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Il Modafinil per il trattamento farmacologico dell’ADHD

Nel trattamento farmacologico dell’ADHD sono usati spesso due psicostimolanti, il metilfenidato e le anfetamine. Tuttavia, il 30% dei pazienti non risponde a queste terapie. Il Modafinil, un farmaco che promuove l’attenzione incrementando l’attività della corteccia frontale, sembra offrire una valida alternativa.

 

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD, Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) è uno dei più comuni disturbi neuropsichiatrici che colpisce tra l’8 e il 12% dei bambini in età scolare. Esso si caratterizza per sintomi quali disattenzione, iperattività ed impulsività (Thapar & Cooper, 2016) e comporta molteplici problemi a scuola e in ambito relazionale.

 

Il trattamento farmacologico dell’ADHD

A livello fisiopatologico, l’ADHD si associa ad uno scompenso dei sistemi noradrenergico e dopaminergico, specialmente nella corteccia frontale.

Per ciò che riguarda il trattamento farmacologico, invece, sono risultati efficaci due psicostimolanti, il metilfenidato e le anfetamine, che inibiscono la ricaptazione della norepinefrina e della dopamina. Tuttavia, il 30% dei pazienti non risponde a queste terapie.

Il Modafinil, un farmaco che promuove l’attenzione incrementando l’attività della corteccia frontale, sembra offrire una valida alternativa (Lin, Hou, & Jouvet, 1996). Individui deprivati di sonno, a seguito di assunzione di modafinil, hanno mostrato un miglioramento dell’umore, della stanchezza fisica, delle capacità cognitive e una riduzione della sonnolenza; effetti qualitativamente simili a quelli della caffeina, ma di intensità e durata maggiore. Altri pazienti con differenti patologie psichiatriche ne trovano giovamento (i.e: pazienti bipolari, narcolettici). Numerosi RCT (Randomized-Controlled Trials) hanno inoltre mostrato come questo farmaco possa costituire una valida e clinicamente sicura opzione per trattare i sintomi della ADHD.

 

Lo studio

Una recente review, in attesa di pubblicazione sul Journal of Psychiatric Research, ha indagato gli effetti del Modafinil. Tra i vantaggi di questo tipo di ricerca rispetto ad un singolo esperimento annoveriamo: il superamento dei limiti dati dalla dimensione del campione, la possibilità di generalizzare le conclusioni a popolazioni differenti, l’aumento della potenza statistica durante il confronto tra gruppi e la risoluzione dei bias intrinseci alle singole ricerche.

Rispetto alle precedenti evidenze scientifiche, si è concluso che il Modafinil, il metilfenidato e le anfetamine, agiscono tutti promuovendo l’attenzione del bambino, grazie a meccanismi simili, evidenziando un’efficacia simile tra loro (Kumar, 2008).

Una misura dell’efficacia del farmaco in questa review, era il confronto tra il punteggio pre- e post-trattamento farmacologico dell’ADHD Rating Scale-IV (ADHD-RS-IV), versione Home e versione School, un questionario compilato solitamente da un genitore o un insegnante, valutante il comportamento del bambino (5-17 anni) negli ultimi 6 mesi.

 

I risultati

La meta-analisi, sulla base dei criteri di inclusione, ha considerato 5 RCT. L’analisi dei punteggi al ADHD-RS-IV Home/School ha permesso di concludere che il Modafinil è significativamente più efficace di un placebo nel trattamento farmacologico dell’ADHD diagnosticata a bambini e adolescenti.

Per quanto riguarda la sicurezza e la tollerabilità, il Modafinil è risultato nel complesso ben tollerato e gli effetti collaterali risultavano lievi o al massimo moderati; tra i più comuni, si riscontravano ridotto appetito e insonnia. Mal di testa, cambiamenti nella pressione del sangue e nella frequenza cardiaca, invece, non differivano tra gruppo trattato con Modafinil e gruppo di controllo (placebo).

Questi si caratterizzano come i risultati più recenti ed affidabili sugli effetti del modafinil nel trattare l’ADHD. Tuttavia il team di ricercatori ha sottolineato alcuni limiti della review. Tra i principali l’aver considerato per lo più studi con un campione piuttosto ridotto. Inoltre il dosaggio del farmaco nei vari RCT era diverso e la review, non avendo pesato l’effetto di tale discrepanza, restituirebbe dati sulla sicurezza ed efficacia del farmaco inesatti.

 

L’intervento domiciliare per i “Sepolti in casa”: quale trattamento per il disturbo da accumulo compulsivo 

Il Disturbo da Accumulo Compulsivo è, come sottolinea il nome, un disturbo caratterizzato dall’eccessiva acquisizione di oggetti, la difficoltà a disfarsi delle cose e l’ingombro. Non ha quindi a che fare con la pigrizia e può assumere intensità e gravità differenti.

Carolina Alberta Redaelli, Cristiano Farina

 

 

Cos’e’ Il Disturbo Da Accumulo Compulsivo

Negli ultimi anni l’interesse per il Disturbo da Accumulo Compulsivo è cresciuto sempre di più. Se ne parla non solo tra gli addetti al mestiere (psicologi, psichiatri, ecc) ma  siamo ormai anche abituati a trovare articoli sui giornali o addirittura programmi televisivi che trattano questo argomento.

Ma chi sono questi “sepolti in casa”? Come si può fare per aiutarli?

Innanzitutto il Disturbo da Accumulo Compulsivo è, come sottolinea il nome, un disturbo caratterizzato  dall’eccessiva acquisizione di oggetti, la difficoltà a disfarsi delle cose e l’ingombro. Non ha quindi a che fare con la pigrizia e può assumere intensità e gravità differenti. Non tutte le persone che soffrono di questo disturbo si ritrovano infatti letteralmente sepolte in casa, allo stesso tempo la vergogna legata alla propria condizione di vita e/o abitativa rende difficile la richiesta di aiuto da parte di queste persone.

Recentemente il DSM-V (APA, 2013) ha inserito il Disturbo da Accumulo Compulsivo come categoria diagnostica a parte rispetto al Disturbo Ossessivo Compulsivo. La ragione della nuova diagnosi risiede in una crescente mole di ricerche relative a questo disturbo condotte negli ultimi anni che riscontrano come l’accumulo non sia specificatamente associato al DOC, ma piuttosto una caratteristica presente in un range di disturbi psichiatrici (Steketee & Frost, 2003).

Le evidenze indicano come il trattamento standard del DOC, sia farmacologico che con terapia cognitivo-comportamentale, abbia scarsi risultati sui sintomi di accumulo compulsivo (Abramowitz, Franklin, Schwartz, & Furr, 2003;Steketee & Frost, 2003), ragion per cui negli ultimi anni è emersa la necessità di sviluppare un nuovo modello, e di conseguenza un nuovo approccio terapeutico, specifico per il disturbo da accumulo compulsivo.

Frost e collaboratori (Frost & Hartl, 1996; Steketee & Frost, 2003,2007) propongono un modello cognitivo-comportamentale dell’accumulo compulsivo che suggerisce come l’eccessiva acquisizione di oggetti, la difficoltà a disfarsi delle cose e l’ingombro, che costituiscono la sindrome da accumulo compulsivo, derivino da numerosi fattori (Steketee & Frost, 2003) tra i quali:

  1. Vulnerabilità personale, che include esperienze passate e apprendimento, stato d’animo generalmente negativo, tratti di personalità e problemi di information processing [difficoltà sostanziali di attenzione focalizzata e sostenuta (Hartl, Duffany, Allen, Steketee, & Frost, 2005), difficoltà nel categorizzare i propri averi (Wincze, Steketee, & Frost, 2006) e latenze di risposta marcatamente maggiori per prendere una decisione riguardo le propri cose (Maltby et al., 2006)];
  2. Credenze disfunzionali sul possesso e attaccamento emozionale alle cose: credenze riguardo vulmerabilità, responsabilità, controllo e affidabilità della memoria (Frost, Hartl, Christian, & Williams, 1995; Hartl et al., 2004;Steketee, Frost, & Kyrios, 2003), che a loro volta risultano in:
  3. Disagio emotivo ed evitamento: esperienze emotive negative intense (es. ansia, dolore o colpa) riguardo la prospettiva della perdita (es. disfarsi o non entrare in possesso) di un oggetto conducono all’evitamento della situazione, mentre forti emozioni positive (es. piacere, gioia) rinforzano l’acquisizione e la conservazione degli oggetti.

 

Il trattamento efficace per il Disturbo Da Accumulo Compulsivo: un ponte tra lo studio del terapeuta e il domicilio del paziente

Il trattamento proposto da Frost e collaboratori consiste di 26 sedute individuali che hanno luogo una volta a settimana.

Accanto agli incontri che si svolgono nello studio del terapeuta, grande importanza rivestono le sedute concordate al domicilio del paziente, che, secondo gli autori, devono rappresentare almeno il 25% del totale.

Dopo una prima fase di assessment multidisciplinare (condotto sia in studio che a domicilio del paziente) che porta alla formulazione di un modello cognitivo-comportamentale specifico per la condizione di ogni paziente, il terapeuta applica strategie di intervento di stampo cognitivo-comportamentale che hanno come target le tre manifestazioni dell’accumulo: l’acquisizione compulsiva, la difficoltà a disfarsi delle cose e il disordine.

Queste tecniche di trattamento consistono in:

  1. Skills training per riordinare, decision-making per scegliere e disfarsi delle cose, problem-solving e rinforzo;
  2. Esposizioni mentali e in vivo alle situazioni evitate (in particolare il disagio emotivo provato nel disfarsi di oggetti o nel non acquisirli una volta assaliti dal desiderio);
  3. Ristrutturazione cognitiva delle credenze connesse con l’accumulo: il progredire nel selezionare e rimuovere oggetti dalla propria abitazione dipende dal cambiamento di modalità di pensiero e dalla riduzione del disagio connesso, per cui è necessario alternare tra strategie cognitive ed esposizioni comportamentali.

Grande importanza viene data a strategie motivazionali (Miller & Rollnick “Motivational Interviewing: helping people change”, 2013) per valutare ed eventualmente incrementare la motivazione del paziente durante il trattamento; i pazienti con un disturbo da accumulo compulsivo infatti spesso non hanno percezione del loro disturbo, la motivazione è esterna e l’atteggiamento verso il trattamento è ambivalente.

Il paziente viene aiutato a scegliere, ordinare e buttare: si fa pratica con il terapeuta durante la seduta e poi il paziente, tramite homework, continua da solo o con la presenza di un coach che viene individuato all’interno della cerchia dei familiari o degli amici.

Il trattamento prevede anche un ultimo modulo di prevenzione delle ricadute per aiutare il paziente a continuare a fare progressi da solo e per affrontare attuali e future situazioni stressanti senza riattivare comportamenti di accumulo.

I risultati indicano come questo protocollo sviluppato da un modello cognitivo-comportamentale dell’accumulo compulsivo riduca significativamente la sintomatologia del disturbo, in particolare, in ordine di maggiore efficacia, la difficoltà a disfarsi delle cose, l’ingombro e l’acquisizione compulsiva (Tolin, Frost, Steketee, Murdoff, 2015).

 

L’importanza Dell’intervento Domiciliare

Accanto agli incontri che si svolgono nello studio del terapeuta, grande importanza rivestono le sedute concordate al domicilio del paziente, che, secondo gli autori, devono rappresentare almeno il 25% del totale. si effettuano almeno 1 volta al mese, hanno una durata di 2 ore a casa del paziente (anche possibilità di sedute- maratona di varie ore oppure un repulisti in cui ci si supervisiona una ristretta crew di ripulitori, con il permesso del paziente).

Il paziente durante la terapia  viene aiutato a scegliere, ordinare e buttare facendo pratica in studio con alcuni  oggetti, e poi anche a domicilio. Oltre che a domicilio sono previste sedute anche dove ha luogo l’ eccessiva acquisizione di oggetti (es. supermercati, discount, mercatini delle pulci, discariche…) dove il terapeuta aiuta il paziente nello scegliere, nel disfarsi delle cose e nel resistere all’acquisizione. È dimostrato che un elevato numero di sedute al domicilio del paziente correla con un migliore risultato clinico. Le sedute a domicilio producono sostanziali progressi che aumentano la motivazione, aiutano il paziente a sentirsi meno sovraccarico, e a consolidare le abilità per lavorare più autonomamente sull’ingombro rimasto (Tolin et al., 2015; Stekenee et al., 2010).

Questi pazienti mostrano solitamente un’ambivalenza di fondo verso il trattamento non percependo in toto la gravità del loro disturbo e spesso tendono a rinchiudersi in casa e ad evitare di uscire interrompendo spesso la terapia. È quindi fondamentale che il paziente “si porti a casa” la terapia, perché è quello il luogo che maggiormente beneficerà dei miglioramenti del paziente in termini di restituzione alla vivibilità di ambienti non più utilizzati perché ingombri di oggetti. Inoltre, per le condizioni in cui versano le loro abitazione, questi pazienti sono estremamente restii a ricevere persone in casa, indi per cui, con la dovuta cautela e preparazione psicologica, la visita a casa del terapeuta è essa stessa un’esposizione comportamentale a situazioni evitate.

La necessità di un aiuto al domicilio per portare avanti gli obiettivi terapeutici, si viene purtroppo spesso a scontrare con la indisponibilità– o disponibilità apparente- dei familiari, solitamente già coinvolti e incistati in dinamiche relazionali che tendono a mantenere il disturbo (se non essi stessi affetti dalla stessa problematica di accumulo compulsivo, data la frequente familiarità del disturbo) del congiunto. Diventa quindi quasi imprescindibile la presenza di una persona terza, consapevole e adeguatamente formata, che possa da un lato mediare nei contrasti e conflitti familiari che inevitabilmente si innescano, proporre un’adeguata psicoeducazione sul disturbo da accumulo compulsivo, ma soprattutto supportare il paziente nei miglioramenti avvenuti in terapia riproponendo a domicilio quanto già appreso in seduta affrontando insieme a lui le difficoltà che passo dopo passo si rilevano.

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Disturbo da accumulo: caratteristiche cliniche del Hoarding Disorder

Il Disturbo da accumulo (Hoarding Disorder) noto anche come Disposofobia, è un disturbo caratterizzato dalla tendenza all’ accumulo patologico e disfunzionale di oggetti.

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Che cos’è il disturbo da accumulo (Hoarding Disorder)

L’Hoarding Disorder, tradotto in italiano come Disposofobia o Disturbo da Accumulo, è un disturbo caratterizzato dalla tendenza ad accumulare oggetti in maniera patologica, o disfunzionale. Il disturbo da accumulo è definito come (a) l’acquisizione e il fallimento nel liberarsi di un gran numero di beni, apparentemente inutili o di limitato valore; (b) spazi vitali ingombrati al punto tale da precludere le attività per le quali sono stati inizialmente progettati; (c) disagio significativo e compromissione del funzionamento dovuti all’accumulo (Frost & Hartl, 1996).

 

Evoluzione storica

L’emergere di evidenze a favore di una concettualizzazione del disturbo da accumulo come costrutto non del tutto dipendente dal disturbo ossessivo compulsivo ha stimolato lo studio delle sue caratteristiche cliniche. Di conseguenza, gli ultimi venti anni di ricerche sull’accumulo, hanno portato a una completa rivoluzione per quanto riguarda la concezione clinica del fenomeno.

Storicamente, esso è stato concepito come una componente di un disturbo maggiore, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Negli anni ’80, era classificato all’interno del DSM III come uno dei criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità (DOCP). Con la pubblicazione del DSM IV-TR (2000) viene invece descritto come una componente o sintomo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). La parabola dell’ Accumulo Patologico si conclude attualmente nel DSM 5 (APA, 2013) con la sua distinzione come categoria diagnostica a sé stante, inclusa all’interno del capitolo sui Disturbi Ossessivo-Compulsivi, ma separata dal DOC. L’inclusione all’interno di questo capitolo, tuttavia, sottolinea e considera sempre la forte associazione e le analogie tra le due condizioni cliniche, anche se i risultati della mole di lavori svolti in questo ambito hanno mostrato come vi possano essere forti associazioni anche con altre condizioni cliniche, in particolare la depressione e l’ansia, così come peculiarità specifiche dell’accumulo, che ne motivano la distinzione da altri disturbi.

 

Primi studi sul disturbo da accumulo – Il modello di Frost

La forte associazione tra accumulo e depressione, oltre che con altri domini, era stata notata da Frost e colleghi già dai primi anni ’90. Gli autori giunsero in seguito, nel 1996, alla proposta di un modello cognitivo-comportamentale che spieghi l’accumulo sulla base di 4 fattori:

  1. Deficit del processamento di emozioni;
  2. Scarse relazioni interpersonali e intelligenza emotiva;
  3. Evitamento;
  4. Credenze disfunzionali sui possedimenti.

Altre indagini hanno mostrato come il comportamento da accumulo è spesso associato a stress o traumi, violenze e separazioni nella storia dell’individuo. Le relazioni sociali e familiari sono molto ridotte. Vi sono inoltre evidenze di scarsa consapevolezza di malattia negli accumulatori e dell’egosintonicità dei sintomi.

Clinicamente il disturbo da accumulo patologico presenta tre componenti:

  1. Difficoltà a disfarsi degli oggetti (Difficulty Discarging)
  2. Acquisizione (Acquisition)
  3. Ingombro (Clutter)

 

Sintomo o sindrome?

Sebbene l’Hoarding sia comunemente associato al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), esso non è specificatamente menzionato nel DSM-IV-TR o nel ICD-10 come un sintomo del DOC. Nel DSM-IV-TR esso è elencato come uno degli otto criteri diagnostici del disturbo di personalità ossessivo-compulsiva (OCPD). Nella descrizione della diagnosi differenziale tra OCPD e DOC, il DSM-IV-TR afferma che una diagnosi di DOC deve essere tenuta in considerazione, soprattutto nei casi in cui l’accumulo è estremo.

Mentre vi sono pochi dubbi che l’ accumulo patologico sia un possibile sintomo del DOC o che esso sia dovuto a tipiche paure di tipo ossessivo come la paura che buttare via gli oggetti possa causare danno a se stessi o agli altri (Pertusa, Frost & Mataix-Cols, 2011), c’è una mole di evidenze che supporta l’idea che, nella maggior parte dei casi, i sintomi dell’accumulo non siano collegati al disturbo ossessivo compulsivo. Per esempio, sebbene circa il 5-10% dei pazienti con disturbo ossessivo compulsivo mostrino sintomi di accumulo, più del 80% dei pazienti con disturbo da accumulo non mostrano altri sintomi di tipo ossessivo compulsivo (Frost, Steketee & Tolin 2012; Pertusa et al., 2008; Samuels et al., 2008). Invece (Frost et al, 2012) sembrerebbe che le comorbilità più comuni tra i casi di accumulo patologico siano i disturbi d’ansia e depressivi.

L’accumulo è un comportamento che può manifestarsi quindi sia come un sintomo (prevalentemente del Disturbo Ossessivo-Compulsivo), sia come una sindrome che si evolve negli anni. Rifacendoci alla letteratura attuale, queste due manifestazioni differiscono in base all’età di esordio, alle comorbilità e al contesto psicologico (Randy A. Sansone, MD & Lori A. Sansone, MD, 2010). Come sindrome, i sintomi dell’accumulo non appaiono correlati al disturbo ossessivo compulsivo, tendono a raggiungere il culmine con l’avanzare dell’età adulta, e possono essere associati a difficoltà nell’infanzia, differenti tratti e disturbi di personalità e abuso o dipendenza da alcool (Sansone & Sansone, 2010).

Sempre secondo il DSM-V, coloro i quali soffrono di Disturbo da Accumulo conservano i propri beni in maniera intenzionale. Tale criterio differenzia il Disturbo da Accumulo da altre forme psicopatologiche in cui è presente un accumulo passivo o in cui viene a mancare il disagio sperimentato a fronte dell’eliminazione dei propri oggetti (ad es. in alcune forme di demenza) (Bernardotti, 2016).

Maier (2004) affronta questo dilemma concludendo che l’ accumulo patologico è un comportamento complesso associato a diversi tipi di contesti emotivi e cognitivi, inclusi quelli ossessivo-compulsivi. Tuttavia, mentre l’accumulo può emergere sintomaticamente nel DOC, non è presente esclusivamente in questo disturbo.

 

Il trattamento cognitivo-comportamentale per il disturbo da accumulo

Da un punto di vista terapeutico, l’’attuale trattamento cognitivo-comportamentale del Disturbo da Accumulo si focalizza principalmente sulla riduzione dei sintomi in tre macro aree: la disorganizzazione, la difficoltà nel liberarsi e nel gettare via gli oggetti personali e la tendenza ad acquisirne in eccesso. Nello specifico, il trattamento si avvale di Skill training finalizzato a rinforzare le capacità di problem-solving, decision making e di organizzazione; Esposizione graduale e Ristrutturazione cognitiva delle credenze irrazionali correlate ai comportamenti di accumulo (Bernardotti, 2016).

In aggiunta, la bassa consapevolezza frequentemente associata al Disturbo da Accumulo ha portato ad ipotizzare l’utilità di avvalersi, in aggiunta ai già citati interventi, di tecniche motivazionali e dell’ausilio di visite domiciliari (Steketee et al., 2010).

 

Il disturbo da Accumulo nel DSM – 5

Secondo la descrizione fornita dal DSM 5, la caratteristica principale del Hoarding Disorder consiste in una persistente difficoltà a disfarsi o separarsi dai propri possedimenti, indipendentemente dal loro reale valore (Criterio A). Gli individui conservano di proposito gli oggetti e sperimentano un forte stress quando si confrontano con l’idea di liberarsene (Criterio B).  Gli individui accumulano un grande numero di oggetti che riempiono e creano ingombro e in molti casi un certo disordine negli spazi quotidiani al punto che il loro utilizzo non è più possibile (Criterio C). L’accumulo causa un disagio clinicamente significativo o menomazione della sfera sociale, occupazionale o di altre importanti aree di funzionamento – incluso il mantenere un ambiente sicuro per sé e per gli altri – (Criterio D). L’accumulo infine non deve essere dovuto ad altre condizioni mediche o disturbi mentali (Criteri E e F)

 

Correlazioni con Ansia e Depressione

Approssimativamente il 75% dei pazienti con accumulo patologico ha in comorbilità un disturbo dell’umore o d’ansia. Le condizioni più comunemente associate sono la depressione maggiore, il disturbo d’ansia sociale (fobia sociale nel DSM IV-TR) e il disturbo d’ansia generalizzata (Steketee et al., 2000, Frost, Steketee, Williams, and Warren, 2000, Gail Steketee & Randy Frost 2003). In generale, molti studi hanno mostrato come gli individui con comportamenti d’accumulo riportano maggiori sintomi di ansia e depressione, oltre che un funzionamento più povero (Frost, Steketee, Williams, & Warren 2000; Samuels et al., 2002).

Va tuttavia notato come circa il 20% degli hoarders presentano sintomi che soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo ossessivo compulsivo, questo tasso è significativamente maggiore rispetto alla presenza del disturbo nella popolazione generale (1-2%), il che suggerisce che sebbene il disturbo da accumulo sia distinto dal DOC, esso vi rimane comunque molto legato (Frost, Steketee, Tolin, 2011). Gli autori, inoltre, hanno confermato tali dati, mostrando come all’interno di campioni clinici, la depressione maggiore sia la condizione di comorbilità più frequentemente diffusa tra gli hoarders. La diagnosi veniva infatti effettuata a più della metà del campione, apparendo molto più comune nell’hoarding che nel disturbo ossessivo compulsivo.

Anche se in maniera meno frequente, anche il disturbo d’ansia generalizzato e la fobia sociale sono state diagnosticate in circa un quarto dei casi di hoarding, con percentuali simili ai campioni di pazienti ossessivo compulsivi.

Altri sintomi emotivi e cognitivi, trovati frequentemente in gruppi di accumulatori, sono alti livelli di inattenzione e iperattività, indecisione, fallimenti cognitivi, ansia e scarso autocontrollo. La povertà di strategie di controllo e regolazione emotiva, suggerisce a sua volta un’alta probabilità di uso di strategie esterne (non adattive) per regolare l’umore (Hall, Frost, Tolin, Steketee, 2013).

Un studio da me svolto su un campione psichiatrico italiano, con diagnosi afferenti principalmente alle sfere dell’ansia e dell’umore, ha evidenziato la considerevole diffusione del disturbo da accumulo tra i Disturbi Depressivi e i Disturbi d’Ansia e la frequente associazione a un Disturbo di Personalità.

L’analisi delle correlazioni ha mostrato come l’ accumulo patologico e le sue componenti di ingombro, difficoltà a disfarsi e acquisizione, siano associate significativamente all’ansia e alla depressione, in misura pari o superiore rispetto ai sintomi ossessivo-compulsivi (Cozzi, 2014).

 

Differenze tra Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbo da Accumulo

I recenti studi hanno portato a una serie di dati che hanno motivato il passaggio dell’ accumulo compulsivo da criterio per il DOC a una categoria diagnostica specifica (Mataix-Cols et al., 2010; Pertusa et al. 2010; Rachman, Elliott, Shafran & Radomsky, 2009; Saxena, 2008). Le evidenze più significative sono le seguenti:

  • Le correlazioni tra hoarding e sintomi tipici del DOC sono del tutto comparabili con quelle dell’ansia e della depressione (Abramowitz, Wheaton & Storch,2008; Williams, Haslam, Abramowitz & Tolin 2008).
  • Un numero importante di soggetti con hoarding grave non riportano altri sintomi ossessivocompulsivi (Pertusa et al., 2008; Samuels et al., 2008).
  • A differenza dei sintomi del DOC, quelli relativi all’hoarding peggiorano in maniera cronica col passare degli anni (Ayers, Saxena, Golshan & Wetherell, 2009; Grisham et al., 2006).
  • La sofferenza negli hoarders non appare immediatamente ed è solitamente associata all’intervento di terzi. A differenza del DOC, l’hoarding è caratterizzato da scarso insight..
  • I sintomi tipici del DOC sono associati a stati d’ansia e non sono preceduti né seguiti da alcuna emozione positiva: una sequenza esemplificata di ossessioni e compulsioni inizia con pensieri involontari ed intrusivi seguiti da un comportamento compulsivo teso a calmare il disagio prodotto dal pensiero ossessivo. Nell’hoarding, di solito, sono le emozioni positive che portano all’accumulo, mentre le emozioni negative (colpa, vergogna, ansia) subentrano in un secondo momento, ovvero quando il soggetto si trova a doversi disfare degli oggetti, o limitarne l’acquisizione.
  • Scansioni cerebrali hanno rivelato differenti attivazioni cerebrali (Frost & Hartl, 1996; Steketee & Frost, 2003)
  • Gli accumulatori non rispondono agli stessi trattamenti dei soggetti con DOC e sono caratterizzati da un’invalidità familiare e sociale più grave.

 

Conclusioni

Passando in rassegna i risultati di diversi studi dunque, l’accumulo, come sintomo, si manifesta con un esordio precoce, spesso associato ad ulteriori ossessioni e compulsioni, ed in frequente comorbilità con disturbi d’ansia e dell’umore.

In conclusione, gli ultimi 20 anni di ricerca hanno portato sempre maggiori evidenze della forte correlazione tra i comportamenti di accumulo patologico e la sintomatologia ansiosa e depressiva, spostando l’attenzione dal disturbo ossessivo compulsivo, al quale era profondamente legata. Tale dato può avere una profonda importanza dal punto di vista dello sviluppo e l’implementamento di modelli terapeutici che tengano conto delle caratteristiche cliniche associate a questi disturbi.

“Bisogna fare qualcosa”. In memoria di Umberto Veronesi

Ho conosciuto Umberto Veronesi nel marzo 2006. Sarà stato il 15, giorno più, giorno meno. Una settimana prima a mia moglie era stato diagnosticato un carcinoma mammario bilaterale con nove metastasi epatiche. Non la prendemmo come una bella notizia.

Mia figlia aveva tre anni e mezzo, mio figlio quattro mesi e mia moglie lo allattava, cosa che la faceva sentire benissimo, non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo. I primi giorni furono carichi di un’angoscia senza fine, come è lecito aspettarsi. Gli amici e i colleghi di allora furono preziosi e di aiuto oltre l’immaginabile e il fatto che il mio percorso personale e professionale si sia separato da quello di molti di loro non altera la gratitudine per l’aiuto che mi hanno dato.

Una settimana dopo mia moglie Anna e io ci troviamo nello studio di Milano, carichi di ogni sorta di esame strumentale e pronti a ricevere una sentenza di morte. Non sembri un’iperbole, di quello si trattava. Entriamo con una mezz’ora di ritardo, eravamo preparati ad attendere molto più a lungo.

Veronesi ci accoglie con gentilezza e a me fa subito un’impressione che nessuno mi aveva mai suscitato. “Quest’uomo irradia luce” penso. Una forza positiva, un carisma che non pensavo esistessero. Avevo letto descrizioni simili sui libri che parlano di eroi o capi amati dal popolo, ma che io potessi pensarlo di qualcuno che mi fossi trovato di fronte non l’avevo messo in conto.

Senza parlare granché, mi pare inforcando gli occhiali, ma posso sbagliare, consulta i referti. Ci pensa un po’. In quei momenti ogni secondo si divide all’infinito. Poi ci chiede, rivolgendosi soprattutto ad Anna: “Perché siete venuti qui?”. Nessuno dei due fa in tempo a formulare una risposta sensata prima che lui risponda da solo: “Perché vi hanno detto che bisogna fare qualcosa”. Vero. Ma in realtà pensavamo di sentirci dire che la situazione era tragica. Non l’avevamo articolata nei termini di “bisogna fare qualcosa”. E risponde alla domanda che ci aveva suggerito e che né io né mia moglie avevamo contestato: “E faremo qualcosa”. Ci spiega i vari passi da affrontare, le opzioni terapeutiche a disposizione e gli strumenti che avremmo potuto usare se proprio i primi interventi non fossero stati risolutivi. Conclude con un: “Lo mettiamo a posto”. Mi stringe la mano e poi rivolge ad Anna un sorriso che comprende l’universo e l’abbraccia.

Usciamo dallo studio increduli. Entriamo per ricevere una sentenza di morte, usciamo a prenderci un gelato enorme per le vie del centro di Milano.

Tra speranze, angosce e strazi mia moglie sopravvisse tre anni e tre mesi, in realtà più di quanto era ragionevolmente immaginabile data la gravità della situazione di partenza. Per qualche momento fu anche dichiarata guarita e così sarebbe stato se le cellule tumorali non avessero colonizzato il cervello.

A posteriori si potrebbe dire che non lo mettemmo a posto.

Ma io da quell’incontro sono uscito cambiato per sempre, come persona e, soprattutto, come psicoterapeuta.

Veronesi aveva di fronte una paziente affetta da una malattia grave, al limite della curabilità. Eppure ci lasciò un messaggio che era solo speranza e azione. Niente metafore belliche: è una guerra, bisogna lottare. Parole semplici invece, orientate al futuro, ottimistiche, frasi che indicavano azione.

Di comunicazione realistica solo l’ombra. Ed è quello stile che consentì a me e mia moglie di respirare e di sopportare i primi mesi della malattia, fino a che non vedemmo che di fatto le cure stavano facendo un effetto pazzesco (per una lunga prima fase la risposta fu eccezionale e quindi noi vivevamo). Stampato nella mia mente, il volto e la presenza – era anche molto alto, lo dice uno di 1,86 – di Veronesi.

Da allora non c’è prima visita, non c’è restituzione della diagnosi in cui io non ricordi quell’incontro e me ne lasci guidare. Da allora non riesco a comprendere le azioni dei colleghi che pensano sia doveroso dire al paziente: “Lei soffre di schizofrenia. Ha un disturbo bipolare. Sono condizioni che si possono solo contenere, ma deve fare i conti con questa diagnosi e dovrà prendere farmaci per tutta la vita”. Sarà vero, sarà falso, non importa. Ho visto l’impatto che ha un certo modo di comunicare la diagnosi, di prefigurare il percorso terapeutico.

Riesco, da quel giorno, solo a dire ai pazienti che conosco per la prima volta: “Lei spera di essere apprezzato. Amato. Di agire con autonomia. Di sentirsi parte della società. Teme che ci siano ostacoli che non glielo consentiranno e questo la preoccupa, la angoscia, la butta giù. Ci sono questi ostacoli, è vero, ma la terapia la aiuterà a rimuovere questi ostacoli e cercheremo di ridarle una vita in cui potrà vedere la possibilità di realizzare questi desideri”. Il mio modo di dire: “Lo mettiamo a posto”. Non gli prometto che realizzeranno quei desideri naturalmente, solo li guido nell’immaginare che davanti a loro ci sia una strada rischiarata da una luce.

Ne ho fatta una pratica di vita, un fondamento della cura. Cerco di insegnarla ai miei allievi. Io so da chi l’ho appreso.

Gli effetti a lungo termine dell’anestesia sui bambini

Secondo uno studio dell’ American Society of Anesthesiologists (ASA), l’anestesia sui bambini (dalla nascita all’età di 2 anni) non influisce sui risultati nei test di sviluppo.

Mariagrazia Zaccaria

 

Secondo lo studio i bambini che dalla nascita all’età di 2 anni sono esposti ad anestesia generale hanno nei test di sviluppo, gli stessi risultati dei bambini che non sono stati esposti ad anestesia generale.

Lo studio infatti fornisce delle rassicurazioni per quanto riguarda l’assenza di effetti a lungo termine sulla crescita neurologica, nei bambini esposti ad anestesia generale. Ogni anno sono milioni le procedure di anestesia sui bambini effettuate per sottoporli ad interventi chirurgici.

 

Anestesia sui bambini: lo studio dell’American Society of Anesthesiologists

E’stato notato che se il cervello in via di sviluppo degli animali è sottoposto ad anestetici è possibile registrare delle anomalie riguardanti l’apprendimento e la memoria. L’effetto nei bambini però non è chiaro, certo è che una singola esposizione non causa nessun danno, sono le esposizioni multiple che sono associate ad un aumento di rischio di deficit neurologico.

Nello studio sono stati confrontati i test di più di 4000 bambini esposti ad anestesia prima dei 4 anni, con i test di circa 3000 bambini che non hanno subito esposizioni ad anestesia.

I ricercatori hanno scoperto che i bambini con una età compresa dai 0 ai 2 anni che erano stati esposti ad anestesia singola o multiple non presentavano nessuna significativa differenza con chi non aveva subito anestesia. Mentre, i bambini che avevano subito una sola, esposizione anestetica dai 2 ai 4 anni, mostrano dei lievi deficit nei test di lingua e cognizione rispetto a chi non subiva anestesia.

Questo dato evidenzia come, se effettuata tra i 2 e i 4 anni (fascia d’età più sensibile), l’anestesia sui bambini porterebbe allo sviluppo di danni neurologici.

Ruth Graham, autore principale di questo studio, sostiene:

Questi risultati suggeriscono che le preoccupazioni che emergono dagli studi su animali, non possono essere applicate automaticamente sui bambini. Anche se sono necessarie ulteriori ricerche per verificare i fattori specifici che provocano i deficit che sono stati riscontrati nei bambini tra i 2 e i 4 anni, questo studio ci fa capire che sottoporre i bambini molto piccoli ad anestesia generale non significa che questi svilupperanno dei deficit neurologici.

 

 

Falsi ricordi: quando la memoria crea ricordi di informazioni mai ricevute

I falsi ricordi nascono come effetto collaterale dei meccanismi di base con cui si formano i veri ricordi. In breve, più una persona sa di un certo argomento, più ricordi relativi vengono immagazzinati in memoria. Quando si incontrano nuove informazioni su questo argomento, si possono innescare tracce di memoria simili a quelle già immagazzinate Ciò può comportare un senso di familiarità o di riconoscimento del nuovo materiale, che porta alla convinzione che l’informazione sia stata rilevata in precedenza e sia in effetti una memoria esistente.

 

Come funziona la mente umana e la creazione di falsi ricordi

La memoria umana non funziona come una videocassetta il cui nastro può essere riavvolto e rivisto, consentendo ad ogni visione di rivivere gli eventi sempre nello stesso ordine. Al contrario, i ricordi sono soggetti ad una ricostruzione continua ogni qualvolta vengono richiamati in memoria, cosicché diversi elementi della traccia mnemonica possono essere modificati, aggiunti o eliminati dopo ogni nuova rievocazione.

Questa forma di elaborazione è alla base dei “falsi ricordi” ossia quel fenomeno per cui una persona possiede chiari ed evidenti ricordi di un evento che, tuttavia, non ha mai sperimentato. Un ricordo non autentico, che può essere totalmente inventato, derivare da altri ricordi reali parzialmente alterati o essere frutto dell’aggregazione di vari frammenti di memorie distinte che vengono ricombinati insieme. Il fenomeno dei falsi ricordi è molto comune e ci sono alcuni fattori che possono aumentarne la frequenza. Un recente studio condotto da Anthony O’Connell e Ciara M. Greene, pubblicato su Memory, ha dimostrato che il forte interesse verso un particolare argomento può raddoppiare le probabilità di sperimentare un falso ricordo.

Precedenti ricerche avevano già evidenziato che gli esperti di alcuni settori come ad esempio gli investimenti o il football americano, potrebbero sperimentare più facilmente falsi ricordi sulle loro aree di competenza. Le motivazioni suggerite sono molteplici. Alcuni ricercatori hanno suggerito che l’ampia conoscenza di un argomento aumenta le probabilità che una persona riconosca correttamente nuove informazioni simili alle informazioni precedentemente sperimentate. Un’altra interpretazione suggerisce che gli esperti ritengono di dover sapere tutto sul loro argomento di competenza, pertanto il loro senso di responsabilità per i giudizi espressi in qualità di esperti li indurrebbe a “colmare le (eventuali) lacune” nella loro conoscenza con plausibili, ma false informazioni.

 

Lo studio

Per approfondire ulteriormente questa spiegazione, gli autori dello studio hanno chiesto a 489 partecipanti di ordinare sette argomenti (calcio, politica, economia, tecnologia, cinema, scienza e musica pop) dal più interessante al meno interessante. Ai partecipanti è stato poi chiesto se ricordavano gli eventi descritti da quattro notizie relative all’argomento selezionato come più interessante e gli eventi descritti da quattro notizie relative all’argomento indicato come meno interessante. In entrambi i casi, tre degli eventi riportati dalle notizie erano realmente accaduti, mentre uno era frutto di invenzione.

I risultati ottenuti hanno mostrato che l’interesse per un argomento aumenta la frequenza di ricordi precisi. Tuttavia, aumenta anche il numero di falsi ricordi (il 25% dei partecipanti ha sperimentato un falso ricordo in relazione ad un argomento interessante, rispetto al 10% di errori commessi nell’argomento meno interessante). È importante sottolineare che ai partecipanti non è stato chiesto né di identificarsi come esperti né di scegliere a quali argomenti rispondere; è pertanto improbabile che l’aumento di falsi ricordi sia dovuto al senso di responsabilità per i giudizi espressi su un argomento specialistico.

 

Discussione dei risultati

L’interpretazione fornita dagli autori supporta la teoria secondo cui i falsi ricordi nascono come effetto collaterale dei meccanismi di base con cui si formano i veri ricordi. In breve, più una persona sa di un certo argomento, più ricordi relativi vengono immagazzinati in memoria. Quando si incontrano nuove informazioni su questo argomento, si possono innescare tracce di memoria simili a quelle già immagazzinate Ciò può comportare un senso di familiarità o di riconoscimento del nuovo materiale, che porta alla convinzione che l’informazione sia stata rilevata in precedenza e sia in effetti una memoria esistente.

Ecco un esempio: immaginate di essere molto interessati agli orsi polari: leggete riviste di natura e guardate documentari naturalistici. Un giorno, un amico vi racconta un articolo che ha letto l’anno scorso che descriveva un orso polare impigliato nella rete da pesca di un peschereccio. Nonostante non abbiate mai sentito questa storia, si innescano in voi ricordi associati riguardanti l’estinzione degli orsi polari e preoccupazioni per la pesca a strascico nell’Artide (tecnica di pesca in cui una rete viene trainata attivamente sul fondo del mare). La storia suona familiare a tal punto da convincervi che, in effetti, a quel tempo avevate davvero sentito parlare della notizia: più informazioni si hanno sul tema, più alta sarà la probabilità che le nuove informazioni attivino i vecchi ricordi associati.

La ricerca ha importanti implicazioni sul modo in cui tradizionalmente pensiamo la memoria. La maggior parte delle persone sono abbastanza fiduciose nelle capacità della propria memoria, ma incappano in falsi ricordi con più frequenza di quanto si rendano conto. Nonostante ciò che sarebbe logico credere, i risultati di questo studio suggeriscono che sebbene l’interesse per un argomento aumenti la consapevolezza a riguardo, i ricordi che ne derivano non sempre sono affidabili.

De Chirico: le fasi pittoriche e l’influenza dell’aura emicranica

Le scelte estetiche di De Chirico, durante l’intero arco dell’attività artistica, non furono libere, ma determinate da una malattia che il pittore non sapeva di avere; in altre parole il fattore estetico dechirichiano va analizzato tenendo conto di una base neurologica: l’artista, infatti, soffriva di aura emicranica, una malattia che non gli fu mai diagnosticata. L’aura emicranica si manifesta con algie gastriche e dolori addominali, visioni ed allucinazioni.

 

Giorgio De Chirico: la biografia e le fasi pittoriche

Giorgio De Chirico (1888-1978), uno dei principali esponenti della corrente artistica della pittura metafisica, era un uomo dal carattere difficile: era sovente malinconico e scontroso, inoltre era oltremodo egocentrico e talmente vanitoso da considerarsi il più grande pittore di tutti i tempi e firmare molte delle sue opere come “Pictor Optimus”.

L’opera pittorica di De Chirico si svolge nell’arco di circa settant’anni, a partire dal 1909 e fino quasi alla sua morte ed attraversa diverse fasi, che vengono scandite da alcuni eventi della vita del pittore: dalla relazione con la madre e il fratello Savinio, dall’incontro con le opere di Nietzsche e Schopenhauer, dalle relazioni sentimentali con Raissa ed Isabella.

Il ciclo pittorico della Metafisica (1909-1918) è ritenuto universalmente quello migliore quanto ad espressione artistica e può considerarsi il prodotto finale dell’ elaborazione del lutto paterno, della collaborazione invidiosa con il fratello Alberto e della lettura di Nietzsche.

La seconda fase pittorica di De Chirico – definita “neoclassica”- ha inizio intorno al 1920: appartengono a questo periodo, per esempio, il “ciclo dei Gladiatori” (1926-1929), che è la manifestazione artistica della conflittualità con il fratello Savinio, anch’egli pittore e i “Mobili nella Valle”(1926-1929), che richiamano gli stressanti spostamenti di residenza decisi dalla madre per inseguire il successo musicale del figlio Alberto.

Giorgio De Chirico era ossessionato dai traslochi, dal continuo spostarsi e quindi dalla mancanza di una casa come punto di riferimento solido e sicuro ed era ossessionato anche dal ricordo infantile di mobili e materassi portati all’esterno delle abitazioni, nella piazza, a causa di una serie di terremoti che sconvolsero la Grecia, mentre Giorgio viveva, da bambino, in quella terra con la famiglia.

Ecco come lui stesso ricorda quegli episodi: [blockquote style=”1″]Gli abitanti del quartiere, compresi noi, portavano i materassi fuori, in piazza, per dormire all’aperto. Anche in quell’occasione il cuoco Nicola si prodigò in mille modi; portava fuori materassi, valigie e perfino alcuni mobili e la mattina riportava tutto in casa; inoltre si occupava di me e di mio fratello come una vera bambinaia[/blockquote] (Memorie della mia vita, 1945).

La terza fase pittorica di De Chirico, infine, (il cosiddetto periodo neometafisico) ha inizio nel secondo dopoguerra e durerà fin quasi alla morte dell’artista ed è un vero e proprio ritorno alla tradizione. In questo periodo, infatti, il pittore si rende conto che la critica ed il pubblico apprezzano maggiormente le sue opere iniziali e che sono proprio queste ad essere maggiormente valutate da un punto di vista economico. In questo periodo De Chirico, oltre a riprodurre moltissime versioni delle primissime opere, comincia a falsificare la data di produzione degli ultimi dipinti: retrodata, cioè, l’opera con la speranza che ottenga una maggiore valutazione economica, ma anche per prendersi gioco di quei critici d’arte che, a suo avviso, non erano in grado di apprezzare i suoi ultimi lavori.

 

L’influenza dell’aura emicranica sulle scelte estetiche di De Chirico

Le scelte estetiche di De Chirico, durante l’intero arco dell’attività artistica, non furono libere, ma determinate da una malattia che il pittore non sapeva di avere; in altre parole il fattore estetico dechirichiano va analizzato tenendo conto di una base neurologica: l’artista, infatti, soffriva di aura emicranica, una malattia che non gli fu mai diagnosticata. L’aura emicranica si manifesta con algie gastriche e dolori addominali, visioni ed allucinazioni.

Quella di cui soffriva De Chirico era un’emicrania aura particolare, che prende il nome di “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie”, un disturbo neurologico che interessa la sfera percettiva, portando l’individuo a percepire in modo irreale le dimensioni di alcune parti del suo corpo e degli oggetti esterni: proprio come Alice nel romanzo di Lewis Carroll, ci si ritrova di fronte a stati di accrescimento o di riduzione del proprio corpo o di ciò che ci circonda, sicchè chi soffre di questo disturbo subisce una forte distorsione della realtà, con conseguente disorientamento e deformazione dei sensi. Così come fu descritta da Todd nel 1955, la AIWS (Alice in Wonderland Syndrome) denota una serie di disturbi parossistici dello schema corporeo (sintomi essenziali dell’AIWS), che possono essere correlati a fenomeni di depersonalizzazione, illusioni visive ed alterazioni nella percezione del tempo (sintomi accessori dell’AIWS).

Giorgio De Chrico non sapeva di essere affetto dalla “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie”, anche se, in “Memorie della mia vita, scrive di essere affetto da dolori addominali e crisi gastrointestinali e parla di “coliche saturnine”, facendo riferimento alla teoria rinascimentale secondo cui i geni nascono sotto il segno di Saturno. Inoltre, in un breve scritto dedicato a Carlo Carrà, De Chirico racconta l’esperienza della cefalea attraverso un “sogno lucido”: “Dormo. Porto l’elmo del palombaro. Il pulsare del mio cervello si spacca in tante bollicine sulla piattaforma laccata del mio settimo soffitto”.

I sintomi che influenzarono profondamente (anche se inconsapevolmente) l’arte di De Chirico furono le aure visive ed i disturbi di coscienza determinati da “deja vu” (già visto), “deja vecu” (già vissuto) e “jamais vu” (mai visto), ovvero un’alterazione dello stato di coscienza che conduce ad un’erronea percezione della realtà, come se l’individuo avesse già visto o vissuto una situazione per lui nuova o, viceversa, mai visto una situazione a lui nota. De Chirico, pur non conoscendo il significato clinico di tali fenomeni, percepì comunque la loro importanza nella genesi della propria arte e definì “rivelazioni” le alterazioni di coscienza e “febbri spirituali” le manifestazioni auratiche. L’artista, non essendo a conoscenza della propria malattia e non essendo neppure uomo di fede, attribuì a tali manifestazioni un carattere gioioso, creativo e raro e considerò i sintomi della malattia come sogni premonitori, attribuendosi delle facoltà superiori di chiaroveggenza, ciò anche in relazione all’influenza esercitata su di lui da Nietzsche e dall’idea di Übermensch, ovvero l’Oltreuomo (o Superuomo, in una traduzione più diffusa ma forse meno precisa ed efficace).

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio: strategie di intervento

Il disturbo oppositivo provocatorio (DOP) è un disturbo del comportamento che si manifesta in bambini di età scolare o prescolare ed è caratterizzato da umore collerico e irritabile e da comportamenti vendicativi e oppositivi,  che si verificano in modo frequente per un periodo di almeno sei mesi.

Alessandra Ascenzi , Francesca Damen – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Che cos’è il Disturbo oppositivo provocatorio

I criteri diagnostici specificano inoltre che la sintomatologia deve manifestarsi tutti i giorni per almeno sei mesi per bambini al di sotto dei 5 anni e almeno una vota a settimana nei casi di esordio oltre i 5 anni (APA, 2014).

Il bambino affetto da disturbo oppositivo provocatorio litiga spesso con adulti e coetanei, si rifiuta di rispettare le richieste e le regole, spesso ride se sgridato, irrita deliberatamente gli altri e li accusa dei proprio errori. Questa modalità di comportamento compromette significativamente il funzionamento sia a casa che a scuola, interferendo negativamente nel rapporto con insegnanti e genitori, nonché nella relazione con i coetanei. A seconda della gravità questo disturbo può colpire uno solo o tutti gli ambiti indicati (APA, 2014).

Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare l’eziologia del disturbo oppositivo provocatorio; alcune di esse fanno rifermenti a fattori di rischio di tipo temperamentale, come un’elevata reattività emozionale, una scarsa tolleranza alla frustrazione o tratti di iperattività (Bates, Bayles, Bennett, Ridge, & Brown, 1991).

Altre ipotesi attribuiscono invece una rilevanza maggiore ad aspetti di natura ambientale, quali pratiche educative troppo rigide e incoerenti (Bearss& Eyberg & Hoza, 2002), una instabilità familiare o l’esposizione a cambiamenti particolarmente stressanti (Cambpbell, 1998) nonché trascuratezza o abusi.

In particolare, si ritiene che un’educazione troppo rigida possa instaurare un circolo vizioso in cui viene posta maggiore attenzione agli aspetti comportamentali problematici del bambino. In questo modo il bambino stesso fa sua l’immagine del bambino “cattivo” e ciò lo porta, per effetto paradosso, a reiterare maggiormente i comportamenti indesiderati. D’altro canto il mancato rinforzo di azioni positive rischia di farle passare in secondo piano così che il bambino si senta meno incoraggiato a metterle in atto (Farrugia et al, 2008).

Inoltre, se all’interno della famiglia sono presenti dinamiche aggressive come violenti litigi o addirittura percosse, è possibile che il bambino assuma il modello appreso dalle figure di riferimento e lo riproponga anche in altri contesti come quello dei pari.

Il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente si presenta in comorbidità con altre psicopatologie dell’età evolutiva. E’ stato evidenziato, in particolare come si manifesti spesso in associazione al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Loeber & Keenan, 1994).

Rispetto alla prognosi, se sviluppato durante l’infanzia il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente esita in un disturbo della condotta, sopratutto se i sintomi predominanti sono quelli relativi alla provocatorietà e la vendicatività. Tuttavia non tutti i bambini con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio sviluppano successivamente un disturbo della condotta (APA,2014).

Per i soggetti caratterizza da una predominanza dei sintomi legati alla collera e all’irritabilità è maggiormente probabile l’emergere di un disturbo emotivo.

In generale i bambini con disturbo oppositivo provocatorio sono maggiormente esposti al rischio da adulti di sviluppare di problemi nel controllo degli impulsi, abuso di sostanze, ansia e depressione (Hanish, Tolan,& Guerra 1996). Tale rischio rende fondamentale intervenire, a seguito della diagnosi, con un trattamento precoce e specifico.

 

Trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Si riportano diverse tipologie di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che coinvolgono sia il bambino che la coppia genitoriale. Generalmente si predilige la combinazione di interventi che in letteratura hanno mostrato maggiore efficacia, ovvero quelli focalizzati sul fornire strategie educative più adeguate ai genitori, sul potenziare le competenze relazionali del bambino, le sue capacità di problem solving e di gestione della rabbia.

Inoltre nei casi di maggior compromissione può essere valutato il ricorso anche a una terapia farmacologica.

Frequentemente la tipologia di trattamento si differenzia sulla base della fascia di età dei soggetti coinvolti. Per i bambini in età prescolare l’intervento spesso si concentra solo su una psico-educazione rivolta ai genitori; per l’età scolare invece risulta maggiormente efficace un lavoro che coinvolga la scuola oltre che un intervento di psico-educazione genitoriale ed una terapia individuale con il bambino. Infine per gli adolescenti la modalità più efficace di trattamento risulta quella della terapia individuale associata ad un parent training (AACAP, 2009).

In tutte  le fascia di età, l’intervento individuale basato sul potenziamento delle competenze di problem solving si è dimostrato ampiamente efficace nel migliorare il comportamento di bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio (AACAP, 2009).

 

Parent-management training

L’intervento rivolto ai genitori produce risultati significativi nella riduzione dei comportamenti sintomatologici del disturbo oppositivo provocatorio in tutti i gruppi d’età. Il parent-management training insegna ai genitori in modo pratico a fronteggiare i comportamenti del proprio figlio in modo positivo e prevede tecniche disciplinari e una supervisione adatta all’età del bambino. Questa modalità di trattamento di fonda sui seguenti principi (ACCAP, 2009):

  • Incrementare positivamente il parenting attraverso una supervisione supportiva e coerente;
  • Favorire l’instaurarsi di una disciplina autorevole;
  • Diminuire le pratiche parentali inefficaci, come l’uso di punizioni dure o che si focalizzano sui comportamenti negativi;
  • Favorire la capacità di attuare punizioni adeguate dei comportamenti oppositivi/distruttivi;

Il Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA) del US Health and Human Services (US-HHS) ha segnalato come efficaci diverse tipologie di parent training:

  • Incredible years (per bambini fino agli 8 anni)
  • Triple P Positive Parent Trainig (per ragazzi fino ai 13 anni)
  • Parent-Child Interaction Therapy (PCIT) (per bambini fino agli 8 anni)
  • Center for Collaborative Problem Solving (per ragazzi fino ai 18 anni)
  • The Adolescent Transitions Program (ATP) (per ragazzi dagli 11 ai 13 anni)

Tra questi, la parent child interaction therapy (PCIT) presenta una caratteristica particolare in quanto, a differenza di altri percorsi di psicoeducazione, prevede il coinvolgimento non solo della coppia genitoriale ma anche del bambino.

Il  PCIT è stato pensato per bambini dai 2 agli 8 anni, con un ampio raggio di comportamenti ed emozioni problematiche in concomitanza a difficoltà familiari, diviso in due fasi precise: la Child-Directed Interaction (CDI) e la Parent-Directed Interaction (PDI).  La prima fase si concentra sul bambino e sul potenziamento dell’attaccamento sicuro genitore-figlio, la seconda sottolinea l’importanza di un uso coerente della disciplina e delle direttive impartite dal genitore.

I fondamenti teorici del CDI si ritrovano nella teoria dell’attaccamento e nel principio secondo il quale negli anni prescolari il bambino è più suscettibile alle risposte date dal genitore piuttosto che a quelle fornite dai pari o dalle figure di riferimento scolastiche e ciò influenza in modo determinante le sue risposte comportamentali (Eyberg, Schumann, & Rey, 1998). Si ritiene inoltre che i comportamenti problematici siano mantenuti da uno stile relazionale coercitivo che si instaura nella diade genitore-figlio, in cui entrambe le parti cercano di sovrastare e controllare il comportamento dell’altro (Patterson, DeBaryshe, & Ramsey, 1989).

Lo scopo del trattamento è quello di ridurre i comportamenti problematici attraverso l’insegnamento di nuove modalità di rinforzo positivo che il genitore potrà attuare con il figlio, così da aumentare il senso di efficacia di quest’ultimo. L’ acquisizione di queste tecniche avviene in un setting in cui il terapeuta guida attivamente il caregiver. In questo modo l’adulto riceve un feedback immediato sull’efficacia dei rinforzi appresi e sarà poi in grado di ripeterli autonomamente anche all’interno del contesto domestico.

Sono previste sessioni settimanali di un’ora, per un trattamento medio di circa 14 incontri (con un minimo di 10 e un massimo di circa 20 sedute), tuttavia i genitori proseguono l’intervento fino a quando non mostrano di aver imparato a padroneggiare adeguatamente il metodo.

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto al bambino sono:

  • Costruire una relazione genitore-figlio basata su strategie positive di attenzione;
  • Abbassare il livello di frustrazione e rabbia del bambino;
  • Aiutare il bambino a sentirsi al sicuro e calmo nella relazione col caregiver;
  • Accrescere l’autostima del bambino e le sue competenze nel gioco (Hood & Eyberg, 2003).

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto all’adulto sono:

  • Insegnare al genitore tecniche specifiche che possano aiutare il bambino ad ascoltare le istruzioni e a seguire le consegne;
  • Aiutare i genitori a sviluppare maggior confidenza nella gestione dei comportamenti del figlio sia a casa che in pubblico;
  • Insegnare al genitore a comunicare con un bambino con attenzione relativamente breve;
  • Educare il genitore a insegnare nuove competenze al proprio figlio senza che questo causi frustrazione in entrambi (Hood & Eyberg, 2003).

Nella pratica questa terapia viene condotta in un setting che prevede due stanze connesse l’una con l’altra attraverso uno specchio unidirezionale cosicché il terapeuta possa coadiuvare l’interazione della diade senza interferirvi.

Per entrambe le fasi CDI e PDI sono previsti momenti di psicoeducazione dove vengono spiegati i fondamenti teorici alla base delle nuove abilità relazionali che verranno insegnate ai genitori, a ciò si alternano modeling e role-playing.

Nel corso della CDI  si incrementa la capacità dell’adulto di dare attenzione positiva e di rinforzo ai comportamenti positivi del figlio riservando minor peso a quelli negativi.

Vengono fornite delle indicazioni su frasi di lode che il genitore può usare per rinforzare  i comportamenti desiderabili, contemporaneamente viene spiegato come parafrasare e mettere in parola il linguaggio del bambino, così che esso riesca ad esprimere attraverso il canale verbale le sue emozioni e trovare quindi sfogo anche attraverso le parole e non solo agendo azioni distruttive. (Herschell et al., 2002)

Al fine di non focalizzare troppo l’attenzione sui comportamenti negativi viene consigliato di evitare comandi eccessivamente fermi, domande o critiche che possano essere vissute come troppo intrusive.

In seguito alla prima sessione terapeuta e genitore comunicano attraverso un set wireless dove il terapeuta è fornito di microfono e il genitore di un auricolare, è così possibile una comunicazione attiva dove il terapeuta consiglia passo dopo passo le tecniche specifiche.

I primi cinque minuti di ogni sessione vengono registrati per controllare l’andamento dell’apprendimento, riportando ogni abilità specifica in un grafico che serve da immediato feedback. Sono inoltre previsti degli homework che consistono in 5 minuti al giorno di interazione bambino-genitore nei quali quest’ultimo possa mettere in pratica le competenze apprese in seduta (Chaffin, Funderburk, Bard, Valle & Gurwitch, 2011).

La parent child interaction therapy offre la possibilità di partecipare a sessioni di gruppo (90 minuti) nelle quali sono presenti 3 o 4 famiglie e in cui si lavora per circa 20 minuti con ogni diade mentre il resto dei genitori osservano e forniscono a loro volta feedback.

L’efficacia della PCIT è stata provata statisticamente e clinicamente da un significativo miglioramento delle tecniche interazionali dei genitori e dei comportamenti dei bambini sia a scuola che a casa (Eisenstadt, Eyberg, McNIel, Newcomb, & Funderburk,1993), i genitori inoltre riportano maggiore fiducia nelle loro capacità di far fronte ai comportamenti aggressivi dei figli, alla frustrazione e al distress di entrambi.

Cognitive Problem-Solving Skills Training (CPSST) per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Il Cognitive problem-solving skills training (CPSST) è una modalità di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che si inserisce nell’ambito dell’approccio cognitivo – comportamentale.

L’intervento si pone lo scopo di ridurre i comportamenti inappropriati e dirompenti attraverso l’insegnamento di nuovi metodi per far fronte a situazioni fortemente attivanti per il bambino.

Il presupposto teorico alla base consiste nel ritenere che le persone con disturbi della condotta e aggressività presentino delle distorsioni nei processi cognitivi e per tale motivo vengono offerte un’ampia gamma di alternative cognitive che possano di conseguenza generare soluzioni alternative ai problemi interpersonali, esercitando i ragazzi a soffermarsi sulle conseguenze delle proprie azioni, identificando il significato dei propri e altrui gesti e la percezione di cosa possono provare gli altri (Kazdin, 1997). L’approccio cognitivo pone l’attenzione sul modo in cui l’individuo percepisce, decodifica e fa esperienza del mondo. L’aggressività non è di per sé dettata dagli eventi, ma piuttosto dal modo in cui vengono percepiti e processati, attribuendo ostilità intenzionale negli altri (Crick & Dodge, 1994). Il bambino è spinto ad esplorare nuove possibilità, sino a quel momento mai prese in considerazione, che non prevedono l’uso di risposte negative, facendole diventare parte integrante delle sue possibilità di azione.

Spesso il bambino con disturbo oppositivo provocatorio presenta infatti una gamma ristretta di risposte agli stimoli del mondo esterno, motivo per cui persevera nell’uso di quelle negative. Usando sia tecniche cognitive che comportamentali e focalizzando l’attenzione sul bambino più che sulla coppia genitoriale o sulla triade, la CPSST aiuta i ragazzi ad accrescere il loro autocontrollo su pensieri, azioni ed emozioni ed a interagire in modo appropriato con coetanei ed adulti esplorando nuove prospettive e soluzioni. Le nuove tecniche di problem solving intervengono nel mettere in discussione i pensieri disfunzionali e di conseguenza modificano i comportamenti (Kazdin, 1996).

Seppure esistano diverse variazioni di questo metodo, assunti costanti sono l’approccio step-by-step per far fronte ai problemi interpersonali, volto a porre l’attenzione su determinati aspetti del prblema che portano alla definizione di una effettiva soluzione. Le nuove soluzioni prosociali adottate (modeling e rinforzo diretto) sono parte integrante della terapia. E’ previsto l’uso di giochi, attività e storie al fine di metabolizzare e far proprie le nuove capacità apprese (Kazdin, 1997).

Durante il trattamento il bambino viene visto settimanalmente per circa un’ora per un periodo che varia da qualche mese a un anno. La parte cognitiva del progetto consiste nel cambiare la sua visione fallace e ristretta della quotidianità, confrontando le interpretazioni irrazionali relative al comportamento degli altri, disputando gli assunti disfunzionali che sottostanno ai comportamenti problematici ed elaborando insieme al terapeuta soluzioni alternative. Partendo da un esempio puntuale (come una sospensione per aver attaccato fisicamente un compagno) il terapeuta analizza l’accaduto col ragazzo indagando pensieri ed emozioni provate in quel contesto. Ripercorrendo un singolo accaduto si focalizza l’attenzione sul ruolo attivo che ha avuto il ragazzo nell’interazione (in questo caso con il compagno), così da migliorare il suo insight. La riflessione viene quindi indirizzata verso l’interno e non più verso i fattori esterni. Attribuendo importanza al proprio contributo nella relazione, si investe il bambino di un nuovo valore, inoltre è di fondamentale importanza scardinare l’immagine rigida e globale che il ragazzo ha di sé come “cattivo” (Kazdin, 1996).

Gli aspetti comportamentali invece interessano il modeling di nuove condotte positive, il role-playing e l’utilizzo di ricompense per le nuove condotte apprese. Vengono valutate insieme una gamma di possibilità alternative di reagire agli stimoli attivanti attraverso un brainstorming fra ragazzo e terapeuta, stabilendo insieme ogni passo in direzione dell’obiettivo stabilito.

Al bambino vengono inoltre assegnati degli homework volti a implementare i nuovi modi di pensare e di agire elaborati in seduta, egli dovrà metterli in pratica a casa, a scuola e con il gruppo dei pari. Può venir data consegna di appuntarsi per alcuni giorni i pensieri negativi che possono accorrere. Il terapeuta può chiedere al bambino di fare un esperimento: provare a mettere in atto uno dei pensieri e comportamenti alternativi visti insieme e comparare i risultati dati dalla loro applicazione. Il bambino verrà premiato nella seduta seguente con lodi, abbracci, o punti guadagnati che lo avvicinano ad una ricompensa prestabilita (Kazdin, 1997).

 

Social Skills Training per il disturbo oppositivo provocatorio

Un ulteriore intervento per il disturbo oppositivo provocatorio è quello incentrato sul potenziamento delle competenze sociali (Social Skills Training), che insegna dunque al bambino ad interagire in una modalità maggiormente positiva ed adeguata con i pari.

Questa tipologia di intervento risulta particolarmente efficace quando viene condotta in un contesto di vita abituale del bambino, come la scuola o il gruppo di coetanei di riferimento, al fine di ottenere una maggiore generalizzazione degli apprendimenti (AACAP, 2009).

Si tratta di un modello di intervento di derivazione comportamentista il cui fondamento teorico consiste nel ritenere che i bambini possano apprendere ed utilizzare nuove competenze attraverso l’osservazione, l’ascolto e il modellamento. Inoltre si ritiene che l’utilizzo di vari rinforzi può incrementare la frequenza dei comportamenti desiderati (Smith, 1996).

Il ricorso a programmi di apprendimento delle abilità sociali si basa sull’evidenza che spesso la sintomatologia del disturbo oppositivo provocatorio interferisce significativamente con il funzionamento sociale in quanto molti bambini e adolescenti con tale patologia mostrano specifiche difficoltà nel riconoscimento e nella valutazione degli indizi sociali (Tasman et al, 2015). In particolare tendono ad interpretare in una modalità distorta, tipicamente come minaccia, gli eventi e l’ambiente circostante (Hendren, 1999).

Un intervento di Social Skills Training si pone pertanto come obiettivo quello di potenziare la flessibilità, le competenze relazionali e la tolleranza alla frustrazione per aiutare bambini e adolescenti a ridurre i comportamenti problematici derivanti da una incapacità di gestione della rabbia e a contenere il loro approccio di sfida alle regole (AACAP, 2009).

Tale obiettivo viene perseguito ricorrendo all’utilizzo di quattro tecniche principali (Marini, 2015):

  • La dimostrazione dell’uso appropriato delle abilità target. Tali abilità dovranno essere selezionate sulla base di obiettivi adeguati all’età di sviluppo del paziente, al contesto ambientale in cui è inserito e ad una accurata osservazione e raccolta di informazioni su quelli che sono i comportamenti che maggiormente ne compromettono il funzionamento(Smith, 1996);
  • Role-playing del paziente nelle situazione interpersonali;
  • Interventi di feedback correttivo;
  • Rinforzo.

Un particolare esempio di training delle abilità sociali impiegato nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio è il Training Sostitutivo dell’Aggressività – Aggression Replacement Training ART (Goldstein, Glick & Rainer 1987) , che integra strategie intente a promuovere l’uso positivo delle competenze sociali, la gestione della rabbia e il ragionamento morale, al posto di alternative comportamentali oppositive o aggressive (Flamez & Sheperis, 2015).

Il metodo ART è un programma strutturato e multi modale che combina l’uso di tecniche di terapia cognitiva e di terapia comportamentale.

Secondo gli autori di tale trattamento, i comportamenti aggressivi si costituiscono di una componente affettiva, una comportamentale ed una cognitiva. Dunque il programma si propone di intervenire su tutti i diversi aspetti coinvolti,  insegnando comportamenti prosociali, che interessano la componente comportamentale, il controllo della rabbia, che riguarda la componente affettiva e il ragionamento morale che fa riferimento alla componente cognitiva (Goldstein et al 1987).

Sviluppando il ragionamento morale si impara ciò che non si deve fare, con le tecniche di autocontrollo si interrompe l’automatismo tra provocazione e aggressività e quindi si impara come riuscire a evitare di fare ciò che non si deve, con l’apprendimento delle abilità sociali si impara con cosa sostituire la propria aggressività (Manin, 2004).

In accordo con il manuale originario (Goldstein, Glick & Rainer 1987) il programma ART si articola in 10 settimane, con 30 ore complessive di intervento svolto in gruppi di 8-12 ragazzi, per tre volte alla settimana.

Nel dettaglio, la componente comportamentale dell’ ART consiste in un training di abilità sociali, volto ad insegnare il comportamento pro-sociale ai soggetti che mancano di tali competenze o mostrano una specifica fragilità su questi aspetti (Kaunitz et al 2010). A livello teorico il metodo è fondato sulla teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1973).

Il manuale fornisce una checklist composta di 50 competenze sociali desiderate per permettere di identificare su quali i soggetti sono carenti e pertanto su quali dovrà essere incentrato l’intervento. Viene comunque garantita una certa flessibilità per poter modificare o sostituire alcune di tali competenze in base alle specifiche caratteristiche dei singoli pazienti (Kaunitz et al 2010).

Le competenze sociali che i ragazzi apprendono attraverso questo specifico training rientrano in una delle 6 categorie che compongono l’intero programma e comprendono (Goldestein, 1994):

  1. Abilità sociali iniziali (ad esempio, iniziare una conversazione, presentare se stessi, fare una complimento).
  2. Abilità sociali avanzate (ad esempio, per chiedere aiuto, scusarsi, dare istruzioni).
  3. Competenze per la gestione delle emozioni (ad esempio, affrontare la rabbia di qualcuno, esprimere affetto,gestire la paura).
  4. Alternative alla aggressività (ad esempio, rispondendo alle prese in giro, la negoziazione,aiutare gli altri).
  5. Competenze per affrontare lo stress (ad esempio la preparazione per una conversazione stressante).
  6. Capacità di pianificazione (ad esempio, definizione degli obiettivi, il processo decisionale).

La componente del programma relativa alla gestione della rabbia ha invece i suoi fondamenti teorici  nei primi lavori sul controllo dell’aggressività di  Novaco (1975) and Meichenbaum (1977).

Si tratta di un programma costituito da più fasi sequenziali. I soggetti vengono prima aiutati a comprendere come in genere tendano a percepire ed interpretare il comportamento degli altri in una modalità che suscita rabbia. Dunque il lavoro si concentra inizialmente sulla capacità di identificare i trigger interni ed esterni che innescano le reazioni aggressive.

Si lavora poi sul riconoscimento degli indizi fisici (ad esempio la contrattura dei muscoli) che permettono al bambino/ragazzo di comprendere che l’emozione che sta sperimentando è quella della rabbia. Successivamente viene introdotto l’uso di promemoria come le auto-indicazioni (ad esempio “stai calmo”) o la spiegazione del comportamento degli altri in modo non ostile insieme all’introduzione di tecniche volte alla riduzione della rabbia, come la respirazione profonda, il conteggio all’indietro, l’immaginazione di una scena pacifica o delle conseguenze del proprio comportamento, tecniche di cui il terapeuta mostra il corretto utilizzo (Kaunitz et al 2010).

Infine si insegna ai pazienti la tecnica dell’autovalutazione, ovvero a lodare o premiare se stessi in tutti quei casi in cui si è riusciti a mettere in atto un’adeguata gestione della rabbia (Goldestein, 1994).

Infine la terza componente del programma ART, il training sul ragionamento morale, si fonda sul modello teorico di Kohlberg (1973) di sviluppo della morale.

Lo scopo è quello di incrementare il ragionamento morale per rendere l’individuo in grado di prendere decisioni più adeguate in situazioni sociali.  Tale scopo viene perseguito attraverso discussioni di gruppo su dilemmi di natura morale. Concretamente il conduttore del gruppo presenta dilemmi in cui i soggetti possono scegliere tra diverse alternative di comportamento motivando la propria scelta. Il manuale fornisce dieci situazioni strutturate in modo da offrire ai partecipanti del gruppo la possibilità di considerare il punto di vista degli altri (Kaunitz et al 2010).

 

Trattamento farmacologico per il disturbo oppositivo provocatorio

E’ possibile intervenire nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio anche attraverso il ricorso alla terapia farmacologica. Va tuttavia sottolineato come ad oggi non esistono specifici farmaci per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio e il solo utilizzo del farmaco non è stato dimostrato efficacie come modalità di intervento per questa patologia (AACAP, 2009).

I farmaci possono essere utilizzati come parte di un trattamento più ampio ed integrato, sopratutto nei casi in cui sono presenti altri disturbi in comorbidità (Connor, 2002; Pappadopulos et al., 2003, Schur et al., 2003, Steiner et al., 2003) come il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD), disturbi d’ansia o disturbi dell’umore.

I farmaci principalmente utilizzati sono gli psicostimolanti, gli stabilizzatori dell’umore e gli antidepressivi. I primi, in particolare il Ritalin, vengono utilizzati nei casi di comorbidità tra disturbo oppositivo provocatorio e ADHD e si sono dimostrati efficaci nel ridurre la sintomatologia comportamentale (Connor & Glatt, 2002;Newcorn et al., 2005).

Mentre un numero più limitato di ricerche suggerisce che l’uso di stabilizzatori dell’umore e antidepressivi possa essere d’aiuto nel trattamento di bambini e adolescenti che oltre ad un disturbo oppositivo presentano anche disturbi d’ansia o dell’umore, come il disturbo bipolare o una depressione maggiore (Steiner et al., 2003, Steiner et al., 2003).

Infine nonostante la mancanza di ricerca in merito, gli antipsicotici atipici come ad esempio il Risperidone rappresentano ad oggi il farmaco principalmente prescritto per il trattamento dei comportamenti aggressivi associati al disturbo oppositivo provocatorio.

Tuttavia è importante sottolineare come i comportamenti aggressivi e oppositivi possano in alcuni casi riflettere temporanei cambiamenti ambientali. Utilizzare pertanto farmaci in queste circostante può indurre una erronea attribuzione di efficacia alla terapia farmacologica piuttosto che ad una stabilizzazione del contesto ambientale e dunque può determinare una non necessaria esposizione dei bambini ai possibili effetti collaterali del farmaco (AACAP, 2009).

 

Conclusioni

Diverse sono dunque le possibilità di intervento nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio. L’integrazione di modalità differenti rimane tuttavia l’approccio d’elezione e con una maggiore efficacia riscontrata (ACCAP,2009).

Date le importanti ricadute che la sintomatologia caratteristica del disturbo oppositivo provocatorio può avere nel funzionamento a lungo termine del bambino e dunque in età adulta, rimane fondamentale che l’identificazione e il trattamento del disturbo siano precoci e che si prediligano interventi evidence-based.

Ciascun trattamento proposto, rappresenta una possibilità di intervento che la lettura riporta come efficace per il disturbo oppositivo provocatorio, con o senza altre patologie in comorbidità. Tuttavia l’applicazione di tale protocolli non dovrebbe avvenire in maniera meccanica e acritica ma risulta fondamentale, per la buona riuscita dell’intervento, modulare la procedura rispetto alle caratteristiche e le specifiche peculiarità del bambino e della sua famiglia.

Infine si ricorda che il trattamento farmacologico, pur non essendo considerato d’elezione per il disturbo oppositivo provocatorio, rimane comunque una possibilità da valutare da parte di un neuropsichiatra infantile, nei casi in cui la sintomatologia sia particolarmente grave ed invalidante e/o siano presenti altre patologie associate che compromettono significativamente il funzionamento del bambino.

L’insonnia e le alterazioni cerebrali ad essa associate

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori della Università di Pittsburg School of Medicine, vi sono alcune regioni specifiche del cervello, tra le quali si citano quelle coinvolte nella consapevolezza di sé e la tendenza a rimuginare, che mostrano una attività alterata nei pazienti che soffrono di insonnia.

Mariagrazia Zaccaria

 

Insonnia e alterazione cerebrali: lo studio del prof. Buysse

Daniel Buysse, professore di psichiatria e di scienze cliniche, guida il gruppo di ricerca per quello che è il più grande studio sull’insonnia. Il professore ha individuato le differenze di attività cerebrali che vi sono tra gli stati di sonno e gli stati di veglia in pazienti con diagnosi di insonnia.

Buysse, afferma che:

Mentre i pazienti che soffrono di insonnia spesso vedono i loro sintomi banalizzati da amici, familiari e a volte dai medici stessi, i risultati di questo studio aggiungono una nuova visione sull’insonnia, poiché trattata come una condizione neurobiologica

Lo studio mostra anche che l’attività cerebrale durante il sonno è più sfumata di quanto si pensasse.

I risultati di questo studio possono aiutare a migliorare gli attuali trattamenti che si utilizzano per curare l’insonnia, come la stimolazione magnetica transcranica, e aumentare la comprensione del perché alcuni trattamenti, come la meditazione, in alcuni pazienti è più efficace.

I ricercatori hanno utilizzato scansioni di tomografia ad emissione di positroni (PET), durante le quali ai partecipanti è stato iniettato un tracciante, ovvero una soluzione di molecole di glucosio. Le regioni cerebrali con maggiore attività sono metabolicamente più attive ed evidenti sulle scansioni PET.

I dati delle scansioni hanno rivelato delle differenze di attività relative a regioni specifiche del cervello tra gli stati di sonno e veglia nei pazienti con insonnia. Le differenze possono essere attribuite ad una diminuita attività durante la veglia o all’intensificarsi delle attività di tale regioni durante il sonno.

 

Conclusioni

Secondo gli autori dello studio, alcune disfunzioni in determinate regioni del cervello possono essere correlate a specifici sintomi in pazienti con insonnia, tra cui disturbi di consapevolezza di sé e disturbi dell’umore, deficit della memoria e la ruminazione.

 

 

Cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario: esiste un collegamento?

Un nuovo studio Inglese ha cercato di stabilire un legame tra cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario, individuando, nei soggetti coinvolti nel fenomeno, vittime, bulli e bulli-vittime, la tendenza ad entrare in contatto con contenuti web riguardanti autolesionismo o suidicio.

 

Col termine cyberbullismo vengono generalmente definiti tutti gli atti di tipo offensivo e prevaricatorio perpetrati attraverso l’utilizzo della rete internet. Nell’era della tecnologia il cyberbullismo è una problematica sempre più diffusa e ci sono evidenze scientifiche che lo collegano, al pari del bullismo fisico, a pensieri e comportamenti suicidari, prevalenti nelle vittime (Hinduja  e Patchin, 2010).

 

Cyberbullismo e rischio suicidio: lo studio

Un nuovo studio, condotto dalla Dott.ssa Anke Gorzig (LSE’s Department of Media and Communications) ha portato all’attenzione il legame tra cyberbullismo e alcuni comportamenti disfunzionali, che potrebbero essere predittori di tendenze suicidarie.

In particolare, è stato utilizzato un campione proveniente dallo studio “LSE Kids online”, composto da 25.000 bambini Europei di età compresa tra i 9 e i 16 anni. Il 6% del campione riportava di essere vittima di cyberbullismo, il 2,4% riportava di compiere atti di cyberbullismo e un 1,7% riportava di essere sia vittima che bullo. Di questi soggetti, il 4,1% riportava problemi nella gestione delle emozioni, il 16.8% problemi comportamentali, il 15,8% aveva problemi a relazionarsi con i propri pari.

Per quanto riguarda i comportamenti, è stata presa in considerazione la visione di contenuti web riguardanti autolesionismo o suicidi.

Nell’intero campione il 6,8% dei soggetti riportava la visione di contenuti web di autolesionismo, il 4,3% visionava contenuti web riguardanti il suicidio. Questi soggetti costituivano una bassa percentuale di coloro i quali non erano coinvolti in fenomeni di cyberbullismo. Invece, circa 1/5 dei delle vittime e dei bulli e 1/3 dei soggetti sia bulli che vittime, era in contatto con contenuti web di autolesionismo; inoltre tra le vittime di cyberbullismo e tra coloro che ricoprivano il ruolo sia di vittime che di bulli, era alta la percentuale di bambini che entravano a contatto con contenuti web riguardanti suicidi, mentre questa percentuale rimaneva bassa per i soggetti identificati solo come bulli.

Il trend relativo a chi entrava a contatto con contenuti di autolesionismo era due volte più alto per il gruppo delle vittime e per il gruppo dei bulli, e da tre a quattro volte più alto per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti nel fenomeno; invece il trend relativo a chi entrava in contatto con contenuti di suicidio era da due a tre volte più alto per le vittime e per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti.

 

Conclusioni

Ne è stato concluso che, in generale, i soggetti che presentano tratti sia di vittima che di bullo sono quelli più vulnerabili e potrebbero necessitare di un maggior supporto in presenza di problemi psicologici.

Molti soggetti coinvolti nel fenomeno sarebbero favorevoli ad essere aiutati attraverso risorse web ed una possibile passo verso questa soluzione potrebbe essere quello di creare strumenti d’aiuto utilizzabili tramite piattaforme Internet.

Problemi uditivi? Non è colpa delle orecchie, ma del tuo cervello!

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Maryland ha determinato che avviene qualcosa nel cervello dei più anziani con sospetti problemi uditivi che li induce a sforzarsi per seguire un discorso, distinguendolo dal rumore di fondo, anche quando l’udito non è realmente compromesso.

 

Siete ad un pranzo in famiglia, state dialogando con i membri più anziani ed uno di loro vi dice: “scusa, puoi ripetere?”. Il motivo per cui è necessario ripetere due volte la stessa cosa, potrebbe non dipendere da problemi uditivi del vostro interlocutore, ma da altro.

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Maryland (UMD), composto da membri associati del Brain and Behavior Initiative, ha determinato che avviene qualcosa nel cervello dei più anziani che li induce a sforzarsi per seguire un discorso, distinguendolo dal rumore di fondo, anche quando l’udito non è compromesso.

In uno studio pubblicato dal Journal of Neurophysiology, i ricercatori Samira Anderson, Jonathan Z. Simone e Alessandro Presacco hanno scoperto che le persone di età compresa tra 61 e 73 anni, seppur in assenza di problemi uditivi ma dotate di un udito normale, ottengono prestazioni significativamente peggiori nella comprensione di discorsi in ambienti rumorosi rispetto alle persone di età compresa tra 18 e 30 anni, anch’esse dotate di un udito funzionale.

 

Problemi uditivi o problemi di elaborazione cerebrale?

Attraverso due diversi tipi di scansione dell’attività elettrica cerebrale rilevata durante un compito di ascolto di discorsi, i ricercatori sono stati in grado di osservare ciò che avveniva nel cervello dei partecipanti nel momento in cui veniva chiesto loro ciò che un interlocutore stava dicendo, in due diverse condizioni sperimentali: ambiente tranquillo e ambiente rumoroso. I ricercatori hanno studiato due aree cerebrali distinte: il mesencefalo (l’area “più arcaica” del cervello, posseduta dalla maggior parte degli animali vertebrati), che si occupa dell’elaborazione base di tutti i suoni e la corteccia cerebrale, di cui una parte è specializzata nell’elaborazione dei discorsi.

Nel gruppo di soggetti più giovani, il mesencefalo ha generato un segnale comparabile per entrambe le condizioni del compito. Al contrario, nel gruppo di soggetti più anziani, la qualità della risposta al segnale vocale era deteriorata già nell’ambiente tranquillo e peggiore nell’ambiente rumoroso. I segnali neurali registrati, invece, a livello corticale hanno dimostrato che gli adulti più giovani sono in grado di elaborare un discorso in modo efficace in un tempo relativamente breve. Al contrario, la corteccia uditiva dei soggetti più anziani impiega più tempo a rappresentare la stessa quantità di informazioni.

 

Perché avviene questo?

Parte dei problemi di comprensione sperimentati dalle persone più anziane, in entrambe le condizioni, potrebbe essere legato ad uno squilibrio tra processi cerebrali eccitatori e inibitori dovuti all’età. Questo squilibrio comprometterebbe la capacità del cervello di elaborare correttamente stimoli uditivi e rappresenta la causa principale dell’anormale risposta corticale osservata nello studio. Ha osservato Simon:

Le persone anziane hanno bisogno di più tempo per capire cosa sta dicendo un’altra persona”. Impiegano più risorse e uno sforzo maggiore

Questa erosione della funzione cerebrale sembra essere tipica degli anziani e parte naturale del processo di invecchiamento.

I ricercatori stanno ora esaminando se utilizzando tecniche di training cognitivo sia possibile aiutare gli anziani con sospetti problemi uditivi a migliorare la loro comprensione del parlato.

Anche dei semplici accorgimenti possono aiutare. Dal momento che la possibilità di vedere e sentire la persona che sta parlando aiuta l’elaborazione di un discorso, sarebbe una buona idea guardare direttamente gli anziani mentre si sta parlando con loro, e assicurarsi di avere la loro attenzione, prima di iniziare un discorso.

Il cervello più vecchio semplicemente perde parte del segnale vocale, nonostante le orecchie lo abbiano catturato tutto in modo integro. – ha detto Simon – Quando qualcuno può guardare l’interlocutore, oltre che ascoltarlo, invece, il sistema visivo a volte può compensare quella perdita.

Samira Anderson aggiunge:

Il messaggio principale che vogliamo dare è che i soggetti più anziani, nel nostro studio, hanno un udito normale, come è emerso da una valutazione eseguita con audiogramma, ma hanno difficoltà a comprendere tracce audio acquisite in ambiente rumoroso, perché gli aspetti temporali del segnale vocale non vengono accuratamente codificati. Dal momento che hanno un udito normale, parlare più forte non aiuta. Quindi, se qualcuno sta avendo problemi nella comprensione in un ristorante rumoroso o in una stanza affollata, è più importante parlare con chiarezza in modo normale o al massimo leggermente più lento, piuttosto che aumentare il tono della voce.

 

Come funziona la proteina prionica: due studi coordinati dalla SISSA descrivono la funzione di PrPC

Sono due i nuovi studi coordinati dalla SISSA che svelano dettagli importanti sulla funzione fisiologica della proteina prionica, la forma non patologica del famigerato prione, la proteina degenerata che provoca, fra le altre cose, la “malattia della mucca pazza”.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Gli studi

Secondo le nuove osservazioni la proteina nella sua forma fisiologica svolge un’importante funzione di promozione della crescita dei neuriti, le proiezioni dei neuroni lungo le quali viaggia il segnale nervoso. I due studi si completano idealmente fornendo, uno, pubblicato sul Journal of Cell Science, una visione di insieme e l’altro, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, un focus su un particolare stadio del processo, con una completezza e un dettaglio che finora erano mancati.

È una proteina con due facce diametralmente opposte: tristemente nota nella sua forma “degenerata”, il prione che provoca malattie neurodegenerative gravi e incurabili come la “mucca pazza” nei bovini e la sindrome di Creutzfeldt-Jakob negli esseri umani, nella sua forma fisiologica la proteina prionica (PrPC) svolge invece una funzione vitale per il cervello. La sua azione positiva però fino a oggi non era mai stata definita con chiarezza. Due nuovi studi, entrambi coordinati da Giuseppe Legname, professore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, offrono finalmente una descrizione dettagliata dei meccanismi biochimici con cui questa proteina stimola e guida la crescita dei neuriti, le proiezioni (assoni e dendriti) della membrana del neuroni così importanti per la trasmissione del segnale nervoso.

Il primo, uno studio ampio e strutturato, è stato appena pubblicato sul Journal of Cell Science. [blockquote style=”1″]In questo lavoro, che abbiamo svolto in collaborazione con l’Optical Manipulation Lab (CNR- IOM, Trieste), abbiamo usato una tecnica innovativa che ci ha permesso di osservare da vicino l’interazione fra PrPC e i neuriti in fase di crescita.[/blockquote] La metodologia, sviluppata da Dan Cojoc, ricercatore SISSA/CNR-IOM, prevedeva l’inserzione delle proteine PrPC all’interno di micro vescicole che venivano poi poste con precisione, con delle pinzette ottiche, in vicinanza dei coni di crescita di neuroni ippocampali. I coni di crescita sono porzioni “attive” della membrana del neurone dove si svolge la crescita del neurite. Una volta posizionate, le vescicole venivano “aperte” mediate brevi lampi di luce UV, così che la proteina venisse rilasciata in prossimità del cono di crescita.

[blockquote style=”1″]Con questa tecnica di precisione abbiamo potuto osservare la reazione del cono di crescita a basse concentrazioni di proteina prionica. Negli esperimenti la presenza di PrPC provocava il rapido accrescimento dei neuriti e il posizionamento del cono di crescita in direzione della massima concentrazione di proteina prionica. In fasi successive dello stesso lavoro abbiamo inoltre osservato che PrPC, quando anziché essere libera e disciolta nel mezzo extracellulare è ancorata alla membrana cellulare, funziona come un recettore che si lega ad altre proteine prioniche libere, che possono partecipare a processi biochimici diversi[/blockquote] spiega Legname.

Quando una molecola interagisce selettivamente con molecole a lei identiche, come in questo caso, si parla di interazione “omofilica”. [blockquote style=”1″]In questo studio abbiamo osservato anche che sono proprio queste interazioni omofiliche a guidare il processo di crescita dei neuriti, attraverso l’intervento di particolari molecole, chiamate molecole di adesione delle cellule neurali (NCAM)[/blockquote] continua Legname.

Focus sul legame

Ed è proprio il secondo studio, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, a gettare luce su quest’ultimo passaggio del processo, aggiudicandosi per il suo valore anche la copertina dell’edizione corrente.

[blockquote style=”1″]Insieme al gruppo di Janez Plavec del Centro Risonanza Nucleare Magnetica di Lubiana abbiamo condotto un’analisi strutturale dell’interazione fra PrPC e NCAM[/blockquote] spiega Legname.

[blockquote style=”1″]Abbiamo visto che NCAM si lega in maniera molto stretta con il terminale N della proteina prionica[/blockquote] spiega Gabriele Giachin, ex studente e ricercatore SISSA, attualmente in forza al European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble in Francia, che insieme a Giulia Salzano, dottoranda della SISSA, ha contribuito allo studio. PrPC è infatti costituita da due domini: una parte strettamente impacchettata che per sua natura non interagisce con altre molecole, e una parte non strutturata, libera, il terminale N, che è invece la zona attiva della molecola. [blockquote style=”1″]La nostra osservazione mostra che NCAM promuove la crescita del neurite attraverso il suo legame con PrPC, proprio legandosi alla sua parte non strutturata[/blockquote] continua Giachin.

I due studi si completano, offrendo il primo una visione d’insieme dell’intero processo e il secondo un focus su uno stadio importante, formando insieme un quadro coerente. [blockquote style=”1″]Siamo molto soddisfatti di questo grande lavoro che ha unito competenze e visioni molto diverse, oltre a gruppi di paesi diversi[/blockquote] conclude Legname che spiega anche che questa osservazione non solo amplia la conoscenza sui meccanismi fisiologici di PrPC: [blockquote style=”1″]ora che conosciamo meglio l’azione normale della proteina prionica abbiamo maggiori elementi anche per comprendere cosa succede quando il processo non funziona e si innesca la sua azione patologica[/blockquote] conclude lo scienziato.

LINK UTILI:
Link agli articoli originali: Journal of Cell Science https://goo.gl/OfwZC2, e Journal of Biological Chemistry https://goo.gl/AUqUm5

Contatti:
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La sindrome del cuore felice: effetti paradossali nella ricerca della felicità

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo.

Barbara Valenti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Lo diceva già Seneca [blockquote style=”1″]tutti vogliono vivere felici, ma […] è così difficile raggiungere una vita felice che più la si ricerca con affanno più ci se ne allontana.[/blockquote]

Nulla sembra più naturale che il voler essere felici. La felicità è considerata un ingrediente fondamentale della vita umana, indispensabile per il benessere e la salute, e sono varie le ricerche che dimostrano che le persone felici hanno più amici, più successo lavorativo e vivono una vita più lunga e sana rispetto a coloro che lo sono meno (Fredrickson, 1998; Lyubomirsky, King & Diener, 2005). Non sorprende quindi che la felicità sia un valore altamente condiviso, in particolar modo nelle culture occidentali dove i messaggi che ne promuovono la ricerca provengono un po’ da tutte le fonti: dalla Costituzione Americana (Articolo I: “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità”) allo spot della Coca Cola.

Siamo quindi spinti a tendere verso il raggiungimento della felicità convinti che sia l’atteggiamento più giusto e che il solo fatto di inseguirla ci porterà a star bene.

 

Gli effetti controproducenti e gli errori alla base della ricerca della felicità

E se invece non fosse così, se la ricerca della felicità avesse effetti controproducenti?

Questo è quello che si sono chiesti Gruber, Mauss e Tamir in uno studio pubblicato nel 2011, arrivando a concludere che l’essere felici non sempre si rivela la cosa migliore, anzi, ci sono alcune condizioni in cui l’essere felici risulta dannoso, ovvero:
1) L’essere troppo felici. Oltre una certa soglia di felicità si assiste a un calo nella creatività (Davis, 2009) e alla messa in atto di comportamenti rigidi (Fredrickson & Losada, 2005) o rischiosi, come l’abbuffarsi, il bere o il far uso di sostanze (Cyders & Smith,2008; Martin et al., 2002). La relazione tra felicità e conseguenze positive dunque non è lineare.
2) Il mostrarsi felici nel momento sbagliato. Quando tutto va bene, provare emozioni positive ci aiuta a incrementare le risorse e i legami sociali, al contrario in presenza di problemi sperimentare emozioni negative può offrire importanti benefici. Pensiamo all’espressione della rabbia, che in caso di negoziazione si rivela particolarmente utile perché induce l’altro a concessioni più generose di quanto non farebbe se ci limitassimo ad esprimere emozioni positive (Van Kleef, De Dreu, Pietroni & Manstead, 2006).
3) L’essere felici in modo ingiustificato o non conforme alle aspettative culturali. È il caso dell’orgoglio arrogante (la felicità per il raggiungimento di benefici non meritati), che pur essendo un sentimento positivo per chi lo sperimenta si associa a comportamenti aggressivi o antisociali (Baumeister, Smart & Boden, 1996; Tracy, Cheng, Robins & Trzesniewski, 2009). Anche il provare un grado di felicità incongruo con le aspettative culturali non aiuta, e questo è vero sia per coloro che valorizzano il raggiungimento di stati positivi ad alta attivazione (eccitamento) come europei e americani, sia per chi preferisce quelli a bassa attivazione (contentezza) come i cinesi, poiché in entrambi i casi la discrepanza tra lo stato ideale e quello effettivo correla con la depressione (Tsai, Knutson & Fung, 2006).

Non solo la felicità non fa sempre bene, ma nel ricercarla tendiamo a commettere diversi tipi di errori (Schooler e colleghi, 2003):
1) Non sempre siamo in grado di stabilire con esattezza il nostro grado di felicità, essendo questo influenzato da fattori situazionali come la condizione meteorologica (Schwarz & Clore, 1983) o i risultati di una partita di calcio (Schwarz et al., 1987).
2) Nel monitorare quanto siamo felici ne indeboliamo il grado. Le persone più felici sono infatti quelle meno introspettive (Lyubomirsky & Lepper, 1999; Veenhoven, 1988) mentre quelle più infelici riportano maggiore autoriflessività, attenzione focalizzata su di sé e pensiero ruminativo (Ingram, 1990; Musson & Alloy, 1988). Le persone meno felici tendono quindi a riflettere maggiormente sulle proprie reazioni, riducendo in questo modo il grado di piacere dell’esperienza stessa che viene confrontata con uno stato ideale irraggiungibile.
3) Tendiamo a valutare in modo inaccurato cosa può farci felici, e a non cogliere i momenti che ci rendono tali. Ad esempio, alcuni pensano che arricchirsi sia un modo per essere più felici, ma questo è vero solo in parte, poiché un miglioramento della condizione economica produce un incremento di felicità che è solo temporaneo e che con il tempo tende a svanire (Brickman & Cambell, 1971). In aggiunta, ci facciamo sfuggire momenti di felicità perché consideriamo le attività in cui siamo impegnati come un mezzo e non come un fine: nel spostare l’attenzione verso l’obiettivo ultimo – essere felici – non ci godiamo il momento presente – un concerto, una cena, un film, etc.

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo. Uno studio di Mauss e colleghi (2011) dimostra che i soggetti spinti a valorizzare la felicità e poi a sperimentarla riportavano un livello di felicità inferiore rispetto a coloro che non erano stati precedentemente indotti a farlo. In aggiunta, la spasmodica ricerca della felicità sembra portare ad un maggior grado di solitudine, soprattutto nelle culture dove l’essere felici viene valutato in termini di raggiungimento personale e gli individui si focalizzano più su se stessi che sugli altri, rischiando di danneggiare le relazioni sociali (Mauss et al, 2012).

 

La ricerca della felicità e i disturbi dell’umore

Ulteriori ricerche si sono spinte oltre. Ford e colleghi (2013) sono giunti alla conclusione che la tendenza a dare estremo valore al raggiungimento della felicità si associ a depressione, questo sulla base di due studi: il primo, condotto su un campione di 98 soggetti con sintomi depressivi in remissione, mette in evidenza come all’aumentare dell’importanza data al raggiungimento della felicità aumenti anche la gravità dei sintomi depressivi; il secondo, che confronta 31 pazienti con sintomi depressivi in remissione e 30 soggetti sani, dimostra nei soggetti depressi la tendenza a dare maggiore importanza all’essere felici.

Il dare un estremo valore alla felicità sembra un fattore di rischio anche per il disturbo bipolare. Ford e colleghi (2015) sostengono questa tesi sulla base di tre ricerche da loro svolte: secondo la prima, condotta su un campione di 510 studenti universitari, all’aumentare dell’importanza data alla felicità aumentano i sintomi depressivi ed il rischio di sviluppare un disturbo bipolare; la seconda, che allarga l’indagine a un campione di 241 soggetti differenti per età, scolarità, etnia, status socio-economico e condizione lavorativa e relazionale, replica gli stessi risultati della prima; infine la terza, che ha messo a confronto 32 soggetti con Disturbo Bipolare (DB) di tipo I in remissione e 31 soggetti sani, conferma la tendenza dare maggior enfasi alla ricerca della felicità tra i soggetti con DB. Secondo le conclusioni degli autori l’eccessiva valorizzazione della felicità rappresenterebbe un fattore di rischio per tutti i disturbi dell’umore.

La felicità, oltre che per i disturbi mentali, sembra un fattore di rischio anche per la salute fisica. È infatti da poco stata identificata la cosiddetta sindrome del cuore felice, caratterizzata da sintomi cardiocircolatori transitori (come dolore toracico, dispnea, etc. ) conseguenti al verificarsi di un qualche evento felice o socialmente desiderabile, come lo sposarsi, il diventare genitori o nonni, il vincere molti soldi, etc. (Ghadri et al., 2016). Questa patologia rappresenterebbe un ampliamento della sindrome di takotsubo, o sindrome del cuore infranto, che si verifica in conseguenza di eventi altamente stressanti come lutti, divorzi, etc (Akashi et al., 2008).

 

Conclusioni

In conclusione, per essere davvero felici dobbiamo smetterla di affannarci ad esserlo, ricordandoci che la felicità fa bene se moderata e se calibrata al contesto, dobbiamo smetterla di domandarci se lo siamo perché troppa introspezione fa male, dobbiamo fare lo sforzo di orientarci al presente per dar valore alle cose quando accadono, e sopratutto, non dobbiamo mettere la felicità al centro della nostra vita – pena l’infelicità o peggio ancora un disturbo dell’umore.

Le svolte del cognitivismo clinico: la risposta a Dimaggio

La risposta di Dimaggio al nostro articolo del 24 ottobre 2016 sulle svolte del cognitivismo clinico sostiene che le nostre preoccupazioni per la recente svolta esperienziale-corporea della terapia cognitiva siano eccessive, e questo per almeno un paio di ragioni: gli interventi immaginativi ed esperienziali hanno da sempre fatto parte del repertorio cognitivo, a cominciare dalle radici comportamentiste (ricordiamoci dell’esposizione); e inoltre il cognitivismo non si deve chiudere nel suo recinto e non deve lasciare ad altri orientamenti lo sviluppo dell’area esperienziale.

 

La risposta all’obiezione sulle svolte del cognitivismo clinico

Queste obiezioni di Dimaggio si inseriscono in un tipo di argomentazione più generale che sottolinea come l’intera contrapposizione tra interventi top-down e bottom-up sia forzata. Nessun intervento -dice questa argomentazione- è puramente top-down o bottom-up. In ogni intervento top-down l’incremento della fiducia nella possibilità di gestire un sintomo come un comportamento volontariamente modificabile considerandone criticamente i pro e i contro è bilanciato da un momento bottom-up in cui il paziente procede a saggiare sul campo dell’esperienza se davvero il suo controllo dei sintomi è così basso o se davvero la sua capacità di tollerare le emozioni temute sia così fragile. Allo stesso modo, in ogni intervento bottom-up il paziente non si limita a vivere un’esperienza spontaneamente correttiva ma trasforma la possibilità sentita sul campo di poter controllare i propri comportamenti disfunzionali e di poter tollerare le emozioni più temute in decisioni coscienti top-down.

L’obiezione è condivisibile in termini teorici ed empirici. Può però essere meno convincente da un punto di vista storico e pratico. Sebbene top-down e bottom-up si sovrappongano spesso e volentieri, essi comunque delineano due strategie terapeutiche dissimili e almeno spiritualmente contrapposte. Strategie integrabili, certo, ma anche in conflitto tra loro. Nel conflitto non c ‘è nulla di male, beninteso. Ogni conflitto, tuttavia, implica periodi di preminenza dell’una o dell’altra fazione. Ed è innegabile che con l’inizio del nuovo millennio e della cosiddetta “terza ondata” siamo entrati in un’epoca di preminenza della componente esperienziale e immaginativa, in cui spiritualmente si è più propensi a concepire il cambiamento come frutto di un lento operare inconsapevole e in cui il paziente è fin troppo pazientemente accompagnato in un percorso di nuova crescita e ricostruzione di alcuni suoi deficit, di alcune sue mancanze emotive oltre che cognitive. Deficit che andrebbero ben al di là di scelte disfunzionali liberamente modificabili.

 

I rischi derivanti da una psicoterapia di tipo preminentemente bottom-up

Sicuramente c’era bisogno di considerare questo aspetto della psicoterapia, dopo la festa top-down della terapia cognitiva standard. Ci sembra giusto, però, sottolineare alcuni rischi che la psicoterapia corre, sia nel teatro internazionale che in quello italiano, in questa epoca storica di preminenza bottom-up. Come in ogni rapporto dialettico, è giusto che la parte in ritirata nel conflitto continui comunque a far sentire le proprie ragioni.

Il primo rischio è attribuire all’intero fronte top-down quelli che erano i limiti del solo modello standard. Ad esempio, i limiti del modello di Beck non possono essere estesi al modello metacognitivo di Wells. Wells modellizza la funzione esecutiva consapevole in maniera radicalmente diversa rispetto a Beck, più centrata sulla scelta metacognitiva e meno sugli schemi cognitivi. Stesso discorso si può fare per alcuni interventi di stile razionale emotivo alla Ellis o anche di scuola costruttivista italiana, come l’intervento sul secondario dell’ABC. Allargare i limiti del modello di Beck a tutti i modelli del funzionamento dell’attività mentale top-down significa limitare il repertorio degli interventi terapeutici e i confini della ricerca clinica.

Il secondo rischio è indulgere troppo in una retorica iniziatica ed esoterica del cambiamento involontario. Per fortuna i nuovi modelli bottom-up sono molto formalizzati e protocollizzati. Il rischio peggiore è stato evitato, quello di cadere in un paradigma totalmente irrazionalista in cui la relazione terapeutica, concetto fin troppo elastico, si pone al centro di tutto trasformando la terapia in un intervento di generico supporto accuditivo. Vero è che in genere i modelli relazionali sottolineano la differenza tra atteggiamento cooperativo e accuditivo. Tuttavia, questa differenza tende a essere evanescente quando non è definita operativamente.

Un altro possibile rischio è l’applicazione indiscriminata degli interventi esperienziali. In teoria questi interventi sono indicati soprattutto per i pazienti che rispondono male alla terapia e che sono traumatizzati. In pratica la sensazione è che si tenda sempre a vedere tutti i pazienti come difficili e traumatizzati. Per evitare questo rischio ci piacerebbe che ci fosse maggiore attenzione per la diagnosi da parte dei fautori dell’intervento esperienziale. A volte questo intervento è utile, altre volte è eccessivo rispetto alle richieste del paziente. Uno degli errori più dannosi della psicoanalisi è stato quello di pensare che tutti i pazienti siano difficili e bisognosi di trattamenti prolungati e laboriosi. Cerchiamo di non cascarci anche noi.

Il terzo rischio è specifico per l’Italia. La svolta bottom-up non arriva dalle nostre parti dopo un periodo di preminenza top-down in stile terapia cognitiva standard. Arriva invece dopo una lunga preminenza del paradigma costruttivista che ha rallentato in Italia lo sviluppo di una cultura dell’intervento formalizzato e protocollizzato. Nulla da dire sulla qualità teorica e clinica del paradigma costruttivista, però da Mahoney e Guidano in poi è stato quello meno attento allo sviluppo di protocolli replicabili. In Italia questo paradigma ha dominato ed è accaduto che perfino i clinici e i teorici più vicini al modello standard abbiano dimostrato una particolare insensibilità al problema dell’aderenza ai protocolli.

La conseguenza sembra essere una particolare propensione del terapista italiano medio a considerare tutti i casi come difficili, complessi e traumatizzati. E inoltre a dare per scontato che l’intervento top-down sia di facile esecuzione, qualcosa di non particolarmente difficile da padroneggiare. Buttarsi in massa nell’immaginativo e nel corporeo senza aver mai davvero appreso e compreso la logica e la pratica dell’intervento top-down rischia di protrarre in Italia una carenza professionale e culturale. Sappiamo davvero fare una terapia cognitiva standard in Italia? O siamo a volte dei cognitivisti immaginari? Il rischio che si corre è che si proponga al paziente che chiede una terapia cognitiva standard un oggetto clinico frutto di una integrazione troppo personale e soggettiva, con derive nello psicoanalese relazionalista, un campo dove non siamo noi i più bravi.

Per la verità, forse anche questo terzo rischio lo stiamo schivando. È probabilmente un’ironia della storia che siano proprio i nuovi protocolli corporeo-esperienziali, dall’EMDR alla sensorimotor, gli agenti che stanno diffondendo la cultura degli interventi protocollizzati proprio tra chi li aveva sempre rifiutati. Magari l’attenzione per le procedure protocollate potrà poi indirettamente incoraggiare i colleghi a dare valore all’aderenza e a decidersi a imparare un po’ di terapia cognitiva standard, che è poi quella che cercano i pazienti, ignari di questi ultimi sviluppi così sofisticati. Spiace che tutto accada in maniera un po’ caotica, ma forse è nella natura degli avvenimenti storici: la vita è ciò che ti succede mentre fai altri progetti.

Inibizioni sociali e orientamento sessuale – fluIDsex

Ciao, conosco molte persone che mostrano attrazione verso il proprio genere da ubriache. Sarei curioso di sapere quanto sia imputabile all’effetto dell’alcol e quanto semplicemente al venir meno delle inibizioni autoimposte per via della società.

Purtroppo o per fortuna non esiste alcuna bevanda capace di farti fare cose che non proveresti normalmente da sobrio. Anche se uno degli effetti di qualche bicchiere di troppo è quello di influenzare i comuni meccanismi inibitori: “in vino veritas”.
L’inibizione quotidiana dei nostri comportamenti, pensieri o preferenze è probabilmente imputabile a quella che definiamo “morale della società”. Non è forse vero infatti che le aspettative, che siano proprie, dei nostri genitori o dei nostri amici, possono condizionare il nostro modo di essere? O che la religione giochi in ruolo importante nel definire cosa è buono e giusto e cosa no?
Legittimo quindi chiedersi se: “è possibile che la società ci influenzi così tanto da deviare i nostri gusti sessuali?”

I nostri gusti sessuali possono essere definiti o mutevoli nel tempo, in divenire come le esperienze che viviamo. La “morale della società” può però spingerci a nasconderli o rinnegarli: per istinto di conformità, per paura di essere giudicato diverso (ma diverso da chi?), per altre mille svariate ragioni. Vero anche che non c’è nessun manuale sul “come costruire la propria identità”. La sua costruzione è cosa faticosa per chiunque e senza dubbio per alcuni l’alcool è visto come un amico col quale e grazie al quale poter vivere esperienze che di norma non si affronterebbero: come l’avvicinarsi a una persona dello proprio genere!

Così, per quanto rifugiarsi dietro ad un “Ma ero ubriaco…!” sia molte volte più semplice, personalmente ritengo che l’alcool non possa aiutare una persona nel raggiungimento di una piena consapevolezza di sé, della propria identità sessuale, del proprio orientamento sessuale.
Il mio invito è quindi quello di sentirsi liberi di vivere la propria sessualità per quella che è e di soddisfare qualsiasi tipo di desiderio in ambito sessuale, sempre nel rispetto dell’altro, senza cercare per forza l’approvazione dell’amico di turno o ancor peggio dell’amico alcool.

Valentina Orlandi

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il cambiamento bottom up e la terza onda: Dimaggio sulle svolte del cognitivismo clinico

Nel loro recente editoriale Le svolte del cognitivismo clinico, Sassaroli e Ruggiero si interrogano sulle evoluzioni della terapia cognitiva e sulla svolta esperienziale della terza onda. Riflettono sull’approccio bottom-up al cambiamento terapeutico e in parte lo criticano.

I loro argomenti sono i seguenti:

1) Lavorare a partire dagli stati sensoriali/corporei da un lato implica un concetto di cognizione troppo vasto (tutto sarebbe cognizione), dall’altro il cognitivista che lavora a questo livello farebbe meno bene ciò che altri approcci, per esempio la sensorimotor therapy fanno da anni e meglio

2) L’approccio bottom-up trascurerebbe lo specifico della terapia cognitiva, ovvero il lavoro top-down, il percorso che va dal cambiamento delle idee al miglioramento sintomatico.

3) La terapia, nelle loro parole, diventerebbe: “un viaggio emotivo e un’esperienza relazionale in cui le nuove capacità regolative sboccerebbero sempre spontaneamente senza mai essere apprese esplicitamente, se non alla fine.” Il rischio, sempre secondo Sassaroli e Ruggiero, sarebbe di: “ridurre la psicoterapia a un’esperienza guidata e a un incontro relazionale. L’informazione recepita per via esperienziale e relazionale deve poi trasformarsi in rappresentazione consapevole nella sede della coscienza per poi essere gestita in termini di scopi personali che non possono essere che espliciti, scelte di vita pensate e non solo sentite e su cui il soggetto ha riflettuto consapevolmente. Altrimenti l’intera vita individuale si riduce a una serie di risposte a stimoli esperienziali mai davvero decise ma sempre e solo subite”.

Nessuna delle critiche, a mio parere, tiene.

 

La svolta esperienziale

Parto dal primo punto: la svolta esperienziale è perfettamente coerente con le teorie cognitive delle emozioni (Frijda, Johnson-Laird e Oatley e via dicendo), molto di più di quanto non lo sia la teoria adottata dalle varie forme di CBT. Un’emozione, soprattutto quelle di base, può attivarsi senza una cognizione cosciente, ovvero senza il B dell’ABC. Come dicevano Oatley e Johnson-Laird, le emozioni di base possono attivarsi senza consapevolezza della causa. Esiste una componente cognitiva, chiamata appraisal che è parte definitoria dell’esperienza emotiva. Provare rabbia significa configurare il mondo come ostile al nostro scopo. Questo livello è implicito, pre-conscio, ma sempre uno stato cognitivo.

Poi c’è tutto il lavoro di Damasio che mostra come stati somato-affettivi influenzano la costruzione di scene mentali e la formazione di ragionamenti e decisioni. Insomma, l’approccio bottom-up va a poggiarsi su queste teorie delle emozioni, cosa che la CBT ha sempre trascurato, focalizzandosi solo sul percorso indicato da Lazarus che va dall’inferenza all’emozione, e dimenticandosi di Zajonc e del suo motto: “preferences need no inferences”

La seconda replica al primo punto è che lavorare sulla parte esperienziale significa lavorare meno bene di chi la usava da più tempo e quindi meglio di noi. In realtà non è una critica utile: significa che il cognitivismo non può apprendere da altro. E non si può imparare? Ogni forma di psicoterapia ha storicamente assimilato approcci di altre fonti, perché fermare l’evoluzione della scienza? Comunque per quanto riguarda il dubbio in questione in realtà arriva a questione già risolta: gli approcci cognitivo esperienziali funzionano. La schema-therapy, che ne fa uso massiccio, ha potenti dati di efficacia. La self-compassion therapy anche e così la mindfulness. Perché porsi il cruccio che se da cognitivisti lavoriamo sulla dimensione bottom-up rischiamo di diventare meno efficaci, o comunque meno efficaci di altri, quando già sappiamo che questo non è?

 

L’approccio bottom up

Il secondo punto è che l’approccio bottom-up trascura la componente di riflessione conscia. La risposta a questo è semplice: non è vero. Per dire, la schema-therapy resta a tutti gli effetti una terapia cognitiva e tra gli obiettivi ha quello di cambiare schemi, ovvero punto di vista cosciente sul mondo. Per quanto riguarda la Terapia Metacognitiva Interpersonale, mi riferisco alla manualizzazione che abbiamo compiuto in Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013, l’importanza del cambiamento delle rappresentazioni esplicite resta totale e non abbiamo mai pensato diversamente. Si tratta solo della strada da percorrere.

La differenza è che noi non chiediamo “perché pensa così?” e “proviamo a vederla diversamente”. Noi partiamo da, per esempio: “lei si vede debole. Mi racconta un episodio?” A quel punto, se il paziente è d’accordo andiamo a rivivere l’episodio narrativo, magari durante un esercizio di immaginazione guidata. Durante l’esercizio per esempio la paziente può ricordare un episodio in cui è stata criticata dal padre e si è sentita incapace, fragile, stupida, vulnerabile o inetta. A quel punto il terapeuta può suggerire di provare a lavorare sullo stato corporeo per esempio adottando una postura più tonica, stringendo le mani una contro l’altra e via dicendo. Poi chiede alla paziente se il senso di debolezza (fragilità e via dicendo) si sia  modificato. Spesso è quello che accade. A quel punto dopo una fase di riflessione si può tentare il rescripting e quindi di adottare una posizione mentale più tonica e, per esempio, rispondere al padre. Poi si chiede di nuovo un feedback sull’esprienza.

Una volta terminato il lavoro si riflette con la paziente su quanto è successo e la riflessione è altamente cognitiva e può suonare così: “Lei credeva di essere debole e di soccombere quando qualcuno la critica. Abbiamo visto che questa idea in parte è modulata dalle sensazioni corporee e lei ha un potere di agire su di essa che prima non conosceva. Poi abbiamo notato che quando rispondeva a suo padre la sua idea di sé era diversa, si vedeva competente, intelligente capace, anche se questa convinzione e questa sensazione era di breve durata. Però abbiamo visto che lei ha la capacità di cambiare idea, di vedere le cose diversamente”.

Si tratta né più né meno che di una ristrutturazione cognitiva, fatta però a partire non da semplici idee ma da ciò che il paziente ha vissuto e che quindi ricorderà più facilmente.

 

La ristrutturazione cognitiva

In questo modo abbiamo anche la risposta alla terza critica di Sassaroli e Ruggiero. La ristrutturazione cognitiva non avviene alla fine del percorso ed è solo l’epifenomento di esperienze nuove. È invece frutto di un lavoro che il terapeuta che utilizza tecniche che fanno leva sul cambiamento bottom-up compie seduta per seduta e l’idea è che questo migliori le capacità del paziente di riflettere (coscientemente) su se stesso, sia l’adozione di nuovi punti di vista.

Infine, Sassaroli e Ruggiero sostengono che con questi approcci i pazienti subiscono le esperienze e non decidono. È vero il contrario, con questi approcci i pazienti potenziano la loro agency e si confrontano sempre più con il fatto che i loro probleme nell’adottare azioni benefiche non dipendono dall’esterno ma dalle loro strutture cognitivo-affettive di attribuzione di significato. E lo capiscono nell’atto deliberato e cosciente di provare a comportarsi divertamente. “Quanto è difficile rispondere diversamente a mio padre, però mi rendo conto che ci posso provare e che quando ci riesco mi fa bene”. Scelto, deliberato ed esercitato. Ovvero apprendere dall’esperienza, non dalla teoria. Il vero apprendimento.

Mi sembra decisamente un modo di superare i tanti limiti tecnici del cognitivismo di seconda onda senza buttare al mare quanto di buono ha dato. I dati di efficacia già ci sono e la tecnica è in fase di affinamento.

Sessismo benevolo nelle donne e minore frequenza degli orgasmi?

Una nuova ricerca pubblicata all’interno di Archives of Sexual Behavior ha indagato se gli atteggiamenti sessuali delle donne possano influenzare la frequenza con cui esse sperimentano un orgasmo.

 Sessismo ostile e quello benevolo

[blockquote style=”1″]Attualmente non sappiamo ancora come le nostre ideologie possano costituire una base per il modo in cui pensiamo al sesso. Questo riguarda anche ciò che percepiamo essere sessualmente desiderabile, indesiderabile, o inappropriato[/blockquote] hanno dichiarato Emily Ann Harris, Matthew J. Hornsey e Fiona Kate Barlow.

[blockquote style=”1″]È quindi importante per studi futuri ampliare il campo di ricerca, al fine di indagare quale sia il funzionamento delle ideologie nel limitare o migliorare la nostra esperienza sessuale.[/blockquote]

La ricerca ha esaminato un concetto noto come benevolent sexism (sessismo benevolo), che si basa sulla Ambivalent Sexism Theory (teoria del sessismo ambivalente). La teoria sostiene che le opinioni pregiudizievoli delle donne possono essere raggruppate in due categorie principali: l’hostile sexism (sessismo ostile) e il benevolent sexism (sessismo benevolo).

Il sessismo ostile descrive l’avversione palese verso le donne, il sessismo benevolo, invece, descrive la convinzione che le donne siano donatrici e gentili, ma queste caratteristiche non possono funzionare correttamente senza l’aiuto di un forte partner maschile. Come hanno spiegato gli autori, il sessismo benevolo rappresenta l’idea di una passività femminile, e romanticizza la convinzione che le donne dovrebbero fare affidamento sugli uomini.

Lo studio: la relazione tra sessismo benevolo e frequenza degli orgasmi

I ricercatori hanno scoperto l’esistenza di una relazione indiretta tra il sessismo benevolo e la frequenza nell’esperire un orgasmo. Le donne che hanno approvato ed accettato il sessismo benevolo (come ad esempio l’idea che “le donne hanno bisogno di essere protette dagli uomini”) tendono anche a credere che gli uomini siano sessualmente egoisti. Di conseguenza, le donne che si affidano a tale credenza, tendono ad essere meno propense a chiedere ai partner di donare loro piacere, fenomeno che successivamente è stato associato con l’esperire orgasmi meno frequentemente.

Harris e i suoi colleghi, tuttavia, hanno dichiarato che un altro fattore che potrebbe essere associato al sessismo benevolo è che le donne che appoggiano tale prospettiva tendono ad avere più partner maschili contemporaneamente. Ricerche precedenti avevano trovato risultati che indicavano che le donne trovavano più semplice esperire orgasmi quando possedevano contemporaneamente più partner maschili. Tenendo conto che le donne che appoggiano il sessismo benevolo, potrebbero sentirsi obbligate ad avere rapporti sessuali con il partner, questo porta all’esperire più sesso, e di conseguenza a possedere una maggiore probabilità di provare un orgasmo.

In altre parole, le donne che appoggiano il sessismo benevolo sembrano essere meno propense a chiedere ai partner di donare loro piacere, il che si traduce nella possibilità di esperire un minor numero di orgasmi. Ma approvare il sessismo benevolo potrebbe anche portare le donne che hanno più partner maschili contemporaneamente ad esperire più sesso, portando la loro possibile frequenza di orgasmi a dati superiori alla media.

Aborto e disturbi mentali: incidenza e ricorrenza di patologie psichiatriche a seguito di un’interruzione di gravidanza

Nell’ultimo decennio sono state condotte un gran numero di ricerche e svariate review riguardo il rapporto tra aborto e disturbi mentali. Sebbene tale genere di studi implichino svariate difficoltà metodologiche, finora non è emerso alcun risultato significativo a favore dell’ipotesi che la cessazione della gravidanza incrementi il rischio di sviluppare una patologia psichiatrica.

 

Relazione tra aborto e disturbi mentali: i problemi metodologici

Tra i problemi metodologici che intervengono più spesso in questo campo di ricerca troviamo la difficoltà di misurare adeguatamente i disturbi mentali pre-esistenti, nonostante è probabile che questi siano predittivi dei disturbi mentali post-aborto.

Alcuni studi hanno controllato l’effetto dei disturbi mentali pre-esistenti sulla relazione tra aborto e disturbi mentali, tuttavia ciò è stato fatto per mezzo di questionari self-report retrospettivi, che non sono in grado di stabilire esattamente se e quale delle due evenienze ha un rapporto di causa-effetto con l’altra. Altri studi, invece, si sono limitati ad annoverare alcuni tra i disturbi mentali pre-esistenti, ignorandone altri, o si sono basati sui resoconti dei dottori di famiglia o psichiatri, metodologia che può condurre a pericolose perdite di informazioni.

Una seconda difficoltà consiste nel fatto che spesso gli studi si riferiscono a gruppi di controllo inadeguati, come donne che non sono mai state incinte o che non hanno abortito.

Infine, l’ultima problematica intrinseca alle ricerche riguardo la relazione tra aborto e disturbi mentali, per ovvi motivi, consta nell’impossibilità di assegnare casualmente le donne al gruppo di controllo o a quello delle donne che hanno abortito; ciò fa sì che la compatibilità tra i gruppi non sia elevata, sebbene sia possibile calmierare questo effetto per mezzo di alcune strategie durante le analisi statistiche. Una di queste è il matching, che permette di analizzare un non-esperimento come se fosse un esperimento, in quanto appaia uno ad uno i soggetti rispetto alle variabili in questione per rendere più o meno equivalenti i gruppi.

 

Lo studio

Un recente esperimento pubblicato sul Journal of Psychiatric Research ha utilizzato proprio questa tecnica, appaiando i partecipanti rispetto alle covariate potenzialmente confondenti; l’obiettivo era appunto stabilire l’incidenza e la ricorrenza dei disturbi mentali dopo un aborto (follow-up a 2.5 – 3 anni). I dati relativi alle partecipanti (età compresa tra i 18 e i 46 anni) provenivano dal Dutch Abortion and Mental Health Study (DAMHS) ed erano appaiati ai soggetti della coorte di riferimento presa dal Netherlands Mental Health Survey and Incidence Study-2 (NEMESIS-2), inoltre tutte le donne che avevano abortito riferivano come la gravidanza fosse stata non voluta. Le partecipanti del DAMHS erano state intervistate tra 20 e 40gg dopo l’aborto (T0) e di nuovo circa 2.7 anni dopo (T1).

La presenza dei disturbi mentali veniva valutata per mezzo della Composite International Diagnostic Interview (CIDI) versione 3.0, secondo i criteri del DSM-IV. Le patologie prese in analisi appartenevano a tre macrocategorie: disturbi d’ansia (disturbo di panico, agorafobia, fobia sociale, disturbo d’ansia generalizzato), disturbi dell’umore (depressione maggiore, distimia, disturbo bipolare) e disturbi da uso di sostanze (abuso di alcol/droga e dipendenza).

Le covariate considerate erano l’età (18-24, 25-34 e 35-46), la living situation (ovvero se le partecipanti vivevano o meno con un partner), l’avere dei figli, l’etnia (occidentale o meno, basandosi sulla definizione del Central Bureau of Statistics Netherlands), il credo religioso, la situazione lavorativa (lavoro pagato o non pagato), livello educativo, la zona di residenza (rurale o urbana). Un’ulteriore covariata era l’abuso (fisico, sessuale o psicologico e la trascuratezza emotiva) in età infantile, in quanto è dimostrato che può predisporre sia all’aborto che all’insorgenza di disturbi mentali (Steinberg & Tschann, 2013).

Dalle analisi statistiche emergeva come le donne che avevano abortito erano complessivamente più giovani, più spesso single, senza figli, di etnia non occidentale, non religiose, disoccupate, residenti in un’area urbana e più spesso vittime di abusi infantili, rispetto alla coorte di riferimento. Non vi erano differenze nel livello di educazione.

 

Risultati

Incidenza

Le partecipanti provenienti dalla coorte DAMHS evidenziavano un’incidenza maggiore di disturbi mentali (disturbi d’ansia, dell’umore e da abuso di sostanze), tuttavia una volta appaiate per le covariate in analisi, tutte le percentuali di incidenza si abbassavano e la significatività tra gruppo sperimentale e di controllo scompariva (disturbi d’ansia e da uso di sostanze p > .20, disturbo dell’umore p = .08).

Ricorrenza

Come sopra, prima dell’appaiamento, le partecipanti provenienti dal DAMHS mostravano una probabilità significativamente maggiore di ricorrenza per i disturbi d’ansia. Tuttavia, dopo l’appaiamento, i risultati non erano più significativi.

 

Conclusioni

Osservando i risultati è impossibile attribuire le differenze tra le due coorti all’evento dell’aborto, ma al contrario sembrano essere dovute ad una certa quantità di variabili co-occorrenti. Perciò sembra poco probabile che l’aborto incrementi il rischio di sviluppare e mantenere un disturbo psichiatrico; tale risultato è in linea con le precedenti evidenze scientifiche sul rapporto tra aborto e disturbi mentali.

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