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Oltre le gabbie dei generi (2012) di Mirella Izzo – Intervista all’autrice

Oltre le gabbie dei generi è un libro di Mirella Izzo, del 2012. Il messaggio del libro è che ‘l’Identità di Genere’ e non solo il ‘Genere’ riguarda ogni persona umana.

 

Intervistatore (I): Il libro inizia con l’affermazione: Questo non è un libro per trans. Successivamente dopo alcune righe aggiunge: Questo è un libro per tutti. Mi piacerebbe cominciare questa presentazione spiegando perché questo libro è per tutti.

Autrice (A): Ho voluto chiarirlo fin dalla prima riga per una serie di ragioni: il fatto che io fossi notoriamente transgender e che il titolo del libro richiamasse questioni di Gender, poteva facilmente ingenerare la convinzione che il mio sforzo fosse quello di individuare qualcosa di nuovo all’interno della galassia delle definizioni che circondano il mondo transessuale/transgender/genderqueer/gendervariant e chi più ne ha più ne metta.

In realtà il libro vuole avere un messaggio diverso e cioè che “l’identità di Genere” e non solo il “Genere” riguarda ogni persona umana.  Spesso nei documenti ufficiali di leggi o testi politici si tende ad utilizzare “Identità di Genere” come equivalente di Transgender. Mia intenzione è smontare questa tesi. Le persone Transgender hanno una (o più) specifica Identità di Genere, particolarmente evidente agli occhi altrui, in quanto comporta, generalmente, una mutazione del corpo e dei tratti somatici dovuti, in primis, alla terapia ormonale sostitutiva che femminilizza o mascolinizza la persona. Quindi, come si è ingenerata la falsa equivalenza trans = prostituta, persino nei documenti ufficiali dei Governi Identità di Genere è diventato uguale a Transgender.

In realtà l’Identità di Genere dovrebbe indicare qualcosa di più generale e cioè il proprio posizionamento, gli infiniti, anche piccoli, discostamenti dal Genere di appartenenza e dalle Aspettative di Genere (o ruoli di Genere). Nel libro faccio alcuni esempi di quanto, specie nei maschi biologici, anche un piccolo discostamento – se non represso – possa generare grande panico nei parenti, amici, conoscenti, colleghi, capi della persona e in chiunque abbia a che fare con una persona così. Nel libro inserisco casi eclatanti di quanto, specie negli uomini, un piccolo discostamento dagli Stereotipi di Genere, possa generare rifiuto ed emarginazione.

Ratio di questa parte del libro è il coinvolgere tutta la popolazione in una presa di coscienza tale da ingenerare il rifiuto del concetto di diverso. Siamo tutti coinvolti ma nelle persone Transgender, questo coinvolgimento è evidente agli occhi di tutti e necessita di un aiuto medico. Il libro ha uno scopo ben preciso: sviluppare una cultura inclusiva cercando nelle realtà scientifiche più recenti: da cui la necessità di essere rivolto a tutti, non a una parte. E’ un messaggio di liberazione di Genere a cui, probabilmente, l’Italia non è ancora pronta. Ho spesso avuto la sensazione che il libro parlasse ad un pubblico non esistente  (spero, per ora), se non in quella parte di umanità che – o per studio o per ricerca individuale – ha già coscienza di quella parte di Identità individuale che ha a che fare con il Genere ed anche il Sesso e, di conseguenza, gli orientamenti sessuali.

Accettare un uomo (la donna è già più avanti) non stereotipato porterebbe alla luce molti modi diversi di essere uomo e meno sofferenza negli uomini non perfettamente in linea con gli stereotipi del maschile e farebbe anche vedere che il fenomeno transgender non è un elemento qualitativo ma fondamentalmente quantitativo nel discostamento dallo stereotipo di genere maschile e femminile.

I: Il sottotitolo del suo libro è “Il manifesto pangender”, vorrebbe spiegare cosa intende con questo termine pangender? Magari partendo proprio dalla definizione di genere. Poi avremo modo di parlare dell’idea di scrivere un manifesto.

A: Per rispondere a questa domanda bisogna fare un po’ di storia sul momento sociale in cui il libro è uscito. Il movimento LGBT usciva da stagioni di forti lotte intestine (e di potere) che si sono evidenziate in vari Pride, con il culmine del Pride di Bologna. Io facevo parte del gotha delle presidenze delle Associazioni LGBT dell’epoca (Crisalide AzioneTrans), ma mi sentivo sempre di più a disagio in un movimento che – ai miei occhi – sembrava ripetere da decenni le stesse parole d’ordine, con le stesse modalità di espressione, con gli stessi giochi di potere a difesa della propria nicchia rappresentativa.

Io mi sono permessa di contestare, dentro una mailing list di responsabili associativi, il mio disagio ed il fatto che bisognasse in qualche modo superare la forma sommatoria che si era data il movimento, e cioè L+G+B+T e poi ancora L+G+B+T+Q+I, sigla impronunciabile ma che –soprattutto – manteneva le distanze tra le diverse identità senza cercare una sintesi. Anzi, in camera caritatis tutte le singole identità della sigla avevano un rapporto pieno di pregiudizi verso le altre componenti del movimento. Pregiudizi che ho elencato ed esemplificato ampiamente nel libro. Mettere alla luce queste contraddizioni e cercare una sintesi avrebbe messo in discussione l’attuale assetto delle Associazioni e ne avrebbe rivoluzionato il modus cogitandi e operandi. Per questo il libro, molto apprezzato tra psicologi e sociologi, è stato silenziosamente messo all’indice dal 99,9% delle Associazioni LGBTQI.

Io questa sintesi l’ho cercata, non solo tra LGBT, ma anche includendo gli etero e le persone coerenti tra sesso, genere e identità di genere, ma anche altre identità non riconosciute ma esistenti. Questa comunità inclusiva di ogni identità e orientamento l’ho chiamata Pangender. Nel libro ho ben specificato quale significato ho dato a Pangender perché in USA esiste un, pur piccolo, movimento pangender che dichiara di avere in sé tutti i generi e le identità di genere… Un concetto che io trovo border line, in quanto, come individui, possiamo essere una parte, magari anche estesa, allargata, ma mai il tutto a livello individuale. Il nostro concetto di Pangender è invece rappresentativo di un balzo quantico di coscienza di tutte le comunità umane sessualmente identitarie che vivessero le differenze senza giudizio. Ecco come nasce il Manifesto Pangender intorno al quale è poi nato il libro con delle doverose premesse per chi non fosse addentro all’argomento e una parte successiva che tentava di ampliare le enunciazioni del Manifesto, tentando anche di dare risposte alle contestazioni più probabili che mi venivano in mente.

Il libro doveva essere il primo di una triade, ma poi non ho avuto le forze di scrivere neppure il secondo. Un esempio di quanto avrei voluto sviscerare è una realtà che io stessa ho riconosciuto in tempi recenti. Persone che definisco “Gendernauti“. Di solito transizionano da adulti, hanno un passato di vita apparentemente normo-tipico nel genere di nascita, ma con qualche atipicità emozionale. Ad un certo punto della vita (in genere dai 35 ai 50 anni), sentono di non avere più alcuna identificazione con tutto quello che avevano agito nel proprio genere di nascita. Da qui nasce il desiderio profondo di vivere nel genere opposto al sesso di nascita. Di norma non si ha consapevolezza di essere gendernauti ma si pensa di essere transgender tardivi per molti anni e con molte recriminazioni sul non aver compreso prima la propria realtà. Solo dopo molti anni si capisce (ma è difficile da accettarsi perché ci si sente out rispetto alle altre persone transgender) che in realtà un maschile (o un femminile) esisteva ma era fragile, debole e dopo una parte di vita si era esaurito. E’ un argomento che ora accenno appena, che meriterebbe almeno un capitolo di un libro.

Peraltro, inconsciamente, io stessa, proprio ad inizio transizione, nel maggio 2000, scrissi poche righe che in sé contenevano l’essenza di cosa intendo per Gendernauta. Le trascrivo perché spiegano meglio di tante disquisizioni:

La vita non è tutta gioia o tutto dolore, tutta luce o tutta oscurità. Non è sempre estate o sempre  inverno, sempre sereno o sempre nuvoloso… Gli opposti si alternano costantemente, talvolta sovrapponendosi e mischiandosi in alchemiche magie… E così la vita offre spesso un gusto piacevolmente agrodolce o inquietantemente dolceamaro. Mentre noi – spesso scioccamente – cerchiamo di separare ogni singolo ingrediente, la vita ci coglie nel suo inscindibile insieme di aspetti contraddittori. In me il maschile si è spento come in un tramonto autunnale lasciando spazio, dopo una notte buia e di tormento, ad un’alba femminile dolce e magica.  Ma in questo nuovo giorno albeggiante rimane l’eco dei ricordi di ieri. Ricordi di cui faccio tesoro e che talvolta rileggo come un caro diario di una vita passata.

Ora ho solo voluto lanciare uno degli spunti che avrebbero composto il secondo libro. Il terzo avrebbe dovuto sviluppare il capitolo del primo libro “Panhumanity. Il naso fuori” che accenna ad un’estensione del concetto da solo pangender a panumano e panterrestre (includendo mondo animale e vegetale).

I: Nella prima parte del libro “Dal transgender al pangender” lei ripercorre con estrema meticolosità la terminologia, per fare chiarezza sulle parole che usiamo perché molte persone ignorano spesso il significato vero dei termini che utilizzano. Il termine transessuale precede nel tempo quello di transgender. Nel 1966 Harry Benjamin definisce il transessuale come un individuo che vive un profondo disagio (disforia, contrario di euforia) rispetto al sesso biologico. La parola transgender viene utilizzata la prima volta nel 1970, negli USA, dalla militante trans Virginia Prince. Perché oggi è preferibile parlare di transito di genere piuttosto che di transito di sesso?

La risposta apparirà ingenerosa verso il dottor Harry Benjamin che rese famoso il termine transessuale (non lo inventò lui) che pur ha dato tanto alle persone che soffrivano terribilmente nel sentirsi inadeguate al sesso di nascita. Ingenerosa perché transessuale è un termine innanzitutto errato proprio dal punto di vista medico: il sesso è dato dal cariotipo delle persone e dai caratteri sessuali primari (ovaie e testicoli e non, come pensano in molti, pene e vagina/vulva/clitoride). Quindi il sesso non lo si può cambiare. Perlomeno non fino ad ora: il mio cromosoma è rimasto XY dopo la transizione e non c’è modo di avere delle ovaie funzionanti. Si può fare una neo vagina o un neo pene (con tutte le riserve del caso sulla effettiva funzionalità di questi organi sessuali chirurgicamente modificati), ma senza ovaie o testicoli. Quindi transessuale è un termine tecnicamente e scientificamente impreciso, se non errato.

Non fu però solo questo il motivo che spinse Virginia Prince a coniare il termine Transgender. Nella sua intenzione c’era anche il primo vagito della voglia di uscire dalla medicalizzazione della nostra condizione. Usare un termine di nascita medica (e per di più scorretto) non era adatto a chi voleva costruire un movimento di liberazione.

Per rispondere alla domanda: la transizione è di Genere o non è. Non esiste la possibilità, allo stato attuale, di una transizione sessuale. Transgender (o se si vuole italianizzare: transgenere) è il termine ombrello giusto per indicare le persone con varianti della propria identità di genere rispetto al Genere e al Sesso. Ricordo che una nota neuropsichiatra milanese che si è occupata di seguire persone trans, scrisse un capitolo di un libro collettaneo che poi non vide mai la luce, intitolato, provocatoriamente, ma non troppo: “Siamo tutti transgender“.

I: Da pag. 52 a pag. 66 troviamo il Manifesto Pangender. Il libro si articola in 3 parti, il Manifesto Pangender costituisce la seconda parte. Pag.69: ho trovato molto interessante l’affermazione secondo cui, per una questione di precedenza nella costruzione identitaria individuale, è auspicabile sapere chi siamo prima di sapere che cosa ci piace, ovvero l’identità di genere prima dell’orientamento sessuale. A questo proposito sembrerebbero esserci tanti orientamenti sessuali quante identità di genere. Possiamo soffermarci su questo punto?

A: Bisogna essere chiari: questa esigenza si pone a livello filosofico, culturale, psicologico ma non medico. Per la medicina, a tutt’oggi una transgender da Maschio a Donna (non a Femmina proprio perché è transizione di genere e non di sesso) con orientamento sessuale lesbico (verso le donne) viene definita come un transessuale androginoide eterosessuale. Se alla trans piacciono gli uomini, un transessuale androginoide omosessuale. E viceversa per un trans da Femmina a Uomo a cui piacciono le donne è una transessuale ginoandroide omosessuale e se gli piacciono gli uomini, una transessuale ginoandroide eterosessuale. Per la medicina conta solo ed esclusivamente il cariotipo e su di esso costruiscono le definizioni degli orientamenti sessuali e gli articoli al maschile o al femminile da utilizzare.

Stabilita questa distanza abissale tra medicina ufficiale e movimenti delle persone non conformi alla dualità Maschio/Femmina ed anche alla dualità Eterosessuale e Omosessuale (la Bisessualità viene vista come un mix dei due orientamenti esistenti), spiego perché, secondo me, viene prima l’identità di genere rispetto all’orientamento sessuale.

E qui devo aprire una parentesi grande grande. Con viene prima non intendo un primato dell’Identità di Genere sull’Orientamento sessuale, semplicemente, nel caso in cui (e solo in questo caso se indagato bene) non sai ancora chi sei (uomo o donna per semplificare molto), che nome puoi dare al tuo orientamento sessuale? Fino a che non definisco la mia individualità di Genere posso anche sapere il mio orientamento sessuale ma non so che nome dargli. Ma non è solo una questione di nome. Ad intervenire è anche il come praticare l’atto sessuale. Io ho avuto relazioni con donne da uomo e poi da donna (non operata) e posso garantire che la modalità dell’agire sessuale è totalmente diversa. Io sono sempre io, ovviamente, ma dentro l’identità di genere esiste anche una diversa modalità di vivere la sessualità ed una modificazione funzionale degli organi sessuali. E’ una cosa non solo psicologica ma anche ormonale. Per fare un esempio personale: con il cervello invaso dal testosterone la mia sessualità (ed il mio agire sessuale) era opposto a quando ho iniziato ad invertire la prevalenza, pur con gli stessi organi genitali i quali, peraltro, restano gli stessi nella forma (a riposo, nel mio caso), ma si rivoluzionano letteralmente nella funzione dell’atto sessuale e di raggiungimento del piacere. Nel libro dedico un capitolo a questo particolare aspetto della transizione, ben poco (o niente) esplorato, in precedenza.

Inoltre spiego l’insolita situazione oggi prevalente nei libri di psicologia e sociologia. Si identificano sempre più sfumature di Identità di Genere, ma gli Orientamenti sessuali restano duali. Non ci sta e non ci deve stare perché altrimenti si generano gli orientamenti sessuali giusti e quelli sbagliati. Nel libro individuo una 20ina di orientamenti sessuali diversi (ma ce ne possono essere di più) e do pure loro un nome specifico per ogni orientamento. L’ho chiamato gioco degli orientamenti sessuali perché il gioco rivela la sua verità attraverso il paradosso. Tanti più sono gli orientamenti sessuali tanto più sarà difficile discernere quello giusto da quello sbagliato… Alla fine gli orientamenti sessuali sono tanti quante le sfumature delle identità di genere e hanno tutti pari dignità (fatto sempre salvo l’imperativo implicito che sono orientamenti sessuali solo quelli tra post puberali consenzienti)

I: Nell’appendice che ha deciso di inserire in questo libro come integrazione della prima parte, nel paragrafo sul Tranfemminismo a pag. 124, cita l’articolo di uno psicologo che descrive la femminilità transgender come quella utilizzata dalle sex worker transgender per procacciarsi clienti. Un errore grossolano ed imbarazzante che ricorda come molti professionisti non siano in possesso dei requisiti formativi di base necessari a parlare di queste tematiche. Ci avviamo alla conclusione e le chiederei di soffermarci proprio su questo aspetto, che trovo essenziale ed affascinante allo stesso punto, quello della femminilità appunto.

A: Quello psicologo italiano di cui, onestamente, ho dimenticato il nome (pur essendo, a suo tempo, ospitato, l’intervento in questione, da una nota rivista di psicologia on line) rappresenta lo scempio dell’individuazione di cosa è femminile e cosa è maschile. Lo sciovinismo che impregna quell’articolo appartiene a una mentalità che, almeno tra gli specialisti, dovrebbe appartenere a due secoli fa, ma al di là di questo esempio eclatante, esiste tanta ignoranza meno evidente in ambito di Genere. Ci sono stati casi in cui psicologi/psichiatri ci hanno messo anni ad arrivare ad una diagnosi della cosiddetta Disforia di Genere. Il che vuol dire che le persone aspettavano anni senza una risposta e senza poter iniziare il percorso! Una cosa assurda: nei tribunali per stabilire se un assassino era capace di intendere e di volere o il contrario, ci possono volere settimane, mesi, non anni. E si parla di omicidi!!!

Del resto nei programmi universitari di Endocrinologia, la parte riservata agli ormoni sessuali è trascurata ed è un grave errore perché Estradiolo, Testosterone e Progesterone sono, di fatto, sostanze informazionali alla pari di Serotonina, Noradrenalina, Dopamina ecc. e non regolano solo la sessualità. L’esempio più eclatante è il rapporto tra testosterone e aggressività che dà poi vita, insieme a fattori sociali e individuali e culturali, a fenomeni come la violenza sessuale e il Donnicidio. Nessuno sembra chiedersi perché questi fenomeni riguardano solo i maschi e, nel caso in cui se lo chieda, si risponde con frasi tipo “a causa della società patriarcale”,  ma nessuno va oltre a cercare di rispondere al perché la società patriarcale e maschilista si è imposta in tutte le società umane e dei primati, con l’unica eccezione dei Bonobo, una sottospecie di Scimpanzé con cui condividiamo il massimo del Genoma rispetto agli altri scimpanzé, Orango, Gorilla ecc.

E’ importante studiare la società dei Bonobo per capire cosa sia andato storto nella evoluzione umana, perché la società dei Bonobo è pacifica, non conosce guerre e risolve le tensioni attraverso atti sessuali promiscui e mai violenti ed è totalmente matriarcale. Quanto ci sarebbe da dire sul fatto che una società matriarcale sia così sessuale mentre quelle patriarcali sono fondate sulla supremazia…

Si dice che l’uomo pensa sempre al sesso e la donna no, ma uno dei motivi per cui la donna è stata sottomessa, a mio parere, sta proprio nella potenzialità della sessualità femminile (multiorgasmica e che non sceglie, tra la prole, lo sperma che ha fecondato l’ovulo). E credo in parte di rispondere anche a quanto poco si studiano questi aspetti nelle Università nelle facoltà di Psicologia o di Sociologia.

Allora cosa è la femminilità? Molto semplice: quello che le donne libere (e sono poche nel pianeta) agiscono e sentono in quel dato contesto storico, sociale, territoriale. Non tutte agiscono nello stesso modo? Ovvio, non esiste uno Stereotipo di Genere: è tutta un’invenzione maschile, a mio parere. Del resto Simone de Beauvoir scrisse: “Donne non si nasce, lo si diventa”: profetica, in ogni accezione possibile.

 

Oltre le gabbie dei generi: chi è Mirella Izzo?

Mirella Izzo nasce il 23 aprile 1959 di sesso maschile. Transiziona a 39 anni. Fonda, lo stesso anno, l’associazione Crisalide Arcitrans, dall’anno successivo Crisalide AzioneTrans, fino al 2006 che è la prima Associazione italiana a definirsi Transgender e non Transessuale, motivandone la scelta. Collabora dal 2000 al 2003 con lo Sportello Nuovi Diritti della CGIL a Genova e scrive – con altri – un pamphlet sui diritti/doveri dei datori di lavoro nei confronti delle persone transgender. Convince, dopo incontro informale, il Tribunale di Genova, ad eliminare la  perizia d’ufficio a carico dell’istante nelle cause di rettificazione di Genere.

Importa per prima in Italia il termine transfobia differenziandone il significato da omofobia. Scrive il Manifesto Pangender in parziale critica del Movimento LGBT e su questo fonda, insieme ad altri, Crisalide Pangender che durerà circa un anno. E’ la prima translesbica e transfemminista italiana e scrive svariati articoli sui temi sul proprio blog “De/Generi” e sui suoi libri. Pubblica “Translesbismo: istruzione per l’uso” (2007), ed il libro di poesie “Perpetue Rifrazioni” (2007), il libro “Oltre le Gabbie dei Generi: il Manifesto Pangender“(2012, Ed. Gruppo Abele) che compendia il Manifesto originario. Due anni dopo pubblica il libro “Donnicidio: il femminicidio visto dagli occhi di una donna nata maschio“. Nell’anno 2015 nasce l’Associazione Rainbow: pangender & pansessuale, prima ad ispirarsi al Manifesto Pangender e viene nominata Presidente Onoraria.

Il Cervello felice (2014) di John Arden – Recensione

Il libro “Il cervello felice” (originale “The Brain Bible”) di John Arden, si prefigge l’obiettivo di tracciare un percorso specifico attraverso il quale il lettore può acquisire numerose informazioni e concetti utili ad attuare comportamenti che possano proteggere e mantenere allenato il nostro cervello.

 

Cura del corpo…e del cervello?

Siamo sempre più attenti e impegnati nel prenderci cura dei nostri organi: andiamo a correre, in bicicletta o ci concediamo delle passeggiate per mantenere efficiente il nostro apparato cardiocircolatorio, smettiamo di fumare per preservare i nostri polmoni, stiamo attenti all’alimentazione per mantenere efficienti gli organi deputati alla digestione, cerchiamo di bere una sufficiente quantità d’acqua per favorire il buon funzionamento dei reni e per idratare la pelle.

Non sempre, tuttavia, viene dato il giusto risalto all’importanza di mantenere attivo ed efficiente l’organo forse più importante che abbiamo: il cervello. Paradossalmente, spesso diventiamo consapevoli del nostro stesso cervello, solo quando il suo funzionamento è ostacolato da disturbi neurologici, psichiatrici, o psicologici che influenzano pesantemente la nostra vita quotidiana.

 

Il cervello felice di J. Arden

Il libro “Il cervello felice” (originale “The Brain Bible”) di John Arden, psicologo e neuropsicologo americano, già direttore responsabile dei programmi di formazione e training nel campo della salute mentale dei Kaiser Permanente Medical Centers della North Carolina, si prefigge l’obiettivo di tracciare un percorso specifico, basato su dati di ricerca in campo neuroscientifico e sull’esperienza clinica dell’autore, attraverso il quale il lettore può acquisire numerose informazioni e concetti utili ad attuare comportamenti che possano proteggere e mantenere allenato il nostro cervello.

Il libro “Il cervello felice”, dopo un capitolo introduttivo di presentazione della struttura del volume, illustra, avvalendosi di esempi concreti basati sulle storie di alcuni pazienti di Arden, alcuni principi di generali sul funzionamento neurobiologico del cervello, basati sulle ricerche neuroscientifiche degli ultimi anni.

La seconda parte del volume è invece interamente incentrata sulla presentazione dei diversi fattori del programma Cervello felice, che secondo Arden concorrono a garantire un cervello brillante, attivo e lucido negli anni, in barba al trascorrere del tempo. I fattori chiave presentati da Arden sono cinque: alimentare la sete di curiosità intellettiva del nostro cervello garantendogli istruzione e sfide cognitive fin dalla giovane età e per tutto il corso dell’esistenza (fattore intellettuale); seguire uno stile alimentare sano ed equilibrato, favorendo alcuni alimenti e limitando o eliminandone altri (fattore alimentazione); condurre una vita attiva caratterizzata da un’attività aerobica regolare e costante (fattore movimento); mantenere una solida rete di rapporti e relazioni sociali appaganti (fattore sociale); garantire al nostro organismo il giusto riposo e una sufficiente quantità di sonno ristoratore (fattore sonno).

Ai cinque fattori principali, l’autore aggiunge uno specifico capitolo, che approfondisce l’importanza di utilizzare strategie e strumenti come le tecniche di rilassamento, la meditazione e l’attenzione non giudicante al momento presente (di fatto la mindfulness) che consentano di gestire le situazioni e i momenti caratterizzati da intenso e protratto stress, riducendone l’impatto sulle nostre capacità cognitive.

Il libro presenta tre punti forti, che rendono interessante e godibile la lettura sia agli addetti ai lavori (psicologi, psicoterapeuti, medici, neuroscienziati ecc.), che alle persone appassionate e interessate alle tematiche riguardanti il benessere psicofisico: l’autore, nell’esporre le sue teorie e nel fornire i concetti, fa esplicito riferimento a molti studi scientifici (più di cento), i cui riferimenti sono pubblicati nelle note finali e sono facilmente consultabili e approfondibili.

Arden inoltre riesce a incuriosire e far riflettere il lettore in merito alla grande varietà di elementi che possono concorrere a favorire il benessere mentale e cognitivo, invogliando a porre maggior attenzione e consapevolezza alle proprie abitudini e motivando al cambiamento di alcuni nostri stili di vita. La narrazione intervalla sapientemente spiegazioni di concetti più tecnici e scientifici alla descrizione di aneddoti personali dello stesso Arden e dal racconto delle storie di alcuni suoi pazienti.

Nei racconti dei pazienti di Arden possiamo facilmente rivedere noi stessi o le persone con cui siamo a contatto nel corso della nostra vita personale o professionale, da Sylvia, 60 anni, preoccupata dalla perdita di lucidità mentale rispetto a quando aveva 30 anni, a Sara, madre, moglie e lavoratrice, impegnata da anni a prendersi cura dei figli prima e dei genitori anziani poi, che inizia ad accusare il peso dello stress di anni dedicati prevalentemente al benessere di chi le sta vicino, a Richard, professionista da pochi anni in pensione, sorpreso dal calo di brillantezza e dalla comparsa di vuoti mentali comparsi da quando ha lasciato il lavoro…

In sintesi “Cervello Felice” rappresenta una buona lettura, che ha il merito di farci riflettere sul prendere maggiormente in considerazione un approccio olistico al benessere del nostro cervello e che ci può consentire di adottare personalmente, o consigliare a chi ci sta vicino, degli accorgimenti comportamentali semplici ma incisivi, che possono portare benefici rapidi e sostanziali alla nostra salute psicologica, fisica e cognitiva.

 

Gli amanti senza volto di René Magritte

Nell’ambito delle arti figurative, uno dei principali e più originali esponenti del movimento surrealista fu René Magritte (1898-1967), che, coi suoi quadri, ci regala scene che assomigliano più ad un sogno che alla realtà.

 

Il Surrealismo, inteso come movimento artistico-letterario, nacque ufficialmente in Francia nel 1924, con la pubblicazione, ad opera di André Breton, del “Manifeste Surréaliste”, in cui il Surrealismo venne definito come un:

Automatismo psichico puro con il quale ci si propone di esprimere, sia verbalmente, o per iscritto, che in ogni altro modo, il funzionamento reale del pensiero, in assenza di qualsiasi controllo esercitato dalla ragione, al di fuori di ogni preoccupazione estetica o morale.

Breton conosceva molto bene la psicoanalisi di Freud, con cui venne in contatto all’inizio della guerra, quando era studente di medicina e venne arruolato per il servizio militare: fu infatti assegnato ad un centro neuropsichiatrico dove venivano curate le vittime degli shock bellici e fu qui che, per la prima volta, si avvicinò alle teorie freudiane.

 

L’influenza della psicoanalisi nell’arte del primo Novecento

La nascita della psicoanalisi, grazie a Freud, fornì molte suggestioni alla produzione artistica della prima metà del Novecento, che utilizzò ampiamente il concetto di inconscio e di sogno.

Secondo Freud il sogno è la “via regia verso la scoperta dell’inconscio”. Nel sonno, infatti, viene meno il controllo della coscienza sui pensieri dell’uomo e, in questo modo, può più liberamente emergere il suo inconscio, travestendosi in immagini di tipo simbolico.

Freud fu dunque un importante punto di riferimento per i surrealisti, la cui arte aveva l’obiettivo di esprimere la complessità della psiche umana, di esprimere l’Io interiore in piena libertà, emancipandolo dai meccanismi inibitori e dalle catene dalle quali è avviluppato. I surrealisti non si limitarono a trascrivere un sogno o un’allucinazione, ma cercarono di scoprire il meccanismo interiore attraverso cui opera l’inconscio. Il mezzo attraverso cui raggiunsero questo obiettivo fu l’automatismo psichico, ovvero il libero susseguirsi di associazioni mentali e di idee spontanee in un concatenamento irreversibile.

 

Il surrealismo di René Magritte

Nell’ambito delle arti figurative, uno dei principali e più originali esponenti del movimento surrealista fu René Magritte (1898-1967), che, coi suoi quadri, ci regala scene che assomigliano più ad un sogno che alla realtà.

L’artista fu infatti definito “le saboteur tranquille” per la sua capacità di insinuare dubbi sul reale attraverso la rappresentazione del reale medesimo. René Magritte, nelle sue tele, ripete spesso le stesse figure e gli stessi simboli e, tra questi, il volto coperto da un lenzuolo bianco compare in maniera ossessiva.

Qui vorrei concentrarmi proprio su una di queste tele, ovvero “Les Amants” o “Gli Amanti” del 1928. Si tratta di una di quelle opere d’arte che, viste una volta, non si dimentica mai più. Il dipinto mostra il bacio di due amanti con i volti coperti da un drappo bianco: questa immagine sarebbe stata sicuramente interessante per Freud; la ricerca pittorica di René Magritte, infatti, sembra essere stata condizionata da un fatto tragico, ovvero il suicidio della madre. Nel 1912, la madre del pittore venne ritrovata annegata suicida, con la testa avvolta dalla camicia da notte (o da un asciugamano), nel fiume accanto a casa. Se dunque accettiamo come chiave di lettura dell’opera di René Magritte la chiave freudiana, è evidente che l’artista pensa a quel tragico momento.

Gli amanti senza volto di Rene Magritte - les amants
Gli Amanti (1928) di R. Magritte – Olio su tela

 

Occorre inoltre ricordare che, nel 1928, l’anno in cui l’artista belga dipinse i due quadri intitolati “Gli Amanti”, morì suo padre Léopold, a soli 58 anni e, probabilmente, questa morte influì nell’ideazione delle due opere.

Facendo riferimento a questi due lutti vissuti dal pittore, quel bacio potrebbe essere un bacio scambiato tra due defunti e quell’amore potrebbe essere soltanto un lontano ricordo. Oppure potremmo essere di fronte alla rappresentazione della morte, che ostacola il procedimento di una storia d’amore. In ogni caso, il dipinto crea una certa inquietudine, in quanto ai personaggi viene imposta la crudeltà della negazione del bacio.

I due amanti, inoltre, hanno i corpi accostati, ma non possono vedersi a causa di quel drappo bianco, che rappresenta l’ostacolo, l’impossibilità di comunicare, l’impossibilità di incontrarsi e di conoscersi profondamente. Il vero incontro e la vera comunicazione, infatti, possono avvenire solo quando vi è la possibilità per ciascuno di vedersi e di definirsi reciprocamente in quanto individui.

 

Incomunicabilità e omologazione

Quello dell’incomunicabilità e dell’incapacità di farsi conoscere per ciò che si è davvero è un tema antico, ma anche estremamente attuale: l’incomunicabilità è infatti elemento presente ne “Gli Amanti” di René Magritte, come abbiamo appena visto, ma anche, per esempio, nelle opere dello scrittore siciliano Luigi Pirandello (1867-1936), ma è altresì elemento ricorrente nella società digitale odierna, pervasa dai social network, dove mi pare si vedano milioni di maschere e pochissimi volti.

Secondo Pirandello l’uomo è incapace di comunicare con gli altri ed i suoi rapporti con il prossimo sono falsi, perché non risultano basati su ciò che l’individuo è, ma sulla maschera che porta.  Gli uomini, dunque, recitano una parte, ci dice Pirandello, il che risulta essere terribilmente attuale: infatti, dove, se non su facebook, più che in ogni altro luogo, l’uomo può recitare una parte o indossare una maschera? Sui social network è facile costruire identità plurime o false identità, recitare la propria commedia, apparire per ciò che non si è, costruire una caricatura di se stessi.

Facebook e gli altri social, dunque, determinano l’opportunità di essere quello che vogliamo, ma soprattutto quello che non siamo, favorendo l’omologazione. Un’omologazione, quella del XXI secolo, che potremmo definire “visiva” e che trovo essere peggiore e più potente del conformismo di pensiero; oppure può essere che la prima aiuti il secondo, perché in una società materialmente conformista, dall’abbigliamento alla tecnologia, difficilmente potrà esserci un pensiero libero e diversificato.

Problemi alimentari dell’infanzia? Come affrontarli con l’ABA

Diverse ricerche mostrano come si possa utilizzare l’ABA (Applied Behavior Analysis) nei problemi alimentari dell’infanzia, soprattutto nei bambini a sviluppo tipico, in maniera tale da educarli ad un’alimentazione corretta ed aiutare genitori, insegnanti, educatori, psicologi e soprattutto i bambini stessi.

Artoni Grazia e Atti Martina – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

 

I problemi alimentari rappresentano un argomento di notevoli dimensioni e con svariate sfaccettature, di cui si occupano medici, nutrizionisti, psicologi clinici ma anche psicologi dell’educazione. Diverse ricerche mostrano come si possa utilizzare l’ABA (Applied Behavior Analysis) nei problemi alimentari presenti, in particolar modo, nei bambini a sviluppo tipico, in maniera tale da educarli ad un’alimentazione corretta ed aiutare genitori, insegnanti, educatori, psicologi e soprattutto i bambini stessi.

 

Ma che cosa è l’ABA?

L’ABA, ovvero Applied Behavior Analysis, è la scienza applicata che deriva dalla scienza di base conosciuta come Analisi del Comportamento (Skinner, 1953), la quale ha come oggetto lo studio delle interazioni psicologiche tra individuo e ambiente e come metodo quello scientifico proprio delle scienze naturali. Una caratteristica fondamentale dell’ABA è quella di essere evidence-based. L’attenzione dell’ABA è rivolta ai comportamenti socialmente significativi (abilità scolastiche, sociali, comunicative, adattive), questo la rende adatta ad essere applicata a qualsiasi ambito di intervento e non, come comunemente (e erroneamente) si pensa, solo all’autismo.

 

Problemi alimentari nell’infanzia: l’obesità infantile

Esistono diversi tipi di problemi alimentari nell’infanzia, problemi che, di conseguenza, rivestono anche l’area sociale, emotiva, affettiva dei più piccoli. Bisogna sottolineare che ogni caso è a sé e che ogni bambino è immerso in un contesto, in particolare, quello sociale, che è sicuramente una grande risorsa per la sua crescita, ma può rivelarsi anche controproducente e, addirittura, dannoso come si nota negli ultimi anni, ad esempio, per quanto riguarda l’obesità.

Si può parlare di obesità infantile quando il peso di un bambino supera del 20% il peso ideale (in base al sesso e all’altezza), di sovrappeso se lo supera del 10-20%. I super-obesi, invece, sono quei bambini il cui peso supera del 40% i valori normali.

Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) i bambini in eccesso ponderale nel mondo sono 44 milioni. In tutti gli Stati membri dell’UE la diffusione di sovrappeso e obesità nei bambini e negli adolescenti ha raggiunto dimensioni epidemiche ed è particolarmente preoccupante.

In Italia, il sistema di sorveglianza nazionale OKkio alla SALUTE (Nardone et al., 2016), promosso e finanziato dal Ministero della Salute/CCM, coordinato dal Centro Nazionale di Epidemiologia, Sorveglianza e Promozione della Salute dell’Istituto Superiore di Sanità e condotto in collaborazione con tutte le regioni italiane e il Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, dal 2007 costituisce una solida fonte di dati epidemiologici sugli stili di vita dei bambini della scuola primaria e rappresenta la risposta istituzionale al bisogno conoscitivo del problema del sovrappeso e dell’obesità nella popolazione infantile.

Sono state presentate quattro rilevazioni (2008/9, 2010, 2012 e 2014), ognuna delle quali ha coinvolto oltre 40.000 bambini e genitori e 2.000 scuole. La metodologia standardizzata a livello nazionale garantisce la riproducibilità e la confrontabilità dei dati raccolti su: stato ponderale, abitudini alimentari, esercizio fisico e sedentarietà dei bambini della terza classe primaria e sul contesto scolastico e familiare.

La recente ricerca del 2014 ha evidenziato che i bambini di 8-9 anni in sovrappeso sono il 20,9% e i bambini obesi sono il 9,8%, compresi i bambini severamente obesi che da soli sono il 2,2%. Emerge, inoltre, che le prevalenze più alte si collocano nelle regioni del centro e del sud Italia.

Dal confronto delle quattro rilevazioni, oggi si evidenzia una leggera e progressiva diminuzione del fenomeno, nonostante i valori italiani di tali problemi alimentari nell’infanzia permangano elevati.

Dai dati 2014, come nel passato, emerge una tendenza dei genitori a sottostimare lo stato ponderare dei propri figli. In particolare tra le madri di bambini in sovrappeso o obesi, il 38% ritiene che il proprio figlio sia sotto-normopeso e solo il 29% pensa che la quantità di cibo da lui assunta sia eccessiva. Inoltre, solo il 41% delle madri di bambini fisicamente poco attivi ritiene che il proprio figlio svolga poca attività motoria.

In riferimento all’esercizio fisico e alla sedentarietà i dati rimangono piuttosto invariati rispetto al passato, con tendenza al miglioramento. Nel 2014 il 18% pratica sport per non più di un’ora a settimana, il 42% ha la TV nella propria camera, il 35% guarda la TV e/o gioca con i videogiochi più di 2 ore al giorno e solo 1 bambino su 4 si reca a scuola a piedi o in bicicletta.

Soffermandosi sulle abitudini alimentari, nel 2014 emerge che l’8% dei bambini salta la prima colazione, il 31% fa una colazione non adeguata (ossia sbilanciata in termini di carboidrati e proteine) e il 52% fa una merenda di metà mattina abbondante. Il 25% dei genitori dichiara che i propri figli non consumano quotidianamente frutta e/o verdura e il 41% dichiara che i propri figli assumono abitualmente bevande zuccherate e/o gassate. La situazione rimane piuttosto stabile rispetto alle precedenti rilevazioni e solo per quanto riguarda il consumo di una merenda abbondante e di bevande zuccherate e/o gassate si registra una diminuzione rispetto alla precedente raccolta (Nardone et al., 2016).

L’obesità è dovuta, quindi, ad un insieme di concause: predisposizione genetica e differenze metaboliche, aspetti fisiologici della regolazione del peso, ambiente familiare e condizioni socioeconomiche ambientali, scarsa educazione alimentare e stile di vita (spesso troppo sedentario) (Pruneti, 2005; Direzione generale della prevenzione sanitaria, 2010).

Tra le conseguenze precoci, le più frequenti sono rappresentate da problemi di tipo respiratorio (faticabilità, apnea notturna), di tipo articolare, dovute al carico meccanico (varismo/valgismo degli arti inferiori, ossia gambe ad arco o ad “X”, dolori articolari, mobilità ridotta, piedi piatti), disturbi dell’apparato digerente, disturbi di carattere psicologico: i bambini ‘grassottelli’ possono sentirsi a disagio e vergognarsi, fino ad arrivare ad un vero rifiuto del proprio aspetto fisico; sono spesso a rischio per la perdita di autostima e sviluppano un senso di insicurezza, che li può portare all’isolamento: escono meno di casa, stanno più tempo davanti alla televisione, instaurando un circolo vizioso che li porta ad una iperalimentazione reattiva.

Per quanto riguarda le conseguenze tardive, occorre sottolineare che l’obesità infantile rappresenta un fattore predittivo di obesità nell’età adulta (Sofo & Dipalma, 2013).

L’impatto dell’obesità e le conseguenti ripercussioni dirette sulla salute sottolineano, quindi, come sia prioritario e necessario contrastare tempestivamente tale fenomeno (Direzione generale della prevenzione sanitaria, 2010).

Verrà mostrata la situazione di bambini obesi o in sovrappeso e con tendenza all’obesità e, in particolare, la scelta di tecniche educative che possano prevenire una patologia per molti versi invalidante.

L’obesità non rientra nelle categorie diagnostiche del DSM-5.

 

Problemi alimentari nell’infanzia: il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo

Un cambiamento riscontrabile in questa nuova edizione del Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali è il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo che sostituisce ed estende la diagnosi DSM-IV di disturbo della nutrizione dell’infanzia.

La maggiore categoria diagnostica di questo disturbo, che può essere riscontrato anche negli adulti, è l’evitamento o la restrizione dell’assunzione di cibo per tre motivi principali:

  1. Apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo;
  2. Caratteristiche sensoriali del cibo;
  3. Preoccupazioni per le conseguenze avversive del mangiare (es. vomito e soffocamento)

L’evitamento o la restrizione producono un persistente fallimento nel soddisfare le necessità nutrizionali e/o energetiche appropriate determinando una o più delle seguenti 4 conseguenze:

  1. Perdita di peso significativa (o fallimento nel raggiungere l’aumento di peso atteso o inadeguata crescita nei bambini);
  2. Deficit nutrizionale significativo;
  3. Funzionamento dipendente dalla nutrizione parenterale (sondino nosogastrico) o da integratori nutrizionali orali;
  4. Marcata interferenza con il funzionamento psicosociale.

Non è presente la preoccupazione per il peso e la forma del corpo né deve manifestarsi durante il decorso dell’anoressia nervosa e della bulimia nervosa o in presenza di digiuni religiosi. Infine, il disturbo non è dovuto a una mancanza nella disponibilità di cibo o a un’altra malattia medica o mentale.

In caso di presenza di condizioni mediche particolari (disturbi gastrointestinali, allergie e intolleranze alimentari) o altri disturbi mentali, viene apposta la diagnosi di disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo solamente in presenza di un quadro clinico importante, non spiegato dalla stessa patologia.

Un recente studio inglese (Kurz et al., 2015) rivela che i problemi alimentari nell’infanzia di tipo restrittivo sono comunemente riportati nei più piccoli, con una prevalenza del 3,2% per il disturbo evitante/restrittivo dell’assunzione di cibo. In particolare, emerge che la restrizione alimentare è legata alle caratteristiche sensoriali del cibo (60,9%), ad apparente mancanza d’interesse per il mangiare o il cibo (39,1%) e, infine, a preoccupazioni per le conseguenze avversive del mangiare (15,2%).

Si affronterà, quindi, anche il problema della selettività per i cibi e verranno mostrati interventi basati su tecniche educative rivolte al rifiuto di cibo/liquidi e selettività.

 

ABA e Obesità infantile

Rispetto all’Obesità infantile nel regno Unito Horne & Lowe (2009) hanno promosso un’iniziativa per incoraggiare e mantenere sane abitudini alimentari nei bambini. Si tratta di un intervento progettato per essere utilizzato nelle scuole elementari, che spinge i bambini a mangiare frutta e verdura a scuola e a casa, li aiuta a sviluppare il piacere di mangiare frutta e verdura e li incoraggia a diventare orgogliosi di pensare a se stessi come individui sani, che mangiano cibi sani, cambia la ‘cultura’ delle scuole, affinché sostengano con forza il ‘mangiar sano’.

Il programma ha due fasi principali: durante la prima fase (di 16 giorni di durata) i bambini possono leggere una lettera e/o guardare un video appositamente progettato, che fornisce un ruolo influente come modello da imitare. Ai bambini viene, quindi, data una porzione di frutta e verdura e a chi mangia entrambi viene data una piccola ricompensa (ad esempio, palle da giocoliere, contapassi). Ciò incoraggia a ripetere il consumo, in modo tale che i bambini inizino ad apprezzare questi alimenti. Durante la seconda fase è presente un sostegno continuo, ma meno intenso: in aula sono utilizzati pannelli appesi al muro per registrare i livelli di consumo di frutta e verdura di ciascun bambino, il quale guadagnerà ulteriori premi e certificati (token economy). Tutte le valutazioni dimostrano aumenti notevoli e di lunga durata per quanto riguarda il consumo di frutta e verdura nei bambini dai 2 agli 11 anni di età. Gli aumenti maggiori nel consumo sono rappresentati da quei bambini che, all’inizio, mangiavano meno frutta e verdura.

Lo studio di Horne, Hardman, Lowe, Tapper, Le Noury, Madden et al. (2009) valuta l’efficacia dell’intervento, presentato in precedenza da Horne & Lowe (2009). Questo viene progettato per aumentare notevolmente il consumo di frutta e di verdura da parte dei bambini, in Irlanda, dove i pasti scolastici non sono forniti dalla scuola e i bambini devono portarsi il cibo da casa. I partecipanti sono bambini dai 4 agli 11 anni, che frequentano due scuole elementari; l’assegnazione delle scuole alla condizione sperimentale o di controllo viene fatta tramite randomizzazione.

Durante l’intervento di 16 giorni nella scuola ‘sperimentale’, i bambini guardano un video che racconta le avventure di un eroe, creato appositamente per il programma alimentare. I bambini ricevono piccoli premi a patto che mangino frutta e verdura. In entrambe le scuole, vengono valutati la presenza di frutta e verdura nel lunchbox (il contenitore per il pranzo), preparato dai genitori, ed il consumo di esse da parte dei bambini sia in baseline sia durante i 12 mesi di follow-up. Frutta e verdura vengono fornite dai genitori in entrambe le scuole 8 giorni su 16 nella baseline e 16 giorni su 16, durante l’intervento. Il consumo da parte dei bambini viene misurato.

I risultati mostrano che rispetto alla baseline, il consumo di frutta e verdura forniti, è aumentato durante l’intervento nella scuola sperimentale, mentre nella scuola di controllo si rileva un significativo calo. A 12 mesi di distanza (follow-up), i genitori della scuola sperimentale forniscono più frutta e verdura ai loro figli e, di conseguenza, i bambini ne consumano quantità notevolmente maggiori, rispetto alla baseline e all’inizio dell’intervento. Quindi, l’intervento si è dimostrato efficace nel cambiare la predisposizione al consumo di frutta e verdura sia nei genitori che nei bambini dell’Irlanda.

Horne, Hardman, Lowe & Rowlands (2009) presentano uno studio al fine di prevenire la tendenza all’obesità infantile e adolescenziale. Gli autori presentano, quindi, un trattamento per l’incremento dell’attività fisica dei bambini tramite procedure di modeling dei pari, rinforzi e un intervento che utilizza un contapassi. Lo studio è stato condotto in due scuole elementari in Galles. I partecipanti sono 47 bambini (21 maschi, 26 femmine), appartenenti alla scuola sperimentale e 53 bambini (29 maschi, 24 femmine) appartenenti alla scuola di controllo, tutti di età compresa tra i 9 e gli 11 anni e con sviluppo tipico. I bambini della scuola sperimentale hanno preso parte all’intervento: per oltre 8 giorni gli sono stati presentati modelli da imitare, tramite l’utilizzo di materiali audio e video, in seguito hanno ricevuto piccoli premi (rinforzi), quando il loro contapassi registrava un aumento quotidiano di 1500 passi rispetto alla loro baseline. Le misure del contapassi sono state prese direttamente dai bambini in entrambe le scuole sia in baseline, sia durante l’intervento, sia durante le 12 settimane di follow-up.

I risultati mostrano che tra le ragazze del gruppo sperimentale, il numero di passi al giorno è significativamente più elevato durante l’intervento e al follow-up, rispetto alla loro baseline e ai risultati delle ragazze del gruppo di controllo. I ragazzi del gruppo sperimentale hanno mostrato un numero significativamente più elevato di passi al giorno durante l’intervento, sia rispetto alla loro baseline, sia rispetto al gruppo di controllo dei ragazzi. Non ci sono differenze significative tra i livelli di attività del gruppo sperimentale e di controllo dei ragazzi al follow-up. L’intervento ha portato a un sostanziale incremento dell’attività fisica dei bambini, mantenuto, però, al follow-up solo dalle ragazze.

In uno studio classico (Epstein, Parker, McCoy & McGee, 1976), invece, vengono rilevate le percentuali di bocconi, di sorsi e di attività concorrenti di sei bambini di 7 anni, tre obesi e tre non obesi, osservati durante il pranzo, per un periodo di sei mesi. Viene applicata una procedura per diminuire il numero di bocconi, posando le posate tra un boccone e l’altro. Le percentuali di sorsi e attività concorrenti vengono osservate per valutare le covariazioni comportamentali. Inoltre, vengono calcolati il tasso di bocconi e la quantità di cibo completati in base a sei categorie di prodotti alimentari, al fine di analizzare le preferenze alimentari. I risultati indicano un maggior controllo del comportamento alimentare, una percentuale inferiore di bocconi ingeriti da tutti i soggetti e una significativa riduzione della quantità di cibo consumato. Differenze nel comportamento alimentare di soggetti obesi e non obesi vengono, invece, osservate nel consumo di latte e pane. Come si può notare, le procedure sono ben diverse da quelle utilizzate nei trattamenti precedentemente presentati, ma presentano, comunque, una buona validità.

 

ABA e Rifiuto o Selettività di cibo/liquidi

Il rinforzo negativo, in forma di evitamento del cibo, è stato ipotizzato essere un fattore primario al mantenimento di problemi alimentari nell’infanzia. Tuttavia, i trattamenti per i problemi alimentari nell’infanzia sono costituiti spesso da strategie integrate basate sia sul rinforzo positivo sia su quello negativo. Finney, Itawa, Riordan, Stanley & Wohl (1984) cercano di incrementare il consumo di alimenti non preferiti usando i cibi preferiti come rinforzo positivo nei bambini con selettività alimentare. Tuttavia, l’efficacia del rinforzo, in assenza di estinzione del comportamento di evitamento del cibo, è difficile da valutare, a causa dei comportamenti problematici legati all’evitamento.

Il rinforzo positivo e negativo sono stati esaminati come trattamenti per altri comportamenti problema mantenuti dall’evitamento. Per esempio, è stato mostrato che i livelli di compliance sono superiori e i livelli di comportamento – problema sono più bassi, quando la compliance fa sì che venga elargito cibo commestibile (rinforzo positivo), rispetto ad una pausa (rinforzo negativo), anche se il comportamento distruttivo continua a produrre evitamento. Questi risultati suggeriscono che, in assenza di estinzione dell’evitamento, i rinforzi positivi possono a volte essere più efficaci, rispetto ad un rinforzo negativo, soprattutto, quando la qualità del rinforzo positivo è relativamente alta.

L’obiettivo di uno studio presentato da Kelley, Piazza, Fisher & Oberdorff (2003) è quello di valutare gli effetti separati e combinati del rinforzo positivo e negativo sull’acquisizione del comportamento “bere liquidi da una tazza”, in assenza di estinzione dell’evitamento. Il partecipante è un bambino di 3 anni con sviluppo tipico, ammesso in precedenza ad un programma di trattamento diurno per il rifiuto del cibo e dipendenza dal biberon.

Al momento del ricovero, il bambino riceve il 100% del suo fabbisogno nutrizionale tramite il biberon e rifiuta tutti gli alimenti solidi (tra cui pesche e carote) e i liquidi dalla tazza. Il rifiuto del cibo da parte del bambino è stato trattato prima dell’inizio di questo studio tramite tecniche di fading, rinforzo non contingente ed estinzione dell’evitamento. Al momento dell’inizio dello studio, il bambino mangia tre pasti selezionati al giorno, costituiti da alimenti per l’infanzia. Lo scopo dell’analisi è quello di aumentare il consumo di liquidi da una tazza. Le frequenze di scelte e di consumo vengono registrate e convertite in percentuali di prove in cui il comportamento si è verificato. La “scelta” viene definita come l’atto del bambino di indicare una carta. Il “consumo” viene definito come il comportamento di accettazione di cibo o liquidi e di non espulsione, prima dell’inizio del processo successivo.

Vengono condotte da 6 a 12 sessioni, di 10 prove ciascuna, ogni sessione dura 5 minuti, per 5 giorni alla settimana. Lo studio consiste di una valutazione delle preferenze del bambino tra 15 prodotti alimentari, una seconda valutazione della preferenza (confrontando pesche, carote, e 30 secondi di pausa), un’analisi del trattamento. I risultati della prima valutazione indicano che le pesche e le carote sono i cibi preferiti e non preferiti, rispettivamente. Durante la prima fase della seconda valutazione, vengono presentate tre carte contemporaneamente (una raffigurante pesche, una raffigurante carote e una raffigurante la pausa) e si suggerisce al bambino di scegliere una carta. Durante la seconda fase, gli vengono presentate 2 carte contemporaneamente (carote e pausa) e gli viene chiesto di scegliere. Se il bambino sceglie un prodotto alimentare, quel cibo gli viene presentato su un cucchiaio a 2,5 centimetri dalla bocca e lo si tiene lì fino a quando non apre la bocca e accetta il boccone. Se il bambino sceglie la pausa, riceve 30 secondi di pausa dalle carte e dal cibo.

Vengono utilizzati i risultati delle valutazioni di preferenza per sviluppare un trattamento, per aumentare il comportamento di bere dalla tazza. Nella baseline, il terapeuta presenta 7,5 ml di liquido in una tazza e dà un prompt verbale (“Bevi”), in un tempo determinato di 30 secondi. Viene espresso apprezzamento, se il bambino accetta o consuma la bevanda. Non vengono, invece, date conseguenze differenti per l’espulsione, il vomito, o l’assenza di una risposta. Se il bambino fa un qualsiasi comportamento inappropriato, durante la presentazione, la tazza viene rimossa per 30 secondi, dopo di ché, viene avviato il processo successivo. La procedura di trattamento è identica alla baseline, ma con le seguenti aggiunte: durante la condizione di rinforzo positivo (Sr+), viene presentato un cucchiaio di pesche a seguito del consumo della bevanda; durante la condizione di rinforzo negativo (Sr-), viene dato un cucchiaio di carote, se il bambino mette in atto un comportamento inadeguato o non consuma la bevanda, entro 30 secondi dalla presentazione.

I risultati della prima valutazione delle preferenze dimostrano che le pesche vengono scelte e consumate nel 100% delle sperimentazioni, considerando che le carote vengono scelte di rado e raramente vengono consumate. I risultati della seconda valutazione delle preferenze mostrano che il bambino sceglie le pesche rispetto alle carote e alla pausa. Sulla base di questi risultati, si prevede che l’accettazione di pesche e l’evitamento di carote potrebbero funzionare come rinforzo positivo e negativo, rispettivamente. Il consumo di bevande (tre tipi diversi) durante la baseline è dello 0%, del 44,6%, del 12,5%, rispettivamente. Il consumo è vicino al 100% per tutti i tre tipi di bevande nelle condizioni di trattamento. Il comportamento “bere da una tazza” aumenta con il rinforzo positivo e negativo, presentati sia da soli che in combinazione (senza estinzione dell’evitamento).

Solberg, Hanley, Layer & Ingvarsson (2007) valutano gli effetti dell’associazione di procedure di rinforzo e fading sulla scelta di snack da parte di bambini in età prescolare, progettando un disegno con baseline multiple. Le scelte fatte per gli snack preferiti in baseline, vengono valutate mediante le preferenze date a voce. Poi, i rinforzi consumatori, sociali e orientati ad attività vengono esclusivamente associati alla scelta di uno snack meno preferito. Una volta associato ad un rinforzo, lo snack viene selezionato più frequentemente dai bambini e, progressivamente, i tre tipi di rinforzo vengono utilizzati sempre meno (fading). I genitori sono spesso chiamati a garantire che i loro figli consumino una sufficiente quantità e varietà di cibi per soddisfare le loro esigenze nutrizionali (per esempio, verdura e prodotti lattiero-caseari). I bambini che non assumono determinate classi di prodotti alimentari sono particolarmente a rischio per lo sviluppo di problemi da adulti. Per esempio, l’inadeguata assunzione di calcio è associata ad un aumento dell’insorgenza di osteoporosi, ipertensione, obesità. Tuttavia, sia i bambini che le bambine spesso non riescono a consumare adeguati livelli di calcio. Uno dei motivi principali per spiegare questi deficit può essere che solo il 75% dei bambini beve latte, fonte significativa di calcio nella dieta.

I diversi interventi basati sul rinforzo descritti nel trattamento dei gravi problemi alimentari nell’infanzia, possono essere applicabili ai problemi quotidiani più comuni vissuti dai genitori. Un tale trattamento comporta l’associazione di un alimento preferito con uno non preferito ed, in seguito, l’applicazione di una procedura di fading del cibo preferito. Per esempio, Mueller, Piazza, Patel, Kelley & Pruett (2004) trattano 2 bambini con selettività per alimenti, associando un alimento preferito con un alimento non preferito. Il rapporto tra cibo preferito/cibo non preferito viene poi progressivamente ridotto. Dopo questa procedura di fusione, i partecipanti accettano diversi alimenti inizialmente rifiutati.

Una procedura simile è stata utilizzata da Patel, Piazza, Kelly, Ochsner & Santana (2001) per aumentare l’apporto calorico di un bambino con un disturbo alimentare grave. Questa procedura si sviluppa mescolando e aumentando gradualmente la quantità di una bevanda non preferita con una maggiore quantità di un liquido preferito (acqua), e poi, a poco a poco applicando il fading per il liquido preferito.

Tiger & Hanley (2006), nel presente studio, replicano ed estendono ricerche effettuate in precedenza sul trattamento della selettività alimentare, tramite l’associazione di procedure di rinforzo e fading, al fine di aumentare il consumo di latte di un bambino in età prescolare. Durante la procedura di fading e rinforzo, mescolano una sostanza preferita (sciroppo di cioccolato) in un liquido non preferito (latte), poi gradualmente eliminano lo sciroppo di cioccolato. Questo intervento viene attuato dagli insegnanti di una classe prescolare durante i regolari pasti. Successivamente a questo intervento, il consumo di latte del bambino viene misurato a casa, dai genitori. Il partecipante è un bambino di 4 anni, che frequenta una scuola materna. I genitori hanno espresso preoccupazione, poiché il figlio ha rifiutato il latte per diversi mesi. Alla scuola materna, latte e altri cibi vengono serviti due volte al giorno durante la colazione e il pranzo. Durante i pasti ogni insegnante si siede ad un tavolo da 5-7 bambini. Quando vengono servite le bevande, l’insegnante riempie un’unica brocca di latte, e ogni bambino se ne versa una tazza, a sua volta.

Per diversi mesi prima di questo studio, il bambino si era versato il suo latte da una brocca separata (contenente latte di soia). Questa brocca viene utilizzata durante lo studio, per consentire precise misurazioni del consumo di latte ed applicare la procedura di rinforzo, in modo poco vistoso. La brocca in cui viene servito il latte del bambino è segnata in once. Pertanto, il consumo di latte è riportato in once, invece che in millilitri.

La procedura ha inizio con una baseline, durante la quale l’insegnante dà al bambino 4 once di latte in una piccola brocca durante il pasto. L’insegnante, quindi, richiede al bambino di versarsi il latte nella tazza e non dà istruzioni, né rinforzi sociali per bere o non bere latte. Prima di ogni pasto, l’insegnante misura il volume di latte nella brocca, che poi viene servita al bambino. Alla fine del pasto, il latte rimanente nella sua tazza viene rimesso dentro la brocca e la quantità di latte viene misurata di nuovo. La quantità di latte presente dopo il pasto viene sottratta alla quantità presente prima del pasto, per determinare la quantità consumata. Durante la procedura di trattamento, i pasti sono uguali alla baseline, tranne per il fatto che l’insegnante mescola 5 ml di sciroppo cioccolato al latte, prima di servire la brocca in classe. Viene usato lo sciroppo di cioccolato perché i genitori riferiscono che il bambino lo aveva già bevuto in passato con il latte. Prima della sessione iniziale di associazione, viene detto al bambino che potrà bere, se vorrà, il cioccolato nel latte.

Dopo circa 2 settimane di rinforzo, la quantità di sciroppo di cioccolato mescolato nel latte viene progressivamente diminuita di 0,2 ml ogni due pasti, tramite una procedura di fading. Al fine di garantire effetti prolungati oltre i pasti nella scuola materna, i genitori del bambino vengono invitati a svolgere lo stesso trattamento anche a casa. La misurazione del consumo di latte viene raccolta utilizzando le stesse procedure della scuola. I risultati della valutazione mostrano che durante i pasti in baseline, il bambino non ha consumato latte. Tuttavia, quando lo sciroppo di cioccolato viene aggiunto al latte, il bambino consuma l’intera quantità servita ad ogni pasto. Questi risultati sono di notevole importanza perché mostrano come una procedura svolta a scuola può essere riportata anche a casa ed, eventualmente, estesa anche all’ambito clinico.

 

Conclusioni

Si è voluto trattare questo argomento, poiché si crede che quella dei problemi alimentari nell’infanzia sia una questione delicata, da affrontare in maniera sempre più approfondita. Si è certi, anche e soprattutto supportati dalle evidenze scientifiche presentate, che l’ABA sia lo strumento adatto per fronteggiare tali problematiche. Le tecniche educative utilizzate in questi progetti hanno mostrato come si possono risolvere problemi alimentari nell’infanzia di grave e moderata entità con gli stessi principi.

Tramite l’analisi di queste ricerche, si è cercato di dare spunti per trattamenti futuri, da poter mettere in pratica a scuola, come in centri educativi, in ambito clinico, come in famiglia. Dai risultati ottenuti in questi interventi, si può notare come, con un buon training effettuato da esperti in materia, le tecniche presentate possano essere utilizzate anche dagli insegnanti a scuola e dai genitori a casa. Infatti, genitori ed insegnanti raggiungono esiti del tutto simili a quelli di psicologi esperti del settore. Si ritiene che questo sia molto importante in ambito educativo poiché genitori ed insegnanti sono maggiormente a contatto con i bambini ed hanno un impatto sociale ed emotivo positivo nei confronti dei bambini.

Si crede, infine, che siano ‘straordinari’ i risultati che si possono ottenere con principi semplici; semplici principi che, se ben utilizzati, possono cambiare la vita.

La terapia metacognitiva per persone con problemi di uso di alcol: uno studio sperimentale

Presso Studi Cognitivi verrà condotto uno studio sull’efficacia di una nuova psicoterapia per persone con problemi legati all’abuso di alcool

 

I problemi legati all’assunzione di alcool sono molto comuni tra la popolazione generale. Essi possono portare a gravi conseguenze psicologiche e fisiche (complicazioni mediche, relazionali, lavorative, giuridiche ecc..) e spesso richiedono un trattamento adeguato per ridurre tali conseguenze.

Negli ultimi anni è stata sviluppata una specifica forma di trattamento psicologico, la Terapia Metacognitiva (MCT) che si è dimostrata efficace nel trattamento di molti problemi psicologici (come i disturbi d’ansia, dell’umore ecc..). Recentemente, la Terapia Metacognitiva è stata pensata anche per le persone che hanno problemi legati all’assunzione di alcool. Presso la sede di Studi Cognitivi si svolgerà uno studio che mira a testare l’efficacia di questa terapia per persone che hanno un problema di abuso di alcool.

I partecipanti allo studio avranno la possibilità di effettuare gratuitamente una psicoterapia individuale della durata di 12 incontri.

Gli incontri si svolgeranno presso la sede di Studi Cognitivi di Milano con una cadenza settimanale ed avranno una durata di circa 1 ora.

 

Per partecipare allo studio sono richiesti i seguenti requisiti:

1)    Età superiore ai 18 anni

2)    Presenza di un uso problematico di alcool

3)    Assenza di abuso di altre sostanze negli ultimi 6 mesi (ad eccezione del tabacco)

4)    Assenza di altra psicoterapia in corso o trattamento farmacologico contro la dipendenza da alcool.

 

Chi fosse interessato a partecipare o a ricevere ulteriori informazioni può contattare il ricercatore che si occupa dello studio al seguente recapito:

Dr.ssa Francesca Martino: [email protected]

Dr.ssa Alice Mazza: [email protected]

Le svolte del cognitivismo clinico – Editoriale

Nel mese di settembre il cognitivismo clinico ha fatto un po’ i conti con se stesso, la provata efficacia del modello cognitivo per alcuni disturbi è un successo che ormai comincia a avere i suoi anni e non può essere sempre presentato come l’ultimo grido.

Editoriale di Sandra Sassaroli e Giovanni M. Ruggiero

 

Nel mese di settembre il cognitivismo clinico ha fatto un po’ i conti con se stesso, sia nella sede del congresso europeo organizzato dall’EABCT (European Association for Behavioural and Cognitive Therapies) che del congresso italiano promosso dalla SITCC (Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva). La provata efficacia del modello cognitivo per alcuni disturbi è un successo che ormai comincia a avere i suoi anni e non può essere sempre presentato come l’ultimo grido. Dubbi emergono non certo sull’efficacia, ma su quale sia il reale meccanismo di funzionamento. Domanda cruciale, per capire come progredire.

 

Cognitivismo clinico: il meccanismo di funzionamento del modello cognitivo

Come si sa, la giustificazione teorica del funzionamento del modello cognitivo non è del tutto soddisfacente: esso ipotizza che la cura dipenda dall’esplorazione e dalla modificazione degli schemi e dei contenuti cognitivi ovvero da cosiddetti “first-order change” e la ricerca empirica non è riuscita a dimostrare conclusivamente che l’efficacia del modello cognitivo dipenda da questo tipo di modificazioni.

Sono mancate le evidenze definitive della relazione diretta tra rappresentazioni mentali della conoscenza di sé (self-knowledge e self-beliefs) e architettura dei processi disfunzionali emotivi e comportamentali (process architecture) (Mathews e Wells, 1999, p. 180).

All’EABCT però questa riflessione è stata nascosta dietro un tono celebrativo dei passati successi che lasciava perplessi. Più pensosi alla SITCC, in linea con l’atteggiamento critico degli italiani verso il modello standard, ma non più convincenti nel momento in cui occorreva dare delle risposte allo stallo. Entrambi i congressi sembravano intenzionati a reagire incrementando il livello di coinvolgimento esperienziale e corporeo, e in qualche modo neo-comportamentale, degli interventi cognitivi.

 

Cognitivismo clinico e approcci bottom-up

È il cosiddetto approccio bottom-up, che propone che la regolazione dei processi emotivi e cognitivi sia riattivata attraverso interventi di esposizione, o meglio di rieducazione esperienziale, come guided-imagery, role playing, esposizione esperienziale e interventi narrativi e cognitivi di ricostruzione del processo di apprendimento e di cronicizzazione delle distorsioni (biases) nel corso della storia evolutiva e personale del cliente e nell’evolversi delle relazioni con altri significativi. In questa area possono rientrare modelli anche molto disomogenei tra loro come la Schema Therapy (ST, Arntz e van Genderen, 2009; Young, Klosko e Weishaar, 2003) e la Metacognitive and Intepersonal Therapy (MIT, Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2015; Carcione, Nicolò e Semerari, 2016).

Questa svolta è indubbiamente interessante. Una perplessità, tuttavia, è che questa svolta esperienziale sia un’annessione superficiale, fatta in nome di una definizione di cognitivismo troppo elastica: in fondo ogni esperienza è anche uno stato mentale e quindi una cognizione. Il rischio è di fare male cose che forse altri orientamenti, come la Sensorimotor Psychotherapy (Odgen & Fisher, 2015) o l’EMDR (Eye Movement Desensitization and Reprocessing; Shapiro, 2001), sanno fare meglio. E poco importa se poi il cognitivismo clinico è più solido dal punto di vista teorico. L’esperienza (appunto) conta, e i concorrenti hanno iniziato prima di noi a impegnarsi nel campo degli interventi esperienziali e corporei.

 

Gli interventi Top Down

Inoltre l’insistenza sull’idea che l’intervento esperienziale, corporeo e –in alcuni casi- relazionale- preceda la regolazione emotiva esplicita e consapevole, che arriva solo in un secondo momento a fissare in routine cognitive le nuove abilità apprese, rischia di sottovalutare l’importanza degli interventi top down, che sono storicamente il punto di forza del cognitivismo clinico.

La terapia diventa un viaggio emotivo e un’esperienza relazionale in cui le nuove capacità regolative sboccerebbero sempre spontaneamente senza mai essere apprese esplicitamente, se non alla fine.

La fiducia nella capacità di padroneggiamento consapevole degli stati emotivi è scarsissima, tutto pare debba avvenire attraverso esperienze emotive correttive che non passano attraverso alcuna scelta e decisione volontaria. È conveniente seguire solo questo percorso e non nutrire più nessuna fiducia nelle capacità consapevoli (non razionali, ma consapevoli) del paziente? Colpisce anche che questa tendenza sia presente a livello europeo e non solo italiano.

 

La relazione tra esperienziale e cognitivo

Un’altra obiezione riguarda la separazione troppo netta tra esperienziale e cognitivo. In realtà ogni esperienza non è mai semplicemente sentita ed esperita ma anche elaborata a livello superiore e consapevole. I due livelli si intersecano costantemente. Forse in passato si è sottovalutata la componente esperienziale, per dare importanza solo alla riflessione consapevole. Oggi si corre il rischio opposto, finendo per ridurre la psicoterapia a un’esperienza guidata e a un incontro relazionale. L’informazione recepita per via esperienziale e relazionale deve poi trasformarsi in rappresentazione consapevole nella sede della coscienza per poi essere gestita in termini di scopi personali che non possono essere che espliciti, scelte di vita pensate e non solo sentite e su cui il soggetto ha riflettuto consapevolmente. Altrimenti l’intera vita individuale si riduce a una serie di risposte a stimoli esperienziali mai davvero decise ma sempre e solo subite.

Senza contare poi che l’intervento consapevole e riflessivo top down rimane la specializzazione più caratteristica del terapista cognitivo-comportamentale. È stato merito precipuo di questo orientamento terapeutico aver fatto riscoprire alla pratica clinica l’importanza del pensiero consapevole, precedentemente ridotto a un pallido riflesso di forze oscure e ingovernabili. La riflessione esplicita sui propri scopi, la capacità di riconoscere che un atteggiamento evitante corrisponde a una scelta di vita penalizzante e sterile non possono ridursi alla semplice esperienza. Senza contare che di esperienza il paziente comunque ne fa molta al di fuori della terapia. Sicuramente i pazienti traggono giovamento da una esposizione esperienziale che rende il tutto più “sentito”, ma ciò che cambia nella terapia è più l’osservazione consapevole delle esperienze che l’esperienza in sé.

 

SEGUI LA DISCUSSIONE:

Diagnosi differenziale tra disturbo dell’apprendimento non verbale e autismo ad alto funzionamento – Report dal Congresso Erickson

Il workshop si propone di fornire gli indici per una diagnosi differenziale fra il disturbo dell’apprendimento non verbale (NLD) e il disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento (HFA), una presentazione dei principali strumenti di valutazione e uno spunto di riflessione attraverso la presentazione di un caso clinico.

 

Workshop di Irene Cristina Mammarella e Ramona Cardillo (Dipartimento di Psicologia dello Sviluppo e della Socializzazione, Università di Padova)

Poiché non esistono criteri rigorosi e specifici per una diagnosi differenziale, i due disturbi vengono spesso confusi anche a causa degli elementi di comorbilità. Ramona Cardillo presenta una ricerca con l’obiettivo di definire quali siano i criteri diagnosticamente più rilevanti di entrambi i disturbi arrivando a definirne le specificità: i soggetti con disturbo di apprendimento non verbale presentano un alto deficit delle abilità visuospaziali, mentre i soggetti con autismo ad alto funzionamento mostrano un’attenzione ai dettagli che permette loro di ottenere delle cadute non significative nelle prove di tipo visuospaziale.

Vengono quindi presi in considerazione i test e prove utili per l’assessment e la diagnosi differenziale in modo da capire le diverse performance di un soggetto con disturbo dell’apprendimento non verbale e un soggetto con autismo ad alto funzionamento. Tra tutti quelli utilizzati nella ricerca, il test della Figura Complessa di Rey in cui la caduta del soggetto con disturbo dell’apprendimento non verbale è più significativa e il disegno di cubi della WISC-IV in cui in soggetto con autismo ad alto funzionamento ha una performance migliore, danno i risultati più esemplificativi delle specifiche caratteristiche dei due disturbi.

La presentazione del caso clinico permette alla platea di riflettere, alla luce della ricerca e dei dati riportati, sulla complessità della diagnosi differenziale fra il disturbo dell’apprendimento non verbale e il disturbo dello spettro autistico ad alto funzionamento.

Cosa motiva il comportamento prosociale nei narcisisti?

Le persone con elevati livelli di narcisismo hanno registrato alti tassi di partecipazione in situazioni prosociali formali e visibili al pubblico, anche se le motivazioni alla base di tali comportamenti sembrano essere legate a interessi personali, più che a spinte altruistiche o sociali.

 

Gli studi sul narcisismo si sono, spesso, concentrati sull’aggressività e su altri tratti di personalità percepiti come negativi in persone con tale patologia. Di recente, invece, un nuovo studio ha esaminato i fattori che si presume spingano i narcisisti a impegnarsi in comportamenti considerati pro-sociali in natura. Il comportamento pro-sociale può assumere molte forme, può essere il risultato di intenzioni altruistiche (“sacrificio”) o egoistiche e consente spesso di ottenere elogi se eseguito in ambienti pubblici. Per questo studio, pubblicato su Current Psychology, i ricercatori hanno condotto tre esperimenti per valutare la potenziale associazione di varie attività pro-sociali con il narcisismo.

Gli esperimenti

Il primo esperimento ha coinvolto 9062 soggetti adulti e riguardava l’iniziativa di beneficienza a favore della SLA (Sclerosi Laterale Amiotrofica) nota come “Ice Bucket Challange”. Questo fenomeno dilagato su tutti i social-media richiedeva che una persona registrasse e pubblicasse un video di sé in cui si rovesciava in testa un secchiello pieno di ghiaccio oppure che donasse 100$ all’Associazione per la SLA. I soggetti coinvolti hanno indicato il loro livello di partecipazione all’evento (“non ne ho sentito parlare”, “ne ho sentito parlare, ma non ho partecipato”, “ho sfidato qualcuno”, “sono stato sfidato”, ecc..) e poi hanno completato il “Single Item Narcissism Scale”. Come previsto, le persone con un punteggio basso di narcisismo sono state quelle più propense a donare, senza completare la sfida del video, mentre quelli con punteggi più alti di narcisismo tendenzialmente hanno pubblicato il video, senza però fare alcuna donazione.

Il secondo esperimento ha incluso, invece, 289 studenti universitari che hanno completato un sondaggio online. In questo caso, il narcisismo è stato valutato più approfonditamente utilizzando il “16-item Narcissistic Personality Inventory” (NPI-16). I comportamenti pro-sociali oggetto di interesse sono stati il volontariato e il coinvolgimento all’interno della comunità di appartenenza (i cui livelli sono stati ottenuti tramite self-report). I partecipanti hanno inoltre completato la “23-item Prosocial Tendencies Scale” per determinare quale tra i diversi tipi di comportamento prosociale fossero più propensi a manifestare. I risultati hanno evidenziato che il narcisismo non è correlato con la percentuale di volontariato e coinvolgimento comunitario; inoltre, è emerso che i narcisisti hanno più probabilità di impegnarsi in comportamenti prosociali con visibilità pubblica e meno probabilità in forma anonima.

La terza ed ultima parte di questa inchiesta si è concentrata sul comportamento prosociale non formale, in contrasto con i comportamenti prosociali formali esplorati nel secondo esperimento. 800 adulti hanno completato una serie di questionari online e l’NPI-16. Sono state incluse anche misure per valutare l’empatia e la fonte di motivazione comportamentale. I punteggi più alti di narcisismo sono risultati associati a segnalazioni di comportamenti prosociali più frequenti; sono risultati invece meno associati alle motivazioni altruistiche/desiderabilità sociale e all’ empatia.

Conclusioni

Nel loro insieme, i risultati di questi esperimenti dimostrano che il narcisismo può avere un effetto significativo sul comportamento prosociale, ma che non rende meno probabile la possibilità che si verifichi. Le persone con elevati livelli di narcisismo effettivamente hanno registrato alti tassi di partecipazione in situazioni prosociali formali e visibili al pubblico, anche se le motivazioni alla base di tali comportamenti sembrano essere legate a interessi personali, più che a spinte altruistiche o sociali.

Giudizio morale e autismo: come gli autistici valutano i casi morali

Sembrerebbe che gli individui con autismo incontrino delle difficoltà nell’integrare l’informazione relativa agli stati mentali (ad es. le intenzioni) nel processo di valutazione morale. L’informazione a cui, invece, si appoggerebbero sarebbe quella relativa alle conseguenze prodotte dall’azione di chi è sotto giudizio e quella relativa alla reazione emotiva della vittima (ad esempio, se quest’ultima piange o meno).

 

 

Autismo e moralità

Sull’autismo sappiamo ormai molto, anche se non a sufficienza. Il disturbo è ben noto anche al pubblico generale. Sappiamo che si tratta di un disturbo del neurosviluppo, caratterizzato da un’incapacità di relazionarsi con gli altri, dovuta, in parte, a problemi nella comunicazione e nella comprensione di cosa possa passare nella mente altrui. Film come l’Uomo della pioggia, con l’ottimo Dustin Hoffman, hanno aiutato ad aumentare la consapevolezza su questo problema.

Nella vita sociale di tutti, gioca un ruolo importante riuscire a interpretare in maniera appropriata il comportamento altrui. Ad esempio, è cruciale riuscire a spiegare il comportamento attribuendo a chi agisce credenze, opinioni, preferenze, rappresentazioni sul mondo e così via. Quest’abilità si rivela utile e necessaria anche nel momento in cui ci troviamo impegnati nel giudizio sulla moralità di un’azione o di un individuo.

Due ricercatori afferenti al Dipartimento di Psicologia e Scienze Cognitive dell’Università di Trento (Francesco Margoni e Luca Surian), si sono chiesti se e in che modo gli individui con autismo integrino l’informazione relativa agli stati mentali altrui nel loro giudizio morale. Ne è nato un articolo di opinione per la rivista open access Frontiers in Psychology, dal titolo “Mental state understanding and moral judgment in children with Autistic Spectrum Disorder.”

 

Come gli autistici giudicano i casi morali semplici e complessi

Dalla letteratura scientifica passata in rassegna, sembrerebbe emergere un quadro chiaro, anche se in futuro saranno necessarie ulteriori e specifiche indagini empiriche per consolidare il quadro emerso. Sembrerebbe che gli individui con autismo incontrino delle difficoltà nell’integrare l’informazione relativa agli stati mentali (ad es. le intenzioni) nel processo di valutazione morale. L’informazione a cui, invece, si appoggerebbero sarebbe quella relativa alle conseguenze prodotte dall’azione di chi è sotto giudizio e quella relativa alla reazione emotiva della vittima (ad esempio, se quest’ultima piange o meno). Pertanto, fattori extra-morali influirebbero sul giudizio morale degli individui con autismo con maggiore peso rispetto a fattori come l’intenzione, generalmente centrali nella valutazione propria degli individui con sviluppo tipico.

Quando l’individuo con autismo deve valutare, per fare un esempio, un caso morale più semplice, come il caso di qualcuno che picchia la moglie avendone avuto l’intenzione, allora egli giungerà allo stesso verdetto di un individuo con sviluppo tipico. Entrambi condanneranno il marito violento. Tuttavia, l’individuo con sviluppo tipico condannerà l’atto ma anche l’intenzione, mentre l’individuo con autismo sarà portato a condannare per lo più le conseguenze.

Diversamente, in casi più complessi, dove, ad esempio, il marito avesse provocato accidentalmente un danno alla moglie, il giudizio dell’individuo con autismo si discosterebbe da quello di un individuo con sviluppo tipico. Infatti, in questo caso, il giudizio morale dell’individuo con autismo sarebbe più severo rispetto a quello dell’individuo con sviluppo tipico, proprio perché basato su un esame delle conseguenze e non delle intenzioni.

In conclusione, diversi lavori scientifici stanno confermando l’ipotesi che vi siano differenze importanti nel giudizio morale degli individui con autismo. Queste differenze potranno e dovranno essere prese in considerazione nel trattamento e nella cura di questo disturbo, a cui, per fortuna, è posta sempre maggiore attenzione da parte dei clinici e della popolazione generale.

Mindfulness: il problema della comprensione del processo di consapevolezza

Quando si parla di “consapevolezza” nell’ambito della meditazione, stiamo parlando di uno stato mentale vigile, grazie al quale è possibile osservare lo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento, essendone testimoni primordiali, che osservano quindi la natura essenziale di qualunque percezione interna od esterna a se stessi e la lasciano scorrere così com’è, senza respingere o pretendere di modificare alcunché.

Introduzione

Oramai diffuso, in riferimento alla mindfulness, il termine “consapevolezza”. Esso è la traduzione in italiano della parola inglese “mindfulness”, a sua volta traduzione in inglese del termine pali “sati”.

È importante sapere però che la parola “consapevolezza”, nella nostra lingua, può creare una serie di connessioni di significato che ci possono allontanare, più che avvicinare a quello che in questo contesto intende descrivere, creando dunque più confusione che comprensione, al lettore inesperto che si avvicina alla meditazione. Anche in inglese ormai la parola è entrata in uso e quindi si parla tranquillamente di mindfulness (come in Italia di consapevolezza) ma è utile capire che essa in realtà non esiste come oggetto, ma è uno stato mentale, un’attitudine della mente che nasce dal porgere l’attenzione in un certo modo alla propria esperienza sensoriale.

In questo si spiega in modo abbastanza esaustivo la definizione di Jon Kabat-Zinn (2003), ideatore del programma per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness (MBSR): [blockquote style=”1″]la consapevolezza che emerge dal prestare attenzione di proposito, nel momento presente e in maniera non giudicante, allo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento.[/blockquote]

Si tratta dunque di una dimensione esperienziale, scaturita da una pratica personale compiuta con un certo tipo di attenzione, che favorisce lo sviluppo di questa attitudine chiamata mindfulness/consapevolezza. Ma anche così come vedete, non è facile comprendere fino in fondo cosa si intende per mindfulness/consapevolezza.

 

In cosa consiste davvero la mindfulness

Questo articolo vuole dunque essere un tentativo di chiarimento a riguardo, con lo scopo di avvicinare, chi fosse interessato, in modo più completo a quella che è davvero la mindfulness.

Andiamo dunque un po’ per ordine e torniamo al principio; alla parola “sati”. Essa, come ricorda Gunaratana (1995), non è descrivibile in parole, in quanto le parole vengono prodotte dai livelli simbolici della mente e descrivono la realtà con cui ha a che fare il pensiero simbolico. Sati è presimbolica, non è logica, ma ne si può fare alquanto facilmente esperienza. Essa è un processo sottile che noi tutti utilizziamo quotidianamente, quando osserviamo qualcosa, in quell’istante prima che colleghiamo quel qualcosa ad un contenuto simbolico nella nostra mente. Quando i nostri occhi inquadrano ad esempio un fiore, prima che la nostra mente, grazie alla memoria semantica, colleghi al concetto di fiore l’immagine arrivata al cervello tramite i nervi ottici; quando ancora cioè, in una frazione di secondo analizziamo le caratteristiche essenziali dell’oggetto osservato, per collegarle tutte e tradurle in un concetto. Ecco, lo stato mentale che accompagna il momento dell’analisi di quelle caratteristiche, può essere detto sati. È questo dunque, in parte, ciò che si intende quando si dice mindfulness o consapevolezza, parlando di meditazione, non solo quello che ci richiama il significato specifico del termine, ma tutto questo, e non solo.

In effetti la consapevolezza, in questo senso, è molto presente quando si osserva qualcosa per la prima volta; infatti lo stesso Jon Kabat-Zinn (2013) mette tra gli atteggiamenti fondamentali per una buona pratica del suo programma “La mente del principiante”; che consiste proprio nel prestare attenzione alle varie esperienze sensoriali in analisi, come se fossero percepite per la prima volta, e dunque osservare tutto senza giudizio. Altro elemento fondamentale infatti per l’autore è proprio il “Non-giudizio”. Quindi il fulcro della pratica meditativa diviene proprio questa osservazione primordiale e senza giudizio. Gunaratana (1995) ci tiene molto però a spiegare bene questo non-giudizio, prendendo l’esempio di uno scienziato che osserva un oggetto sotto il microscopio, senza preconcetti, solo per vedere l’oggetto così com’è. In effetti una volta riusciti in questo nella pratica, saremo molto vicini al passo più importante di tutti in meditazione, e dunque a “Lasciar Andare” (altro atteggiamento essenziale per Kabat-Zinn) ogni sensazione che percepiamo, brutta o cattiva, senza respingerla, ma lasciandola scorrere per osservarla così com’è. Per fare questo però dobbiamo prima accettare di avere quella sensazione, e quindi di essere ad esempio impauriti, tristi, arrabbiati, ecc. Come dice Gunaratana (1995) infatti, non possiamo osservare la nostra paura se non accettiamo di essere impauriti. Ecco perché l”Accettazione” rientra anch’essa tra le attitudini basilari da sostenere per la pratica prescritta da Kabat-Zinn (2013).

Quando si parla di “consapevolezza” nell’ambito della meditazione, ci si riferisce a tutto questo; stiamo parlando cioè di uno stato mentale vigile, grazie al quale è possibile osservare lo scorrere dell’esperienza, momento dopo momento, essendone testimoni primordiali, che osservano quindi la natura essenziale di qualunque percezione interna od esterna a se stessi e la lasciano scorrere così com’è, senza respingere o pretendere di modificare alcunché.

A questo livello di indagine, come osserva Gunaratana (1995), è possibile vedere che tutto è transitorio, nulla è immutevole o permanente; perché si tratta in effetti solo di processi. E la novità è che va benissimo così. Giunti a questa conoscenza esperienziale infatti cominciano a svanire tante contaminazioni, lasciando il posto a stati mentali più salutari. Questo tipo di pratica certo può essere semplice, ma non necessariamente facile. Come osserva Jon Kabat-Zinn (2014) essa comporta autoindagine, la messa in discussione del nostro abituale modo di vedere il mondo e noi stessi, ma ci permette anche di risvegliarsi dal sonno degli automatismi, ponendoci in condizioni di vivere la vita godendo pienamente di tutte le nostre potenzialità, per apprezzare ciascun momento della nostra esistenza.

 

Conclusioni

In conclusione, proprio perché parliamo di uno stato mentale pre-simbolico, credo che per comprendere davvero il termine che gli viene assegnato per descriverlo, bisogna fare pratica di meditazione, averne esperienza, e infine leggerne. In effetti è possibile comprendere davvero il senso della parola sati, consapevolezza, o mindfulness che sia, quando la si sperimentata personalmente nella pratica. A quel punto la parola stessa ed ogni sua spiegazione non occorrerà più; essa si spiegherà da sola. Ho cercato di fare infatti in questo articolo un sunto delle sue caratteristiche, ma l’unica via per arrivare davvero a comprenderne il significato resta la pratica.

Sclerosi laterale amiotrofica: le dimensioni psicologiche

La Sclerosi laterale amiotrofica SLA, come qualsiasi altra malattia, è un evento critico che non colpisce solo chi ne porta i segni sul proprio corpo, ma tutta la famiglia che si trova costretta a fronteggiare il disagio personale, relazionale e organizzativo che da essa deriva (Cigoli, Mariotti, 2002). La malattia impone all’intera famiglia una riorganizzazione e un riadattamento concreti e simbolici, a seguito dei cambiamenti pratici, affettivi ed esistenziali che la malattia porta con sé.

Giulia Meloni, Naomi Aceto, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Le caratteristiche della SLA

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) definisce il concetto di salute come [blockquote style=”1″]uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale e non meramente l’assenza di malattia o infermità [/blockquote](OMS, 1948). Tale definizione porta a riflettere sul fatto che esiste un’inscindibile unità tra la componente fisica e quella psichica della persona. Di fronte alla malattia diventa di primaria importanza tenere conto che questo binomio diventa ancora più evidente e richiede, da parte dell’ambito sanitario, un approccio globale al paziente.

Ciò è particolarmente vero e importante nella gestione di una patologia degenerativa e progressiva come la Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA). La SLA, infatti, porta il soggetto malato ad uno stato di inevitabile dipendenza dagli altri e ad una conseguente perdita di autonomia personale, obbligando il soggetto a frequenti ricoveri ospedalieri proprio a causa delle diverse e devastanti complicanze fisiche che comporta.
In tale condizione risulta di fondamentale importanza porre grande attenzione alla componente soggettiva del paziente, soprattutto per via del fatto che ad oggi non esiste un trattamento specifico per la malattia, creando in questo modo le condizioni per una visione più ampia dell’assistenza alla persona malata. Non poter “guarire”, infatti, non è certo sinonimo di non poter “curare”.

Le malattie del motoneurone sono tutte quelle malattie che colpiscono i neuroni cosiddetti “motori” (Swash, Desai, 2000). L’espressione “malattie del motoneurone” in Europa viene usata per far riferimento ai disturbi neurodegenerativi progressivi che possono avere diversa eziologia ed una notevole variabilità clinica, ma un evento finale comune: la perdita dei neuroni motori sia superiori che inferiori (Oliveira, Pereira, 2009).

La Sclerosi Laterale Amiotrofica (SLA) è la forma più comune di malattia progressiva del motoneurone e rappresenta un esempio paradigmatico di malattia neurodegenerativa. La SLA può essere considerata la più devastante di tali patologie (Harrison, 2005).

La SLA è caratterizzata dalla morte selettiva dei neuroni motori nel Sistema Nervoso Centrale (SNC), ovvero delle cellule nervose cerebrali e del midollo spinale che portano le informazioni dal cervello ai muscoli, deputate pertanto ai movimenti della muscolatura volontaria.
Questa malattia fu identificata e descritta per la prima volta nel 1860 da Jean Martin Charcot, famoso neurologo francese, ed è per tale motivo che viene anche chiamata “malattia di Charcot”. Mentre in Australia o in Inghilterra ci si riferisce a questa malattia con “malattia dei motoneuroni”, in America la SLA è anche conosciuta come morbo di Lou Gehrig, famoso giocatore di baseball statunitense che si ammalò di SLA a soli trentasei anni nel 1939 (Zeller, Lynm, Glass, 2007).

 

Le dimensioni psicologiche della SLA e il coinvolgimento della famiglia

La SLA, come qualsiasi altra malattia, è un evento critico che non colpisce solo chi ne porta i segni sul proprio corpo, ma tutta la famiglia che si trova costretta a fronteggiare il disagio personale, relazionale e organizzativo che da essa deriva (Cigoli, Mariotti, 2002). La malattia impone all’intera famiglia una riorganizzazione e un riadattamento concreti e simbolici, a seguito dei cambiamenti pratici, affettivi ed esistenziali che la malattia porta con sé.

In un momento critico come quello rappresentato dall’insorgenza di una patologia, infatti, è necessario soffermarsi sul processo con cui la famiglia, in situazioni di difficoltà, resiste a un evento negativo e mantiene il proprio senso di padronanza, attivando adeguate strategie di coping. Tale processo prende il none di “resilienza” e costituisce un punto centrale in questo ambito.

Il termine resilienza, che deriva dal latino “resalio” (saltare, rimbalzare) è stato coniato in fisica dei materiali per indicare “la resistenza a una rottura dinamica determinabile con una prova d’urto” (Devoto, Oli, 1971). Nella letteratura psicologica il sostantivo indica la capacità umana di affrontare, superare e uscire rinforzati da esperienze negative (Grotberg, 1995).

Per accettare e superare una sfida dolorosa e impegnativa come quella di una malattia, sono inoltre certamente importanti fattori come la flessibilità, il senso di coerenza interno alla famiglia e la capacità di utilizzare le risorse sociali ed economiche disponibili, oltre che i processi comunicativi che devono essere chiari e consentire la condivisione delle emozioni. (Walsh, 2002). La comunicazione rappresenta, infatti, una componente fondamentale nella relazione con l’altro e il modo con cui viene affrontata la malattia dipenderà anche dalla modalità di comunicazione preesistente nella famiglia. Le difficoltà e i problemi connessi alla gestione della malattia che vengono sperimentati dalla famiglia prendono il nome di “family burden”. (Saita, 2009). Le difficoltà che possono portare a tale condizione comprendono i bisogni di assistenza continua, l’interruzione della normale routine familiare e l’improvviso cambio di ruoli all’interno del sistema-famiglia, le preoccupazioni finanziarie relative alle spese mediche e lo sconvolgimento emotivo attivato dalla malattia (Sales, 2002).

Il family burden può essere dunque definito come l’attivazione di tutte le risorse personali, familiari e sociali possibili al fine di garantire al malato un miglior adattamento alla difficile situazione esistenziale ed è costituito da tutte quelle difficoltà e sfide che sono una diretta conseguenza della malattia (Grunfeld, 2004; Sales, 2002).

 

La dimensione sessuale

La sessualità nei pazienti affetti da sclerosi laterale amiotrofica sino ad ora ha ricevuto scarsa attenzione (Bardach, 1995; Oliver, 2000). Dal momento che la SLA colpisce soltanto il sistema motorio, la funzione sessuale non è direttamente interessata nella progressione della malattia (Shaw, 2000). Nonostante ciò, nell’ambito della sclerosi laterale amiotrofica i problemi che possono condurre ad un’ inibizione dell’attività sessuale sono molteplici (M. Wasner et al., 2004).

Con la malattia, infatti, si assiste ad un progressivo cambiamento del corpo, il quale può condurre il paziente ad una certa difficoltà a mostrare il proprio corpo per paura di non riuscire più a soddisfare il proprio partner o per la paura di un rifiuto (M. Wasner et al., 2004).
Quello che viene segnalato come il limite principale ad una soddisfacente attività sessuale, tuttavia, è costituito dalla progressiva debolezza fisica, associata alla perdita di forza muscolare (Wasner et al., 2004). Non dobbiamo dimenticare, inoltre, l’area respiratoria: la limitata funzionalità polmonare, infatti, può rendere la possibilità di un rapporto sessuale difficile se non, in alcuni casi, addirittura impossibile (Bardach, 1995).
Nei pazienti che si trovano ad uno stadio avanzato della malattia l’uso della ventilazione o della PEG può sicuramente interferire con l’attività sessuale (Wasner et al. 2004).

Associati a tali limiti fisici, entrano in gioco anche numerosi fattori psicologici, connessi prevalentemente al cambiamento del corpo del malato, i quali possono costituire dei grandi ostacoli nella gestione della sfera sessuale del paziente. Con la progressione della malattia, infatti, si modifica anche la percezione che il paziente ha di sé, non solo per via dei cambiamenti a livello funzionale, ma anche per il loro impatto, il quale è tipicamente soggettivo e varia da paziente a paziente. A ciò dobbiamo aggiungere che ogni singolo cambiamento che il malato esperisce a livello sensitivo sul proprio corpo, può anche essere osservato (visibilità) e frequentemente accade che il paziente da un deficit ne inferisca un altro (diffusione) (Carlson, 1980). Nonostante ciò, dallo studio di Wasner e colleghi del 2004 emerge che la sessualità rappresenta un’area molto importante nell’ambito della sclerosi laterale amiotrofica. In questo studio, infatti, su un totale di sessantadue pazienti partecipanti alla ricerca, quasi il 50% di essi risulta ancora essere altamente interessato alla sfera sessuale, sessualmente attivo nonostante le limitazioni fisiche e soddisfatto dei propri rapporti, anche se in maniera inferiore rispetto a prima che si sviluppasse la malattia. Inoltre su sei pazienti che hanno fatto ricorso alla ventilazione, cinque hanno dichiarato di avere rapporti sessuali almeno una volta al mese, il che dimostra un’importanza della sfera sessuale alta persino nei pazienti che ricorrono a ventilazione (Kaub-Wittemer et al. 2003).

Risulta estremamente interessante constatare che circa la metà degli intervistati dello studio di Wasner e colleghi del 2004 ha riportato, con la SLA, un miglioramento del rapporto globale con il proprio partner e in alcuni casi addirittura anche un miglioramento dal punto di vista sessuale. Risulta fondamentale focalizzarsi ora sulle conseguenza che lo sviluppo di una patologia come la SLA può avere da un punto di vista sessuale nel caregiver: in quest’area, infatti, il ruolo del caregiver diviene imprescindibile.

Nella SLA, a causa del crescente bisogno di cure fisiche del paziente, il rapporto sessuale potrebbe cambiare drammaticamente con il passaggio del partner dal ruolo di amante a quello di caregiver (M. Wasner et al. 2004). Associato a questo dato dobbiamo anche considerare che la SLA colpisce prevalentemente la popolazione più anziana e dunque la relazione sessuale può risultare influenzata anche dall’età (M. Wasner et al. 2004). Inoltre, lo sviluppo di una patologia progressiva e degenerativa come la SLA implica un notevole aumento del carico assistenziale del caregiver, il caregiver burden, il quale correla positivamente con la depressione nei caregivers stessi (Chiò et al. 2005). La depressione può influenzare negativamente il comportamento sessuale: la diminuzione della libido, infatti, può costituire uno dei primi sintomi della depressione (Arshag et al. 1991).

I risultati ottenuti nello studio condotto da Wasner e colleghi nel 2004 suggeriscono che la sessualità riveste un ruolo importante per i malati affetti da SLA e che tale sfera, fino ad oggi, è stata sottovalutata (Wasner et al., 2004). Indagare la relazione sessuale nell’ambito di una malattia come la sclerosi laterale amiotrofica appare un’impresa complessa per due fondamentali motivi, che è necessario prendere in considerazione: il primo riguarda la natura intima di tale area, che risulta difficile da affrontare non solo dai pazienti e dai caregivers ma anche dagli operatori sanitari; il secondo motivo riguarda la paura che tale tematica possa essere percepita dal malato e dal suo caregiver come insignificante rispetto alla gravità della patologia in questione (Oliveira, Pereira, 2009).

Nello studio condotto da Wasner e colleghi nel 2004, infatti, ventinove pazienti hanno rifiutato di partecipare alla ricerca. Il 38% di loro ha giustificato la propria scelta definendo l’argomento “non importante” e la restante parte dei non partecipanti ha giustificato la propria decisione dichiarando “inconveniente” la dimensione indagata.
Data l’alta prevalenza di problemi sessuali nell’ambito della SLA e la naturale riluttanza dei pazienti e dei caregivers nel trattare questa tematica, la dimensione della sessualità dovrebbe essere affrontata dagli operatori sanitari come parte integrante della cura del paziente, offrendo anche una consulenza appropriata nei casi in cui vi sia la necessità (M. Wasner et al. 2004).
È necessario comunque sottolineare che, data la scarsa letteratura disponibile su questo argomento, sono necessari ulteriori studi per delineare gli interventi più appropriati che possano aumentare la soddisfazione dei malati di SLA e dei loro partners per quanto riguarda un aspetto così importante all’interno della coppia (M. Wasner et al. 2004).

Autismo: Intervento educativo all’asilo nido e alla scuola dell’infanzia – Report dal Congresso Erickson

L’aumento epidemiologico dei casi di autismo nel mondo e la riduzione dell’età media della diagnosi impongono una maggior attenzione all’asilo nido e alla scuola materna come possibili contesti in cui implementare pratiche educative e modelli di intervento efficaci.

 

Workshop: Intervento educativo all’asilo nido e alla scuola dell’infanzia

Relatori: Giacomo Vivanti (A. J. Drexel Autism Institute, Philadelphia), Simone Antonioli (Direttore tecnico Fondazione Fobap onlus a marchio Anffas), Arianna Bentenuto (ODFLab-Laboratorio di Osservazione Diagnosi e Formazione, Università di Trento), Caterina Fruet (Ufficio Infanzia, Servizio Infanzia e istruzione del Primo Grado, Dipartimento della Conoscenza, Trento) e Filippo Gitti (Neuropsichiatra infantile UO di NPIA Ospedali Civili di Brescia)

Lo scopo di questo workshop è proprio quello di offrire alcuni esempi di applicazione di alcuni modelli di trattamento per l’autismo sul territorio internazionale e nazionale.

Intervento educativo all’asilo nido e alla scuola dell’infanzia - Autismi Erickson 2016

Giacomo Vivanti ci illustra la ricerca condotta a Melbourne per verificare la possibilità di implementare l’Early Start Denver Model, un intervento di tipo cognitivo-comportamentale su base naturalistica, nel contesto della scuola pubblica in bambini di età compresa tra i 12 mesi e i 5 anni. Non essendo economicamente sostenibile un rapporto educativo di un adulto per ogni bambino, ed essendo il piccolo gruppo un contesto tipico di apprendimento in questa fascia d’età, il modello è stato adattato per essere svolto in gruppetti, sotto la guida di personale scolastico formato all’utilizzo dell’ ESDM.

L’ambiente fisico delle classi è stato strutturato per invogliare i bambini all’apprendimento e per facilitare il raggiungimento degli obiettivi prefissati per ognuno di loro in maniera specifica. Gli insegnanti non sono mai dei semplici osservatori ma stanno sempre insegnando qualcosa di misurabile e lo fanno avendo sempre chiari gli obiettivi di apprendimento scrupolosamente  delineati per ogni bambino. I risultati sono stati incoraggianti, a sottolineare la possibilità che la scuola possa stimolare il percorso di crescita di tutti i bambini, anche quelli con bisogni speciali.

Torniamo in Italia con il contributo di Simone Antonioli che ci spiega il Progetto Piccolissimi rivolto a 6 bambini di età inferiore ai 31 mesi che ha l’ambizione di offrire al bambino un trattamento condiviso da tutte le principali figure che si relazionano con lui. Per questa ragione, oltre al trattamento diretto e intensivo rivolto al bambino secondo il modello ABA (Applied Behavior Analysis), diverse ore a settimana sono state dedicate al parent training e alla programmazione di attività da svolgere a scuola.

Arianna Bentenuto e Caterina Fruet ci descrivono un progetto che ha coinvolto una scuola di Trento, per un totale di 5 sezioni e 116 bambini. In questo caso l’intervento è stato indirizzato soprattutto al contesto di apprendimento attraverso la promozione di attività differenziate, l’adattamento dei tempi di lavoro, la destrutturazione delle routine, la promozione di lavori nel piccolo gruppo e la ricerca di spazi flessibili. Anche i contenuti della didattica sono stati ripensati per essere sintonici, costruttivi e attivi; per questa ragione sono state promosse attività laboratoriali  in aggiunta a due piccoli gruppi di potenziamento destinati a quei bambini che mostravano particolari carenze in alcune aree di sviluppo.

Queste due esperienze italiane dimostrano l’esistenza di progetti locali ben realizzati, seppur perfettibili, da cui prendere spunto per iniziare a diffondere l’idea di una scuola capace di farsi carico di progetti educativi di ottima qualità.

Le credenze sulla nicotina influiscono sul livello di soddisfazione dei fumatori

Un nuovo studio condotto presso il Center for Brain Health dell’Università del Texas (Dallas), mostra come il modo in cui il cervello risponde all’assunzione di nicotina, dipenda almeno in parte dalle credenze che il fumatore ha a proposito della sigaretta stessa.

I risultati dell’indagine sono stati pubblicati sulla rivista Frontiers in Psychiatry e hanno rivelato che fumare una normale sigaretta, credendo che non sia presente nicotina, viene percepito come meno soddisfacente rispetto al fumare una sigaretta credendo che sia presente. Dunque per soddisfare il loro desiderio di nicotina, i fumatori hanno non solo bisogno di fumarla, ma di credere di assumerla fumando.

[blockquote style=”1″]Questi risultati suggeriscono che i farmaci contro la dipendenza da nicotina per avere effetto sulla persona, devono anche soddisfare l’idea che la sostanza sia presente[/blockquote] dice il Dottor Xiaosi Gu, professore presso la scuola di Behavioral and Brain Sciences e principale autore dello studio.

Lo studio

Nello specifico, i ricercatori hanno utilizzato la risonanza magnetica funzionale (fMRI), per monitorare l’attività neurale nella corteccia dell’insula, una regione del cervello coinvolta nei comportamenti di dipendenza e di craving. Questa regione riveste anche un ruolo importante per altre funzioni, come la percezione corporea e la consapevolezza di sé.

Lo studio condotto in doppio cieco, ha visto la partecipazione di 24 fumatori dipendenti dalla nicotina. Nel corso di quattro visite, ai pazienti è stata fatta fumare per due volte una sigaretta normale contenente nicotina, e due volte si è dato loro del placebo. Ai partecipanti venivano fornite informazioni talvolta vere, talvolta false a proposito di ciò che stavano fumando (presenza di nicotina o meno).

[blockquote style=”1″]Abbiamo così esaminato l’impatto delle credenze. Sulla sensazione di soddisfazione esperita, e anche analizzando i dati provenienti dal neuroimaging[/blockquote] sottolinea Gu.

Sottoposti a scansione mediante fMRI, in ogni visita i partecipanti fumavano una sigaretta, nelle seguenti quattro condizioni sperimentali: il partecipante ritiene che la sigaretta contenga nicotina, ma riceve placebo; il partecipante ritiene che la sigaretta non contiene nicotina, mentre essa ne contiene; il partecipante ritiene che contenga nicotina e la sigaretta ne contiene oppure il partecipante ritiene che la sigaretta non contenga nicotina e riceve del placebo.

I risultati

Dai risultati provenienti dalla fMRI, si è potuto notare come il fumare una sigaretta, credendo che fosse senza nicotina, produca a livello neurale un’attivazione minore delle aree coinvolte nelle sensazioni di soddisfazione e appagamento.

Questo nuovo studio risulta essere molto importante nella strutturazione di nuovi programmi di trattamento per le tossicodipendenze, rivendicando la necessità di soffermarsi maggiormente sul ruolo delle credenze per aumentare le possibilità di successo.

Poso, dunque sono: il narcisismo negli autoritratti di Rembrandt

Nel corso della storia molti sono stati gli artisti che si sono confrontati con se stessi, mettendosi in gioco attraverso l’elaborazione di autoritratti, tra cui, appunto, Rembrandt. Fin dall’inizio della sua carriera il pittore olandese fu un ritrattista molto ricercato; la lunga serie degli autoritratti, parallela a quella altrettanto numerosa dei ritratti dei familiari, documenta le fasi della tormentata vicenda biografica dell’artista e l’evolversi della sua vita interiore.

Introduzione

Se Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606-1669), il pittore olandese celebre per i suoi ritratti, fosse vissuto nel XXI secolo, avrebbe probabilmente avuto un’ossessione per i selfies ed avrebbe pensato: “Poso, dunque sono”, analogamente a tanti di noi che, al giorno d’oggi, immortalano in continuazione la loro immagine per poi postarla su facebook. Rembrandt ci ha lasciato circa ottanta autoritratti, perché desiderava immortalare la sua immagine ed essere ricordato.

Quando ci scattiamo un selfie stiamo facendo la stessa dichiarazione, ovvero stiamo dicendo: “guardami”! Il selfie è una realtà che affonda le sue radici nell’autoritratto pittorico e nell’autoritratto fotografico e, secondo alcuni, è il riflesso della nostra autostima e del nostro narcisismo. Un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Ohio, in uno studio pubblicato sulla rivista “Personality and Individuality Differences”, afferma che le persone che pubblicano molti selfies non sono necessariamente narcisisti o psicopatici, ma che certamente hanno livelli medi di questi atteggiamenti antisociali piuttosto alti.

Gli autoritratti come rappresentazione della biografia di Rembrandt

Nel corso della storia molti sono stati gli artisti che si sono confrontati con se stessi, mettendosi in gioco attraverso l’elaborazione di autoritratti, tra cui, appunto, Rembrandt. Fin dall’inizio della sua carriera il pittore olandese fu un ritrattista molto ricercato; la lunga serie degli autoritratti, parallela a quella altrettanto numerosa dei ritratti dei familiari, documenta le fasi della tormentata vicenda biografica dell’artista e l’evolversi della sua vita interiore.

Rembrandt dette forma a ciò che caratterizza ciascun individuo, facendo ampio uso dei chiaroscuri, usò la luce per rendere visibile l’essenziale, ma essendo altrettanto importante l’invisibile, lasciò in ombra alcune parti, proponendo una rappresentazione non solo fisica, ma anche spirituale e psicologica dei personaggi.

I ritratti e gli autoritratti dell’artista olandese sono opere di marcata indagine psicologica, volta a rappresentare ed interpretare il carattere e lo stato d’animo dei personaggi, senza fermarsi all’aspetto esteriore. Rembrandt è l’artista che, forse più di ogni altro, ha ritratto se stesso, circa ottanta volte lungo la sua attività, dipingendosi a volte come borghese, altre volte come artista avvolto in abiti stravaganti o addirittura in quelli dell’apostolo Paolo.

Ovunque nei suoi lavori ritroviamo il suo volto decorato dagli scuri capelli ricci, talora pensoso e riservato, talora cupo e malinconico, altre volte raggiante ed elegante con il collo di pelliccia e la sciarpa di seta. Prima della fotografia e fino ai primi dell’Ottocento, l’autoritratto era praticato solo ed esclusivamente dai pittori, che si autodipingevano per lasciare traccia di sé ai posteri. Per Rembrandt l’autoritratto era uno strumento per indagare le emozioni.

Il narcisismo di Rembrandt: l’associazione tra gli autoritratti e i selfie

L’aver dipinto molti autoritratti fa pensare a Rembrandt come ad un maniaco del controllo della propria immagine e ad un narcisista. A seconda delle opinioni, infatti, l’autoritratto è simbolo ispiratore di libertà artistica, o sintomo di narcisismo, egocentrismo, desiderio di apparire. Oggi lo chiamiamo selfie. Il ritratto pittorico prima, l’autoscatto poi, il selfie oggi sono tutte forme del processo di conoscenza del proprio sé e di costruzione della propria identità individuale e sociale.

La lettura prediletta dai media per spiegare l’esplosione del fenomeno dei selfies è quella del narcisismo. Si tratta, certamente, di un fenomeno antropologico profondo. Tuttavia, io ritengo che la cifra antropologica del selfie non sia il narcisismo.

Nella mitologia greca, infatti, Narciso trascura la seducente Eco per perdersi nella propria immagine, accessibile solo ed esclusivamente a lui, mentre il selfie esiste per essere condiviso, per essere caricato in rete. Il selfista del XXI secolo chiama tutto il mondo a raccolta, non solo gli amici, ma anche quelli che non conosce, mostra loro tutti i suoi ritratti, chiede conferme e, tremebondo, attende numerosi “like: si tratta di una mania che rischia di sfociare in una patologia, nota col nome di sindrome da selfie. L’Associazione Psichiatrica Americana ha infatti riconosciuto la dipendenza da autofotoritratto mediante cellulare come disturbo mentale. E’ stata definita “Selfie Syndrome”, un insieme di disagi e comportamenti alterati, che derivano da un utilizzo smodato dello smartphone o del tablet per autoritrarsi ed esistono tre livelli di disturbo: saltuario (quando la persona si fotografa almeno tre volte al giorno, ma non pubblica le foto sui social network), acuto (quando l’individuo si fotografa non meno di tre volte al giorno e posta le foto sui social network), cronico (quando la persona è ossessionata, si autofotografa in continuazione e pubblica le immagini in internet almeno sei volte al giorno). Il selfista compulsivo è alla ricerca di “like”, di approvazione, di complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che vuole dare di sé. Narciso, invece, no, lui non aspettava “like”. Lo avrebbero distratto dalla propria immagine.

Cancro: gli effetti benefici dell’attività motoria

Cancro: L’attività motoria ha un ruolo importante nell’ ambito delle patologie tumorali, sia durante i trattamenti terapeutici (chemioterapia, radioterapia, ecc.) che nel periodo successivo.

Abstract

L’azione positiva che l’attività fisica regolare esercita è ascrivibile a più fattori. Fra di essi, si possono citare: il miglioramento della qualità della vita; il lenire la stanchezza legata alla patologia tumorale; il miglioramento della forma fisica, provata da terapie estremamente aggressive; l’attenuazione della sintomatologia depressiva che, sovente, accompagna il paziente affetto da neoplasia; l’incremento della forza muscolare. In virtù di questi benefici, agli ammalati di cancro è consigliata un’attività motoria moderata di almeno 150 minuti alla settimana. Malgrado le sollecitazioni ricevute, solo un esiguo numero di pazienti oncologici cambia stile di vita. Ciò è causato dalla scarsa autoefficacia e dai fattori emozionali, che inficiano il desiderio di dedicarsi ad un’attività motoria.

Keywords: cancro, attività motoria, autoefficacia, fattori emozionali.

L’azione positiva dell’attività motoria sui pazienti affetti dal cancro

L’attività motoria ha un ruolo importante nell’ambito delle patologie tumorali, sia durante i trattamenti terapeutici (chemioterapia, radioterapia, ecc.) che nel periodo successivo, come rivela la ricerca di Fong e coll. (2012).

L’azione positiva che l’attività fisica regolare esercita è ascrivibile a più fattori. Fra di essi, si possono citare il miglioramento della qualità della vita (Mishra e coll., 2012); il lenire la stanchezza legata alla patologia tumorale (Cramp e Byron – Daniel, 2012); il miglioramento della forma fisica, provata da terapie estremamente aggressive (Jones e coll., 2011); l’attenuazione della sintomatologia depressiva che, sovente, accompagna il paziente affetto da neoplasia (Craft e coll., 2012); l’incremento della forza muscolare (Stene e coll., 2013).

In virtù di questi benefici, agli ammalati di cancro è consigliata un’attività motoria moderata di almeno 150 minuti alla settimana (Schmitz e coll, 2010). Malgrado le sollecitazioni ricevute, solo un esiguo numero di pazienti oncologici cambia stile di vita, incrementando l’attività motoria settimanale (Blanchard e coll., 2008).

La psicologia di derivazione cognitivista ha cercato di capire le ragioni per le quali gli individui hanno difficoltà a cambiare i propri comportamenti più nocivi per sostituirli con altri più salutari. Un posto di rilievo nell’ambito delle teorie cognitive lo occupano i costrutti social – cognitivi, elaborati da Bandura (1986). All’interno di tali teorizzazioni, un paradigma importante è rappresentato dall’autoefficacia, intendendo con essa la convinzione relativa alle proprie capacità di portare a compimento una certa prestazione, perché si è in grado di eseguire tutte le azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo prefissato (Bandura,1986). Alla luce di questa teoria, è stato ipotizzato che gli ammalati di cancro abbiano una scarsa autoefficacia, che inficia la loro capacità di seguire un programma regolare di attività motoria. È stato ipotizzato, inoltre, che alla base di questa scarsa propensione verso l’attività fisica potrebbe esserci la debolezza che questi pazienti avvertono e che è uno dei sintomi principali del cancro (Blaney e coll., 2013).

Un ruolo importante nel mantenimento di uno stile di vita attivo lo rivestono i fattori emozionali, come dimostra una recente ricerca di Lewis e coll. (2015).

Uno studio (Ungar, Wiskemann e Sieverding, 2016) compiuto dai ricercatori dell’Università di Heidelberg e del Centro Nazionale per le Malattie Tumorali di Heidelberg, in Germania, ha voluto capire per quale ragione i pazienti oncologici non seguono un programma di attività fisica regolare, malgrado siano a conoscenza dei benefici dell’attività motoria per la loro condizione. Per indagare questo aspetto sono stati reclutati 72 pazienti, fra le persone che erano in cura presso la Divisione di Oncologia Medica del Centro Nazionale per le Malattie Tumorali di Heidelberg. Essi erano per il 52% donne, con un’età media di 55 anni, per lo più ammalati di cancro al seno, al colon – retto e alla prostata. Il 33% aveva metastasi e il 37% al momento della ricerca era sottoposto a chemioterapia. I pazienti sono stati scelti perché presentavano un’attività fisica settimanale inferiore a 150 minuti. Nel conteggio delle ore di attività motoria sono stati considerati il pendolarismo, i lavori domestici, l’attività motorio – sportiva fatta nel tempo libero e l’attività fisica svolta nell’ambito del proprio lavoro.

Con i pazienti, nell’ambito del progetto MOTIVACTION (intervento motivazionale per incrementare l’attività fisica nei pazienti oncologici), sono stati programmati due incontri. Nel primo si sono utilizzate delle tecniche di counseling, che avevano lo scopo di convincerli a cambiare stile di vita. Nel corso dell’incontro è stato dato un opuscolo da leggere a casa, nel quale erano illustrate tutte le tecniche per cambiare i propri comportamenti. Inoltre, erano suggeriti degli esercizi di ginnastica da fare in ambiente domestico ed erano forniti dei piccoli attrezzi ginnici. Ogni paziente era tenuto a compilare un diario relativo all’attività fisica intrapresa.

Nel secondo incontro si insegnavano le tecniche utili per rilassarsi (respirazione addominale, rilassamento muscolare frazionato) e per fronteggiare lo stress. A casa, in più, i pazienti dovevano leggere un opuscolo, dove erano illustrate le tecniche per gestire al meglio lo stress, un CD per rilassarsi e un diario per registrare i progressi nella gestione dello stress.

Sono state fatte due valutazioni degli effetti degli interventi a distanza di 4 settimane e 10 settimane. La ricerca ha stabilito che nel cambiamento dello stile di vita, ovvero nell’intraprendere un’attività fisica regolare, un ruolo chiave lo rivestono sia l’autoefficacia che i fattori emozionali, come il piacere di dedicarsi ad un’attività motoria.

Solitudine e adolescenza: il benessere nel comportamento solitario dell’adolescente

Solitudine e adolescenza: il semplice trascorrere molto tempo insieme ad altre persone fa stare bene i ragazzi e, nel contempo, il passare del tempo da soli aiuta il ragazzo a gestire più adattivamente i propri contrasti interpersonali.

Valentina Retto – OPEN SCHOOL Studi cognitivi Modena

 

 

Un uomo deve mantenere un piccolo recesso dove può essere se stesso senza riserve. Solo nella solitudine egli può conoscere la vera libertà.

(Michel de Montaigne)

 

La solitudine non si presenta affatto come un concetto unitario. Già analizzando i termini esistenti nella lingua inglese, ad esempio, si nota come vengano utilizzati tre vocaboli per definire le sfumature del termine solitudine. Aloneness è usato per definire lo stare da soli, Solitude, similmente, indica lo stato oggettivo di essere soli lontano da tutte le altre persone, Loneliness, invece, ha un’accezione soggettiva e peggiorativa, che indica il sentimento personale di sentirsi soli, nonché la percezione di uno stato di abbandono (Zingarelli, 2016).

 

Solitudine e adolescenza: l’importanza del tempo per se stessi

Sebbene esistano dei vissuti indubbiamente negativi legati ai momenti in cui le persone stanno da sole, le ricerche documentano anche gli aspetti funzionalmente positivi, dimostrando che, alla solitudine vissuta negativamente, si differenzia il naturale bisogno di trascorrere del tempo con se stessi.

Winnicott (1968), ad esempio, sostiene che usare il tempo di solitudine in modo proficuo rappresenta indubbiamente uno dei traguardi dello sviluppo individuale. A tale proposito, è stato studiato come questo comportamento aumenti di frequenza e di importanza nel periodo adolescenziale, e come la capacità di utilizzare il tempo per se stessi in maniera costruttiva sia un’abilità che si stabilisce proprio in questa fase. L’adolescenza è il momento della vita in cui si trascorre maggior tempo da soli, la solitudine è “fisiologica” in particolare in questo periodo della vita. Lo sviluppo delle funzioni cognitive, psicologiche e sociali permette di usare il tempo trascorso in solitudine costruttivamente (Johnson, Lavoie, & Mahoney, 2001).

E’ stato evidenziato un ruolo significativo della solitudine nel delicato processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, in quanto, essa crea quello spazio fisico e mentale nel quale l’individuo che cresce può ritagliarsi un’autonomia di pensiero e di azione propria. È stato dimostrato che, durante questi momenti di intimità, l’adolescente riflette, rielabora le proprie emozioni, si rilassa e si rinnova (Corsano, 2003).

Lo stare da soli è perciò un bisogno fondamentale per la crescita della persona, al pari del bisogno di attaccamento.

Suefeld scrive: 

La solitudine può ferire, ma lo stare con se stessi può curare

La chiave di lettura è custodita nella motivazione al comportamento di solitudine (Suefeld; in Peplau & Perlman, 1982, pag. 65). Mentre recentemente Zygmunt Bauman dice:

Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione.

Per parlare di negatività o positività del concetto di solitudine, dunque, occorre indagare le motivazioni sottostanti al comportamento solitario.

 

La Motivazione al comportamento solitario

Il comportamento delle persone è mirato al soddisfacimento dei bisogni e al perseguimento degli obiettivi; entrambi possono essere biologicamente o culturalmente determinati. I bisogni sono mediati a livello cognitivo da un sistema gerarchico di valori e di obiettivi che monitora le azioni volte al raggiungimento degli stessi, questo è il sistema delle motivazioni (Moderato, P., Presti, G., Chase, P.N., 2002).

La motivazione, dunque, viene considerata come un costrutto eterogeneo, una sua prima differenziazione, per esempio, è stata espressa in relazione ai tipi di bisogni che la muovono. Prendendo come riferimento la Teoria dei Bisogni di Maslow (1954), ampiamente riconosciuta, sono state distinte le motivazioni Primarie da quelle Secondarie. Le prime nascono dai bisogni fisiologici: nutrirsi, dormire, ripararsi dal freddo, ecc…, le seconde, invece, vengono apprese dall’individuo nel corso della propria vita e sono mediate dalla cultura di appartenenza.

Una seconda distinzione fa riferimento alla motivazione intrinseca o autonoma ed estrinseca o controllata. Nel primo caso essa rappresenta la volontà di intraprendere una data attività in quanto relativamente soddisfacente di per sé; l’individuo, cioè, agisce senza aspettarsi conseguenze future premianti, esterne all’attività stessa. Sono quelle attività intraprese spontaneamente, durante le quali la persona si sente libera di seguire i propri personali interessi. La motivazione Estrinseca, invece, dipende dal voler ottenere qualcosa d’altro rispetto al comportamento che si sta direttamente mettendo in atto, ad esempio riconoscimenti, vantaggi, denaro, oppure, dall’evitare conseguenze sgradevoli (Deci & Ryan, 2000).

La percezione di autonomia nel proprio comportamento è un aspetto fondamentale per preservare la motivazione intrinseca; dare la facoltà di scegliere e riconoscere l’esperienza personale del soggetto stimola un locus of control interno, una motivazione intrinseca e una maggiore confidenza nella propria performance (Deci & Ryan, 2000; Gagné & Deci, 2005; Hodgins, H. S., Brown, A. B., & Carver, B., 2007).

 

La motivazione autonoma o controllata

Una differenza pregnante all’interno dello spettro motivazionale, dunque, fa riferimento al livello di autonomia o di controllo che gli agenti esterni esercitano sullo stile di regolazione dell’individuo.

Varie ricerche hanno confrontato gli effetti psichici e comportamentali inerenti alle due tipologie di motivazione (Cameron, J., 2001; Deci & Ryan, 2000; Gagné & Deci, 2005; Ryan & Deci, 2006; Soenens & Vansteenkiste, 2005).

È stato riscontrato ad esempio che, gli studenti che presentano una motivazione allo studio relativamente controllata, possono apparire tanto motivati quanto quegli alunni che possiedono un orientamento autonomo. Tuttavia, i primi ottengono performance inferiori e un grado più modesto di benessere, mentre, i ragazzi con una motivazione di tipo intrinseco esibiscono alti livelli di competenza scolastica e di benessere (Ryan & Connell, 1989).

Inoltre, gli individui con uno stile di regolazione autonoma presentano anche una buona integrazione tra i tratti di personalità, le attitudini e i comportamenti agiti, ovvero, esibiscono un funzionamento ottimale della personalità. Ciò non accade, invece, per le persone caratterizzate da uno stile controllato, in questo caso viene rilevata una relazione debole, nonché negativa, tra i vari aspetti della personalità (Williams, Gagné, Ryan, & Deci, 2000; in Deci & Ryan, 2000).

 

L’Autodeterminazione in Adolescenza

Molti ricercatori dell’età evolutiva vedono lo sviluppo dell’autonomia in adolescenza come un processo di Separazione-Individuazione. In accordo con tale prospettiva la definizione dell’autonomia individuale comporta un movimento simultaneo, in cui l’adolescente si distanzia psicologicamente e fisicamente dai genitori (separazione), e assume su di sé maggiori responsabilità, senza più dipendere completamente da loro (individuazione) (Levpušček, M. P., 2006).

L’età adolescenziale è pervasa da una sorta di tensione tra due compiti di sviluppo, quello di conquistare l’autonomia nei confronti dei genitori e dei pari, e quello di conformarsi alle aspettative sociali.

Il raggiungimento del’autonomia implica, perciò, la capacità di basare le azioni sui principi personali e non sulle aspettative altrui; tramite il processo di internalizzazione, dunque, l’individuo giunge a un accrescimento del senso di sé. L’internalizzazione è un processo innato e attivo, grazie al quale le persone trasformano le usanze e le credenze sociali in idee e valori propri, integrandoli nel sé. Trasformando questi precetti da esterni ad interni, l’individuo può sperimentare il senso di autodeterminazione (Deci E. L., & Ryan R. M. (2008). Quando le motivazioni ad agire sono maggiormente internalizzate e quindi autonome, si riscontrano delle elevate capacità di coping, di impegno e serenità nello svolgimento dei compiti scolastici, in aggiunta, si evidenziano delle relazioni più positive tra gli adolescenti e i genitori o gli insegnati (Van Den Broeck, A., Vansteenkiste, M., & De Witte, H., 2008; Zimmer-Gembeck & Collins, 2003).

 

Scegliere quando stare da soli o in compagnia

Una motivazione controllata, sia nel comportamento solitario che in quello interpersonale, si associa ad alti valori d’ansia sociale e depressione, mentre il trascorrere semplicemente molto tempo da soli non è necessariamente indice di depressione. Parallelamente, avere una forte motivazione intrinseca, nel preferire una situazione sociale o nello scegliere di stare da soli, viene associata a bassi livelli d’ansia e di depressione. Dunque, il semplice trascorrere molto tempo insieme ad altre persone fa stare bene i ragazzi e, nel contempo, il passare del tempo da soli aiuta l’adolescente a gestire più adattivamente i propri contrasti interpersonali (Beiswenger, K. L., 2008).

In particolare, è stata trovata una netta differenza tra la motivazione autonoma e quella esternamente controllata dimostrando l’importanza della motivazione intrinseca al comportamento interpersonale e solitario, in funzione dell’adattamento e del benessere (Chirkov, V., & Ryan, R. M., 2001; Chua & Koestner, 2008).

La presenza della motivazione intrinseca nel mettere in atto il comportamento solitario o interpersonale aumenta il grado di benessere percepito dall’individuo.

Gli adolescenti intervistati danno una connotazione valoriale positiva alla solitudine attiva, cioè funzionale a una qualche attività tangibile, mentre valutano più negativamente i momenti solitari passivi, quando si trascorre semplicemente del tempo da soli, senza perseguire un proprio scopo personale (Beiswenger, K. L., 2008). Inoltre, se il comportamento solitario non dipende da una scelta autonoma, ma viene imposto, questo è associato a sentimenti negativi (Chua & Koestner, 2008).

La letteratura mette in evidenza l’importanza di un elevato grado di autodeterminazione nelle scelte quotidiane o di vita, per poter conquistare un reale benessere personale.

Il comportamento interpersonale e quello solitario sono le due gambe su cui avanza la crescita identitaria dell’adolescente. Se i loro passi vengono regolati da una buona dose di motivazione autonoma, e non da imposizioni esterne, sono associati a un buon adattamento e al benessere personale (Beiswenger, K. L., 2008; Corsano, P., Majorano, M., & Champretavy, L., 2006).

Black Mirror: riflessioni sui mutamenti psicologici e relazionali nel futuro della tecnologia

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.

 

Black Mirror: la serie TV

[blockquote style=”1″]The good news is that we move forward with giant steps toward the future. The bad news is that we may not be very prepared to deal with them.[/blockquote]
(Young, Abreu, 2011, p. 267)

Nata nel 2011 e rinnovata per una terza stagione in uscita il prossimo 21 Ottobre, Black Mirror è una serie tv inquieta, disarmante, a metà strada tra il genere sci-fi e la satira. Il titolo stesso introduce intuitivamente la tematica centrale in quanto rimanda allo schermo nero dei dispositivi tecnologici che noi tutti utilizziamo abitualmente. Nei vari episodi, ciascuno con diverse ambientazioni e personaggi, si susseguono scenari e storie governati da una brutale modernità fatta di incredibili invenzioni che rivoluzionano equilibri e sentimenti umani.

Psicologia e serie TV: i messaggi trasmessi da Black Mirror

Guardando nello schermo nero creato da Charlie Brooker, produttore britannico e autore della fortunata serie antologica, si scorgono dettagli che vanno al di là delle ovvie interpretazioni. Sebbene sia possibile, infatti, analizzarne la morale e i significati, non si può sottovalutare l’impatto emotivo e perturbante delle trame proposte.

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.
È possibile rintracciare in ciascun episodio una tematica che coinvolge (e sconvolge) l’idea tradizionale della natura umana.

Nel mondo creato da Brooker e colleghi, la capacità empatica sembra essere smarrita o, comunque, distorta. Nei racconti della serie i personaggi sono fondamentalmente assorbiti nel narcisismo tipico di chi guarda il mondo attraverso uno schermo, noncuranti dell’altro e del suo sentire. Sono tutti spettatori dell’altrui esistenza e traggono godimento da questa sorta di voyeurismo digitale.

In questo mondo non trova posto l’oblio della memoria che resta perennemente intatta e uguale a se stessa; uomini e donne, provvisti di personali microchip che ne conservano i ricordi, possono proiettare e riguardare gli eventi vissuti nei minimi dettagli. Una memoria privata dei suoi naturali mutamenti e distorsioni, impossibile da elaborare.

È una realtà in cui il progresso ha abolito il concetto di impossibile; persino di fronte all’irreparabilità della morte si può ricorrere a soluzioni “intelligenti”, a surrogati programmati per essere identici all’originale, forse addirittura migliorati. Una perfezione che spiazza perché altro non è che una vuota illusione.
E ancora, solitudine, azioni ripetitive e perdita del senso di identità e di individualità in una società paralizzata, bombardata da incessanti messaggi pubblicitari e in cui l’unica via di fuga è trasformarsi in maschere vuote che occupano tristi palcoscenici.

Questi alcuni dei temi di una serie che genera reazioni viscerali ed emotive prima ancora che animare dibattiti interiori e razionali sullo stato dell’evoluzione tecnologica e sul ruolo della persona all’interno di questo cambiamento. Black Mirror non è quindi solo un prodotto televisivo di intrattenimento, ma un moderno romanzo distopico; un’estremizzazione dell’attuale progresso tecnologico, disturbante al punto giusto da lasciare aperte considerazioni e interrogativi sui mutamenti che il consumo della tecnologia sta operando silenziosamente sulle nostre menti, sui nostri corpi e sui modi di entrare in contatto con l’altro.

La rivoluzione psico-tecnologica del nostro tempo è già iniziata, come testimonia il crescente interesse per le cosiddette nuove dipendenze e, in particolare, per le dipendenze tecnologiche. Alcuni autori, come Block (2008), sostengono l’esistenza di un vero e proprio disturbo (Internet Addiction), una condizione invalidante che implicherebbe importanti modificazioni comportamentali, ritiro sociale e sentimenti negativi di rabbia, depressione e un senso di tensione quando non si ha accesso ai dispositivi e alla rete.
L’intento degli studiosi che si approcciano a questo fenomeno non è, però, quello di demonizzare il progresso, ma di operare una riflessione consapevole sul rischio di un eccessivo ricorso alla tecnologia al fine di appagare i nostri bisogni emotivi, psicologici e sociali (Young, Abreu, 2011).

Con i suoi toni oscuri e profondi, Black Mirror narra questi mutamenti e scatena incertezze su un futuro che forse non è poi tanto lontano: una serie da vedere, o rivedere, in attesa dei nuovi episodi della terza stagione.

Gli effetti di Pokémon Go: una fonte di distrazione per conducenti, passeggeri e pedoni

Un nuovo report pubblicato online da JAMA Internal Medicine parla degli effetti di Pokémon Go e di come il recente e popolarissimo gioco di realtà aumentata porti a una forte distrazione di automobilisti, passeggeri e pedoni.

 

Un nuovo report sugli effetti di Pokémon GO

John W. Ayers della San Diego State University in California, affiancato dai suoi coautori, è andato a caccia di messaggi pubblicati sul social Twitter e di notizie in Google News che trattavano informazioni relative la distrazione dei conducenti alla guida e dei relativi incidenti a causa del gioco Pokémon GO, in quanto impegnati a catturare Pokémon in luoghi del mondo reale.

Un’ analisi fatta al principale target del gioco ha evidenziato come gli incidenti automobilistici siano la principale causa di morte, in particolare nei soggetti con un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. I giovani conducenti sono infatti molto suscettibili alla distrazione. L’American Automobile Association riporta inoltre che il 59% degli incidenti che coinvolgono i giovani sono causati da forti distrazioni che nell’arco di 6 secondi portano allo schianto.

Gli autori dello studio hanno raccolto un campione causale di 4000 tweets contenenti i termini Pokémon, driving (guidando), drives (guida), drive (guidare), car (macchina) o queste parole associate tra loro (ad es. Pokémon e guida) per un periodo di 10 giorni durante il mese di luglio.

 

Gli effetti di Pokémon GO: risultati del report

Gli autori, sugli effetti di Pokémon GO, riportano che:

  • Il 33% dei tweets indicano che un conducente, un passeggero o un pedone sono stati distratti dal gioco Pokémon GO, e che questi dati si correlino a 113,993 incidenti segnalati su Twitter.
  • Il 18% dei tweets indicano che una persona stava giocando alla guida (“OMG I’m catching Pokémon and driving”), l’11% che stava giocando un passeggero (“Just made sis drive me around to find Pokémon”), e il 4% riguardava un pedone distratto (“Almost got hit by a car playing Pokémon GO”).
  • Sono stati effettuati 14 arresti la cui causa è stata attribuita a Pokémon GO, tra cui un giocatore che si è schiantato contro un albero.

Ha dichiarato Ayers:

Pokémon GO è una nuova fonte di distrazione per conducenti, pedoni e passeggeri, e i messaggi di sicurezza inseriti nel gioco sono scarsi e poco efficienti

Secondo gli autori queste scoperte potrebbero aiutare a sviluppare nuove strategie per gli sviluppatori del gioco, i legislatori e il pubblico, così da poter limitare i potenziali pericoli e i negativi effetti di Pokémon GO.

Per quanto riguarda gli autori del gioco, alcuni tentativi di miglioramento della sicurezza sono già stati fatti, principale tra tutti la restrizione del gioco a velocità superiori a 10 miglia l’ora (20 km/h), ma questo non è sufficiente.

Secondo Ayers e colleghi occorrerebbe rendere inaccessibile il gioco per un periodo prolungato tutte le volte che i giocatori superano il limite di velocità di marcia, con lo scopo di evitare che i conducenti giochino alla guida. Inoltre il gioco potrebbe essere disattivato nei pressi di strade e parcheggi per proteggere sia i pedoni che i conducenti. Infine il gioco potrebbe includere chiari avvertimenti circa la guida e la sicurezza dei pedoni.

 

 

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