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Neuroni simili ma non uguali: ciò che ci rende unici

Sono stati scoperti altri meccanismi che modificano il DNA dei neuroni rendendoci unici, ma favorendo anche l’insorgenza di malattie gravi.

 

Pensiero comune è che ogni cellula del nostro corpo abbia il medesimo materiale genetico, ma recentemente è stata scoperta un’eccezione a questo dogma da parte di un gruppo di ricercatori del Salk Institute, negli Stati Uniti. La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Nature Neuroscience.

L’eccezione risiede nel fatto che nella maggior parte delle cellule cerebrali sono avvenute nel tempo piccole modificazioni genetiche, dette elementi nucleari interspersi o L1, che hanno conferito unicità ad ogni singolo neurone.

Lo studio condotto da Fred Gage e colleghi ha dato un contributo notevole ampliando le conoscenze esistenti: infatti non solo è stato confermato, cosa già risaputa, che gli L1 fossero dei trasposoni (geni in grado di spostarsi lungo il DNA inserendosi o copiandosi in diversi punti), si è ora scoperto che gli L1 possiedono un’altra capacità: quella di rimuovere tratti di DNA.

Inoltre è emerso che questi trasposoni sono presenti al 44-63% nei neuroni sani, influenzandone l’espressione come può avvenire in caso di silenziamento o modificazioni epigenetiche, ma rendendoci estremamente unici.

Dopo anni di studio e moltissime ricerche effettuate dal medesimo gruppo nel corso degli anni, i ricercatori sono riusciti a studiare un metodo unico e accurato di analisi basato sull’utilizzo di cellule staminali forzate a differenziarsi in neuroni. Proprio durante questo processo che si è notato che il DNA è soggetto a riarrangiamenti e mutazioni, tra cui le delezioni di parti del materiale genetico ad opera di un enzima che taglia nei punti L1.

A detta dei ricercatori:

Circa metà delle cellule del nostro cervello ha molti tratti di DNA inseriti o mancanti a causa dell’attività degli L1, che quindi in genere non provocano problemi. In alcuni casi tuttavia questo processo può essere all’origine di gravi disfunzioni e malattie.

Ciò è maggiormente confermato da altri studi che hanno riscontrato numerose anomalie a livello degli L1 in pazienti affetti da schizofrenia o disturbi autistici.

Messico: il primo bambino nato dal DNA di tre genitori

Abrahim è il nome del bambino che cinque mesi fa è nato in Messico concepito con una nuova tecnica, eseguita attraverso una fecondazione assistita con tre persone.

 

A divulgare la notizia è il settimanale britannico NewScientist con il seguente titolo: “Exclusive: World’s first baby born with ‘3 parent’ technique” (Jessica Hamzelou, 2016).

Abrahim Hassan ha cinque mesi ed ha il DNA della madre, del padre e parte del codice genetico di una donatrice. Questa tecnica, sottoposta dal gruppo del medico John Zhang, è stata applicata per permettere alla madre e il padre di avere un figlio che non ereditasse la malattia della madre. Quest’ultima, infatti, è affetta dalla sindrome di Leigh che colpisce il sistema nervoso in via di sviluppo e a causa della quale in passato la donna ebbe due aborti. Attraverso questa nuova tecnica, i mitocondri difettosi della madre del bambino, sono stati sostituiti con quelli sani della donatrice.

Il metodo che ha adottato il dottor Zhang è diverso da quello approvato in Inghilterra: qui, infatti, si prevede la fecondazione di un ovocita materno e di quello di una donatrice, con lo sperma del padre. In seguito, secondo la tecnica adottata in Inghilterra, prima che le uova fecondate inizino a dividersi in embrioni in fase iniziale, ogni nucleo viene rimosso. Infine, il nucleo dell’uovo fecondato dal donatore viene scartato e sostituito da quello fecondato della madre, ma:
[blockquote style=”1″]this technique wasn’t appropriate for the couple – as Muslims, they were opposed to the destruction of two embryos. So Zhang took a different approach, called spindle nuclear transfer. He removed the nucleus from one of the mother’s eggs and inserted it into a donor egg that had had its own nucleus removed. The resulting egg – with nuclear DNA from the mother and mitochondrial DNA from a donor – was then fertilised with the father’s sperm[/blockquote] (Jessica Hamzelou, 2016).

Il dottore ha applicato questa nuova tecnica in Messico, in quanto negli Stati Uniti questo metodo non è stato approvato, mentre in Messico non ci sono regole, secondo l’etica del Regno Unito.

Questa nuova tecnica e il risultato che ha dato saranno descritti al convegno della Società americana di medicina della riproduzione a Salt Lake City, nel mese di ottobre, e rappresentano indubbiamente nuovi orizzonti per la fecondazione assistita.

Coltivare la mente sin da bambini: programma mindfulness, il fiore dentro – Recensione

Si usa spesso l’espressione “coltivare la mente”, quando si lavora in una cornice di mindfulness, per indicare quel processo di ri-educazione della mente che viene allenata a un contatto più diretto con l’esperienza al di là degli apprendimenti sedimentati; non si può quindi non apprezzare lo sforzo delle autrici che, per la prima volta nel panorama italiano, invitano a coltivare la mente sin dalla giovane età, proponendo nel libro un programma di mindfulness per bambini e ragazzi dai 12 ai 16 anni, muovendosi dall’esperienza del gruppo di lavoro di Kabat Zinn e di altre realtà che si sono già occupate, all’estero, di mindfulness per bambini e ragazzi.

Iacopo Camozzo Caneve

Le difficoltà che affrontano bambini e ragazzi

Questo, il senso della proposta delle autrici, ma non solo in un’ottica preventiva rispetto a tutte le difficoltà che ci arriveranno addosso quando finiremo nella temibile “età adulta”: prendersi cura della propria mente con l’aiuto della mindfulness (e delle pratiche di consapevolezza su cui si fonda) come risorsa, per i piccoli umani, rispetto a un mondo che sembra fatto sempre meno a loro misura, e che di conseguenza pone sfide sempre maggiori. La giovane età, ricordano le autrici, non è più (ammesso lo sia mai realmente stata) un’età dell’oro, anzi; l’APA ha definito questa la “generation stress”; e compaiono ansia, disturbi alimentari, ADHD, autolesionismo e tutta o quasi la gamma di disagi e sofferenza che conosciamo per la popolazione adulta.

Separazioni dei genitori, richieste di performance sempre maggiori, bullismo, rete sociale e parentale ristretta, riduzione tempo libero dei genitori: sono molte le sfide da fronteggiare per i giovani d’oggi.

Ancora una volta, il tentativo è di poter insegnare a vivere tutto questo, quando non lo si può cambiare, in un modo alternativo, in contatto con il momento presente attraverso la consapevolezza invece che fuori  da noi stessi in balia della mente e dei suoi automatismi.

Il percorso di mindfulness per bambini e ragazzi

Il percorso proposto dalle autrici si snoda, come nella più classica tradizione dei percorsi di mindfulness, attraverso otto incontri in cui vengono messi a fuoco diversi ambiti di esperienza. Gruppi tra 5 e 10 partecipanti per sessioni che durano dai 40 ai 60 minuti, con alternanza tra esperienze pratiche di consapevolezza (adattate all’età) e momenti di condivisione ed esplorazione congiunta di ambiti di esperienza specifici.

I temi attraverso cui si articola il percorso sono il pilota automatico (e la possibilità di vivere invece con una mente da principiante), il riconoscimento di pensieri come pensieri, le emozioni, gli eventi stressanti e la possibilità di rapportarsi con tutto questo in modo nuovo attraverso la consapevolezza.
Un atteggiamento giocoso, letture ed esercizi completano il quadro rendendo questo tipo di esperienza adatta e comprensibile a questa fascia d’età.
“Il fiore dentro” è il nome dato a questo programma, facendo proprio riferimento alla possibilità di trovare dentro di sé, grazie alla consapevolezza, la bellezza di essere se stessi al di là delle sfide e di ogni segnale contrario che ricevono, quotidianamente, questi piccoli umani.
Di questo si occupa l’ultima sessione del percorso, di questo credo si occupi ogni singolo momento di questo programma, al di là dello stress, delle emozioni, dei pensieri…
Di questo, occupandoci dei nostri giovani, dovremmo forse imparare a occuparci più spesso.

 

Prendere decisioni in gruppo: il rapporto tra costi e benefici

Quando ci si trova all’interno di un gruppo e occorre prendere una decisione, in genere la maggior parte delle persone non agiscono seguendo esclusivamente i propri interessi, ma prendendo in considerazione le conseguenze positive e negative che una determinata scelta potrebbe comportare per gli altri. Tuttavia, numerosi esempi della vita quotidiana mostrano come alla maggior parte delle persone risulti difficile valutare in modo efficiente i costi e i benefici quando questi riguardano un ampio gruppo.

 

In uno studio  pubblicato nella Review of Economic Studies, Michael Kosfeld, Heiner Schumacher, Iris Kesternich e Joachim Winter presentano dei dati ottenuti da prove sperimentali che mostrano come almeno 2/3 della popolazione risulti insensibile alle esigenze del gruppo.

A partire da un certo numero di persone in poi, nel prendere le decisioni non viene più considerata la parte di gruppo che viene influenzata negativamente, per cui le loro azioni risultano complessivamente contraddittorie. Essi prendono in considerazione il rapporto benefici e costi quando i costi sono a carico di una sola o di poche persone, mentre accettano prontamente una disparità esorbitante tra benefici e costi nel caso in cui un ampio numero di persone ne sia influenzato, e quindi il costo per ognuno appaia basso.

I risultati

I risultati suggeriscono che per le persone risulta difficile vedere il gruppo nella sua totalità durante la presa di una decisione. [blockquote style=”1″]E’ difficile mettersi nei panni di un gruppo di persone. Ecco perché si tende ad adottare la posizione di membro che rappresenta il gruppo, trascurando però di conseguenza una parte di esso[/blockquote] spiega Michael Kosfeld.

Se poi però 10, 100 o 1000 persone subiscono conseguenze negative da una decisione che beneficia solo pochi membri del gruppo, il rappresentante cessa di svolgere il presente ruolo.

Sulla base di una scala di gravità, tale comportamento potrebbe causare enormi costi sociali. Ad esempio, i politici e i medici vengono regolarmente posti di fronte a decisioni che hanno conseguenze positive solo per poche persone a discapito dei grandi gruppi. Se in queste situazioni il rapporto tra benefici e costi non viene adeguatamente considerato, potrebbe comparire la minaccia di gravi perdite economiche a livello globale.

Tuttavia, in conclusione, chiunque può commettere questo errore. Infatti nella vita di tutti i giorni quando dobbiamo compiere una buona azione per un individuo o per un piccolo gruppo di persone siamo spesso estremamente generosi, come ad esempio quando si effettua una donazione. Ma quando si tratta di una questione che può portare una vasta comunità a subire dei costi, tendiamo a non guardare i costi complessivi, ma solo i costi minimi per ogni individuo.

Coming out e outing

Buongiorno, qualche settimana fa un mio amico ha sentito che un tizio che conosco (Luca, figlio di un’amica di mia madre) sa che sono gay. Ho paura che questo lo dica a sua madre e che sua madre lo dica alla mia. Per questo ho pensato di dirglielo io in questi giorni, perché continuo a guardare il suo sguardo e quando è storto mi dico ecco, gliel’ha detto e questa situazione mi fa stare davvero male. Faccio bene?

Giacomo

 

Buongiorno,

comprendo la sofferenza connessa alla prepotenza di qualcuno che possa dire, al posto suo, qualcosa di così personale ad una persona a lei così intima, come sua madre. Questo, però, non significa che lei si debba sentire obbligato a seguire automaticamente questo “incastro”: un coming out forzato è alla fine sempre un outing imposto dal timore di quello “sguardo storto”, non tanto migliore di un outing fatto da altri (con outing si intende quando, in questo caso, la sua omosessualità non viene rivelata da lei, ma da altre persone, senza che lei sia d’accordo).

Giacomo, questo coming out con sua madre l’avrebbe fatto a prescindere da quanto accaduto? O si sente costretto a farlo da queste pressioni esterne?

Fare coming out è un gesto molto importante ed ognuno dovrebbe poterlo fare nel momento che ritiene più oppurtuno per sé. Sicuramente decidere di mostrare deliberatamente una parte così intima della propria identità ha delle conseguenze, che bisogna volere e saper valutare, tollerare ed affrontare. Insomma, fare coming out, attualmente, è una vera e propria responsabilità nei confronti di se stessi in primis.

Greta Riboli

 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Cognitivismo Clinico: presentazione del nuovo numero della rivista

L’Editoriale del numero appena pubblicato della rivista Cognitivismo Clinico. Il Direttore Antonino Carcione presenta e commenta gli articoli.

Antonino Carcione

 

Abbiamo deciso di aprire questo numero di Cognitivismo Clinico con un articolo speciale di Francesco Mancini che affronta un tema tanto essenziale per il cognitivismo, quanto a volte trascurato: gli scopi. L’articolo è molto interessante e in esso l’autore affronta in modo critico un argomento a lui molto caro, partendo dal presupposto che la scarsa rilevanza attribuita al concetto di scopi e al loro ruolo nella spiegazione della psicopatologia rappresenta uno dei limiti più significativi del cognitivismo clinico. Mancini sostiene con puntuali argomentazioni che il cognitivismo standard ha dato grande, troppa enfasi al ruolo delle credenze e dei processi cognitivi, trascurando il ruolo che hanno gli scopi nell’orientare i processi cognitivi e, di conseguenza, nella formazione delle credenze. È più frequente il ricorso a concetti disposizionali, come a esempio l’intolleranza all’incertezza o la fusione pensiero-azione, tanto per citare alcuni esempi, oppure a deficit cognitivi. Tali concetti si rivelano più descrittivi che esplicativi, pertanto l’autore argomenta le ragioni di tali limiti del cognitivismo e ci fornisce un contributo che si può rivelare utile, come auspica lo stesso Mancini, a dare piena dignità a un concetto che già, di per sé, è “… cruciale per spiegare e prevedere condotte ed emozioni proprie e altrui”.

La seconda parte è dedicata a un tema specifico: l’insonnia. L’idea di dedicare un numero monografico a tale argomento segue una giornata di aggiornamento organizzata dalle Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva SPC e APC, sponsorizzata dalla SITCC-Lazio e coordinata da Davide Coradeschi, che si è tenuta il 20 maggio presso il Centro Convegni “Villa Palestro” a Roma: ‘Il trattamento dell’insonnia nel paziente psichiatrico: farmaci e psicoterapia cognitivo-comportamentale’.

L’attenzione a questo tema è legata al fatto che l’insonnia rappresenta sicuramente il più diffuso disturbo del sonno. Si stima che ne soffra in modo significativo almeno un italiano su 10 e, quantomeno occasionalmente, è stata sperimentata da più della metà della popolazione. Purtroppo, però, la diagnosi viene spesso effettuata in modo sbrigativo e superficiale, e da ciò derivano frequentemente errori nel suo trattamento. L’insonnia può dipendere da vari fattori e presentarsi come un disturbo a sé stante, ovvero in assenza di altri disturbi, oppure può insorgere in associazione ad altri problemi di ordine medico di tipo neurologico (a es. Parkinson), cardiovascolare (a es. angina), polmonare (a es, enfisema), digestivo (a es, ulcera peptica, reflusso gastro-esofageo), ecc. Più frequentemente, però, è espressione di altri disturbi psicologici, più spesso disturbi d’ansia e dell’umore, che interferiscono con il sonno peggiorandone la quantità e la qualità. Secondo le stime riportate nel recente DSM-5, come evidenziato dall’articolo di Devoto et al., il 40-50% degli insonni ha un disturbo psichiatrico associato e si calcola che ben l’80% dei pazienti depressi soffra anche di insonnia.

Del resto, l’insonnia rappresenta notoriamente un criterio diagnostico per diverse patologie di rilevanza psichiatrica ed è considerata un fattore di rischio per l’innesco e il mantenimento di diversi disturbi mentali. Vari studi longitudinali hanno, infatti, documentato che l’insonnia cronica non trattata incrementa il rischio dello sviluppo futuro di un disturbo psichiatrico, soprattutto di tipo depressivo.

Considerato, dunque, che può esserci un’eziologia variegata, è sempre molto importante, anzi essenziale, che si esegua un’accurata valutazione diagnostica per scegliere, di conseguenza, la terapia – medica e/o psicologica – più adeguata.

Inoltre, è stato osservato che, indipendentemente dalla primarietà o secondarietà dell’insonnia, il suo trattamento ha effetti benefici non solo sul sonno, ma anche sulla patologia concomitante. È per questa ragione che le linee guida ne consigliano il trattamento qualunque sia la sua eziologia.

La cura dell’insonnia, attualmente, prevede trattamenti sia farmacologici che non farmacologici. Spesso si pensa che il trattamento farmacologico sia il più efficace, in realtà le linee guida evidenziano che esso è più indicato per le insonnie occasionali o situazionali (a esempio il jet-lag), mentre i trattamenti non-farmacologici sono la terapia di scelta per le insonnie croniche, ma purtroppo tale evidenza non è del tutto conosciuta, diffusa o, peggio, consigliata. Spesso il trattamento è farmacologico, attraverso prescrizione di ansiolitici effettuata o da medici non specialisti o tramite un banalissimo “passaparola” tra insonni. Tutto ciò spesso si rivela inefficace o, addirittura, controproducente, peggiorando i meccanismi di mantenimento del disturbo o determinando dipendenze farmacologiche, peraltro a volte neppure generatrici di un buon sonno.

Oggi, la terapia non-farmacologica più accreditata è il trattamento cognitivo-comportamentale dell’insonnia (CBT-i – Cognitive-Behaviour Therapy for insomnia), un intervento psicologico, individuale o di gruppo, basato su tecniche che hanno mostrato una significativa efficacia in numerose ricerche sperimentali.

La CBT-i per l’insonnia non può essere considerata una vera e propria psicoterapia ma, piuttosto, un intervento specifico e mirato sul tipo di insonnia, basato sui modelli psicofisiologici di regolazione del sonno. Agisce sui fattori comportamentali, fisiologici e cognitivi di mantenimento del disturbo e prevede interventi comportamentali (Tecnica del Controllo degli Stimoli, Tecnica della Restrizione del Sonno), Cognitivi e Psicoeducativi. La CBT-i si rivela efficace in quanto l’integrazione degli interventi permette innanzitutto di modificare le varie credenze disfunzionali sul sonno che, come si è evidenziato, sono particolarmente diffuse e fungono da fattore di mantenimento del disturbo stesso. Le credenze disfunzionali hanno, infatti, un ruolo ancora più grave della mancanza di sonno stesso, visto che, contrariamente a quanto comunemente si crede, le ricerche finora condotte non hanno riscontrato evidenti cali prestazionali cognitivi (come attenzione e memoria) in seguito anche a sole 3-4 ore di sonno.

Il numero, che vede contributi di autorevoli specialisti e ricercatori esperti sull’argomento, fornisce diverse indicazioni utili al lettore per ampliare le sue conoscenze sulla valutazione e il trattamento dell’insonnia. L’articolo di Devoto, Battagliese, Fernandes, Lombardo e Violani, propone una panoramica generale, estremamente utile e dettagliata, sui principali strumenti utilizzabili per la valutazione clinica dell’insonnia. Gli autori evidenziano chiaramente come l’insonnia abbia una genesi multifattoriale; per questa ragione si rende particolarmente necessaria un’accurata e approfondita valutazione dei suoi diversi fattori di innesco e di mantenimento per strutturare un intervento terapeutico razionale e mirato. In questo articolo vengono illustrati gli standard procedurali per l’assessment del Disturbo di insonnia e alcuni strumenti diagnostici fondamentali per la sua valutazione clinica.

Partendo dai criteri diagnostici del DSM-5 e dal modello eziopatogenetico che descrive fattori predisponenti, precipitanti e perpetuanti, gli autori passano in rassegna i metodi di assessment che permettono al clinico di avere informazioni rilevanti per una diagnosi chiara del disturbo e una valutazione utile per poi seguire l’evoluzione dopo il trattamento: colloquio clinico, questionari e diario del sonno. Vengono anche descritti due strumenti obiettivi: l’actigrafia e la polisonnografia. Viene anche illustrato come la raccolta di tale materiale aiuta la diagnosi e,
di conseguenza, l’impostazione del trattamento, permettendo un’accurata e chiara restituzione diagnostica al soggetto che soffre d’insonnia.

Successivamente, visto l’importante ruolo svolto dalle credenze sul sonno nel generare e mantenere il disturbo, il secondo articolo, di Giganti, Arzilli, Cerasuolo e Ficca, descrive le caratteristiche della percezione soggettiva del sonno e dei suoi segnali nel soggetto insonne. L’articolo evidenzia come il trattamento dell’insonnia non dovrebbe tanto mirare a un aumento del tempo totale di sonno o a ridurre la latenza del tempo di addormentamento, quanto piuttosto a correggere le credenze errate sul sonno e all’eliminazione dei comportamenti disfunzionali associati.

Ad esempio, molti soggetti insonni cercano di alleviare le loro difficoltà trascorrendo più tempo a letto, magari con tentativi di riposo nel corso della giornata, ma questi tentativi di autocura conducono in realtà sia a un sonno ulteriormente frammentato, sia ad aumentare il tempo trascorso a letto da svegli ogni notte. Riconoscere le credenze errate sul sonno consente una maggiore compliance nella modificazione dei comportamenti di mantenimento dei disturbi del sonno.

Nell’articolo di Coradeschi si descrive la parte comportamentale dell’intervento. L’autore illustra nel dettaglio, rendendola fruibile al lettore, la tecnica del controllo dello stimolo e la restrizione del sonno che rappresentano due delle componenti centrali della CBT-i. La prima consiste in una serie di prescrizioni finalizzate a riconsolidare l’associazione tra letto e addormentamento, eliminando le attività che interferiscono con il sonno al momento di andare a dormire. La seconda ha lo scopo di restringere il tempo che il paziente trascorre a letto aumentando, attraverso uno stato di lieve deprivazione di sonno, la spinta all’addormentamento, regolarizzando e risincronizzando allo stesso tempo il ritmo sonno-veglia. Il lavoro guida il lettore con l’illustrazione delle procedure d’intervento, fornendo istruzioni ed esemplificazioni utili per il corretto utilizzo delle due tecniche comportamentali, esponendone il razionale e affrontando i principali ostacoli e le resistenze che si possono incontrare col paziente insonne.

Gli ultimi due lavori trattano di due tipologie specifiche di intervento: l’insonnia nei bambini e in pazienti cardiologici. Un problema diffuso che neo-genitori riportano ai pediatri è la difficoltà di addormentamento dei propri figli. L’articolo di Devoto descrive il trattamento cognitivo-comportamentale in età evolutiva, illustrandone le specificità. Si evidenzia come i problemi di inizio e mantenimento del sonno durante la notte sono piuttosto comuni, tanto che si stima una prevalenza intorno al 20%-30% durante la prima infanzia. Mentre, però, nell’adulto, di solito il problema ricade sul soggetto stesso, i problemi di sonno infantile hanno conseguenze negative non solo sul bambino che ne soffre ma, considerando la peculiarità della situazione, anche sul contesto familiare. I disturbi del sonno del bambino, infatti, sono spesso fonte di stress familiare e di effetti negativi per la relazione madre-bambino.

Le ricerche indicano che, in queste situazioni, aumentano pensieri e fantasie aggressive, nonché depressioni materne, contribuendo ad attivare comportamenti di attaccamento genitoriale. L’insonnia del bambino è, inoltre, correlata, in misura decisamente maggiore che nell’adulto, a cali prestazionali, alterazioni dell’umore e disturbi delle funzioni cognitive. Alla luce di queste considerazioni, il tema è quanto mai importante e prevede un trattamento che integra diversi setting coinvolgendo varie figure del nucleo familiare. Per questo motivo la valutazione clinica e il trattamento precoce dei problemi di insonnia nei bambini sono essenziali non solo per migliorare il sonno notturno e il benessere diurno del bambino, ma anche per fronteggiare e prevenire gli effetti negativi sul contesto familiare che amplificano e peggiorano il problema.

In linea con i lavori precedenti, anche in questo caso l’articolo aiuta a sfatare alcune credenze piuttosto diffuse, come la necessità di incrementare la presenza genitoriale per migliorare l’addormentamento del bambino. Ebbene, tale comportamento appare quanto mai disfunzionale e, pertanto, modificare credenze e comportamenti dei genitori sul sonno dei figli, in particolare riducendo il loro coinvolgimento attivo durante la notte, si rivela essenziale. Interessante e utile al lettore la descrizione di un caso esemplificativo trattato mediante le tecniche CBT-i specifiche per l’età evolutiva.

L’ultimo articolo dedicato all’insonnia – di Manno – descrive uno specifico trattamento CBT-i con pazienti ospedalizzati degenti in riabilitazione cardiologica. I sintomi d’insonnia, spesso presenti in pazienti con problematiche cardiologiche, peggiorano la qualità della vita rappresentando un fattore di rischio per ulteriori problemi cardiovascolari. L’autore descrive un’esperienza clinica con 99 pazienti in trattamento riabilitativo degenziale intensivo, successivo a recente intervento cardiochirurgico, evidenziando miglioramenti quantitativi (il numero dei risvegli, il tempo di veglia, il tempo totale di sonno, l’efficienza del sonno) e qualitativi del sonno (sensazione di riposo al risveglio e sensazione di piacevolezza del sonno), dopo trattamento CBT-i individuale, indipendentemente dall’assunzione di terapia psicofarmacologica, intervenendo, quindi, su possibili fattori di rischio per ulteriori ricadute.

Clinica delle disfunzioni sessuali (2012) di Fenelli A. e Lorenzini R. – Recensione

Rivolto a psicologi e medici che trattano i disturbi sessuali (disturbi della risposta sessuale), il manuale illustra un modello teorico e di intervento nelle varie fasi terapeutiche.

 

Il manuale si basa su un approccio integrato che combina la terapia mansionale integrata (TMI) all’interno di una prospettiva clinica cognitivo-costruttivista che valorizza anche la dimensione relazionale.

In particolare, il volume si sofferma sull’analisi degli specifici meccanismi patogenetici e sul trattamento di tre categorie di disfunzioni sessuali:

  • I disturbi dell’eccitazione (frigidità e impotenza);
  • I disturbi da dolore sessuale (vaginismo e dispaneuria);
  • I disturbi dell’orgasmo (inibizione e precocità).

Il metodo mansionale è un approccio strategico breve centrato sulla risoluzione del sintomo attuale e del circolo vizioso di automantenimento, perseguendo come obiettivo ‘il minimo cambiamento stabile possibile‘. Si articola in quattro fasi centrali che a partire dalla riscoperta individuale si orienta alla ricerca di cooperazione ed intesa all’interno della coppia:

  • La conoscenza di sé;
  • La conoscenza di sé tramite l’altro e la conoscenza dell’altro;
  • La conoscenza della propria dimensione del piacere;
  • La conoscenza del piacere condiviso di coppia.

Il principio sotteso a questo orientamento è quello di sperimentarsi in modi e situazioni nuove e diverse per poter accedere ad una inedita percezione di sé e degli altri, così da favorire un miglioramento nell’intimità e nella sessualità di coppia. Al terapeuta spetta il ruolo di guida nella fase di sperimentazione e riscoperta reciproca e di facilitatore degli scambi comunicativi all’interno della coppia.

La ricostruzione precisa della storia di attaccamento e di apprendimento delle credenze individuali che soggiacciono ai disturbi sessuali e che li mantengono nel presente è fondamentale per disambiguare l’origine ed il significato del sintomo. Una stessa manifestazione sintomatica, infatti, può derivare da esperienze, convinzioni e vissuti emotivi del tutto eterogenei. Ad esempio l’impotenza sessuale può originare da ansia prestazionale (“Non devo dimostrare incertezze”), da senso di colpa (“Se penso a me sono egoista”) come anche da rabbia (“L’altro pensa solo a sé”).

L’iter terapeutico viene descritto dal primo colloquio, al contratto, alla gestione della singola seduta, alle prescrizioni mansionali, all’esame delle dinamiche relazionali, delle resistenze e della relazione terapeutica. Una sezione intera illustra l’applicazione degli specifici interventi terapeutici attraverso le quattro fasi del trattamento.

Questo metodo non è indicato, né risulta efficace nel caso in cui siano compresenti anche patologie psichiatriche, profondi disturbi di personalità o gravi difficoltà relazionali all’interno della coppia che, invece, andranno trattati preliminarmente con una terapia tradizionale.

L’impatto di un percorso così intimo può essere significativo:

Poiché la terapia aumenta i gradi di libertà con cui il soggetto può costruire se stesso, i due usciranno da tale esperienza non soltanto con un futuro diverso ma anche con un passato diverso.

La sindrome metabolica e gli effetti del PTSD a livello neuroanatomico

La sindrome metabolica, una situazione clinica ad alto rischio cardiovascolare, secondo quanto riportato da uno studio pubblicato su Biological Psychiatry, potrebbe essere un meccanismo biologico collegante il disturbo post traumatico da stress (PTSD) ad anomalie strutturali del cervello.

La sindrome metabolica

Si caratterizza per tre o più delle seguenti condizioni: obesità, pressione alta, insulina-resistenza, dislipidemia (elevati trigliceridi o bassa densità di lipoproteine). Si ritiene, inoltre, che lo stress giochi un ruolo chiave nella patogenesi e nel decorso della sindrome metabolica e sono state varie le ipotesi avanzate a riguardo, ad esempio quella della disregolazione autonomica, della reattività cardiovascolare, della disregolazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene e della disfunzione del sistema immunitario.

Alcune caratteristiche della sindrome, inoltre, inficiano l’integrità strutturale del cervello. Ad esempio, un ridotto afflusso di sangue condurrebbe ad una peggiore perfusione e ad una riduzione dello spessore corticale (per lo più nelle zone temporali, frontali e parietali), un indicatore dell’integrità della materia grigia.

Il PTSD come fattore di rischio della sindrome metabolica

Secondo Erika Wolf, autrice dello studio, queste conclusioni sarebbero fondamentali per strutturare programmi di intervento destinati ai veterani di guerra rientranti da Iraq e Afghanistan, programmi che considererebbero il PTSD come fattore di rischio per la sindrome metabolica e che permetterebbero screening adeguati sui soldati.

Stando alle statistiche, infatti, la sindrome metabolica compare circa due volte più spesso in pazienti con PTSD rispetto alla popolazione generale; tali dati sottolineano quindi il ruolo chiave dello stress in questa relazione. Inoltre, la sindrome metabolica contribuirebbe ad aumentare il rischio di malattie cardiovascolari, il diabete di tipo 2, la neurodegenerazione e altre condizioni mediche avverse che di sovente accompagnano la sintomatologia del PTSD.

Lo studio

Lo studio in questione ha esaminato 346 veterani militari dispiegati in Iraq e Afghanistan. In linea con le precedenti evidenze scientifiche, la prevalenza della sindrome metabolica tra i veterani con PTSD era quasi due volte superiore a quelli senza PTSD. In aggiunta, i risultati delle tecniche di neuroimaging impiegate hanno rivelato un’associazione tra gravità della sindrome metabolica e il ridotto spessore corticale (lobi temporali e frontali). Questo risultato sarebbe particolarmente grave, data la giovane età media del campione (entro i 30 anni). Infatti, la maggiore preoccupazione connessa a questo risultato è che questa popolazione potrebbe andare incontro ad un declino neurocognitivo più marcato e più repentino.

E’ bene sottolineare, tuttavia, che i meccanismi che conducono alla riduzione dello spessore corticale sono ancora sconosciuti e che deve essere ancora esclusa la possibilità che tale riduzione sia in realtà un fattore di rischio, più che una conseguenza, del PTSD e della sindrome metabolica.
Concludendo questa è la prima evidenza scientifica a sostegno della relazione tra la gravità dei sintomi del PTSD, gravità della sindrome metabolica e ridotto spessore corticale nei lobi temporali e frontali.

L’uso di droghe e i tratti di personalità

Indipendentemente dalla funzione o dal tipo di droga, dall’età o dalle caratteristiche della popolazione indagata, si potrebbe affermare con un certo grado di sicurezza l’esistenza di una correlazione tra uso di sostanze e personalità, in particolare con alcuni tratti.

Sara Bellodi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Milano

 

Fino agli anni Cinquanta, quando si pensava alla parola droga, ci si stava riferendo semplicemente a spezie ed aromi. È solamente nel 1967 che l’Organizzazione mondiale della sanità (OMS) fornisce una definizione di droga, tuttora in vigore: “droga è ogni sostanza naturale o artificiale in grado di modificare la psicologia e l’attività mentale degli esseri umani”. Questi effetti vengono detti psicoattivi (alterazione sia degli stati di coscienza che del sistema nervoso).

 

L’utilizzo di sostanze nel corso della storia

Ogni individuo è inserito all’interno di un contesto sociale, che influenza i suoi comportamenti e le reazioni delle altre persone a tali atteggiamenti. Inoltre risulta particolarmente importante determinare i confini tra ciò che è considerato lecito da quello che invece viene valutato come illecito. Appare chiaro che questo confine è molto labile, a seconda del periodo storico di riferimento.

Nelle civiltà primordiali e fino al diciannovesimo secolo dopo Cristo, l’uso di sostanze è da considerarsi autocratico, in quanto veniva gestito dal potere con modalità peculiari e per i propri scopi religiosi, mistici, artistici e terapeutici. È stato utilizzato anche per fini bellici e politici.

Nell’Ottocento, al contrario, l’uso libero di sostanze si è rapidamente diffuso in tutto il mondo occidentale, soprattutto negli ambienti artistici e della moda.

Successivamente, nel ventesimo secolo, negli stati occidentali le droghe vennero dichiarate illecite, entrando di conseguenza nel giro della clandestinità. Negli anni Sessanta, in concomitanza con il movimento hippy, il consumo di sostanze si trasformò in un fenomeno di massa, definito erroneamente ‘cultura della droga’, che coinvolse prevalentemente i giovani. Si evince quindi un utilizzo di tipo democratico, in quanto coinvolge tutti i componenti del gruppo, benché la sostanza sia considerata illecita dal resto della società.

Ancora oggi esiste una cultura della droga del mondo occidentale. In questi raggruppamenti vi è normalmente un poliabuso di sostanze, tra cui hashish, marijuana, allucinogeni (es. LSD), stimolanti (es. cocaina), psicofarmaci sedativi, narcotici fino all’eroina. È emerso che queste comunità sono molto precarie, a causa della tendenza dei giovani componenti a cercare continuamente nuovi tipi di esperienze. Da qua si giunge al fenomeno della droga di massa, utilizzata da ragazzi sempre più giovani, alimentato dagli spacciatori delle sostanze illecite.

Riassumendo, è possibile individuare, nel corso della storia delle varie società umane, cinque funzioni del consumo di droghe (Durrant, Thakker, 2003): terapeutica, sociale, ricreazionale, strumentale, religiosa ed alimentare.

 

Classificazione delle droghe

Le droghe, a loro volta, possono essere classificate in sette gruppi (Malizia, Borgo, 2006): depressivi (alcol, barbiturici, gamma-idrossibutirrato – GHB –, tranquillanti – benzodiazepine –); oppiacei e oppioidi (oppio, morfina, eroina, codeina, tebaina ed etorfina); anestetici dissociativi (ketamina); antidepressivi e psicostimolanti (caffeina, nicotina, coca, cocaina); stimolanti anfetaminosimili (anfetamine, ecstasy); cannabici (marijuana, hashish).

Infine, come afferma Piccone Stella (1999, 2002, pag 15):

Non esiste un muro tra chi consuma tabacco, birra, superalcolici da una parte e chi consuma hashish o eroina dall’altra, come generalmente si ritiene, c’è piuttosto un continuum, una lunghissima e disuguale linea di gusti e di abitudini, di paure e di piaceri, di autocontrollo e di consumo sfrenato, di rischi più o meno consapevoli, lungo la quale le somiglianze e le differenze vanno attentamente esaminate e vagliate

L’organizzazione mondiale della sanità (OMS) definisce l’uso di droga un atto attraverso cui un soggetto si autosomministra una sostanza psicoattiva, senza subire effetti negativi. Mentre l’abuso di sostanze psicoattive viene definito dal DSM-IV come: “una modalità patologica d’uso di una sostanza, dimostrata da ricorrenti e significative conseguenze avverse correlate all’uso ripetuto della stessa” (American Psychiatric Association, 1996, p.206).

L’utilizzo prolungato e costante può provocare nel consumatore uno stato di dipendenza, che può essere fisica o psichica. Nel 1973 l’OMS ha definito:

  • Dipendenza fisica: “abitudine o assuefazione a una droga, che si manifesta con la comparsa di disturbi fisici violenti allorché l’autosomministrazione è interrotta. Questi sintomi, chiamati ‘sindrome di astinenza’ o ‘di privazione’, costituiscono un insieme specifico di sintomi psichici e fisici che variano per ciascun tipo di droga”. In alcuni casi i sintomi possono essere addirittura mortali, come nel caso di quelli da alcol.
  • Dipendenza psichica: “situazione nella quale una droga produce sensazioni di benessere e una pulsione psichica (spinta incontrollabile) a consumarla in maniera periodica o continua, al fine di ottenere un piacere o di prevenire sensazioni spiacevoli”. Si tratta quindi di un fenomeno biologico correlato a specifiche alterazioni biochimiche. Essa è normalmente associata ad un senso d’inadeguatezza interiore, alienazione e incapacità ad eseguire compiti che richiedano responsabilità. Questo tipo di dipendenza, come si deduce dalla definizione sopraccitata, è simile al desiderio di un’esperienza positiva, fino a diventare craving.

 

Uso di sostanze e personalità

Nel corso degli anni sono state svolte numerose ricerche relativamente alla possibile esistenza di un’associazione tra uso di sostanze e personalità, alcuni tratti in particolare (Comeau, Stewart e Loba, 2001; Denson & Earleywine, 2006; Dawe & Loxton, 2004; Deykin et al., 1987; Dougherty et al., 2007; Buckner & Smith, 2008; Harder, Stuart e Anthony, 2008; Foltin et al., 1990; Brook et al., 2001; Bernstein et al., 2015; Edlund et al., 2015).

L’uomo ha da sempre elaborato teorie sulla personalità, ma è solamente dal secolo scorso che sono state proposte usando una specifica strumentazione teorica ed empirica. Tuttavia, nonostante ciò, non si è ancora giunti ad un’univoca proposta interpretativa.

Allport (1931,1966), ad esempio, considera i tratti come le unità di base della personalità. Inoltre, secondo l’autore, questi rappresentano delle disposizioni generali della personalità in grado di spiegare le regolarità, a seconda delle situazioni e nel corso del tempo, nel comportamento di un individuo. Ha proposto una distinzione tra tratti cardinali (le passioni e le motivazioni che perdurano durante la vita dell’individuo), tratti centrali (tutti quegli aspetti che rappresentano la persona, come ad es. la pigrizia, che hanno una forte influenza sui suoi comportamenti) e tratti secondari (aspetti specifici del comportamento del soggetto, come amare o detestare una certa tipologia di film. Sono influenzati dall’ambiente circostante).

Cattell (1946c) invece aveva individuato 171 tratti, raggruppati in 36 gruppi fattoriali. Tra questi aveva identificato i tratti di superficie (aspetti che procedono assieme all’osservatore esterno) e i tratti sorgente (strutture che danno coerenza alla personalità, ma che non sono immediatamente individuabili).

Tra i tratti principalmente indagati nella ricerca sulla correlazione tra uso di sostanze e personalità troviamo ansia, depressione ed impulsività.

L’ansia è definita come un’emozione naturale e universale, che è generata da un meccanismo psicologico di risposta allo stress, il quale svolge la funzione di anticipare la percezione di un eventuale pericolo prima ancora che quest’ultimo sia chiaramente sopraggiunto, mettendo in moto specifiche risposte fisiologiche che spingono, da un lato, all’esplorazione per identificare il pericolo ed affrontarlo nella maniera più adeguata e, dall’altro, all’evitamento e all’eventuale fuga.

In uno studio condotto da Leventhal et al. (2013), con soggetti maggiorenni consumatori di tabacco, è emerso che la sintomatologia ansiosa (es. nervosismo) aveva una forte influenza nel determinare stati negativi (es. rabbia) durante l’astinenza da nicotina.

In accordo con questi risultati, in due ricerche svolte rispettivamente con giovani adulti e con degli studenti frequentati il college, si è scoperto che gli individui socialmente ansiosi consumavano più facilmente cannabis (Buckner, Bonn-Miller, Zvolensky, & Schmidt, 2007; Buckner & Schmidt, 2008). Tuttavia, in contrasto con gli studi appena citati, in una ricerca condotta in una popolazione non clinica, non è stata riscontrata alcuna correlazione significativa tra l’uso di cannabis e l’ansia derivante dalle situazioni quotidiane (Tournier, Sorbara, Gindre, Swendsen, & Verdoux, 2003).

La depressione invece può essere definita come un disturbo dell’umore, in cui c’è un’interazione tra sintomi cognitivi, comportamentali e affettivi. Nei casi peggiori può portare a gravi patologie (es. disturbo depressivo maggiore) che influenzano negativamente la vita lavorativa e quotidiana.

In un recente studio sull’ uso di sostanze e personalità condotto da Edlund et al. (2015) su una popolazione adolescente (età compresa tra i 12 e i 17 anni), si è osservata una forte correlazione tra gli episodi depressivi maggiori e il seguente utilizzo di oppioidi, portando gli autori a considerare l’episodio depressivo come un vero e proprio fattore, sia di rischio, sia predisponente ad un futuro uso/abuso della sostanza.

Similmente, McCann et al. (2014) hanno riscontrato che soggetti che consumavano ecstasy tra gli 11 e i 15 anni, avevano maggiori probabilità di sviluppare sintomi depressivi entro i 16 anni d’età.

Precedentemente, Denson e Earleywine (2005), hanno suddiviso la loro ricerca sull’uso di cannabis in due parti. Nella prima hanno separato il campione in base alla frequenza di utilizzo (uso quotidiano, una volta a settimana o meno, mai) ed è emerso che i consumatori quotidiani erano meno depressi e più positivi rispetto agli altri due gruppi. Nella seconda parte dello studio invece hanno analizzato i livelli di depressione in soggetti che usavano la cannabis con scopi ricreativi o con scopi medici. Questi ultimi avevano dei livelli di depressione più alti rispetto ai primi.

Un altro tratto di personalità spesso associato all’utilizzo di sostanze è, come detto inizialmente, l’impulsività. L’impulsività è ciò che spinge un individuo a compiere un’azione o un determinato comportamento senza pensarci, istintivamente.

Bernstein et al. (2015), in linea con i risultati ottenuti nelle ricerche su ansia e depressione, hanno riscontrato una correlazione tra impulsività ed uso di sostanze, in questo caso analizzando un campione di carcerati. Nello specifico, gli autori hanno rilevato che i soggetti abituati ad un poliabuso di droghe (alcol, oppiacei, benzodiazepine, cocaina, allucinogeni) oltre alla cannabis mostravano livelli di impulsività molto più alti rispetto ai non consumatori.

Sono state ottenute conclusioni similari anche in studi antecedenti sulle cosiddette ‘droghe leggere‘, quali tabacco (Baker, Brandon & Chassin, 2004; Bilieux, Van Der Linden & Ceschi, 2007) e marijuana (Dougherty et al., 2007), dove è stata confermata la correlazione con questo tratto di personalità.

In conclusione, indipendentemente dalla funzione o dal tipo di droga, dall’età o dalle caratteristiche della popolazione indagata, si potrebbe affermare con un certo grado di sicurezza l’esistenza di una correlazione tra uso di sostanze e personalità, in particolare con alcuni tratti.

Limitless (2011): bipolarismo, dipendenza e potenziamento delle capacità cerebrali –  Recensione del film

Protagonista di Limitless è Eddie, vittima di un incontro con un lucignolesco passato in cui spunta Lei: la pillola magica, irrintracciabile e sconosciuta, consente di sfruttare il fantomatico 100% delle potenzialità del cervello, in pratica il santo Graal, l’NZT.

 

Limitless: sinossi

Eddie Morra è uno scrittore fallito, un alcolizzato che vive ormai ai margini della società, abbandonato dalla fidanzata e costretto a miseri stratagemmi pur di evitare lo sfratto da un lurido appartamento in uno squallido sobborgo di Chinatown. Passa le sue giornate tra schermo bianco del computer, carte di hamburger avanzate e sudici bar nella speranza di spremere dalle meningi obnubilate una qualche frase del romanzo per il quale ha un contratto, prima che la sua editrice lo sbatta fuori dai giochi.

L’angoscia cresce ogni giorno, la voce narrante incalza un uomo schifato di se stesso e della propria condizione ai limiti della dignità; numerosi flashback puntellano l’escalation di sfacelo verso il più basso dei gradini: ‘Eddie sei finito, fai veramente schifo‘ decreta la voce sprezzante, ‘Non ti resta che tornare dai tuoi, hai chiuso‘.

E poi l’incontro con un lucignolesco passato: l’ex cognato spunta fuori dal cilindro delle droghe leggere e propone Lei. La pillola magica, irrintracciabile e sconosciuta: consente di sfruttare il fantomatico 100% delle potenzialità del cervello, in pratica il santo Graal, l’NZT.

Già dalla prima assunzione vediamo l’intero mondo di Eddie cambiare: luci, suoni, interpretazione della realtà e colori. I volumi aumentano, i movimenti accelerano, le informazioni a sua disposizione si fanno infinite: è come se tutta la conoscenza da lui acquisita negli anni fosse lì a disposizione, archiviata e pronta per essere utilizzata.

Improvvisamente ricorda tutto, ogni particolare, e riesce a metterlo in collegamento con altre informazioni apprese, anche di poco conto o viste per pochi attimi. E’ in grado di apprendere nuove capacità dopo pochi minuti di pratica e inizia a utilizzare questo immenso potere a scopo di lucro. Ma come ogni zucca o paese dei balocchi fiabesco, anche l’NZT ha delle conseguenze, che Eddie scopre ben presto a sue spese. Tra complicazioni di stampo mafioso che mettono continuamente in pericolo la vita del protagonista del film Limtless, ed effetti collaterali sempre più invalidanti veniamo a scoprire un mondo sotterraneo di personaggi dell’alta finanza la cui ascesa è stata in realtà potenziata dall’NZT.

Il magnate dell’alta finanza Carl Van Loon, prima mentore poi inquietante aguzzino, provoca a tal proposito Eddie, mettendolo di fronte al dilemma tutto morale: una capacità guadagnata sul campo nel tempo, è migliore di una geniale spuntata fuori dal nulla? E come se minacce di morte cruenta e ricatti infimi non bastassero, l’NZT comincia a rivelare la sua scure mortale: l’assunzione prolungata non solo provoca dipendenza, ma superato un punto di non ritorno al primo accenno di diminuzione della dose inizia un’escalation di disturbi fisiologici invalidanti che portano alla morte repentina. Il Santo Graal si mostra per ciò che realmente è: un sirenico estorsore.

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DI LIMTLESS:

 

Limitless: la salvezza dal quotidiano fallimento tra bipolarismo e dipendenza

Chi mai vorrebbe rimanere un fallito, avendo a disposizione una pillola magica che ci offre su un piatto d’argento una versione potenziata di noi stessi praticamente invincibile e totipotente, instancabile e irrefrenabile? La risposta è retorica quanto la domanda, e coinvolge di per sé temi cari alla psicopatologia da anni.

Non abbiamo bisogno di sentir pronunciare a Eddie il passe partout ‘Smetto quando voglio‘, per addentrarci nei meandri oscuri della dipendenza: ci siamo già invischiati dai primi 15 minuti e ne siamo perfettamente e banalmente consapevoli.

L’aspetto a mio avviso più interessante di Limitless, però, risiede proprio nella natura della vera protagonista.  L’NZT non crea nulla che non sia già presente: potenzia ciò che già è. Alza i volumi, elimina la fragilità, l’umanità bisognosa di ristoro, elimina difese e barriere alimentando la leggenda millenaria sempre attuale del superuomo, del supereroe e dell’immortale. Miliardi di neuroni, incalcolabili sinapsi, la leggenda del 100% ciclicamente riportata in auge come a sottolineare l’inesorabile pochezza e fragilità dell’essere umano medio, la sua inesplicabile insufficienza quotidiana. ‘Non sei abbastanza, devi fare di più, non vali nulla‘ un ritornello al quale l’NZT pone un’aurea risposta.

Il dualismo vissuto da Eddie in Limitless, nell’alternanza tra assunzione e astinenza, ci richiama alla mente le fasi di un bipolarismo veloce, nel quale il doppio Dostoevskijano maniacale lo incita ad uscire da un sé sfatto e vergognoso; la mania indossa il colletto bianco dell’alta finanza e concupisce a suon di scintillanti spider e vertiginose ascese: è tutto lì sul piatto, signore e signori, non c’è trucco né inganno!

Ma il trucco, ovviamente, c’è. L’NZT è anche incontrollabile, si impossessa di te, dei tuoi desideri e delle tue aspettative. Logora il tuo corpo, ti mostra che i bisogni umani hanno una funzione necessaria, che senza di essi non esiste vita compatibile, che senza barriere e senza difese la tua mente è inerme verso le dinamiche psicologiche dell’altro e del gruppo. Il dolore, il fallimento, la disperazione non possono che essere parte dell’umana esperienza perché elementi fondanti dell’altra faccia dello specchio. Senza di essi non può esserci rispecchiamento né confronto.

Dopo la prima assunzione, Eddie si stupisce di non aver bisogno di mangiare né di riposarsi, persino il fumo e l’alcool sono lontani ricordi: improvvisamente si scopre efficiente e puntuale, dinamico e vincente in ogni singola azione, al di là di ogni suo più recondito sogno. Una fase maniacale perfetta, proiettata all’estremo di un super uomo, tanto caro ai nostri standard quotidiani del ‘mai abbastanza’, e della frenesia ad ogni costo. Una tale efficienza non può che creare dipendenza, proprio per il fatto che ci libera da ogni altra dipendenza o debolezza, stasi o fragilità, esitazione o timore.

Ma tutto ha un prezzo, e come ben sappiamo la fiamma che arde al doppio della potenza si consuma in metà del suo tempo. Debolezze, stasi, fragilità e timori sono parti costituenti dell’esperienza umana, ma non solo; donano ad essa la consapevolezza necessaria per affrontare le nuove sfide. Carl Van Loon ricorda ad Eddie come gli infimi scalini dell’ascesa, preparino al trono dell’ascesa stessa: evitandoli si rischia il fango. L’accettazione del percorso permette di fare spazio all’umano, al fragile peccatore; gli permette di rialzare la testa a partire dal fango del quale le sue ginocchia sono intrise. L’Eddie della pellicola ci lascia in sospeso: sarà stato in grado di farlo?

Assunzione di droghe e compromissione del riconoscimento delle immagini

Una nuova ricerca pubblicata su Neuropsychopharmacology mostra come l’LSD, una delle droghe psichedeliche più diffuse, alteri il processamento delle informazioni emotive veicolate dai volti mentre incrementa il comportamento prosociale.

 

Introduzione

Questa droga è stata spesso studiata in virtù delle sue proprietà psicoattive fin dal 1940; tuttavia dagli anni sessanta dello stesso secolo la ricerca su questo allucinogeno è stata fortemente limitata, in quanto collegata alla cultura hippie e al movimento contro la guerra. LSD è attualmente studiata per il trattamento di diversi disturbi mentali, tra cui ansia, dipendenza e disturbo da stress post-traumatico (PTSD).

Lo studio

Secondo i risultati di questo studio, condotto in doppio cieco e con un gruppo di controllo che assumeva un placebo, l’LSD tende a ridurre la capacità della persona di riconoscere le emozioni negative, migliorando l’empatia e la prosocialità di una persona. I ricercatori hanno per prima cosa reclutato 40 partecipanti adulti presso l’Università di Basilea in Svizzera; 11 di loro in precedenza avevano già provato l’assunzione di LSD. Ad ogni partecipante è stata poi data una singola dose orale da 100mg o da 200mg o un placebo inattivo. Circa 5-7h più tardi (circa 3h dopo il picco massimo di effetti psicotropi della LSD) i soggetti completavano una serie di test psicologici tesi a misurare il loro stato d’animo e l’elaborazione di informazioni emotive. Nel dettaglio questi erano: il Face Emotion Recognition Task, il Mutifaceted Empathy Test, il Social Value Orientation Test, le Visual Analog Scales e l’Adjective Mood Rating Scale.

I risultati

Al termine dell’esperimento si è osservato che i partecipanti sotto l’effetto di LSD avevano meno probabilità di riconoscere le espressioni facciali di paura e di tristezza. Tuttavia il farmaco non sortiva effetto sul riconoscimento di espressioni facciali neutre, felici o arrabbiate.

L’effetto della LSD, inoltre, produceva una riduzione dell’empatia cognitiva accompagnata da un incremento dell’empatia emotiva; i partecipanti che avevano assunto la droga avevano quindi difficoltà ad inferire lo stato mentale di una persona osservando una fotografia, ma erano più propensi a sentirsi preoccupati per il benessere della stessa.

Riguardo il comportamento prosociale, misurato per mezzo del Social Value Orientation Test – dove i soggetti devono scegliere come distribuire una piccola somma di denaro tra loro stessi e gli altri partecipanti – i soggetti sotto gli effetti di LSD optavano più spesso per una distribuzione eguale.
Rispetto all’umore dei partecipanti, infine, la droga stimolava sentimenti di vicinanza agli altri, la tendenza a fantasticare, il voler stare con gli altri, la felicità, l’apertura, la fiducia e l’introversione.

Gli effetti fisiologici registrati dalla LSD erano in linea con le precedenti evidenze scientifiche, e cioè ad una sua assunzione si accompagnano un aumento della pressione arteriosa, della frequenza cardiaca, della temperatura del corpo e la dilatazione delle pupille.

Dolder e i suoi colleghi hanno affermato che i loro risultati potrebbero avere un rilevante significato clinico. Gli effetti dell’LSD, infatti, potrebbero ridurre la percezione di emozioni negative nel paziente e faciliterebbero l’alleanza terapeutica.

Magrezza non è bellezza – Genova, 01 Ottobre 2016

Si è svolto sabato 1 ottobre 2016 il primo incontro dal titolo “Magrezza non è bellezza” del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova”.

 

La partecipazione era aperta a professionisti che operano nel campo della salute mentale ed è stato organizzato dal nuovo centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva formato da un’equipe di psicoterapeuti ad orientamento cognitivo-comportamentale.

A condurre la giornata la dott.ssa Sassaroli che ci ha parlato dei disturbi dell’alimentazione. Partendo da un cappello introduttivo in cui si sono analizzati i criteri diagnostici dei disturbi dell’alimentazione secondo il DSM 5, abbiamo osservato i fattori di rischio temperamentali, psichiatrici, biologici che rappresentano un rischio di insorgenza dei disturbi anoressici e bulimici.

Particolare attenzione è stata posta sulle caratteristiche familiari che possono influire e in parte determinare lo sviluppo e anche il mantenimento del disturbo dell’alimentazione.

Infine ci si è soffermati sull’analisi di due casi clinici e sulla strutturazione della loro terapia permettendo un confronto aperto sulla gestione terapeutica di tali tipi di disturbi.

Il prossimo degli incontri organizzati dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “Tematiche suicidarie e psicoterapia” condotto dal Dr. Francesco Centorame si svolgerà sabato 22 ottobre 2016 dalle ore 10 alle ore 13.

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Cogenitorialità: le nuove forme dell’essere genitore

Le relazioni genitori-figli dovrebbero essere considerate in una cornice complessa che prevede l’interdipendenza di diversi rapporti diadici, in particolare la coppia coniugale e quella genitoriale, per cogliere questa complessità e cercare di definirla si è iniziato a usare il termine cogenitorialità o alleanza cogenitoriale per definire e studiare la relazione fra genitori che lavorano insieme per guidare un figlio.

Marzia Caffesi – OPEN SCHOOL Scuola di Psicoterapia e Ricerca, Milano

 

Cara, sono a casa!”. Poche parole che fin da subito evocano nella mente di tutti l’immagine dell’impiegato della middle class che, dopo una giornata in ufficio, rientra a casa per trovare: una cenetta deliziosa quasi pronta, due o tre pargoli puliti e sorridenti e dulcis in fundo un’adorabile mogliettina che, indossando un grazioso abito da cocktail, porge un aperitivo esclamando: “Oh caro! Che bello sei arrivato! Come è andata la giornata?”.

In questa scena ripresa più volte in passato (e in alcuni casi anche di recente) da numerose réclame televisive è espresso il cuore dell’ideologia famigliare tipica degli anni cinquanta ossia una rigida divisione dei ruoli dove alla moglie competeva l’andamento della casa e soprattutto la crescita dei figli mentre l’uomo, il cui compito principale consisteva nel procurare il sostentamento familiare, si limitava a qualche fugace apparizione nel ruolo di genitore se vi erano questioni urgenti di disciplina.

 

 

Il cambiamento di paradigma e il riconoscimento della cogenitorialità

Da allora la famiglia è mutata e si potrebbe dire che è tuttora in fase di ristrutturazione. Ciò che è certo è il ruolo sempre più attivo e partecipe richiesto alla figura paterna nella crescita dei figli e di conseguenza il modificarsi stesso dell’esperienza genitoriale sia dal punto di vista dei partner sia per quel concerne le ricadute sulla prole. Per questo motivo l’esperienza genitoriale e il fondamentale compito di cura responsabile che ne consegue sono stati largamente studiati soprattutto per le conseguenze nello sviluppo dei figli e come fattore di rischio o di protezione nel processo evolutivo dell’essere umano (McHale, J.P., Kuersten-Hogan, R., Lauretti, A. 1996).

Storicamente, gli studi si sono focalizzati sulla diade madre-bambino, in particolar modo sulla ricerca volta alle primissime fasi dello sviluppo, in cui alla donna viene attribuito un ruolo centrale nell’accudimento del bambino. Con l’avanzare degli anni e il progressivo coinvolgimento del padre, questi studi hanno iniziato a tenere in considerazione e comprendere la figura paterna, ma è solo recentemente che alcuni lavori hanno evidenziato che le diadi madre-figlio e padre-figlio formano modelli relazionali all’interno di una triade nella quale le caratteristiche delle relazioni tra genitori, già durante la gravidanza, assumono una funzione fondamentale (McHale, 1995).

Secondo queste prime considerazioni si è iniziato a capire che le relazioni genitori-figli dovrebbero essere considerate in una cornice complessa che prevede l’interdipendenza di diversi rapporti diadici, in particolare la coppia coniugale e quella genitoriale. L’interdipendenza di queste relazioni lascia emergere delle proprietà che sono più della semplice somma di rapporti diadici o dalle caratteristiche dell’individuo ma che potremmo definire familiari.

Per cogliere questa complessità e cercare di definirla si è iniziato a usare il termine cogenitorialità o alleanza cogenitoriale per definire e studiare la relazione fra genitori che lavorano insieme per guidare un figlio. La cogenitorialità viene intesa quindi la qualità della coordinazione tra gli adulti nei loro ruoli genitoriali (McHale, 2010). La definizione rimanda al mutuo investimento e coinvolgimento dei genitori nel crescere congiuntamente i loro figli. La cogenitorialità è inoltre la relazione attraverso cui i genitori negoziano i loro rispettivi ruoli, la responsabilità e i contributi nei confronti dei loro figli (Margolin, 2001), ma rimanda anche al sostegno, alla condivisione della responsabilità, al rispetto e alla fiducia tra madre e padre e anche al modo in cui i genitori affrontano insieme il loro ruolo (Feinberg, 2002).

Recentemente si è scoperto che la cogenitorialità risulta essere uno snodo centrale per ciò che concerne le relazioni famigliari (McHale, J.P., Rasmussen, J.L., 1998). Il termine cogenitorialità, al contrario del comune pensare non coincide con la suddivisione equa del lavoro genitoriale ma come un’alleanza tra i genitori che può contenere sia dimensioni positive quali il rispetto, la partecipazione, la comunicazione, e la cooperazione; sia caratteristiche negative come conflitto e triangolazione (McHale, 2010).

L’uso del termine alleanza è infatti significativo: veri alleati sono coloro che non solo convengono pubblicamente su un piano di azione, ma che poi continuano a sostenere quel piano sia quando esercitano la genitorialità con il partner sia quando la esercitano da soli. Un rapporto di questo tipo quindi, esiste tra due persone quando assumono un reciproco impegno, vincolante per il benessere del bambino.

 

Come si è arrivati allo studio del rapporto cogenitoriale e le sue dimensioni

È importante sapere che il concetto di cogenitorialità è entrato nella ricerca sulla famiglia, attraverso gli studi sulle famiglie divorziate, perché una buona cogenitorialità si è dimostrata prevenire gli effetti negativi del divorzio sul bambino come i problemi emotivo-comportamentali e solo successivamente l’importanza di questo fattore chiave è stata estesa e riconosciuta anche nelle famiglie intatte anche in virtù dell’assunzione di un’ottica preventiva (MCcHale, J. P., Fivaz-Depeursinge, E. 1999; Feinberg M.E., Brown L.D., & Kan M.L., 2012).

In seguito numerosi studi hanno esaminato questo legame all’interno del contesto del matrimonio identificando le tipologie che riflettono i modelli di comportamento cogenitoriale. Le tipologie principalmente riconosciute sono: la cogenitorialità oppositiva, caratterizzata da basso calore e cooperazione e alti livelli di antagonismo cogenitoriale; la cogenitorialità coesa, caratterizzata da più alti livelli di calore e cooperazione e bassi livelli di antagonismo e la cogenitorialità non restrittiva, caratterizzata da bassi livelli di calore e cooperazione e livelli di antagonismo simili a quelli del gruppo oppositivo, ma non così estremi.

Inoltre si è arrivati a intuire che il rapporto cogenitoriale comprende due dimensioni: una interna e una esterna. La dimensione interna è rappresentata dalle esperienze di cogenitorialità di ogni genitore ed è caratterizzata da sentimenti di convalida da parte del partner, a commenti positivi sull’impegno per il benessere del figlio, ed è dedicato a promuovere sia un sottosistema cooperativo dei genitori sia il sistema familiare nel suo complesso, mentre la dimensione esterna è rilevabile nelle interazioni triadiche, che prevedono la presenza di padre, madre e bambino.

 

 

Il valore di mediatore nei legami famigliari

Per quello che riguarda il rapporto con la relazione di coppia, sappiamo che la cogenitorialità è teorizzata ad un livello triadico per cui dovrebbe essere intrecciata, per la sua stessa essenza alla relazione coniugale. Allo stesso modo però, la relazione cogenitoriale va distinta, dalla pura relazione di coppia che esiste a livello diadico. Sarebbe meglio, quindi, definire le due relazioni come sottosistemi famigliari continui ma distinti.

Un certo numero di studi ha indagato come il legame cogenitoriale influenzi il legame di coppia. Quasi sempre però, in questi studi, non si ipotizza un’influenza diretta bensì un ruolo di mediazione che la cogenitorialità avrebbe tra rapporti coniugali e le pratiche genitoriali. Sembrerebbe quindi che l’alleanza cogenitoriale possa mediare l’associazione tra relazione coniugale e relazione genitoriale. In particolare, il rapporto cogenitoriale è influenzato dai sentimenti che i partner provano l’uno per l’altro, quindi relazioni coniugali buone si riflettono in cogenitorialità positiva, mentre rapporti ostili tra i coniugi si riflettono in cogenitorialità negativa.

È stato anche proposto un modello alternativo e altrettanto plausibile che propone una prospettiva in cui la cogenitorialità influenza simultaneamente sia le relazioni coniugali che le pratiche genitoriali. Si evidenzia così una correlazione tra relazioni cogenitoriali e legame coniugale: le coppie soddisfatte da un punto di vista coniugale mostrerebbero più calore, meno conflittualità e più cooperazione, sensibilità reciproca e supporto quando interagiscono di fronte ai figli.

Come spiega McHale (MCcHale, J.P., Kazali, C., Rotman, T., Talbot, J., Carleton, M., Lieberson, R., 2004), l’importanza cruciale di questa alleanza tra genitori è testimoniata dal fatto che, in famiglie in cui esiste un’alleanza forte e supportiva, tanto i genitori quanto i figli appaiono meno stressati, la relazione coniugale poggia su un piano di maggiore stabilità e i figli sperimentano un maggior successo nelle relazioni con i coetanei.

Ciò che invece non è sempre chiaro è che il diventare genitori non coincide, al contrario di quel che si pensa, con l’evento della nascita ma è legato a un lungo processo di rielaborazione sia a livello mentale sia a livello delle proprie relazioni affettive, che determina radicale cambiamento nel mondo del singolo e della coppia. Questa considerazione è tanto più veritiera se si pensa ai padri che non sperimentando in prima persona la gravidanza e, in alcuni casi, per retaggio culturale si trovano maggiormente in difficoltà nell’assunzione del ruolo genitoriale.

La nascita come cambiamento porta alla costituzione di un nuovo equilibrio che favorisce una relazione armoniosa bambino-genitori, ma può anche creare una situazione di disagio psichico che troverà espressione all’interno del sistema familiare in quanto la genitorialità implica anche un sostanziale riassetto delle relazioni interpersonali all’interno della rete di parentela della coppia stessa.

All’interno del panorama di ricerca gli autori hanno esplorato e approfondito il ruolo giocato dalla cogenitorialità nelle relazioni familliari e dai risultati è emerso che l’alleanza cogenitoriale gioca un ruolo importante nel mediare l’associazione tra relazione coniugale e relazione genitoriale (Margolin, Gordis, Jhon, 2001; Morril Hives, Mohamood, Cordova, 2010). Alcune ricerche recenti, (Pedro, Riberio Shelton, 2012; Holland Mc Elwain, 2013) hanno trovato come la cogenitorialità sia in grado di mediare l’associazione tra soddisfazione coniugale e pratiche genitoriali e come la percezione di essa da parte del singolo genitore medi la relazione tra qualità coniugale e il rapporto genitore-figlio.

Da altre ricerche è emerso come il conflitto coniugale influenzi negativamente il rapporto genitore-figlio e porti spesso ad una cogenitorialità ostile, competitiva e meno supportiva e come, invece, la soddisfazione coniugale porti a un aumento della cooperazione e del supporto tra i genitori con i figli (Erel, Birman, 1995; Katz, Gottman, 1996, Kitzmann, 2000). Inoltre questo è emerso anche in ricerche più recenti dove i livelli di adattamento coniugale si rivelano essere predittivi del sostegno cogenitoriale (Bonds, Gondoli, 2007).

 

 

L’importanza del legame cogenitoriale per i figli

Altri ricercatori hanno indagato maggiormente come la cogenitorialità influisse sull’adattamento dei figli nelle varie fasi della vita. Si è visto come la cooperazione genitoriale sia un fattore protettivo per l’adattamento del bambino, come la cooperazione percepita da uno dei due genitori possa essere perditore delle competenze sociali del bambino (Barnett, Scaramella, Mc Goron e Callahan, 2001) e come, invece, il conflitto cogenitoriale possa predire una relazione genitoriale negativa e la comparsa di comportamenti antisociali negli adolescenti (Feinberg, 2007). Vi sono però altri studi che sorprendentemente hanno trovato un’assenza di legame tra cooperazione cogenitoriale e soddisfazione di vita degli adolescenti (Teubert e Pinquart, 2011).

In sostanza il legame cogenitoriale è fondamentale anche per i suoi esiti, in particolare per ciò che concerne l’adattamento dei figli. Come già spiegato la relazione cogenitoriale può avere una potente influenza su molti aspetti della vita familiare e quindi anche sull’adattamento del figlio. È stato dimostrato che il conflitto cogenitoriale predice negatività genitoriale e comportamento antisociale nei figli e in generale a sintomi esternalizzanti o internalizzanti. Vi sono fattori che posso moderare l’influenza del conflitto cogenitoriale. Questi sono le caratteristiche del figlio (sesso, ordine di nascita ecc.) e le caratteristiche della famiglia (genitori divorziati o meno) e il contesto. D’altra parte si è dimostrato che l’influenza positiva della cooperazione cogenitoriale migliora la genitorialità di madri e padri e di conseguenza le percezioni del livello di cooperazione entro la relazione cogenitoriale predicono indipendentemente un aumento di competenze sociali dei bambini.

 

 

Per concludere

La cogenitorialità, soprattutto negli ultimi anni, si è scoperta essere uno snodo centrale per ciò che concerne le relazioni famigliari e può essere definita anche come alleanza genitoriale. L’uso del termine alleanza è infatti significativo: veri alleati sono coloro che non solo convengono pubblicamente su un piano di azione, ma che poi continuano a sostenere quel piano sia quando esercitano la genitorialità con il partner sia quando la esercitano da soli.

Questo legame risulta essere di centrale importanza e fungere da mediatore in molti legami famigliari come il rapporto tra partner, il rapporto genitoriale e di conseguenza per il benessere della prole. Infine la cogenitorialità risulta essere un oggetto di studio relativamente nuovo le cui forme si modificano e si adattano ai cambiamenti della società e alle sue esigenze. Per questo motivo, oltre che la sua importanza per il benessere famigliare e in seconda battuta per il benessere sociale, dobbiamo aspettarci che essa diventi sempre più oggetto di studio e di valutazione.

I selfie del Caravaggio: narrazione degli eventi tragici di una vita

Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con lo stesso impeto e coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Tema della sua pittura fu la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio in cui protagonista assoluto è il gioco di luci ed ombre.

 

Vissuto a cavallo di due secoli (XVI e XVII), Michelangelo Merisi (1571-1610) detto il Caravaggio fu erede della tradizione cinquecentesca e, contemporaneamente, aprì una nuova vita all’arte. La sua evoluzione artistica si racchiude in circa quindici anni di attività, durante i quali si registrano continui e sostanziali mutamenti stilistici.

Caravaggio affrontò l’impegno nella pittura con lo stesso impeto e coinvolgimento con cui fronteggiò la vita stessa. Tema della sua pittura fu la realtà drammatica in cui vive l’uomo, espressa con un linguaggio in cui protagonista assoluto è il gioco di luci ed ombre.

 

Caravaggio: la vita

Quella di Michelangelo Merisi fu una vita difficile, burrascosa, segnata da sregolatezza e da eventi tragici.

Il Merisi aveva un temperamento violento ed era terrorizzato dalla morte, tema costante nelle sue opere, in cui si riflettono in modo ossessivo due eventi traumatici della sua vita: la morte del padre, avvenuta quando Michelangelo aveva appena sei anni e l’omicidio che commise all’età di trentacinque anni. Caravaggio, infatti, non si fece mancare nulla: duelli, risse, aggressioni, brutali liti e anche, appunto, un omicidio. Tutta la sua vita fu una sceneggiatura drammatica: il Merisi era solito girare per Roma armato (era vietato, all’epoca solo i nobili potevano portare la spada) e si metteva regolarmente nei guai, finiva in galera e poi usciva, grazie all’aiuto e all’intervento di amicizie importanti.

Dalle carte dei tribunali e dalle fonti biografiche storiche (Mancini, Baglione, Bellori) emerge che Caravaggio fu un personaggio molto particolare, irascibile e litigioso. Scrive Giulio Mancini in Considerazioni sulla pittura – di Michelangelo Merisi da Caravaggio (1620):

Onde non si può negar che non fusse stravagantissimo, e con queste sue stravaganze non si sia tolto qualche decina d’anni di vita.  

Il Baglione (1642) lo descrive come:

un poco discolo, e tal’ hora cercava occasione di fiaccarsi il collo, o di mettere a sbaraglio l’altrui vita. Pratticavano spesso in sua compagnia huomini anch’essi per natura brigosi.

Infine, grazie al Bellori (1672) abbiamo anche una descrizione fisica:

Egli era di color fosco, ed aveva foschi gli occhi, nere le ciglia ed i capelli; e tale riuscì naturalmente nel suo dipingere….come nei costumi ancora era torbido e contenzioso. Non lasceremo di annotare i modi stessi nel portamento, e vestir suo, usando egli drappi e velluti nobili per adornarsi; ma quando poi si era messo un abito, mai lo tralasciava, finché non gli cadeva in cenci. Era negligentissimo nel pulirsi.

Numerosi sono gli autoritratti – veri o presunti – che ci ha lasciato il Caravaggio: da “Bacchino malato” (1593), a “Fanciullo morso da un ramarro” (1595-6), da “Fruttarolo” (1593) a “Bacco” (1595-6), da “Davide con la testa di Golia” (1609-10), a “Decollazione del Battista” (1608), da “Risurrezione di Lazzaro” (1608-9) a “Martirio di sant’Orsola” (1610).

 

Lettura psicologica del Caravaggio

Il Merisi incluse costantemente i propri autoritratti nelle sue opere, dalle prime (in cui traspare serenità e floridezza), fino alle ultime, in cui traspare il deperimento dovuto alla malattia. L’autoritratto è chiaramente una rappresentazione narcisistica di se stessi; in Caravaggio, però, non è solo questo, non è soltanto la rappresentazione della propria immagine nei vari periodi della vita, ma è anche e soprattutto la narrazione della condizione in cui si sente incatenato a causa degli eventi, spesso tragici e violenti, che segnano la sua vita.

A mio avviso si prestano particolarmente bene ad una lettura psicologica il “Fanciullo morso da un ramarro” e “Davide con la testa di Golia”, perché, attraverso questi dipinti, si ripercorre la vita e l’opera del Merisi che, da una condizione di  psicosi latente giunge, alla fine, ad una condizione di liberazione.

 

I selfie del Caravaggio narrazione degli eventi tragici di una vita Ramarro
Fanciullo morso da un ramarro

 

Di “Fanciullo morso da un ramarro” esistono due esemplari simili, l’uno conservato alla Fondazione Longhi a Firenze, l’altro alla National Gallery a Londra. L’opera risale ai primi anni romani ed è menzionata da Giulio Mancini, storico del Seicento:

In questo tempo fece per esso (monsignor Pandolfo Pucci) alcune copie di devozione e, per vendere, un putto che piange per essere stato morso da un racano che tiene in mano.

Come altre opere giovanili eseguite allo specchio, anche quest’opera potrebbe essere l’autoritratto del Merisi nelle vesti del giovane ferito. Il soggetto allude chiaramente ad un significato allegorico, sotteso a quello più immediato; potrebbe trattarsi, infatti, di un’allegoria del temperamento collerico, oppure essere una sorta di ammonimento sull’incertezza della vita, sulla giovinezza effimera e sulla morte che può giungere improvvisa.

Osservando il dipinto, se consideriamo il gelsomino bianco come un’allusione al desiderio, le amarene e le ciliegie allusive alla voluttà e al piacere amoroso e, infine, la rosa come un riferimento all’amore, il messaggio che trasmette il Caravaggio è, a mio avviso, che in ogni grande piacere si nasconde anche un grande dolore.

Attraverso la narrazione del dolore, l’opera d’arte diventa reazione al male, al destino avverso e alla difficoltà di capirne le ragioni, le cause, gli effetti. Se accettiamo l’ipotesi che si tratti di un autoritratto, dobbiamo dunque considerare l’opera come una rappresentazione non solo dei tratti somatici dell’artista, ma anche della sua personalità, delle sue emozioni, dei suoi sogni, o, addirittura, un vero e proprio tentativo di autoterapia. “Fanciullo morso da un ramarro” è anche un bellissimo fermo immagine: in questo senso si può affermare che Michelangelo Merisi sia stato l’inventore della fotografia molto prima dell’invenzione della macchina fotografica e che, se fosse vissuto nel XXI secolo, si sarebbe fatto molti selfie e, probabilmente, li avrebbe postati su facebook.

 

I selfie del Caravaggio narrazione degli eventi tragici di una vita DAVIDE GOLIA
Davide con la testa di Golia

 

Se “Fanciullo morso da un ramarro” è un’opera giovanile di Caravaggio, “Davide con la testa di Golia” è un’opera tarda, posteriore alla sua fuga da Roma. Ricordiamo che il Merisi fu costretto a fuggire da Roma nel 1606, dopo aver ucciso, in seguito ad un diverbio per una partita di pallacorda, tal Ferruccio Tommasoni.  “Davide con la testa di Golia” è tra le opere estreme del Caravaggio: in essa è riconoscibile il tragico autoritratto dell’artista nelle sembianze di Golia decapitato, verso cui Davide vincitore si volge con espressione di commossa pietà. Anche Davide potrebbe essere un autoritratto: un Caravaggio giovane, senza storia, che sorregge la testa del Caravaggio maturo, che ha condotto una vita dissoluta e distruttiva, divorata da fughe e sensi di colpa: è la messa in scena di quella che Freud chiama metafora delirante, che si applica nel tentativo di risolvere un dramma già avvenuto. Il pittore si specchia nel ritratto e, uccidendo il sé colpevole, si libera dal persecutore. Ancora una volta, una sorta di autoterapia artistica ed un ennesimo selfie, anzi doppio selfie a colpi di pennello.

Dal convegno sui Mental Modes a Londra, 28 e 29 luglio 2016 – Report del Prof. Bruno Bara

Il 28 e 29 luglio 2016 sono stato a Londra per il tradizionale convegno sui Mental Models, che quest’anno ha avuto una storia particolare. 

 

Il teorico dei modelli mentali, nonché maestro di molti dei presenti, Philip Johnson-Laird, compie 80 anni, e da tutto il mondo allievi e collaboratori convergono su uno dei luoghi sacri del cognitivismo, University College London (UCL), per festeggiarlo.

Purtroppo qualche mese fa è morto uno dei suoi collaboratori, e Johnson-Laird decide di trasformare la festa in un memorial, spiazzando tutti e inserendo nella sua festa di compleanno un tono commemorativo piuttosto incongruo.

Sindrome del maestro sopravvissuto all’allievo? Ben nota difficolta anglosassone a gestire le emozioni positive, privilegiando quelle negative?

Il primo giorno arrivo a UCL contemporaneamente a Jane Oakhill, nota studiosa di processi di acquisizione del linguaggio. Il top della mattina è proprio la relazione di Jane sulla comprensione di lettura nei bambini, una spiegazione bottom up di come i bambini con buone capacita di lettura siano favoriti nella acquisizione non solo di nuove parole, ma anche nella comprensione in profondità delle parole stesse, che va oltre il loro riconoscimento lessicale.

La spiegazione alternativa dello stesso fenomeno, cerco di spiegarle, sarebbe in un approccio alla Jerome Bruner basato sulla competenza dei bambini a creare storie a partire da frammenti lessicali. I bambini capaci di creare storie padroneggiano le parole in un contesto sociale, un bel vantaggio rispetto ai socialmente meno inseriti. Jane ribatte che diventerebbe una ricerca di psicologia sociale, e nessuno paga le ricerche di psicologia sociale, impeccabile pragmatismo economicista.

Il meglio del pomeriggio lo offrono Amelia Gangemi e Francesco Mancini con un lavoro sulle interazioni fra emozioni e ragionamento su pazienti ansiosi e ossessivi. Ricerche pulite, interessanti, con un senso che va oltre le microspecializzazioni che presentano molti degli altri relatori. La tesi è che la ricerca di controfattuali tipica degli ossessivi correla con l’emozione di colpa, mentre la ricerca di conferme tipica dei fobici correla con l’emozione di ansia. Entrambi sanno ragionare perfettamente, ma privilegiano stili diversi. Secondo me sia pensiero sia ragionamento sono influenzati da un terzo fattore causale, il tipo di relazione che le persone instaurano cogli altri, ma Francesco obietta che si tratta di una variabile troppo generica per essere controllata. Oppure bisogna capire come fare, e continuiamo a discutere.

Il contributo più divertente è quello finale della giovane Cinzia Chiandetti sulla risata. Con non poca naivete presenta una teoria a sfidare Platone e discendenti sui meccanismi del ridere, mostra filmati divertenti che fanno ridere, purtroppo la sua spiegazione anche; si ritrova parecchio contestata, ma ha il merito di aver tirato su la atmosfera.

La cena si fa al ristorante italiano Olivelli, una tragica avventura sotto ogni punto di vista, culinario, ambientale e sociale, dato che tutti oscillano fra essere tristi, anche per la presenza della vedova e delle bellissime bimbe di Vittorio Girotto, o allegri per la vitalità intelligente di Johnson-Laird, per la ennesima volta un esempio per tutti i suoi allievi, fortunati ad averlo incontrato sulla propria strada.

Nella seconda giornata arriva il momento atteso in cui Philip Johnson-Laird, dopo essersi fatto fotografare a turno con tutti noi, fa la sua relazione, presentandoci la nuovissima teoria unificata sui mental models. Non è chiarissimo, e non si chiarifica neppure con la presentazione del programma computazionale da parte di Sunny Khemlani, quali siano i vantaggi rispetto alla teoria precedente, ma l’ammirazione e l’affetto per Phil superano le possibili critiche. Sono l’autore di due dei modelli di simulazione precedenti, vengo citato ma in un altro contesto qualche obiezione a Sunny la avrei fatta, mi sento come un primatista cui dicono che il suo record e stato superato in circostanze non controllate.

Monica Bucciarelli riporta una bella serie di ricerche sulla capacità ricorsiva nei bambini. Il tema è caldissimo, Chomsky e molti altri considerano la ricorsione il vero tratto distintivo degli ominidi dagli altri primati, ma nessuno è mai riuscito a indagarla sperimentalmente in modo convincente. Il quesito metodologico insolubile consiste nella finora apparente impossibilità di separare la ricorsione dal linguaggio. Il lavoro di Monica rimane ancora esplorativo, ma apre orizzonti importanti.

Si continua bene con Cristina Quelhas che attacca il modello logico-analitico di Quine sul piano empirico; i filosofi si risentono, Johnson-Laird contrattacca, io non riesco a seguire la argomentazioni ma ci stiamo divertendo.

Markus Knauff da Giessen, grande, grosso, europeista e ricco di buon senso, presenta dati controintuitivi su come la Transcranial Magnetic Stimulation (TMS) dimostri che nella eterna querelle fra mental models e immagini mentali queste ultime siano inadeguate a spiegare il ragionamento spaziale, ma qui e fra amici non deve faticare a convincerci che abbiamo ragione noi.

Chiude Philipp Koralus, elegante Austriaco ora a Oxford, allargando lo sguardo a temi sociali. Ha in corso una affascinante ricerca applicata internazionale sul tema della pesca sostenibile senza depauperare definitivamente tutti i mari, ci mostra come i pescatori ragionino diversamente a seconda che in ballo ci sia il profitto della compagnia o la sopravvivenza delle loro famiglie. Come intuite, in questo secondo caso le regole vengono violate con facilita.

Baci, abbracci e promesse di rivedersi presto.

 

Per il programma completo del convegno clicca qui

I meccanismi neurali della time-based prospective memory

La memoria prospettica è, infatti, caratterizzata dall’abilità di ricordare intenzioni che precedentemente erano state progettate per un preciso momento futuro. J.A. Ellis nel 1996 indica cinque fasi di cui essa si compone, ovvero: la formazione dell’intenzione, l’intervallo di ritenzione, l’intervallo di prestazione, l’esecuzione dell’azione intenzionale e la valutazione del risultato.

 

La memoria prospettica: introduzione

Ogni individuo vive la propria vita orientata secondo la linea del tempo caratterizzata da passato, presente e futuro. La nostra mente è in grado di organizzare gli eventi del passato in modo ordinato, vivere il presente e progettare continuamente il futuro. Questo lavoro prova ad analizzare alcuni di questi aspetti servendosi delle più recenti ricerche riguardo la memoria prospettica.

La memoria prospettica è, infatti, caratterizzata dall’abilità di ricordare intenzioni che precedentemente erano state progettate per un preciso momento futuro. J.A. Ellis nel 1996 indica cinque fasi di cui essa si compone, ovvero: la formazione dell’intenzione, l’intervallo di ritenzione, l’intervallo di prestazione, l’esecuzione dell’azione intenzionale e la valutazione del risultato. La memoria prospettica si differenzia in “Event-Based Prospective Memory”, “Activity-Based Prospective Memory” e “Time-Based Prospective Memory”, sulla quale verterà l’attenzione principale del presente articolo, e la quale complessità è dovuta anche agli innumerevoli aspetti che concorrono durante il processo cerebrale. I principali fattori che influenzano la prestazione di Time-Based Prospective Memory, sono le funzioni esecutive, l’attenzione, il carico cognitivo richiesto, la complessità o l’importanza del compito; esistono inoltre alcuni modelli teorici che hanno portato al più moderno concetto di memoria prospettica.

Ecco un esempio di Time-Based Prospective Memory: “Fingiamo che siano adesso le 9:30 del mattino, siamo appena usciti di casa e mettiamo in programma che alle 15:30 dovremo fare una telefonata importante. In seguito, mentre siamo sul divano a guardare la TV ci ricordiamo che potrebbero essere intorno alle 15:30, quindi controlliamo effettivamente l’orario, spegniamo la TV e facciamo il numero di telefono. Proviamo ad osservare per bene cosa è successo; all’inizio abbiamo programmato un’azione che avremmo dovuto fare in futuro, poi siamo riusciti a ricordarci in tempo del nostro impegno ed una volta completato il richiamo dalla memoria, abbiamo interrotto l’azione in corso, per portare a termine quella intenzionale. Bisogna aggiungere che la forte importanza della telefonata ha fatto in modo che ci ricordassimo senza spendere troppe risorse cognitive nel monitoraggio del tempo.”

I meccanismi neurali alla base della memoria prospettica

Complessivamente in questo contributo si ha l’obiettivo di descrivere in maniera sintetica quali processi e quali aree cerebrali sono implicate nel processo di Time-Based prospective memory. Nel dettaglio quindi durante la fase di pianificazione dell’intenzione è importante il ruolo della corteccia prefrontale anteriore (Momennejad et al.,2012) ed in particolare della BA10 (Area di Brodmann 10) dell’emisfero di destra. Durante l’intervallo di prestazione invece potrebbe essere fondamentale l’ippocampo per la stima del tempo (Perbal et al.,2000) ed in particolare le “time cells” per la codifica di intervalli di tempo diversi (Eichenbaum et al.,2011).

E’ plausibile ipotizzare che in maniera sincronica potrebbero attivarsi i nuclei del putamen, del caudato e dello striato ventrale che in alcuni esperimenti hanno mostrato le stesse attività delle cellule del tempo nell’intervallo tra i due stimoli di condizionamento classico (Adler et al.,2013).

Insieme a questi processi endogeni di monitoraggio, vi è per la stima del tempo anche la BA10 (Volle et al., 2011) e alcuni studi dimostrano che può essere coinvolto anche il cervelletto (Gonneaud et al.,2014). La corteccia prefrontale anteriore oltre che nel monitoraggio sarebbe implicata nel tradurre in azione l’intenzione nel tempo appropriato, per poi spostare l’attività verso l’area motoria pre-supplementare che si attiva insieme alla zona prefrontale dorsolaterale di destra circa 5 secondi prima dell’esecuzione cosciente (Oksanen et al.,2014).

Per il recupero dell’intenzione è implicato, oltre che la BA10 (Volle et al.,2011), anche l’ippocampo secondo uno studio del 2007 (Martin et al.,2007). Seppure la ricerca abbia riguardato compiti di “Event-Based” è plausibile affermare che, vista la forte implicazione di quest’area nel recupero di informazioni temporali in ordine cronologico (Eichenbaum,2013), è probabile che si attivi insieme alla corteccia prefrontale anche nei compiti di “Time-Based”.

Uno studio conferma inoltre che l’attività prefrontale non diminuisce in concomitanza di altri compiti subentranti durante l’intervallo di prestazione (Cona et al.,2012). Per cominciare l’azione cosciente, si attiva la BA10 di sinistra mentre diminuisce l’attività nella parte mediale dell’area (Burges et al., 2000 e 2003); ai fini dell’esecuzione si attiva anche la BA 47 (Volle et al.,2011), il giro cingolato anteriore (Okuda et al.,2007) e nell’insieme del processo è stato dimostrato anche il ruolo del talamo (Cheng et al.,2010), che probabilmente svolge un ruolo importante nei diversi processi cognitivi della memoria prospettica. Bisogna poi ricordare che in compiti di “Event-Based” l’aumento di attività del lobo parietale e la conseguente diminuzione nella BA10 è associato a compiti di abituazione e più automatici. In futuro sarà interessante indagare anche le attività cerebrali dovute ad effetto priming di stimoli simili a quelli percepiti durante la fase di pianificazione. Einstein e McDaniel (2007) sostengono la possibilità di un meccanismo cognitivo interno e continuo in grado di segnalare il momento giusto per il recupero dell’intenzione, che si può ipotizzare sia associata ad una comunicazione tra le cellule del tempo e la corteccia prefrontale, non ancora dimostrata.

La memoria prospettica: conclusioni

Un’ importante implicazione di questo particolare tipo di memoria prospettica sta nell’ipotesi di un meccanismo cognitivo interno che funziona durante la giornata mentre noi non ce ne accorgiamo. Inoltre bisogna anche prendere in considerazione come il nostro cervello interpreta il tempo in maniera automatica ed implicita con l’azione di certe zone cerebrali e di come ci avverte di questa elaborazione. La memoria prospettica temporale infatti funziona e si attiva per via di un processo interno e mentale, a meno che non vi sia un orologio che ci ricordi che il tempo è passato.

I disturbi del sonno e le correlazioni col genere

Uomini e donne non vedono, sentono o si comportano ugualmente, pertanto perché dovremmo pensare che dormano allo stesso modo? O perlomeno è quanto propone un recente studio pubblicato su Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS), condotto da Diane B. Boivin (Dipartimento di Psichiatria, McGill University) e dal Douglas Mental Health University Institute.

 

Manipolando i dati relativi al ciclo mestruale e all’uso di contraccettivi ormonali, la Boivin ha mostrato come l’orologio biologico influisca sul ritmo sonno-veglia in modo diverso negli uomini e nelle donne, spiegando perché le donne siano più inclini a manifestare disturbi del sonno.

[blockquote style=”1″]Osservando un simile ciclo di sonno in entrambi i sessi, abbiamo notato come l’orologio biologico femminile induca la donna ad addormentarsi e svegliarsi prima di un uomo. La ragione è semplice: il suo orologio biologico è spostato ad un fuso orario più a est[/blockquote] ha affermato il direttore del Centro per lo Studio e il Trattamento dei Ritmi Circadiani (ritmi caratterizzati da un periodo di circa 24 ore, ad esempio: ritmo sonno-veglia, ritmo della variazione della temperatura corporea) al Douglas Institute. E ha aggiunto: [blockquote style=”1″]Questa differenza osservata è essenziale per capire il motivo per cui le donne sono più suscettibili ai disturbi del sonno.[/blockquote]

Lo studio

Il team di ricercatori ha confrontato le variazioni biologiche di sonno e veglia di 26 soggetti (15 uomini e 11 donne). Tutte le partecipanti di sesso femminile possedevano un ciclo mestruale naturale: 8 di loro sono state analizzate nelle due fasi del ciclo mestruale (follicolare e luteale), le altre 3, invece, solo nella fase follicolare. Questo è un punto cruciale perché precedenti ricerche di Bolvin hanno dimostrato che le diverse fasi mestruali influenzano i ritmi biologici della temperatura corporea e del sonno.

I partecipanti sono stati sottoposti ad una procedura di registrazione di cicli ultradiani sonno-veglia (cicli della durata più breve di un giorno, ma superiore a un’ora) contraddistinta da 36 cicli formati da momenti di veglia alternati a opportunità di addormentamento. Durante la procedura sono stati rilevati i parametri relativi a temperatura corporea, melatonina salivare, vigilanza e qualità del sonno registrata attraverso polisonnografia.

I risultati

Tutte le misure ottenute hanno mostrato una significativa variazione diurna-circadiana durante tutta la procedura. Rispetto agli uomini, le donne hanno mostrato un significativo anticipo nei ritmi della temperatura corporea e nella variazione diurna-circadiana delle misure di sonno e vigilanza, ma non nei ritmi della melatonina. Inoltre, le donne hanno sperimentano una maggiore ampiezza della variazione diurna-circadiana della vigilanza. Nel complesso i risultati indicano che le donne iniziano il sonno in una fase circadiana più tardiva rispetto agli uomini, giustificando così la loro maggiore suscettibilità ai disturbi del sonno.

[blockquote style=”1″]I nostri partecipanti non hanno manifestato alcun disturbo del sonno durante lo studio. Ma ad ogni modo, questi risultati ci hanno aiutato a capire, tra le altre cose, perché le donne hanno più probabilità, rispetto agli uomini, di svegliarsi prima la mattina e sentirsi stanche anche dopo un’intera notte di sonno. E’ perchè sono meno vigili durante la notte[/blockquote] ha spiegato Bolvin.

I risultati di questo studio, pertanto, suggeriscono che le donne potrebbero essere biologicamente meno predisposte per il lavoro notturno. Ulteriori ricerche saranno necessarie per esplorare questa questione e sviluppare interventi differenziati per generi: i disturbi del sonno spesso determinano una serie di problemi funzionali.

Placare il cuore e la mente: un nuovo trattamento CBT per l’attacco di panico associato a patologia cardiaca

Solo recentemente (2016) è stato sviluppato lo specifico metodo PATCHD, basato sull’esperienza pregressa della CBT, coniugata però con le specifiche richieste cliniche e di assessment del paziente cardiopatico, tenendo conto dell’apporto di cardiologi, infermieri e fisiologi.

La comorbidità tra attacco di panico e patologia cardiaca

L’espressione “attacco di panico” fa riferimento al disturbo d’ansia somatico per antonomasia. Esso è infatti un breve stato di intensa paura e terrore con sintomi cognitivi e somatici durante il quale il soggetto generalmente teme di impazzire, morire o perdere il controllo.
La natura imprevedibile del disturbo e il circolo della paura ad esso associato compromettono lo svolgimento della vita quotidiana a lungo termine, soprattutto in assenza di trattamento.

Esso è spesso presente in netta comorbidità con un’altra patologia decisamente critica, quella cardiaca, spesso dovuta all’ostruzione delle coronarie. A tal proposito infatti la letteratura ha da anni sottolineato come la depressione e lo stress siano possibili fattori di rischio cardiaco, concentrandosi anche sulla stretta relazione tra ansia e malattia cardiaca. In particolare le situazioni ansiogene di varia natura diagnostica, comprendenti quindi anche l’attacco di panico, aumentando l’attivazione dell’asse ipotalamo-ipofisi-surrene, accrescono il livello di catecolamine circolanti. Questa eccitazione superiore a un quadro abituale può avere un’influenza nel rischio di ipertensione e, nel lungo termine, di possibile sviluppo di malattia al muscolo portante del sistema circolatorio.

Studi longitudinali hanno in realtà dimostrato una relazione bidirezionale tra la dimensione dell’ansia e quella dell’ipertensione: la presenza di uno dei due fattori può implicare una maggiore possibilità della presenza dell’altro. (Player & Peterson, 2011)
Tale comorbidità non è da sottovalutare, in quanto è stato dimostrato (Tully, 2015) che l’esordio dell’attacco di panico associato ad insufficienza cardiaca si correla anche ad un alto tasso di ricovero ospedaliero.

L’insufficienza cardiaca presenta tra i sintomi anche molti elementi comuni alla sintomatologia della somatizzazione del panico, tra cui le palpitazioni, la dispnea o l’ortopnea (dispnea in posizione supina) e perciò la compresenza delle due diagnosi non stupisce.
Questa sovrapposizione tra i due disturbi crea tanta difficoltà sia nella corretta diagnosi differenziale specifica sia nella terapia.

La terapia cognitivo comportamentale dell’attacco di panico associato a patologie cardiache

Nonostante la terapia cognitivo comportamentale sia quella d’elezione in presenza di psicopatologie di questo genere, precedentemente nessuno studio ha dimostrato la sua possibile applicazione in presenza di comorbidità tra attacchi di panico e insufficienza cardiaca, dove è presente il rischio di un evento concreto, quale l’attacco cardiaco.
Solo recentemente (2016) in questa direzione è stato sviluppato lo specifico metodo PATCHD, basato sull’esperienza pregressa della CBT, coniugata però con le specifiche richieste cliniche e di assessment del paziente cardiopatico, tenendo conto dell’apporto di cardiologi, infermieri e fisiologi.

Il modello si compone di sei elementi: la formulazione del caso, la psicoeducazione relativa alle due malattie da cui è affetto il paziente, la riduzione dello stress grazie alla mindfulness, il miglioramento di abilità di coping e di attività per il dolore al petto, l’esposizione ad attività che contrastino con il comportamento di evitamento, oltre a interventi di natura cognitiva per identificare il pensiero poco adattivo che mantiene il panico e la tendenza all’evitamento.

La terapia si propone come breve, per una durata di circa otto incontri, in quanto il paziente cardiopatico ha difficoltà a considerare se stesso in un’ottica psicopatologica e abbandona più facilmente la terapia.

La formulazione del caso generalmente segue a una normale pratica adottata coi pazienti con patologia cardiaca, in quanto generalmente si effettua uno screening per la sensazione di panico, enfatizzato nel caso di un sospetto di psicopatologia. L’innovazione fornita dalla terapia consiste però in una formulazione a più voci, in quanto il terapista è accompagnato in questo compito dal personale sanitario che può fornire utili informazioni.

La psicoeducazione in questi contesti permette in seguito di far identificare al paziente l’ansia come una normale risposta a una malattia ormai comune come quella cardiovascolare e di analizzare i sintomi e i meccanismi responsabili o perpetuanti della situazione di panico. Essendo complicato discernere e far discriminare il paziente stesso in merito alla sintomatologia della patologia, è più utile scoprire ciò che può minacciarlo e indurre perciò il sintomo. Ciò permette anche di creare una ristrutturazione cognitiva che elimini le credenze patogene, conseguenze tipiche di ogni manifestazione cardiaca negativa.

Il contributo della mindfulness è invece legato alla consapevolezza del sintomo e di una modalità di rilassamento respiratoria per fronteggiarlo, apripista per l’apprendimento di modalità per la gestione del dolore. Queste nuove tecniche sono sviluppate in comunione con la classica metodologia CBT di esposizione per diminuire l’attitudine all’evitamento, fino a simulare addirittura la situazione di un attacco di cuore o a concentrarsi sull’attività fisica.
Al momento l’efficacia è stata testata solo su un numero minimo di pazienti, ma la sua innovazione potrebbe essere un valido alleato per migliorare la quotidianità di pazienti affetti da patologie tanto critiche quanto deleterie per la vita individuale.

 

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