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Disturbo da insonnia: quando l’ansia ne è la causa e contribuisce ad alimentarlo

In caso di Disturbo da Insonnia ci si trova di fronte a frequenti episodi in cui il soggetto sperimenta un sonno insufficiente o di scarsa qualità. Vi è difficoltà a prendere sonno o a mantenerlo durante l’intera notte, nonostante vi siano tutte le condizioni favorevoli a poter dormire.

 

Immaginiamo che sia notte. Siamo a letto, ma svegli. Continuiamo a rigirarci, tentando di trovare la giusta posizione che ci permetta di prender sonno, ma invano. Le ore passano, si è ancora svegli, si guarda il soffitto. Ci si annoia, si pensa, ci si alza dal letto tanto per far qualcosa. La stanchezza aumenta ma non ci si addormenta.

Sicuramente sono molti gli individui che hanno trascorso almeno una notte della propria vita in queste condizioni. Non riuscire a chiudere occhio nonostante la spossatezza.

Fintanto che tali episodi restino sporadici non vi è da preoccuparsi. Ma qualora divengano abituali si può parlare di disturbo da insonnia.

In questo caso ci si trova  di fronte a frequenti episodi in cui il soggetto sperimenta un sonno insufficiente o di scarsa qualità. Vi è difficoltà a prendere sonno o a mantenerlo durante l’intera notte, nonostante vi siano tutte le condizioni favorevoli a poter dormire (Marzano, Corrias).

Le statistiche affermano che circa il 30% della popolazione occidentale soffre del disturbo da insonnia,  uomini e donne in egual misura; è un problema che può presentarsi a qualsiasi età (Cricelli e all., 2010).

 

Le cause del disturbo da insonnia

L’insonnia può avere diverse cause, tuttavia vi sono soggetti più a rischio rispetto ad altri. In particolare le persone maggiormente predisposte sono quelle che attraversano un periodo stressante e che esperiscono delle condizioni ambientali poco favorevoli.

Sicuramente un evento stressante, come ad esempio un lutto, un problema professionale o relazionale può provocare un insonnia di tipo temporaneo, la quale però non deve essere sottovalutata; questo perché anche i disturbi occasionali del sonno, se non trattati adeguatamente, possono divenire cronici.

Un modello eziologico dell’insonnia, elaborato da Spielman (1987) identifica tre fattori responsabili dello sviluppo del disturbo:

  • I fattori Predisponenti;
  • I fattori Precipitanti;
  • I fattori Perpetuanti.

I fattori Predisponenti sono quelli in base ai quali alcune persone hanno una predisposizione maggiore rispetto ad altri a sviluppare insonnia. Potrebbe trattarsi di alcuni dei contesti stressanti sopracitati oppure di alcune caratteristiche individuali, come ad esempio l’essere iper – vigili o ansiosi. Perché infatti l’ansia, affiancata ad episodi di rimuginio e ruminazione, contribuisce a stimolare i meccanismi che promuovono la veglia, ostacolando di conseguenza il sonno.

I fattori Precipitanti determinano l’insorgenza vera e propria del disturbo da insonnia. Si tratta di quegli elementi che in un certo senso vanno ad aggravare la predisposizione del soggetto a non dormire; potrebbe ad esempio trattarsi di qualche episodio specifico, come il verificarsi di un evento ingestibile, l’accentuarsi di problemi lavorativi, relazionali, di salute, o la presenza di preoccupazioni.

Con un quadro del genere, l’insonnia non è altro che l’esito di uno stress eccessivo, dove le preoccupazioni, l’ansia e l’emotività del soggetto contribuiscono ad alimentare il problema.

Il disturbo da insonnia è mantenuto nel tempo dai fattori Perpetuanti. Questi ultimi non sono altro che comportamenti disfunzionali messi in atto da parte del soggetto per riuscire a dormire. Alla base di essi vi è però un’ansia che tiene in vita il disturbo, impedendo al contempo di debellarlo.

La persona con un’insonnia cronica pensa, rimugina sul suo stato e sul danno che il non dormire potrebbe arrecare. Tenta in tutti i modi di trovare una soluzione che possa consentirgli di dormire adeguatamente, al contempo si preoccupa delle possibili ripercussioni a cui potrebbero condurre le poche ore di sonno in quei momenti in cui sarebbe necessario essere riposati e concentrati.

L’ansia generata dal timore di non dormire alimenta l’insonnia che, a sua volta, aggiunge ulteriore ansia aumentando l’arousal e generando un circolo vizioso che renderà ancora più difficile il dormire (Marzano, Corrias).

Tutto ciò potrebbe proseguire all’infinito con la produzione di altri pensieri disfunzionali e la messa in atto di comportamenti compensativi errati i quali a loro volta incrementano il disturbo.

I pensieri sono all’origine delle emozioni e dei comportamenti. In questo caso si tratta di distorsioni cognitive, in quanto causano emozioni negative e rappresentano modi attraverso cui la mente umana si convince di qualcosa, a prescindere che sia vero oppure no (Palagini e all, 2012).

Per rendere questi pensieri più funzionali è necessario modificarli, e ciò sarà possibile mediante la psicoterapia cognitivo – comportamentale, la quale annovera tra i suoi obiettivi primari proprio la trasformazione delle credenze disfunzionali per favorire il benessere della persona.

In questo caso, una volta accertato che alla base del disturbo da insonnia vi sia un’ansia che quale ostacola la serenità della persona, impedendo al contempo il riposo di cui l’organismo ha bisogno, sarà possibile intervenire su pensieri ed emozioni sgradevoli che il soggetto sperimenta.

Anche l’addormentarsi, che all’apparenza sembra un’attività banale, potrebbe richiedere delle difficoltà. Spesso andrebbero affrontate e gestite le proprie emozioni negative al fine di poter riposare adeguatamente.

Utilizzo della cannabis per uso terapeutico nelle epilessie farmaco-resistenti: l’individuazione di una nuova molecola con attività antiepilettica

Lo studio, di cui il Dr. Pierangelo Cifelli è primo co-autore, indica come la somministrazione controllata di cannabis in un paziente fortemente farmaco-resistente sia stata in grado di ridurre in maniera significativa il numero e la gravità delle crisi epilettiche, migliorando altresì la performance cognitiva, e questo senza effetti collaterali.

Lo studio è stato pubblicato su “Epilepsia Open”, rivista ufficiale della International League Against Epilepsy, uno studio traslazionale frutto di una collaborazione tra Fondazione Ri.MED, Policlinico Umberto I di Roma, Università “La Sapienza” e Università di Amsterdam*.

Lo studio, di cui il Dr. Pierangelo Cifelli è primo co-autore, indica come la somministrazione controllata di cannabis in un paziente fortemente farmaco-resistente sia stata in grado di ridurre in maniera significativa il numero e la gravità delle crisi epilettiche, migliorando altresì la performance cognitiva, e questo senza effetti collaterali. Partendo dall’osservazione clinica di un paziente è stata in seguito individuata in laboratorio la molecola “cannabidivarina” e il suo possibile meccanismo d’azione.

L’epilessia

L’epilessia è una condizione patologica caratterizzata da una anormale attività elettrica del sistema nervoso centrale. Le crisi epilettiche possono risolversi spontaneamente entro pochi minuti, ma a volte si ripetono ad intervalli ravvicinati, dando luogo ad una condizione definita di male epilettico, che richiede – soprattutto quando le crisi sono di tipo convulsivo – un approccio terapeutico immediato. Nelle situazioni più gravi può rendersi necessario il ricovero e il trattamento in regime di rianimazione. Nonostante negli ultimi anni le possibilità di terapia farmacologica siano aumentate, circa il 30% di questi pazienti risulta essere farmaco-resistente: per loro l’unico approccio possibile è quello chirurgico, con la rimozione del focus epilettogeno, ma si tratta di un intervento effettuabile solo in casi selezionati.

Il caso clinico

Il caso clinico descritto nello studio riguarda un ragazzo affetto da una forma molto grave di epilessia (encefalopatia epilettica) con decine di crisi epilettiche al giorno. Nessuna terapia farmacologica riesce a risolvere la condizione, per cui il paziente si sottopone ad intervento chirurgico, senza però ottenere beneficio. I genitori del ragazzo decidono, in maniera indipendente, di provare a somministrare cannabis sotto forma di tisana come ultima terapia possibile. Nel giro di 4 giorni la condizione clinica del paziente evidenzia una significativa riduzione delle crisi epilettiche e un miglioramento delle perfomance cognitive. Presso il reparto di epilettologia del Policlinico Umberto I vengono quindi effettuati i test per valutare le concentrazioni ematiche di diversi cannabinoidi, un’accurata valutazione elettroencefalografica e i test cognitivi. I risultati ematici mettono in evidenza un cannabinoide ancora poco conosciuto e studiato, la cannabidivarina.

[blockquote style=”1″]Dall’osservazione clinica siamo passati alla fase sperimentale, riuscendo a mettere in evidenza un nuovo meccanismo di azione relativo alla cannabidivarina. Nello specifico, abbiamo dimostrato come questa molecola, priva di effetti psicoattivi, sia in grado di modulare la risposta GABAergica mediata dai recettori GABAa. I risultati di questo studio aprono interessanti prospettive. E’ importante proseguire le ricerche sui potenziali terapeutici dei fitocannabinoidi, in modo da colmare il gap scientifico degli ultimi 40 anni[/blockquote] spiega il dott. Cifelli.

Grazie ad un accordo tra Ri.MED e l’Università La Sapienza, il Dr. Cifelli svolge attualmente la propria ricerca presso il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia diretto dalla Prof.ssa Palma, dove sono già in cantiere ulteriori progetti: [blockquote style=”1″]Intendiamo studiare le interazioni tra farmaci antiepilettici e fitocannabinoidi e il loro possibile utilizzo nelle epilessie infantili fortemente farmaco resistenti. La ricerca è la base per cercare di elucidare i meccanismi di queste molecole, di guidare lo sviluppo di una terapia completa, basata su più farmaci; dovremo inoltre verificare i risultati su un campione di pazienti significativo: una strada percorribile solo grazie alla collaborazione tra ricerca di base e clinica.[/blockquote]

Parole che premiano l’approccio traslazionale promosso dalla Fondazione Ri.MED: un modello gestionale pubblico-privato che supporta il collegamento tra enti di diversa natura, tra Italia ed estero e tra laboratorio e pazienti. Grazie a partner quali l’Università di Pittsburgh, UPMC e CNR, alle strategiche collaborazioni internazionali e alla selezione dei più promettenti ricercatori, la Fondazione Ri.MED sta iniziando, ancor prima dell’apertura del proprio centro di ricerca in Sicilia, a produrre proprietà intellettuale, brevetti e vere e proprie rivoluzioni nella traslazione clinica dei risultati scientifici.

 

 

Coscienza e inconscio tra neuroscienze e cognitivismo

Fascino e controversie, sull’onda di una ricerca che da secoli divide e sollecita continuamente nuove domande: la coscienza è da sempre oggetto di studio in molteplici ambiti, dalla filosofia alla psicologia, fino alle neuroscienze e alla scienza cognitiva.

 

Valentina Carnevali – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

La coscienza è l’ultima e la più tardiva evoluzione della vita organica, 

e di conseguenza è ciò che vi è di meno compiuto e più fragile

F. Nietzsche

 

Fascino e controversie, sull’onda di una ricerca che da secoli divide e sollecita continuamente nuove domande: la coscienza è da sempre oggetto di studio in molteplici ambiti, dalla filosofia alla psicologia, fino alle neuroscienze e alla scienza cognitiva. Per secoli l’uomo ha cercato di trovare un significato a quella parte di sé più peculiare e a tratti impenetrabile, per secoli esclusa dalle speculazioni scientifiche e infine accolta e studiata con lenti oggi nuove.

Il concetto di coscienza, spesso riferito a processi e contenuti mentali molto diversi tra loro, allude quindi a realtà apparentemente sfuggenti e difficilmente individuabili. Quando poi si guarda all’altro lato della sua complessità, ovvero la non consapevolezza o, per alcuni, l’inconscio, le controversie aumentano, così come il fascino che tali processi esercitano su studiosi e scienziati da oltre un secolo.

 

La coscienza tra filosofia e scienza: breve quadro introduttivo

In ambito filosofico il dualismo cartesiano mente/corpo ha relegato a lungo il mentale a una dimensione ontologica, impedendo che divenisse oggetto di studio da parte delle scienze naturali.

L’idea secondo cui l’uomo sarebbe costituito da due sostanze ontologicamente distinte, la rex extensa, ovvero la materia, dotata di estensione spaziale e di cui fanno parte i corpi (quindi anche il cervello) e la rex cogitans, sostanza inestesa dotata dell’attributo del pensiero, ha di fatto rallentato, se non impedito, lo studio della coscienza come fenomeno riducibile a eventi fisici. Nell’opera di Cartesio, infatti, la coscienza non può nascere dalla materia perché rex extensa e rex cogitans, diverse nella sostanza e regolate da principi differenti, non possono essere ricondotte l’una all’altra, né possono essere spiegate l’una con l’altra. Di conseguenza, nella visione cartesiana e nelle varianti neo-cartesiane, gli stati coscienti della mente non corrispondono agli stati fisici del cervello. I contenuti di coscienza non sono quindi esplorabili con gli strumenti propri delle scienze naturali, ma solo seguendo la metodologia soggettiva dello “sguardo interiore” (cifra interpretativa che di fatto decreta l’impossibilità dello studio scientifico della coscienza).

Le correnti di pensiero filosofico che delegittimano lo studio della coscienza rifiutandone le prerogative causali (epifenomenismo) o addirittura negandone l’esistenza (eliminativismo) contestano poi qualsiasi validità degli studi empirici sull’argomento (Smith-Chuurchland, 1986). Nel materialismo eliminativista il concetto di coscienza viene rifiutato perché le nostre esperienze fenomeniche (dette anche qualia) non si riferirebbero a una realtà esterna, valutabile oggettivamente, ma sarebbero il prodotto illusorio di resoconti soggettivi (Dennet, 1991). Secondo questa corrente di pensiero, quindi, la ricerca empirica non troverà mai le basi neurali dell’esperienza soggettiva perché di fatto l’esperienza soggettiva non si riferisce a nessuna realtà sostanziale.

Quando all’inzio del ‘900 il mentalismo cartesiano e il dominio della coscienza si iniziarono a scontrare con fenomeni inconsci quali la grande isteria convulsiva, la fuga dissociativa, l’amnesia psicogena e il disturbo di personalità multiple (che sembravano esibire una natura mentale ma al tempo stesso trascendevano la sfera della consapevolezza), lo sconcerto di filosofi, psicologi e neuroscienziati si delineò con forza. Al fine di riconciliare l’esistenza di fenomeni mentali apparentemente inconsci con una visione coscienzialistica della mente, si misero a punto due strategie (Livingstone-Smith, 1999): alcuni studiosi negarono che si avesse a che fare con fenomeni realmente insconsci, definendoli piuttosto come casi in cui si era verificata una dissociazione o scissione della coscienza (teorie dissociazioniste), mentre altri negarono che i fenomeni in questione fossero autenticamente mentali, descrivendoli come disposizioni neurofisiologiche (teorie disposizioniste).

Anche in epoca moderna lo studio della coscienza non è stato sempre accettato e condiviso dagli studiosi di campi comunque coinvolti nelle ricerche sulla psiche. In ambito psicologico, l’approccio ancora soggettivo del metodo introspettivo proposto dalla Scuola di Wundt (1896) è stato bandito infatti dalla ricerca psicologica con l’avvento del Comportamentismo che, spinto da una necessità estrema di oggettivizzazione degli studi, respinge l’indagine privata di contenuti di coscienza perché non documentabile e quantificabile con le tecniche proprie degli studi di laboratorio.

 

Coscienza e neuropsicologia

Tuttavia, anche se bandito dagli studi psicologici per un lungo periodo del secolo scorso, il problema di cosa sia la coscienza ha finito per imporsi in ambito neuropsicologico, in cui la ricerca attenta e sistematica dei disturbi cognitivi provocati dalle lesioni cerebrali ha cominciato a suscitare interesse.

A partire dagli anni ’80 del XX secolo la coscienza ha così conquistato una propria dignità scientifica, in particolare all’interno delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia. In particolare, in questi anni incominciano ad essere studiati e pubblicati casi di pazienti con lesioni cerebrali che presentano dei disturbi di consapevolezza motoria o spaziale apparentemente inspiegabili in base alla nozione di coscienza adottata dal senso comune. Si tratta di soggetti che, nonostante abbiano perso la capacità di movimento di una metà del corpo (emiplegia) o la capacità di percepire e concepire una metà dello spazio esterno (negligenza spaziale), si comportano come se non ne fossero consapevoli (anosognosia) (Berti et al., 2014). Nel corso dei decenni sono state così portate alla luce numerose patologie della coscienza, quali il blindsight o visione cieca (Weiskrantz, 1986), la emisomatoagnosia (Bisiach, 1999), la sindrome della mano aliena (Biran e Chatterjee, 2004), l’embodiment (Garbarini et al., 2013) e la somatoparafrenia.

Ciò che accomuna queste sindromi neuropsicologiche è il fatto di mostrare l’esistenza di disturbi della sfera della coscienza circoscritti all’interno di specifiche dimensioni cognitive (per esempio quella visiva, motoria o corporea), con network neuronali dedicati, rivelando che il concetto di coscienza alla base del sé non è unitario, ma multicomponenziale o modulare.

Inizia a emergere così l’idea, in contrasto col senso comune che reputa la coscienza come dotata di una struttura unitaria e indivisibile, di molteplici coscienze distribuite ed emergenti ciascuna all’interno di una diversa funzione cognitiva: una lesione cerebrale circoscritta può quindi danneggiare la consapevolezza relativa a un certo processo senso-motorio, senza intaccare la coscienza per altri processi paralleli e concomitanti. Il senso di sé potrebbe dunque configurarsi proprio come il risultato dell’integrazione di queste diverse “coscienze parziali”.

Una sensazione così radicata della nostra autocoscienza, come il fatto che il nostro corpo è uno e sempre lo stesso, che si muove intenzionalmente in forza di questo senso di unicità e che abita uno spazio soggettivamente percepito come unico, in realtà non ha quindi una struttura unitaria e indivisibile, ma è il risultato di rappresentazioni multiple a livello spaziale e senso-motorio, che possono essere alterate in modo autonomo per effetto di lesioni cerebrali circoscritte.

Ecco che dunque i paradigmi della scienza cognitiva dei processi di elaborazione dell’informazione risultano particolarmente indicati per mettere in luce un modello multicomponenziale della mente, che ben si adatta ad essere lesionato in modo circoscritto. Su questo tema si interrogano in un articolo Vittorio Gallese e Francesca Ferri (2014): gli autori discutono la possibilità che alla base dei disturbi dissociativi schizofrenici ci possa essere una alterazione del senso di sé corporeo e agente (predisposizione all’azione), una forma di distacco del sé dalle sue basi corporee somatosensoriali e motorie che porterebbe anche all’impossibilità dell’interazione sociale. Questa ipotesi sarebbe corroborata anche dai dati di diverse ricerche che dimostrano una alterazione delle rappresentazioni somatosensoriali (deficit di riconoscimento di proprie parti del corpo), motorie (deficit nel discriminare se movimenti osservati sono propri o altrui) e dolorifiche (riduzione della percezione dolorifica) nei pazienti schizofrenici.

Un’architettura neurocomputazionale compatibile col modello modulare della coscienza è quella del Global Workspace Theory – GWT – (Baars, 1997), che introduce anche il concetto di inconscio. In questa architettura il ruolo della coscienza è quello di facilitare lo scambio di informazioni tra processi cognitivi inconsci, specializzati e paralleli. Più recentemente questa teoria è entrata in simbiosi con la neuroscienza cognitiva soprattutto per merito di Dehaene e collaboratori (Dehaene e Naccache, 2011; Deahene e Changeux, 2004; Gaillard et al., 2009). Secondo questi ricercatori, nel cervello sono presenti due spazi computazionali, ognuno caratterizzato da una diversa trama di connettività.

Il primo spazio è costituito da sottosistemi di elaborazione ipotizzati dalla GWT, ognuno dei quali è specializzato nel trattare un particolare tipo di informazione (per esempio, nella corteccia occipito-temporale l’elaborazione del colore ha luogo in V4, l’elaborazione del movimento in MT/V5, l’elaborazione dei volti nell’area fusiforme delle facce…). L’operare di questi elaboratori modulari si avvale di connessioni locali limitate di medio raggio. Il secondo spazio è la spazio di lavoro globale neuronale (per cui ora si parla di una Global Neuronal Workspace Theory, GNWT): esso è costituito da neuroni distribuiti, tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, particolarmente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regioni parietali. L’ingresso dell’informazione in questo spazio di lavoro sarebbe il correlato neuronale dell’accesso alla coscienza.

Questo modello ha ricevuto una serie di importanti conferme sperimentali. In uno studio fRMI, Dehaene et al. (2006) hanno utilizzato il paradigma del priming di mascheramento per porre a confronto l’elaborazione lessicale inconscia con quella cosciente. Una parola veniva proiettata su uno schermo per poche decine di millisecondi, subito seguita da un’altra immagine (la maschera), che impediva al soggetto di percepire la parola a livello conscio. In genere, la parola diviene cosciente quando l’intervallo tra essa e la maschera è di circa 50 ms. I risultati hanno mostrato che le parole mascherate (inconsce) hanno indotto un’attività locale nelle parti della corteccia visiva deputate al riconoscimento di parole, mentre le parole visibili (coscienti) hanno generato un’intensa attività anche nei lobi parietale e frontale. Dunque, in accordo alla GNWT, l’elaborazione cosciente di informazioni recluta risorse cerebrali fortemente distribuite, mentre l’elaborazione inconscia è più localizzata.

 

Inconscio cognitivo (1): processi di elaborazione non consapevoli

Ad oggi le neuroscienze hanno dimostrato pertanto anche l’esistenza di numerosi processi neurali responsabili di stati non accessibili alla coscienza: è questa una prima concettualizzazione dell’ ”inconscio cognitivo”, ovvero quella parte del funzionamento mentale che è inconscia non perché è stata rimossa (come concettualizzato dalla Teoria Psicoanalitica), ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non sarà né potrà mai essere ricordata. Fanno parte di questo inconscio tutti quei processi cognitivi che avvengono in modo “covert” e non raggiungono l’elaborazione corticale consapevole.

Berlin (2011), in una ricca review che indaga il rapporto tra inconscio e relative basi neurali, descrive una grande varietà di stati inconsci riscontrabili a livello cognitivo, tra cui:

  • Percezione subliminale, in cui lo stimolo è al di sotto della soglia e quindi troppo debole per produrre l’esperienza cosciente;
  • Mascheramento, in cui anche un forte stimolo può inizialmente eccitare le aree visive ma l’interferenza in una fase successiva di elaborazione impedisce l’esperienza cosciente;
  • Visione cieca, in cui le vie sottocorticali possono portare alla rappresentazione inconscia di uno stimolo;
  • Neglect;
  • Rivalità binoculare, in cui uno stimolo presentato ad un occhio inibisce il processamento di uno stimolo presentato all’altro occhio;
  • Crowding, in cui i campi di integrazione spaziale nella periferia sono troppo grandi per isolare un singolo oggetto, e così rappresentazioni di proprietà di oggetti diversi interferiscono uno con l’altro (Pelli e Tillman, 2008).

Inoltre, i dati di ricerca mostrano che anche processi motivazionali ed affettivi possono verificarsi al di fuori della consapevolezza, andando a confermare alcune intuizioni di Freud ed evidenziando che l’attività mentale è radicata in sistemi motivazionali ed emozionali filogeneticamente antichi, capaci di influenzare la sviluppo della mente (LeDoux, 1998a; Panksepp, 1988; Pfaff, 1999) e di operare al di fuori della piena consapevolezza.

Una recente review (Custers e Aarts, 2010) raccoglie infatti gli studi che mostrano come anche obiettivi e motivazioni possono operare al di fuori della coscienza (un fenomeno che chiamano “unconscious will”). I risultati evidenziano che in certe circostanze le azioni possono essere iniziate senza che il soggetto sia consapevole dell’obiettivo finale.

Studi sugli aspetti inconsapevoli delle emozioni dimostrano poi che le persone possono sperimentare stati emotivi e agire di conseguenza senza esserne consapevoli (possono quindi provare qualcosa senza sapere che la stanno provando). I dati sperimentali dimostrano infatti che il processamento emotivo ha inizio al di fuori della consapevolezza (Balconi e Lucchiari, 2008; Bunce et al., 1999; LeDoux, 1998a; Phelps et al., 2000; Wiens, 2006). Evidenze circa l’esistenza di una percezione inconscia di volti mascherati sono emerse da studi che si sono avvalsi di report soggettivi (Esteves, Parra, Dimberg, & Öhman, 1994), risposte autonomiche (Morris, Buchel, & Dolan, 2001a) e brain imaging (Whalen et al., 1998). In alcuni studi, ad esempio, i soggetti mostravano una conduttanza cutanea maggiore in risposta a volti spaventosi mascherati (Esteves et al., 1994) e i potenziali evocati dimostravano l’avvenuto processamento di stimoli subliminali (volti spaventosi), sostenendo così l’esistenza di processamenti emotivi al di fuori della consapevolezza (Kiss & Eimer, 2008).

Si ritiene che queste “emozioni inconsce” siano mediate da un circuito sottocorticale che include il collicolo superiore, il pulvinar e l’amigdala (Berman & Wurtz, 2010; Diamond & Hall, 1969; Lyon, Nassi, & Callaway, 2010). Si è osservato inoltre che immagini a valenza attivante (volti spaventati o arrabbiati) determinano un incremento dell’attività dell’amigdala anche quando sono mascherate da altri stimoli, agendo dunque al di fuori della consapevolezza (Morris, Ohman e Dolan, 1998; Whalen et al., 1998).

Le emozioni possono quindi essere anche precognitive: la “rivoluzione emotiva” che si è insinuata nel cognitivismo standard soprattutto in risposta alle difficoltà di trattamento dei “pazienti difficili” (Roth e Fonagy, 2004) ha preso le mosse proprio dalla messa in crisi del grande cardine su cui il cognitivismo nato da Beck ed Ellis si imperniava, ovvero il dominio assoluto delle cognizioni sulle emozioni.

E’ ormai dunque dimostrato che ci siano aspetti delle nostre reazioni emotive non chiari alla coscienza. Inoltre, ricordi e temi di vita dolenti possono nascondersi oltre la soglia della consapevolezza e stimoli contestuali del tempo presente possono farli rivivere. Questa è l’idea chiave di Conway e collaboratori (2004), ricercatori esperti nella memoria autobiografica, e della loro Self-Memory System Theory (Conway&Pleydell-Pearce, 2000). Questa teoria descrive il sistema di controllo esecutivo centrale non solo come attivatore di strategie cognitive, ma anche come inibitore dell’accesso di informazioni autobiografiche nella coscienza, in quanto pericolose e dolorose. Il sistema associativo, con cui leghiamo stimoli nella nostra memoria a lungo termine (o conoscenza autobiografica) entra poi in gioco in modo significativo: i ricordi o gli stimoli che nella rete associativa si pongono in una posizione di vicinanza al tema dolente vengono marchiati essi stessi come pericolosi e innescano una risposta di inibizione e di evitamento mentale. La Self-Memory System Theory offre così un ponte di discussione tra approcci dinamici e cognitivi su temi di grande importanza clinica, quali l’attività mentale ai limiti della consapevolezza e i meccanismi di difesa. Per alcuni ricercatori, inoltre, questa teoria rappresenta la spiegazione di fondo dell’efficacia di una terapia ad oggi di grande successo: l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Gunter e Bodner, 2009).

 

Inconscio cognitivo (2): memorie e rappresentazioni mentali implicite

Alla luce delle numerose evidenze e considerando anche la concettualizzazione di inconscio emergente dalla teoria psicoanalitica (e le successive revisioni in ambito psicodinamico), è possibile sostenere l’esistenza di “molti inconsci”, ciascuno dei quali fa riferimento a processi e cornici teorico-concettuali differenti.

L’inconscio cognitivo, in particolare, non si configura unicamente come un insieme di processi covert e attivazioni neurali, ma è concepito anche come un mondo di rappresentazioni mentali implicite o tacite (cioè non consapevoli) che, se disfunzionali, vanno modificate in psicoterapia. Tali credenze irrazionali sono “transferali” nel senso che si sono create nell’infanzia per dei motivi che nell’età adulta non sussistono più (e per questo il paziente deve imparare a sostituirle con credenze più funzionali). Si può quindi dire che l’inconscio cognitivo sia quella parte di noi anche denominabile “memoria procedurale” o “elaborazione parallela distribuita”.

Più precisamente, a partire dal momento in cui, nell’intersoggettività, iniziamo a sviluppare le nostre capacità linguistiche, la conoscenza che abbiamo di noi stessi e del mondo si ripartisce in due categorie. La prima, che non utilizza il linguaggio, è stata definita implicita, procedurale, tacita o non dichiarativa (“saper come”), mentre la seconda, fondata sul linguaggio, è detta dichiarativa o semantica o esplicita (“sapere che”). Il “sapere come”, base dell’inconscio cognitivo, è costituito da schemi senso-motori ed emozionali che prescindono dal linguaggio.

I processi inconsci operano attraverso processi simultanei, a differenza di quanto avviene invece nella coscienza, che lavora attraverso processi seriali. La coscienza opera quindi una selezione tra le tante informazioni presenti nell’inconscio e questo è il motivo per cui quello che diventa conscio è sempre una parte molto ridotta e forse anche distorta della complessità delle elaborazioni inconsce parallele. Ciò che esce dall’inconscio non è quindi mai uguale a quanto vi era contenuto: i due linguaggi non sono facilmente traducibili l’uno nell’altro, poiché si tratta di codici cognitivi diversi nella loro natura (in quanto alcune rappresentazioni inconsce non sono neppure esprimibili a parole, si pensi ad esempio alla memoria procedurale che regola il movimento). E’ in questo che l’inconscio cognitivo si differenzia nettamente da quello dinamico, poiché quest’ultimo prevede una certa traducibilità dei contenuti mentali rimossi, mentre l’inconscio cognitivo si configura più come una modalità di immagazzinamento nella memoria implicita, poco o per nulla soggetta ad elaborazione verbale.

Pertanto, nella prospettiva cognitiva, ed in particolare in quella cognitivo-evoluzionista, è di gran lunga più interessante studiare i modi in cui alcune attività mentali non riescono ad acquisire la qualità della coscienza anche laddove sarebbe importante che ciò avvenisse, piuttosto che indagare come un contenuto mentale possa essere rimosso nell’inconscio per difesa dall’angoscia (Liotti, 1996a). L’importanza della trasformazione di attività mentali non coscienti in attività coscienti sta soprattutto nel loro divenire comunicabili attraverso il linguaggio, e dunque modulabili e condivisi in una dimensione intersoggettiva (Liotti, 2001). Fra i processi mentali che dovrebbero acquisire la dimensione della coscienza per divenire modulabili, emozioni e affetti sono certamente, anche da un punto di vista clinico, i principali.

Questo inconscio cognitivo procedurale riguarda anche i rapporti interpersonali, ad esempio certi aspetti degli stili di attaccamento. Queste modalità relazionali apprese nell’infanzia, permangono nell’adulto e regolano buona parte della vita quotidiana e del funzionamento affettivo. Alcune emozioni nascono quindi da vulnerabilità sviluppatesi durante la storia evolutiva dell’individuo (sotto forma di genitori dannosi ed esperienze traumatiche), fuori cioè dalla coscienza (Caselli, 2012). Questa maggiore consapevolezza ha messo in scacco sia il cardine cognitivista della maggiore importanza del funzionamento attuale su quello storico-evolutivo, sia l’ideale psicoanalitico di poter incidere terapeuticamente su certi comportamenti, soprattutto in pazienti gravi, col solo strumento dell’interpretazione verbale.

Quando infatti il cognitivismo standard inizia a confrontarsi con il trattamento di pazienti complessi, con disturbi di personalità e gravi deficit sul piano relazionale e metacognitivo, le tecniche fino a quel momento di grande efficacia con pazienti con disturbi d’ansia e depressione hanno incominciato a scricchiolare e si è reso necessario un ampliamento del paradigma, che andasse ad includere anche aspetti apparentemente indipendenti dalla consapevolezza.

La svolta relazionale del cognitivismo in Italia è stata profondamente influenzata dalla Teoria dell’attaccamento di Bowlby. In particolare, l’orientamento cognitivo-evoluzionista ha trovato in questa teoria una base concettuale per spiegare gran parte del funzionamento generale della mente e della psicopatologia, tenendo conto sia degli aspetti più vicini al cognitivismo standard, sia di quegli elementi relazionali e impliciti che la avvicinano a tratti alla matrice psicoanalitica.

 

Coscienza e inconscio nella prospettiva cognitivo-evoluzionista

L’idea unificante essenziale è che l’uomo possieda, fin dalla nascita, una serie di disposizioni o tendenze innate, definite Sistemi Motivazionali, che non richiedono la coscienza per operare in quanto evolute prima della comparsa della coscienza umana ed esistenti ancora oggi in specie animali prive di autocoscienza. Esse configurano quindi il fondamento innato di una attività mentale inconscia. Le disposizioni innate alla relazione sociale, in particolare, divengono coscienti in forma di esperienze emozionali (il che è congruente con un paradigma di regolazione delle emozioni, e non con quello pulsionale). L’uomo ha dunque diverse disposizioni innate alla relazione, da cui emergono diversi Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) a base innata che operano al di fuori della coscienza. Essi organizzano, una volta attivati, il comportamento sociale e l’esperienza emozionale e rappresentazionale di sè-con-l’altro. Le emozioni sono le prime fasi delle operazioni mentali organizzate dagli SMI che possono conseguire la qualità dell’esperienza cosciente. La conoscenza che si sviluppa a partire da tali disposizioni innate alla relazione è di tipo implicito e non richiede, per il suo funzionamento, né la coscienza né l’autocoscienza.

Le emozioni appaiono nell’esperienza soggettiva prevalentemente come fasi delle operazioni degli SMI; le prime operazioni, riguardanti la regolazione del comportamento interpersonale, sono avvolte nel silenzio del corpo e sono totalmente estranee alla coscienza. Operazioni successive degli SMI raggiungono poi la coscienza in forma di emozioni. Il completamento cognitivo del processo emozionale porta al tipo di esperienza cosciente che Damasio (1999) chiama conoscenza del sentimento. Gli SMI sono pertanto attivi ed operano prevalentemente al di fuori della coscienza. Le emozioni, dunque, emergono nella relazione e rimandano ad essa: la coscienza appare quindi come un processo intrinsecamente interpersonale.

Nel modello cognitivo-evoluzionista si suppone che la formazione dei significati personali patogeni discenda dalle memorie implicite formate durante le esperienze di attaccamento precoci e organizzate nei Modelli Operativi Interni (MOI), strutture di conoscenza che da un lato rappresentano l’esperienza di sé-con-l’altro effettuata attraverso ripetute interazioni di attaccamento, dall’altro attribuiscono valore e significato alle emozioni di attaccamento percepite in sé e negli altri.

La memoria delle percezioni di sé-con-l’altro che si susseguono nel tempo durante il primo anno di vita è dunque tacita, non dichiarativa, procedurale, e mette capo alla coscienza nucleare (Damasio, 1999) o primaria (Edelman, 1989), il cui fondamento è di natura emozionale e non implica il linguaggio. La conoscenza relativa alla mente propria e altrui può poi diventare dichiarativa (semantica ed episodica), e mette capo alla coscienza di ordine superiore, che si avvale invece di processi linguistici.

In particolare, la memoria implicita del bambino a partire dai primi giorni di vita sintetizza progressivamente le sequenze interattive in cui la figura di attaccamento risponde alle sue emozioni di attaccamento, organizzandole in rappresentazioni generalizzate delle interazioni e in Modelli Operativi Interni. Quando i MOI relativi all’attaccamento, contenuti nella memoria implicita, si confrontano con le nascenti capacità linguistiche del bambino, iniziano a prendere forma strutture semantiche da cui poi derivano i grandi temi narrativi che caratterizzano i diversi pattern di attaccamento. Tali nuclei di significato, intorno ai quali ruotano i processi organizzativi della conoscenza di sé, possono quindi non essere coscienti.

La dissociazione fra conoscenza semantica e conoscenza episodica, che si sviluppa all’interno della relazione di attaccamento, è alla base degli esiti psicopatologici. Inoltre, il tema semantico intorno a cui si costruisce la conoscenza di sé-con-l’altro predispone a disturbi emozionali in quanto non permette la conoscenza adeguata del significato e del valore (e quindi la regolazione) di alcune classi di emozioni fondamentali, prevalentemente riferite al Sistema Motivazionale dell’Attaccamento. Se ad esempio nessuno risponde (o risponde ma in modo inadeguato) ai segnali emozionali espressi dal bambino nella relazione di attaccamento, questi non potrà che rappresentare, nella conoscenza implicita di sé-con-l’altro, le proprie emozioni come radicalmente inutili, inefficaci o pericolose per il mantenimento della relazione; inoltre non potrà costituire alcuna rappresentazione delle emozioni dell’altro, in quanto l’altro è assente o ambivalente.

Se nel paradigma psicoanalitico sono le difese inconsce ad ostacolare la presa di coscienza delle emozioni, nella concettualizzazione cognitivo-evoluzionista sono dunque l’intersoggettività e l’interazione tra emozioni e cognizioni a giocare un ruolo chiave: le difese appaiono infatti più indirizzate a gestire le conseguenze di drammatiche e infelici esperienze reali di attaccamento. Così ad esempio, nell’attaccamento insicuro evitante, il MOI del bambino contiene una rappresentazione di sé come fastidioso se richiedente attenzioni e cure e dell’altro come indisponibile. Pertanto, ricordi episodici negativi nell’interazione con i genitori, possono essere esclusi dalla coscienza perché occupata da rappresentazioni semantiche idealizzate dei genitori stessi. L’interdizione del ricordo è così dovuta a pressioni interpersonali più che alla necessità della coscienza di proteggersi dall’angoscia generate da pulsioni inaccettabili.

Secondo questa tesi, sviluppata dallo stesso Bowlby, i genitori imponevano al bambino, attraverso le loro parole e sotto la minaccia implicita di abbandono affettivo qualora non le avesse accettate, di attribuire un significato positivo ad un’esperienza che in se stessa era stata emotivamente negativa. L’idealizzazione dei genitori, dunque, non appare come una difesa da pulsioni aggressive verso di loro, ma come effetto del gioco congiunto di pressioni interpersonali e della disposizione innata del bambino a cercare conforto nelle figure di attaccamento. Se ricordi episodici negativi vengono esclusi dalla coscienza perché questa è occupata ad elaborare significati idealizzanti e irrealistici della relazione con le figure di attaccamento, questi ricordi esclusi costituiscono esempi dell’inconscio cognitivo più che del classico inconscio psicoanalitico (Liotti, 2001).

Anche nella Teoria dell’attaccamento, dunque, l’inconscio è ampiamente concepito come insieme di rappresentazioni e memorie implicite delle relazioni di attaccamento, e si avvicina molto di più all’inconscio cognitivo, inteso per l’appunto come processi e conoscenze implicite, piuttosto che a quello psicoanalitico, topico o dinamico (Laplanche e Pontalis, 1993; Ellenberger, 1970; Eagle, 1987). L’incontro con la Teoria dell’attaccamento ha determinato dunque il rinnovato interesse dei cognitivisti per le attività mentali inconsce e per la dimensione relazionale dello sviluppo normale e patologico (Liotti, 2011; Semerari, 2000). La Teoria dell’Attaccamento ha così permesso ai cognitivisti di comprendere il ruolo centrale, nella formazione della personalità e nella genesi dei disturbi emotivi, delle strutture di memoria inconscia (implicita) costruite nelle esperienze di attaccamento.

Tale prospettiva ha permesso quindi di allargare il lavoro del terapeuta cognitivista dall’attenzione esclusiva su processi e contenuti cognitivi espliciti, ritenuti i soli responsabili dei disturbi emotivi, all’ampio e complesso fronte delle strutture e dei contenuti impliciti costruiti nelle prime relazioni intersoggettive sotto la spinta delle motivazioni interpersonali innate.

Questi contenuti e processi impliciti si rivelano in terapia attraverso modalità espressive non verbali, attivazioni emotive apparentemente improprie o sproporzionate, oppure tramite circolarità interpersonali disadattive che, di regola, coinvolgono anche il terapeuta. L’attenzione alla relazione terapeutica e alla sua modulazione divengono così veri e propri strumenti di cura. L’innesco del sistema di attaccamento nella relazione terapeutica, infatti, comporta inevitabilmente la riattivazione dei MOI dell’attaccamento, confermati e rafforzati nel corso dello sviluppo che ha seguito la prima infanzia. I MOI influenzano la percezione interpersonale e le vicissitudini dell’elaborazione dell’informazione emozionale, prima che queste divengano coscienti, rendendo difficile per il paziente l’esplorazione di significati alternativi, o la riflessione critica delle proprie aspettative, riattivando le stesse modalità di lettura del mondo apprese nell’infanzia attraverso la relazione con l’altro significativo.

Per certi aspetti, dunque, sono da ritenersi la controparte cognitivo-evoluzionista del concetto psicoanalitico di transfert, anche se tra i due vi sono differenze sostanziali (Liotti, 2001): ad esempio, nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, alla base di quanto accade nel transfert, va riconosciuta in prima istanza l’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento, e mai primariamente di quello sessuale o aggressivo. In particolare, l’esistenza di una pulsione primaria distruttiva è negata nella prospettiva cognitivo-evoluzionista.

La prospettiva cognitivo-evoluzionista rientra dunque tra quegli approcci psicoterapeutici di paradigma relazionale (molti di essi proprio di matrice psicoanalitica) che condividono la natura relazionale della mente e del suo sviluppo, la centralità delle dinamiche interpersonali di attaccamento per la comprensione della patologia e il ruolo sovraordinato della relazione terapeutica nel trattamento (Lingiardi et al. 2011; Bromberg, 2008; Liotti, 2011; Liotti e Farina, 2011). All’interno di questa concettualizzazione del funzionamento, quindi, anche l’inconscio, adeguatamente rivisto e depurato da alcuni concetti non sostenuti dalle evidenze sperimentali che nel corso dei decenni si sono imposte sul versante scientifico, è rientrato a far parte della pratica clinica, specie per quanto riguarda proprio la gestione e la modulazione di quei cicli interpersonali tra paziente e terapeuta che, se abilmente direzionati, possono divenire essi stessi potenti strumenti terapeutici.

Quante volte possiamo cambiare vita? – Recensione del documentario My Nature

My nature è un documentario di 75 minuti. Parla di Simone, un uomo di quarant’anni nato biologicamente donna, trasferitosi in Umbria, per trovare il suo posto nel mondo e ritrovarsi in se stesso, nella natura e nella vita stessa.

 

I registi di My Nature sono Massimiliano Ferraina e Gianluca Loffredo. Alla prima del documentario, svoltasi venerdì 7 ottobre 2016, al secondo Festival Internazionale del Documentario “Visioni dal Mondo. Immagini della realtà”, c’è stato modo di confrontarsi con uno dei due registi:

Ognuno definisce la realtà attraverso la propria vita. Questa è la storia di Simone, qualcun altro la vivrà diversamente. Questa è la sua storia e anche un film quindi un meccanismo narrativo – spiega Massimiliano Ferraina.

Questo documentario è stato girato nell’arco di cinque lunghi anni, in cui i due registi, con lo scopo di far sparire la videocamera, hanno costruito una stretta intimità con Simone, i luoghi e le persone da lui frequentati.

Il focus delle riprese di My Nature non è il passato di Simone ed il suo percorso di transizione dal genere femminile a quello maschile, ma è il suo presente, in cui egli sta cercando il suo posto nel mondo e lo trova in Umbria, a contatto con la natura; anche se potremmo meglio dire che il suo posto nel mondo Simone lo trova nel suo benessere e nella vita stessa.

 

Quante volte cambiare: il tema di My Nature

Questo documentario non nasce dalla voglia di raccontare il percorso  di un uomo transgender, ma ciò che sta a cuore ai registi è il tema, che riguarda ognuno di noi: “Quante volte si può cambiare vita?”. E così, la storia di Simone è sembrata loro ideale per dare risposta a questo continuo interrogativo.

Nello scorrere di questi 75 minuti vengono toccati punti molto interessanti anche da un punto di vista psicologico. Ne riporterò alcuni, lasciando allo spettatore il piacere di cogliere le altre componenti di questa pellicola, tra cui: le inquadrature, le immagini ed il ritmo scandito dalla musica, dall’intonazione e dalle parole di Simone e delle persone da lui incontrate.

Come tende a precisare il regista, questa è la storia di Simone, eppure certi aspetti possono riecheggiare anche nei vissuti di altre persone.

Simone inizia la sua transizione per la riassegnazione del genere intorno ai ventisette anni, eppure, il suo percorso non è ancora terminato. Non ci si riferisce agli interventi chirurgici, quelli sono avvenuti con successo. Ci si riferisce ad una parte di sé più profonda, legata all’accettazione e all’identità.

E loro mi amavano così com’ero. Ero io che trovavo i difetti. Prima dell’intervento che non ho il corpo da uomo come dovrebbe essere. Dopo l’intervento ho le cicatrici, ho quest’altro».

E torna sull’argomento anche più avanti, parlando con un amico:

La mia scelta del corpo, con le operazioni sento che è una prima tappa. Io non mi sono mai accarezzato il corpo. Quando ci siamo visti la prima volta tu mi hai detto “accarezzati le cicatrici”. Ci vuole tanto coraggio. È una grande sfida. È molto più facile soffrire che guarire. L’operazione è solo il primo passo.

Non è la terapia ormonale o la terapia chirurgica a garantire automaticamente serenità; talvolta, per qualcuno può essere un percorso molto più lungo e faticoso.

Ci si può trovare insoddisfatti anche innanzi al “corpo perfetto” sognato da sempre, perché il proprio senso di identità è molto più complesso di una terapia ormonale e di un finissimo intervento chirurgico.

Nel corso del documentario Simone condivide un aspetto del proprio passato, che lui riconosce come strettamente legato a tematiche identitarie.

E di ricordami di com’ero perso. Di com’ero disperato. Di ricordarmi dieci anni di eroina. Dove per il mondo non ero più né maschio né femmina. Avevo una identità finalmente. Ero solo un drogato.

In questo pensiero, Simone non parla solo della sua tossicodipendenza, ma porta l’odio e la rabbia che provava nei confronti di se stesso. Di un sé che finalmente aveva un’etichetta per il mondo, un’etichetta non più incentrata sulla dicotomia femminile-maschile.

 

Ridefinirsi tra passato e presente

Il passato è quella dimensione temporale in cui chiunque potrebbe esser stato diverso rispetto a com’è nel presente, eppure nel presente si può sempre rintracciare una parte di quel passato. C’è chi preferisce nascondere, anche a se stesso, e chi preferisce condividere la propria storia, anche se con difficoltà. Simone affronta questo tema con un’amica di Catania, sua città Natale.

Amica: Non sapevo niente però ti dissi, che è successo? Hai dovuto uccidere qualcuno? E tu mi dicesti “devo dirti assolutamente qualcosa” e avevi la faccia di chi è colpevole però. Allora la prima cosa che ti dissi fu.. “hai ucciso qualcuno?” Come se tu fossi colpevole e dovessi chiedere anche un po’ scusa

Simone: Ogni volta sembra veramente…

Amica: come se dovessi partorire

Simone: ma proprio difficile perché ognuno ha una reazione diversa. Allora nella mia mente: “adesso che reazione ci sarà? Si stupirà? Sarà… sarà imbarazza? Potrà cambiare qualcosa? Ora glielo dici e cambia qualcosa”

Amica: secondo me è come se… “ora glielo dico cambia qualche altra cosa in me”. Ogni volta che lo dici rinasci

Simone: caccio fuori (…) le persone come te sono state fondamentali. Mi hanno rafforzato a sentirmi meno colpevole

Simone nella sua vita ha vissuto molte cose con difficoltà, come abbiamo visto velocemente per il suo senso di identità, così nel potersi raccontare ed aprire agli amici e alle persone intorno. Egli ha vissuto anche le semplici cose quotidiane, come ostacoli su cui dover pensare ed agire continuamente.

My Nature espone proprio la dimensione in cui Simone inizia, anche grazie a percorsi di meditazione, a distaccarsi dai suoi pensieri per incontrare un po’ di serenità.

Io voglio essere un uomo sereno nel proprio lavoro. Non ho un piano su cosa fare, sto facendo delle cose che però mi piacciono. Seguire quello che mi ha appassionato: la psicologia, la guarigione. Sono sempre stato uno che ha dovuto progettare tutto: come mettere le bende strette, come mettere quel pantalone, come tagliare i capelli. Ho dovuto progettare cose che per gli altri erano naturali. E non ho più voglia di progettare.

 

Greta Riboli

VIDEO: My Nature – Trailer ufficiale

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Infanzia e apprendimento nel cervello umano: lo sviluppo delle capacità cognitive nei bambini

Dopo secoli di considerazioni sui neonati e il loro sviluppo mentale, la ricerca sullo sviluppo cognitivo ha dimostrato l’esistenza di notevoli capacità cognitive nei bambini, già nei primi mesi di vita.

 

Le funzioni cognitive notevoli e complesse osservate negli esseri umani non sono improvvisamente emerse in età adulta, ma sono il risultato di ben due decenni di sviluppo. Dopo secoli di considerazioni sui neonati e il loro sviluppo mentale, la ricerca sullo sviluppo cognitivo ha dimostrato l’esistenza di notevoli capacità cognitive nei bambini già nei primi mesi di vita.

 

Capacità cognitive nei bambini: il linguaggio e la cognizione numerica

Grazie a tecniche di brain imaging non invasive è stato possibile comprovare con dati sperimentali l’esistenza di tali capacità cognitive nei bambini. Dopo aver descritto le prime capacità cognitive nei settori del linguaggio e del numero, sono stati passati in rassegna i risultati recenti che sottolineano la forte continuità tra i neonati umani e gli adulti per quanto concerne l’architettura neuronale, partendo già dalle prime particolari asimmetrie emisferiche e il coinvolgimento delle aree frontali.

Questo insieme di prime capacità proietta i neonati su un percorso di apprendimento al di là dei percorsi a disposizione di altri animali. Questo percorso ha già in sé alcuni aspetti dell’apprendimento degli adulti. In alcuni settori, come il linguaggio, i neonati umani sono ancora migliori rispetto agli adulti, mentre in altri, come la cognizione numerica, i bambini sono più lenti, ma comunque già in procinto di sviluppare quella caratteristica che è tipica umana, il pensiero astratto.

Il linguaggio è un esempio di raffinatezza cognitiva umana: la produzione verbale si sviluppa lentamente, inizia con una fase di vocalizzazione, poi balbettio e si conclude con le prime parole intorno all’anno di vita. Esperimenti progettati con cura hanno dimostrato, tuttavia, che le capacità ricettive dei neonati sono sostanzialmente molte di più rispetto a ciò che effettivamente riescono a produrre, infatti, i bambini sono sensibili a particolari suoni vocali e combinazioni utilizzati da chi li circonda. Inoltre sono in grado di riconoscere la loro lingua nativa alla nascita e stabiliscono il repertorio fonetico della lingua durante il primo anno di vita, ed in seguito acquisiscono la capacità di dedurre la struttura astratta del discorso.

I neonati rapidamente diventano sensibili a categorie di parole, la memorizzazione delle parole funzionali della propria lingua avviene già intorno ai sei mesi, successivamente i bambini riescono ad analizzare la struttura della frase e ad individuarne eventuali errori ed infine, iniziano a collegare le parole alle cose a cui si riferiscono. Così, il linguaggio comincia presto per favorire l’elaborazione di informazioni sul mondo circostante ai neonati umani.

Leggermente diverso è il discorso per quanto concerne il concetto del numero naturale, poiché non si esprime fino a metà infanzia, cioè dai quattro ai dieci anni. Anche se la precisione e la robustezza delle rappresentazioni aumenta con lo sviluppo cognitivo, le rappresentazioni numeriche che si trovano nei neonati umani hanno le stesse cinque proprietà che vengono mantenute a tutte le età: sono indicativi, addizionano e sottraggono sommariamente, ordinano e confrontano, li relazionano a grandezze spaziali come la lunghezza e analizzano insiemi di oggetti in base al numero di elementi e grandezza fisica.

Un altro aspetto molto importante che è emerso dagli studi è che l’apprendimento è limitato e favorito dalle competenze computazionali locali di ciascuna zona del cervello, dalla loro connettività, e anche da vincoli temporali in un organo fisico. Ciò è dovuto al fatto che il cervello, attraverso la modulazione dell’espressione genica, favorisce o ritarda certi circuiti in diverse zone del cervello in base agli input ambientali, per permettere all’individuo uno sviluppo equilibrato.

Gli scienziati dicono:

Concludiamo sottolineando cinque punti. In primo luogo, gli esseri umani sono l’unica specie che utilizza simboli espliciti, partendo dalle parole della loro lingua. Così, ci distinguiamo per la nostra mente simbolica. La continuità tra l’architettura cerebrale dei bambini e degli adulti suggerisce che i bambini hanno le risorse cerebrali per sviluppare rappresentazioni simboliche attraverso una vasta gamma di settori. La ricerca in imaging cerebrale nei neonati resta difficile e dovrebbe essere sostenuta attivamente, se vogliamo comprendere le funzioni simboliche che sono così al centro delle nostre specificità cognitive umane e di sviluppare adeguate simulazioni di quelle funzioni.

L’anima è un pianoforte: la psicologia dei colori secondo Kandinskij e Lüscher

Il colore non può essere spiegato con una teoria che sia solo meccanica, ma deve trovare spiegazione più profonda nella poetica, così come nell’estetica o anche nella psicologia dei colori

 

Analisi del colore: dalla scienza all’estetica

Sul colore esistono molte teorie che, via via, lo hanno analizzato da diversi punti di vista: fisico, chimico, psicologico, espressivo.

La fisica ci insegna che il colore deriva dalla scomposizione della luce e che viene misurato in lunghezze d’onda; Isaac Newton (1643-1727) dimostrò che la luce del sole che noi vediamo bianca è, in realtà, composta dai sette colori dello spettro solare: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), in “Zur Farbenlehre” (“La teoria dei colori”, 1810) sostenne che i colori non possono essere spiegati con una teoria che sia solo meccanica, ma devono trovare spiegazione anche nella poetica, nell’estetica e nella psicologia.

 

La psicologia dei colori in Vasilij Kandinskij

Vasilij Kandinskij (1866-1944), nelle sue teorie sull’uso dei colori, stabilì un nesso strettissimo tra l’opera d’arte e la dimensione spirituale, affermando che l’anima e l’arte si influenzano a vicenda. Kandinskij analizzò la reazione dell’osservatore davanti ad un’opera d’arte e parlò di due effetti: uno puramente fisico e superficiale, l’altro, più profondo, attraverso il quale emerge la vera forza psichica del colore, che fa emozionare. L’artista russo in “Lo spirituale nell’arte” (1909) scrisse:

In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore.

Quindi, secondo Kandinskij, che possedeva una sensibilità acutissima, ogni colore produce un effetto particolare sull’anima, in questo senso egli può essere considerato uno psicologo del colore.

 

Psicologia dei colori: il contributo di Max Lüscher

Psicologo del colore è anche lo svizzero Max Lüscher (1923), grazie al cui test dei colori, è possibile analizzare, con metodo scientifico, lo stato psicofisico di una persona in base alla sua preferenza per i colori.

La base teorica da cui è partito Lüscher è la psicologia autoregolativa, secondo cui ogni essere umano tende al raggiungimento dell’armonia, che nasce dall’interazione dinamica equilibrata di quattro strutture emozionali di base. Se, come afferma Lüscher,tentiamo di sostituire tali sentimenti normali con sentimenti di apprezzamento eccessivo o di deprezzamento smodato del Sé, tale autoinganno ci relegherà nel circolo vizioso egocentrico dell’autodistruzione” e porterà l’individuo a disturbi e comportamenti disadattivi.

Secondo la psicologia autoregolativa, lo scopo della terapia è quello di individuare tali disturbi e di ripristinare l’armonia perduta. Secondo la psicologia dei colori di Max Lüscher, ogni colore ha un significato universale ed obiettivo, cioè la percezione cromatica è esattamente la stessa per tutti e tutte le culture; ciò che varia nella percezione del colore è la valutazione data dal singolo alla percezione stessa, il suo accettarla o rifiutarla: la percezione potrà dunque risultare, a seconda della valutazione data dal soggetto, simpatica, indifferente o antipatica.

 

I significati psicologici dei colori secondo Lüscher e secondo Kandinskij

Vediamo ora quali sono i significati psicologici dei colori (ne analizzeremo 4) secondo Lüscher e secondo Kandinskij.

Il rosso è definito da Kandinskijvivo, acceso ed inquieto” e viene fondamentalmente collegato al tema dell’energia vitale; Lüscher afferma che la percezione del rosso è, tra tutte, quella che produce l’effetto eccitante più intenso. Osservando a lungo il rosso, infatti, il respiro si fa più veloce e la pressione sanguigna aumenta. Il rosso è eccitazione, desiderio, amore sensuale e desiderio di potere. Poiché, come detto poc’anzi, ogni persona può avere reazioni diverse di fronte alla percezione del colore, se ci sarà rifiuto (o “antipatia”) per il colore rosso, esso produrrà l’esatto contrario del desiderio, ovvero il disgusto.

Il grigio, che Kandinskij definisce “immobilità desolata”, per Lüschersi distingue per le negazioni. Non è né colorato, né chiaro, né scuro. Il grigio è il nulla di tutto, la sua particolarità è la neutralità più completa”.

Il verde, scrive Kandinskijnon si muove in alcuna direzione e non ha alcuna nota di gioia, di tristezza, di passione, non desidera nulla, non aspira a nulla. E’ un elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutte le direzioni”. Secondo Lüscher il verde rappresenta i valori stabili che valgono: l’autorevolezza, la stima, la dignità, l’integrità.

Il blu, andando molto in profondità, sviluppa l’elemento della quiete e quanto più è profondo, ci suggerisce Kandinskij, tanto più fortemente richiamerà l’uomo verso l’infinito. Per Lüscher il blu corrisponde ad un sentimento di serenità e di moderazione. Numerosi esperimenti hanno infatti dimostrato che, se si osserva a lungo il colore blu scuro, la respirazione si fa più lenta e la pressione arteriosa si abbassa.

Il lutto: fasi, reazioni e trattamento

Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Il lutto però può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità.

Marco Palumbo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il lutto è definibile come uno:

… stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo, che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno, come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o interno, come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale e simili (Galimberti, 1999, 617).

 

Sintomatologia e fasi del lutto

Le prime descrizioni della sintomatologia post lutto vennero proposte da Lindermann nel 1944 dopo un incendio al Night Club Coconut Grove di Boston, esse comprendevano:

  1. Disturbi somatici di vario tipo
  2. Preoccupazioni riguardanti l’immagine del defunto
  3. Sensi di colpa nei confronti della persona scomparsa o delle circostanze della morte
  4. Reazioni ostili
  5. Perdita della capacità funzionale preesistente
  6. Tendenza ad assumere tratti comportamentali tipici del defunto

Questa sintomatologia gli permise di definire 3 principali stadi del lutto:

  • Shock e incredulità
  • Cordoglio acuto
  • Risoluzione del processo di Cordoglio

Successivamente Bowlby (1982), che per molto tempo si concentrò sullo studio della costruzione e della rottura dei legami affettivi identificò 4 fasi del lutto:

  • Una prima fase di disperazione acuta, caratterizzata da stordimento e protesta. Solitamente questa fase si caratterizza per il rifiuto della perdita.
  • Una fase d’intenso desiderio e di ricerca della persona deceduta (alcuni mesi o anni).
  • Una fase di disorganizzazione e di disperazione.
  • Una fase di riorganizzazione, durante la quale gli aspetti acuti del dolore cominciano a ridursi e la persona afflitta comincia ad avvertire un ritorno alla vita.

Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:

  • Fase della negazione o del rifiuto: costituita da una negazione psicotica dell’esame di realtà;
  • Fase della rabbia: costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di direzionare il dolore e la sofferenza esternamente (forza superiore, dottori, società…) o internamente (non essere stati presenti, non aver fatto di tutto…);
  • Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà;
  • Fase della depressione: costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile;
  • Fase dell’accettazione del lutto: costituita dalla totale elaborazione della perdita e dall’accettazione della differente condizione di vita.

Le sopracitate sono appunto fasi e non stadi, poiché non si assiste rigorosamente a una sequenzialità, ma esse possono presentarsi con differenti tempistiche, alternanze, intensità.

 

Le reazioni al lutto

Per Onofri e La Rosa (2015) le normali reazioni al lutto possono essere suddivise in 4 categorie:

1. Sentimenti

Tristezza: questo è il sentimento più comune che andremo a trovare nelle persone in lutto, spesso espresso con il pianto. Per Parkes e Weiss (1983) il pianto è un segnale che induce negli altri comportamenti protettivi.

Collera: originata tendenzialmente da 2 fonti:

  • senso di frustrazione per non prevenire il lutto
  • simile al comportamento di protesta dei bambini alla separazione della figura di attaccamento

Colpa e Auto-Rimprovero: la colpa irrazionale in genere si riferisce a qualcosa che sarebbe potuto accadere ma non è accaduto nei momenti antecedenti al lutto. Si tratta di un sentimento irrazionale che lentamente va scomparendo man mano che si riacquista l’esame di realtà.

Ansia: originata tendenzialmente da 2 fonti:

  • si pensa di non essere più in grado di proteggersi.
  • maggiore consapevolezza del concetto di mortalità.

Solitudine: Stroebe et al. (1996) individuano 2 tipologie principali di solitudine:

  • Solitudine Emotiva: dovuta alla rottura di un legame d’attaccamento.
  • Solitudine Sociale: dovuta all’isolamento sociale.

Shock: lo shock emotivo si osserva principalmente nei casi di morte improvvisa.

Struggimento: Parkes (2001) ha osservato il manifestarsi di questa normale risposta alla perdita. Se il forte desiderio della persona perduta si mitiga siamo davanti a una risoluzione del cordoglio; diversamente la sua persistenza può essere sintomo di un lutto traumatico e non risolto.

Sollievo: molte persone possono provare sollievo specialmente quando la persona cara ha dovuto affrontare una lunga e pesante malattia.

Stordimento: alcune persone possono arrivare a sentire una incapacità di provare emozioni.

 

2. Sensazioni Fisiche

Lindemann (1944) riporta che le sensazioni fisiche più comunemente sperimentate da una persona che sta affrontando un lutto sono:

  • Sensazione di vuoto gastrico
  • Costrizione toracica
  • Costrizione laringea
  • Ipersensibilità al rumore
  • Senso di depersonalizzazione
  • Sensazione di apnea
  • Debolezza muscolare
  • Mancanza di energia
  • Secchezza delle fauci

 

3. Cognizioni

Dal punto di vista cognitivo, il lutto è caratterizzato da:

  • Incredulità: normalmente è questo il primo pensiero che si prova nei momenti successivi alla perdita.
  • Confusione: molti soggetti riportano che dopo un lutto si sentono confusi, non riescono a organizzare i pensieri e non riescono a concentrarsi.
  • Preoccupazione: una ruminazione mentale continua che si manifesta principalmente in 2 versioni:
    • Tenersi attaccati al ricordo del defunto per non lasciarlo andare.
    • Pensieri intrusivi riguardanti il deceduto sofferente o morente.
  • Senso di presenza: ovvero la controparte dello struggimento. La persona in lutto può pensare che il defunto sia in qualche modo nell’area spazio-temporale attuale e corrente.
  • Allucinazioni: uditive e visive. Esse sono una frequente esperienza dei sopravvissuti. Queste esperienze illusorie transitorie in alcuni casi rappresentano qualcosa di sconcertante per chi le esperisce anche se occasionalmente viene riportato che possono essere percepite come utili.

 

4. Comportamenti

La persona in lutto può inoltre manifestare una serie di specifici comportamenti a seguito della perdita:

  • Disturbi del sonno: essi si manifestano sia con difficoltà ad addormentarsi sia con risvegli precoci.
  • Disturbi dell’appetito: essi si possono manifestare sia con inappetenza sia con iperalimentazione.
  • Distrazione: nel periodo immediatamente successivo al lutto le persone possono avere la sensazioni di agire in modo distratto temendo di effettuare azioni con conseguenze spiacevoli.
  • Isolamento sociale: è abbastanza comune che le persone in lutto vogliano evitare gli altri.
  • Sogni del defunto: accade spesso che i sopravvissuti sognino i cari scomparsi. A seconda del sogno si può ipotizzare la fase del lutto che la persona sta attraversando.
  • Evitare i ricordi: alcune persone tendono a evitare i luoghi o gli oggetti (cimitero, luogo dove è defunto, camera da letto, vestiti…) che possono rievocare i ricordi della perdita della persona cara.
  • Ricerca e richiamo: Parkes (1980) e Bowlby (1982) descrivono bene il comportamento di ricerca o richiamo nei loro scritti. Le persone possono gridare il nome del defunto chiedendo di tornare, ad esempio “Paolo, Paolo! Torna da me!”.
  • Sospirare: comportamento correlato con la sensazione fisica di apnea.
  • Iperattività: abbastanza frequente il presentarsi di un aumento dell’attività motoria e dell’irrequietezza. Questo tipo di comportamento viene considerato come una variante del comportamento di ricerca.
  • Pianto: anche il pianto viene messo in relazione con il comportamento di ricerca o di richiesta d’aiuto.
  • Visitare luoghi o portare oggetti che ricordano il defunto: considerato l’opposto del comportamento di evitamento dei ricordi. Di solito la credenza alla base di questo comportamento è la paura di perdere le memorie relative al defunto.

 

Quando un lutto diventa patologico

Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Con “stato di accettazione” intendiamo il ritorno a una situazione confrontabile alla fase pre-lutto con un miglioramento del tono dell’umore e con un abbassamento delle problematiche psicosociali (Bonanno et al., 2002).

Il lutto può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità. A seconda della tipologia di attaccamento possiamo osservare più o meno vulnerabilità alla sintomatologia. Bowlby nel 1973 mise in risalto come in una persona con attaccamento insicuro è presente una sorta di predisposizione al lutto patologico per via di una difficoltà di gestione delle emozioni dolorose previste dalla perdita.

Parkes (1980; Parkes e Weiss, 1983), inoltre, ha verificato che la qualità della relazione che viene interrotta dalla morte influenza il percorso di elaborazione (lutto conflittuale).

 

Psicoterapia in casi di lutto

Come si può trattare quindi psicoterapeuticamente un paziente che subisce un evento che provoca così tante alterazioni della salute psicofisica?

Per Perdighe e Mancini (2010), il lutto è un evento che compromette o minaccia scopi personali; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia domini connessi.

Pertanto, avvenuta la perdita, per giungere alla fase di accettazione l’obiettivo dovrà orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili.

Per abbandonare uno scopo è necessario modificare le credenze che motivano l’investimento nello stesso. Quali sono quindi le motivazioni che complicano la modifica di queste credenze?

  • Gravità della perdita: se la perdita va a colpire gli scopi centrali (quindi andando a influire negativamente sui comportamenti, le emozioni e i pensieri più nucleari) per l’individuo sarà più complicato allontanarsi dallo scopo.
  • Mancanza di supporto sociale: se non si hanno persone su cui appoggiarsi e che possano almeno supplire parzialmente allo scopo, avremo una più marcata difficoltà nell’elaborazione del lutto.
  • Comportamenti di inibizione o soppressione della sofferenza: negando l’esposizione alle emozioni connesse alla perdita impediamo la rivalutazione dell’evento ritardando il processo di accettazione.
  • Stereotipi rispetto alla giusta reazione: essi vanno a strutturare problematiche secondarie quali colpa, rabbia o vergogna non favorendo un recupero funzionale.
  • La non sicurezza della perdita. La persona che deve attraversare il lutto, non potendo comprendere efficacemente l’effettività della perdita (una prognosi incerta), non potendo sapere se la perdita è avvenuta o meno (scomparsa, rapimento…) o non potendo delineare una o una serie di cause della perdita (morte improvvisa senza spiegazioni) fa molta più fatica ad entrare in uno status di accettazione. La normale reazione a queste situazioni è la messa in atto di stili di pensiero ruminativo orientati al capire il perché o trovare una soluzione che però hanno l’effetto di rinforzare un scopo disfunzionale: quello dell’elusione della perdita.

Come quindi rapportarsi a questi ostacoli cognitivi che impediscono il processo di accettazione? Necessaria è l’attenzione portata alla storia di sviluppo e allo stile d’attaccamento. Contemporaneamente sarà di primaria importanza la costruzione di una buona relazione terapeutica con un focus sulla sua modulazione.

Attraverso l’utilizzo del metodo socratico si possono prendere in considerazione principalmente 4 interventi:

  • Primario è l’intervento di validazione sulla sofferenza causata dall’assenza della persona.
  • Necessario è anche abbassare la gravità soggettiva del danno percepito.
  • Si deve puntare anche al cambiamento dei beliefs orientati al trovare un’alternativa alla perdita.
  • Rendere più flessibili le credenze di doverizzazione.

In supporto poi agli interventi CBT si potranno utilizzare altre tecniche quali l’EMDR, la Terapia Sensomotoria e l’intervento di gruppo che presenta più vantaggi rispetto all’intervento individuale.

 

L’intervento di gruppo

Un intervento di gruppo, rappresenta un enorme risorsa e potenzialità di sostegno. Ognuno di noi, sulla nostra pelle, ha provato che far parte di un gruppo che permetta di condividere problemi, farti sentire accettato e sostenuto e di conseguenza sentirsi rispecchiato in esso, sia di grande supporto per attraversare i momenti cruciali della vita (come può essere l’affrontare un lutto). La cosa più importante che si sperimenta in un gruppo terapeutico è la sensazione di “non essere più soli”. Le emozioni che noi ritentiamo negative (rabbia, tristezza, paura) sono comuni a tutti, e in un ambiente di questo tipo si può parlare di esse senza sentirsi giudicati.

Il gruppo si trasforma, quindi, nel luogo sicuro dove si possono accettare ed affrontare le angosce e i pensieri più dolorosi, anziché dover impiegare enormi risorse nel combattere quei sentimenti. Inoltre, diventa quel posto dove è possibile iniziare a prendere in considerazione nuove strategie, nuovi pensieri e nuovi punti di vista che favoriscano l’accesso all’accettazione.

Infine, in questo modo si contrasta la tendenza, che hanno le persone in lutto, ad isolarsi, stimolando le persone a prendersi cura di sé creando uno spazio di diritto al dolore.

Quando il paziente sarà in grado di riorganizzare la propria esistenza tenendo conto dell’ assenza della persona amata, probabilmente vorrà dire che è entrato nella fase di risoluzione della perdita.

Smetterla i fare ipotesi su ipotesi su come sono andate le cose, di colpevolizzare qualcuno o se stessi, accettare l’ineluttabilità della perdita, riconoscerla fino in fondo, apprezzare tutto il bene che quel rapporto ha comportato, e trovare la propria via, a volte del tutto personale, per ritrovare la vicinanza con chi non c’è più (A. Onofri, C. La Rosa, 2015).

L’amore in presenza deve diventare l’amore in assenza.

Emozioni ed Intelligenza emotiva negli sport da combattimento

Mayer (2008) individua quattro aspetti dell’ intelligenza emotiva correlati agli sport da combattimento: la valutazione delle proprie emozioni, cruciale nel regolare il livello di arousal; la comprensione delle emozioni altrui, necessaria per prevedere le reazioni ed azioni dell’avversario; uso delle emozioni per mascherare e fingere le proprie emozioni ed usarle a proprio vantaggio durante il combattimento ed infine, l’autoregolazione delle emozioni, per mantenere un appropriato livello di arousal e controllare la situazione.

Laura Zamboni, OPEN SCHOOL PTRC MILANO

 

Emozioni ed intelligenza emotiva: come influiscono sulle prestazioni sportive

[blockquote style=”1″]Si vince con la testa e le gambe. I pugni hanno un’importanza secondaria.[/blockquote]
Georges Carpentier

Le emozioni costituiscono una componente fondamentale nella vita di tutti i giorni, non occorre essere stati pugili come Georges Carpenter per aver provato sulla propria pelle quanto l’intensità di un’emozione possa migliorare od ostacolare una prestazione. Nella pratica clinica si parla di emozioni funzionali e disfunzionali, ma solo in tempi relativamente recenti questo interesse è stato esteso anche al contesto sportivo.

[blockquote style=”1″]Lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla[/blockquote] (Pierre de Coubertin)

Dai primi studi condotti negli anni ’80 (Parfitt e Hardy, 1987) focalizzati sui rapporti tra prestazioni sportive ed emozioni quali rabbia e paura, si è arrivati con Hanin (1997, 2000) alla formulazione del modello IZOF, secondo il quale ogni atleta possiede una propria zona ottimale di funzionamento, all’interno della quale è possibile realizzare la performance migliore.

In questa prospettiva non si valuta più l’emozione singolarmente ed il suo peso sulla prestazione, ma si identificano diverse emozioni e si stima in che misura esse possano essere funzionali, in un preciso atleta, per permettere il raggiungimento di prestazioni ottimali. Seguendo la linea definita da Hanin (2003) nel ritenere le emozioni come una risorsa per comprendere se stesso e l’altro e per il fondamento dell’azione consapevole, possiamo notare come ci sia un forte avvicinamento al concetto di intelligenza emotiva definito per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come: [blockquote style=”1″]capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni.[/blockquote]

A rendere poi più nota l’intelligenza emotiva è stato Goleman (1995) che l’identificò con la capacità di riconoscere i propri ed altrui sentimenti, di motivarci e di gestire le nostre emozioni, anche nelle relazioni sociali. L’intelligenza emotiva, quindi, comprende sia competenze personali riferite alla consapevolezza e padronanza di sé ed alla motivazione, sia competenze sociali di empatia ed abilità sociali.

Se, come prima accennato, le emozioni sono state oggetto di studio nella psicologia dello sport a partire dagli anni ‘80, l’intelligenza emotiva considerata in questo ambito, costituisce un interesse ancora più recente, la letteratura sull’argomento è ad oggi nelle sue fasi iniziali, tanto più se prendiamo in considerazione lo specifico contesto degli sport da combattimento.

In questo caso verranno presi in esame sport da combattimento individuali intesi come : “Boxe in uno qualsiasi dei suoi stili, kick boxing in uno qualsiasi dei suoi stili, qualsiasi sport, arte marziale o attività in cui è richiesto ad ogni concorrente in una gara, di esporre o mostrare di quello sport, l’arte o l’attività di colpire, calciare, lottare, atterrare (proiettare) uno o altri concorrenti, come prescritto dal regolamento… Particolari regole determinano il vincitore della competizione, ad esempio, ottenendo più punti dell’avversario o immobilizzando, atterrando l’avversario” (New South Wales Legislation Act, Combact Sports Act 2008).

Una definizione più recente dell’intelligenza emotiva è quella di Mayer, Salovey e Caruso (2008), che la descrivono come [blockquote style=”1″]l’abilità di impegnarsi in sofisticati processi di elaborazione delle informazioni circa le proprie ed altrui emozioni e, l’abilità di utilizzare queste informazioni come una guida per il pensiero ed il comportamento.[/blockquote] Negli sport da combattimento numerose e complesse informazioni richiedono di essere processate per generare una risposta veloce ed adeguata, sia sul piano del pensiero sia su quello del comportamento.

Nell’elaborazione delle emozioni un ruolo fondamentale è giocato dal livello di arousal, inteso come generale attivazione fisiologica e psicologica che varia lungo un continuum, da una profonda quiete ad uno stato di eccitazione (Gould e Krane, 1992). In ogni tipo di sport, particolarmente in quelli da combattimento, l’arousal deve essere mantenuto ad un livello ottimale (Jokela e Hanin, 1999) per permettere agli atleti di reagire velocemente agli attacchi, così come di bloccare o evitare l’assalto dell’avversario (Devonport, 2006). Negli sport da combattimento viene richiesto un alto livello di intelligenza emotiva per ciò che concerne il continuo controllo e monitoraggio delle proprie emozioni e la valutazione delle emozioni dell’avversario.

Nel contesto sportivo, la relazione con l’altro, prevede l’utilizzo di tecniche adeguate combinate con le emozioni, che possano scaturire in un’anticipazione delle reazioni dello sfidante. Mayer (2008) individua quattro aspetti dell’intelligenza emotiva correlati agli sport da combattimento: la valutazione delle proprie emozioni, cruciale nel regolare il livello di arousal; la comprensione delle emozioni altrui, necessaria per prevedere le reazioni ed azioni dell’avversario; uso delle emozioni per mascherare e fingere le proprie emozioni ed usarle a proprio vantaggio durante il combattimento ed infine, l’autoregolazione delle emozioni, per mantenere un appropriato livello di arousal e controllare la situazione.

 

Gli studi sull’intelligenza emotiva degli atleti di sport di combattimento

Alla luce di quanto sostenuto, sono stati condotti diversi studi per valutare se il livello di intelligenza emotiva fosse più alto negli atleti rispetto ai non atleti. In particolare in uno studio di Szabo e Urban (2014), sono stati confrontati i livelli di intelligenza emotiva in atleti che praticavano boxe e judo, paragonati ai non atleti. I risultati mostrano come gli atleti abbiano maggiori livelli di intelligenza emotiva rispetto ai non atleti, gli autori, collegano quanto rilevato alla pratica di questi sport. Risultati simili sono stati ottenuti anche in uno studio condotto da Costarelli e Stamou (2009) su atleti d’élite di taekwondo e judo, confrontati con i non atleti.

Da studi longitudinali condotti da Lane (2002) e Devonport (2006) si può osservare come i pugili mostrino un incremento nell’intelligenza emotiva correlato agli anni di pratica. Questi risultati sembrano in controtendenza con quella che è l’opinione comune che vede il pugilato come uno sport segnato da un forte stima sociale, perché troppo aggressivo o violento.

Lane et al. (2009) hanno approfondito anche quali fossero le emozioni associate a performance di successo: vigore, felicità e calma; mentre quelle correlate a scarse performance sembrerebbero essere: confusione, depressione e stanchezza. Non solo l’intelligenza emotiva è correlata alle emozioni piacevoli, ma gli atleti che ottengono punteggi più alti nelle scale self-report su questo costrutto, utilizzano frequentemente competenze psicologiche.

Una delle questioni sorte nello studio delle emozioni in questo tipo di sport riguarda proprio il ruolo della rabbia, poiché è opinione comune associare sport da combattimento ad espressione di aggressività, dove la rabbia potrebbe giocare un ruolo incentivante. In realtà questa emozione dovrebbe essere dosata con cura e mantenuta a livelli bassi, perché sia d’aiuto alla performance (Robazza, Bertollo e Bortoli, 2006), altrimenti rischierebbe di provocare un dispendio di energie e quindi diminuire le probabilità di successo. Questi autori sottolineano come la rabbia sia connessa al tipo di sport praticato ed al livello di competitività dell’atleta, suggerendo come sia la capacità di controllare questa emozione e non di sopprimerla, ad avere un ruolo incentivante. Non solo, atleti che praticano sport quali karate, aikido e taekwondo, mostrano un migliore controllo dei comportamenti aggressivi che progredisce con gli anni di pratica (Graczyk et al.,2010).

Il controllo delle proprie emozioni e di altre competenze dell’intelligenza emotiva, non si apprende solo attraverso gli anni di pratica dello sport, ma anche con l’utilizzo di specifiche strategie e mental skills. Da una review condotta su diversi studi, Devonport (2006) individua sette mental skills utilizzate sia nelle arti marziali che nella kick boxing: strategie di ricerca visiva, uso del self-talk, rilassamento, attenzione focalizzata, autoregolazione dell’arousal, goal setting e imagery. Le caratteristiche psicologiche collegate al successo includono l’autoeffiacia e la motivazione. Queste skills sembrano essere presenti in diversi campioni, Muhammad Ali diceva: [blockquote style=”1″]è la ripetizione delle affermazioni che ti porta a crederci, e quella credenza si trasforma poi in una convinzione profonda, e le cose iniziano ad accadere.[/blockquote]

Gli atleti intervistati da Devonport enfatizzavano l’importanza di sviluppare oltre ad uno stile personale di combattimento, una propria preparazione mentale. A questo scopo gli intervistati hanno riferito di utilizzare diverse strategie: una routine pre-competizione con elementi di self-talk, imagery, controllo dell’arousal e del linguaggio corporeo; durante la competizione riportano di prestare attenzione al controllo dell’aggressività, paura ed ansia; mentre, post competizione, la riflessione viene ritenuta una parte fondamentale. Tazegul (2015) ha condotto uno studio circa i livelli di ansia di atleti di diversi sport: boxe, kickboxing e lotta, riscontrando come i lottatori abbiano minori livelli di ansia rispetto agli altri atleti, riconducendo questa abilità a migliori strategie di coping sviluppate proprio negli anni di pratica dello sport.

Secondo Salovey (1999) un prerequisito per un efficace coping delle emozioni negative, elicitate da eventi stressanti, è proprio l’intelligenza emotiva: individui con elevate competenze sembrerebbero in grado di percepire e valutare gli stati emotivi, di conoscere come e quando esprimerli e regolarli.
Come già accennato, dell’intelligenza emotiva non fanno parte solo l’autoconsapevolezza, il controllo e la regolazione delle proprie emozioni, ma anche la motivazione. Quest’ultimo aspetto viene ritenuto cruciale anche dagli atleti, soprattutto collegato al senso di autoefficacia. Un caso particolare osservato in diversi studi (Szabo, 2014; Graczyck, 2010) è quello dei pugili: spesso questi atleti provengono da condizioni socioculturali svantaggiate e trovano proprio in questo sport una motivazione ed attribuzione di autoefficacia, con relativa diminuzione dei comportamenti aggressivi. Troviamo esempio di ciò anche andando ad osservare la vita di pugili più noti, come Rocky Marciano: “la cosa a cui pensavo più spesso era la povertà che mia madre e mio padre avevano affrontato”.

Bandura (1977) individua un collegamento tra realizzazione della performance ed autoefficacia, secondo Lane (2002) ci sarebbero prove a supporto di questa relazione anche nel pugilato, dove è possibile riscontrare una connessione tra autoefficacia e stile di combattimento (attacco o difesa).

Considerando questi sport come fenomeni sociali, possiamo individuare la loro controparte relazionale e quindi le competenze di intelligenza emotiva necessarie ed implicate nella relazione con l’altro, cioè nei match. La capacità di controllare le proprie emozioni può essere utilizzata negli incontri con azioni che sorprendano l’avversario: finte, variazioni della velocità, utilizzo di combinazioni variegate e colpendo parti del corpo diverse (tra quelle ammesse dal regolamento).

[blockquote style=”1″]Il pugilato è uno sport mentale, se immaginate uno scontro per il titolo come una partita a scacchi sarete assai più vicini alla realtà che se lo paragonate ad una rissa in un vicolo.[/blockquote] (Budd Schulberg)

 

Conclusioni

Un limite di questo argomento risiede nel fatto che la letteratura sul tema sia ancora carente, le arti marziali sono conosciute e praticate da anni in tutto il mondo, mentre solo di recente si stanno diffondendo sport da combattimento, si pensi ad esempio alle MMA. Da sottolineare è anche il fatto che questi studi siano viziati da un bias di genere, poiché la stragrande maggioranza degli atleti intervistati sono di sesso maschile.

Emozioni ed intelligenza emotiva occupano un ruolo centrale all’interno degli sport da combattimento e solo recentemente si riconosce l’importanza di una preparazione mentale oltre che fisica. Studi in corso di realizzazione sembrano concentrarsi non solo sulla preparazione mentale dell’atleta, ma anche su quella dei coach, se essi siano in grado e come, di riconoscere e valorizzare le capacità di intelligenza emotiva dei propri allievi. Non si può dimenticare che in questi sport a produrre un’enorme differenza siano la filosofia e i metodi di insegnamento dei maestri.

[blockquote style=”1″]L’attitudine mentale determina l’azione. Nelle Arti Marziali si vince con la mente, molto più che con il corpo, l’abilità o altro.[/blockquote]
Yukio Mishima

Paris-Manhattan e la filmterapia: quando i film aiutano a star meglio

Vedere Paris-Manhattan mi ha fatto pensare alla filmterapia, l’idea di dispensare film per dare una sorta di carica di buonumore mi è piaciuta subito e cercando un po’ sul web ho quindi reperito molte informazioni in merito. 

 

Paris-Manhattan di S. Lellouche

Paris-Manhattan è un film del 2012 diretto da Sophie Lellouche. Una tipica commedia francese leggera e assolutamente breve (non più di 80 minuti di pellicola) che parla di Alice (interpretata da Alice Taglioni) solitaria e sognatrice che ha una sorta di ossessione per i film di Woody Allen e diciamo anche per lui, con il quale è solita interloquire guardando il suo poster in cerca di consigli.

Alice è inoltre anche una giovane farmacista il cui padre le lascia l’attività e che, oltre dispensare medicine tra i vari scaffali, allestisce anche una piccola videoteca per cure alternative prestando dvd ai clienti .

Lo spirito come detto è quello tipico della commedia francese ma con una sequela di citazioni dedicate tutte al grande regista tra cui la più evidente è proprio quella della protagonista Alice che ha come mentore l’immaginario Woody a cui chiede consigli e le suggerisce cosa fare, chiarissimo riferimento al film ‘Provaci ancora, Sam‘, in cui Woody Allen aveva un immaginario Humphrey Bogart come modello di vita e consigliere personale.

 

Filmterapia: l’utilizzo di film per alleviare il disagio emotivo

Vedere questo film è sicuramente un toccasana per gli amanti del grande Allen e per i più romantici sognatori ad occhi aperti appassionati di storie d’amore. Vedere questo film mi ha fatto pensare alla filmterapia, l’idea di dispensare film per dare una sorta di carica di buonumore mi è piaciuta subito e cercando un po’ sul web ho quindi reperito molte informazioni in merito. Ovviamente, qualcuno prima di me e della protagonista del film aveva già pensato all’utilizzo dei film per istruire nonché alleviare tanti stati emotivi che ci pervadono, assalgono e deprimono.

Non parliamo di psicoanalisi o di stati patologici ma di ordinario disagio, di un supporto ad un momentaneo sconforto attraverso le immagini attraverso una storia narrata in un film. Ho scoperto quindi che una quarantina di anni fa Gary Solomon (psicoanalista americano) autore del libro ‘The Motion Picture Prescription: Watch This Movie and Call Me in the Morning: 200 Movies to Help You Heal Life’s Problems’ cominciò a consigliare ai suoi pazienti alcuni film in funzione ovviamente della situazione. Negli stessi anni all’Università Sapienza di Roma fu intrapresa una ricerca in tal merito, portata avanti da Vincenzo Maria Mastronardi e Monica Calderaro, anche’essi autori di un libro simile sull’argomento ‘I Film che aiutano a stare meglio. Filmtherapy‘.  Oggetto di tale ricerca, le ripercussioni emozionali della visione di 1500 film, successivamente portati a 3000 film su pazienti in terapia, alcuni allievi dell’Università e una terza categoria di persone esterne all’Università.

I film scelti furono per la maggior parte noti e classificati per tematica psicologica e, nel libro sopracitato, ad ognuno è stata associata la relativa prescrizione terapeutica, incluse le modalità psicologiche con cui approcciarsi al singolo film da utilizzare come “Strumento di Insight”, introspezione e presa di coscienza per una migliore ridefinizione di nuovi processi esistenziali, problemi di comunicazione di coppia, stress lavorativo, adolescenza e passaggio nell’età adulta, conflitti familiari, ecc.. Una vera e propria “enciclopedia psicofilmica” rivolta a tutti.

I film sono stati quindi utilizzati come “carriers intrapsichici” al fine di veicolare, ove carenti, dei contenuti di rinforzo. Un altro studio in tema di filmterapia, condotto all’università del Michigan ha verificato invece come assistere alla proiezione di un film sia addirittura in grado di far variare i livelli ormonali. Vedere quindi film duri, come ad esempio ‘Il Padrino’ fa aumentare il valore di testosterone mentre vedere film commoventi come ‘I ponti di Madison County‘ fa aumentare il progesterone.

Che dir si voglia, sicuramente vedere un film crea quindi una carica emotiva tale da modificare lo stato psicofisico di chi si cala nella vicenda, nella colonna sonora e nelle riprese. Possono riemergere quindi dall’inconscio elementi sepolti, dimenticati o non perfettamente elaborati, utilizzabili come presa di coscienza e metabolizzazione.

 

Pellicole consigliate per la filmterapia

A conclusione di ciò, si può dire che uno psicologo cinefilo avrà sicuramente un’arma in più da utilizzare per il bene dei propri pazienti. Ho letto diverse prescrizioni film terapeutiche, le tematiche sono tante e i film ancora di più ma volendo riprendere la scia di Paris-Manhattan, concentrandoci quindi solo sul regista Newyorkese, ecco una piccola lista di film assolutamente da vedere per i momenti di ordinaria insoddisfazione generalizzata ai più disparati stati emotivi, in fondo Woody secondo la prescrizione della bella Alice è “da vedere senza moderazione, mattina mezzogiorno e sera” e va benissimo per tutto:

  • Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas) (1971)
  • Provaci ancora, Sam (Play It Again, Sam) (1972)
  • Il dormiglione (Sleeper) (1973)
  • Amore e guerra (Love and Death) (1975)
  • Io e Annie (Annie Hall) (1977)
  • Manhattan (1979)
  • Stardust Memories (1980)
  • Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy) (1982)
  • La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo) (1985)
  • Harry a pezzi (Deconstructing Harry) (1997)
  • Match Point (2005)
  • Vicky Cristina Barcelona (2008)
  • Basta che funzioni (Whatever Works) (2009)
  • Midnight in Paris (2011)
  • Blue Jasmine (2013)
  • Irrational Man (2015)

 

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DEL FILM PARIS-MANHATTAN:

Mamme e papà a confronto. Cosa comporta essere genitori?

Un nuovo studio condotto da una sociologa della Cornell University ha dimostrato che, sebbene i genitori gioiscano del tempo trascorso con i loro figli, l’accudimento di un bambino richiede più sforzo alle madri.

In base a quanto riscontrato dai ricercatori, è molto probabile che ciò dipenda dal fatto che le mamme passano più tempo con i figli occupandosi però contemporaneamente delle faccende più faticose, come ad esempio soddisfare i bisogni infantili di base, cucinare o pulire; al contrario dei papà che trascorrono, invece, il loro tempo con i bambini svolgendo attività più piacevoli e poco stressanti come giocare, svagarsi o oziare.

[blockquote style=”1″]Non bisogna pensare che le mamme siano così stressate a causa dei loro figli, ma piuttosto che rispetto ai padri, sperimentano una maggiore fatica[/blockquote] ha detto Kelly Musick, professoressa associata di Analisi delle Politiche Pubbliche e Management alla Cornell e co-autrice dello studio apparso su American Sociological Review.

[blockquote style=”1″]Le madri fanno cose diverse con i figli rispetto a ciò che fanno i padri, cose che sappiamo non essere così piacevoli. Giocare con i propri figli è un’esperienza particolarmente piacevole per i genitori, e i padri giocano di più rispetto alle madri. [/blockquote] Gran parte del tempo che i padri passano con i bambini, inoltre, è un “momento di famiglia”, ovvero quando anche la madre è presente, in tal modo, gli uomini non hanno la responsabilità esclusiva dei bambini così spesso come le madri.

L’autrice ha suggerito un’analogia con il gioco del calcio usata dalla defunta sociologa Suzanne Bianchi, che ha paragonato le madri ai “difensori liberi” (o semplicemente liberi, in lingua originale: “sweepers”, “spazzini”) che fanno ciò che devono per difendere la porta. [blockquote style=”1″]Giocano quando hanno tempo per giocare, ma si assicurano che tutto il resto sia sotto controllo. La cena pronta, i bambini lavati, il bucato piegato. Giocano con i loro bambini, ma considerando tutte le cose che fanno, è solo una piccola quota del loro tempo .[/blockquote]

I ricercatori hanno utilizzato una nuova fonte di dati e un nuovo approccio per ottenere tali risultati. Analizzando i diari sull’utilizzo del tempo quotidiano provenienti dall’American Time Use Surveys del 2010, 2012 e 2013, i ricercatori hanno esaminato i resoconti di 12.000 genitori per valutare il modo in cui si sentivano e ciò che stavano facendo durante tre periodi casuali nel corso di una giornata di 24 ore. Per ogni periodo, i genitori hanno valutato quanto si sentivano felici, tristi, stressati e stanchi e quanto significativa consideravano l’attività che stavano svolgendo. I ricercatori hanno poi confrontato come i genitori si sentivano durante l’attività svolta con i loro figli con la sensazione che avvertivano nel condurre lo stesso tipo di attività senza però i bambini.

[blockquote style=”1″]Molto del come un genitore si sente sull’essere tale si basa su momenti assolutamente accidentali trascorsi con i figli, come passare del tempo sul divano o andare a fare la spesa. C’è tantissima genitorialità in questi piccoli momenti.[/blockquote]

Musick ritiene che sia probabile che le madri si occupino della parte di accudimento più impegnativa perché le aspettative sono più alte per loro che per i padri. Le differenze tra gli standard di genitorialità previsti dalla società per madri e padri a loro volta rendono difficile alle madri il fatto di chiedere meno a se stesse come genitori. [blockquote style=”1″]Come sociologo, vorrei che noi, come società, potessimo lasciar perdere alcuni degli assunti e dei vincoli che abbiamo posto sui ruoli di madre e di padre. Le coppie potrebbero collaborare nel cercare di cambiare il modo in cui essere genitore, anche se questa non è la reale soluzione. La soluzione è che noi collettivamente ripensiamo e rivediamo ciò che ci si aspetta da un padre e ciò che ci si aspetta da una madre.[/blockquote]

Bello da impazzire: la Sindrome di Stendhal

Di fronte alla bellezza si può impazzire? Pare proprio di sì ed i più gettonati nel provocare gli svenimenti sembrano essere i due Michelangelo, il Buonarroti (1475-1564) ed il Caravaggio (1571-1610). Di fronte ad opere d’arte cariche di significati simbolici, ambivalenti, sensuali e perturbanti, che possono andare a toccare aspetti dell’inconscio inesplorati o rimossi, infatti, possiamo vivere un’esperienza che provoca sofferenza psichica e che è conosciuta con il nome di Sindrome di Stendhal (o Sindrome di Firenze).

 

L’esperienza di Stendhal a Firenze

Il nome di tale sindrome si deve allo scrittore francese Stendhal (1783-1842) che, durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, fu colto da una crisi che lo costrinse ad uscire dalla chiesa per potersi risollevare dalla reazione vertiginosa che quel luogo d’arte scatenò nel suo animo.

Nel suo libro “Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio”, Stendhal scrive: [blockquote style=”1″]Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere… Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e dai sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me era inaridita, camminavo temendo di cadere.[/blockquote]

 

Che cos’è la Sindrome di Stendhal

Stendhal visse un’esperienza di estasi incredibile, sperimentò in prima persona gli effetti di una patologia psicosomatica che insorge al cospetto di opere d’arte particolarmente evocative. Essa si manifesta come una sensazione di malessere diffuso, con stato confusionale, nausea, vomito, difficoltà respiratorie, allucinazioni, sensazione di svenimento e perdita di coscienza.

Colpisce persone esperte o inesperte d’arte che si trovano in una situazione emotiva molto coinvolgente. L’impatto emotivo con un’opera d’arte, infatti, è determinato da molteplici fattori, alcuni dei quali di tipo esterno, culturali, intellettuali, ascrivibili alla nostra formazione estetica ed ideologica ed altri più direttamente collegati ai nostri vissuti individuali, in particolare alle prime esperienze emozionali della nostra infanzia, che costituiscono il modello concettuale primario dell’esperienza estetica.

La fruizione estetica, da un punto di vista psicologico, è caratterizzata soprattutto da meccanismi di identificazione: identificazione con l’artista (il fruitore, cioè, assume il punto di vista dell’artista e vive di riflesso l’emozione della creazione) e/o identificazione con l’opera (o con il personaggio che l’opera rappresenta).

Da un punto di vista psicoanalitico, a partire dallo stesso Freud che, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno “smarrimento cognitivo”, l’opera d’arte è un importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi. Psicoanaliticamente parlando, nel fruitore affetto da Sindrome di Stendhal emerge un attaccamento morboso alla bellezza inestimabile di un’opera d’arte ed un intenso desiderio di appropriarsi di quella grazia indescrivibile.

Chi inizia a soffrire della Sindrome di Stendhal, infatti, non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di un soggetto di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro [blockquote style=”1″]si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.[/blockquote] (Magherini, 2003).

Un concetto, questo del “viaggio sentimentale”, già proposto nel Settecento da Laurence Sterne (1713-1768), che può essere considerato, a pieno titolo, un precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo “sentimental” una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

Il corpo accusa il colpo: mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche

Partendo dall’osservazione clinica dei veterani di guerra presso la Boston Veterans Administration Clinic alla fine degli anni ‘70, l’autore spiega in modo dettagliato i diversi studi e le scoperte che hanno portato alle attuali conoscenze sul trauma e sul suo impatto su corpo, mente e cervello. In particolare, il senso di inutilità, il confronto con la forte vergogna, il numbing, ovvero l’ottundimento emotivo, la perdita di flessibilità mentale, sono solo alcuni dei sintomi riscontrati da Van Der Kolk nei suoi pazienti, sintomi che hanno origine dalla risposta di tutto il corpo al trauma originale.

Alessandra G. Montanari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Il trauma secondo Van der Kolk

[blockquote style=”1″]Non bisogna essere un soldato o visitare un campo di rifugiati in Siria o in Congo per imbattersi nel trauma. Il trauma accade a noi, ai nostri amici, alle nostre famiglie e ai nostri vicini. […] Le esperienze traumatiche lasciano tracce sia su larga scala (nella storia e nella cultura) sia nella quotidianità, all’interno delle nostre famiglie. Lasciano tracce anche nella mente e nelle emozioni, nella nostra capacità di provare gioia e di entrare in intimità e, persino, nella biologia e nel sistema immunitario. Il trauma colpisce non solo chi ne è direttamente interessato, ma anche i suoi cari.[/blockquote]

Apre così Van Der Kolk il suo libro “Il corpo accusa il colpo”, sottolineando la natura complessa e complicata del trauma e le sue interferenze nella vita quotidiana, anche a distanza di molto tempo dall’evento traumatico. Il trauma, infatti, non intaccherebbe soltanto il senso di Sé, ma anche il senso che ognuno di noi dà al proprio vissuto, impedendoci di stare nel presente e di coinvolgerci quindi in relazioni soddisfacenti, perché costantemente sopraffatti da uno stato di paura persistente.

Partendo dall’osservazione clinica dei veterani di guerra presso la Boston Veterans Administration Clinic alla fine degli anni ‘70, l’autore spiega in modo dettagliato i diversi studi e le scoperte che hanno portato alle attuali conoscenze sul trauma e sul suo impatto su corpo, mente e cervello. In particolare, il senso di inutilità, il confronto con la forte vergogna, il numbing, ovvero l’ottundimento emotivo, la perdita di flessibilità mentale, sono solo alcuni dei sintomi riscontrati da Van Der Kolk nei suoi pazienti, sintomi che hanno origine dalla risposta di tutto il corpo al trauma originale. Le persone traumatizzate sono come bloccate all’interno del trauma stesso, si sentono vive solo rivisitando il loro passato traumatico e lo sovrappongono a qualunque cosa accada loro nel presente e preferiscono rimanere bloccate nella paura che già conoscono piuttosto che sperimentare nuove possibilità, rendendo quindi difficile, se non impossibile, poter contemplare un futuro migliore e nuovi obiettivi da raggiungere (deficit dell’immaginazione).

L’osservazione e la pratica clinica portano l’autore ad affermare che[blockquote style=”1″] …il trauma non è solo un evento accaduto una volta nel passato, ma si riferisce anche all’impronta lasciata da quell’esperienza sulla mente, sul cervello e sul corpo. Quest’impronta ha continue conseguenze sul modo in cui l’organismo umano gestisce la sopravvivenza nel presente. […] Cambia non solo il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo, ma anche la nostra effettiva capacità di pensare. Abbiamo scoperto che aiutare le vittime di trauma a trovare le parole per descrivere ciò che è accaduto loro è profondamente significativo ma, spesso, non è sufficiente. L’azione di raccontare la storia non modifica necessariamente le risposte fisiche e automatiche del corpo, che rimane ipervigile e pronto a essere assalito o violentato in qualunque momento. Perché avvenga un reale cambiamento, il corpo ha bisogno di apprendere che il pericolo è passato e di vivere nella realtà presente.[/blockquote]

 

Il contributo delle neuroimaging alla comprensione delle memorie traumatiche

Queste nuove scoperte, insieme all’introduzione dei nuovi strumenti di neuroimaging, agli studi sempre maggiori sul funzionamento di ormoni e neurotrasmettitori e degli effetti della farmacoterapia su di essi, hanno portato ad una nuova prospettiva di conoscenza e studio del trauma.

Van Der Kolk dedica, infatti, un’ampia parte del manuale alla spiegazione degli studi di Brain Imaging e delle relative scoperte rispetto al funzionamento del cervello nelle persone traumatizzate. In particolare, l’autore spiega come in seguito all’esposizione di immagini, suoni o pensieri relativi al trauma passato, l’amigdala, ovvero la struttura cerebrale che gestisce la paura, reagirebbe con l’attivazione di uno stato di allarme anche dopo anni dall’evento, provocando l’attivazione di ormoni dello stress (cortisolo) e di impulsi nervosi che preparano il corpo all’attacco/fuga (aumento pressione sanguigna, battito cardiaco, frequenza respiratoria).

Al tempo stesso si avrebbe una disattivazione dell’emisfero sinistro che pregiudicherebbe la riorganizzazione delle esperienze in sequenze logiche e la traduzione in parole di pensieri ed emozioni (blocco dell’afflusso di sangue nell’area di Broca, ovvero lobo frontale sinistro, e spegnimento di tale area ogni volta che viene sollecitato un flashback).

Come già specificato in precedenza, il trauma influisce non solo sul cervello, ma anche a livello corporeo. Nella seconda parte del libro, Van Der Kolk si concentra su questo punto e su quanto il trauma influisca sulla consapevolezza del sè. In risposta al trauma stesso, i pazienti, infatti, avrebbero imparato a spegnere le aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni legate alla paura, le stesse aree che nella vita di tutti i giorni sarebbero responsabili della registrazione delle emozioni e delle sensazioni che definiscono noi stessi e chi siamo. Per cercare di eliminare le sensazioni dolorose e di paura, i pazienti annullerebbero quindi la capacità di sentirsi pienamente vivi. Van Der Kolk afferma che [blockquote style=”1″]la mente ha bisogno di essere rieducata a sentire le sensazioni fisiche e il corpo ha bisogno di essere aiutato a tollerare e a godere del benessere del contatto.[/blockquote]

A tale proposito è fondamentale rieducare le persone traumatizzate ad avere consapevolezza dei vissuti sensoriali provenienti dall’interno del corpo. Van Der Kolk insiste nell’aiutare i pazienti a familiarizzare con le sensazioni corporee e fisiche sottostanti alle emozioni.

 

L’influenza degli abusi sessuali nella vita adulta

La parte terza del libro è interamente dedicata agli abusi infantili e all’impatto che essi hanno sulla vita adulta delle persone traumatizzate. L’autore aveva osservato come alcune persone traumatizzate non ricordassero i loro traumi o comunque non fossero tormentati dal trauma stesso, ma si comportassero come se fossero costantemente in pericolo, mostrando difficoltà di concentrazione, irascibilità e odio verso se stessi e gli altri, difficoltà nel coinvolgersi in relazioni intime. Soffrivano inoltre di molti problemi di salute, mostravano comportamenti autolesivi e avevano dei “buchi” mnesici. Tutto questo li differenziava dai veterani di guerra e dalle vittime di incidenti per i quali era stata creata la diagnosi di PTSD (Post Traumatic Stress Disorder, introdotta nel 1980 nel DSM-III). Diversi studi ed evidenze hanno dimostrato come le conseguenze dell’abuso e della trascuratezza da parte della figura primaria di attaccamento siano estremamente complesse e abbiano un impatto devastante sulla persona, tanto da poter parlare di PTSD complesso.

In diverse parti del manuale, Van Der Kolk riprende l’importanza della diagnosi, perché solo attraverso una diagnosi accurata si può procedere all’utilizzo di trattamenti efficaci e, al tempo stesso, non si può creare un trattamento per una condizione medica inesistente. A tal proposito, l’autore muove una critica nei confronti della mancata inclusione del PTSD complesso all’interno del DSM-IV. Non disporre di una diagnosi di questo tipo, infatti, fa sì che le persone che affrontano ogni giorno le conseguenze di un abuso o di un abbandono, vengano inquadrate in una determinata diagnosi (ad esempio Depressione, Attacchi di Panico, Personalità borderline) che non descrive esattamente la loro reale condizione.

 

I percorsi di cura delle vittime di traumi

Il manuale si conclude con un’ampia parte sui percorsi di cura. Non esisterebbe un trattamento specifico per il trauma, perché come spiega Van Der Kolk [blockquote style=”1″]…nessuno di noi può essere in grado di trattare una guerra, un abuso, uno stupro, una molestia, o qualunque altro evento di simile portata. Ciò che è successo non può essere cancellato. Quello che si può fare, invece, è occuparsi delle tracce del trauma nel corpo, nella mente e nell’anima.[/blockquote]

Ciò che viene curato non è quindi il trauma ma l’individuo che lo ha subito e la sua specifica risposta ad esso, riabituando la persona a sentirsi padrona di se stessa, del suo corpo e della sua mente (self-leadership).

L’autore presenta ottimi spunti di trattamento che uniscono un lavoro sul cervello, inteso ad esempio come riduzione dell’iperarousal, ad un lavoro sull’autoconsapevolezza corporea, focalizzandosi sulle sensazioni interne, ad esempio attraverso la mindfulness. Accanto a questi aspetti, è fondamentale ristabilire delle buone relazioni di aiuto, che facciano sentire la persona traumatizzata al sicuro.

Oltre alle diverse tecniche e agli approcci, ciò che non può mancare è la capacità di costruire una relazione terapeutica in cui il terapeuta sia sintonizzato sui vissuti delle persone traumatizzate, sulle loro emozioni e i loro pensieri, monitorando al tempo stesso i propri, in modo da stabilire un ambiente di fiducia e sicurezza.

 

Conclusioni

Oltre ad essere una piacevole e ottima lettura per tutti, questo manuale rappresenta una buona integrazione di tutte le attuali conoscenze sul trauma, approfondite da osservazioni cliniche e da letture critiche dell’autore.
Per i terapeuti rappresenta una buona fonte di supporto per la comprensione delle manifestazioni cliniche delle persone traumatizzate e offre validi spunti di intervento.

Bisessualità – FluIDsex

Bisessualità del partner e insicurezza

Sono Emanuele, e sono fidanzato con ragazzo bisessuale (Cristian), io sono omosessuale e non riesco proprio a capire. Lo amo immensamente e temo di non bastargli. Non mi sento completo, sicuramente in me non può trovare tutto ciò che vuole dalla vita. Come può trovare attraente e pensare di amare anche una ragazza? Io continuo a non capire. Sono dispiaciuto, ma vorrei cambiasse. Lo amo, ma così penso di non poter sopportare questi pensieri a lungo. Il pensiero che lui desideri anche fare sesso con una donna, toccarla e penetrarla come con me non potrà mai fare. Questa relazione mi fa essere così insicuro del mio corpo.

 

Buongiorno,

il fatto che una persona si identifichi come bisessuale non significa necessariamente che nello stesso momento essa voglia intraprendere relazioni sia con una donna che con un uomo.

Il genere è solo uno dei punti di vista attraverso i quali si è attratti e si sceglie di condividere qualcosa con un partner. Non credo che a lei, ad esempio, basti che una persona sia di genere maschile per esserne attratto. E la sua omosessualità non comporta di certo che, in questo momento, nel suo partner non trovi tutto ciò che desidera nella sua vita affettivo-sessuale, e che per completezza avrebbe bisogno anche di altri uomini, con caratteristiche differenti.

Ed anche per quanto riguarda il discorso legato ad una sessualità diversa che Cristian potrebbe desiderare con una donna, ritengo che possa tornare ad adattarsi al discorso fatto poco sopra: anche lei potrebbe trovarsi limitato, con un suo partner, nel fare cose che, con altri uomini, potrebbe fare; Tutto ciò per differenze anatomiche che ognuno di noi riporta, anche all’interno dello stesso genere, e soprattutto, per differenze di pensiero e fantasia. Entro una sessualità completa, fatta di fantasie e scoperta dell’altro, converrà con me che ognuno di noi potrebbe esprimere una sessualità differente, a prescindere, anche questa volta, dal sesso biologico.

In seguito a queste osservazioni, caro Emanuele, vorrei soffermarmi sulla conclusione della sua domanda: “questa relazione mi rende così insicuro del mio corpo”. E se provassimo a leggere questa sua frase senza attribuire questa insicurezza alla sua relazione con Cristian? “sono così insicuro”. Cambiando prospettiva potrebbe iniziare a riflettere su se stesso. Ad esempio, dice che vorrebbe che il suo ragazzo cambiasse, e lei? Non hai mai pensato di voler cambiare qualcosa di sé? Ha mai pensato di non sentirsi “sicuro del (suo) corpo”, a prescindere dalla sua relazione con qualcuno?

Greta Riboli

 


 

Bisessualità non fa sempre rima con ambiguità

Sono bisessuale, ho un ragazzo ed è molto geloso e sapendo della mia sessualità, da lui definita ambigua, è infastidito da qualsiasi rapporto, anche in amicizia, che instauro con ragazzi e ragazze. Mi ritrovo costantemente a subire le sue scenate di insicurezza, così per evitare discussioni ho iniziato a rinchiudermi un po’ e a parte le amicizie di infanzia, non conosco più persone nuove.

 

Avere e mantenere una relazione monogama stabile non è mai un compito facile, soprattutto quando la propria identità sessuale è circondata da una pesante doppia stigmatizzazione proveniente sia da ambienti eterosessuali, sia da ambienti che (almeno in teoria) dovrebbero essere fonte di supporto e integrazione, come quelli LGBTQ.

Capisco la sua frustrazione. Purtroppo, proprio perché la sua identità si situa al di fuori della concezione binaria della sessualità (etero/omo), molto spesso la monogamia non le verrà attribuita di default, come invece accade (più o meno) alle persone eterosessuali o omosessuali; capita, quindi, che le persone bisessuali vengano pregiudizievolmente identificate come “sessualmente ingorde”.

Certamente esistono persone bisessuali apertamente non-monogame (che non è sinonimo di promiscuo o “ambiguo”), è questo il suo caso? Probabilmente no, ma è sicur* che questo sia chiaro anche al suo partner? Avete mai parlato del vostro stile relazionale? Siete entramb* monogam* seriali (ovvero la tendenza ad avere una relazione monogama dopo l’altra)? Molto spesso è meglio non dare nulla per scontato e cercare di parlare con chiarezza e serenità anche di quegli aspetti che generalmente tendiamo a non esplicitare.

Provando ad eliminare le possibili ambiguità percepite dal suo partner, magari riuscirete anche a smussare le sue insicurezze.

(Infine, se nulla dovesse cambiare, provi a riflettere: quanto e cosa le costa “rinchiudersi” per quel “quieto vivere” che lei cerca di mantenere evitando di aprirsi a nuove conoscenze?)

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gli effetti del volo spaziale sulla connettività neuronale e sul comportamento

Secondo i risultati di una recente ricerca pubblicata su NeuroImage, trascorrere un lungo periodo nello spazio produrrebbe cambiamenti significativi nella connettività funzionale delle aree motorie, somatosensoriali e vestibolari del cervello degli astronauti.

 

Gli effetti del volo spaziale sul cervello degli astronauti

Questi networks sono coinvolti nell’orientamento e nella cognizione spaziale, nel controllo sensomotorio e somatosensoriale, nella pianificazione, coordinazione ed esecuzione di movimenti volontari. Tali cambiamenti, sarebbero associati a performance alterate nella memoria di lavoro e nel funzionamento cognitivo e sensomotorio. Tali risultati suggerirebbero che i meccanismi di neuroplasticità potrebbero facilitare l’adattamento all’ambiente in microgravità.

Nel dettaglio, i cambiamenti sensomotori dovuti alla permanenza nello spazio (i.e., difficoltà nella locomozione e nella stabilità posturale al rientro sulla terra) sembrerebbero dovuti ad una reinterpretazione da parte del cervello dei segnali vestibolari. Tuttavia, sebbene gli effetti della microgravità siano ben documentati, i meccanismi neurali che li sottendono sono relativamente sconosciuti.

 

Lo studio

In questo esperimento, quindi, per simulare la microgravità gli sperimentatori per 70 giorni hanno mantenuto i partecipanti dello studio (n = 17, gruppo di controllo n = 14) a letto in posizione di riposo, inclinati, con i piedi leggermente più in alto rispetto alla testa – posizione definita head-down tilt (HDT), che crea un angolo di circa 6° rispetto all’asse testa-piedi – producendo così una riduzione degli input sensoriali ai piedi, al corpo (direzione assiale) e una maggiore irrorazione sanguigna a livello cerebrale, effetti pressoché identici a quelli prodotti dalla microgravità sugli astronauti. La tecnica di neuroimaging impiegata è stata la risonanza magnetica funzionale in stato di riposo (RS-fMRI). Invece, i dati relativi al comportamento dei partecipanti sono stati rilevati in 7 diversi momenti: 12 e 8 giorni prima dell’esperimento, al giorno 7°, 50°, 70° e 8 e 12 giorni dopo il termine dell’esperimento.

 

I risultati

I dati ottenuti tramite la RS-fMRI mostravano un incremento nella connettività della corteccia motoria e somatosensoriale durante la registrazione in posizione inclinata (HDT) e riduzioni nella connettività delle stesse aree nel periodo immediatamente successivo. Al contrario, nelle aree temporoparietali si registrava una riduzione della connettività. I partecipanti che evidenziavano i maggiori incrementi nella connettività erano gli stessi che soffrivano maggiormente degli effetti negativi dell’esperimento – e quindi della microgravità – sull’equilibrio e la postura.

Secondo gli sperimentatori la maggiore connettività tra le cortecce motorie e somatosensoriali potrebbe riflettere una risposta adattiva del cervello alle modificazioni dell’ambiente; infatti, solitamente alla ripetizione di atti motori complessi segue una riorganizzazione funzionale della corteccia ad essi associata.

I precedenti studi riguardo la relazione tra HDT e connettività cerebrale, si sono limitati a considerare solo due momenti di rilevazione, il pre-HDT e il post-HDT, tralasciando la dinamica temporale dei cambiamenti nella connettività cerebrale. Anche per questo motivo i risultati del presente studio si caratterizzano come pionieristici nel sottolineare i meccanismi neurali coinvolti nei cambiamenti delle performance sensomotorie degli astronauti.

Studi sull’effetto placebo: riflessioni dal mondo dell’ipnosi

L’inganno non è un ingrediente necessario per sortire l’effetto placebo: sebbene l’idea che l’inganno non sia necessario per l’effetto placebo non sia nuova, Kaptchuk e colleghi (2011) ne forniscono la prima dimostrazione empirica.

Un gruppo di 80 pazienti affetti dalla sindrome dell’intestino irritabile sono stati suddivisi in due sottogruppi. Entrambi i gruppi sapevano di partecipare ad uno studio sull’effetto placebo. Sapevano inoltre che un gruppo avrebbe costituito il controllo, cioè il gruppo che non avrebbe ricevuto alcun trattamento. All’altro gruppo sarebbe stato somministrata una pillola di zucchero, senza alcuna proprietà terapeutica (gruppo placebo senza inganno). Tuttavia veniva messa in luce che la letteratura scientifica aveva dimostrato l’efficacia del placebo non solo nel miglioramento soggettivo dei sintomi, ma anche rispetto ad alcuni parametri fisiologici.

Sorprendentemente, il gruppo che aveva assunto la pillola di zucchero, pur sapendo che si trattava solo di zucchero, riportò un miglioramento dei sintomi e della qualità della vita.

Sebbene l’idea che l’inganno non sia necessario per l’effetto placebo non sia nuova, Kaptchuk e colleghi (2011) ne forniscono la prima dimostrazione empirica.

Secondo la definizione classica di effetto placebo, infatti, l’aspettativa di miglioramento del paziente e del medico quando si assume una sostanza creduta un farmaco, crea il miglioramento stesso.

Per chi, come me, si occupa da anni di ipnosi, la parte più interessante della ricerca è l’analisi qualitativa in cui si discute l’importanza della creazione di un contesto terapeutico e l’instaurarsi di una buona relazione terapeutica e la disseminazione di informazioni sull’efficacia scientifica delle varie forme di placebo. Questi sono elementi consapevolmente sfruttati da chi lavora con l’ipnosi Ericksoniana e che potrebbero essere efficacemente utilizzati nella comunicazione medica al fine di supportare l’efficacia dei trattamenti medici.

Metacognizione nei Disturbi di Personalità: il contributo della Terapia Metacognitiva Interpersonale

Il concetto di “metacognizione” ha conosciuto diverse definizioni a seconda dell’ambito di studio all’interno del quale è stato elaborato. Nell’accezione originaria, metacognizione significava “cognizione della cognizione” (Ganucci, Cancellieri et al., 2013). Per indicare questo nuovo campo di interesse sono stati utilizzati, spesso come sinonimi, i termini “metamemoria” e “metacognizione“. Infatti, le prime ricerche sulla metacognizione furono compiute su bambini di età prescolare, con l’obiettivo di esaminare la capacità di valutare le proprie abilità mnemoniche (Flavell et al., 1970).

Anderlini Matteo, Venturelli Valentina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Metacognizione: definizioni

La prima definizione generale di metacognizione venne elaborata da Flavell, che la intese come ogni conoscenza e attività cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di qualsiasi impresa cognitiva (Flavell, 1976, 1981; Flavell et al., 1993).

Nella prospettiva della Terapia Metacognitiva Interpersonale -TMI- (Semerari et al., 2003; Semerari et al., 2008; Carcione et al., 2010; Dimaggio e Lisaker, 2010; Dimaggio et al., 2013), la metacognizione può essere definita come un insieme di abilità che consentono all’individuo di:
– identificare e attribuire stati mentali a sè e agli altri, sulla base delle espressioni facciali, degli stati somatici, dei comportamenti e delle azioni;
– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri e altrui;
– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sui propri ed altrui stati mentali per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e, infine, padroneggiare la sofferenza soggettiva.

In linea con i lavori di Carcione et al. (1997), è opportuno sottolineare la distinzione tra contenuti metacognitivi e funzioni metacognitive. Per contenuti metacognitivi intendiamo le idee e le convinzioni con cui vengono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali. Per funzioni metacognitive intendiamo quell’insieme di abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali, di operare su di essi per la risoluzione di compiti e per padroneggiarli (Carcione e Falcone, 1999).

Questo modo di intendere la metacognizione coincide in gran parte con le funzioni analizzate da diversi autori: per esempio negli studi sulla Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985; Premack e Woodroof, 1978), sulla Cognizione Sociale (Brüne et al. 2007), sull’Alessitimia, ossia la mancanza di consapevolezza emozionale (Taylor, Bagby e Parker, 1997; Vanheule, Verhaege e Desmet, 2011) e sulla Mentalizzazione (Allen, Fonagy e Bateman, 2008; Fonagy, Gergely, Jurist et al., 2002).

Nonostante sia presente una parziale sovrapposizione, esistono diversi aspetti che permettono di distinguere la metacognizione da questi costrutti (Dimaggio et al., 2013; Semerari et al., 2012).
Ad oggi, molti autori sono concordi nel definire la metacognizione come un sistema complesso composto da diversi sottosistemi in interazione tra loro (Semerari et al., 2003). Studi che giungono dal campo delle neuroscienze sembrano portare evidenze a favore di questa concezione, mettendo in luce aspetti specifici della metacognizione -autoriflessività e comprensione degli stati mentali altrui- relativamente indipendenti l’uno dall’altro, ma tra loro collegati in network funzionali (Ganucci Cancellieri et al., 2013; Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006).
La definizione di metacognizione include un insieme eterogeneo di funzioni e di abilità: ciò risulta utile sia per un fine prettamente diagnostico, sia per la pianificazione del trattamento, che può essere modulato ed orientato a quelle dimensioni che risultano effettivamente compromesse nel paziente.

Le componenti della metacognizione

Dimaggio e colleghi (2013) passano in rassegna queste diverse abilità:

1. Requisiti basici
Sono abilità basilari e trasversali alle diverse capacità metacognitive superiori. Tali requisiti permettono agli individui di essere consapevoli di possedere stati mentali propri ed indipendenti, che nascono all’interno della propria mente. Tali prerequisiti includono, quindi, la capacità di distinguere la nostra mente da quella degli altri, i quali possiedono stati mentali autonomi e il cui comportamento è portato avanti da intenzioni e motivazioni proprie. Comprendono, inoltre, la capacità di considerarsi come attori attivi, orientati alla risoluzione dei problemi e al padroneggiamento della sofferenza emotiva.
Tali requisiti di base risultano carenti in diverse patologie come la schizofrenia (Lysaker et al., 2013).

2. Autoriflessività
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Si riferisce alla capacità di identificare e definire le componenti di uno stato mentale in termini di pensieri, desideri, emozioni (Identificazione) e di comprenderne i nessi causali (Relazione tra Variabili). Possiamo distinguere tra un’identificazione cognitiva (pensieri e desideri) e un’identificazione emotiva (emozioni). La prima si riferisce alla capacità di identificare e attribuire cognizioni e intenzioni: “Io credo che…”, “Ho il desiderio di…”; la seconda fa riferimento alle emozioni: “Mi sento allegro…”, “Provo rabbia…”.
Inoltre, fa riferimento al riconoscimento e al monitoraggio delle proprie funzioni cognitive superiori, come la memoria, l’attenzione e l’apprendimento: “Mi rendo conto che non sono preparato bene per l’esame …Sotto pressione ho difficoltà di concentrazione…”.
Dopo aver identificato un’emozione o un pensiero, la componente Relazione tra Variabili, permette di ragionarvi, compiere inferenze su cosa mette in relazione il comportamento con intenzioni, cognizioni ed emozioni, sul modo in cui le scelte sono guidate da presupposti psicologici e su come gli stati mentali siano influenzati dagli stimoli sociali.
b) Differenziazione, ovvero la capacità di riconoscere la natura rappresentazionale del pensiero, distinguendo tra realtà interna ed esterna, cogliendo la differenza esistente tra diversi tipi di rappresentazioni (sogni, fantasie, credenze e ipotesi), tra rappresentazione e realtà. Inoltre, questa dimensione permette di cogliere la natura ipotetica e soggettiva del proprio pensiero, assumendo una prospettiva dalla quale vedere le proprie idee come ipotesi e non come certezze (Fonagy e Target, 1996; Rachman e Shafran, 1999).
Il concetto di differenziazione, cioè la capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni, è simile ad altri costrutti della terapia cognitiva, quali la defusion (Hayes, Strosahl, Wilson, 2013) e l’insight cognitivo (Beck, Baruch, Balter et al. 2004).
c) Integrazione. Si riferisce alla capacità di mantenere una visione unitaria del sé indipendentemente dal fluire e dall’alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi (anche contraddittori) e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti. Integrare significa descriversi in modo completo e coerente all’interno di una narrazione che tenga conto di come tali stati mentali possono evolvere e modificarsi nel tempo.
Significa quindi essere consapevoli di come ci siamo evoluti, descrivere chi siamo oggi rispetto al passato, per esempio, come siamo cambiati durante la terapia o dopo eventi di vita dal profondo significato personale.

3. Comprensione della mente altrui
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Comprende le sottocomponenti dell’Identificazione e della Relazione tra Variabili relativamente alla comprensione della mente altrui. Corrisponde alla capacità di attribuire agli altri intenzioni, motivazioni, desideri ed emozioni (identificazione cognitiva ed emotiva) -“È deciso a …”, “Ha un viso triste…”- e all’abilità di inferire alcuni contenuti mentali dell’altro dal suo comportamento verbale e non verbale. Una volta identificati gli stati mentali altrui, l’individuo può, quindi, ipotizzare nessi causali che spieghino quali processi cognitivo-affettivi portino gli altri ad agire.

b) Decentramento. Corrisponde alla capacità di descrivere il funzionamento mentale dell’altro formulando ipotesi indipendenti dalla propria prospettiva mentale e dal proprio coinvolgimento nella relazione. Significa, quindi, adottare la prospettiva dell’altro mettendosi nei suoi panni. Ad esempio, il paziente che adotta una prospettiva egocentrica, incapace cioè di differenziare il proprio punto di vista da quello altrui, attribuisce costantemente agli altri meccanismi propri del suo stesso funzionamento mentale e delle sue prospettive: esamina cioè i dati dal suo punto di vista scartando ogni possibile alternativa (Dimaggio e Semerari, 2003).

4. Mastery
Consiste nell’utilizzare intenzionalmente le conoscenze psicologiche per prendere decisioni, formulare strategie per fronteggiare la sofferenza soggettiva, risolvere conflitti interpersonali, realizzare i propri desideri, aiutare gli altri e cooperare.
La Mastery è riconducibile a strategie che si differenziano tra loro per livelli crescenti di complessità ed efficacia:

a) Strategie di primo livello. Implicano una modificazione dello stato mentale intervenendo direttamente sull’organismo, facendo ricorso all’ evitamento o al supporto interpersonale.
b) Strategie di secondo livello. Comprendono l’autoinibizione di una condotta o la distrazione volontaria.
c) Strategie di terzo livello. Comprendono la critica razionale a credenze disfunzionali, l’uso delle conoscenze sugli stati mentali altrui per risolvere problemi interpersonali e l’accettazione matura dei limiti personali.

Le strategie di mastery di primo livello sono le più semplici da un punto di vista metacognitivo in quanto richiedono, per lo più, la messa in atto di comportamenti senza rilevante impegno riflessivo. Fanno parte delle strategie di primo livello:

– L’azione diretta sul corpo. La persona cerca di agire direttamente sullo stato problematico modificando lo stato generale dell’organismo attraverso l’assunzione di farmaci, alcol, droga o facendo attività fisica. Un problema che può sorgere è l’uso sregolato di farmaci e sostanze, la sessualità compulsiva per placare l’ansia, o diete e iperattività fisica per calmare la tensione o regolare l’autostima.

– L’evitamento. La persona previene le condizioni di insorgenza dello stato problematico evitando attivamente e consapevolmente la situazione temuta.
– La ricerca di coordinamento interpersonale. La persona si rivolge agli altri per ottenere aiuto e supporto. I problemi, in questo caso, includono la difficoltà a chiedere aiuto agli altri, l’incapacità di capire che gli altri sarebbero disponibili ad aiutarci se lo chiedessimo o la tendenza a non fidarsi di se stessi e chiedere aiuto all’esterno alla minima difficoltà senza avere valutato attentamente se l’altra persona è disposta o in grado di darlo.

Perché queste strategie di primo livello siano considerate metacognitive è essenziale che il soggetto abbia deciso deliberatamente e volontariamente di utilizzarle per gestire lo stato mentale problematico.
Facciamo l’esempio di un ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata. Egli utilizzerà strategie di primo livello se, per far fronte al dispiacere e alla delusione, si prenderà una sbornia, eviterà i luoghi in cui può incontrarla o chiederà al primo amico disponibile di fare una passeggiata insieme per parlare. Per utilizzare queste strategie non è necessario essere particolarmente riflessivi, ma è sufficiente essere consapevoli, anche facendo riferimento all’esperienza passata, che un certo comportamento è in grado di modificarli positivamente, anche solo temporaneamente.

Le strategie di mastery di secondo livello richiedono un maggiore impegno riflessivo e sono finalizzate a ottenere una regolazione autonoma dell’assetto mentale.
Fanno parte delle strategie di secondo livello:

– Imporsi o inibire volontariamente un comportamento. Pazienti con Disturbo di Personalità (DP) fanno fatica a imporsi di concentrarsi, a compiere azioni funzionali o ad astenersi da azioni che riconoscono come dannose. Il paziente in stato di stress può non ricordare che l’attività fisica lo aiuta a ridurlo, e quindi resta chiuso in casa a rimuginare improduttivamente.

– Modificare attivamente l’attenzione e la concentrazione sul problema intrapsichico o interpersonale. Il paziente che rimugina sull’idea di essere abbandonato non riesce, ad esempio, a spostare attivamente l’attenzione dal pensiero disturbante, e non riesce a tenere in considerazione che se lo facesse la portata emotiva del problema si ridurrebbe.

Le strategie di secondo livello non contemplano una conoscenza mentalistica sofisticata dell’altro, si limitano a usare una teoria generale del funzionamento della mente altrui, a volte stereotipata, ma dotata di un certo grado di efficacia. Manca un’analisi attenta e individualizzata di cosa le persone con cui si interagisce sentono e provano. Per poter utilizzare queste strategie il soggetto ha bisogno di identificare i suoi pensieri e le sue emozioni e di avere un’idea chiara dei contenuti dai quali vuole distrarsi, deve, inoltre, essere capace di autoesortarsi o autoimporsi dei comportamenti.
Tornando al ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata, mancando di una strategia di secondo livello, il paziente potrebbe dire: “Sono stato tentato più volte di telefonarle e alla fine l’ho fatto. Mi ha attaccato, era rabbiosa e ostile”. Se il paziente si fosse ricordato che in momenti di nervosismo la ragazza non aveva mai dato segni di comprensione, si sarebbe astenuto dal telefonare e quindi non avrebbe sperimentato delusione e rifiuto.

Le strategie di mastery di terzo livello richiedono un elevato impegno e comprendono:

– L’uso di una conoscenza approfondita e critica del proprio stato mentale problematico e del proprio funzionamento ordinario nella gestione della sofferenza psichica e nella soluzione dei problemi. Il paziente con disfunzioni in quest’area non riesce a pensare: “Sono un tipo irritabile e perdo le staffe facilmente quando sono deluso e ferito. Meglio che non la chiami, non sarei in grado di accettare le sue spiegazioni”. Ancor più, il paziente con DP non riesce a dire: “Sento che non mi ama abbastanza e mi trascura, ma il problema è che sono io a essere troppo esigente e non mi accontento mai di quello che gli altri mi danno”.

– L’uso di un’adeguata conoscenza della mente altrui nella soluzione di problemi interpersonali. Il paziente che sta fronteggiando la litigata con la partner non riesce a pensare: “Lei quando si sente ingiustamente attaccata, reagisce in modo impulsivo con insofferenza e rabbiosità. Devo aspettare che le passi per poterle parlare con calma e spiegare quello che è successo”. Al contrario, il paziente tenderà a fronteggiare la rabbia della partner tentando, inutilmente, di spiegare le sue ragioni, pensando di calmarla o sottomettendosi per evitare l’abbandono, dimenticando che nessuna di queste strategie ha mai funzionato con questa persona.

– L’accettazione matura dei propri limiti nel poter influenzare il cambiamento proprio e altrui e influire sugli eventi. Elaborando l’esempio della partner gelosa, il paziente potrebbe avere sollievo se pensasse: “Ho un grosso problema di insicurezza, la mia gelosia nasce da questo e non riesco proprio a controllarla. Purtroppo, per quanto lei si comporti in maniera esemplare e cerchi di farmi capire quanto mi ami, non posso pensare che si chiuda in casa! Però, se le lascio i suoi spazi e non le impedisco di uscire, la mia gelosia non la allontanerà. Se poi riesco a non insospettirmi per ogni cosa, lei non si sentirà controllata e attaccata, sarà più predisposta a comprendere e non si arrabbierà a sua volta”.
Oppure, un altro esempio può riguardare la difficoltà di un paziente di accettare i limiti altrui, capendo che, se l’altro è timido, non è utile criticarlo per non essere un brillante oratore o un animale sociale, ma lo si può stimare per tante altre qualità.

– La capacità di formulare previsioni sull’effetto che le nostre azioni avranno su di noi e sugli altri. Una buona mastery di terzo livello può essere così esemplificata: “Se le telefonassi ora, penserebbe sicuramente che sono in torto e che ho qualcosa da farmi perdonare e assumerebbe un atteggiamento ancora più difensivo. A quel punto io mi innervosirei e la discussione degenererebbe”. Invece, una scarsa mastery mentalistica lascia il paziente preda dell’azione impulsiva: “Mi ha riposto scherzando quando le ho chiesto di dirmi se mi amava. Non le parlo per tre giorni, così impara”. Il paziente da un lato non usa la differenziazione (ovvero non discute l’ipoteticità della propria assunzione), dall’altro dimentica che il proprio comportamento di chiusura avrà un impatto negativo.

Il dominio della mastery è particolarmente importante, carenze in questo ambito sono quelle che di solito creano più problemi ai pazienti con DP, i quali non riescono ad usare la conoscenza mentalistica in modo pragmatico e con finalità di coping e problem solving. La mastery risulta, infatti, compromessa in vario grado in tutti i DP (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

La metacognizione nei pazienti con disturbi di personalità

Le ricerche sulla metacognizione, realizzate utilizzando strumenti specifici come la Scala di Valutazione della Metacognizione (SVaM; Carcione, Dimaggio, Conti et al., 2010; Semerari, Carcione, Dimaggio et al. 2003) e l’Intervista per la Valutazione della Metacognizione (IVaM; Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012), hanno tentato di verificare quattro ipotesi principali:

l) che la metacognizione abbia la struttura ipotizzata e sopra descritta;
2) che pazienti con DP più grave presentino un funzionamento metacognitivo più compromesso;
3) che diversi DP abbiano differenti profili di disfunzione metacognitiva;
4) che la metacognizione migliori nel corso del trattamento e ne predica 1 outcome.

1) In uno studio su un campione non clinico condotto usando la SVaM è emerso che la metacognizione sembra essere composta da due soli fattori distinti: la comprensione dei propri stati mentali e la capacità di comprendere gli stati mentali degli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012). Altre analisi preliminari su campioni clinici sembrano invece confermare una struttura a quattro fattori: monitoraggio, differenziazione, integrazione e comprensione degli altri/decentramento (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Nel campione non clinico, inoltre, è emerso che la capacità di differenziare, ovvero di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni, è correlata più alla comprensione della mente dell’altro che della propria (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012; Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Probabilmente questo è dovuto al fatto che, per mettere in discussione le nostre idee, dobbiamo assumere una prospettiva distaccata, mettendoci nei panni degli altri. Assumere distanza critica sembra quindi essere, in un certo grado, un inizio di assunzione del punto di vista dell’altro.

Nel complesso l’idea che emerge da queste prime ricerche è coerente con gli studi di neuroimaging (Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006) che mostrano come riflettere su di sé o sugli altri coinvolga aree cerebrali specifiche e parzialmente indipendenti pur afferendo allo stesso network.
L’implicazione principale è che sia utile concentrare l’azione clinica sul dominio metacognitivo che appare complesso e tentare di promuoverlo, senza però aspettarsi che il successo si estenda ad altri domini metacognitivi. In altre parole, gli apprendimenti dominio-specifici non verranno generalizzati automaticamente: prendendo l’esempio di una persona che ha difficoltà a descrivere sia gli stati interni (monitoraggio), che a differenziarli, il lavoro sul monitoraggio non apporterà miglioramenti alla differenziazione, ma sarà necessario dedicare un lavoro specifico anche a questo altro dominio.
In altre ricerche, gli studi sulla struttura della metacognizione, mostrano come la mastery abbia a sua volta un certo grado di indipendenza (Lysaker, Erickson, Ringer et al., 2011), supportando l’idea che la comprensione mentalistica non si traduca automaticamente in un coping funzionale, sul quale è necessario lavorare in modo specifico.

2) Riferendoci alla seconda ipotesi (tanto più grave è la patologia di personalità complessiva, tanto più compromessa è la metacognizione), essa sembra essere confermata. Pazienti che soddisfano un numero maggiore di criteri per i vari DP, ovvero che hanno maggiori tratti disfunzionali di personalità, presentano un funzionamento metacognitivo peggiore (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014).

3) All’inizio degli studi sulla metacognizione (Semerari, 1999) si ipotizzava che ogni DP avesse uno specifico profilo di disfunzioni metacognitive. Ad oggi, la ricerca mostra che le differenze metacognitive tra i singoli disturbi non appaiono così nette. Tutti i DP, a diversi livelli, hanno difficoltà nel distanziarsi in modo critico dalle proprie convinzioni, nell’assumere un punto di vista decentrato rispetto agli altri e nell’usare la conoscenza psicologica per padroneggiare i problemi interpersonali e la sofferenza soggettiva (Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009; Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

Se allarghiamo il campo alle ricerche realizzate per studiare costrutti affini alla metacognizione (alessitimia e mentalizzazione), emergono alcune associazioni tra specifici DP e precisi profili metacognitivi. Ad esempio, è emerso che i pazienti con disturbo evitante di personalità hanno difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni, integrarle nella propria rappresentazine di sé e padroneggiale (Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Honkalampi, Hintikka, Antikainen et al., 2001; Nicolò, Semerari, Lysaker et al, 2011; Gullestad, Johansen, Høglend et al, 2013).

Tali difficoltà sono intrinseche al funzionamento dell’evitante e non sembrano dipendere da uno stato depressivo, al contrario di ciò che accade nel disturbo dipendente, nel quale, in momenti di depressione è possibile che l’appiattimento e l’abbattimento riducano la capacità di esplorare con successo il mondo delle emozioni (Nicolò, Semerari, Lysaker et al., 2012).

Tra i pazienti con doppia diagnosi -DP e abuso di sostanze- che presentano alessitimia, la scarsa mastery correla con tratti preminenti del Cluster C (Lysaker, Olesek, Buck et al., 2014). Nel disturbo narcisistico di personalità sono state ipotizzate, e poi identificate, difficoltà nella comprensione sia della propria mente sia di quella degli altri (Dimaggio, Semerari. Falcone et al., 2002; Given-Wilson, McIlwain e Warburton, 2011). Non solo i pazienti narcisisti presentano la tendenza a descrivere le proprie esperienze in maniera ipergeneralizzata, astratta e teorizzante, ma hanno anche difficoltà ad indagare i propri stati affettivi. In particolare, quando provano un’emozione, manca sistematicamente la comprensione del trigger interpersonale, cioè l’evento attivante che si gioca a livello relazionale. Nella sequenza ABC (antecedent, belief, consequence: situazione, pensiero, conseguenza emotiva e comportamentale), possono descrivere bene il B, discretamente il C, ma l’A manca del tutto.

In una popolazione non clinica l’uso dell’ IVaM ha mostrato che il narcisismo è correlato con difficoltà nella descrizione dei propri stati mentali, coerentemente con l’idea che tali pazienti abbiano soprattutto problemi nella descrizione del proprio mondo interno prima ancora che difficoltà nel comprendere gli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., in preparazione).

Riguardo l’empatia è emerso che, nel narcisismo, la capacità di comprendere i pensieri degli altri è preservata, mentre è la risonanza emotiva ad essere più compromessa. Ritter, Dziobek e colleghi (2011) investigando con l’uso della fMRI le aree cerebrali sottese alle abilità empatiche, mostrano che persone con narcisismo tendono a pensare di essere empatiche, ma di fatto non lo sono.

In una recente ricerca di Semerari e colleghi (2015) sono stati messi a confronto due campioni clinici, il primo di pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, il secondo di pazienti con altri DP. Da tale studio è emerso che i pazienti con disturbo borderline mostrano difficoltà in due aspetti: differenziazione e integrazione. Tali risultati suggerirebbero una compromissione specifica per il disturbo borderline e, inoltre, tale compromissione apparirebbe fortemente connessa alla gravità della psicopatologia.

4) Infine, l’idea che la metacognizione migliori se il trattamento è effìcace sembra essere valida: utilizzando la SVaM nell’analisi di trascritti di seduta, le abilità metacognitive appaiono compromesse all’inizio della terapia, ma è presente una tendenza al miglioramento nel corso di terapie di successo (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011; Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009).

Riguardo alla metacognizione come predittore di outcome, uno studio preliminare su pazienti con disturbo borderline ha mostrato come la metacognizione fosse associata alla gravità psicopatologica all’inizio del trattamento e lo scarso decentramento predicesse un peggior esito a tre mesi. Si tratta di uno studio su un piccolo campione e mancano dati su altri DP (Maillard, Kramer e Dimaggio, 2013), pertanto la correlazione tra miglioramento metacognitivo e miglioramento clinico è finora poco più che aneddotica.

Conclusioni

Concludendo, riteniamo che il modello proposto dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale sia un valido e utile contributo al lavoro psicoterapeutico, in particolar modo per il possibile impiego nella pratica clinica, sia nella procedura di assessment sia nel lavoro in seduta.

Nonostante i dati ottenuti siano molto incoraggianti e sembrino confermare le ipotesi proposte dagli autori, la gran parte della ricerca effettuata finora, al di là dei dati sui disturbi evitante e narcisistico, ha avuto prevalentemente come oggetto il disturbo borderline. Resta alta la necessità di investigare gli altri disturbi di personalità sviluppando ulteriori studi che vadano a indagare le variabili considerate su popolazioni cliniche più numerose, attraverso l’ausilio di strumenti differenti, sia di tipo qualitativo che quantitativo.

Burnout e Mindfulness: un punto d’incontro

Nel seguente articolo si parlerà di burnout e mindfulness, due concetti che ad alcuni possono sembrare distanti o addirittura uno all’opposto dell’altro, ma tra i quali in realtà è possibile identificare un filo conduttore o persino un legame.

Luca Scaramagli – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Cos’è il burnout

Ma partiamo dal primo dei due concetti, il burnout, parola di origine anglosassone che letteralmente significa esaurimento, crollo o surriscaldamento, che dà chiaramente l’idea di ciò di cui si sta parlando, ovvero una condizione di stress. Stress quindi inserito in un contesto lavorativo e/o derivante da esso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo, con vissuti di demotivazione, di delusione e disinteresse con concrete conseguenze nella realtà lavorativa, personale e sociale dell’individuo. La sindrome del burnout venne inizialmente associata alle professioni sanitarie e assistenziali, per poi essere riconosciuta come associata a qualsiasi contesto lavorativo con alte condizioni stressanti e pressanti come ad esempio posizioni di grande responsabilità lavorativa.

Lo stress provoca conseguenze a livello globale del funzionamento dell’organismo, ed è facilmente intuibile a quanti e quali livelli possa manifestarsi il burnout:

  • Livello Cognitivo/Emotivo: distacco emotivo, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, importanza eccessiva data al lavoro, demotivazione a lavoro, difficoltà di concentrazione, irritabilità e senso di colpa.
  • Livello Comportamentale: aggressività, abuso di alcool e sostanze, mancanza di iniziativa, assenteismo.
  • Livello Fisico: emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Ma cosa causa il burnout? Le cause possono essere individuate sia a livello individuale, come un eccessivo bisogno di affermazione lavorativa a discapito della propria vita privata e personale, che a livello organizzativo, quali ad esempio eccessive richieste a livello lavorativo o lavoro monotono e scarsamente ricompensato nonché conflitti con colleghi e/o superiori.

Ciò che è anche importante considerare è il danno collaterale che il burnout provoca, infatti chi è a contatto con un operatore o lavoratore eccessivamente stressato ne subisce certamente le conseguenze. Basti pensare a chi svolge ruoli assistenziali e di supporto in ambito sanitario ed è a contatto con pazienti con patologie gravi come i malati oncologici, ai quali è richiesta una particolare attenzione e cura. Le conseguenze possono quindi essere molto serie e, se il problema non viene affrontato, è facile che si incorra in soluzioni risolutorie più facilmente accessibili, come l’abuso di sostanze o attività poco salutari come il gioco d’azzardo, che potrebbero aggravare maggiormente la situazione.

 

Burnout e Mindfulness: gestire lo stress lavorativo con la meditazione

Come è quindi possibile affrontare il burnout? È qui che entra in gioco il secondo protagonista di questo articolo, la Mindfulness. Una pratica derivante dal pensiero buddista, è una forma di meditazione non concettuale, universalmente accessibile e non dipende da alcun sistema di credenze. Questa tecnica meditativa si fonda sulla presa di coscienza, cioè sulla consapevolezza, di sensazioni ed emozioni presenti sia positive che negative, con lo scopo di accettarli senza giudizi e valutazioni. Nella pratica, dal punto di vista dei processi mentali, si concretizza nel prestare attenzione nel momento presente ai seguenti elementi:

  • il proprio corpo
  • le proprie percezioni sensoriali fisiologiche, fisiche e psicologiche
  • le formazioni mentali quali, ad esempio, la rabbia o il dolore
  • gli oggetti della mente

L’obiettivo della mindfulness è l’osservazione di questi elementi appartenenti alla propria esperienza soggettiva in uno stato di calma non reattiva, nella quale si accetta quello che si osserva per ciò che è, senza provarlo ad ostacolare o promuovere in un’ottica non giudicante e non resistente.

Lo scopo finale della mindfulness sarà poi quello di riuscire a generalizzare ed estendere questa “modalità attentiva” alle situazioni e ai contesti della vita quotidiana. Si tratterà di coltivare la consapevolezza in ogni momento della propria vita dalle situazioni facili a quelle difficili e dalle azioni semplici a quelle complesse.

La pratica costante della mindfulness ha quindi l’obiettivo di raggiungere un livello maggiore di benessere psicofisico, essa si è dimostrata infatti efficace nella riduzione dello stress e delle patologie ad esso correlate, nella riduzione dei sintomi fisici legati a malattie organiche, e più in generale nel promuovere cambiamenti nella propria percezione, nel comportamento e nell’atteggiamento con il quale si affrontano le situazioni della vita quotidiana.

Come si legano tra loro i concetti di burnout e mindfulness? La mindfulness è risultata infatti efficace nella cura di vari sintomi o disturbi correlati al burnout (Gilbert, 2005) quali cefalee, disturbi del sonno, ansia, depressione, paura del fallimento e dolori muscolari. Un esempio di questa efficacia è riportato da uno studio condotto da Cohen-Katz e colleghi (2005), nel quale è stato applicato il protocollo MBSR, ovvero Mindfulness Based Stress Reduction. Questo protocollo è stato sviluppato dal professor Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70 ed è risultato efficace verso una serie di patologie correlate o fonti di stress, trovando applicazione anche nelle problematiche psicologiche.

Ritornando allo studio, l’MBSR è stato utilizzato nell’ospedale di Lehigh Valley Hospital & Health Network coinvolgendo gli infermieri professionisti che vi prestano servizio, confermando l’ipotesi che il programma di intervento può essere considerato una strategia efficace per la riduzione del burnout. Negli infermieri che hanno beneficiato del trattamento si è registrata una riduzione significativa delle dimensioni di esaurimento emotivo e depersonalizzazione e un trend di miglioramento nel senso di realizzazione personale. I risultati hanno inoltre mostrato un significativo miglioramento in attenzione e consapevolezza alla mindfulness. Come sottolineano anche gli autori, è importante notare che questa tipologia di intervento andrebbe visto come solo una parte di una strategia più ampia d’azione. Ma burnout e mindfulness da soli non bastano: i ricercatori (Leiter e Maslach, 1988) hanno infatti notato che il burnout è largamente correlato a fattori interni all’organizzazione piuttosto che individuali, ogni intervento condotto individualmente sul lavoratore andrebbe quindi accompagnato da interventi sull’organizzazione a più ampio spettro.

Tenendo in considerazione questi dati e l’idea che burnout e stress non siano esclusivamente caratteristici di professioni sanitarie, come dimostrano infatti ricerche e studi condotti nell’ultimo decennio (Maslach et al., 2001; Schaufeli e Bakker, 2004; Roeser et al., 2013), potrebbe essere interessante estendere questa connessione tra burnout e mindfulness con l’utilizzo di protocolli a differenti contesti lavorativi cercando di aumentare in un primo momento la consapevolezza di cos’è e come affrontare il burnout, e in seguito proporre un adeguato modello di intervento basato su questa pratica di consapevolezza, con il fine di prevenire situazioni di stress eccessive e di promuovere il benessere sul luogo di lavoro.

Tematiche suicidarie e psicoterapia – Incontro del 22 ottobre presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Sabato 22 ottobre 2016 si è svolto il secondo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova” dal titolo “Tematiche suicidarie e psicoterapia” tenuto dal Dr. Francesco Centorame presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova.

Dopo aver fornito una breve carrellata dei principali comportamenti associati al suicidio tra cui il suicidio completato (ovvero quando il soggetto ha effettivamente intenzione di morire e riesce a portare a termine il suo piano), i tentativi di suicidio (cioè comportamenti auto-inflitti potenzialmente dannosi che però non conducono a un esito letale) e l’autolesione (ovvero un atto deliberato potenzialmente dannoso), il Dr. Centorame ha inquadrato il rischio suicidario in termini di incidenza e prevalenza osservando ad esempio un maggior rischio suicidario negli uomini rispetto alle donne.

Viene aperto poi un dibattito libero incentrato sui principali fattori che conducono al suicidio quali la comorbilità con disturbi dell’umore, da abuso di sostanze, disturbi della condotta e disturbo borderline di personalità. Rispetto a quest’ultimo aspetto si è osservato come tale disturbo di personalità sia caratterizzato da squilibri affettivi, rabbia intensa e comportamento impulsivo.

L’impulsività condurrebbe non soltanto al comportamento rabbioso ma sosterrebbe anche una bassa tolleranza alla frustrazione e un’assenza di programmazione che sembrerebbe correlare direttamente ad un maggior rischio suicidario. Fattori che paiono essere secondari nei comportamenti a rischio suicidio sono invece la deprivazione di sonno e la tendenza a prendere decisioni rischiose.

Attraverso l’analisi di casi clinici, il Dr. Centorame si è poi soffermato sull’individuazione degli aspetti di prevenzione e di quelli psicologici utili per il trattamento come ad esempio la percezione di non appartenenza senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere un peso per gli altri, un ridotto timore della sofferenza fisica e della morte, al fine di fornire esempi pratici di gestione clinica e di trattamento specifico.

Pertanto interventi terapeutici utili e necessari paiono essere non solo incentrati sulla modifica di credenze maladattive ma anche interventi mirati sull’ambiente come ad esempio il potenziamento della rete sociale del soggetto a rischio suicidario o interventi familiari tesi a migliorare i rapporti tra i parenti. A conclusione dell’interessante intervento il Dr. Centorame ha mostrato una carrellata dei principali “falsi miti” ovvero delle convinzioni più diffuse che favoriscono i tabù verso le persone suicidarie e ne ostacolano la guarigione.

 

Si segnala che il terzo incontro organizzato dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “La ruminazione e l’alcolismo” tenuto dal Dott. Gabriele Caselli si svolgerà sabato 12 Novembre 2016 ore 10-13.

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