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La natura eterogenea dei sintomi della depressione

I sintomi della depressione possono essere diversi da paziente a paziente, essi vanno a compromettere il funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti per il soggetto.

Mariagrazia Zaccaria

 

La depressione è un disturbo dell’umore e può assumere la forma di un singolo episodio transitorio (si parlerà in questo caso di episodio depressivo), oppure di un vero e proprio disturbo (si parlerà di disturbo depressivo). I soggetti che presentano i sintomi della depressione mostrano e provano frequenti stati di insoddisfazione e tendono a non provare piacere nelle comuni attività quotidiane. Le persone che soffrono di tale patologia vivono costantemente in una condizione di negatività e pessimismo circa se stessi e il proprio futuro.

La depressione è quindi generalmente considerata come una patologia caratterizzata da un insieme di sintomi, che vanno a compromettere il funzionamento sociale, lavorativo, o di altre aree importanti per il soggetto.

Essa si manifesta attraverso una serie di sintomi, che variano da paziente a paziente, ed è spesso trattata con una combinazione di psicoterapia e farmaci. Le scale di valutazione standard utilizzate dagli operatori sanitari e dai ricercatori per la diagnosi di questa malattia spesso si differenziano per i sintomi che presentano, e questo potrebbe spiegare perché il trattamento one-size-fits-all è risultato inefficace fino ad oggi.

In questo articolo si parla della ricerca condotta dalla Dott.ssa Eiko Fried presso l’università di Amsterdam (UVA) dove, i suoi risultati sono stati pubblicati nell’ultima edizione del Journal of Affective Disorders.

La depressione è spesso vista come un disturbo medico comune, ma a differenza dei disturbi fisici per i quali gli esami del sangue e altri esami oggettivi consentono di fare una diagnosi efficace e affidabile, diversa è la situazione per fare diagnosi di depressione in quanto non ci sono misure oggettive tali per determinare se una persona è depressa o meno.

In letteratura e secondo i criteri diagnostici riconosciuti dai principali sistemi diagnostici vi sono sintomi della depressione particolarmente indicativi come ad esempio umore deflesso, ideazione suicidaria e problemi del sonno (insonnia o ipersonnia) e altri. Se in una persona vi è una copresenza di una serie di specifici sintomi – sia somatici che psicologici- si può fare diagnosi di depressione.

 

Eterogeneità dei sintomi della depressione

Nel suo studio, Fried ha utilizzato un’ analisi dei contenuti per indagare la sovrapposizione dei vari sintomi con 7 scale di valutazione dei sintomi che vengono utilizzati nella ricerca per la depressione. Una di queste scale è la Hamilton Rating Scale, che include 17 sintomi della depressione prevalentemente fisici come la perdita di peso e il rallentamento psicomotorio. Un’ altra scala è la Beck Depression Inventory, che comprende 21 sintomi della depressione per lo più cognitivo-affettivi quali il sentimento di inutilità, senso di colpa, pianto o auto-avversione.

La Fried afferma che queste scale, e altre scale di valutazione mostrano poca sovrapposizione nella valutazione dei sintomi. Inoltre, queste scale insieme dispongono di un totale di 52 diversi sintomi della depressione che vanno dalla tristezza, alla mancanza di interesse, alla ideazione suicidaria, irritabilità e ansia.

Questi risultati sottolineano l’eterogeneità di questa patologia. Tuttavia, il fatto che 7 diverse scale di valutazione contengono più di 50 differenti sintomi mostra come i pazienti possano essere sorprendentemente diversi e mette in risalto, inoltre, la necessità di un trattamento più personalizzato che potrebbe spiegare perché gli antidepressivi “one-size-fits-all” mostrino così poca efficacia.

 

Esito predeterminato

Secondo la Dottoressa Fried, le sue scoperte suggeriscono che a seconda del tipo di scala che il ricercatore utilizza si potrebbe stabilire il tipo di paziente.

E’ lei stessa a cercare di spiegarlo con un esempio: se un ricercatore utilizza la scala di Hamilton, che si concentra prevalentemente sui sintomi fisici, il tipo di partecipanti che andrà ad esaminare nel suo studio, differirà notevolmente da quelli che un altro ricercatore starà esaminando con la scala cognitiva-affettiva di Beck.

Questo è stato anche evidenziato da precedenti studi, i quali dimostrano che i soggetti affetti da depressione differiscono sia nei problemi che sperimentano che nei sintomi che si presentano.

Tutto ciò spiega, secondo la Fried, perché così tanti studi sulla depressione mostrano conclusioni molto diversificate tra di loro.

Il disagio psicologico nel paziente con diabete mellito

La diagnosi di diabete mellito determina l’insorgere di una situazione di paura e insicurezza che può influire negativamente sulla corretta attuazione delle attività di cura. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di contenimento dell’ansia, l’intervento di uno psicologo è ritenuto necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per progettare gli aspetti formativi del malato.

Elena Maggio – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Nell’assistenza alla persona con diabete l’aspetto dell’educazione e dell’empowerment è di importanza fondamentale. La diagnosi di diabete mellito determina, infatti, l’insorgere di una situazione di paura e insicurezza che può influire negativamente sulla corretta attuazione delle attività di cura. Soprattutto per quanto riguarda gli aspetti di contenimento dell’ansia, l’intervento di uno psicologo è ritenuto necessario sia per attivare atteggiamenti di coping, sia per progettare gli aspetti formativi del malato.

Si individuano pertanto le tematiche di interesse psicologico nella fase di comunicazione della patologia diabetica, in quella di definizione degli interventi di cura e nella fase di sostegno al malato che si trova a riprogettare la propria esistenza in funzione di questa patologia.

Il diabete mellito facilita la comparsa di disturbi psicopatologici come depressione e ansia, che a loro volta influenzano la gestione della malattia stessa. Il lavoro dello psicologo risulta di importante supporto nella fase di cura della patologia. La pratica ha dimostrato l’effetto negativo che le dinamiche psicosociali possono avere sulla capacità del paziente di aderire correttamente alle indicazioni terapeutiche. Si tratta quindi di promuovere un atteggiamento di adesione del malato alla terapia e, nello stesso tempo, di sviluppare un coping efficace, facendo sì che il soggetto veda il diabete mellito come un problema piuttosto che come una minaccia. Ne consegue che il buon adattamento alla malattia dipende dal tipo di strategie individuali che il paziente mette in atto per affrontarla.

Il diabete mellito (diabete di tipo 2) è uno dei maggiori problemi sanitari dei paesi industrializzati e la sua prevalenza è in continuo aumento. Secondo l’OMS il diabete mellito indica un gruppo di disordini metabolici caratterizzati da iperglicemia cronica, alterazioni del metabolismo glucidico, lipidico e proteico dovuti a difetti della secrezione insulinica, dell’azione insulinica o entrambe, e dallo sviluppo progressivo di specifiche complicanze. E’ una malattia provocata da una carenza, totale o parziale, di insulina, un ormone secreto dalle beta-cellule di una zona del pancreas chiamata “isole di Langherhans”.

L’insulina è necessaria al metabolismo del glucosio: la secrezione di una giusta quantità di insulina è una condizione indispensabile per la regolazione del tasso di zuccheri nel sangue. Quando la glicemia sale, il glucosio urinario inizia ad aumentare e causa per osmosi l’eliminazione di acqua, vi è quindi un aumento delle urine prodotte. Il paziente ha uno stimolo ad urinare molto frequente che porta ad una disidratazione dell’organismo. Per compensare questa perdita di acqua e mantenere costante la quantità dei liquidi corporei l’organismo compensa con lo stimolo della sete (Musacchio N., 1999).

Oltre a questa sete intensa, il diabetico ha un aumento della fame che porta a un’iperalimentazione, dovuta al fatto che le cellule non possono utilizzare il glucosio, anche se questo è aumentato nel circolo. Alcuni centri cerebrali, che regolano il senso della fame, non ricevono l’apporto energetico del glucosio e inviano segnali che spingono il soggetto ad iperalimentarsi. La scarsa utilizzazione del glucosio riduce le riserve energetiche dell’organismo e determina un senso costante di stanchezza. L’organismo del diabetico non può utilizzare il glucosio e deve utilizzare i grassi e le proteine corporee determinando una perdita di peso.

La terapia del diabete mellito si basa su quattro presidi terapeutici diversi: l’insulina, gli ipoglicemizzanti orali, la dieta, l’esercizio fisico. La terapia prevede innanzitutto una dieta che permetta di avere un peso corporeo corretto, senza abusare di carboidrati, in secondo luogo è necessaria un’attività sportiva che aumenti la sensibilità all’insulina, riducendo l’insulinemia a riposo. In sostanza bisogna riportare l’organismo in condizioni di efficienza fisica e alimentare per riportare il funzionamento del meccanismo dell’insulina nella normalità.

Per quel che riguarda i farmaci, agiscono in due modi: da una parte stimolano le cellule B a produrre più insulina e dall’altra rendono le cellule dei tessuti periferici più sensibili all’insulina di modo che queste cellule utilizzino al meglio gli zuccheri (Zanussi C., 2004).

 

Gli impatti psicologici di una diagnosi di diabete mellito

Il legame tra diabete mellito e disturbi dell’umore è noto almeno dagli anni ’50. I sintomi della depressione includono la persistente tristezza o l’incapacità di provare gioia, la perdita o l’ incremento d’appetito, l’insonnia, l’apatia, la difficoltà di concentrazione, i sentimenti di disperazione ed inutilità, i pensieri negativi come idee suicidarie, irritabilità, ansietà, nervosismo, sensi di colpa.

A volte le persone depresse trovano difficile fronteggiare i programmi e le attività quotidiane, e riportano rilevanti difficoltà nei vari campi della vita. Mentre la depressione è molto comune fra la popolazione generale, alcuni studi clinici indicano come essa sia ancora più frequente nei malati cronici. Ciò potrebbe essere dovuto a numerosi fattori, tra cui lo stress derivante dal trattamento e dal controllo della malattia, gli effetti sulle funzioni cognitive, gli effetti collaterali o le complicazioni intrinseci alla terapia farmacologica (Rotella C.M., Mannucci E., Cresci B., 1999). Alcune meta-analisi hanno evidenziato una frequente associazione fra diabete mellito e depressione. Si stima che il 15-20% (fino al 30%) di persone con diabete tipo 1 e tipo 2 presenti una sintomatologia depressiva (Barnard K.D., Skinner T.C., Peveler R., 2006).

Lustman e Anderson hanno accertato che i soggetti con diabete mellito hanno una probabilità circa doppia, rispetto alla popolazione non diabetica, di sviluppare una sindrome depressiva (Lustman P.J., Anderson R. J., 2000). Gli stessi autori hanno messo in evidenza che la co-presenza della depressione rappresenta una delle cause principali di insuccesso di qualunque processo di gestione e management della malattia cronica.

Quest’ultimo dato è stato confermato da una meta-analisi di Gonzales e collaboratori che ha accertato che la depressione comune nei pazienti diabetici è associata a mediocri risultati ottenuti dalle cure. Questa meta-analisi ha studiato il rapporto tra depressione e non aderenza al trattamento per il diabete nei pazienti diabetici di tipo 1 e di tipo 2 e i risultati ottenuti da 47 campioni indipendenti hanno mostrato che vi era una significativa associazione tra depressione e non aderenza al regime di trattamento del diabete mellito. Le dimensioni dell’effetto registrano i massimi livelli per gli appuntamenti medici mancati e per le varie procedure dell’autocura (Gonzales J. et coll, 2008).

Il diabete mellito richiede del resto diligenza, cura della malattia, un rigoroso controllo giornaliero dei vari aspetti della vita e della salute. La dieta, l’attività fisica, la terapia, il monitoraggio glicemico, le visite mediche, l’attenzione ad altre malattie e alle complicanze rappresentano una routine e, considerati i sintomi depressivi e le difficoltà che possono creare, è ragionevole presupporre che la presenza di depressione abbia un impatto rilevante sul controllo del diabete.

Oltre alla depressione, il diabete mellito facilita la comparsa anche di altri disturbi psicopatologici come l’ansia e i disturbi alimentari che influenzano a loro volta la gestione della malattia.

L’ansia e lo stress provocati dalla malattia possono raggiungere livelli così elevati da ostacolare il raggiungimento di buoni valori glicemici e di un’autogestione adeguata. È possibile far emergere componenti ansiose più o meno nascoste in varie fasi del diabete (alla diagnosi, a ogni cambiamento di terapia, nel passaggio all’insulina, ecc.). Un discorso a parte riguarda i genitori di bambini diabetici, spesso sono questi adulti, più che i piccoli pazienti, a richiedere un supporto di tipo psicologico, almeno nelle prime fasi di malattia (Ricci Bitti P.E., 2002).

Tra i sintomi dell’ansia c’è la facilità all’affaticamento, i disturbi del sonno, l’irritabilità, l’irrequietezza, la tensione muscolare. Come per i disturbi depressivi, l’ansia rappresenta una barriera importante al trattamento.

 

Diabete mellito e controllo

A livello personale, molti pazienti presentano anche problemi di vario tipo, riguardanti la sfera del “controllo”, ci sono persone che hanno difficoltà ad accettare le regole, a mettere sotto controllo alcuni aspetti di sé. È necessario allora lavorare tenendo conto di questa riluttanza a sentirsi controllati, della difficoltà ad accettare la sensazione di perdere il controllo sulla propria vita (Skinner T.C., Davies M.J., Farooqi A.M., Jarvis J., Tringham J.R., Khunti K., 2005).

Innanzitutto, per alcuni pazienti abituati a tenere tutto sotto il proprio controllo è molto ansiogeno pensare di affidare “per sempre” la propria vita a un medico, o accettare di delegare a un altro la propria cura e le decisioni relative alla propria salute. Allo stesso modo per queste persone è difficile accettare le oscillazioni legate alla malattia (per esempio, gli sbalzi imprevedibili della glicemia),quindi tollerare il fatto che non sia sempre possibile controllare in toto la propria malattia (Ricci Bitti P.E.,2002). Questi pazienti trovano utile ricevere molte informazioni, in modo da avere la possibilità di sapere cosa sta accadendo. Devono essere rassicurati sulla possibilità di tenere la situazione sotto controllo, così come sono stati sempre abituati a fare e nello stesso tempo è necessario lavorare affinché riescano gradualmente a tollerare delle aree di non controllo.

 

Diabete e dipendenza

Un altro aspetto importante è quello legato alla “dipendenza”, proprio perché alcuni pazienti faticano ad accettare di dipendere da altre persone (medici, infermieri), ma anche da un farmaco. Questo problema è comune a molti pazienti insulino-dipendenti, cioè pazienti la cui esistenza “dipende dall’insulina”. In altri, invece, si evidenzia il problema opposto, un’eccessiva dipendenza, un’estrema difficoltà a fare da soli, ad auto-gestirsi, per cui richiedono una costante “supervisione”(Ricci Bitti P.E., 2002).

Lavorando sui comportamenti di questi pazienti, è spesso necessario distinguere e analizzare tre elementi: i pensieri, le emozioni, i comportamenti. Spesso, infatti, questi pazienti raccontano i loro comportamenti, ed è necessario aiutarli a considerare che essi sono correlati a pensieri ed emozioni sottostanti. In effetti, pensieri, emozioni e comportamenti si influenzano tra di loro, ma spesso non ne sono consapevoli, specialmente dell’influenza dei pensieri sulle emozioni e sui comportamenti.

L’analisi dei pensieri e delle emozioni porta spesso ad individuare un atteggiamento di rabbia, una delle emozioni che maggiormente traspaiono dai discorsi dei pazienti con diabete mellito, a volte in modo manifesto, altre in forma più velata, ma sempre significativa. Spesso emerge una rabbia nei confronti della malattia che viene percepita come un “nemico” da combattere, da tenere a bada, un nemico che, però, non potrà mai essere definitivamente sconfitto. I pazienti compiono un passo significativo nel momento in cui passano dalla visione della malattia come nemico da sconfiggere a quella di un elemento di sé con cui “convivere”, con cui giungere a un compromesso (Ricci Bitti P.E., 2002). La rabbia è anche spesso collegata a un altro vissuto tipico, quello di aver subito un danno, di essere stati ingiustamente danneggiati o penalizzati. Da ciò emerge un bisogno di risarcimento, che nasce su basi inconsapevoli e che porta il soggetto ad assumere atteggiamenti apparentemente inspiegabili.

 

L’educazione del paziente diabetico e il ruolo dello psicologo nel team diabetologico

Il processo educativo ha come obiettivo sia insegnare al diabetico a convivere con la malattia, sia raggiungere gli obiettivi clinici della terapia e della prevenzione delle complicanze. Ha quindi due aspetti: uno educativo, indirizzato alla qualità della vita, e uno clinico-biologico indirizzato al mantenimento dello stato di salute fisico. L’informazione fa parte del dialogo tra il curante e il malato ed è costituita da un insieme di consigli, raccomandazioni e istruzioni.

L’educazione è invece “la scelta di obiettivi di apprendimento e l’applicazione di tecniche d’insegnamento e di valutazione” (Lacroix A., Assal J.P., 2005). Tutti questi strumenti permettono al paziente di: conoscere la propria malattia; gestire la terapia in modo competente; prevenire le complicanze.

L’intervento dello psicologo si rivela utile nei Servizi di Diabetologia perché trova applicazione a più livelli, non solo direttamente nei confronti dei singoli pazienti, ma anche attraverso un lavoro da svolgere in sinergia con tutti gli operatori dell’équipe, che devono sempre tener conto dei problemi psicologici in questi pazienti.

Il personale sanitario è abituato ad identificare e rimediare il più rapidamente possibile ad un evento morboso transitorio, per riportare l’individuo ad uno stato di salute. La malattia cronica richiede invece che il medico e l’infermiere debbano accettare di accompagnare per anni persone che non riusciranno mai a guarire, ma piuttosto a stabilizzarsi.  Per curare efficacemente un malato cronico, non è sufficiente limitarsi a interpretare correttamente i sintomi clinici della malattia e prescrivere farmaci o altri rimedi. Un approccio terapeutico completo richiede che tra il curante e il paziente «si stabilisca una vera e propria alleanza terapeutica» (A. Ferraresi A., Gaiani R., Manfredini M., 2004). Per i curanti, la necessità di creare delle solide relazioni umane nasce dai rapporti costanti che hanno non solo con i pazienti e le loro famiglie, ma anche con tutte le altre figure, professionali e non, che gravitano intorno a loro.

In questa patologia l’adesione al trattamento è cruciale e per questo viene posta al centro dell’educazione terapeutica. E’ evidente che solo una buona motivazione consente al paziente con diabete mellito di adottare una strategia di cura, ma che anche ogni operatore sanitario deve imparare a motivare ogni paziente. Lo stile comunicativo, più che la quantità di informazioni trasmesse, sembra influire sulla qualità percepita della relazione tra curanti e pazienti. Uno stile aperto, empatico, non giudicante è fondamentale, la capacità di ascolto partecipe del paziente e di sintonia con i suoi vissuti sono qualità e abilità indispensabili per una relazione di cura efficace e soddisfacente. Il maggior coinvolgimento aumenta il grado di concordanza tra curante e paziente e migliora il grado di autonomia percepita. Il ruolo dello psicologo è valutare i bisogni del paziente, valutare ed effettuare l’educazione infermierisitica, assistere i pazienti nell’attuazione del piano di trattamento e di prevenzione delle complicanze.

Molti pazienti compiono un percorso graduale nell’apprendimento delle modalità di gestione della terapia e nell’affrontare le problematiche del controllo e della dipendenza. Inizialmente la funzione terapeutica è totalmente esterna, poi gradualmente diventa interna, il paziente “fa proprie” le indicazioni dei curanti.

L’aiuto psicologico viene operato soprattutto agendo sull’autocontrollo, sul self-empowerment e sulla self-efficacy. Per autocontrollo si intende la capacità del paziente di misurare parametri come la glicemia capillare, la chetonemia, la chetonuria e la glicosuria. E’ pertanto un requisito centrale per l’autogestione del paziente. La self-efficacy invece fa riferimento all’idea che l’individuo ha delle proprie capacità di agire efficacemente sugli eventi che condizionano la propria vita. Questo costrutto influenza in modo significativo i processi cognitivi, motivazionali, affettivi e decisionali. In ambito diabetologico la self-efficacy rinforza in modo diretto l’adesione al trattamento e sembra mediare gli effetti di altre variabili psicosociali (supporto sociale, stress diabete-correlato, carico psicologico, coping) sui parametri metabolici. Una maggiore self-efficacy è tra gli obiettivi principali dell’empowerment.

Anche all’autostima viene riconosciuta una grande importanza, è un fattore che va valutato con attenzione per la possibile influenza su tutti gli aspetti psicologici legati al diabete. Il raggiungimento degli obiettivi terapeutici concordati rafforza l’autostima nella misura in cui il cambiamento viene vissuto come auto-diretto e in questo caso si realizza un vero empowerment, invece, cambiamenti percepiti come etero-diretti possono anche ridurre l’autostima.

Allo stesso modo, obiettivi “non realistici” o comunque non concordati possono produrre vissuti di frustrazione ripetuti in grado di innescare spirali di auto-svalutazione. Al contrario, livelli elevati di autostima possono costituire delle barriere al riconoscimento della realtà di malattia, che rappresenta una ferita narcisistica. L’empowerment permette ai malati di diabete di prendere consapevolezza del proprio ruolo attivo nel trattamento, è un percorso che impegna curanti e paziente e che ha come obiettivo l’autonomizzazione del paziente.

La collaborazione tra psicologo e medico è finalizzata a integrare gli aspetti più strettamente medici con quelli essenzialmente psicologici con l’obiettivo di individuare insieme le strategie terapeutiche più adeguate che tengano conto contemporaneamente dei problemi fisici e delle dinamiche soggettive in gioco. Questa modalità di lavoro può comprendere sia interventi sinergici nei confronti di alcuni pazienti seguiti contemporaneamente dal medico e dallo psicologo; sia discussioni collegiali su alcuni casi particolari; sia momenti di confronto sulle modalità più efficaci di organizzazione del lavoro nel Servizio.

Il rapporto tra lo psicologo e il personale infermieristico è un lavoro di confronto e attività di formazione finalizzata a fornire alcune chiavi di lettura di ordine psicologico che possono risultare utili al personale infermieristico nella gestione di alcune difficoltà insite nel lavoro di interazione quotidiana coi pazienti. Si cerca così di affiancare alle competenze operative già possedute dagli infermieri alcune competenze relazionali, con particolare riguardo agli aspetti della comunicazione col paziente.

La loro relazione è fondamentale e si basa sull’empatia, sul patteggiamento tra i bisogni della malattia e del paziente, sulla gestione positiva dell’errore, cioè «identificare le possibili situazioni a rischio, lavorare sul sentimento di frustrazione che si genera dopo uno sbaglio, proporre soluzioni alternative, identificare obiettivi semplici e accessibili, operare per la risoluzione dei problemi» (Trento M., Passera P. e coll., 2006). L’infermiere aiuta il paziente ad accettare la malattia e favorire la sua motivazione all’autocontrollo identificando il tipo di locus of control del paziente, ovvero la percezione del paziente di riuscire o meno a controllare il proprio destino.

Vi è un locus of control interno e un locus of control esterno, il primo si riferisce alla tendenza a credere di non essere mai responsabile degli eventi e di non poter “controllare” la propria vita; il secondo è riferito a colui che controlla tutto, attore del proprio destino. Queste diverse reazioni sono il risultato delle esperienze ed esprimono la personalità, sono perciò difficilmente modificabili. In ogni caso è importante che l’infermiere identifichi il tipo del locus of control del paziente. Ciò permette di sintonizzarsi più velocemente con lui, ma anche di formulare richieste che siano accettabili. Tra gli altri obiettivi, l’infermiere educa il paziente all’autogestione, evita le complicanze a breve termine e ritarda quelle a lungo termine, educa e coinvolge il contesto familiare e sociale (Macrodimitris S.D., Endler N.S., 2001).

Per quel che riguarda il rapporto tra psicologo e dietista, è un’attività di formazione relativa alle problematiche psicologiche connesse al comportamento alimentare, e che può includere colloqui di tipo psico-educazionale con la copresenza di dietista e psicologo.

Per quanto riguarda la relazione tra psicologo e paziente, come si è visto, lo psicologo ha il compito di valutare e affrontare con il singolo paziente gli aspetti psicologici connessi al diabete mellito, in un processo di presa in carico che tenga sempre conto del lavoro che il paziente sta svolgendo con gli altri operatori dell’équipe. Attraverso questa organizzazione, è possibile fornire al paziente gli strumenti necessari per gestire al meglio la propria malattia, sviluppando quelle capacità che gli consentono di arrivare a una accettazione attiva della patologia, fornendo le strategie cognitive e comportamentali per fronteggiare lo stress, sviluppando un coping attivo, differenziato e di confronto con la problematica, piuttosto che di passività con sentimenti di impotenza e disperazione.

Sviluppando un coping efficace, il paziente riesce a vedere il diabete come un problema piuttosto che come una minaccia, spostandosi da un comportamento di fuga a uno di attacco. L’aspetto importante è quello di applicare le strategie e abilità di coping al raggiungimento di obiettivi scelti dal paziente o comunque concordati tra paziente e curante. Ciò permette di massimizzare l’effetto di self-empowerment e di percezione di efficacia del trattamento.

Lo psicologo deve avere piena consapevolezza, inoltre, delle caratteristiche del conflitto spesso presente nei pazienti, delle problematiche personali e relazionali, il rapporto fra cibo-corpo-io, la sfera del controllo, la dipendenza, l’accettazione del limite, la gestione di pensieri-emozioni-comportamenti, la rabbia, la sensazione di danno subito e il bisogno di risarcimento, la scarsa motivazione a curarsi, i pensieri negativi.

Le tecnologie a supporto del trattamento delle disabilità intellettive – Report dal Congresso Erickson

All’interno della sala dove si è tenuto il Congresso, ci attendono 3 postazioni, in ognuna delle quali ci viene offerta la possibilità di testare diverse tecnologie realizzate per supportare i piani riabilitativi di bambini con disabilità intellettive. La prima postazione è dedicata all’utilizzo creativo del PC.

 

Relatori: Giuseppe Maurizio Arduino (Responsabile Servizio di Psicologia e Psicopatologia dello Sviluppo, ASL CN1, Cuneo), Luciano Destefanis (CASA- Centro Autismo e Sindrome di Asperger, ASL CN1, Cuneo), Franca Garzotto (Dipartimento di Elettronica, Informazione e Bioingegneria, Politecnico di Milano) e Jacopo Giovanni Romani (Needius Srl; Università di Trento)

Le tecnologie per supportare la riabilitazione di bambini con disabilità intellettiva

Luciano Destefanis, logopedista di grande esperienza, ci insegna a costruire attività mirate a promuovere specifiche abilità semplicemente utilizzando il noto Power Point e Audacity, un software per la registrazione di suoni. La dimostrazione che un PC e un po’ di buona volontà sono sufficienti per creare degli strumenti in grado di arricchire il programma riabilitativo rivolto a un bambino autistico.

Franca Garzotto ci presenta Wildcard “Occhiali Magici”, un progetto di realtà virtuale immersiva indossabile.
Provo in prima persona il visore attraverso cui ci si immerge in una realtà virtuale con lo scopo di promuovere attenzione selettiva e attenzione mantenuta in bambini che manifestano deficit in queste aree. Ci introduce anche altre tecnologie come per esempio gli smart toys, giochi attraverso i quali stimolare interazioni educative e la Philips Hue, una luce controllabile da remoto con cui creare diversi scenari a seconda dell’obiettivo terapeutico.
Sarebbe bello riuscire a credere che questi strumenti possano diventare a breve una risorsa terapeutica accessibile a tutti.

Jacopo Romani ci presenta Blu(e), un comunicatore CAA (Comunicazione Aumentativa Alternativa) su tablet touchscreen. Il comunicatore è collegato in remoto ad una piattaforma online a cui possono accedere famiglia e rete terapeutica, attraverso la quale è possibile realizzare e inviare al tablet le tabelle di simboli. Ciò permette inoltre di monitorarne l’utilizzo, per verificare per esempio il progresso comunicativo del bambino in termini di numero di immagini imparate in un dato periodo.
Con questo strumento si risolvono gran parte dei limiti di fruibilità, personalizzazione e monitoraggio di una CAA supportata dal solo materiale cartaceo.

Apre la plenaria Filippo Simeoni, direttore della cooperativa sociale il Ponte di Rovereto che ci regala la visione del cortometraggio “Tramondi. Un viaggio tra autismo e serigrafia”. Il documentario racconta un progetto che ha visto coinvolto un piccolo gruppo di ragazzi con autismo guidati nella realizzazione di magliette, dalla realizzazione del logo alla stampa sul tessuto.

La selettività alimentare negli autistici

Luigi Mazzoni tratta il tema della selettività alimentare, una forte rigidità nelle scelte alimentari che riguarda molti autistici. La selettività è spiegata da fattori diversi (consistenza, odore, colore, marca, …) ma non è mai associata alla mancanza di appetito. Tuttavia non esiste una definizione standard operazionalizzata di tale costrutto e l’eziologia della selettività alimentare nella popolazione autistica con buona probabilità differisce dalla causa di questa problematica nella popolazione tipica. L’ipotesi più probabile è che la selettività negli autistici dipenda dalle alterazioni sensoriali.
Sempre in tema di alimentazione, Mazzoni denuncia la mancanza di prove di efficacia delle diete prive di glutine e caseina, ritenute per anni capaci di alleviare i sintomi.

Di grande attualità il tema del Gut Microbiota anche se ad oggi mancano dati certi riguardo l’associazione tra assunzione di probiotici e diminuzione dei sintomi di fobia sociale. La ricerca sul tema è tuttavia molto vivace e c’è da aspettarsi che a breve se ne sappia di più.
L’intervento si chiude con la raccomandazione ad un approccio multidisciplinare al trattamento della selettività alimentare che coinvolga dietologo, psicologo cognitivo comportamentale, educatori e genitori.

La transizione all’età adulta degli autistici

Marco Bertelli affronta il tema dell’autismo nella transizione all’età adulta e quindi della comorbidità con disturbi di natura psichiatra che nella popolazione autistica risultano essere più presenti e più precoci benché assumano caratteristiche diverse dalla popolazione tipica. I disturbi d’ansia e somatizzazione sono i più diffusi. Varie sono le ipotesi che tentano di spiegare questa maggiore vulnerabilità ai disturbi psichiatrici all’interno di un paradigma bio-psico-sociale. Denuncia l’inadeguatezza dei servizi ospedalieri rispetto ai bisogni di salute mentale delle persone con disturbi intellettivi. Una ricerca dimostra come sia nelle università che nei servizi manchino i giusti riferimenti culturali per garantire una presa in carico di questi pazienti.

Flavia Chiarotti dell’Istituto Superiore della Sanità ci parla dell’incidenza dei Disturbi dello spettro autistico. Negli ultimi anni (2000-2012) si è assistito a un incremento di casi significativo del 15 per mille in USA.

Al di là dei fattori attinenti, la raccolta dei dati ha dimostrato come ci sia un incremento dei fattori di rischio genetici e ambientali. Tra questi ultimi vanno esclusi i vaccini poiché non c’ è nessuna correlazione dimostrata tra adesione al programma vaccinale e manifestazione di un Disturbo dello spettro autistico.

Le relazioni adulte degli autistici

Marco de Caris propone un intervento sulle relazioni amicali, amorose, sessualità e matrimonio. Le persone con disabilità intellettiva hanno una qualità di informazione meno articolata riguardo alla sessualità e all’affettività e questo ha ovvie ricadute sul piano comportamentale. Le richieste nel mondo sociale aumentano e si modificano a seconda dell’età e dei contesti. Rispetto alla costruzione di una vita socio affettiva è importante comprendere le proprie e altrui emozioni, conoscene le regole sociali e imparare a immaginare come gli altri vedono le cose, come pensano e come si sentono. L’autonomia è fondamentale in un progetto di vita e ha ricadute importanti su affettività e relazioni. Il modo migliore per promuoverla è il lavoro in gruppo in cui si provi a fare cose. Qualsiasi cosa si insegni quando sono piccoli va fatta già pensando all’utilità che potrà avere quando saranno adulti, privilegiando sempre obiettivi di indipendenza.

L’associazionismo per gli autistici

Chiude il convegno l’intervento di Giovanni Marino (ANGSA-FIA) che ci parla dei diritti delle persone con autismo nei livelli essenziali di assistenza, introdotti dalla legge 134/2015. I LEA sono l’insieme di tutte le prestazioni, servizi e attività che i cittadini hanno il diritto di ottenere dal Ssn con lo scopo di garantire in condizioni di uniformità a tutti e su tutto il territorio nazionale. Questi servizi impattano sull’insieme di diritti soggettivi della persona che secondo la Costituzione devono in ogni caso essere garantiti in modo universale e a tutti i cittadini. Ora bisogna che le regioni sappiano emanare appropriati documenti in conformità delle leggi per poter rendere esigibili questi servizi e riguardo a questo l’associazionismo può fare la sua parte.

La visione 4D della risonanza magnetica di bambini e neonati

Attraverso la creazione di un metodo per correggere il movimento, il team di ricerca è stato in grado di fare una ricostruzione quadrimensionale dell’attività cerebrale nei soggetti in movimento, come ad esempio i feti e i bambini piccoli.

Mariagrazia Zaccaria

 

La ricostruzione quadrimensionale dell’attività cerebrale dei bambini

I ricercatori dell’Università di Washington hanno sperimentato un approccio che permette di dare un sguardo migliore a come le reti funzionali all’interno dei cervello si sviluppino nei singoli feti. Il loro lavoro affronta quello che è un problema comune che si verifica con la risonanza magnetica; se il soggetto si muove durante la scansione, le immagini sono registrate in maniera distorta.

Attraverso la creazione di un metodo per correggere il movimento, il team di ricerca è stato in grado di fare una ricostruzione quadrimensionale dell’attività cerebrale nei soggetti in movimento, come ad esempio i feti e i bambini piccoli.

La nuova strategia consente di svolgere indagini per il normale sviluppo del cervello e gli effetti che la dieta e l’ambiente che circonda la madre hanno sul normale funzionamento del cervello del feto.

Questo lavoro si è concentrato sull’attività durante la fase di default che coinvolge un insieme di regioni attive quando il cervello è a riposo, quando qualcuno sta sognando ad occhi aperti o sta vagando con la mente non riuscendo a concentrarsi su un compito specifico, e i cervelli fetali sono in modalità default per la maggior parte del tempo.

Lo studio

I ricercatori hanno creato un film quadrimensionale sui feti durante la fase di default usando la risonanza magnetica funzionale (fMRI). La fMRI, però, potrebbe produrre immagini sfocate se i soggetti si muovono mentre sono nella macchina.

I ricercatori, dopo aver dimostrato che potevano quantificare con successo l’attività cerebrale nei soggetti in movimento, hanno poi scansionato otto feti tra la 32esima e 37esima settimana di gestazione. Alla fine, sono state ottenute, grazie a questa tecnica delle immagini chiare e dettagliate.

La tecnica può essere utilizzata anche per confrontare le differenze nello sviluppo del cervello dei bambini nati a termine e prematuri, o se vi sono differenze prenatali nei bambini che sviluppano disturbi dello sviluppo neurologico.

Le capsule del tempo di Andy Warhol: il disturbo da accumulo compulsivo nella vita dell’artista

Pittore e regista, Andy Warhol (1928-1987) è stato uno dei principali esponenti della pop art americana: celebri sono le sue opere che si rifanno alle immagini prodotte dalla cultura di massa americana, dalle inconfondibili bottiglie di Coca Cola ai detersivi in scatola, dal volto di Marilyn Monroe al simbolo del dollaro.

 

Adoro l’America – ebbe a dire Andy Warhole le mie immagini rappresentano i prodotti brutalmente impersonali e gli oggetti chiassosamente materialistici che sono le fondamenta dell’America di oggi. E’ una materializzazione di tutto ciò che si può comprare e vendere, dei simboli concreti, ma effimeri che ci fanno vivere – E ancora:- la pop art è amare le cose.

Che Andy Warhol amasse gli oggetti è cosa nota, anzi era un vero e proprio collezionista estremo di cianfrusaglie: le sue “capsule del tempo”, scatole contenenti inutilità, dagli scontrini agli involucri di cibo, dalle fotografie ai ritagli di giornali, sono diventate oggi opere d’arte costosissime e sono un tipico esempio di come un artista abbia saputo tradurre un sintomo, cioè la difficoltà di separarsi dagli oggetti, in una forma d’arte.

 

Andy Warhol e il suo accumulo compulsivo

Andy Warhol frequentava assiduamente i mercatini delle pulci e conservava oggetti, ninnoli ed inutilità varie tanto da riempire di cianfrusaglie i cinque piani della sua casa di New York e diversi magazzini. Accanto alla scrivania, l’artista teneva una scatola di cartone che poi riempiva con oggetti di ogni genere: era questa la sua “capsula del tempo”. Ne riempì più di seicento nel corso della sua vita e sono convinta che esse siano fondamentali per capire la vita dell’artista e che  siano rivelatrici degli aspetti più intimi di Warhol, quelli che preferiva nascondere nella vita sociale.  Oggi le “capsule del tempo” sono considerate preziose opere d’arte, ma dietro di esse si cela un vero e proprio disturbo mentale, il cosiddetto disturbo di accumulo compulsivo.

Il disturbo da accumulo compulsivo (conosciuto anche come disposofobia o accaparramento patologico) è un disturbo caratterizzato dall’accumulo continuativo di beni, acquistati o raccolti, e dalla successiva incapacità di eliminarli dai propri spazi vitali (casa, ufficio, auto…). Nel tempo questo determina il progressivo ingombro di tutte le aree disponibili, incluse quelle essenziali per cucinare, dormire e lavarsi, provocando in ultimo l’impossibilità di svolgere le normali attività quotidiane.

Dal 2013 il disturbo da accumulo compulsivo è stato riconosciuto come disturbo autonomo ed è stato inserito nel Manuale dei Disturbi Mentali dell’Associazione di Psichiatria Americana. Fino ad allora era considerato una manifestazione secondaria di altri disturbi, in particolare del Disturbo Ossessivo Compulsivo o del Disturbo di Personalità Ossessivo Compulsivo. Il primo caso di disturbo da accumulo che sconvolse l’opinione pubblica americana risale al 1947, quando i fratelli Colleyer furono trovati morti nella loro casa di New York, dove furono rinvenuti oggetti di vario genere, tra cui quattordici pianoforti, un vecchio generatore e parti di una Ford.

Gli aspetti salienti della disposofobia sono: l’acquisizione compulsiva di oggetti (si tendono ad ammassare in casa, in auto o in ufficio oggetti di grande o scarso valore, spazzatura, animali); l’incapacità di separarsi dalle cose possedute (la separazione da determinati oggetti causa profonda sofferenza emotiva e per questo viene evitata); la difficoltà ad organizzare gli oggetti ed il conseguente disordine (nei casi più gravi il disordine è tale da impedire l’uso degli spazi, ostacolando lo svolgimento delle normali attività quotidiane come cucinare, pulire, dormire su un letto).

Si tratta di un disagio clinicamente significativo, in quanto sono compromesse importanti aree di funzionamento, ad esempio la conservazione di un ambiente sicuro e salutare o il mantenimento di relazioni sociali, in quanto, se le condizioni dell’ambiente non sono adeguate, si può andare verso un isolamento progressivo.

Ci vogliono anni, perché gli accumulatori hanno bisogno di tempo per prendere la decisione di liberarsi di un oggetto nei confronti del quale hanno maturato un attaccamento caratterizzato da una forte componente emotiva, ma ci si può liberare dal disturbo di accumulo compulsivo: l’intervento psicoterapico che ad oggi si è dimostrato più efficace è una forma di terapia cognitivo-comportamentale (CBT) adattata allo specifico problema del hoarding (Steketee&Frost, 2010).

Andy Warhol, invece, adottò un metodo personalissimo per liberarsi dal rapporto troppo ossessivo che aveva con gli oggetti: riempì delle scatole con tutto ciò che trovava ammassato sulla sua scrivania, sul pavimento, negli armadi: le definì “Time Capsules” (capsule del tempo): alla sua scomparsa le scatole erano complessivamente seicentododici, oggi sono conservate negli archivi dell’Andy Warhol Museum di Pittsburgh.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool

Per la prima volta la realtà virtuale viene utilizzata all’interno della fase di assessment con pazienti con dipendenza da alcool sviluppando un protocollo di valutazione ad hoc e confrontando i livelli di autoefficacia e motivazione al cambiamento in seguito alla seduta con una tradizionale intervista di valutazione face to face.

Giulia Spagnoli e Pamela Fantin – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Dipendenza da alcool: introduzione ed individuazione del problema

La Sindrome da Dipendenza da Alcool (SDA) si presenta come patologia complessa ed invalidante, all’interno della quale il craving (inteso come forte pulsione soggettiva a raggiungere l’oggetto desiderato) gioca un ruolo di primaria importanza sia nel mantenimento che nella ricaduta (May et all, 2004).

La valutazione rappresenta dunque una fase cruciale, sia per il paziente sia per l’operatore, che si rivela spesso determinante nell’influenzare il successivo atteggiamento del soggetto con dipendenza da alcool nei confronti del bere e il suo impegno verso il problema; le probabilità di successo dell’intervento dipendono dalla capacità di identificare ed assecondare le reali possibilità di cambiamento del paziente, tenendo in considerazione le caratteristiche del suo ambiente familiare e sociale (Vaillant, 1993).

I soggetti con dipendenza da alcool risultano difficilmente agganciabili all’interno dei servizi specialistici, tendono a negare la patologia, provando vergogna, sentendosi giudicati o stigmatizzati e si mostrano spesso ambivalenti nei confronti di una reale motivazione al cambiamento.

Ricerche esistenti in letteratura (Lee et al., 2007; Cho et al., 2008; Bordnick et al., 2008) hanno dimostrato l’efficacia dell’utilizzo di ambienti virtuali sia come tecnica di presentazione degli stimoli, all’interno di studi di cue reactivity finalizzati alla valutazione dell’appetizione compulsiva patologica, sia come valido supporto alla tecnica espositiva all’interno di trattamenti cognitivo- comportamentali. L’utilizzo della realtà virtuale sembra ridurre il craving rispetto a procedure tradizionali di esposizione agli stimoli (esposizione in vivo o tramite strumenti multimediali quali immagini o video).

Tali studi, hanno evidenziato la capacità della realtà virtuale (RV) di offrire un empowering environment (Riva, 2001), altamente immersivo ed ecologicamente valido, una base sicura all’interno della quale il paziente non si sente minacciato o sotto esame in sede di trattamento.

La realtà virtuale permette inoltre un’immersione sensoriale nell’ambiente tridimensionale generato dal computer, all’interno del quale il soggetto è attivo, agisce ed interagisce “come se” fosse nel mondo reale; gli ambienti virtuali creano una illusione percettiva in cui i sensi sono stimolati al punto da permettere lo sviluppo di processi cognitivi, emotivi, fisiologici e comportamentali con quanto si sta esperendo, permettendo inoltre di dare una cornice di senso in cui collocare l’intera esperienza. La realtà virtuale si potrebbe dunque considerare un “laboratorio ecologico” in cui osservare il paziente.

Inoltre, il forte coinvolgimento ed il senso di presenza sperimentato all’interno degli ambienti sono in grado di rendere il paziente meno propenso all’utilizzo di tecniche difensive all’interno del colloquio, dovute al fatto di sentirsi esposto ad una situazione minacciosa e di venire giudicato e stigmatizzato dal terapeuta, e potrebbero quindi favorire l’acquisizione di un numero maggiore di informazioni spontaneamente fornite dal paziente anche in fase di assessment.

In questa fase si dovrebbe prendere in considerazione, inoltre, il livello di motivazione del paziente nell’affrontare il processo di cambiamento. È necessario infatti che le motivazioni e l’impegno del paziente vengano rinforzati incoraggiandolo ad analizzare i benefici derivanti dal raggiungimento di uno stato di salute e le probabili conseguenze negative a cui andrà incontro se continua ad assumere alcool in modo eccessivo.

Il punto centrale è il concetto di Presenza, la sensazione di “essere” all’interno di un ambiente, reale o virtuale, risultato della capacità di mettere in atto nell’ambiente, anche virtuale, le proprie intenzioni (Riva, 2008): più il soggetto riesce ad attuare le proprie intenzioni attraverso la propria azione nell’ambiente, meno sarà consapevole della mediazione tecnologica e proverà quindi l’illusione percettiva di non mediazione (Lombard e Ditton, 1997). I media, ed in particolare la realtà virtuale, possono attivare un senso di presenza necessario per ottenere un’esperienza ottimale o flow experience in grado di favorire il cambiamento. Questa, intesa come esperienza di flusso di coscienza caratterizzata dall’assorbimento totale nell’attività svolta (Csikszentmihalyi, 1994; Voiskounky, 2008), si verifica infatti quando, ad alti livelli di presenza è associato uno stato emotivo positivo.

Essa è contraddistinta da un elevato livello di concentrazione e di partecipazione all’attività, dall’equilibrio tra la percezione tra difficoltà della situazione (challenge) e le capacità personali (skills), e da un interesse intrinseco per il processo che produce un senso di piacevolezza e soddisfazione.

Con la realtà virtuale è possibile manipolare la complessità del compito da svolgere, offrendo al tempo stesso al soggetto molteplici opportunità di interazione con l’ambiente. Il livello di challenge può quindi essere modificato ed adattato ad hoc al livello di skills dell’utente.

Inoltre è possibile produrre una percezione di autoefficacia e di padronanza poiché i soggetti sono in grado di controllare gli eventi che si sviluppano nel corso dell’esperienza attraverso le proprie azioni, ricevendo feedback multisensoriali in tempo reale, e sono in grado di osservare e valutare immediatamente gli effetti che le proprie azioni producono.

La capacità di controllare le proprie emozioni e le proprie azioni, infatti, unita alla sensazione di sentirsi attivo protagonista di ciò che si sta sperimentando, contribuisce ad aumentare il senso di autoefficacia (Bandura, 1977; 1982) che può portare al cambiamento.

Nell’area delle dipendenze si presuppone che anche i comportamenti di dipendenza possano essere tenuti sotto controllo dall’individuo e che le persone, poste in condizioni adeguate, siano in grado di decidere se smettere, modificare o limitare il consumo della sostanza (Prochaska, 1986).

Il livello di autoefficacia e la disponibilità ad intraprendere un percorso di cambiamento sono strettamente correlate; nelle fasi iniziali del cambiamento, in particolare, è utile avere livelli medi di autoefficacia, in modo tale che il soggetto sia maggiormente disponibile al percorso terapeutico proposto, senza essere convinto di superare il problema con il minimo sforzo (Bandura, 1986).

Durante il flow, inoltre, in cui si ha una sensazione di alterazione temporale, il soggetto tende inoltre a dimenticarsi di sé, cioè a non auto osservarsi; questo permette di osservare il comportamento naturale ed ottenere risposte dal soggetto il più spontanee possibili e poco filtrate da eventuali difese messe in atto, tipiche dei pazienti alcol dipendenti.

 

2.1 La Realtà virtuale nell’assessment di pazienti con dipendenza da alcool

Uno studio ha voluto verificare l’utilizzo della realtà virtuale all’interno della fase di assessment con pazienti alcol dipendenti sviluppando un protocollo di valutazione ad hoc e confrontando i livelli di autoefficacia e motivazione al cambiamento in seguito alla seduta con una tradizionale intervista di valutazione face to face. Il nuovo protocollo di valutazione permette di prendere in considerazione i fattori relativi alla personalità; fattori intra personali quali gestione delle emozioni, autostima, autoefficacia percepita ed attribuzione causale; fattori ambientali quali le competenze relazionali e l’effetto di eventuali pressioni sociali sul comportamento relativo al bere del soggetto.

 

2.2 Ricerca sperimentale

2.2.1 Obiettivi ed ipotesi

Il protocollo di valutazione attraverso realtà virtuale potrebbe sfruttare la capacità della nuova tecnologia di generare un’esperienza immersiva, coinvolgente e motivante; la realtà virtuale si configurerebbe come “laboratorio ecologico” dove poter osservare il soggetto a 360° e dal quale trarre un maggior numero di informazioni relative a diversi aspetti della sua vita quotidiana e della sua “carriera alcolica”.

 

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - FIG.1

FIG. 1 – Esempio di ambienti di realtà virtuale

 

L’obiettivo della fase 2 della presente ricerca sarà quello di testare, su un campione di soggetti con diagnosi di Sindrome da Dipendenza da Alcool, la validità dal nuovo protocollo; i risultati, prima e dopo la seduta di assessment, del gruppo sperimentale saranno confrontati con quelli del gruppo di controllo, costituito da soggetti che seguono l’iter tradizionale di presa in carico, ai quali viene rivolta un’intervista clinica semi strutturata, in uso nei servizi sanitari.

L’utilizzo della realtà virtuale potrebbe fornire le basi per una relazione terapeutica positiva, favorendo la presa in carico ed il processo di cambiamento del paziente; si ipotizza che il gruppo sperimentale, dopo la sessione di realtà virtuale, presenti un incremento dei livelli di autoefficacia, di motivazione al cambiamento e consapevolezza di sé, rispetto ai soggetti sottoposti all’intervista clinica.

Si suppone poi che il nuovo protocollo sia in grado di fornire una valutazione globale, accurata del paziente in un tempo relativamente breve, rispetto all’intervista face to face.

 

2.2.2 Strumenti e disegno di ricerca

  • Il Motivation Assessment of Change per soggetti con dipendenza da alcool (MAC2-A; Spiller e Zavan, 2005) valuta la motivazione al cambiamento.

Il questionario, che si rivolge ad adulti che hanno in corso o hanno effettuato un intervento specifico per abuso o Sindrome da Dipendenza da Alcool, è costituito da 36 item a cui il paziente risponde secondo una scala Likert a 6 livelli (da 0- per niente, a 6- del tutto vero) e da sei domande a cui si può rispondere secondo una scala analogica graduata con valori da 0 a 100. I punteggi forniscono informazioni relative a: Disponibilità al Cambiamento (DC -fa riferimento agli stadi che precedono la sospensione dell’uso o che immediatamente la seguono -Azione), ossia il grado di progressivo avvicinamento alla soglia decisionale per la parte del processo che precede la sospensione dell’abuso, Stabilizzazione (ST- fa riferimento agli stadi che seguono la sospensione dell’uso), ossia il grado di consolidamento di tale cambiamento per la parte che segue la sospensione dell’uso, Frattura Interiore (percezione di divario tra la vita reale attuale da un lato e le aspirazioni ed i desideri dall’altro, che, una volta superati negazione e meccanismi di protezione, può spingere il soggetto a cambiare), Disponibilità all’aiuto o Compliance, Autoefficacia , Importanza attribuita al cambiamento e Tentazione all’uso della sostanza.

  • La Generalized Self- Efficacy scale (GSE; Schwarzer e Jerusalem, 1995).

Essa valuta il senso di autoefficacia personale, esaminando la credenza generale del soggetto a proposito della propria abilità di far fronte, in modo efficace, a situazione problematiche in vari ambiti quotidiani. Livelli alti di autoefficacia facilitano il raggiungimento degli obiettivi, la determinazione ad affrontare gli ostacoli o “situazioni a rischio” ed il recupero dopo eventuali ricadute, nella pratica clinica.

Ai soggetti del gruppo di controllo è stata condotta invece una tradizionale intervista clinica semi strutturata,  attualmente in uso nei servizi sanitari.

L’intervista riguarda diverse aree: la sfera familiare, personale e professionale del paziente, con particolare attenzione ad eventuali “blocchi” o fasi di arresto, la sfera sociale e relazionale, “carriera alcolica” e storia medica passata ed attuale. L’intera raccolta di dati anamnestici può richiedere anche più sedute.

  • Procedura- Ai  pazienti vengono programmati tre appuntamenti presso il Nucleo Operativo di Alcologia.

Al primo incontro, viene compilata la cartella clinica e vengono raccolte informazioni relative alla storia del paziente, il suo rapporto con l’alcool ed individua eventuali sintomatologie correlate a patologie psichiatriche che potrebbero rendere il paziente non idoneo per la ricerca.

Se il soggetto rispetta i criteri di selezione del campione, l’operatore, dopo avergli fatto firmare il foglio di adesione alla ricerca, chiede al paziente di compilare due questionari: il MAC2-A e la scala GSE.

Al secondo incontro, i pazienti del gruppo sperimentale incontrano l’operatore che ha svolto il primo colloquio ed il ricercatore che coordina la sessione di realtà virtuale, applicando il nuovo protocollo di valutazione. I pazienti del gruppo di controllo sono invece sottoposti ad un’intervista clinica semi strutturata.

Al termine della sessione di valutazione segue un de-briefing ed una breve restituzione di quanto emerso nel corso della seduta e la somministrazione di due questionari: il questionario di personalità EPI  e, nel caso dei pazienti del gruppo sperimentale, il questionario di presenza ITC SOPI.

Nell’ultimo incontro avviene una restituzione globale al paziente da parte dell’operatore e si procede con l’invio allo specialista per la presa in carico. Al termine del colloquio si chiede al paziente di compilare nuovamente il MAC2-A e la scala GSE.

  • Disegno di ricerca

La ricerca si caratterizza per un disegno sperimentale fattoriale misto 2X2, ovvero un disegno con due variabili indipendenti, a due livelli ciascuna: la variabile within tempo (valutazione pre- post assessment) e variabile between, relativa ai differenti protocolli di valutazione.

A tal proposito i soggetti clinici sono stati casualmente assegnati a due gruppi: gruppo di controllo, costituito da pazienti sottoposti alla tradizionale intervista clinica semi strutturata; gruppo sperimentale, costituito da pazienti sottoposti al nuovo protocollo di assessment tramite realtà virtuale.

L’analisi della variabile within consente di rilevare l’esistenza, nei due gruppi, di differenze statisticamente significative tra il tempo di rilevazione T1, prima della fase di valutazione, e il tempo di rilevazione T2 , dopo la fase di valutazione. L’analisi della variabile between consente di rilevare l’esistenza di differenze statisticamente significative tra gruppo di controllo e gruppo sperimentale, sia in fase di pre valutazione, sia in fase di post valutazione.

I soggetti sono stati valutati mediante i test psicometrici MAC2-A e GSE, ripetuti nella condizioni pre test e post test.

Al fine di valutare con maggior efficacia i soggetti, è stato somministrato il questionario EPI; inoltre, ai soggetti del gruppo sperimentale è stato somministrato l’ITC SOPI post seduta.

 

2.2.3. Risultati e Discussione

EPI- È stata condotta una analisi delle statistiche descrittive relativamente ai dati del questionario EPI sul campione totale (Tab. 1) e sui soggetti divisi in base ai due differenti protocolli di valutazione (Tab. 2).

I due gruppi sono omogenei e presentano una analoga struttura di personalità: in entrambe i gruppi non si evidenziano tratti psicotici, è presente un buon livello di empatia, sensibilità ed una buona socializzazione.

Poiché la presenza di tratti nevrotici nel gruppo di controllo è minima, si assume che i due gruppi siano omogenei e che quindi, eventuali differenze emerse in fase post sessione nelle variabili dipendenti, siano riconducibili solo alla variabile indipendente between.

 

Realta virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - TAB.1

TAB. 1: punteggi EPI nel campione totale

 

Realta virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - TAB 2

TAB. 2: punteggi EPI nel gruppo sperimentale e nel gruppo di controllo

 

MAC e GSE- L’analisi della varianza a misure ripetute (ANOVA), per quanto riguarda la variabile relativa alla condizione di valutazione, rileva che al pre test (T1), per ciascuna delle variabili dipendenti considerate non esistono differenze significative tra le medie dei due gruppi. Questi presentano valori iniziali omogenei per le variabili prese in considerazione. Differenze statisticamente significative tra i gruppi si rilevano invece al post test (T2) per ciascuna delle variabili considerate. I risultati dell’analisi sono supportati dalle statistiche descrittive.

Dai risultati emerge come il livello di autoefficacia dei due gruppi, che si presenta essere simile prima della seduta di valutazione, si differenzi significativamente in fase post (F(1,49)= 11,120; p= .002), a favore del gruppo di realtà virtuale (Fig.2).

Date le condizioni iniziali simili dei due gruppi, è possibile affermare che l’incremento nel gruppo sperimentale di autoefficacia percepita sia dovuto unicamente al protocollo di valutazione scelto e quindi all’utilizzo di realtà virtuale; i pazienti sottoposti a realtà virtuale presentano una maggior fiducia nelle proprie capacità e nella possibilità di far fronte in modo efficace, facendo leva sulle proprie risorse, a situazioni problematiche in vari ambiti quotidiani. L’incremento di autoefficacia in soggetti con SDA facilita la determinazione ad affrontare gli ostacoli ed il recupero dopo eventuali ricadute.

È convalidata quindi l’ipotesi di realtà virtuale come empowering environment: la nuova tecnologia, in grado di creare flow experience, incrementa nel soggetto la capacità di controllare le proprie emozioni e le proprie azioni e fa in modo che questo si senta attivo protagonista di ciò che sta sperimentando, contribuendo in tal modo ad aumentare il senso di autoefficacia e la spinta al cambiamento.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - FIG 2

FIG. 2: punteggi di autoefficacia, in fase T1 e in fase T2, nel gruppo di RV e nel gruppo di controllo

 

I due gruppi, prima della seduta di valutazione, presentano valori simili in relazione al profilo di disponibilità al cambiamento e all’aiuto, autoefficacia, frattura interiore, stabilizzazione, importanza attribuita al cambiamento e desiderio provato nei confronti del bere.

Dopo la sessione di valutazione, si nota, osservando in particolare la seconda parte del profilo dei due gruppi, (stadio di Azione, Mutamento e Uscita), la tendenza dei pazienti sottoposti a realtà ad avere punteggi superiori e, a proposito dello stadio di Uscita, come tale differenza risulti significativa (F(1,47)= 7,367; p= .009).

L’utilizzo della realtà virtuale sembra incidere maggiormente sugli aspetti legati alle fasi avanzate del cambiamento, dove il soggetto si ritiene impegnato attivamente ed è convinto di avere le capacità necessarie per intraprendere, portare avanti e mantenere il processo di cambiamento.

In tal senso il dato si potrebbe interpretare, dato che i pazienti sono ancora all’inizio del percorso, non da un piano di vista strettamente comportamentale, ma come una maggiore predisposizione e motivazione, acquisita e stabilizzata, nell’impegnarsi attivamente nei confronti del problema anche in una fase futura.

È da ricordare come il processo di cambiamento sia influenzato dalla possibilità attribuita dal soggetto al raggiungimento dell’obiettivo (Bandura, 1997): maggiore è il convincimento di poterlo raggiungere, facendo leva sulle risorse a disposizione, maggiore sarà il livello di autoefficacia (superiore, in fase post test, nel gruppo di realtà virtuale).

In secondo luogo si nota una differenza, tra i due gruppi, sebbene non significativa (F(1,49)= 3,984; p= .052), relativamente agli aspetti di Contemplazione, in cui il gruppo di controllo presenta valori nettamente superiori.

I soggetti di questi gruppo sono indecisi verso un eventuale percorso di cambiamento ed i pro e i contro del bere tendono ad equivalersi; dopo la seduta, sentendosi sotto esame e giudicati, questi soggetti potrebbero sentirsi maggiormente ambivalenti a proposito di un eventuale percorso di cambiamento.

Nei soggetti sottoposti a realtà virtuale avviene il contrario: nel post seduta dimostrano minori aspetti di Contemplazione rispetto alla fase iniziale.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - FIG. 3

FIG. 3: profilo di disponibilità al cambiamento in fase T2, nel gruppo di RV e nel gruppo di controllo

 

ITC SOPI- Sono stati calcolati i valori medi per le quattro sottoscale del test, all’interno del gruppo sperimentale (Tab.3).

I risultati mostrano come la nuova tecnologia permetta al paziente di sentirsi presente nell’ambiente creato dal computer, in un contesto in cui è possibile osservare il suo comportamento e le sue risposte emotive e all’interno del quale sperimenta processi cognitivi, fisiologici, emotivi e comportamentali analoghi a quelli che avrebbe sperimentato nel mondo reale.

La realtà virtuale, nella duplice veste di tecnologia ed esperienza, è in grado di fornire un ambiente immersivo, coinvolgente, empowering in cui il paziente, isolandosi dall’ambiente circostante si concentra maggiormente su se stesso.

I pazienti sperimentano un elevato senso di presenza, da un punto di vista fisico, all’interno degli ambienti virtuali, dotati di un elevato livello di realismo e naturalezza, e vi avvertono la possibilità di poter agire ed interagire come se stessero facendo realmente visita a tali luoghi.

Questo conferma l’idea che gli oggetti (anche virtuali), da un lato, vengano concettualizzati come “poli di atti virtuali”, definiti dalle intenzioni che li riguardano, mentre gli spazi, vengano rappresentati in relazione alle azioni che possiamo compiere in essi.

È da sottolineare che il senso di presenza, all’interno della realtà virtuale, è dato sia da alti livelli di validità ecologica, che offre la possibilità al soggetto di isolare aspetti rilevanti da un punto di vista percettivo e pertanto consente di muoversi ed interagire, sia dalla presenza di contenuti significativi per il paziente, inseriti all’interno di una cornice di riferimento dotata di senso per il soggetto.

L’ambiente è fortemente coinvolgente: i pazienti si mostrano divertiti, affermano di aver avuto risposte emotive e di aver vissuto un’esperienza intensa, provando inoltre una sensazione di alterazione temporale.

Essi non si rendono conto del tempo effettivamente trascorso e, nel corso della seduta tendono a non auto osservarsi, mettendo in atto comportamenti maggiormente spontanei.

Questo è dovuto alla capacità della realtà virtuale di attivare un senso di presenza tale da ottenere una flow experience, caratterizzata dall’assorbimento totale nell’attività svolta e da uno stato emotivo positivo, in cui si evidenzia un elevato livello di concentrazione e di partecipazione all’attività ed un interesse intrinseco per il processo che produce senso di piacevolezza e soddisfazione.

Da ultimo si rivela una pressoché totale assenza di effetti negativi post seduta per i pazienti sottoposti a realtà virtuale.

Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool - TAB. 3

TAB.3 : punteggi ITC SOPI nel gruppo sperimentale

 

Griglia di osservazione- Sono state calcolate le occorrenze e le percentuali per le variabili prese in considerazione all’interno della griglia creata ad hoc al fine di valutare l’interazione soggetto- realtà virtuale. È stato inoltre calcolato il range ed il tempo medio delle sedute.

I dati qualitativi confermano quanto emerso dai test: la tecnologia è facile da usare, solo il 16% dei soggetti presenta evidenti problemi, ed i pazienti, calmi e rilassati nel corso della seduta, si sentono presenti, partecipi nell’ambiente creato dal computer, rispondendo alle stimolazioni come se il medium non ci fosse. La nuova tecnologia, in quanto “laboratorio ecologico” permette di osservare, in modo “naturalistico”, il soggetto a 360° e trarre un maggior numero di informazioni, verbali e non verbali, in poco tempo (la durata media delle sessioni è di 35 minuti). La trasparenza delle tecnologia è testimoniata inoltre anche dal numero consistente di soggetti che presenta forti reazioni emotive all’interno di situazioni virtuali potenzialmente ansiogene e che compie gesti deittici: sei pazienti infatti, nel corso della seduta, indicano gli oggetti dell’ambiente virtuale, mentre si riferiscono ad essi, sottolineando come questi vengano processati come “poli di atti virtuali”-gli oggetti e gli spazi virtuali vengono concettualizzati in relazione alle azioni che è possibile compiere con e all’interno di essi.

 

3. Conclusioni: l’utilizzo della realtà virtuale in casi di abuso di alcol

La presente ricerca è nata con l’obiettivo di creare ed utilizzare ambienti tridimensionali e descrivere un nuovo protocollo di valutazione tramite realtà virtuale (RV) rivolto a pazienti con dipendenza da alcool e determinare se questo incrementi il senso di autoefficacia e la motivazione al cambiamento nel soggetto, confrontandolo con la tradizionale intervista di valutazione face to face.

Attraverso l’utilizzo di un software open source sono stati costruiti ad hoc quattro ambienti da utilizzare all’interno di un protocollo di valutazione innovativo nell’ambito delle addictions e della dipendenza da alcool in particolare.

Si è voluto testare il nuovo protocollo come strumento per indagare personalità, fattori intra personali e fattori interpersonali, concentrandosi sul comportamento verbale e non verbale, l’arousal emotivo e l’interazione con gli ambienti virtuali.

A tal fine, come ulteriore strumento di analisi, è stata creata una griglia di osservazione che rilevasse il CNV del paziente e fornisse indicazioni a proposito sia del grado di immersione sperimentato, sia dell’interazione con la tecnologia ed i contenuti “esperiti”.

Sono stati poi confrontatati i due protocolli di valutazione al fine di individuare eventuali differenze in termini di autoefficacia e motivazione al cambiamento in seguito alla seduta.

In primo luogo il nuovo protocollo si è rivelato efficace nel fornire una valutazione globale ed accurata del paziente: all’interno dei quattro diversi scenari virtuali, selezionati in modo tale da cogliere specifici aspetti del soggetto, è stato possibile analizzare sia fattori intra personali quali la gestione delle emozioni, l’autostima, l’autoefficacia percepita dal soggetto e le sue attribuzioni causali, sia fattori inter personali quali le sue competenze relazionali, l’effetto di eventuali pressioni sociali sul comportamento relativo al bere.

Il protocollo, immergendo il paziente in un contesto “ecologicamente valido”, nel quale agisce ed interagisce come se fosse nella realtà, ed isolandolo dall’ambiente esterno, ha permesso di osservarne il comportamento “naturale” e spontaneo in relazione a diversi contesti della sua vita quotidiana, bypassando sia la messa in atto di eventuali tecniche difensive, sintomatiche della patologia in esame, sia eliminando il senso di vergogna, di colpa e la sensazione di essere giudicati o stigmatizzati, che rendono difficile “agganciare” il paziente. L’utilizzo di ambienti virtuali influenza positivamente l’alleanza terapeutica: l’operatore può osservare, hic et nunc, il comportamento del soggetto ed il paziente può esprimere emozioni, pensieri, sensazioni nello stesso tempo in cui li esperisce, migliorando in tal modo la comprensione reciproca.

La strumentazione viene accettata positivamente e non comporta effetti negativi sul paziente, che affronta il colloquio positivamente e risponde in modo dettagliato alle domande, fornendo un maggior numero di informazioni in tempi mediamente minori (media 35 minuti) alla tradizionale intervista di valutazione face to face (media 50 minuti).

L’utilizzo della realtà virtuale all’interno del protocollo di valutazione, che trae spunto dalle ricerche esistenti in letteratura e fa riferimento a nuove aree di studio quali la embodied cognition e la embodied interaction, sfrutta la capacità della realtà virtuale sia di creare un ambiente immersivo e coinvolgente, consentendo al soggetto di essere attivo all’interno degli scenari, sia di  riprodurre contesti e azioni dando all’utente la possibilità di agire “come se” fosse nell’ambiente creato dal computer, sentendosi “presente” in essi. Grazie a quest’ultima, la realtà virtuale può originare una flow experience, in grado di favorire il senso di autoefficacia percepito ed il processo di cambiamento.

In linea con questo quadro e data l’omogeneità iniziale presentata dai due gruppi, relativamente a tutte le variabili considerate, i risultati ottenuti nella ricerca tendono ad evidenziare in primo luogo un incremento del senso di autoefficacia percepito nei pazienti sottoposti al nuovo protocollo di assessment rispetto a quelli soggetti alla tradizionale intervista face to face. È interessante sottolineare che tale incremento di autoefficacia è dovuto esclusivamente ad una fase di valutazione, all’interno della quale non sono impiegate tecniche terapeutiche; questo fatto evidenzia ulteriormente il ruolo della realtà virtuale come ambiente fortemente empowering.

I pazienti dopo la seduta di realtà virtuale si sentono maggiormente pronti ad affrontare il percorso di trattamento, convinti e fiduciosi nelle proprie capacità, dimostrano, in parte, di aver acquisito ed integrato nella propria condizione personale il raggiungimento dell’obiettivo, provando un minore desiderio di assumere alcool ed una minore insoddisfazione nei confronti della propria situazione relativa al bere. La realtà virtuale sembra pertanto incidere maggiormente sugli aspetti legati alle fasi avanzate del processo di cambiamento, dato interpretabile come possibile “stabilizzazione” della predisposizione e motivazione di questi soggetti ad impegnarsi anche nelle fasi successive e come consolidamento del loro atteggiamento futuro positivo nei confronti del problema.

Relativamente agli aspetti prettamente metodologici, sarebbe utile in futuro incrementare il campione, distinguendo poi i nativi digitali (che in particolare usano videogiochi e che quindi sono abituati a maneggiare strumenti quali il gamepad) da soggetti che invece hanno una conoscenza base delle tecnologie digitali. L’incremento di soggetti potrebbe approfondire i risultati della ricerca, in modo tale da rilevare ulteriori differenze significative tra i due gruppi ed approfondire quelle tendenti alla significatività.

Sarebbe altresì opportuno, in ricerche successive, utilizzare  un sistema di simulazione olfattivo.

Da un punto strettamente applicativo, il protocollo descritto nel presente studio, unico nel panorama scientifico, vuole in primo luogo fornire al personale sanitario una sorta di “laboratorio ecologico” in cui osservare e valutare il paziente in modo completo ad accurato ed in grado di incidere sugli aspetti motivazionali e di autoefficacia del soggetto. La strumentazione necessaria ha costi contenuti ed è di facile utilizzo anche in assenza di competenze specifiche; in tal modo è possibile personalizzare gli ambienti secondo le singole esigenze richieste dal  caso.

In secondo luogo, l’adozione del nuovo protocollo di assessment, in grado di diminuire i tempi della fase di valutazione e di influenzare positivamente l’alleanza terapeutica e quindi la presa in carico del paziente ed il successivo trattamento, potrebbe incidere favorevolmente sui costi di presa in carico del paziente all’interno del SSN.

Mangiare meno e meglio grazie ai cinque sensi

Recenti ricerche hanno mostrato come le persone possano essere incoraggiate nella scelta di porzioni più piccole e sane, senza rinunciare al piacere legato ad un pasto.

La tendenza ad avere porzioni sempre maggiori di cibo a tavola è aumentata nel tempo, procedendo di pari passo con l’aumento dei tassi di obesità. Per frenare questa tendenza, le istituzioni della salute pubblica e il governo hanno invano raccomandato di ridurre le porzioni al fine di prestare la dovuta attenzione alla propria salute.

Recenti ricerche hanno però mostrato come le persone possano essere incoraggiate nella scelta di porzioni più piccole e sane, senza rinunciare al piacere legato ad un pasto. Ad esempio, Chandon & Cornil (2016) hanno dimostrato come le persone abbiano la tendenza a scegliere porzioni minori di una torta al cioccolato nel momento in cui viene chiesto loro di immaginare vividamente il piacere multisensoriale (a livello di gusto, olfatto, consistenza) legato a cibi simili, senza ridurre il desiderio di pagare per esso. Infatti, il rimanere focalizzati sul piacere di mangiare permetterebbe alle persone di sentirsi più felici e soddisfatte anche predisposte al pagare di più per minori quantità di cibo.

Più nello specifico, gli autori hanno condotto una serie di studi utilizzando campioni con soggetti non sazi e non a dieta di diversa età e nazionalità, ai quali veniva chiesto di immaginare vividamente e chiamando in causa tutti e cinque i sensi il piacere di mangiare dolci a loro familiari e, successivamente, di scegliere una porzione di un dolce, come ad esempio un brownie o una torta al cioccolato. Rispetto alla condizione di controllo, questa procedura di “immaginazione multisensoriale” ha portato le persone a scegliere spontaneamente porzioni di cibo fino a due volte più piccole, senza che ciò comportasse anche una diminuzione dell’aspettativa di piacere, e a desiderare di pagare maggiormente per esse.

Grazie a questa procedura, infatti, le persone vengono incoraggiate a valutare le porzioni non tanto sulla base del loro valore economico o della sensazione di fame, quanto piuttosto sulla base della loro aspettativa di piacere sensoriale, la quale raggiunge l’apice ai primi bocconi di cibo e diminuisce in modo inversamente proporzionale alla grandezza della porzione (fenomeno definito sensory-specific satiation). Al contrario, interventi basati su nozioni salutistiche, come ad esempio la quantità di calorie e di grassi contenuta in ogni porzione, portava le persone a scegliere sì porzioni più piccole, ma minori rispetto a quelle realmente ritenute soddisfacenti e con un conseguente minore desiderio di pagare per esse.

Questo approccio, orientato alla riscoperta del mangiare con soddisfazione, risulta anche essere in linea con il cosiddetto Mindful Eating, un modo per incorporare la Mindfulness in una delle fondamentali attività della nostra esistenza, andando a nutrire non solo il corpo, ma anche la mente. Questo approccio, infatti, insegnando a mangiare e bere nella piena consapevolezza di ogni morso e sorso, ben si coniuga con quanto sottolineato da Chandon & Cornil (2016). Non a caso, all’interno di questa pratica, si impara a seguire precetti quali l’utilizzo di tutti e cinque i sensi e il servire il cibo in piccole porzioni.

Nel complesso, è quindi possibile che il trovarsi di fronte a menù più articolati e descrittivi o ad etichette che incoraggino l’uso dei cinque sensi, oltre che imparare a prendersi del tempo per mangiare consapevolmente, possa portare ad esiti favorevoli sia per i consumatori in termini di soddisfazione e salute sia per i commercianti in termini di profitto. Come afferma Cornil, infatti, porre maggiore attenzione a questo meccanismo legato alla riscoperta del piacere di mangiare potrebbe anche portare ad un’industria alimentare maggiormente sostenibile.

Il Modafinil per il trattamento farmacologico dell’ADHD

Nel trattamento farmacologico dell’ADHD sono usati spesso due psicostimolanti, il metilfenidato e le anfetamine. Tuttavia, il 30% dei pazienti non risponde a queste terapie. Il Modafinil, un farmaco che promuove l’attenzione incrementando l’attività della corteccia frontale, sembra offrire una valida alternativa.

 

Il Disturbo da Deficit dell’Attenzione e Iperattività (ADHD, Attention-Deficit/Hyperactivity Disorder) è uno dei più comuni disturbi neuropsichiatrici che colpisce tra l’8 e il 12% dei bambini in età scolare. Esso si caratterizza per sintomi quali disattenzione, iperattività ed impulsività (Thapar & Cooper, 2016) e comporta molteplici problemi a scuola e in ambito relazionale.

 

Il trattamento farmacologico dell’ADHD

A livello fisiopatologico, l’ADHD si associa ad uno scompenso dei sistemi noradrenergico e dopaminergico, specialmente nella corteccia frontale.

Per ciò che riguarda il trattamento farmacologico, invece, sono risultati efficaci due psicostimolanti, il metilfenidato e le anfetamine, che inibiscono la ricaptazione della norepinefrina e della dopamina. Tuttavia, il 30% dei pazienti non risponde a queste terapie.

Il Modafinil, un farmaco che promuove l’attenzione incrementando l’attività della corteccia frontale, sembra offrire una valida alternativa (Lin, Hou, & Jouvet, 1996). Individui deprivati di sonno, a seguito di assunzione di modafinil, hanno mostrato un miglioramento dell’umore, della stanchezza fisica, delle capacità cognitive e una riduzione della sonnolenza; effetti qualitativamente simili a quelli della caffeina, ma di intensità e durata maggiore. Altri pazienti con differenti patologie psichiatriche ne trovano giovamento (i.e: pazienti bipolari, narcolettici). Numerosi RCT (Randomized-Controlled Trials) hanno inoltre mostrato come questo farmaco possa costituire una valida e clinicamente sicura opzione per trattare i sintomi della ADHD.

 

Lo studio

Una recente review, in attesa di pubblicazione sul Journal of Psychiatric Research, ha indagato gli effetti del Modafinil. Tra i vantaggi di questo tipo di ricerca rispetto ad un singolo esperimento annoveriamo: il superamento dei limiti dati dalla dimensione del campione, la possibilità di generalizzare le conclusioni a popolazioni differenti, l’aumento della potenza statistica durante il confronto tra gruppi e la risoluzione dei bias intrinseci alle singole ricerche.

Rispetto alle precedenti evidenze scientifiche, si è concluso che il Modafinil, il metilfenidato e le anfetamine, agiscono tutti promuovendo l’attenzione del bambino, grazie a meccanismi simili, evidenziando un’efficacia simile tra loro (Kumar, 2008).

Una misura dell’efficacia del farmaco in questa review, era il confronto tra il punteggio pre- e post-trattamento farmacologico dell’ADHD Rating Scale-IV (ADHD-RS-IV), versione Home e versione School, un questionario compilato solitamente da un genitore o un insegnante, valutante il comportamento del bambino (5-17 anni) negli ultimi 6 mesi.

 

I risultati

La meta-analisi, sulla base dei criteri di inclusione, ha considerato 5 RCT. L’analisi dei punteggi al ADHD-RS-IV Home/School ha permesso di concludere che il Modafinil è significativamente più efficace di un placebo nel trattamento farmacologico dell’ADHD diagnosticata a bambini e adolescenti.

Per quanto riguarda la sicurezza e la tollerabilità, il Modafinil è risultato nel complesso ben tollerato e gli effetti collaterali risultavano lievi o al massimo moderati; tra i più comuni, si riscontravano ridotto appetito e insonnia. Mal di testa, cambiamenti nella pressione del sangue e nella frequenza cardiaca, invece, non differivano tra gruppo trattato con Modafinil e gruppo di controllo (placebo).

Questi si caratterizzano come i risultati più recenti ed affidabili sugli effetti del modafinil nel trattare l’ADHD. Tuttavia il team di ricercatori ha sottolineato alcuni limiti della review. Tra i principali l’aver considerato per lo più studi con un campione piuttosto ridotto. Inoltre il dosaggio del farmaco nei vari RCT era diverso e la review, non avendo pesato l’effetto di tale discrepanza, restituirebbe dati sulla sicurezza ed efficacia del farmaco inesatti.

 

L’intervento domiciliare per i “Sepolti in casa”: quale trattamento per il disturbo da accumulo compulsivo 

Il Disturbo da Accumulo Compulsivo è, come sottolinea il nome, un disturbo caratterizzato dall’eccessiva acquisizione di oggetti, la difficoltà a disfarsi delle cose e l’ingombro. Non ha quindi a che fare con la pigrizia e può assumere intensità e gravità differenti.

Carolina Alberta Redaelli, Cristiano Farina

 

 

Cos’e’ Il Disturbo Da Accumulo Compulsivo

Negli ultimi anni l’interesse per il Disturbo da Accumulo Compulsivo è cresciuto sempre di più. Se ne parla non solo tra gli addetti al mestiere (psicologi, psichiatri, ecc) ma  siamo ormai anche abituati a trovare articoli sui giornali o addirittura programmi televisivi che trattano questo argomento.

Ma chi sono questi “sepolti in casa”? Come si può fare per aiutarli?

Innanzitutto il Disturbo da Accumulo Compulsivo è, come sottolinea il nome, un disturbo caratterizzato  dall’eccessiva acquisizione di oggetti, la difficoltà a disfarsi delle cose e l’ingombro. Non ha quindi a che fare con la pigrizia e può assumere intensità e gravità differenti. Non tutte le persone che soffrono di questo disturbo si ritrovano infatti letteralmente sepolte in casa, allo stesso tempo la vergogna legata alla propria condizione di vita e/o abitativa rende difficile la richiesta di aiuto da parte di queste persone.

Recentemente il DSM-V (APA, 2013) ha inserito il Disturbo da Accumulo Compulsivo come categoria diagnostica a parte rispetto al Disturbo Ossessivo Compulsivo. La ragione della nuova diagnosi risiede in una crescente mole di ricerche relative a questo disturbo condotte negli ultimi anni che riscontrano come l’accumulo non sia specificatamente associato al DOC, ma piuttosto una caratteristica presente in un range di disturbi psichiatrici (Steketee & Frost, 2003).

Le evidenze indicano come il trattamento standard del DOC, sia farmacologico che con terapia cognitivo-comportamentale, abbia scarsi risultati sui sintomi di accumulo compulsivo (Abramowitz, Franklin, Schwartz, & Furr, 2003;Steketee & Frost, 2003), ragion per cui negli ultimi anni è emersa la necessità di sviluppare un nuovo modello, e di conseguenza un nuovo approccio terapeutico, specifico per il disturbo da accumulo compulsivo.

Frost e collaboratori (Frost & Hartl, 1996; Steketee & Frost, 2003,2007) propongono un modello cognitivo-comportamentale dell’accumulo compulsivo che suggerisce come l’eccessiva acquisizione di oggetti, la difficoltà a disfarsi delle cose e l’ingombro, che costituiscono la sindrome da accumulo compulsivo, derivino da numerosi fattori (Steketee & Frost, 2003) tra i quali:

  1. Vulnerabilità personale, che include esperienze passate e apprendimento, stato d’animo generalmente negativo, tratti di personalità e problemi di information processing [difficoltà sostanziali di attenzione focalizzata e sostenuta (Hartl, Duffany, Allen, Steketee, & Frost, 2005), difficoltà nel categorizzare i propri averi (Wincze, Steketee, & Frost, 2006) e latenze di risposta marcatamente maggiori per prendere una decisione riguardo le propri cose (Maltby et al., 2006)];
  2. Credenze disfunzionali sul possesso e attaccamento emozionale alle cose: credenze riguardo vulmerabilità, responsabilità, controllo e affidabilità della memoria (Frost, Hartl, Christian, & Williams, 1995; Hartl et al., 2004;Steketee, Frost, & Kyrios, 2003), che a loro volta risultano in:
  3. Disagio emotivo ed evitamento: esperienze emotive negative intense (es. ansia, dolore o colpa) riguardo la prospettiva della perdita (es. disfarsi o non entrare in possesso) di un oggetto conducono all’evitamento della situazione, mentre forti emozioni positive (es. piacere, gioia) rinforzano l’acquisizione e la conservazione degli oggetti.

 

Il trattamento efficace per il Disturbo Da Accumulo Compulsivo: un ponte tra lo studio del terapeuta e il domicilio del paziente

Il trattamento proposto da Frost e collaboratori consiste di 26 sedute individuali che hanno luogo una volta a settimana.

Accanto agli incontri che si svolgono nello studio del terapeuta, grande importanza rivestono le sedute concordate al domicilio del paziente, che, secondo gli autori, devono rappresentare almeno il 25% del totale.

Dopo una prima fase di assessment multidisciplinare (condotto sia in studio che a domicilio del paziente) che porta alla formulazione di un modello cognitivo-comportamentale specifico per la condizione di ogni paziente, il terapeuta applica strategie di intervento di stampo cognitivo-comportamentale che hanno come target le tre manifestazioni dell’accumulo: l’acquisizione compulsiva, la difficoltà a disfarsi delle cose e il disordine.

Queste tecniche di trattamento consistono in:

  1. Skills training per riordinare, decision-making per scegliere e disfarsi delle cose, problem-solving e rinforzo;
  2. Esposizioni mentali e in vivo alle situazioni evitate (in particolare il disagio emotivo provato nel disfarsi di oggetti o nel non acquisirli una volta assaliti dal desiderio);
  3. Ristrutturazione cognitiva delle credenze connesse con l’accumulo: il progredire nel selezionare e rimuovere oggetti dalla propria abitazione dipende dal cambiamento di modalità di pensiero e dalla riduzione del disagio connesso, per cui è necessario alternare tra strategie cognitive ed esposizioni comportamentali.

Grande importanza viene data a strategie motivazionali (Miller & Rollnick “Motivational Interviewing: helping people change”, 2013) per valutare ed eventualmente incrementare la motivazione del paziente durante il trattamento; i pazienti con un disturbo da accumulo compulsivo infatti spesso non hanno percezione del loro disturbo, la motivazione è esterna e l’atteggiamento verso il trattamento è ambivalente.

Il paziente viene aiutato a scegliere, ordinare e buttare: si fa pratica con il terapeuta durante la seduta e poi il paziente, tramite homework, continua da solo o con la presenza di un coach che viene individuato all’interno della cerchia dei familiari o degli amici.

Il trattamento prevede anche un ultimo modulo di prevenzione delle ricadute per aiutare il paziente a continuare a fare progressi da solo e per affrontare attuali e future situazioni stressanti senza riattivare comportamenti di accumulo.

I risultati indicano come questo protocollo sviluppato da un modello cognitivo-comportamentale dell’accumulo compulsivo riduca significativamente la sintomatologia del disturbo, in particolare, in ordine di maggiore efficacia, la difficoltà a disfarsi delle cose, l’ingombro e l’acquisizione compulsiva (Tolin, Frost, Steketee, Murdoff, 2015).

 

L’importanza Dell’intervento Domiciliare

Accanto agli incontri che si svolgono nello studio del terapeuta, grande importanza rivestono le sedute concordate al domicilio del paziente, che, secondo gli autori, devono rappresentare almeno il 25% del totale. si effettuano almeno 1 volta al mese, hanno una durata di 2 ore a casa del paziente (anche possibilità di sedute- maratona di varie ore oppure un repulisti in cui ci si supervisiona una ristretta crew di ripulitori, con il permesso del paziente).

Il paziente durante la terapia  viene aiutato a scegliere, ordinare e buttare facendo pratica in studio con alcuni  oggetti, e poi anche a domicilio. Oltre che a domicilio sono previste sedute anche dove ha luogo l’ eccessiva acquisizione di oggetti (es. supermercati, discount, mercatini delle pulci, discariche…) dove il terapeuta aiuta il paziente nello scegliere, nel disfarsi delle cose e nel resistere all’acquisizione. È dimostrato che un elevato numero di sedute al domicilio del paziente correla con un migliore risultato clinico. Le sedute a domicilio producono sostanziali progressi che aumentano la motivazione, aiutano il paziente a sentirsi meno sovraccarico, e a consolidare le abilità per lavorare più autonomamente sull’ingombro rimasto (Tolin et al., 2015; Stekenee et al., 2010).

Questi pazienti mostrano solitamente un’ambivalenza di fondo verso il trattamento non percependo in toto la gravità del loro disturbo e spesso tendono a rinchiudersi in casa e ad evitare di uscire interrompendo spesso la terapia. È quindi fondamentale che il paziente “si porti a casa” la terapia, perché è quello il luogo che maggiormente beneficerà dei miglioramenti del paziente in termini di restituzione alla vivibilità di ambienti non più utilizzati perché ingombri di oggetti. Inoltre, per le condizioni in cui versano le loro abitazione, questi pazienti sono estremamente restii a ricevere persone in casa, indi per cui, con la dovuta cautela e preparazione psicologica, la visita a casa del terapeuta è essa stessa un’esposizione comportamentale a situazioni evitate.

La necessità di un aiuto al domicilio per portare avanti gli obiettivi terapeutici, si viene purtroppo spesso a scontrare con la indisponibilità– o disponibilità apparente- dei familiari, solitamente già coinvolti e incistati in dinamiche relazionali che tendono a mantenere il disturbo (se non essi stessi affetti dalla stessa problematica di accumulo compulsivo, data la frequente familiarità del disturbo) del congiunto. Diventa quindi quasi imprescindibile la presenza di una persona terza, consapevole e adeguatamente formata, che possa da un lato mediare nei contrasti e conflitti familiari che inevitabilmente si innescano, proporre un’adeguata psicoeducazione sul disturbo da accumulo compulsivo, ma soprattutto supportare il paziente nei miglioramenti avvenuti in terapia riproponendo a domicilio quanto già appreso in seduta affrontando insieme a lui le difficoltà che passo dopo passo si rilevano.

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Disturbo da accumulo: caratteristiche cliniche del Hoarding Disorder

Il Disturbo da accumulo (Hoarding Disorder) noto anche come Disposofobia, è un disturbo caratterizzato dalla tendenza all’ accumulo patologico e disfunzionale di oggetti.

Antonio Cozzi – OPEN SCHOOL Psicoterapia Cognitiva e Ricerca

 

Che cos’è il disturbo da accumulo (Hoarding Disorder)

L’Hoarding Disorder, tradotto in italiano come Disposofobia o Disturbo da Accumulo, è un disturbo caratterizzato dalla tendenza ad accumulare oggetti in maniera patologica, o disfunzionale. Il disturbo da accumulo è definito come (a) l’acquisizione e il fallimento nel liberarsi di un gran numero di beni, apparentemente inutili o di limitato valore; (b) spazi vitali ingombrati al punto tale da precludere le attività per le quali sono stati inizialmente progettati; (c) disagio significativo e compromissione del funzionamento dovuti all’accumulo (Frost & Hartl, 1996).

 

Evoluzione storica

L’emergere di evidenze a favore di una concettualizzazione del disturbo da accumulo come costrutto non del tutto dipendente dal disturbo ossessivo compulsivo ha stimolato lo studio delle sue caratteristiche cliniche. Di conseguenza, gli ultimi venti anni di ricerche sull’accumulo, hanno portato a una completa rivoluzione per quanto riguarda la concezione clinica del fenomeno.

Storicamente, esso è stato concepito come una componente di un disturbo maggiore, il Disturbo Ossessivo-Compulsivo. Negli anni ’80, era classificato all’interno del DSM III come uno dei criteri diagnostici per il Disturbo Ossessivo Compulsivo di Personalità (DOCP). Con la pubblicazione del DSM IV-TR (2000) viene invece descritto come una componente o sintomo del Disturbo Ossessivo-Compulsivo (DOC). La parabola dell’ Accumulo Patologico si conclude attualmente nel DSM 5 (APA, 2013) con la sua distinzione come categoria diagnostica a sé stante, inclusa all’interno del capitolo sui Disturbi Ossessivo-Compulsivi, ma separata dal DOC. L’inclusione all’interno di questo capitolo, tuttavia, sottolinea e considera sempre la forte associazione e le analogie tra le due condizioni cliniche, anche se i risultati della mole di lavori svolti in questo ambito hanno mostrato come vi possano essere forti associazioni anche con altre condizioni cliniche, in particolare la depressione e l’ansia, così come peculiarità specifiche dell’accumulo, che ne motivano la distinzione da altri disturbi.

 

Primi studi sul disturbo da accumulo – Il modello di Frost

La forte associazione tra accumulo e depressione, oltre che con altri domini, era stata notata da Frost e colleghi già dai primi anni ’90. Gli autori giunsero in seguito, nel 1996, alla proposta di un modello cognitivo-comportamentale che spieghi l’accumulo sulla base di 4 fattori:

  1. Deficit del processamento di emozioni;
  2. Scarse relazioni interpersonali e intelligenza emotiva;
  3. Evitamento;
  4. Credenze disfunzionali sui possedimenti.

Altre indagini hanno mostrato come il comportamento da accumulo è spesso associato a stress o traumi, violenze e separazioni nella storia dell’individuo. Le relazioni sociali e familiari sono molto ridotte. Vi sono inoltre evidenze di scarsa consapevolezza di malattia negli accumulatori e dell’egosintonicità dei sintomi.

Clinicamente il disturbo da accumulo patologico presenta tre componenti:

  1. Difficoltà a disfarsi degli oggetti (Difficulty Discarging)
  2. Acquisizione (Acquisition)
  3. Ingombro (Clutter)

 

Sintomo o sindrome?

Sebbene l’Hoarding sia comunemente associato al disturbo ossessivo-compulsivo (DOC), esso non è specificatamente menzionato nel DSM-IV-TR o nel ICD-10 come un sintomo del DOC. Nel DSM-IV-TR esso è elencato come uno degli otto criteri diagnostici del disturbo di personalità ossessivo-compulsiva (OCPD). Nella descrizione della diagnosi differenziale tra OCPD e DOC, il DSM-IV-TR afferma che una diagnosi di DOC deve essere tenuta in considerazione, soprattutto nei casi in cui l’accumulo è estremo.

Mentre vi sono pochi dubbi che l’ accumulo patologico sia un possibile sintomo del DOC o che esso sia dovuto a tipiche paure di tipo ossessivo come la paura che buttare via gli oggetti possa causare danno a se stessi o agli altri (Pertusa, Frost & Mataix-Cols, 2011), c’è una mole di evidenze che supporta l’idea che, nella maggior parte dei casi, i sintomi dell’accumulo non siano collegati al disturbo ossessivo compulsivo. Per esempio, sebbene circa il 5-10% dei pazienti con disturbo ossessivo compulsivo mostrino sintomi di accumulo, più del 80% dei pazienti con disturbo da accumulo non mostrano altri sintomi di tipo ossessivo compulsivo (Frost, Steketee & Tolin 2012; Pertusa et al., 2008; Samuels et al., 2008). Invece (Frost et al, 2012) sembrerebbe che le comorbilità più comuni tra i casi di accumulo patologico siano i disturbi d’ansia e depressivi.

L’accumulo è un comportamento che può manifestarsi quindi sia come un sintomo (prevalentemente del Disturbo Ossessivo-Compulsivo), sia come una sindrome che si evolve negli anni. Rifacendoci alla letteratura attuale, queste due manifestazioni differiscono in base all’età di esordio, alle comorbilità e al contesto psicologico (Randy A. Sansone, MD & Lori A. Sansone, MD, 2010). Come sindrome, i sintomi dell’accumulo non appaiono correlati al disturbo ossessivo compulsivo, tendono a raggiungere il culmine con l’avanzare dell’età adulta, e possono essere associati a difficoltà nell’infanzia, differenti tratti e disturbi di personalità e abuso o dipendenza da alcool (Sansone & Sansone, 2010).

Sempre secondo il DSM-V, coloro i quali soffrono di Disturbo da Accumulo conservano i propri beni in maniera intenzionale. Tale criterio differenzia il Disturbo da Accumulo da altre forme psicopatologiche in cui è presente un accumulo passivo o in cui viene a mancare il disagio sperimentato a fronte dell’eliminazione dei propri oggetti (ad es. in alcune forme di demenza) (Bernardotti, 2016).

Maier (2004) affronta questo dilemma concludendo che l’ accumulo patologico è un comportamento complesso associato a diversi tipi di contesti emotivi e cognitivi, inclusi quelli ossessivo-compulsivi. Tuttavia, mentre l’accumulo può emergere sintomaticamente nel DOC, non è presente esclusivamente in questo disturbo.

 

Il trattamento cognitivo-comportamentale per il disturbo da accumulo

Da un punto di vista terapeutico, l’’attuale trattamento cognitivo-comportamentale del Disturbo da Accumulo si focalizza principalmente sulla riduzione dei sintomi in tre macro aree: la disorganizzazione, la difficoltà nel liberarsi e nel gettare via gli oggetti personali e la tendenza ad acquisirne in eccesso. Nello specifico, il trattamento si avvale di Skill training finalizzato a rinforzare le capacità di problem-solving, decision making e di organizzazione; Esposizione graduale e Ristrutturazione cognitiva delle credenze irrazionali correlate ai comportamenti di accumulo (Bernardotti, 2016).

In aggiunta, la bassa consapevolezza frequentemente associata al Disturbo da Accumulo ha portato ad ipotizzare l’utilità di avvalersi, in aggiunta ai già citati interventi, di tecniche motivazionali e dell’ausilio di visite domiciliari (Steketee et al., 2010).

 

Il disturbo da Accumulo nel DSM – 5

Secondo la descrizione fornita dal DSM 5, la caratteristica principale del Hoarding Disorder consiste in una persistente difficoltà a disfarsi o separarsi dai propri possedimenti, indipendentemente dal loro reale valore (Criterio A). Gli individui conservano di proposito gli oggetti e sperimentano un forte stress quando si confrontano con l’idea di liberarsene (Criterio B).  Gli individui accumulano un grande numero di oggetti che riempiono e creano ingombro e in molti casi un certo disordine negli spazi quotidiani al punto che il loro utilizzo non è più possibile (Criterio C). L’accumulo causa un disagio clinicamente significativo o menomazione della sfera sociale, occupazionale o di altre importanti aree di funzionamento – incluso il mantenere un ambiente sicuro per sé e per gli altri – (Criterio D). L’accumulo infine non deve essere dovuto ad altre condizioni mediche o disturbi mentali (Criteri E e F)

 

Correlazioni con Ansia e Depressione

Approssimativamente il 75% dei pazienti con accumulo patologico ha in comorbilità un disturbo dell’umore o d’ansia. Le condizioni più comunemente associate sono la depressione maggiore, il disturbo d’ansia sociale (fobia sociale nel DSM IV-TR) e il disturbo d’ansia generalizzata (Steketee et al., 2000, Frost, Steketee, Williams, and Warren, 2000, Gail Steketee & Randy Frost 2003). In generale, molti studi hanno mostrato come gli individui con comportamenti d’accumulo riportano maggiori sintomi di ansia e depressione, oltre che un funzionamento più povero (Frost, Steketee, Williams, & Warren 2000; Samuels et al., 2002).

Va tuttavia notato come circa il 20% degli hoarders presentano sintomi che soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo ossessivo compulsivo, questo tasso è significativamente maggiore rispetto alla presenza del disturbo nella popolazione generale (1-2%), il che suggerisce che sebbene il disturbo da accumulo sia distinto dal DOC, esso vi rimane comunque molto legato (Frost, Steketee, Tolin, 2011). Gli autori, inoltre, hanno confermato tali dati, mostrando come all’interno di campioni clinici, la depressione maggiore sia la condizione di comorbilità più frequentemente diffusa tra gli hoarders. La diagnosi veniva infatti effettuata a più della metà del campione, apparendo molto più comune nell’hoarding che nel disturbo ossessivo compulsivo.

Anche se in maniera meno frequente, anche il disturbo d’ansia generalizzato e la fobia sociale sono state diagnosticate in circa un quarto dei casi di hoarding, con percentuali simili ai campioni di pazienti ossessivo compulsivi.

Altri sintomi emotivi e cognitivi, trovati frequentemente in gruppi di accumulatori, sono alti livelli di inattenzione e iperattività, indecisione, fallimenti cognitivi, ansia e scarso autocontrollo. La povertà di strategie di controllo e regolazione emotiva, suggerisce a sua volta un’alta probabilità di uso di strategie esterne (non adattive) per regolare l’umore (Hall, Frost, Tolin, Steketee, 2013).

Un studio da me svolto su un campione psichiatrico italiano, con diagnosi afferenti principalmente alle sfere dell’ansia e dell’umore, ha evidenziato la considerevole diffusione del disturbo da accumulo tra i Disturbi Depressivi e i Disturbi d’Ansia e la frequente associazione a un Disturbo di Personalità.

L’analisi delle correlazioni ha mostrato come l’ accumulo patologico e le sue componenti di ingombro, difficoltà a disfarsi e acquisizione, siano associate significativamente all’ansia e alla depressione, in misura pari o superiore rispetto ai sintomi ossessivo-compulsivi (Cozzi, 2014).

 

Differenze tra Disturbo Ossessivo Compulsivo e Disturbo da Accumulo

I recenti studi hanno portato a una serie di dati che hanno motivato il passaggio dell’ accumulo compulsivo da criterio per il DOC a una categoria diagnostica specifica (Mataix-Cols et al., 2010; Pertusa et al. 2010; Rachman, Elliott, Shafran & Radomsky, 2009; Saxena, 2008). Le evidenze più significative sono le seguenti:

  • Le correlazioni tra hoarding e sintomi tipici del DOC sono del tutto comparabili con quelle dell’ansia e della depressione (Abramowitz, Wheaton & Storch,2008; Williams, Haslam, Abramowitz & Tolin 2008).
  • Un numero importante di soggetti con hoarding grave non riportano altri sintomi ossessivocompulsivi (Pertusa et al., 2008; Samuels et al., 2008).
  • A differenza dei sintomi del DOC, quelli relativi all’hoarding peggiorano in maniera cronica col passare degli anni (Ayers, Saxena, Golshan & Wetherell, 2009; Grisham et al., 2006).
  • La sofferenza negli hoarders non appare immediatamente ed è solitamente associata all’intervento di terzi. A differenza del DOC, l’hoarding è caratterizzato da scarso insight..
  • I sintomi tipici del DOC sono associati a stati d’ansia e non sono preceduti né seguiti da alcuna emozione positiva: una sequenza esemplificata di ossessioni e compulsioni inizia con pensieri involontari ed intrusivi seguiti da un comportamento compulsivo teso a calmare il disagio prodotto dal pensiero ossessivo. Nell’hoarding, di solito, sono le emozioni positive che portano all’accumulo, mentre le emozioni negative (colpa, vergogna, ansia) subentrano in un secondo momento, ovvero quando il soggetto si trova a doversi disfare degli oggetti, o limitarne l’acquisizione.
  • Scansioni cerebrali hanno rivelato differenti attivazioni cerebrali (Frost & Hartl, 1996; Steketee & Frost, 2003)
  • Gli accumulatori non rispondono agli stessi trattamenti dei soggetti con DOC e sono caratterizzati da un’invalidità familiare e sociale più grave.

 

Conclusioni

Passando in rassegna i risultati di diversi studi dunque, l’accumulo, come sintomo, si manifesta con un esordio precoce, spesso associato ad ulteriori ossessioni e compulsioni, ed in frequente comorbilità con disturbi d’ansia e dell’umore.

In conclusione, gli ultimi 20 anni di ricerca hanno portato sempre maggiori evidenze della forte correlazione tra i comportamenti di accumulo patologico e la sintomatologia ansiosa e depressiva, spostando l’attenzione dal disturbo ossessivo compulsivo, al quale era profondamente legata. Tale dato può avere una profonda importanza dal punto di vista dello sviluppo e l’implementamento di modelli terapeutici che tengano conto delle caratteristiche cliniche associate a questi disturbi.

“Bisogna fare qualcosa”. In memoria di Umberto Veronesi

Ho conosciuto Umberto Veronesi nel marzo 2006. Sarà stato il 15, giorno più, giorno meno. Una settimana prima a mia moglie era stato diagnosticato un carcinoma mammario bilaterale con nove metastasi epatiche. Non la prendemmo come una bella notizia.

Mia figlia aveva tre anni e mezzo, mio figlio quattro mesi e mia moglie lo allattava, cosa che la faceva sentire benissimo, non ci avrebbe rinunciato per nulla al mondo. I primi giorni furono carichi di un’angoscia senza fine, come è lecito aspettarsi. Gli amici e i colleghi di allora furono preziosi e di aiuto oltre l’immaginabile e il fatto che il mio percorso personale e professionale si sia separato da quello di molti di loro non altera la gratitudine per l’aiuto che mi hanno dato.

Una settimana dopo mia moglie Anna e io ci troviamo nello studio di Milano, carichi di ogni sorta di esame strumentale e pronti a ricevere una sentenza di morte. Non sembri un’iperbole, di quello si trattava. Entriamo con una mezz’ora di ritardo, eravamo preparati ad attendere molto più a lungo.

Veronesi ci accoglie con gentilezza e a me fa subito un’impressione che nessuno mi aveva mai suscitato. “Quest’uomo irradia luce” penso. Una forza positiva, un carisma che non pensavo esistessero. Avevo letto descrizioni simili sui libri che parlano di eroi o capi amati dal popolo, ma che io potessi pensarlo di qualcuno che mi fossi trovato di fronte non l’avevo messo in conto.

Senza parlare granché, mi pare inforcando gli occhiali, ma posso sbagliare, consulta i referti. Ci pensa un po’. In quei momenti ogni secondo si divide all’infinito. Poi ci chiede, rivolgendosi soprattutto ad Anna: “Perché siete venuti qui?”. Nessuno dei due fa in tempo a formulare una risposta sensata prima che lui risponda da solo: “Perché vi hanno detto che bisogna fare qualcosa”. Vero. Ma in realtà pensavamo di sentirci dire che la situazione era tragica. Non l’avevamo articolata nei termini di “bisogna fare qualcosa”. E risponde alla domanda che ci aveva suggerito e che né io né mia moglie avevamo contestato: “E faremo qualcosa”. Ci spiega i vari passi da affrontare, le opzioni terapeutiche a disposizione e gli strumenti che avremmo potuto usare se proprio i primi interventi non fossero stati risolutivi. Conclude con un: “Lo mettiamo a posto”. Mi stringe la mano e poi rivolge ad Anna un sorriso che comprende l’universo e l’abbraccia.

Usciamo dallo studio increduli. Entriamo per ricevere una sentenza di morte, usciamo a prenderci un gelato enorme per le vie del centro di Milano.

Tra speranze, angosce e strazi mia moglie sopravvisse tre anni e tre mesi, in realtà più di quanto era ragionevolmente immaginabile data la gravità della situazione di partenza. Per qualche momento fu anche dichiarata guarita e così sarebbe stato se le cellule tumorali non avessero colonizzato il cervello.

A posteriori si potrebbe dire che non lo mettemmo a posto.

Ma io da quell’incontro sono uscito cambiato per sempre, come persona e, soprattutto, come psicoterapeuta.

Veronesi aveva di fronte una paziente affetta da una malattia grave, al limite della curabilità. Eppure ci lasciò un messaggio che era solo speranza e azione. Niente metafore belliche: è una guerra, bisogna lottare. Parole semplici invece, orientate al futuro, ottimistiche, frasi che indicavano azione.

Di comunicazione realistica solo l’ombra. Ed è quello stile che consentì a me e mia moglie di respirare e di sopportare i primi mesi della malattia, fino a che non vedemmo che di fatto le cure stavano facendo un effetto pazzesco (per una lunga prima fase la risposta fu eccezionale e quindi noi vivevamo). Stampato nella mia mente, il volto e la presenza – era anche molto alto, lo dice uno di 1,86 – di Veronesi.

Da allora non c’è prima visita, non c’è restituzione della diagnosi in cui io non ricordi quell’incontro e me ne lasci guidare. Da allora non riesco a comprendere le azioni dei colleghi che pensano sia doveroso dire al paziente: “Lei soffre di schizofrenia. Ha un disturbo bipolare. Sono condizioni che si possono solo contenere, ma deve fare i conti con questa diagnosi e dovrà prendere farmaci per tutta la vita”. Sarà vero, sarà falso, non importa. Ho visto l’impatto che ha un certo modo di comunicare la diagnosi, di prefigurare il percorso terapeutico.

Riesco, da quel giorno, solo a dire ai pazienti che conosco per la prima volta: “Lei spera di essere apprezzato. Amato. Di agire con autonomia. Di sentirsi parte della società. Teme che ci siano ostacoli che non glielo consentiranno e questo la preoccupa, la angoscia, la butta giù. Ci sono questi ostacoli, è vero, ma la terapia la aiuterà a rimuovere questi ostacoli e cercheremo di ridarle una vita in cui potrà vedere la possibilità di realizzare questi desideri”. Il mio modo di dire: “Lo mettiamo a posto”. Non gli prometto che realizzeranno quei desideri naturalmente, solo li guido nell’immaginare che davanti a loro ci sia una strada rischiarata da una luce.

Ne ho fatta una pratica di vita, un fondamento della cura. Cerco di insegnarla ai miei allievi. Io so da chi l’ho appreso.

Gli effetti a lungo termine dell’anestesia sui bambini

Secondo uno studio dell’ American Society of Anesthesiologists (ASA), l’anestesia sui bambini (dalla nascita all’età di 2 anni) non influisce sui risultati nei test di sviluppo.

Mariagrazia Zaccaria

 

Secondo lo studio i bambini che dalla nascita all’età di 2 anni sono esposti ad anestesia generale hanno nei test di sviluppo, gli stessi risultati dei bambini che non sono stati esposti ad anestesia generale.

Lo studio infatti fornisce delle rassicurazioni per quanto riguarda l’assenza di effetti a lungo termine sulla crescita neurologica, nei bambini esposti ad anestesia generale. Ogni anno sono milioni le procedure di anestesia sui bambini effettuate per sottoporli ad interventi chirurgici.

 

Anestesia sui bambini: lo studio dell’American Society of Anesthesiologists

E’stato notato che se il cervello in via di sviluppo degli animali è sottoposto ad anestetici è possibile registrare delle anomalie riguardanti l’apprendimento e la memoria. L’effetto nei bambini però non è chiaro, certo è che una singola esposizione non causa nessun danno, sono le esposizioni multiple che sono associate ad un aumento di rischio di deficit neurologico.

Nello studio sono stati confrontati i test di più di 4000 bambini esposti ad anestesia prima dei 4 anni, con i test di circa 3000 bambini che non hanno subito esposizioni ad anestesia.

I ricercatori hanno scoperto che i bambini con una età compresa dai 0 ai 2 anni che erano stati esposti ad anestesia singola o multiple non presentavano nessuna significativa differenza con chi non aveva subito anestesia. Mentre, i bambini che avevano subito una sola, esposizione anestetica dai 2 ai 4 anni, mostrano dei lievi deficit nei test di lingua e cognizione rispetto a chi non subiva anestesia.

Questo dato evidenzia come, se effettuata tra i 2 e i 4 anni (fascia d’età più sensibile), l’anestesia sui bambini porterebbe allo sviluppo di danni neurologici.

Ruth Graham, autore principale di questo studio, sostiene:

Questi risultati suggeriscono che le preoccupazioni che emergono dagli studi su animali, non possono essere applicate automaticamente sui bambini. Anche se sono necessarie ulteriori ricerche per verificare i fattori specifici che provocano i deficit che sono stati riscontrati nei bambini tra i 2 e i 4 anni, questo studio ci fa capire che sottoporre i bambini molto piccoli ad anestesia generale non significa che questi svilupperanno dei deficit neurologici.

 

 

Falsi ricordi: quando la memoria crea ricordi di informazioni mai ricevute

I falsi ricordi nascono come effetto collaterale dei meccanismi di base con cui si formano i veri ricordi. In breve, più una persona sa di un certo argomento, più ricordi relativi vengono immagazzinati in memoria. Quando si incontrano nuove informazioni su questo argomento, si possono innescare tracce di memoria simili a quelle già immagazzinate Ciò può comportare un senso di familiarità o di riconoscimento del nuovo materiale, che porta alla convinzione che l’informazione sia stata rilevata in precedenza e sia in effetti una memoria esistente.

 

Come funziona la mente umana e la creazione di falsi ricordi

La memoria umana non funziona come una videocassetta il cui nastro può essere riavvolto e rivisto, consentendo ad ogni visione di rivivere gli eventi sempre nello stesso ordine. Al contrario, i ricordi sono soggetti ad una ricostruzione continua ogni qualvolta vengono richiamati in memoria, cosicché diversi elementi della traccia mnemonica possono essere modificati, aggiunti o eliminati dopo ogni nuova rievocazione.

Questa forma di elaborazione è alla base dei “falsi ricordi” ossia quel fenomeno per cui una persona possiede chiari ed evidenti ricordi di un evento che, tuttavia, non ha mai sperimentato. Un ricordo non autentico, che può essere totalmente inventato, derivare da altri ricordi reali parzialmente alterati o essere frutto dell’aggregazione di vari frammenti di memorie distinte che vengono ricombinati insieme. Il fenomeno dei falsi ricordi è molto comune e ci sono alcuni fattori che possono aumentarne la frequenza. Un recente studio condotto da Anthony O’Connell e Ciara M. Greene, pubblicato su Memory, ha dimostrato che il forte interesse verso un particolare argomento può raddoppiare le probabilità di sperimentare un falso ricordo.

Precedenti ricerche avevano già evidenziato che gli esperti di alcuni settori come ad esempio gli investimenti o il football americano, potrebbero sperimentare più facilmente falsi ricordi sulle loro aree di competenza. Le motivazioni suggerite sono molteplici. Alcuni ricercatori hanno suggerito che l’ampia conoscenza di un argomento aumenta le probabilità che una persona riconosca correttamente nuove informazioni simili alle informazioni precedentemente sperimentate. Un’altra interpretazione suggerisce che gli esperti ritengono di dover sapere tutto sul loro argomento di competenza, pertanto il loro senso di responsabilità per i giudizi espressi in qualità di esperti li indurrebbe a “colmare le (eventuali) lacune” nella loro conoscenza con plausibili, ma false informazioni.

 

Lo studio

Per approfondire ulteriormente questa spiegazione, gli autori dello studio hanno chiesto a 489 partecipanti di ordinare sette argomenti (calcio, politica, economia, tecnologia, cinema, scienza e musica pop) dal più interessante al meno interessante. Ai partecipanti è stato poi chiesto se ricordavano gli eventi descritti da quattro notizie relative all’argomento selezionato come più interessante e gli eventi descritti da quattro notizie relative all’argomento indicato come meno interessante. In entrambi i casi, tre degli eventi riportati dalle notizie erano realmente accaduti, mentre uno era frutto di invenzione.

I risultati ottenuti hanno mostrato che l’interesse per un argomento aumenta la frequenza di ricordi precisi. Tuttavia, aumenta anche il numero di falsi ricordi (il 25% dei partecipanti ha sperimentato un falso ricordo in relazione ad un argomento interessante, rispetto al 10% di errori commessi nell’argomento meno interessante). È importante sottolineare che ai partecipanti non è stato chiesto né di identificarsi come esperti né di scegliere a quali argomenti rispondere; è pertanto improbabile che l’aumento di falsi ricordi sia dovuto al senso di responsabilità per i giudizi espressi su un argomento specialistico.

 

Discussione dei risultati

L’interpretazione fornita dagli autori supporta la teoria secondo cui i falsi ricordi nascono come effetto collaterale dei meccanismi di base con cui si formano i veri ricordi. In breve, più una persona sa di un certo argomento, più ricordi relativi vengono immagazzinati in memoria. Quando si incontrano nuove informazioni su questo argomento, si possono innescare tracce di memoria simili a quelle già immagazzinate Ciò può comportare un senso di familiarità o di riconoscimento del nuovo materiale, che porta alla convinzione che l’informazione sia stata rilevata in precedenza e sia in effetti una memoria esistente.

Ecco un esempio: immaginate di essere molto interessati agli orsi polari: leggete riviste di natura e guardate documentari naturalistici. Un giorno, un amico vi racconta un articolo che ha letto l’anno scorso che descriveva un orso polare impigliato nella rete da pesca di un peschereccio. Nonostante non abbiate mai sentito questa storia, si innescano in voi ricordi associati riguardanti l’estinzione degli orsi polari e preoccupazioni per la pesca a strascico nell’Artide (tecnica di pesca in cui una rete viene trainata attivamente sul fondo del mare). La storia suona familiare a tal punto da convincervi che, in effetti, a quel tempo avevate davvero sentito parlare della notizia: più informazioni si hanno sul tema, più alta sarà la probabilità che le nuove informazioni attivino i vecchi ricordi associati.

La ricerca ha importanti implicazioni sul modo in cui tradizionalmente pensiamo la memoria. La maggior parte delle persone sono abbastanza fiduciose nelle capacità della propria memoria, ma incappano in falsi ricordi con più frequenza di quanto si rendano conto. Nonostante ciò che sarebbe logico credere, i risultati di questo studio suggeriscono che sebbene l’interesse per un argomento aumenti la consapevolezza a riguardo, i ricordi che ne derivano non sempre sono affidabili.

De Chirico: le fasi pittoriche e l’influenza dell’aura emicranica

Le scelte estetiche di De Chirico, durante l’intero arco dell’attività artistica, non furono libere, ma determinate da una malattia che il pittore non sapeva di avere; in altre parole il fattore estetico dechirichiano va analizzato tenendo conto di una base neurologica: l’artista, infatti, soffriva di aura emicranica, una malattia che non gli fu mai diagnosticata. L’aura emicranica si manifesta con algie gastriche e dolori addominali, visioni ed allucinazioni.

 

Giorgio De Chirico: la biografia e le fasi pittoriche

Giorgio De Chirico (1888-1978), uno dei principali esponenti della corrente artistica della pittura metafisica, era un uomo dal carattere difficile: era sovente malinconico e scontroso, inoltre era oltremodo egocentrico e talmente vanitoso da considerarsi il più grande pittore di tutti i tempi e firmare molte delle sue opere come “Pictor Optimus”.

L’opera pittorica di De Chirico si svolge nell’arco di circa settant’anni, a partire dal 1909 e fino quasi alla sua morte ed attraversa diverse fasi, che vengono scandite da alcuni eventi della vita del pittore: dalla relazione con la madre e il fratello Savinio, dall’incontro con le opere di Nietzsche e Schopenhauer, dalle relazioni sentimentali con Raissa ed Isabella.

Il ciclo pittorico della Metafisica (1909-1918) è ritenuto universalmente quello migliore quanto ad espressione artistica e può considerarsi il prodotto finale dell’ elaborazione del lutto paterno, della collaborazione invidiosa con il fratello Alberto e della lettura di Nietzsche.

La seconda fase pittorica di De Chirico – definita “neoclassica”- ha inizio intorno al 1920: appartengono a questo periodo, per esempio, il “ciclo dei Gladiatori” (1926-1929), che è la manifestazione artistica della conflittualità con il fratello Savinio, anch’egli pittore e i “Mobili nella Valle”(1926-1929), che richiamano gli stressanti spostamenti di residenza decisi dalla madre per inseguire il successo musicale del figlio Alberto.

Giorgio De Chirico era ossessionato dai traslochi, dal continuo spostarsi e quindi dalla mancanza di una casa come punto di riferimento solido e sicuro ed era ossessionato anche dal ricordo infantile di mobili e materassi portati all’esterno delle abitazioni, nella piazza, a causa di una serie di terremoti che sconvolsero la Grecia, mentre Giorgio viveva, da bambino, in quella terra con la famiglia.

Ecco come lui stesso ricorda quegli episodi: [blockquote style=”1″]Gli abitanti del quartiere, compresi noi, portavano i materassi fuori, in piazza, per dormire all’aperto. Anche in quell’occasione il cuoco Nicola si prodigò in mille modi; portava fuori materassi, valigie e perfino alcuni mobili e la mattina riportava tutto in casa; inoltre si occupava di me e di mio fratello come una vera bambinaia[/blockquote] (Memorie della mia vita, 1945).

La terza fase pittorica di De Chirico, infine, (il cosiddetto periodo neometafisico) ha inizio nel secondo dopoguerra e durerà fin quasi alla morte dell’artista ed è un vero e proprio ritorno alla tradizione. In questo periodo, infatti, il pittore si rende conto che la critica ed il pubblico apprezzano maggiormente le sue opere iniziali e che sono proprio queste ad essere maggiormente valutate da un punto di vista economico. In questo periodo De Chirico, oltre a riprodurre moltissime versioni delle primissime opere, comincia a falsificare la data di produzione degli ultimi dipinti: retrodata, cioè, l’opera con la speranza che ottenga una maggiore valutazione economica, ma anche per prendersi gioco di quei critici d’arte che, a suo avviso, non erano in grado di apprezzare i suoi ultimi lavori.

 

L’influenza dell’aura emicranica sulle scelte estetiche di De Chirico

Le scelte estetiche di De Chirico, durante l’intero arco dell’attività artistica, non furono libere, ma determinate da una malattia che il pittore non sapeva di avere; in altre parole il fattore estetico dechirichiano va analizzato tenendo conto di una base neurologica: l’artista, infatti, soffriva di aura emicranica, una malattia che non gli fu mai diagnosticata. L’aura emicranica si manifesta con algie gastriche e dolori addominali, visioni ed allucinazioni.

Quella di cui soffriva De Chirico era un’emicrania aura particolare, che prende il nome di “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie”, un disturbo neurologico che interessa la sfera percettiva, portando l’individuo a percepire in modo irreale le dimensioni di alcune parti del suo corpo e degli oggetti esterni: proprio come Alice nel romanzo di Lewis Carroll, ci si ritrova di fronte a stati di accrescimento o di riduzione del proprio corpo o di ciò che ci circonda, sicchè chi soffre di questo disturbo subisce una forte distorsione della realtà, con conseguente disorientamento e deformazione dei sensi. Così come fu descritta da Todd nel 1955, la AIWS (Alice in Wonderland Syndrome) denota una serie di disturbi parossistici dello schema corporeo (sintomi essenziali dell’AIWS), che possono essere correlati a fenomeni di depersonalizzazione, illusioni visive ed alterazioni nella percezione del tempo (sintomi accessori dell’AIWS).

Giorgio De Chrico non sapeva di essere affetto dalla “Sindrome di Alice nel Paese delle Meraviglie”, anche se, in “Memorie della mia vita, scrive di essere affetto da dolori addominali e crisi gastrointestinali e parla di “coliche saturnine”, facendo riferimento alla teoria rinascimentale secondo cui i geni nascono sotto il segno di Saturno. Inoltre, in un breve scritto dedicato a Carlo Carrà, De Chirico racconta l’esperienza della cefalea attraverso un “sogno lucido”: “Dormo. Porto l’elmo del palombaro. Il pulsare del mio cervello si spacca in tante bollicine sulla piattaforma laccata del mio settimo soffitto”.

I sintomi che influenzarono profondamente (anche se inconsapevolmente) l’arte di De Chirico furono le aure visive ed i disturbi di coscienza determinati da “deja vu” (già visto), “deja vecu” (già vissuto) e “jamais vu” (mai visto), ovvero un’alterazione dello stato di coscienza che conduce ad un’erronea percezione della realtà, come se l’individuo avesse già visto o vissuto una situazione per lui nuova o, viceversa, mai visto una situazione a lui nota. De Chirico, pur non conoscendo il significato clinico di tali fenomeni, percepì comunque la loro importanza nella genesi della propria arte e definì “rivelazioni” le alterazioni di coscienza e “febbri spirituali” le manifestazioni auratiche. L’artista, non essendo a conoscenza della propria malattia e non essendo neppure uomo di fede, attribuì a tali manifestazioni un carattere gioioso, creativo e raro e considerò i sintomi della malattia come sogni premonitori, attribuendosi delle facoltà superiori di chiaroveggenza, ciò anche in relazione all’influenza esercitata su di lui da Nietzsche e dall’idea di Übermensch, ovvero l’Oltreuomo (o Superuomo, in una traduzione più diffusa ma forse meno precisa ed efficace).

Il Disturbo Oppositivo Provocatorio: strategie di intervento

Il disturbo oppositivo provocatorio (DOP) è un disturbo del comportamento che si manifesta in bambini di età scolare o prescolare ed è caratterizzato da umore collerico e irritabile e da comportamenti vendicativi e oppositivi,  che si verificano in modo frequente per un periodo di almeno sei mesi.

Alessandra Ascenzi , Francesca Damen – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi

 

Che cos’è il Disturbo oppositivo provocatorio

I criteri diagnostici specificano inoltre che la sintomatologia deve manifestarsi tutti i giorni per almeno sei mesi per bambini al di sotto dei 5 anni e almeno una vota a settimana nei casi di esordio oltre i 5 anni (APA, 2014).

Il bambino affetto da disturbo oppositivo provocatorio litiga spesso con adulti e coetanei, si rifiuta di rispettare le richieste e le regole, spesso ride se sgridato, irrita deliberatamente gli altri e li accusa dei proprio errori. Questa modalità di comportamento compromette significativamente il funzionamento sia a casa che a scuola, interferendo negativamente nel rapporto con insegnanti e genitori, nonché nella relazione con i coetanei. A seconda della gravità questo disturbo può colpire uno solo o tutti gli ambiti indicati (APA, 2014).

Sono state avanzate diverse ipotesi per spiegare l’eziologia del disturbo oppositivo provocatorio; alcune di esse fanno rifermenti a fattori di rischio di tipo temperamentale, come un’elevata reattività emozionale, una scarsa tolleranza alla frustrazione o tratti di iperattività (Bates, Bayles, Bennett, Ridge, & Brown, 1991).

Altre ipotesi attribuiscono invece una rilevanza maggiore ad aspetti di natura ambientale, quali pratiche educative troppo rigide e incoerenti (Bearss& Eyberg & Hoza, 2002), una instabilità familiare o l’esposizione a cambiamenti particolarmente stressanti (Cambpbell, 1998) nonché trascuratezza o abusi.

In particolare, si ritiene che un’educazione troppo rigida possa instaurare un circolo vizioso in cui viene posta maggiore attenzione agli aspetti comportamentali problematici del bambino. In questo modo il bambino stesso fa sua l’immagine del bambino “cattivo” e ciò lo porta, per effetto paradosso, a reiterare maggiormente i comportamenti indesiderati. D’altro canto il mancato rinforzo di azioni positive rischia di farle passare in secondo piano così che il bambino si senta meno incoraggiato a metterle in atto (Farrugia et al, 2008).

Inoltre, se all’interno della famiglia sono presenti dinamiche aggressive come violenti litigi o addirittura percosse, è possibile che il bambino assuma il modello appreso dalle figure di riferimento e lo riproponga anche in altri contesti come quello dei pari.

Il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente si presenta in comorbidità con altre psicopatologie dell’età evolutiva. E’ stato evidenziato, in particolare come si manifesti spesso in associazione al disturbo da deficit di attenzione e iperattività (Loeber & Keenan, 1994).

Rispetto alla prognosi, se sviluppato durante l’infanzia il disturbo oppositivo provocatorio frequentemente esita in un disturbo della condotta, sopratutto se i sintomi predominanti sono quelli relativi alla provocatorietà e la vendicatività. Tuttavia non tutti i bambini con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio sviluppano successivamente un disturbo della condotta (APA,2014).

Per i soggetti caratterizza da una predominanza dei sintomi legati alla collera e all’irritabilità è maggiormente probabile l’emergere di un disturbo emotivo.

In generale i bambini con disturbo oppositivo provocatorio sono maggiormente esposti al rischio da adulti di sviluppare di problemi nel controllo degli impulsi, abuso di sostanze, ansia e depressione (Hanish, Tolan,& Guerra 1996). Tale rischio rende fondamentale intervenire, a seguito della diagnosi, con un trattamento precoce e specifico.

 

Trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Si riportano diverse tipologie di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che coinvolgono sia il bambino che la coppia genitoriale. Generalmente si predilige la combinazione di interventi che in letteratura hanno mostrato maggiore efficacia, ovvero quelli focalizzati sul fornire strategie educative più adeguate ai genitori, sul potenziare le competenze relazionali del bambino, le sue capacità di problem solving e di gestione della rabbia.

Inoltre nei casi di maggior compromissione può essere valutato il ricorso anche a una terapia farmacologica.

Frequentemente la tipologia di trattamento si differenzia sulla base della fascia di età dei soggetti coinvolti. Per i bambini in età prescolare l’intervento spesso si concentra solo su una psico-educazione rivolta ai genitori; per l’età scolare invece risulta maggiormente efficace un lavoro che coinvolga la scuola oltre che un intervento di psico-educazione genitoriale ed una terapia individuale con il bambino. Infine per gli adolescenti la modalità più efficace di trattamento risulta quella della terapia individuale associata ad un parent training (AACAP, 2009).

In tutte  le fascia di età, l’intervento individuale basato sul potenziamento delle competenze di problem solving si è dimostrato ampiamente efficace nel migliorare il comportamento di bambini e adolescenti con diagnosi di disturbo oppositivo provocatorio (AACAP, 2009).

 

Parent-management training

L’intervento rivolto ai genitori produce risultati significativi nella riduzione dei comportamenti sintomatologici del disturbo oppositivo provocatorio in tutti i gruppi d’età. Il parent-management training insegna ai genitori in modo pratico a fronteggiare i comportamenti del proprio figlio in modo positivo e prevede tecniche disciplinari e una supervisione adatta all’età del bambino. Questa modalità di trattamento di fonda sui seguenti principi (ACCAP, 2009):

  • Incrementare positivamente il parenting attraverso una supervisione supportiva e coerente;
  • Favorire l’instaurarsi di una disciplina autorevole;
  • Diminuire le pratiche parentali inefficaci, come l’uso di punizioni dure o che si focalizzano sui comportamenti negativi;
  • Favorire la capacità di attuare punizioni adeguate dei comportamenti oppositivi/distruttivi;

Il Substance Abuse and Mental Health Services Administration (SAMHSA) del US Health and Human Services (US-HHS) ha segnalato come efficaci diverse tipologie di parent training:

  • Incredible years (per bambini fino agli 8 anni)
  • Triple P Positive Parent Trainig (per ragazzi fino ai 13 anni)
  • Parent-Child Interaction Therapy (PCIT) (per bambini fino agli 8 anni)
  • Center for Collaborative Problem Solving (per ragazzi fino ai 18 anni)
  • The Adolescent Transitions Program (ATP) (per ragazzi dagli 11 ai 13 anni)

Tra questi, la parent child interaction therapy (PCIT) presenta una caratteristica particolare in quanto, a differenza di altri percorsi di psicoeducazione, prevede il coinvolgimento non solo della coppia genitoriale ma anche del bambino.

Il  PCIT è stato pensato per bambini dai 2 agli 8 anni, con un ampio raggio di comportamenti ed emozioni problematiche in concomitanza a difficoltà familiari, diviso in due fasi precise: la Child-Directed Interaction (CDI) e la Parent-Directed Interaction (PDI).  La prima fase si concentra sul bambino e sul potenziamento dell’attaccamento sicuro genitore-figlio, la seconda sottolinea l’importanza di un uso coerente della disciplina e delle direttive impartite dal genitore.

I fondamenti teorici del CDI si ritrovano nella teoria dell’attaccamento e nel principio secondo il quale negli anni prescolari il bambino è più suscettibile alle risposte date dal genitore piuttosto che a quelle fornite dai pari o dalle figure di riferimento scolastiche e ciò influenza in modo determinante le sue risposte comportamentali (Eyberg, Schumann, & Rey, 1998). Si ritiene inoltre che i comportamenti problematici siano mantenuti da uno stile relazionale coercitivo che si instaura nella diade genitore-figlio, in cui entrambe le parti cercano di sovrastare e controllare il comportamento dell’altro (Patterson, DeBaryshe, & Ramsey, 1989).

Lo scopo del trattamento è quello di ridurre i comportamenti problematici attraverso l’insegnamento di nuove modalità di rinforzo positivo che il genitore potrà attuare con il figlio, così da aumentare il senso di efficacia di quest’ultimo. L’ acquisizione di queste tecniche avviene in un setting in cui il terapeuta guida attivamente il caregiver. In questo modo l’adulto riceve un feedback immediato sull’efficacia dei rinforzi appresi e sarà poi in grado di ripeterli autonomamente anche all’interno del contesto domestico.

Sono previste sessioni settimanali di un’ora, per un trattamento medio di circa 14 incontri (con un minimo di 10 e un massimo di circa 20 sedute), tuttavia i genitori proseguono l’intervento fino a quando non mostrano di aver imparato a padroneggiare adeguatamente il metodo.

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto al bambino sono:

  • Costruire una relazione genitore-figlio basata su strategie positive di attenzione;
  • Abbassare il livello di frustrazione e rabbia del bambino;
  • Aiutare il bambino a sentirsi al sicuro e calmo nella relazione col caregiver;
  • Accrescere l’autostima del bambino e le sue competenze nel gioco (Hood & Eyberg, 2003).

Gli obiettivi principali della terapia parent-child interaction rispetto all’adulto sono:

  • Insegnare al genitore tecniche specifiche che possano aiutare il bambino ad ascoltare le istruzioni e a seguire le consegne;
  • Aiutare i genitori a sviluppare maggior confidenza nella gestione dei comportamenti del figlio sia a casa che in pubblico;
  • Insegnare al genitore a comunicare con un bambino con attenzione relativamente breve;
  • Educare il genitore a insegnare nuove competenze al proprio figlio senza che questo causi frustrazione in entrambi (Hood & Eyberg, 2003).

Nella pratica questa terapia viene condotta in un setting che prevede due stanze connesse l’una con l’altra attraverso uno specchio unidirezionale cosicché il terapeuta possa coadiuvare l’interazione della diade senza interferirvi.

Per entrambe le fasi CDI e PDI sono previsti momenti di psicoeducazione dove vengono spiegati i fondamenti teorici alla base delle nuove abilità relazionali che verranno insegnate ai genitori, a ciò si alternano modeling e role-playing.

Nel corso della CDI  si incrementa la capacità dell’adulto di dare attenzione positiva e di rinforzo ai comportamenti positivi del figlio riservando minor peso a quelli negativi.

Vengono fornite delle indicazioni su frasi di lode che il genitore può usare per rinforzare  i comportamenti desiderabili, contemporaneamente viene spiegato come parafrasare e mettere in parola il linguaggio del bambino, così che esso riesca ad esprimere attraverso il canale verbale le sue emozioni e trovare quindi sfogo anche attraverso le parole e non solo agendo azioni distruttive. (Herschell et al., 2002)

Al fine di non focalizzare troppo l’attenzione sui comportamenti negativi viene consigliato di evitare comandi eccessivamente fermi, domande o critiche che possano essere vissute come troppo intrusive.

In seguito alla prima sessione terapeuta e genitore comunicano attraverso un set wireless dove il terapeuta è fornito di microfono e il genitore di un auricolare, è così possibile una comunicazione attiva dove il terapeuta consiglia passo dopo passo le tecniche specifiche.

I primi cinque minuti di ogni sessione vengono registrati per controllare l’andamento dell’apprendimento, riportando ogni abilità specifica in un grafico che serve da immediato feedback. Sono inoltre previsti degli homework che consistono in 5 minuti al giorno di interazione bambino-genitore nei quali quest’ultimo possa mettere in pratica le competenze apprese in seduta (Chaffin, Funderburk, Bard, Valle & Gurwitch, 2011).

La parent child interaction therapy offre la possibilità di partecipare a sessioni di gruppo (90 minuti) nelle quali sono presenti 3 o 4 famiglie e in cui si lavora per circa 20 minuti con ogni diade mentre il resto dei genitori osservano e forniscono a loro volta feedback.

L’efficacia della PCIT è stata provata statisticamente e clinicamente da un significativo miglioramento delle tecniche interazionali dei genitori e dei comportamenti dei bambini sia a scuola che a casa (Eisenstadt, Eyberg, McNIel, Newcomb, & Funderburk,1993), i genitori inoltre riportano maggiore fiducia nelle loro capacità di far fronte ai comportamenti aggressivi dei figli, alla frustrazione e al distress di entrambi.

Cognitive Problem-Solving Skills Training (CPSST) per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio

Il Cognitive problem-solving skills training (CPSST) è una modalità di trattamento del disturbo oppositivo provocatorio che si inserisce nell’ambito dell’approccio cognitivo – comportamentale.

L’intervento si pone lo scopo di ridurre i comportamenti inappropriati e dirompenti attraverso l’insegnamento di nuovi metodi per far fronte a situazioni fortemente attivanti per il bambino.

Il presupposto teorico alla base consiste nel ritenere che le persone con disturbi della condotta e aggressività presentino delle distorsioni nei processi cognitivi e per tale motivo vengono offerte un’ampia gamma di alternative cognitive che possano di conseguenza generare soluzioni alternative ai problemi interpersonali, esercitando i ragazzi a soffermarsi sulle conseguenze delle proprie azioni, identificando il significato dei propri e altrui gesti e la percezione di cosa possono provare gli altri (Kazdin, 1997). L’approccio cognitivo pone l’attenzione sul modo in cui l’individuo percepisce, decodifica e fa esperienza del mondo. L’aggressività non è di per sé dettata dagli eventi, ma piuttosto dal modo in cui vengono percepiti e processati, attribuendo ostilità intenzionale negli altri (Crick & Dodge, 1994). Il bambino è spinto ad esplorare nuove possibilità, sino a quel momento mai prese in considerazione, che non prevedono l’uso di risposte negative, facendole diventare parte integrante delle sue possibilità di azione.

Spesso il bambino con disturbo oppositivo provocatorio presenta infatti una gamma ristretta di risposte agli stimoli del mondo esterno, motivo per cui persevera nell’uso di quelle negative. Usando sia tecniche cognitive che comportamentali e focalizzando l’attenzione sul bambino più che sulla coppia genitoriale o sulla triade, la CPSST aiuta i ragazzi ad accrescere il loro autocontrollo su pensieri, azioni ed emozioni ed a interagire in modo appropriato con coetanei ed adulti esplorando nuove prospettive e soluzioni. Le nuove tecniche di problem solving intervengono nel mettere in discussione i pensieri disfunzionali e di conseguenza modificano i comportamenti (Kazdin, 1996).

Seppure esistano diverse variazioni di questo metodo, assunti costanti sono l’approccio step-by-step per far fronte ai problemi interpersonali, volto a porre l’attenzione su determinati aspetti del prblema che portano alla definizione di una effettiva soluzione. Le nuove soluzioni prosociali adottate (modeling e rinforzo diretto) sono parte integrante della terapia. E’ previsto l’uso di giochi, attività e storie al fine di metabolizzare e far proprie le nuove capacità apprese (Kazdin, 1997).

Durante il trattamento il bambino viene visto settimanalmente per circa un’ora per un periodo che varia da qualche mese a un anno. La parte cognitiva del progetto consiste nel cambiare la sua visione fallace e ristretta della quotidianità, confrontando le interpretazioni irrazionali relative al comportamento degli altri, disputando gli assunti disfunzionali che sottostanno ai comportamenti problematici ed elaborando insieme al terapeuta soluzioni alternative. Partendo da un esempio puntuale (come una sospensione per aver attaccato fisicamente un compagno) il terapeuta analizza l’accaduto col ragazzo indagando pensieri ed emozioni provate in quel contesto. Ripercorrendo un singolo accaduto si focalizza l’attenzione sul ruolo attivo che ha avuto il ragazzo nell’interazione (in questo caso con il compagno), così da migliorare il suo insight. La riflessione viene quindi indirizzata verso l’interno e non più verso i fattori esterni. Attribuendo importanza al proprio contributo nella relazione, si investe il bambino di un nuovo valore, inoltre è di fondamentale importanza scardinare l’immagine rigida e globale che il ragazzo ha di sé come “cattivo” (Kazdin, 1996).

Gli aspetti comportamentali invece interessano il modeling di nuove condotte positive, il role-playing e l’utilizzo di ricompense per le nuove condotte apprese. Vengono valutate insieme una gamma di possibilità alternative di reagire agli stimoli attivanti attraverso un brainstorming fra ragazzo e terapeuta, stabilendo insieme ogni passo in direzione dell’obiettivo stabilito.

Al bambino vengono inoltre assegnati degli homework volti a implementare i nuovi modi di pensare e di agire elaborati in seduta, egli dovrà metterli in pratica a casa, a scuola e con il gruppo dei pari. Può venir data consegna di appuntarsi per alcuni giorni i pensieri negativi che possono accorrere. Il terapeuta può chiedere al bambino di fare un esperimento: provare a mettere in atto uno dei pensieri e comportamenti alternativi visti insieme e comparare i risultati dati dalla loro applicazione. Il bambino verrà premiato nella seduta seguente con lodi, abbracci, o punti guadagnati che lo avvicinano ad una ricompensa prestabilita (Kazdin, 1997).

 

Social Skills Training per il disturbo oppositivo provocatorio

Un ulteriore intervento per il disturbo oppositivo provocatorio è quello incentrato sul potenziamento delle competenze sociali (Social Skills Training), che insegna dunque al bambino ad interagire in una modalità maggiormente positiva ed adeguata con i pari.

Questa tipologia di intervento risulta particolarmente efficace quando viene condotta in un contesto di vita abituale del bambino, come la scuola o il gruppo di coetanei di riferimento, al fine di ottenere una maggiore generalizzazione degli apprendimenti (AACAP, 2009).

Si tratta di un modello di intervento di derivazione comportamentista il cui fondamento teorico consiste nel ritenere che i bambini possano apprendere ed utilizzare nuove competenze attraverso l’osservazione, l’ascolto e il modellamento. Inoltre si ritiene che l’utilizzo di vari rinforzi può incrementare la frequenza dei comportamenti desiderati (Smith, 1996).

Il ricorso a programmi di apprendimento delle abilità sociali si basa sull’evidenza che spesso la sintomatologia del disturbo oppositivo provocatorio interferisce significativamente con il funzionamento sociale in quanto molti bambini e adolescenti con tale patologia mostrano specifiche difficoltà nel riconoscimento e nella valutazione degli indizi sociali (Tasman et al, 2015). In particolare tendono ad interpretare in una modalità distorta, tipicamente come minaccia, gli eventi e l’ambiente circostante (Hendren, 1999).

Un intervento di Social Skills Training si pone pertanto come obiettivo quello di potenziare la flessibilità, le competenze relazionali e la tolleranza alla frustrazione per aiutare bambini e adolescenti a ridurre i comportamenti problematici derivanti da una incapacità di gestione della rabbia e a contenere il loro approccio di sfida alle regole (AACAP, 2009).

Tale obiettivo viene perseguito ricorrendo all’utilizzo di quattro tecniche principali (Marini, 2015):

  • La dimostrazione dell’uso appropriato delle abilità target. Tali abilità dovranno essere selezionate sulla base di obiettivi adeguati all’età di sviluppo del paziente, al contesto ambientale in cui è inserito e ad una accurata osservazione e raccolta di informazioni su quelli che sono i comportamenti che maggiormente ne compromettono il funzionamento(Smith, 1996);
  • Role-playing del paziente nelle situazione interpersonali;
  • Interventi di feedback correttivo;
  • Rinforzo.

Un particolare esempio di training delle abilità sociali impiegato nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio è il Training Sostitutivo dell’Aggressività – Aggression Replacement Training ART (Goldstein, Glick & Rainer 1987) , che integra strategie intente a promuovere l’uso positivo delle competenze sociali, la gestione della rabbia e il ragionamento morale, al posto di alternative comportamentali oppositive o aggressive (Flamez & Sheperis, 2015).

Il metodo ART è un programma strutturato e multi modale che combina l’uso di tecniche di terapia cognitiva e di terapia comportamentale.

Secondo gli autori di tale trattamento, i comportamenti aggressivi si costituiscono di una componente affettiva, una comportamentale ed una cognitiva. Dunque il programma si propone di intervenire su tutti i diversi aspetti coinvolti,  insegnando comportamenti prosociali, che interessano la componente comportamentale, il controllo della rabbia, che riguarda la componente affettiva e il ragionamento morale che fa riferimento alla componente cognitiva (Goldstein et al 1987).

Sviluppando il ragionamento morale si impara ciò che non si deve fare, con le tecniche di autocontrollo si interrompe l’automatismo tra provocazione e aggressività e quindi si impara come riuscire a evitare di fare ciò che non si deve, con l’apprendimento delle abilità sociali si impara con cosa sostituire la propria aggressività (Manin, 2004).

In accordo con il manuale originario (Goldstein, Glick & Rainer 1987) il programma ART si articola in 10 settimane, con 30 ore complessive di intervento svolto in gruppi di 8-12 ragazzi, per tre volte alla settimana.

Nel dettaglio, la componente comportamentale dell’ ART consiste in un training di abilità sociali, volto ad insegnare il comportamento pro-sociale ai soggetti che mancano di tali competenze o mostrano una specifica fragilità su questi aspetti (Kaunitz et al 2010). A livello teorico il metodo è fondato sulla teoria dell’apprendimento sociale di Bandura (1973).

Il manuale fornisce una checklist composta di 50 competenze sociali desiderate per permettere di identificare su quali i soggetti sono carenti e pertanto su quali dovrà essere incentrato l’intervento. Viene comunque garantita una certa flessibilità per poter modificare o sostituire alcune di tali competenze in base alle specifiche caratteristiche dei singoli pazienti (Kaunitz et al 2010).

Le competenze sociali che i ragazzi apprendono attraverso questo specifico training rientrano in una delle 6 categorie che compongono l’intero programma e comprendono (Goldestein, 1994):

  1. Abilità sociali iniziali (ad esempio, iniziare una conversazione, presentare se stessi, fare una complimento).
  2. Abilità sociali avanzate (ad esempio, per chiedere aiuto, scusarsi, dare istruzioni).
  3. Competenze per la gestione delle emozioni (ad esempio, affrontare la rabbia di qualcuno, esprimere affetto,gestire la paura).
  4. Alternative alla aggressività (ad esempio, rispondendo alle prese in giro, la negoziazione,aiutare gli altri).
  5. Competenze per affrontare lo stress (ad esempio la preparazione per una conversazione stressante).
  6. Capacità di pianificazione (ad esempio, definizione degli obiettivi, il processo decisionale).

La componente del programma relativa alla gestione della rabbia ha invece i suoi fondamenti teorici  nei primi lavori sul controllo dell’aggressività di  Novaco (1975) and Meichenbaum (1977).

Si tratta di un programma costituito da più fasi sequenziali. I soggetti vengono prima aiutati a comprendere come in genere tendano a percepire ed interpretare il comportamento degli altri in una modalità che suscita rabbia. Dunque il lavoro si concentra inizialmente sulla capacità di identificare i trigger interni ed esterni che innescano le reazioni aggressive.

Si lavora poi sul riconoscimento degli indizi fisici (ad esempio la contrattura dei muscoli) che permettono al bambino/ragazzo di comprendere che l’emozione che sta sperimentando è quella della rabbia. Successivamente viene introdotto l’uso di promemoria come le auto-indicazioni (ad esempio “stai calmo”) o la spiegazione del comportamento degli altri in modo non ostile insieme all’introduzione di tecniche volte alla riduzione della rabbia, come la respirazione profonda, il conteggio all’indietro, l’immaginazione di una scena pacifica o delle conseguenze del proprio comportamento, tecniche di cui il terapeuta mostra il corretto utilizzo (Kaunitz et al 2010).

Infine si insegna ai pazienti la tecnica dell’autovalutazione, ovvero a lodare o premiare se stessi in tutti quei casi in cui si è riusciti a mettere in atto un’adeguata gestione della rabbia (Goldestein, 1994).

Infine la terza componente del programma ART, il training sul ragionamento morale, si fonda sul modello teorico di Kohlberg (1973) di sviluppo della morale.

Lo scopo è quello di incrementare il ragionamento morale per rendere l’individuo in grado di prendere decisioni più adeguate in situazioni sociali.  Tale scopo viene perseguito attraverso discussioni di gruppo su dilemmi di natura morale. Concretamente il conduttore del gruppo presenta dilemmi in cui i soggetti possono scegliere tra diverse alternative di comportamento motivando la propria scelta. Il manuale fornisce dieci situazioni strutturate in modo da offrire ai partecipanti del gruppo la possibilità di considerare il punto di vista degli altri (Kaunitz et al 2010).

 

Trattamento farmacologico per il disturbo oppositivo provocatorio

E’ possibile intervenire nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio anche attraverso il ricorso alla terapia farmacologica. Va tuttavia sottolineato come ad oggi non esistono specifici farmaci per il trattamento del disturbo oppositivo provocatorio e il solo utilizzo del farmaco non è stato dimostrato efficacie come modalità di intervento per questa patologia (AACAP, 2009).

I farmaci possono essere utilizzati come parte di un trattamento più ampio ed integrato, sopratutto nei casi in cui sono presenti altri disturbi in comorbidità (Connor, 2002; Pappadopulos et al., 2003, Schur et al., 2003, Steiner et al., 2003) come il disturbo da deficit di attenzione ed iperattività (ADHD), disturbi d’ansia o disturbi dell’umore.

I farmaci principalmente utilizzati sono gli psicostimolanti, gli stabilizzatori dell’umore e gli antidepressivi. I primi, in particolare il Ritalin, vengono utilizzati nei casi di comorbidità tra disturbo oppositivo provocatorio e ADHD e si sono dimostrati efficaci nel ridurre la sintomatologia comportamentale (Connor & Glatt, 2002;Newcorn et al., 2005).

Mentre un numero più limitato di ricerche suggerisce che l’uso di stabilizzatori dell’umore e antidepressivi possa essere d’aiuto nel trattamento di bambini e adolescenti che oltre ad un disturbo oppositivo presentano anche disturbi d’ansia o dell’umore, come il disturbo bipolare o una depressione maggiore (Steiner et al., 2003, Steiner et al., 2003).

Infine nonostante la mancanza di ricerca in merito, gli antipsicotici atipici come ad esempio il Risperidone rappresentano ad oggi il farmaco principalmente prescritto per il trattamento dei comportamenti aggressivi associati al disturbo oppositivo provocatorio.

Tuttavia è importante sottolineare come i comportamenti aggressivi e oppositivi possano in alcuni casi riflettere temporanei cambiamenti ambientali. Utilizzare pertanto farmaci in queste circostante può indurre una erronea attribuzione di efficacia alla terapia farmacologica piuttosto che ad una stabilizzazione del contesto ambientale e dunque può determinare una non necessaria esposizione dei bambini ai possibili effetti collaterali del farmaco (AACAP, 2009).

 

Conclusioni

Diverse sono dunque le possibilità di intervento nel trattamento del disturbo oppositivo provocatorio. L’integrazione di modalità differenti rimane tuttavia l’approccio d’elezione e con una maggiore efficacia riscontrata (ACCAP,2009).

Date le importanti ricadute che la sintomatologia caratteristica del disturbo oppositivo provocatorio può avere nel funzionamento a lungo termine del bambino e dunque in età adulta, rimane fondamentale che l’identificazione e il trattamento del disturbo siano precoci e che si prediligano interventi evidence-based.

Ciascun trattamento proposto, rappresenta una possibilità di intervento che la lettura riporta come efficace per il disturbo oppositivo provocatorio, con o senza altre patologie in comorbidità. Tuttavia l’applicazione di tale protocolli non dovrebbe avvenire in maniera meccanica e acritica ma risulta fondamentale, per la buona riuscita dell’intervento, modulare la procedura rispetto alle caratteristiche e le specifiche peculiarità del bambino e della sua famiglia.

Infine si ricorda che il trattamento farmacologico, pur non essendo considerato d’elezione per il disturbo oppositivo provocatorio, rimane comunque una possibilità da valutare da parte di un neuropsichiatra infantile, nei casi in cui la sintomatologia sia particolarmente grave ed invalidante e/o siano presenti altre patologie associate che compromettono significativamente il funzionamento del bambino.

L’insonnia e le alterazioni cerebrali ad essa associate

Secondo un nuovo studio condotto dai ricercatori della Università di Pittsburg School of Medicine, vi sono alcune regioni specifiche del cervello, tra le quali si citano quelle coinvolte nella consapevolezza di sé e la tendenza a rimuginare, che mostrano una attività alterata nei pazienti che soffrono di insonnia.

Mariagrazia Zaccaria

 

Insonnia e alterazione cerebrali: lo studio del prof. Buysse

Daniel Buysse, professore di psichiatria e di scienze cliniche, guida il gruppo di ricerca per quello che è il più grande studio sull’insonnia. Il professore ha individuato le differenze di attività cerebrali che vi sono tra gli stati di sonno e gli stati di veglia in pazienti con diagnosi di insonnia.

Buysse, afferma che:

Mentre i pazienti che soffrono di insonnia spesso vedono i loro sintomi banalizzati da amici, familiari e a volte dai medici stessi, i risultati di questo studio aggiungono una nuova visione sull’insonnia, poiché trattata come una condizione neurobiologica

Lo studio mostra anche che l’attività cerebrale durante il sonno è più sfumata di quanto si pensasse.

I risultati di questo studio possono aiutare a migliorare gli attuali trattamenti che si utilizzano per curare l’insonnia, come la stimolazione magnetica transcranica, e aumentare la comprensione del perché alcuni trattamenti, come la meditazione, in alcuni pazienti è più efficace.

I ricercatori hanno utilizzato scansioni di tomografia ad emissione di positroni (PET), durante le quali ai partecipanti è stato iniettato un tracciante, ovvero una soluzione di molecole di glucosio. Le regioni cerebrali con maggiore attività sono metabolicamente più attive ed evidenti sulle scansioni PET.

I dati delle scansioni hanno rivelato delle differenze di attività relative a regioni specifiche del cervello tra gli stati di sonno e veglia nei pazienti con insonnia. Le differenze possono essere attribuite ad una diminuita attività durante la veglia o all’intensificarsi delle attività di tale regioni durante il sonno.

 

Conclusioni

Secondo gli autori dello studio, alcune disfunzioni in determinate regioni del cervello possono essere correlate a specifici sintomi in pazienti con insonnia, tra cui disturbi di consapevolezza di sé e disturbi dell’umore, deficit della memoria e la ruminazione.

 

 

Cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario: esiste un collegamento?

Un nuovo studio Inglese ha cercato di stabilire un legame tra cyberbullismo e comportamenti a rischio suicidario, individuando, nei soggetti coinvolti nel fenomeno, vittime, bulli e bulli-vittime, la tendenza ad entrare in contatto con contenuti web riguardanti autolesionismo o suidicio.

 

Col termine cyberbullismo vengono generalmente definiti tutti gli atti di tipo offensivo e prevaricatorio perpetrati attraverso l’utilizzo della rete internet. Nell’era della tecnologia il cyberbullismo è una problematica sempre più diffusa e ci sono evidenze scientifiche che lo collegano, al pari del bullismo fisico, a pensieri e comportamenti suicidari, prevalenti nelle vittime (Hinduja  e Patchin, 2010).

 

Cyberbullismo e rischio suicidio: lo studio

Un nuovo studio, condotto dalla Dott.ssa Anke Gorzig (LSE’s Department of Media and Communications) ha portato all’attenzione il legame tra cyberbullismo e alcuni comportamenti disfunzionali, che potrebbero essere predittori di tendenze suicidarie.

In particolare, è stato utilizzato un campione proveniente dallo studio “LSE Kids online”, composto da 25.000 bambini Europei di età compresa tra i 9 e i 16 anni. Il 6% del campione riportava di essere vittima di cyberbullismo, il 2,4% riportava di compiere atti di cyberbullismo e un 1,7% riportava di essere sia vittima che bullo. Di questi soggetti, il 4,1% riportava problemi nella gestione delle emozioni, il 16.8% problemi comportamentali, il 15,8% aveva problemi a relazionarsi con i propri pari.

Per quanto riguarda i comportamenti, è stata presa in considerazione la visione di contenuti web riguardanti autolesionismo o suicidi.

Nell’intero campione il 6,8% dei soggetti riportava la visione di contenuti web di autolesionismo, il 4,3% visionava contenuti web riguardanti il suicidio. Questi soggetti costituivano una bassa percentuale di coloro i quali non erano coinvolti in fenomeni di cyberbullismo. Invece, circa 1/5 dei delle vittime e dei bulli e 1/3 dei soggetti sia bulli che vittime, era in contatto con contenuti web di autolesionismo; inoltre tra le vittime di cyberbullismo e tra coloro che ricoprivano il ruolo sia di vittime che di bulli, era alta la percentuale di bambini che entravano a contatto con contenuti web riguardanti suicidi, mentre questa percentuale rimaneva bassa per i soggetti identificati solo come bulli.

Il trend relativo a chi entrava a contatto con contenuti di autolesionismo era due volte più alto per il gruppo delle vittime e per il gruppo dei bulli, e da tre a quattro volte più alto per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti nel fenomeno; invece il trend relativo a chi entrava in contatto con contenuti di suicidio era da due a tre volte più alto per le vittime e per i bulli-vittima, rispetto al gruppo di soggetti non coinvolti.

 

Conclusioni

Ne è stato concluso che, in generale, i soggetti che presentano tratti sia di vittima che di bullo sono quelli più vulnerabili e potrebbero necessitare di un maggior supporto in presenza di problemi psicologici.

Molti soggetti coinvolti nel fenomeno sarebbero favorevoli ad essere aiutati attraverso risorse web ed una possibile passo verso questa soluzione potrebbe essere quello di creare strumenti d’aiuto utilizzabili tramite piattaforme Internet.

Problemi uditivi? Non è colpa delle orecchie, ma del tuo cervello!

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Maryland ha determinato che avviene qualcosa nel cervello dei più anziani con sospetti problemi uditivi che li induce a sforzarsi per seguire un discorso, distinguendolo dal rumore di fondo, anche quando l’udito non è realmente compromesso.

 

Siete ad un pranzo in famiglia, state dialogando con i membri più anziani ed uno di loro vi dice: “scusa, puoi ripetere?”. Il motivo per cui è necessario ripetere due volte la stessa cosa, potrebbe non dipendere da problemi uditivi del vostro interlocutore, ma da altro.

Un gruppo di ricercatori dell’Università del Maryland (UMD), composto da membri associati del Brain and Behavior Initiative, ha determinato che avviene qualcosa nel cervello dei più anziani che li induce a sforzarsi per seguire un discorso, distinguendolo dal rumore di fondo, anche quando l’udito non è compromesso.

In uno studio pubblicato dal Journal of Neurophysiology, i ricercatori Samira Anderson, Jonathan Z. Simone e Alessandro Presacco hanno scoperto che le persone di età compresa tra 61 e 73 anni, seppur in assenza di problemi uditivi ma dotate di un udito normale, ottengono prestazioni significativamente peggiori nella comprensione di discorsi in ambienti rumorosi rispetto alle persone di età compresa tra 18 e 30 anni, anch’esse dotate di un udito funzionale.

 

Problemi uditivi o problemi di elaborazione cerebrale?

Attraverso due diversi tipi di scansione dell’attività elettrica cerebrale rilevata durante un compito di ascolto di discorsi, i ricercatori sono stati in grado di osservare ciò che avveniva nel cervello dei partecipanti nel momento in cui veniva chiesto loro ciò che un interlocutore stava dicendo, in due diverse condizioni sperimentali: ambiente tranquillo e ambiente rumoroso. I ricercatori hanno studiato due aree cerebrali distinte: il mesencefalo (l’area “più arcaica” del cervello, posseduta dalla maggior parte degli animali vertebrati), che si occupa dell’elaborazione base di tutti i suoni e la corteccia cerebrale, di cui una parte è specializzata nell’elaborazione dei discorsi.

Nel gruppo di soggetti più giovani, il mesencefalo ha generato un segnale comparabile per entrambe le condizioni del compito. Al contrario, nel gruppo di soggetti più anziani, la qualità della risposta al segnale vocale era deteriorata già nell’ambiente tranquillo e peggiore nell’ambiente rumoroso. I segnali neurali registrati, invece, a livello corticale hanno dimostrato che gli adulti più giovani sono in grado di elaborare un discorso in modo efficace in un tempo relativamente breve. Al contrario, la corteccia uditiva dei soggetti più anziani impiega più tempo a rappresentare la stessa quantità di informazioni.

 

Perché avviene questo?

Parte dei problemi di comprensione sperimentati dalle persone più anziane, in entrambe le condizioni, potrebbe essere legato ad uno squilibrio tra processi cerebrali eccitatori e inibitori dovuti all’età. Questo squilibrio comprometterebbe la capacità del cervello di elaborare correttamente stimoli uditivi e rappresenta la causa principale dell’anormale risposta corticale osservata nello studio. Ha osservato Simon:

Le persone anziane hanno bisogno di più tempo per capire cosa sta dicendo un’altra persona”. Impiegano più risorse e uno sforzo maggiore

Questa erosione della funzione cerebrale sembra essere tipica degli anziani e parte naturale del processo di invecchiamento.

I ricercatori stanno ora esaminando se utilizzando tecniche di training cognitivo sia possibile aiutare gli anziani con sospetti problemi uditivi a migliorare la loro comprensione del parlato.

Anche dei semplici accorgimenti possono aiutare. Dal momento che la possibilità di vedere e sentire la persona che sta parlando aiuta l’elaborazione di un discorso, sarebbe una buona idea guardare direttamente gli anziani mentre si sta parlando con loro, e assicurarsi di avere la loro attenzione, prima di iniziare un discorso.

Il cervello più vecchio semplicemente perde parte del segnale vocale, nonostante le orecchie lo abbiano catturato tutto in modo integro. – ha detto Simon – Quando qualcuno può guardare l’interlocutore, oltre che ascoltarlo, invece, il sistema visivo a volte può compensare quella perdita.

Samira Anderson aggiunge:

Il messaggio principale che vogliamo dare è che i soggetti più anziani, nel nostro studio, hanno un udito normale, come è emerso da una valutazione eseguita con audiogramma, ma hanno difficoltà a comprendere tracce audio acquisite in ambiente rumoroso, perché gli aspetti temporali del segnale vocale non vengono accuratamente codificati. Dal momento che hanno un udito normale, parlare più forte non aiuta. Quindi, se qualcuno sta avendo problemi nella comprensione in un ristorante rumoroso o in una stanza affollata, è più importante parlare con chiarezza in modo normale o al massimo leggermente più lento, piuttosto che aumentare il tono della voce.

 

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