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Bisessualità – FluIDsex

Bisessualità del partner e insicurezza

Sono Emanuele, e sono fidanzato con ragazzo bisessuale (Cristian), io sono omosessuale e non riesco proprio a capire. Lo amo immensamente e temo di non bastargli. Non mi sento completo, sicuramente in me non può trovare tutto ciò che vuole dalla vita. Come può trovare attraente e pensare di amare anche una ragazza? Io continuo a non capire. Sono dispiaciuto, ma vorrei cambiasse. Lo amo, ma così penso di non poter sopportare questi pensieri a lungo. Il pensiero che lui desideri anche fare sesso con una donna, toccarla e penetrarla come con me non potrà mai fare. Questa relazione mi fa essere così insicuro del mio corpo.

 

Buongiorno,

il fatto che una persona si identifichi come bisessuale non significa necessariamente che nello stesso momento essa voglia intraprendere relazioni sia con una donna che con un uomo.

Il genere è solo uno dei punti di vista attraverso i quali si è attratti e si sceglie di condividere qualcosa con un partner. Non credo che a lei, ad esempio, basti che una persona sia di genere maschile per esserne attratto. E la sua omosessualità non comporta di certo che, in questo momento, nel suo partner non trovi tutto ciò che desidera nella sua vita affettivo-sessuale, e che per completezza avrebbe bisogno anche di altri uomini, con caratteristiche differenti.

Ed anche per quanto riguarda il discorso legato ad una sessualità diversa che Cristian potrebbe desiderare con una donna, ritengo che possa tornare ad adattarsi al discorso fatto poco sopra: anche lei potrebbe trovarsi limitato, con un suo partner, nel fare cose che, con altri uomini, potrebbe fare; Tutto ciò per differenze anatomiche che ognuno di noi riporta, anche all’interno dello stesso genere, e soprattutto, per differenze di pensiero e fantasia. Entro una sessualità completa, fatta di fantasie e scoperta dell’altro, converrà con me che ognuno di noi potrebbe esprimere una sessualità differente, a prescindere, anche questa volta, dal sesso biologico.

In seguito a queste osservazioni, caro Emanuele, vorrei soffermarmi sulla conclusione della sua domanda: “questa relazione mi rende così insicuro del mio corpo”. E se provassimo a leggere questa sua frase senza attribuire questa insicurezza alla sua relazione con Cristian? “sono così insicuro”. Cambiando prospettiva potrebbe iniziare a riflettere su se stesso. Ad esempio, dice che vorrebbe che il suo ragazzo cambiasse, e lei? Non hai mai pensato di voler cambiare qualcosa di sé? Ha mai pensato di non sentirsi “sicuro del (suo) corpo”, a prescindere dalla sua relazione con qualcuno?

Greta Riboli

 


 

Bisessualità non fa sempre rima con ambiguità

Sono bisessuale, ho un ragazzo ed è molto geloso e sapendo della mia sessualità, da lui definita ambigua, è infastidito da qualsiasi rapporto, anche in amicizia, che instauro con ragazzi e ragazze. Mi ritrovo costantemente a subire le sue scenate di insicurezza, così per evitare discussioni ho iniziato a rinchiudermi un po’ e a parte le amicizie di infanzia, non conosco più persone nuove.

 

Avere e mantenere una relazione monogama stabile non è mai un compito facile, soprattutto quando la propria identità sessuale è circondata da una pesante doppia stigmatizzazione proveniente sia da ambienti eterosessuali, sia da ambienti che (almeno in teoria) dovrebbero essere fonte di supporto e integrazione, come quelli LGBTQ.

Capisco la sua frustrazione. Purtroppo, proprio perché la sua identità si situa al di fuori della concezione binaria della sessualità (etero/omo), molto spesso la monogamia non le verrà attribuita di default, come invece accade (più o meno) alle persone eterosessuali o omosessuali; capita, quindi, che le persone bisessuali vengano pregiudizievolmente identificate come “sessualmente ingorde”.

Certamente esistono persone bisessuali apertamente non-monogame (che non è sinonimo di promiscuo o “ambiguo”), è questo il suo caso? Probabilmente no, ma è sicur* che questo sia chiaro anche al suo partner? Avete mai parlato del vostro stile relazionale? Siete entramb* monogam* seriali (ovvero la tendenza ad avere una relazione monogama dopo l’altra)? Molto spesso è meglio non dare nulla per scontato e cercare di parlare con chiarezza e serenità anche di quegli aspetti che generalmente tendiamo a non esplicitare.

Provando ad eliminare le possibili ambiguità percepite dal suo partner, magari riuscirete anche a smussare le sue insicurezze.

(Infine, se nulla dovesse cambiare, provi a riflettere: quanto e cosa le costa “rinchiudersi” per quel “quieto vivere” che lei cerca di mantenere evitando di aprirsi a nuove conoscenze?)

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gli effetti del volo spaziale sulla connettività neuronale e sul comportamento

Secondo i risultati di una recente ricerca pubblicata su NeuroImage, trascorrere un lungo periodo nello spazio produrrebbe cambiamenti significativi nella connettività funzionale delle aree motorie, somatosensoriali e vestibolari del cervello degli astronauti.

 

Gli effetti del volo spaziale sul cervello degli astronauti

Questi networks sono coinvolti nell’orientamento e nella cognizione spaziale, nel controllo sensomotorio e somatosensoriale, nella pianificazione, coordinazione ed esecuzione di movimenti volontari. Tali cambiamenti, sarebbero associati a performance alterate nella memoria di lavoro e nel funzionamento cognitivo e sensomotorio. Tali risultati suggerirebbero che i meccanismi di neuroplasticità potrebbero facilitare l’adattamento all’ambiente in microgravità.

Nel dettaglio, i cambiamenti sensomotori dovuti alla permanenza nello spazio (i.e., difficoltà nella locomozione e nella stabilità posturale al rientro sulla terra) sembrerebbero dovuti ad una reinterpretazione da parte del cervello dei segnali vestibolari. Tuttavia, sebbene gli effetti della microgravità siano ben documentati, i meccanismi neurali che li sottendono sono relativamente sconosciuti.

 

Lo studio

In questo esperimento, quindi, per simulare la microgravità gli sperimentatori per 70 giorni hanno mantenuto i partecipanti dello studio (n = 17, gruppo di controllo n = 14) a letto in posizione di riposo, inclinati, con i piedi leggermente più in alto rispetto alla testa – posizione definita head-down tilt (HDT), che crea un angolo di circa 6° rispetto all’asse testa-piedi – producendo così una riduzione degli input sensoriali ai piedi, al corpo (direzione assiale) e una maggiore irrorazione sanguigna a livello cerebrale, effetti pressoché identici a quelli prodotti dalla microgravità sugli astronauti. La tecnica di neuroimaging impiegata è stata la risonanza magnetica funzionale in stato di riposo (RS-fMRI). Invece, i dati relativi al comportamento dei partecipanti sono stati rilevati in 7 diversi momenti: 12 e 8 giorni prima dell’esperimento, al giorno 7°, 50°, 70° e 8 e 12 giorni dopo il termine dell’esperimento.

 

I risultati

I dati ottenuti tramite la RS-fMRI mostravano un incremento nella connettività della corteccia motoria e somatosensoriale durante la registrazione in posizione inclinata (HDT) e riduzioni nella connettività delle stesse aree nel periodo immediatamente successivo. Al contrario, nelle aree temporoparietali si registrava una riduzione della connettività. I partecipanti che evidenziavano i maggiori incrementi nella connettività erano gli stessi che soffrivano maggiormente degli effetti negativi dell’esperimento – e quindi della microgravità – sull’equilibrio e la postura.

Secondo gli sperimentatori la maggiore connettività tra le cortecce motorie e somatosensoriali potrebbe riflettere una risposta adattiva del cervello alle modificazioni dell’ambiente; infatti, solitamente alla ripetizione di atti motori complessi segue una riorganizzazione funzionale della corteccia ad essi associata.

I precedenti studi riguardo la relazione tra HDT e connettività cerebrale, si sono limitati a considerare solo due momenti di rilevazione, il pre-HDT e il post-HDT, tralasciando la dinamica temporale dei cambiamenti nella connettività cerebrale. Anche per questo motivo i risultati del presente studio si caratterizzano come pionieristici nel sottolineare i meccanismi neurali coinvolti nei cambiamenti delle performance sensomotorie degli astronauti.

Studi sull’effetto placebo: riflessioni dal mondo dell’ipnosi

L’inganno non è un ingrediente necessario per sortire l’effetto placebo: sebbene l’idea che l’inganno non sia necessario per l’effetto placebo non sia nuova, Kaptchuk e colleghi (2011) ne forniscono la prima dimostrazione empirica.

Un gruppo di 80 pazienti affetti dalla sindrome dell’intestino irritabile sono stati suddivisi in due sottogruppi. Entrambi i gruppi sapevano di partecipare ad uno studio sull’effetto placebo. Sapevano inoltre che un gruppo avrebbe costituito il controllo, cioè il gruppo che non avrebbe ricevuto alcun trattamento. All’altro gruppo sarebbe stato somministrata una pillola di zucchero, senza alcuna proprietà terapeutica (gruppo placebo senza inganno). Tuttavia veniva messa in luce che la letteratura scientifica aveva dimostrato l’efficacia del placebo non solo nel miglioramento soggettivo dei sintomi, ma anche rispetto ad alcuni parametri fisiologici.

Sorprendentemente, il gruppo che aveva assunto la pillola di zucchero, pur sapendo che si trattava solo di zucchero, riportò un miglioramento dei sintomi e della qualità della vita.

Sebbene l’idea che l’inganno non sia necessario per l’effetto placebo non sia nuova, Kaptchuk e colleghi (2011) ne forniscono la prima dimostrazione empirica.

Secondo la definizione classica di effetto placebo, infatti, l’aspettativa di miglioramento del paziente e del medico quando si assume una sostanza creduta un farmaco, crea il miglioramento stesso.

Per chi, come me, si occupa da anni di ipnosi, la parte più interessante della ricerca è l’analisi qualitativa in cui si discute l’importanza della creazione di un contesto terapeutico e l’instaurarsi di una buona relazione terapeutica e la disseminazione di informazioni sull’efficacia scientifica delle varie forme di placebo. Questi sono elementi consapevolmente sfruttati da chi lavora con l’ipnosi Ericksoniana e che potrebbero essere efficacemente utilizzati nella comunicazione medica al fine di supportare l’efficacia dei trattamenti medici.

Metacognizione nei Disturbi di Personalità: il contributo della Terapia Metacognitiva Interpersonale

Il concetto di “metacognizione” ha conosciuto diverse definizioni a seconda dell’ambito di studio all’interno del quale è stato elaborato. Nell’accezione originaria, metacognizione significava “cognizione della cognizione” (Ganucci, Cancellieri et al., 2013). Per indicare questo nuovo campo di interesse sono stati utilizzati, spesso come sinonimi, i termini “metamemoria” e “metacognizione“. Infatti, le prime ricerche sulla metacognizione furono compiute su bambini di età prescolare, con l’obiettivo di esaminare la capacità di valutare le proprie abilità mnemoniche (Flavell et al., 1970).

Anderlini Matteo, Venturelli Valentina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Metacognizione: definizioni

La prima definizione generale di metacognizione venne elaborata da Flavell, che la intese come ogni conoscenza e attività cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di qualsiasi impresa cognitiva (Flavell, 1976, 1981; Flavell et al., 1993).

Nella prospettiva della Terapia Metacognitiva Interpersonale -TMI- (Semerari et al., 2003; Semerari et al., 2008; Carcione et al., 2010; Dimaggio e Lisaker, 2010; Dimaggio et al., 2013), la metacognizione può essere definita come un insieme di abilità che consentono all’individuo di:
– identificare e attribuire stati mentali a sè e agli altri, sulla base delle espressioni facciali, degli stati somatici, dei comportamenti e delle azioni;
– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri e altrui;
– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sui propri ed altrui stati mentali per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e, infine, padroneggiare la sofferenza soggettiva.

In linea con i lavori di Carcione et al. (1997), è opportuno sottolineare la distinzione tra contenuti metacognitivi e funzioni metacognitive. Per contenuti metacognitivi intendiamo le idee e le convinzioni con cui vengono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali. Per funzioni metacognitive intendiamo quell’insieme di abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali, di operare su di essi per la risoluzione di compiti e per padroneggiarli (Carcione e Falcone, 1999).

Questo modo di intendere la metacognizione coincide in gran parte con le funzioni analizzate da diversi autori: per esempio negli studi sulla Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985; Premack e Woodroof, 1978), sulla Cognizione Sociale (Brüne et al. 2007), sull’Alessitimia, ossia la mancanza di consapevolezza emozionale (Taylor, Bagby e Parker, 1997; Vanheule, Verhaege e Desmet, 2011) e sulla Mentalizzazione (Allen, Fonagy e Bateman, 2008; Fonagy, Gergely, Jurist et al., 2002).

Nonostante sia presente una parziale sovrapposizione, esistono diversi aspetti che permettono di distinguere la metacognizione da questi costrutti (Dimaggio et al., 2013; Semerari et al., 2012).
Ad oggi, molti autori sono concordi nel definire la metacognizione come un sistema complesso composto da diversi sottosistemi in interazione tra loro (Semerari et al., 2003). Studi che giungono dal campo delle neuroscienze sembrano portare evidenze a favore di questa concezione, mettendo in luce aspetti specifici della metacognizione -autoriflessività e comprensione degli stati mentali altrui- relativamente indipendenti l’uno dall’altro, ma tra loro collegati in network funzionali (Ganucci Cancellieri et al., 2013; Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006).
La definizione di metacognizione include un insieme eterogeneo di funzioni e di abilità: ciò risulta utile sia per un fine prettamente diagnostico, sia per la pianificazione del trattamento, che può essere modulato ed orientato a quelle dimensioni che risultano effettivamente compromesse nel paziente.

Le componenti della metacognizione

Dimaggio e colleghi (2013) passano in rassegna queste diverse abilità:

1. Requisiti basici
Sono abilità basilari e trasversali alle diverse capacità metacognitive superiori. Tali requisiti permettono agli individui di essere consapevoli di possedere stati mentali propri ed indipendenti, che nascono all’interno della propria mente. Tali prerequisiti includono, quindi, la capacità di distinguere la nostra mente da quella degli altri, i quali possiedono stati mentali autonomi e il cui comportamento è portato avanti da intenzioni e motivazioni proprie. Comprendono, inoltre, la capacità di considerarsi come attori attivi, orientati alla risoluzione dei problemi e al padroneggiamento della sofferenza emotiva.
Tali requisiti di base risultano carenti in diverse patologie come la schizofrenia (Lysaker et al., 2013).

2. Autoriflessività
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Si riferisce alla capacità di identificare e definire le componenti di uno stato mentale in termini di pensieri, desideri, emozioni (Identificazione) e di comprenderne i nessi causali (Relazione tra Variabili). Possiamo distinguere tra un’identificazione cognitiva (pensieri e desideri) e un’identificazione emotiva (emozioni). La prima si riferisce alla capacità di identificare e attribuire cognizioni e intenzioni: “Io credo che…”, “Ho il desiderio di…”; la seconda fa riferimento alle emozioni: “Mi sento allegro…”, “Provo rabbia…”.
Inoltre, fa riferimento al riconoscimento e al monitoraggio delle proprie funzioni cognitive superiori, come la memoria, l’attenzione e l’apprendimento: “Mi rendo conto che non sono preparato bene per l’esame …Sotto pressione ho difficoltà di concentrazione…”.
Dopo aver identificato un’emozione o un pensiero, la componente Relazione tra Variabili, permette di ragionarvi, compiere inferenze su cosa mette in relazione il comportamento con intenzioni, cognizioni ed emozioni, sul modo in cui le scelte sono guidate da presupposti psicologici e su come gli stati mentali siano influenzati dagli stimoli sociali.
b) Differenziazione, ovvero la capacità di riconoscere la natura rappresentazionale del pensiero, distinguendo tra realtà interna ed esterna, cogliendo la differenza esistente tra diversi tipi di rappresentazioni (sogni, fantasie, credenze e ipotesi), tra rappresentazione e realtà. Inoltre, questa dimensione permette di cogliere la natura ipotetica e soggettiva del proprio pensiero, assumendo una prospettiva dalla quale vedere le proprie idee come ipotesi e non come certezze (Fonagy e Target, 1996; Rachman e Shafran, 1999).
Il concetto di differenziazione, cioè la capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni, è simile ad altri costrutti della terapia cognitiva, quali la defusion (Hayes, Strosahl, Wilson, 2013) e l’insight cognitivo (Beck, Baruch, Balter et al. 2004).
c) Integrazione. Si riferisce alla capacità di mantenere una visione unitaria del sé indipendentemente dal fluire e dall’alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi (anche contraddittori) e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti. Integrare significa descriversi in modo completo e coerente all’interno di una narrazione che tenga conto di come tali stati mentali possono evolvere e modificarsi nel tempo.
Significa quindi essere consapevoli di come ci siamo evoluti, descrivere chi siamo oggi rispetto al passato, per esempio, come siamo cambiati durante la terapia o dopo eventi di vita dal profondo significato personale.

3. Comprensione della mente altrui
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Comprende le sottocomponenti dell’Identificazione e della Relazione tra Variabili relativamente alla comprensione della mente altrui. Corrisponde alla capacità di attribuire agli altri intenzioni, motivazioni, desideri ed emozioni (identificazione cognitiva ed emotiva) -“È deciso a …”, “Ha un viso triste…”- e all’abilità di inferire alcuni contenuti mentali dell’altro dal suo comportamento verbale e non verbale. Una volta identificati gli stati mentali altrui, l’individuo può, quindi, ipotizzare nessi causali che spieghino quali processi cognitivo-affettivi portino gli altri ad agire.

b) Decentramento. Corrisponde alla capacità di descrivere il funzionamento mentale dell’altro formulando ipotesi indipendenti dalla propria prospettiva mentale e dal proprio coinvolgimento nella relazione. Significa, quindi, adottare la prospettiva dell’altro mettendosi nei suoi panni. Ad esempio, il paziente che adotta una prospettiva egocentrica, incapace cioè di differenziare il proprio punto di vista da quello altrui, attribuisce costantemente agli altri meccanismi propri del suo stesso funzionamento mentale e delle sue prospettive: esamina cioè i dati dal suo punto di vista scartando ogni possibile alternativa (Dimaggio e Semerari, 2003).

4. Mastery
Consiste nell’utilizzare intenzionalmente le conoscenze psicologiche per prendere decisioni, formulare strategie per fronteggiare la sofferenza soggettiva, risolvere conflitti interpersonali, realizzare i propri desideri, aiutare gli altri e cooperare.
La Mastery è riconducibile a strategie che si differenziano tra loro per livelli crescenti di complessità ed efficacia:

a) Strategie di primo livello. Implicano una modificazione dello stato mentale intervenendo direttamente sull’organismo, facendo ricorso all’ evitamento o al supporto interpersonale.
b) Strategie di secondo livello. Comprendono l’autoinibizione di una condotta o la distrazione volontaria.
c) Strategie di terzo livello. Comprendono la critica razionale a credenze disfunzionali, l’uso delle conoscenze sugli stati mentali altrui per risolvere problemi interpersonali e l’accettazione matura dei limiti personali.

Le strategie di mastery di primo livello sono le più semplici da un punto di vista metacognitivo in quanto richiedono, per lo più, la messa in atto di comportamenti senza rilevante impegno riflessivo. Fanno parte delle strategie di primo livello:

– L’azione diretta sul corpo. La persona cerca di agire direttamente sullo stato problematico modificando lo stato generale dell’organismo attraverso l’assunzione di farmaci, alcol, droga o facendo attività fisica. Un problema che può sorgere è l’uso sregolato di farmaci e sostanze, la sessualità compulsiva per placare l’ansia, o diete e iperattività fisica per calmare la tensione o regolare l’autostima.

– L’evitamento. La persona previene le condizioni di insorgenza dello stato problematico evitando attivamente e consapevolmente la situazione temuta.
– La ricerca di coordinamento interpersonale. La persona si rivolge agli altri per ottenere aiuto e supporto. I problemi, in questo caso, includono la difficoltà a chiedere aiuto agli altri, l’incapacità di capire che gli altri sarebbero disponibili ad aiutarci se lo chiedessimo o la tendenza a non fidarsi di se stessi e chiedere aiuto all’esterno alla minima difficoltà senza avere valutato attentamente se l’altra persona è disposta o in grado di darlo.

Perché queste strategie di primo livello siano considerate metacognitive è essenziale che il soggetto abbia deciso deliberatamente e volontariamente di utilizzarle per gestire lo stato mentale problematico.
Facciamo l’esempio di un ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata. Egli utilizzerà strategie di primo livello se, per far fronte al dispiacere e alla delusione, si prenderà una sbornia, eviterà i luoghi in cui può incontrarla o chiederà al primo amico disponibile di fare una passeggiata insieme per parlare. Per utilizzare queste strategie non è necessario essere particolarmente riflessivi, ma è sufficiente essere consapevoli, anche facendo riferimento all’esperienza passata, che un certo comportamento è in grado di modificarli positivamente, anche solo temporaneamente.

Le strategie di mastery di secondo livello richiedono un maggiore impegno riflessivo e sono finalizzate a ottenere una regolazione autonoma dell’assetto mentale.
Fanno parte delle strategie di secondo livello:

– Imporsi o inibire volontariamente un comportamento. Pazienti con Disturbo di Personalità (DP) fanno fatica a imporsi di concentrarsi, a compiere azioni funzionali o ad astenersi da azioni che riconoscono come dannose. Il paziente in stato di stress può non ricordare che l’attività fisica lo aiuta a ridurlo, e quindi resta chiuso in casa a rimuginare improduttivamente.

– Modificare attivamente l’attenzione e la concentrazione sul problema intrapsichico o interpersonale. Il paziente che rimugina sull’idea di essere abbandonato non riesce, ad esempio, a spostare attivamente l’attenzione dal pensiero disturbante, e non riesce a tenere in considerazione che se lo facesse la portata emotiva del problema si ridurrebbe.

Le strategie di secondo livello non contemplano una conoscenza mentalistica sofisticata dell’altro, si limitano a usare una teoria generale del funzionamento della mente altrui, a volte stereotipata, ma dotata di un certo grado di efficacia. Manca un’analisi attenta e individualizzata di cosa le persone con cui si interagisce sentono e provano. Per poter utilizzare queste strategie il soggetto ha bisogno di identificare i suoi pensieri e le sue emozioni e di avere un’idea chiara dei contenuti dai quali vuole distrarsi, deve, inoltre, essere capace di autoesortarsi o autoimporsi dei comportamenti.
Tornando al ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata, mancando di una strategia di secondo livello, il paziente potrebbe dire: “Sono stato tentato più volte di telefonarle e alla fine l’ho fatto. Mi ha attaccato, era rabbiosa e ostile”. Se il paziente si fosse ricordato che in momenti di nervosismo la ragazza non aveva mai dato segni di comprensione, si sarebbe astenuto dal telefonare e quindi non avrebbe sperimentato delusione e rifiuto.

Le strategie di mastery di terzo livello richiedono un elevato impegno e comprendono:

– L’uso di una conoscenza approfondita e critica del proprio stato mentale problematico e del proprio funzionamento ordinario nella gestione della sofferenza psichica e nella soluzione dei problemi. Il paziente con disfunzioni in quest’area non riesce a pensare: “Sono un tipo irritabile e perdo le staffe facilmente quando sono deluso e ferito. Meglio che non la chiami, non sarei in grado di accettare le sue spiegazioni”. Ancor più, il paziente con DP non riesce a dire: “Sento che non mi ama abbastanza e mi trascura, ma il problema è che sono io a essere troppo esigente e non mi accontento mai di quello che gli altri mi danno”.

– L’uso di un’adeguata conoscenza della mente altrui nella soluzione di problemi interpersonali. Il paziente che sta fronteggiando la litigata con la partner non riesce a pensare: “Lei quando si sente ingiustamente attaccata, reagisce in modo impulsivo con insofferenza e rabbiosità. Devo aspettare che le passi per poterle parlare con calma e spiegare quello che è successo”. Al contrario, il paziente tenderà a fronteggiare la rabbia della partner tentando, inutilmente, di spiegare le sue ragioni, pensando di calmarla o sottomettendosi per evitare l’abbandono, dimenticando che nessuna di queste strategie ha mai funzionato con questa persona.

– L’accettazione matura dei propri limiti nel poter influenzare il cambiamento proprio e altrui e influire sugli eventi. Elaborando l’esempio della partner gelosa, il paziente potrebbe avere sollievo se pensasse: “Ho un grosso problema di insicurezza, la mia gelosia nasce da questo e non riesco proprio a controllarla. Purtroppo, per quanto lei si comporti in maniera esemplare e cerchi di farmi capire quanto mi ami, non posso pensare che si chiuda in casa! Però, se le lascio i suoi spazi e non le impedisco di uscire, la mia gelosia non la allontanerà. Se poi riesco a non insospettirmi per ogni cosa, lei non si sentirà controllata e attaccata, sarà più predisposta a comprendere e non si arrabbierà a sua volta”.
Oppure, un altro esempio può riguardare la difficoltà di un paziente di accettare i limiti altrui, capendo che, se l’altro è timido, non è utile criticarlo per non essere un brillante oratore o un animale sociale, ma lo si può stimare per tante altre qualità.

– La capacità di formulare previsioni sull’effetto che le nostre azioni avranno su di noi e sugli altri. Una buona mastery di terzo livello può essere così esemplificata: “Se le telefonassi ora, penserebbe sicuramente che sono in torto e che ho qualcosa da farmi perdonare e assumerebbe un atteggiamento ancora più difensivo. A quel punto io mi innervosirei e la discussione degenererebbe”. Invece, una scarsa mastery mentalistica lascia il paziente preda dell’azione impulsiva: “Mi ha riposto scherzando quando le ho chiesto di dirmi se mi amava. Non le parlo per tre giorni, così impara”. Il paziente da un lato non usa la differenziazione (ovvero non discute l’ipoteticità della propria assunzione), dall’altro dimentica che il proprio comportamento di chiusura avrà un impatto negativo.

Il dominio della mastery è particolarmente importante, carenze in questo ambito sono quelle che di solito creano più problemi ai pazienti con DP, i quali non riescono ad usare la conoscenza mentalistica in modo pragmatico e con finalità di coping e problem solving. La mastery risulta, infatti, compromessa in vario grado in tutti i DP (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

La metacognizione nei pazienti con disturbi di personalità

Le ricerche sulla metacognizione, realizzate utilizzando strumenti specifici come la Scala di Valutazione della Metacognizione (SVaM; Carcione, Dimaggio, Conti et al., 2010; Semerari, Carcione, Dimaggio et al. 2003) e l’Intervista per la Valutazione della Metacognizione (IVaM; Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012), hanno tentato di verificare quattro ipotesi principali:

l) che la metacognizione abbia la struttura ipotizzata e sopra descritta;
2) che pazienti con DP più grave presentino un funzionamento metacognitivo più compromesso;
3) che diversi DP abbiano differenti profili di disfunzione metacognitiva;
4) che la metacognizione migliori nel corso del trattamento e ne predica 1 outcome.

1) In uno studio su un campione non clinico condotto usando la SVaM è emerso che la metacognizione sembra essere composta da due soli fattori distinti: la comprensione dei propri stati mentali e la capacità di comprendere gli stati mentali degli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012). Altre analisi preliminari su campioni clinici sembrano invece confermare una struttura a quattro fattori: monitoraggio, differenziazione, integrazione e comprensione degli altri/decentramento (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Nel campione non clinico, inoltre, è emerso che la capacità di differenziare, ovvero di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni, è correlata più alla comprensione della mente dell’altro che della propria (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012; Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Probabilmente questo è dovuto al fatto che, per mettere in discussione le nostre idee, dobbiamo assumere una prospettiva distaccata, mettendoci nei panni degli altri. Assumere distanza critica sembra quindi essere, in un certo grado, un inizio di assunzione del punto di vista dell’altro.

Nel complesso l’idea che emerge da queste prime ricerche è coerente con gli studi di neuroimaging (Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006) che mostrano come riflettere su di sé o sugli altri coinvolga aree cerebrali specifiche e parzialmente indipendenti pur afferendo allo stesso network.
L’implicazione principale è che sia utile concentrare l’azione clinica sul dominio metacognitivo che appare complesso e tentare di promuoverlo, senza però aspettarsi che il successo si estenda ad altri domini metacognitivi. In altre parole, gli apprendimenti dominio-specifici non verranno generalizzati automaticamente: prendendo l’esempio di una persona che ha difficoltà a descrivere sia gli stati interni (monitoraggio), che a differenziarli, il lavoro sul monitoraggio non apporterà miglioramenti alla differenziazione, ma sarà necessario dedicare un lavoro specifico anche a questo altro dominio.
In altre ricerche, gli studi sulla struttura della metacognizione, mostrano come la mastery abbia a sua volta un certo grado di indipendenza (Lysaker, Erickson, Ringer et al., 2011), supportando l’idea che la comprensione mentalistica non si traduca automaticamente in un coping funzionale, sul quale è necessario lavorare in modo specifico.

2) Riferendoci alla seconda ipotesi (tanto più grave è la patologia di personalità complessiva, tanto più compromessa è la metacognizione), essa sembra essere confermata. Pazienti che soddisfano un numero maggiore di criteri per i vari DP, ovvero che hanno maggiori tratti disfunzionali di personalità, presentano un funzionamento metacognitivo peggiore (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014).

3) All’inizio degli studi sulla metacognizione (Semerari, 1999) si ipotizzava che ogni DP avesse uno specifico profilo di disfunzioni metacognitive. Ad oggi, la ricerca mostra che le differenze metacognitive tra i singoli disturbi non appaiono così nette. Tutti i DP, a diversi livelli, hanno difficoltà nel distanziarsi in modo critico dalle proprie convinzioni, nell’assumere un punto di vista decentrato rispetto agli altri e nell’usare la conoscenza psicologica per padroneggiare i problemi interpersonali e la sofferenza soggettiva (Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009; Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

Se allarghiamo il campo alle ricerche realizzate per studiare costrutti affini alla metacognizione (alessitimia e mentalizzazione), emergono alcune associazioni tra specifici DP e precisi profili metacognitivi. Ad esempio, è emerso che i pazienti con disturbo evitante di personalità hanno difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni, integrarle nella propria rappresentazine di sé e padroneggiale (Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Honkalampi, Hintikka, Antikainen et al., 2001; Nicolò, Semerari, Lysaker et al, 2011; Gullestad, Johansen, Høglend et al, 2013).

Tali difficoltà sono intrinseche al funzionamento dell’evitante e non sembrano dipendere da uno stato depressivo, al contrario di ciò che accade nel disturbo dipendente, nel quale, in momenti di depressione è possibile che l’appiattimento e l’abbattimento riducano la capacità di esplorare con successo il mondo delle emozioni (Nicolò, Semerari, Lysaker et al., 2012).

Tra i pazienti con doppia diagnosi -DP e abuso di sostanze- che presentano alessitimia, la scarsa mastery correla con tratti preminenti del Cluster C (Lysaker, Olesek, Buck et al., 2014). Nel disturbo narcisistico di personalità sono state ipotizzate, e poi identificate, difficoltà nella comprensione sia della propria mente sia di quella degli altri (Dimaggio, Semerari. Falcone et al., 2002; Given-Wilson, McIlwain e Warburton, 2011). Non solo i pazienti narcisisti presentano la tendenza a descrivere le proprie esperienze in maniera ipergeneralizzata, astratta e teorizzante, ma hanno anche difficoltà ad indagare i propri stati affettivi. In particolare, quando provano un’emozione, manca sistematicamente la comprensione del trigger interpersonale, cioè l’evento attivante che si gioca a livello relazionale. Nella sequenza ABC (antecedent, belief, consequence: situazione, pensiero, conseguenza emotiva e comportamentale), possono descrivere bene il B, discretamente il C, ma l’A manca del tutto.

In una popolazione non clinica l’uso dell’ IVaM ha mostrato che il narcisismo è correlato con difficoltà nella descrizione dei propri stati mentali, coerentemente con l’idea che tali pazienti abbiano soprattutto problemi nella descrizione del proprio mondo interno prima ancora che difficoltà nel comprendere gli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., in preparazione).

Riguardo l’empatia è emerso che, nel narcisismo, la capacità di comprendere i pensieri degli altri è preservata, mentre è la risonanza emotiva ad essere più compromessa. Ritter, Dziobek e colleghi (2011) investigando con l’uso della fMRI le aree cerebrali sottese alle abilità empatiche, mostrano che persone con narcisismo tendono a pensare di essere empatiche, ma di fatto non lo sono.

In una recente ricerca di Semerari e colleghi (2015) sono stati messi a confronto due campioni clinici, il primo di pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, il secondo di pazienti con altri DP. Da tale studio è emerso che i pazienti con disturbo borderline mostrano difficoltà in due aspetti: differenziazione e integrazione. Tali risultati suggerirebbero una compromissione specifica per il disturbo borderline e, inoltre, tale compromissione apparirebbe fortemente connessa alla gravità della psicopatologia.

4) Infine, l’idea che la metacognizione migliori se il trattamento è effìcace sembra essere valida: utilizzando la SVaM nell’analisi di trascritti di seduta, le abilità metacognitive appaiono compromesse all’inizio della terapia, ma è presente una tendenza al miglioramento nel corso di terapie di successo (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011; Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009).

Riguardo alla metacognizione come predittore di outcome, uno studio preliminare su pazienti con disturbo borderline ha mostrato come la metacognizione fosse associata alla gravità psicopatologica all’inizio del trattamento e lo scarso decentramento predicesse un peggior esito a tre mesi. Si tratta di uno studio su un piccolo campione e mancano dati su altri DP (Maillard, Kramer e Dimaggio, 2013), pertanto la correlazione tra miglioramento metacognitivo e miglioramento clinico è finora poco più che aneddotica.

Conclusioni

Concludendo, riteniamo che il modello proposto dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale sia un valido e utile contributo al lavoro psicoterapeutico, in particolar modo per il possibile impiego nella pratica clinica, sia nella procedura di assessment sia nel lavoro in seduta.

Nonostante i dati ottenuti siano molto incoraggianti e sembrino confermare le ipotesi proposte dagli autori, la gran parte della ricerca effettuata finora, al di là dei dati sui disturbi evitante e narcisistico, ha avuto prevalentemente come oggetto il disturbo borderline. Resta alta la necessità di investigare gli altri disturbi di personalità sviluppando ulteriori studi che vadano a indagare le variabili considerate su popolazioni cliniche più numerose, attraverso l’ausilio di strumenti differenti, sia di tipo qualitativo che quantitativo.

Burnout e Mindfulness: un punto d’incontro

Nel seguente articolo si parlerà di burnout e mindfulness, due concetti che ad alcuni possono sembrare distanti o addirittura uno all’opposto dell’altro, ma tra i quali in realtà è possibile identificare un filo conduttore o persino un legame.

Luca Scaramagli – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Cos’è il burnout

Ma partiamo dal primo dei due concetti, il burnout, parola di origine anglosassone che letteralmente significa esaurimento, crollo o surriscaldamento, che dà chiaramente l’idea di ciò di cui si sta parlando, ovvero una condizione di stress. Stress quindi inserito in un contesto lavorativo e/o derivante da esso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo, con vissuti di demotivazione, di delusione e disinteresse con concrete conseguenze nella realtà lavorativa, personale e sociale dell’individuo. La sindrome del burnout venne inizialmente associata alle professioni sanitarie e assistenziali, per poi essere riconosciuta come associata a qualsiasi contesto lavorativo con alte condizioni stressanti e pressanti come ad esempio posizioni di grande responsabilità lavorativa.

Lo stress provoca conseguenze a livello globale del funzionamento dell’organismo, ed è facilmente intuibile a quanti e quali livelli possa manifestarsi il burnout:

  • Livello Cognitivo/Emotivo: distacco emotivo, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, importanza eccessiva data al lavoro, demotivazione a lavoro, difficoltà di concentrazione, irritabilità e senso di colpa.
  • Livello Comportamentale: aggressività, abuso di alcool e sostanze, mancanza di iniziativa, assenteismo.
  • Livello Fisico: emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Ma cosa causa il burnout? Le cause possono essere individuate sia a livello individuale, come un eccessivo bisogno di affermazione lavorativa a discapito della propria vita privata e personale, che a livello organizzativo, quali ad esempio eccessive richieste a livello lavorativo o lavoro monotono e scarsamente ricompensato nonché conflitti con colleghi e/o superiori.

Ciò che è anche importante considerare è il danno collaterale che il burnout provoca, infatti chi è a contatto con un operatore o lavoratore eccessivamente stressato ne subisce certamente le conseguenze. Basti pensare a chi svolge ruoli assistenziali e di supporto in ambito sanitario ed è a contatto con pazienti con patologie gravi come i malati oncologici, ai quali è richiesta una particolare attenzione e cura. Le conseguenze possono quindi essere molto serie e, se il problema non viene affrontato, è facile che si incorra in soluzioni risolutorie più facilmente accessibili, come l’abuso di sostanze o attività poco salutari come il gioco d’azzardo, che potrebbero aggravare maggiormente la situazione.

 

Burnout e Mindfulness: gestire lo stress lavorativo con la meditazione

Come è quindi possibile affrontare il burnout? È qui che entra in gioco il secondo protagonista di questo articolo, la Mindfulness. Una pratica derivante dal pensiero buddista, è una forma di meditazione non concettuale, universalmente accessibile e non dipende da alcun sistema di credenze. Questa tecnica meditativa si fonda sulla presa di coscienza, cioè sulla consapevolezza, di sensazioni ed emozioni presenti sia positive che negative, con lo scopo di accettarli senza giudizi e valutazioni. Nella pratica, dal punto di vista dei processi mentali, si concretizza nel prestare attenzione nel momento presente ai seguenti elementi:

  • il proprio corpo
  • le proprie percezioni sensoriali fisiologiche, fisiche e psicologiche
  • le formazioni mentali quali, ad esempio, la rabbia o il dolore
  • gli oggetti della mente

L’obiettivo della mindfulness è l’osservazione di questi elementi appartenenti alla propria esperienza soggettiva in uno stato di calma non reattiva, nella quale si accetta quello che si osserva per ciò che è, senza provarlo ad ostacolare o promuovere in un’ottica non giudicante e non resistente.

Lo scopo finale della mindfulness sarà poi quello di riuscire a generalizzare ed estendere questa “modalità attentiva” alle situazioni e ai contesti della vita quotidiana. Si tratterà di coltivare la consapevolezza in ogni momento della propria vita dalle situazioni facili a quelle difficili e dalle azioni semplici a quelle complesse.

La pratica costante della mindfulness ha quindi l’obiettivo di raggiungere un livello maggiore di benessere psicofisico, essa si è dimostrata infatti efficace nella riduzione dello stress e delle patologie ad esso correlate, nella riduzione dei sintomi fisici legati a malattie organiche, e più in generale nel promuovere cambiamenti nella propria percezione, nel comportamento e nell’atteggiamento con il quale si affrontano le situazioni della vita quotidiana.

Come si legano tra loro i concetti di burnout e mindfulness? La mindfulness è risultata infatti efficace nella cura di vari sintomi o disturbi correlati al burnout (Gilbert, 2005) quali cefalee, disturbi del sonno, ansia, depressione, paura del fallimento e dolori muscolari. Un esempio di questa efficacia è riportato da uno studio condotto da Cohen-Katz e colleghi (2005), nel quale è stato applicato il protocollo MBSR, ovvero Mindfulness Based Stress Reduction. Questo protocollo è stato sviluppato dal professor Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70 ed è risultato efficace verso una serie di patologie correlate o fonti di stress, trovando applicazione anche nelle problematiche psicologiche.

Ritornando allo studio, l’MBSR è stato utilizzato nell’ospedale di Lehigh Valley Hospital & Health Network coinvolgendo gli infermieri professionisti che vi prestano servizio, confermando l’ipotesi che il programma di intervento può essere considerato una strategia efficace per la riduzione del burnout. Negli infermieri che hanno beneficiato del trattamento si è registrata una riduzione significativa delle dimensioni di esaurimento emotivo e depersonalizzazione e un trend di miglioramento nel senso di realizzazione personale. I risultati hanno inoltre mostrato un significativo miglioramento in attenzione e consapevolezza alla mindfulness. Come sottolineano anche gli autori, è importante notare che questa tipologia di intervento andrebbe visto come solo una parte di una strategia più ampia d’azione. Ma burnout e mindfulness da soli non bastano: i ricercatori (Leiter e Maslach, 1988) hanno infatti notato che il burnout è largamente correlato a fattori interni all’organizzazione piuttosto che individuali, ogni intervento condotto individualmente sul lavoratore andrebbe quindi accompagnato da interventi sull’organizzazione a più ampio spettro.

Tenendo in considerazione questi dati e l’idea che burnout e stress non siano esclusivamente caratteristici di professioni sanitarie, come dimostrano infatti ricerche e studi condotti nell’ultimo decennio (Maslach et al., 2001; Schaufeli e Bakker, 2004; Roeser et al., 2013), potrebbe essere interessante estendere questa connessione tra burnout e mindfulness con l’utilizzo di protocolli a differenti contesti lavorativi cercando di aumentare in un primo momento la consapevolezza di cos’è e come affrontare il burnout, e in seguito proporre un adeguato modello di intervento basato su questa pratica di consapevolezza, con il fine di prevenire situazioni di stress eccessive e di promuovere il benessere sul luogo di lavoro.

Tematiche suicidarie e psicoterapia – Incontro del 22 ottobre presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Sabato 22 ottobre 2016 si è svolto il secondo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova” dal titolo “Tematiche suicidarie e psicoterapia” tenuto dal Dr. Francesco Centorame presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova.

Dopo aver fornito una breve carrellata dei principali comportamenti associati al suicidio tra cui il suicidio completato (ovvero quando il soggetto ha effettivamente intenzione di morire e riesce a portare a termine il suo piano), i tentativi di suicidio (cioè comportamenti auto-inflitti potenzialmente dannosi che però non conducono a un esito letale) e l’autolesione (ovvero un atto deliberato potenzialmente dannoso), il Dr. Centorame ha inquadrato il rischio suicidario in termini di incidenza e prevalenza osservando ad esempio un maggior rischio suicidario negli uomini rispetto alle donne.

Viene aperto poi un dibattito libero incentrato sui principali fattori che conducono al suicidio quali la comorbilità con disturbi dell’umore, da abuso di sostanze, disturbi della condotta e disturbo borderline di personalità. Rispetto a quest’ultimo aspetto si è osservato come tale disturbo di personalità sia caratterizzato da squilibri affettivi, rabbia intensa e comportamento impulsivo.

L’impulsività condurrebbe non soltanto al comportamento rabbioso ma sosterrebbe anche una bassa tolleranza alla frustrazione e un’assenza di programmazione che sembrerebbe correlare direttamente ad un maggior rischio suicidario. Fattori che paiono essere secondari nei comportamenti a rischio suicidio sono invece la deprivazione di sonno e la tendenza a prendere decisioni rischiose.

Attraverso l’analisi di casi clinici, il Dr. Centorame si è poi soffermato sull’individuazione degli aspetti di prevenzione e di quelli psicologici utili per il trattamento come ad esempio la percezione di non appartenenza senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere un peso per gli altri, un ridotto timore della sofferenza fisica e della morte, al fine di fornire esempi pratici di gestione clinica e di trattamento specifico.

Pertanto interventi terapeutici utili e necessari paiono essere non solo incentrati sulla modifica di credenze maladattive ma anche interventi mirati sull’ambiente come ad esempio il potenziamento della rete sociale del soggetto a rischio suicidario o interventi familiari tesi a migliorare i rapporti tra i parenti. A conclusione dell’interessante intervento il Dr. Centorame ha mostrato una carrellata dei principali “falsi miti” ovvero delle convinzioni più diffuse che favoriscono i tabù verso le persone suicidarie e ne ostacolano la guarigione.

 

Si segnala che il terzo incontro organizzato dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “La ruminazione e l’alcolismo” tenuto dal Dott. Gabriele Caselli si svolgerà sabato 12 Novembre 2016 ore 10-13.

Promiscuità – fluIDsex

Marta

In quali circostanze si parla di promiscuità sessuale e quando una visione della sessualità come non necessariamente vincolata a una relazione affettiva diventa patologica? Spesso viene diffusa l’idea che gli omosessuali siano più promiscui rispetto agli eterosessuali e che tendano a scindere più facilmente sesso e amore. In che modo è possibile rispondere a ciò?

 

Il concetto di promiscuità sessuale si riferisce comunemente alla diversità dei partner e alla frequenza dei rapporti sessuali con essi, eppure non esiste un confine preciso oltre il quale ci si trova nel terreno della promiscuità.

Psicologicamente può diventare importante riflettere sul significato che tali rapporti assumono nella mente della persona in questione. Ciò che potrebbe rendere patologico un certo tipo di rapporti sessuali è come essi vengono dunque vissuti dal soggetto.

Ad esempio, qualcuno può vivere una sessualità che non ritiene essere coerente con l’immagine di sé e vivere in primis un disagio rispetto a ciò, altri possono investire molto tempo ed energie pensando e ripensando al proprio modo di vivere i propri rapporti. Ed un altro aspetto potrebbe riguardare l’impulsività e l’incontrollabilità del proprio desiderio sessuale.

Per quanto riguarda l’ultima domanda, non ci sono studi scientifici a dimostrazione del fatto che l’orientamento sessuale determini una maggiore promiscuità sessuale. La diffusione di questa idea all’interno della popolazione potrebbe essere legata più a ragioni socio-culturali: come l’assente o difficile riconoscimento dell’esistenza della coppia omosessuale.

Greta Riboli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

fluIDsex - Sessualità fluida nuove prospettive di identità sessuale, tra ricerca e riflessione in psicologia - SFU

Autismo, alimentazione selettiva e passaggio all’età adulta – Plenaria del Congresso Erickson

I relatori della plenaria del 15 ottobre 2016 del Congresso Erickson sui disturbi dello spettro autistico sono Filippo Simeoni (Direttore Cooperativa sociale Il Ponte, Rovereto), Luigi Mazzone (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma), Marco Bertelli (Direttore CREA- Centro di Ricerca E Ambulatori, Fondazione San Sebastiano, Firenze; Presidente EAMH-ID- European Association for Mental Health in Intellectual Disability), Marco de Caris (Università de l’Aquila) e Flavia Chiarotti (Dirigente di Ricerca, Istituto Superiore di Sanità).

 

Apre la plenaria Filippo Simeoni, direttore della cooperativa sociale “il Ponte di Rovereto”, che ci regala la visione del cortometraggio “Tramondi. Un viaggio tra autismo e serigrafia”. Il documentario racconta un progetto che ha visto coinvolto un piccolo gruppo di ragazzi con autismo guidati nella realizzazione di magliette, dalla creazione del logo alla stampa sul tessuto.

Segue Luigi Mazzone che tratta il tema della selettività alimentare, una forte rigidità nelle scelte alimentari che riguarda molti autistici. La selettività è spiegata da fattori diversi (consistenza, odore, colore, marca, …) ma non è mai associata alla mancanza di appetito. Tuttavia non esiste una definizione standard operazionalizzata di tale costrutto e l’eziologia della selettività alimentare nella popolazione autistica con buona probabilità differisce dalla causa di questa problematica nella popolazione tipica. L’ipotesi più probabile è che la selettività negli autistici dipenda dalle alterazioni sensoriali che caratterizzano molti di loro.

Sempre in tema di alimentazione, Mazzone denuncia la mancanza di prove di efficacia delle diete prive di glutine e caseina, ritenute per anni capaci di alleviare i sintomi autistici.  Di grande attualità il tema del Gut Microbiota anche se ad oggi mancano dati certi riguardo l’associazione tra assunzione di probiotici e diminuzione dei sintomi di fobia sociale. La ricerca sul tema è tuttavia molto vivace e c’è da aspettarsi che a breve se ne saprà di più.
L’intervento si chiude con la raccomandazione ad un approccio multidisciplinare al trattamento della selettività alimentare che coinvolga dietologo, psicologo cognitivo-comportamentale, educatori e genitori.

Marco Bertelli affronta il tema dell’autismo nella transizione all’età adulta e quindi della comorbilità con disturbi psichiatrici che, nella popolazione autistica risultano essere più presenti e più precoci, benché assumano caratteristiche diverse rispetto alla popolazione tipica. I disturbi d’ansia e di somatizzazione sono i più diffusi. Varie sono le ipotesi che tentano di spiegare questa maggiore vulnerabilità ai disturbi psichiatrici all’interno di un paradigma bio-psico-sociale. Bertelli denuncia infine l’inadeguatezza dei servizi ospedalieri rispetto ai bisogni di salute mentale delle persone con disturbi intellettivi. Una ricerca dimostra come sia nelle università che nei servizi manchino i giusti riferimenti culturali per garantire una presa in carico di questi pazienti.

Flavia Chiarotti, dell’Istituto Superiore della Sanità, ci parla dell’incidenza dei disturbi dello spettro autistico negli ultimi anni (2000-2012): in Italia si stima la presenza di 5 bambini autistici ogni 1000 bambini di età compresa fra i 6 e i 10 anni.
L’osservatorio nazionale per il monitoraggio dei disturbi autistici (2016-2018) che coinvolge tre aree italiane ( Lecco,  Monza Brianza e Palermo) offrirà dati significativi  per approfondire questo tema ma soprattutto per disciplinare l’erogazione dei  servizi di diagnosi e cura specificatamente rivolti all’autismo.

Al di là di fattori attinenti la raccolta di dati, questo incremento è probabilmente giustificato dalla presenza di fattori di rischio genetici e ambientali. Chiarotti ci tiene a precisare che tra questi ultimi vanno esclusi i vaccini poiché non esiste nessuna correlazione dimostrata tra adesione al programma vaccinale e manifestazione di un disturbo dello spettro autistico.

Marco de Caris ci parla di relazioni amicali e amorose, di sessualità e di matrimonio.
Le persone con disabilità intellettiva hanno una qualità di informazione meno articolata riguardo alla sessualità e all’affettività e questo ha ovvie ricadute sul piano comportamentale. Per la costruzione di una vita socio- affettiva soddisfacente è importante sviluppare tutte quelle abilità che sono alla base della reciprocità e del rispetto delle convenzioni sociali. Anche l’autonomia è fondamentale in un progetto di vita e ha ricadute importanti sull’affettività e sulle relazioni. Il modo migliore per promuovere tutte queste competenze è il lavoro in gruppo, nell’ambito di un progetto di vita in cui anche le scelte terapeutiche rivolte ai più piccoli acquisiscono una forte rilevanza nel determinare il più alto grado di indipendenza da adulti.

Chiude il convegno l’intervento di Giovanni Marino (ANGSA-FIA) che ci parla dei diritti delle persone con autismo nei livelli essenziali di assistenza (LEA), introdotti dalla legge 134/2015. I LEA sono l’insieme di tutte le prestazioni, i servizi e le attività che i cittadini hanno diritto di ottenere dal Servizio Sanitario Nazionale in condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale. Questi servizi impattano sull’insieme dei diritti soggettivi della persona che secondo la Costituzione devono in ogni caso essere garantiti in modo universale e a tutti i cittadini. Ora è necessario che le regioni sappiano emanare appropriati documenti in conformità delle leggi per poter rendere esigibili questi servizi. In tal senso, una risorsa importante può essere l’associazionismo; le associazioni possono diventare veri attori nel panorama sociale nazionale per la rivendicazione dei servizi specifici per l’autismo previsto ora per legge.

Non si litiga davanti ai bambini! O forse si?

Se i genitori riescono a esprimere le proprie emozioni e a gestire insieme il conflitto costruttivamente attraverso compromessi, sforzi per comprendere il punto di vista (anche emotivo) dell’altro e abilità di problem solving, i bambini percepiranno l’emotività positiva che accompagna la risoluzione congiunta del conflitto e che spazza via l’impatto negativo del litigio, e apprenderanno modalità sane e funzionali per superare eventuali disaccordi, un’abilità che nella vita sarà loro molto utile.

Una delle regole d’oro dell’essere dei “bravi” genitori pare sia evitare di litigare di fronte ai figli, a maggior ragione se piccoli. Non solo è vietato lanciarsi dietro i piatti e insultarsi, ma anche alzare la voce o infervorarsi sarebbe riprovevole: “NON – DI FRONTE – AI – BAMBINI…”, si scandisce in un sussurro al primo accenno di rabbia del partner, occhi sgranati, inclinando impercettibilmente la testa a indicare la presenza dei pupi.

Infatti, spinti dal desiderio di tutelare i propri bambini, mamma e papà possono cercare di non manifestare il proprio disaccordo, evitando sfuriate e l’uso di un linguaggio ostile per non turbarli; per alcuni genitori portare rancore senza sfociare in un vero e proprio match di combattimento sembra il modo migliore per gestire un conflitto. Tuttavia disaccordo e rabbia, seppur non espressi verbalmente, non per questo passano inosservati: uno sguardo tagliente, un’occhiata di fuoco, abbandonare la discussione (magari anche uscendo più o meno drammaticamente dalla stanza) oppure il classico trattamento del silenzio valgono più di mille parole. Sono come un “NIENTE” sibilato a denti stretti in risposta a “C’è qualcosa che non va?”: non ci crede nessuno.

 

Cosa dice la ricerca

Pensare che covare rancore senza esprimerlo sia una buona strategia è un errore ingenuo: l’ostilità non verbale turba un bambino tanto quanto una litigata ad alta voce. Come sottolineato nell’interessante articolo pubblicato sul The Atlantic “How Passive Aggression Hurts Children”, prolungati conflitti irrisolti tra i genitori minano la sicurezza emotiva dei bambini e aumentano il rischio che sviluppino problemi psicologici, tra cui depressione, ansia, ritiro sociale e aggressività, siano essi conflitti espressi verbalmente o meno; che mostrino sintomi di sofferenza, rabbia e ostilità; che litighino con maggior frequenza con i compagni.

I bambini sono estremamente sensibili all’ambiente che li circonda e sono molto abili nell’analizzare la comunicazione non verbale e la relativa connotazione emotiva, ma spesso gli adulti, ingenuamente, sottostimano questo aspetto (o sovrastimano le proprie doti di recitazione).

Ovviamente il punto non è evitare in assoluto di litigare – non solo perché sarebbe impossibile, ma anche perché litigare è utile per la salute della coppia. Il punto è come i genitori risolvono il conflitto: in maniera distruttiva o costruttiva? Se i genitori riescono a esprimere le proprie emozioni e a gestire insieme il conflitto costruttivamente attraverso compromessi, sforzi per comprendere il punto di vista (anche emotivo) dell’altro e abilità di problem solving, i bambini percepiranno l’emotività positiva che accompagna la risoluzione congiunta del conflitto e che spazza via l’impatto negativo del litigio, e apprenderanno modalità sane e funzionali per superare eventuali disaccordi, un’abilità che nella vita sarà loro molto utile.

 

La risoluzione costruttiva di un conflitto

È evidente quanto sia importante per i genitori lavorare sugli aspetti comunicativi per imparare a risolvere in maniera costruttiva eventuali discordie, pertanto sarebbe interessante che all’interno dei servizi che offrono interventi psicologici rivolti alla famiglia fossero previsti anche programmi educativi sulla gestione dei conflitti. Il miglioramento di queste abilità sembra infatti avere effetti positivi sui comportamenti internalizzanti dei figli (es. ansia, depressione, tendenza all’isolamento) attraverso il rinforzo della loro sicurezza emotiva (Cummings et al., 2015).

Come sostiene Cummings, in realtà non tuteliamo i nostri bambini evitando di dire come ci sentiamo quando invece chiaramente c’è qualcosa che non va, perché i bambini se ne accorgono. La vera soluzione è mostrare loro come si gestisce costruttivamente un litigio: “la risoluzione dei conflitti è una medicina fantastica”.

Gli uomini omofobici sono solitamente meno interessati alla sessualità

Una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Sexual Medicine ha stabilito che gli uomini omofobici sono tendenzialmente meno interessati al sesso rispetto agli uomini che concepiscono ed accettano l’omosessualità.

 

Questo risultato è emerso analizzando la risposta di dilatazione della pupilla dei soggetti in risposta alla presentazione di immagini relate al sesso. A tal proposito, il team guidato da Boris Cheval dell’Università di Ginevra in Svizzera aveva precedentemente rilevato un bias inconscio nei soggetti omofobici in favore delle immagini relate alla sfera sessuale, ossia essi tendevano ad osservarle meno, a prescindere dal fatto che ritraessero scene eterosessuali od omosessuali.

Questo risultato potrebbe indicare che gli individui omofobici sono in effetti meno interessati alla sessualità in generale, non solo quella di stampo omosessuale. Un’altra ipotesi concepirebbe la natura delle foto come in conflitto con i valori e le credenze di questi individui (i.e., di tipo religioso, culturale), portando così gli omofobici a distanziarsene nel compito. In altre parole, la differenza nel tempo di osservazione delle immagini a sfondo omosessuale potrebbe rappresentare una forma di self-regulation.

Il team di ricercatori, quindi, ha voluto stabilire se questa reazione fosse conscia o meno. I soggetti omofobici erano davvero meno interessati alle immagini relate al sesso o tentavano volutamente a distogliere l’attenzione poiché il materiale presentato era in conflitto con i loro valori?

Lo studio

Per cercare di stabilire quale ipotesi fosse veritiera, Cheval e i suoi colleghi hanno reclutato 38 uomini eterosessuali e valutato i loro atteggiamenti nei confronti degli omosessuali tramite un questionario.

In seguito i ricercatori hanno istruito i partecipanti a dare un punteggio su una scala a 9 punti, che spaziava da “molto spiacevole” a “molto piacevole”, a 25 immagini. Ogni partecipante osservava 10 immagini che ritraevano coppie omosessuali, 10 immagini di coppie eterosessuali e 5 immagini neutre; quando i partecipanti osservavano le immagini, i ricercatori misuravano le variazioni nella contrazione delle pupille. Infatti, le pupille tendono a dilatarsi alla presentazione di immagini a sfondo sessuale, anche quando una persona consapevolmente tende a sopprimere il proprio desiderio (Hess & Polt, 1960; Hess, Seltzer & Shlien, 1965).

I risultati hanno confermato che i partecipanti in generale esibivano una dilatazione delle pupille maggiore alla presentazione di immagini relate al sesso tra coppie eterosessuali rispetto a quelle di coppie omosessuali o neutre. Tuttavia, i ricercatori hanno rilevano anche come la dilatazione delle pupille degli uomini omofobici fosse significativamente inferiore rispetto a quelle degli uomini non omofobici.

La scoperta suggerisce che la mancanza di interesse nei confronti di stimoli sessuali derivi da una reazione inconscia, spontanea, piuttosto che da una forma consapevole e strategica di autoregolamentazione, dato che la dilatazione della pupilla non è facilmente controllabile. In teoria, quindi, questi risultati rafforzerebbero l’ipotesi che l’omofobia rifletterebbe delle preoccupazioni dell’individuo sulla sessualità in generale.

Un abbraccio d’amore e di passione: Amore e Psiche di Canova

Il mito di “Amore e Psiche” ha affascinato tanti artisti nel corso dei secoli, tra cui lo scultore veneto Antonio Canova (1757-1822), uno dei maggiori protagonisti del Neoclassicismo. Ciò che contraddistinse il suo stile artistico fu l’adesione ai principi dell’arte classica: armonia, equilibrio, compostezza.

Il mito di Amore e Psiche

Quella di Amore e Psiche è, secondo me, una delle più belle storie d’amore mai raccontate: a scriverla fu, nel II secolo d.C., Lucio Apuleio nelle sue “Metamorfosi” (o “L’asino d’oro”).

“Vi erano in una città un re e una regina. Questi avevano tre bellissime figliole. Ma le due più grandi, quantunque di aspetto leggiadrissimo, pure era possibile celebrarle degnamente con parole umane; mentre la splendida bellezza della minore non si poteva descrivere, e non esistevano parole per lodarla adeguatamente”: è così che ha inizio la favola di “Amore e Psiche” che narra la storia del Dio Amore che si innamora perdutamente di una ragazza di rara bellezza e di come entrambi, per raggiungere l’amore eterno, debbano affrontare numerose difficoltà. Psiche, infatti, era talmente bella che suscitò l’invidia di Venere, la quale le inviò Amore con lo scopo di farla innamorare di un uomo brutto ed insignificante. Fu invece lo stesso Dio Amore ad innamorarsi della fanciulla.

Canova: un artista del Neoclassicismo

Il mito di “Amore e Psiche” ha affascinato tanti artisti nel corso dei secoli, tra cui lo scultore veneto Antonio Canova (1757-1822), uno dei maggiori protagonisti del Neoclassicismo. Ciò che contraddistinse il suo stile artistico fu l’adesione ai principi dell’arte classica: armonia, equilibrio, compostezza. Dopo gli eccessi decorativi del barocco e del rococò, si era infatti affermato un nuovo orientamento classicista, che reputava l’antichità greca e romana quale esempio perfetto a cui ispirarsi nel campo dell’arte. Il Canova, meglio di ogni altro artista, seppe recuperare il vagheggiato ideale dell’arte antica, rendendolo vivo ed attuale.

In accordo con il ritorno al “bello ideale” teorizzato dal Winckelmann, Antonio Canova realizzò il bianchissimo gruppo scultoreo di “Amore e Psiche”, la cui versione più nota è quella del 1787-93, conservata al Museo del Louvre a Parigi. La scultura rappresenta il Dio Amore mentre contempla il volto della fanciulla amata, nell’attimo subito precedente al bacio, in un momento carico di tensione emotiva e di raffinato erotismo in cui i due giovani sono uniti in un abbraccio d’amore passionale ed eterno. Il vero protagonista della scena è il bacio, sospeso ed immaginato, ed infatti il Canova rappresenta i due amanti con le labbra schiuse, un attimo prima che si bacino, in un momento di grande dolcezza e sottile sensualità.
Ricca di significati allegorici ed affascinante per l’intensità dei sentimenti che trapelano dal marmo, la scultura “parla” di argomenti che toccano la coscienza, le emozioni e l’inconscio.

Amore e Psiche: il significato del mito

Partiamo dall’etimologia del termine “psiche”, che si riconduce all’idea del soffio, ovvero del respiro vitale; presso i Greci designava l’anima, in quanto originariamente identificata con quel respiro. Dunque Psiche rappresenta l’Anima, mentre il Dio Amore (Cupido) rappresenta il desiderio e la passione. Il Canova, attraverso la sua scultura in marmo bianco, ci accompagna nella coinvolgente esperienza dell’amore, della passione, del desiderio sessuale. Il gruppo scultoreo può essere analizzato da un punto di vista psicoanalitico riguardo a due temi fondamentali: da una parte la nascita e lo sviluppo di un rapporto d’amore ed i suoi effetti sull’animo umano e sulla psiche, dall’altra il rapporto che ogni uomo ha con la propria anima e con la propria psiche.

Amore, ad un certo punto della vita di ciascuno di noi, arriva e allora cosa succede quando l’Amore incontra l’Anima? Abbandonandosi alla passione amorosa, l’Anima si allontana dal suo obiettivo, cioè il conseguimento dell’immortalità. La vicenda di Psiche, infatti, simboleggia il destino dell’anima umana che cade in errore e deve superare numerose prove e sofferenze per essere degna della salvezza, che può arrivare solo con l’intervento del divino. Infatti, dopo l’avventura erotica, Psiche verrà punita per la sua curiosità e dovrà affrontare alcune prove molto dolorose in seguito alle quali otterrà l’immortalità, grazie all’aiuto di Zeus. Eros, l’amore sessuale, ha come scopo quello di psichicizzare la vita nel piacere, nel dolore, nell’incontro, nell’abbandono, nell’affetto e nel rancore. Eros è amore passionale, mentre Venere (colei che invia Amore a Psiche) è amore più consapevole, insieme sessuale e spirituale: sono due forze che agiscono nell’anima umana ed elevano il corpo verso lo spirito. Attraverso le gioie ed i dolori dell’amore, l’essere umano viene psichicizzato e viene dotato di un‘anima, in questo senso la sessualità umana ha una componente spirituale molto forte che ci rende esseri psichici.

Nella scultura del Canova la donna è rappresentata in un momento di trasformazione psichica di grande significato, quando incontra un uomo individualmente, quando riconosce Eros e lo ama. E’ la relazione tra l’uomo e la donna – in termini junghiani tra l’individuo e l’Anima – che rappresenta il Canova e che tanto interessa gli psicologi del profondo: l’Anima viene ammaestrata dallo sbocciare dell’Amore e lo sviluppo psichico procede attraverso le esperienze amorose. Psiche, attraverso l’Amore, giunge ad un “matrimonio spirituale tra un IO ed un TU”, all’interno di un processo di trasformazione e di sviluppo psichico.

Il significato dell’opera alla luce della psicologia analitica junghiana

Il riferimento teorico fondamentale è la psicologia analitica di Jung, che ha saputo comprendere il percorso evolutivo della donna mediante lo studio antropologico dei miti ed ha riconosciuto nell’interiorità della donna una parte maschile (il cosiddetto Animus), così come nell’inconscio dell’uomo la presenza attiva di un principio femminile (l’Anima). L’uomo si sente attratto dal femminile, perché lì incontra la figura dell’Anima, la quale, come figura femminile interiore dell’uomo, spinge il maschile alla trasformazione, ad agire e ad affrontare nuove avventure dello spirito. Analogamente, la figura dell’Animus, come guida della Psiche, esercita l’effetto corrispondente sul femminile. L’Anima (che è cura, protezione, affettività) è la componente femminile presente nell’apparato psichico di ogni uomo, mentre l’Animus (che è controllo, ponderazione, riflessività, razionalità) è l’aspetto maschile presente nell’apparato psichico di ogni donna. L’Animus è la figura che compensa l’energia femminile; l’Anima quella che compensa l’energia maschile.

Ne consegue che, conoscendo bene questo lato della propria psiche, è possibile interagire in modo armonico con l’altro sesso e diviene più facile instaurare una relazione sana e gratificante.

Il disturbo ossessivo compulsivo: credenze e dinamiche

Il disturbo ossessivo compulsivo rientra nello spettro dei disturbi di tipo ansioso, infatti la compulsione è il tentativo di controllo di una ossessione che non ammette errori, pena finire in una zona d’ombra totalmente incerta.

Simone Zignani, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

Il disturbo Ossessivo Compulsivo viene definito dal DSM-5 come caratterizzato principalmente da ossessioni e da compulsioni (American Psychiatric Association, 2013).
La struttura del disturbo si articola principalmente rispondendo alle preoccupazioni (ossessioni) con dei comportamenti riparatori (compulsioni).
La differenza da un comportamento funzionale sta nell’intensità sia della preoccupazione, sia della risposta ad essa.

Le ossessioni

Il disturbo ossessivo compulsivo viene annoverato tra i disturbi d’ansia perché, come la maggioranza dei disturbi in questa famiglia, comprende delle credenze distorte che sovrastimano l’importanza delle conseguenze (Foa & Kozak, 1997).
I contenuti di queste ideazioni riguardano principalmente tre aspetti: perdita, pericolo o colpa (Salkovskis, 1985).

Da notare come i pensieri possano essere percepiti come egodistonici, ovvero estranei al proprio sistema di valori, dai soggetti interessati; questo è il motivo per cui vengono percepiti come intrusivi e si vogliano neutralizzare (Foa & Kozak, 1997); il contenuto mentale è quindi allo stesso tempo inaccettabile e frustrante (Klark & Purdon, 1993), quindi da negare, e diventa una ossessione vera e propria, che è ricorrente e persistente (Brakoulias & Starcevic, 2011).

Da ciò derivano delle assunzioni che riguardano principalmente i pensieri e la relazione con essi (Salkovskis, 1985):
– pensare ad una azione equivale ad agirla;
– non prevenire un danno a sé o agli altri equivale ad averlo causato;
– la responsabilità non viene attenuata da altre variabili;
– non cercare di neutralizzare un pensiero intrusivo equivale a lasciare che il contenuto di quel pensiero si verifichi;
– uno dovrebbe, perché può, esercitare controllo sui suoi pensieri.

Inoltre, pensando alle ossessioni, se le poniamo lungo un continuum che può andare da una credenza forte, dogmatica, a una credenza debole con presenza quindi di insight da parte del soggetto sulla sua problematicità, capiamo come anche all’interno di questo quadro clinico ci possano essere importanti differenze.
Nei soggetti in cui le credenze sono più forti, ad esempio, ci sono anche meno risorse cognitive, soprattutto nel grado di flessibilità (Bradbury et al., 2011) e di conseguenza il trattamento dovrà tenerne conto prima di un qualsiasi tentativo di disputing; oltre a questo la mancanza di insight potrebbe portare all’assenza o riduzione dell’egodistonia delle ossessioni, rendendo di conseguenza difficile anche una diagnosi appropriata (Brakoulias & Starcevic, 2011).

Per far fronte a queste problematiche, che come si può vedere sono date dalla complessità sia di contenuto, che di struttura delle credenze, si riprendono di seguito le caratteristiche ritrovate da Brakoulias e Starcevic nel loro studio del 2011:

Convinzione: quanto il soggetto pensa che la sua credenza sia vera
Fissità: quanto il soggetto sia disposto a mettere in discussione la sua credenza davanti ad una evidenza contraria ad essa
Fluttuazione: quanto la convinzione del soggetto cambia in assenza di prove a sfavore della sua credenza
Resistenza: quanto la persona cerca di reprimere la sua credenza
Consapevolezza dell’inaccuratezza della credenza: quanto la persona è consapevole dell’insensatezza o della inaccuratezza della sua credenza
Abilità di attribuire la credenza a una malattia: capacità del soggetto di attribuire la credenza a un disturbo mentale (il D.O.C. in questo caso)

Dinamica dei processi

La compulsione, per come viene definita, può comprendere tutti quei comportamenti stereotipati (ad esempio pulirsi le mani per non rimanere contaminati), ma anche pensieri, utilizzati per rispondere alla preoccupazione (American Psychiatric Association, 2013).
L’utilità di questa risposta sta nel fatto che evita completamente l’eventualità potenziale di affrontare quel timore, attraverso un meccanismo di controllo.
Se, ad esempio, l’ossessione è che toccando oggetti esterni al proprio ambiente domestico si può rimanere contaminati, utilizzando dei guanti per toccare ogni oggetto fuori casa si evita totalmente l’eventualità di contatto, e quindi sia l’eventualità di confermare questa credenza, sia l’eventualità di disconfermarla non rimanendo contaminati.
La rigidità della compulsione rende a sua volta rigida la preoccupazione, che trovando solo conferme diventa una ossessione.
Dato che la compulsione nel breve termine diminuisce lo stress neutralizzando l’ossessione, può venire generalizzata ad ogni elemento stressogeno e quindi divenire la strategia di coping preferita dal soggetto (Salkovskis, 1985).

Aspetti emotivi del disturbo ossessivo compulsivo

Il disturbo ossessivo compulsivo rientra nello spettro dei disturbi di tipo ansioso, infatti la compulsione è il tentativo di controllo di una ossessione che non ammette errori, pena finire in una zona d’ombra totalmente incerta, dinamica supportata dai risultati degli studi di Steketee & al., 1998.
Secondo tali autori, infatti, non solo sono le credenze riguardo la responsabilità, il controllo e la minaccia quelle caratterizzanti del disturbo ossessivo compulsivo, ma anche quelle riguardo alla intolleranza dell’incertezza o dello stress.

E’ stato riscontrato come il senso di colpa sia un’emozione fortemente correlata a questo disturbo e alla depressione, che può essere in comorbidità (Shafran, 1996).
Infatti le compulsioni possono essere finalizzate a evitare l’ipotetica responsabilità di arrecare danno che il soggetto incontrerebbe; inoltre non agire la compulsione vorrebbe dire non assicurarsi di evitare questo scenario, e omettere una azione è già di per sé una colpa secondo questo schema (non ho fatto niente per impedirlo).

L’evitare il senso di colpa è già di per sé una gratificazione, e quindi il soggetto ha un miglioramento dell’umore nel breve periodo, che rinforza l’utilizzo della compulsione come risposta all’ossessione (Salkovskis, 1985).
Oltre a questo, però è da precisare come c’è la possibilità che il soggetto si vergogni delle sue compulsioni (Prins & Schooling, 2001), e questo sentimento sia di per sè stressogeno e quindi la compulsione stessa possa diventare uno stimolo; inoltre questo implica una certa difficoltà per la persona a riportare questi comportamenti in psicoterapia.

Aspetti metacognitivi del disturbo ossessivo compulsivo

Le credenze sul controllo veicolano una forte attenzione rivolta verso i propri pensieri intrusivi e un grande sforzo per cercare di neutralizzarli (Clark & Purdon, 1993).
Dato che ciò non è mai totalmente possibile e l’ossessione si ripresenta il soggetto non solo può provare rabbia per il fallimento del controllo, ma potrà impegnarsi maggiormente nelle sue strategie per neutralizzare il pensiero, ad esempio ricorrendo a dei rituali.

Aspetti comportamentali del disturbo ossessivo compulsivo

Le compulsioni, comportamentali o mentali che siano, hanno sostanzialmente la funzione di ridurre lo stress ed evitare le conseguenze temute delle ossessioni; per questo le esposizioni, nei trattamenti, mirano a far comprendere come questi comportamenti abbiano questa utilità prima di tutto (Prins & Schooling, 2001).

Trattamento del disturbo ossessivo compulsivo

Tra le diverse terapie, l’indirizzo cognitivo-comportamentale sembra il più indicato per trattare il disturbo (Storch & Mariaskin, 2009).
La componente comportamentale, costituita principalmente da esposizioni graduali per prevenire la risposta (quindi la compulsione) a determinati stimoli ambientali, però, potrebbe risultare sterile o non seguita, senza un adeguato lavoro cognitivo (Storch & al., 2009).

Questo perché il rinunciare ad una compulsione per un soggetto può essere molto faticoso, addirittura può sembrare totalmente inutile e insensato.
Pertanto è necessario ristrutturare prima le credenze, che si sono irrigidite nel circolo vizioso ossessione-compulsione, sia per motivare il paziente rendendolo cosciente della natura del suo disagio, sia per dare maggiori strumenti cognitivi al soggetto che andrà a trovarsi in una situazione difficile (Franklin & Foa, 2011).

La componente cognitiva è a mio avviso essenziale nel trattamento di questo disturbo, e il fatto che le compulsioni possano essere mentali e non esternalizzate rende evidente il limite di un approccio basato esclusivamente su tecniche comportamentali.
Un aspetto fondamentale del trattamento, a tal riguardo, è normalizzare i pensieri intrusivi e diminuire l’egodistonia (Waite & Williams, 2009); fare questo può già di per sé diminuire lo stress, e può inoltre andare ad agire a livello delle assunzioni viste in precedenza.

Nello specifico il controllo dei pensieri si rivela meno necessario se sono percepiti come meno minacciosi, per cui può essere un buon punto di partenza per ritrattare questa assunzione e conseguentemente le altre.
Oltretutto il trattamento della parte cognitiva è anche la più incisiva per l’evitamento di ricadute (Valente, 2002).
Nello specifico occorre, prima di tutto, fare un inventario delle ossessioni e delle compulsioni, sia per capire la dinamica specifica del paziente, sia per capire il più precisamente possibile quali siano i significati che attribuisce alle situazioni attivanti e ai suoi pensieri e comportamenti (Prins & Schooling, 2001).
Questo è importante anche perché a volte il paziente può pensare alla compulsione come a un derivato di importanza relativa, quando invece la dinamica dell’evitamento è fondamentale nel mantenimento del disturbo, pertanto andrà sicuramente trattata con molta cura e attenzione.

Conclusioni

In conclusione, ci si può approcciare al disturbo ossessivo compulsivo soprattutto conoscendo il paziente e il suo funzionamento, sia a livello cognitivo che a livello metacognitivo e comportamentale.

Essendo le credenze molto diversificate tra loro come caratteristiche, pur magari avendo contenuti simili, non è possibile trattare un paziente che abbia un insight allo stesso modo di uno che abbia invece delle credenze molto dogmatiche.

E’ altresì vero che come il paziente reagisce a queste credenze è ciò che poi sviluppa e mantiene il disturbo, sia a livello di significati, sia a livello di comportamenti mentali o espliciti; motivo per cui è importante indagare sia il contenuto che il processo per poter comprendere il quadro clinico.
A tal proposito sembra discriminante l’utilità di evitamento che la risposta ha, che attraverso il controllo non disconferma mai le suddette credenze.

L’approccio a questo disturbo si presenta quindi come multifattoriale e va trattato nella sua totalità, come pervasivo nella vita cognitiva, comportamentale ed emotiva della quotidianità della persona.

Cinque meccanismi comunicativi disfunzionali con cui danneggi la coppia o la famiglia

Difese transpersonali vengono messe in atto inconsapevolmente all’interno della relazione attraverso meccanismi comunicativi basati sulla disconferma, ovvero sulla negazione dell’esistenza dell’altro, dei suoi autentici stati d’animo e caratteristiche.

 

Tutti, secondo lo psichiatra Laing (1969), utilizzano difese transpersonali per dirigere e controllare la vita psichica altrui al fine di preservare la propria. Ciò avviene specialmente in famiglia, per la necessità di difendersi da angosce di base comuni. In generale, ci serviamo inconsciamente dei meccanismi di difesa per falsificare, negare o deformare la realtà e renderla più accettabile a noi stessi.

Queste difese transpersonali vengono messe in atto inconsapevolmente all’interno della relazione attraverso meccanismi comunicativi basati sulla disconferma, ovvero sulla negazione dell’esistenza dell’altro (Canevelli, 2016), dei suoi autentici stati d’animo e caratteristiche.

Tali meccanismi comunicativi sono stati studiati negli anni ’60 da psichiatri come Laing e Wynne (1969; 1972), pionieri che affrontarono le modalità comunicative disfunzionali all’interno di famiglie con un membro schizofrenico.

Questi modi di comunicare, che ora passeremo in rassegna, non sono però tipici esclusivamente di famiglie con membro psicotico: si tratta di modalità che molti di noi impiegano quotidianamente, ma che compromettono seriamente la vita di coppia o familiare.

 

I cinque meccanismi comunicativi da evitare col partner e con i famigliari

Ecco cinque meccanismi comunicativi da evitare se non vogliamo compromettere le relazioni significative:

1.La collusione. Essa è definita da Laing (1969) un “gioco” ma anche un “inganno”. Avviene quando due o più persone, inconsapevolmente, ingannano se stesse e gli altri incarnando delle fantasie che non corrispondono alla realtà e ricoprendo dei ruoli fissi, da cui restano però intrappolati. Essa subentra specialmente nella coppia, dove ciascuno trova nell’altro la possibilità di veder confermata e avallata una certa nozione di se stesso elaborata in fantasia. La collusione, ad esempio, può avvenire in una famiglia che vive il mito dell’armonia, che nega le ambivalenze e in cui vengono attribuite ad ognuno delle identità immobili che impediscono di evolversi e differenziarsi.

Un esempio può essere costituito da una coppia di questo tipo: l’uno è una persona che è cresciuta con miti positivi su se stessa come “so aiutare bene gli altri” e che non tollererà frustrazioni su questa aspettativa grandiosa. L’altro è un individuo che vive di miti opposti, di autosvalutazione e bisogno di essere salvato, dunque grato e adorante verso chi è disposto a valorizzarlo. Questi saranno i partner perfetti nel rispondere l’uno ai bisogni dell’altro: nell’alimentare i miti e le fantasie di entrambi, l’autenticità di ciascuno viene costantemente elusa in favore di una continua simulazione. In questo tipo di coppia ciascun partner è accettato dall’altro solo in base a quello che l’altro si aspetta e cerca in lui. (Vella e Camillocci Solfaroli, 1996).

2.L’occultamento. Secondo Wynne (1972), esso avviene quando un membro della famiglia si pone in una posizione di superiorità e potere affermando di saperne di più, ma di non poter rivelare tali verità per misteriosi motivi. Gli altri vengono quindi resi dipendenti e incapaci di svincolarsi e differenziarsi. Mantenere dei segreti, infatti, garantisce un forte potere e la possibilità di tenere sotto scacco l’altro.

3.La strategia del silenzio. Secondo lo psichiatra Zuk (1965), si tratta di manovre, verbali e non verbali, mirate a punire qualcuno per una trasgressione. Ciò avviene attraverso isolamenti e silenzi che proibiscono la comunicazione. Si tratta di una tattica spesso messa in atto da partner femminili all’interno di una coppia.

4.Il negoziato della dissociazione. Per Wynne (1963) si tratta di una comunicazione in cui ognuno attribuisce all’altro un certo modo di sentire che non solo in realtà corrisponde alle parti più regressive di sé, ma non viene riconosciuto come proprio (viene dunque dissociato). Si tratta di uno “scambio di dissociazioni” (Canevelli, 2016) che avviene a livello inconsapevole tra i due partner di una relazione ed è dovuto a sentimenti che, se riconosciuti come propri, sarebbero intollerabili. Ad esempio, un membro della famiglia può dissociare il proprio sentimento di rabbia e attribuirlo a un altro membro, il quale a sua volta attribuirà all’altro una componente di sé inaccettabile, come un’estrema insicurezza. Ognuno centra dunque l’attenzione sulle parti più immature dell’altro (che in realtà sono le proprie) e vi offre sostegno, amplificandole, pur di sentirle lontane da sè.

5.La pseudomutualità. Per Wynne (1958) è una modalità comunicativa e relazionale attraverso cui i membri della famiglia si sforzano di mantenere un’apparente coesione. Vengono dunque compromesse le singole individualità e i conflitti vengono evitati perché considerati distruttivi. Le differenze vengono percepite come pericoli per la relazione e dunque evitate e i membri della famiglia sono costretti ad assumere dei ruoli fissi, magari alternandosi. Aver paura delle differenze non potrà che compromettere fortemente un percorso sano di crescita, il quale spesso necessita invece della rottura dello status quo e della trasgressione.

In conclusione, questi sono solo alcuni dei meccanismi comunicativi disfunzionali che mettono a dura prova la vita di coppia o familiare. Conoscerli può aiutarci a comunicare con l’altro in modo più rispettoso, lasciandogli la libertà di esprimere la sua individualità e rinunciando a giochi di potere che lo tengono imbrigliato. In questo modo, rinunciando a ricoprire e ad attribuire ruoli fissi, possiamo aprirci a un clima relazionale e comunicativo che non teme le diversità, ma le governa e concilia in modo costruttivo e armonico.

Dal disturbo di linguaggio al disturbo di comunicazione – Report dal Congresso Erickson

L’osservazione e la valutazione del primo sviluppo comunicativo del bambino permette di costruire interventi diretti e indiretti con lo scopo di garantire un’opportunità di sviluppo. I trattamenti diretti si rivelano più efficaci se sono precoci e integrati nei contesti di vita quotidiana del bambino, gli interventi indiretti riguardano la presa in carico della famiglia del bambino in modo da rendere i genitori parte attiva della terapia.

 

Workshop di Luigi Girolametto (Department of Speech-Language Pathology, University of Toronto) e Luigi Marotta (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma)

 

Nel DSM-5 vengono presentate molte categorie all’interno della più ampia area del disturbo del linguaggio: il disturbo fonetico fonologico, il disturbo della pragmatica della comunicazione, il disturbo della comunicazione non altrimenti specificato.

La domanda che pone Luigi Marotta (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù di Roma) riguarda la difficoltà della diagnosi differenziale con il disturbo dello spettro autistico visto che tra i due disturbi vi è molta comorbidità; quindi dove finisce il disturbo pragmatico della comunicazione e inizia l’autismo? La questione è difficile da disciplinare in quanto esistono pochi test italiani per la valutazione del disturbo pragmatico della comunicazione e le analisi quantitative dei comportamenti disponibili sono dedotte.

Per arrivare ad una diagnosi differenziale, è quindi necessario procedere individuando i criteri di inclusione/esclusione e attuare percorsi di valutazione integrati ma specifici per ogni contesto sociale e familiare. Nella valutazione logopedica per il disturbo dello spettro autistico è necessario prendere in considerazione gli elementi della pragmatica della comunicazione, come le funzioni comunicative (es. fare richieste, rispondere), le abilità socio-conversazionali (es. l’assertività, la responsività), le interazioni con i coetanei, la narrazione, la capacità di adattare il linguaggio a seconda dei differenti contesti e gli elementi per la valutazione del linguaggio (es. grammatica, lessico, vocabolario..).

L’osservazione e la valutazione del primo sviluppo comunicativo del bambino permette di costruire interventi diretti e indiretti con lo scopo di garantire un’opportunità di sviluppo. I trattamenti diretti si rivelano più efficaci se sono precoci e integrati nei contesti di vita quotidiana del bambino, gli interventi indiretti riguardano la presa in carico della famiglia del bambino in modo da rendere i genitori parte attiva della terapia. Come ci presenta Luigi Girolametto con il Progetto “More than words”, l’intervento di “parent coaching”, basato sul livello e sul tipo di relazione tra genitore e bambino, ha come obiettivo il focus sulle esigenze del genitore e poi la formazione specifica affinché il genitore possa diventare un agente terapeutico.

Si propone infine di utilizzare un intervento di questo tipo anche negli asili e nelle scuole materne formando le insegnanti nell’ottica di garantire un’opportunità di sviluppo ai bambini con disturbo dello spettro autistico sfruttando le risorse del contesto scolastico.

L’ angelo della morte: identikit di una serial killer

Le chiamano Angeli della Morte, donne criminali il cui profilo psicologico è stato variamente studiato in letteratura, l’ angelo della morte inizia di solito la sua carriera poco dopo i vent’anni in scenari circoscritti come case di cura, ospedali e altri luoghi dove la morte è un evento regolare.

 

Nell’Ottobre del 2014 Daniela Poggiali, l’infermiera killer di Lugo di Romagna, finisce in carcere per aver ucciso, secondo l’accusa, 93 pazienti, a cui avrebbe iniettato del cloruro di potassio in dosi letali. Secondo il pm il movente dei delitti era ben lungi da motivazioni riconducibili, per esempio, al porre termine alle sofferenze dei malati in fase terminale, ma piuttosto legato al non dover accudire pazienti “difficili” (Corriere della Sera, 2014).

Un caso non isolato nel panorama italiano: Sonya Caleffi, altra infermiera killer, viene condannata nel luglio 2006 a venti anni di carcere per l’omicidio di cinque pazienti e il tentato omicidio di altri due avvenuti nell’ospedale di Lecco.

Le chiamano Angeli della Morte, donne criminali il cui profilo psicologico è stato variamente studiato in letteratura. L’ angelo della morte inizia di solito la sua carriera poco dopo i vent’anni in scenari circoscritti come case di cura, ospedali e altri luoghi dove la morte è un evento regolare. Luoghi dove gli omicidi possono essere facilmente dissimulati, e dove l’omicida gode del potere di decidere chi vivrà e chi morirà (oltre che della stima di medici e familiari), e ha facile accesso a ogni genere di attrezzatura adibita a mantenere in vita (o a dare la morte). In tali contesti è facile procurarsi l’arma per uccidere: interrompere il flusso di ossigeno, raddoppiare la dose, aggiungere un farmaco (Lucarelli e Picozzi, 2003).

 

L’ angelo della morte: come agisce?

Si tratta di comportamenti con forte componente ritualistica, che ripropongono identiche modalità nella loro esecuzione, in una sorta di oscura celebrazione che costituisce la firma dell’assassino, e che gli consente di trarre piacere dall’atto in sé, conferendo all’azione omicidiaria un carattere piacevole (egosintonico) a cui l’ angelo della morte difficilmente è disposto a rinunciare. Una condizione che si somma alla generale efficacia dei mezzi adoperati, come l’iniezione in quanto azione ospedaliera di routine, che spiega il lasso temporale consistente che può intercorrere dalla commissione dei primi omicidi alla scoperta degli stessi (L’altro diritto, 2016).

Nel caso delle infermiere killer, il ciclo dei delitti è di otto nell’arco di uno-due anni, anche se può arrivare a più di sedici, se l’assassina è nomade. La breve durata della sua carriera di norma può in alcuni casi spiegarsi dalla tendenza a vantarsi delle proprie azioni (De Pasquali, 2002).

Il potere di vita e di morte è una forte motivazione alla base dei delitti dell’ angelo della morte, ma non l’unico: gli angeli della morte vogliono essere le prime a dare l’allarme in reparto, a farsi trovare pronte nello scompiglio generale, anche a costo di provocare la morte degli assistiti, soddisfacendo così il proprio narcisismo.

Un bisogno di attrarre l’attenzione che ripercorre spesso un passato di bambine trascurate e insoddisfatte di sé che prepara il terreno alla futura carriera criminale. Per esempio, il passato di Beverley Gail Allitt, infermiera inglese pediatrica accusata di aver ucciso quattro bambini e feriti altri cinque, nel 1991 a Grantham, fu quello di bambina sovrappeso e autolesionistica, ossessionata dal bisogno di attenzioni. Ciò la spingeva in reparto a essere sempre in prima linea e prodiga nei confronti delle sue piccole vittime (Particelli, 2010).

La scelta delle vittime

La scelta delle vittime poggia spesso su criteri del tutto soggettivi, agghiaccianti. Come nel caso di Waltraud Wagner, infermiera dell’ospedale Lainz di Vienna, che rese noto nel processo a suo carico per l’uccisione di 39 pazienti, la modalità della scelta: quelli che russavano, che bagnavano le lenzuola, che rifiutavano di prendere le medicine o che facevano semplicemente innervosire le infermiere (Particelli, 2010).

Intenzioni di dominio su persone deboli, indifese, chiaramente espresse dalla stessa Wagner che confesserà in carcere: “Quelli che mi stavano sui nervi venivano spediti direttamente in un letto libero del buon Dio. Naturalmente i pazienti resistevano, ma noi eravamo più forti: potevamo decidere se quei vecchi matusalemme potevano vivere o morire. In ogni caso il loro biglietto per l’aldilà era scaduto” (Lucarelli e Picozzi, 2003).

Storie che toccano nel profondo, manifestazioni del male, motivazioni inafferrabili alla comune logica:

Parlando di serial killer noi abbiamo la sensazione che la più pura espressione del male si stia palesando. Il male privo di qualsiasi giustificazione. Qualsiasi motivazione appare, in un certo senso, liberatoria. In più, a sollecitare l’interesse, c’è l’innocenza della vittima, che, di solito, è debole ed indifesa. In quell’innocenza ci s’identifica tutti.

(Bruno e Marrazzi, 2000).

Violenza contro gli agenti di polizia: quali ripercussioni?

In uno studio della Yale University è stato evidenziato come gli episodi di estrema violenza contro gli agenti di polizia possono portare ad un aumento sostanziale delle disparità razziali riguardo l’utilizzo della forza da parte della polizia.

 

Lo scopo dello studio era quello di indagare se gli atti di violenza contro gli agenti di polizia potessero influenzare il successivo utilizzo della forza contro le minoranze razziali da parte della polizia. Per dare una risposta sono stati utilizzati dati provenienti da quasi 4 milioni di semafori pedonali situati nella città di New York.

Joscha Legewie, autore principale dello studio, ha esaminato i dati provenienti da tutte le operazioni “stop-and-frisk” effettuate ai semafori della città di New York. Il programma “stop-and-frisk” è una pratica del dipartimento di polizia di New York City in cui un poliziotto ferma (stop) e interroga un pedone, e successivamente lo perquisisce (frisk) in cerca di armi e altre merci di contrabbando. Le analisi effettuate andavano a vedere cosa accadeva durante queste operazioni prima e dopo che l’agente di polizia subisse atti di violenza. Lo scopo era quello di osservare se il comportamento del poliziotto cambiasse successivamente agli attacchi subiti.

Risultati e discussione

I risultati, pubblicati il 16 settembre sulla rivista American Journal of Sociology, evidenziano come successivamente a due sparatorie che hanno portato alla morte di alcuni agenti, i cui sospettati appartenevano alla popolazione afro-americana, nei giorni successivi all’evento l’utilizzo della forza da parte della polizia nei confronti dei pedoni afro-americani è notevolmente aumentato. Gli atteggiamenti nei confronti della popolazione bianca e ispanica sono invece rimasti invariati.

Legewie ha dichiarato che le violenze subite dalla polizia e gli stereotipi razziali impliciti potrebbero essere le possibili spiegazioni di questi risultati.
Questi risultati oltre ad essere importanti per quanto riguarda il dibattito in corso sul profiling razziale e l’utilizzo della forza da parte della polizia, comportano implicazioni ancora più ampie. Secondo Legewie l’interpretazione dei risultati si estende oltre gli atti di estrema violenza contro gli agenti di polizia. Quanto è emerso suggerisce la presenza di un insieme generale di processi in cui gli eventi locali portano alla formazione di conflitti tra gruppi, e questo è dovuto prima di tutto agli stereotipi e secondariamente alle risposte discriminatorie che questi innescano.

[blockquote style=”1″]Secondo questo punto di vista, il comportamento discriminatorio non deriva solo da condizioni statiche, ma anche da sequenze temporali di eventi e risposte. Questo processo è applicabile a tutti i tipi di interazione quotidiane, per cui non solo con la polizia, ma anche con altre categorie come gli insegnanti o i datori di lavoro [/blockquote]dichiara Legewie.

Le conseguenze che derivano da questi processi sono molto profonde, soprattutto in un momento come quello attuale che vede il contesto americano caratterizzato da intense tensioni tra la polizia e la comunità afro-americana.

Secondo Legewie gli eventi sono un fattore che viene ampiamente trascurato quando si cerca di comprendere perché si verifichino atti di discriminazione. Questo suggerisce la necessità di condurre un ulteriore studio che sia ancor più centrato sul profiling razziale, l’utilizzo della forza da parte della polizia e la discriminazione. Il tutto senza dimenticare il ruolo importante che svolgono gli eventi, in quanto sono un importante influenza contestuale che funge da cornice alle interazioni successive e che potrebbero innescare una serie di comportamenti discriminatori.

La relazione tra l’ansia e la percezione del dolore

Un crescente corpo di letteratura continua a documentare l’esistenza di un qualche tipo di relazione tra stati d’ansia, sia temporanei che veri e propri disturbi dello spettro ansioso e la percezione del dolore fisico.

Andrea Mereu, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

 

Numerosi studi in questo ambito indicano la co-presenza di condizioni di dolore clinicamente significativo in persone con disturbi d’ansia, e, vice-versa, stati d’ansia clinicamente significativi in persone con condizioni mediche che comportano dolore acuto e cronico. Diversi ricercatori hanno documentato che disturbi d’ansia come esempio il disturbo post traumatico da stress (PTSD) e condizioni di dolore cronico spesso si presentano in concomitanza (Asmundson e Katz, 2009). Si stima che dall’11 al 60% dei pazienti con dolore cronico riportino una copresenza di diversi disturbi d’ansia (Roy-Byrne e coll., 2008). La maggior parte di queste ricerche tuttavia si sono focalizzate sul disturbo di panico (PD) e sul PTSD. Ad esempio Kuch e coll. (1991) hanno riportato che il 40% dei pazienti con PD avevano dolori cronici, più comunemente alla testa, alle spalle e nella zona lombare. Il 10% di questi utilizzava analgesici su base giornaliera. Sono presenti in letteratura anche dati preliminari che indicano che pazienti con SAD (social anxiety disorder) non differiscono da quelli con PD nella prevalenza, natura, o esperienza del dolore cronico (Asmundson e coll, 1996; Asmundson et al., 2000).

E’ una comune esperienza clinica, in caso di patologie che comportano dolore, che la paura anticipatoria dello stesso possa amplificarne la percezione d’intensità. Alcuni autori, hanno riscontrato che il livello di ansietà sia un buon predittore della severità del dolore e dei comportamenti associati in pazienti con dolore cronico (Kain et. al, 2000; Van Den Hout et. al, 2001).

Inoltre, a rinforzare l’ipotesi di questo legame, agire sulla riduzione dei livelli d’ansia attraverso farmaci ansiolitici si è riscontrato avere un buon successo nel migliorare il dolore associato a procedure mediche (Suls and Wan, 1989; Dellemijn and Fields, 1994).

La questione se l’ansia aumenti o diminuisca la percezione del dolore, o, ancora più a monte, quale sia dei due fattori a condizionare l’altro, è comunque una questione ancora dibattuta. Diversi autori sostengono l’ipotesi che l’ansia intensifichi la percezione del dolore; ad esempio il modello di Melzack (1973) sull’influenza dei fattori psicologici rispetto alla sensazione dolorosa sostiene che l’ansia amplifichi quest’ultima. D’altra parte, sebbene molti studi mostrino un’intensificazione e una minore tolleranza al dolore, altri indicano che l’ansia abbia l’effetto opposto, ovvero che diminuisca la percezione del dolore, oppure nessun effetto rilevante (Arntz, Dreessen e Merckelback, 1991; Weisenberg et al, 1984).

Questo aspetto si riscontra particolarmente negli studi sul PTSD (Mostoufi e coll., 2014). Nel loro studio questi autori comparano la soglia e la tolleranza nel tempo al dolore in soggetti con PTSD rispetto a soggetti con altri disturbi d’ansia, e rispetto ad un gruppo di controllo utilizzando un cold pressor task (la sensazione di dolore era prodotta attraverso dell’acqua in un contenitore a temperatura intorno a 1-2 gradi). I loro risultati mostrano che i soggetti con PTSD avevano una ridotta sensibilità agli stimoli sia rispetto al gruppo di controllo, sia rispetto ai soggetti con altri disturbi d’ansia.

Due tipologie di studi hanno cercato di far luce sul rapporto tra ansia e dolore: studi sperimentali, che cercano di individuare una causalità tra i fattori, e studi correlazionali. Il riscontro di una correlazione positiva tuttavia non deve essere confusa con un rapporto di causalità. Potrebbe essere il dolore a causare l’ansia o viceversa, oppure potrebbe esserci una terza variabile interveniente. Sostanzialmente, anche se in letteratura è abbastanza concorde l’osservazione che condizioni di dolore clinicamente significativo e stati ansiosi momentanei o conclamati disturbi d’ansia si verifichino insieme con una frequenza troppo alta per essere casuale, dalla stessa letteratura si evince anche che la relazione tra questi possa essere non unilaterale, e dipendente da altri fattori coi quali vanno a interagire e a costituire un rapporto complesso. Di fatto, il dolore non è determinato semplicemente dall’intensità delle stimolazioni nocicettive, ma dipende anche da fattori psicologici, come gli stati emotivi e motivazionali.

 

Ansia, paura e percezione del dolore

Come riportato sopra, gli studi che cercano di indagare la relazione tra stati d’ansia negli esseri umani riportano risultati talvolta contraddittori o perlomeno non univoci. Rhudy, Meagher (1999) propongono che la causa di ciò sia dovuta al fatto che i paradigmi sperimentali usati potrebbero in realtà aver indotto due differenti stati psicologici: paura e ansietà.

Studi su animali suggeriscono che la paura inibisca il dolore mentre l’ansia ne aumenti l’intensità percepita, tuttavia non è ancora chiaro se questo effetto si possa generalizzare agli esseri umani.

La paura è una reazione di allarme immediata ad una minaccia presente, caratterizzata da impulsi alla fuga, o all’attacco della fonte, e in genere si traduce in un aumento di eccitazione del sistema simpatico (Barlow et al., 1996). L’ansia, d’altra parte, è un sentimento orientato al futuro, caratterizzato da sensazioni negative e apprensione anticipatoria verso minacce potenziali, e si traduce in ipervigilanza attentiva e tensione somatica (ad esempio la tensione muscolare). La paura mobilita l’organismo verso l’azione (risposta di attacco o fuga), mentre l’ansia conduce ad un aumento della scansione ambientale e corporea che facilita la ricettività sensoriale. Alla luce di queste distinzioni, diversi ricercatori hanno sostenuto che la paura e l’ansia rappresentino stati emotivi qualitativamente differenti (Maier, 1993; Barlow et al., 1996; Davis et al., 1997). Rispetto alla paura inoltre, l’ansia avrebbe un effetto opposto sulla percezione del dolore: diversi studi hanno mostrato che è presente un’aumentata sensibilità nocicettiva o iperalgesia (Rhudy e Meagher, 2000; Ploghaus, A. et al. 2001).

Un supporto per questa ipotesi viene da diversi studi su animali che indicano come i circuiti neurali che mediano la paura possano essere distinti dai circuiti coinvolti nell’ansia (Gray and McNaughton, 1996; Davis et al., 1997).
In alternativa, altri autori suggeriscono che gli stati emotivi rilevanti per il dolore potrebbero dipendere dagli stessi circuiti neurali, i quali possono manifestarsi in differenti aspetti comportamentali e somatici a seconda del livello di attivazione: un’attivazione intensa potrebbe indurre un’emozione di paura e conseguente analgesia, mentre un’attivazione moderata potrebbe indurre ansia e iperalgesia. Anche per questa visione quantitativa riceve supporto dalla ricerca su animali (Walters, 1994; King et al., 1996; Meagher et al., 1998).

Comunque, indipendentemente dal fatto che la paura e l’ansia si differenzino qualitativamente o quantitativamente, entrambi i punti di vista predicono effetti divergenti sulla percezione del dolore. Entrambi infatti prevedono che l’esposizione diretta a un evento nocivo dovrebbe indurre alti livelli di paura e di eccitazione che inibiscono il dolore, mentre la minaccia moderata e relativamente diffusa di un evento futuro incerto, senza esposizione vera e propria, indurrebbe con frequenza uno stato di ansia anticipatoria (bassi livelli di paura e di arousal) che abbasserebbe la soglia del dolore.

In accordo con questo, la ricerca clinica indica che le vittime di traumi molto stressanti hanno una sensazione di intorpidimento e insensibilità al dolore durante lo stato di paura provocato dall’evento traumatico (Burgess e Holmstrom, 1976; Suarez e Gallup, 1979). Al contrario, i pazienti con ansia generalizzata sono ipervigilanti sui loro stati corporei interni (Barlow et al., 1996), cosa che aumenterebbe il focus attentivo sulla fonte del dolore, amplificando così la sua intensità percepita.

Rhudy e Meagher (1999) hanno deciso di esaminare direttamente gli effetti separati della paura e dell’ansia rispetto alla reattività al dolore nei soggetti umani. I loro risultati indicano che ansia e paura abbiano effetti divergenti sulla soglia di sensibilità al dolore. Più specificamente, hanno trovato che la paura, determinata dalla presentazione di shock moderati mediante uno stimolo ad alta temperatura, aumentavano la soglia di “ritrazione” del dito rispetto alla fonte di calore radiante; lo schema inverso è stato osservato invece nella condizione sperimentale che induceva ansia: avveniva un decremento della soglia di dolore ed una ridotta tolleranza dello stesso.

Bolles e Fanselow (1980) sostengono che ansia e paura siano stati mutualmente esclusivi. Assumono che la paura sia una condizione legata ad un allarme immediato verso una minaccia alla sopravvivenza, e dunque riduca la percezione del dolore promuovendo una reazione di attacco-o-fuga. Un possibile meccanismo di riduzione del dolore sembra essere legato agli effetti del rilascio degli oppioidi endogeni. Chapman e Turner (1986) argomentano che l’ansia invece aumenti l’attività del sistema simpatico, e il rilascio di epinefrina la quale può sensibilizzare o direttamente attivare i nocicettori. Questi autori hanno suggerito inoltre che la tensione muscolare che spesso si presenta negli stati ansiosi possa causare del dolore addizionale. D’altra parte, ci sono processi fisiologici associati all’ansia che possono ridurre il dolore, come ad esempio il rilascio di oppioidi endogeni (Thyer e Matthews, 1989).

Il ruolo delle aspettative e la predicibilità degli eventi avversivi

La capacità di predire la probabilità di un evento avversivo è un’importante capacità di adattamento. La certezza o l’incertezza riguardo agli stimoli dolorosi possono causare comportamenti, stati emotivi, orientamento del focus attentivo e cambiamenti percettivi differenti. Recenti studi di neuroimaging funzionale indicano che aspettative certe vs incerte vengono mediate da differenti circuiti cerebrali. La prima è associata all’attività della corteccia cingolata rostrale anteriore e del cervelletto posteriore, mentre la seconda situazione invece con cambiamenti di attivazione nella corteccia ventromediale prefrontale, nel cingolato mediale e nell’ippocampo (Ploghaus e coll., 2003).

L’aspettativa sembra essere un’importante fattore cognitivo che gioca un ruolo nel processo della percezione e della tolleranza del dolore. L’aspettativa inoltre, ha un ruolo importante non solo nel dolore acuto e cronico, ma anche in altri disturbi caratterizzati da aspettative certe (fobie specifiche) o incerte (ansia generalizzata) di eventi minacciosi.

La certezza soggettiva che un particolare evento avversivo sia imminente è solitamente associato con l’emozione di paura. Questa mobilita l’organismo verso l’azione (di attacco o di fuga) o, se queste opzioni non sono disponibili, comunque ad una minimizzazione dell’impatto della minaccia (ad esempio attraverso reazioni di freezing, a livello più comportamentale o, ad un livello più mentale, con reazioni dissociative).

In contrasto, l’incertezza riguardo la natura degli eventi (aspettative incerte) ha conseguenze alquanto differenti: si associa a stati emotivi di ansietà piuttosto che di paura, caratterizzati da comportamenti di accertamento del rischio o inibizione comportamentale e dall’incremento dell’allerta per l’ambiente circostante. La neuroanatomia funzionale in caso di aspettative “certe” di stimoli dannosi è stata esaminata da diversi ricercatori (ad es. Buchel, C. et al. 1998; Chua, P. et al. 1999; Ploghaus, A. et al. 1999)

In questi esperimenti dei segnali anticipati fungevano da predittori affidabili dell’imminente stimolazione, i quali consentivano ai soggetti di imparare dall’esperienza ad anticiparne le caratteristiche.

Questi studi concordano nel suggerire un ruolo della corteccia cingolata rostrale anteriore, dell’insula anteriore, e del cervelletto posteriore, che si attivano maggiormente, mentre non hanno trovato cambiamenti nell’attivazione di aree che solitamente sono associate alla percezione nocicettiva, come il cingolo-medio, l’insula mediale e il verme cerebellare. La funzione delle prime aree sembra essere dunque quella di mediare l’influenza delle aspettative “sicure” sulla percezione del dolore. Queste aree si attiverebbero inoltre indipendentemente dal fatto che le aspettative aumentino o diminuiscano la valutazione di pericolosità di uno stimolo.

 

Ansia ed aspettative incerte, aspetti neurofunzionali

A partire dallo studio pionieristico di Reiman e coll. (1989) sono state condotte diverse ricerche sulle aspettative associate al dolore. Sostanzialmente sono stati esaminati due tipi di incertezza: una relativa al verificarsi o meno dello stimolo nocivo, e l’altra relativa alla portata dell’intensità del dolore e dei danni conseguenti. Emerge che aspettative incerte sull’evento avversivo (se si verificherà o meno) sono associate all’attivazione della corteccia ventro-mediale prefrontale (vmPFC) della corteccia cingolata mediale e della corteccia somatosensoriale primaria.

Ad esempio Bechara e coll. (1996) dimostrarono che pazienti con lesioni alla vmPFC non avevano un aumento dell’arousal autonomico durante l’esecuzione di compiti di gambling ad alta incertezza e alto rischio. Un differente pattern di attivazione emerge invece quando i soggetti hanno la certezza che un certo evento sarà doloroso, ma sono incerti riguardo alla sua intensità.

Al riguardo, Simpson e coll (2001) mostrarono che l’incertezza circa l’intensità dello stimolo nocivo era associata ad un decremento dell’attività nella vmPFC e che la quantità della deattivazione era inversamente correlata all’ansietà circa la probabilità dell’imminente dolore: più i soggetti erano ansiosi, minore era la riduzione di attivazione nella vmPFC. Drevets e coll. (1995) trovarono anche una diminuzione di attivazione nella corteccia somatosensoriale primaria, mentre Hsieh e coll. (1999) trovarono similmente una riduzione di attività nella corteccia cingolata mediale.

 

Il ruolo dell’attenzione nella modulazione del dolore

In letteratura emerge che tra i fattori che si ritiene essere implicati insieme all’ansietà e alle aspettative nella mediazione del dolore ci sono quelli che concernono i meccanismi dell’attenzione.

La distrazione, intesa come il processo di spostamento dell’attenzione dalle sensazioni prodotte da uno stimolo nocivo, ha generalmente l’effetto di aumentare la tolleranza verso il dolore acuto. Sebbene molti studi indichino una diminuita tolleranza, altri studi mostrano che l’ansia ha l’effetto opposto, oppure nessun effetto rilevante (Arntz, Dreessen e Merckelback, 1991; Weisenberg et al, 1984). Di particolare interesse è l’ipotesi che l’ansia possa esacerbare o alleviare la percezione del dolore, a seconda della direzione del focus attentivo. Evidenze empiriche suggeriscono che eventi particolarmente ansiogeni abbiano una grande efficacia nel distrarre l’attenzione dalla fonte dolore (Eccleston e Crombez, 1999).

Al contrario, il dolore indotto da un certo stimolo può essere esperito in modo più intenso se lo stimolo doloroso è esso stesso il focus dell’attenzione e provoca anche ansia.

James e Hardardottir, (2002) hanno esaminato gli effetti sia separati che combinati del focus attentivo e dell’ansia di tratto sulla tolleranza del dolore acuto. Dai loro risultati emerge che distrarsi dalla fonte di dolore migliora il grado di tolleranza allo stesso; inoltre, la tolleranza era maggiore in persone con una bassa ansia di tratto rispetto a quelle con elevata ansia di tratto.

Hanno trovato inoltre che il focus dell’attenzione e i tratti ansiosi del soggetto interagiscono, influenzando la soglia di tolleranza al dolore.
In linea di massima, gli autori suggeriscono che l’ansia di stato e l’ansia di tratto condividono gli stessi tipi di influenza sulla tolleranza al dolore ed entrambe le condizioni sembrano influenzate da fattori attentivi.

Arntz, Dreessen, e Merckelbach (1991) giungono ad ipotizzare esplicitamente che non sia l’ansia ad influenzare la percezione del dolore, ma piuttosto l’orientamento e l’intensità del focus attentivo. L’attenzione costituirebbe dunque una terza variabile interveniente nella relazione tra ansia e percezione del dolore, giocando un ruolo determinante in questa complessa dinamica.
L’influenza del fattore attenzione potrebbe spiegare anche perché alcuni studi trovano una correlazione positiva tra ansia e sensibilità al dolore, mentre altri studi trovano il pattern opposto: negli studi empirici l’ansia potrebbe essere stata confusa o condizionata da fattori attentivi.

Gli autori della ricerca hanno testato 4 ipotesi: 1) l’ansia aumenta la percezione del dolore 2) l’ansia diminuisce la percezione del dolore 3) l’attenzione focalizzata verso il dolore aumenta la sua percezione 4) solamente la combinazione di ansia e attenzione al dolore aumenta la percezione del dolore stessa.
In un disegno sperimentale 2×2 l’ansia (alta vs bassa) e l’attenzione (attenzione focalizzata vs distrazione dal dolore) sono state manipolate.
Il fattore di interazione tra ansia e attenzione non ha ricevuto supporto; Il fattore critico sembra essere stato il focus attentivo. L’attenzione verso lo stimolo doloroso era correlata ad un maggiore impatto del dolore, e ad una minore abituazione soggettiva allo stimolo doloroso rispetto alla condizione sperimentale di distrazione.
I risultati del loro esperimento indicano che l’attenzione focalizzata verso la sensazione dolorosa sembra legarsi ad una sua maggiore intensità percepita. In secondo luogo, i risultati di questi autori non supportano l’ipotesi che l’ansia sia direttamente correlata ad una maggiore sensazione dolorosa. Tuttavia, neanche l’ipotesi opposta, ovvero che l’ansia sia collegata ad una minore sensazione di dolore, riceve supporto.
Questo studio apre comunque la possibilità all’ipotesi che i risultati contraddittori trovati in precedenti ricerche siano il risultato dell’intervento dell’attenzione come terzo fattore, e dell’interazione di questa con gli stati d’ansia indotti sperimentalmente.

 

Basi neurali della regolazione emozionale del dolore

Ploghaus e coll. (2001) utilizzando la risonanza magnetica funzionale hanno comparato le risposte di attivazione ad una stimolazione termica dolorosa, mentre l’intensità percepita del dolore veniva manipolata sia attraverso cambiamenti nell’intensità fisica dello stimolo, che nell’intensità dell’ansia indotta. Come risultato hanno trovato che la corteccia entorinale della formazione ippocampale rispondeva in modo differente a stimoli della stessa intensità fisica, a seconda che l’intensità percepita del dolore fosse aumentata dall’ansia o meno. Durante questa regolazione “emozionale” le risposte della corteccia entorinale predicevano anche l’attivazione di aree cerebrali vicine connesse a risposte affettive (cingolato perigenuale) e di codifica dell’intensità degli stimoli (aree dell’insula mediale). Secondo gli autori questo supporta l’ ipotesi che durante uno stato d’ansia, l’ippocampo amplifichi la sensazione percepita degli stimoli avversivi, in modo da innescare poi risposte comportamentali che siano adattive di fronte alla peggiore delle eventualità.

In un precedente studio gli stessi autori (Ploghaus et al, 1999) hanno rivelato come il dolore prodotto da uno stimolo fisico e la sua anticipazione siano codificati da differenti substrati neurali; la modulazione della soglia dolorifica in conseguenza delle emozioni è stata comunque indagata anche da precedenti studi su animali (Fanselow, 1985; Helmstetter, 1992) ma attualmente non c’è un modello animale che descriva l’iperalgesia indotta dall’ansia.

Lo studio di Ploghaus e coll. del 2001 è stato condotto con l’intento di esaminare i meccanismi neurali attraverso i quali l’ansia è associata all’iperalgesia negli esseri umani. Nel loro compito sperimentale, un segnale visivo era seguito sempre da una stimolazione nocicettiva a bassa temperatura della mano sinistra. Il segnale veniva mostrato anticipatamente per evocare un basso livello di ansietà per lo stimolo doloroso in arrivo. Ad un secondo segnale visivo si faceva invece seguire nella maggior parte delle prove una stimolazione a bassa intensità, tuttavia, occasionalmente veniva presentata una stimolazione a temperatura più alta e quindi da maggiormente dolorosa. Questo segnale aveva lo scopo di evocare un’elevata ansia anticipatoria.

Attraverso questo compito, hanno potuto valutare se le sensazioni riportate dai partecipanti e le corrispettive risposte di attivazione cerebrale variavano in funzione dei livelli di ansietà. Dai risultati è emerso che la variazione emodinamica della corteccia entorinale era significativa.
La variazione dell’intensità del dolore prodotta semplicemente dallo stimolo fisico, dunque dalla temperatura, produceva invece una risposta emodinamica sempre nella formazione ippocampale ma in una regione più dorsale.

Già nel 1968 Melzack e Casey avevano proposto che l’ippocampo e le aree associate partecipassero nel mediare le risposte emotive agli stimoli avversivi e nell’influenzare le caratteristiche del dolore. Seguenti studi confermano un ruolo dell’ippocampo nel processamento della sensazione dolorosa.
Studi su stimolazioni e lesioni della corteccia cerebrale confermano che il processamento del dolore è una funzione primaria dell’ippocampo. Prado e Roberts (1985) dimostrarono che la sua regione dorsale è una delle aree cerebrali dove la stimolazione elettrica altera la nocicezione ma crucialmente, la stimolazione stessa non viene percepita come dolorosa.

 

La teoria di Gray-McNaughton sulla modulazione del dolore

La teorie di Gray-McNaughton (2000) propone che la formazione ippocampale risponda ad eventi avversivi (come ad esempio il dolore) quando questi conducono ad un conflitto comportamentale, e risolve il conflitto inviando segnali di attivazione alle rappresentazioni neurali degli eventi avversivi attesi, polarizzando così l’organismo verso un comportamento che possa essere adattivo anche nel peggiore degli scenari. Questo processo è accompagnato da uno stato d’ansia. Un ruolo della corteccia entorinale nella detezione dei conflitti è stata proposta anche in modelli teorici della memoria nell’ippocampo (Lavenex and Amaral, 2000; Witter et al., 2000). Applicato allo studio di Ploghaus e coll. di cui si è parlato sopra, il conflitto comportamentale può nascere nella condizione Bassa temperatura/alta ansietà; poiché il segnale di alta ansietà non è un predittore affidabile dell’intensità del dolore che sopraggiungerà, risposte di adattamento differenti, corrispondenti a diversi livelli di dolore atteso, competeranno tra loro in assenza di una predicibilità precisa rispetto all’evento avversivo incombente.

La teoria di Gray-McNaughton predice che in una condizione di bassa intensità di stimolazione fisica/alta ansietà rispetto ad una condizione di bassa intensità di stimolazione fisica/bassa ansietà, ci dovrebbero essere: 1) più alti livelli di ansia 2) maggior percezione del dolore 3) attivazione della formazione ippocampale 4) rappresentazioni mentali di dolore e ansietà. L’ippocampo sembra essere deputato a risolvere precocemente questo conflitto amplificando l’intensità della sensazione di dolore, in modo da favorire la priorità a risposte comportamentali adattive nella peggiore delle eventualità, ovvero quando il dolore è molto intenso.

Questo modello costituisce un’interessante e plausibile spiegazione di stampo biologico-evoluzionista che rende conto di come gli stati d’ansia siano dei meccanismi evolutivamente fondati con il preciso scopo di tutelare l’organismo da danni, lesioni e dalla morte stessa, mettendolo in allarme e permettendogli di evitare le potenziali situazioni dannose. E di come talvolta in natura siano necessarie delle reazioni paradossali come quella di aumentare la sofferenza dell’individuo rendendolo più sensibile al dolore abbassandone la soglia di detezione e amplificando la percezione della sua intensità pur di assicurarne la sopravvivenza.

La sindrome di Tourette e le capacità linguistiche

Un nuovo studio ha mostrato come i bambini con sindrome di Tourette possano apprendere alcuni aspetti del linguaggio più velocemente rispetto agli altri bambini. I ricercatori della Newcastle University nel Regno Unito, e della Northwestern, Johns Hopkins, e Georgetown negli Stati Uniti, hanno scoperto che i bambini con un disturbo neurologico sono più veloci ad assemblare suoni e parole rispetto ai bambini con sviluppo tipico. Essi ritengono che questo fenomeno sia probabilmente legato ad anomalie nel cervello che stanno alla base del disturbo.

 

La sindrome di Tourette e l’elaborazione linguistica

La sindrome di Tourette è un disturbo neurologico caratterizzato da tic motori e vocali (movimenti semi-volontari e vocalizzazioni). Secondo la Charity Tourettes Action UK, questa patologia colpisce circa un bambino su cento, e nel Regno Unito più di 300.000 bambini e adulti ne soffrono.

Cristina Dye, docente di sviluppo del linguaggio infantile presso la Newcastle University, ha dichiarato che dai dati provenienti dalla ricerca psicologica e medica degli ultimi anni, sembrerebbe che i bambini con disturbi come la sindrome di Tourette siano soliti sperimentare difficoltà o debolezza. Pertanto, affiancata dai suoi colleghi, ha voluto discostarsi ed esaminare i potenziali punti di forza dei soggetti che soffrono di sindrome di Tourette, con lo scopo di ampliare ulteriormente la comprensione di questo disturbo.

Michael Ullman, professore di Neuroscienze alla Georgetown University, ha aggiunto che la scoperta relativa al fatto che i bambini con la sindrome di Tourette siano più veloci ad assemblare i suoni in fonologia è coerente con la precedente constatazione che essi siano più veloci anche in un altro aspetto del linguaggio che si chiama morfologia, ovvero la capacità di mettere insieme le parti significative delle parole, come “walk” e “-ed” (coniugazione del verbo “to walk” in inglese)”. I due studi suggeriscono che i bambini con la sindrome di Tourette sembrerebbero essere più veloci nelle trasformazioni grammaticali. Si tratta di dati sorprendenti, in quanto la grammatica è molto importante per fornire alla lingua la sua incredibile flessibilità ed energia.

Lo studio

Hanno partecipato allo studio 13 bambini con diagnosi di sindrome di Tourette e 14 bambini con sviluppo tipico, di età compresa tra gli 8 e i 16 anni. I giovani sono stati invitati a ripetere una serie di parole inventate, come “naichovabe”. In questi “compiti di ripetizione di non parole” i partecipanti sembravano non consapevoli di smontare e poi ricombinare i suoni che componevano la parola. Anche se i due gruppi di bambini sono stati entrambi precisi nel ripetere le parole inventate, i bambini con sindrome di Tourette erano molto più veloci rispetto al gruppo di controllo.

Secondo gli autori i risultati potrebbero avere importanti implicazioni cliniche: [blockquote style=”1″]Sappiamo che la maggior parte dei bambini che soffre di disturbi dello sviluppo neurologico hanno difficoltà nell’assemblare i suoni. Quindi, tali compiti potrebbero essere utilizzati come un predittore precoce per la diagnosi della sindrome di Tourette nei bambini a rischio.[/blockquote]

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