore felice: effetti paradossali nella ricerca della felicità

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo.

Barbara Valenti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Lo diceva già Seneca [blockquote style=”1″]tutti vogliono vivere felici, ma […] è così difficile raggiungere una vita felice che più la si ricerca con affanno più ci se ne allontana.[/blockquote]

Nulla sembra più naturale che il voler essere felici. La felicità è considerata un ingrediente fondamentale della vita umana, indispensabile per il benessere e la salute, e sono varie le ricerche che dimostrano che le persone felici hanno più amici, più successo lavorativo e vivono una vita più lunga e sana rispetto a coloro che lo sono meno (Fredrickson, 1998; Lyubomirsky, King & Diener, 2005). Non sorprende quindi che la felicità sia un valore altamente condiviso, in particolar modo nelle culture occidentali dove i messaggi che ne promuovono la ricerca provengono un po’ da tutte le fonti: dalla Costituzione Americana (Articolo I: “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità”) allo spot della Coca Cola.

Siamo quindi spinti a tendere verso il raggiungimento della felicità convinti che sia l’atteggiamento più giusto e che il solo fatto di inseguirla ci porterà a star bene.

 

Gli effetti controproducenti e gli errori alla base della ricerca della felicità

E se invece non fosse così, se la ricerca della felicità avesse effetti controproducenti?

Questo è quello che si sono chiesti Gruber, Mauss e Tamir in uno studio pubblicato nel 2011, arrivando a concludere che l’essere felici non sempre si rivela la cosa migliore, anzi, ci sono alcune condizioni in cui l’essere felici risulta dannoso, ovvero:
1) L’essere troppo felici. Oltre una certa soglia di felicità si assiste a un calo nella creatività (Davis, 2009) e alla messa in atto di comportamenti rigidi (Fredrickson & Losada, 2005) o rischiosi, come l’abbuffarsi, il bere o il far uso di sostanze (Cyders & Smith,2008; Martin et al., 2002). La relazione tra felicità e conseguenze positive dunque non è lineare.
2) Il mostrarsi felici nel momento sbagliato. Quando tutto va bene, provare emozioni positive ci aiuta a incrementare le risorse e i legami sociali, al contrario in presenza di problemi sperimentare emozioni negative può offrire importanti benefici. Pensiamo all’espressione della rabbia, che in caso di negoziazione si rivela particolarmente utile perché induce l’altro a concessioni più generose di quanto non farebbe se ci limitassimo ad esprimere emozioni positive (Van Kleef, De Dreu, Pietroni & Manstead, 2006).
3) L’essere felici in modo ingiustificato o non conforme alle aspettative culturali. È il caso dell’orgoglio arrogante (la felicità per il raggiungimento di benefici non meritati), che pur essendo un sentimento positivo per chi lo sperimenta si associa a comportamenti aggressivi o antisociali (Baumeister, Smart & Boden, 1996; Tracy, Cheng, Robins & Trzesniewski, 2009). Anche il provare un grado di felicità incongruo con le aspettative culturali non aiuta, e questo è vero sia per coloro che valorizzano il raggiungimento di stati positivi ad alta attivazione (eccitamento) come europei e americani, sia per chi preferisce quelli a bassa attivazione (contentezza) come i cinesi, poiché in entrambi i casi la discrepanza tra lo stato ideale e quello effettivo correla con la depressione (Tsai, Knutson & Fung, 2006).

Non solo la felicità non fa sempre bene, ma nel ricercarla tendiamo a commettere diversi tipi di errori (Schooler e colleghi, 2003):
1) Non sempre siamo in grado di stabilire con esattezza il nostro grado di felicità, essendo questo influenzato da fattori situazionali come la condizione meteorologica (Schwarz & Clore, 1983) o i risultati di una partita di calcio (Schwarz et al., 1987).
2) Nel monitorare quanto siamo felici ne indeboliamo il grado. Le persone più felici sono infatti quelle meno introspettive (Lyubomirsky & Lepper, 1999; Veenhoven, 1988) mentre quelle più infelici riportano maggiore autoriflessività, attenzione focalizzata su di sé e pensiero ruminativo (Ingram, 1990; Musson & Alloy, 1988). Le persone meno felici tendono quindi a riflettere maggiormente sulle proprie reazioni, riducendo in questo modo il grado di piacere dell’esperienza stessa che viene confrontata con uno stato ideale irraggiungibile.
3) Tendiamo a valutare in modo inaccurato cosa può farci felici, e a non cogliere i momenti che ci rendono tali. Ad esempio, alcuni pensano che arricchirsi sia un modo per essere più felici, ma questo è vero solo in parte, poiché un miglioramento della condizione economica produce un incremento di felicità che è solo temporaneo e che con il tempo tende a svanire (Brickman & Cambell, 1971). In aggiunta, ci facciamo sfuggire momenti di felicità perché consideriamo le attività in cui siamo impegnati come un mezzo e non come un fine: nel spostare l’attenzione verso l’obiettivo ultimo – essere felici – non ci godiamo il momento presente – un concerto, una cena, un film, etc.

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo. Uno studio di Mauss e colleghi (2011) dimostra che i soggetti spinti a valorizzare la felicità e poi a sperimentarla riportavano un livello di felicità inferiore rispetto a coloro che non erano stati precedentemente indotti a farlo. In aggiunta, la spasmodica ricerca della felicità sembra portare ad un maggior grado di solitudine, soprattutto nelle culture dove l’essere felici viene valutato in termini di raggiungimento personale e gli individui si focalizzano più su se stessi che sugli altri, rischiando di danneggiare le relazioni sociali (Mauss et al, 2012).

 

La ricerca della felicità e i disturbi dell’umore

Ulteriori ricerche si sono spinte oltre. Ford e colleghi (2013) sono giunti alla conclusione che la tendenza a dare estremo valore al raggiungimento della felicità si associ a depressione, questo sulla base di due studi: il primo, condotto su un campione di 98 soggetti con sintomi depressivi in remissione, mette in evidenza come all’aumentare dell’importanza data al raggiungimento della felicità aumenti anche la gravità dei sintomi depressivi; il secondo, che confronta 31 pazienti con sintomi depressivi in remissione e 30 soggetti sani, dimostra nei soggetti depressi la tendenza a dare maggiore importanza all’essere felici.

Il dare un estremo valore alla felicità sembra un fattore di rischio anche per il disturbo bipolare. Ford e colleghi (2015) sostengono questa tesi sulla base di tre ricerche da loro svolte: secondo la prima, condotta su un campione di 510 studenti universitari, all’aumentare dell’importanza data alla felicità aumentano i sintomi depressivi ed il rischio di sviluppare un disturbo bipolare; la seconda, che allarga l’indagine a un campione di 241 soggetti differenti per età, scolarità, etnia, status socio-economico e condizione lavorativa e relazionale, replica gli stessi risultati della prima; infine la terza, che ha messo a confronto 32 soggetti con Disturbo Bipolare (DB) di tipo I in remissione e 31 soggetti sani, conferma la tendenza dare maggior enfasi alla ricerca della felicità tra i soggetti con DB. Secondo le conclusioni degli autori l’eccessiva valorizzazione della felicità rappresenterebbe un fattore di rischio per tutti i disturbi dell’umore.

La felicità, oltre che per i disturbi mentali, sembra un fattore di rischio anche per la salute fisica. È infatti da poco stata identificata la cosiddetta sindrome del cuore felice, caratterizzata da sintomi cardiocircolatori transitori (come dolore toracico, dispnea, etc. ) conseguenti al verificarsi di un qualche evento felice o socialmente desiderabile, come lo sposarsi, il diventare genitori o nonni, il vincere molti soldi, etc. (Ghadri et al., 2016). Questa patologia rappresenterebbe un ampliamento della sindrome di takotsubo, o sindrome del cuore infranto, che si verifica in conseguenza di eventi altamente stressanti come lutti, divorzi, etc (Akashi et al., 2008).

 

Conclusioni

In conclusione, per essere davvero felici dobbiamo smetterla di affannarci ad esserlo, ricordandoci che la felicità fa bene se moderata e se calibrata al contesto, dobbiamo smetterla di domandarci se lo siamo perché troppa introspezione fa male, dobbiamo fare lo sforzo di orientarci al presente per dar valore alle cose quando accadono, e sopratutto, non dobbiamo mettere la felicità al centro della nostra vita – pena l’infelicità o peggio ancora un disturbo dell’umore.

Le svolte del cognitivismo clinico: la risposta a Dimaggio

La risposta di Dimaggio al nostro articolo del 24 ottobre 2016 sulle svolte del cognitivismo clinico sostiene che le nostre preoccupazioni per la recente svolta esperienziale-corporea della terapia cognitiva siano eccessive, e questo per almeno un paio di ragioni: gli interventi immaginativi ed esperienziali hanno da sempre fatto parte del repertorio cognitivo, a cominciare dalle radici comportamentiste (ricordiamoci dell’esposizione); e inoltre il cognitivismo non si deve chiudere nel suo recinto e non deve lasciare ad altri orientamenti lo sviluppo dell’area esperienziale.

 

La risposta all’obiezione sulle svolte del cognitivismo clinico

Queste obiezioni di Dimaggio si inseriscono in un tipo di argomentazione più generale che sottolinea come l’intera contrapposizione tra interventi top-down e bottom-up sia forzata. Nessun intervento -dice questa argomentazione- è puramente top-down o bottom-up. In ogni intervento top-down l’incremento della fiducia nella possibilità di gestire un sintomo come un comportamento volontariamente modificabile considerandone criticamente i pro e i contro è bilanciato da un momento bottom-up in cui il paziente procede a saggiare sul campo dell’esperienza se davvero il suo controllo dei sintomi è così basso o se davvero la sua capacità di tollerare le emozioni temute sia così fragile. Allo stesso modo, in ogni intervento bottom-up il paziente non si limita a vivere un’esperienza spontaneamente correttiva ma trasforma la possibilità sentita sul campo di poter controllare i propri comportamenti disfunzionali e di poter tollerare le emozioni più temute in decisioni coscienti top-down.

L’obiezione è condivisibile in termini teorici ed empirici. Può però essere meno convincente da un punto di vista storico e pratico. Sebbene top-down e bottom-up si sovrappongano spesso e volentieri, essi comunque delineano due strategie terapeutiche dissimili e almeno spiritualmente contrapposte. Strategie integrabili, certo, ma anche in conflitto tra loro. Nel conflitto non c ‘è nulla di male, beninteso. Ogni conflitto, tuttavia, implica periodi di preminenza dell’una o dell’altra fazione. Ed è innegabile che con l’inizio del nuovo millennio e della cosiddetta “terza ondata” siamo entrati in un’epoca di preminenza della componente esperienziale e immaginativa, in cui spiritualmente si è più propensi a concepire il cambiamento come frutto di un lento operare inconsapevole e in cui il paziente è fin troppo pazientemente accompagnato in un percorso di nuova crescita e ricostruzione di alcuni suoi deficit, di alcune sue mancanze emotive oltre che cognitive. Deficit che andrebbero ben al di là di scelte disfunzionali liberamente modificabili.

 

I rischi derivanti da una psicoterapia di tipo preminentemente bottom-up

Sicuramente c’era bisogno di considerare questo aspetto della psicoterapia, dopo la festa top-down della terapia cognitiva standard. Ci sembra giusto, però, sottolineare alcuni rischi che la psicoterapia corre, sia nel teatro internazionale che in quello italiano, in questa epoca storica di preminenza bottom-up. Come in ogni rapporto dialettico, è giusto che la parte in ritirata nel conflitto continui comunque a far sentire le proprie ragioni.

Il primo rischio è attribuire all’intero fronte top-down quelli che erano i limiti del solo modello standard. Ad esempio, i limiti del modello di Beck non possono essere estesi al modello metacognitivo di Wells. Wells modellizza la funzione esecutiva consapevole in maniera radicalmente diversa rispetto a Beck, più centrata sulla scelta metacognitiva e meno sugli schemi cognitivi. Stesso discorso si può fare per alcuni interventi di stile razionale emotivo alla Ellis o anche di scuola costruttivista italiana, come l’intervento sul secondario dell’ABC. Allargare i limiti del modello di Beck a tutti i modelli del funzionamento dell’attività mentale top-down significa limitare il repertorio degli interventi terapeutici e i confini della ricerca clinica.

Il secondo rischio è indulgere troppo in una retorica iniziatica ed esoterica del cambiamento involontario. Per fortuna i nuovi modelli bottom-up sono molto formalizzati e protocollizzati. Il rischio peggiore è stato evitato, quello di cadere in un paradigma totalmente irrazionalista in cui la relazione terapeutica, concetto fin troppo elastico, si pone al centro di tutto trasformando la terapia in un intervento di generico supporto accuditivo. Vero è che in genere i modelli relazionali sottolineano la differenza tra atteggiamento cooperativo e accuditivo. Tuttavia, questa differenza tende a essere evanescente quando non è definita operativamente.

Un altro possibile rischio è l’applicazione indiscriminata degli interventi esperienziali. In teoria questi interventi sono indicati soprattutto per i pazienti che rispondono male alla terapia e che sono traumatizzati. In pratica la sensazione è che si tenda sempre a vedere tutti i pazienti come difficili e traumatizzati. Per evitare questo rischio ci piacerebbe che ci fosse maggiore attenzione per la diagnosi da parte dei fautori dell’intervento esperienziale. A volte questo intervento è utile, altre volte è eccessivo rispetto alle richieste del paziente. Uno degli errori più dannosi della psicoanalisi è stato quello di pensare che tutti i pazienti siano difficili e bisognosi di trattamenti prolungati e laboriosi. Cerchiamo di non cascarci anche noi.

Il terzo rischio è specifico per l’Italia. La svolta bottom-up non arriva dalle nostre parti dopo un periodo di preminenza top-down in stile terapia cognitiva standard. Arriva invece dopo una lunga preminenza del paradigma costruttivista che ha rallentato in Italia lo sviluppo di una cultura dell’intervento formalizzato e protocollizzato. Nulla da dire sulla qualità teorica e clinica del paradigma costruttivista, però da Mahoney e Guidano in poi è stato quello meno attento allo sviluppo di protocolli replicabili. In Italia questo paradigma ha dominato ed è accaduto che perfino i clinici e i teorici più vicini al modello standard abbiano dimostrato una particolare insensibilità al problema dell’aderenza ai protocolli.

La conseguenza sembra essere una particolare propensione del terapista italiano medio a considerare tutti i casi come difficili, complessi e traumatizzati. E inoltre a dare per scontato che l’intervento top-down sia di facile esecuzione, qualcosa di non particolarmente difficile da padroneggiare. Buttarsi in massa nell’immaginativo e nel corporeo senza aver mai davvero appreso e compreso la logica e la pratica dell’intervento top-down rischia di protrarre in Italia una carenza professionale e culturale. Sappiamo davvero fare una terapia cognitiva standard in Italia? O siamo a volte dei cognitivisti immaginari? Il rischio che si corre è che si proponga al paziente che chiede una terapia cognitiva standard un oggetto clinico frutto di una integrazione troppo personale e soggettiva, con derive nello psicoanalese relazionalista, un campo dove non siamo noi i più bravi.

Per la verità, forse anche questo terzo rischio lo stiamo schivando. È probabilmente un’ironia della storia che siano proprio i nuovi protocolli corporeo-esperienziali, dall’EMDR alla sensorimotor, gli agenti che stanno diffondendo la cultura degli interventi protocollizzati proprio tra chi li aveva sempre rifiutati. Magari l’attenzione per le procedure protocollate potrà poi indirettamente incoraggiare i colleghi a dare valore all’aderenza e a decidersi a imparare un po’ di terapia cognitiva standard, che è poi quella che cercano i pazienti, ignari di questi ultimi sviluppi così sofisticati. Spiace che tutto accada in maniera un po’ caotica, ma forse è nella natura degli avvenimenti storici: la vita è ciò che ti succede mentre fai altri progetti.

Inibizioni sociali e orientamento sessuale – fluIDsex

Ciao, conosco molte persone che mostrano attrazione verso il proprio genere da ubriache. Sarei curioso di sapere quanto sia imputabile all’effetto dell’alcol e quanto semplicemente al venir meno delle inibizioni autoimposte per via della società.

Purtroppo o per fortuna non esiste alcuna bevanda capace di farti fare cose che non proveresti normalmente da sobrio. Anche se uno degli effetti di qualche bicchiere di troppo è quello di influenzare i comuni meccanismi inibitori: “in vino veritas”.
L’inibizione quotidiana dei nostri comportamenti, pensieri o preferenze è probabilmente imputabile a quella che definiamo “morale della società”. Non è forse vero infatti che le aspettative, che siano proprie, dei nostri genitori o dei nostri amici, possono condizionare il nostro modo di essere? O che la religione giochi in ruolo importante nel definire cosa è buono e giusto e cosa no?
Legittimo quindi chiedersi se: “è possibile che la società ci influenzi così tanto da deviare i nostri gusti sessuali?”

I nostri gusti sessuali possono essere definiti o mutevoli nel tempo, in divenire come le esperienze che viviamo. La “morale della società” può però spingerci a nasconderli o rinnegarli: per istinto di conformità, per paura di essere giudicato diverso (ma diverso da chi?), per altre mille svariate ragioni. Vero anche che non c’è nessun manuale sul “come costruire la propria identità”. La sua costruzione è cosa faticosa per chiunque e senza dubbio per alcuni l’alcool è visto come un amico col quale e grazie al quale poter vivere esperienze che di norma non si affronterebbero: come l’avvicinarsi a una persona dello proprio genere!

Così, per quanto rifugiarsi dietro ad un “Ma ero ubriaco…!” sia molte volte più semplice, personalmente ritengo che l’alcool non possa aiutare una persona nel raggiungimento di una piena consapevolezza di sé, della propria identità sessuale, del proprio orientamento sessuale.
Il mio invito è quindi quello di sentirsi liberi di vivere la propria sessualità per quella che è e di soddisfare qualsiasi tipo di desiderio in ambito sessuale, sempre nel rispetto dell’altro, senza cercare per forza l’approvazione dell’amico di turno o ancor peggio dell’amico alcool.

Valentina Orlandi

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il cambiamento bottom up e la terza onda: Dimaggio sulle svolte del cognitivismo clinico

Nel loro recente editoriale Le svolte del cognitivismo clinico, Sassaroli e Ruggiero si interrogano sulle evoluzioni della terapia cognitiva e sulla svolta esperienziale della terza onda. Riflettono sull’approccio bottom-up al cambiamento terapeutico e in parte lo criticano.

I loro argomenti sono i seguenti:

1) Lavorare a partire dagli stati sensoriali/corporei da un lato implica un concetto di cognizione troppo vasto (tutto sarebbe cognizione), dall’altro il cognitivista che lavora a questo livello farebbe meno bene ciò che altri approcci, per esempio la sensorimotor therapy fanno da anni e meglio

2) L’approccio bottom-up trascurerebbe lo specifico della terapia cognitiva, ovvero il lavoro top-down, il percorso che va dal cambiamento delle idee al miglioramento sintomatico.

3) La terapia, nelle loro parole, diventerebbe: “un viaggio emotivo e un’esperienza relazionale in cui le nuove capacità regolative sboccerebbero sempre spontaneamente senza mai essere apprese esplicitamente, se non alla fine.” Il rischio, sempre secondo Sassaroli e Ruggiero, sarebbe di: “ridurre la psicoterapia a un’esperienza guidata e a un incontro relazionale. L’informazione recepita per via esperienziale e relazionale deve poi trasformarsi in rappresentazione consapevole nella sede della coscienza per poi essere gestita in termini di scopi personali che non possono essere che espliciti, scelte di vita pensate e non solo sentite e su cui il soggetto ha riflettuto consapevolmente. Altrimenti l’intera vita individuale si riduce a una serie di risposte a stimoli esperienziali mai davvero decise ma sempre e solo subite”.

Nessuna delle critiche, a mio parere, tiene.

 

La svolta esperienziale

Parto dal primo punto: la svolta esperienziale è perfettamente coerente con le teorie cognitive delle emozioni (Frijda, Johnson-Laird e Oatley e via dicendo), molto di più di quanto non lo sia la teoria adottata dalle varie forme di CBT. Un’emozione, soprattutto quelle di base, può attivarsi senza una cognizione cosciente, ovvero senza il B dell’ABC. Come dicevano Oatley e Johnson-Laird, le emozioni di base possono attivarsi senza consapevolezza della causa. Esiste una componente cognitiva, chiamata appraisal che è parte definitoria dell’esperienza emotiva. Provare rabbia significa configurare il mondo come ostile al nostro scopo. Questo livello è implicito, pre-conscio, ma sempre uno stato cognitivo.

Poi c’è tutto il lavoro di Damasio che mostra come stati somato-affettivi influenzano la costruzione di scene mentali e la formazione di ragionamenti e decisioni. Insomma, l’approccio bottom-up va a poggiarsi su queste teorie delle emozioni, cosa che la CBT ha sempre trascurato, focalizzandosi solo sul percorso indicato da Lazarus che va dall’inferenza all’emozione, e dimenticandosi di Zajonc e del suo motto: “preferences need no inferences”

La seconda replica al primo punto è che lavorare sulla parte esperienziale significa lavorare meno bene di chi la usava da più tempo e quindi meglio di noi. In realtà non è una critica utile: significa che il cognitivismo non può apprendere da altro. E non si può imparare? Ogni forma di psicoterapia ha storicamente assimilato approcci di altre fonti, perché fermare l’evoluzione della scienza? Comunque per quanto riguarda il dubbio in questione in realtà arriva a questione già risolta: gli approcci cognitivo esperienziali funzionano. La schema-therapy, che ne fa uso massiccio, ha potenti dati di efficacia. La self-compassion therapy anche e così la mindfulness. Perché porsi il cruccio che se da cognitivisti lavoriamo sulla dimensione bottom-up rischiamo di diventare meno efficaci, o comunque meno efficaci di altri, quando già sappiamo che questo non è?

 

L’approccio bottom up

Il secondo punto è che l’approccio bottom-up trascura la componente di riflessione conscia. La risposta a questo è semplice: non è vero. Per dire, la schema-therapy resta a tutti gli effetti una terapia cognitiva e tra gli obiettivi ha quello di cambiare schemi, ovvero punto di vista cosciente sul mondo. Per quanto riguarda la Terapia Metacognitiva Interpersonale, mi riferisco alla manualizzazione che abbiamo compiuto in Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013, l’importanza del cambiamento delle rappresentazioni esplicite resta totale e non abbiamo mai pensato diversamente. Si tratta solo della strada da percorrere.

La differenza è che noi non chiediamo “perché pensa così?” e “proviamo a vederla diversamente”. Noi partiamo da, per esempio: “lei si vede debole. Mi racconta un episodio?” A quel punto, se il paziente è d’accordo andiamo a rivivere l’episodio narrativo, magari durante un esercizio di immaginazione guidata. Durante l’esercizio per esempio la paziente può ricordare un episodio in cui è stata criticata dal padre e si è sentita incapace, fragile, stupida, vulnerabile o inetta. A quel punto il terapeuta può suggerire di provare a lavorare sullo stato corporeo per esempio adottando una postura più tonica, stringendo le mani una contro l’altra e via dicendo. Poi chiede alla paziente se il senso di debolezza (fragilità e via dicendo) si sia  modificato. Spesso è quello che accade. A quel punto dopo una fase di riflessione si può tentare il rescripting e quindi di adottare una posizione mentale più tonica e, per esempio, rispondere al padre. Poi si chiede di nuovo un feedback sull’esprienza.

Una volta terminato il lavoro si riflette con la paziente su quanto è successo e la riflessione è altamente cognitiva e può suonare così: “Lei credeva di essere debole e di soccombere quando qualcuno la critica. Abbiamo visto che questa idea in parte è modulata dalle sensazioni corporee e lei ha un potere di agire su di essa che prima non conosceva. Poi abbiamo notato che quando rispondeva a suo padre la sua idea di sé era diversa, si vedeva competente, intelligente capace, anche se questa convinzione e questa sensazione era di breve durata. Però abbiamo visto che lei ha la capacità di cambiare idea, di vedere le cose diversamente”.

Si tratta né più né meno che di una ristrutturazione cognitiva, fatta però a partire non da semplici idee ma da ciò che il paziente ha vissuto e che quindi ricorderà più facilmente.

 

La ristrutturazione cognitiva

In questo modo abbiamo anche la risposta alla terza critica di Sassaroli e Ruggiero. La ristrutturazione cognitiva non avviene alla fine del percorso ed è solo l’epifenomento di esperienze nuove. È invece frutto di un lavoro che il terapeuta che utilizza tecniche che fanno leva sul cambiamento bottom-up compie seduta per seduta e l’idea è che questo migliori le capacità del paziente di riflettere (coscientemente) su se stesso, sia l’adozione di nuovi punti di vista.

Infine, Sassaroli e Ruggiero sostengono che con questi approcci i pazienti subiscono le esperienze e non decidono. È vero il contrario, con questi approcci i pazienti potenziano la loro agency e si confrontano sempre più con il fatto che i loro probleme nell’adottare azioni benefiche non dipendono dall’esterno ma dalle loro strutture cognitivo-affettive di attribuzione di significato. E lo capiscono nell’atto deliberato e cosciente di provare a comportarsi divertamente. “Quanto è difficile rispondere diversamente a mio padre, però mi rendo conto che ci posso provare e che quando ci riesco mi fa bene”. Scelto, deliberato ed esercitato. Ovvero apprendere dall’esperienza, non dalla teoria. Il vero apprendimento.

Mi sembra decisamente un modo di superare i tanti limiti tecnici del cognitivismo di seconda onda senza buttare al mare quanto di buono ha dato. I dati di efficacia già ci sono e la tecnica è in fase di affinamento.

Sessismo benevolo nelle donne e minore frequenza degli orgasmi?

Una nuova ricerca pubblicata all’interno di Archives of Sexual Behavior ha indagato se gli atteggiamenti sessuali delle donne possano influenzare la frequenza con cui esse sperimentano un orgasmo.

 Sessismo ostile e quello benevolo

[blockquote style=”1″]Attualmente non sappiamo ancora come le nostre ideologie possano costituire una base per il modo in cui pensiamo al sesso. Questo riguarda anche ciò che percepiamo essere sessualmente desiderabile, indesiderabile, o inappropriato[/blockquote] hanno dichiarato Emily Ann Harris, Matthew J. Hornsey e Fiona Kate Barlow.

[blockquote style=”1″]È quindi importante per studi futuri ampliare il campo di ricerca, al fine di indagare quale sia il funzionamento delle ideologie nel limitare o migliorare la nostra esperienza sessuale.[/blockquote]

La ricerca ha esaminato un concetto noto come benevolent sexism (sessismo benevolo), che si basa sulla Ambivalent Sexism Theory (teoria del sessismo ambivalente). La teoria sostiene che le opinioni pregiudizievoli delle donne possono essere raggruppate in due categorie principali: l’hostile sexism (sessismo ostile) e il benevolent sexism (sessismo benevolo).

Il sessismo ostile descrive l’avversione palese verso le donne, il sessismo benevolo, invece, descrive la convinzione che le donne siano donatrici e gentili, ma queste caratteristiche non possono funzionare correttamente senza l’aiuto di un forte partner maschile. Come hanno spiegato gli autori, il sessismo benevolo rappresenta l’idea di una passività femminile, e romanticizza la convinzione che le donne dovrebbero fare affidamento sugli uomini.

Lo studio: la relazione tra sessismo benevolo e frequenza degli orgasmi

I ricercatori hanno scoperto l’esistenza di una relazione indiretta tra il sessismo benevolo e la frequenza nell’esperire un orgasmo. Le donne che hanno approvato ed accettato il sessismo benevolo (come ad esempio l’idea che “le donne hanno bisogno di essere protette dagli uomini”) tendono anche a credere che gli uomini siano sessualmente egoisti. Di conseguenza, le donne che si affidano a tale credenza, tendono ad essere meno propense a chiedere ai partner di donare loro piacere, fenomeno che successivamente è stato associato con l’esperire orgasmi meno frequentemente.

Harris e i suoi colleghi, tuttavia, hanno dichiarato che un altro fattore che potrebbe essere associato al sessismo benevolo è che le donne che appoggiano tale prospettiva tendono ad avere più partner maschili contemporaneamente. Ricerche precedenti avevano trovato risultati che indicavano che le donne trovavano più semplice esperire orgasmi quando possedevano contemporaneamente più partner maschili. Tenendo conto che le donne che appoggiano il sessismo benevolo, potrebbero sentirsi obbligate ad avere rapporti sessuali con il partner, questo porta all’esperire più sesso, e di conseguenza a possedere una maggiore probabilità di provare un orgasmo.

In altre parole, le donne che appoggiano il sessismo benevolo sembrano essere meno propense a chiedere ai partner di donare loro piacere, il che si traduce nella possibilità di esperire un minor numero di orgasmi. Ma approvare il sessismo benevolo potrebbe anche portare le donne che hanno più partner maschili contemporaneamente ad esperire più sesso, portando la loro possibile frequenza di orgasmi a dati superiori alla media.

Aborto e disturbi mentali: incidenza e ricorrenza di patologie psichiatriche a seguito di un’interruzione di gravidanza

Nell’ultimo decennio sono state condotte un gran numero di ricerche e svariate review riguardo il rapporto tra aborto e disturbi mentali. Sebbene tale genere di studi implichino svariate difficoltà metodologiche, finora non è emerso alcun risultato significativo a favore dell’ipotesi che la cessazione della gravidanza incrementi il rischio di sviluppare una patologia psichiatrica.

 

Relazione tra aborto e disturbi mentali: i problemi metodologici

Tra i problemi metodologici che intervengono più spesso in questo campo di ricerca troviamo la difficoltà di misurare adeguatamente i disturbi mentali pre-esistenti, nonostante è probabile che questi siano predittivi dei disturbi mentali post-aborto.

Alcuni studi hanno controllato l’effetto dei disturbi mentali pre-esistenti sulla relazione tra aborto e disturbi mentali, tuttavia ciò è stato fatto per mezzo di questionari self-report retrospettivi, che non sono in grado di stabilire esattamente se e quale delle due evenienze ha un rapporto di causa-effetto con l’altra. Altri studi, invece, si sono limitati ad annoverare alcuni tra i disturbi mentali pre-esistenti, ignorandone altri, o si sono basati sui resoconti dei dottori di famiglia o psichiatri, metodologia che può condurre a pericolose perdite di informazioni.

Una seconda difficoltà consiste nel fatto che spesso gli studi si riferiscono a gruppi di controllo inadeguati, come donne che non sono mai state incinte o che non hanno abortito.

Infine, l’ultima problematica intrinseca alle ricerche riguardo la relazione tra aborto e disturbi mentali, per ovvi motivi, consta nell’impossibilità di assegnare casualmente le donne al gruppo di controllo o a quello delle donne che hanno abortito; ciò fa sì che la compatibilità tra i gruppi non sia elevata, sebbene sia possibile calmierare questo effetto per mezzo di alcune strategie durante le analisi statistiche. Una di queste è il matching, che permette di analizzare un non-esperimento come se fosse un esperimento, in quanto appaia uno ad uno i soggetti rispetto alle variabili in questione per rendere più o meno equivalenti i gruppi.

 

Lo studio

Un recente esperimento pubblicato sul Journal of Psychiatric Research ha utilizzato proprio questa tecnica, appaiando i partecipanti rispetto alle covariate potenzialmente confondenti; l’obiettivo era appunto stabilire l’incidenza e la ricorrenza dei disturbi mentali dopo un aborto (follow-up a 2.5 – 3 anni). I dati relativi alle partecipanti (età compresa tra i 18 e i 46 anni) provenivano dal Dutch Abortion and Mental Health Study (DAMHS) ed erano appaiati ai soggetti della coorte di riferimento presa dal Netherlands Mental Health Survey and Incidence Study-2 (NEMESIS-2), inoltre tutte le donne che avevano abortito riferivano come la gravidanza fosse stata non voluta. Le partecipanti del DAMHS erano state intervistate tra 20 e 40gg dopo l’aborto (T0) e di nuovo circa 2.7 anni dopo (T1).

La presenza dei disturbi mentali veniva valutata per mezzo della Composite International Diagnostic Interview (CIDI) versione 3.0, secondo i criteri del DSM-IV. Le patologie prese in analisi appartenevano a tre macrocategorie: disturbi d’ansia (disturbo di panico, agorafobia, fobia sociale, disturbo d’ansia generalizzato), disturbi dell’umore (depressione maggiore, distimia, disturbo bipolare) e disturbi da uso di sostanze (abuso di alcol/droga e dipendenza).

Le covariate considerate erano l’età (18-24, 25-34 e 35-46), la living situation (ovvero se le partecipanti vivevano o meno con un partner), l’avere dei figli, l’etnia (occidentale o meno, basandosi sulla definizione del Central Bureau of Statistics Netherlands), il credo religioso, la situazione lavorativa (lavoro pagato o non pagato), livello educativo, la zona di residenza (rurale o urbana). Un’ulteriore covariata era l’abuso (fisico, sessuale o psicologico e la trascuratezza emotiva) in età infantile, in quanto è dimostrato che può predisporre sia all’aborto che all’insorgenza di disturbi mentali (Steinberg & Tschann, 2013).

Dalle analisi statistiche emergeva come le donne che avevano abortito erano complessivamente più giovani, più spesso single, senza figli, di etnia non occidentale, non religiose, disoccupate, residenti in un’area urbana e più spesso vittime di abusi infantili, rispetto alla coorte di riferimento. Non vi erano differenze nel livello di educazione.

 

Risultati

Incidenza

Le partecipanti provenienti dalla coorte DAMHS evidenziavano un’incidenza maggiore di disturbi mentali (disturbi d’ansia, dell’umore e da abuso di sostanze), tuttavia una volta appaiate per le covariate in analisi, tutte le percentuali di incidenza si abbassavano e la significatività tra gruppo sperimentale e di controllo scompariva (disturbi d’ansia e da uso di sostanze p > .20, disturbo dell’umore p = .08).

Ricorrenza

Come sopra, prima dell’appaiamento, le partecipanti provenienti dal DAMHS mostravano una probabilità significativamente maggiore di ricorrenza per i disturbi d’ansia. Tuttavia, dopo l’appaiamento, i risultati non erano più significativi.

 

Conclusioni

Osservando i risultati è impossibile attribuire le differenze tra le due coorti all’evento dell’aborto, ma al contrario sembrano essere dovute ad una certa quantità di variabili co-occorrenti. Perciò sembra poco probabile che l’aborto incrementi il rischio di sviluppare e mantenere un disturbo psichiatrico; tale risultato è in linea con le precedenti evidenze scientifiche sul rapporto tra aborto e disturbi mentali.

L’efficacia della Cognitive remediation therapy per le pazienti con Anoressia Nervosa

Questo articolo presenta una revisione critica degli studi presenti in letteratura sull’efficacia della Cognitive remediation therapy (CRT) per le pazienti con Anoressia Nervosa. La Cognitive Remediation Therapy è una tipologia di intervento focalizzato al miglioramento della flessibilità cognitiva. Si tratta di un intervento clinico manualizzato composto da più versioni di una serie di esercizi cognitivi e comportamentali che affrontano le difficoltà di rigidità del pensiero tipiche dei disturbi del comportamento alimentare

Chiara Caulo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono una delle patologie psichiatriche maggiormente diffuse, pertanto, hanno assunto un rilievo clinico-scientifico di notevoli dimensioni. L’anoressia nervosa (AN) è un disturbo mentale multifattoriale caratterizzato da comportamenti alimentari patologici (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Si tratta di un grave disturbo, che in alcuni casi rappresenta un fattore di rischio per la vita di queste pazienti (Arcelus J, 2011). Inoltre mostra una significativa comorbidità con disturbi psichiatrici e danni fisici secondari alla denutrizione (Keilen M, 1994).

Dai dati epidemiologici riportati in letteratura si evince che i sintomi della malattia si manifestano più comunemente nella tarda adolescenza, con un tasso di prevalenza del 0,5-0,7% tra le femmine adolescenti tra i 15 ei 19 anni (Hoek HW, 2003). Nel DSM-5, l’ Anoressia é caratterizza dalla presenza dei seguenti sintomi: restrizione dell’apporto calorico che porta ad un peso corporeo significativamente basso; intensa paura di diventare grassi o di aumentare di peso; alterazione della percezione dell’individuo rispetto alla forma e al peso del proprio corpo che influisce sui livelli di autostima.

L’alta prevalenza di questi disturbi nella popolazione adolescenziale e giovanile, nonché la complessità delle manifestazioni sintomatologiche e la resistenza al trattamento, hanno suscitato un crescente interesse verso tali problematiche. Gli approcci attualmente applicati nel trattamento del disturbo sono numerosi: la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia interpersonale (IPT), terapia cognitivo-analitica (CAT), la terapia basata sulla famiglia (FBT) (per bambini e adolescenti), consulenza nutrizionale, ecc ., ciò nonostante gli studi randomizzati e controllati (RCT) esistenti sono limitati (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Le attuali ricerche sull’efficacia dei trattamenti per i Disturbi del comportamento alimentare individuano la “Family-based Treatment-Maudsley Approach” come trattamento più efficace per gli adolescenti con Anoressia Nervosa (AN), con una previsione di efficacia del trattamento del 70-80% degli adolescenti (National Institute for Clinical Excellence, 2004); (Eisler, 2007); (Lock, 2010). Tuttavia, un sottogruppo di questi pazienti non risponde in maniera ottimale ai trattamenti esistenti, pertanto potrebbe beneficiare di trattamenti alternativi.

Negli ultimi anni, vi è stato un aumento sostanziale degli studi che indagano l’impatto dei deficit neuropsicologici sui DCA. L’attenzione è stata posta in primo luogo nello stabilire fino a che punto le debolezze in termini di flessibilità cognitiva (impossibilità di spostare o cambiare le strategie mentali e comportamentali) e di coerenza centrale (attenzione ai dettagli a scapito degli aspetti globali / contestuali) contribuiscono allo sviluppo, alla resistenza al cambiamento e alle probabilità di recupero della malattia (Bühren K, 2012) (Tenconi E, 2010) .

I dati attualmente presenti in letteratura mostrano che i pazienti con un DCA presentano deficit specifici nel funzionamento neuropsicologico relativamente alla flessibilità cognitiva (Tchanturia K H. A., 2011). In particolare, le ricerche relative agli aspetti neurocognitivi di pazienti adulti con Anoressia Nervosa mostrano difficoltà specifiche di “set-shifting” (Tchanturia K H. A., 2011) difficoltà di coerenza centrale (capacità di cogliere gli aspetti globali vs attenzione ai dettagli) (Lopez C. T., 2008) (Tenconi, 2010) e un QI superiore rispetto alla popolazione sana di controllo (Lopez C. S., 2010).

Le difficoltà di “set-shifting” inficiano la capacità di muoversi in maniera flessibile tra le operazioni e le strategie cognitive (Tchanturia K D. H., 2012). Le difficoltà nei processi cognitivi associati ad un ampia gamma di disturbi psichiatrici (schizofrenia, disturbi dello spettro autistico, disturbo ossessivo-compulsivo) sono risultate sensibili alla Cognitive Remediation Therapy-CRT (Bowie C, 2012) (Wykes T H. V., 2011) (Buhlman, 2006).

I risultati dimostrano che migliorando l’inefficienza e la compromissione dei processi cognitivi attraverso la Cognitive Remediation Therapy, non solo si modificano i processi cognitivi trattati, ma si nota un miglioramento relativo anche nei problemi psicosociali e comportamentali associati (Bowie C, 2012) (Wykes T H. V., 2011) .

La Cognitive Remediation Therapy è stata originariamente ideata e sviluppata per pazienti affetti da lesioni cerebrali (C. Lindvall Dahlgren, 2014), ma nel corso degli ultimi 50 anni, la sua applicazione è stata gradualmente adattata al trattamento di pazienti che soffrono di differenti disturbi. In psichiatria, nei primi anni ’90, la Cognitive Remediation Therapy è stata inizialmente applicata alle disfunzioni cognitive dei pazienti affetti da schizofrenia, a tale periodo risale un ampio corpus di lavoro che descrive i risultati positivi della Cognitive Remediation Therapy per questo gruppo di pazienti (Kurtz, 2012) (Wykes T S. W., 2011).

Tale approccio ha avuto successo anche nel trattamento di altri disturbi mentali, come: i disturbi dell’umore (Bowie CR, 2013), il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) (Stevenson CS, 2002), la dipendenza da alcol (Rupp CI, 2012), la depressione geriatrica (Morimoto SS, 2012) e il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) (Buhlmann U, 2006).

La Cognitive Remediation Therapy per il trattamento dell’Anoressia è un approccio terapeutico con una storia relativamente breve. Per questo gruppo di pazienti, l’intervento è stato inserito come supplemento ai trattamenti tradizionali, in un’ ottica di trattamento multidisciplinare dei DCA.

Tale intervento è focalizzato sul processo di pensiero (il come), piuttosto che il contenuto (il cosa). In contrasto con gli interventi tradizionali, in cui gli obiettivi fondamentali riguardano l’aumento dell’assunzione di cibo e lo sviluppo di strategie efficaci per affrontare i sintomi specifici del DCA (come la preoccupazione per il peso e la forma), la Cognitive Remediation Therapy non ha tali obiettivi, nè tratta direttamente questi aspetti. Infatti, nella Cognitive Remediation Therapy l’obiettivo è principalmente quello di diminuire la rigidità del pensiero (cioè aumentare la flessibilità) e raggiungere un equilibrio tra strategie di elaborazione delle informazioni dettagliate e globali. Negli adulti con Anoressia Nervosa, la Cognitive Remediation Therapy è stata sperimentata con risultati promettenti in differenti tipologie di setting: in pazienti in regime ambulatoriale (Pitt, 2010) (Tchanturia K. D., 2007), in pazienti ricoverati (Tchanturia K. D., 2008), in un setting individuale e di gruppo (Genders, 2010).

Per esempio, la Cognitive Remediation Therapy ha dimostrato la sua efficacia per i pazienti con un DCA, nella misura in cui ha ottenuto un feedback qualitativo positivo (Whitney, 2008) e bassi tassi di abbandono (Tchanturia K. D., 2008). Alcuni studi hanno mostrato miglioramenti significativi nei partecipanti dell’esperimento (Tchanturia K. D., 2008) rispetto alle misure self-report di flessibilità cognitiva. Tali risultati suggeriscono che la Cognitive Remediaton Therapy potrebbe essere utilizzata come pre-intervento, o come intervento congiunto ad altri tipi di terapie psicologiche (Tchanturia K. L., 2010) (Easter, 2011).

 

Cognitive remediation therapy (CRT)

La Cognitive Remediation Therapy per Anoressia è una tipologia di trattamento che incoraggia le persone a riflettere e a tentare di modificare il loro stile di pensiero, con una particolare attenzione al miglioramento della flessibilità cognitiva. Si tratta di un intervento clinico manualizzato composto da più versioni di una serie di compiti ed esercizi mentali che affrontano le difficoltà in termini di flessibilità e di elaborazione olistica (Baldock E, 2007) (Pretorious N, 2007).

In particolare, la Cognitive Remediation Therapy per Anoressia è costituita da un modulo di 10 sessioni, in cui l’operatore e il paziente si incontrano due volte a settimana per 30-45 minuti (durata media di ogni sessione), per lavorare in modo collaborativo allo svolgimento di semplici compiti cognitivi e riflettere su di essi (Hambrook, 2010). L’obiettivo generale di queste sessioni è quello di incoraggiare i pazienti a riflettere sui loro stili di pensiero, sulle strategie di elaborazione dell’informazione e sui comportamenti messi in atto, al fine di aiutarli ad applicare nuove strategie più adattive, mediante l’attuazione di piccoli cambiamenti comportamentali nella loro vita quotidiana.

La Cognitive Remediation Therapy nella sua forma attuale è strutturata in un protocollo specifico. Al fine di valutare il beneficio clinico dell’intervento, i pazienti sono sottoposti a una valutazione neuropsicologica di base prima di iniziare il percorso terapeutico, i test utilizzati misurano le aree cognitive a cui sarà successivamente rivolto l’intervento, ovvero: le capacità di set-shifting e la coerenza centrale. Ove possibile, i pazienti sono valutati anche dopo aver completato le 10 sessioni di Cognitive Remediation Therapy, e 6 e 12 mesi per la valutazione di follow-up. Come precedentemente accennato, la Cognitive Remediation Therapy comprende dieci sessioni di 30-45 minuti, che sono generalmente organizzate nel seguente ordine (Hambrook, 2010):

Sessioni 1-3 : sono dedicate a costruire una relazione terapeutica collaborativa e ad illustrare ai pazienti la logica e il razionale della Cognitive Remediation Therapy. Tali sessioni sono fondamentali per mettere a conoscenza i pazienti degli stili di pensiero che mettono in atto nella vita quotidiana e del ruolo che quest’ultimi hanno nel mantenimento e nel peggioramento dei sintomi alimentari. In queste sessioni verranno intavolate una serie di discussioni focalizzate sui problemi cognitivi comunemente sperimentati dalle pazienti con Anoressia. Tali discussioni offrono non solo la possibilità di normalizzare il proprio stile cognitivo (punti di forza e di debolezza), ma consentono all’operatore di rispondere con sensibilità e empatia a queste tematiche, contribuendo così a costruire una buona relazione terapeutica. Molti degli esercizi utilizzati nella Cognitive Remediation Therapy incoraggiano un’interazione giocosa tra l’operatore e il paziente. Inoltre, i pazienti sono incoraggiati a fare collegamenti tra ciò che stanno osservando su se stessi nelle sessioni e come questo si adatta al loro pensiero e al comportamento che mettono in atto nella vita quotidiana.

Sessioni 4-6: in queste sessioni sono inseriti altri compiti ed esercizi specifici che includono la progettazione e la pratica di piccoli esperimenti comportamentali, assegnati alla fine delle sessioni da svolgere al di fuori della terapia. Lo scopo di queste attività è quello di rafforzare le strategie che sono state discusse durante le sessioni e aumentare la generalizzazione comportamentale. All’inizio di ogni sessione vengono discussi i feedback sui compiti a casa.

Sessioni 6-8: in queste sessioni viene dedicato maggior tempo alla progettazione e alla discussione degli esperimenti comportamentali, oltre che alla tradizionale pratica degli esercizi cognitivi. I pazienti sono incoraggiati ancora una volta a fare collegamenti tra le strategie e i comportamenti che hanno messo in pratica nelle sessioni e le loro esperienze di vita reale.

Sessione 9: segue lo stesso format delle sessioni 6-8, tuttavia, l’ attenzione è posta sui modi alternativi futuri con cui i pazienti potrebbero mettere in pratica ciò che hanno imparato nella terapia Cognitive Remediation Therapy. Vengono, inoltre, discusse e studiate diverse strategie che aiuteranno i pazienti a mantenere la maggiore flessibilità cognitiva acquisita.

Sessione 10: prevede un momento dedicato alla raccolta e alla discussione dei feedback del paziente relativamente alla terapia, una sintesi di quanto è stato realizzato e uno scambio di lettere addio. Anche gli operatori sono invitati a scrivere una lettera ai loro pazienti, incentrata sui loro punti di forza e sul cambiamento relativo ai loro stili di pensiero e ai comportamenti. Il tono di queste lettere è sempre positivo e motivazionale. Le lettere di addio hanno diversi obiettivi. In primo luogo, forniscono una fine identificabile alla terapia Cognitive Remediation Therapy, riassumono ai pazienti quanto è stato fatto finora e come le loro nuove strategie acquisite potrebbero essere utilizzate in futuro. In secondo luogo, le lettere da parte dei pazienti rivolte agli operatori sono molto utili, in quanto permettono di evidenziare gli aspetti della Cognitive Remediation Therapy che sono soggettivamente utili per i pazienti e consentono di suggerire modalità innovative in cui l’intervento potrebbe essere migliorato nel suo futuro sviluppo.

 

Studi sull’efficacia

Il primo studio sulla Cognitive Remediation Therapy per Anoressia è stato pubblicato nel 2005 (Tchanturia H. D., 2005), e riporta i risultati di un studio su un singolo caso, il quale illustra l’uso della Cognitive Remediation Therapy per una paziente adulta ricoverata, la quale rifiutava la partecipazione al trattamento di base offerto. I materiali utilizzati sono stati adattati da quelli utilizzati nella Cognitive Remediation Therapy per il trattamento della schizofrenia non essendo ancora presente una manualizzazione per l’Anoressia.

Nel coso degli anni successivi alla prima pubblicazione, gli studi sull’efficacia di questo tipo di trattamento si sono moltiplicati, inoltre, la ricerca sulla Cognitive Remediation Therapy per Anoressia si sta sempre di più avvicinando, dal punto di vista metodologico, al mondo della ricerca definita “gold standard” (RCT) per testare l’effetto di uno specifico approccio di trattamento. Ciò nonostante, in parte a causa della breve storia di questa tipologia di trattamento, in letteratura sono presenti un numero relativamente ristretto di studi RCT. Per tale ragione di seguito verranno riportati risultati riscontrati in differenti tipologie di pubblicazione (casi singoli; studi su una serie di casi; e ricerche RCT).

 

Studi su singoli casi

Come precedentemente accennato, i primi studi pubblicati relativamente all’efficacia della Cognitive Remediation Therapy sono stati studi su singoli casi e i materiali adottati sono stati adattati dal modulo set-shifting del lavoro di Delahunty e Morice sui pazienti con schizofrenia (Delahunty A, 1993).

Il primo studio (Tchanturia H. D., 2005) aveva come obiettivo quello di illustrare come la Cognitive Remediation Therapy potesse essere utilizzata per stimolare le attività mentali e migliorare le capacità di pensiero dei pazienti con Anoressia (C. Lindvall Dahlgren, 2014). I risultati di questo studio mostrano un marcato miglioramento nelle abilità cognitive di set-shifting dopo 10 sedute (Tchanturia H. D., 2005).

Mediante un secondo studio (Tchanturia K W. J., 2006) gli autori affermarono che la Cognitive Remediation Therapy poteva essere utilizzata come un training intensivo precedente al trattamento per i pazienti resistenti al cambiamento (C. Lindvall Dahlgren, 2014). Nell’ultimo studio di questi tre studi di casi singoli (Pretorius N, 2007), viene introdotto il concetto di attività comportamentali (spesso definito in studi successivi come compiti a casa) come parte integrante del lavoro terapeutico con il paziente, con l’obiettivo di facilitare l’attuazione delle nuove strategie apprese in situazioni di vita quotidiana. I risultati di questo studio mostrano un aumento del BMI della paziente a seguito della terapia e nonostante la ripetitività dei compiti, la paziente si dimostrò in grado di sviluppare nuove strategie più flessibili da mettere in pratica nella vita quotidiana.

 

Studi di casi

Questa tipologia di ricerche presenta diverse differenze riguardanti i più disparati aspetti: metodologici (composizioni campione, dimensione del campione, età, tipologia di presa in carico); tipologie di intervento (terapia individuale, di gruppo, familiare, ecc); l’intensità del trattamento; e valutazione dei risultati (qualitativi o quantitativi, tipologia di strumenti di valutazione). Tali discrepanze hanno reso difficile il confronto tra gli studi e pertanto risulta impossibile una generalizzazione e una comparazione dei risultati ottenuti nei diversi studi (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Uno dei dati che riscontra una maggiore risonanza nei diversi risultati degli studi presenti in letteratura, è l’influenza della Cognitive Remediation Therapy sui livelli motivazionali e un resoconto positivo dei feedback delle pazienti (Genders, 2010) (Easter, 2011) (Pretorius, 2012) (Tchanturia K., 2016). Un altro risultato comune che si riscontra nei diversi studi è un miglioramento della flessibilità cognitiva, seppur non sempre avvalorato da dati statisticamente significativi (Tchanturia K. D., 2007) (Tchanturia K. D., 2008) (Genders, 2010). Infine, in un relativamente ridotto numero di studi si riscontrano dei risultati statisticamente significativi (C. Lindvall Dahlgren, 2014): un decremento significativo degli aspetti depressivi (Tchanturia K. D., 2008); miglioramenti significativi nella performance cognitiva relativa ai compiti Brixton & CatBat (Tchanturia K. D., 2008); aumenti statisticamente significativi nei self-report relativi alla capacità percepita di cambiamento (Genders, 2010); significativo miglioramento sulla regolazione degli impulsi e sulla consapevolezza interocettiva (Abbate-Daga G, 2012); modifiche significative del peso, degli aspetti depressivi, della memoria visuo-spaziale, dell’elaborazione di informazione globale e verbale (Dahlgren CL, 2014).

 

Studi clinici controllati- RCT

I più recenti studi controllati (RCT) sulla Cognitive Remediation Therapy per Anoressia restringono il campione ad una popolazione adulta, ciò nonostante rappresentano un passo da gigante in termini di potenza di misurazione e di valutazione degli effetti di intervento (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Uno di questi studi (Brockmeyer T, 2013) ha paragonato la fattibilità e l’efficacia del training specifico della Cognitive Remediation Therapy rispetto ad un trattamento neurocognitivo non specifico. I risultati dimostrano che i partecipanti che hanno seguito il training CRT riportano punteggi superiori nei compiti di set-shifting, mentre, entrambi i gruppi hanno mostrato un alto grado di accettazione del trattamento. Un altro studio (Dingemans AE, 2014) ha confrontato gli effetti dei trattamenti tradizionali rispetto al trattamento combinato con la Cognitive Remediation Therapy. I risultati dimostrano che il trattamento combinato comporta migliori punteggi in termini di qualità della vita e sintomatologia alimentare (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

 

Ricerche future

La conclusione principale di questa rassegna è che vi sono numerose evidenze scientifiche del valore positivo dell’utilizzo del training Cognitive Remediation Therapy per l’Anoressia. Con l’emergere di recenti studi RCT, ulteriori dati suggeriscono che l’intervento è efficace sia in termini di una maggiore efficacia dei trattamenti tradizionali, sia relativamente al miglioramento della flessibilità cognitiva, in particolare nelle funzioni di set-shifting.

Per incrementare ulteriormente la nostra comprensione dei meccanismi di azione della Cognitive Remediation Therapy, gli studi futuri dovrebbero concentrarsi su: l’esplorazione a lungo termine degli effetti del trattamento; investigare l’influenza di variabili moderatrici degli effetti, come la comorbidità (per esempio la depressione, l’ansia e OCD), la gravità della malattia, la durata della malattia, gli stili di personalità, ed altre caratteristiche del paziente pre-trattamento; l’ elaborazione di studi RCT che esplorano l’efficacia della terapia negli adolescenti, utilizzando strumenti appropriati per l’età che tengano conto dell’eterogeneità del funzionamento neuropsicologico nei giovani individui; l’indagine degli effetti della Cognitive Remediation Therapy come trattamento congiunto alla terapia basata sulla famiglia (FBT) per le giovani ragazze con Anoressia.

Rincorrere le farfalle ovvero i benefici della distrazione

Demonizzare i momenti di distrazione significa non lasciare spazio alla creatività e al flusso di pensieri che scardinano in maniera innovativa ed originale problemi ai quali non riuscivamo a dare una soluzione.

I meccanismi che regolano l’attenzione

[blockquote style=”1″]La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono [/blockquote](A. Einstein)

Siamo circondati di proposte, seminari, manuali che ci vogliono aiutare a mantenere la concentrazione. Il senso comune vuole, infatti, che tale capacità sia foriera di maggiore produttività e quindi di maggiore successo. Ma è realmente così?

Daniel Goleman, padre della teoria sull’intelligenza emotiva, chiarisce bene quali sono i meccanismi che regolano la nostra attenzione. Da una parte i meccanismi bottom-up che, partendo dai circuiti neurali della parte subcorticale del nostro cervello, operano in maniera volontaria e automatica, intuitiva ed impulsiva e si occupano dei nostri modelli mentali del mondo (come relazionarci se ci troviamo ad una festa), dall’altra i meccanismi top-down (che hanno sede nella neocorteccia), responsabili dell’autocontrollo e della supervisione del nostro repertorio di automatismi. Se i primi sono reduci del nostro cervello “primitivo”, i secondi sono frutto dell’evoluzione e del mondo moderno, poiché regolano i capricci e gli impulsi che arrivano costantemente dal basso.

Sebbene questi due meccanismi lavorino in sincronia per permetterci di destreggiarci nella vita quotidiana, uno aiutandoci a focalizzarci su lavori cognitivamente impegnativi, l’altro elaborandoli per renderli automatici, gli studi rilevano che l’eccessiva doverizzazione all’attenzione coatta non produce altro che un sovraccarico cognitivo poco funzionale al nostro benessere (e alla nostra produttività).

 

La distrazione e la creatività

Lo stato di default della nostra mente è ben rappresentato dall’immagine della mente vagante: demonizzare i momenti di distrazione significa non lasciare spazio alla creatività e al flusso di pensieri che scardinano in maniera innovativa ed originale problemi ai quali non riuscivamo a dare una soluzione.

Concentrandoci sugli indizi a disposizione, ignoriamo la varietà di alternative che possono aiutarci a risolvere quesiti di matematica complessi, creare testi ben articolati, a progettare il futuro, a rendere più flessibile la nostra concentrazione e così via, battendo strade ancora inesplorate.

Perché tali associazioni risultino libere, è anche necessario sperimentarle in contesti e momenti giusti. Viviamo in un mondo dove siamo continuamente bombardati da mail, inviti, eventi, dove non vi è la possibilità di vagare con la mente.
Ecco perché è necessario concedersi una pausa prima di riprendere a lavorare, sia per ripristinare i livelli di attenzione e concentrazione, ma anche per spegnere il chiacchiericcio mentale sempre focalizzato sul “me”, una sorta di stazione radio sempre sintonizzata che trasmette sempre e solo in prima persona singolare e…al negativo.

Una passeggiata nella natura o sedersi accanto ad un quadro che riproduce uno scenario naturale sono altamente consigliati e preferibili alla camminata in centro o alla routine di controllo delle mail. Lo scopo è quello di non dover necessariamente focalizzare la nostra attenzione su un compito cognitivo affinché le nostre reti neurali possano ripristinarsi.

Trauma post-terremoto, quelle crepe che il sisma lascia nella mente

Il crollo della casa è solo l’inizio: in una situazione di pericolo senza via di fuga si creano le condizioni per il trauma. Una reazione emotiva che si sedimenta nella coscienza e condiziona il futuro e la serenità delle persone che la subiscono. 

Articolo di Giovani Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 05/11/2016

 

Forse è banale dirlo, ma un terremoto come quello che sta colpendo ripetutamente l’Italia è, a tutti gli effetti, un trauma. In psicologia il trauma è un tema su cui solo da poco si è cominciato a capire qualcosa. Ci si è baloccati (un po’ troppo?) per tutto il novecento con la vita interiore, con le fantasie interne e inconsce e con i pensieri cognitivi dai quali tutto dipende e così si sono sottovalutati tutti i fatti esterni al soggetto. Nel buon senso dei non esperti, invece, lo si era capito da tempo: il trauma è una cosa dura che spella vivo chi ci passa.

La sofferenza dipende da quel che pensiamo, il trauma è un’altra cosa. È una buona notizia, allora, che da un po’ di tempo gli psicologi hanno a disposizione migliori strumenti per la comprensione e l’intervento, ed è un’altra buona notizia anche il fatto che questi strumenti siano abbastanza diffusi nel servizio sanitario italiano, in questi giorni impegnato nei soccorsi – e, si teme, lo sarà ancor di più lo sarà negli anni futuri, in quella che si annuncia come una lunga assistenza.

Un trauma è una condizione estrema di minaccia all’integrità e alla sopravvivenza fisica, cui l’organismo risponde in maniera altrettanto estrema. Sono reazioni che danno qualche probabilità in più di sopravvivenza di fronte al pericolo, a un costo psicologico, però, molto pesante col quale si fanno i conti negli anni successivi. Di fronte alle minacce non estreme l’essere vivente reagisce fuggendo o contrattaccando, come sappiamo. Il trauma invece ha luogo quando la fuga è impossibile, quando si sta con le spalle al muro e guardando in faccia la morte.

In queste condizioni l’organismo – sembrerà paradossale – a sua volta simula la morte. Non per anticiparla, ma perché il freezing, cioè una brusca ed estrema riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri nervosi superiori e inferiori, risulta la reazione più adeguata per sopravvivere in una condizione senza scampo. L’animale, o la persona, di fatto sviene e la sua muscolatura si immobilizza e le sensazioni periferiche scompaiono.

Ha senso agire in questo modo di fronte a un tipo particolare di minaccia: l’attacco di un predatore che impedisce la fuga. A queste condizioni simulare la morte può essere uno scampo: molti predatori mangiano solo prede vive. In altri tipi di pericoli, però, si tratta di una reazione non sempre appropriata. Ad esempio, durante l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre, le persone presenti nelle torri reagirono con velocità dimezzata rispetto a quanto previsto nelle esercitazioni: attesero in media sei minuti prima di iniziare a fuggire e impiegarono in media circa un minuto per scendere ogni piano. In quel caso il rallentamento delle reazioni mentali e muscolari, un freezing parziale, non fu affatto di aiuto. I pochi che si salvarono scendendo dai piani superiori furono quelli che avevano reagito fuggendo immediatamente e alla massima velocità.

La nostra mente evoluta ha moltiplicato all’infinito le capacità di analisi dei problemi. Purtroppo però il repertorio delle soluzioni resta sempre limitato. Tante analisi e ragionamenti per poi ritrovarsi con lo stesso misero mazzo di quattro carte da giocare di un animale non sapiens: fuggire, attaccare, attendere e svenire. E pensare? Certo, ma in un trauma è solo un modo raffinato di attendere. Chi si salvò l’11 settembre non era un pensatore.

Insomma, sono tutte soluzioni abbastanza limitate. Abbiamo difficoltà ad accettare questi limiti. È la stessa difficoltà che in questi giorni impedisce a qualcuno di accettare che un terremoto non può essere previsto dalla scienza moderna. Poi si può rimuginare a lungo e con qualche ragione sui metodi di costruzione edilizia più recenti, fatto sta che le sciagure naturali sono difficili da considerare. Meglio prendersela con qualcuno.

Passata la sciagura, il trauma diventerà sempre più un problema psicologico, cioè si concretizzerà in quella reazione psicologica al trauma che abbiamo descritto e che, in termini tecnici, va sotto il nome di “dissociazione”. Già di utilità molto parziale durante il pericolo, la dissociazione mentale diventa definitivamente dannosa nei giorni, nei mesi e negli anni che seguono alla disgrazia. Il trauma non è solo un evento accaduto nel passato, ma lascia un’impronta psicologica nel presente della mente, del cervello e del corpo. È un’impronta che determina una profonda trasformazione del modo in cui pensano le persone traumatizzate: vivono costantemente nel passato traumatico, hanno difficoltà a capire cosa stia accadendo intorno a loro e subiscono una seria compromissione della capacità di immaginazione e della flessibilità mentale. Ciò limita la loro capacità di contemplare il futuro, di avere progetti e desideri. Vivono in un persistente stato di paura e allarme.

Il trattamento psicologico di queste persone, per fortuna, ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni. Gli interventi psicoterapeutici più efficaci, sia quello cognitivo-comportamentale che quello psicoanalitico-psicodinamico, partono dalla considerazione che non sempre tutta la sofferenza psicologica può essere imputata alle fantasie inconsce o ai pensieri disfunzionali dei pazienti. Questo ha permesso lo sviluppo di protocolli di cura basati sulla rieducazione emotiva e cognitiva di chi soffre, rieducazione che passa non solo attraverso il canale della consapevolezza e del ricordo di memorie temute ed evitate, ma anche attraverso una riacquisizione amichevole delle sensazioni corporee e, per questa via, delle emozioni e delle memorie traumatiche.

Il maggiore limite delle persone traumatizzate è l’incapacità di vivere ogni emozione, perfino quelle positive, in maniera tranquilla e normale. Per il traumatizzato ogni percezione finisce per essere un’esperienza insopportabile. Anche emozioni che nulla hanno a che fare con il trauma sono vissute con intensità terrificante, poiché la taratura della sensibilità percettiva si è spostata verso il basso e la dissociazione tra sensazioni periferiche e cervello finisce per trasformare ogni emozione in un intollerabile urlo interiore.

La rieducazione consiste in un lento lavoro di nuova familiarizzazione con le percezioni corporee. Apprezzare di nuovo la sensazione tattile delle mani sulla superficie di un tavolo può essere un primo passo per arrivate di nuovo a provare emozioni non solo di gioia, ma anche di tristezza, rabbia e soprattutto paura senza esserne sopraffatti.

 

* Un ringraziamento alla collega Loredana Musella, esperta di trauma, per la consulenza.

 

Francesco Borromini: l’architetto inquieto e la rivalità con il Bernini

Borromini: La diversità di carattere, di temperamento e di concezione artistica, insieme alla competizione professionale con il Bernini determinarono, tra i due architetti, una rottura che, ben presto, si trasformò in aperta rivalità.

La biografia

Francesco Borromini, nato Francesco Castelli (1599- 1667) era, secondo il suo biografo Filippo Baldinucci, “uomo di grande e bello aspetto, di grosse e robuste membra, di forte animo e d’alti e nobili concetti”.

Di origini ticinesi, il Borromini giunse a Roma intorno al 1614 per lavorare come scalpellino nel cantiere di San Pietro, alle dipendenze di suo zio, Carlo Maderno. Alla morte di quest’ultimo, il Borromini dovette rendere conto, in cantiere, a quello che sarebbe in seguito diventato il suo più acerrimo nemico, ovvero Gian Lorenzo Bernini che, dal 1629, assunse la carica di architetto della Fabbrica di San Pietro. Da Papa Urbano VIII (1623-44) il Bernini ricevette la commissione che consacrò ufficialmente il suo successo: l’erezione del baldacchino bronzeo per l’altare della confessione, realizzato con la collaborazione del Borromini, tra il 1624 ed il 1633.

Il difficile rapporto tra Borromini e Bernini

Lavorando insieme al baldacchino di San Pietro, l’incompatibilità di carattere dei due architetti ed il loro odio reciproco arrivarono ad un punto di non ritorno e, nel 1633, ci fu la rottura definitiva: da quel momento ognuno per la sua strada, tra denigrazioni reciproche, ripicche e cattiverie di dubbio gusto. La storia dell’arte è piena di diatribe tra artisti, celeberrima è quella che vide contrapposti, nel Rinascimento, Michelangelo, Leonardo e Raffaello, ma altrettanto celebre è il rapporto teso e burrascoso tra i due architetti del barocco romano.

La diversità di carattere, di temperamento e di concezione artistica, insieme alla competizione professionale determinarono, tra i due architetti, una rottura che, ben presto, si trasformò in aperta rivalità. Bernini era ricco, famoso, potente, ben introdotto nell’ambiente culturale romano, estroverso, mentre il Borromini era giovane, di umili origini, con un carattere introverso, scontroso ed umbratile. Secondo alcuni storici dell’arte il Bernini, accortosi del grande talento del suo aiutante, ne temeva la concorrenza e l’ascesa. Da qui sarebbero nati i continui tentativi di ostacolarne la carriera e di sfruttarne, in cambio di pochi danari, le eccezionali capacità tecnico-artistiche.

Il Bernini, magniloquente e molto sicuro di sé, era l’esatto opposto del Borromini, un uomo solitario e dal carattere scontroso, carattere che probabilmente influì nelle vicende personali ed artistiche della sua vita: a differenza del Bernini, il Borromini, infatti, non riuscì mai ad instaurare rapporti e relazioni con committenti prestigiosi e potenti; il suicidio, che ne concluse la carriera nel 1667, sancì drammaticamente il progressivo isolamento a cui il prevalere del “partito” berniniano finì per condannarlo negli ultimi anni.

Bernini e Borromini furono sempre in competizione o, per meglio dire, furono rivali per tutta la vita: la competizione, infatti, rappresenta una condizione in cui il raggiungimento di un determinato obiettivo da parte di una persona si associa inevitabilmente al fallimento dell’altra. La rivalità, invece, implica un coinvolgimento psicologico ulteriore. E alla rivalità si associa il sentimento di invidia (dal latino invidere, cioè guardare contro, guardare con ostilità), che può essere definita come quello stato d’animo in cui prevalgono il desiderio di possedere qualcosa che qualcun altro ha, oppure il desiderio che l’altro perda ciò che ha o rappresenta.

L’invidia, sentimento primitivo molto comune, non viene quasi mai dichiarato per non rivelare il senso di inferiorità che nasconde ed è un sentimento che provarono anche molti dei geni dell’arte: Leonardo era conscio del fatto che il giovane Michelangelo fosse un ottimo scultore. Il suo David era uno schianto. Eppure, quando si trattò di deciderne la collocazione, il da Vinci, in commissione urbanistica, propose di collocarlo all’ombra della Loggia dei Lanzi, per rendere meno evidenti le pecche del marmo. In realtà Leonardo fu mosso dal sentimento dell’invidia. Anche il cavalier Bernini era invidioso del giovane Borromini, di cui percepiva il grande talento, ma non lo ammetteva, anzi lo temeva.

Dietro all’invidia si possono celare diversi sentimenti: senso di inferiorità, oppure odio e/o rabbia per il successo dell’altro che sembra oscurarci. Bernini fu senza dubbio invidioso dell’inquieto architetto ticinese che, più volte, sembrò oscurarlo ed il suo pensiero e la sua condotta si concentrarono sulla continua svalutazione dell’antagonista.

Il Borromini era amareggiato a causa dello strapotere del Bernini, che lo denigrava e gli sottraeva spazio. Solo Papa Innocenzo X lo preferì al cavaliere Gian Lorenzo ed il periodo del suo pontificato rappresentò per il Borromini il momento più intenso per prestigiose committenze pubbliche. Tra queste la colonnata di Palazzo Spada, una piccola galleria che fu progettata in modo da dare l’impressione, a chi guarda dal cortile, di essere molto profonda, mentre in realtà non raggiunge i nove metri di lunghezza, una sorte di “inganno diabolico” commissionato dal cardinale Bernardino Spada, intellettuale colto e raffinato, molto interessato alla ricerca sulle visioni e sugli inganni ottici.

La morte di Borromini

Quando, con l’elezione di Papa Alessandro VII (1665), l’attività di Bernini riprese il suo passo trionfale, per l’artista ticinese l’umiliazione divenne insostenibile e così, il 2 agosto 1667, all’età di sessantotto anni, si gettò (o fu gettato) sopra una spada e si ferì gravemente, ma non morì subito. Seguì una lenta agonia, durante la quale, assistito da un prete e da un medico, riuscì a raccontare l’episodio per filo e per segno e a dettare il suo testamento.

La modalità violenta e letale dell’atto non era inconsueta per quell’epoca; il ferirsi con la spada, infatti, era proprio una delle più frequenti forme per darsi la morte. Occorre tuttavia ricordare che nella storia del Borromini non sono rinvenibili comportamenti violenti anche se era un uomo scontroso, chiuso in se stesso e con grandi difficoltà a relazionarsi con gli altri, a cui, ad un certo punto, “era entrata addosso l’impazienza”. Gli ultimi anni di vita, in particolare, gli riservarono senza dubbio grandi amarezze, ma gettarsi su una spada, trafiggersi il costato e riuscire a sopravvivere per un intero giorno, sembra un’impresa davvero difficile.

Si trattò davvero di suicidio? O piuttosto fu un “suicidio guidato”? E per conto di chi? Occorre ricordare che Borromini era ricchissimo (possedeva diecimila scudi, una cifra enorme per l’epoca), aveva un nipote che voleva diseredare e tanti nemici, tra cui uno acerrimo, il Bernini appunto. Furono davvero la precaria salute fisica e mentale a portare, irrimediabilmente, il Borromini al suicido? Da Rosso Fiorentino a Van Gogh, passando per Borromini, nella storia dell’arte, così come nella storia degli scandali finanziari, i casi di morti misteriose certo non mancano, non ultima quella consumatasi quella sera del 6 marzo 2013 nella sede della banca più antica del mondo, travolta da uno scandalo finanziario senza precedenti. La vita passata alle dipendenze emotive di altri spesso non lascia soluzione: le personalità dominanti e manipolatrici esercitano violenza psicologica su personalità dipendenti e pronte al collasso: si tratta di una forma sottile e perversa di abuso di una persona sull’altra e di una delle più potenti e distruttive forme di esercizio del potere e del controllo sull’altro.

Psicologia del pianto: il valore delle lacrime, quanto spendiamo per versarle e quanto ci guadagniamo?

Charles Darwin una volta dichiarò che le lacrime emotive sono “senza scopo” e circa 150 anni più tardi, la psicologia del pianto rimane uno dei misteri del corpo umano più contraddittori.

Nausicaa Berselli – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Mihael Trimble, neurologo comportamentale e professore emerito allo University College di Londra, uno dei massimi esperti al mondo di psicologia del pianto, si stava preparando a rilasciare un’intervista in un programma radiofonico della BBC quando l’intervistatrice gli fece una strana domanda: “Come mai alcune persone non piangono per nulla?” Ella spiegò che un suo collega sosteneva di non aver mai pianto; aveva persino invitato il collega a vedere “I Miserabili”, certa che avrebbe versato una o due lacrime, ma i suoi occhi rimasero asciutti. Trimble rimase senza parole. Lui ed una manciata di altri scienziati che studiano il pianto umano tendono a focalizzare le loro ricerche sugli occhi bagnati, non su quelli asciutti; così, prima che iniziasse la messa in onda, decise di istituire un indirizzo email, [email protected], e una volta in onda chiese agli ascoltatori che non piangono mai di contattarlo. In poche ore, Trimble aveva ricevuto centinaia di messaggi (Oaklander, 2016).

 

Psicologia del pianto: il valore adattivo del pianto emozionale

Abbiamo pochissime informazioni a proposito delle persone che non piangono. Infatti ci sono anche molti scienziati che non sanno, o non sono d’accordo, riguardo al fatto che esistano persone che non piangono.

Charles Darwin una volta dichiarò che le lacrime emotive sono “senza scopo” e circa 150 anni più tardi, il pianto emozionale rimane uno dei misteri del corpo umano più contraddittori. Si ritiene che alcune altre specie versino lacrime riflessivamente, come risultato di dolore o irritazione, ma gli umani sono le sole creature le cui lacrime possono essere provocate dai propri sentimenti.

Nei bambini, le lacrime hanno l’ovvio ruolo cruciale di sollecitare l’attenzione e la cura da parte delle figure d’accudimento (Trimble, 2012). Ma che dire degli adulti? La risposta a questo quesito è meno chiara. Hanno tentato di rispondere in uno studio i due scienziati esperti in psicologia del pianto Rotteberg e Vingerhoets (2012), costruendo una narrazione sulle motivazioni del pianto attraverso le varie età e sulle modalità con cui questo viene ad essere sempre più regolato; questo ha permesso di riunire varie ricerche ma anche di individuare le lacune, come il pianto in età adolescenziale o senile, che è stato fortemente trascurato.

E’ ovvio che le forti emozioni causino le lacrime, ma perché? C’è una sorprendente penuria di fatti certi a proposito di un’esperienza umana così fondamentale. Il dubbio scientifico che il pianto abbia qualche reale beneficio oltre a quello fisiologico di lubrificazione degli occhi è persistito per secoli. Oltre a ciò, i ricercatori hanno generalmente focalizzato la loro attenzione più sulle emozioni che sui processi fisiologici che sembrerebbero i loro sottoprodotti: “Gli scienziati non sono interessati alle farfalle nei nostri stomaci, ma all’amore” scrive Ad Vingerhoets (2013), un professore dell’Università di Tiburg nei Paesi Bassi, maggiore esperto al mondo in psicologia del pianto.

Ma il pianto è più di un sintomo di tristezza, come Vingerhoets ed altri stanno mostrando. Esso è stimolato da una gamma di sentimenti, che vanno dall’empatia e dalla sorpresa alla rabbia e all’afflizione e, diversamente da quelle farfalle che svolazzano invisibilmente quando siamo innamorati, le lacrime sono un segnale che gli altri possono vedere. Questa intuizione è centrale nel nuovo pensiero riguardante la psicologia del pianto.

Darwin non era l’unico con opinioni ferme riguardanti il perché gli uomini piangano. Secondo alcuni studi, le persone hanno fatto congetture sull’origine delle lacrime e sul perché gli uomini le versino sin dal 1500 a.C. circa. Per secoli le persone hanno pensato che le lacrime si originassero dal cuore; l’Antico Testamento descrive le lacrime come il risultato di quando il materiale del cuore si indebolisce e si trasforma in acqua. Più tardi, ai tempi di Ippocrate, si pensava che la mente scatenasse le lacrime. La teoria prevalente nel 1600 sosteneva che le emozioni, in particolar modo l’amore, riscaldassero il cuore, che generava vapore acqueo al fine di raffreddarsi. Il vapore del cuore sarebbe poi risalito alla testa, condensandosi vicino agli occhi ed uscendo sotto forma di lacrime (Vingerhoets, 2001).

Infine, nel 1662, uno scienziato Danese di nome Niels Stensen scoprì che la ghiandola lacrimale era il corretto punto di origine delle lacrime. Fu il momento in cui gli scienziati iniziarono a scartare l’ipotesi che le lacrime possedessero un possibile beneficio evolutivo. Secondo la teoria di Stensen le lacrime erano semplicemente un modo per tenere l’occhio umido (Vangerhoets, 2001).

 

Perché piangiamo? Diverse teorie a confronto

Pochi scienziati hanno devoluto i propri studi a cercare di scoprire perché gli uomini piangano, ma quelli che lo hanno fatto non sono concordi. Nel suo libro, Vingerhoets (2001) elenca otto teorie in competizione tra loro. Alcune sono assolutamente ridicole, come la visione degli anni ’60 secondo cui gli umani si sono evoluti da scimmie marine e le lacrime ci avrebbero quindi aiutato in passato a vivere nell’acqua salata. Altre teorie persistono nonostante la mancanza di prove, come l’idea divulgata dal biochimico William Frey nel 1985, secondo cui il pianto rimuove le sostanze tossiche che si sviluppano durante i periodi di stress dal sangue.

Sta crescendo l’evidenza a supporto di alcune nuove e più plausibili teorie. Una di queste sostiene che le lacrime inneschino il legame sociale e la connessione umana. Mentre la maggior parte degli animali nasce completamente formata, gli umani vengono al mondo vulnerabili e fisicamente non equipaggiati per affrontare qualcosa da soli. Anche se diveniamo fisicamente ed emotivamente più capaci durante la maturazione, gli adulti non invecchiano mai abbastanza per evitare l’incontro occasionale con l’impotenza. “Il pianto segnala a se stessi o ad altre persone che c’è qualche importante problema che è almeno temporaneamente oltre la propria abilità di affrontarlo” spiega Jonathan Rottenberg (2012), un ricercatore sulle emozioni e professore di psicologia all’Università della Florida del Sud.

I ricercatori nell’ambito della psicologia del pianto hanno anche trovato alcune evidenze del fatto che le lacrime derivate da emozioni sono chimicamente differenti da quelle che le persone versano quando ad esempio tagliano le cipolle (il che può aiutare a spiegare perché il pianto invii un segnale emotivo così forte agli altri). In aggiunta ad enzimi, lipidi, metaboliti ed elettroliti che formano le lacrime, quelle provocate dalle emozioni contengono più proteine (Stuchell, Feldman, Farris, Mandel, 1984). Un’ipotesi è che il contenuto maggiormente proteico renda tali lacrime più viscose, così che esse si appiccichino alla pelle in modo più tenace e scendano sulla faccia più lentamente, rendendole con più probabilità visibili agli altri.

Le lacrime mostrano anche agli altri che siamo vulnerabili, e la vulnerabilità è critica per la connessione umana. Le stesse aree neuronali che sono innescate dal vedere qualcuno emotivamente attivato sono le stesse che si innescano quando ci stiamo a nostra volta attivando emotivamente (Trimble, 2012). Ci deve essere stato qualche momento nella storia, evolutivamente, in cui le lacrime sono diventate qualcosa che automaticamente avviava l’empatia e la compassione negli altri. In effetti essere capaci di pianto emotivo ed essere capaci di rispondere ad esso, sono una parte molto importante dell’essere umano.

Una teoria meno commovente si focalizza sull’utilità del pianto nel manipolare gli altri. Noi impariamo presto che il pianto possiede questo reale potente effetto sulle altre persone. Esso può neutralizzare la rabbia in modo molto potente, e questa è in parte la ragione per cui si ritiene che le lacrime siano così essenziali nelle liti tra gli innamorati, in particolare quando qualcuno si sente in colpa e vuole il perdono da parte dell’altra persona. (Vangerhoets, Bylsma, Rottenberg, 2009).

Un piccolo studio sulla rivista “Science” (Gelstein, Yaara, Liron, Sagit, Idan, Yehudah, Sobel, 2011) suggeriva che le lacrime delle donne contenessero una sostanza che inibiva l’eccitazione sessuale degli uomini.  “Non voglio fingere di essere sorpreso che esso abbia generato titoli scorretti” – riferisce Noam Sobel, uno degli autori dello studio e professore di neurobiologia all’Istituto di Scienze Weizmann in Israele – “Le lacrime potrebbero ridurre l’eccitazione sessuale ma il fatto più importante – lui pensa –è che esse potrebbero ridurre l’aggressività”. Cosa, quest’ultima, che lo studio non ha indagato. Le lacrime degli uomini potrebbero avere lo stesso effetto. Lui ed il suo gruppo stanno attualmente studiando le più di 160 molecole presenti nelle lacrime per vedere se ce n’è una responsabile.

 

Perché alcune persone non piangono?

Cosa tutto ciò significhi per le persone che non piangono è una domanda a cui i ricercatori si stanno ora rivolgendo. Se le lacrime sono così importanti per il legame umano, forse le persone che non piangono mai sono meno socialmente connesse? Questo è quello che la ricerca preliminare sta scoprendo, in accordo con lo psicologo clinico Cord Benecke (2009), un professore dell’Università di Kassel in Germania. Egli ha condotto interviste a 120 individui e si è concentrato nel cercare di scoprire se le persone che non piangono fossero differenti da quelle che lo fanno. Ha così scoperto che le persone che non piangono avevano la tendenza ad isolarsi e descrivevano le loro relazioni come meno connesse. Essi esperivano anche più sentimenti aggressivi negativi, come collera, rabbia e disgusto, rispetto alle persone che piangevano.

Ulteriori ricerche sono necessarie per determinare se le persone che non piangono siano realmente differenti dalle altre, ed alcune si svolgeranno a breve: le persone che hanno ascoltato Trimble alla radio inviandogli un’email quella mattina del 2103 sono ora i soggetti del primo studio scientifico sulle persone con tale tendenza.

Virtualmente non esiste evidenza del fatto che il pianto presupponga qualche effetto positivo sulla salute. Un’analisi ha esaminato gli articoli riguardanti il pianto nei mezzi di comunicazione e ha trovato che il 94% lo descriveva come positivo per la mente ed il corpo e sosteneva che trattenere le lacrime avrebbe avuto l’effetto opposto. “E’ una sorta di favola” dice Rottenberg. “Non c’è realmente nessuna ricerca che supporti ciò” (Oaklander, 2016).

E’ esagerata anche l’idea che il pianto sia sempre seguito da sollievo. “C’è l’aspettativa che ci sentiamo meglio dopo aver pianto“, sostiene Randy Cornelius (2001), professore di psicologia del Vassar College. “Ma il lavoro che è stato fatto riguardo l’argomento indica che, semmai, noi non ci sentiamo bene dopo aver pianto“. Quando i ricercatori mostrano alle persone un filmato triste in un laboratorio e poi misurano il loro umore immediatamente dopo, coloro che piangono possiedono un umore peggiore rispetto a quelli che non lo fanno.

Ma un’altra evidenza riporta la nozione del cosiddetto “pianto catartico” (Bylsma, Vingerhoets, Rottenberg, 2008). Uno dei fattori più importanti che sembra dare effetti positivi al pianto, in particolare un senso di liberazione, è la presenza di un lasso di tempo sufficiente per assimilare l’evento. Quando Vingerhoets e i suoi colleghi (Gracarin, A., Vingerhoets, Kardum, Zupcic, Santek, Simic, 2015) hanno mostrato alle persone un racconto strappalacrime e hanno misurato il loro umore 90 minuti dopo anziché subito dopo il filmato, le persone che avevano pianto erano in uno stato d’animo migliore rispetto a quello che avevano prima del filmato. Una volta che i benefici del pianto si instaurano, spiega, esso può essere una via efficace per riprendersi da un forte attacco emotivo.

La ricerca moderna nell’ambito della psicologia del pianto è ancora agli esordi, ma i misteri delle lacrime, e la recente evidenza che esse sono molto più importanti di quanto gli scienziati credessero una volta, conduce Vingerhoets e la piccola squadra di ricercatori in psicologia del pianto a perseverare. “Le lacrime sono di estrema rilevanza per la natura umana“- dice Vingerhoets – Noi piangiamo perché abbiamo bisogno delle altre persone. Quindi Darwin – afferma con una risata – si sbagliava completamente” (Oaklander, 2016).

L’intervento psicologico nelle malattie croniche e degenerative

Dal tradizionale modello biomedico si è passato ad una concettualizzazione più complessa delle malattie croniche: esse hanno, infatti, un decorso progressivo determinato da una molteplicità di fattori, non solo medici ma anche psico-sociali. 

 

Negli ultimi 50 anni è andata progressivamente a modificarsi la natura delle patologie mediche. Il tradizionale modello biomedico era centrato sull’intervento rivolto alla malattia acuta caratterizzata da decorso lineare.

Ora, per via dell’aumento dell’aspettativa di vita della popolazione e anche della maggiore incidenza di malattie croniche, si è passato ad una concettualizzazione più complessa. Le malattie croniche e degenerative hanno, infatti, un decorso progressivo determinato da una molteplicità di fattori, non solo medici ma anche psico-sociali.

 

Le implicazioni psicologiche dell’ammalarsi

Dal punto di vista psicologico, l’ammalarsi comporta un cambiamento radicale rispetto alla vita conosciuta fino a quel momento, imponendo di conseguenza la ricerca di un nuovo significato di se stessi e della vita.

La malattia scandisce la vita quotidiana e necessita di un adattamento alla nuova condizione. Chi si ammala deve necessariamente ridimensionare le proprie abitudini e le aspettative sul futuro, deve riformulare la propria identità e modificare il proprio ruolo sociale.

Da molti anni la ricerca ha dimostrato come, tra le persone che soffrono di patologie fisiche, sia frequente l’incidenza di condizioni psicopatologiche. Ciò non solo comporta un sensibile peggioramento della qualità di vita del paziente, ma incide anche sull’aderenza alle cure, sugli esiti della riabilitazione, aumenta il rischio di mortalità e di richieste di prestazioni assistenziali.

Le  risposte  emotive, cognitive e comportamentali ai marcati cambiamenti esistenziali imposti dalle malattie croniche hanno valenze molto articolate. Queste possono trovare espressione in diverse forme di sofferenza psichica, alcune delle quali assumono i caratteri di veri e propri quadri psicopatologici.

Spesso, chi vive l’esperienza della malattia, manifesta depressione, ansia, elevato stress che rendono più difficoltoso affrontare la nuova condizione di vita ed il decorso della malattia.

 

L’importanza e le finalità dell’intervento psicologico nelle malattie croniche

Sono sempre più numerose le evidenze scientifiche, molte delle quali condotte in ambito oncologico, in merito all’efficacia e all’utilità dei trattamenti psicologici rivolti a persone affette da patologie croniche e degenerative.

L’intervento rivolto alla persona che si ammala inizia sempre da un’attenta valutazione della situazione psicologica, del grado di consapevolezza di malattia e delle risorse del paziente.

L’obiettivo principale è quello di offrire trattamenti specifici lungo l’intero decorso della malattia e nei momenti particolarmente complessi.

Dalla diagnosi alla terapia, alla sospensione delle cure e alla guarigione, il fine dell’intervento psicologico è quello di:

  • Contenere i sintomi di sofferenza sia psicologica che psicopatologica;
  • Modificare comportamenti a rischio che potrebbero influenzare negativamente le condizioni psicofisiche generali (come assunzione di alcol, disturbi del comportamento alimentare);
  • Favorire il processo di accettazione e di adattamento alla nuova condizione di vita;
  • Favorire l’aderenza ai piani di cura;
  • Favorire la partecipazione attiva del paziente al piano di cura e alla sua vita, aiutandolo a ricostruire un senso dell’esperienza e ad adottare modalità più funzionali di essere ed agire.

 

L’ipotesi di un intervento psicologico domiciliare

Con l’aumento delle malattie croniche, la qualità di vita e il come questa è percepita dal paziente hanno acquisito un ruolo centrale in ambito sanitario.

Gli interventi di tipo psicologico sono ormai parte integrante del progetto di cura. La maggior parte degli interventi terapeutici sono di natura individuale. Vi sono, poi, anche efficaci interventi di gruppo. La totalità dell’offerta psicologica avviene in ambito ospedaliero e ambulatoriale.

Si ritiene che potrebbe essere molto utile attivare interventi psicologici in ambito domiciliare, attualmente previsti solo per le patologie in fase terminale. A volte la risposta alla diagnosi o al processo di cura può essere fortemente disfunzionale, portando il paziente a rifiutare o a evitare il contatto con i medici curanti. La reazione psicologica agli eventi può essere invalidante, con una sintomatologia ansiosa e depressiva marcata. Ciò comporta notevoli rischi rispetto al peggioramento della condizione medica del paziente e all’incolumità dello stesso.

In questi casi potrebbe essere utile un intervento all’interno del setting domiciliare che aiuti la persona a contenere la sofferenza psicologica e a riattivare le risorse necessarie a fronteggiare gli eventi.

L’intervento psicologico a domicilio dovrebbe essere mirato e di breve durata, proprio al fine di restituire al paziente la propria capacità decisionale e un senso di responsabilità verso di sé.

Una volta raggiunti gli obiettivi,  qualora sia necessario, il percorso potrà essere proseguito in ambito ambulatoriale.

 

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