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Come funziona la proteina prionica: due studi coordinati dalla SISSA descrivono la funzione di PrPC

Sono due i nuovi studi coordinati dalla SISSA che svelano dettagli importanti sulla funzione fisiologica della proteina prionica, la forma non patologica del famigerato prione, la proteina degenerata che provoca, fra le altre cose, la “malattia della mucca pazza”.

SISSA, Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati

 

Gli studi

Secondo le nuove osservazioni la proteina nella sua forma fisiologica svolge un’importante funzione di promozione della crescita dei neuriti, le proiezioni dei neuroni lungo le quali viaggia il segnale nervoso. I due studi si completano idealmente fornendo, uno, pubblicato sul Journal of Cell Science, una visione di insieme e l’altro, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, un focus su un particolare stadio del processo, con una completezza e un dettaglio che finora erano mancati.

È una proteina con due facce diametralmente opposte: tristemente nota nella sua forma “degenerata”, il prione che provoca malattie neurodegenerative gravi e incurabili come la “mucca pazza” nei bovini e la sindrome di Creutzfeldt-Jakob negli esseri umani, nella sua forma fisiologica la proteina prionica (PrPC) svolge invece una funzione vitale per il cervello. La sua azione positiva però fino a oggi non era mai stata definita con chiarezza. Due nuovi studi, entrambi coordinati da Giuseppe Legname, professore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste, offrono finalmente una descrizione dettagliata dei meccanismi biochimici con cui questa proteina stimola e guida la crescita dei neuriti, le proiezioni (assoni e dendriti) della membrana del neuroni così importanti per la trasmissione del segnale nervoso.

Il primo, uno studio ampio e strutturato, è stato appena pubblicato sul Journal of Cell Science. [blockquote style=”1″]In questo lavoro, che abbiamo svolto in collaborazione con l’Optical Manipulation Lab (CNR- IOM, Trieste), abbiamo usato una tecnica innovativa che ci ha permesso di osservare da vicino l’interazione fra PrPC e i neuriti in fase di crescita.[/blockquote] La metodologia, sviluppata da Dan Cojoc, ricercatore SISSA/CNR-IOM, prevedeva l’inserzione delle proteine PrPC all’interno di micro vescicole che venivano poi poste con precisione, con delle pinzette ottiche, in vicinanza dei coni di crescita di neuroni ippocampali. I coni di crescita sono porzioni “attive” della membrana del neurone dove si svolge la crescita del neurite. Una volta posizionate, le vescicole venivano “aperte” mediate brevi lampi di luce UV, così che la proteina venisse rilasciata in prossimità del cono di crescita.

[blockquote style=”1″]Con questa tecnica di precisione abbiamo potuto osservare la reazione del cono di crescita a basse concentrazioni di proteina prionica. Negli esperimenti la presenza di PrPC provocava il rapido accrescimento dei neuriti e il posizionamento del cono di crescita in direzione della massima concentrazione di proteina prionica. In fasi successive dello stesso lavoro abbiamo inoltre osservato che PrPC, quando anziché essere libera e disciolta nel mezzo extracellulare è ancorata alla membrana cellulare, funziona come un recettore che si lega ad altre proteine prioniche libere, che possono partecipare a processi biochimici diversi[/blockquote] spiega Legname.

Quando una molecola interagisce selettivamente con molecole a lei identiche, come in questo caso, si parla di interazione “omofilica”. [blockquote style=”1″]In questo studio abbiamo osservato anche che sono proprio queste interazioni omofiliche a guidare il processo di crescita dei neuriti, attraverso l’intervento di particolari molecole, chiamate molecole di adesione delle cellule neurali (NCAM)[/blockquote] continua Legname.

Focus sul legame

Ed è proprio il secondo studio, pubblicato sul Journal of Biological Chemistry, a gettare luce su quest’ultimo passaggio del processo, aggiudicandosi per il suo valore anche la copertina dell’edizione corrente.

[blockquote style=”1″]Insieme al gruppo di Janez Plavec del Centro Risonanza Nucleare Magnetica di Lubiana abbiamo condotto un’analisi strutturale dell’interazione fra PrPC e NCAM[/blockquote] spiega Legname.

[blockquote style=”1″]Abbiamo visto che NCAM si lega in maniera molto stretta con il terminale N della proteina prionica[/blockquote] spiega Gabriele Giachin, ex studente e ricercatore SISSA, attualmente in forza al European Synchrotron Radiation Facility di Grenoble in Francia, che insieme a Giulia Salzano, dottoranda della SISSA, ha contribuito allo studio. PrPC è infatti costituita da due domini: una parte strettamente impacchettata che per sua natura non interagisce con altre molecole, e una parte non strutturata, libera, il terminale N, che è invece la zona attiva della molecola. [blockquote style=”1″]La nostra osservazione mostra che NCAM promuove la crescita del neurite attraverso il suo legame con PrPC, proprio legandosi alla sua parte non strutturata[/blockquote] continua Giachin.

I due studi si completano, offrendo il primo una visione d’insieme dell’intero processo e il secondo un focus su uno stadio importante, formando insieme un quadro coerente. [blockquote style=”1″]Siamo molto soddisfatti di questo grande lavoro che ha unito competenze e visioni molto diverse, oltre a gruppi di paesi diversi[/blockquote] conclude Legname che spiega anche che questa osservazione non solo amplia la conoscenza sui meccanismi fisiologici di PrPC: [blockquote style=”1″]ora che conosciamo meglio l’azione normale della proteina prionica abbiamo maggiori elementi anche per comprendere cosa succede quando il processo non funziona e si innesca la sua azione patologica[/blockquote] conclude lo scienziato.

LINK UTILI:
Link agli articoli originali: Journal of Cell Science https://goo.gl/OfwZC2, e Journal of Biological Chemistry https://goo.gl/AUqUm5

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La sindrome del cuore felice: effetti paradossali nella ricerca della felicità

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo.

Barbara Valenti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Lo diceva già Seneca [blockquote style=”1″]tutti vogliono vivere felici, ma […] è così difficile raggiungere una vita felice che più la si ricerca con affanno più ci se ne allontana.[/blockquote]

Nulla sembra più naturale che il voler essere felici. La felicità è considerata un ingrediente fondamentale della vita umana, indispensabile per il benessere e la salute, e sono varie le ricerche che dimostrano che le persone felici hanno più amici, più successo lavorativo e vivono una vita più lunga e sana rispetto a coloro che lo sono meno (Fredrickson, 1998; Lyubomirsky, King & Diener, 2005). Non sorprende quindi che la felicità sia un valore altamente condiviso, in particolar modo nelle culture occidentali dove i messaggi che ne promuovono la ricerca provengono un po’ da tutte le fonti: dalla Costituzione Americana (Articolo I: “a tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, e al perseguimento della felicità”) allo spot della Coca Cola.

Siamo quindi spinti a tendere verso il raggiungimento della felicità convinti che sia l’atteggiamento più giusto e che il solo fatto di inseguirla ci porterà a star bene.

 

Gli effetti controproducenti e gli errori alla base della ricerca della felicità

E se invece non fosse così, se la ricerca della felicità avesse effetti controproducenti?

Questo è quello che si sono chiesti Gruber, Mauss e Tamir in uno studio pubblicato nel 2011, arrivando a concludere che l’essere felici non sempre si rivela la cosa migliore, anzi, ci sono alcune condizioni in cui l’essere felici risulta dannoso, ovvero:
1) L’essere troppo felici. Oltre una certa soglia di felicità si assiste a un calo nella creatività (Davis, 2009) e alla messa in atto di comportamenti rigidi (Fredrickson & Losada, 2005) o rischiosi, come l’abbuffarsi, il bere o il far uso di sostanze (Cyders & Smith,2008; Martin et al., 2002). La relazione tra felicità e conseguenze positive dunque non è lineare.
2) Il mostrarsi felici nel momento sbagliato. Quando tutto va bene, provare emozioni positive ci aiuta a incrementare le risorse e i legami sociali, al contrario in presenza di problemi sperimentare emozioni negative può offrire importanti benefici. Pensiamo all’espressione della rabbia, che in caso di negoziazione si rivela particolarmente utile perché induce l’altro a concessioni più generose di quanto non farebbe se ci limitassimo ad esprimere emozioni positive (Van Kleef, De Dreu, Pietroni & Manstead, 2006).
3) L’essere felici in modo ingiustificato o non conforme alle aspettative culturali. È il caso dell’orgoglio arrogante (la felicità per il raggiungimento di benefici non meritati), che pur essendo un sentimento positivo per chi lo sperimenta si associa a comportamenti aggressivi o antisociali (Baumeister, Smart & Boden, 1996; Tracy, Cheng, Robins & Trzesniewski, 2009). Anche il provare un grado di felicità incongruo con le aspettative culturali non aiuta, e questo è vero sia per coloro che valorizzano il raggiungimento di stati positivi ad alta attivazione (eccitamento) come europei e americani, sia per chi preferisce quelli a bassa attivazione (contentezza) come i cinesi, poiché in entrambi i casi la discrepanza tra lo stato ideale e quello effettivo correla con la depressione (Tsai, Knutson & Fung, 2006).

Non solo la felicità non fa sempre bene, ma nel ricercarla tendiamo a commettere diversi tipi di errori (Schooler e colleghi, 2003):
1) Non sempre siamo in grado di stabilire con esattezza il nostro grado di felicità, essendo questo influenzato da fattori situazionali come la condizione meteorologica (Schwarz & Clore, 1983) o i risultati di una partita di calcio (Schwarz et al., 1987).
2) Nel monitorare quanto siamo felici ne indeboliamo il grado. Le persone più felici sono infatti quelle meno introspettive (Lyubomirsky & Lepper, 1999; Veenhoven, 1988) mentre quelle più infelici riportano maggiore autoriflessività, attenzione focalizzata su di sé e pensiero ruminativo (Ingram, 1990; Musson & Alloy, 1988). Le persone meno felici tendono quindi a riflettere maggiormente sulle proprie reazioni, riducendo in questo modo il grado di piacere dell’esperienza stessa che viene confrontata con uno stato ideale irraggiungibile.
3) Tendiamo a valutare in modo inaccurato cosa può farci felici, e a non cogliere i momenti che ci rendono tali. Ad esempio, alcuni pensano che arricchirsi sia un modo per essere più felici, ma questo è vero solo in parte, poiché un miglioramento della condizione economica produce un incremento di felicità che è solo temporaneo e che con il tempo tende a svanire (Brickman & Cambell, 1971). In aggiunta, ci facciamo sfuggire momenti di felicità perché consideriamo le attività in cui siamo impegnati come un mezzo e non come un fine: nel spostare l’attenzione verso l’obiettivo ultimo – essere felici – non ci godiamo il momento presente – un concerto, una cena, un film, etc.

La ricerca della felicità sarebbe particolarmente controproducente per coloro che vi attribuiscono un valore elevato, questo perché più una persona stabilisce alti standard più si espone al rischio di non riuscire a raggiungerli, incrementando così la probabilità di sperimentare sentimenti di delusione che paradossalmente portano ad allontanarsi ancor di più dall’obiettivo. Uno studio di Mauss e colleghi (2011) dimostra che i soggetti spinti a valorizzare la felicità e poi a sperimentarla riportavano un livello di felicità inferiore rispetto a coloro che non erano stati precedentemente indotti a farlo. In aggiunta, la spasmodica ricerca della felicità sembra portare ad un maggior grado di solitudine, soprattutto nelle culture dove l’essere felici viene valutato in termini di raggiungimento personale e gli individui si focalizzano più su se stessi che sugli altri, rischiando di danneggiare le relazioni sociali (Mauss et al, 2012).

 

La ricerca della felicità e i disturbi dell’umore

Ulteriori ricerche si sono spinte oltre. Ford e colleghi (2013) sono giunti alla conclusione che la tendenza a dare estremo valore al raggiungimento della felicità si associ a depressione, questo sulla base di due studi: il primo, condotto su un campione di 98 soggetti con sintomi depressivi in remissione, mette in evidenza come all’aumentare dell’importanza data al raggiungimento della felicità aumenti anche la gravità dei sintomi depressivi; il secondo, che confronta 31 pazienti con sintomi depressivi in remissione e 30 soggetti sani, dimostra nei soggetti depressi la tendenza a dare maggiore importanza all’essere felici.

Il dare un estremo valore alla felicità sembra un fattore di rischio anche per il disturbo bipolare. Ford e colleghi (2015) sostengono questa tesi sulla base di tre ricerche da loro svolte: secondo la prima, condotta su un campione di 510 studenti universitari, all’aumentare dell’importanza data alla felicità aumentano i sintomi depressivi ed il rischio di sviluppare un disturbo bipolare; la seconda, che allarga l’indagine a un campione di 241 soggetti differenti per età, scolarità, etnia, status socio-economico e condizione lavorativa e relazionale, replica gli stessi risultati della prima; infine la terza, che ha messo a confronto 32 soggetti con Disturbo Bipolare (DB) di tipo I in remissione e 31 soggetti sani, conferma la tendenza dare maggior enfasi alla ricerca della felicità tra i soggetti con DB. Secondo le conclusioni degli autori l’eccessiva valorizzazione della felicità rappresenterebbe un fattore di rischio per tutti i disturbi dell’umore.

La felicità, oltre che per i disturbi mentali, sembra un fattore di rischio anche per la salute fisica. È infatti da poco stata identificata la cosiddetta sindrome del cuore felice, caratterizzata da sintomi cardiocircolatori transitori (come dolore toracico, dispnea, etc. ) conseguenti al verificarsi di un qualche evento felice o socialmente desiderabile, come lo sposarsi, il diventare genitori o nonni, il vincere molti soldi, etc. (Ghadri et al., 2016). Questa patologia rappresenterebbe un ampliamento della sindrome di takotsubo, o sindrome del cuore infranto, che si verifica in conseguenza di eventi altamente stressanti come lutti, divorzi, etc (Akashi et al., 2008).

 

Conclusioni

In conclusione, per essere davvero felici dobbiamo smetterla di affannarci ad esserlo, ricordandoci che la felicità fa bene se moderata e se calibrata al contesto, dobbiamo smetterla di domandarci se lo siamo perché troppa introspezione fa male, dobbiamo fare lo sforzo di orientarci al presente per dar valore alle cose quando accadono, e sopratutto, non dobbiamo mettere la felicità al centro della nostra vita – pena l’infelicità o peggio ancora un disturbo dell’umore.

Le svolte del cognitivismo clinico: la risposta a Dimaggio

La risposta di Dimaggio al nostro articolo del 24 ottobre 2016 sulle svolte del cognitivismo clinico sostiene che le nostre preoccupazioni per la recente svolta esperienziale-corporea della terapia cognitiva siano eccessive, e questo per almeno un paio di ragioni: gli interventi immaginativi ed esperienziali hanno da sempre fatto parte del repertorio cognitivo, a cominciare dalle radici comportamentiste (ricordiamoci dell’esposizione); e inoltre il cognitivismo non si deve chiudere nel suo recinto e non deve lasciare ad altri orientamenti lo sviluppo dell’area esperienziale.

 

La risposta all’obiezione sulle svolte del cognitivismo clinico

Queste obiezioni di Dimaggio si inseriscono in un tipo di argomentazione più generale che sottolinea come l’intera contrapposizione tra interventi top-down e bottom-up sia forzata. Nessun intervento -dice questa argomentazione- è puramente top-down o bottom-up. In ogni intervento top-down l’incremento della fiducia nella possibilità di gestire un sintomo come un comportamento volontariamente modificabile considerandone criticamente i pro e i contro è bilanciato da un momento bottom-up in cui il paziente procede a saggiare sul campo dell’esperienza se davvero il suo controllo dei sintomi è così basso o se davvero la sua capacità di tollerare le emozioni temute sia così fragile. Allo stesso modo, in ogni intervento bottom-up il paziente non si limita a vivere un’esperienza spontaneamente correttiva ma trasforma la possibilità sentita sul campo di poter controllare i propri comportamenti disfunzionali e di poter tollerare le emozioni più temute in decisioni coscienti top-down.

L’obiezione è condivisibile in termini teorici ed empirici. Può però essere meno convincente da un punto di vista storico e pratico. Sebbene top-down e bottom-up si sovrappongano spesso e volentieri, essi comunque delineano due strategie terapeutiche dissimili e almeno spiritualmente contrapposte. Strategie integrabili, certo, ma anche in conflitto tra loro. Nel conflitto non c ‘è nulla di male, beninteso. Ogni conflitto, tuttavia, implica periodi di preminenza dell’una o dell’altra fazione. Ed è innegabile che con l’inizio del nuovo millennio e della cosiddetta “terza ondata” siamo entrati in un’epoca di preminenza della componente esperienziale e immaginativa, in cui spiritualmente si è più propensi a concepire il cambiamento come frutto di un lento operare inconsapevole e in cui il paziente è fin troppo pazientemente accompagnato in un percorso di nuova crescita e ricostruzione di alcuni suoi deficit, di alcune sue mancanze emotive oltre che cognitive. Deficit che andrebbero ben al di là di scelte disfunzionali liberamente modificabili.

 

I rischi derivanti da una psicoterapia di tipo preminentemente bottom-up

Sicuramente c’era bisogno di considerare questo aspetto della psicoterapia, dopo la festa top-down della terapia cognitiva standard. Ci sembra giusto, però, sottolineare alcuni rischi che la psicoterapia corre, sia nel teatro internazionale che in quello italiano, in questa epoca storica di preminenza bottom-up. Come in ogni rapporto dialettico, è giusto che la parte in ritirata nel conflitto continui comunque a far sentire le proprie ragioni.

Il primo rischio è attribuire all’intero fronte top-down quelli che erano i limiti del solo modello standard. Ad esempio, i limiti del modello di Beck non possono essere estesi al modello metacognitivo di Wells. Wells modellizza la funzione esecutiva consapevole in maniera radicalmente diversa rispetto a Beck, più centrata sulla scelta metacognitiva e meno sugli schemi cognitivi. Stesso discorso si può fare per alcuni interventi di stile razionale emotivo alla Ellis o anche di scuola costruttivista italiana, come l’intervento sul secondario dell’ABC. Allargare i limiti del modello di Beck a tutti i modelli del funzionamento dell’attività mentale top-down significa limitare il repertorio degli interventi terapeutici e i confini della ricerca clinica.

Il secondo rischio è indulgere troppo in una retorica iniziatica ed esoterica del cambiamento involontario. Per fortuna i nuovi modelli bottom-up sono molto formalizzati e protocollizzati. Il rischio peggiore è stato evitato, quello di cadere in un paradigma totalmente irrazionalista in cui la relazione terapeutica, concetto fin troppo elastico, si pone al centro di tutto trasformando la terapia in un intervento di generico supporto accuditivo. Vero è che in genere i modelli relazionali sottolineano la differenza tra atteggiamento cooperativo e accuditivo. Tuttavia, questa differenza tende a essere evanescente quando non è definita operativamente.

Un altro possibile rischio è l’applicazione indiscriminata degli interventi esperienziali. In teoria questi interventi sono indicati soprattutto per i pazienti che rispondono male alla terapia e che sono traumatizzati. In pratica la sensazione è che si tenda sempre a vedere tutti i pazienti come difficili e traumatizzati. Per evitare questo rischio ci piacerebbe che ci fosse maggiore attenzione per la diagnosi da parte dei fautori dell’intervento esperienziale. A volte questo intervento è utile, altre volte è eccessivo rispetto alle richieste del paziente. Uno degli errori più dannosi della psicoanalisi è stato quello di pensare che tutti i pazienti siano difficili e bisognosi di trattamenti prolungati e laboriosi. Cerchiamo di non cascarci anche noi.

Il terzo rischio è specifico per l’Italia. La svolta bottom-up non arriva dalle nostre parti dopo un periodo di preminenza top-down in stile terapia cognitiva standard. Arriva invece dopo una lunga preminenza del paradigma costruttivista che ha rallentato in Italia lo sviluppo di una cultura dell’intervento formalizzato e protocollizzato. Nulla da dire sulla qualità teorica e clinica del paradigma costruttivista, però da Mahoney e Guidano in poi è stato quello meno attento allo sviluppo di protocolli replicabili. In Italia questo paradigma ha dominato ed è accaduto che perfino i clinici e i teorici più vicini al modello standard abbiano dimostrato una particolare insensibilità al problema dell’aderenza ai protocolli.

La conseguenza sembra essere una particolare propensione del terapista italiano medio a considerare tutti i casi come difficili, complessi e traumatizzati. E inoltre a dare per scontato che l’intervento top-down sia di facile esecuzione, qualcosa di non particolarmente difficile da padroneggiare. Buttarsi in massa nell’immaginativo e nel corporeo senza aver mai davvero appreso e compreso la logica e la pratica dell’intervento top-down rischia di protrarre in Italia una carenza professionale e culturale. Sappiamo davvero fare una terapia cognitiva standard in Italia? O siamo a volte dei cognitivisti immaginari? Il rischio che si corre è che si proponga al paziente che chiede una terapia cognitiva standard un oggetto clinico frutto di una integrazione troppo personale e soggettiva, con derive nello psicoanalese relazionalista, un campo dove non siamo noi i più bravi.

Per la verità, forse anche questo terzo rischio lo stiamo schivando. È probabilmente un’ironia della storia che siano proprio i nuovi protocolli corporeo-esperienziali, dall’EMDR alla sensorimotor, gli agenti che stanno diffondendo la cultura degli interventi protocollizzati proprio tra chi li aveva sempre rifiutati. Magari l’attenzione per le procedure protocollate potrà poi indirettamente incoraggiare i colleghi a dare valore all’aderenza e a decidersi a imparare un po’ di terapia cognitiva standard, che è poi quella che cercano i pazienti, ignari di questi ultimi sviluppi così sofisticati. Spiace che tutto accada in maniera un po’ caotica, ma forse è nella natura degli avvenimenti storici: la vita è ciò che ti succede mentre fai altri progetti.

Inibizioni sociali e orientamento sessuale – fluIDsex

Ciao, conosco molte persone che mostrano attrazione verso il proprio genere da ubriache. Sarei curioso di sapere quanto sia imputabile all’effetto dell’alcol e quanto semplicemente al venir meno delle inibizioni autoimposte per via della società.

Purtroppo o per fortuna non esiste alcuna bevanda capace di farti fare cose che non proveresti normalmente da sobrio. Anche se uno degli effetti di qualche bicchiere di troppo è quello di influenzare i comuni meccanismi inibitori: “in vino veritas”.
L’inibizione quotidiana dei nostri comportamenti, pensieri o preferenze è probabilmente imputabile a quella che definiamo “morale della società”. Non è forse vero infatti che le aspettative, che siano proprie, dei nostri genitori o dei nostri amici, possono condizionare il nostro modo di essere? O che la religione giochi in ruolo importante nel definire cosa è buono e giusto e cosa no?
Legittimo quindi chiedersi se: “è possibile che la società ci influenzi così tanto da deviare i nostri gusti sessuali?”

I nostri gusti sessuali possono essere definiti o mutevoli nel tempo, in divenire come le esperienze che viviamo. La “morale della società” può però spingerci a nasconderli o rinnegarli: per istinto di conformità, per paura di essere giudicato diverso (ma diverso da chi?), per altre mille svariate ragioni. Vero anche che non c’è nessun manuale sul “come costruire la propria identità”. La sua costruzione è cosa faticosa per chiunque e senza dubbio per alcuni l’alcool è visto come un amico col quale e grazie al quale poter vivere esperienze che di norma non si affronterebbero: come l’avvicinarsi a una persona dello proprio genere!

Così, per quanto rifugiarsi dietro ad un “Ma ero ubriaco…!” sia molte volte più semplice, personalmente ritengo che l’alcool non possa aiutare una persona nel raggiungimento di una piena consapevolezza di sé, della propria identità sessuale, del proprio orientamento sessuale.
Il mio invito è quindi quello di sentirsi liberi di vivere la propria sessualità per quella che è e di soddisfare qualsiasi tipo di desiderio in ambito sessuale, sempre nel rispetto dell’altro, senza cercare per forza l’approvazione dell’amico di turno o ancor peggio dell’amico alcool.

Valentina Orlandi

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Il cambiamento bottom up e la terza onda: Dimaggio sulle svolte del cognitivismo clinico

Nel loro recente editoriale Le svolte del cognitivismo clinico, Sassaroli e Ruggiero si interrogano sulle evoluzioni della terapia cognitiva e sulla svolta esperienziale della terza onda. Riflettono sull’approccio bottom-up al cambiamento terapeutico e in parte lo criticano.

I loro argomenti sono i seguenti:

1) Lavorare a partire dagli stati sensoriali/corporei da un lato implica un concetto di cognizione troppo vasto (tutto sarebbe cognizione), dall’altro il cognitivista che lavora a questo livello farebbe meno bene ciò che altri approcci, per esempio la sensorimotor therapy fanno da anni e meglio

2) L’approccio bottom-up trascurerebbe lo specifico della terapia cognitiva, ovvero il lavoro top-down, il percorso che va dal cambiamento delle idee al miglioramento sintomatico.

3) La terapia, nelle loro parole, diventerebbe: “un viaggio emotivo e un’esperienza relazionale in cui le nuove capacità regolative sboccerebbero sempre spontaneamente senza mai essere apprese esplicitamente, se non alla fine.” Il rischio, sempre secondo Sassaroli e Ruggiero, sarebbe di: “ridurre la psicoterapia a un’esperienza guidata e a un incontro relazionale. L’informazione recepita per via esperienziale e relazionale deve poi trasformarsi in rappresentazione consapevole nella sede della coscienza per poi essere gestita in termini di scopi personali che non possono essere che espliciti, scelte di vita pensate e non solo sentite e su cui il soggetto ha riflettuto consapevolmente. Altrimenti l’intera vita individuale si riduce a una serie di risposte a stimoli esperienziali mai davvero decise ma sempre e solo subite”.

Nessuna delle critiche, a mio parere, tiene.

 

La svolta esperienziale

Parto dal primo punto: la svolta esperienziale è perfettamente coerente con le teorie cognitive delle emozioni (Frijda, Johnson-Laird e Oatley e via dicendo), molto di più di quanto non lo sia la teoria adottata dalle varie forme di CBT. Un’emozione, soprattutto quelle di base, può attivarsi senza una cognizione cosciente, ovvero senza il B dell’ABC. Come dicevano Oatley e Johnson-Laird, le emozioni di base possono attivarsi senza consapevolezza della causa. Esiste una componente cognitiva, chiamata appraisal che è parte definitoria dell’esperienza emotiva. Provare rabbia significa configurare il mondo come ostile al nostro scopo. Questo livello è implicito, pre-conscio, ma sempre uno stato cognitivo.

Poi c’è tutto il lavoro di Damasio che mostra come stati somato-affettivi influenzano la costruzione di scene mentali e la formazione di ragionamenti e decisioni. Insomma, l’approccio bottom-up va a poggiarsi su queste teorie delle emozioni, cosa che la CBT ha sempre trascurato, focalizzandosi solo sul percorso indicato da Lazarus che va dall’inferenza all’emozione, e dimenticandosi di Zajonc e del suo motto: “preferences need no inferences”

La seconda replica al primo punto è che lavorare sulla parte esperienziale significa lavorare meno bene di chi la usava da più tempo e quindi meglio di noi. In realtà non è una critica utile: significa che il cognitivismo non può apprendere da altro. E non si può imparare? Ogni forma di psicoterapia ha storicamente assimilato approcci di altre fonti, perché fermare l’evoluzione della scienza? Comunque per quanto riguarda il dubbio in questione in realtà arriva a questione già risolta: gli approcci cognitivo esperienziali funzionano. La schema-therapy, che ne fa uso massiccio, ha potenti dati di efficacia. La self-compassion therapy anche e così la mindfulness. Perché porsi il cruccio che se da cognitivisti lavoriamo sulla dimensione bottom-up rischiamo di diventare meno efficaci, o comunque meno efficaci di altri, quando già sappiamo che questo non è?

 

L’approccio bottom up

Il secondo punto è che l’approccio bottom-up trascura la componente di riflessione conscia. La risposta a questo è semplice: non è vero. Per dire, la schema-therapy resta a tutti gli effetti una terapia cognitiva e tra gli obiettivi ha quello di cambiare schemi, ovvero punto di vista cosciente sul mondo. Per quanto riguarda la Terapia Metacognitiva Interpersonale, mi riferisco alla manualizzazione che abbiamo compiuto in Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013, l’importanza del cambiamento delle rappresentazioni esplicite resta totale e non abbiamo mai pensato diversamente. Si tratta solo della strada da percorrere.

La differenza è che noi non chiediamo “perché pensa così?” e “proviamo a vederla diversamente”. Noi partiamo da, per esempio: “lei si vede debole. Mi racconta un episodio?” A quel punto, se il paziente è d’accordo andiamo a rivivere l’episodio narrativo, magari durante un esercizio di immaginazione guidata. Durante l’esercizio per esempio la paziente può ricordare un episodio in cui è stata criticata dal padre e si è sentita incapace, fragile, stupida, vulnerabile o inetta. A quel punto il terapeuta può suggerire di provare a lavorare sullo stato corporeo per esempio adottando una postura più tonica, stringendo le mani una contro l’altra e via dicendo. Poi chiede alla paziente se il senso di debolezza (fragilità e via dicendo) si sia  modificato. Spesso è quello che accade. A quel punto dopo una fase di riflessione si può tentare il rescripting e quindi di adottare una posizione mentale più tonica e, per esempio, rispondere al padre. Poi si chiede di nuovo un feedback sull’esprienza.

Una volta terminato il lavoro si riflette con la paziente su quanto è successo e la riflessione è altamente cognitiva e può suonare così: “Lei credeva di essere debole e di soccombere quando qualcuno la critica. Abbiamo visto che questa idea in parte è modulata dalle sensazioni corporee e lei ha un potere di agire su di essa che prima non conosceva. Poi abbiamo notato che quando rispondeva a suo padre la sua idea di sé era diversa, si vedeva competente, intelligente capace, anche se questa convinzione e questa sensazione era di breve durata. Però abbiamo visto che lei ha la capacità di cambiare idea, di vedere le cose diversamente”.

Si tratta né più né meno che di una ristrutturazione cognitiva, fatta però a partire non da semplici idee ma da ciò che il paziente ha vissuto e che quindi ricorderà più facilmente.

 

La ristrutturazione cognitiva

In questo modo abbiamo anche la risposta alla terza critica di Sassaroli e Ruggiero. La ristrutturazione cognitiva non avviene alla fine del percorso ed è solo l’epifenomento di esperienze nuove. È invece frutto di un lavoro che il terapeuta che utilizza tecniche che fanno leva sul cambiamento bottom-up compie seduta per seduta e l’idea è che questo migliori le capacità del paziente di riflettere (coscientemente) su se stesso, sia l’adozione di nuovi punti di vista.

Infine, Sassaroli e Ruggiero sostengono che con questi approcci i pazienti subiscono le esperienze e non decidono. È vero il contrario, con questi approcci i pazienti potenziano la loro agency e si confrontano sempre più con il fatto che i loro probleme nell’adottare azioni benefiche non dipendono dall’esterno ma dalle loro strutture cognitivo-affettive di attribuzione di significato. E lo capiscono nell’atto deliberato e cosciente di provare a comportarsi divertamente. “Quanto è difficile rispondere diversamente a mio padre, però mi rendo conto che ci posso provare e che quando ci riesco mi fa bene”. Scelto, deliberato ed esercitato. Ovvero apprendere dall’esperienza, non dalla teoria. Il vero apprendimento.

Mi sembra decisamente un modo di superare i tanti limiti tecnici del cognitivismo di seconda onda senza buttare al mare quanto di buono ha dato. I dati di efficacia già ci sono e la tecnica è in fase di affinamento.

Sessismo benevolo nelle donne e minore frequenza degli orgasmi?

Una nuova ricerca pubblicata all’interno di Archives of Sexual Behavior ha indagato se gli atteggiamenti sessuali delle donne possano influenzare la frequenza con cui esse sperimentano un orgasmo.

 Sessismo ostile e quello benevolo

[blockquote style=”1″]Attualmente non sappiamo ancora come le nostre ideologie possano costituire una base per il modo in cui pensiamo al sesso. Questo riguarda anche ciò che percepiamo essere sessualmente desiderabile, indesiderabile, o inappropriato[/blockquote] hanno dichiarato Emily Ann Harris, Matthew J. Hornsey e Fiona Kate Barlow.

[blockquote style=”1″]È quindi importante per studi futuri ampliare il campo di ricerca, al fine di indagare quale sia il funzionamento delle ideologie nel limitare o migliorare la nostra esperienza sessuale.[/blockquote]

La ricerca ha esaminato un concetto noto come benevolent sexism (sessismo benevolo), che si basa sulla Ambivalent Sexism Theory (teoria del sessismo ambivalente). La teoria sostiene che le opinioni pregiudizievoli delle donne possono essere raggruppate in due categorie principali: l’hostile sexism (sessismo ostile) e il benevolent sexism (sessismo benevolo).

Il sessismo ostile descrive l’avversione palese verso le donne, il sessismo benevolo, invece, descrive la convinzione che le donne siano donatrici e gentili, ma queste caratteristiche non possono funzionare correttamente senza l’aiuto di un forte partner maschile. Come hanno spiegato gli autori, il sessismo benevolo rappresenta l’idea di una passività femminile, e romanticizza la convinzione che le donne dovrebbero fare affidamento sugli uomini.

Lo studio: la relazione tra sessismo benevolo e frequenza degli orgasmi

I ricercatori hanno scoperto l’esistenza di una relazione indiretta tra il sessismo benevolo e la frequenza nell’esperire un orgasmo. Le donne che hanno approvato ed accettato il sessismo benevolo (come ad esempio l’idea che “le donne hanno bisogno di essere protette dagli uomini”) tendono anche a credere che gli uomini siano sessualmente egoisti. Di conseguenza, le donne che si affidano a tale credenza, tendono ad essere meno propense a chiedere ai partner di donare loro piacere, fenomeno che successivamente è stato associato con l’esperire orgasmi meno frequentemente.

Harris e i suoi colleghi, tuttavia, hanno dichiarato che un altro fattore che potrebbe essere associato al sessismo benevolo è che le donne che appoggiano tale prospettiva tendono ad avere più partner maschili contemporaneamente. Ricerche precedenti avevano trovato risultati che indicavano che le donne trovavano più semplice esperire orgasmi quando possedevano contemporaneamente più partner maschili. Tenendo conto che le donne che appoggiano il sessismo benevolo, potrebbero sentirsi obbligate ad avere rapporti sessuali con il partner, questo porta all’esperire più sesso, e di conseguenza a possedere una maggiore probabilità di provare un orgasmo.

In altre parole, le donne che appoggiano il sessismo benevolo sembrano essere meno propense a chiedere ai partner di donare loro piacere, il che si traduce nella possibilità di esperire un minor numero di orgasmi. Ma approvare il sessismo benevolo potrebbe anche portare le donne che hanno più partner maschili contemporaneamente ad esperire più sesso, portando la loro possibile frequenza di orgasmi a dati superiori alla media.

Aborto e disturbi mentali: incidenza e ricorrenza di patologie psichiatriche a seguito di un’interruzione di gravidanza

Nell’ultimo decennio sono state condotte un gran numero di ricerche e svariate review riguardo il rapporto tra aborto e disturbi mentali. Sebbene tale genere di studi implichino svariate difficoltà metodologiche, finora non è emerso alcun risultato significativo a favore dell’ipotesi che la cessazione della gravidanza incrementi il rischio di sviluppare una patologia psichiatrica.

 

Relazione tra aborto e disturbi mentali: i problemi metodologici

Tra i problemi metodologici che intervengono più spesso in questo campo di ricerca troviamo la difficoltà di misurare adeguatamente i disturbi mentali pre-esistenti, nonostante è probabile che questi siano predittivi dei disturbi mentali post-aborto.

Alcuni studi hanno controllato l’effetto dei disturbi mentali pre-esistenti sulla relazione tra aborto e disturbi mentali, tuttavia ciò è stato fatto per mezzo di questionari self-report retrospettivi, che non sono in grado di stabilire esattamente se e quale delle due evenienze ha un rapporto di causa-effetto con l’altra. Altri studi, invece, si sono limitati ad annoverare alcuni tra i disturbi mentali pre-esistenti, ignorandone altri, o si sono basati sui resoconti dei dottori di famiglia o psichiatri, metodologia che può condurre a pericolose perdite di informazioni.

Una seconda difficoltà consiste nel fatto che spesso gli studi si riferiscono a gruppi di controllo inadeguati, come donne che non sono mai state incinte o che non hanno abortito.

Infine, l’ultima problematica intrinseca alle ricerche riguardo la relazione tra aborto e disturbi mentali, per ovvi motivi, consta nell’impossibilità di assegnare casualmente le donne al gruppo di controllo o a quello delle donne che hanno abortito; ciò fa sì che la compatibilità tra i gruppi non sia elevata, sebbene sia possibile calmierare questo effetto per mezzo di alcune strategie durante le analisi statistiche. Una di queste è il matching, che permette di analizzare un non-esperimento come se fosse un esperimento, in quanto appaia uno ad uno i soggetti rispetto alle variabili in questione per rendere più o meno equivalenti i gruppi.

 

Lo studio

Un recente esperimento pubblicato sul Journal of Psychiatric Research ha utilizzato proprio questa tecnica, appaiando i partecipanti rispetto alle covariate potenzialmente confondenti; l’obiettivo era appunto stabilire l’incidenza e la ricorrenza dei disturbi mentali dopo un aborto (follow-up a 2.5 – 3 anni). I dati relativi alle partecipanti (età compresa tra i 18 e i 46 anni) provenivano dal Dutch Abortion and Mental Health Study (DAMHS) ed erano appaiati ai soggetti della coorte di riferimento presa dal Netherlands Mental Health Survey and Incidence Study-2 (NEMESIS-2), inoltre tutte le donne che avevano abortito riferivano come la gravidanza fosse stata non voluta. Le partecipanti del DAMHS erano state intervistate tra 20 e 40gg dopo l’aborto (T0) e di nuovo circa 2.7 anni dopo (T1).

La presenza dei disturbi mentali veniva valutata per mezzo della Composite International Diagnostic Interview (CIDI) versione 3.0, secondo i criteri del DSM-IV. Le patologie prese in analisi appartenevano a tre macrocategorie: disturbi d’ansia (disturbo di panico, agorafobia, fobia sociale, disturbo d’ansia generalizzato), disturbi dell’umore (depressione maggiore, distimia, disturbo bipolare) e disturbi da uso di sostanze (abuso di alcol/droga e dipendenza).

Le covariate considerate erano l’età (18-24, 25-34 e 35-46), la living situation (ovvero se le partecipanti vivevano o meno con un partner), l’avere dei figli, l’etnia (occidentale o meno, basandosi sulla definizione del Central Bureau of Statistics Netherlands), il credo religioso, la situazione lavorativa (lavoro pagato o non pagato), livello educativo, la zona di residenza (rurale o urbana). Un’ulteriore covariata era l’abuso (fisico, sessuale o psicologico e la trascuratezza emotiva) in età infantile, in quanto è dimostrato che può predisporre sia all’aborto che all’insorgenza di disturbi mentali (Steinberg & Tschann, 2013).

Dalle analisi statistiche emergeva come le donne che avevano abortito erano complessivamente più giovani, più spesso single, senza figli, di etnia non occidentale, non religiose, disoccupate, residenti in un’area urbana e più spesso vittime di abusi infantili, rispetto alla coorte di riferimento. Non vi erano differenze nel livello di educazione.

 

Risultati

Incidenza

Le partecipanti provenienti dalla coorte DAMHS evidenziavano un’incidenza maggiore di disturbi mentali (disturbi d’ansia, dell’umore e da abuso di sostanze), tuttavia una volta appaiate per le covariate in analisi, tutte le percentuali di incidenza si abbassavano e la significatività tra gruppo sperimentale e di controllo scompariva (disturbi d’ansia e da uso di sostanze p > .20, disturbo dell’umore p = .08).

Ricorrenza

Come sopra, prima dell’appaiamento, le partecipanti provenienti dal DAMHS mostravano una probabilità significativamente maggiore di ricorrenza per i disturbi d’ansia. Tuttavia, dopo l’appaiamento, i risultati non erano più significativi.

 

Conclusioni

Osservando i risultati è impossibile attribuire le differenze tra le due coorti all’evento dell’aborto, ma al contrario sembrano essere dovute ad una certa quantità di variabili co-occorrenti. Perciò sembra poco probabile che l’aborto incrementi il rischio di sviluppare e mantenere un disturbo psichiatrico; tale risultato è in linea con le precedenti evidenze scientifiche sul rapporto tra aborto e disturbi mentali.

L’efficacia della Cognitive remediation therapy per le pazienti con Anoressia Nervosa

Questo articolo presenta una revisione critica degli studi presenti in letteratura sull’efficacia della Cognitive remediation therapy (CRT) per le pazienti con Anoressia Nervosa. La Cognitive Remediation Therapy è una tipologia di intervento focalizzato al miglioramento della flessibilità cognitiva. Si tratta di un intervento clinico manualizzato composto da più versioni di una serie di esercizi cognitivi e comportamentali che affrontano le difficoltà di rigidità del pensiero tipiche dei disturbi del comportamento alimentare

Chiara Caulo, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

I disturbi del comportamento alimentare (DCA) sono una delle patologie psichiatriche maggiormente diffuse, pertanto, hanno assunto un rilievo clinico-scientifico di notevoli dimensioni. L’anoressia nervosa (AN) è un disturbo mentale multifattoriale caratterizzato da comportamenti alimentari patologici (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Si tratta di un grave disturbo, che in alcuni casi rappresenta un fattore di rischio per la vita di queste pazienti (Arcelus J, 2011). Inoltre mostra una significativa comorbidità con disturbi psichiatrici e danni fisici secondari alla denutrizione (Keilen M, 1994).

Dai dati epidemiologici riportati in letteratura si evince che i sintomi della malattia si manifestano più comunemente nella tarda adolescenza, con un tasso di prevalenza del 0,5-0,7% tra le femmine adolescenti tra i 15 ei 19 anni (Hoek HW, 2003). Nel DSM-5, l’ Anoressia é caratterizza dalla presenza dei seguenti sintomi: restrizione dell’apporto calorico che porta ad un peso corporeo significativamente basso; intensa paura di diventare grassi o di aumentare di peso; alterazione della percezione dell’individuo rispetto alla forma e al peso del proprio corpo che influisce sui livelli di autostima.

L’alta prevalenza di questi disturbi nella popolazione adolescenziale e giovanile, nonché la complessità delle manifestazioni sintomatologiche e la resistenza al trattamento, hanno suscitato un crescente interesse verso tali problematiche. Gli approcci attualmente applicati nel trattamento del disturbo sono numerosi: la terapia cognitivo-comportamentale (CBT), la terapia interpersonale (IPT), terapia cognitivo-analitica (CAT), la terapia basata sulla famiglia (FBT) (per bambini e adolescenti), consulenza nutrizionale, ecc ., ciò nonostante gli studi randomizzati e controllati (RCT) esistenti sono limitati (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Le attuali ricerche sull’efficacia dei trattamenti per i Disturbi del comportamento alimentare individuano la “Family-based Treatment-Maudsley Approach” come trattamento più efficace per gli adolescenti con Anoressia Nervosa (AN), con una previsione di efficacia del trattamento del 70-80% degli adolescenti (National Institute for Clinical Excellence, 2004); (Eisler, 2007); (Lock, 2010). Tuttavia, un sottogruppo di questi pazienti non risponde in maniera ottimale ai trattamenti esistenti, pertanto potrebbe beneficiare di trattamenti alternativi.

Negli ultimi anni, vi è stato un aumento sostanziale degli studi che indagano l’impatto dei deficit neuropsicologici sui DCA. L’attenzione è stata posta in primo luogo nello stabilire fino a che punto le debolezze in termini di flessibilità cognitiva (impossibilità di spostare o cambiare le strategie mentali e comportamentali) e di coerenza centrale (attenzione ai dettagli a scapito degli aspetti globali / contestuali) contribuiscono allo sviluppo, alla resistenza al cambiamento e alle probabilità di recupero della malattia (Bühren K, 2012) (Tenconi E, 2010) .

I dati attualmente presenti in letteratura mostrano che i pazienti con un DCA presentano deficit specifici nel funzionamento neuropsicologico relativamente alla flessibilità cognitiva (Tchanturia K H. A., 2011). In particolare, le ricerche relative agli aspetti neurocognitivi di pazienti adulti con Anoressia Nervosa mostrano difficoltà specifiche di “set-shifting” (Tchanturia K H. A., 2011) difficoltà di coerenza centrale (capacità di cogliere gli aspetti globali vs attenzione ai dettagli) (Lopez C. T., 2008) (Tenconi, 2010) e un QI superiore rispetto alla popolazione sana di controllo (Lopez C. S., 2010).

Le difficoltà di “set-shifting” inficiano la capacità di muoversi in maniera flessibile tra le operazioni e le strategie cognitive (Tchanturia K D. H., 2012). Le difficoltà nei processi cognitivi associati ad un ampia gamma di disturbi psichiatrici (schizofrenia, disturbi dello spettro autistico, disturbo ossessivo-compulsivo) sono risultate sensibili alla Cognitive Remediation Therapy-CRT (Bowie C, 2012) (Wykes T H. V., 2011) (Buhlman, 2006).

I risultati dimostrano che migliorando l’inefficienza e la compromissione dei processi cognitivi attraverso la Cognitive Remediation Therapy, non solo si modificano i processi cognitivi trattati, ma si nota un miglioramento relativo anche nei problemi psicosociali e comportamentali associati (Bowie C, 2012) (Wykes T H. V., 2011) .

La Cognitive Remediation Therapy è stata originariamente ideata e sviluppata per pazienti affetti da lesioni cerebrali (C. Lindvall Dahlgren, 2014), ma nel corso degli ultimi 50 anni, la sua applicazione è stata gradualmente adattata al trattamento di pazienti che soffrono di differenti disturbi. In psichiatria, nei primi anni ’90, la Cognitive Remediation Therapy è stata inizialmente applicata alle disfunzioni cognitive dei pazienti affetti da schizofrenia, a tale periodo risale un ampio corpus di lavoro che descrive i risultati positivi della Cognitive Remediation Therapy per questo gruppo di pazienti (Kurtz, 2012) (Wykes T S. W., 2011).

Tale approccio ha avuto successo anche nel trattamento di altri disturbi mentali, come: i disturbi dell’umore (Bowie CR, 2013), il disturbo da deficit di attenzione e iperattività (ADHD) (Stevenson CS, 2002), la dipendenza da alcol (Rupp CI, 2012), la depressione geriatrica (Morimoto SS, 2012) e il disturbo ossessivo compulsivo (DOC) (Buhlmann U, 2006).

La Cognitive Remediation Therapy per il trattamento dell’Anoressia è un approccio terapeutico con una storia relativamente breve. Per questo gruppo di pazienti, l’intervento è stato inserito come supplemento ai trattamenti tradizionali, in un’ ottica di trattamento multidisciplinare dei DCA.

Tale intervento è focalizzato sul processo di pensiero (il come), piuttosto che il contenuto (il cosa). In contrasto con gli interventi tradizionali, in cui gli obiettivi fondamentali riguardano l’aumento dell’assunzione di cibo e lo sviluppo di strategie efficaci per affrontare i sintomi specifici del DCA (come la preoccupazione per il peso e la forma), la Cognitive Remediation Therapy non ha tali obiettivi, nè tratta direttamente questi aspetti. Infatti, nella Cognitive Remediation Therapy l’obiettivo è principalmente quello di diminuire la rigidità del pensiero (cioè aumentare la flessibilità) e raggiungere un equilibrio tra strategie di elaborazione delle informazioni dettagliate e globali. Negli adulti con Anoressia Nervosa, la Cognitive Remediation Therapy è stata sperimentata con risultati promettenti in differenti tipologie di setting: in pazienti in regime ambulatoriale (Pitt, 2010) (Tchanturia K. D., 2007), in pazienti ricoverati (Tchanturia K. D., 2008), in un setting individuale e di gruppo (Genders, 2010).

Per esempio, la Cognitive Remediation Therapy ha dimostrato la sua efficacia per i pazienti con un DCA, nella misura in cui ha ottenuto un feedback qualitativo positivo (Whitney, 2008) e bassi tassi di abbandono (Tchanturia K. D., 2008). Alcuni studi hanno mostrato miglioramenti significativi nei partecipanti dell’esperimento (Tchanturia K. D., 2008) rispetto alle misure self-report di flessibilità cognitiva. Tali risultati suggeriscono che la Cognitive Remediaton Therapy potrebbe essere utilizzata come pre-intervento, o come intervento congiunto ad altri tipi di terapie psicologiche (Tchanturia K. L., 2010) (Easter, 2011).

 

Cognitive remediation therapy (CRT)

La Cognitive Remediation Therapy per Anoressia è una tipologia di trattamento che incoraggia le persone a riflettere e a tentare di modificare il loro stile di pensiero, con una particolare attenzione al miglioramento della flessibilità cognitiva. Si tratta di un intervento clinico manualizzato composto da più versioni di una serie di compiti ed esercizi mentali che affrontano le difficoltà in termini di flessibilità e di elaborazione olistica (Baldock E, 2007) (Pretorious N, 2007).

In particolare, la Cognitive Remediation Therapy per Anoressia è costituita da un modulo di 10 sessioni, in cui l’operatore e il paziente si incontrano due volte a settimana per 30-45 minuti (durata media di ogni sessione), per lavorare in modo collaborativo allo svolgimento di semplici compiti cognitivi e riflettere su di essi (Hambrook, 2010). L’obiettivo generale di queste sessioni è quello di incoraggiare i pazienti a riflettere sui loro stili di pensiero, sulle strategie di elaborazione dell’informazione e sui comportamenti messi in atto, al fine di aiutarli ad applicare nuove strategie più adattive, mediante l’attuazione di piccoli cambiamenti comportamentali nella loro vita quotidiana.

La Cognitive Remediation Therapy nella sua forma attuale è strutturata in un protocollo specifico. Al fine di valutare il beneficio clinico dell’intervento, i pazienti sono sottoposti a una valutazione neuropsicologica di base prima di iniziare il percorso terapeutico, i test utilizzati misurano le aree cognitive a cui sarà successivamente rivolto l’intervento, ovvero: le capacità di set-shifting e la coerenza centrale. Ove possibile, i pazienti sono valutati anche dopo aver completato le 10 sessioni di Cognitive Remediation Therapy, e 6 e 12 mesi per la valutazione di follow-up. Come precedentemente accennato, la Cognitive Remediation Therapy comprende dieci sessioni di 30-45 minuti, che sono generalmente organizzate nel seguente ordine (Hambrook, 2010):

Sessioni 1-3 : sono dedicate a costruire una relazione terapeutica collaborativa e ad illustrare ai pazienti la logica e il razionale della Cognitive Remediation Therapy. Tali sessioni sono fondamentali per mettere a conoscenza i pazienti degli stili di pensiero che mettono in atto nella vita quotidiana e del ruolo che quest’ultimi hanno nel mantenimento e nel peggioramento dei sintomi alimentari. In queste sessioni verranno intavolate una serie di discussioni focalizzate sui problemi cognitivi comunemente sperimentati dalle pazienti con Anoressia. Tali discussioni offrono non solo la possibilità di normalizzare il proprio stile cognitivo (punti di forza e di debolezza), ma consentono all’operatore di rispondere con sensibilità e empatia a queste tematiche, contribuendo così a costruire una buona relazione terapeutica. Molti degli esercizi utilizzati nella Cognitive Remediation Therapy incoraggiano un’interazione giocosa tra l’operatore e il paziente. Inoltre, i pazienti sono incoraggiati a fare collegamenti tra ciò che stanno osservando su se stessi nelle sessioni e come questo si adatta al loro pensiero e al comportamento che mettono in atto nella vita quotidiana.

Sessioni 4-6: in queste sessioni sono inseriti altri compiti ed esercizi specifici che includono la progettazione e la pratica di piccoli esperimenti comportamentali, assegnati alla fine delle sessioni da svolgere al di fuori della terapia. Lo scopo di queste attività è quello di rafforzare le strategie che sono state discusse durante le sessioni e aumentare la generalizzazione comportamentale. All’inizio di ogni sessione vengono discussi i feedback sui compiti a casa.

Sessioni 6-8: in queste sessioni viene dedicato maggior tempo alla progettazione e alla discussione degli esperimenti comportamentali, oltre che alla tradizionale pratica degli esercizi cognitivi. I pazienti sono incoraggiati ancora una volta a fare collegamenti tra le strategie e i comportamenti che hanno messo in pratica nelle sessioni e le loro esperienze di vita reale.

Sessione 9: segue lo stesso format delle sessioni 6-8, tuttavia, l’ attenzione è posta sui modi alternativi futuri con cui i pazienti potrebbero mettere in pratica ciò che hanno imparato nella terapia Cognitive Remediation Therapy. Vengono, inoltre, discusse e studiate diverse strategie che aiuteranno i pazienti a mantenere la maggiore flessibilità cognitiva acquisita.

Sessione 10: prevede un momento dedicato alla raccolta e alla discussione dei feedback del paziente relativamente alla terapia, una sintesi di quanto è stato realizzato e uno scambio di lettere addio. Anche gli operatori sono invitati a scrivere una lettera ai loro pazienti, incentrata sui loro punti di forza e sul cambiamento relativo ai loro stili di pensiero e ai comportamenti. Il tono di queste lettere è sempre positivo e motivazionale. Le lettere di addio hanno diversi obiettivi. In primo luogo, forniscono una fine identificabile alla terapia Cognitive Remediation Therapy, riassumono ai pazienti quanto è stato fatto finora e come le loro nuove strategie acquisite potrebbero essere utilizzate in futuro. In secondo luogo, le lettere da parte dei pazienti rivolte agli operatori sono molto utili, in quanto permettono di evidenziare gli aspetti della Cognitive Remediation Therapy che sono soggettivamente utili per i pazienti e consentono di suggerire modalità innovative in cui l’intervento potrebbe essere migliorato nel suo futuro sviluppo.

 

Studi sull’efficacia

Il primo studio sulla Cognitive Remediation Therapy per Anoressia è stato pubblicato nel 2005 (Tchanturia H. D., 2005), e riporta i risultati di un studio su un singolo caso, il quale illustra l’uso della Cognitive Remediation Therapy per una paziente adulta ricoverata, la quale rifiutava la partecipazione al trattamento di base offerto. I materiali utilizzati sono stati adattati da quelli utilizzati nella Cognitive Remediation Therapy per il trattamento della schizofrenia non essendo ancora presente una manualizzazione per l’Anoressia.

Nel coso degli anni successivi alla prima pubblicazione, gli studi sull’efficacia di questo tipo di trattamento si sono moltiplicati, inoltre, la ricerca sulla Cognitive Remediation Therapy per Anoressia si sta sempre di più avvicinando, dal punto di vista metodologico, al mondo della ricerca definita “gold standard” (RCT) per testare l’effetto di uno specifico approccio di trattamento. Ciò nonostante, in parte a causa della breve storia di questa tipologia di trattamento, in letteratura sono presenti un numero relativamente ristretto di studi RCT. Per tale ragione di seguito verranno riportati risultati riscontrati in differenti tipologie di pubblicazione (casi singoli; studi su una serie di casi; e ricerche RCT).

 

Studi su singoli casi

Come precedentemente accennato, i primi studi pubblicati relativamente all’efficacia della Cognitive Remediation Therapy sono stati studi su singoli casi e i materiali adottati sono stati adattati dal modulo set-shifting del lavoro di Delahunty e Morice sui pazienti con schizofrenia (Delahunty A, 1993).

Il primo studio (Tchanturia H. D., 2005) aveva come obiettivo quello di illustrare come la Cognitive Remediation Therapy potesse essere utilizzata per stimolare le attività mentali e migliorare le capacità di pensiero dei pazienti con Anoressia (C. Lindvall Dahlgren, 2014). I risultati di questo studio mostrano un marcato miglioramento nelle abilità cognitive di set-shifting dopo 10 sedute (Tchanturia H. D., 2005).

Mediante un secondo studio (Tchanturia K W. J., 2006) gli autori affermarono che la Cognitive Remediation Therapy poteva essere utilizzata come un training intensivo precedente al trattamento per i pazienti resistenti al cambiamento (C. Lindvall Dahlgren, 2014). Nell’ultimo studio di questi tre studi di casi singoli (Pretorius N, 2007), viene introdotto il concetto di attività comportamentali (spesso definito in studi successivi come compiti a casa) come parte integrante del lavoro terapeutico con il paziente, con l’obiettivo di facilitare l’attuazione delle nuove strategie apprese in situazioni di vita quotidiana. I risultati di questo studio mostrano un aumento del BMI della paziente a seguito della terapia e nonostante la ripetitività dei compiti, la paziente si dimostrò in grado di sviluppare nuove strategie più flessibili da mettere in pratica nella vita quotidiana.

 

Studi di casi

Questa tipologia di ricerche presenta diverse differenze riguardanti i più disparati aspetti: metodologici (composizioni campione, dimensione del campione, età, tipologia di presa in carico); tipologie di intervento (terapia individuale, di gruppo, familiare, ecc); l’intensità del trattamento; e valutazione dei risultati (qualitativi o quantitativi, tipologia di strumenti di valutazione). Tali discrepanze hanno reso difficile il confronto tra gli studi e pertanto risulta impossibile una generalizzazione e una comparazione dei risultati ottenuti nei diversi studi (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Uno dei dati che riscontra una maggiore risonanza nei diversi risultati degli studi presenti in letteratura, è l’influenza della Cognitive Remediation Therapy sui livelli motivazionali e un resoconto positivo dei feedback delle pazienti (Genders, 2010) (Easter, 2011) (Pretorius, 2012) (Tchanturia K., 2016). Un altro risultato comune che si riscontra nei diversi studi è un miglioramento della flessibilità cognitiva, seppur non sempre avvalorato da dati statisticamente significativi (Tchanturia K. D., 2007) (Tchanturia K. D., 2008) (Genders, 2010). Infine, in un relativamente ridotto numero di studi si riscontrano dei risultati statisticamente significativi (C. Lindvall Dahlgren, 2014): un decremento significativo degli aspetti depressivi (Tchanturia K. D., 2008); miglioramenti significativi nella performance cognitiva relativa ai compiti Brixton & CatBat (Tchanturia K. D., 2008); aumenti statisticamente significativi nei self-report relativi alla capacità percepita di cambiamento (Genders, 2010); significativo miglioramento sulla regolazione degli impulsi e sulla consapevolezza interocettiva (Abbate-Daga G, 2012); modifiche significative del peso, degli aspetti depressivi, della memoria visuo-spaziale, dell’elaborazione di informazione globale e verbale (Dahlgren CL, 2014).

 

Studi clinici controllati- RCT

I più recenti studi controllati (RCT) sulla Cognitive Remediation Therapy per Anoressia restringono il campione ad una popolazione adulta, ciò nonostante rappresentano un passo da gigante in termini di potenza di misurazione e di valutazione degli effetti di intervento (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

Uno di questi studi (Brockmeyer T, 2013) ha paragonato la fattibilità e l’efficacia del training specifico della Cognitive Remediation Therapy rispetto ad un trattamento neurocognitivo non specifico. I risultati dimostrano che i partecipanti che hanno seguito il training CRT riportano punteggi superiori nei compiti di set-shifting, mentre, entrambi i gruppi hanno mostrato un alto grado di accettazione del trattamento. Un altro studio (Dingemans AE, 2014) ha confrontato gli effetti dei trattamenti tradizionali rispetto al trattamento combinato con la Cognitive Remediation Therapy. I risultati dimostrano che il trattamento combinato comporta migliori punteggi in termini di qualità della vita e sintomatologia alimentare (C. Lindvall Dahlgren, 2014).

 

Ricerche future

La conclusione principale di questa rassegna è che vi sono numerose evidenze scientifiche del valore positivo dell’utilizzo del training Cognitive Remediation Therapy per l’Anoressia. Con l’emergere di recenti studi RCT, ulteriori dati suggeriscono che l’intervento è efficace sia in termini di una maggiore efficacia dei trattamenti tradizionali, sia relativamente al miglioramento della flessibilità cognitiva, in particolare nelle funzioni di set-shifting.

Per incrementare ulteriormente la nostra comprensione dei meccanismi di azione della Cognitive Remediation Therapy, gli studi futuri dovrebbero concentrarsi su: l’esplorazione a lungo termine degli effetti del trattamento; investigare l’influenza di variabili moderatrici degli effetti, come la comorbidità (per esempio la depressione, l’ansia e OCD), la gravità della malattia, la durata della malattia, gli stili di personalità, ed altre caratteristiche del paziente pre-trattamento; l’ elaborazione di studi RCT che esplorano l’efficacia della terapia negli adolescenti, utilizzando strumenti appropriati per l’età che tengano conto dell’eterogeneità del funzionamento neuropsicologico nei giovani individui; l’indagine degli effetti della Cognitive Remediation Therapy come trattamento congiunto alla terapia basata sulla famiglia (FBT) per le giovani ragazze con Anoressia.

Rincorrere le farfalle ovvero i benefici della distrazione

Demonizzare i momenti di distrazione significa non lasciare spazio alla creatività e al flusso di pensieri che scardinano in maniera innovativa ed originale problemi ai quali non riuscivamo a dare una soluzione.

I meccanismi che regolano l’attenzione

[blockquote style=”1″]La mente intuitiva è un dono sacro e la mente razionale è un fedele servo. Noi abbiamo creato una società che onora il servo e ha dimenticato il dono [/blockquote](A. Einstein)

Siamo circondati di proposte, seminari, manuali che ci vogliono aiutare a mantenere la concentrazione. Il senso comune vuole, infatti, che tale capacità sia foriera di maggiore produttività e quindi di maggiore successo. Ma è realmente così?

Daniel Goleman, padre della teoria sull’intelligenza emotiva, chiarisce bene quali sono i meccanismi che regolano la nostra attenzione. Da una parte i meccanismi bottom-up che, partendo dai circuiti neurali della parte subcorticale del nostro cervello, operano in maniera volontaria e automatica, intuitiva ed impulsiva e si occupano dei nostri modelli mentali del mondo (come relazionarci se ci troviamo ad una festa), dall’altra i meccanismi top-down (che hanno sede nella neocorteccia), responsabili dell’autocontrollo e della supervisione del nostro repertorio di automatismi. Se i primi sono reduci del nostro cervello “primitivo”, i secondi sono frutto dell’evoluzione e del mondo moderno, poiché regolano i capricci e gli impulsi che arrivano costantemente dal basso.

Sebbene questi due meccanismi lavorino in sincronia per permetterci di destreggiarci nella vita quotidiana, uno aiutandoci a focalizzarci su lavori cognitivamente impegnativi, l’altro elaborandoli per renderli automatici, gli studi rilevano che l’eccessiva doverizzazione all’attenzione coatta non produce altro che un sovraccarico cognitivo poco funzionale al nostro benessere (e alla nostra produttività).

 

La distrazione e la creatività

Lo stato di default della nostra mente è ben rappresentato dall’immagine della mente vagante: demonizzare i momenti di distrazione significa non lasciare spazio alla creatività e al flusso di pensieri che scardinano in maniera innovativa ed originale problemi ai quali non riuscivamo a dare una soluzione.

Concentrandoci sugli indizi a disposizione, ignoriamo la varietà di alternative che possono aiutarci a risolvere quesiti di matematica complessi, creare testi ben articolati, a progettare il futuro, a rendere più flessibile la nostra concentrazione e così via, battendo strade ancora inesplorate.

Perché tali associazioni risultino libere, è anche necessario sperimentarle in contesti e momenti giusti. Viviamo in un mondo dove siamo continuamente bombardati da mail, inviti, eventi, dove non vi è la possibilità di vagare con la mente.
Ecco perché è necessario concedersi una pausa prima di riprendere a lavorare, sia per ripristinare i livelli di attenzione e concentrazione, ma anche per spegnere il chiacchiericcio mentale sempre focalizzato sul “me”, una sorta di stazione radio sempre sintonizzata che trasmette sempre e solo in prima persona singolare e…al negativo.

Una passeggiata nella natura o sedersi accanto ad un quadro che riproduce uno scenario naturale sono altamente consigliati e preferibili alla camminata in centro o alla routine di controllo delle mail. Lo scopo è quello di non dover necessariamente focalizzare la nostra attenzione su un compito cognitivo affinché le nostre reti neurali possano ripristinarsi.

Trauma post-terremoto, quelle crepe che il sisma lascia nella mente

Il crollo della casa è solo l’inizio: in una situazione di pericolo senza via di fuga si creano le condizioni per il trauma. Una reazione emotiva che si sedimenta nella coscienza e condiziona il futuro e la serenità delle persone che la subiscono. 

Articolo di Giovani Maria Ruggiero pubblicato su Linkiesta il 05/11/2016

 

Forse è banale dirlo, ma un terremoto come quello che sta colpendo ripetutamente l’Italia è, a tutti gli effetti, un trauma. In psicologia il trauma è un tema su cui solo da poco si è cominciato a capire qualcosa. Ci si è baloccati (un po’ troppo?) per tutto il novecento con la vita interiore, con le fantasie interne e inconsce e con i pensieri cognitivi dai quali tutto dipende e così si sono sottovalutati tutti i fatti esterni al soggetto. Nel buon senso dei non esperti, invece, lo si era capito da tempo: il trauma è una cosa dura che spella vivo chi ci passa.

La sofferenza dipende da quel che pensiamo, il trauma è un’altra cosa. È una buona notizia, allora, che da un po’ di tempo gli psicologi hanno a disposizione migliori strumenti per la comprensione e l’intervento, ed è un’altra buona notizia anche il fatto che questi strumenti siano abbastanza diffusi nel servizio sanitario italiano, in questi giorni impegnato nei soccorsi – e, si teme, lo sarà ancor di più lo sarà negli anni futuri, in quella che si annuncia come una lunga assistenza.

Un trauma è una condizione estrema di minaccia all’integrità e alla sopravvivenza fisica, cui l’organismo risponde in maniera altrettanto estrema. Sono reazioni che danno qualche probabilità in più di sopravvivenza di fronte al pericolo, a un costo psicologico, però, molto pesante col quale si fanno i conti negli anni successivi. Di fronte alle minacce non estreme l’essere vivente reagisce fuggendo o contrattaccando, come sappiamo. Il trauma invece ha luogo quando la fuga è impossibile, quando si sta con le spalle al muro e guardando in faccia la morte.

In queste condizioni l’organismo – sembrerà paradossale – a sua volta simula la morte. Non per anticiparla, ma perché il freezing, cioè una brusca ed estrema riduzione del tono muscolare accompagnata da una disconnessione fra i centri nervosi superiori e inferiori, risulta la reazione più adeguata per sopravvivere in una condizione senza scampo. L’animale, o la persona, di fatto sviene e la sua muscolatura si immobilizza e le sensazioni periferiche scompaiono.

Ha senso agire in questo modo di fronte a un tipo particolare di minaccia: l’attacco di un predatore che impedisce la fuga. A queste condizioni simulare la morte può essere uno scampo: molti predatori mangiano solo prede vive. In altri tipi di pericoli, però, si tratta di una reazione non sempre appropriata. Ad esempio, durante l’attentato alle Twin Towers dell’11 settembre, le persone presenti nelle torri reagirono con velocità dimezzata rispetto a quanto previsto nelle esercitazioni: attesero in media sei minuti prima di iniziare a fuggire e impiegarono in media circa un minuto per scendere ogni piano. In quel caso il rallentamento delle reazioni mentali e muscolari, un freezing parziale, non fu affatto di aiuto. I pochi che si salvarono scendendo dai piani superiori furono quelli che avevano reagito fuggendo immediatamente e alla massima velocità.

La nostra mente evoluta ha moltiplicato all’infinito le capacità di analisi dei problemi. Purtroppo però il repertorio delle soluzioni resta sempre limitato. Tante analisi e ragionamenti per poi ritrovarsi con lo stesso misero mazzo di quattro carte da giocare di un animale non sapiens: fuggire, attaccare, attendere e svenire. E pensare? Certo, ma in un trauma è solo un modo raffinato di attendere. Chi si salvò l’11 settembre non era un pensatore.

Insomma, sono tutte soluzioni abbastanza limitate. Abbiamo difficoltà ad accettare questi limiti. È la stessa difficoltà che in questi giorni impedisce a qualcuno di accettare che un terremoto non può essere previsto dalla scienza moderna. Poi si può rimuginare a lungo e con qualche ragione sui metodi di costruzione edilizia più recenti, fatto sta che le sciagure naturali sono difficili da considerare. Meglio prendersela con qualcuno.

Passata la sciagura, il trauma diventerà sempre più un problema psicologico, cioè si concretizzerà in quella reazione psicologica al trauma che abbiamo descritto e che, in termini tecnici, va sotto il nome di “dissociazione”. Già di utilità molto parziale durante il pericolo, la dissociazione mentale diventa definitivamente dannosa nei giorni, nei mesi e negli anni che seguono alla disgrazia. Il trauma non è solo un evento accaduto nel passato, ma lascia un’impronta psicologica nel presente della mente, del cervello e del corpo. È un’impronta che determina una profonda trasformazione del modo in cui pensano le persone traumatizzate: vivono costantemente nel passato traumatico, hanno difficoltà a capire cosa stia accadendo intorno a loro e subiscono una seria compromissione della capacità di immaginazione e della flessibilità mentale. Ciò limita la loro capacità di contemplare il futuro, di avere progetti e desideri. Vivono in un persistente stato di paura e allarme.

Il trattamento psicologico di queste persone, per fortuna, ha fatto grandi passi avanti negli ultimi anni. Gli interventi psicoterapeutici più efficaci, sia quello cognitivo-comportamentale che quello psicoanalitico-psicodinamico, partono dalla considerazione che non sempre tutta la sofferenza psicologica può essere imputata alle fantasie inconsce o ai pensieri disfunzionali dei pazienti. Questo ha permesso lo sviluppo di protocolli di cura basati sulla rieducazione emotiva e cognitiva di chi soffre, rieducazione che passa non solo attraverso il canale della consapevolezza e del ricordo di memorie temute ed evitate, ma anche attraverso una riacquisizione amichevole delle sensazioni corporee e, per questa via, delle emozioni e delle memorie traumatiche.

Il maggiore limite delle persone traumatizzate è l’incapacità di vivere ogni emozione, perfino quelle positive, in maniera tranquilla e normale. Per il traumatizzato ogni percezione finisce per essere un’esperienza insopportabile. Anche emozioni che nulla hanno a che fare con il trauma sono vissute con intensità terrificante, poiché la taratura della sensibilità percettiva si è spostata verso il basso e la dissociazione tra sensazioni periferiche e cervello finisce per trasformare ogni emozione in un intollerabile urlo interiore.

La rieducazione consiste in un lento lavoro di nuova familiarizzazione con le percezioni corporee. Apprezzare di nuovo la sensazione tattile delle mani sulla superficie di un tavolo può essere un primo passo per arrivate di nuovo a provare emozioni non solo di gioia, ma anche di tristezza, rabbia e soprattutto paura senza esserne sopraffatti.

 

* Un ringraziamento alla collega Loredana Musella, esperta di trauma, per la consulenza.

 

Francesco Borromini: l’architetto inquieto e la rivalità con il Bernini

Borromini: La diversità di carattere, di temperamento e di concezione artistica, insieme alla competizione professionale con il Bernini determinarono, tra i due architetti, una rottura che, ben presto, si trasformò in aperta rivalità.

La biografia

Francesco Borromini, nato Francesco Castelli (1599- 1667) era, secondo il suo biografo Filippo Baldinucci, “uomo di grande e bello aspetto, di grosse e robuste membra, di forte animo e d’alti e nobili concetti”.

Di origini ticinesi, il Borromini giunse a Roma intorno al 1614 per lavorare come scalpellino nel cantiere di San Pietro, alle dipendenze di suo zio, Carlo Maderno. Alla morte di quest’ultimo, il Borromini dovette rendere conto, in cantiere, a quello che sarebbe in seguito diventato il suo più acerrimo nemico, ovvero Gian Lorenzo Bernini che, dal 1629, assunse la carica di architetto della Fabbrica di San Pietro. Da Papa Urbano VIII (1623-44) il Bernini ricevette la commissione che consacrò ufficialmente il suo successo: l’erezione del baldacchino bronzeo per l’altare della confessione, realizzato con la collaborazione del Borromini, tra il 1624 ed il 1633.

Il difficile rapporto tra Borromini e Bernini

Lavorando insieme al baldacchino di San Pietro, l’incompatibilità di carattere dei due architetti ed il loro odio reciproco arrivarono ad un punto di non ritorno e, nel 1633, ci fu la rottura definitiva: da quel momento ognuno per la sua strada, tra denigrazioni reciproche, ripicche e cattiverie di dubbio gusto. La storia dell’arte è piena di diatribe tra artisti, celeberrima è quella che vide contrapposti, nel Rinascimento, Michelangelo, Leonardo e Raffaello, ma altrettanto celebre è il rapporto teso e burrascoso tra i due architetti del barocco romano.

La diversità di carattere, di temperamento e di concezione artistica, insieme alla competizione professionale determinarono, tra i due architetti, una rottura che, ben presto, si trasformò in aperta rivalità. Bernini era ricco, famoso, potente, ben introdotto nell’ambiente culturale romano, estroverso, mentre il Borromini era giovane, di umili origini, con un carattere introverso, scontroso ed umbratile. Secondo alcuni storici dell’arte il Bernini, accortosi del grande talento del suo aiutante, ne temeva la concorrenza e l’ascesa. Da qui sarebbero nati i continui tentativi di ostacolarne la carriera e di sfruttarne, in cambio di pochi danari, le eccezionali capacità tecnico-artistiche.

Il Bernini, magniloquente e molto sicuro di sé, era l’esatto opposto del Borromini, un uomo solitario e dal carattere scontroso, carattere che probabilmente influì nelle vicende personali ed artistiche della sua vita: a differenza del Bernini, il Borromini, infatti, non riuscì mai ad instaurare rapporti e relazioni con committenti prestigiosi e potenti; il suicidio, che ne concluse la carriera nel 1667, sancì drammaticamente il progressivo isolamento a cui il prevalere del “partito” berniniano finì per condannarlo negli ultimi anni.

Bernini e Borromini furono sempre in competizione o, per meglio dire, furono rivali per tutta la vita: la competizione, infatti, rappresenta una condizione in cui il raggiungimento di un determinato obiettivo da parte di una persona si associa inevitabilmente al fallimento dell’altra. La rivalità, invece, implica un coinvolgimento psicologico ulteriore. E alla rivalità si associa il sentimento di invidia (dal latino invidere, cioè guardare contro, guardare con ostilità), che può essere definita come quello stato d’animo in cui prevalgono il desiderio di possedere qualcosa che qualcun altro ha, oppure il desiderio che l’altro perda ciò che ha o rappresenta.

L’invidia, sentimento primitivo molto comune, non viene quasi mai dichiarato per non rivelare il senso di inferiorità che nasconde ed è un sentimento che provarono anche molti dei geni dell’arte: Leonardo era conscio del fatto che il giovane Michelangelo fosse un ottimo scultore. Il suo David era uno schianto. Eppure, quando si trattò di deciderne la collocazione, il da Vinci, in commissione urbanistica, propose di collocarlo all’ombra della Loggia dei Lanzi, per rendere meno evidenti le pecche del marmo. In realtà Leonardo fu mosso dal sentimento dell’invidia. Anche il cavalier Bernini era invidioso del giovane Borromini, di cui percepiva il grande talento, ma non lo ammetteva, anzi lo temeva.

Dietro all’invidia si possono celare diversi sentimenti: senso di inferiorità, oppure odio e/o rabbia per il successo dell’altro che sembra oscurarci. Bernini fu senza dubbio invidioso dell’inquieto architetto ticinese che, più volte, sembrò oscurarlo ed il suo pensiero e la sua condotta si concentrarono sulla continua svalutazione dell’antagonista.

Il Borromini era amareggiato a causa dello strapotere del Bernini, che lo denigrava e gli sottraeva spazio. Solo Papa Innocenzo X lo preferì al cavaliere Gian Lorenzo ed il periodo del suo pontificato rappresentò per il Borromini il momento più intenso per prestigiose committenze pubbliche. Tra queste la colonnata di Palazzo Spada, una piccola galleria che fu progettata in modo da dare l’impressione, a chi guarda dal cortile, di essere molto profonda, mentre in realtà non raggiunge i nove metri di lunghezza, una sorte di “inganno diabolico” commissionato dal cardinale Bernardino Spada, intellettuale colto e raffinato, molto interessato alla ricerca sulle visioni e sugli inganni ottici.

La morte di Borromini

Quando, con l’elezione di Papa Alessandro VII (1665), l’attività di Bernini riprese il suo passo trionfale, per l’artista ticinese l’umiliazione divenne insostenibile e così, il 2 agosto 1667, all’età di sessantotto anni, si gettò (o fu gettato) sopra una spada e si ferì gravemente, ma non morì subito. Seguì una lenta agonia, durante la quale, assistito da un prete e da un medico, riuscì a raccontare l’episodio per filo e per segno e a dettare il suo testamento.

La modalità violenta e letale dell’atto non era inconsueta per quell’epoca; il ferirsi con la spada, infatti, era proprio una delle più frequenti forme per darsi la morte. Occorre tuttavia ricordare che nella storia del Borromini non sono rinvenibili comportamenti violenti anche se era un uomo scontroso, chiuso in se stesso e con grandi difficoltà a relazionarsi con gli altri, a cui, ad un certo punto, “era entrata addosso l’impazienza”. Gli ultimi anni di vita, in particolare, gli riservarono senza dubbio grandi amarezze, ma gettarsi su una spada, trafiggersi il costato e riuscire a sopravvivere per un intero giorno, sembra un’impresa davvero difficile.

Si trattò davvero di suicidio? O piuttosto fu un “suicidio guidato”? E per conto di chi? Occorre ricordare che Borromini era ricchissimo (possedeva diecimila scudi, una cifra enorme per l’epoca), aveva un nipote che voleva diseredare e tanti nemici, tra cui uno acerrimo, il Bernini appunto. Furono davvero la precaria salute fisica e mentale a portare, irrimediabilmente, il Borromini al suicido? Da Rosso Fiorentino a Van Gogh, passando per Borromini, nella storia dell’arte, così come nella storia degli scandali finanziari, i casi di morti misteriose certo non mancano, non ultima quella consumatasi quella sera del 6 marzo 2013 nella sede della banca più antica del mondo, travolta da uno scandalo finanziario senza precedenti. La vita passata alle dipendenze emotive di altri spesso non lascia soluzione: le personalità dominanti e manipolatrici esercitano violenza psicologica su personalità dipendenti e pronte al collasso: si tratta di una forma sottile e perversa di abuso di una persona sull’altra e di una delle più potenti e distruttive forme di esercizio del potere e del controllo sull’altro.

Psicologia del pianto: il valore delle lacrime, quanto spendiamo per versarle e quanto ci guadagniamo?

Charles Darwin una volta dichiarò che le lacrime emotive sono “senza scopo” e circa 150 anni più tardi, la psicologia del pianto rimane uno dei misteri del corpo umano più contraddittori.

Nausicaa Berselli – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Mihael Trimble, neurologo comportamentale e professore emerito allo University College di Londra, uno dei massimi esperti al mondo di psicologia del pianto, si stava preparando a rilasciare un’intervista in un programma radiofonico della BBC quando l’intervistatrice gli fece una strana domanda: “Come mai alcune persone non piangono per nulla?” Ella spiegò che un suo collega sosteneva di non aver mai pianto; aveva persino invitato il collega a vedere “I Miserabili”, certa che avrebbe versato una o due lacrime, ma i suoi occhi rimasero asciutti. Trimble rimase senza parole. Lui ed una manciata di altri scienziati che studiano il pianto umano tendono a focalizzare le loro ricerche sugli occhi bagnati, non su quelli asciutti; così, prima che iniziasse la messa in onda, decise di istituire un indirizzo email, [email protected], e una volta in onda chiese agli ascoltatori che non piangono mai di contattarlo. In poche ore, Trimble aveva ricevuto centinaia di messaggi (Oaklander, 2016).

 

Psicologia del pianto: il valore adattivo del pianto emozionale

Abbiamo pochissime informazioni a proposito delle persone che non piangono. Infatti ci sono anche molti scienziati che non sanno, o non sono d’accordo, riguardo al fatto che esistano persone che non piangono.

Charles Darwin una volta dichiarò che le lacrime emotive sono “senza scopo” e circa 150 anni più tardi, il pianto emozionale rimane uno dei misteri del corpo umano più contraddittori. Si ritiene che alcune altre specie versino lacrime riflessivamente, come risultato di dolore o irritazione, ma gli umani sono le sole creature le cui lacrime possono essere provocate dai propri sentimenti.

Nei bambini, le lacrime hanno l’ovvio ruolo cruciale di sollecitare l’attenzione e la cura da parte delle figure d’accudimento (Trimble, 2012). Ma che dire degli adulti? La risposta a questo quesito è meno chiara. Hanno tentato di rispondere in uno studio i due scienziati esperti in psicologia del pianto Rotteberg e Vingerhoets (2012), costruendo una narrazione sulle motivazioni del pianto attraverso le varie età e sulle modalità con cui questo viene ad essere sempre più regolato; questo ha permesso di riunire varie ricerche ma anche di individuare le lacune, come il pianto in età adolescenziale o senile, che è stato fortemente trascurato.

E’ ovvio che le forti emozioni causino le lacrime, ma perché? C’è una sorprendente penuria di fatti certi a proposito di un’esperienza umana così fondamentale. Il dubbio scientifico che il pianto abbia qualche reale beneficio oltre a quello fisiologico di lubrificazione degli occhi è persistito per secoli. Oltre a ciò, i ricercatori hanno generalmente focalizzato la loro attenzione più sulle emozioni che sui processi fisiologici che sembrerebbero i loro sottoprodotti: “Gli scienziati non sono interessati alle farfalle nei nostri stomaci, ma all’amore” scrive Ad Vingerhoets (2013), un professore dell’Università di Tiburg nei Paesi Bassi, maggiore esperto al mondo in psicologia del pianto.

Ma il pianto è più di un sintomo di tristezza, come Vingerhoets ed altri stanno mostrando. Esso è stimolato da una gamma di sentimenti, che vanno dall’empatia e dalla sorpresa alla rabbia e all’afflizione e, diversamente da quelle farfalle che svolazzano invisibilmente quando siamo innamorati, le lacrime sono un segnale che gli altri possono vedere. Questa intuizione è centrale nel nuovo pensiero riguardante la psicologia del pianto.

Darwin non era l’unico con opinioni ferme riguardanti il perché gli uomini piangano. Secondo alcuni studi, le persone hanno fatto congetture sull’origine delle lacrime e sul perché gli uomini le versino sin dal 1500 a.C. circa. Per secoli le persone hanno pensato che le lacrime si originassero dal cuore; l’Antico Testamento descrive le lacrime come il risultato di quando il materiale del cuore si indebolisce e si trasforma in acqua. Più tardi, ai tempi di Ippocrate, si pensava che la mente scatenasse le lacrime. La teoria prevalente nel 1600 sosteneva che le emozioni, in particolar modo l’amore, riscaldassero il cuore, che generava vapore acqueo al fine di raffreddarsi. Il vapore del cuore sarebbe poi risalito alla testa, condensandosi vicino agli occhi ed uscendo sotto forma di lacrime (Vingerhoets, 2001).

Infine, nel 1662, uno scienziato Danese di nome Niels Stensen scoprì che la ghiandola lacrimale era il corretto punto di origine delle lacrime. Fu il momento in cui gli scienziati iniziarono a scartare l’ipotesi che le lacrime possedessero un possibile beneficio evolutivo. Secondo la teoria di Stensen le lacrime erano semplicemente un modo per tenere l’occhio umido (Vangerhoets, 2001).

 

Perché piangiamo? Diverse teorie a confronto

Pochi scienziati hanno devoluto i propri studi a cercare di scoprire perché gli uomini piangano, ma quelli che lo hanno fatto non sono concordi. Nel suo libro, Vingerhoets (2001) elenca otto teorie in competizione tra loro. Alcune sono assolutamente ridicole, come la visione degli anni ’60 secondo cui gli umani si sono evoluti da scimmie marine e le lacrime ci avrebbero quindi aiutato in passato a vivere nell’acqua salata. Altre teorie persistono nonostante la mancanza di prove, come l’idea divulgata dal biochimico William Frey nel 1985, secondo cui il pianto rimuove le sostanze tossiche che si sviluppano durante i periodi di stress dal sangue.

Sta crescendo l’evidenza a supporto di alcune nuove e più plausibili teorie. Una di queste sostiene che le lacrime inneschino il legame sociale e la connessione umana. Mentre la maggior parte degli animali nasce completamente formata, gli umani vengono al mondo vulnerabili e fisicamente non equipaggiati per affrontare qualcosa da soli. Anche se diveniamo fisicamente ed emotivamente più capaci durante la maturazione, gli adulti non invecchiano mai abbastanza per evitare l’incontro occasionale con l’impotenza. “Il pianto segnala a se stessi o ad altre persone che c’è qualche importante problema che è almeno temporaneamente oltre la propria abilità di affrontarlo” spiega Jonathan Rottenberg (2012), un ricercatore sulle emozioni e professore di psicologia all’Università della Florida del Sud.

I ricercatori nell’ambito della psicologia del pianto hanno anche trovato alcune evidenze del fatto che le lacrime derivate da emozioni sono chimicamente differenti da quelle che le persone versano quando ad esempio tagliano le cipolle (il che può aiutare a spiegare perché il pianto invii un segnale emotivo così forte agli altri). In aggiunta ad enzimi, lipidi, metaboliti ed elettroliti che formano le lacrime, quelle provocate dalle emozioni contengono più proteine (Stuchell, Feldman, Farris, Mandel, 1984). Un’ipotesi è che il contenuto maggiormente proteico renda tali lacrime più viscose, così che esse si appiccichino alla pelle in modo più tenace e scendano sulla faccia più lentamente, rendendole con più probabilità visibili agli altri.

Le lacrime mostrano anche agli altri che siamo vulnerabili, e la vulnerabilità è critica per la connessione umana. Le stesse aree neuronali che sono innescate dal vedere qualcuno emotivamente attivato sono le stesse che si innescano quando ci stiamo a nostra volta attivando emotivamente (Trimble, 2012). Ci deve essere stato qualche momento nella storia, evolutivamente, in cui le lacrime sono diventate qualcosa che automaticamente avviava l’empatia e la compassione negli altri. In effetti essere capaci di pianto emotivo ed essere capaci di rispondere ad esso, sono una parte molto importante dell’essere umano.

Una teoria meno commovente si focalizza sull’utilità del pianto nel manipolare gli altri. Noi impariamo presto che il pianto possiede questo reale potente effetto sulle altre persone. Esso può neutralizzare la rabbia in modo molto potente, e questa è in parte la ragione per cui si ritiene che le lacrime siano così essenziali nelle liti tra gli innamorati, in particolare quando qualcuno si sente in colpa e vuole il perdono da parte dell’altra persona. (Vangerhoets, Bylsma, Rottenberg, 2009).

Un piccolo studio sulla rivista “Science” (Gelstein, Yaara, Liron, Sagit, Idan, Yehudah, Sobel, 2011) suggeriva che le lacrime delle donne contenessero una sostanza che inibiva l’eccitazione sessuale degli uomini.  “Non voglio fingere di essere sorpreso che esso abbia generato titoli scorretti” – riferisce Noam Sobel, uno degli autori dello studio e professore di neurobiologia all’Istituto di Scienze Weizmann in Israele – “Le lacrime potrebbero ridurre l’eccitazione sessuale ma il fatto più importante – lui pensa –è che esse potrebbero ridurre l’aggressività”. Cosa, quest’ultima, che lo studio non ha indagato. Le lacrime degli uomini potrebbero avere lo stesso effetto. Lui ed il suo gruppo stanno attualmente studiando le più di 160 molecole presenti nelle lacrime per vedere se ce n’è una responsabile.

 

Perché alcune persone non piangono?

Cosa tutto ciò significhi per le persone che non piangono è una domanda a cui i ricercatori si stanno ora rivolgendo. Se le lacrime sono così importanti per il legame umano, forse le persone che non piangono mai sono meno socialmente connesse? Questo è quello che la ricerca preliminare sta scoprendo, in accordo con lo psicologo clinico Cord Benecke (2009), un professore dell’Università di Kassel in Germania. Egli ha condotto interviste a 120 individui e si è concentrato nel cercare di scoprire se le persone che non piangono fossero differenti da quelle che lo fanno. Ha così scoperto che le persone che non piangono avevano la tendenza ad isolarsi e descrivevano le loro relazioni come meno connesse. Essi esperivano anche più sentimenti aggressivi negativi, come collera, rabbia e disgusto, rispetto alle persone che piangevano.

Ulteriori ricerche sono necessarie per determinare se le persone che non piangono siano realmente differenti dalle altre, ed alcune si svolgeranno a breve: le persone che hanno ascoltato Trimble alla radio inviandogli un’email quella mattina del 2103 sono ora i soggetti del primo studio scientifico sulle persone con tale tendenza.

Virtualmente non esiste evidenza del fatto che il pianto presupponga qualche effetto positivo sulla salute. Un’analisi ha esaminato gli articoli riguardanti il pianto nei mezzi di comunicazione e ha trovato che il 94% lo descriveva come positivo per la mente ed il corpo e sosteneva che trattenere le lacrime avrebbe avuto l’effetto opposto. “E’ una sorta di favola” dice Rottenberg. “Non c’è realmente nessuna ricerca che supporti ciò” (Oaklander, 2016).

E’ esagerata anche l’idea che il pianto sia sempre seguito da sollievo. “C’è l’aspettativa che ci sentiamo meglio dopo aver pianto“, sostiene Randy Cornelius (2001), professore di psicologia del Vassar College. “Ma il lavoro che è stato fatto riguardo l’argomento indica che, semmai, noi non ci sentiamo bene dopo aver pianto“. Quando i ricercatori mostrano alle persone un filmato triste in un laboratorio e poi misurano il loro umore immediatamente dopo, coloro che piangono possiedono un umore peggiore rispetto a quelli che non lo fanno.

Ma un’altra evidenza riporta la nozione del cosiddetto “pianto catartico” (Bylsma, Vingerhoets, Rottenberg, 2008). Uno dei fattori più importanti che sembra dare effetti positivi al pianto, in particolare un senso di liberazione, è la presenza di un lasso di tempo sufficiente per assimilare l’evento. Quando Vingerhoets e i suoi colleghi (Gracarin, A., Vingerhoets, Kardum, Zupcic, Santek, Simic, 2015) hanno mostrato alle persone un racconto strappalacrime e hanno misurato il loro umore 90 minuti dopo anziché subito dopo il filmato, le persone che avevano pianto erano in uno stato d’animo migliore rispetto a quello che avevano prima del filmato. Una volta che i benefici del pianto si instaurano, spiega, esso può essere una via efficace per riprendersi da un forte attacco emotivo.

La ricerca moderna nell’ambito della psicologia del pianto è ancora agli esordi, ma i misteri delle lacrime, e la recente evidenza che esse sono molto più importanti di quanto gli scienziati credessero una volta, conduce Vingerhoets e la piccola squadra di ricercatori in psicologia del pianto a perseverare. “Le lacrime sono di estrema rilevanza per la natura umana“- dice Vingerhoets – Noi piangiamo perché abbiamo bisogno delle altre persone. Quindi Darwin – afferma con una risata – si sbagliava completamente” (Oaklander, 2016).

L’intervento psicologico nelle malattie croniche e degenerative

Dal tradizionale modello biomedico si è passato ad una concettualizzazione più complessa delle malattie croniche: esse hanno, infatti, un decorso progressivo determinato da una molteplicità di fattori, non solo medici ma anche psico-sociali. 

 

Negli ultimi 50 anni è andata progressivamente a modificarsi la natura delle patologie mediche. Il tradizionale modello biomedico era centrato sull’intervento rivolto alla malattia acuta caratterizzata da decorso lineare.

Ora, per via dell’aumento dell’aspettativa di vita della popolazione e anche della maggiore incidenza di malattie croniche, si è passato ad una concettualizzazione più complessa. Le malattie croniche e degenerative hanno, infatti, un decorso progressivo determinato da una molteplicità di fattori, non solo medici ma anche psico-sociali.

 

Le implicazioni psicologiche dell’ammalarsi

Dal punto di vista psicologico, l’ammalarsi comporta un cambiamento radicale rispetto alla vita conosciuta fino a quel momento, imponendo di conseguenza la ricerca di un nuovo significato di se stessi e della vita.

La malattia scandisce la vita quotidiana e necessita di un adattamento alla nuova condizione. Chi si ammala deve necessariamente ridimensionare le proprie abitudini e le aspettative sul futuro, deve riformulare la propria identità e modificare il proprio ruolo sociale.

Da molti anni la ricerca ha dimostrato come, tra le persone che soffrono di patologie fisiche, sia frequente l’incidenza di condizioni psicopatologiche. Ciò non solo comporta un sensibile peggioramento della qualità di vita del paziente, ma incide anche sull’aderenza alle cure, sugli esiti della riabilitazione, aumenta il rischio di mortalità e di richieste di prestazioni assistenziali.

Le  risposte  emotive, cognitive e comportamentali ai marcati cambiamenti esistenziali imposti dalle malattie croniche hanno valenze molto articolate. Queste possono trovare espressione in diverse forme di sofferenza psichica, alcune delle quali assumono i caratteri di veri e propri quadri psicopatologici.

Spesso, chi vive l’esperienza della malattia, manifesta depressione, ansia, elevato stress che rendono più difficoltoso affrontare la nuova condizione di vita ed il decorso della malattia.

 

L’importanza e le finalità dell’intervento psicologico nelle malattie croniche

Sono sempre più numerose le evidenze scientifiche, molte delle quali condotte in ambito oncologico, in merito all’efficacia e all’utilità dei trattamenti psicologici rivolti a persone affette da patologie croniche e degenerative.

L’intervento rivolto alla persona che si ammala inizia sempre da un’attenta valutazione della situazione psicologica, del grado di consapevolezza di malattia e delle risorse del paziente.

L’obiettivo principale è quello di offrire trattamenti specifici lungo l’intero decorso della malattia e nei momenti particolarmente complessi.

Dalla diagnosi alla terapia, alla sospensione delle cure e alla guarigione, il fine dell’intervento psicologico è quello di:

  • Contenere i sintomi di sofferenza sia psicologica che psicopatologica;
  • Modificare comportamenti a rischio che potrebbero influenzare negativamente le condizioni psicofisiche generali (come assunzione di alcol, disturbi del comportamento alimentare);
  • Favorire il processo di accettazione e di adattamento alla nuova condizione di vita;
  • Favorire l’aderenza ai piani di cura;
  • Favorire la partecipazione attiva del paziente al piano di cura e alla sua vita, aiutandolo a ricostruire un senso dell’esperienza e ad adottare modalità più funzionali di essere ed agire.

 

L’ipotesi di un intervento psicologico domiciliare

Con l’aumento delle malattie croniche, la qualità di vita e il come questa è percepita dal paziente hanno acquisito un ruolo centrale in ambito sanitario.

Gli interventi di tipo psicologico sono ormai parte integrante del progetto di cura. La maggior parte degli interventi terapeutici sono di natura individuale. Vi sono, poi, anche efficaci interventi di gruppo. La totalità dell’offerta psicologica avviene in ambito ospedaliero e ambulatoriale.

Si ritiene che potrebbe essere molto utile attivare interventi psicologici in ambito domiciliare, attualmente previsti solo per le patologie in fase terminale. A volte la risposta alla diagnosi o al processo di cura può essere fortemente disfunzionale, portando il paziente a rifiutare o a evitare il contatto con i medici curanti. La reazione psicologica agli eventi può essere invalidante, con una sintomatologia ansiosa e depressiva marcata. Ciò comporta notevoli rischi rispetto al peggioramento della condizione medica del paziente e all’incolumità dello stesso.

In questi casi potrebbe essere utile un intervento all’interno del setting domiciliare che aiuti la persona a contenere la sofferenza psicologica e a riattivare le risorse necessarie a fronteggiare gli eventi.

L’intervento psicologico a domicilio dovrebbe essere mirato e di breve durata, proprio al fine di restituire al paziente la propria capacità decisionale e un senso di responsabilità verso di sé.

Una volta raggiunti gli obiettivi,  qualora sia necessario, il percorso potrà essere proseguito in ambito ambulatoriale.

 

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Disturbo da insonnia: quando l’ansia ne è la causa e contribuisce ad alimentarlo

In caso di Disturbo da Insonnia ci si trova di fronte a frequenti episodi in cui il soggetto sperimenta un sonno insufficiente o di scarsa qualità. Vi è difficoltà a prendere sonno o a mantenerlo durante l’intera notte, nonostante vi siano tutte le condizioni favorevoli a poter dormire.

 

Immaginiamo che sia notte. Siamo a letto, ma svegli. Continuiamo a rigirarci, tentando di trovare la giusta posizione che ci permetta di prender sonno, ma invano. Le ore passano, si è ancora svegli, si guarda il soffitto. Ci si annoia, si pensa, ci si alza dal letto tanto per far qualcosa. La stanchezza aumenta ma non ci si addormenta.

Sicuramente sono molti gli individui che hanno trascorso almeno una notte della propria vita in queste condizioni. Non riuscire a chiudere occhio nonostante la spossatezza.

Fintanto che tali episodi restino sporadici non vi è da preoccuparsi. Ma qualora divengano abituali si può parlare di disturbo da insonnia.

In questo caso ci si trova  di fronte a frequenti episodi in cui il soggetto sperimenta un sonno insufficiente o di scarsa qualità. Vi è difficoltà a prendere sonno o a mantenerlo durante l’intera notte, nonostante vi siano tutte le condizioni favorevoli a poter dormire (Marzano, Corrias).

Le statistiche affermano che circa il 30% della popolazione occidentale soffre del disturbo da insonnia,  uomini e donne in egual misura; è un problema che può presentarsi a qualsiasi età (Cricelli e all., 2010).

 

Le cause del disturbo da insonnia

L’insonnia può avere diverse cause, tuttavia vi sono soggetti più a rischio rispetto ad altri. In particolare le persone maggiormente predisposte sono quelle che attraversano un periodo stressante e che esperiscono delle condizioni ambientali poco favorevoli.

Sicuramente un evento stressante, come ad esempio un lutto, un problema professionale o relazionale può provocare un insonnia di tipo temporaneo, la quale però non deve essere sottovalutata; questo perché anche i disturbi occasionali del sonno, se non trattati adeguatamente, possono divenire cronici.

Un modello eziologico dell’insonnia, elaborato da Spielman (1987) identifica tre fattori responsabili dello sviluppo del disturbo:

  • I fattori Predisponenti;
  • I fattori Precipitanti;
  • I fattori Perpetuanti.

I fattori Predisponenti sono quelli in base ai quali alcune persone hanno una predisposizione maggiore rispetto ad altri a sviluppare insonnia. Potrebbe trattarsi di alcuni dei contesti stressanti sopracitati oppure di alcune caratteristiche individuali, come ad esempio l’essere iper – vigili o ansiosi. Perché infatti l’ansia, affiancata ad episodi di rimuginio e ruminazione, contribuisce a stimolare i meccanismi che promuovono la veglia, ostacolando di conseguenza il sonno.

I fattori Precipitanti determinano l’insorgenza vera e propria del disturbo da insonnia. Si tratta di quegli elementi che in un certo senso vanno ad aggravare la predisposizione del soggetto a non dormire; potrebbe ad esempio trattarsi di qualche episodio specifico, come il verificarsi di un evento ingestibile, l’accentuarsi di problemi lavorativi, relazionali, di salute, o la presenza di preoccupazioni.

Con un quadro del genere, l’insonnia non è altro che l’esito di uno stress eccessivo, dove le preoccupazioni, l’ansia e l’emotività del soggetto contribuiscono ad alimentare il problema.

Il disturbo da insonnia è mantenuto nel tempo dai fattori Perpetuanti. Questi ultimi non sono altro che comportamenti disfunzionali messi in atto da parte del soggetto per riuscire a dormire. Alla base di essi vi è però un’ansia che tiene in vita il disturbo, impedendo al contempo di debellarlo.

La persona con un’insonnia cronica pensa, rimugina sul suo stato e sul danno che il non dormire potrebbe arrecare. Tenta in tutti i modi di trovare una soluzione che possa consentirgli di dormire adeguatamente, al contempo si preoccupa delle possibili ripercussioni a cui potrebbero condurre le poche ore di sonno in quei momenti in cui sarebbe necessario essere riposati e concentrati.

L’ansia generata dal timore di non dormire alimenta l’insonnia che, a sua volta, aggiunge ulteriore ansia aumentando l’arousal e generando un circolo vizioso che renderà ancora più difficile il dormire (Marzano, Corrias).

Tutto ciò potrebbe proseguire all’infinito con la produzione di altri pensieri disfunzionali e la messa in atto di comportamenti compensativi errati i quali a loro volta incrementano il disturbo.

I pensieri sono all’origine delle emozioni e dei comportamenti. In questo caso si tratta di distorsioni cognitive, in quanto causano emozioni negative e rappresentano modi attraverso cui la mente umana si convince di qualcosa, a prescindere che sia vero oppure no (Palagini e all, 2012).

Per rendere questi pensieri più funzionali è necessario modificarli, e ciò sarà possibile mediante la psicoterapia cognitivo – comportamentale, la quale annovera tra i suoi obiettivi primari proprio la trasformazione delle credenze disfunzionali per favorire il benessere della persona.

In questo caso, una volta accertato che alla base del disturbo da insonnia vi sia un’ansia che quale ostacola la serenità della persona, impedendo al contempo il riposo di cui l’organismo ha bisogno, sarà possibile intervenire su pensieri ed emozioni sgradevoli che il soggetto sperimenta.

Anche l’addormentarsi, che all’apparenza sembra un’attività banale, potrebbe richiedere delle difficoltà. Spesso andrebbero affrontate e gestite le proprie emozioni negative al fine di poter riposare adeguatamente.

Utilizzo della cannabis per uso terapeutico nelle epilessie farmaco-resistenti: l’individuazione di una nuova molecola con attività antiepilettica

Lo studio, di cui il Dr. Pierangelo Cifelli è primo co-autore, indica come la somministrazione controllata di cannabis in un paziente fortemente farmaco-resistente sia stata in grado di ridurre in maniera significativa il numero e la gravità delle crisi epilettiche, migliorando altresì la performance cognitiva, e questo senza effetti collaterali.

Lo studio è stato pubblicato su “Epilepsia Open”, rivista ufficiale della International League Against Epilepsy, uno studio traslazionale frutto di una collaborazione tra Fondazione Ri.MED, Policlinico Umberto I di Roma, Università “La Sapienza” e Università di Amsterdam*.

Lo studio, di cui il Dr. Pierangelo Cifelli è primo co-autore, indica come la somministrazione controllata di cannabis in un paziente fortemente farmaco-resistente sia stata in grado di ridurre in maniera significativa il numero e la gravità delle crisi epilettiche, migliorando altresì la performance cognitiva, e questo senza effetti collaterali. Partendo dall’osservazione clinica di un paziente è stata in seguito individuata in laboratorio la molecola “cannabidivarina” e il suo possibile meccanismo d’azione.

L’epilessia

L’epilessia è una condizione patologica caratterizzata da una anormale attività elettrica del sistema nervoso centrale. Le crisi epilettiche possono risolversi spontaneamente entro pochi minuti, ma a volte si ripetono ad intervalli ravvicinati, dando luogo ad una condizione definita di male epilettico, che richiede – soprattutto quando le crisi sono di tipo convulsivo – un approccio terapeutico immediato. Nelle situazioni più gravi può rendersi necessario il ricovero e il trattamento in regime di rianimazione. Nonostante negli ultimi anni le possibilità di terapia farmacologica siano aumentate, circa il 30% di questi pazienti risulta essere farmaco-resistente: per loro l’unico approccio possibile è quello chirurgico, con la rimozione del focus epilettogeno, ma si tratta di un intervento effettuabile solo in casi selezionati.

Il caso clinico

Il caso clinico descritto nello studio riguarda un ragazzo affetto da una forma molto grave di epilessia (encefalopatia epilettica) con decine di crisi epilettiche al giorno. Nessuna terapia farmacologica riesce a risolvere la condizione, per cui il paziente si sottopone ad intervento chirurgico, senza però ottenere beneficio. I genitori del ragazzo decidono, in maniera indipendente, di provare a somministrare cannabis sotto forma di tisana come ultima terapia possibile. Nel giro di 4 giorni la condizione clinica del paziente evidenzia una significativa riduzione delle crisi epilettiche e un miglioramento delle perfomance cognitive. Presso il reparto di epilettologia del Policlinico Umberto I vengono quindi effettuati i test per valutare le concentrazioni ematiche di diversi cannabinoidi, un’accurata valutazione elettroencefalografica e i test cognitivi. I risultati ematici mettono in evidenza un cannabinoide ancora poco conosciuto e studiato, la cannabidivarina.

[blockquote style=”1″]Dall’osservazione clinica siamo passati alla fase sperimentale, riuscendo a mettere in evidenza un nuovo meccanismo di azione relativo alla cannabidivarina. Nello specifico, abbiamo dimostrato come questa molecola, priva di effetti psicoattivi, sia in grado di modulare la risposta GABAergica mediata dai recettori GABAa. I risultati di questo studio aprono interessanti prospettive. E’ importante proseguire le ricerche sui potenziali terapeutici dei fitocannabinoidi, in modo da colmare il gap scientifico degli ultimi 40 anni[/blockquote] spiega il dott. Cifelli.

Grazie ad un accordo tra Ri.MED e l’Università La Sapienza, il Dr. Cifelli svolge attualmente la propria ricerca presso il Dipartimento di Fisiologia e Farmacologia diretto dalla Prof.ssa Palma, dove sono già in cantiere ulteriori progetti: [blockquote style=”1″]Intendiamo studiare le interazioni tra farmaci antiepilettici e fitocannabinoidi e il loro possibile utilizzo nelle epilessie infantili fortemente farmaco resistenti. La ricerca è la base per cercare di elucidare i meccanismi di queste molecole, di guidare lo sviluppo di una terapia completa, basata su più farmaci; dovremo inoltre verificare i risultati su un campione di pazienti significativo: una strada percorribile solo grazie alla collaborazione tra ricerca di base e clinica.[/blockquote]

Parole che premiano l’approccio traslazionale promosso dalla Fondazione Ri.MED: un modello gestionale pubblico-privato che supporta il collegamento tra enti di diversa natura, tra Italia ed estero e tra laboratorio e pazienti. Grazie a partner quali l’Università di Pittsburgh, UPMC e CNR, alle strategiche collaborazioni internazionali e alla selezione dei più promettenti ricercatori, la Fondazione Ri.MED sta iniziando, ancor prima dell’apertura del proprio centro di ricerca in Sicilia, a produrre proprietà intellettuale, brevetti e vere e proprie rivoluzioni nella traslazione clinica dei risultati scientifici.

 

 

Coscienza e inconscio tra neuroscienze e cognitivismo

Fascino e controversie, sull’onda di una ricerca che da secoli divide e sollecita continuamente nuove domande: la coscienza è da sempre oggetto di studio in molteplici ambiti, dalla filosofia alla psicologia, fino alle neuroscienze e alla scienza cognitiva.

 

Valentina Carnevali – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

La coscienza è l’ultima e la più tardiva evoluzione della vita organica, 

e di conseguenza è ciò che vi è di meno compiuto e più fragile

F. Nietzsche

 

Fascino e controversie, sull’onda di una ricerca che da secoli divide e sollecita continuamente nuove domande: la coscienza è da sempre oggetto di studio in molteplici ambiti, dalla filosofia alla psicologia, fino alle neuroscienze e alla scienza cognitiva. Per secoli l’uomo ha cercato di trovare un significato a quella parte di sé più peculiare e a tratti impenetrabile, per secoli esclusa dalle speculazioni scientifiche e infine accolta e studiata con lenti oggi nuove.

Il concetto di coscienza, spesso riferito a processi e contenuti mentali molto diversi tra loro, allude quindi a realtà apparentemente sfuggenti e difficilmente individuabili. Quando poi si guarda all’altro lato della sua complessità, ovvero la non consapevolezza o, per alcuni, l’inconscio, le controversie aumentano, così come il fascino che tali processi esercitano su studiosi e scienziati da oltre un secolo.

 

La coscienza tra filosofia e scienza: breve quadro introduttivo

In ambito filosofico il dualismo cartesiano mente/corpo ha relegato a lungo il mentale a una dimensione ontologica, impedendo che divenisse oggetto di studio da parte delle scienze naturali.

L’idea secondo cui l’uomo sarebbe costituito da due sostanze ontologicamente distinte, la rex extensa, ovvero la materia, dotata di estensione spaziale e di cui fanno parte i corpi (quindi anche il cervello) e la rex cogitans, sostanza inestesa dotata dell’attributo del pensiero, ha di fatto rallentato, se non impedito, lo studio della coscienza come fenomeno riducibile a eventi fisici. Nell’opera di Cartesio, infatti, la coscienza non può nascere dalla materia perché rex extensa e rex cogitans, diverse nella sostanza e regolate da principi differenti, non possono essere ricondotte l’una all’altra, né possono essere spiegate l’una con l’altra. Di conseguenza, nella visione cartesiana e nelle varianti neo-cartesiane, gli stati coscienti della mente non corrispondono agli stati fisici del cervello. I contenuti di coscienza non sono quindi esplorabili con gli strumenti propri delle scienze naturali, ma solo seguendo la metodologia soggettiva dello “sguardo interiore” (cifra interpretativa che di fatto decreta l’impossibilità dello studio scientifico della coscienza).

Le correnti di pensiero filosofico che delegittimano lo studio della coscienza rifiutandone le prerogative causali (epifenomenismo) o addirittura negandone l’esistenza (eliminativismo) contestano poi qualsiasi validità degli studi empirici sull’argomento (Smith-Chuurchland, 1986). Nel materialismo eliminativista il concetto di coscienza viene rifiutato perché le nostre esperienze fenomeniche (dette anche qualia) non si riferirebbero a una realtà esterna, valutabile oggettivamente, ma sarebbero il prodotto illusorio di resoconti soggettivi (Dennet, 1991). Secondo questa corrente di pensiero, quindi, la ricerca empirica non troverà mai le basi neurali dell’esperienza soggettiva perché di fatto l’esperienza soggettiva non si riferisce a nessuna realtà sostanziale.

Quando all’inzio del ‘900 il mentalismo cartesiano e il dominio della coscienza si iniziarono a scontrare con fenomeni inconsci quali la grande isteria convulsiva, la fuga dissociativa, l’amnesia psicogena e il disturbo di personalità multiple (che sembravano esibire una natura mentale ma al tempo stesso trascendevano la sfera della consapevolezza), lo sconcerto di filosofi, psicologi e neuroscienziati si delineò con forza. Al fine di riconciliare l’esistenza di fenomeni mentali apparentemente inconsci con una visione coscienzialistica della mente, si misero a punto due strategie (Livingstone-Smith, 1999): alcuni studiosi negarono che si avesse a che fare con fenomeni realmente insconsci, definendoli piuttosto come casi in cui si era verificata una dissociazione o scissione della coscienza (teorie dissociazioniste), mentre altri negarono che i fenomeni in questione fossero autenticamente mentali, descrivendoli come disposizioni neurofisiologiche (teorie disposizioniste).

Anche in epoca moderna lo studio della coscienza non è stato sempre accettato e condiviso dagli studiosi di campi comunque coinvolti nelle ricerche sulla psiche. In ambito psicologico, l’approccio ancora soggettivo del metodo introspettivo proposto dalla Scuola di Wundt (1896) è stato bandito infatti dalla ricerca psicologica con l’avvento del Comportamentismo che, spinto da una necessità estrema di oggettivizzazione degli studi, respinge l’indagine privata di contenuti di coscienza perché non documentabile e quantificabile con le tecniche proprie degli studi di laboratorio.

 

Coscienza e neuropsicologia

Tuttavia, anche se bandito dagli studi psicologici per un lungo periodo del secolo scorso, il problema di cosa sia la coscienza ha finito per imporsi in ambito neuropsicologico, in cui la ricerca attenta e sistematica dei disturbi cognitivi provocati dalle lesioni cerebrali ha cominciato a suscitare interesse.

A partire dagli anni ’80 del XX secolo la coscienza ha così conquistato una propria dignità scientifica, in particolare all’interno delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia. In particolare, in questi anni incominciano ad essere studiati e pubblicati casi di pazienti con lesioni cerebrali che presentano dei disturbi di consapevolezza motoria o spaziale apparentemente inspiegabili in base alla nozione di coscienza adottata dal senso comune. Si tratta di soggetti che, nonostante abbiano perso la capacità di movimento di una metà del corpo (emiplegia) o la capacità di percepire e concepire una metà dello spazio esterno (negligenza spaziale), si comportano come se non ne fossero consapevoli (anosognosia) (Berti et al., 2014). Nel corso dei decenni sono state così portate alla luce numerose patologie della coscienza, quali il blindsight o visione cieca (Weiskrantz, 1986), la emisomatoagnosia (Bisiach, 1999), la sindrome della mano aliena (Biran e Chatterjee, 2004), l’embodiment (Garbarini et al., 2013) e la somatoparafrenia.

Ciò che accomuna queste sindromi neuropsicologiche è il fatto di mostrare l’esistenza di disturbi della sfera della coscienza circoscritti all’interno di specifiche dimensioni cognitive (per esempio quella visiva, motoria o corporea), con network neuronali dedicati, rivelando che il concetto di coscienza alla base del sé non è unitario, ma multicomponenziale o modulare.

Inizia a emergere così l’idea, in contrasto col senso comune che reputa la coscienza come dotata di una struttura unitaria e indivisibile, di molteplici coscienze distribuite ed emergenti ciascuna all’interno di una diversa funzione cognitiva: una lesione cerebrale circoscritta può quindi danneggiare la consapevolezza relativa a un certo processo senso-motorio, senza intaccare la coscienza per altri processi paralleli e concomitanti. Il senso di sé potrebbe dunque configurarsi proprio come il risultato dell’integrazione di queste diverse “coscienze parziali”.

Una sensazione così radicata della nostra autocoscienza, come il fatto che il nostro corpo è uno e sempre lo stesso, che si muove intenzionalmente in forza di questo senso di unicità e che abita uno spazio soggettivamente percepito come unico, in realtà non ha quindi una struttura unitaria e indivisibile, ma è il risultato di rappresentazioni multiple a livello spaziale e senso-motorio, che possono essere alterate in modo autonomo per effetto di lesioni cerebrali circoscritte.

Ecco che dunque i paradigmi della scienza cognitiva dei processi di elaborazione dell’informazione risultano particolarmente indicati per mettere in luce un modello multicomponenziale della mente, che ben si adatta ad essere lesionato in modo circoscritto. Su questo tema si interrogano in un articolo Vittorio Gallese e Francesca Ferri (2014): gli autori discutono la possibilità che alla base dei disturbi dissociativi schizofrenici ci possa essere una alterazione del senso di sé corporeo e agente (predisposizione all’azione), una forma di distacco del sé dalle sue basi corporee somatosensoriali e motorie che porterebbe anche all’impossibilità dell’interazione sociale. Questa ipotesi sarebbe corroborata anche dai dati di diverse ricerche che dimostrano una alterazione delle rappresentazioni somatosensoriali (deficit di riconoscimento di proprie parti del corpo), motorie (deficit nel discriminare se movimenti osservati sono propri o altrui) e dolorifiche (riduzione della percezione dolorifica) nei pazienti schizofrenici.

Un’architettura neurocomputazionale compatibile col modello modulare della coscienza è quella del Global Workspace Theory – GWT – (Baars, 1997), che introduce anche il concetto di inconscio. In questa architettura il ruolo della coscienza è quello di facilitare lo scambio di informazioni tra processi cognitivi inconsci, specializzati e paralleli. Più recentemente questa teoria è entrata in simbiosi con la neuroscienza cognitiva soprattutto per merito di Dehaene e collaboratori (Dehaene e Naccache, 2011; Deahene e Changeux, 2004; Gaillard et al., 2009). Secondo questi ricercatori, nel cervello sono presenti due spazi computazionali, ognuno caratterizzato da una diversa trama di connettività.

Il primo spazio è costituito da sottosistemi di elaborazione ipotizzati dalla GWT, ognuno dei quali è specializzato nel trattare un particolare tipo di informazione (per esempio, nella corteccia occipito-temporale l’elaborazione del colore ha luogo in V4, l’elaborazione del movimento in MT/V5, l’elaborazione dei volti nell’area fusiforme delle facce…). L’operare di questi elaboratori modulari si avvale di connessioni locali limitate di medio raggio. Il secondo spazio è la spazio di lavoro globale neuronale (per cui ora si parla di una Global Neuronal Workspace Theory, GNWT): esso è costituito da neuroni distribuiti, tenuti assieme da connessioni di lunga distanza, particolarmente densi nell’area prefrontale, nel cingolato e nelle regioni parietali. L’ingresso dell’informazione in questo spazio di lavoro sarebbe il correlato neuronale dell’accesso alla coscienza.

Questo modello ha ricevuto una serie di importanti conferme sperimentali. In uno studio fRMI, Dehaene et al. (2006) hanno utilizzato il paradigma del priming di mascheramento per porre a confronto l’elaborazione lessicale inconscia con quella cosciente. Una parola veniva proiettata su uno schermo per poche decine di millisecondi, subito seguita da un’altra immagine (la maschera), che impediva al soggetto di percepire la parola a livello conscio. In genere, la parola diviene cosciente quando l’intervallo tra essa e la maschera è di circa 50 ms. I risultati hanno mostrato che le parole mascherate (inconsce) hanno indotto un’attività locale nelle parti della corteccia visiva deputate al riconoscimento di parole, mentre le parole visibili (coscienti) hanno generato un’intensa attività anche nei lobi parietale e frontale. Dunque, in accordo alla GNWT, l’elaborazione cosciente di informazioni recluta risorse cerebrali fortemente distribuite, mentre l’elaborazione inconscia è più localizzata.

 

Inconscio cognitivo (1): processi di elaborazione non consapevoli

Ad oggi le neuroscienze hanno dimostrato pertanto anche l’esistenza di numerosi processi neurali responsabili di stati non accessibili alla coscienza: è questa una prima concettualizzazione dell’ ”inconscio cognitivo”, ovvero quella parte del funzionamento mentale che è inconscia non perché è stata rimossa (come concettualizzato dalla Teoria Psicoanalitica), ma perché non è mai stata conosciuta, e quindi non sarà né potrà mai essere ricordata. Fanno parte di questo inconscio tutti quei processi cognitivi che avvengono in modo “covert” e non raggiungono l’elaborazione corticale consapevole.

Berlin (2011), in una ricca review che indaga il rapporto tra inconscio e relative basi neurali, descrive una grande varietà di stati inconsci riscontrabili a livello cognitivo, tra cui:

  • Percezione subliminale, in cui lo stimolo è al di sotto della soglia e quindi troppo debole per produrre l’esperienza cosciente;
  • Mascheramento, in cui anche un forte stimolo può inizialmente eccitare le aree visive ma l’interferenza in una fase successiva di elaborazione impedisce l’esperienza cosciente;
  • Visione cieca, in cui le vie sottocorticali possono portare alla rappresentazione inconscia di uno stimolo;
  • Neglect;
  • Rivalità binoculare, in cui uno stimolo presentato ad un occhio inibisce il processamento di uno stimolo presentato all’altro occhio;
  • Crowding, in cui i campi di integrazione spaziale nella periferia sono troppo grandi per isolare un singolo oggetto, e così rappresentazioni di proprietà di oggetti diversi interferiscono uno con l’altro (Pelli e Tillman, 2008).

Inoltre, i dati di ricerca mostrano che anche processi motivazionali ed affettivi possono verificarsi al di fuori della consapevolezza, andando a confermare alcune intuizioni di Freud ed evidenziando che l’attività mentale è radicata in sistemi motivazionali ed emozionali filogeneticamente antichi, capaci di influenzare la sviluppo della mente (LeDoux, 1998a; Panksepp, 1988; Pfaff, 1999) e di operare al di fuori della piena consapevolezza.

Una recente review (Custers e Aarts, 2010) raccoglie infatti gli studi che mostrano come anche obiettivi e motivazioni possono operare al di fuori della coscienza (un fenomeno che chiamano “unconscious will”). I risultati evidenziano che in certe circostanze le azioni possono essere iniziate senza che il soggetto sia consapevole dell’obiettivo finale.

Studi sugli aspetti inconsapevoli delle emozioni dimostrano poi che le persone possono sperimentare stati emotivi e agire di conseguenza senza esserne consapevoli (possono quindi provare qualcosa senza sapere che la stanno provando). I dati sperimentali dimostrano infatti che il processamento emotivo ha inizio al di fuori della consapevolezza (Balconi e Lucchiari, 2008; Bunce et al., 1999; LeDoux, 1998a; Phelps et al., 2000; Wiens, 2006). Evidenze circa l’esistenza di una percezione inconscia di volti mascherati sono emerse da studi che si sono avvalsi di report soggettivi (Esteves, Parra, Dimberg, & Öhman, 1994), risposte autonomiche (Morris, Buchel, & Dolan, 2001a) e brain imaging (Whalen et al., 1998). In alcuni studi, ad esempio, i soggetti mostravano una conduttanza cutanea maggiore in risposta a volti spaventosi mascherati (Esteves et al., 1994) e i potenziali evocati dimostravano l’avvenuto processamento di stimoli subliminali (volti spaventosi), sostenendo così l’esistenza di processamenti emotivi al di fuori della consapevolezza (Kiss & Eimer, 2008).

Si ritiene che queste “emozioni inconsce” siano mediate da un circuito sottocorticale che include il collicolo superiore, il pulvinar e l’amigdala (Berman & Wurtz, 2010; Diamond & Hall, 1969; Lyon, Nassi, & Callaway, 2010). Si è osservato inoltre che immagini a valenza attivante (volti spaventati o arrabbiati) determinano un incremento dell’attività dell’amigdala anche quando sono mascherate da altri stimoli, agendo dunque al di fuori della consapevolezza (Morris, Ohman e Dolan, 1998; Whalen et al., 1998).

Le emozioni possono quindi essere anche precognitive: la “rivoluzione emotiva” che si è insinuata nel cognitivismo standard soprattutto in risposta alle difficoltà di trattamento dei “pazienti difficili” (Roth e Fonagy, 2004) ha preso le mosse proprio dalla messa in crisi del grande cardine su cui il cognitivismo nato da Beck ed Ellis si imperniava, ovvero il dominio assoluto delle cognizioni sulle emozioni.

E’ ormai dunque dimostrato che ci siano aspetti delle nostre reazioni emotive non chiari alla coscienza. Inoltre, ricordi e temi di vita dolenti possono nascondersi oltre la soglia della consapevolezza e stimoli contestuali del tempo presente possono farli rivivere. Questa è l’idea chiave di Conway e collaboratori (2004), ricercatori esperti nella memoria autobiografica, e della loro Self-Memory System Theory (Conway&Pleydell-Pearce, 2000). Questa teoria descrive il sistema di controllo esecutivo centrale non solo come attivatore di strategie cognitive, ma anche come inibitore dell’accesso di informazioni autobiografiche nella coscienza, in quanto pericolose e dolorose. Il sistema associativo, con cui leghiamo stimoli nella nostra memoria a lungo termine (o conoscenza autobiografica) entra poi in gioco in modo significativo: i ricordi o gli stimoli che nella rete associativa si pongono in una posizione di vicinanza al tema dolente vengono marchiati essi stessi come pericolosi e innescano una risposta di inibizione e di evitamento mentale. La Self-Memory System Theory offre così un ponte di discussione tra approcci dinamici e cognitivi su temi di grande importanza clinica, quali l’attività mentale ai limiti della consapevolezza e i meccanismi di difesa. Per alcuni ricercatori, inoltre, questa teoria rappresenta la spiegazione di fondo dell’efficacia di una terapia ad oggi di grande successo: l’Eye Movement Desensitization and Reprocessing (EMDR) (Gunter e Bodner, 2009).

 

Inconscio cognitivo (2): memorie e rappresentazioni mentali implicite

Alla luce delle numerose evidenze e considerando anche la concettualizzazione di inconscio emergente dalla teoria psicoanalitica (e le successive revisioni in ambito psicodinamico), è possibile sostenere l’esistenza di “molti inconsci”, ciascuno dei quali fa riferimento a processi e cornici teorico-concettuali differenti.

L’inconscio cognitivo, in particolare, non si configura unicamente come un insieme di processi covert e attivazioni neurali, ma è concepito anche come un mondo di rappresentazioni mentali implicite o tacite (cioè non consapevoli) che, se disfunzionali, vanno modificate in psicoterapia. Tali credenze irrazionali sono “transferali” nel senso che si sono create nell’infanzia per dei motivi che nell’età adulta non sussistono più (e per questo il paziente deve imparare a sostituirle con credenze più funzionali). Si può quindi dire che l’inconscio cognitivo sia quella parte di noi anche denominabile “memoria procedurale” o “elaborazione parallela distribuita”.

Più precisamente, a partire dal momento in cui, nell’intersoggettività, iniziamo a sviluppare le nostre capacità linguistiche, la conoscenza che abbiamo di noi stessi e del mondo si ripartisce in due categorie. La prima, che non utilizza il linguaggio, è stata definita implicita, procedurale, tacita o non dichiarativa (“saper come”), mentre la seconda, fondata sul linguaggio, è detta dichiarativa o semantica o esplicita (“sapere che”). Il “sapere come”, base dell’inconscio cognitivo, è costituito da schemi senso-motori ed emozionali che prescindono dal linguaggio.

I processi inconsci operano attraverso processi simultanei, a differenza di quanto avviene invece nella coscienza, che lavora attraverso processi seriali. La coscienza opera quindi una selezione tra le tante informazioni presenti nell’inconscio e questo è il motivo per cui quello che diventa conscio è sempre una parte molto ridotta e forse anche distorta della complessità delle elaborazioni inconsce parallele. Ciò che esce dall’inconscio non è quindi mai uguale a quanto vi era contenuto: i due linguaggi non sono facilmente traducibili l’uno nell’altro, poiché si tratta di codici cognitivi diversi nella loro natura (in quanto alcune rappresentazioni inconsce non sono neppure esprimibili a parole, si pensi ad esempio alla memoria procedurale che regola il movimento). E’ in questo che l’inconscio cognitivo si differenzia nettamente da quello dinamico, poiché quest’ultimo prevede una certa traducibilità dei contenuti mentali rimossi, mentre l’inconscio cognitivo si configura più come una modalità di immagazzinamento nella memoria implicita, poco o per nulla soggetta ad elaborazione verbale.

Pertanto, nella prospettiva cognitiva, ed in particolare in quella cognitivo-evoluzionista, è di gran lunga più interessante studiare i modi in cui alcune attività mentali non riescono ad acquisire la qualità della coscienza anche laddove sarebbe importante che ciò avvenisse, piuttosto che indagare come un contenuto mentale possa essere rimosso nell’inconscio per difesa dall’angoscia (Liotti, 1996a). L’importanza della trasformazione di attività mentali non coscienti in attività coscienti sta soprattutto nel loro divenire comunicabili attraverso il linguaggio, e dunque modulabili e condivisi in una dimensione intersoggettiva (Liotti, 2001). Fra i processi mentali che dovrebbero acquisire la dimensione della coscienza per divenire modulabili, emozioni e affetti sono certamente, anche da un punto di vista clinico, i principali.

Questo inconscio cognitivo procedurale riguarda anche i rapporti interpersonali, ad esempio certi aspetti degli stili di attaccamento. Queste modalità relazionali apprese nell’infanzia, permangono nell’adulto e regolano buona parte della vita quotidiana e del funzionamento affettivo. Alcune emozioni nascono quindi da vulnerabilità sviluppatesi durante la storia evolutiva dell’individuo (sotto forma di genitori dannosi ed esperienze traumatiche), fuori cioè dalla coscienza (Caselli, 2012). Questa maggiore consapevolezza ha messo in scacco sia il cardine cognitivista della maggiore importanza del funzionamento attuale su quello storico-evolutivo, sia l’ideale psicoanalitico di poter incidere terapeuticamente su certi comportamenti, soprattutto in pazienti gravi, col solo strumento dell’interpretazione verbale.

Quando infatti il cognitivismo standard inizia a confrontarsi con il trattamento di pazienti complessi, con disturbi di personalità e gravi deficit sul piano relazionale e metacognitivo, le tecniche fino a quel momento di grande efficacia con pazienti con disturbi d’ansia e depressione hanno incominciato a scricchiolare e si è reso necessario un ampliamento del paradigma, che andasse ad includere anche aspetti apparentemente indipendenti dalla consapevolezza.

La svolta relazionale del cognitivismo in Italia è stata profondamente influenzata dalla Teoria dell’attaccamento di Bowlby. In particolare, l’orientamento cognitivo-evoluzionista ha trovato in questa teoria una base concettuale per spiegare gran parte del funzionamento generale della mente e della psicopatologia, tenendo conto sia degli aspetti più vicini al cognitivismo standard, sia di quegli elementi relazionali e impliciti che la avvicinano a tratti alla matrice psicoanalitica.

 

Coscienza e inconscio nella prospettiva cognitivo-evoluzionista

L’idea unificante essenziale è che l’uomo possieda, fin dalla nascita, una serie di disposizioni o tendenze innate, definite Sistemi Motivazionali, che non richiedono la coscienza per operare in quanto evolute prima della comparsa della coscienza umana ed esistenti ancora oggi in specie animali prive di autocoscienza. Esse configurano quindi il fondamento innato di una attività mentale inconscia. Le disposizioni innate alla relazione sociale, in particolare, divengono coscienti in forma di esperienze emozionali (il che è congruente con un paradigma di regolazione delle emozioni, e non con quello pulsionale). L’uomo ha dunque diverse disposizioni innate alla relazione, da cui emergono diversi Sistemi Motivazionali Interpersonali (SMI) a base innata che operano al di fuori della coscienza. Essi organizzano, una volta attivati, il comportamento sociale e l’esperienza emozionale e rappresentazionale di sè-con-l’altro. Le emozioni sono le prime fasi delle operazioni mentali organizzate dagli SMI che possono conseguire la qualità dell’esperienza cosciente. La conoscenza che si sviluppa a partire da tali disposizioni innate alla relazione è di tipo implicito e non richiede, per il suo funzionamento, né la coscienza né l’autocoscienza.

Le emozioni appaiono nell’esperienza soggettiva prevalentemente come fasi delle operazioni degli SMI; le prime operazioni, riguardanti la regolazione del comportamento interpersonale, sono avvolte nel silenzio del corpo e sono totalmente estranee alla coscienza. Operazioni successive degli SMI raggiungono poi la coscienza in forma di emozioni. Il completamento cognitivo del processo emozionale porta al tipo di esperienza cosciente che Damasio (1999) chiama conoscenza del sentimento. Gli SMI sono pertanto attivi ed operano prevalentemente al di fuori della coscienza. Le emozioni, dunque, emergono nella relazione e rimandano ad essa: la coscienza appare quindi come un processo intrinsecamente interpersonale.

Nel modello cognitivo-evoluzionista si suppone che la formazione dei significati personali patogeni discenda dalle memorie implicite formate durante le esperienze di attaccamento precoci e organizzate nei Modelli Operativi Interni (MOI), strutture di conoscenza che da un lato rappresentano l’esperienza di sé-con-l’altro effettuata attraverso ripetute interazioni di attaccamento, dall’altro attribuiscono valore e significato alle emozioni di attaccamento percepite in sé e negli altri.

La memoria delle percezioni di sé-con-l’altro che si susseguono nel tempo durante il primo anno di vita è dunque tacita, non dichiarativa, procedurale, e mette capo alla coscienza nucleare (Damasio, 1999) o primaria (Edelman, 1989), il cui fondamento è di natura emozionale e non implica il linguaggio. La conoscenza relativa alla mente propria e altrui può poi diventare dichiarativa (semantica ed episodica), e mette capo alla coscienza di ordine superiore, che si avvale invece di processi linguistici.

In particolare, la memoria implicita del bambino a partire dai primi giorni di vita sintetizza progressivamente le sequenze interattive in cui la figura di attaccamento risponde alle sue emozioni di attaccamento, organizzandole in rappresentazioni generalizzate delle interazioni e in Modelli Operativi Interni. Quando i MOI relativi all’attaccamento, contenuti nella memoria implicita, si confrontano con le nascenti capacità linguistiche del bambino, iniziano a prendere forma strutture semantiche da cui poi derivano i grandi temi narrativi che caratterizzano i diversi pattern di attaccamento. Tali nuclei di significato, intorno ai quali ruotano i processi organizzativi della conoscenza di sé, possono quindi non essere coscienti.

La dissociazione fra conoscenza semantica e conoscenza episodica, che si sviluppa all’interno della relazione di attaccamento, è alla base degli esiti psicopatologici. Inoltre, il tema semantico intorno a cui si costruisce la conoscenza di sé-con-l’altro predispone a disturbi emozionali in quanto non permette la conoscenza adeguata del significato e del valore (e quindi la regolazione) di alcune classi di emozioni fondamentali, prevalentemente riferite al Sistema Motivazionale dell’Attaccamento. Se ad esempio nessuno risponde (o risponde ma in modo inadeguato) ai segnali emozionali espressi dal bambino nella relazione di attaccamento, questi non potrà che rappresentare, nella conoscenza implicita di sé-con-l’altro, le proprie emozioni come radicalmente inutili, inefficaci o pericolose per il mantenimento della relazione; inoltre non potrà costituire alcuna rappresentazione delle emozioni dell’altro, in quanto l’altro è assente o ambivalente.

Se nel paradigma psicoanalitico sono le difese inconsce ad ostacolare la presa di coscienza delle emozioni, nella concettualizzazione cognitivo-evoluzionista sono dunque l’intersoggettività e l’interazione tra emozioni e cognizioni a giocare un ruolo chiave: le difese appaiono infatti più indirizzate a gestire le conseguenze di drammatiche e infelici esperienze reali di attaccamento. Così ad esempio, nell’attaccamento insicuro evitante, il MOI del bambino contiene una rappresentazione di sé come fastidioso se richiedente attenzioni e cure e dell’altro come indisponibile. Pertanto, ricordi episodici negativi nell’interazione con i genitori, possono essere esclusi dalla coscienza perché occupata da rappresentazioni semantiche idealizzate dei genitori stessi. L’interdizione del ricordo è così dovuta a pressioni interpersonali più che alla necessità della coscienza di proteggersi dall’angoscia generate da pulsioni inaccettabili.

Secondo questa tesi, sviluppata dallo stesso Bowlby, i genitori imponevano al bambino, attraverso le loro parole e sotto la minaccia implicita di abbandono affettivo qualora non le avesse accettate, di attribuire un significato positivo ad un’esperienza che in se stessa era stata emotivamente negativa. L’idealizzazione dei genitori, dunque, non appare come una difesa da pulsioni aggressive verso di loro, ma come effetto del gioco congiunto di pressioni interpersonali e della disposizione innata del bambino a cercare conforto nelle figure di attaccamento. Se ricordi episodici negativi vengono esclusi dalla coscienza perché questa è occupata ad elaborare significati idealizzanti e irrealistici della relazione con le figure di attaccamento, questi ricordi esclusi costituiscono esempi dell’inconscio cognitivo più che del classico inconscio psicoanalitico (Liotti, 2001).

Anche nella Teoria dell’attaccamento, dunque, l’inconscio è ampiamente concepito come insieme di rappresentazioni e memorie implicite delle relazioni di attaccamento, e si avvicina molto di più all’inconscio cognitivo, inteso per l’appunto come processi e conoscenze implicite, piuttosto che a quello psicoanalitico, topico o dinamico (Laplanche e Pontalis, 1993; Ellenberger, 1970; Eagle, 1987). L’incontro con la Teoria dell’attaccamento ha determinato dunque il rinnovato interesse dei cognitivisti per le attività mentali inconsce e per la dimensione relazionale dello sviluppo normale e patologico (Liotti, 2011; Semerari, 2000). La Teoria dell’Attaccamento ha così permesso ai cognitivisti di comprendere il ruolo centrale, nella formazione della personalità e nella genesi dei disturbi emotivi, delle strutture di memoria inconscia (implicita) costruite nelle esperienze di attaccamento.

Tale prospettiva ha permesso quindi di allargare il lavoro del terapeuta cognitivista dall’attenzione esclusiva su processi e contenuti cognitivi espliciti, ritenuti i soli responsabili dei disturbi emotivi, all’ampio e complesso fronte delle strutture e dei contenuti impliciti costruiti nelle prime relazioni intersoggettive sotto la spinta delle motivazioni interpersonali innate.

Questi contenuti e processi impliciti si rivelano in terapia attraverso modalità espressive non verbali, attivazioni emotive apparentemente improprie o sproporzionate, oppure tramite circolarità interpersonali disadattive che, di regola, coinvolgono anche il terapeuta. L’attenzione alla relazione terapeutica e alla sua modulazione divengono così veri e propri strumenti di cura. L’innesco del sistema di attaccamento nella relazione terapeutica, infatti, comporta inevitabilmente la riattivazione dei MOI dell’attaccamento, confermati e rafforzati nel corso dello sviluppo che ha seguito la prima infanzia. I MOI influenzano la percezione interpersonale e le vicissitudini dell’elaborazione dell’informazione emozionale, prima che queste divengano coscienti, rendendo difficile per il paziente l’esplorazione di significati alternativi, o la riflessione critica delle proprie aspettative, riattivando le stesse modalità di lettura del mondo apprese nell’infanzia attraverso la relazione con l’altro significativo.

Per certi aspetti, dunque, sono da ritenersi la controparte cognitivo-evoluzionista del concetto psicoanalitico di transfert, anche se tra i due vi sono differenze sostanziali (Liotti, 2001): ad esempio, nella prospettiva cognitivo-evoluzionista, alla base di quanto accade nel transfert, va riconosciuta in prima istanza l’attivazione del sistema motivazionale dell’attaccamento, e mai primariamente di quello sessuale o aggressivo. In particolare, l’esistenza di una pulsione primaria distruttiva è negata nella prospettiva cognitivo-evoluzionista.

La prospettiva cognitivo-evoluzionista rientra dunque tra quegli approcci psicoterapeutici di paradigma relazionale (molti di essi proprio di matrice psicoanalitica) che condividono la natura relazionale della mente e del suo sviluppo, la centralità delle dinamiche interpersonali di attaccamento per la comprensione della patologia e il ruolo sovraordinato della relazione terapeutica nel trattamento (Lingiardi et al. 2011; Bromberg, 2008; Liotti, 2011; Liotti e Farina, 2011). All’interno di questa concettualizzazione del funzionamento, quindi, anche l’inconscio, adeguatamente rivisto e depurato da alcuni concetti non sostenuti dalle evidenze sperimentali che nel corso dei decenni si sono imposte sul versante scientifico, è rientrato a far parte della pratica clinica, specie per quanto riguarda proprio la gestione e la modulazione di quei cicli interpersonali tra paziente e terapeuta che, se abilmente direzionati, possono divenire essi stessi potenti strumenti terapeutici.

Quante volte possiamo cambiare vita? – Recensione del documentario My Nature

My nature è un documentario di 75 minuti. Parla di Simone, un uomo di quarant’anni nato biologicamente donna, trasferitosi in Umbria, per trovare il suo posto nel mondo e ritrovarsi in se stesso, nella natura e nella vita stessa.

 

I registi di My Nature sono Massimiliano Ferraina e Gianluca Loffredo. Alla prima del documentario, svoltasi venerdì 7 ottobre 2016, al secondo Festival Internazionale del Documentario “Visioni dal Mondo. Immagini della realtà”, c’è stato modo di confrontarsi con uno dei due registi:

Ognuno definisce la realtà attraverso la propria vita. Questa è la storia di Simone, qualcun altro la vivrà diversamente. Questa è la sua storia e anche un film quindi un meccanismo narrativo – spiega Massimiliano Ferraina.

Questo documentario è stato girato nell’arco di cinque lunghi anni, in cui i due registi, con lo scopo di far sparire la videocamera, hanno costruito una stretta intimità con Simone, i luoghi e le persone da lui frequentati.

Il focus delle riprese di My Nature non è il passato di Simone ed il suo percorso di transizione dal genere femminile a quello maschile, ma è il suo presente, in cui egli sta cercando il suo posto nel mondo e lo trova in Umbria, a contatto con la natura; anche se potremmo meglio dire che il suo posto nel mondo Simone lo trova nel suo benessere e nella vita stessa.

 

Quante volte cambiare: il tema di My Nature

Questo documentario non nasce dalla voglia di raccontare il percorso  di un uomo transgender, ma ciò che sta a cuore ai registi è il tema, che riguarda ognuno di noi: “Quante volte si può cambiare vita?”. E così, la storia di Simone è sembrata loro ideale per dare risposta a questo continuo interrogativo.

Nello scorrere di questi 75 minuti vengono toccati punti molto interessanti anche da un punto di vista psicologico. Ne riporterò alcuni, lasciando allo spettatore il piacere di cogliere le altre componenti di questa pellicola, tra cui: le inquadrature, le immagini ed il ritmo scandito dalla musica, dall’intonazione e dalle parole di Simone e delle persone da lui incontrate.

Come tende a precisare il regista, questa è la storia di Simone, eppure certi aspetti possono riecheggiare anche nei vissuti di altre persone.

Simone inizia la sua transizione per la riassegnazione del genere intorno ai ventisette anni, eppure, il suo percorso non è ancora terminato. Non ci si riferisce agli interventi chirurgici, quelli sono avvenuti con successo. Ci si riferisce ad una parte di sé più profonda, legata all’accettazione e all’identità.

E loro mi amavano così com’ero. Ero io che trovavo i difetti. Prima dell’intervento che non ho il corpo da uomo come dovrebbe essere. Dopo l’intervento ho le cicatrici, ho quest’altro».

E torna sull’argomento anche più avanti, parlando con un amico:

La mia scelta del corpo, con le operazioni sento che è una prima tappa. Io non mi sono mai accarezzato il corpo. Quando ci siamo visti la prima volta tu mi hai detto “accarezzati le cicatrici”. Ci vuole tanto coraggio. È una grande sfida. È molto più facile soffrire che guarire. L’operazione è solo il primo passo.

Non è la terapia ormonale o la terapia chirurgica a garantire automaticamente serenità; talvolta, per qualcuno può essere un percorso molto più lungo e faticoso.

Ci si può trovare insoddisfatti anche innanzi al “corpo perfetto” sognato da sempre, perché il proprio senso di identità è molto più complesso di una terapia ormonale e di un finissimo intervento chirurgico.

Nel corso del documentario Simone condivide un aspetto del proprio passato, che lui riconosce come strettamente legato a tematiche identitarie.

E di ricordami di com’ero perso. Di com’ero disperato. Di ricordarmi dieci anni di eroina. Dove per il mondo non ero più né maschio né femmina. Avevo una identità finalmente. Ero solo un drogato.

In questo pensiero, Simone non parla solo della sua tossicodipendenza, ma porta l’odio e la rabbia che provava nei confronti di se stesso. Di un sé che finalmente aveva un’etichetta per il mondo, un’etichetta non più incentrata sulla dicotomia femminile-maschile.

 

Ridefinirsi tra passato e presente

Il passato è quella dimensione temporale in cui chiunque potrebbe esser stato diverso rispetto a com’è nel presente, eppure nel presente si può sempre rintracciare una parte di quel passato. C’è chi preferisce nascondere, anche a se stesso, e chi preferisce condividere la propria storia, anche se con difficoltà. Simone affronta questo tema con un’amica di Catania, sua città Natale.

Amica: Non sapevo niente però ti dissi, che è successo? Hai dovuto uccidere qualcuno? E tu mi dicesti “devo dirti assolutamente qualcosa” e avevi la faccia di chi è colpevole però. Allora la prima cosa che ti dissi fu.. “hai ucciso qualcuno?” Come se tu fossi colpevole e dovessi chiedere anche un po’ scusa

Simone: Ogni volta sembra veramente…

Amica: come se dovessi partorire

Simone: ma proprio difficile perché ognuno ha una reazione diversa. Allora nella mia mente: “adesso che reazione ci sarà? Si stupirà? Sarà… sarà imbarazza? Potrà cambiare qualcosa? Ora glielo dici e cambia qualcosa”

Amica: secondo me è come se… “ora glielo dico cambia qualche altra cosa in me”. Ogni volta che lo dici rinasci

Simone: caccio fuori (…) le persone come te sono state fondamentali. Mi hanno rafforzato a sentirmi meno colpevole

Simone nella sua vita ha vissuto molte cose con difficoltà, come abbiamo visto velocemente per il suo senso di identità, così nel potersi raccontare ed aprire agli amici e alle persone intorno. Egli ha vissuto anche le semplici cose quotidiane, come ostacoli su cui dover pensare ed agire continuamente.

My Nature espone proprio la dimensione in cui Simone inizia, anche grazie a percorsi di meditazione, a distaccarsi dai suoi pensieri per incontrare un po’ di serenità.

Io voglio essere un uomo sereno nel proprio lavoro. Non ho un piano su cosa fare, sto facendo delle cose che però mi piacciono. Seguire quello che mi ha appassionato: la psicologia, la guarigione. Sono sempre stato uno che ha dovuto progettare tutto: come mettere le bende strette, come mettere quel pantalone, come tagliare i capelli. Ho dovuto progettare cose che per gli altri erano naturali. E non ho più voglia di progettare.

 

Greta Riboli

VIDEO: My Nature – Trailer ufficiale

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Infanzia e apprendimento nel cervello umano: lo sviluppo delle capacità cognitive nei bambini

Dopo secoli di considerazioni sui neonati e il loro sviluppo mentale, la ricerca sullo sviluppo cognitivo ha dimostrato l’esistenza di notevoli capacità cognitive nei bambini, già nei primi mesi di vita.

 

Le funzioni cognitive notevoli e complesse osservate negli esseri umani non sono improvvisamente emerse in età adulta, ma sono il risultato di ben due decenni di sviluppo. Dopo secoli di considerazioni sui neonati e il loro sviluppo mentale, la ricerca sullo sviluppo cognitivo ha dimostrato l’esistenza di notevoli capacità cognitive nei bambini già nei primi mesi di vita.

 

Capacità cognitive nei bambini: il linguaggio e la cognizione numerica

Grazie a tecniche di brain imaging non invasive è stato possibile comprovare con dati sperimentali l’esistenza di tali capacità cognitive nei bambini. Dopo aver descritto le prime capacità cognitive nei settori del linguaggio e del numero, sono stati passati in rassegna i risultati recenti che sottolineano la forte continuità tra i neonati umani e gli adulti per quanto concerne l’architettura neuronale, partendo già dalle prime particolari asimmetrie emisferiche e il coinvolgimento delle aree frontali.

Questo insieme di prime capacità proietta i neonati su un percorso di apprendimento al di là dei percorsi a disposizione di altri animali. Questo percorso ha già in sé alcuni aspetti dell’apprendimento degli adulti. In alcuni settori, come il linguaggio, i neonati umani sono ancora migliori rispetto agli adulti, mentre in altri, come la cognizione numerica, i bambini sono più lenti, ma comunque già in procinto di sviluppare quella caratteristica che è tipica umana, il pensiero astratto.

Il linguaggio è un esempio di raffinatezza cognitiva umana: la produzione verbale si sviluppa lentamente, inizia con una fase di vocalizzazione, poi balbettio e si conclude con le prime parole intorno all’anno di vita. Esperimenti progettati con cura hanno dimostrato, tuttavia, che le capacità ricettive dei neonati sono sostanzialmente molte di più rispetto a ciò che effettivamente riescono a produrre, infatti, i bambini sono sensibili a particolari suoni vocali e combinazioni utilizzati da chi li circonda. Inoltre sono in grado di riconoscere la loro lingua nativa alla nascita e stabiliscono il repertorio fonetico della lingua durante il primo anno di vita, ed in seguito acquisiscono la capacità di dedurre la struttura astratta del discorso.

I neonati rapidamente diventano sensibili a categorie di parole, la memorizzazione delle parole funzionali della propria lingua avviene già intorno ai sei mesi, successivamente i bambini riescono ad analizzare la struttura della frase e ad individuarne eventuali errori ed infine, iniziano a collegare le parole alle cose a cui si riferiscono. Così, il linguaggio comincia presto per favorire l’elaborazione di informazioni sul mondo circostante ai neonati umani.

Leggermente diverso è il discorso per quanto concerne il concetto del numero naturale, poiché non si esprime fino a metà infanzia, cioè dai quattro ai dieci anni. Anche se la precisione e la robustezza delle rappresentazioni aumenta con lo sviluppo cognitivo, le rappresentazioni numeriche che si trovano nei neonati umani hanno le stesse cinque proprietà che vengono mantenute a tutte le età: sono indicativi, addizionano e sottraggono sommariamente, ordinano e confrontano, li relazionano a grandezze spaziali come la lunghezza e analizzano insiemi di oggetti in base al numero di elementi e grandezza fisica.

Un altro aspetto molto importante che è emerso dagli studi è che l’apprendimento è limitato e favorito dalle competenze computazionali locali di ciascuna zona del cervello, dalla loro connettività, e anche da vincoli temporali in un organo fisico. Ciò è dovuto al fatto che il cervello, attraverso la modulazione dell’espressione genica, favorisce o ritarda certi circuiti in diverse zone del cervello in base agli input ambientali, per permettere all’individuo uno sviluppo equilibrato.

Gli scienziati dicono:

Concludiamo sottolineando cinque punti. In primo luogo, gli esseri umani sono l’unica specie che utilizza simboli espliciti, partendo dalle parole della loro lingua. Così, ci distinguiamo per la nostra mente simbolica. La continuità tra l’architettura cerebrale dei bambini e degli adulti suggerisce che i bambini hanno le risorse cerebrali per sviluppare rappresentazioni simboliche attraverso una vasta gamma di settori. La ricerca in imaging cerebrale nei neonati resta difficile e dovrebbe essere sostenuta attivamente, se vogliamo comprendere le funzioni simboliche che sono così al centro delle nostre specificità cognitive umane e di sviluppare adeguate simulazioni di quelle funzioni.

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