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Resta in forma e vivi meglio: lo stress psicosociale impatta meno sulla salute di persone con uno stile di vita attivo

Ancora poco si sa su quanto l’essere in forma possa apportare dei benefici in termini di salute psicofisica: proprio in questo senso, infatti, si pensa che l’ attività fisica possa proteggere dai potenziali effetti negativi dati dallo stress psicosociale e lavoro-correlato.

 

Nonostante sia da tempo noto il ruolo che l’attività sportiva riveste nei confronti del benessere di ognuno di noi, ancora poco si sa su quanto l’essere in forma possa apportare dei benefici in termini di salute psicofisica. Proprio in questo senso, infatti, si pensa che l’ attività fisica possa proteggere dai potenziali effetti negativi dati dallo stress psicosociale e lavoro-correlato.

 

Lo stress psicosociale

Lo stress psicosociale, sia esso oggettivo (ad es. eventi di vita critici) o soggettivo (ad es. stress percepito), è ritenuto essere uno dei fattori che maggiormente spinge le persone ad assentarsi dal lavoro per questioni di salute.

Questo tipo di stress risulta infatti essere strettamente legato ad una compromissione della propria salute mentale e anche ad un aumento della sintomatologia depressiva. Alti livelli di stress psicosociale, inoltre, si accompagnano ad un innalzamento di indici quali pressione sanguigna, colesterolo e trigliceridi, legati a una maggiore probabilità di sviluppare disturbi cardiovascolari.

Al contrario, il condurre una vita attiva e sportiva risulta essere associato a minori sintomi depressivi e minori fattori di rischio di sviluppare disturbi cardiovascolari. Purtroppo però l’inattività fisica resta ancora ad oggi il quarto maggior fattore di rischio di precoce mortalità, mentre i disturbi cardiovascolari risultano essere la più frequente causa di mortalità nei paesi industrializzati.

 

Attività fisica e stress psicosociale

Proprio a tal proposito, Gerber e collaboratori dell’università di Basilea hanno recentemente svolto una ricerca in associazione con studiosi svedesi, dimostrando che rimanere fisicamente attivi, soprattutto in periodi di elevato stress, apporta notevoli benefici in termini di salute sia sul breve periodo, per quanto riguarda ad esempio il far fronte al periodo stesso, sia sul medio-lungo periodo, per quanto riguarda ad esempio il rischio di sviluppare disturbi cardiovascolari. Proprio in questo senso, infatti, da tempo è stata proposta l’idea secondo cui una buona forma fisica possa agire come fattore di protezione rispetto agli effetti negativi dello stress cronico sia a livello mentale sia a livello fisico.

All’interno del loro studio, gli autori hanno mostrato come una buona forma fisica risulti essere un buon fattore protettivo per coloro i quali esperiscono alti livelli di stress psicosociale sul posto di lavoro. Per poter dimostrare ciò, è stato coinvolto un campione di 200 impiegati svedesi, prevalentemente sani ed eterogenei per quanto riguarda il livello di stress riportato, ed è stato sottoposto ad analisi riguardanti i fattori di rischio cardiovascolare (pressione sanguigna, BMI, colesterolo, trigliceridi) e a test per la capacità cardiorespiratoria, usata come indice di forma fisica.

Dalle analisi è emerso, in linea anche con studi precedenti, come a maggiore livello di stress psicosociale, così come percepito dal soggetto, corrispondessero anche valori più elevati per quanto riguarda i fattori di rischio cardiovascolare.

Per la prima volta, però, gli autori hanno anche dimostrato come il livello di forma fisica posseduto dai soggetti sia in grado di moderare la relazione tra stress percepito e fattori di rischio cardiovascolare. Infatti, mentre all’interno del gruppo di impiegati con bassi livelli di stress percepito non sono state rilevate differenze a livello dei fattori di rischio in base alla forma fisica, all’interno del gruppo con alti livelli di stress percepito a maggior livello di attività fisica sembrerebbe corrispondere un minor rischio di sviluppare disturbi cardiovascolari.

Ad esempio, con alti livelli di stress percepito, il valore del colesterolo LDL, o colesterolo “cattivo”, risultava essere oltre i valori normativi in impiegati con bassi livelli di forma fisica, ma non per quelli con alti livelli di forma fisica. Al contrario, con bassi livelli di stress percepito non sono emerse differenze rilevanti in base ai livelli di forma fisica.

Come conclusione del loro lavoro, Gerber e collaboratori sottolineano la significatività di quanto da loro rilevato, in quanto questi dati permetterebbero di allargare la nostra sfera di conoscenza riguardante l’importanza di condurre uno stile di vita attivo che includa anche una qualche attività sportiva.

Infatti, da studi precedenti (Hamer, 2012) è emersa la tendenza a intraprendere con minor frequenza una qualche attività fisica in periodi di maggior stress psicosociale, mentre invece sarebbe auspicabile proprio una tendenza contraria, in quanto protettiva verso rischi futuri per la propria salute psicofisica. Ad esempio, anche una minima riduzione a livello della pressione sanguigna, una delle sfide odierne più impegnative a livello della salute pubblica, potrebbe incidere in modo significativo sul benessere personale, che è strettamente connesso allo stile di vita condotto

Infine, questo studio, mettendo in luce l’importanza di valutare la capacità cardiorespiratoria, sottostimata all’interno della pratica clinica, potrebbe avere anche implicazioni rilevanti per quanto riguarda la terapia e il trattamento di disturbi legati allo stress psicosociale.

 

Il ragazzo dai capelli rosa di Davide Viola: sintesi del libro e intervista all’autore

Nel testo viene riportata prima una sintesi del libro “Il ragazzo da capelli rosa” di Davide Viola e poi l’intervista rivolta all’autore stesso del libro. 

Davide Viola: chi è

Davide Viola è Psicologo, Psicoterapeuta, Istruttore di Mindfulness (protocolli MBSR e MBCT). Svolge attività clinica e di formazione in psicoterapia, psicologia scolastica e neuropsicologia dello sviluppo. È docente di Filosofia e Scienze Umane. È autore di diverse pubblicazioni, tra cui: “Progetti di Psicologia. Scuola, professione, esame di Stato” (Edizioni Psiconline, 2010); “Alla ricerca delle emozioni. Aiutare i bambini a vivere bene felicità, tristezza, rabbia e paura” (Edizioni Psiconline, 2012). Ha in corso di pubblicazione “Come un fiore di loto. Affrontare le avversità della vita con la mindfulness e la bioenergetica” (Rapsodia Edizioni, 2016).

Sintesi del libro

Il primo capitolo di questo libro è stato scritto da Angelo Collevecchio, che fa il punto della situazione rispetto alle teorie sull’omosessualità, passando dalla psicoanalisi, alle teorie sociali, fino alla biologia e alla religione. Successivamente l’autore offrirà una definizione esaustiva del concetto di omofobia (Weinberg, 1972) e soprattutto di omofobia interiorizzata (Meyer, 1995).

Nel secondo capitolo, scritto da Giovanni Mannara, invece ci avviciniamo alla dimensione più psicoeducativa di questo libro, che successivamente verrà approfondita da Davide Viola nel terzo capitolo. Il titolo del secondo capitolo è “Sulle solitudini infuocate di sole – Il ruolo docente nella formazione di coscienze attive tra omofobia e bullismo omofobico nella scuola italiana”. È qui che si comincia a parlare di educare alle differenze e viene ripercorsa la storia giudiziaria dell’omofobia in Italia.

Il terzo capitolo è quello su cui ci concentreremo maggiormente in questa intervista, mentre nel quarto e ultimo capitolo troviamo la storia di Teo, il ragazzo dai capelli rosa. Da questo momento in poi seguiranno una serie di interessantissime esercitazioni sotto forma di schede e colloqui gruppali che da una parte cercano di indagare le credenze o gli stereotipi e pregiudizi eventualmente messi in atto dai componenti della classe, dall’altro invece stimolano il confronto, il dialogo e la partecipazione attiva sulle tematiche omosessualità e omofobia.

Intervista a Davide Viola

Cosa significa educare alle differenze in ambito scolastico e perché è necessario farlo?

Viviamo in un contesto culturale e sociale definito dalla convivenza, spesso conflittuale, di differenze: dalle sessuali alle linguistiche, dalle religiose a quelle legate strettamente ai valori. La scuola deve diventare il luogo di tutti, con il rispetto delle differenze di ognuno. È necessario educare alle differenze in ambito scolastico perché occorre nutrire e formare le nuove generazioni di futuri adulti che siano in grado di valorizzare le differenze come risorsa personale e sociale; in altre parole educare alle differenze significa creare un antidoto speciale contro le chiusure pregiudiziali e atteggiamenti fobici e intolleranti.

Trovo di importanza fondamentale un concetto che viene ripreso nel quarto paragrafo del terzo capitolo, quello di resilienza. Potrebbe aiutarci a capire in che modo la resilienza di un individuo possa costituire un fattore di protezione dall’omofobia?

La resilienza è la capacità di far fronte in maniera positiva, costruttiva e assertiva agli eventi traumatici. Essere resilienti significa saper riorganizzare la propria esistenza dinanzi alle avversità della vita, senza alienare la propria identità. Alla base della resilienza ci sono tre fattori: il senso di sicurezza interno, la stima di sé e la sensazione di operare in modo efficace. Quindi, occorre educare alla resilienza: come proteggiamo i bambini contro le malattie fisiche, così li dovremmo immunizzare dalle sfide che affronteranno nella vita. Questa educazione, ancora una volta, può essere sviluppata a scuola che dovrebbe essere già pronta ad affrontare questa sfida allontanando così i molti propositi di suicidio in giovani omosessuali. Lo stress legato all’appartenenza di una minoranza sessuale può offrire l’opportunità di trasformare esperienze negative in comportamenti di resilienza e di funzionamento psicologico adattivo.

Che cosa differenzia il bullismo omofobico dalle altre forme di bullismo?

“Bullismo”, che deriva dal vocabolo inglese bullying, usato generalmente per indicare il fenomeno di prepotenza tra pari è stato adottato da Olweus nelle sue ricerche, già alla fine degli anni ’70, per indicare [blockquote style=”1″]aggressioni verbali, fisiche o relazionali ripetute secondo schemi specifici tra i banchi di scuola.[/blockquote]

Nel 1972 Weinberg introduce, per la prima volta, il termine “omofobia” per indicare “reazioni affettive ed emotive di ansietà, disgusto, avversione, rabbia, paura” che si prova nei confronti di tutto ciò abbia legame con il mondo dell’omosessualità. Il bullismo omofobico riguarda tutti quegli atti di prepotenza rivolti a persone omosessuali o che si pensa lo siano. Tali atti di prepotenza, molto frequentemente, assumono la forma di una violenza spietata e inaudita. Obiettivo della violenza omofobica è tentare di rendere “oggetto” chi è percepito più debole, si tratta di un vero e proprio tentativo di de-umanizzazione. A differenza di altre forme di bullismo in cui i ragazzi vittime di discriminazioni di altro tipo (come ad esempio il colore della pelle o differenze socio-culturali e linguistiche) possono tornare a casa e trovare genitori con le stesse caratteristiche per le quali loro stessi vengono ostracizzati e discriminati – consentendo loro di riconoscersi quindi sempre in qualcuno – gli adolescenti omosessuali non possono tornare a casa e raccontare con facilità le violenze subìte, perchè molto frequentemente tengono il loro orientamento sessuale nascosto o una volta fatto coming out non sentono nei genitori una comprensione e accettazione incondizionata. Questa credo sia una delle differenze più importanti tra il bullismo omofobico e altre forme di bullismo.

Spesso i docenti affermano di non sapere come comportarsi di fronte agli atteggiamenti che richiamano all’identità sessuale degli studenti. Secondo Lei da dove nasce questa difficoltà e quale ruolo possono avere i docenti nella prevenzione del bullismo omofobico?

Ogni difficoltà nasce da una mancata consapevolezza. Molto spesso gli insegnanti non hanno gli strumenti per affrontare le problematicità riguardanti il bullismo omofobico e altrettanto frequentemente hanno loro stessi un’omofobia interiorizzata più o meno latente. Caratteristica fondamentale per l’efficacia dei programmi di prevenzione del bullismo omofobico a scuola è proprio il coinvolgimento degli insegnanti: agli interventi degli operatori dovrebbero essere affiancate specifiche attività proposte alla classe dagli insegnanti, con l’obiettivo di garantire coerenza e continuità. L’insegnante di letteratura può parlare di omosessualità a scuola discutendo le opere di diversi autori, come ad esempio William Shakespeare e i suoi Sonetti, nei quali viene descritto un amore omosessuale, Federico Garcia Lorca e i suoi Sonetti dell’amore oscuro ispirati e dedicati a un uomo, Luis Cernuda, grande poeta dell’amore omosessuale, Oscar Wilde e il suo De Profundis, lunga lettera d’amore dedicata a un ragazzo, Virginia Woolf e il suo Al Faro, lunga lettera d’amore alla sua Vita Sackville West. L’insegnante di storia può parlare di omosessualità raccontando delle relazioni di Riccardo Cuor di Leone, Alessandro Magno o l’imperatore romano Publio Elio Adriano con il suo favorito Antinoo di Bitinia, parlando della bisessualità nel mondo antico, i massacri che i nazisti eseguirono sulle minoranze sociali, lo sterminio degli omosessuali durante l’Olocausto, la lotta per i diritti degli omosessuali tra i movimenti sociali del XX secolo. Il programma di Diritto, Geografia Economica e Scienze Umane ben si presta ad affrontare le tematiche dell’omosessualità e dei diritti umani nel mondo. Pertanto, gli insegnanti hanno un ruolo fondamentale nella prevenzione del bullismo omofobico e hanno l’obbligo morale – qualora dovessero essi stessi manifestare atteggiamenti omofobi – di risolvere le loro questioni personali.

La scuola, come la famiglia, dovrebbe educare all’uguaglianza e al rispetto. Cosa consiglia ai genitori che vedono i propri figli vittime di questo tipo di discriminazione a scuola?

Il genitore deve stimolare il proprio figlio vittima di discriminazioni a scuola a parlare liberamente dei suoi sentimenti più personali e incoraggiarne il coinvolgimento sociale (un ragazzo vittima di violenza diminuisce gradualmente i suoi contatti interpersonali), deve impiegare un approccio graduale attraverso il quale far affrontare attivamente al ragazzo le situazioni temute e chiedere al figlio di riferire qualunque episodio di violenza che lo vede protagonista (la vittima può incontrare particolari difficoltà a chiedere aiuto agli adulti in quanto teme di richiamare l’attenzione sulla propria sessualità, con i relativi vissuti di ansia e vergogna, e il timore di deludere le aspettative dei genitori). In alcuni casi sarà necessario denunciare l’accaduto, oltre che alla scuola, alle forze dell’ordine.

Dalla legge 285 del 1997 a livello di progettazione regionale, provinciale e comunale si richiama il coinvolgimento degli psicologi rispetto alla prevenzione. A proposito delle schede e delle esercitazioni di gruppo, in che modo uno psicologo o una psicologa possono utilizzare questo libro?

Le numerose esercitazioni presenti nel libro possono essere un prezioso strumento per lo psicologo che opera all’interno delle istituzioni educative, la scuola in primis. Attraverso le schede proposte si può stimolare una discussione di gruppo e in gruppo sull’omosessualità al fine di prevenire e attaccare l’omofobia. Fondamentale è dedicare uno spazio per favorire il dibattito: sfruttando la coesione sociale tra i membri del gruppo si può facilmente promuovere il cambiamento attraverso l’ascolto dei coetanei.

A pag. 57 afferma che “nei casi di comportamento aggressivo possono essere particolarmente utili il peer mentoring e la peer mediation. Potrebbe gentilmente spiegare la differenza fra questi due approcci?

In riferimento al bullismo omofobico, nel peer mentoring una persona che è stata vittima di bullismo omofobico aiuta un’attuale vittima a superare l’evento traumatico; nella peer mediation uno studente appositamente addestrato aiuta i suoi compagni a trovare le soluzioni per risolvere i problemi riguardanti gli atti di bullismo.

Ha qualche consiglio per i professionisti e colleghi psicologi che vogliono impegnarsi nella lotta all’omofobia con la formazione nelle scuole? Quali sono le prospettive? C’è veramente possibilità di lavorare nelle scuole presentando un progetto specifico sull’omofobia?

La prevenzione scolastica dell’omofobia è una delle sfide più urgenti che la scuola si trova ad affrontare. Lo sanno bene i dirigenti scolastici e gli insegnanti. Dunque le possibilità di lavorare nelle scuole presentando un progetto specifico sull’omofobia sono molte. Pertanto, invito i miei colleghi a impegnarsi nella lotta all’omofobia e a dedicare il proprio tempo alla prevenzione psicoeducativa, presentando progetti di laboratori formativi che affrontino importanti questioni in ambito educativo: stereotipi di genere e identità, violenza tra pari, maschilità e omofobia, intersezioni tra identità di genere, sessualità e provenienza culturale, intolleranza e paura della diversità.

Frida Kahlo: la pittura che porta con sé il messaggio del dolore

Magdalena Carmen Frieda Kahlo y Calderon, meglio conosciuta come Frida Kahlo (1907-1954), è stata una delle più importanti pittrici messicane del secolo scorso ed è, altresì, uno degli esempi più significativi di artista che, cimentandosi col proprio dolore, è riuscita a tradurlo egregiamente in arte. Arte che non può essere compresa senza conoscere alcuni fatti salienti della sua biografia.

La biografia di Frida Kahlo

La vita di Frida Kahlo non ebbe inizio con la sua nascita, il 6 luglio 1907, perché diceva di essere nata nel 1910 e di essere figlia della rivoluzione messicana, quel movimento armato, iniziato proprio nel 1910 per porre fine alla dittatura del generale Porfirio Diaz. Alla nascita Frida era affetta da spina bifida, per questo aveva iniziato a camminare tardi; a diciotto anni, mentre viaggiava su un autobus, rimase vittima di un incidente stradale durante il quale un corrimano le perforò il bacino, con fratture alla spina dorsale, alle costole e alla clavicola. Così raccontò la Kahlo quel terribile incidente: [blockquote style=”1″]L’urto ci spinse in avanti e il corrimano mi trafisse come la spada trafigge un toro. Un uomo si accorse che avevo una tremenda emorragia, mi sollevò e mi depose su un tavolo da biliardo finché la Croce rossa non venne a prendermi. Persi la verginità, avevo un rene leso, non riuscivo a fare la pipì, e la cosa che più mi faceva male era la colonna vertebrale.[/blockquote]

Dopo l’incidente, Frida subì tantissime operazioni chirurgiche e, nel corso dell’intera vita, fu afflitta da continui dolori alla schiena. Tra il 1930 ed il 1934 ebbe tre aborti, secondo alcune fonti spontanei, secondo altre terapeutici. Nel 1950 le furono amputate quattro dita del piede destro, nel 1953 le amputarono una gamba. La sua malattia la fece precipitare in profondi stati depressivi, cominciò a far uso di droghe, tanto da ipotizzare che la sua morte sia avvenuta in seguito ad una volontaria overdose di Demoral, anche se la causa ufficiale della sua morte resta l’edema polmonare.

Nei mesi precedenti la sua morte, la pittrice messicana era molto depressa e tentò varie volte il suicidio. Sotto l’effetto delle droghe, la sua mente andava degenerando. Il marito Diego era talmente disperato che confidò ad un amico “la ucciderei, se ne fossi capace, non posso tollerare di vederla così”. Con Diego Rivera, con cui condivideva la passione per l’arte e l’impegno politico rivoluzionario, la pittrice ebbe un rapporto intenso e tormentato. Nel suo diario Frida scrisse: “Ho subito due gravi incidenti nella mia vita…il primo è stato quando un tram mi ha travolto, il secondo è stato Diego”. Il rapporto con il marito Diego, infatti, fu una nota dolente per tutto il corso della vita della Kahlo: un amore travolgente, ma travagliato e minacciato da continui tradimenti.

Il dolore nell’arte di Frida

Frida Kahlo realizzò più di duecento opere nella sua vita, raccontandoci, attraverso la sua arte, le esperienze traumatiche vissute nel corso della sua esistenza. E’, cioè, riuscita a rendere visibile il dolore attraverso il linguaggio dell’arte e l’arte la aiutò ad esorcizzare il dolore. “La mia pittura porta con sé il messaggio del dolore” ebbe infatti a dire la stessa artista.

Attraverso i suoi quadri la pittrice messicana ha elaborato le sue sofferenze e non ha risparmiato nulla allo spettatore: corpi traumatizzati e feriti, aborti, nutrizione forzata, lacrime. La Kahlo non solo dipingeva, ma faceva sì che la pittura la salvasse dal suo dolore, raccontandolo con parole che non aveva ed infatti la sua pittura è molto interessante non solo per la sua inestimabile resa artistica, ma anche da un punto di vista psicologico. I suoi autoritratti sono straordinari, perché riescono a fondere perfettamente il sé pubblico con il sé intimo e psichico, rendendo visibili eventi ed emozioni che raramente sono stati riconosciuti come legittimi soggetti d’arte. I suoi numerosissimi autoritratti ci fanno intuire quanto il suo corpo di donna ferita e sofferente sia stato centrale nella sua vita e nella sua arte, come in “La colonna rotta”, un autoritratto del 1944 in cui la sua spina dorsale è rappresentata come una colonna ionica rotta in diversi punti, il suo busto è lacerato, il suo volto è segnato dalle lacrime, mentre decine di chiodi sono conficcati sul suo viso e sul suo corpo. Nonostante ciò, il suo sguardo è carico di sfida ed il suo spirito combattente: attraverso l’arte la Kahlo reagisce, nonostante le circostanze fisiche glielo impediscano.

Perfetta espressione artistica del dolore è, a mio avviso, un autoritratto del 1939 intitolato “Le due Frida”. Il dipinto fu realizzato dall’artista subito dopo essersi separata dall’uomo che amerà sempre, ovvero Diego Rivera. La Kahlo si era separata da Rivera, perché ne aveva scoperto la doppia infedeltà e tradimento: da un anno, infatti, egli aveva una relazione con la sorella di Frida.

Nel quadro troviamo a destra Frida in un tradizionale abito messicano, mentre tiene in mano un’immagine di Diego bambino: questa è la donna amata e rispettata da Rivera; mentre a sinistra troviamo una Frida “europea”, in abito bianco, di pizzo: questa è la donna che Rivera ha abbandonato. Entrambe le donne hanno il cuore posto in evidenza sul loro petto: il cuore della Frida messicana è integro, mentre quello della Frida “europea” è sanguinante, la vena è aperta e zampilla sull’abito bianco, nonostante la donna tenga in mano una forbice chirurgica per saturare la vena. La Frida abbandonata, cioè, rischia di morire dissanguata, anche se non si arrende e cerca di chiudere il suo dolore, contenendo il sangue che fluisce inesorabilmente. Non c’è nessuno che possa consolarla, se non l’altra Frida (le due donne, infatti, si tengono per mano), che ancora conserva il ricordo del marito.

L’ultimo quadro della Kahlo che vorrei qui analizzare, per la situazione emotivamente difficile che rappresenta, è “Ospedale Henry Ford” (o “Il letto volante”) in cui l’artista si ritrae dopo un aborto, distesa su di un letto d’ospedale, nuda e sanguinante, con il ventre rigonfio. Dalla mano di Frida fuoriescono rivoli di sangue collegati agli oggetti della sua tragedia psicologica: il feto perduto, la debole struttura ossea del suo bacino, e poi il fiore e la lumaca che alludono, rispettivamente, alla sessualità femminile e ad un ciclo di fertilità ormai terminato. L’opera trasmette sensazioni di solitudine e di dolore molto forti, riflettendo lo stato d’animo della pittrice dopo l’esperienza traumatica dell’aborto. L’aborto era un argomento non facile da affrontare in quegli anni e Frida Kahlo è stata molto coraggiosa a trattare un episodio di vita così intimo e traumatico sul piano fisico, ma anche e soprattutto sul piano psicologico ed emozionale.

Nuove tecnologie, nuove dipendenze: Internet Gaming Disorder

La dipendenza da Internet non può essere considerata uno specifico disturbo psichiatrico, ma piuttosto un sintomo psicologico che può connettersi a differenti quadri diagnostici e clinici. Si può parlare di dipendenza quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva.


Laura Prosdocimo, OPEN SCHOOL PTCR MILANO

L’era digitale

Lo sviluppo di Internet e la sua penetrazione diffusa ha cambiato profondamente ogni dimensione della nostra vita pubblica e privata. Nel 2014, in Italia è aumentata rispetto all’anno precedente la quota di famiglie che dispongono di un accesso ad Internet da casa e di una connessione a banda larga (rispettivamente dal 60,7% al 64% e dal 59,7% al 62,7%). Le famiglie con almeno un minorenne sono le più attrezzate tecnologicamente: l’87,1% possiede un personal computer, l’89% ha accesso ad Internet da casa. All’estremo opposto si collocano le famiglie di soli anziani ultrasessantacinquenni: appena il 17,8% di esse possiede il personal computer e soltanto il 16,3% dispone di una connessione per navigare su Internet (ISTAT, 2014).

Il Web 2.0., termine usato per indicare uno stato dell’evoluzione del World Wide Web (Dinucci, 1999, O’Reilly, 2009), ci raggiunge sempre e in ogni luogo attraverso computers, tablets, smart-phones e simili.
In un giorno mediamente sono 23 milioni gli italiani che visitano il social network più popoloso del pianeta –Facebook- (erano 20 milioni nel 2015).

Ma la velocità più impressionante riguarda l’utilizzo in mobilità. Sono 25 milioni coloro che, almeno una volta al mese, lo usano da un tablet o uno smartphone, mentre 21 milioni accedono quotidianamente. In entrambi i casi si tratta di un balzo di ben 4 milioni anno su anno.
Interessante guardare come cambia la composizione demografica da gennaio 2014 ad oggi. Secondo i dati forniti da Facebook Advertising, i giovani (fino a 18 anni) raggiungibili con gli investimenti pubblicitari sarebbero calati di 100.000 unità (-5%). A calare anche le coorti 19-24 e 30-35 del 2%.
In crescita, invece, le altre, i 25-29enni (+3%), i 46-55enni (+6%) e soprattutto gli ultra 55enni (+10,5%). La popolazione più numerosa è ormai da tempo quella dei 35-45enni con 6.300.000 unità.

Internet è l’eccesso e il virtuale per definizione (Cantelmi et al., 2000). Senza confini, senza limiti: né di spazio (è in ogni luogo, senza essere in alcun luogo), né di tempo (è pronto al consumo quando voglio).

Il telefono cellulare va di pari passo con internet. Splendido strumento, usato per consentire di essere simultaneamente sempre soli e mai soli. Si pensi agli SMS, piccole pillole quotidiane, senza le quali c’è chi non riesce più a stare. Recenti studi riferiscono di adolescenti che passano notti insonni per controllare ripetutamente se il loro cellulare, obbligatoriamente acceso 24 ore su 24, è latore di qualche messaggio. Esso viene usato anche per lanciare richiami (“Ti faccio uno squillino per farti sapere che penso a te”), ed è un altro modo virtuale e mediato per scaricare nell’immediato tensioni e bisogni che andrebbero elaborati in relazioni dirette, stabili e sicure (Di Gregorio, 2003).

Prima del web il gioco d’azzardo era divertimento, acquisto di emozioni forti, parentesi nella quotidianità. In passato era molto più facile da praticare in tempi limitati e luoghi definiti, ora queste dimensioni si sono perse con il rischio di passare dal piacere alla dipendenza. Il gioco d’azzardo è anche illusione di cambiamento e potente segnale di sfiducia nelle proprie possibilità di incidere efficacemente sulla propria vita.

Nell’illusione di guadagno e nell’eccesso, si perde la consapevolezza della certezza di perdita. Non a caso, nei periodi di crisi economica e depressione, quando tutti i consumi si contraggono e l’economia tradizionale perde punti, il mercato del gioco d’azzardo fiorisce, promosso persino dagli Stati …(Fiasco, 2001)
Si fa strada così lo sviluppo della dipendenza e viene coniato il termine Internet Addiction nel 1995 da Ivan Goldberg che propose dei criteri riformulando quelli della dipendenza da sostanze del DSM-IV: un uso maladattivo di internet, che conduce a menomazione o disagio clinicamente significativi.

 

La dipendenza da internet

Il disturbo da abuso della rete telematica, l’Internet Addiction Disorder (IAD), ha riscosso una certa attenzione da parte della comunità scientifica.
Circa il 40% della popolazione mondiale possiede oggi una connessione internet.
Le nuove dipendenze, o dipendenze senza sostanza, si riferiscono a una vasta gamma di comportamenti anomali: tra esse possiamo annoverare il gioco d’azzardo patologico, la dipendenza da TV, da internet, lo shopping compulsivo, le dipendenze dal sesso e dalle relazioni affettive, le dipendenze dal lavoro.

La letteratura individua cinque tipologie di cyberdipendenti:

  • Cyber-Relational Addiction: la tendenza a instaurare relazioni amicali e amorose sul Web. Questo causa l’idealizzazione delle persone ed una progressiva perdita del contatto con la realtà per abbandonarsi ad una dimensione amorosa o amicale virtuale. Sono spesso utilizzati siti di incontri, le chat e i newsgroup.
  • Net-Compulsions: i comportamenti compulsivi messi in atto tramite Internet, ovvero:
    – gioco d’azzardo
    – commercio in rete
    – partecipazione ad aste on-line.
    Frequenti sono i  gravi problemi finanziari per le persone affette da questi tipi di dipendenze.
  • Information-Overload: la ricerca compulsiva di informazioni on-line. Nel 1997 è stata condotta una ricerca basata su un campione di 1000 persone provenienti da Stati Uniti, Hong Kong, Germania, Singapore e Regno Unito dal titolo: “Glued to the screen: An investigation into information addiction worldwide”.
    Il 54% del campione della ricerca sostiene di esperire una forte eccitazione quando riesce a trovare ciò che stava cercando e il 50% passa molto tempo a cercare informazioni in rete.
  • Cybersexual-Addiction: l’uso compulsivo di siti pornografici o comunque dedicati al sesso virtuale. E’ una delle tipologie più frequenti. Le principali attività sono flirtare e instaurare relazioni amorose, ma non sempre si tramutano in conoscenze e relazioni reali.
    Kimberly S. Young, docente di Psicologia presso l’Università di Pittsburgh e direttrice del Center for Online Addiction, ha tracciato un profilo del cybersexual addicted : [blockquote style=”1″]Il soggetto si dedica in modo sempre più compulsivo all’uso di internet per trovare un partner o materiale erotico, fino a considerare l’eccitazione che ne deriva come forma primaria di gratificazione sessuale, e fino a ridurre l’investimento sul partner reale. Inoltre il disagio scaturito dalla dipendenza porta il soggetto a nascondere le proprie relazioni virtuali agli altri, provando sentimenti di colpa o vergogna.[/blockquote]
  • Computer-Addiction: l’utilizzare il computer per giochi virtuali, soprattutto giochi di ruolo, in cui il soggetto può costruirsi un’identità fittizia. Il soggetto può avere un’identità parallela: o esprimersi liberamente per ciò che è, grazie all’anonimato, oppure “indossare”, proprio come una maschera, delle nuove identità. (Young K. Et al., 2000).

 

La nomofobia

Per quanto riguarda la nomofobia, secondo David Greenfield, professore di psichiatria all’Università del Connecticut, l’attaccamento allo smartphone è molto simile a tutte le altre dipendenze in quanto causa delle interferenze nella produzione della dopamina, il neurotrasmettitore che regola il circuito celebrale della ricompensa: in altre parole, incoraggia le persone a svolgere attività che credono gli daranno piacere. Così ogni volta che vediamo apparire una notifica sul cellulare sale il livello di dopamina, perché pensiamo che ci sia in serbo per noi qualche cosa di nuovo e interessante. Il problema però è che non possiamo sapere in anticipo se accadrà davvero qualche cosa di bello, così si ha l’impulso di controllare in continuazione innescando lo stesso meccanismo che si attiva in un giocatore di azzardo (Greenfield D.N. e Davis R.A., 2002).

Nonostante nel nome compaia la sigla “fobia” e che i sintomi siano molto similari a quelli dell’ansia, uno studio condotto da ricercatori del Panic and Respiration Laboratory, dell’Università Federale di Rio de Janeiro (2010) sembra indicare che la Nomofobia sia da considerare una dipendenza patologica piuttosto che un disturbo d’ansia.
I ricercatori avrebbero infatti sperimentato che un approccio terapeutico mirato a ridurre l’ansia non sia efficace nel trattamento della nomofobia, ma che i soggetti affetti da questo tipo di psicopatologia rispondano meglio ad un trattamento specifico per le dipendenze patologiche (King A.L. at all., 2010).

 

Internet Gaming Disorder e gli studi di neuroimaging

Per la prima volta, la quinta versione del Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali -DSM-5- comprende, insieme ai disturbi da uso di sostanze, anche il disturbo da gioco d’azzardo (Gambling disorder) e il disturbo da gioco su Internet (Internet Gaming Disorder). Si tratta di una diagnosi sperimentale che necessita quindi di ulteriori studi. Infatti diversi studiosi affermano che la dipendenza da Internet non può essere considerata uno specifico disturbo psichiatrico, ma piuttosto un sintomo psicologico che può connettersi a differenti quadri diagnostici e clinici.

Si può parlare di dipendenza quando la maggior parte del tempo e delle energie vengono spesi nell’utilizzo della rete, creando in tal modo menomazioni forti e disfunzionali nelle principali e fondamentali aree esistenziali, come quella personale, relazionale, scolastica, familiare, affettiva.

La diagnosi di disturbo da gioco d’azzardo si avvicina particolarmente all’IAD (Internet Addiction Disorder) perché comporta il fallimento della capacità di controllo senza implicare un’intossicazione da sostanza. L’IAD è una modalità eccessiva di utilizzo della reta telematica che si traduce in una serie di sintomi cognitivi e comportamentali tra cui la perdita di controllo, la tolleranza e l’astinenza. Se ai soggetti viene impedito di usare il computer, diventano irritabili, ansiosi o tristi. Spesso rimangono senza cibo o sonno per lunghi periodi e trascurano i normali doveri sociali. Nel caso di gioco online (Net Compulsion), caratteristica essenziale del disturbo è la partecipazione ricorrente e per lungo tempo a giochi di gruppo che prevedono la competizione e la strutturazione di attività sociali di interazione durante il gioco. In tale condizione, vengono trascurate le occupazioni personali, familiari o professionali.

La dipendenza da Internet (IAD) risulta frequentemente associata ad altri disturbi psichiatrici, tra cui dipendenza da sostanze, depressione, problemi di rabbia e ansia sociale (Flisher C. 2010, Ko C. et al., 2012). Inoltre, sono stati individuati numerosi aspetti di questo disturbo comuni ad altre patologie note. Le persone con dipendenza da Internet, infatti, mostrano sintomi clinici come craving, astinenza, tolleranza, impulsività e compromissione delle capacità cognitive nel prendere decisioni rischiose (Sim T. et al. 2012, Sun D. et al. 2009, Block J. 2008; Shapira N. et al., 2000).

Recenti studi di neuroimaging suggeriscono che il circuito cerebrale che media il desiderio indotto per i videogiochi online sia simile a quello elicitato da stimoli correlati ad alcol e droghe. L’ipotesi è che il desiderio di giocare a videogiochi online, indotto attraverso stimolazione,
attivi aree cerebrali comuni a quelle coinvolte dal craving per sostanze stupefacenti e psicotrope (Ko C.-H. et al., 2011; Han D. et al., 2011; Du W. et al., 2011; Ko C.H. et al., 2009). Il craving, infatti, rappresenta un elemento cruciale nella dipendenza da sostanze e la comprensione del meccanismo neurale alla base del craving risulta fondamentale per il trattamento (Franken I., 2003).

Uno studio, condotto presso l’Università di Taiwan, ha esaminato i correlati cerebrali del craving in persone con dipendenza da videogiochi online attraverso un’indagine di fMRI (Ko C. et al., 2011). Il gruppo di pazienti esaminati – 15 persone con dipendenza da gioco online, 15 in fase di remissione e 15 soggetti di controllo – sono stati sottoposti alla visione di immagini neutre o legate al gioco, ed è stata esaminata la risposta di craving correlata allo stimolo.

I risultati hanno evidenziato un’attivazione di specifiche aree cerebrali (corteccia prefrontale dorsolaterale bilaterale DLPFC, cingolato posteriore e anteriore destro) nei pazienti affetti da dipendenza in risposta agli stimoli legati al gioco, reazione più forte di quella osservata nel gruppo di controllo. L’attivazione di queste aree coincide con il circuito cerebrale coinvolto nei meccanismi di dipendenza da sostanze. Inoltre, i soggetti con dipendenza da gioco online hanno mostrato una maggiore attivazione in aree cerebrali (DLPFC e paraippocampo) ritenute marcatori candidati per la dipendenza da gioco online (Ko C. et al., 2011).

Le persone affette da dipendenza da Internet, in modo analogo ad altre forme di dipendenza, sarebbero caratterizzate da un deficit del sistema dopaminergico a capo dei meccanismi di ricompensa e punizione.
Dong e colleghi (2011) hanno esaminato, attraverso un’indagine di fMRI, le reazioni di soggetti con IAD durante l’esecuzione di compiti in cui sperimentavano personalmente una vincita/perdita in denaro. Il campione esaminato era composto di maschi con un’età media di 23 anni, 14 con IAD e 13 di controllo. Nel compito, i partecipanti potevano scegliere tra due mazzi di carte attraverso un pulsante; dopo poco la carta scelta veniva visualizzata: le carte rosse erano vincenti, quelle nere perdenti. All’inizio della sessione ogni giocatore riceveva 50 dollari, e la vincita/perdita per ogni giocata era di 10 dollari. Durante la sessione veniva costantemente visualizzata la somma di denaro accumulata, e il saldo in contanti sarebbe stato consegnato solo alla fine. La procedura permetteva ai ricercatori di controllare completamente la sequenza di vittorie e sconfitte, dando ai partecipanti l’impressione di poter scegliere.

Figura 1

Fig. 1 – Compito di vincita/perdita di denaro, indovinando il colore delle carte (rosso vincente, nero perdente) e tempi di visualizzazione. Fonte: Dong G. et al. 2011.

Nella condizione di vincita, i soggetti con IAD si distinguevano per una maggiore attivazione della corteccia orbito frontale rispetto al gruppo di controllo. Nella condizione di perdita, al contrario, nei soggetti dipendenti si registrava una ridotta attività nella corteccia cingolata anteriore.

Figura 2

Fig. 2 – Attivazione cerebrale in condizioni di vincita e perdita in soggetti con dipendenza da Internet. Fonte: Dong G. et al. 2011.

È ampiamente riconosciuto il ruolo della corteccia orbito-frontale nei processi cognitivi e nel creare un’associazione tra comportamento e ricompensa. L’iperattivazione nei soggetti con dipendenza da Internet può essere spiegata da una maggiore sensibilità di questi alla gratificazione, derivante dalla sensazione di controllo e di realizzazione immediata. La ridotta attività nella corteccia cingolata anteriore, invece, è coinvolta nella mediazione delle risposte emotive al dolore. La ridotta attività riscontrata in questa area cerebrale nei soggetti con IAD, può suggerire una minore sensibilità rispetto alle emozioni negative (perdita monetaria, Dong G. et al., 2011).

Un recente studio condotto da un team di ricercatori cinesi si è proposto di verificare se le anomalie a scapito del sistema dopaminergico, riscontrate in persone con tossicodipendenza, fossero presenti anche in persone affette da IAD (Hou H. et al., 2012). Al fine di individuare eventuali anomalie nei livelli del trasportatore striatale della dopamina (DAT), è stata utilizzata la tomografia computerizzata a emissione di fotoni singoli (SPECT) (con il radio tracciante 99mTc-TRODAT-1). Il campione esaminato era composto di 5 persone affette da dipendenza da Internet (età media 20 anni), e 9 soggetti di controllo. I pazienti affetti da IAD utilizzavano Internet ogni giorno, trascorrendovi una media di 10 ore. Nessun partecipante aveva mai utilizzato sostanze illecite o soffriva di disturbi psichiatrici e neurologici. Dall’analisi dei risultati della SPECT è emersa una alterazione dei livelli di espressione del trasportatore striatale della dopamina nei soggetti affetti da IAD rispetto al gruppo di controllo.

Figura 4

Fig. 4 – Confronto tra immagini di SPECT di un soggetto con dipendenza da Internet (a) e un soggetto di controllo (b), entrambi ventenni. L’emisfero cerebrale sinistro è raffigurato nella parte destra dell’immagine. Il soggetto con IAD mostra una significativa riduzione del DAT nello striato; il corpo striato bilaterale è più piccolo e più irregolare rispetto a quello del gruppo di controllo. Fonte: Hou H. et al., 2012.

I risultati di questo studio forniscono evidenze scientifiche che provano come la dipendenza da Internet possa indurre una riduzione significativa dei livelli di DAT nel cervello, e che la IAD sia associata a disfunzioni nel sistema dopaminergico (Hou H. et al., 2012). Inoltre, tali risultati supportano la tesi secondo cui la IAD condivide anomalie neurobiologiche comuni anche ad altri disturbi da dipendenza (Potenza M., 2006).

La dipendenza da Internet potrebbe causare anche anomalie a scapito della materia grigia cerebrale. Uno studio condotto da Zhou e colleghi hanno dimostrato che i soggetti affetti da dipendenza da Internet mostravano una minore densità della materia grigia nel lato sinistro della corteccia cingolata anteriore, della corteccia cingolata posteriore, dell’insula e del giro linguale, rispetto ai coetanei del gruppo di controllo.

Le regioni cerebrali dove è stata individuata una riduzione della materia grigia sono state concettualmente collegate alle aree cerebrali responsabili di modulare il comportamento emotivo.

Oltre a modifiche della materia grigia, si ritiene che la dipendenza da Internet possa alterare l’integrità microstrutturale delle principali vie neurali, in relazione alla durata della dipendenza. Inoltre, una dipendenza a lungo termine provocherebbe anomalie cerebrali strutturali che sarebbero associate a disturbi funzionali nel controllo cognitivo in soggetti con IAD (Young K. 1998, Ko C. et al., 2012).

Per verificare tale ipotesi, un recente studio condotto da Yuan e colleghi, ha esaminato la morfologia cerebrale di un campione di adolescenti utilizzando tecniche di morfometria ottimizzata basata su voxel. Esaminando i valori di FA (anisotropia frazionaria) della materia bianca in ciascun partecipante, è emerso che i soggetti con IAD riportavano valori minori in corrispondenza del giro paraippocampale destro.

Secondo gli autori, bassi valori di FA riscontrati nel giro paraippocampale destro dimostrerebbero come le anomalie della materia bianca sarebbero alla base dei deficit di memoria di lavoro nei soggetti con IAD. Al contrario, i valori di FA aumentavano in corrispondenza della capsula interna del limbo posteriore sinistro, che è collegato alla corteccia motoria primaria. Una possibile spiegazione è data dal fatto che i soggetti con IAD trascorrono molto tempo a giocare con i videogiochi e questo “allenamento” degli arti superiori ha modificato la struttura della materia bianca nella capsula interna, rafforzando la FA. A tutti i partecipanti, inoltre, sono stati somministrati sei differenti questionari per definire i tratti comportamentali (Young’s Internet Addiction Scale (YIAS), Time Management Disposition Scale (TMDS), Strengths and Difficulties Questionnaire (SDQ), Barratt Impulsiveness Scale-11 (BIS), the Screen for Child Anxiety Related Emotional Disorders (SCARED), Family Assessment Device (FAD).

L’atrofia della materia grigia e i cambiamenti relativi alla materia bianca rilevati in questo studio rappresenterebbero secondo i ricercatori una compromissione funzionale della capacità di controllo cognitivo in persone con dipendenza da Internet (Yuan K. et al., 2011b).
In conclusione, secondo i ricercatori questi risultati suggeriscono che l’integrità della materia bianca possa rappresentare un nuovo potenziale target per il trattamento della dipendenza da Internet.

figura 6

Fig.6 – Analisi di correlazione tra anisotropia frazionaria (FA) e misure comportamentali in adolescenti con IAD.
Fonte: Zhou Y, Lin F-C, Du Y-S et al. (2011), Gray matter abnormalities in Internet addiction: A voxel-based morphometry study, European Journal of Radiology 79:92–95.

Da questi studi emerge come la dipendenza da Internet comporti cambiamenti strutturali e funzionali a scapito di regioni cerebrali coinvolte nei processi emotivi, decisionali, di attenzione esecutiva e di controllo cognitivo. Inoltre, i ricercatori suggeriscono che la IAD condivida meccanismi neurobiologici comuni ad altre forme di dipendenza. Infatti, grazie agli studi di neuroimaging è stato possibile individuare in persone affette da IAD anomalie strutturali e funzionali simili a quelle identificate nella dipendenza da sostanze e nella dipendenza comportamentale (Yuan K. et al., 2011a).

 

La terapia cognitivo comportamentale per la dipendenza da internet

Date le dinamiche in atto con la dipendenza da Internet, la Terapia Cognitivo Comportamentale (CBT) è un quadro terapeutico ideale per il trattamento di coloro che soffrono di questa condizione.

La terapia, secondo il modello studiato da Kimberley S. Young (2011) del Center for Internet addiction, comprende 3 fasi. L’obiettivo specifico della terapia è di modificare il comportamento e arrivare ad un utilizzo sano del computer. Il programma di trattamento richiede che la persona sia pronta ad ammettere la dipendenza.
Per definire un piano d’intervento orientato a raggiungere l’ obiettivo specifico è necessario nella fase iniziale una valutazione dell’uso attuale di Internet (Young, 2007).

La Fase 2 della CBT-IA prevede la Ristrutturazione Cognitiva e affronta i pensieri disadattivi che fungono da trigger e avviano comportamenti compulsivi su Internet. Pensieri disadattivi quali generalizzazione, astrazione selettiva, esaltazione, sono associati all’uso dipendente di Internet . Per esempio, la persona dipendente da Internet può presentare pensieri distorti ed estremi su di sé che includono la ruminazione (per esempio, costantemente pensare e preoccuparsi dei problemi connessi con l’uso on-line e potenziare il Sé on-line (ad esempio, “Sono privo di valore offline, ma nel mondo online sono qualcuno “). Essi possono anche soffrire di pensieri distorti sul mondo, come “Nessuno mi ama offline” e “Il mondo del gioco on-line è l’unico posto dove sono rispettato.”

Nella terza Fase della CBT-IA, è prevista la riduzione del danno (Marlatt, Blume, & Parks, 2001) e vengono identificati eventuali fattori concomitanti associati allo sviluppo della dipendenza da Internet. Questi fattori possono includere problemi personali, situazionali, sociali, psichiatrici, o professionali.
Spesso, i dipendenti da internet suppongono che una semplice pausa del comportamento è sufficiente per dire: “Sono guarito.” Ma è necessario fare molto di più per il pieno recupero che richiede di indagare i sottostanti problemi che hanno portato al comportamento compulsivo e risolvere tali problemi in modo sano; altrimenti, la ricaduta è probabile che si verifichi.

Oltre agli interventi terapeutici di cura della dipendenza, concludendo si desidera sottolineare, quanto sia altrettanto importante lavorare sullo scenario complessivo nell’ambito della prevenzione primaria, con interventi psico-pedagogici sistematici e ben strutturati di promozione alla salute, che potenziano le life skills secondo le indicazioni dell’OMS. Infatti per esempio i progetti di promozione alla salute basati sulla peer e media education, sviluppano e potenziano il self empowerment e le competenze digitali, in modo tale che la persona cresca con le competenze culturali adeguate per vivere nella società dell’informazione e delle nuove tecnologie, senza cadere nell’uso problematico di questi strumenti.

La deprivazione di sonno porta a mangiare di più: possibili ricadute nella lotta contro l’obesità

Secondo una recente meta-analisi svolta da ricercatori del King’s College di Londra, la deprivazione di sonno potrebbe portare le persone a consumare un maggior numero di calorie durante il giorno successivo. 

Presto a letto, presto svegli: ciò che rende un uomo sano e saggio

 

Gli autori, infatti, analizzando una serie di ricerche precedenti, hanno mostrato come soggetti deprivati di sonno consumino mediamente 385 calorie in più al giorno.

Secondo l’americana National Sleep Foundation, gli adulti tra i 18 e i 65 anni dovrebbero dormire una media di 7-9 ore al giorno, ma lo stile di vita moderno sempre più frenetico ed impegnato, che comprende anche quote eccessive di tempo passate davanti ad uno schermo e turni di lavoro a volte proibitivi, sembrerebbe poter causare una possibile diminuzione della durata media delle ore di sonno. Nonostante i dati presenti in letteratura non risultino essere sempre concordi, sembrerebbe esistere un certo grado di consenso circa l’esistenza di una relazione tra la deprivazione di sonno e l’aumento di peso.

 

Deprivazione di sonno e apporto calorico: uno sguardo alla metanalisi

Più nello specifico, la meta-analisi è stata svolta su 11 studi, che hanno misurato, su un totale di 172 soggetti, l’apporto calorico nelle 24 ore successive ad un intervento parziale di deprivazione di sonno, confrontandolo poi con quello di controlli senza restrizione.

Nei diversi studi, i soggetti sottoposti alla condizione sperimentale dormivano tra le tre ore e mezzo e le cinque ore e mezzo a notte, mentre i soggetti di controllo tra le sette e le dodici ore. Dalle analisi è emerso come la parziale deprivazione di sonno sembri avere un effetto significativo sulla quantità totale di calorie assunte (energy intake) nelle successive 24 ore, per un totale di 384 calorie nette in più, ma non sulla quantità di calorie consumate (energy expenditure).

Gli autori hanno inoltre rilevato una differenza circa il tipo di macronutrienti preferiti dai soggetti con deprivazione di sonno; questi ultimi infatti, a differenza dei controlli, hanno mostrato una rilevante tendenza a consumare una maggiore percentuale di grassi e minore di proteine. Nessuna differenza è invece stata rilevata per quanto riguarda i carboidrati.

 

Sonno e obesità

Queste evidenze, nel complesso, ben si inseriscono all’interno della questione circa la dilagante diffusione dell’obesità. Una delle principali cause che portano allo sviluppo di questo disturbo, infatti, risulta essere proprio uno squilibrio tra la quantità di calorie ingerite quotidianamente e la quantità di calorie consumate, squilibrio che potrebbe essere esacerbato, anche a livello di macronutrienti, da una prolungata deprivazione di sonno. Ad esempio, infatti, una prolungata tendenza ad assumere una maggior percentuale di grassi potrebbe portare sul lungo periodo allo sviluppo di problemi cardiovascolari.

Per poter spiegare l’associazione tra la quantità di ore di sonno e la quantità di apporto calorico sono state avanzate diverse ipotesi.

Ad esempio la deprivazione di sonno potrebbe causare uno squilibrio a livello ormonale (ad es. leptina, ormone che regola il senso di sazietà, e grelina, ormone che stimola il senso di appetito) che a sua volta porterebbe ad un maggior bisogno calorico (Spiegel et al., 2004). Oppure, in linea anche con quanto rilevato da St-Onge e collaboratori (2012), la deprivazione di sonno porterebbe ad una maggiore attivazione neuronale, principalmente in aree legate alla ricompensa (ad es. Corteccia Prefrontale, Insula, Talamo, Accumbens e Putamen), in risposta alla presentazione di cibo. In altre parole, ad una maggiore deprivazione di sonno corrisponderebbe una maggiore motivazione a ricercare cibo per ottenere gratificazione e ricompensa.

Per quanto siano necessarie ulteriori evidenze a supporto degli effetti a lungo termine di una prolungata carenza di sonno, l’aver messo in luce la relazione tra ore di sonno e comportamento alimentare può risultare estremamente utile anche per quanto riguarda la lotta all’obesità. La deprivazione di sonno è infatti considerata, anche dagli autori stessi, come uno tra i più comuni fattori di rischio per la salute pubblica, ma anche in potenza uno tra i più facilmente modificabili.

Proprio in questo senso, la parziale deprivazione di sonno potrebbe essere vista come un fattore di rischio per lo sviluppo di una tendenza alla sovralimentazione e all’obesità, mentre invece il prolungamento del tempo dedicato al riposo potrebbe giocare un ruolo chiave nella prevenzione degli stessi disturbi. Insomma, la comprensione dei meccanismi che legano tra loro l’aumento di peso e la deprivazione di sonno risulta essere potenzialmente un nuovo obiettivo di intervento per quanto riguarda la gestione del peso.

 

Le fiabe in terapia e il loro valore: Cenerentola come strumento di cura

Le  storie e le fiabe in terapia hanno duplice valore comunicativo, poiché trasmettono non solo contenuti, ma anche nuclei di senso, capaci di risuonare e di connettersi in maniera spontanea con la porzione più arcaica del nostro essere.

 

Passato, presente e futuro, in una connessione magica, trovano spazio e tempo nello “spazio senza tempo” delle fiabe.

Tutto ciò accade al di sotto della narrazione verbale: la fiaba, anello di congiunzione tra generazioni diverse,  racconta una storia. La storia, oltre al contenuto manifesto, ne convoglia uno latente, potremmo dire quasi “rivestito” degli abiti fiabeschi… ed è proprio quel nucleo latente ad avere la potenzialità di risvegliare e nutrire gli aspetti più profondi della psiche. Genitori, non stancatevi di raccontare le fiabe!

Quella porticina speciale che solo le fiabe sanno aprire, può diventare una delle vie maestre di accesso alle emozioni, ai sogni e ai desideri, e l’apertura di senso consente un importante viaggio tra i simboli utilizzabili per la cura (Marinelli, 2004).

 

Il valore delle Fiabe in terapia

Ma come possono, le fiabe in terapia, costituire un accesso privilegiato alla cura?

Le fiabe svolgono la funzione di oggetto mediatore: le fiabe in terapia sono portatrici di contenuti profondi, e permettono in una relazione terapeutica o educativa di potersi avvicinare ad essi in modi non diretti.

Le fiabe in terapia esercitano infatti una funzione organizzatrice del pensiero. Attraverso tale funzione è possibile dare forma concreta ai propri fantasmi, trasformando il caos dei pensieri più selvaggi in fisionomie individuabili, riconoscibili e narrabili. Nelle fiabe “le emozioni non sono espresse  direttamente, ma evocate da personaggi fortemente caratterizzati nei quali sono, per così dire, incarnate” (Messeca e Raufman, 2008).

 

Le fiabe in terapia: Cenerentola e la trappola dell’abbandono

Cenerentola, orfana e maltrattata da matrigna e sorellastre, con l’aiuto di un potere soprannaturale riesce a recarsi al ballo reale, dove conosce il Principe, che si innamora di lei. La sua fuga precipitosa e la ricerca successiva del Principe sono comuni a tutte le versioni della fiaba, mentre la perdita della scarpetta è talvolta sostituita da altri oggetti per mezzo dei quali Cenerentola viene, comunque, infine riconosciuta.

In prima battuta, dunque, la storia di Cenerentola dona al bambino la promessa di riscatto: anche se la vita (del bambino) è stata costellata di umiliazioni, verrà riscattato e condotto in alto. Una sorta di “promessa di un lieto fine” che è peraltro tipica della letteratura infantile.

Ad uno sguardo più approfondito, possiamo cogliere nella fiaba di Cenerentola alcuni aspetti fondamentali e specifici: l’essere orfana e umiliata (e quindi la solitudine, il rifiuto, l’abbandono e l’ingiustizia), il fatto di poter ricevere aiuti soprannaturali (e quindi la trasformazione e la magia), il limite temporale di tali aiuti che la obbligano alla fuga precipitosa (e quindi la vergogna), la presenza di un oggetto che ne ricorda l’identità e che chiarifica il legame tra la sua apparenza meravigliosa al ballo e la sua esistenza misera attuale (e quindi la prova), il riscatto finale. Di conseguenza, dalla fiaba scaturiscono una serie di temi che possono riecheggiare nel lettore e dai quali egli, potenzialmente, può essere trasformato.

In un lavoro terapeutico di Zoran (2008) con un gruppo di giovani, la fiaba di Cenerentola assume il ruolo di terza voce (rispetto alle voci di pazienti e terapeuta), ovvero il testo letterario entra in terapia come interlocutore autonomo. La lettura della fiaba, in questa luce, rende nuovamente attuali nel lettore i temi sottostanti alla trama, caratterizzati a seconda delle esperienze pregresse. Ciò crea un dialogo fecondo tra la parte infantile e quella adulta dell’individuo che ha permesso ad alcuni pazienti di rielaborare alcune primissime esperienze infantili, illuminandole dal punto di vista adulto, senza privarle della vitalità e dell’autenticità del primo incontro con la fiaba. (Zoran, 2008).

Ai giovani che partecipavano al lavoro “Biblioterapeutico” di Zoran, venne chiesto di identificare nella fiaba di Cenerentola un tema particolarmente significativo nella loro infanzia, e di integrarlo emotivamente con la reazione attuale, di adulti. Orit, una delle ragazze, scelse l’aspetto della solitudine, del rifiuto:

Ciò che più ricordo dalla mia fanciullezza è il fatto che nessuno al mondo riconosce l’esistenza di Cenerentola. Ricordo che era circondata da una totale indifferenza: ogni volta che cercava di dire qualcosa era rifiutata e umiliata. Sempre più lei si considerava del tutto insignificante.

La Cenerentola di Orit è quindi una bambina rifiutata, svalutata e umiliata, la cui esistenza viene addirittura cancellata tramite l’esclusione. Questa esperienza di non esistere era profondamente legata all’infanzia di Orit, quando lei costantemente sentiva che nessuno aveva cura di lei. (Zoran, 2008) Cenerentola, secondo Orit, viene dimenticata perché non merita altro atteggiamento.  Inoltre, Orit pensava che per esistere nel mondo dei genitori fosse necessario affermarsi: chi, poi, non dovesse riuscirci, è semplicemente un fallimento.

Alla fine dell’esperienza, Orit raggiunse la consapevolezza che la grave mancanza di sostegno dei suoi genitori e la loro incapacità la avevano in qualche modo intrappolata per tutta la vita. Tale presa di coscienza fu il punto di partenza del suo cambiamento.

Marco Ligabue e le sue Luci: Le Uniche Cose Importanti – Psicologia & Musica

A suscitare emozioni, questa volta, non è il fiammifero di Prévert – che l’artista richiama in uno dei suoi brani – ma sono le «Luci» che Marco Ligabue è riuscito ad accendere in chi ha avuto la fortuna di viverlo in un’esibizione live o in chi, ascoltandone il Compact Disc, ne ha saputo cogliere ogni sfumatura.  

 

Si chiama Luci, infatti, e non è un caso (L.u.c.i. è acronimo di Le Uniche Cose Importanti) l’ultimo nato in casa Ligabue, fuori dal 23 giugno 2015, secondo lavoro discografico di Marco dopo il battesimo da solista, nel 2013, con Mare dentro.

Non è un caso perché Marco Ligabue in Luci consegna note e parole che, libere da zavorre di equilibri prestabiliti, ci arrivano dritte al cuore, senza se, senza ma e senza compromessi con sterili formalismi. Un cd – produzione artistica curata da Corrado Rustici e featuring di razza – con cui l’ex autore e chitarrista dei Rio, fratello minore di Luciano, da cui eredita il dna artistico, pur distinguendosi per timbrica e personalità, torna a far parlare di sé.

Un’ulteriore conferma del talento di Marco Ligabue che, brano dopo brano, convince non solo come cantautore, ma anche come uomo… un uomo come pochi, uno che, sorriso cristallino e sguardo pulito, sa parlare di valori e sa farlo con l’onestà di chi, in quei valori, ci crede davvero.

Una semplicità disarmante, la sua, mai banale e miscelata ad una voglia di vivere che non scivola, neanche per un istante, nell’eccentricità. E i suoi testi lo confermano: profondi ma non criptici, riflessivi ma tessuti su un incurabile ottimismo. Una lettura della vita, insomma, improntata sulla capacità di saper apprezzare ogni piccolo grande gesto, senza mai rinunciare a lottare per le proprie idee e i propri valori. Queste, le uniche cose importanti. Come afferma l’artista:

Quello di cui oggi forse c’è bisogno è la volontà di accendere certe piccole cose importanti che tutti abbiamo dentro come l’amore, l’onestà, la trasparenza, la capacità di indignarsi ma in modo costruttivo, col sorriso sulle labbra. La volontà di dialogare. Le Uniche Cose Importanti che servono per dare al mondo una scossa, sono quelle di cui si canta in queste canzoni. E vanno accese, una alla volta, come fossero tante piccoli luci.

 

I brani in Luci di Marco Ligabue

Un discorso, quello di Marco Ligabue, che si snoda in 9 tracce, in una sorta di viaggio musicale che si apre con il sound energico di “Eri lì con me ogni giorno”, il cui ritmo incalzante supporta un messaggio denso: scovare, dentro noi, quel bel pensiero capace di restituirci il giusto passo quando, di fronte alla scelta finale ci troviamo soli, nonostante la collezione di buoni consigli.

E’ una ballata, invece, a sostenere il testo di “Non è mai troppo tardi“, parole che dipingono l’altra Italia, quella sana, onesta, vera, quella fatta da chi non cambia opinione a seconda dei luoghi o delle persone.

Torna l’impronta rock con “Ti porterò lontano”, a denunciare le incongruenze e le false promesse con cui l’attuale generazione è costretta a convivere. Ma attenzione, perché il sintomo d’amore è il linguaggio universale, ed è così che ci riprenderemo il nostro angolo di cielo.

Nostalgia e un passato che non vuole svanire imbastiscono “Tornerai“, intensa lettera d’amore dedicata a quelle presenze del nostro ieri che non riusciamo a dimenticare o di cui attendiamo il ritorno, coscienti che, forse, non sono mai andate via.

Lotta alla mafia senza veli quella di Marco Ligabue, in “Il silenzio è dolo“, ispirata alla protesta accesa da un ragazzo palermitano, all’indomani di brogli elettorali cui seguì la dimissione dell’intera giunta comunale.

Traccia n. 6 per “L’equilibrista“, flash sulla vita di chi, nonostante le difficoltà, le ossa rotte e le porte in faccia non perde di vista l’obiettivo, apre le braccia e va su un piede perché sa che la rivincita arriva solo dopo la batosta.

Empatia e condivisione come supporti vitali nei giorni sottotono, in quelli in cui la luce va e viene, scandiscono le note di “Hey“, slogan sull’importanza di guardare al futuro dalla stessa prospettiva e con positività, perché, in fondo, l’amore si somma sempre e soltanto se toccando il fondo restiamo accanto.

Fondamentale, però, e lo canta a cuore aperto Marco Ligabue nella track n. 8, “Fare il nostro tempo“, è non mollare la regia della nostra esistenza, restando vicini a chi non si piange addosso e anche nei problemi trova un’opportunità perché per disegnare un domani che porti la nostra firma, dobbiamo imparare a dirci di certo la mia ruota non la fan girare gli altri.

Con “Un altro amore che va“, ultimo brano del cd, il cantautore sottolinea l’esigenza di mettersi in discussione, di vuotare il sacco con se stessi e stringere i denti, certi che, anche se un po’ di vita va come volevo, un altro po’ non ne sono sicuro, ci sarà sempre un altro amore che va ed un altro amore che resta. E allora avanti con la voglia di sempre, senza dimenticare che il futuro passa da questo istante e che, comunque vada, c’è uno scorcio di cielo in ogni finestra.

Si chiude, così, un’intensa analisi del nostro essere incardinati in una società che, se vogliamo, può darci tanto. Inevitabile, lasciare un messaggio per Marco Ligabue: grazie, perché le Luci che hai saputo accendere possono renderci migliori.

I segreti del cervello che ride: dalle basi neuronali alla clownterapia

Clownterapia: La risata spesso viene confusa con l’umorismo, tuttavia se l’umorismo è la capacità di cogliere ed esprimere il lato curioso e incongruente della realtà, la risata è l’espressione sia di emozioni positive di allegria e benessere sia negative quali rabbia o agitazione (risata nervosa). Considerare la risata solo come la risposta a qualcosa di divertente è riduttivo, infatti ci sono notevoli differenze nei modi in cui si esprime la risata e nel messaggio che veicola e, come per l’umorismo, la risata non è facilmente definibile in quanto può essere di tipi diversi: genuina, sarcastica, fittizia.

Giada Sera, Laura Ranzini, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

[blockquote style=”1″]Il senso dell’umorismo in sè non guarisce tutti i problemi emotivi, ma imparare a non prendere troppo sul serio ogni avvenimento spiacevole della vita rappresenta un ottimo passo in questa direzione.[/blockquote] Albert Ellis

Umorismo, risata e sorriso

L’umorismo è un processo mentale complesso considerato esclusivo dell’uomo, al contrario del sorriso e della risata che sono invece risposte fisiologico-comportamentali condivise, nei loro aspetti basilari, con altri animali. In particolare, è possibile affermare che l’umorismo è di dominio esclusivo della mente umana poiché esso dipende dalla Teoria della Mente, ovvero dalla capacità che gli uomini hanno di comprendere gli stati mentali altrui. Inoltre, bisogna considerare che per comprendere l’umorismo è necessario un certo sforzo cognitivo: esso infatti nasce quando, entro uno schema narrativo, si inserisce un elemento incongruente; la scoperta di tale incongruenza richiede un certo sforzo che solo chi fa parte della specie umana riesce a compiere.

L’umorismo è fondamentale e pervasivo nella vita dell’uomo e pertanto viene considerato in stretta relazione con la salute fisica e il benessere psicologico (Martin & Lefcourt, 2004). Lo studio dell’umorismo, e, di conseguenza, la sua definizione, ha inizio in Gran Bretagna e in Germania in ambito filosofico fino ad essere oggetto di molti studi negli Stati Uniti negli anni ’60: è proprio a questi anni che risale il saggio sulla Psicologia dello Humor di Paul Mc Ghree, fondamentale per la definizione del concetto.

Lo studio dell’umorismo è stato affrontato in diversi ambiti quali quello linguistico, cognitivo o sociale e sono state elaborate diverse teorie che spiegano quando uno stimolo può essere definito umoristico.
In un primo momento, l’umorismo viene considerato solo nella sua concezione positiva, tuttavia è necessario tener presente che esiste anche un umorismo non benevolo, quale il sarcasmo o l’ironia (Ruch, 2008).
Dopo questa prima ed essenziale considerazione può essere fatta un’ulteriore distinzione che considera la finalità dell’umorismo: esso può avere infatti finalità affiliative (ridere con qualcuno con lo scopo di creare delle relazioni), autorinforzative (ridere di se stessi e di ciò che succede), aggressive (far battute sugli altri con lo scopo di deriderli), autosvalutative (commenti svalutanti su se stessi per ottenere l’appoggio e l’approvazione degli altri) (Martin et al., 20013).

In definitiva, possiamo affermare che l’umorismo si configura come un costrutto che può presentarsi in diverse modalità linguistiche (quali barzellette o indovinelli), può comparire in diverse forme (per esempio ironia o sarcasmo) e può avere diverse finalità (tra cui il divertimento o la presa in giro). In letteratura si fa riferimento al termine humor per identificare l’insieme di questi aspetti.

La risata spesso viene confusa con l’umorismo, tuttavia se l’umorismo è la capacità di cogliere ed esprimere il lato curioso e incongruente della realtà, la risata è l’espressione sia di emozioni positive di allegria e benessere sia negative quali rabbia o agitazione (risata nervosa). Considerare la risata solo come la risposta a qualcosa di divertente è riduttivo, infatti ci sono notevoli differenze nei modi in cui si esprime la risata e nel messaggio che veicola e, come per l’umorismo, la risata non è facilmente definibile in quanto può essere di tipi diversi: genuina, sarcastica, fittizia.

In letteratura vi sono numerosi studi che si prefiggono lo scopo di indagare i motivi che possono scatenare la risata e i contesti in cui si manifesta.
Ridere è considerata un’attività tipica soprattutto (ma non solo) dell’essere umano e si ritiene che si sia sviluppata, come il pianto e il gemito, prima del linguaggio. La risata ha base innata, compare verso la decima settimana di vita, rappresenta uno dei primi segnali dell’interazione umana (McGhee, 2010) ed è universale, ovvero presente in ogni cultura.

La risata può però anche presentarsi, quale reazione incontrollata, irrefrenabile, improvvisa e non congruente agli stimoli ambientali, in alcune malattie neurologiche (per esempio, lesioni cerebrovascolari, traumi cranici, sclerosi multipla, sclerosi laterale amiotrofica, demenza di Alzheimer o tumori cerebrali); tale condizione, comune a diversi disturbi neurologici, si definisce come sindrome pseudobulbare.

Con il termine sorriso, infine, si indica un’espressione del volto che coinvolge la bocca, le labbra e gli occhi. Il sorriso può diventare risata ma si differenzia da questa perché meno impulsivo e più duraturo.
Il sorriso non è però solo associato al riso ma possiede diverse funzioni: potrebbe, per esempio, essere la risposta a qualcosa di delicato e problematico (Ekman & Friesen, 1982; Ruck & Ekman, 2001).

 

Le basi neurali

Definire che cosa succede nel cervello che ride non è cosa semplice.
La risata e il sorriso coinvolgono principalmente le aree mimico-motorie mentre con l’umorismo vero e proprio quasi tutto il cervello “si accende” poiché si tratta di un processo di alto livello che coinvolge componenti affettive, relazionali, emotive, espressive, motorie.

Partiamo dalle basi neurali della risata: essa è rappresentata nella parte rostrale dell’area motoria supplementare (Fried et al., 1998).

Interessante a questo proposito è lo studio condotto da Wildgruber e coll. (2013) in cui i soggetti sperimentali ascoltavano e dovevano classificare tre differenti tipi di risata (risata provocata dal solletico, risata di scherno e risata di gioia), mentre veniva registrata la loro attività cerebrale attraverso la risonanza magnetica funzionale.
Nel caso della risata da solletico si è osservata un’attivazione delle aree prefrontali e della corteccia associativa uditiva, probabilmente dovuta alla maggiore complessità acustica del suono di questo tipo di risata.
La risata sociale (sia essa di scherno o di gioia) attiva invece una serie più articolata di connessioni fra la corteccia associativa uditiva, la regione dorsolaterale prefrontale e diverse aree della corteccia legate ai processi di mentalizzazione e all’immaginazione visiva.
Queste attivazioni indicherebbero che vi è un’analisi automatica delle caratteristiche acustiche della risata sociale, e le capacità attentive di working memory sarebbero dirette verso gli aspetti informativi della risata per poterne valutare il significato. Questi processi possono essere associati con l’immaginazione visiva che sostiene la formazione delle inferenze sulle intenzioni dei nostri interlocutori sociali.

Vediamo ora quali sono le basi neurali dell’umorismo.
A tale scopo sono stati condotti studi molto diversi tra loro, utilizzando stimoli vari quali stimoli verbali o visivi che spaziavano dall’umorismo nonsense al sarcasmo. Quello che è stato osservato è che, pur variando, gli stimoli venivano sempre analizzati, a livello neurale, da due distinti ma connessi processi: uno cognitivo e uno emotivo (Vrticka et al., 2013).

La componente cognitiva è coinvolta poiché l’umorismo scaturisce proprio quando riusciamo a risolvere una situazione che presenta elementi incongruenti e incompatibili. Naturalmente, durante un compito del genere non possiamo pensare di trovare il coinvolgimento di una sola area cerebrale: a seconda del tipo di stimolo può esserci un coinvolgimento della corteccia visiva o uditiva, delle aree del linguaggio, della memoria semantica, e delle aree che normalmente si attivano nella Teoria della Mente (se bisogna considerare i pensieri e le emozioni degli altri). Secondo Reiss tutti questi meccanismi convergono essenzialmente su un’area preposta al rilevamento e alla risoluzione di ciò che è incongruo, ovvero la giunzione temporo-parietale e temporo-occipito-parietale.

Per quanto riguarda la componente emotiva, dagli studi emerge il coinvolgimento del sistema dopaminergico mesocorticolimbico, ovvero di aree che si attivano normalmente nelle situazioni gratificanti in generale. Nel caso dell’umorismo la gratificazione sembra derivare dall’aver risolto gli elementi incompatibili di una certa scena.
Inoltre, vi è un coinvolgimento dell’amigdala. L’amigdala ha infatti il ruolo di selezionare le informazioni importanti per i nostri obiettivi e poiché il valore evolutivo degli stimoli è anche dato dall’ambiguità e dall’imprevedibilità, ecco che l’amigdala si attiva nel cercare un nesso tra gli stimoli che fanno ridere. In particolare, se l’amigdala si attiva prima della rivelazione finale allora significa che l’associazione di idee è banale e non fa ridere.

Interessante è anche ciò che i ricercatori hanno trovato relativamente all’umorismo e alle differenze di genere (Vrticka et al., 2013; Azim et al., 2005). L’umorismo fungerebbe da elemento che le donne utilizzano per una valutazione degli uomini: un buon senso dell’umorismo sembrerebbe essere un indicatore generale di intelligenza, creatività, resilienza e abilità sociali, elementi che non possono essere direttamente desunti dall’aspetto fisico. Di conseguenza, gli uomini investono più impegno nella produzione di umorismo per fare una buona impressione sulle donne.

 

La psicologia dell’umorismo

[blockquote style=”1″]..Se si può ridere di un problema, esso può essere superato.[/blockquote] (Borcherdt, 2002)

Come accennato in precedenza non esiste una sola definizione di “sense of humour” e, infatti, solo in alcuni casi esso risulta correlato con la salute fisica.
Risulta quindi necessario per i ricercatori definire l’accezione di umorismo alla quale faranno riferimento: una volta fatto questo sarà possibile implementare interventi terapeutici esecutivi.

Sono stati proposti quattro potenziali meccanismi, ciascuno dei quali coinvolge un aspetto differente dell’umorismo, un diverso approccio alla ricerca e, di conseguenza, differenti suggerimenti riguardo gli interventi di assistenza sanitaria (Martin, 2001).
Innanzitutto, i benefici per la salute possono derivare da numerosi cambiamenti fisiologici del corpo che accompagnano il riso, quali i cambiamenti muscolo-scheletrici, cardiovascolari, endocrini, immunitari e del sistema neurale. Secondo questo modello teorico, la risata è la componente fondamentale della connessione tra umorismo e benessere e, di conseguenza, l’ umorismo e il divertimento senza risate non porterebbero a eventuali benefici per la salute. In effetti la risata dovrebbe avere effetti positivi anche senza humor (ad esempio una risata finta o una risata forzata), come sostenuto dal leader del movimento del Club della Risata (ad esempio, Kataria 2002). Da questo punto di vista, la persona con un ”sano” senso dell’umorismo è colui che ride fragorosamente il più spesso possibile, più che colui che gode di un umorismo “contenuto” accompagnato solo dalla risatina occasionale o da un sorriso. Secondo questo modello, gli interventi di umorismo dovrebbero consistere nell’incoraggiare le persone a impegnarsi in risate frequenti e intense.

Il secondo meccanismo attraverso il quale l’umorismo potrebbe potenzialmente influenzare la salute riguarda, invece, gli stati emotivi positivi che accompagnano umorismo e risate. Infatti le emozioni positive, indipendentemente da come vengono generate, possono avere effetti benefici sulla salute, come ad esempio aumentare la tolleranza del dolore (Bruehl et al., 1993), migliorare la risposta del sistema immunitario (Stone et al., 1987), o annullare le conseguenze cardiovascolari di emozioni negative (Fredrickson,1998).

Questo secondo modello non riconosce la necessità della risata per ottenere benefici poichè l’umorismo e il divertimento possono indurre stati d’animo positivi anche in assenza della risata. Inoltre, questo modello conferisce un ruolo meno esclusivo all’umorismo e alla risata nel miglioramento della salute, in quanto ci sono particolari mezzi per aumentare le emozioni positive, insieme alla felicità, all’amore, alla gioia e all’ottimismo.

Quindi, un ”sano” senso dell’umorismo comporterebbe un temperamento allegro caratterizzato da felicità, ottimismo e un approccio ludico alla vita (Ruch,1993). Sulla base di questo modello, gli interventi terapeutici dovrebbero mirare ad accrescere le emozioni positive delle persone con diverse modalità, tra cui il ricorso dell’umorismo, e quindi la promozione della risata non sarebbe necessaria.

Il terzo potenziale meccanismo sostiene che la salute può indirettamente beneficiare dell’umorismo in quanto questo modererebbe gli effetti negativi dello stress psicosociale. Vi sono numerosi studi che dimostrano che esperienze di vita stressanti, cui consegue la produzione cronica di ormoni legati allo stress (ad esempio le catecolamine e il cortisolo) possono avere effetti negativi su vari aspetti della salute, quali la soppressione del sistema immunitario (Adler & Hillhouse, 1996) e un aumento del rischio di malattie cardiache (Esler,1998). Inoltre da numerose ricerche è emerso che alcune variabili di personalità e certi stili di coping possono moderare il grado di influenza dei fattori di stress sulla salute (ad esempio, Cohen & Edwards, 1989). Quindi, una visione umoristica della vita e la capacità di vedere il lato divertente dei propri problemi permetterebbe di affrontare in modo più efficace le situazioni di stress, migliorando le capacità di affrontare le avversità (Lefcourt & Martin, 1986; Martin et al., 1993; Martin & Lefcourt, 1983).

Secondo questo punto di vista dello stress-moderatore, gli aspetti cognitivo-percettivi dell’umorismo sono più rilevanti della semplice risata e risulta particolarmente importante la capacità di mantenere una visione umoristica durante i periodi di stress: l’umorismo e la risata sembrerebbero avere minor rilievo durante i periodi poco stressanti.

Gli interventi terapeutici proposti, sulla base di questa visione, dovrebbero comprendere una formazione incentrata sulla gestione dello stress, con attenzione all’uso dell’umorismo per far fronte allo stress nella loro vita quotidiana.
Infine, l’umorismo può indirettamente portare ad effetti positivi sulla salute aumentando la propria rete di supporto sociale. Coloro che sono in grado di usare l’umorismo in maniera efficace per ridurre i conflitti interpersonali e le tensioni con gli altri possono di conseguenza godere di più numerose e soddisfacenti relazioni sociali. A loro volta, il maggior sostegno sociale che deriva da queste relazioni porta a effetti positivi sulla salute (Cohen & Wills, 1985).

Quindi, secondo questo modello, l’attenzione va posta agli aspetti interpersonali di umorismo e alla competenza sociale dell’uso dell’umorismo nelle relazioni sociali, piuttosto che alla frequenza della risata; un “sano” senso dell’umorismo comporterebbe l’uso dello stesso per migliorare le relazioni con gli altri, rendendole meno ostili. Sulla base di questa visione, gli interventi terapeutici proposti dovrebbero riguardare le competenze sociali, in particolare, insegnare alle persone a usare l’umorismo per facilitare le relazioni sociali.

Per riassumere, riportiamo le principali funzioni che può assumere l’umorismo, sulla base delle numerose ricerche effettuate.

  • Strategia di coping: l’umorismo offre una visione alternativa nell’affrontare stati mentali dolorosi. La maggior parte delle situazioni ha un aspetto umoristico che però non viene sempre percepito a causa delle emozioni negative ad esso associate (McGhee, 2010); spesso, infatti, solo con il tempo si riesce a cogliere il lato divertente dell’evento in quanto è diminuito l’aspetto dolente e l’intensità delle emozioni negative. Questo sostiene quanto affermato da Ellis (1977) riguardo all’utilizzo dell’umorismo da parte dei pazienti per trasformare emozioni e sentimenti negativi. In particolare, il terapeuta, grazie a un intervento umoristico, può sottolineare gli aspetti ironici di un evento con lo scopo di modificare la sua visione rigida, favorendo così una ristrutturazione cognitiva, aiutandolo a vivere l’evento con maggior distacco e a gestire meglio le emozioni negative;
  • Capacità di cambiare prospettiva e maggior capacità di problem solving (Gelkopf & Kreitler, 1996;
  • Sperimentazione di emozioni positive come gioia, ottimismo e fiducia (Gelkopf & Kreitler, 1996);
  • Comunicare in modo protetto ed esprimere emozioni e sentimenti che solitamente vengono bloccati dal paziente per una mancanza di presa di coscienza e per imbarazzo (Winick, 1976);
  • Favorire l’alleanza terapeutica (Jeffrey, 2009) grazie all’incremento del comportamento affiliativo (Nelson, 2008): studi di Meyer (2000) dimostrano come l’umorismo riduca il silenzio nelle sedute e favorisca conversazioni aperte e maggiormente rilassate;
  • Aumentare l’autostima: la capacità di ridere di se stessi favorisce l’accettazione. Studi sostengono che l’umorismo favorisca lo sviluppo del benessere personale: la capacità di ridere di se stessi aumenta la tolleranza per le emozioni negative e riduce la possibilità di sviluppare sintomi depressivi (Martin et al., 2003);
  • Abbassare le difese del paziente favorendo la comunicazione di pensieri, sentimenti e comportamenti che altrimenti non sarebbero emersi. L’umorismo permette di portare i propri difetti e mancanze in maniera non minacciosa così da affronatre in maniera positiva le relazioni (Borcherdt, 2002).

In letteratura sono presenti numerosi studi su questo argomento, sia ricerche sperimentali che correlazionali, dalle quali tuttavia emergono dubbi sulla semplice relazione tra umorismo e salute; tuttavia tali risultati potrebbero derivare anche da errori metodologici (definizione di costrutti e variabili, metodi di misurazione) (Martin (2010). Martin (2010) suggerisce di proseguire con gli studi in questo ambito, data l’importanza di tali constatazioni, con più attente formulazioni teoriche e più sofisticati e rigorosi metodi di indagine.

Tuttavia, negli ultimi anni, sulla base di questi studi e dell’idea che l’umorismo può essere un elemento per promuovere emozioni positive e aumentare il benessere personale, anche la medicina e la psicologia hanno cominciato ad interessarsi all’argomento.
Martin (2010) sottolinea un crescente interesse nell’inserire l’umorismo nelle sedute psicoterapeutiche come tecnica terapeutica, anche se l’inserimento effettivo non è ancora cosi diffuso: gli psicoterapeuti ne limitano ancora l’uso per paura di essere fraintesi o di svalutare la loro figura professionale (Franzini, 2001). Questo potrebbe essere dovuto anche alla natura multiforme dell’umorismo: ciò che può essere percepito in maniera umoristica da qualcuno può assumere un significato diverso da un altro soggetto.

 

La clownterapia

Come sottolineato finora, la popolazione scientifica ha mostrato un interesse sempre maggiore verso il tema dell’umorismo. La figura del Clown, sempre presente in più contesti, è divenuta sia uno strumento di formazione psicopedagogica che una figura di supporto psicologico.

La figura del clown ha un’origine molto antica e in moltissime culture era legata a pratiche magico-religiose. Nei secoli la figura del clown è cambiata e all’interno del mondo sociale si è avvicinata all’espressione della polemica sociale e del sarcasmo: il clown, attraverso l’amplificazione grottesca ed esagerata, esprime disapprovazione, risentimento e critica popolare. Un elemento comune alle diverse culture è vedere questa figura come depositario di una sapienza “altra”, nonostante sia apparentemente sciocco, con il compito di mettere in evidenza le contraddizioni delle leggi, delle parole dei potenti, delle consuetudini (Fioravanti & Spina, 1999); questa caratteristica è ancora presente nell’immaginario attuale.

Nei corsi di formazione di arte clownesca vengono studiati i meccanismi che innescano la risata, che non è legata a cadute o smorfie del clown ma, al contrario, scatta nel momento del fallimento: non fa ridere il personaggio ma l’uomo mostratosi cosi come è, “a nudo”.

L’aspetto di strumento pedagogico del clown sta proprio nel concetto di fallimento, di inadeguatezza di ogni uomo nei confronti della realtà.
La “piccola” maschera del clown, un semplice naso rosso, in realtà ha un grande significato e funge da strumento pedagogico. Quando questo viene indossato permette di scoprire i lati più nascosti della propria personalità, le proprie debolezze e fragilità; si annulla la differenza tra attore e clown, ed è in questo momento che il soggetto accetta i proprio difetti e le proprie insicurezze, ride di se stesso per poter far ridere gli altri.

Il clown diventa il portatore di una filosofia di vita alternativa, una filosofia in cui non esistono convinzioni sociali, in cui ci si libera da schemi mentali e sociali arrivando a un’emancipazione totale; solo così può emergere l’unicità della persona e la sua forza personale.

Dato il maggior interesse per i vantaggi dell’umorismo negli ultimi anni, il clown è stato usato come strumento di intervento per l’emancipazione dal disagio personale e collettivo ed è sempre più presente in strutture come scuole, ospedali, carceri minorili, case di riposo. Numerose associazioni ONLUS promuovono l’utilizzo della clownterapia, cioè l’attuazione di tecniche clownesche in contesti di disagio con il fine di migliorare l’umore delle persone (Dionigi).

La funzione terapeutica del clown è la capacità di capovolgere gli schemi standard e abituali, questo significa avere maggior flessibilità mentale riuscendo a trovare un maggior numero di soluzioni ai problemi e ad affrontare in maniera più funzionale lo stress.
Quindi la clownterapia aiuta le persone ad acquisire un nuovo punto di vista sulle situazioni problematiche e ad affrontare la vita in maniera più ottimistica, grazie ad esercizi sistemici di autoironia che permettono di distaccarsi dal problema, percependolo ridimensionato e spesso possibile oggetto di cambiamento (Dionigi & Gremigni, 2010).

Per suscitare la risata, il clown sovverte gli schemi standard mostrando le sue debolezze, e, pertanto, la clownterapia diventa una terapia della vergogna in cui anche lo spettatore ride delle sue debolezze, nonostante la sua posizione superiore e distante dal clown (Farneti, 2004).

Il clown dottore è colui che, a prescindere dal titolo di studio, opera nei contesti di disagio unendo l’arte clownesca e le conoscenze psico-socio-sanitarie al fine di agire sulle emozioni: è una figura di sostegno e aiuto ai pazienti ospedalizzati che collabora con l’equipe ospedaliera, ha un camice colorato che serve per ironizzare sulla figura medica e sovvertire la sua immagine, rendendola più umana. Il bambino e i genitori decidono liberamente se accettare l’intervento del clown dottore, poichè talvolta il dolore è troppo forte per permettere il gioco in serenità.

I clown dottori si basano sull’improvvisazione, si lasciano ispirare dal momento facendo riferimento a conoscenze sulla giocoleria, sull’arte clownesca e sull’espressività teatrale con particolare attenzione alle reazioni dei bambini. I bambini vengono coinvolti negli sketch o nei giochi in modo da aumentare la loro sensazione di essere artefici di qualcosa di speciale, sentondosi importanti per il clown. Questo rinforza la fiducia e la stima in se stessi e la loro disponibilità verso gli altri.

In letteratura ci sono numerosi studi che vanno ad indagare l’effetto dell’intervento dei clown dottori sui bambini ospedalizzati.
Per esempio, Vagnoli e collaboratori (2005) mostrano che la presenza dei dottori clown, insieme ai genitori, durante l’induzione dell’anestesia ha effetto sulla gestione dell’ansia durante il periodo pre-operatorio. Gli autori promuovono questa “procedura di distrazione” nel trattamento dei bambini che richiedono intervento, tuttavia la resistenza del personale medico può rendere difficile inserire questo programma nelle attività della sala operatoria.

Lo studio di Agostini e collaboratori (2013) mostra che l’intervento dei clown dottori ha inoltre un effetto significativo anche sull’ansia pre-operatoria delle madri: infatti questa era minore nelle madri del gruppo dei bambini in compagnia dei clown rispetto a quelle del gruppo di controllo senza l’intervento dei clown.

La riduzione dell’ansia nei bambini e nei genitori in seguito alla presenza dei clown dottori è stato confermato anche nello studio di Dionigi e collaboratori (2014) su un campione di 77 bambini e 119 genitori.

I giochi dei bambini: oltre il ruolo e l’espressione di genere

Genitorialità e gioco, oltre il ruolo e l’espressione di genere

 

Buongiorno, sono il padre di un bambino di 4 anni, dal primo anno di asilo Mirko chiede solamente giochi da bambina ed io e mia moglie non sappiamo se accontentarlo o meno. Se dovessimo assecondare le sue richieste abbiamo paura che gli altri bambini lo possano prendere in giro ed isolare, ma notiamo che dall’altro lato ad ogni macchinina o gioco del genere, lui si rattrista e comunque evita di giocarci. Per il momento optiamo per giochi che riteniamo unisex come le costruzioni, la fattoria degli animali. Cosa consigliereste?

Abbiamo paura.

Massimo e Rita

 

 

Buongiorno,

per quanto riguarda un bambino di quattro anni, ancora in fase di piena esplorazione, certi interessi non sono necessariamente connessi ad un disturbo di identità di genere. Dunque anche se Mirko adora giocare con giocattoli, ritenuti dalla nostra cultura, femminili, questo non significa che Mirko si senta o voglia essere una bambina. Detto ciò, ritengo importante lasciare a qualsiasi bambino uno spazio di gioco libero, in cui possa attingere a ciò che egli preferisce. E qualora gli si volessero presentare giochi nuovi, per stimolarlo, non lo farei nell’ottica giochi da bambina, da bambino, o unisex (essendo queste delle distinzioni culturali, sono sicuramente più chiare a voi adulti che a lui, nonostante a questa età stia iniziando anche lui a prendere consapevolezza di ciò).

Ritengo altresì utile (sebbene esuli leggermente dal tema in questione) mettere nello spazio ludico pochi giochi a disposizione alla volta, in modo da lasciargli una scelta, e permettere al contempo un’immersione nel gioco. Ciò permette di evitare di disperdere l’attenzione tra le molteplici opzioni o considerare ormai arredo privo di interesse quei giochi lasciati in fondo alla cesta da mesi (meglio archiviarli altrove, per un secondo momento di interesse).

Tornando al focus della vostra domanda, sembrate riportare due paure più o meno specifiche ed una paura indefinita generale:

se vostro figlio si diverte con giochi, ritenuti, femminili potrebbe essere oggetto di derisioni.

se vi doveste opporre al desiderio ludico di vostro figlio, Mirko potrebbe essere triste o disinteressato al gioco.

Riportate infine un “abbiamo paura” molto generale. Vi chiedo di rifletterci, pensando a voi stessi, Massimo e Rita, vorreste che Mirko giocasse con le macchinine? Vorreste che Mirko si comportasse diversamente? Avete delle aspettative nei suoi confronti? Ciò che sicuramente potrebbe influire sulla felicità o meno del vostro bambino, più dell’eventuale presa in giro da parte di suoi coetanei (dalla vostra domanda non sembra si sia ancora verificato un episodio del genere), è la percezione di un rifiuto ed un’aspettativa di cambiamento da parte vostra, come genitori.

Greta Riboli

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

L’orgasmo? E’ tutta una questione di ritmo!

In molti hanno avanzato ipotesi sulla funzione evolutiva dell’ orgasmo umano, mentre rimangono tutt’oggi sconosciuti i meccanismi che sottostanno ad esso. In un recente studio pubblicato su Socioaffective, Neuroscience and Psychology, Adam Safron, ricercatore della Northwestern University, ha cercato di far luce sul quesito: “Come funziona l’orgasmo nel cervello?”.

 

Ritmo dell’attività sessuale, ritmi cerebrali e orgasmo

Adam Safron, neuroscienziato e ricercatore del dipartimento di Psicologia del programma Brain Behavior Cognition del Weinberg College of Arts and Science alla Northwestern University, ha revisionato decine di studi offrendo un modello esplicativo in cui il ritmo dell’attività sessuale influenza direttamente i ritmi cerebrali.

Safron descrive come la stimolazione ritmica possa influenzare le onde cerebrali, aumentandone le frequenze; una situazione molto simile a ciò che avviene quando si spinge qualcuno su un’altalena. Attraverso questo processo, chiamato “trascinamento neurale”, se la stimolazione sessuale è abbastanza intensa e sufficientemente prolungata, l’attività sincronizzata riuscirebbe a diffondersi in tutto il cervello.

Questa sincronia potrebbe generare una focalizzazione così intensa da far sì che l’attività sessuale oltrepassi l’usuale stato di auto-consapevolezza che consente al soggetto il contatto con la propria coscienza, producendo uno nuovo di assorbimento sensoriale e trance. Questa condizione sarebbe cruciale per consentire un’esperienza sufficientemente intensa da scatenare il meccanismo dell’ orgasmo.

La sincronizzazione e il ritmo sono elementi importanti per la trasmissione del segnale all’interno del cervello, perché è più probabile che i neuroni inneschino una reazione se vengono stimolati molteplici volte all’interno di una finestra temporale ridotta – ha affermato Safron – Altrimenti, il segnale finisce col decadere come parte di un meccanismo generale di regolazione invece di sommarsi generando una reazione.

Safron ha continuato:

Quest’evidenza mi ha portato ad ipotizzare che il “trascinamento neurale” sia il meccanismo principale attraverso cui la soglia dell’ orgasmo viene superata.

Questa ricerca potrebbe essere molto rilevante per migliorare il funzionamento sessuale di molti, incoraggiando le persone a focalizzarsi maggiormente sull’aspetto ritmico della sessualità.

 

Sesso e trance

L’idea che le esperienze sessuali possano generare uno stato simile a quello di trance è in qualche modo arcaica; ma quest’idea ora è supportata da moderne conoscenze neuroscientifiche.

In teoria, questo potrebbe cambiare il modo in cui le persone vedono i loro rapporti sessuali. Il sesso è indubbiamente fonte di sensazioni piacevoli e connessione emotiva, ma oltre a questo, è effettivamente uno stato di coscienza alterato – ha detto Safron.

Prima di questo studio, la scienza aveva da tempo scoperto quali aree fossero attive nel cervello quando le persone raggiungono l’ orgasmo e sapeva molto sui fattori ormonali e neurochimici coinvolti nell’ orgasmo degli animali non umani, ma non sapeva bene perché il sesso e l’ orgasmo venissero avvertiti nel modo in cui sono avvertiti.

Sauron ha concluso:

Questa ricerca fornisce un livello di dettaglio meccanicistico che era precedentemente mancante. L’ orgasmo è questione di ritmo.

 

Dioniso: alcol e disturbi correlati. Concettualizzazione e trattamento secondo l’orientamento cognitivo – Recensione

Il libro si compone di otto capitoli che vanno dalle caratteristiche e distinzione delle bevande alcoliche, ai disturbi da uso di alcol quale processo dinamico e complesso, dalla Psicofisiologia Applicata, passando attraverso i processi di prevenzione e le tipologie di trattamento, al modello cognitivo-comportamentale per la terapia del disturbo da uso di alcol. A conclusione, gli aspetti concettuali e metodologici del protocollo Dioniso ed il caso clinico.

 

Tullio Scrimali, autore del libro Dioniso: alcol e disturbi correlati, è un medico, psicologo, psichiatra e psicoterapeuta. Attualmente insegna a Catania, in qualità di professore aggregato, Psicologia Clinica presso il Corso di Laurea in Medicina e Chirurgia e presso il CdL Magistrale in Psicologia.

La monografia affronta il tema complesso dei disturbi da uso di alcol, considerandone l’incremento soprattutto fra i giovani. Sono stati documentati gli sforzi, attuati dal gruppo di ricerca e di lavoro clinico presso il Centro Clinico Aleteia, per sviluppare un nuovo protocollo terapeutico di orientamento cognitivo-complesso, denominato Dioniso. I dati raccolti nell’ambito di un single case research study, rappresentano una svolta nell’ambito del trattamento della dipendenza alcolica, il cui protocollo terapeutico può essere attuato anche in ambito ambulatoriale e presso strutture del privato sociale.

Il libro si compone di otto capitoli che vanno dalle caratteristiche e distinzione delle bevande alcoliche, ai disturbi da uso di alcol quale processo dinamico e complesso, dalla Psicofisiologia Applicata, passando attraverso i processi di prevenzione e le tipologie di trattamento, al modello cognitivo-comportamentale per la terapia del disturbo da uso di alcol. A conclusione, gli aspetti concettuali e metodologici del protocollo Dioniso ed il caso clinico.

[blockquote style=”1″]Dioniso era il dio del vino, ma anche e soprattutto delle feste Dionisie, caratterizzate dalla ricerca di un’alterazione dello stato della mente (…)Di giorno si rappresentava nei teatri l’arte tragica e la bellezza, di notte gli ateniesi si abbandonavano al piacere e alla spensieratezza.[/blockquote]

Ecco che l’alcologia, considerata dall’Autore metafora della complessità, si consustanzia di bene e male, gioia e degrado, ricchezza intesa come risorsa del territorio e rovina per l’individuo che ne abusa.

Le due principali tecniche utilizzate nel setting del Centro Clinico Aleteia per lo studio psicofisiologico della condizione alcolica, sono l’elettroencefalografia quantitativa con mapping cerebrale dello spettro EEG e il monitoraggio digitale dell’attività elettrotermica. Per mezzo del primo, la somministrazione acuta di alcol provoca un immediato effetto sul tracciato EEG, correlato alla dose assunta, con il secondo si ottiene la registrazione delle risposte riconducibili alla contrazione delle fibre mio epiteliali che circondano il dotto delle ghiandole sudoripare e la cui azione provoca una rapida fuoriuscita di sudore dal dotto ghiandolare (Edelberg, 1967). In tal modo, è possibile valutare, in termini oggettivi, la reale risonanza emotiva di situazioni perturbanti ma anche gratificanti (Davis,1929).

Da un punto di vista clinico dunque, la sistematica valutazione dell’attività elettrotermica può servire per monitorare la condizione di stress del paziente, al fine di intervenire tempestivamente sia farmacologicamente che in termini di neuroterapia, nel caso in cui si prospetti una ricaduta anticipata da crescenti livelli di arousal.

Messaggio conclusivo del volume é quello relativo all’importanza, considerato l’incremento della dipendenza alcolica tra i giovani, di campagne psico-educative.

La prevenzione diretta ai giovani ed in particolare ai giovanissimi può essere efficace se attuata attraverso un approccio precoce, sia di tipo informativo sui rischi e sui danni derivanti dal consumo di alcol, che di tipo educativo, che promuova  il rispetto di se stessi e degli altri, e che fornisca una guida nel gestire le proprie emozioni e nello sviluppo del senso critico, utile al fine di instaurare relazioni più efficaci.

Qualcosa di buono (2014) e Padri e Figlie (2015): trovare il senso della vita anche nella sofferenza – Cinema & Psicologia

Qualcosa di buono e Padri e Figlie parlano della vita, della morte, del timore di perdere le persone care, eventi che riguardano tutti noi e con i quali, ognuno si deve prima o poi confrontare.

 

Qualcosa di buono (You’re Not You)

Film  diretto da George C. Wolfe con  Hilary Swank. USA 2014. Adattamento cinematografico del romanzo di Michelle Wildgen

 

Trama

Una pianista di nome Kate è affetta da Sclerosi Laterale Amiotrofica. Bec, una studentessa priva di esperienza, si prende cura di lei. Tra le due donne si creerà una relazione affettiva che travalica le diversità. Kate elegante, sposata, affascinante pianista conduce una vita agiata, Bec scapestrata studentessa, conduce una vita sregolata all’insegna del “mordi e fuggi”. Tra confessioni, risate, liti e rimpianti, nasce tra le due protagoniste una complicità femminile che le porterà a dare significato a questo frammento di vita  caratterizzato da dolore e sofferenza e a riconoscere ciò che vale. Il contrappunto tra un mondo borghese patinato e poco incline a considerare il tragico della vita e il vissuto doloroso di Kate aprono la narrazione a una visione empatica verso una condizione che riguarda tutti, nessuno escluso.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM QUALCOSA DI BUONO:

 

Padri e figlie (Fathers and Daughters)

Film diretto da Gabriele Muccino. Interpretato da Russel Crowe, Amanda Seyfried e Jane Fonda. USA 2015

 

Trama

Il film racconta il rapporto tra un padre e una figlia. La narrazione si snoda su due piani, il passato e il presente.

Jake Davis, vincitore di un premio Pulitzer, vive a New York con sua moglie e sua figlia di nome Katie. Una sera, tornando a casa, sono vittime di un incidente in cui muore la moglie. Jake è ricoverato in ospedale, uscirà dopo un lungo periodo di degenza affetto da gravi crisi epilettiche. Si prende cura amorevolmente della figlia, ma è costretto a ricoverarsi di nuovo in un ospedale psichiatrico per i gravi disturbi che lo affliggono. E’ costretto a lasciare Katie dagli zii William ed Elizabeth, membri dell’alta borghesia newyorkese. La zia vuole adottare Katie, anche perché Jake ha difficoltà economiche e problemi di salute. Il padre della bambina non ha alcuna intenzione di affidare la figlia agli zii materni. William, avvocato di professione, sembra riuscire subdolamente a spuntarla. E a nulla valgono i tentativi di Jake che in poche settimane, per sostenere la battaglia processuale, scrive un libro che otterrà un grande successo. Quando tutto sembra perduto, il caso ci mette lo zampino e William ed Elizabeth sono costretti a ritirare la causa per l’affidamento. Jake può restare accanto a sua figlia, ma per poco, il tempo di scrivere il suo romanzo più famoso “Padri e figlie”.  Una crisi lo coglie di sorpresa e muore battendo la testa.

Venticinque anni dopo Katie Davis si sta laureando in psicologia. E’ disregolata, sesso senza limiti e alcol. Le viene affidata per il tirocinio una bambina di nome Lucy orfana di madre e con un padre assente. Katie riesce a conquistare la fiducia della bambina e farla parlare. Si rivede in lei, cresce una forte relazione, fino all’adozione di Lucy. Nel frattempo conosce un ragazzo, Cameron. Il suo romanzo preferito è Padri e figlie. I due s’innamorano, Katie prova sensazioni ed emozioni nuove, ma la paura dell’abbandono la porta a tradire apertamente Cameron. Riesce, comunque a raccontare al suo partner la sua incapacità di abbandonarsi all’amore, lui la comprende e i due tornano insieme.

L’ARTICOLO CONTINUA DOPO IL TRAILER DEL FILM PADRI E FIGLIE:

 

Qualcosa di buono e Padri e Figlie: motivi d’interesse

I due film estremamente commoventi e coinvolgenti portano all’attenzione vicende tragiche della vita. E’ possibile che un genitore con gravi disturbi psichici riesca ad accudire i figli fornendogli quella base sicura necessaria a uno sviluppo evolutivo funzionale?

Il contatto con la sofferenza può essere una via di maturazione per chi sta ancora cercando il proprio posto nel mondo?

Qualcosa di buono e Padri e Figlie parlano della vita, della morte, del timore di perdere le persone care, eventi che riguardano tutti noi e con i quali, ognuno si deve prima o poi confrontare.

Mentre scrivo il terremoto incombe in larghe zone del nostro amato bel paese e i residenti sono sgomenti e impotenti di fronte a un evento catastrofico che distrugge mementi storici della vita personale e collettiva delle popolazioni coinvolte dal sisma. In queste circostanze la solidarietà si stringe intorno all’enorme sofferenza e al dolore, la partecipazione empatica cerca di colmare il vuoto e il senso di straniamento che è vissuto e che può generare fenomeni dissociativi, derealizzazione, depersonalizzazione.

Ciò che accompagna per altri motivi Jake che tenta, dopo la morte della moglie, di uscire dal tunnel della destabilizzazione per prendersi cura dell’amata figlia e Katie, traumatizzata da un’infanzia difficile e ancora invischiata con la figura paterna che non riesce a costruirsi una vita affettiva. Tuttavia, proprio l’affettività imbastisce uno sviluppo migliore rispetto all’alternativa fredda e strumentale offerta dagli zii materni, che pensano più al loro desiderio di avere una figlia che al bene della nipote. Certo, le ferite si sanano con sofferenza nel tempo, lasciano cicatrici evidenti, ma le storie ci dicono che una base sicura si può ricostruire.

Anche in Qualcosa di Buono Kate e Bec pur attraversando la turbolenza di una malattia molto invalidante ed esiziale riescono, costruendo e recuperando rapporti affettivi a dare senso, a capire cosa nella vita ha veramente valore.

Relazioni armoniose e significative, direzione consapevole del proprio impegno, accettazione e defusione (Hayes, Strosahl, 2005; Lorenzini, Scarinci, 2013) possono farci attraversare il mare tempestoso della vita dandole un senso.

Trattamenti evidence-based per il disturbo borderline di personalità in età adulta e in adolescenza

Il Disturbo Borderline di Personalità, come gli altri Disturbi di Personalità, è una patologia pervasiva che inficia il funzionamento sociale, le relazioni interpersonali e l’andamento lavorativo di chi ne soffre; gli individui che ne sono affetti hanno inoltre, spesso problemi economici e legali

Naomi Aceto e Giulia Meloni  – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

La letteratura scientifica, nel corso degli ultimi trent’anni, si è ampiamente concentrata in maniera crescente sul tema dei Disturbi di Personalità, la cui classificazione è stata oggetto di controversie durante la stesura del DSM V 5 (Paris, 2014). Secondo alcuni autori, infatti, la classificazione potrebbe essere talvolta arbitraria, data la frequente sovrapposizione di sintomi e manifestazioni cliniche. Dal punto di vista epidemiologico, sono disturbi comuni e diffusi ma spesso non riconosciuti o riconosciuti tardivamente (Tyrer, 2015).

Un’ulteriore difficoltà è quella relativa alla diagnosi in età evolutiva: esiste, d’altra parte, oramai un’ampia letteratura a sostegno della possibilità di porre diagnosi di disturbo di personalità anche in età evolutiva, impostazione accettata anche dal DSM 5 (APA, 2013), il quale asserisce che “l’esordio può essere fatto risalire almeno all’adolescenza”. La presenza di un disturbo di personalità in età adolescenziale comporta senza dubbio un impatto sul funzionamento del ragazzo e un rischio di ricadute negli anni a seguire, questo risulta essere uno dei principali fattori a sostegno di una diagnosi precoce, al fine di poter strutturare un intervento adeguato e tempestivo in una fascia d’età duttile e particolarmente suscettibile al cambiamento (Larrivee, 2013).

 

Il Disturbo Borderline di Personalità

Tra i Disturbi di Personalità, il Disturbo Borderline di personalità è indubbiamente uno dei più frequenti e meglio studiati. La sua prevalenza sembrerebbe aggirarsi, a seconda degli studi, intorno al 2% nella popolazione generale, fino ad arrivare circa al 10% in campioni estratti dall’utenza dei Servizi di Salute Mentale (Tomko, 2014). Sembrerebbe essere più diffuso nel sesso femminile ed è spesso accompagnato, da altri disturbi in comorbidità, come i disturbi d’ansia, i disturbi dell’umore e i disturbi legati all’uso di sostanze.

Il Disturbo Borderline di Personalità, come gli altri Disturbi di Personalità, è una patologia pervasiva che inficia il funzionamento sociale, le relazioni interpersonali e l’andamento lavorativo di chi ne soffre; gli individui che ne sono affetti hanno inoltre, spesso problemi economici e legali (Coid, 2009).

Il Disturbo Borderline di Personalità (Bordeline Personality Disorder, BDP) è una patologia caratterizzata da un’elevata impulsività e da una considerevole instabilità nelle relazioni interpersonali e nell’immagine di sé.

Le relazioni sono caratterizzate da una pervasiva paura dell’abbandono, la quale il più delle volte può potare a gesti impulsivi nel tentativo di non rimanere da soli. Generalmente l’impulsività può essere rivolta verso se stessi, attraverso tentativi di suicidio, automutilazioni, e più in generale, varie forme di autolesionismo, oppure può dare luogo a comportamenti disfunzionali, quali abuso di sostanze, scoppi di ira, guida spericolata etc.

Tra le persone affette da Disturbo Borderline di Personalità è frequente una forte instabilità emotiva, che si manifesta, il più delle volte, attraverso marcati e improvvisi cambiamenti dell’umore: queste persone possono oscillare infatti, in maniera repentina, tra serenità e tristezza, tra rabbia e senso di colpa o vergogna. Tali emozioni contrastanti, a volte si presentano contemporaneamente, creando confusione nel soggetto e nelle persone a lui vicine.

Sono frequenti sensazioni di angoscia e di vuoto interiore e stati mentali di natura non psicotica, come la convinzione di essere persone cattive e le frequenti esperienze di dissociazione, quali depersonalizzazione e derealizzazione.

I pazienti affetti da Disturbo Borderline di Personalità sono riconosciuti dalla letteratura come ad alto rischio suicidario e sono spesso ospedalizzati in situazioni acute in cui evidenziano crisi emotive, comportamenti autolesivi anche se non suicidari e comportamenti invece di tipo suicidario (Nelson, 2013).

La disregolazione emotiva, l’impulsività, il carico di sofferenza individuale e familiare e la significativa disabilità psicosociale impongono la necessità di trattamenti specifici. La sola terapia farmacologica, a lungo utilizzata per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, sembrerebbe essere piuttosto fallimentare, ad eccezione dell’impulsività, così come la sola psicoterapia, sembrerebbe essere associata ad alti livelli di drop-out.

 

Il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità

Sembrerebbe fondamentale dunque, nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità, un lavoro d’équipe che condivida i riferimenti concettuali che fondano il trattamento, al fine di evitare la scissione tra l’intervento del terapeuta e quello di altre figure professionali. Una formazione specifica su un tipo di trattamento quindi non solo permette di applicare un modello psicoterapico validato, ma dà anche coerenza all’insieme degli interventi multidisciplinari.

In letteratura la terapia farmacologica non viene considerata il trattamento elettivo dei disturbi di personalità, mentre la psicoterapia individuale è ritenuta generalmente la pietra miliare della maggior parte dei trattamenti (NICE, 2009; National Health and Medical Research Council, 2012).

Orientamenti teorici diversi hanno realizzato diversi tipi di terapie per la cura dei disturbi di personalità. Attualmente vi sono alcuni trattamenti validati empiricamente tramite RCT (Beatson, Rao, 2014), tra questi sono presenti: la Transference Focused Psychotherapy (TFP), la Dialectical Behavior Therapy (DBT), la Schema Focused Therapy (SFT) e la Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving (STEPPS).

 

Psicoterapia focalizzata sul transfert

La psicoterapia focalizzata sul transfert (Transference-Focused Psychotherapy, FTP), sviluppata da Otto Kernberg e il suo gruppo di ricerca, è un trattamento psicodinamico basato sul modello delle relazioni oggettuali (Clarkin, Yeomans, Kernberg, 2011).  Secondo il modello delle relazioni oggettuali, il Disturbo Borderline di Personalità, nasce da conflitti inconsci del passato, radicati nella psiche, come modelli di relazione interiorizzati, che vengono riprodotti simbolicamente dal paziente ed esperiti come una realtà nella vita attuale. La patologia del paziente dunque, viene vista come una ripetizione inconscia nel qui e ora, delle relazioni patogene interiorizzate in passato (Kernberg, 1975).

Il principale obiettivo della terapia è quello di aiutare il paziente a sviluppare immagini di sé e degli altri multidimensionali, coese e integrate e l’enfasi di tale terapia è posta sulle distorsioni del transfert e sulla loro interpretazione. Clarkin e colleghi (2001) in uno studio preliminare volto a valutare l’efficacia della psicoterapia focalizzata sul transfert, hanno rilevato che dopo un anno di trattamento, nessuno di coloro che ha partecipato con costanza alla terapia, ha mostrato sintomi di peggioramento e che il 52% circa dei soggetti, non soddisfaceva più i criteri DSM IV-TR per una diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità.

 

Dialectical Behavior Therapy

La Dialectical Behavior Therapy (DBT), sviluppata da Marsha M. Linehan, professore di Psicologia Clinica presso la Washington University di Seattle (USA), è un trattamento cognitivo-comportamentale complesso originariamente sviluppato per soggetti con tendenze suicidarie e autolesionistiche, in seguito applicato a soggetti che soffrono di Disturbo Borderline di Personalità. La Dialectical Behavior Therapy si basa sul modello dialettico, il quale presuppone che individuo e ambiente si trovino in un rapporto di mutua e continua interazione, reciprocità e interdipendenza.

La ricerca empirica ha ampiamente dimostrato l’efficacia della Dialectical Behavior Therapy nel Disturbo Borderline di Personalità soprattutto nel ridurre i comportamenti suicidari, i ricoveri in ambiente psichiatrico, l’abbandono delle cure, l’abuso di sostanze, la disregolazione emozionale e le difficoltà interpersonali. Uno studio del 2001 (Koons, Robin, Tweed, 2001) volto a verificare l’efficacia della Dialectical Behavior Therapy in un campione di donne veterane con comportamenti parasuicidari, ha mostrato già dopo soli sei mesi di trattamento, una significativa diminuzione dei sintomi di rabbia, depressione, ideazione suicidaria e gesti autolesivi.

L’ipotesi della Linehan è che i pazienti con Disturbo Borderline di Personalità siano persone emotivamente instabili e incapaci di controllo sulla propria sfera emozionale a causa di una predisposizione biologica esacerbata da un ambiente invalidante, in altri termini, l’espressione dei propri stati interni non solo non è riconosciuta, ma durante l’infanzia è probabile che sia stata spesso punita o banalizzata.

La Dialectical Behavior Therapy è un trattamento ambulatoriale strutturato, che si muove su due livelli principali di intervento: una psicoterapia individuale e, in contemporanea, una terapia di gruppo centrata sull’apprendimento di abilità emotive (skills training). A questi interventi si aggiunge la possibilità di una consulenza telefonica con il terapeuta tra una seduta e l’altra e la possibilità di partecipare a gruppi di sostegno.

 

Schema Focused Therapy

La Schema Focused Therapy (SFT) è un trattamento psicoterapeutico messo a punto da Jeffrey Young (Young, Klosko, Weishar, 2003) che si fonda su tre concetti base: gli schemi, gli stili di coping e le modalità (mode). Gli stili di coping disfunzionali, secondo l’autore, sono le modalità con cui l’individuo cerca di far fronte alle minacce, rimanendo intrappolato però nei propri schemi maladattivi, mentre per modalità o mode si intende l’insieme delle risposte di coping, sia adattive sia disfunzionali. I pazienti borderline presentano un cospicuo numero di schemi e una continua oscillazione di stati affettivi e risposte di coping differenti; inoltre non hanno possibilità di accedere ad altri mode quando in loro se ne attiva uno specifico: le diverse modalità sono totalmente dissociate le une dalle altre. Secondo Young (2003), in seguito a esperienze negative vissute durante l’infanzia, il soggetto sviluppa, quelli che egli definisce, schemi maladattivi precoci. Tali schemi, secondo l’autore sono all’origine di tratti di personalità patologica e talvolta di veri e propri disturbi di personalità, come il Disturbo Borderline di Personalità.

 

Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving

Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving (STEPPS) è un trattamento ambulatoriale di stampo cognitivo-comportamentale basato su gruppi di skills sviluppato per pazienti con Disturbo Borderline di Personalità e con difficoltà nella regolazione emotiva e comportamentale (Blum, 2012; Alesiania, 2014). Il fondamento teorico della Systems Training for Emotional Predictability and Problem Solving è che il deficit centrale nei soggetti affetti da Disturbo Borderline di Personalità sia l’incapacità di regolare e controllare l’intensità emotiva. Come risultato, il paziente borderline è ciclicamente vittima di picchi emotivi intensi e intollerabili che lo portano a cercare sollievo mediante comportamenti disfunzionali quali auto-mutilazione, agiti spericolati e abuso di sostanze. Il programma terapeutico si compone di un trattamento di psicoeducazione e di un modulo di skills training, per una durata di 20 settimane.

La STEPPS è stata descritta dalla United States Substance Abuse and Mental Health Administration come un trattamento evidence based ed è stata inserita nel National Registry for Evidence-Based Practices come un programma di trattamento completo per il Disturbo Borderline di Personalità e/o come supplemento o aggiunta alle terapie già esistenti e utilizzate. L’obiettivo della terapia è aiutare i pazienti ad acquisire nuove strategie di coping, al fine di modulare e ridurre i dolorosi picchi emotivi e i comportamenti impulsivi. L’acquisizione di queste abilità permette al paziente di anticipare situazioni stressanti e incrementare la fiducia nelle proprie capacità nel gestire il proprio disturbo. Il programma della STEPPS prevede tre componenti principali: consapevolezza della malattia, skills training per controllo emotivo, skills training per controllo comportamentale.

Recentemente alcuni autori (Madeddu et al. 2012) hanno messo a confronto differenti modelli di trattamento, validati empiricamente tramite RCT, ed hanno concluso che tutti possono essere considerati efficaci nella cura del Disturbo Borderline di Personalità o, quantomeno, idonei al trattamento di specifici sintomi ad esso associati.

 

Disturbo Borderline di Personalità negli adolescenti

L’ampliamento della diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità agli adolescenti (Miller, 2008) ha reso necessario l’adattamento delle tecniche di intervento messe a punto per l’adulto, all’età adolescenziale.  Tra i protocolli sopracitati solo Dialectical Behavior Therapy e Psicoterapia Focalizzata sul Transfert sono stati adattati per l’adolescente.

La DBT-A per l’adolescente (Miller 2008) prevede innanzitutto il coinvolgimento dei familiari del ragazzo, un adattamento dei contenuti e del linguaggio degli skills training e la riduzione della durata del protocollo da 1 anno a 16 settimane con la possibilità di accedere ad una seconda fase opzionale.

Anche la TFP-A prevede un adattamento del linguaggio per l’età evolutiva e comprende il coinvolgimento dei familiari nel trattamento. Il modello, manualizzato da Kernberg e colleghi, contempla anche un adattamento delle tecniche ed è focalizzato a sviluppare relazioni più adeguate sia in ambito familiare che extra-familiare (Kernberg et al. 2008). Non vi sono al momento studi di valutazione di efficacia dell’applicazione del modello in adolescenti con Disturbo Borderline di Personalità.

I disturbi neurocognitivi come segnale precoce per la schizofrenia: una possibile prevenzione

Uno studio condotto da un gruppo di psicologi del “Beth Israel Deaconess Medical Center” (BIDMC), ha scoperto che, in una fase precedente alle manifestazioni psicotiche, che chiameremo “fase prodromica”, questi sintomi neurocognitivi sarebbero già evidenti.

Col termine “schizofrenia” indichiamo un disturbo psicotico che implica disfunzioni cognitive, comportamentali ed emotive. Secondo la classificazione del DSM 5, la sintomatologia associata a questa condizione prevede, per una parte di tempo significativa durante il periodo di un mese, la presenza di due o più dei seguenti sintomi: deliri, allucinazioni, eloquio disorganizzato, comportamento disorganizzato o catatonico, sintomi negativi (appiattimento emotivo o affettivo). Per avere una diagnosi vera e propria di schizofrenia, deve essere sempre presente almeno uno dei primi tre sintomi elencati e la condizione descritta deve durare per un periodo di almeno sei mesi, in cui, come visto in precedenza, un mese di sintomi sopracitati e gli altri mesi che comprendono sintomi prodromici o residui. Inoltre il quadro patologico deve compromettere in modo marcato il livello di funzionamento del soggetto in una o più aree (lavoro, relazioni, cura di sé ecc.).

Si tratta dunque di una problematica pervasiva, che, benché sia conosciuta a causa dei sintomi più francamente psicotici come allucinazioni e deliri e nell’immaginario comune sia a loro associata, in realtà risulta essere caratterizzata anche da deficit neurocognitivi cronici, come problemi di memoria e di attenzione.

 

Lo studio

Uno studio condotto da un gruppo di psicologi del “Beth Israel Deaconess Medical Center” (BIDMC), ha scoperto che, in una fase precedente alle manifestazioni psicotiche, che chiameremo “fase prodromica”, questi sintomi neurocognitivi sarebbero già evidenti. I risultati potrebbero essere utili per stabilire dei segnali che consentirebbero di evidenziare la possibile presenza della malattia fin dalle fasi precoci, ed eventualmente elaborare degli interventi per mitigare la manifestazione dei disordini psicotici e incrementare le funzioni cognitive.

I metodi

Nella ricerca, condotta in quattro anni da Seidman et al. all’interno di otto università di Stati Uniti e Canada su pazienti esterni, sono stati confrontati 689 uomini e donne classificati come “ad alto rischio clinico” (CHR) di sviluppare psicosi, con 264 uomini e donne classificati come gruppo di controllo (HC). Ad entrambi i gruppi sono stati somministrati 19 test standard che valutavano le funzioni esecutive, le abilità visuospaziali, l’attenzione, la working memory, le abilità verbali e la memoria dichiarativa. Negli anni successivi gli stessi soggetti sono stati monitorati per l’eventuale sviluppo di patologie dello spettro psicotico.

E’ stato dimostrato che il gruppo ad alto rischio aveva punteggi significativamente più bassi rispetto al gruppo di controllo in tutti i 19 test. Inoltre, all’interno del gruppo CHR, coloro i quali avrebbero successivamente sviluppato una patologia dello spettro psicotico avevano performance significativamente peggiori degli altri soggetti ad alto rischio ma senza il successivo sviluppo di disordini psicotici.

Le funzioni neurocognitive

Secondo i ricercatori, le due funzioni neurocognitive chiave danneggiate nei soggetti ad alto rischio, nella fase prodromica della malattia, sarebbero la working memory e la memoria dichiarativa.
Il danneggiamento di queste abilità, secondo Seidman, sarebbe corrispondente alle difficoltà riferite da molti soggetti affetti da schizofrenia, che riporterebbero difficoltà di concentrazione, nella lettura, o nella rievocazione di materiale mnemonico nei giorni precedenti all’insorgenza.

Seidman sostiene che, benché nella nostra cultura siano allucinazioni e deliri a rendere paurosa una malattia come la schizofrenia, in realtà circa l’80% delle persone che ne sono affette non è in grado di far fronte alla vita quotidiana o di proseguire un percorso lavorativo o scolastico proprio a causa dei disturbi della sfera neurocognitiva.

[blockquote style=”1″]I soggetti possono sentire le voci e funzionare comunque abbastanza bene, ma essi non riescono a funzionare praticamente per nulla quando le loro funzioni cognitive sono compromesse. Il nostro gruppo sta testando una serie di rimedi di tipo cognitivo e dei trattamenti di miglioramento per determinare il loro ruolo nell’evoluzione della malattia. Esiste più di un’evidenza del fatto che interventi precoci riducano il numero di persone che arrivano alla schizofrenia. [/blockquote] dichiara il ricercatore.

Gli sviluppi della ricerca

Questo studio ha costituito la seconda fase del NAPLS (North American Prodrome Longitudinal Study), un consorzio di ricerca formato nel 2003 allo scopo di focalizzarsi sull’intervento precoce e sulla prevenzione della schizofrenia. I ricercatori del NAPLS hanno potuto identificare, attraverso i propri dati, individui ad alto rischio per lo sviluppo di un disturbo psicotico e i fattori biologici associati alle psicosi, risultati che hanno portato il gruppo, capeggiato da ricercatori dell’università di Yale, a pubblicare un “calcolatore di rischio” che potrebbe aiutare i professionisti a “prevedere” l’eventuale evoluzione a psicosi di soggetti a rischio.

[blockquote style=”1″]Un significativo numero di persone riesce a continuare o a ritornare a lavoro e a scuola. Questo approccio, che prevede un intervento rapido, sta dando alle persone più speranze, ed è questo ciò che conta davvero.[/blockquote]

Benefici della Pratica della consapevolezza: cambiare il modo di vedere la realtà e se stessi

La consapevolezza è un’osservazione non giudicante ed è dunque la capacità della mente di osservare senza criticare. In questo modo è possibile vedere ogni cosa senza condanna e senza meravigliarsi di nulla. Inoltre, la consapevolezza è “osservazione partecipante” ossia il meditante è sia osservatore dei propri stati emotivi che partecipante, cioè nello stesso tempo le prova, le esperisce.

La pratica della consapevolezza: in cosa consiste

Secondo l’ottica Buddhista, noi esseri umani viviamo in un modo particolare, considerando le cose come permanenti anche quando esse non lo sono. Non siamo difatti abituati a percepire le cose in continua evoluzione, in continuo cambiamento, come in realtà sono.

Con la Meditazione vipassana, è possibile coltivare un modo speciale e diverso di guardare la vita: vederla così come esattamente è. Questo è un modo particolare di percepire chiamato “Consapevolezza“. Questo processo della Consapevolezza è molto diverso dunque dal modo abituale di conoscere ed esperire la realtà, cui siamo abituati. In genere infatti guardiamo le cose attraverso uno schermo di concetti e pensieri e scambiamo questi oggetti mentali per la realtà. In questo modo trascuriamo quasi tutti gli stimoli sensoriali che riceviamo, nonostante le risposte percettive siano intrinseche alla struttura stessa del sistema nervoso, per consolidare nella mente nient’altro che oggetti mentali.

La meditazione può invece insegnare ad esaminare, con grande precisione, tutto il processo della percezione. Esercitando la Consapevolezza si diviene sempre più consci di ciò che realmente è la vita. E’ un’educazione mentale che consentirà di fare un’esperienza del mondo completamente nuova. Non solo ci si renderà conto di cosa realmente sta accadendo intorno a noi ma consentirà, allo stesso tempo, una progressiva scoperta di se stessi. Si potrà dunque essere in grado di percepire le cose così come sono e dunque in continuo movimento, cambiamento.

La pratica della consapevolezza è detta vipassana bhavana. Vipassana deriva da “passana” che significa percepire, vedere e “vi” che ha una serie di significati tra i quali “in profondità”. Potrebbe dunque essere tradotto come “guardare all’interno delle cose con chiarezza”. Bhavana deriva da bhu che significa diventare, crescere, coltivare ed è sempre usata con riferimento alla mente per cui può essere tradotta come “coltivare la mente”. Tale coltivazione si ripromette di favorire un modo particolare di vedere le cose capace di generare profonda comprensione della realtà. Nel processo di percezione normalmente la fase della consapevolezza è molto veloce, tanto che è difficile osservarla. E’ quello stato di consapevolezza presimbolico e di brevissima durata che consiste nel mettere a fuoco la vista e la mente sull’oggetto, senza ancora oggettivarlo.

La consapevolezza è un’osservazione non giudicante ed è dunque la capacità della mente di osservare senza criticare. In questo modo è possibile vedere ogni cosa senza condanna e senza meravigliarsi di nulla. Inoltre, la consapevolezza è “osservazione partecipante” ossia il meditante è sia osservatore dei propri stati emotivi che partecipante, cioè nello stesso tempo le prova, le esperisce.

 

Le attività della consapevolezza e le finalità

La consapevolezza comprende tre attività fondamentali: il ricordarci quello che stiamo facendo, farci vedere le cose così come sono e farci vedere la natura profonda di tutti i fenomeni. Quando la mente si distoglie da ciò che stiamo facendo è infatti la consapevolezza a ricordarci cosa stavamo facendo. Essa non aggiunge altro a ciò che si percepisce, non distorce nulla. E’ grazie ad essa che dunque ci si rende conto della vera natura profonda dei fenomeni ed in particolare delle tre caratteristiche insegnate dal buddhismo sull’esistenza umana: “anicca” l’impermanenza, “dukka” l’insoddisfazione e “anatta” l’assenza di un io. La consapevolezza è il metodo col quale è possibile investigare queste verità universale col fine di farci conoscere un livello di realtà più profondo.

A questo livello di indagine più profondo, accessibile all’osservazione umana, ci si rende conto che:
– tutte le cose sono transitorie;
– qualsiasi cosa nel modo è insoddisfacente;
– non esistono entità immutevoli o permanenti, si tratta solo di processi.

La consapevolezza rappresenta così il cuore della meditazione ed è proprio in virtù dello sviluppo della consapevolezza meditativa che cambia il modo di percepire la vita: la realtà stessa viene percepita nel momento presente, nell’attimo stesso in cui accade. In questo stato percettivo ci si rende conto di come nulla resta uguale a se stesso per due momenti consecutivi. Tutto è in costate trasformazione. Ogni cosa nasce, cresce e muore, senza alcuna eccezione. Tutto è in continua trasformazione: sorge, aumenta, diminuisce e svanisce. Le esperienze piacevoli, come quelle spiacevoli, sorgono e svaniscono senza alcun controllo e non durano in eterno. Quest’impermanenza non è tuttavia causa di dolore ma solo il normale succedersi delle cose. Mentre si continua ad osservare questi cambiamenti ci si accorge di come tutto si tiene insieme, ci si rende conto della intima connessione tra tutti i fenomeni mentali, sensoriali ed affettivi. Ogni pensiero ne genera un altro, le sensazioni ed i desideri sono tutti collegati.

Il modo abituale di percepire e vedere la realtà e noi stessi è spesso causa di malessere e disagio. Di continuo ci ritroviamo a lottare per cacciare via situazioni spiacevoli e avvertiamo un profondo senso di fallimento e malessere perchè ciò non è sempre possibile. Allo stesso modo non possiamo aspettarci che le esperienze piacevoli durino in eterno ed anche questo diventa talvolta fonte di disagio. Dunque questa nuova concezione può consentire l’osservazione di ogni cosa, compreso il dolore psichico, come tale: qualcosa che sorge ed inevitabilmente tende a svanire.
Ecco dunque il beneficio della pratica della consapevolezza: cambiare il modo di vedere la realtà e se stessi.

Francesca Woodman e l’arte della fotografia: “E’ una questione di convenienza: io sono sempre disponibile”

Francesca Woodman (1958-1981), una delle figure più emblematiche dell’arte fotografica degli ultimi quarant’anni, era solita fotografarsi in maniera quasi ossessiva.

 

E spiegava così il perché ad un’amica, con un misto di ironia e di pragamatismo:

E’ una questione di convenienza: io sono sempre disponibile.

Francesca Woodman cominciò a lavorare con il mezzo fotografico a soli tredici anni, quando realizzò il suo primo autoscatto (“Self-portrait at thirteen”). Nei nove anni che separano questo esordio dalla sua morte (si suicidò nel gennaio del 1981) l’artista continuò a fotografare se stessa negli ambienti più disparati.

Francesca Woodman e l'arte della fotografia: "E' una questione di convenienza: io sono sempre disponibile" - self portrait at 13
Francesca Woodman – Self Portrait at thirteen

 

Francesca Woodman e il rapporto tra corpo e spazio

Al centro dell’obiettivo c’è sempre il suo corpo, nudo, accostato ad elementi naturali o deformato con vetri, lacci o, ancora, trasformato in statua o in oggetto inanimato. Anche le pose sono molto interessanti, in parecchie foto assai sensuali, si tratta di una sensualità intimamente legata al dolore e alla morte, possibile rappresentazione della morte psichica cui si va incontro se il corpo non trova una sua dimensione ed un suo spazio nella realtà.

L’opera di Francesca Woodman si sviluppa attorno allo studio del rapporto tra il proprio corpo e lo spazio, e al modo in cui questo rapporto viene rappresentato attraverso la fotografia. Il corpo femminile diventa oggetto di studio ed autoriflessione; l’impiego del proprio corpo è per Francesca un’attività totalizzante e durissima, è molto più di una ricerca puramente estetica, è un “gioco psicologico” profondo e drammatico.

Ci ritroviamo quindi a riflettere su alcune dimensioni fondamentali dello psichico attraverso gli scatti di Francesca Woodman. In altre parole, la Woodman costruisce fotografie di forte carattere introspettivo, quasi a voler scavare nel profondo del proprio animo, cercando di esternare, attraverso l’arte fotografica, le sue paure ed i suoi incubi.

 

L’autoritratto e la fotografia in psicoterapia

Con i suoi autoritratti Francesca Woodman esplora la sua anima e la sua psiche. Non a caso, infatti, l’autoritratto è oggetto di studio anche in psicologia. Autoritratto, in campo psicologico, non significa solo scattarsi delle fotografie, ma si intende soprattutto il rapporto che ognuno ha con la rappresentazione della propria immagine.

Quella della Woodman potrebbe essere definita una “fotografia terapeutica”, uno strumento facilitatore per acquistare maggiore consapevolezza di alcuni aspetti della propria personalità.

L’autoritratto è una tecnica molto valida per mettere a nudo quelle emozioni faticose da esprimere e che scuotono l’interiorità, motivo per cui la fotografia viene usata anche per trattamenti terapeutici, per esempio in persone affette da anoressia o bulimia, in persone che hanno bisogno di riaccettare la propria immagine dopo un incidente o una malattia, oppure in individui che soffrono di ansia o di disturbi dell’umore, o in soggetti che costituzionalmente hanno un deficit linguistico, o disfunzioni cerebrali.

La fotografia è infatti un medium artistico molto potente da un punto di vista emotivo e può essere molto efficace nelle cure psicoterapeutiche (fototerapia). Quindi, mentre la “fotografia terapeutica” viene utilizzata dalle persone, come da Francesca Woodman, per l’analisi e la scoperta di se stesse, la fototerapia viene utilizzata dagli psicoterapeuti per assistere altre persone che hanno bisogno di aiuto per risolvere i loro problemi. In entrambi i casi, il mezzo fotografico è un potentissimo alleato che ci aiuta ad entrare in contatto con noi stessi molto profondamente.

 

La dissociazione e il questionario PSQ nell’ ottica della Terapia Cognitiva Analitica

La CAT (Cognitive Analytic Therapy – Terapia Cognitiva Analitica) è una tecnica terapeutica evidence based di tipo collaborativo per esaminare le modalità secondo cui una persona pensa, esperisce le emozioni, agisce nel mondo rispetto agli eventi di vita e le relazioni interpersonali che sono connesse a queste esperienze.

Ilenia Sidoli, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI

CAT: la terapia cognitiva analitica

Sviluppata all’inizio degli anni ‘80 da Dr. Anthony Ryle a Londra all’interno del Sistema sanitario nazionale, è una terapia breve che, solitamente, prevede 16 sedute ed è applicabile ad una varietà di disturbi mentali.

Viene oggi utilizzata in diversi settori e per diversi tipi di patologia, con un numero sempre maggiore di studi randomizzati controllati di efficacia (Treasure et. al. (1995), Dare et. al. (2001) Chanen et. al. (2008) Fosbury et. al. (1997)¸ Clarke S1et al., 2013).

La terapia cognitiva analitica è influenzata da diverse correnti. In particolare dal cognitivo assorbe il modello misto di elaborazione sequenziale e in parallelo dell’informazione, l’insegnamento al paziente di abilità di automonitoraggio circa il proprio umore, pensieri e sintomi; dalla psicanalisi ha mutuato concetti relativi ai meccanismi di difesa, transfert e controtransfert, i conflitti, le relazioni oggettuali, l’importanza delle esperienze infantili e della loro valenza affettiva come base su cui in età adulta si strutturano i modelli relazionali; da Kelly la teoria dei costrutti personali e le griglie di repertorio; da Vygotskji i concetti di zona di sviluppo prossimale e da Bakhtin il concetto di “mente dialogica”.

Lo sviluppo teorico della terapia cognitiva analitica si dipana lungo due linee di ricerca che hanno guidato il lavoro di Antony Ryle : uno focalizzato sul perchè gli esiti negativi di pensieri e azioni disfunzionali non portino alla revisione da parte dei centri superiori, l’altro utilizza tecniche di investigazione delle relazioni e dei processi del sè. Ryle si chiedeva quindi come mai le persone continuino ad avere pensieri e comportamenti disfunzionali nonostante vedano gli esiti negativi dei propri comportamenti.

Ryle ha così individuato tre tipologie di procedure generali che generano nei pazienti problemi di revisione delle proprie tecniche: trappole che sostenendo le assunzioni negative ne rinforzano gli esiti, intoppi che bloccano i desideri poiché provocano o potrebbero provocare esiti negativi (sarebbe bene ma..), dilemmi, dove le scelte sono polarizzate in due possibilità opposte senza possibili soluzioni intermedie.

Ciò che si propone di fare la terapia cognitiva analitica è riconoscere e modificare le distorsioni imposte da pattern intra ed interpersonali disfunzionali. Attraverso l’utilizzo dello Psychotherapy file si vogliono indagare spiegazioni di sintomi, descrivere le trappole, intoppi e dilemmi negativi degli stati problematici ed aiutare i pazienti ad identificarli. Sulla formazione di questi schemi assumono un ruolo essenziale le esperienze relazionali precoci poichè esse vengono interiorizzate ed il senso di sè è trovato o elicitato nelle risposte reciproche dell’altro.

La terapia cognitiva analitica descrive le internalizzazioni di modelli relazionali precoci in termini di Ruoli Reciproci (RR), per cui le nostre primissime relazioni con le figure di accudimento significative vengono ripetute nelle nostre relazioni mature in modo inconsapevole. Per esempio l’esperienza di essere stati accuditi e amati nell’infanzia, permette di consolidare modelli di relazioni future con se stessi e con gli altri connotate dall’accudire e ricevere accudimento, mentre l’essere stati in una relazione criticante e giudicante, si ripercuote in un atteggiamento di critica e giudizio verso se stessi e gli altri, e al contempo nel percepire se stessi e mettere gli altri nella stessa posizione di esame e disapprovazione.

Nell’adulto i ruoli reciproci predominanti in base alle proprie esperienze relazionali (amato in modo condizionale, criticato, maltrattato) e le procedure collegate a questi ruoli (per es. mi sforzo per essere benvoluto dagli altri, ma poi mi sento usato e torno al RR di amato in modo condizionale), possono essere “interpretati” in momenti diversi, o all’interno della stessa relazione. Questi schemi ripetitivi sono la causa del dolore più profondo poichè restringono la gamma delle nostre scelte e si autoalimentano e la loro identificazione diventa essenziale ( McCormick E.W. 1996 “Change for the Better”Self Help Through Practical Psychotherapy”Cassell) . In questi schemi legati al bambino e all’adulto interni diventa allora importante riconoscere come ognuno di questi ruoli mantenga la nostra primissima esperienza di dolore. Il sé bambino vive questo dolore ogni volta come se fosse la prima ed il sé adulto continua ad infliggere gli stessi schemi limitanti (come tipologia) nelle relazioni, sia a livello interno che esterno.

Nella terapia cognitiva analitica è centrale il concetto di sé. Sulla base genotipica si sviluppano i concetti di relazione reciproca che vengono poi influenzati lungo tutto il percorso di vita dall’ambiente ed in particolare dall’internalizzazione di ruolo reciproco e dalle esperienze socioculturali. Il sé è costituito da più livelli di cui alcuni inconsci ed altri più consci tra cui le funzioni psicologiche quali il pensiero, attenzione, memoria…

Il sé comprende anche le capacità più propriamente meta cognitive, l’empatia, il senso di coerenza e continuità, l’identità e l’abilità relazionale.
In alcuni pazienti è stato notato un contrasto tra i vari stati del sè non meglio spiegati da circostanze esterne. Coloro che hanno avuto esperienze di mancato controllo, abuso, abbandono o rifiuto richiedono l’identificazione di due o più stati del sè. Spesso questi ruoli non sono riconosciuti dal paziente che includono angoscia o basso tono dell’umore e confusi con la sintomatologia depressiva.

 

PSQ: Personality Structure Questionnaire per indagare la dissociazione

Questi stati multipli del sè o dissociazione possono essere identificati attraverso la somministrazione del PSQ (Personality Structure Questionnaire) (Pollock e al. 2001;Ryle 2007; Bedford e al. 2009) . Il PSQ individua una povertà di integrazione della personalità (Pollock, Broadbent, Clarke et al., 2001, Bedford et al., 2009) e la ri-somministrazione durante il percorso terapeutico indica il grado di ristrutturazione in corso.

Una personalità adulta integrata è concettualizzata da un senso di continuità delle esperienze e considerazione di sè e degli altri come complessi e multisfaccettati dotati di qualità sia positive che negative ma tollerabili (McQuitty, 2006). Esperienze di mancata integrazione avvengono quando le prime relazioni non sono solide o addirittura deprivanti/abusanti ed i disturbi di integrazione della personalità sono frequenti tra i disturbi di personalità e nelle diagnosi di disturbo borderline (Adler et al.,2012).

Deficit di integrazione della personalità si concettualizzano nella teoria degli stati multipli del sè, concetto centrale della terapia cognitiva analitica. In presenza della dissociazione il paziente si sente talmente travolto dalla condizione emotiva temporanea da avere una mancata integrazione di tutte le altre parti di sè o stati alternativi potenziali (CAT; Ryle, 1995). La mancata integrazione può essere dovuta ad una flessibilità ristretta ed il disturbo dell’identità può essere descritto come la mancata integrazione di stati contrastanti.

La dissociazione si configura come una distruzione delle funzioni sovrastanti al sé che spesso si manifesta in de-realizzazione, depersonalizzazione e amnesia. Neurologicamente sembra associata all’abnorme attivazione delle regioni frontali e temporali, l’amigdala ed il precuneo. Questo penalizza i processi di attivazione del sé compresa l’identità ma anche le funzioni esecutive superiori che impedirebbero l’integrazione dei vari aspetti del sé nei ruoli reciproci.

Dalenberg et al.(2012) evidenziano che la dissociazione può essere un risvolto traumatico con cui si resta in relazione. La dissociazione può essere vista anche come il tentativo di bloccare una presa di coscienza rispetto a qualcosa che non vogliamo ricordare (Elzinga, Phaf, Ardon, & Van Dyck, 2003).

Ryle (1995) tentò di creare uno strumento utile a misurare la dissociazione attraverso una scala composta da otto item testati in due studi separati in Gran Bretagna: il “Personality Structure Questionnaire (PSQ)” .

Il primo studio di validazione (Pollock, Broadbent, Clarke, Dorrian, & Ryle, 2001) fu effettuato su due campioni clinici (pazienti psichiatrici un gruppo di 20 e uno da 52 ed un campione di persone prese dalla comunità composto da 255 soggetti).

Il secondo studio fu effettuato su un campione più ampio da Bedford et al. (2009) di pazienti in attesa di ricevere un trattamento.

Per la validazione italiana (Berrios, R., Kellett, S., Fiorani, C., & Poggioli, M., 2015) lo studio fu effettuato su un campione di 296 studenti o lavoratori in Italia che hanno compilato il PSQ volontariamente ed autonomamente e che non avevano mai ricevuto terapie, senza disabilità intellettuali, di un’ età compresa tra i 18 ed i 65 anni, con un livello culturale adeguato. Il secondo campione era invece composto da 237 soggetti con esperienza di psicopatologia cronica in trattamento presso il Sistema Sanitario Nazionale italiano con diagnosi effettuata secondo i criteri del DSM IV e classificati secondo quattro assi: depressione-schizofrenia; disturbi di personalità; condizioni mediche acute o disordini fisici; fattori psicosociali o ambientali che acutizzano lo stress.

Ai partecipanti fu richiesto di rispondere ad 8 item bipolari che riflettono il proprio senso di sè e 5 in scala Likert con valori da uno a cinque rispetto a quanto l’item rappresenta il sè.
Alti livelli di PSQ sono correlati a alti livelli di disturbo rivelando possibili presenze di più stati di sè, presenza di umore variabile, e comportamenti rivelanti la perdita di controllo. La validazione per la popolazione italiana ha rilevato che il PSQ ha caratteristiche di transculturalità. (Berrios, R., Kellett, S., Fiorani, C., & Poggioli, M., 2015).

Inoltre lo studio sottolinea come la possibilità di individuare attraverso un test molto breve la presenza di una dissociazione dei molteplici sè, sia ampiamente indicativo per il trattamento da utilizzare (Ryle & Kerr, 2002). Il PSQ può essere usato sia in fase diagnostica che valutativa del funzionamento della terapia anche utilizzando metodologie affini alla terapia cognitiva analitica come la Schema Therapy (Kellett, Bennett, Ryle, & Thake, 2013).

Lo studio di validazione ha quindi evidenziato l’utilità del PSQ come strumento di assessment per l’identificazione della confusione identitaria anche nel campione italiano. La sua semplicità nell’essere compreso e la possibilità valutativa dei tre fattori (diversi stati, diversi umori e perdita del senso di controllo) indicano come può essere usato come strumento di individuazione e diagnostico di differenti aspetti del disturbo dell’identità.

Inoltre il PSQ è un valido contributo rispetto all’identificazione dei bisogni dei pazienti che presentano disturbi dissociativi dell’identità ed il cuore dei loro problemi di disregolazione (Adler et al., 2012).

Il PSQ ha dimostrato di essere una misurazione self-report e analisi fattoriale affidabile utile ad indagare la dissociazione e costrutti relativi ai disturbi dell’identità.

I dati relativi al test pilota della standardizzazione italiana suggeriscono la possibilità di rilevare differenze significative in termini di integrazione della personalità attraverso l’utilizzo del questionario PSQ prima e dopo un trattamento di psicoterapia (Fioranzi e Poggioli, 2011).

Ulteriori studi (in atto) su campioni più ampi si focalizzeranno sull’ item analysis e sull’effetto della terapia covariando per età e per tipologia di patologia.

Perché il cervello delle Anoressiche e delle Bulimiche è in grado di ignorare la fame?

I ricercatori dell’Università del Colorado presso l’Anschultz Medical Campus, guidati da Guido Frank, hanno scoperto il meccanismo neurale che consente al cervello delle Anoressiche e delle Bulimiche di ignorare lo stimolo della fame.

 

In uno studio pubblicato dalla rivista Translational Psychiatry, i ricercatori hanno dimostrato che i normali pattern cerebrali dell’appetito sono, in effetti, alterati e ribaltati in coloro che soffrono di disturbi alimentari.

I segnali cerebrali provenienti da altre aree possono far sì che il segnale ipotalamico venga ignorato, nonostante l’ipotalamo sia una regione cruciale per la regolazione dell’appetito, in quanto guida la motivazione ad alimentarsi.

Nel mondo scientifico e clinico noi lo chiamiamo “la mente domina la materia” (in lingua originale: “Mind Over Matter”) – ha affermato Guido Frank, autore principale dello studio e professore associato di psichiatria e neuroscienze presso la Scuola di Medicina dell’Università del Colorado – Ora, abbiamo un’evidenza fisiologica a sostegno di quest’idea.

Frank, esperto di disturbi del comportamento alimentare, si è avviato alla scoperta dell’organizzazione gerarchica che all’interno del cervello regola l’appetito e l’assunzione di cibo. L’obiettivo era quello di comprendere il meccanismo neurale che si cela dietro al fatto che alcune persone si nutrono quando hanno fame mentre altre non lo fanno.

 

Cosa succede nel cervello delle anoressiche e delle bulimiche: lo studio

Con l’ausilio di immagini di risonanza magnetica cerebrale, i ricercatori hanno esaminato la reazione del cervello in seguito all’assunzione di una soluzione zuccherata di 26 donne prive di un disturbo alimentare, 26 donne con diagnosi di anoressia nervosa e 25 con diagnosi di bulimia.

Il team ha scoperto che le partecipanti con un disturbo alimentare mostravano diffuse alterazioni nella struttura dei circuiti cerebrali di ricompensa del gusto e di regolazione dell’appetito.

Tali alterazioni sono state osservate non tanto a livello strutturale, quanto piuttosto a livello della sostanza bianca, fondamentale per coordinare la comunicazione tra le diverse parti del cervello. Sono emerse anche importanti differenze nel ruolo giocato dall’ipotalamo nei due diversi gruppi sperimentali.

 

I risultati

All’interno del gruppo privo di disturbi alimentari, le regioni cerebrali responsabili dell’assunzione di cibo ricevevano il loro segnale d’azione dall’ipotalamo; mentre nel cervello delle anoressiche e delle bulimiche il circuito ipotalamico era significativamente più debole e l’informazione viaggiava in direzione opposta, pertanto, si dirigeva dalla corteccia cingolata anteriore, che ha implicazioni a livello emozionale e può essere considerata il nostro “sistema di allarme”, verso l’ipotalamo.

Il risultato di questo ribaltamento, quindi, è la capacità del cervello delle anoressiche e delle bulimiche, grazie all’influenza top down cognitivo-emozionale del cingolo anteriore, di ignorare l’ipotalamo respingendo il segnale “mangia” e prolungando, inoltre, la restrizione alimentare.

 

Conclusioni

La regione dell’appetito nel cervello dovrebbe spingere ciascuno di noi ad alzarsi dalla sedia in cerca di qualcosa da mangiare – ha detto Frank – Ma nei pazienti che soffrono di anoressia nervosa o bulimia nervosa questo non avviene.

Secondo lo studio, gli esseri umani sono programmati fin dalla nascita per apprezzare il gusto dolce, ma chi soffre di un disturbo alimentare tendenzialmente inizia proprio con l’evitare cibi dolci per paura di ingrassare. Si potrebbe interpretare questo evitamento come un comportamento appreso e, più specificatamente, un condizionamento operante, dove l’aumento di peso rappresenta la punizione temuta che rafforza l’abitudine a non cibarsi.

Questo evitamento potrebbe, col tempo, alterare i circuiti cerebrali dell’appetito e della nutrizione. I ricercatori suggeriscono che la paura di mangiare certi cibi può influenzare i meccanismi di elaborazione cerebrale del circuito di ricompensa del gusto riducendo il potere dell’ipotalamo.

Grazie a questo studio, noi comprendiamo meglio a livello biologico come fanno coloro che soffrono di un disturbo alimentare ad ignorare la spinta a nutrirsi – ha detto Frank. – Prossimamente abbiamo bisogno, rivolgendoci ai bambini, di comprendere quando tutto questo inizia ad innescarsi.

 

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