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Autostima e contesti culturali: come varia la valutazione di sè da una cultura all’altra

Autostima: E' stato dimostrato come ci siano delle differenze nel modo di concepire se stessi a seconda della cultura alla quale si appartiene.

Di Claudia Ruvinetti

Pubblicato il 15 Set. 2016

Aggiornato il 04 Ott. 2019 14:12

Autostima: Come la maggior parte degli altri aspetti del sé, le distorsioni di sopravvalutazione del sé operano in maniera alquanto diversa nelle varie culture. Benché la ricerca di un coerente senso di sé sia comune a tutte le culture, gli studi di Hazel Markus e Shinobu Kitayama (1991) hanno rivelato che a diverse culture corrispondono diversi modi di intendere il sé.

 

Autostima: come operiamo nel valutare noi stessi

L’autostima buona può essere un valido aiuto che ci protegge contro lo stress e le minacce al sé. In questo senso una buona valutazione di noi stessi non è solo una bussola per sapere dove orientarci (ruoli da intraprendere, mete congeniali o meno da perseguire ecc …); ma ha anche un valore protettivo tout court, ovvero ha un significato per il benessere individuale. Infatti molte ricerche sono concordi con il fatto che possedere una buona stima di se stessi è associata a sentimenti positivi e ad un minor rischio di depressione (Campbell, Chew e Scratchley).

Molti eventi rilevanti per l’economia del sé non sono né intrinsecamente positivi né negativi, ma sono interpretati e valutati. Spesso, nonostante il valore che un’accurata stima di noi stessi ha per muoverci nel mondo sociale, operiamo quello che Kunda (1990) chiama distorsioni da sopravvalutazione del sé, ovvero tendenze a raccogliere e interpretare le informazioni concernenti il sé in modo da produrre valutazioni eccessivamente positive. Innanzitutto preferiamo evitare situazioni in cui possiamo fallire e scegliere quelle in cui possiamo brillare, le nostre scelte sono il risultato di ambiti che ci consentono di esprimerci al meglio.

In secondo luogo, se possiamo, evitiamo situazioni di confronto con persone che sono più brave di noi e tendiamo a operare confronti al ribasso, ovvero comparazioni con situazioni o persone a cui diamo una valutazione inferiore alla nostra.

Infine, esiste una differenza tra le informazioni sui noi stessi che sono accessibili alla mente: in generale le persone tendono a ricordare le esperienze positive, di modo che queste diventino cronicamente più accessibili e questo fa sì che non sempre le idee negative su noi stessi siano costantemente pronte alla mente a meno di un esercizio cronico di autoanalisi.

 

L’autostima nelle varie culture

Come la maggior parte degli altri aspetti del sé, le distorsioni di sopravvalutazione del sé operano in maniera alquanto diversa nelle varie culture. Benché la ricerca di un coerente senso di sé sia comune a tutte le culture, gli studi di Hazel Markus e Shinobu Kitayama (1991) hanno rivelato che a diverse culture corrispondono diversi modi di intendere il sé.

In generale si parla di culture indipendenti e interdipendenti. Le prime sono generalmente identificate con le moderne culture occidentali, in esse l’accento è posto sull’individuo come unico e separato dal contesto sociale, le persone caratterizzano la propria individualità mediante tratti rappresentati da parole come onesto, responsabile, estroverso. Per contro nelle culture come il Giappone, l’accento viene posto sui rapporti con gli altri, le persone si descrivono mediante le appartenenze sociali e il nucleo di sé viene descritto dai rapporti del singolo con le persone a lui significative.

Dati provenienti dalle culture asiatiche interdipendenti evidenziano affascinanti differenze rispetto ai modelli diffusi nel Nord America e nell’Europa occidentale. Kitayama e colleghi (Kitayama, Markus, Matsumoto e Norasakkunkit, 1997) osservano che, mentre tra gli americani la sopravvalutazione del sé è comune, giapponesi e altri popoli asiatici sono meno inclini a questa distorsione. Secondo Kitayama e colleghi questo non sarebbe a causa di una individualità asiatica meno sana, tutt’altro. Il fatto che le persone asiatiche siano più sensibili ad integrare informazioni negative e feedback di fallimenti nel sé sarebbe il risultato della loro cultura. In nord America gli attributi e i valori personali sono la determinante maggiore del valore percepito del sé, e così è naturale che si creino sopravvalutazioni dei propri attributi personali. Nelle culture orientali, per contro, l’autostima personale dipende maggiormente dagli attributi sociali, il valore del sé non è misurato tanto da attributi personali, quanto dalla capacità di adeguarsi alle aspettative e alle caratteristiche dei gruppi a cui le persone appartengono. Per gli studenti giapponesi, per esempio, è normale a fine giornata riunirsi per discutere sui motivi per i quali non si è riusciti al fine di migliorare le prestazioni degli individui e arrivare agli obiettivi che il gruppo si è prefissato.

L’autostima, come anche tutti gli altri aspetti del sé, non si formano in un vacuum, ma sono fondati su significati culturali, e socialmente appresi.
A partire dagli anni ottanta si cominciato a riflettere sul fatto che molte delle ricerche sulla centralità dell’autostima per il benessere umano fossero condotte in America del Nord, con partecipanti nordamericani e da ricercatori nordamericani, per questo motivo sono fioriti degli studi in cui si è valutata la costruzione del sé come un processo connotato culturalmente, anche confrontandolo con altri Paesi rispetto a quelli occidentali.

Inoltre, a partire dagli anni novanta, la cultura nordamericana è stata “invasa” da produzioni culturali che decantano l’urgenza e l’utilità di godere di una buona autostima. Questo argomento è rilevante sia in ambienti accademici (c’è una grossa mole di lavori scientifici sull’autostima), sia tra la gente comune, attraverso la presenza di programmi televisivi e pamphlets su come aumentare la propria autostima.

In diversi studi si è vista una ampia correlazione tra individualismo e autostima, come se questa fosse dipendente e basata sulla concezione di sé che l’individuo ha come agente autonomo e portatore di pensieri e istanze personali.

In un articolo del 1999 Heine e colleghi (Heine, Lehman, Markus e Kitayama) discutono in modo ampio e articolato sulla questione dell’autostima come costrutto culturale ed ecologicamente orientato, e se essa sia un bisogno universale o meno.

All’inizio dell’articolo gli autori descrivono alcune delle caratteristiche sociologiche e psicologiche del Giappone, come per esempio una tendenza mirata all’autocritica (hansei), una sforzo pervasivo nell’auto-miglioramento e una rilevanza forte del giudizio altrui sulle proprie auto-percezioni. Queste sono le premesse per discutere del perché negli studi, seppur condotti con metodi diversi, l’autostima dei giapponesi si attesti su valori moderati e tenda ad una distribuzione normale, mentre le misurazioni dell’autostima degli statunitensi mostrino una tendenza fortemente distorta verso valori elevati di autostima.

Gli autori dell’articolo illustrato concludono che l’autostima intesa nelle produzioni scientifiche è un costrutto che risente della mentalità occidentale, ma che, il bisogno di conservare una buona valutazione di sé come esseri competenti è in qualche modo una tendenza universale, che si declina nei modi specifici che le varie culture prescrivono.
Per esempio l’autostima per i giapponesi ha una connotazione più relazionale che personale, ovvero è imprescindibilmente intessuta dalle relazioni che l’individuo vive (i giapponesi sovrastimano le caratteristiche dei propri amici, ed è l’unico bias trovato negli studi sull’autostima in questa cultura). Inoltre per la cultura del sol levante è di fondamentale pregnanza il mantenere una solida reputazione, ovvero conforme con le norme che la società dà; in questo senso può essere più importante per i giapponesi attenersi alle cornici di riferimento degli altri significativi piuttosto che riferirsi ad attributi e valori personali (cornici di riferimento esterne vs interne).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Campbell, J. D., Chew, B., & Scratchley, L. S. (1991). Cognitive and emotional reactions to daily events: The effects of self-esteem and self-complexity. Journal of Personality, 59, 473–505.
  • Heine, S.J., Lehman, D.R., Markus, H.R & Kitayama, S. (1999). Is there a universal need for positive self-regard?. Psychological Review, 106,(4), 766-794.
  • Kitayama, S., Markus, H.R., Matsumoto, H., & Norasakkunkit, V. (1997). Individual and collective processes in the construction of the self: self-enhancement in the United States and self-criticism in Japan. Journal of Personality and Social Psychology, 72(6), 1245,67.
  • Kunda, Z.(1990).The case for motivated reasoning. Psychological Bulletin,108, 480-498.
  • Markus, H. R., & Kitayama, S. (1991). Culture and the self: Implications for cognition, emotion, and motivation. Psychological review, 98(2), 224-253
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