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Il ruolo della memoria di lavoro nell’apprendimento di una seconda lingua

Una rassegna della ricerca sviluppata da Juffs e Harrington (2012) mette in evidenza come l’ apprendimento di una seconda lingua (L2) e il suo uso siano facilitati da una vasta gamma di processi cognitivi, tra i quali la memoria di lavoro.

Stefania Pedroni – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

La memoria di lavoro può essere definita come un sistema di immagazzinamento temporaneo, che mantiene una quantità limitata di informazioni in un tempo limitato, per consentire l’utilizzo dell’informazione stessa nell’immediato. L’informazione così disponibile può essere elaborata e utilizzata, mentre si eseguono compiti cognitivi di alto livello come comprendere, apprendere e ragionare (Baddeley e Logie, 1999) o mentre lavoriamo, ascoltiamo o dobbiamo interagire in un discorso. La memoria di lavoro è quindi un sistema cognitivo complesso che contiene ed elabora informazioni per brevi periodi di tempo, nel corso di attività cognitive continue.

 

La memoria di lavoro secondo Baddeley e Hitch

Il modello originale di Baddeley e Hitch (1974) descrive la memoria di lavoro come costituita da tre elementi: due magazzini a breve termine (fonologico e visuospaziale) e un esecutivo centrale, che controlla il flusso di informazioni tra questi magazzini e altri processi cognitivi. I magazzini di memoria a breve termine (MBT) trattengono un numero limitato di informazioni che rimangono disponibili solo per pochi secondi, prima che vengano perse. Il limite della capacità della MBT si riferisce sia al numero di informazioni che possono essere trattenute (span) sia al tempo in cui queste informazioni rimangono disponibili. Il magazzino fonologico trattiene informazioni verbali, mentre quello visuospaziale gestisce informazioni visive e spaziali. In seguito Baddeley (2000) aggiunge un terzo magazzino, denominato episodico, che delinea il luogo in cui vari tipi di informazione vengono temporaneamente immagazzinati e integrati. I tre magazzini a breve termine rappresentano dei depositi di informazione, controllati dal sistema esecutivo centrale.

 

Il ruolo della memoria di lavoro nell'apprendimento di una seconda lingua - GraficoGrafico 1 -La memoria di lavoro secondo Baddeley

 

Per quanto riguarda la ricerca sui singoli magazzini a breve termine, la memoria visuospaziale è risultata quella che ha ricevuto minore attenzione da parte dei ricercatori (Juffs e Harrington, 2012). L’elaborazione dell’informazione fonologica, invece, è stata tenuta in primaria considerazione nella ricerca sull’ apprendimento di una seconda lingua (L2), (Juffs e Harrington, 2012). Nel modello di Baddeley (1986) la memoria a breve termine fonologica (o memoria fonologica) è responsabile dell’elaborazione e del mantenimento temporaneo dell’informazione verbale nuova e familiare.

Baddeley, Gathercole e Papagno (1998) hanno dimostrato che l’abilità di ricordare non-parole (come misurato nei Test di ripetizione di non-parole, ovvero parole che non esistono, per esempio ‘tambilina’, ‘verdusape’) sia un predittore dello sviluppo del vocabolario nella prima infanzia. Questo mette in evidenza come la funzione del magazzino fonologico non sia solo quella di ricordare parole familiari, ma anche di sostenere l’apprendimento di nuove parole. Oltre all’apprendimento del vocabolario nella prima lingua, la memoria fonologica è anche legata allo sviluppo più generale del linguaggio parlato: i bambini con una più elevata capacità di memoria fonologica producono frasi di maggiore lunghezza e racconti di maggiore complessità grammaticale e semantica rispetto a quelli con una minore capacità (Adams e Gathercole, 1996).

L’apporto più recente al modello di Baddeley è il magazzino episodico, inserito per spiegare le adeguate prestazioni linguistiche di persone con significativi deficit di magazzino fonologico (Baddeley, 2000). Questi individui ottengono risultati molto bassi a test che misurano la memoria fonologica e hanno difficoltà ad apprendere nuovo materiale. Tuttavia la loro prestazione linguistica non è completamente danneggiata, dal momento che sono in grado di ricordare racconti. E’ stato quindi ipotizzato che sia il magazzino episodico a permettere a queste informazioni di essere trattenute e riutilizzate (Baddeley et al., 2002). Non ci sono però ricerche sul suo possibile ruolo nell’ apprendimento di una seconda lingua e nel suo uso (Juffs e Harrington, 2012).

I tre meccanismi di magazzino a breve termine vengono controllati dall’esecutivo centrale, che lega in un episodio coerente le informazioni, coordinando il lavoro dei diversi magazzini (Baddeley, 1986). Inoltre esso controlla l’attenzione selettiva, che permette di mantenere il focus e di inibire le informazioni che potrebbero interferire con l’esecuzione corretta di un compito (Engle e Kane, 2004).

In tutti gli approcci sulla memoria di lavoro che sono stati utilizzati nella ricerca sull’ apprendimento di una seconda lingua, il controllo dell’attenzione viene considerato come la prima funzione dell’esecutivo centrale (Cowan, 2005). Apprendere una seconda lingua richiede di focalizzarsi su aspetti rilevanti della nuova lingua, ignorando le distrazioni e sopprimendo interferenze da parte di strutture linguistiche diverse (Bialystok, 2001). Il parlato è uno stimolo percettibilmente complesso che contiene informazioni acustiche che cambiano velocemente e i processi esecutivi potrebbero individuare quale enorme quantità di informazioni sensoriali necessiti di essere elaborata in dettaglio (Astheimer e Sanders, 2009).

 

Memoria di lavoro e apprendimento di una seconda lingua

La memoria di lavoro sembrerebbe quindi implicata nei processi di linguaggio, con la memoria fonologica e le funzioni di controllo esecutivo come elementi particolarmente importanti nell’acquisizione della lingua madre e di una seconda lingua (Juffs e Harrington, 2012). Rispetto alla ricerca sviluppata negli ultimi anni, alcuni studiosi si sono interessati di come le differenze individuali nella memoria di lavoro possano spiegare le variazioni nell’ apprendimento di una seconda lingua e nel suo uso (Juffs e Harrington, 2012). In particolare hanno esaminato il ruolo della memoria di lavoro in vari processi in cui è coinvolto il linguaggio, compresa la lettura, la scrittura, l’elaborazione di frasi, il parlato, il vocabolario e l’apprendimento della grammatica (Juffs e Harrington, 2012).

L’obiettivo dello studio di Martin ed Ellis (2012) è quello di indagare la relazione tra memoria a breve termine fonologica, memoria di lavoro e abilità di imparare vocaboli e configurazioni grammaticali in una lingua straniera “artificiale”. I partecipanti erano complessivamente 40 (36 femmine e 4 maschi), di età compresa tra i 18 e i 45 anni, monolingue (di lingua madre inglese), reclutati da un’università americana nel Midwest.

Vengono utilizzati tre test di memoria: il listening span per valutare la memoria di lavoro (Harrington e Sawyer, 1992), la ripetizione di non-parole (Gathercole, Pickering et al., 2001) e il riconoscimento di non-parole (O’Brien et al., 2007) per la memoria a breve termine fonologica.

Il listening span consiste nell’ascoltare una frase, decidere se abbia senso oppure no e memorizzare l’ultima parola. Le frasi sono scorrette, quando l’ordine delle parole le rende senza senso. Alla fine di un gruppo di frasi, ai partecipanti viene chiesto di rievocare la parola finale di ogni frase. Il numero di parole correttamente ricordate nel relativo ordine viene usato come punteggio di memoria di lavoro. I giudizi sul senso della frase non hanno un punteggio, ma servono come doppio compito, per attivare la memoria di lavoro: far elaborare ai partecipanti ogni frase (elaborazione), mentre cercano di ricordarne l’ultima parola (immagazzinamento) è un compito complesso che permette di misurare la memoria di lavoro (Turner ed Engle, 1989).

Nella ripetizione di non-parole, i partecipanti ascoltano una lista di non-parole di una sillaba a cui segue la richiesta di ripeterle più accuratamente possibile. Ci sono quattro liste per ogni condizione: tre, quattro, cinque e sei parole. Tutti i partecipanti ascoltano le liste nello stesso ordine, iniziando da quelle più corte e continuando con quelle di lunghezza crescente (le non-parole sono state prese da Gathercole, Pickering e collaboratori, 2001).

Il riconoscimento di non-parole viene usato come misura aggiuntiva di memoria fonologica a breve termine: i partecipanti ascoltano la pronuncia di due non-parole e decidono se siano simili o differenti tra loro.

I meccanismi di magazzino a breve termine sono generalmente valutati attraverso semplici compiti di span, che richiedono di mantenere un certo numero di informazioni per un breve periodo di tempo, senza inserire elementi di distrazione. La capacità di memoria di lavoro invece è comunemente valutata da compiti complessi di span, che richiedono di elaborare e immagazzinare informazioni contemporaneamente (Turner ed Engle, 1989). Compiti complessi e semplici di span sono simili nel fatto che entrambi richiedono un magazzino temporaneo, ma differiscono perché i compiti complessi richiedono processi esecutivi aggiuntivi (Engel de Abreu e Gathercole, 2012).

Dopo la valutazione della memoria, nella ricerca segue la fase sperimentale, in cui le persone devono imparare parole (alla forma singolare) e frasi, in una lingua straniera “artificiale”. Per il linguaggio artificiale i ricercatori hanno utilizzato, come stimoli, le non-parole presentate precedentemente nelle prove di riconoscimento, in modo che i partecipanti avessero potuto familiarizzare con forme fonotattiche differenti. Successivamente vengono esposti a forme plurali, all’interno di frasi, senza istruzioni su come si componga il plurale. Vengono poi valutati sulla loro produzione e comprensione di 50 frasi, che includono nuove espressioni plurali. Le misure delle loro abilità di linguaggio (conoscenza e uso di indicatori plurali e generalizzazione a nuove frasi) vengono usate come variabili dipendenti. I punteggi riflettono non solo la conoscenza delle strutture, ma anche l’abilità di generalizzarle a nuove parole e frasi.

Tre ipotesi specifiche guidano lo studio: 1. Ci sarà una correlazione positiva tra memoria a breve termine fonologica e vocabolario. Questa affermazione si basava sull’ipotesi di Baddeley (2003), secondo cui il magazzino fonologico supporta l’apprendimento del linguaggio, incluso lo sviluppo del vocabolario. Le sue scoperte vanno infatti nella direzione di una forte associazione tra memoria fonologica e apprendimento del vocabolario di una seconda lingua (Baddeley, Papagno e Vallar, 1988). 2. Ci sarà una correlazione positiva tra memoria a breve termine fonologica, memoria di lavoro e grammatica. Questa ipotesi si basa sul fatto che l’apprendimento della grammatica è un processo complesso e fa affidamento alla memorizzazione di stimoli e all’elaborazione di relazioni tra loro (Martin ed Ellis, 2012). 3. Ci sarà una correlazione positiva tra vocabolario e grammatica. Questa previsione invece si basa su precedenti ricerche che dimostrano una relazione tra conoscenza di vocabolario e abilità grammaticali nella lingua madre (Bates e Goodman, 1997) e in una seconda lingua (Service e Kohonen, 1995).

L’analisi dei risultati mostra, come ipotizzato, correlazioni positive tra la memoria a breve termine fonologica e il vocabolario: in particolare, la ripetizione e il riconoscimento di non parole correlano con la produzione e la comprensione del vocabolario. Invece la memoria di lavoro correla solo con il vocabolario in produzione e non con quello in comprensione (vocabolario ricettivo). Quest’ultimo risultato era meno aspettato, poiché la memoria di lavoro è solitamente associata a variabili come la comprensione del testo scritto, piuttosto che al vocabolario espressivo (Sunderman e Kroll, 2009). La forza della correlazione tra la memoria di lavoro e il vocabolario è comunque più debole di quella tra la memoria a breve termine fonologica e il vocabolario. Si è giunti quindi alla considerazione che la memoria fonologica e quella di lavoro forniscono contributi significativi e indipendenti all’apprendimento del vocabolario della lingua straniera artificiale. Sembra dunque che esse siano costrutti correlati, ma separati (Martin ed Ellis, 2012).

Lo studio ha confermato anche l’ipotesi di una relazione tra le misure di memoria e l’apprendimento della grammatica. La forza della relazione tra la memoria a breve termine fonologica e la grammatica è simile a quella tra memoria fonologica e vocabolario. Ciò sottolinea l’importanza di questa memoria per entrambi i domini linguistici.

Anche la memoria di lavoro correla con la grammatica e in particolare la correlazione è più forte di quella tra memoria fonologica e grammatica. Questi risultati probabilmente dipendono dal fatto che la memoria di lavoro comprende magazzino ed elaborazione di informazione (Baddeley, 2003): la componente di magazzino spiegherebbe la relazione con l’apprendimento del vocabolario, mentre l’apprendimento della grammatica dipenderebbe da molti più processi cognitivi della semplice memorizzazione. L’apprendimento del vocabolario riguarda i suoni delle parole e il loro significato arbitrario, invece l’apprendimento della grammatica riguarda l’astrazione della relazione tra le parole e l’identificazione del loro significato funzionale (Ellis, 1996). Le configurazioni grammaticali quindi sono più complesse, perché si applicano alle affermazioni intere, non solo alle parole singole. Perciò richiedono una maggiore capacità di elaborazione, il mantenimento nel tempo di una grande quantità di informazioni e l’identificazione e la correlazione di caratteristiche rilevanti. La memoria di lavoro, come un sistema di controllo attentivo, potrebbe sostenere il mantenimento di informazioni salienti e la regolazione dell’elaborazione durante operazioni complesse (Mackey et al., 2002).

 

Relazione tra vocabolario e grammatica

Come ipotizzato, si è trovata inoltre una forte relazione tra il vocabolario e la grammatica. Così forti correlazioni possono essere inaspettate, se vengono considerate nella cornice interpretativa tradizionale, che ipotizza che grammatica e vocabolario vengono apprese separatamente e fanno affidamento su differenti meccanismi di elaborazione (Pinker, 1991). Una modalità di funzionamento diverso viene descritta dal modello di Bates e Goodman (1997), secondo cui nell’acquisizione della lingua madre, il vocabolario e la grammatica sono elaborati e appresi a partire da un sistema unitario, dove la grammatica dipende dal vocabolario, a cui fornisce un’organizzazione.

Bates e Goodman (1997) la chiamano ipotesi di quantità critica poiché presume che il vocabolario debba raggiungere un minimo di quantità di parole, prima che si presenti l’induzione grammaticale. Questo dibattito si è diffuso ampiamente nella letteratura sulla lingua madre, con poca estensione all’ apprendimento di una seconda lingua (Martin ed Ellis, 2012). Al di là delle differenze tra lingua madre e seconda lingua, comunque, la ricerca empirica dimostra la profonda interdipendenza di lessico e grammatica, durante l’uso del linguaggio, sia all’inizio sia agli ultimi stadi dell’apprendimento (Römer, 2009). Questo studio evidenzia la forte interdipendenza di vocabolario e grammatica, soprattutto agli stadi iniziali dell’ apprendimento di una seconda lingua. Le analisi di regressione mostrano ulteriori informazioni: effetti indipendenti di memoria fonologica e memoria di lavoro sul vocabolario, effetti del vocabolario sulla grammatica, effetti indiretti (mediati dal vocabolario) della memoria fonologica e della memoria di lavoro sulla grammatica ed effetti diretti di memoria fonologica e memoria di lavoro sulla grammatica. Quindi ci sono effetti indipendenti significativi di memoria fonologica e memoria di lavoro sull’apprendimento del vocabolario e della grammatica di una seconda lingua – in parte mediati dal vocabolario e in parte diretti. Questi sistemi di memoria influiscono quindi sull’apprendimento del vocabolario, ma sono anche coinvolti nell’induzione grammaticale.

Questo studio potrebbe essere replicato con altre popolazioni e altre strutture linguistiche, esaminando altresì lo sviluppo longitudinale (in itinere) delle abilità grammaticali e di vocabolario, piuttosto che solo il loro conseguimento finale. Tuttavia occorre tenere in considerazione i limiti rispetto a quanto i risultati possano essere generalizzati a situazioni di apprendimento del linguaggio nella vita reale, dal momento che si riferiscono all’apprendimento di un linguaggio artificiale di laboratorio.

 

Apprendimento del linguaggio nella vita reale

Uno studio che ha preso in considerazione diversi linguaggi reali è quello di Engel de Abreu e Gathercole (2012), che hanno esplorato i legami tra processi esecutivi di memoria di lavoro, memoria a breve termine fonologica, consapevolezza fonologica e competenza nella prima (L1), seconda (L2) e terza lingua (L3). I soggetti sperimentali, bambini di 8-9 anni che frequentano una scuola con educazione multilingue, hanno affrontato prove di competenza in alcuni domini linguistici (vocabolario, grammatica e letteratura), in lingua lussemburghese (L1), tedesco (L2 familiare) e francese (L3 non familiare).

La consapevolezza fonologica può essere descritta come l’abilità di fornire giudizi sui suoni delle parole, indipendentemente dai loro significati (Ziegler e Goswami, 2005). Esempi di compiti standard di consapevolezza fonologica includono il riconoscimento di rime (Bradley e Bryant, 1983), la combinazione di suoni (Mann e Liberman, 1984) e compiti di spoonerismo (Walton e Brooks, 1995). Gli studi sull’apprendimento della lingua madre (L1) hanno identificato forti legami tra consapevolezza fonologica e abilità precoci di letto-scrittura (Goswami e Bryant, 1990) e alcune ricerche hanno riconosciuto un contributo della consapevolezza fonologica all’apprendimento del vocabolario (Bowey, 2006).

Alcuni studiosi ritengono che la memoria a breve termine fonologica e la consapevolezza fonologica debbano essere considerate come meccanismi distinti, mentre altri sostengono che esse si basino su un sistema fonologico unico, pur essendo separabili, ossia manifestazioni superficiali differenti della medesima abilità sottostante (Bowey, 2006): mentre i compiti di consapevolezza fonologica riflettono prevalentemente una conoscenza consapevole della struttura di suono delle parole (Boada e Pennington, 2006), la memoria fonologica si riferisce all’abilità di codificare e recuperare l’ordine delle sequenze dei suoni (Majerus, Poncelet et al., 2006).

Vanno nella direzione dell’ipotesi di separazione anche i risultati della ricerca di Engel de Abreu e Gathercole (2012), che mostrano come la memoria di lavoro, la memoria a breve termine fonologica e la consapevolezza fonologica siano processi distinti ma correlati. Infatti le loro rispettive associazioni con i diversi domini linguistici sono differenziate: in particolare, la memoria fonologica è legata al vocabolario in L1 e L2 (lingua strutturalmente simile); i processi esecutivi (memoria di lavoro) sono legati alla grammatica e, trasversalmente, al linguaggio, alla comprensione del testo scritto e all’ortografia; la consapevolezza fonologica fornisce contributi specifici alla lettura delle parole, all’ortografia e alla competenza linguistica in L3 (lingua strutturalmente diversa).

Queste scoperte sono in linea anche con l’ipotesi che la memoria a breve termine e la consapevolezza fonologica rappresentino domini cognitivi distinti (Gathercole, Tiffany et al., 2005), estendendo la dimostrazione a bambini multilingue. La memoria fonologica risulta correlata indirettamente anche ad altri domini linguistici: i legami con la grammatica sono mediati dalla conoscenza di vocabolario e i legami con lettura e scrittura sono mediati da processi condivisi con la consapevolezza fonologica. Legami estremamente specifici sono emersi inoltre tra abilità esecutive (memoria di lavoro) e grammatica, in modo indipendente dalla conoscenza di vocabolario della lingua madre: questo risultato può essere coerente se si considera che, per comprendere con successo frasi sintatticamente complesse, varie informazioni devono essere integrate in una rappresentazione coerente e significativa. I processi esecutivi permetterebbero di mantenere attive le informazioni rilevanti, mentre si esegue l’integrazione.

L’elaborazione esecutiva è anche significativamente associata alla comprensione del testo scritto e all’ortografia ma non alla decodifica delle parole (lettura). Leggere singole parole in tedesco è un’attività estremamente automatizzata in bambini lussemburghesi, dopo 18 mesi di insegnamento (il tedesco è una lingua con forti relazioni grafema-fonema e l’accuratezza di lettura, in questa popolazione, è quindi abbastanza semplice), (de Jong e van der Leij, 2002). Probabilmente nei lettori novelli la lettura delle parole rappresenta un’attività cognitivamente faticosa, che dipende dai processi esecutivi (Engel de Abreu, Gathercole e Martin, 2011). I contributi dei processi esecutivi alla lettura possono diminuire man mano si sviluppa la competenza, rimanendo invece evidenti nelle attività di lettura e scrittura più cognitivamente faticose, come la comprensione del testo e l’ortografia. Comprendere testi scritti in tedesco (L2) è un compito cognitivamente impegnativo per bambini lussemburghesi, che devono elaborare la L2, mentre simultaneamente analizzano il testo per dargli significato. Similmente, l’ortografia della L2 è un’attività cognitiva complessa che coinvolge la ricodifica fonologica in aggiunta alla produzione manuale di simboli scritti che non è ancora automatica in bambini di questa età (Bourdin e Fayol, 1994).

Secondo gli autori (Engel de Abreu e Gathercole, 2012), una possibile interpretazione dei risultati riguarda il fatto che l’acquisizione precoce di una seconda lingua, strutturalmente diversa dalla lingua madre (L3), ricorre a meccanismi diversi dall’apprendimento di nuove parole in una seconda lingua strutturalmente simile (L2). Alti gradi di sovrapposizione fonologica tra L1 e L2 (somiglianza) potrebbero favorire una strategia di apprendimento che si basa sulla conoscenza già consolidata della lingua madre (strategie di mediazione lessicali e semantiche). Apprendere nuove parole in una seconda lingua fonologicamente diversa, invece, non trarrebbe vantaggio dalla conoscenza esistente, andando a dipendere quindi da processi cognitivi più basici, come la consapevolezza fonologica (Masoura e Gathercole, 2005). Lo studio indica perciò che la familiarità del linguaggio può essere un importante fattore da considerare.

La capacità di distinguere il sistema di suono di una lingua (consapevolezza fonologica) risulterebbe quindi particolarmente importante negli stadi precoci di acquisizione di una seconda lingua con una fonologia non familiare. I bambini dovrebbero riuscire ad analizzare ed estrarre i dettagli fonetici delle parole, per consolidare una rappresentazione fonologica nella memoria a breve termine (memoria fonologica), che potrebbe quindi condurre all’apprendimento lessicale a lungo termine (vocabolario). I bambini in questo studio venivano valutati solo dopo quattro mesi di insegnamento della lingua non familiare (L3 – francese) e non era stata loro insegnata esplicitamente la fonologia francese (perché non era previsto nel programma formativo). Quindi è probabile che non avessero ancora creato rappresentazioni stabili delle differenti unità di suono nella lingua francese, mettendo in ombra il contributo del magazzino a breve termine all’apprendimento del vocabolario.

Ulteriori studi sarebbero necessari per esplorare se altri legami significativi possano emergere a stadi più tardivi dell’apprendimento della L3. Il limite maggiore di questo studio è, infatti, il fatto che i bambini hanno imparato il tedesco (L2) per più tempo del francese (L3). Studi longitudinali potrebbero indagare se i risultati osservati siano correlati alla tipologia di linguaggio (familiare o non familiare) piuttosto che alla durata dell’insegnamento.

 

Conclusioni

Concludendo, è stato molto studiato il ruolo della memoria di lavoro rispetto alle prestazioni linguistiche di adulti e bambini sia relativamente alla lingua madre sia a una seconda lingua (Juffs e Harrington, 2012). Una componente della memoria di lavoro che ha ricevuto grande attenzione, in riferimento all’ apprendimento di una seconda lingua, è la memoria a breve termine fonologica. Si è teorizzato che essa fornisca un magazzino temporaneo in cui trattenere nuove configurazioni di suono e da cui astrarre rappresentazioni fonologico-lessicali più stabili (Baddeley, Gathercole e Papagno, 1998). Nella rassegna della ricerca di Juffs e Harrington (2012), come negli studi esposti dettagliatamente sopra, la memoria fonologica è risultata importante nell’apprendimento di nuove configurazioni di suono, fondamentale all’acquisizione del vocabolario di una seconda lingua, in bambini e adulti (French e O’Brien, 2008), oltre ad essere implicata anche nell’apprendimento della grammatica (Speciale, Ellis e Bywater, 2004).

Molti ricercatori hanno tentato di riconoscere se i limiti della capacità della memoria di lavoro possano spiegare le differenze tra le persone, nell’abilità di acquisire una seconda lingua, in una varietà di contesti. Si è arrivati ad affermare che molto probabilmente una memoria di lavoro più elevata comporti un maggiore successo nell’apprendimento (Juffs e Harrington, 2012). Tuttavia, sebbene essa possa essere un fattore che spiega una parte della variabilità tra gli allievi, altri elementi possono essere influenti, come si evince anche dagli studi precedentemente descritti.

Un altro aspetto che emerge è l’effetto della memoria di lavoro sull’apprendimento, nel corso dello sviluppo. Per esempio, O’Brien e colleghi (2006) hanno mostrato che la memoria fonologica gioca un ruolo significativo nel vocabolario precoce e più tardi anche sulla grammatica (French e O’Brien, 2008). Nella ricerca futura si auspica una maggiore comprensione di questi cambiamenti nel corso dello sviluppo. Inoltre risulta molto importante l’attenzione, definita in termini di processi che ne implicano il mantenimento, oltre alla resistenza alla distrazione: la ricerca sulla memoria di lavoro sembra una strada di accesso a una migliore comprensione del ruolo dell’attenzione nell’acquisizione della L2 (Juffs e Harrington, 2012).

Infine la metodologia è una caratteristica importante: sono stati introdotti nuovi test, come lo Speaking span test (Weissheimer e Mota, 2009), il compito di completamento di frasi usato da Abu-Rabia (2001) e le misure del tempo della risposta per valutare l’elaborazione più direttamente (Walter, 2006). Poiché i ricercatori sulla L2 impiegano misure sempre più sofisticate, dalla ricerca futura si attende una comprensione sempre maggiore del ruolo della capacità di memoria di lavoro nell’ apprendimento di una seconda lingua.

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Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo – MAPS 2017

MAPS 2017 è un Master avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo rivolto a psicoterapeuti specializzati o specializzandi (quarto anno) e neuropsichiatri infantili che padroneggino il modello cognitivo comportamentale e che conclusa la propria formazione nell’ambito della clinica dell’età adulta intendono:

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Programma del Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo

I anno (16 giornate): Strategie e procedure di assessment in età evolutiva – Modelli di concettualizzazione e trattamento dei principali disturbi – casi clinici
II anno (opzionale): 50 ore di supervisione su casi clinici in piccolo gruppo. Il secondo anno sarà attivato su richiesta degli allievi.

L’attestato di partecipazione sarà consegnato alla conclusione del primo anno di lezione a coloro che avranno frequentato almeno il 75% delle lezioni e superato la prova finale che consisterà nella presentazione e nella discussione di un caso clinico.

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Docenti del Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo

Roberto Anchisi: Psicologo psicoterapeuta, autore di oltre 100 pubblicazioni tra articoli e volumi sull’analisi e la terapia del comportamento. Primo Presidente AIAMC, docente presso l’Università di Parma di Teoria e Tecniche del Colloquio Psicologico. Direttore scientifico di ASCCO

Fabio Celi: Psicologo psicoterapeuta dirigente presso ASL di Massa-Carrara, autore di numerose pubblicazioni relative a problemi cognitivi ed emozionali e disturbi dell’apprendimento e di un conosciutissimo e apprezzato volume sulla psicopatologia dello sviluppo. Docente di psicopatologia dello sviluppo all’Università di Parma.

Lisa W. Coyne: psicologa clinica è membro della facoltà di psichiatria alla Harvard Medical School, e direttore del Child and Adolescent OCD Institute (OCDI Jr.) al McLean Hospital. È professore associato in psicologia clinica presso la Suffolk University di Boston,trainer ACT riconosciuta a livello internazionale. Ha pubblicato numerosi articoli peer-reviewed e capitoli sui temi dell’ansia, del disturbo ossessivo compulsivo, e della genitorialità. È autrice di The Joy of Parenting: An Acceptance and Commitment Therapy Guide to Effective Parenting in the Early Years.

Carmelo Dambone: Psicologo psicoterapeuta, mediatore familiare, perfezionato in criminologia, abilitato EMDR. Docente di “Comunicazione, Mass Media e Crimine”presso l’Università IULM di Milano e di “Psicologia Clinica Forense” presso varie scuole in Italia di Specializzazione in Psicoterapia. Presidente della S.I.P.C.F. (Società Italiana di Psicologia Clinica Forense).

Mario Di Pietro: Psicologo psicoterapeuta presso l’AULS di Este-Monselice (PD), si occupa di problematiche emotive e comportamentali dell’età evolutiva. Si è specializzato presso l’Institute for Rational-Emotive Therapy di New York. È autore di numerose pubblicazioni tra cui un celebre volume con Kendal, è docente di psicodiagnostica presso la Facoltà di Psicologia dell’Università di Padova

Paolo Moderato: Psicologo psicoterapeuta, ordinario di Psicologia Generale presso l’Università IULM di Milano. Direttore Scientifico della Scuola di Specializzazione in TCC, specialistica per infanzia e adolescenza, Humanitas, sede di Milano. Past President EABCT e autore di oltre 200 pubblicazioni. Dirige la collana Pratiche Comportamentali e Cognitive per Franco Angeli Editore.

Francesca Pergolizzi: Psicologa psicoterapeuta. Docente e supervisore presso ASCCO Parma e Humanitas di Milano. Docente e supervisore AIAMC, esperta di psicopatologia infantile, coordina lo Special Interest Group ACT 4 Kids & Teens di ACT Italia.

Giovambattista Presti: Medico, specializzato in psicologia clinica. Professore Associato di Psicologia Generale presso l’Università Kore di Enna. Trainer ACT riconosciuto dall’ACBS. Ha curato la pubblicazione italiana di articoli e volumi sull’Acceptance and Commitment Therapy.

Alessandra Vanni: Psicologa psicoterapeuta, già docente di psicologia presso l’università di Parma e di Bergamo. Coordinatrice delle attività di psicoterapia presso il Centro di Eccellenza sull’Adolescenza, Villa San Benedetto e CEDANS Milano, della Congregazione Suore Ospedaliere.


Master Avanzato in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale dello sviluppo – INFORMAZIONI PRATICHE

DATA E ORARIO

11 febbraio – 19 novembre 2017
(16 giornate) Ore 9-18

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Il Master si terrà a Roma a c/o Itaca, Via Terminillo n.3 (zona P.za Sempione-M.te Sacro. Da staz.Termini => 90 Express. Da staz. Tiburtina => Metro B fermata Conca d’Orco)

DESTINATARI

Il Master è rivolto a psicoterapeuti specializzati o specializzandi (quarto anno) e neuropsichiatri infantili che padroneggino il modello cognitivo comportamentale

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50 crediti per psicologi e neuropsichiatri.

COSTI

Il costo per la frequenza del primo anno del master è di € 2.450,00 (IVA esente art. 10, comma 1, numero 20 del D.P.R. n. 633 26 ottobre 1972).

Il pagamento della quota di iscrizione potrà essere effettuato mediante bonifico bancario intestato a Accademia Scienze Comportamentali Cognitive (codice IBAN: IT02I0623012704000035864479) secondo le seguenti modalità:
€ 850,00 all’atto dell’iscrizione
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Il Master è a numero chiuso, con un massimo di 25 posti disponibili. I posti verranno assegnati in ordine di iscrizione.
Le iscrizioni chiudono il 1 febbraio 2017.
Per chi si iscrive entro il 31-12-2016 è prevista una riduzione sul costo d’iscrizione (vedi colonna a sinistra).
Le iscrizioni sono attualmente aperte (ci sono posti disponibili).
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La sinistra ha un problema con i leader donna?

C’è un problema a sinistra con i leader donna? Non c’è mica solo Hillary Clinton. C’è stata anche Ségolène Royal. Due scalate al potere in due grandi paesi occidentali, due fallimenti. Mentre a destra incontriamo almeno tre successi: Margaret Thatcher, Angela Merkel e Theresa May.

Giovanni M. Ruggiero e Sandra Sassaroli

 

Insomma, nella destra politica dei grandi paesi d’Occidente si sono fatte largo figure femminili che hanno fatto la storia in misura paragonabile agli uomini. Poche, ma ci sono. Thatcher  sta di fianco a Pitt, Peel e Churchill e Merkel sta di fianco ad Adenauer e Kohl. Vedremo se entrerà nella storia anche la May, che però intanto governa. A sinistra, invece, Royal e Clinton non ci sono purtroppo riuscite. Ad aggravare la situazione c’è che sia Royal che Clinton hanno fatto strada anche come donne del capo: Royal di fianco a Hollande, Hillary di fianco a Bill. La vedete una Thatcher che per farsi luce nel partito conservatore si mette con un maschio? No, queste leader di destra hanno scelto degli affettuosi ometti come consorti. Il coraggio di scegliersi un uomo riservato, devoto e senza carisma politico; forse anche questo dovrebbero imparare le donne di sinistra che vogliono comandare, invece di inseguire il mito del consorte paritario.

Vediamo se ci soccorrono le solite democrazie scandinave. Ci saranno donne di sinistra che sono diventate premier da quelle parti? Facciamo una rapida ricerca sul web e troviamo Mari Kiviniemi in Finlandia ed Erna Solberg in Norvegia. Un momento, però. Come? Sono di centro o di destra anche queste due? Allora è un vizio. Probabilmente, se ci si mette d’impegno lo troviamo un primo ministro di sinistra donna occidentale. Ci si potrebbe ricordare della laburista israeliana Golda Meir, oppure della premier argentina Cristina Fernández de Kirchner, peronista ma di sinistra. Va bene, ma non basta. La domanda è un’altra: la sinistra di un grande paese in Europa o Nord America è capace di avere un leader donna? Quindi una eventuale premier donna scandinava, israeliana o argentina non bastano. Cerchiamo un analogo a sinistra di Thatcher o Merkel in uno dei grandi paesi europei o negli Stati Uniti. Invece, ci vengono in mente altre leader di paesi decisamente non occidentali: Indira Ghandi, Benazir Bhutto e Aung San Suu Kyi.
Insomma, i maschi occidentali di destra e maschi non occidentali di sinistra o quasi sanno seguire un capo politico donna. Il maschio occidentale di sinistra sembra non ancora.

C’è qualcosa di marcio a sinistra in occidente con i capi donna? Qual è il problema dell’elettore di sinistra con i leader donna? Hillary Clinton rispetto a Obama ha perso oltre 6 milioni di voti. E Trump ha vinto prendendo meno voti del perdente repubblicano di 4 anni fa, Romney. Hillary ha perso per lo scarso trasporto dei suoi potenziali elettori. E speriamo solo degli elettori e non anche delle elettrici. Tocca analizzare il voto. Sarà stato lo scarso entusiasmo dei giovani per il suo legame con il big business? Certo, forse anche quello. O forse la sua postura politicamente corretta che riduce ogni conversazione a una passeggiata sulle uova? No, non c’entra, questo magari allontana l’elettore  di centro, non quello di sinistra. Oppure vi è una spiegazione più triste. La coalizione delle minoranze non premia le donne. Ispanici e neri non si sono entusiasmati per un donna? Può darsi. Oggi in TV i commentatori dicevano che il voto nero in North Carolina ha tradito Hillary. Bell’affare: i maschi delle minoranze etniche protette dalla sinistra non impazziscono dalla voglia di votare una donna? Speriamo non sia così. Una cosa è certa: la sinistra europea e nordamericana deve dimostrare di saper eleggere una donna. La destra lo ha già fatto, smentendo un pregiudizio. Forse anche questo ha irritato il “deplorable” elettore bianco maschio. Lui, in fondo, il suo dovere con le donne in politica lo ha fatto.

L’altra faccia dell’autostima: un costrutto troppo sopravvalutato?

Investire sull’ autostima è pressoché una regola aurea, così come darne una valutazione positiva. Essa infatti appare come l’unica importante base capace di decretare la salute psichica di un individuo ed è spesso investita del ruolo di totale panacea.    

 

Per i non addetti ai lavori, l’ autostima sembra essere quasi il tema portante della psicologia, tanto che la sua assenza è nell’opinione comune quasi la causa di molte problematiche manifeste sin dalla tenera età. Investire sull’ autostima è pressoché una regola aurea, così come darne una valutazione positiva. Essa infatti appare come l’unica importante base capace di decretare la salute psichica di un individuo ed è spesso investita del ruolo di totale panacea.

 

Come potrebbe non avere tale importanza la famosissima autostima?

Il suo influsso nella tradizione psicologica è decisamente preponderante e lo si evince da una delle sue più antiche definizioni. Proprio uno dei padri fondatori della psicologia occidentale, William James, ha infatti tentato di tentare di darne una spiegazione completa, intendendola come “conseguenza della percezione di competenza in un ambito importante” (James, 1890).

Questa semplice definizione sottolinea come l’ autostima sia intrinsecamente soggettiva, dal momento che è l’esito di un’abilità in un dominio che ha un valore solo per l’individuo stesso. In linea cronologica lo sviluppo successivo di questo costrutto si deve a Charles Horton Cooley. Egli ne ha sottolineato come implicitamente sottesa l’importanza del giudizio dell’altro, un “guardarsi allo specchio”, elemento che generalmente fa sì che ciascuno di noi si confronti con uno standard prefissato (Cooley, 1902).

Già in questo breve quadro storico si nasconde una delle varie criticità insite nel concetto di autostima: essa non è la causa delle azioni, ma solo il frutto dell’azione messa in atto.

In quest’ottica si ha una percezione di autostima solo al raggiungimento di un potenziale obiettivo, non nella presenza di quest’ultimo. Proprio per questo suo aspetto negativo essa può essere molto instabile: se legata infatti all’andamento degli eventi, rischia di divenire fluttuante ed esporre nel lungo termine a una depressione di natura non clinica.

La sua natura deleteria si può riscontrare anche in altri aspetti. Essa sembra spesso nascondere il bisogno di essere superiori (a volte così forte da far considerare disdicevole la possibilità di essere pari alla media) in un gioco dicotomico di ipervalutazione di sé e svalutazione del prossimo.

Quando il forte bias di autoaccrescimento fa perdere qualsiasi orientamento oggettivo sulla realtà, si rischia di nutrire una visione irreale del proprio sé con conseguenze narcisistiche.

Se tale modalità di lettura del mondo esterno si amplia dalla dimensione individuale a quella del proprio gruppo sociale, dal momento che l’ autostima stessa presuppone un confronto, può essere persino feconda genesi per situazioni di pregiudizio per gli altri gruppi sociali fino a raggiungere addirittura condizioni estreme.

Quando infatti si crede che la propria dimensione di appartenenza non abbia avuto il rispetto che le dovrebbe essere concesso, si può sfociare in episodi di rabbia e aggressività manifesta verso gli altri (Baumeister, Smart, e Boden, 1996).

 

Autostima: un costrutto da demonizzare totalmente?

Sicuramente sopravvalutata nel tempo, l’ autostima ha connotati positivi quando può essere definita sana. Deci e Ryan (1995) a tal proposito parlano “vera autostima”, definendola “una modalità di valutazione di sé autonoma e determinata dall’individuo, che non dipende dagli eventi o dall’approvazione sociale”.

In una visione più equilibrata, tra i potenziali punti cardine alla base della salute psichica essa potrebbe comunque essere accompagnata, o addirittura sostituita, da ulteriori nuovi costrutti proposti dalla psicologia moderna che non presuppongano perciò un confronto di se stessi con il mondo esterno, sia esso fatto di soggetti potenzialmente più capaci o di standard prestabiliti da raggiungere.

Il dolore da arto fantasma dopo un’amputazione: possibili trattamenti

Un pool di ricercatori delle università di Osaka e di Cambridge, ha cercato di scoprire la causa del dolore da arto fantasma, dolore cronico in soggetti con un arto amputato e con severe lesioni a carico dei nervi. Lo studio ha permesso di ipotizzare la possibilità di un trattamento che si serva dell’intelligenza artificiale, in luogo delle terapie farmacologiche.

 

La sindrome dell’arto fantasma è una condizione che colpisce individui a cui è stato amputato un arto a seguito di numerose cause, alcune delle più diffuse legate a patologie di tipo vascolare. Essa consiste nella “sensazione” dell’arto amputato, che viene percepito come presente e si può accompagnare a sensazioni di dolore anche molto forti attribuite proprio all’arto mancante. Questa condizione è nota come dolore da arto fantasma.

Il dolore da arto fantasma e la riorganizzazione cerebrale

Un gruppo di ricerca dell’Università di Osaka in Giappone, in collaborazione con l’Università di Cambridge, ha scoperto che la causa del dolore da arto fantasma che caratterizza i soggetti affetti da questa sindrome sarebbe da ricercare nella “riorganizzazione” dei circuiti cerebrali. In particolare, vi sarebbero circuiti difettosi nella corteccia sensomotoria. Essa dovrebbe processare gli impulsi sensoriali e l’esecuzione dei movimenti. Nel caso di un’amputazione, vi sarebbe una discrepanza tra il movimento e la percezione del movimento.

Nello studio è stata utilizzata un’interfaccia cervello-macchina che permetteva a 10 soggetti di controllare, attraverso il pensiero, cioè attraverso l’attività cerebrale, un braccio meccanico, grazie alla decodifica dell’attività neurale collegata all’azione mentale che permetteva ad essi di muovere l’arto fantasma.

 

Risultati e conclusione

E’ stato dimostrato che, quando i soggetti cercavano di associare il movimento della macchina a quello dell’arto mancante, il dolore aumentava; quando invece il movimento era associato al braccio integro, il dolore diminuiva. Il cambiamento è stato associato al fatto che la corteccia sensomotoria dell’emisfero deputato al controllo dell’arto fantasma risentisse del fenomeno sopracitato, motivo per cui i soggetti venivano, tramite l’interfaccia cervello-macchina, “addestrati” ad utilizzare la corteccia sensomotoria dell’emisfero opposto, collegato all’utilizzo dell’arto sano. Quando i soggetti imparavano a controllare l’arto artificiale in questo modo, ne traeva vantaggio la plasticità (l’abilità del cervello di riorganizzarsi e di imparare nuove abilità) della corteccia sensomotoria, dimostrando un collegamento tra plasticità e dolore.

Anche se i risultati lasciano ben sperare, gli effetti del trattamento sono solo temporanei e richiedono al momento dei costi troppo elevati.
Tuttavia, lo studio mette in risalto la possibilità di poter creare, in futuro, un trattamento basato su queste tecniche e secondo Seymour e colleghi, questo passo potrà essere fatto tra i prossimi cinque-dieci anni.

Sesso sadomaso: posizione sociale e disinibizione

Un’idea diffusa è che il sadomaso sia un modo di sottolineare le differenze di potere tra i due sessi, che porta il più potente ad assumere il ruolo di sadico, mentre il più debole ad adottare un ruolo passivo.

 

Le ipotesi che spiegano il sesso sadomaso

Il successo dato da oltre 100 milioni di copie vendute del libro 50 sfumature di grigio rappresenta la curiosità di alcune persone nei confronti delle pratiche sadomaso e il desiderio di altri di comprendere il motivo per il quale una coppia dovrebbe mischiare il sesso, la dominazione e il dolore.
Solo poche persone praticano sadomaso, ma molti esperiscono un certo arousal alla visione di scene erotiche di quel tipo (Weinberg & Kamel, 1983).
Un’idea diffusa è che il sadomaso sia un modo di sottolineare le differenze di potere tra i due sessi, che porta il più potente ad assumere il ruolo di sadico, mentre il più debole ad adottare un ruolo passivo. Questo concetto origina dalle teorie freudiane, che concepiscono il sadismo come un’ aberrazione dell’istinto aggressivo di esercitare il potere sugli altri, mentre il masochismo derivererebbe da una sorta di bisogno inconscio di subire una pena.

Recentemente questa ipotesi è stata messa in dubbio dalla cosiddetta “ipotesi della disinibizione”. Questa teoria afferma che il potere conduce ad uno stato di disinibizione comportamentale che permette al potente di esercitare i suoi impulsi. Questo stato di disinibizione aiuterebbe i partners ad ignorare o sopportare alcune pressioni situazionali e a meglio realizzare i propri desideri a letto.

A parte ciò, dato il ruolo centrale che il potere ha nel sadomaso, una domanda interessante è: il potere sociale orienta in qualche modo l’attrazione verso il sadomasochismo, e se sì, come?
Il termine-ombrello BDSM abbraccia una serie di pratiche erotiche svolte da adulti consenzienti, come il bondage – ossia attività sessuali basate su costrizioni fisiche quali l’essere legati, imbavagliati, etc. – e il sadomasochismo.

 

Posizione sociale e pratiche sadomaso

Secondo una nuova ricerca pubblicata su Social Psychology & Personality Science, le persone con maggior potere sociale sarebbero più propense a dedicarsi a pratiche BDSM.

Il team di ricerca ha indagato la relazione tra potere dato dalla posizione sociale e tendenza a coinvolgersi in pratiche sadomaso con il partner in un campione di 14306 uomini e donne.

Secondo i risultati della ricerca, i soggetti che occupavano posizioni più elevate al lavoro avevano una probabilità significativamente maggiore di attivarsi con pensieri riguardanti il sadismo o il masochismo. Dai risultati, inoltre, emergeva come tra i soggetti con forte potere sociale, le donne tendevano ad evidenziare maggiore eccitazione per il sadismo, mentre gli uomini per il masochismo.

Tra i pregi di questa ricerca sicuramente annoveriamo l’ampiezza del campione, che garantisce un ottimo effect size tra le variabili in questione. In aggiunta, dai risultati si evince che anche la vita sessuale delle donne è influenzata dal potere sociale, sconfermando peraltro la credenza che vede le donne più inclini alla sottomissione e gli uomini alla dominazione.

 

Conclusioni

Secondo i ricercatori, la disinibizione condurrebbe i partner a sorvolare i tabù sessuali e le norme associate al genere durante i rapporti sadomaso. Perciò, stando alle loro conclusioni, sarebbe lecito affermare che il potere sociale influenza e modifica i tradizionali pattern associati al genere durante l’atto sessuale.

Il nuovo ruolo degli utenti dei Servizi di Salute Mentale

Nel corso degli ultimi decenni il ruolo di utente di un servizio medico è cambiato radicalmente, e questo è accaduto anche per i Servizi di Salute mentale, sia in Italia che all’estero. Il fatto per esempio di essere consumatori dà il diritto di esprimere un’opinione su ciò che viene prodotto e consumato, si tratti di cibo, trasporti o sanità. Esprimere la propria opinione significa in qualche modo avere la possibilità, quantomeno teorica, di orientare politiche che attengono alla propria vita e di partecipare in maniera più o meno incisiva ai processi decisionali che ci riguardano direttamente (Agnetti, 2007).

Elena Sirotti, OPEN SCHOOL MODENA

Lo sviluppo nel campo sanitario del movimento dei consumatori, cioè dei cittadini utenti come soggetto collettivo e organizzato che agisce come attore sociale (Crozier & Friedberg, 1977), va inquadrato in dinamiche sociali che si situano a livello di macromutamenti e che in quanto tali hanno una forza incontrastabile, pur considerando la situazione di profonda ambiguità e disparità di potere in cui si trova il consumatore dell’offerta sanitaria. Nell’ambito della salute mentale, inoltre, diversi sono gli obiettivi dei gruppi di consumatori in base alla patologia che li accomuna.

Coloro che soffrono di depressione, disturbi alimentari, sindromi ansiose frequentemente considerano il proprio disturbo come una malattia, al pari di quelle fisiche, senza mettere in discussione i modelli interpretativi dei disturbi di cui soffrono e non pongono in agenda temi relativi ai diritti collettivi. Molti di questi gruppi sono attivi nel raccogliere fondi, organizzare e promuovere Servizi, esprimendo a volte critiche e dissenso sulla qualità dei trattamenti o sull’allocazione delle risorse, senza però contestare i fondamenti della psichiatria.

Le persone che invece soffrono di problemi psicotici o disturbi di personalità, al contrario, non sempre accettano lo status di “malattia” della loro condizione o ne ridefiniscono i contenuti, spesso mettono in discussione il modello psichiatrico e hanno come interesse principale i diritti, lo stigma, l’autodeterminazione, la definizione di “malattia mentale”, differenziandosi in questo modo da buona parte dei consumatori in campo sanitario.

 

Il cambiamento nei servizi di Salute Mentale

Vi sono periodi storici in cui avvengono capovolgimenti radicali in grado di mutare paradigmi e prospettive: è ciò che si è verificato negli ultimi cinquant’anni, con la fine dell’epoca dei manicomi e la nascita della psichiatria di comunità ed è ciò che sta accadendo oggi con lo sviluppo dei movimento di utenti con disturbi psichici gravi.

Il fenomeno è iniziato una cinquantina di anni fa con l’entrata in campo delle associazioni dei familiari. Dapprima in Francia nel 1964 con l’Union Nationale des amis et des familles des malades mentaux, poi in Inghilterra nel 1971 con la National Schizophrenia Fellowship e nel 1978 negli Stati Uniti con la National Alliance for the Mentally Ill. Si tratta di organizzazioni che hanno raggiunto livelli di potere rilevante, anche dal punto di vista economico e che hanno contribuito a far conoscere e far emergere nuovi punti di vista sui disturbi mentali, aumentando consapevolezza e tolleranza nelle comunità, influenzando la politica e le strategie dei Servizi di Salute Mentale e divenendo una forza di pressione anche politica senza precedenti (Agnetti, 2006).

Pur riconoscendo l’importanza del loro ruolo, anche come apripista, e le sue implicazioni, bisogna tenere presente che tra i movimenti dei familiari e quelli degli utenti esiste una distanza incommensurabile. Questa è dovuta alla diversa posizione occupata e ai punti di vista differenti, e spesso contrastanti, riguardo ad interessi e valori.

Per le persone sofferenti di disturbi mentali impersonare il ruolo di cittadino utente e attore sociale è stato un cammino più difficile, irto di ostacoli, non ultimo il dover pagare uno scotto storico e implicito alla psichiatria, connesso all’idea che le persone con sofferenza psichica non siano del tutto autonome e soprattutto non siano titolari d’indipendenza di giudizio e attitudine critica rispetto al proprio malessere e quindi ai modi per affrontarlo.

A dispetto di ciò, negli ultimi decenni vi è stato un proliferare di gruppi e organizzazioni di utenti, apparentemente divisi ma nel complesso in grado di acquisire una presenza sempre più visibile in molte parti del mondo, sponsorizzando convegni nazionali e internazionali, partecipando a incontri e congressi su argomenti psichiatrici, sedendo a tavoli in cui si discutono e decidono aspetti di politica sanitaria (Agnetti, 2007).

In Germania un’accentuata spinta alla centralizzazione e una maggiore capacità organizzativa hanno favorito la nascita di una solida associazione nazionale che per le sue dimensioni non ha rivali in Europa, il Bundesverband Psychiatrie Erfahrener. Questa associazione, pur portando avanti con forza posizioni in contrasto con la psichiatria ufficiale, è finanziata dal ministero della salute tedesco ed è considerata un vero e proprio interlocutore dagli amministratori, come altre realtà nei Paesi del nord Europa.

In tutti gli stati degli USA non è raro per gli utenti essere coinvolti nella gestione dei Servizi o gestire in proprio Servizi veri e propri.
In Australia e Nuova Zelanda gli utenti organizzati hanno raggiunto uno status riconosciuto, tanto che la loro presenza come partecipanti ai processi di accreditamento dei Servizi è ormai elemento indispensabile.

La forza del movimento nel suo insieme è notevole, nonostante i gruppi non siano omogenei tra loro e mantengano punti di vista e prospettive differenti, con obiettivi e strategie distinti. Alcuni gruppi si costituiscono prevalentemente come centri di aggregazione, auto-aiuto e promozione dei diritti, altri si pongono in un’ottica di integrazione rispetto ai Servizi Psichiatrici, altri ancora portano avanti l’ambizione di creare Servizi alternativi o di sostenere concezioni e ricerche sui disturbi mentali che si scostino radicalmente da quelle ufficiali, altri infine si pongono in un’ottica di sfida e denuncia rispetto alle pratiche e all’establishment psichiatrico.

Tuttavia questo elemento di divisione anche aspra è fonte di ricchezza e possibilità di confronto.
Mentre nel mondo anglosassone e nel nord Europa l’associazionismo degli utenti è una realtà con cui fare i conti, in Italia, come in tutta l’Europa meridionale, il movimento sta faticosamente emergendo e muovendo i primi passi. Analogamente a ciò che è successo in tutte le parti del mondo, sono stati i familiari ad andare avanti per primi, in nome degli interessi dei loro parenti.

L’occasione di costituirsi come gruppo di pressione è stata fornita dalla chiusura degli ospedali psichiatrici, che ha innescato processi all’inizio rivendicativi ma ben presto approdati a posizioni più mature e costruttive, determinando un risveglio di consapevolezza intorno alle questioni che riguardano i disturbi mentali e le loro cure. Per le persone sofferenti di patologie mentali, anche in Italia, il cammino è stato ed è molto difficile causando un inevitabile ritardo, rispetto ai familiari, nell’assumere un ruolo sociale. Negli ultimi anni tuttavia lo sviluppo di gruppi di utenti organizzati, più o meno in contiguità con gli operatori dei Servizi e le associazioni di familiari, ha preso gradualmente corpo, nonostante molte difficoltà legate a vari fattori culturali, economici, organizzativi e normativi (Re, 2005).

Tra gli ostacoli di ordine culturale bisogna annoverare una scarsa abitudine, fino a poco tempo fa, da parte dei cittadini italiani a esercitare un ruolo partecipativo al di fuori delle tradizionali organizzazioni politiche e sindacali. Inoltre, per quanto riguarda l’offerta sanitaria, la diffusa subordinazione al potere medico con oscillazioni tra atteggiamenti passivi di dipendenza e atteggiamenti rivendicativi, spesso connessi a campagne mediatiche, ha reso difficile per l’utente un ruolo reale e concreto di tipo contrattuale e partecipativo. È anche necessario aggiungere che non esistono, al momento attuale, politiche di sostegno alle associazioni di utenti, come invece succede in altri Paesi dell’Unione Europea. Vi sono infine fattori specifici, riguardanti il contesto psichiatrico italiano, l’assetto dei Servizi di salute mentale e il rapporto tra operatori e utenti. L’influenza di Basaglia, che dalla fine degli anni Sessanta ai primi anni Ottanta ha alimentato la crescita culturale di buona parte degli operatori e ha influito sulla riforma della psichiatria italiana, ha comportato una forte spinta etica e una sensibilità nei confronti delle violazioni dei diritti e delle pratiche violente quali l’elettroshock, la contenzione e in qualche misura anche il ricovero obbligatorio.

Nonostante vi sia a volte un divario, spesso misconosciuto dagli stessi operatori, tra le pratiche e i comportamenti ammissibili e quelli che vengono effettivamente messi in atto, la cornice concettuale dell’assetto psichiatrico italiano garantisce più che in altri Paesi un certo rispetto dei diritti.
L’abolizione dei manicomi e l’impossibilità di accogliere nelle comunità senza consenso, eliminando in pratica la detenzione forzata a lungo termine in ambito psichiatrico, sono state importanti garanzie su cui si è costruita una pratica più umana e attenta alla persona, che ha facilitato i rapporti di fiducia e vicinanza tra operatori e utenti, rendendo più inconsueto per gli utenti prendere posizioni critiche, in modo autonomo e organizzato, nei confronti dell’offerta di cura.

 

I Servizi di Salute Mentale oggi: la riabilitazione partecipata

Nell’insieme, a parte alcune eccezioni, i Servizi di salute mentale diventano facilmente punti di riferimento costante e molti sono inclini a sviluppare pratiche di riabilitazione partecipata.
Per questo motivo in Italia vi è una cultura consolidata del fare insieme e, in questa prospettiva, troviamo da più parti gruppi di auto-aiuto con la presenza di operatori dei Servizi di salute mentale in qualità di facilitatori e gruppi misti di utenti, familiari e operatori (Cirri, 1997).
Questo fenomeno è in crescita e come spesso avviene quando s’introducono cambiamenti, dopo una partenza stentata e vacillante, inaspettatamente si innescano sviluppi che non è possibile arrestare.

La presenza di un movimento degli utenti è destinata a introdurre profonde modifiche nel rapporto tra Servizi e utenti e tra operatori e soggetti affetti da disturbi psichiatrici. Alcuni elementi sono già delineati: innanzitutto un aumento della contrattazione a tutti i livelli, da quello più intimo dell’interpretazione del malessere e della gestione dei provvedimenti terapeutici, di cui la farmacoterapia è solo un aspetto, a quello della politica e dell’organizzazione dei Servizi, con la conseguente incorporazione di altri punti di vista che mettono in crisi il potere clinico con le sue esclusive prerogative di definizione e decisione (Agnetti, 2007).

È evidente che fare i conti con il movimento degli utenti significa accettare sfide difficili e allora, perché mai farlo? Vi sono ragioni a favore che sono etiche, politiche, scientifiche e cliniche. Dal punto di vista etico vi è il dovere di dare ascolto e voce agli interessati, senza contare il fatto che questo è ormai un imperativo storico da cui non è possibile esimersi. In termini di politica sanitaria è necessario riconoscere che non solo i Servizi Psichiatrici formali, ma neppure il mondo del privato sociale e della cooperazione possono ambire a governare programmi e progetti senza prendere in considerazione il punto di vista degli utenti sull’erogazione dei Servizi di salute mentale e su ciò che viene da loro esperito come importante.

Infine vi sono le ragioni scientifiche e cliniche: le ricerche ci dimostrano che il coinvolgimento delle persone nelle decisioni che le riguardano e il fatto di poter esercitare un ruolo attivo rispetto alla propria cura producono esiti migliori. Inoltre, tener conto delle valutazioni degli utenti e della loro esperienza soggettiva rispetto a sofferenza e cure migliora da un lato l’adesione al trattamento e dall’altro la comprensione clinica, per la quale è indispensabile cogliere le dimensioni significative dell’esperienza soggettiva (Bentall, 2003).

In un certo numero di Paesi l’affermarsi del movimento degli utenti ha modificato l’importanza data alle esigenze dei soggetti destinatari del Servizio di assistenza ed ha influenzato le politiche della salute mentale. Esso ha fatto aumentare in particolare, l’inserimento di persone affette da disturbi mentali nel sistema tradizionale di salute mentale ed in altri Servizi sociali. Tra i programmi gestiti dagli utenti figurano centri di consultazione senza appuntamento, programmi di presa in carico di casi, programmi periferici e Servizi di crisi.

È evidente che le associazioni degli utenti di tutto il mondo vogliono che la loro voce sia udita e presa in considerazione nelle decisioni inerenti la loro vita. Gli individui affetti da disturbi mentali hanno il diritto di farsi sentire nel dibattito sui princípi e le pratiche di salute mentale ai quali partecipano i professionisti, le famiglie, il legislatore ed i leader di opinione. Al di là delle etichette e delle diagnosi, si tratta di persone “a tutto tondo”, che, malgrado ciò che possono pensare gli altri, hanno idee, opinioni, speranze ed ambizioni (Chamberlin, 2004).

Per molti Autori (Kennedy, 2003) gli utenti sono da considerare degli esperti e prendere in considerazione la loro prospettiva è doveroso per motivi etici. L’esperienza che gli utenti acquisiscono circa la malattia e le cure viene infatti ritenuta insostituibile. Negli expert patient programs creati dal Chief Medical Officer del Regno Unito nel 1999, ad esempio, alcuni utenti di Servizi Sanitari affetti da patologie croniche vengono coinvolti nell’educazione degli operatori sanitari e degli altri utenti (Faulkner & Thomas, 2002). Tale approccio, nel quale la responsabilità dei Servizi Sanitari viene condivisa con la comunità, si ispira all’organizzazione dell’assistenza sanitaria in alcuni paesi del terzo mondo (McKenzie et al., 2004; Battersby, 2004).

Vi sono evidenze preliminari che suggeriscono come vi possa essere un effetto positivo sulla qualità dei Servizi di Salute Mentale derivante dalla valorizzazione dell’esperienza degli utenti (Crawford et al., 2002). Ciò potrebbe comportare una maggiore focalizzazione degli interventi sui problemi effettivamente ritenuti prioritari dagli utenti e dai loro familiari, una maggiore condivisione degli obiettivi ed una ottimizzazione nell’utilizzo delle risorse. Strategie terapeutiche basate su decisioni condivise e una maggiore attenzione alla soddisfazione degli utenti potrebbero, infatti, avere delle ricadute positive sia sull’efficacia che sull’efficienza nell’utilizzo delle risorse nell’ambito dei Servizi di Salute Mentale. Il coinvolgimento degli utenti dei Servizi di Salute Mentale e dei loro familiari nella programmazione e nella valutazione degli stessi Servizi è, peraltro, esplicitamente raccomandato nella politica sanitaria del Regno Unito e di altri Paesi (Simpson & House, 2003).

Esiste nella letteratura scientifica un crescente interesse per il coinvolgimento degli utenti anche nella ricerca. Viene, infatti, ritenuto che un’esperienza personale di sofferenza possa generare una competenza diversa da quella dei ricercatori e che questa competenza sia utile alla ricerca (Townend & Braithwaite, 2002; Trivedi & Wykes, 2002).
Importanti enti finanziatori britannici come il Medical Research Council ed il Community Fund (The National Lottery) prevedono già oggi che un progetto di ricerca, per poter essere finanziato, contempli qualche forma di collaborazione con gli utenti (Beresford, 2005).

L’unità di ricerca Service User Research Enterprise (SURE), presso l’Istituto di Psichiatria di Londra, rappresenta poi un esempio di come il coinvolgimento degli utenti-ricercatori possa coniugarsi con una ricerca di eccellenza. Il gruppo, che è costituito per il 100% da utenti-ricercatori, si finanzia concorrendo in modo competitivo all’assegnazione di fondi di ricerca ed è in grado di produrre ricerche d’impatto nazionale ed internazionale. È significativo che questa unità sia sorta in risposta a un’esigenza di partecipazione a tutti i livelli del processo di ricerca sentita dagli utenti (Thornicroft et al., 2002).

Effetti positivi, sotto forma di empowerment e di acquisizione di nuove competenze, vengono riferiti pressoché unanimemente per gli utenti che venivano coinvolti in progetti di ricerca. La pratica di formare gli utenti-ricercatori sui metodi di ricerca risulta indispensabile per favorire una situazione di parità tra utenti-ricercatori e ricercatori professionisti, ma anche per garantire una buona qualità delle ricerche stesse (Ochocka et al., 2002).

Quindi fonti diverse e indipendenti ci dimostrano che il coinvolgimento degli utenti dei Servizi di salute mentale nelle decisioni che li riguardano e il fatto di poter esercitare un ruolo attivo rispetto alla propria cura producono esiti migliori nel trattamento, nell’adesione al trattamento stesso, nella comprensione clinica e nel benessere in generale. Al di là delle etichette e delle diagnosi, le persone con problemi gravi hanno idee, opinioni, speranze ed ambizioni, ed è per questo che è importante ascoltare la loro voce.

La costruzione sociale e individuale dell’identità sessuale

Quanto l’opinione delle persone a noi vicine può condizionare il modo di vivere la propria identità sessuale? In particolare mi riferisco a chi ha un orientamento sessuale non etero. Può questa opinione essere talmente condizionante da far sì che la persona si mostri in pubblico per quella che non è?

Jigen

 

Caro Jigen,

facendo riferimento alla branca sociale della psicologia si può affermare che la manifestazione del Sé implica sempre la presenza di un “altro”, prerogativa che fa del Sé una costruzione sociale. Ciò significa che nella vita di tutti i giorni il personale processo della formazione dell’identità viene influenzato dal contesto nel quale si è immersi: dagli altri significativi, dal gruppo dei pari, dai valori predominanti ecc.

Così anche l’identità sessuale può risentire della presenza dell’“altro” e senza dubbio una persona che ha un orientamento sessuale non etero se immersa in un contesto socio-culturale ostile può faticare ad esprimere pienamente il suo essere e a vivere serenamente la propria sessualità. Detto questo, è però importante che ognuno di noi si impegni a fronteggiare in modo positivo i conflitti e le problematiche che caratterizzano l’esistenza al fine di acquisire piena padronanza ed accettazione della propria identità. Per sperimentare un senso di benessere personale caratterizzato dalla libera espressione del Sé è dunque fondamentale non farsi condizionare dalle aspettative altrui dal momento che non sempre coincidono con le proprie.

Valentina Orlandi

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il doppio legame delle donne: perché ci sono meno donne in posizione di leadership?

Secondo la psicologa sociale Alice Eagly, il ruolo di genere femminile include lo stereotipo che le donne sono belle, gentili e compassionevoli; tuttavia, una posizione di leadership richiede la capacità di prendere decisioni difficili, di essere molto assertivi nel portare avanti un’idea, la capacità di licenziare per giusta causa, etc. Per questo, quando parliamo di donne che occupano posizioni di potere, inconsciamente facciamo collidere aspetti profondamente antitetici che la nostra cultura di riferimento ha impresso in noi.

 

L’avvicinarsi delle elezioni americane che vedono contrapposti i due leader Hillary Clinton e Donald Trump, ripropone l’annosa questione di come sono percepite le donne “al potere”. Consideriamo, ad esempio, che meno di 1 membro su 5 al Congresso americano è donna. Anche la Fortune 500 – celebre classifica delle 500 maggiori imprese americane, redatta sulla base del loro fatturato – conta meno di 1 amministratore delegato donna su 20.

Come si spiega la scarsità di donne in posizioni di top-leadership? C’entrano forse i pregiudizi, la mancanza di modelli di ruolo o semplicemente una mentalità arretrata? Certo. Le ricerche, tuttavia, stabiliscono che le donne americane sono intrappolate in un paradosso radicato nella loro cultura.

Per capire il valore di uno stereotipo, dobbiamo concentrarci sul concetto di metafora. L’uso di questa figura retorica, che implica una similitudine, un rapporto analogico tra un vocabolo che generalmente veicola un altro significato e un concetto, implica che differenti vocaboli elicitino differenti concetti. In parole povere, le parole che utilizziamo per le nostre metafore influenzano ciò che ci rappresentiamo nella mente, esponendoci a pericolosi misunderstanding. Per questo è centrale il loro ruolo nell’ innescare i pregiudizi e, più in generale, nelle attribuzioni di significato date ai fenomeni della nostra realtà. In un’ottica costruttivista, infatti, la realtà assume il significato che gli diamo. Appunto “costruiamo” ciò che ci circonda.

 

Gender bias e double bind: un esempio dagli USA

La senatrice democratica americana Carol Moseley Braun, eletta nel 1992, è stata la prima donna afro-americana ad aver raggiunto tale traguardo politico e professionale. Nella sua corsa per il Senato, potremmo presumere che i pregiudizi razziali la abbiano ostacolata più del fatto di essere donna. Ma non è così.

La Braun afferma, infatti, che i cosiddetti gender bias (o pregiudizi di genere) hanno avuto un ruolo più profondo e centrale, rispetto a quelli razziali. Ad esempio, la senatrice ricorda una vignetta nella quale era ritratta come burattino nelle mani del manager della sua campagna, come se la sua persona fosse una diretta estensione del volere di altri. Sembrava, quindi, contasse poco la volontà, le idee e il carattere della senatrice stessa.
La Braun racconta un altro episodio, avvenuto al termine della sua campagna dove, mentre era impegnata in un appello di fronte al Senato, i suoi colleghi si limitavano ad osservarla come una donna intenta semplicemente a “strillare”. In poche parole il contenuto del suo discorso non era considerato degno di un reale ascolto.

La sua esperienza si ricollega a ciò che i ricercatori hanno chiamato “doppio legame” (double bind).
Questo concetto, introdotto per la prima volta nel mondo della psicologia da Bateson, indica una situazione di incongruenza tra due piani del discorso. Nel nostro caso, secondo la psicologa sociale Alice Eagly, il ruolo di genere femminile include lo stereotipo che le donne sono belle, gentili e compassionevoli; tuttavia, una posizione di leadership richiede la capacità di prendere decisioni difficili, di essere molto assertivi nel portare avanti un’idea, la capacità di licenziare per giusta causa, etc. Per questo, quando parliamo di donne che occupano posizioni di potere, inconsciamente facciamo collidere aspetti profondamente antitetici che la nostra cultura di riferimento ha impresso in noi.

Quindi cosa dovrebbe fare una donna? Essere gentile e amichevole, come i nostri stereotipi di genere femminile richiedono, oppure essere dura e decisa, come i nostri stereotipi sulla leadership impongono? Nel primo caso probabilmente avremmo una donna bella-ma-debole. Nel secondo, competente-ma-antipatica. E’ facile capire, perciò, come gli stereotipi intrappolino le donne che hanno desiderio di ricoprire ruoli di potere e responsabilità e come conducano, inevitabilmente, alla denigrazione qualora la donna in questione si distanzi da uno dei due poli sovracitati (i.e., la donna bella-ma-debole e la donna competente-ma-antipatica).

 

Lo studio

Quando osserviamo un capo di sesso femminile, come facciamo a sapere se stiamo realmente esaminando la realtà nel modo più oggettivo possibile o semplicemente ciò che vediamo è una distorsione prodotta dalle lenti dei nostri pregiudizi inconsci?

Madeline Heilman, professoressa di psicologia alla New York University si concentra sugli stereotipi di genere e sui pregiudizi, in particolare connessi alla leadership. In uno dei suoi studi, la Heilman ha chiesto a dei volontari di valutare un manager di alto livello che fa il suo ingresso in azienda. Ad alcuni era detto che il manager era un uomo, ad altri che era una donna. Dai risultati emergeva come i volontari tendessero ad attribuire più spesso qualità come l’ambizione e il potere al sesso maschile e molto meno di frequente a quello femminile.

Secondo la professoressa americana, il doppio legame nasce dal fatto che le nostre menti tendono ad allineare i nostri stereotipi di genere a quelli riguardanti la leadership. Abbiamo, infatti, concezioni ben precise di cosa comportino certi posti di lavoro e l’immagine che abbiamo generalmente delle donne spesso non ricalca le richieste intrinseche alle posizioni di potere.

Curiosamente, questi stereotipi non sono propri solo del sesso maschile, ma appartengono anche al mondo femminile, il che spiega perché la derisione nei confronti dei leader femminili proviene da entrambi i sessi (i.e., donne che malvedono altre donne). In aggiunta, i nostri sentimenti nei confronti di come gli uomini e le donne dovrebbero essere, sono spesso così chiari da indurci a provare antipatia quando una donna “oltrepassa la linea” e si ritrova in posizioni sociali che i nostri stereotipi non permetterebbero loro di ricoprire.

La buona notizia è che gli stereotipi sono direttamente collegati alla cultura, e che questa periodicamente cambia.

Che cos’è la sindrome di Raperonzolo e perché alcune persone mangiano i propri capelli?

La sindrome di Raperonzolo è una rara condizione medica in cui i capelli che la persona ingerisce formano una massa aggrovigliata (tricobezoario) che rimane intrappolata nello stomaco estendendosi fino all’intestino tenue.

 

Che cos’è la sindrome di Raperonzolo?

Chi non ricorda la favola di Raperonzolo che, rinchiusa in una torre, scioglieva la sua chioma per permettere al suo amato di incontrarla, arrampicandosi sui suoi lunghi capelli?
Questa storia, nata dall’ingegno dei Fratelli Grimm, ha ispirato la scienza per identificare la sindrome di Raperonzolo, una rara condizione medica in cui i capelli che la persona ingerisce formano una massa aggrovigliata (tricobezoario) che rimane intrappolata nello stomaco estendendosi fino all’intestino tenue.

 

Un caso di sindrome di raperonzolo (tricobezoario)

Di recente, Waqas Ullah, Kaiser Saleem, Ejaz Ahmad, Faiz Anwer hanno pubblicato un caso sul BMJ Case Reports. Una donna di 38 anni è stata sottoposta ad una procedura chirurgica per rimuovere due tricobezoari dal suo corpo: uno (15x10cm) dallo stomaco ed uno più piccolo (4×3 cm) dall’intestino tenue. Come l’85-95% dei pazienti che soffrono della sindrome di raperonzolo, la donna è giunta dal medico lamentando dolori addominali, nausea e vomito. Altri sintomi tipici includono gonfiore di stomaco, appetito ridotto, perdita di peso e costipazione/diarrea. In alcuni casi, l’intestino può perforarsi, causando sepsi. La morte si verifica nel 4% dei casi. Fortunatamente, la donna ha avuto un pieno recupero, ma rimane ignoto il motivo per cui abbia mangiato i suoi capelli (o forse quelli di altre persone) e, in secondo luogo, per quanto tempo lo abbia fatto. Ci vogliono sei mesi affinché si formi una tricobezoario nello stomaco e la letteratura riporta che i pazienti possono fronteggiare i sintomi fino a 12 mesi prima di richiedere un trattamento.

La paziente sopracitata rappresenta l’89° caso documentato e pubblicato in letteratura medica di sindrome di Raperonzolo. Gli autori che hanno presentato il caso, hanno inoltre operato una sistematica revisione della letteratura precedente esaminando quanto emerso fino ad oggi. La review ha evidenziato che circa il 70% dei pazienti con sindrome di Raperonzolo sono donne di età inferiore ai 20 anni. Si ritiene che la sindrome sia una prerogativa femminile dal momento che i capelli di una donna sono tipicamente più lunghi ed è più probabile che si blocchino tra le mucose dello stomaco, causando il blocco.

 

Perché le persone mangiano i propri capelli?

Alcune persone affette da disturbi psichiatrici hanno la tendenza ad ingerire i propri capelli, un comportamento noto come tricofagia e chi ne soffre corre più rischio di sviluppare la sindrome di Raperonzolo. Sono due i disturbi che affliggono queste persone: la tricotillomania e la pica.

Le persone affette da tricotillomania si sentono costrette a strapparsi ciocche di capelli, fino al punto di procurarsi una perdita di capelli visibile. E’ molto comune poi per queste persone giocare con i capelli strappati, ad esempio mordicchiandone la radice o appoggiando il capello sulle labbra: tutti comportamenti che servono a calmare chi li attua. Uno studio ha evidenziato che su 24 persone affette dal disturbo, il 25% di loro ha sviluppato un tricobezoario nello stomaco.

Il termine pica deriva dalla parola latina usata per identificare la gazza ossia “pica pica” ed è un chiaro riferimento all’inusuale comportamento alimentare che contraddistingue quest’uccello. Il disturbo, pertanto, identifica un comportamento alimentare caratterizzato da craving e ingestione di sostanze non nutrenti e non alimentari come argilla, sporcizia, carta, sapone, vestiti, lana, piccoli sassi e, appunto, capelli. La pica non viene tendenzialmente diagnosticata durante l’infanzia poiché l’atto di mettere in bocca (e accidentalmente ingerire) sostanze non alimentari è considerato normale in questa fase di sviluppo; ma oltre ai bambini ci sono altre condizioni in cui la pica è comune, come ad esempio in gravidanza o in caso di disabilità intellettiva.

Sono state avanzate molte ipotesi per spiegare la tricofagia e la pica, come fame sperimentata in casi di carestia, povertà o trascuratezza in infanzia oppure come una modalità di coping dello stress oppure, ancora, come pratica culturale; a tal proposito, ad esempio, in alcune regioni dell’India, dell’Africa e degli Stati Uniti, mangiare l’argilla è considerata una pratica che produce benefici fisici e spirituali.

Sia la tricofagia che la pica spesso si verificano in persone che hanno carenza di ferro. In alcuni casi documentati di sindrome di Raperonzolo, la compulsione di strapparsi i capelli e poi ingerirli è scomparsa dopo che i pazienti sono stati trattati per carenza di ferro o per celiaci (la Malattia Celiaca provoca danni all’intestino tenue, che inducono uno scarso assorbimento dei nutrienti). I capelli contengono tracce di ferro e altri minerali, ma non è chiaro se questo favorisce una sorta di spinta biologica ad ingerirli; in effetti, alcuni studi hanno riscontrato che il blocco causato dal tricobezoario è in realtà la causa principale della carenza di ferro, e non viceversa.

 

Quali sono i trattamenti per la sindrome di raperonzolo?

Nella maggior parte dei casi, l’intervento della chirurgia è necessario per rimuovere la palla di capelli in unica soluzione. Tuttavia, è anche possibile sciogliere il tricobezoario con l’ausilio di prodotti chimici, romperlo in pezzi più piccoli con un laser o rimuoverlo in endoscopia; sebbene questi metodi abbiano meno successo della chirurgia.
Un percorso psicoterapeutico è raccomandato per prevenire future problematiche di tricofagia. Questo è particolarmente importante per le persone che soffrono di tricotillomania o pica da stress poiché rischiano di sviluppare nuovamente la sindrome di Raperonzolo. Infine, coinvolgere genitori e coniugi/compagni nel trattamento psicologico è molto importante per fornire supporto al paziente e anche perché la sindrome di Raperonzolo spesso può turbare anche quest’ultimi.

La natura eterogenea dei sintomi della depressione

I sintomi della depressione possono essere diversi da paziente a paziente, essi vanno a compromettere il funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti per il soggetto.

Mariagrazia Zaccaria

 

La depressione è un disturbo dell’umore e può assumere la forma di un singolo episodio transitorio (si parlerà in questo caso di episodio depressivo), oppure di un vero e proprio disturbo (si parlerà di disturbo depressivo). I soggetti che presentano i sintomi della depressione mostrano e provano frequenti stati di insoddisfazione e tendono a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di tale patologia vivono costantemente in una condizione di negatività e pessimismo circa se stessi e il proprio futuro.

La depressione è quindi generalmente considerata come una patologia caratterizzata da un insieme di sintomi, che vanno a compromettere il funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti per il soggetto.

Essa si manifesta attraverso una serie di sintomi, che variano da paziente a paziente, ed è spesso trattata con una combinazione di psicoterapia e farmaci. Le scale di valutazione standard utilizzate dagli operatori sanitari e dai ricercatori per la diagnosi di questa malattia spesso si differenziano per i sintomi che presentano, e questo potrebbe spiegare perché il trattamento one-size-fits-all è risultato inefficace fino ad oggi.

In questo articolo si parla della ricerca condotta dalla Dott.ssa Eiko Fried presso l’università di Amsterdam (UVA) dove, i suoi risultati sono stati pubblicati nell’ultima edizione del Journal of Affective Disorders.

La depressione è spesso vista come un disturbo medico comune, ma a differenza dei disturbi fisici per i quali gli esami del sangue e altri esami oggettivi consentono di fare una diagnosi efficace e affidabile, diversa è la situazione per fare diagnosi di depressione in quanto non ci sono misure oggettive tali per determinare se una persona è depressa o meno.

In letteratura e secondo i criteri diagnostici riconosciuti dai principali sistemi diagnostici vi sono sintomi della depressione particolarmente indicativi come ad esempio umore deflesso, ideazione suicidaria e problemi del sonno (insonnia o ipersonnia) e altri. Se in una persona vi è una copresenza di una serie di specifici sintomi – sia somatici che psicologici- si può fare diagnosi di depressione.

 

Eterogeneità dei sintomi della depressione

Nel suo studio, Fried ha utilizzato un’ analisi dei contenuti per indagare la sovrapposizione dei vari sintomi con 7 scale di valutazione dei sintomi che vengono utilizzati nella ricerca per la depressione. Una di queste scale è la Hamilton Rating Scale, che include 17 sintomi della depressione prevalentemente fisici come la perdita di peso e il rallentamento psicomotorio. Un’ altra scala è la Beck Depression Inventory, che comprende 21 sintomi della depressione per lo più cognitivo-affettivi quali il sentimento di inutilità, senso di colpa, pianto o auto-avversione.

La Fried afferma che queste scale, e altre scale di valutazione mostrano poca sovrapposizione nella valutazione dei sintomi. Inoltre, queste scale insieme dispongono di un totale di 52 diversi sintomi della depressione che vanno dalla tristezza, alla mancanza di interesse, alla ideazione suicidaria, irritabilità e ansia.

Questi risultati sottolineano l’eterogeneità di questa patologia. Tuttavia, il fatto che 7 diverse scale di valutazione contengono più di 50 differenti sintomi mostra come i pazienti possano essere sorprendentemente diversi e mette in risalto, inoltre, la necessità di un trattamento più personalizzato che potrebbe spiegare perché gli antidepressivi “one-size-fits-all” mostrino così poca efficacia.

 

Esito predeterminato

Secondo la Dottoressa Fried, le sue scoperte suggeriscono che a seconda del tipo di scala che il ricercatore utilizza si potrebbe stabilire il tipo di paziente.

E’ lei stessa a cercare di spiegarlo con un esempio: se un ricercatore utilizza la scala di Hamilton, che si concentra prevalentemente sui sintomi fisici, il tipo di partecipanti che andrà ad esaminare nel suo studio, differirà notevolmente da quelli che un altro ricercatore starà esaminando con la scala cognitiva-affettiva di Beck.

Questo è stato anche evidenziato da precedenti studi, i quali dimostrano che i soggetti affetti da depressione differiscono sia nei problemi che sperimentano che nei sintomi che si presentano.

Tutto ciò spiega, secondo la Fried, perché così tanti studi sulla depressione mostrano conclusioni molto diversificate tra di loro.

Il disagio psicologico nel paziente con diabete mellito

La diagnosi di diabete mellito determina l’insorgere di una situazione di paura e insicurezza che può influire negativamente sulla corretta attuazione delle attività di cura. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di contenimento dell’ansia, l’intervento di uno psicologo è ritenuto necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per progettare gli aspetti formativi del malato.

Elena Maggio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Nell’assistenza alla persona con diabete l’aspetto dell’educazione e dell’empowerment è di importanza fondamentale. La diagnosi di diabete mellito determina, infatti, l’insorgere di una situazione di paura e insicurezza che può influire negativamente sulla corretta attuazione delle attività di cura. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di contenimento dell’ansia, l’intervento di uno psicologo è ritenuto necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per progettare gli aspetti formativi del malato.

Si individuano pertanto le tematiche di interesse psicologico nella fase di comunicazione della patologia diabetica, in quella di definizione degli interventi di cura e nella fase di sostegno al malato che si trova a riprogettare la propria esistenza in funzione di questa patologia.

Il diabete mellito facilita la comparsa di disturbi psicopatologici come depressione e ansia, che a loro volta influenzano la gestione della malattia stessa. Il lavoro dello psicologo risulta di importante supporto nella fase di cura della patologia. La pratica ha dimostrato l’effetto negativo che le dinamiche psicosociali possono avere sulla capacità del paziente di aderire correttamente alle indicazioni terapeutiche. Si tratta quindi di promuovere un atteggiamento di adesione del malato alla terapia e, nello stesso tempo, di sviluppare un coping efficace, facendo sì che il soggetto veda il diabete mellito come un problema piuttosto che come una minaccia. Ne consegue che il buon adattamento alla malattia dipende dal tipo di strategie individuali che il paziente mette in atto per affrontarla.

Il diabete mellito (diabete di tipo 2) è uno dei maggiori problemi sanitari dei paesi industrializzati e la sua prevalenza è in continuo aumento. Secondo l’OMS il diabete mellito indica un gruppo di disordini metabolici caratterizzati da iperglicemia cronica, alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico e proteico dovuti a difetti della secrezione insulinica, dell’azione insulinica o entrambe, e dallo sviluppo progressivo di specifiche complicanze. E’ una malattia provocata da una carenza, totale o parziale, di insulina, un ormone secreto dalle beta-cellule di una zona del pancreas chiamata “isole di Langherhans”.

L’insulina è necessaria al metabolismo del glucosio: la secrezione di una giusta quantità di insulina è una condizione indispensabile per la regolazione del tasso di zuccheri nel sangue. Quando la glicemia sale, il glucosio urinario inizia ad aumentare e causa per osmosi l’eliminazione di acqua, vi è quindi un aumento delle urine prodotte. Il paziente ha uno stimolo ad urinare molto frequente che porta ad una disidratazione dell’organismo. Per compensare questa perdita di acqua e mantenere costante la quantità dei liquidi corporei l’organismo compensa con lo stimolo della sete (Musacchio N., 1999).

Oltre a questa sete intensa, il diabetico ha un aumento della fame che porta a un’iperalimentazione, dovuta al fatto che le cellule non possono utilizzare il glucosio, anche se questo è aumentato nel circolo. Alcuni centri cerebrali, che regolano il senso della fame, non ricevono l’apporto energetico del glucosio e inviano segnali che spingono il soggetto ad iperalimentarsi. La scarsa utilizzazione del glucosio riduce le riserve energetiche dell’organismo e determina un senso costante di stanchezza. L’organismo del diabetico non può utilizzare il glucosio e deve utilizzare i grassi e le proteine corporee determinando una perdita di peso.

La terapia del diabete mellito si basa su quattro presidi terapeutici diversi: l’insulina, gli ipoglicemizzanti orali, la dieta, l’esercizio fisico. La terapia prevede innanzitutto una dieta che permetta di avere un peso corporeo corretto, senza abusare di carboidrati, in secondo luogo è necessaria un’attività sportiva che aumenti la sensibilità all’insulina, riducendo l’insulinemia a riposo. In sostanza bisogna riportare l’organismo in condizioni di efficienza fisica e alimentare per riportare il funzionamento del meccanismo dell’insulina nella normalità.

Per quel che riguarda i farmaci, agiscono in due modi: da una parte stimolano le cellule B a produrre più insulina e dall’altra rendono le cellule dei tessuti periferici più sensibili all’insulina di modo che queste cellule utilizzino al meglio gli zuccheri (Zanussi C., 2004).

 

Gli impatti psicologici di una diagnosi di diabete mellito

Il legame tra diabete mellito e disturbi dell’umore è noto almeno dagli anni ’50. I sintomi della depressione includono la persistente tristezza o l’incapacità di provare gioia, la perdita o l’ incremento d’appetito, l’insonnia, l’apatia, la difficoltà di concentrazione, i sentimenti di disperazione ed inutilità, i pensieri negativi come idee suicidarie, irritabilità, ansietà, nervosismo, sensi di colpa.

A volte le persone depresse trovano difficile fronteggiare i programmi e le attività quotidiane, e riportano rilevanti difficoltà nei vari campi della vita. Mentre la depressione è molto comune fra la popolazione generale, alcuni studi clinici indicano come essa sia ancora più frequente nei malati cronici. Ciò potrebbe essere dovuto a numerosi fattori, tra cui lo stress derivante dal trattamento e dal controllo della malattia, gli effetti sulle funzioni cognitive, gli effetti collaterali o le complicazioni intrinseci alla terapia farmacologica (Rotella C.M., Mannucci E., Cresci B., 1999). Alcune meta-analisi hanno evidenziato una frequente associazione fra diabete mellito e depressione. Si stima che il 15-20% (fino al 30%) di persone con diabete tipo 1 e tipo 2 presenti una sintomatologia depressiva (Barnard K.D., Skinner T.C., Peveler R., 2006).

Lustman e Anderson hanno accertato che i soggetti con diabete mellito hanno una probabilità circa doppia, rispetto alla popolazione non diabetica, di sviluppare una sindrome depressiva (Lustman P.J., Anderson R. J., 2000). Gli stessi autori hanno messo in evidenza che la co-presenza della depressione rappresenta una delle cause principali di insuccesso di qualunque processo di gestione e management della malattia cronica.

Quest’ultimo dato è stato confermato da una meta-analisi di Gonzales e collaboratori che ha accertato che la depressione comune nei pazienti diabetici è associata a mediocri risultati ottenuti dalle cure. Questa meta-analisi ha studiato il rapporto tra depressione e non aderenza al trattamento per il diabete nei pazienti diabetici di tipo 1 e di tipo 2 e i risultati ottenuti da 47 campioni indipendenti hanno mostrato che vi era una significativa associazione tra depressione e non aderenza al regime di trattamento del diabete mellito. Le dimensioni dell’effetto registrano i massimi livelli per gli appuntamenti medici mancati e per le varie procedure dell’autocura (Gonzales J. et coll, 2008).

Il diabete mellito richiede del resto diligenza, cura della malattia, un rigoroso controllo giornaliero dei vari aspetti della vita e della salute. La dieta, l’attività fisica, la terapia, il monitoraggio glicemico, le visite mediche, l’attenzione ad altre malattie e alle complicanze rappresentano una routine e, considerati i sintomi depressivi e le difficoltà che possono creare, è ragionevole presupporre che la presenza di depressione abbia un impatto rilevante sul controllo del diabete.

Oltre alla depressione, il diabete mellito facilita la comparsa anche di altri disturbi psicopatologici come l’ansia e i disturbi alimentari che influenzano a loro volta la gestione della malattia.

L’ansia e lo stress provocati dalla malattia possono raggiungere livelli così elevati da ostacolare il raggiungimento di buoni valori glicemici e di un’autogestione adeguata. È possibile far emergere componenti ansiose più o meno nascoste in varie fasi del diabete (alla diagnosi, a ogni cambiamento di terapia, nel passaggio all’insulina, ecc.). Un discorso a parte riguarda i genitori di bambini diabetici, spesso sono questi adulti, più che i piccoli pazienti, a richiedere un supporto di tipo psicologico, almeno nelle prime fasi di malattia (Ricci Bitti P.E., 2002).

Tra i sintomi dell’ansia c’è la facilità all’affaticamento, i disturbi del sonno, l’irritabilità, l’irrequietezza, la tensione muscolare. Come per i disturbi depressivi, l’ansia rappresenta una barriera importante al trattamento.

 

Diabete mellito e controllo

A livello personale, molti pazienti presentano anche problemi di vario tipo, riguardanti la sfera del “controllo”, ci sono persone che hanno difficoltà ad accettare le regole, a mettere sotto controllo alcuni aspetti di sé. È necessario allora lavorare tenendo conto di questa riluttanza a sentirsi controllati, della difficoltà ad accettare la sensazione di perdere il controllo sulla propria vita (Skinner T.C., Davies M.J., Farooqi A.M., Jarvis J., Tringham J.R., Khunti K., 2005).

Innanzitutto, per alcuni pazienti abituati a tenere tutto sotto il proprio controllo è molto ansiogeno pensare di affidare “per sempre” la propria vita a un medico, o accettare di delegare a un altro la propria cura e le decisioni relative alla propria salute. Allo stesso modo per queste persone è difficile accettare le oscillazioni legate alla malattia (per esempio, gli sbalzi imprevedibili della glicemia),quindi tollerare il fatto che non sia sempre possibile controllare in toto la propria malattia (Ricci Bitti P.E.,2002). Questi pazienti trovano utile ricevere molte informazioni, in modo da avere la possibilità di sapere cosa sta accadendo. Devono essere rassicurati sulla possibilità di tenere la situazione sotto controllo, così come sono stati sempre abituati a fare e nello stesso tempo è necessario lavorare affinché riescano gradualmente a tollerare delle aree di non controllo.

 

Diabete e dipendenza

Un altro aspetto importante è quello legato alla “dipendenza”, proprio perché alcuni pazienti faticano ad accettare di dipendere da altre persone (medici, infermieri), ma anche da un farmaco. Questo problema è comune a molti pazienti insulino-dipendenti, cioè pazienti la cui esistenza “dipende dall’insulina”. In altri, invece, si evidenzia il problema opposto, un’eccessiva dipendenza, un’estrema difficoltà a fare da soli, ad auto-gestirsi, per cui richiedono una costante “supervisione”(Ricci Bitti P.E., 2002).

Lavorando sui comportamenti di questi pazienti, è spesso necessario distinguere e analizzare tre elementi: i pensieri, le emozioni, i comportamenti. Spesso, infatti, questi pazienti raccontano i loro comportamenti, ed è necessario aiutarli a considerare che essi sono correlati a pensieri ed emozioni sottostanti. In effetti, pensieri, emozioni e comportamenti si influenzano tra di loro, ma spesso non ne sono consapevoli, specialmente dell’influenza dei pensieri sulle emozioni e sui comportamenti.

L’analisi dei pensieri e delle emozioni porta spesso ad individuare un atteggiamento di rabbia, una delle emozioni che maggiormente traspaiono dai discorsi dei pazienti con diabete mellito, a volte in modo manifesto, altre in forma più velata, ma sempre significativa. Spesso emerge una rabbia nei confronti della malattia che viene percepita come un “nemico” da combattere, da tenere a bada, un nemico che, però, non potrà mai essere definitivamente sconfitto. I pazienti compiono un passo significativo nel momento in cui passano dalla visione della malattia come nemico da sconfiggere a quella di un elemento di sé con cui “convivere”, con cui giungere a un compromesso (Ricci Bitti P.E., 2002). La rabbia è anche spesso collegata a un altro vissuto tipico, quello di aver subito un danno, di essere stati ingiustamente danneggiati o penalizzati. Da ciò emerge un bisogno di risarcimento, che nasce su basi inconsapevoli e che porta il soggetto ad assumere atteggiamenti apparentemente inspiegabili.

 

L’educazione del paziente diabetico e il ruolo dello psicologo nel team diabetologico

Il processo educativo ha come obiettivo sia insegnare al diabetico a convivere con la malattia, sia raggiungere gli obiettivi clinici della terapia e della prevenzione delle complicanze. Ha quindi due aspetti: uno educativo, indirizzato alla qualità della vita, e uno clinico-biologico indirizzato al mantenimento dello stato di salute fisico. L’informazione fa parte del dialogo tra il curante e il malato ed è costituita da un insieme di consigli, raccomandazioni e istruzioni.

L’educazione è invece “la scelta di obiettivi di apprendimento e l’applicazione di tecniche d’insegnamento e di valutazione” (Lacroix A., Assal J.P., 2005). Tutti questi strumenti permettono al paziente di: conoscere la propria malattia; gestire la terapia in modo competente; prevenire le complicanze.

L’intervento dello psicologo si rivela utile nei Servizi di Diabetologia perché trova applicazione a più livelli, non solo direttamente nei confronti dei singoli pazienti, ma anche attraverso un lavoro da svolgere in sinergia con tutti gli operatori dell’équipe, che devono sempre tener conto dei problemi psicologici in questi pazienti.

Il personale sanitario è abituato ad identificare e rimediare il più rapidamente possibile ad un evento morboso transitorio, per riportare l’individuo ad uno stato di salute. La malattia cronica richiede invece che il medico e l’infermiere debbano accettare di accompagnare per anni persone che non riusciranno mai a guarire, ma piuttosto a stabilizzarsi.  Per curare efficacemente un malato cronico, non è sufficiente limitarsi a interpretare correttamente i sintomi clinici della malattia e prescrivere farmaci o altri rimedi. Un approccio terapeutico completo richiede che tra il curante e il paziente «si stabilisca una vera e propria alleanza terapeutica» (A. Ferraresi A., Gaiani R., Manfredini M., 2004). Per i curanti, la necessità di creare delle solide relazioni umane nasce dai rapporti costanti che hanno non solo con i pazienti e le loro famiglie, ma anche con tutte le altre figure, professionali e non, che gravitano intorno a loro.

In questa patologia l’adesione al trattamento è cruciale e per questo viene posta al centro dell’educazione terapeutica. E’ evidente che solo una buona motivazione consente al paziente con diabete mellito di adottare una strategia di cura, ma che anche ogni operatore sanitario deve imparare a motivare ogni paziente. Lo stile comunicativo, più che la quantità di informazioni trasmesse, sembra influire sulla qualità percepita della relazione tra curanti e pazienti. Uno stile aperto, empatico, non giudicante è fondamentale, la capacità di ascolto partecipe del paziente e di sintonia con i suoi vissuti sono qualità e abilità indispensabili per una relazione di cura efficace e soddisfacente. Il maggior coinvolgimento aumenta il grado di concordanza tra curante e paziente e migliora il grado di autonomia percepita. Il ruolo dello psicologo è valutare i bisogni del paziente, valutare ed effettuare l’educazione infermierisitica, assistere i pazienti nell’attuazione del piano di trattamento e di prevenzione delle complicanze.

Molti pazienti compiono un percorso graduale nell’apprendimento delle modalità di gestione della terapia e nell’affrontare le problematiche del controllo e della dipendenza. Inizialmente la funzione terapeutica è totalmente esterna, poi gradualmente diventa interna, il paziente “fa proprie” le indicazioni dei curanti.

L’aiuto psicologico viene operato soprattutto agendo sull’autocontrollo, sul self-empowerment e sulla self-efficacy. Per autocontrollo si intende la capacità del paziente di misurare parametri come la glicemia capillare, la chetonemia, la chetonuria e la glicosuria. E’ pertanto un requisito centrale per l’autogestione del paziente. La self-efficacy invece fa riferimento all’idea che l’individuo ha delle proprie capacità di agire efficacemente sugli eventi che condizionano la propria vita. Questo costrutto influenza in modo significativo i processi cognitivi, motivazionali, affettivi e decisionali. In ambito diabetologico la self-efficacy rinforza in modo diretto l’adesione al trattamento e sembra mediare gli effetti di altre variabili psicosociali (supporto sociale, stress diabete-correlato, carico psicologico, coping) sui parametri metabolici. Una maggiore self-efficacy è tra gli obiettivi principali dell’empowerment.

Anche all’autostima viene riconosciuta una grande importanza, è un fattore che va valutato con attenzione per la possibile influenza su tutti gli aspetti psicologici legati al diabete. Il raggiungimento degli obiettivi terapeutici concordati rafforza l’autostima nella misura in cui il cambiamento viene vissuto come auto-diretto e in questo caso si realizza un vero empowerment, invece, cambiamenti percepiti come etero-diretti possono anche ridurre l’autostima.

Allo stesso modo, obiettivi “non realistici” o comunque non concordati possono produrre vissuti di frustrazione ripetuti in grado di innescare spirali di auto-svalutazione. Al contrario, livelli elevati di autostima possono costituire delle barriere al riconoscimento della realtà di malattia, che rappresenta una ferita narcisistica. L’empowerment permette ai malati di diabete di prendere consapevolezza del proprio ruolo attivo nel trattamento, è un percorso che impegna curanti e paziente e che ha come obiettivo l’autonomizzazione del paziente.

La collaborazione tra psicologo e medico è finalizzata a integrare gli aspetti più strettamente medici con quelli essenzialmente psicologici con l’obiettivo di individuare insieme le strategie terapeutiche più adeguate che tengano conto contemporaneamente dei problemi fisici e delle dinamiche soggettive in gioco. Questa modalità di lavoro può comprendere sia interventi sinergici nei confronti di alcuni pazienti seguiti contemporaneamente dal medico e dallo psicologo; sia discussioni collegiali su alcuni casi particolari; sia momenti di confronto sulle modalità più efficaci di organizzazione del lavoro nel Servizio.

Il rapporto tra lo psicologo e il personale infermieristico è un lavoro di confronto e attività di formazione finalizzata a fornire alcune chiavi di lettura di ordine psicologico che possono risultare utili al personale infermieristico nella gestione di alcune difficoltà insite nel lavoro di interazione quotidiana coi pazienti. Si cerca così di affiancare alle competenze operative già possedute dagli infermieri alcune competenze relazionali, con particolare riguardo agli aspetti della comunicazione col paziente.

La loro relazione è fondamentale e si basa sull’empatia, sul patteggiamento tra i bisogni della malattia e del paziente, sulla gestione positiva dell’errore, cioè «identificare le possibili situazioni a rischio, lavorare sul sentimento di frustrazione che si genera dopo uno sbaglio, proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili, operare per la risoluzione dei problemi» (Trento M., Passera P. e coll., 2006). L’infermiere aiuta il paziente ad accettare la malattia e favorire la sua motivazione all’autocontrollo identificando il tipo di locus of control del paziente, ovvero la percezione del paziente di riuscire o meno a controllare il proprio destino.

Vi è un locus of control interno e un locus of control esterno, il primo si riferisce alla tendenza a credere di non essere mai responsabile degli eventi e di non poter “controllare” la propria vita; il secondo è riferito a colui che controlla tutto, attore del proprio destino. Queste diverse reazioni sono il risultato delle esperienze ed esprimono la personalità, sono perciò difficilmente modificabili. In ogni caso è importante che l’infermiere identifichi il tipo del locus of control del paziente. Ciò permette di sintonizzarsi più velocemente con lui, ma anche di formulare richieste che siano accettabili. Tra gli altri obiettivi, l’infermiere educa il paziente all’autogestione, evita le complicanze a breve termine e ritarda quelle a lungo termine, educa e coinvolge il contesto familiare e sociale (Macrodimitris S.D., Endler N.S., 2001).

Per quel che riguarda il rapporto tra psicologo e dietista, è un’attività di formazione relativa alle problematiche psicologiche connesse al comportamento alimentare, e che può includere colloqui di tipo psico-educazionale con la copresenza di dietista e psicologo.

Per quanto riguarda la relazione tra psicologo e paziente, come si è visto, lo psicologo ha il compito di valutare e affrontare con il singolo paziente gli aspetti psicologici connessi al diabete mellito, in un processo di presa in carico che tenga sempre conto del lavoro che il paziente sta svolgendo con gli altri operatori dell’équipe. Attraverso questa organizzazione, è possibile fornire al paziente gli strumenti necessari per gestire al meglio la propria malattia, sviluppando quelle capacità che gli consentono di arrivare a una accettazione attiva della patologia, fornendo le strategie cognitive e comportamentali per fronteggiare lo stress, sviluppando un coping attivo, differenziato e di confronto con la problematica, piuttosto che di passività con sentimenti di impotenza e disperazione.

Sviluppando un coping efficace, il paziente riesce a vedere il diabete come un problema piuttosto che come una minaccia, spostandosi da un comportamento di fuga a uno di attacco. L’aspetto importante è quello di applicare le strategie e abilità di coping al raggiungimento di obiettivi scelti dal paziente o comunque concordati tra paziente e curante. Ciò permette di massimizzare l’effetto di self-empowerment e di percezione di efficacia del trattamento.

Lo psicologo deve avere piena consapevolezza, inoltre, delle caratteristiche del conflitto spesso presente nei pazienti, delle problematiche personali e relazionali, il rapporto fra cibo-corpo-io, la sfera del controllo, la dipendenza, l’accettazione del limite, la gestione di pensieri-emozioni-comportamenti, la rabbia, la sensazione di danno subito e il bisogno di risarcimento, la scarsa motivazione a curarsi, i pensieri negativi.

Le tecnologie a supporto del trattamento delle disabilità intellettive – Report dal Congresso Erickson

All’interno della sala dove si è tenuto il Congresso, ci attendono 3 postazioni, in ognuna delle quali ci viene offerta la possibilità di testare diverse tecnologie realizzate per supportare i piani riabilitativi di bambini con disabilità intellettive. La prima postazione è dedicata all’utilizzo creativo del PC.

 

Relatori: Giuseppe Maurizio Arduino (Responsabile Servizio di Psicologia e Psicopatologia dello Sviluppo, ASL CN1, Cuneo), Luciano Destefanis (CASA- Centro Autismo e Sindrome di Asperger, ASL CN1, Cuneo), Franca Garzotto (Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, Politecnico di Milano) e Jacopo Giovanni Romani (Needius Srl; Università di Trento)

Le tecnologie per supportare la riabilitazione di bambini con disabilità intellettiva

Luciano Destefanis, logopedista di grande esperienza, ci insegna a costruire attività mirate a promuovere specifiche abilità semplicemente utilizzando il noto Power Point e Audacity, un software per la registrazione di suoni. La dimostrazione che un PC e un po’ di buona volontà sono sufficienti per creare degli strumenti in grado di arricchire il programma riabilitativo rivolto a un bambino autistico.

Franca Garzotto ci presenta Wildcard “Occhiali Magici”, un progetto di realtà virtuale immersiva indossabile.
Provo in prima persona il visore attraverso cui ci si immerge in una realtà virtuale con lo scopo di promuovere attenzione selettiva e attenzione mantenuta in bambini che manifestano deficit in queste aree. Ci introduce anche altre tecnologie come per esempio gli smart toys, giochi attraverso i quali stimolare interazioni educative e la Philips Hue, una luce controllabile da remoto con cui creare diversi scenari a seconda dell’obiettivo terapeutico.
Sarebbe bello riuscire a credere che questi strumenti possano diventare a breve una risorsa terapeutica accessibile a tutti.

Jacopo Romani ci presenta Blu(e), un comunicatore CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa) su tablet touchscreen. Il comunicatore è collegato in remoto ad una piattaforma online a cui possono accedere famiglia e rete terapeutica, attraverso la quale è possibile realizzare e inviare al tablet le tabelle di simboli. Ciò permette inoltre di monitorarne l’utilizzo, per verificare per esempio il progresso comunicativo del bambino in termini di numero di immagini imparate in un dato periodo.
Con questo strumento si risolvono gran parte dei limiti di fruibilità, personalizzazione e monitoraggio di una CAA supportata dal solo materiale cartaceo.

Apre la plenaria Filippo Simeoni, direttore della cooperativa sociale il Ponte di Rovereto che ci regala la visione del cortometraggio “Tramondi. Un viaggio tra autismo e serigrafia”. Il documentario racconta un progetto che ha visto coinvolto un piccolo gruppo di ragazzi con autismo guidati nella realizzazione di magliette, dalla realizzazione del logo alla stampa sul tessuto.

La selettività alimentare negli autistici

Luigi Mazzoni tratta il tema della selettività alimentare, una forte rigidità nelle scelte alimentari che riguarda molti autistici. La selettività è spiegata da fattori diversi (consistenza, odore, colore, marca, …) ma non è mai associata alla mancanza di appetito. Tuttavia non esiste una definizione standard operazionalizzata di tale costrutto e l’eziologia della selettività alimentare nella popolazione autistica con buona probabilità differisce dalla causa di questa problematica nella popolazione tipica. L’ipotesi più probabile è che la selettività negli autistici dipenda dalle alterazioni sensoriali.
Sempre in tema di alimentazione, Mazzoni denuncia la mancanza di prove di efficacia delle diete prive di glutine e caseina, ritenute per anni capaci di alleviare i sintomi.

Di grande attualità il tema del Gut Microbiota anche se ad oggi mancano dati certi riguardo l’associazione tra assunzione di probiotici e diminuzione dei sintomi di fobia sociale. La ricerca sul tema è tuttavia molto vivace e c’è da aspettarsi che a breve se ne sappia di più.
L’intervento si chiude con la raccomandazione ad un approccio multidisciplinare al trattamento della selettività alimentare che coinvolga dietologo, psicologo cognitivo comportamentale, educatori e genitori.

La transizione all’età adulta degli autistici

Marco Bertelli affronta il tema dell’autismo nella transizione all’età adulta e quindi della comorbidità con disturbi di natura psichiatra che nella popolazione autistica risultano essere più presenti e più precoci benché assumano caratteristiche diverse dalla popolazione tipica. I disturbi d’ansia e somatizzazione sono i più diffusi. Varie sono le ipotesi che tentano di spiegare questa maggiore vulnerabilità ai disturbi psichiatrici all’interno di un paradigma bio-psico-sociale. Denuncia l’inadeguatezza dei servizi ospedalieri rispetto ai bisogni di salute mentale delle persone con disturbi intellettivi. Una ricerca dimostra come sia nelle università che nei servizi manchino i giusti riferimenti culturali per garantire una presa in carico di questi pazienti.

Flavia Chiarotti dell’Istituto Superiore della Sanità ci parla dell’incidenza dei Disturbi dello spettro autistico. Negli ultimi anni (2000-2012) si è assistito a un incremento di casi significativo del 15 per mille in USA.

Al di là dei fattori attinenti, la raccolta dei dati ha dimostrato come ci sia un incremento dei fattori di rischio genetici e ambientali. Tra questi ultimi vanno esclusi i vaccini poiché non c’ è nessuna correlazione dimostrata tra adesione al programma vaccinale e manifestazione di un Disturbo dello spettro autistico.

Le relazioni adulte degli autistici

Marco de Caris propone un intervento sulle relazioni amicali, amorose, sessualità e matrimonio. Le persone con disabilità intellettiva hanno una qualità di informazione meno articolata riguardo alla sessualità e all’affettività e questo ha ovvie ricadute sul piano comportamentale. Le richieste nel mondo sociale aumentano e si modificano a seconda dell’età e dei contesti. Rispetto alla costruzione di una vita socio affettiva è importante comprendere le proprie e altrui emozioni, conoscene le regole sociali e imparare a immaginare come gli altri vedono le cose, come pensano e come si sentono. L’autonomia è fondamentale in un progetto di vita e ha ricadute importanti su affettività e relazioni. Il modo migliore per promuoverla è il lavoro in gruppo in cui si provi a fare cose. Qualsiasi cosa si insegni quando sono piccoli va fatta già pensando all’utilità che potrà avere quando saranno adulti, privilegiando sempre obiettivi di indipendenza.

L’associazionismo per gli autistici

Chiude il convegno l’intervento di Giovanni Marino (ANGSA-FIA) che ci parla dei diritti delle persone con autismo nei livelli essenziali di assistenza, introdotti dalla legge 134/2015. I LEA sono l’insieme di tutte le prestazioni, servizi e attività che i cittadini hanno il diritto di ottenere dal Ssn con lo scopo di garantire in condizioni di uniformità a tutti e su tutto il territorio nazionale. Questi servizi impattano sull’insieme di diritti soggettivi della persona che secondo la Costituzione devono in ogni caso essere garantiti in modo universale e a tutti i cittadini. Ora bisogna che le regioni sappiano emanare appropriati documenti in conformità delle leggi per poter rendere esigibili questi servizi e riguardo a questo l’associazionismo può fare la sua parte.

La visione 4D della risonanza magnetica di bambini e neonati

Attraverso la creazione di un metodo per correggere il movimento, il team di ricerca è stato in grado di fare una ricostruzione quadrimensionale dell’attività cerebrale nei soggetti in movimento, come ad esempio i feti e i bambini piccoli.

Mariagrazia Zaccaria

 

La ricostruzione quadrimensionale dell’attività cerebrale dei bambini

I ricercatori dell’Università di Washington hanno sperimentato un approccio che permette di dare un sguardo migliore a come le reti funzionali all’interno dei cervello si sviluppino nei singoli feti. Il loro lavoro affronta quello che è un problema comune che si verifica con la risonanza magnetica; se il soggetto si muove durante la scansione, le immagini sono registrate in maniera distorta.

Attraverso la creazione di un metodo per correggere il movimento, il team di ricerca è stato in grado di fare una ricostruzione quadrimensionale dell’attività cerebrale nei soggetti in movimento, come ad esempio i feti e i bambini piccoli.

La nuova strategia consente di svolgere indagini per il normale sviluppo del cervello e gli effetti che la dieta e l’ambiente che circonda la madre hanno sul normale funzionamento del cervello del feto.

Questo lavoro si è concentrato sull’attività durante la fase di default che coinvolge un insieme di regioni attive quando il cervello è a riposo, quando qualcuno sta sognando ad occhi aperti o sta vagando con la mente non riuscendo a concentrarsi su un compito specifico, e i cervelli fetali sono in modalità default per la maggior parte del tempo.

Lo studio

I ricercatori hanno creato un film quadrimensionale sui feti durante la fase di default usando la risonanza magnetica funzionale (fMRI). La fMRI, però, potrebbe produrre immagini sfocate se i soggetti si muovono mentre sono nella macchina.

I ricercatori, dopo aver dimostrato che potevano quantificare con successo l’attività cerebrale nei soggetti in movimento, hanno poi scansionato otto feti tra la 32esima e 37esima settimana di gestazione. Alla fine, sono state ottenute, grazie a questa tecnica delle immagini chiare e dettagliate.

La tecnica può essere utilizzata anche per confrontare le differenze nello sviluppo del cervello dei bambini nati a termine e prematuri, o se vi sono differenze prenatali nei bambini che sviluppano disturbi dello sviluppo neurologico.

Le capsule del tempo di Andy Warhol: il disturbo da accumulo compulsivo nella vita dell’artista

Pittore e regista, Andy Warhol (1928-1987) è stato uno dei principali esponenti della pop art americana: celebri sono le sue opere che si rifanno alle immagini prodotte dalla cultura di massa americana, dalle inconfondibili bottiglie di Coca Cola ai detersivi in scatola, dal volto di Marilyn Monroe al simbolo del dollaro.

 

Adoro l’America – ebbe a dire Andy Warhole le mie immagini rappresentano i prodotti brutalmente impersonali e gli oggetti chiassosamente materialistici che sono le fondamenta dell’America di oggi. E’ una materializzazione di tutto ciò che si può comprare e vendere, dei simboli concreti, ma effimeri che ci fanno vivere – E ancora:- la pop art è amare le cose.

Che Andy Warhol amasse gli oggetti è cosa nota, anzi era un vero e proprio collezionista estremo di cianfrusaglie: le sue “capsule del tempo”, scatole contenenti inutilità, dagli scontrini agli involucri di cibo, dalle fotografie ai ritagli di giornali, sono diventate oggi opere d’arte costosissime e sono un tipico esempio di come un artista abbia saputo tradurre un sintomo, cioè la difficoltà di separarsi dagli oggetti, in una forma d’arte.

 

Andy Warhol e il suo accumulo compulsivo

Andy Warhol frequentava assiduamente i mercatini delle pulci e conservava oggetti, ninnoli ed inutilità varie tanto da riempire di cianfrusaglie i cinque piani della sua casa di New York e diversi magazzini. Accanto alla scrivania, l’artista teneva una scatola di cartone che poi riempiva con oggetti di ogni genere: era questa la sua “capsula del tempo”. Ne riempì più di seicento nel corso della sua vita e sono convinta che esse siano fondamentali per capire la vita dell’artista e che  siano rivelatrici degli aspetti più intimi di Warhol, quelli che preferiva nascondere nella vita sociale.  Oggi le “capsule del tempo” sono considerate preziose opere d’arte, ma dietro di esse si cela un vero e proprio disturbo mentale, il cosiddetto disturbo di accumulo compulsivo.

Il disturbo da accumulo compulsivo (conosciuto anche come disposofobia o accaparramento patologico) è un disturbo caratterizzato dall’accumulo continuativo di beni, acquistati o raccolti, e dalla successiva incapacità di eliminarli dai propri spazi vitali (casa, ufficio, auto…). Nel tempo questo determina il progressivo ingombro di tutte le aree disponibili, incluse quelle essenziali per cucinare, dormire e lavarsi, provocando in ultimo l’impossibilità di svolgere le normali attività quotidiane.

Dal 2013 il disturbo da accumulo compulsivo è stato riconosciuto come disturbo autonomo ed è stato inserito nel Manuale dei Disturbi Mentali dell’Associazione di Psichiatria Americana. Fino ad allora era considerato una manifestazione secondaria di altri disturbi, in particolare del Disturbo Ossessivo Compulsivo o del Disturbo di Personalità Ossessivo Compulsivo. Il primo caso di disturbo da accumulo che sconvolse l’opinione pubblica americana risale al 1947, quando i fratelli Colleyer furono trovati morti nella loro casa di New York, dove furono rinvenuti oggetti di vario genere, tra cui quattordici pianoforti, un vecchio generatore e parti di una Ford.

Gli aspetti salienti della disposofobia sono: l’acquisizione compulsiva di oggetti (si tendono ad ammassare in casa, in auto o in ufficio oggetti di grande o scarso valore, spazzatura, animali); l’incapacità di separarsi dalle cose possedute (la separazione da determinati oggetti causa profonda sofferenza emotiva e per questo viene evitata); la difficoltà ad organizzare gli oggetti ed il conseguente disordine (nei casi più gravi il disordine è tale da impedire l’uso degli spazi, ostacolando lo svolgimento delle normali attività quotidiane come cucinare, pulire, dormire su un letto).

Si tratta di un disagio clinicamente significativo, in quanto sono compromesse importanti aree di funzionamento, ad esempio la conservazione di un ambiente sicuro e salutare o il mantenimento di relazioni sociali, in quanto, se le condizioni dell’ambiente non sono adeguate, si può andare verso un isolamento progressivo.

Ci vogliono anni, perché gli accumulatori hanno bisogno di tempo per prendere la decisione di liberarsi di un oggetto nei confronti del quale hanno maturato un attaccamento caratterizzato da una forte componente emotiva, ma ci si può liberare dal disturbo di accumulo compulsivo: l’intervento psicoterapico che ad oggi si è dimostrato più efficace è una forma di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) adattata allo specifico problema del hoarding (Steketee&Frost, 2010).

Andy Warhol, invece, adottò un metodo personalissimo per liberarsi dal rapporto troppo ossessivo che aveva con gli oggetti: riempì delle scatole con tutto ciò che trovava ammassato sulla sua scrivania, sul pavimento, negli armadi: le definì “Time Capsules” (capsule del tempo): alla sua scomparsa le scatole erano complessivamente seicentododici, oggi sono conservate negli archivi dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool

Per la prima volta la realtà virtuale viene utilizzata all’interno della fase di assessment con pazienti con dipendenza da alcool sviluppando un protocollo di valutazione ad hoc e confrontando i livelli di autoefficacia e motivazione al cambiamento in seguito alla seduta con una tradizionale intervista di valutazione face to face.

Giulia Spagnoli e Pamela Fantin – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Dipendenza da alcool: introduzione ed individuazione del problema

La Sindrome da Dipendenza da Alcool (SDA) si presenta come patologia complessa ed invalidante, all’interno della quale il craving (inteso come forte pulsione soggettiva a raggiungere l’oggetto desiderato) gioca un ruolo di primaria importanza sia nel mantenimento che nella ricaduta (May et all, 2004).

La valutazione rappresenta dunque una fase cruciale, sia per il paziente sia per l’operatore, che si rivela spesso determinante nell’influenzare il successivo atteggiamento del soggetto con dipendenza da alcool nei confronti del bere e il suo impegno verso il problema; le probabilità di successo dell’intervento dipendono dalla capacità di identificare ed assecondare le reali possibilità di cambiamento del paziente, tenendo in considerazione le caratteristiche del suo ambiente familiare e sociale (Vaillant, 1993).

I soggetti con dipendenza da alcool risultano difficilmente agganciabili all’interno dei servizi specialistici, tendono a negare la patologia, provando vergogna, sentendosi giudicati o stigmatizzati e si mostrano spesso ambivalenti nei confronti di una reale motivazione al cambiamento.

Ricerche esistenti in letteratura (Lee et al., 2007; Cho et al., 2008; Bordnick et al., 2008) hanno dimostrato l’efficacia dell’utilizzo di ambienti virtuali sia come tecnica di presentazione degli stimoli, all’interno di studi di cue reactivity finalizzati alla valutazione dell’appetizione compulsiva patologica, sia come valido supporto alla tecnica espositiva all’interno di trattamenti cognitivo- comportamentali. L’utilizzo della realtà virtuale sembra ridurre il craving rispetto a procedure tradizionali di esposizione agli stimoli (esposizione in vivo o tramite strumenti multimediali quali immagini o video).

Tali studi, hanno evidenziato la capacità della realtà virtuale (RV) di offrire un empowering environment (Riva, 2001), altamente immersivo ed ecologicamente valido, una base sicura all’interno della quale il paziente non si sente minacciato o sotto esame in sede di trattamento.

La realtà virtuale permette inoltre un’immersione sensoriale nell’ambiente tridimensionale generato dal computer, all’interno del quale il soggetto è attivo, agisce ed interagisce “come se” fosse nel mondo reale; gli ambienti virtuali creano una illusione percettiva in cui i sensi sono stimolati al punto da permettere lo sviluppo di processi cognitivi, emotivi, fisiologici e comportamentali con quanto si sta esperendo, permettendo inoltre di dare una cornice di senso in cui collocare l’intera esperienza. La realtà virtuale si potrebbe dunque considerare un “laboratorio ecologico” in cui osservare il paziente.

Inoltre, il forte coinvolgimento ed il senso di presenza sperimentato all’interno degli ambienti sono in grado di rendere il paziente meno propenso all’utilizzo di tecniche difensive all’interno del colloquio, dovute al fatto di sentirsi esposto ad una situazione minacciosa e di venire giudicato e stigmatizzato dal terapeuta, e potrebbero quindi favorire l’acquisizione di un numero maggiore di informazioni spontaneamente fornite dal paziente anche in fase di assessment.

In questa fase si dovrebbe prendere in considerazione, inoltre, il livello di motivazione del paziente nell’affrontare il processo di cambiamento. È necessario infatti che le motivazioni e l’impegno del paziente vengano rinforzati incoraggiandolo ad analizzare i benefici derivanti dal raggiungimento di uno stato di salute e le probabili conseguenze negative a cui andrà incontro se continua ad assumere alcool in modo eccessivo.

Il punto centrale è il concetto di Presenza, la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente, reale o virtuale, risultato della capacità di mettere in atto nell’ambiente, anche virtuale, le proprie intenzioni (Riva, 2008): più il soggetto riesce ad attuare le proprie intenzioni attraverso la propria azione nell’ambiente, meno sarà consapevole della mediazione tecnologica e proverà quindi l’illusione percettiva di non mediazione (Lombard e Ditton, 1997). I media, ed in particolare la realtà virtuale, possono attivare un senso di presenza necessario per ottenere un’esperienza ottimale o flow experience in grado di favorire il cambiamento. Questa, intesa come esperienza di flusso di coscienza caratterizzata dall’assorbimento totale nell’attività svolta (Csikszentmihalyi, 1994; Voiskounky, 2008), si verifica infatti quando, ad alti livelli di presenza è associato uno stato emotivo positivo.

Essa è contraddistinta da un elevato livello di concentrazione e di partecipazione all’attività, dall’equilibrio tra la percezione tra difficoltà della situazione (challenge) e le capacità personali (skills), e da un interesse intrinseco per il processo che produce un senso di piacevolezza e soddisfazione.

Con la realtà virtuale è possibile manipolare la complessità del compito da svolgere, offrendo al tempo stesso al soggetto molteplici opportunità di interazione con l’ambiente. Il livello di challenge può quindi essere modificato ed adattato ad hoc al livello di skills dell’utente.

Inoltre è possibile produrre una percezione di autoefficacia e di padronanza poiché i soggetti sono in grado di controllare gli eventi che si sviluppano nel corso dell’esperienza attraverso le proprie azioni, ricevendo feedback multisensoriali in tempo reale, e sono in grado di osservare e valutare immediatamente gli effetti che le proprie azioni producono.

La capacità di controllare le proprie emozioni e le proprie azioni, infatti, unita alla sensazione di sentirsi attivo protagonista di ciò che si sta sperimentando, contribuisce ad aumentare il senso di autoefficacia (Bandura, 1977; 1982) che può portare al cambiamento.

Nell’area delle dipendenze si presuppone che anche i comportamenti di dipendenza possano essere tenuti sotto controllo dall’individuo e che le persone, poste in condizioni adeguate, siano in grado di decidere se smettere, modificare o limitare il consumo della sostanza (Prochaska, 1986).

Il livello di autoefficacia e la disponibilità ad intraprendere un percorso di cambiamento sono strettamente correlate; nelle fasi iniziali del cambiamento, in particolare, è utile avere livelli medi di autoefficacia, in modo tale che il soggetto sia maggiormente disponibile al percorso terapeutico proposto, senza essere convinto di superare il problema con il minimo sforzo (Bandura, 1986).

Durante il flow, inoltre, in cui si ha una sensazione di alterazione temporale, il soggetto tende inoltre a dimenticarsi di sé, cioè a non auto osservarsi; questo permette di osservare il comportamento naturale ed ottenere risposte dal soggetto il più spontanee possibili e poco filtrate da eventuali difese messe in atto, tipiche dei pazienti alcol dipendenti.

 

2.1 La Realtà virtuale nell’assessment di pazienti con dipendenza da alcool

Uno studio ha voluto verificare l’utilizzo della realtà virtuale all’interno della fase di assessment con pazienti alcol dipendenti sviluppando un protocollo di valutazione ad hoc e confrontando i livelli di autoefficacia e motivazione al cambiamento in seguito alla seduta con una tradizionale intervista di valutazione face to face. Il nuovo protocollo di valutazione permette di prendere in considerazione i fattori relativi alla personalità; fattori intra personali quali gestione delle emozioni, autostima, autoefficacia percepita ed attribuzione causale; fattori ambientali quali le competenze relazionali e l’effetto di eventuali pressioni sociali sul comportamento relativo al bere del soggetto.

 

2.2 Ricerca sperimentale

2.2.1 Obiettivi ed ipotesi

Il protocollo di valutazione attraverso realtà virtuale potrebbe sfruttare la capacità della nuova tecnologia di generare un’esperienza immersiva, coinvolgente e motivante; la realtà virtuale si configurerebbe come “laboratorio ecologico” dove poter osservare il soggetto a 360° e dal quale trarre un maggior numero di informazioni relative a diversi aspetti della sua vita quotidiana e della sua “carriera alcolica”.

 

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - FIG.1

FIG. 1 – Esempio di ambienti di realtà virtuale

 

L’obiettivo della fase 2 della presente ricerca sarà quello di testare, su un campione di soggetti con diagnosi di Sindrome da Dipendenza da Alcool, la validità dal nuovo protocollo; i risultati, prima e dopo la seduta di assessment, del gruppo sperimentale saranno confrontati con quelli del gruppo di controllo, costituito da soggetti che seguono l’iter tradizionale di presa in carico, ai quali viene rivolta un’intervista clinica semi strutturata, in uso nei servizi sanitari.

L’utilizzo della realtà virtuale potrebbe fornire le basi per una relazione terapeutica positiva, favorendo la presa in carico ed il processo di cambiamento del paziente; si ipotizza che il gruppo sperimentale, dopo la sessione di realtà virtuale, presenti un incremento dei livelli di autoefficacia, di motivazione al cambiamento e consapevolezza di sé, rispetto ai soggetti sottoposti all’intervista clinica.

Si suppone poi che il nuovo protocollo sia in grado di fornire una valutazione globale, accurata del paziente in un tempo relativamente breve, rispetto all’intervista face to face.

 

2.2.2 Strumenti e disegno di ricerca

  • Il Motivation Assessment of Change per soggetti con dipendenza da alcool (MAC2-A; Spiller e Zavan, 2005) valuta la motivazione al cambiamento.

Il questionario, che si rivolge ad adulti che hanno in corso o hanno effettuato un intervento specifico per abuso o Sindrome da Dipendenza da Alcool, è costituito da 36 item a cui il paziente risponde secondo una scala Likert a 6 livelli (da 0- per niente, a 6- del tutto vero) e da sei domande a cui si può rispondere secondo una scala analogica graduata con valori da 0 a 100. I punteggi forniscono informazioni relative a: Disponibilità al Cambiamento (DC -fa riferimento agli stadi che precedono la sospensione dell’uso o che immediatamente la seguono -Azione), ossia il grado di progressivo avvicinamento alla soglia decisionale per la parte del processo che precede la sospensione dell’abuso, Stabilizzazione (ST- fa riferimento agli stadi che seguono la sospensione dell’uso), ossia il grado di consolidamento di tale cambiamento per la parte che segue la sospensione dell’uso, Frattura Interiore (percezione di divario tra la vita reale attuale da un lato e le aspirazioni ed i desideri dall’altro, che, una volta superati negazione e meccanismi di protezione, può spingere il soggetto a cambiare), Disponibilità all’aiuto o Compliance, Autoefficacia , Importanza attribuita al cambiamento e Tentazione all’uso della sostanza.

  • La Generalized Self- Efficacy scale (GSE; Schwarzer e Jerusalem, 1995).

Essa valuta il senso di autoefficacia personale, esaminando la credenza generale del soggetto a proposito della propria abilità di far fronte, in modo efficace, a situazione problematiche in vari ambiti quotidiani. Livelli alti di autoefficacia facilitano il raggiungimento degli obiettivi, la determinazione ad affrontare gli ostacoli o “situazioni a rischio” ed il recupero dopo eventuali ricadute, nella pratica clinica.

Ai soggetti del gruppo di controllo è stata condotta invece una tradizionale intervista clinica semi strutturata,  attualmente in uso nei servizi sanitari.

L’intervista riguarda diverse aree: la sfera familiare, personale e professionale del paziente, con particolare attenzione ad eventuali “blocchi” o fasi di arresto, la sfera sociale e relazionale, “carriera alcolica” e storia medica passata ed attuale. L’intera raccolta di dati anamnestici può richiedere anche più sedute.

  • Procedura- Ai  pazienti vengono programmati tre appuntamenti presso il Nucleo Operativo di Alcologia.

Al primo incontro, viene compilata la cartella clinica e vengono raccolte informazioni relative alla storia del paziente, il suo rapporto con l’alcool ed individua eventuali sintomatologie correlate a patologie psichiatriche che potrebbero rendere il paziente non idoneo per la ricerca.

Se il soggetto rispetta i criteri di selezione del campione, l’operatore, dopo avergli fatto firmare il foglio di adesione alla ricerca, chiede al paziente di compilare due questionari: il MAC2-A e la scala GSE.

Al secondo incontro, i pazienti del gruppo sperimentale incontrano l’operatore che ha svolto il primo colloquio ed il ricercatore che coordina la sessione di realtà virtuale, applicando il nuovo protocollo di valutazione. I pazienti del gruppo di controllo sono invece sottoposti ad un’intervista clinica semi strutturata.

Al termine della sessione di valutazione segue un de-briefing ed una breve restituzione di quanto emerso nel corso della seduta e la somministrazione di due questionari: il questionario di personalità EPI  e, nel caso dei pazienti del gruppo sperimentale, il questionario di presenza ITC SOPI.

Nell’ultimo incontro avviene una restituzione globale al paziente da parte dell’operatore e si procede con l’invio allo specialista per la presa in carico. Al termine del colloquio si chiede al paziente di compilare nuovamente il MAC2-A e la scala GSE.

  • Disegno di ricerca

La ricerca si caratterizza per un disegno sperimentale fattoriale misto 2X2, ovvero un disegno con due variabili indipendenti, a due livelli ciascuna: la variabile within tempo (valutazione pre- post assessment) e variabile between, relativa ai differenti protocolli di valutazione.

A tal proposito i soggetti clinici sono stati casualmente assegnati a due gruppi: gruppo di controllo, costituito da pazienti sottoposti alla tradizionale intervista clinica semi strutturata; gruppo sperimentale, costituito da pazienti sottoposti al nuovo protocollo di assessment tramite realtà virtuale.

L’analisi della variabile within consente di rilevare l’esistenza, nei due gruppi, di differenze statisticamente significative tra il tempo di rilevazione T1, prima della fase di valutazione, e il tempo di rilevazione T2 , dopo la fase di valutazione. L’analisi della variabile between consente di rilevare l’esistenza di differenze statisticamente significative tra gruppo di controllo e gruppo sperimentale, sia in fase di pre valutazione, sia in fase di post valutazione.

I soggetti sono stati valutati mediante i test psicometrici MAC2-A e GSE, ripetuti nella condizioni pre test e post test.

Al fine di valutare con maggior efficacia i soggetti, è stato somministrato il questionario EPI; inoltre, ai soggetti del gruppo sperimentale è stato somministrato l’ITC SOPI post seduta.

 

2.2.3. Risultati e Discussione

EPI- È stata condotta una analisi delle statistiche descrittive relativamente ai dati del questionario EPI sul campione totale (Tab. 1) e sui soggetti divisi in base ai due differenti protocolli di valutazione (Tab. 2).

I due gruppi sono omogenei e presentano una analoga struttura di personalità: in entrambe i gruppi non si evidenziano tratti psicotici, è presente un buon livello di empatia, sensibilità ed una buona socializzazione.

Poiché la presenza di tratti nevrotici nel gruppo di controllo è minima, si assume che i due gruppi siano omogenei e che quindi, eventuali differenze emerse in fase post sessione nelle variabili dipendenti, siano riconducibili solo alla variabile indipendente between.

 

Realta virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - TAB.1

TAB. 1: punteggi EPI nel campione totale

 

Realta virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - TAB 2

TAB. 2: punteggi EPI nel gruppo sperimentale e nel gruppo di controllo

 

MAC e GSE- L’analisi della varianza a misure ripetute (ANOVA), per quanto riguarda la variabile relativa alla condizione di valutazione, rileva che al pre test (T1), per ciascuna delle variabili dipendenti considerate non esistono differenze significative tra le medie dei due gruppi. Questi presentano valori iniziali omogenei per le variabili prese in considerazione. Differenze statisticamente significative tra i gruppi si rilevano invece al post test (T2) per ciascuna delle variabili considerate. I risultati dell’analisi sono supportati dalle statistiche descrittive.

Dai risultati emerge come il livello di autoefficacia dei due gruppi, che si presenta essere simile prima della seduta di valutazione, si differenzi significativamente in fase post (F(1,49)= 11,120; p= .002), a favore del gruppo di realtà virtuale (Fig.2).

Date le condizioni iniziali simili dei due gruppi, è possibile affermare che l’incremento nel gruppo sperimentale di autoefficacia percepita sia dovuto unicamente al protocollo di valutazione scelto e quindi all’utilizzo di realtà virtuale; i pazienti sottoposti a realtà virtuale presentano una maggior fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di far fronte in modo efficace, facendo leva sulle proprie risorse, a situazioni problematiche in vari ambiti quotidiani. L’incremento di autoefficacia in soggetti con SDA facilita la determinazione ad affrontare gli ostacoli ed il recupero dopo eventuali ricadute.

È convalidata quindi l’ipotesi di realtà virtuale come empowering environment: la nuova tecnologia, in grado di creare flow experience, incrementa nel soggetto la capacità di controllare le proprie emozioni e le proprie azioni e fa in modo che questo si senta attivo protagonista di ciò che sta sperimentando, contribuendo in tal modo ad aumentare il senso di autoefficacia e la spinta al cambiamento.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - FIG 2

FIG. 2: punteggi di autoefficacia, in fase T1 e in fase T2, nel gruppo di RV e nel gruppo di controllo

 

I due gruppi, prima della seduta di valutazione, presentano valori simili in relazione al profilo di disponibilità al cambiamento e all’aiuto, autoefficacia, frattura interiore, stabilizzazione, importanza attribuita al cambiamento e desiderio provato nei confronti del bere.

Dopo la sessione di valutazione, si nota, osservando in particolare la seconda parte del profilo dei due gruppi, (stadio di Azione, Mutamento e Uscita), la tendenza dei pazienti sottoposti a realtà ad avere punteggi superiori e, a proposito dello stadio di Uscita, come tale differenza risulti significativa (F(1,47)= 7,367; p= .009).

L’utilizzo della realtà virtuale sembra incidere maggiormente sugli aspetti legati alle fasi avanzate del cambiamento, dove il soggetto si ritiene impegnato attivamente ed è convinto di avere le capacità necessarie per intraprendere, portare avanti e mantenere il processo di cambiamento.

In tal senso il dato si potrebbe interpretare, dato che i pazienti sono ancora all’inizio del percorso, non da un piano di vista strettamente comportamentale, ma come una maggiore predisposizione e motivazione, acquisita e stabilizzata, nell’impegnarsi attivamente nei confronti del problema anche in una fase futura.

È da ricordare come il processo di cambiamento sia influenzato dalla possibilità attribuita dal soggetto al raggiungimento dell’obiettivo (Bandura, 1997): maggiore è il convincimento di poterlo raggiungere, facendo leva sulle risorse a disposizione, maggiore sarà il livello di autoefficacia (superiore, in fase post test, nel gruppo di realtà virtuale).

In secondo luogo si nota una differenza, tra i due gruppi, sebbene non significativa (F(1,49)= 3,984; p= .052), relativamente agli aspetti di Contemplazione, in cui il gruppo di controllo presenta valori nettamente superiori.

I soggetti di questi gruppo sono indecisi verso un eventuale percorso di cambiamento ed i pro e i contro del bere tendono ad equivalersi; dopo la seduta, sentendosi sotto esame e giudicati, questi soggetti potrebbero sentirsi maggiormente ambivalenti a proposito di un eventuale percorso di cambiamento.

Nei soggetti sottoposti a realtà virtuale avviene il contrario: nel post seduta dimostrano minori aspetti di Contemplazione rispetto alla fase iniziale.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - FIG. 3

FIG. 3: profilo di disponibilità al cambiamento in fase T2, nel gruppo di RV e nel gruppo di controllo

 

ITC SOPI- Sono stati calcolati i valori medi per le quattro sottoscale del test, all’interno del gruppo sperimentale (Tab.3).

I risultati mostrano come la nuova tecnologia permetta al paziente di sentirsi presente nell’ambiente creato dal computer, in un contesto in cui è possibile osservare il suo comportamento e le sue risposte emotive e all’interno del quale sperimenta processi cognitivi, fisiologici, emotivi e comportamentali analoghi a quelli che avrebbe sperimentato nel mondo reale.

La realtà virtuale, nella duplice veste di tecnologia ed esperienza, è in grado di fornire un ambiente immersivo, coinvolgente, empowering in cui il paziente, isolandosi dall’ambiente circostante si concentra maggiormente su se stesso.

I pazienti sperimentano un elevato senso di presenza, da un punto di vista fisico, all’interno degli ambienti virtuali, dotati di un elevato livello di realismo e naturalezza, e vi avvertono la possibilità di poter agire ed interagire come se stessero facendo realmente visita a tali luoghi.

Questo conferma l’idea che gli oggetti (anche virtuali), da un lato, vengano concettualizzati come “poli di atti virtuali”, definiti dalle intenzioni che li riguardano, mentre gli spazi, vengano rappresentati in relazione alle azioni che possiamo compiere in essi.

È da sottolineare che il senso di presenza, all’interno della realtà virtuale, è dato sia da alti livelli di validità ecologica, che offre la possibilità al soggetto di isolare aspetti rilevanti da un punto di vista percettivo e pertanto consente di muoversi ed interagire, sia dalla presenza di contenuti significativi per il paziente, inseriti all’interno di una cornice di riferimento dotata di senso per il soggetto.

L’ambiente è fortemente coinvolgente: i pazienti si mostrano divertiti, affermano di aver avuto risposte emotive e di aver vissuto un’esperienza intensa, provando inoltre una sensazione di alterazione temporale.

Essi non si rendono conto del tempo effettivamente trascorso e, nel corso della seduta tendono a non auto osservarsi, mettendo in atto comportamenti maggiormente spontanei.

Questo è dovuto alla capacità della realtà virtuale di attivare un senso di presenza tale da ottenere una flow experience, caratterizzata dall’assorbimento totale nell’attività svolta e da uno stato emotivo positivo, in cui si evidenzia un elevato livello di concentrazione e di partecipazione all’attività ed un interesse intrinseco per il processo che produce senso di piacevolezza e soddisfazione.

Da ultimo si rivela una pressoché totale assenza di effetti negativi post seduta per i pazienti sottoposti a realtà virtuale.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - TAB. 3

TAB.3 : punteggi ITC SOPI nel gruppo sperimentale

 

Griglia di osservazione- Sono state calcolate le occorrenze e le percentuali per le variabili prese in considerazione all’interno della griglia creata ad hoc al fine di valutare l’interazione soggetto- realtà virtuale. È stato inoltre calcolato il range ed il tempo medio delle sedute.

I dati qualitativi confermano quanto emerso dai test: la tecnologia è facile da usare, solo il 16% dei soggetti presenta evidenti problemi, ed i pazienti, calmi e rilassati nel corso della seduta, si sentono presenti, partecipi nell’ambiente creato dal computer, rispondendo alle stimolazioni come se il medium non ci fosse. La nuova tecnologia, in quanto “laboratorio ecologico” permette di osservare, in modo “naturalistico”, il soggetto a 360° e trarre un maggior numero di informazioni, verbali e non verbali, in poco tempo (la durata media delle sessioni è di 35 minuti). La trasparenza delle tecnologia è testimoniata inoltre anche dal numero consistente di soggetti che presenta forti reazioni emotive all’interno di situazioni virtuali potenzialmente ansiogene e che compie gesti deittici: sei pazienti infatti, nel corso della seduta, indicano gli oggetti dell’ambiente virtuale, mentre si riferiscono ad essi, sottolineando come questi vengano processati come “poli di atti virtuali”-gli oggetti e gli spazi virtuali vengono concettualizzati in relazione alle azioni che è possibile compiere con e all’interno di essi.

 

3. Conclusioni: l’utilizzo della realtà virtuale in casi di abuso di alcol

La presente ricerca è nata con l’obiettivo di creare ed utilizzare ambienti tridimensionali e descrivere un nuovo protocollo di valutazione tramite realtà virtuale (RV) rivolto a pazienti con dipendenza da alcool e determinare se questo incrementi il senso di autoefficacia e la motivazione al cambiamento nel soggetto, confrontandolo con la tradizionale intervista di valutazione face to face.

Attraverso l’utilizzo di un software open source sono stati costruiti ad hoc quattro ambienti da utilizzare all’interno di un protocollo di valutazione innovativo nell’ambito delle addictions e della dipendenza da alcool in particolare.

Si è voluto testare il nuovo protocollo come strumento per indagare personalità, fattori intra personali e fattori interpersonali, concentrandosi sul comportamento verbale e non verbale, l’arousal emotivo e l’interazione con gli ambienti virtuali.

A tal fine, come ulteriore strumento di analisi, è stata creata una griglia di osservazione che rilevasse il CNV del paziente e fornisse indicazioni a proposito sia del grado di immersione sperimentato, sia dell’interazione con la tecnologia ed i contenuti “esperiti”.

Sono stati poi confrontatati i due protocolli di valutazione al fine di individuare eventuali differenze in termini di autoefficacia e motivazione al cambiamento in seguito alla seduta.

In primo luogo il nuovo protocollo si è rivelato efficace nel fornire una valutazione globale ed accurata del paziente: all’interno dei quattro diversi scenari virtuali, selezionati in modo tale da cogliere specifici aspetti del soggetto, è stato possibile analizzare sia fattori intra personali quali la gestione delle emozioni, l’autostima, l’autoefficacia percepita dal soggetto e le sue attribuzioni causali, sia fattori inter personali quali le sue competenze relazionali, l’effetto di eventuali pressioni sociali sul comportamento relativo al bere.

Il protocollo, immergendo il paziente in un contesto “ecologicamente valido”, nel quale agisce ed interagisce come se fosse nella realtà, ed isolandolo dall’ambiente esterno, ha permesso di osservarne il comportamento “naturale” e spontaneo in relazione a diversi contesti della sua vita quotidiana, bypassando sia la messa in atto di eventuali tecniche difensive, sintomatiche della patologia in esame, sia eliminando il senso di vergogna, di colpa e la sensazione di essere giudicati o stigmatizzati, che rendono difficile “agganciare” il paziente. L’utilizzo di ambienti virtuali influenza positivamente l’alleanza terapeutica: l’operatore può osservare, hic et nunc, il comportamento del soggetto ed il paziente può esprimere emozioni, pensieri, sensazioni nello stesso tempo in cui li esperisce, migliorando in tal modo la comprensione reciproca.

La strumentazione viene accettata positivamente e non comporta effetti negativi sul paziente, che affronta il colloquio positivamente e risponde in modo dettagliato alle domande, fornendo un maggior numero di informazioni in tempi mediamente minori (media 35 minuti) alla tradizionale intervista di valutazione face to face (media 50 minuti).

L’utilizzo della realtà virtuale all’interno del protocollo di valutazione, che trae spunto dalle ricerche esistenti in letteratura e fa riferimento a nuove aree di studio quali la embodied cognition e la embodied interaction, sfrutta la capacità della realtà virtuale sia di creare un ambiente immersivo e coinvolgente, consentendo al soggetto di essere attivo all’interno degli scenari, sia di  riprodurre contesti e azioni dando all’utente la possibilità di agire “come se” fosse nell’ambiente creato dal computer, sentendosi “presente” in essi. Grazie a quest’ultima, la realtà virtuale può originare una flow experience, in grado di favorire il senso di autoefficacia percepito ed il processo di cambiamento.

In linea con questo quadro e data l’omogeneità iniziale presentata dai due gruppi, relativamente a tutte le variabili considerate, i risultati ottenuti nella ricerca tendono ad evidenziare in primo luogo un incremento del senso di autoefficacia percepito nei pazienti sottoposti al nuovo protocollo di assessment rispetto a quelli soggetti alla tradizionale intervista face to face. È interessante sottolineare che tale incremento di autoefficacia è dovuto esclusivamente ad una fase di valutazione, all’interno della quale non sono impiegate tecniche terapeutiche; questo fatto evidenzia ulteriormente il ruolo della realtà virtuale come ambiente fortemente empowering.

I pazienti dopo la seduta di realtà virtuale si sentono maggiormente pronti ad affrontare il percorso di trattamento, convinti e fiduciosi nelle proprie capacità, dimostrano, in parte, di aver acquisito ed integrato nella propria condizione personale il raggiungimento dell’obiettivo, provando un minore desiderio di assumere alcool ed una minore insoddisfazione nei confronti della propria situazione relativa al bere. La realtà virtuale sembra pertanto incidere maggiormente sugli aspetti legati alle fasi avanzate del processo di cambiamento, dato interpretabile come possibile “stabilizzazione” della predisposizione e motivazione di questi soggetti ad impegnarsi anche nelle fasi successive e come consolidamento del loro atteggiamento futuro positivo nei confronti del problema.

Relativamente agli aspetti prettamente metodologici, sarebbe utile in futuro incrementare il campione, distinguendo poi i nativi digitali (che in particolare usano videogiochi e che quindi sono abituati a maneggiare strumenti quali il gamepad) da soggetti che invece hanno una conoscenza base delle tecnologie digitali. L’incremento di soggetti potrebbe approfondire i risultati della ricerca, in modo tale da rilevare ulteriori differenze significative tra i due gruppi ed approfondire quelle tendenti alla significatività.

Sarebbe altresì opportuno, in ricerche successive, utilizzare  un sistema di simulazione olfattivo.

Da un punto strettamente applicativo, il protocollo descritto nel presente studio, unico nel panorama scientifico, vuole in primo luogo fornire al personale sanitario una sorta di “laboratorio ecologico” in cui osservare e valutare il paziente in modo completo ad accurato ed in grado di incidere sugli aspetti motivazionali e di autoefficacia del soggetto. La strumentazione necessaria ha costi contenuti ed è di facile utilizzo anche in assenza di competenze specifiche; in tal modo è possibile personalizzare gli ambienti secondo le singole esigenze richieste dal  caso.

In secondo luogo, l’adozione del nuovo protocollo di assessment, in grado di diminuire i tempi della fase di valutazione e di influenzare positivamente l’alleanza terapeutica e quindi la presa in carico del paziente ed il successivo trattamento, potrebbe incidere favorevolmente sui costi di presa in carico del paziente all’interno del SSN.

Mangiare meno e meglio grazie ai cinque sensi

Recenti ricerche hanno mostrato come le persone possano essere incoraggiate nella scelta di porzioni più piccole e sane, senza rinunciare al piacere legato ad un pasto.

La tendenza ad avere porzioni sempre maggiori di cibo a tavola è aumentata nel tempo, procedendo di pari passo con l’aumento dei tassi di obesità. Per frenare questa tendenza, le istituzioni della salute pubblica e il governo hanno invano raccomandato di ridurre le porzioni al fine di prestare la dovuta attenzione alla propria salute.

Recenti ricerche hanno però mostrato come le persone possano essere incoraggiate nella scelta di porzioni più piccole e sane, senza rinunciare al piacere legato ad un pasto. Ad esempio, Chandon & Cornil (2016) hanno dimostrato come le persone abbiano la tendenza a scegliere porzioni minori di una torta al cioccolato nel momento in cui viene chiesto loro di immaginare vividamente il piacere multisensoriale (a livello di gusto, olfatto, consistenza) legato a cibi simili, senza ridurre il desiderio di pagare per esso. Infatti, il rimanere focalizzati sul piacere di mangiare permetterebbe alle persone di sentirsi più felici e soddisfatte anche predisposte al pagare di più per minori quantità di cibo.

Più nello specifico, gli autori hanno condotto una serie di studi utilizzando campioni con soggetti non sazi e non a dieta di diversa età e nazionalità, ai quali veniva chiesto di immaginare vividamente e chiamando in causa tutti e cinque i sensi il piacere di mangiare dolci a loro familiari e, successivamente, di scegliere una porzione di un dolce, come ad esempio un brownie o una torta al cioccolato. Rispetto alla condizione di controllo, questa procedura di “immaginazione multisensoriale” ha portato le persone a scegliere spontaneamente porzioni di cibo fino a due volte più piccole, senza che ciò comportasse anche una diminuzione dell’aspettativa di piacere, e a desiderare di pagare maggiormente per esse.

Grazie a questa procedura, infatti, le persone vengono incoraggiate a valutare le porzioni non tanto sulla base del loro valore economico o della sensazione di fame, quanto piuttosto sulla base della loro aspettativa di piacere sensoriale, la quale raggiunge l’apice ai primi bocconi di cibo e diminuisce in modo inversamente proporzionale alla grandezza della porzione (fenomeno definito sensory-specific satiation). Al contrario, interventi basati su nozioni salutistiche, come ad esempio la quantità di calorie e di grassi contenuta in ogni porzione, portava le persone a scegliere sì porzioni più piccole, ma minori rispetto a quelle realmente ritenute soddisfacenti e con un conseguente minore desiderio di pagare per esse.

Questo approccio, orientato alla riscoperta del mangiare con soddisfazione, risulta anche essere in linea con il cosiddetto Mindful Eating, un modo per incorporare la Mindfulness in una delle fondamentali attività della nostra esistenza, andando a nutrire non solo il corpo, ma anche la mente. Questo approccio, infatti, insegnando a mangiare e bere nella piena consapevolezza di ogni morso e sorso, ben si coniuga con quanto sottolineato da Chandon & Cornil (2016). Non a caso, all’interno di questa pratica, si impara a seguire precetti quali l’utilizzo di tutti e cinque i sensi e il servire il cibo in piccole porzioni.

Nel complesso, è quindi possibile che il trovarsi di fronte a menù più articolati e descrittivi o ad etichette che incoraggino l’uso dei cinque sensi, oltre che imparare a prendersi del tempo per mangiare consapevolmente, possa portare ad esiti favorevoli sia per i consumatori in termini di soddisfazione e salute sia per i commercianti in termini di profitto. Come afferma Cornil, infatti, porre maggiore attenzione a questo meccanismo legato alla riscoperta del piacere di mangiare potrebbe anche portare ad un’industria alimentare maggiormente sostenibile.

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