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L’anima è un pianoforte: la psicologia dei colori secondo Kandinskij e Lüscher

Il colore non può essere spiegato con una teoria che sia solo meccanica, ma deve trovare spiegazione più profonda nella poetica, così come nell’estetica o anche nella psicologia dei colori

 

Analisi del colore: dalla scienza all’estetica

Sul colore esistono molte teorie che, via via, lo hanno analizzato da diversi punti di vista: fisico, chimico, psicologico, espressivo.

La fisica ci insegna che il colore deriva dalla scomposizione della luce e che viene misurato in lunghezze d’onda; Isaac Newton (1643-1727) dimostrò che la luce del sole che noi vediamo bianca è, in realtà, composta dai sette colori dello spettro solare: rosso, arancio, giallo, verde, azzurro, indaco e violetto. Johann Wolfgang Goethe (1749-1832), in “Zur Farbenlehre” (“La teoria dei colori”, 1810) sostenne che i colori non possono essere spiegati con una teoria che sia solo meccanica, ma devono trovare spiegazione anche nella poetica, nell’estetica e nella psicologia.

 

La psicologia dei colori in Vasilij Kandinskij

Vasilij Kandinskij (1866-1944), nelle sue teorie sull’uso dei colori, stabilì un nesso strettissimo tra l’opera d’arte e la dimensione spirituale, affermando che l’anima e l’arte si influenzano a vicenda. Kandinskij analizzò la reazione dell’osservatore davanti ad un’opera d’arte e parlò di due effetti: uno puramente fisico e superficiale, l’altro, più profondo, attraverso il quale emerge la vera forza psichica del colore, che fa emozionare. L’artista russo in “Lo spirituale nell’arte” (1909) scrisse:

In generale il colore è un mezzo per influenzare direttamente un’anima. Il colore è il tasto. L’occhio è il martelletto. L’anima è un pianoforte con molte corde. L’artista è la mano che, toccando questo o quel tasto, fa vibrare l’anima. E’ chiaro che l’armonia dei colori è fondata solo su un principio: l’efficace contatto con l’anima. Questo fondamento si può definire principio della necessità interiore.

Quindi, secondo Kandinskij, che possedeva una sensibilità acutissima, ogni colore produce un effetto particolare sull’anima, in questo senso egli può essere considerato uno psicologo del colore.

 

Psicologia dei colori: il contributo di Max Lüscher

Psicologo del colore è anche lo svizzero Max Lüscher (1923), grazie al cui test dei colori, è possibile analizzare, con metodo scientifico, lo stato psicofisico di una persona in base alla sua preferenza per i colori.

La base teorica da cui è partito Lüscher è la psicologia autoregolativa, secondo cui ogni essere umano tende al raggiungimento dell’armonia, che nasce dall’interazione dinamica equilibrata di quattro strutture emozionali di base. Se, come afferma Lüscher,tentiamo di sostituire tali sentimenti normali con sentimenti di apprezzamento eccessivo o di deprezzamento smodato del Sé, tale autoinganno ci relegherà nel circolo vizioso egocentrico dell’autodistruzione” e porterà l’individuo a disturbi e comportamenti disadattivi.

Secondo la psicologia autoregolativa, lo scopo della terapia è quello di individuare tali disturbi e di ripristinare l’armonia perduta. Secondo la psicologia dei colori di Max Lüscher, ogni colore ha un significato universale ed obiettivo, cioè la percezione cromatica è esattamente la stessa per tutti e tutte le culture; ciò che varia nella percezione del colore è la valutazione data dal singolo alla percezione stessa, il suo accettarla o rifiutarla: la percezione potrà dunque risultare, a seconda della valutazione data dal soggetto, simpatica, indifferente o antipatica.

 

I significati psicologici dei colori secondo Lüscher e secondo Kandinskij

Vediamo ora quali sono i significati psicologici dei colori (ne analizzeremo 4) secondo Lüscher e secondo Kandinskij.

Il rosso è definito da Kandinskijvivo, acceso ed inquieto” e viene fondamentalmente collegato al tema dell’energia vitale; Lüscher afferma che la percezione del rosso è, tra tutte, quella che produce l’effetto eccitante più intenso. Osservando a lungo il rosso, infatti, il respiro si fa più veloce e la pressione sanguigna aumenta. Il rosso è eccitazione, desiderio, amore sensuale e desiderio di potere. Poiché, come detto poc’anzi, ogni persona può avere reazioni diverse di fronte alla percezione del colore, se ci sarà rifiuto (o “antipatia”) per il colore rosso, esso produrrà l’esatto contrario del desiderio, ovvero il disgusto.

Il grigio, che Kandinskij definisce “immobilità desolata”, per Lüschersi distingue per le negazioni. Non è né colorato, né chiaro, né scuro. Il grigio è il nulla di tutto, la sua particolarità è la neutralità più completa”.

Il verde, scrive Kandinskijnon si muove in alcuna direzione e non ha alcuna nota di gioia, di tristezza, di passione, non desidera nulla, non aspira a nulla. E’ un elemento immobile, soddisfatto di sé, limitato in tutte le direzioni”. Secondo Lüscher il verde rappresenta i valori stabili che valgono: l’autorevolezza, la stima, la dignità, l’integrità.

Il blu, andando molto in profondità, sviluppa l’elemento della quiete e quanto più è profondo, ci suggerisce Kandinskij, tanto più fortemente richiamerà l’uomo verso l’infinito. Per Lüscher il blu corrisponde ad un sentimento di serenità e di moderazione. Numerosi esperimenti hanno infatti dimostrato che, se si osserva a lungo il colore blu scuro, la respirazione si fa più lenta e la pressione arteriosa si abbassa.

Il lutto: fasi, reazioni e trattamento

Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Il lutto però può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità.

Marco Palumbo – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi Modena

 

Il lutto è definibile come uno:

… stato psicologico conseguente alla perdita di un oggetto significativo, che ha fatto parte integrante dell’esistenza. La perdita può essere di un oggetto esterno, come la morte di una persona, la separazione geografica, l’abbandono di un luogo, o interno, come il chiudersi di una prospettiva, la perdita della propria immagine sociale, un fallimento personale e simili (Galimberti, 1999, 617).

 

Sintomatologia e fasi del lutto

Le prime descrizioni della sintomatologia post lutto vennero proposte da Lindermann nel 1944 dopo un incendio al Night Club Coconut Grove di Boston, esse comprendevano:

  1. Disturbi somatici di vario tipo
  2. Preoccupazioni riguardanti l’immagine del defunto
  3. Sensi di colpa nei confronti della persona scomparsa o delle circostanze della morte
  4. Reazioni ostili
  5. Perdita della capacità funzionale preesistente
  6. Tendenza ad assumere tratti comportamentali tipici del defunto

Questa sintomatologia gli permise di definire 3 principali stadi del lutto:

  • Shock e incredulità
  • Cordoglio acuto
  • Risoluzione del processo di Cordoglio

Successivamente Bowlby (1982), che per molto tempo si concentrò sullo studio della costruzione e della rottura dei legami affettivi identificò 4 fasi del lutto:

  • Una prima fase di disperazione acuta, caratterizzata da stordimento e protesta. Solitamente questa fase si caratterizza per il rifiuto della perdita.
  • Una fase d’intenso desiderio e di ricerca della persona deceduta (alcuni mesi o anni).
  • Una fase di disorganizzazione e di disperazione.
  • Una fase di riorganizzazione, durante la quale gli aspetti acuti del dolore cominciano a ridursi e la persona afflitta comincia ad avvertire un ritorno alla vita.

Facendo riferimento alla teoria a cinque fasi di Kübler Ross (1990; 2002) – possiamo definire l’elaborazione del lutto come un processo che si sviluppa attraverso questi momenti:

  • Fase della negazione o del rifiuto: costituita da una negazione psicotica dell’esame di realtà;
  • Fase della rabbia: costituita da ritiro sociale, sensazione di solitudine e necessità di direzionare il dolore e la sofferenza esternamente (forza superiore, dottori, società…) o internamente (non essere stati presenti, non aver fatto di tutto…);
  • Fase della contrattazione o del patteggiamento: costituita dalla rivalutazione delle proprie risorse e da un riacquisto dell’esame di realtà;
  • Fase della depressione: costituita dalla consapevolezza che non si è gli unici ad avere quel dolore e che la morte è inevitabile;
  • Fase dell’accettazione del lutto: costituita dalla totale elaborazione della perdita e dall’accettazione della differente condizione di vita.

Le sopracitate sono appunto fasi e non stadi, poiché non si assiste rigorosamente a una sequenzialità, ma esse possono presentarsi con differenti tempistiche, alternanze, intensità.

 

Le reazioni al lutto

Per Onofri e La Rosa (2015) le normali reazioni al lutto possono essere suddivise in 4 categorie:

1. Sentimenti

Tristezza: questo è il sentimento più comune che andremo a trovare nelle persone in lutto, spesso espresso con il pianto. Per Parkes e Weiss (1983) il pianto è un segnale che induce negli altri comportamenti protettivi.

Collera: originata tendenzialmente da 2 fonti:

  • senso di frustrazione per non prevenire il lutto
  • simile al comportamento di protesta dei bambini alla separazione della figura di attaccamento

Colpa e Auto-Rimprovero: la colpa irrazionale in genere si riferisce a qualcosa che sarebbe potuto accadere ma non è accaduto nei momenti antecedenti al lutto. Si tratta di un sentimento irrazionale che lentamente va scomparendo man mano che si riacquista l’esame di realtà.

Ansia: originata tendenzialmente da 2 fonti:

  • si pensa di non essere più in grado di proteggersi.
  • maggiore consapevolezza del concetto di mortalità.

Solitudine: Stroebe et al. (1996) individuano 2 tipologie principali di solitudine:

  • Solitudine Emotiva: dovuta alla rottura di un legame d’attaccamento.
  • Solitudine Sociale: dovuta all’isolamento sociale.

Shock: lo shock emotivo si osserva principalmente nei casi di morte improvvisa.

Struggimento: Parkes (2001) ha osservato il manifestarsi di questa normale risposta alla perdita. Se il forte desiderio della persona perduta si mitiga siamo davanti a una risoluzione del cordoglio; diversamente la sua persistenza può essere sintomo di un lutto traumatico e non risolto.

Sollievo: molte persone possono provare sollievo specialmente quando la persona cara ha dovuto affrontare una lunga e pesante malattia.

Stordimento: alcune persone possono arrivare a sentire una incapacità di provare emozioni.

 

2. Sensazioni Fisiche

Lindemann (1944) riporta che le sensazioni fisiche più comunemente sperimentate da una persona che sta affrontando un lutto sono:

  • Sensazione di vuoto gastrico
  • Costrizione toracica
  • Costrizione laringea
  • Ipersensibilità al rumore
  • Senso di depersonalizzazione
  • Sensazione di apnea
  • Debolezza muscolare
  • Mancanza di energia
  • Secchezza delle fauci

 

3. Cognizioni

Dal punto di vista cognitivo, il lutto è caratterizzato da:

  • Incredulità: normalmente è questo il primo pensiero che si prova nei momenti successivi alla perdita.
  • Confusione: molti soggetti riportano che dopo un lutto si sentono confusi, non riescono a organizzare i pensieri e non riescono a concentrarsi.
  • Preoccupazione: una ruminazione mentale continua che si manifesta principalmente in 2 versioni:
    • Tenersi attaccati al ricordo del defunto per non lasciarlo andare.
    • Pensieri intrusivi riguardanti il deceduto sofferente o morente.
  • Senso di presenza: ovvero la controparte dello struggimento. La persona in lutto può pensare che il defunto sia in qualche modo nell’area spazio-temporale attuale e corrente.
  • Allucinazioni: uditive e visive. Esse sono una frequente esperienza dei sopravvissuti. Queste esperienze illusorie transitorie in alcuni casi rappresentano qualcosa di sconcertante per chi le esperisce anche se occasionalmente viene riportato che possono essere percepite come utili.

 

4. Comportamenti

La persona in lutto può inoltre manifestare una serie di specifici comportamenti a seguito della perdita:

  • Disturbi del sonno: essi si manifestano sia con difficoltà ad addormentarsi sia con risvegli precoci.
  • Disturbi dell’appetito: essi si possono manifestare sia con inappetenza sia con iperalimentazione.
  • Distrazione: nel periodo immediatamente successivo al lutto le persone possono avere la sensazioni di agire in modo distratto temendo di effettuare azioni con conseguenze spiacevoli.
  • Isolamento sociale: è abbastanza comune che le persone in lutto vogliano evitare gli altri.
  • Sogni del defunto: accade spesso che i sopravvissuti sognino i cari scomparsi. A seconda del sogno si può ipotizzare la fase del lutto che la persona sta attraversando.
  • Evitare i ricordi: alcune persone tendono a evitare i luoghi o gli oggetti (cimitero, luogo dove è defunto, camera da letto, vestiti…) che possono rievocare i ricordi della perdita della persona cara.
  • Ricerca e richiamo: Parkes (1980) e Bowlby (1982) descrivono bene il comportamento di ricerca o richiamo nei loro scritti. Le persone possono gridare il nome del defunto chiedendo di tornare, ad esempio “Paolo, Paolo! Torna da me!”.
  • Sospirare: comportamento correlato con la sensazione fisica di apnea.
  • Iperattività: abbastanza frequente il presentarsi di un aumento dell’attività motoria e dell’irrequietezza. Questo tipo di comportamento viene considerato come una variante del comportamento di ricerca.
  • Pianto: anche il pianto viene messo in relazione con il comportamento di ricerca o di richiesta d’aiuto.
  • Visitare luoghi o portare oggetti che ricordano il defunto: considerato l’opposto del comportamento di evitamento dei ricordi. Di solito la credenza alla base di questo comportamento è la paura di perdere le memorie relative al defunto.

 

Quando un lutto diventa patologico

Tendenzialmente l’essere umano ha la capacità di accettare e superare la morte di una persona cara. Quando affrontiamo un lutto, normalmente siamo capaci di entrare in uno stato di accettazione entro circa 18 mesi. Con “stato di accettazione” intendiamo il ritorno a una situazione confrontabile alla fase pre-lutto con un miglioramento del tono dell’umore e con un abbassamento delle problematiche psicosociali (Bonanno et al., 2002).

Il lutto può diventare patologico quando è presente una difficoltà ad accettare la sua ineluttabilità. A seconda della tipologia di attaccamento possiamo osservare più o meno vulnerabilità alla sintomatologia. Bowlby nel 1973 mise in risalto come in una persona con attaccamento insicuro è presente una sorta di predisposizione al lutto patologico per via di una difficoltà di gestione delle emozioni dolorose previste dalla perdita.

Parkes (1980; Parkes e Weiss, 1983), inoltre, ha verificato che la qualità della relazione che viene interrotta dalla morte influenza il percorso di elaborazione (lutto conflittuale).

 

Psicoterapia in casi di lutto

Come si può trattare quindi psicoterapeuticamente un paziente che subisce un evento che provoca così tante alterazioni della salute psicofisica?

Per Perdighe e Mancini (2010), il lutto è un evento che compromette o minaccia scopi personali; gli scopi minacciati o compromessi possono riguardare sia la perdita in sé sia domini connessi.

Pertanto, avvenuta la perdita, per giungere alla fase di accettazione l’obiettivo dovrà orientarsi verso il disinvestimento e l’abbandono degli scopi che sono stati compromessi e lo sviluppo di nuovi comportamenti direzionati al raggiungimento degli scopi ancora perseguibili.

Per abbandonare uno scopo è necessario modificare le credenze che motivano l’investimento nello stesso. Quali sono quindi le motivazioni che complicano la modifica di queste credenze?

  • Gravità della perdita: se la perdita va a colpire gli scopi centrali (quindi andando a influire negativamente sui comportamenti, le emozioni e i pensieri più nucleari) per l’individuo sarà più complicato allontanarsi dallo scopo.
  • Mancanza di supporto sociale: se non si hanno persone su cui appoggiarsi e che possano almeno supplire parzialmente allo scopo, avremo una più marcata difficoltà nell’elaborazione del lutto.
  • Comportamenti di inibizione o soppressione della sofferenza: negando l’esposizione alle emozioni connesse alla perdita impediamo la rivalutazione dell’evento ritardando il processo di accettazione.
  • Stereotipi rispetto alla giusta reazione: essi vanno a strutturare problematiche secondarie quali colpa, rabbia o vergogna non favorendo un recupero funzionale.
  • La non sicurezza della perdita. La persona che deve attraversare il lutto, non potendo comprendere efficacemente l’effettività della perdita (una prognosi incerta), non potendo sapere se la perdita è avvenuta o meno (scomparsa, rapimento…) o non potendo delineare una o una serie di cause della perdita (morte improvvisa senza spiegazioni) fa molta più fatica ad entrare in uno status di accettazione. La normale reazione a queste situazioni è la messa in atto di stili di pensiero ruminativo orientati al capire il perché o trovare una soluzione che però hanno l’effetto di rinforzare un scopo disfunzionale: quello dell’elusione della perdita.

Come quindi rapportarsi a questi ostacoli cognitivi che impediscono il processo di accettazione? Necessaria è l’attenzione portata alla storia di sviluppo e allo stile d’attaccamento. Contemporaneamente sarà di primaria importanza la costruzione di una buona relazione terapeutica con un focus sulla sua modulazione.

Attraverso l’utilizzo del metodo socratico si possono prendere in considerazione principalmente 4 interventi:

  • Primario è l’intervento di validazione sulla sofferenza causata dall’assenza della persona.
  • Necessario è anche abbassare la gravità soggettiva del danno percepito.
  • Si deve puntare anche al cambiamento dei beliefs orientati al trovare un’alternativa alla perdita.
  • Rendere più flessibili le credenze di doverizzazione.

In supporto poi agli interventi CBT si potranno utilizzare altre tecniche quali l’EMDR, la Terapia Sensomotoria e l’intervento di gruppo che presenta più vantaggi rispetto all’intervento individuale.

 

L’intervento di gruppo

Un intervento di gruppo, rappresenta un enorme risorsa e potenzialità di sostegno. Ognuno di noi, sulla nostra pelle, ha provato che far parte di un gruppo che permetta di condividere problemi, farti sentire accettato e sostenuto e di conseguenza sentirsi rispecchiato in esso, sia di grande supporto per attraversare i momenti cruciali della vita (come può essere l’affrontare un lutto). La cosa più importante che si sperimenta in un gruppo terapeutico è la sensazione di “non essere più soli”. Le emozioni che noi ritentiamo negative (rabbia, tristezza, paura) sono comuni a tutti, e in un ambiente di questo tipo si può parlare di esse senza sentirsi giudicati.

Il gruppo si trasforma, quindi, nel luogo sicuro dove si possono accettare ed affrontare le angosce e i pensieri più dolorosi, anziché dover impiegare enormi risorse nel combattere quei sentimenti. Inoltre, diventa quel posto dove è possibile iniziare a prendere in considerazione nuove strategie, nuovi pensieri e nuovi punti di vista che favoriscano l’accesso all’accettazione.

Infine, in questo modo si contrasta la tendenza, che hanno le persone in lutto, ad isolarsi, stimolando le persone a prendersi cura di sé creando uno spazio di diritto al dolore.

Quando il paziente sarà in grado di riorganizzare la propria esistenza tenendo conto dell’ assenza della persona amata, probabilmente vorrà dire che è entrato nella fase di risoluzione della perdita.

Smetterla i fare ipotesi su ipotesi su come sono andate le cose, di colpevolizzare qualcuno o se stessi, accettare l’ineluttabilità della perdita, riconoscerla fino in fondo, apprezzare tutto il bene che quel rapporto ha comportato, e trovare la propria via, a volte del tutto personale, per ritrovare la vicinanza con chi non c’è più (A. Onofri, C. La Rosa, 2015).

L’amore in presenza deve diventare l’amore in assenza.

Emozioni ed Intelligenza emotiva negli sport da combattimento

Mayer (2008) individua quattro aspetti dell’ intelligenza emotiva correlati agli sport da combattimento: la valutazione delle proprie emozioni, cruciale nel regolare il livello di arousal; la comprensione delle emozioni altrui, necessaria per prevedere le reazioni ed azioni dell’avversario; uso delle emozioni per mascherare e fingere le proprie emozioni ed usarle a proprio vantaggio durante il combattimento ed infine, l’autoregolazione delle emozioni, per mantenere un appropriato livello di arousal e controllare la situazione.

Laura Zamboni, OPEN SCHOOL PTRC MILANO

 

Emozioni ed intelligenza emotiva: come influiscono sulle prestazioni sportive

[blockquote style=”1″]Si vince con la testa e le gambe. I pugni hanno un’importanza secondaria.[/blockquote]
Georges Carpentier

Le emozioni costituiscono una componente fondamentale nella vita di tutti i giorni, non occorre essere stati pugili come Georges Carpenter per aver provato sulla propria pelle quanto l’intensità di un’emozione possa migliorare od ostacolare una prestazione. Nella pratica clinica si parla di emozioni funzionali e disfunzionali, ma solo in tempi relativamente recenti questo interesse è stato esteso anche al contesto sportivo.

[blockquote style=”1″]Lo sport va a cercare la paura per dominarla, la fatica per trionfarne, la difficoltà per vincerla[/blockquote] (Pierre de Coubertin)

Dai primi studi condotti negli anni ’80 (Parfitt e Hardy, 1987) focalizzati sui rapporti tra prestazioni sportive ed emozioni quali rabbia e paura, si è arrivati con Hanin (1997, 2000) alla formulazione del modello IZOF, secondo il quale ogni atleta possiede una propria zona ottimale di funzionamento, all’interno della quale è possibile realizzare la performance migliore.

In questa prospettiva non si valuta più l’emozione singolarmente ed il suo peso sulla prestazione, ma si identificano diverse emozioni e si stima in che misura esse possano essere funzionali, in un preciso atleta, per permettere il raggiungimento di prestazioni ottimali. Seguendo la linea definita da Hanin (2003) nel ritenere le emozioni come una risorsa per comprendere se stesso e l’altro e per il fondamento dell’azione consapevole, possiamo notare come ci sia un forte avvicinamento al concetto di intelligenza emotiva definito per la prima volta da Salovey e Mayer (1990) come: [blockquote style=”1″]capacità di monitorare le proprie e le altrui emozioni, di differenziarle e di usare tali informazioni per guidare il proprio pensiero e le proprie azioni.[/blockquote]

A rendere poi più nota l’intelligenza emotiva è stato Goleman (1995) che l’identificò con la capacità di riconoscere i propri ed altrui sentimenti, di motivarci e di gestire le nostre emozioni, anche nelle relazioni sociali. L’intelligenza emotiva, quindi, comprende sia competenze personali riferite alla consapevolezza e padronanza di sé ed alla motivazione, sia competenze sociali di empatia ed abilità sociali.

Se, come prima accennato, le emozioni sono state oggetto di studio nella psicologia dello sport a partire dagli anni ‘80, l’intelligenza emotiva considerata in questo ambito, costituisce un interesse ancora più recente, la letteratura sull’argomento è ad oggi nelle sue fasi iniziali, tanto più se prendiamo in considerazione lo specifico contesto degli sport da combattimento.

In questo caso verranno presi in esame sport da combattimento individuali intesi come : “Boxe in uno qualsiasi dei suoi stili, kick boxing in uno qualsiasi dei suoi stili, qualsiasi sport, arte marziale o attività in cui è richiesto ad ogni concorrente in una gara, di esporre o mostrare di quello sport, l’arte o l’attività di colpire, calciare, lottare, atterrare (proiettare) uno o altri concorrenti, come prescritto dal regolamento… Particolari regole determinano il vincitore della competizione, ad esempio, ottenendo più punti dell’avversario o immobilizzando, atterrando l’avversario” (New South Wales Legislation Act, Combact Sports Act 2008).

Una definizione più recente dell’intelligenza emotiva è quella di Mayer, Salovey e Caruso (2008), che la descrivono come [blockquote style=”1″]l’abilità di impegnarsi in sofisticati processi di elaborazione delle informazioni circa le proprie ed altrui emozioni e, l’abilità di utilizzare queste informazioni come una guida per il pensiero ed il comportamento.[/blockquote] Negli sport da combattimento numerose e complesse informazioni richiedono di essere processate per generare una risposta veloce ed adeguata, sia sul piano del pensiero sia su quello del comportamento.

Nell’elaborazione delle emozioni un ruolo fondamentale è giocato dal livello di arousal, inteso come generale attivazione fisiologica e psicologica che varia lungo un continuum, da una profonda quiete ad uno stato di eccitazione (Gould e Krane, 1992). In ogni tipo di sport, particolarmente in quelli da combattimento, l’arousal deve essere mantenuto ad un livello ottimale (Jokela e Hanin, 1999) per permettere agli atleti di reagire velocemente agli attacchi, così come di bloccare o evitare l’assalto dell’avversario (Devonport, 2006). Negli sport da combattimento viene richiesto un alto livello di intelligenza emotiva per ciò che concerne il continuo controllo e monitoraggio delle proprie emozioni e la valutazione delle emozioni dell’avversario.

Nel contesto sportivo, la relazione con l’altro, prevede l’utilizzo di tecniche adeguate combinate con le emozioni, che possano scaturire in un’anticipazione delle reazioni dello sfidante. Mayer (2008) individua quattro aspetti dell’intelligenza emotiva correlati agli sport da combattimento: la valutazione delle proprie emozioni, cruciale nel regolare il livello di arousal; la comprensione delle emozioni altrui, necessaria per prevedere le reazioni ed azioni dell’avversario; uso delle emozioni per mascherare e fingere le proprie emozioni ed usarle a proprio vantaggio durante il combattimento ed infine, l’autoregolazione delle emozioni, per mantenere un appropriato livello di arousal e controllare la situazione.

 

Gli studi sull’intelligenza emotiva degli atleti di sport di combattimento

Alla luce di quanto sostenuto, sono stati condotti diversi studi per valutare se il livello di intelligenza emotiva fosse più alto negli atleti rispetto ai non atleti. In particolare in uno studio di Szabo e Urban (2014), sono stati confrontati i livelli di intelligenza emotiva in atleti che praticavano boxe e judo, paragonati ai non atleti. I risultati mostrano come gli atleti abbiano maggiori livelli di intelligenza emotiva rispetto ai non atleti, gli autori, collegano quanto rilevato alla pratica di questi sport. Risultati simili sono stati ottenuti anche in uno studio condotto da Costarelli e Stamou (2009) su atleti d’élite di taekwondo e judo, confrontati con i non atleti.

Da studi longitudinali condotti da Lane (2002) e Devonport (2006) si può osservare come i pugili mostrino un incremento nell’intelligenza emotiva correlato agli anni di pratica. Questi risultati sembrano in controtendenza con quella che è l’opinione comune che vede il pugilato come uno sport segnato da un forte stima sociale, perché troppo aggressivo o violento.

Lane et al. (2009) hanno approfondito anche quali fossero le emozioni associate a performance di successo: vigore, felicità e calma; mentre quelle correlate a scarse performance sembrerebbero essere: confusione, depressione e stanchezza. Non solo l’intelligenza emotiva è correlata alle emozioni piacevoli, ma gli atleti che ottengono punteggi più alti nelle scale self-report su questo costrutto, utilizzano frequentemente competenze psicologiche.

Una delle questioni sorte nello studio delle emozioni in questo tipo di sport riguarda proprio il ruolo della rabbia, poiché è opinione comune associare sport da combattimento ad espressione di aggressività, dove la rabbia potrebbe giocare un ruolo incentivante. In realtà questa emozione dovrebbe essere dosata con cura e mantenuta a livelli bassi, perché sia d’aiuto alla performance (Robazza, Bertollo e Bortoli, 2006), altrimenti rischierebbe di provocare un dispendio di energie e quindi diminuire le probabilità di successo. Questi autori sottolineano come la rabbia sia connessa al tipo di sport praticato ed al livello di competitività dell’atleta, suggerendo come sia la capacità di controllare questa emozione e non di sopprimerla, ad avere un ruolo incentivante. Non solo, atleti che praticano sport quali karate, aikido e taekwondo, mostrano un migliore controllo dei comportamenti aggressivi che progredisce con gli anni di pratica (Graczyk et al.,2010).

Il controllo delle proprie emozioni e di altre competenze dell’intelligenza emotiva, non si apprende solo attraverso gli anni di pratica dello sport, ma anche con l’utilizzo di specifiche strategie e mental skills. Da una review condotta su diversi studi, Devonport (2006) individua sette mental skills utilizzate sia nelle arti marziali che nella kick boxing: strategie di ricerca visiva, uso del self-talk, rilassamento, attenzione focalizzata, autoregolazione dell’arousal, goal setting e imagery. Le caratteristiche psicologiche collegate al successo includono l’autoeffiacia e la motivazione. Queste skills sembrano essere presenti in diversi campioni, Muhammad Ali diceva: [blockquote style=”1″]è la ripetizione delle affermazioni che ti porta a crederci, e quella credenza si trasforma poi in una convinzione profonda, e le cose iniziano ad accadere.[/blockquote]

Gli atleti intervistati da Devonport enfatizzavano l’importanza di sviluppare oltre ad uno stile personale di combattimento, una propria preparazione mentale. A questo scopo gli intervistati hanno riferito di utilizzare diverse strategie: una routine pre-competizione con elementi di self-talk, imagery, controllo dell’arousal e del linguaggio corporeo; durante la competizione riportano di prestare attenzione al controllo dell’aggressività, paura ed ansia; mentre, post competizione, la riflessione viene ritenuta una parte fondamentale. Tazegul (2015) ha condotto uno studio circa i livelli di ansia di atleti di diversi sport: boxe, kickboxing e lotta, riscontrando come i lottatori abbiano minori livelli di ansia rispetto agli altri atleti, riconducendo questa abilità a migliori strategie di coping sviluppate proprio negli anni di pratica dello sport.

Secondo Salovey (1999) un prerequisito per un efficace coping delle emozioni negative, elicitate da eventi stressanti, è proprio l’intelligenza emotiva: individui con elevate competenze sembrerebbero in grado di percepire e valutare gli stati emotivi, di conoscere come e quando esprimerli e regolarli.
Come già accennato, dell’intelligenza emotiva non fanno parte solo l’autoconsapevolezza, il controllo e la regolazione delle proprie emozioni, ma anche la motivazione. Quest’ultimo aspetto viene ritenuto cruciale anche dagli atleti, soprattutto collegato al senso di autoefficacia. Un caso particolare osservato in diversi studi (Szabo, 2014; Graczyck, 2010) è quello dei pugili: spesso questi atleti provengono da condizioni socioculturali svantaggiate e trovano proprio in questo sport una motivazione ed attribuzione di autoefficacia, con relativa diminuzione dei comportamenti aggressivi. Troviamo esempio di ciò anche andando ad osservare la vita di pugili più noti, come Rocky Marciano: “la cosa a cui pensavo più spesso era la povertà che mia madre e mio padre avevano affrontato”.

Bandura (1977) individua un collegamento tra realizzazione della performance ed autoefficacia, secondo Lane (2002) ci sarebbero prove a supporto di questa relazione anche nel pugilato, dove è possibile riscontrare una connessione tra autoefficacia e stile di combattimento (attacco o difesa).

Considerando questi sport come fenomeni sociali, possiamo individuare la loro controparte relazionale e quindi le competenze di intelligenza emotiva necessarie ed implicate nella relazione con l’altro, cioè nei match. La capacità di controllare le proprie emozioni può essere utilizzata negli incontri con azioni che sorprendano l’avversario: finte, variazioni della velocità, utilizzo di combinazioni variegate e colpendo parti del corpo diverse (tra quelle ammesse dal regolamento).

[blockquote style=”1″]Il pugilato è uno sport mentale, se immaginate uno scontro per il titolo come una partita a scacchi sarete assai più vicini alla realtà che se lo paragonate ad una rissa in un vicolo.[/blockquote] (Budd Schulberg)

 

Conclusioni

Un limite di questo argomento risiede nel fatto che la letteratura sul tema sia ancora carente, le arti marziali sono conosciute e praticate da anni in tutto il mondo, mentre solo di recente si stanno diffondendo sport da combattimento, si pensi ad esempio alle MMA. Da sottolineare è anche il fatto che questi studi siano viziati da un bias di genere, poiché la stragrande maggioranza degli atleti intervistati sono di sesso maschile.

Emozioni ed intelligenza emotiva occupano un ruolo centrale all’interno degli sport da combattimento e solo recentemente si riconosce l’importanza di una preparazione mentale oltre che fisica. Studi in corso di realizzazione sembrano concentrarsi non solo sulla preparazione mentale dell’atleta, ma anche su quella dei coach, se essi siano in grado e come, di riconoscere e valorizzare le capacità di intelligenza emotiva dei propri allievi. Non si può dimenticare che in questi sport a produrre un’enorme differenza siano la filosofia e i metodi di insegnamento dei maestri.

[blockquote style=”1″]L’attitudine mentale determina l’azione. Nelle Arti Marziali si vince con la mente, molto più che con il corpo, l’abilità o altro.[/blockquote]
Yukio Mishima

Paris-Manhattan e la filmterapia: quando i film aiutano a star meglio

Vedere Paris-Manhattan mi ha fatto pensare alla filmterapia, l’idea di dispensare film per dare una sorta di carica di buonumore mi è piaciuta subito e cercando un po’ sul web ho quindi reperito molte informazioni in merito. 

 

Paris-Manhattan di S. Lellouche

Paris-Manhattan è un film del 2012 diretto da Sophie Lellouche. Una tipica commedia francese leggera e assolutamente breve (non più di 80 minuti di pellicola) che parla di Alice (interpretata da Alice Taglioni) solitaria e sognatrice che ha una sorta di ossessione per i film di Woody Allen e diciamo anche per lui, con il quale è solita interloquire guardando il suo poster in cerca di consigli.

Alice è inoltre anche una giovane farmacista il cui padre le lascia l’attività e che, oltre dispensare medicine tra i vari scaffali, allestisce anche una piccola videoteca per cure alternative prestando dvd ai clienti .

Lo spirito come detto è quello tipico della commedia francese ma con una sequela di citazioni dedicate tutte al grande regista tra cui la più evidente è proprio quella della protagonista Alice che ha come mentore l’immaginario Woody a cui chiede consigli e le suggerisce cosa fare, chiarissimo riferimento al film ‘Provaci ancora, Sam‘, in cui Woody Allen aveva un immaginario Humphrey Bogart come modello di vita e consigliere personale.

 

Filmterapia: l’utilizzo di film per alleviare il disagio emotivo

Vedere questo film è sicuramente un toccasana per gli amanti del grande Allen e per i più romantici sognatori ad occhi aperti appassionati di storie d’amore. Vedere questo film mi ha fatto pensare alla filmterapia, l’idea di dispensare film per dare una sorta di carica di buonumore mi è piaciuta subito e cercando un po’ sul web ho quindi reperito molte informazioni in merito. Ovviamente, qualcuno prima di me e della protagonista del film aveva già pensato all’utilizzo dei film per istruire nonché alleviare tanti stati emotivi che ci pervadono, assalgono e deprimono.

Non parliamo di psicoanalisi o di stati patologici ma di ordinario disagio, di un supporto ad un momentaneo sconforto attraverso le immagini attraverso una storia narrata in un film. Ho scoperto quindi che una quarantina di anni fa Gary Solomon (psicoanalista americano) autore del libro ‘The Motion Picture Prescription: Watch This Movie and Call Me in the Morning: 200 Movies to Help You Heal Life’s Problems’ cominciò a consigliare ai suoi pazienti alcuni film in funzione ovviamente della situazione. Negli stessi anni all’Università Sapienza di Roma fu intrapresa una ricerca in tal merito, portata avanti da Vincenzo Maria Mastronardi e Monica Calderaro, anche’essi autori di un libro simile sull’argomento ‘I Film che aiutano a stare meglio. Filmtherapy‘.  Oggetto di tale ricerca, le ripercussioni emozionali della visione di 1500 film, successivamente portati a 3000 film su pazienti in terapia, alcuni allievi dell’Università e una terza categoria di persone esterne all’Università.

I film scelti furono per la maggior parte noti e classificati per tematica psicologica e, nel libro sopracitato, ad ognuno è stata associata la relativa prescrizione terapeutica, incluse le modalità psicologiche con cui approcciarsi al singolo film da utilizzare come “Strumento di Insight”, introspezione e presa di coscienza per una migliore ridefinizione di nuovi processi esistenziali, problemi di comunicazione di coppia, stress lavorativo, adolescenza e passaggio nell’età adulta, conflitti familiari, ecc.. Una vera e propria “enciclopedia psicofilmica” rivolta a tutti.

I film sono stati quindi utilizzati come “carriers intrapsichici” al fine di veicolare, ove carenti, dei contenuti di rinforzo. Un altro studio in tema di filmterapia, condotto all’università del Michigan ha verificato invece come assistere alla proiezione di un film sia addirittura in grado di far variare i livelli ormonali. Vedere quindi film duri, come ad esempio ‘Il Padrino’ fa aumentare il valore di testosterone mentre vedere film commoventi come ‘I ponti di Madison County‘ fa aumentare il progesterone.

Che dir si voglia, sicuramente vedere un film crea quindi una carica emotiva tale da modificare lo stato psicofisico di chi si cala nella vicenda, nella colonna sonora e nelle riprese. Possono riemergere quindi dall’inconscio elementi sepolti, dimenticati o non perfettamente elaborati, utilizzabili come presa di coscienza e metabolizzazione.

 

Pellicole consigliate per la filmterapia

A conclusione di ciò, si può dire che uno psicologo cinefilo avrà sicuramente un’arma in più da utilizzare per il bene dei propri pazienti. Ho letto diverse prescrizioni film terapeutiche, le tematiche sono tante e i film ancora di più ma volendo riprendere la scia di Paris-Manhattan, concentrandoci quindi solo sul regista Newyorkese, ecco una piccola lista di film assolutamente da vedere per i momenti di ordinaria insoddisfazione generalizzata ai più disparati stati emotivi, in fondo Woody secondo la prescrizione della bella Alice è “da vedere senza moderazione, mattina mezzogiorno e sera” e va benissimo per tutto:

  • Il dittatore dello stato libero di Bananas (Bananas) (1971)
  • Provaci ancora, Sam (Play It Again, Sam) (1972)
  • Il dormiglione (Sleeper) (1973)
  • Amore e guerra (Love and Death) (1975)
  • Io e Annie (Annie Hall) (1977)
  • Manhattan (1979)
  • Stardust Memories (1980)
  • Una commedia sexy in una notte di mezza estate (A Midsummer Night’s Sex Comedy) (1982)
  • La rosa purpurea del Cairo (The Purple Rose of Cairo) (1985)
  • Harry a pezzi (Deconstructing Harry) (1997)
  • Match Point (2005)
  • Vicky Cristina Barcelona (2008)
  • Basta che funzioni (Whatever Works) (2009)
  • Midnight in Paris (2011)
  • Blue Jasmine (2013)
  • Irrational Man (2015)

 

GUARDA IL TRAILER ITALIANO DEL FILM PARIS-MANHATTAN:

Mamme e papà a confronto. Cosa comporta essere genitori?

Un nuovo studio condotto da una sociologa della Cornell University ha dimostrato che, sebbene i genitori gioiscano del tempo trascorso con i loro figli, l’accudimento di un bambino richiede più sforzo alle madri.

In base a quanto riscontrato dai ricercatori, è molto probabile che ciò dipenda dal fatto che le mamme passano più tempo con i figli occupandosi però contemporaneamente delle faccende più faticose, come ad esempio soddisfare i bisogni infantili di base, cucinare o pulire; al contrario dei papà che trascorrono, invece, il loro tempo con i bambini svolgendo attività più piacevoli e poco stressanti come giocare, svagarsi o oziare.

[blockquote style=”1″]Non bisogna pensare che le mamme siano così stressate a causa dei loro figli, ma piuttosto che rispetto ai padri, sperimentano una maggiore fatica[/blockquote] ha detto Kelly Musick, professoressa associata di Analisi delle Politiche Pubbliche e Management alla Cornell e co-autrice dello studio apparso su American Sociological Review.

[blockquote style=”1″]Le madri fanno cose diverse con i figli rispetto a ciò che fanno i padri, cose che sappiamo non essere così piacevoli. Giocare con i propri figli è un’esperienza particolarmente piacevole per i genitori, e i padri giocano di più rispetto alle madri. [/blockquote] Gran parte del tempo che i padri passano con i bambini, inoltre, è un “momento di famiglia”, ovvero quando anche la madre è presente, in tal modo, gli uomini non hanno la responsabilità esclusiva dei bambini così spesso come le madri.

L’autrice ha suggerito un’analogia con il gioco del calcio usata dalla defunta sociologa Suzanne Bianchi, che ha paragonato le madri ai “difensori liberi” (o semplicemente liberi, in lingua originale: “sweepers”, “spazzini”) che fanno ciò che devono per difendere la porta. [blockquote style=”1″]Giocano quando hanno tempo per giocare, ma si assicurano che tutto il resto sia sotto controllo. La cena pronta, i bambini lavati, il bucato piegato. Giocano con i loro bambini, ma considerando tutte le cose che fanno, è solo una piccola quota del loro tempo .[/blockquote]

I ricercatori hanno utilizzato una nuova fonte di dati e un nuovo approccio per ottenere tali risultati. Analizzando i diari sull’utilizzo del tempo quotidiano provenienti dall’American Time Use Surveys del 2010, 2012 e 2013, i ricercatori hanno esaminato i resoconti di 12.000 genitori per valutare il modo in cui si sentivano e ciò che stavano facendo durante tre periodi casuali nel corso di una giornata di 24 ore. Per ogni periodo, i genitori hanno valutato quanto si sentivano felici, tristi, stressati e stanchi e quanto significativa consideravano l’attività che stavano svolgendo. I ricercatori hanno poi confrontato come i genitori si sentivano durante l’attività svolta con i loro figli con la sensazione che avvertivano nel condurre lo stesso tipo di attività senza però i bambini.

[blockquote style=”1″]Molto del come un genitore si sente sull’essere tale si basa su momenti assolutamente accidentali trascorsi con i figli, come passare del tempo sul divano o andare a fare la spesa. C’è tantissima genitorialità in questi piccoli momenti.[/blockquote]

Musick ritiene che sia probabile che le madri si occupino della parte di accudimento più impegnativa perché le aspettative sono più alte per loro che per i padri. Le differenze tra gli standard di genitorialità previsti dalla società per madri e padri a loro volta rendono difficile alle madri il fatto di chiedere meno a se stesse come genitori. [blockquote style=”1″]Come sociologo, vorrei che noi, come società, potessimo lasciar perdere alcuni degli assunti e dei vincoli che abbiamo posto sui ruoli di madre e di padre. Le coppie potrebbero collaborare nel cercare di cambiare il modo in cui essere genitore, anche se questa non è la reale soluzione. La soluzione è che noi collettivamente ripensiamo e rivediamo ciò che ci si aspetta da un padre e ciò che ci si aspetta da una madre.[/blockquote]

Bello da impazzire: la Sindrome di Stendhal

Di fronte alla bellezza si può impazzire? Pare proprio di sì ed i più gettonati nel provocare gli svenimenti sembrano essere i due Michelangelo, il Buonarroti (1475-1564) ed il Caravaggio (1571-1610). Di fronte ad opere d’arte cariche di significati simbolici, ambivalenti, sensuali e perturbanti, che possono andare a toccare aspetti dell’inconscio inesplorati o rimossi, infatti, possiamo vivere un’esperienza che provoca sofferenza psichica e che è conosciuta con il nome di Sindrome di Stendhal (o Sindrome di Firenze).

 

L’esperienza di Stendhal a Firenze

Il nome di tale sindrome si deve allo scrittore francese Stendhal (1783-1842) che, durante una visita alla Basilica di Santa Croce a Firenze, fu colto da una crisi che lo costrinse ad uscire dalla chiesa per potersi risollevare dalla reazione vertiginosa che quel luogo d’arte scatenò nel suo animo.

Nel suo libro “Roma, Napoli e Firenze. Viaggio in Italia da Milano a Reggio”, Stendhal scrive: [blockquote style=”1″]Ero già in una sorta di estasi, per l’idea di essere a Firenze, e la vicinanza dei grandi uomini di cui avevo visto le tombe. Ero arrivato a quel punto di emozione dove si incontrano le sensazioni celestiali date dalle belle arti e i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, avevo una pulsazione di cuore, quelli che a Berlino chiamano nervi: la vita in me era esaurita, camminavo col timore di cadere… Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti e dai sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me era inaridita, camminavo temendo di cadere.[/blockquote]

 

Che cos’è la Sindrome di Stendhal

Stendhal visse un’esperienza di estasi incredibile, sperimentò in prima persona gli effetti di una patologia psicosomatica che insorge al cospetto di opere d’arte particolarmente evocative. Essa si manifesta come una sensazione di malessere diffuso, con stato confusionale, nausea, vomito, difficoltà respiratorie, allucinazioni, sensazione di svenimento e perdita di coscienza.

Colpisce persone esperte o inesperte d’arte che si trovano in una situazione emotiva molto coinvolgente. L’impatto emotivo con un’opera d’arte, infatti, è determinato da molteplici fattori, alcuni dei quali di tipo esterno, culturali, intellettuali, ascrivibili alla nostra formazione estetica ed ideologica ed altri più direttamente collegati ai nostri vissuti individuali, in particolare alle prime esperienze emozionali della nostra infanzia, che costituiscono il modello concettuale primario dell’esperienza estetica.

La fruizione estetica, da un punto di vista psicologico, è caratterizzata soprattutto da meccanismi di identificazione: identificazione con l’artista (il fruitore, cioè, assume il punto di vista dell’artista e vive di riflesso l’emozione della creazione) e/o identificazione con l’opera (o con il personaggio che l’opera rappresenta).

Da un punto di vista psicoanalitico, a partire dallo stesso Freud che, sull’Acropoli di Atene, sperimentò uno “smarrimento cognitivo”, l’opera d’arte è un importante mezzo di comunicazione di contenuti inconsci: attraverso dipinti e sculture, infatti, si trasmettono i propri conflitti interiori, i propri traumi, le emozioni, gli istinti sessuali e gli impulsi repressi. Psicoanaliticamente parlando, nel fruitore affetto da Sindrome di Stendhal emerge un attaccamento morboso alla bellezza inestimabile di un’opera d’arte ed un intenso desiderio di appropriarsi di quella grazia indescrivibile.

Chi inizia a soffrire della Sindrome di Stendhal, infatti, non gode della bellezza estetica del capolavoro artistico, ma trova trasformati, nell’opera d’arte sotto forma di linguaggio artistico, impulsi, emozioni e conflitti profondi che, se non tollerati ed adeguatamente gestiti, possono provocare, a seconda dei casi, angoscia oppure euforia. Alcune peculiarità di un capolavoro artistico, in un determinato soggetto, in un determinato momento, possono, cioè, acquistare un elevato significato emotivo.

Se si accetta questa prospettiva, si può affermare che la reazione di un soggetto di fronte ad un’opera d’arte dipenda in gran parte dalla disposizione emozionale e dal rapporto che si instaura tra fruitore e creatore nel momento dell’incontro. Infatti, nel momento dell’incontro [blockquote style=”1″]si animano vicende profonde della realtà psichica e si riattiva la vitalità della sfera simbolica personale. E il viaggio diventa pure, nelle sue soste tanto attese nelle città sognate, un’occasione di conoscenza di sé.[/blockquote] (Magherini, 2003).

Un concetto, questo del “viaggio sentimentale”, già proposto nel Settecento da Laurence Sterne (1713-1768), che può essere considerato, a pieno titolo, un precursore della moderna psicologia. Lo scrittore britannico, infatti, diede all’aggettivo “sentimental” una connotazione psicologica, per cui i sentimenti divennero moti dell’animo e manifestazioni della sensibilità ed il viaggio metafora di un movimento esistenziale.

Il corpo accusa il colpo: mente, corpo e cervello nell’elaborazione delle memorie traumatiche

Partendo dall’osservazione clinica dei veterani di guerra presso la Boston Veterans Administration Clinic alla fine degli anni ‘70, l’autore spiega in modo dettagliato i diversi studi e le scoperte che hanno portato alle attuali conoscenze sul trauma e sul suo impatto su corpo, mente e cervello. In particolare, il senso di inutilità, il confronto con la forte vergogna, il numbing, ovvero l’ottundimento emotivo, la perdita di flessibilità mentale, sono solo alcuni dei sintomi riscontrati da Van Der Kolk nei suoi pazienti, sintomi che hanno origine dalla risposta di tutto il corpo al trauma originale.

Alessandra G. Montanari, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

Il trauma secondo Van der Kolk

[blockquote style=”1″]Non bisogna essere un soldato o visitare un campo di rifugiati in Siria o in Congo per imbattersi nel trauma. Il trauma accade a noi, ai nostri amici, alle nostre famiglie e ai nostri vicini. […] Le esperienze traumatiche lasciano tracce sia su larga scala (nella storia e nella cultura) sia nella quotidianità, all’interno delle nostre famiglie. Lasciano tracce anche nella mente e nelle emozioni, nella nostra capacità di provare gioia e di entrare in intimità e, persino, nella biologia e nel sistema immunitario. Il trauma colpisce non solo chi ne è direttamente interessato, ma anche i suoi cari.[/blockquote]

Apre così Van Der Kolk il suo libro “Il corpo accusa il colpo”, sottolineando la natura complessa e complicata del trauma e le sue interferenze nella vita quotidiana, anche a distanza di molto tempo dall’evento traumatico. Il trauma, infatti, non intaccherebbe soltanto il senso di Sé, ma anche il senso che ognuno di noi dà al proprio vissuto, impedendoci di stare nel presente e di coinvolgerci quindi in relazioni soddisfacenti, perché costantemente sopraffatti da uno stato di paura persistente.

Partendo dall’osservazione clinica dei veterani di guerra presso la Boston Veterans Administration Clinic alla fine degli anni ‘70, l’autore spiega in modo dettagliato i diversi studi e le scoperte che hanno portato alle attuali conoscenze sul trauma e sul suo impatto su corpo, mente e cervello. In particolare, il senso di inutilità, il confronto con la forte vergogna, il numbing, ovvero l’ottundimento emotivo, la perdita di flessibilità mentale, sono solo alcuni dei sintomi riscontrati da Van Der Kolk nei suoi pazienti, sintomi che hanno origine dalla risposta di tutto il corpo al trauma originale. Le persone traumatizzate sono come bloccate all’interno del trauma stesso, si sentono vive solo rivisitando il loro passato traumatico e lo sovrappongono a qualunque cosa accada loro nel presente e preferiscono rimanere bloccate nella paura che già conoscono piuttosto che sperimentare nuove possibilità, rendendo quindi difficile, se non impossibile, poter contemplare un futuro migliore e nuovi obiettivi da raggiungere (deficit dell’immaginazione).

L’osservazione e la pratica clinica portano l’autore ad affermare che[blockquote style=”1″] …il trauma non è solo un evento accaduto una volta nel passato, ma si riferisce anche all’impronta lasciata da quell’esperienza sulla mente, sul cervello e sul corpo. Quest’impronta ha continue conseguenze sul modo in cui l’organismo umano gestisce la sopravvivenza nel presente. […] Cambia non solo il modo in cui pensiamo e ciò che pensiamo, ma anche la nostra effettiva capacità di pensare. Abbiamo scoperto che aiutare le vittime di trauma a trovare le parole per descrivere ciò che è accaduto loro è profondamente significativo ma, spesso, non è sufficiente. L’azione di raccontare la storia non modifica necessariamente le risposte fisiche e automatiche del corpo, che rimane ipervigile e pronto a essere assalito o violentato in qualunque momento. Perché avvenga un reale cambiamento, il corpo ha bisogno di apprendere che il pericolo è passato e di vivere nella realtà presente.[/blockquote]

 

Il contributo delle neuroimaging alla comprensione delle memorie traumatiche

Queste nuove scoperte, insieme all’introduzione dei nuovi strumenti di neuroimaging, agli studi sempre maggiori sul funzionamento di ormoni e neurotrasmettitori e degli effetti della farmacoterapia su di essi, hanno portato ad una nuova prospettiva di conoscenza e studio del trauma.

Van Der Kolk dedica, infatti, un’ampia parte del manuale alla spiegazione degli studi di Brain Imaging e delle relative scoperte rispetto al funzionamento del cervello nelle persone traumatizzate. In particolare, l’autore spiega come in seguito all’esposizione di immagini, suoni o pensieri relativi al trauma passato, l’amigdala, ovvero la struttura cerebrale che gestisce la paura, reagirebbe con l’attivazione di uno stato di allarme anche dopo anni dall’evento, provocando l’attivazione di ormoni dello stress (cortisolo) e di impulsi nervosi che preparano il corpo all’attacco/fuga (aumento pressione sanguigna, battito cardiaco, frequenza respiratoria).

Al tempo stesso si avrebbe una disattivazione dell’emisfero sinistro che pregiudicherebbe la riorganizzazione delle esperienze in sequenze logiche e la traduzione in parole di pensieri ed emozioni (blocco dell’afflusso di sangue nell’area di Broca, ovvero lobo frontale sinistro, e spegnimento di tale area ogni volta che viene sollecitato un flashback).

Come già specificato in precedenza, il trauma influisce non solo sul cervello, ma anche a livello corporeo. Nella seconda parte del libro, Van Der Kolk si concentra su questo punto e su quanto il trauma influisca sulla consapevolezza del sè. In risposta al trauma stesso, i pazienti, infatti, avrebbero imparato a spegnere le aree del cervello che trasmettono le sensazioni e le emozioni legate alla paura, le stesse aree che nella vita di tutti i giorni sarebbero responsabili della registrazione delle emozioni e delle sensazioni che definiscono noi stessi e chi siamo. Per cercare di eliminare le sensazioni dolorose e di paura, i pazienti annullerebbero quindi la capacità di sentirsi pienamente vivi. Van Der Kolk afferma che [blockquote style=”1″]la mente ha bisogno di essere rieducata a sentire le sensazioni fisiche e il corpo ha bisogno di essere aiutato a tollerare e a godere del benessere del contatto.[/blockquote]

A tale proposito è fondamentale rieducare le persone traumatizzate ad avere consapevolezza dei vissuti sensoriali provenienti dall’interno del corpo. Van Der Kolk insiste nell’aiutare i pazienti a familiarizzare con le sensazioni corporee e fisiche sottostanti alle emozioni.

 

L’influenza degli abusi sessuali nella vita adulta

La parte terza del libro è interamente dedicata agli abusi infantili e all’impatto che essi hanno sulla vita adulta delle persone traumatizzate. L’autore aveva osservato come alcune persone traumatizzate non ricordassero i loro traumi o comunque non fossero tormentati dal trauma stesso, ma si comportassero come se fossero costantemente in pericolo, mostrando difficoltà di concentrazione, irascibilità e odio verso se stessi e gli altri, difficoltà nel coinvolgersi in relazioni intime. Soffrivano inoltre di molti problemi di salute, mostravano comportamenti autolesivi e avevano dei “buchi” mnesici. Tutto questo li differenziava dai veterani di guerra e dalle vittime di incidenti per i quali era stata creata la diagnosi di PTSD (Post Traumatic Stress Disorder, introdotta nel 1980 nel DSM-III). Diversi studi ed evidenze hanno dimostrato come le conseguenze dell’abuso e della trascuratezza da parte della figura primaria di attaccamento siano estremamente complesse e abbiano un impatto devastante sulla persona, tanto da poter parlare di PTSD complesso.

In diverse parti del manuale, Van Der Kolk riprende l’importanza della diagnosi, perché solo attraverso una diagnosi accurata si può procedere all’utilizzo di trattamenti efficaci e, al tempo stesso, non si può creare un trattamento per una condizione medica inesistente. A tal proposito, l’autore muove una critica nei confronti della mancata inclusione del PTSD complesso all’interno del DSM-IV. Non disporre di una diagnosi di questo tipo, infatti, fa sì che le persone che affrontano ogni giorno le conseguenze di un abuso o di un abbandono, vengano inquadrate in una determinata diagnosi (ad esempio Depressione, Attacchi di Panico, Personalità borderline) che non descrive esattamente la loro reale condizione.

 

I percorsi di cura delle vittime di traumi

Il manuale si conclude con un’ampia parte sui percorsi di cura. Non esisterebbe un trattamento specifico per il trauma, perché come spiega Van Der Kolk [blockquote style=”1″]…nessuno di noi può essere in grado di trattare una guerra, un abuso, uno stupro, una molestia, o qualunque altro evento di simile portata. Ciò che è successo non può essere cancellato. Quello che si può fare, invece, è occuparsi delle tracce del trauma nel corpo, nella mente e nell’anima.[/blockquote]

Ciò che viene curato non è quindi il trauma ma l’individuo che lo ha subito e la sua specifica risposta ad esso, riabituando la persona a sentirsi padrona di se stessa, del suo corpo e della sua mente (self-leadership).

L’autore presenta ottimi spunti di trattamento che uniscono un lavoro sul cervello, inteso ad esempio come riduzione dell’iperarousal, ad un lavoro sull’autoconsapevolezza corporea, focalizzandosi sulle sensazioni interne, ad esempio attraverso la mindfulness. Accanto a questi aspetti, è fondamentale ristabilire delle buone relazioni di aiuto, che facciano sentire la persona traumatizzata al sicuro.

Oltre alle diverse tecniche e agli approcci, ciò che non può mancare è la capacità di costruire una relazione terapeutica in cui il terapeuta sia sintonizzato sui vissuti delle persone traumatizzate, sulle loro emozioni e i loro pensieri, monitorando al tempo stesso i propri, in modo da stabilire un ambiente di fiducia e sicurezza.

 

Conclusioni

Oltre ad essere una piacevole e ottima lettura per tutti, questo manuale rappresenta una buona integrazione di tutte le attuali conoscenze sul trauma, approfondite da osservazioni cliniche e da letture critiche dell’autore.
Per i terapeuti rappresenta una buona fonte di supporto per la comprensione delle manifestazioni cliniche delle persone traumatizzate e offre validi spunti di intervento.

Bisessualità – FluIDsex

Bisessualità del partner e insicurezza

Sono Emanuele, e sono fidanzato con ragazzo bisessuale (Cristian), io sono omosessuale e non riesco proprio a capire. Lo amo immensamente e temo di non bastargli. Non mi sento completo, sicuramente in me non può trovare tutto ciò che vuole dalla vita. Come può trovare attraente e pensare di amare anche una ragazza? Io continuo a non capire. Sono dispiaciuto, ma vorrei cambiasse. Lo amo, ma così penso di non poter sopportare questi pensieri a lungo. Il pensiero che lui desideri anche fare sesso con una donna, toccarla e penetrarla come con me non potrà mai fare. Questa relazione mi fa essere così insicuro del mio corpo.

 

Buongiorno,

il fatto che una persona si identifichi come bisessuale non significa necessariamente che nello stesso momento essa voglia intraprendere relazioni sia con una donna che con un uomo.

Il genere è solo uno dei punti di vista attraverso i quali si è attratti e si sceglie di condividere qualcosa con un partner. Non credo che a lei, ad esempio, basti che una persona sia di genere maschile per esserne attratto. E la sua omosessualità non comporta di certo che, in questo momento, nel suo partner non trovi tutto ciò che desidera nella sua vita affettivo-sessuale, e che per completezza avrebbe bisogno anche di altri uomini, con caratteristiche differenti.

Ed anche per quanto riguarda il discorso legato ad una sessualità diversa che Cristian potrebbe desiderare con una donna, ritengo che possa tornare ad adattarsi al discorso fatto poco sopra: anche lei potrebbe trovarsi limitato, con un suo partner, nel fare cose che, con altri uomini, potrebbe fare; Tutto ciò per differenze anatomiche che ognuno di noi riporta, anche all’interno dello stesso genere, e soprattutto, per differenze di pensiero e fantasia. Entro una sessualità completa, fatta di fantasie e scoperta dell’altro, converrà con me che ognuno di noi potrebbe esprimere una sessualità differente, a prescindere, anche questa volta, dal sesso biologico.

In seguito a queste osservazioni, caro Emanuele, vorrei soffermarmi sulla conclusione della sua domanda: “questa relazione mi rende così insicuro del mio corpo”. E se provassimo a leggere questa sua frase senza attribuire questa insicurezza alla sua relazione con Cristian? “sono così insicuro”. Cambiando prospettiva potrebbe iniziare a riflettere su se stesso. Ad esempio, dice che vorrebbe che il suo ragazzo cambiasse, e lei? Non hai mai pensato di voler cambiare qualcosa di sé? Ha mai pensato di non sentirsi “sicuro del (suo) corpo”, a prescindere dalla sua relazione con qualcuno?

Greta Riboli

 


 

Bisessualità non fa sempre rima con ambiguità

Sono bisessuale, ho un ragazzo ed è molto geloso e sapendo della mia sessualità, da lui definita ambigua, è infastidito da qualsiasi rapporto, anche in amicizia, che instauro con ragazzi e ragazze. Mi ritrovo costantemente a subire le sue scenate di insicurezza, così per evitare discussioni ho iniziato a rinchiudermi un po’ e a parte le amicizie di infanzia, non conosco più persone nuove.

 

Avere e mantenere una relazione monogama stabile non è mai un compito facile, soprattutto quando la propria identità sessuale è circondata da una pesante doppia stigmatizzazione proveniente sia da ambienti eterosessuali, sia da ambienti che (almeno in teoria) dovrebbero essere fonte di supporto e integrazione, come quelli LGBTQ.

Capisco la sua frustrazione. Purtroppo, proprio perché la sua identità si situa al di fuori della concezione binaria della sessualità (etero/omo), molto spesso la monogamia non le verrà attribuita di default, come invece accade (più o meno) alle persone eterosessuali o omosessuali; capita, quindi, che le persone bisessuali vengano pregiudizievolmente identificate come “sessualmente ingorde”.

Certamente esistono persone bisessuali apertamente non-monogame (che non è sinonimo di promiscuo o “ambiguo”), è questo il suo caso? Probabilmente no, ma è sicur* che questo sia chiaro anche al suo partner? Avete mai parlato del vostro stile relazionale? Siete entramb* monogam* seriali (ovvero la tendenza ad avere una relazione monogama dopo l’altra)? Molto spesso è meglio non dare nulla per scontato e cercare di parlare con chiarezza e serenità anche di quegli aspetti che generalmente tendiamo a non esplicitare.

Provando ad eliminare le possibili ambiguità percepite dal suo partner, magari riuscirete anche a smussare le sue insicurezze.

(Infine, se nulla dovesse cambiare, provi a riflettere: quanto e cosa le costa “rinchiudersi” per quel “quieto vivere” che lei cerca di mantenere evitando di aprirsi a nuove conoscenze?)

Lorena Lo Bianco

 

 


 

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La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

Sigmund Freud University Milano

Gli effetti del volo spaziale sulla connettività neuronale e sul comportamento

Secondo i risultati di una recente ricerca pubblicata su NeuroImage, trascorrere un lungo periodo nello spazio produrrebbe cambiamenti significativi nella connettività funzionale delle aree motorie, somatosensoriali e vestibolari del cervello degli astronauti.

 

Gli effetti del volo spaziale sul cervello degli astronauti

Questi networks sono coinvolti nell’orientamento e nella cognizione spaziale, nel controllo sensomotorio e somatosensoriale, nella pianificazione, coordinazione ed esecuzione di movimenti volontari. Tali cambiamenti, sarebbero associati a performance alterate nella memoria di lavoro e nel funzionamento cognitivo e sensomotorio. Tali risultati suggerirebbero che i meccanismi di neuroplasticità potrebbero facilitare l’adattamento all’ambiente in microgravità.

Nel dettaglio, i cambiamenti sensomotori dovuti alla permanenza nello spazio (i.e., difficoltà nella locomozione e nella stabilità posturale al rientro sulla terra) sembrerebbero dovuti ad una reinterpretazione da parte del cervello dei segnali vestibolari. Tuttavia, sebbene gli effetti della microgravità siano ben documentati, i meccanismi neurali che li sottendono sono relativamente sconosciuti.

 

Lo studio

In questo esperimento, quindi, per simulare la microgravità gli sperimentatori per 70 giorni hanno mantenuto i partecipanti dello studio (n = 17, gruppo di controllo n = 14) a letto in posizione di riposo, inclinati, con i piedi leggermente più in alto rispetto alla testa – posizione definita head-down tilt (HDT), che crea un angolo di circa 6° rispetto all’asse testa-piedi – producendo così una riduzione degli input sensoriali ai piedi, al corpo (direzione assiale) e una maggiore irrorazione sanguigna a livello cerebrale, effetti pressoché identici a quelli prodotti dalla microgravità sugli astronauti. La tecnica di neuroimaging impiegata è stata la risonanza magnetica funzionale in stato di riposo (RS-fMRI). Invece, i dati relativi al comportamento dei partecipanti sono stati rilevati in 7 diversi momenti: 12 e 8 giorni prima dell’esperimento, al giorno 7°, 50°, 70° e 8 e 12 giorni dopo il termine dell’esperimento.

 

I risultati

I dati ottenuti tramite la RS-fMRI mostravano un incremento nella connettività della corteccia motoria e somatosensoriale durante la registrazione in posizione inclinata (HDT) e riduzioni nella connettività delle stesse aree nel periodo immediatamente successivo. Al contrario, nelle aree temporoparietali si registrava una riduzione della connettività. I partecipanti che evidenziavano i maggiori incrementi nella connettività erano gli stessi che soffrivano maggiormente degli effetti negativi dell’esperimento – e quindi della microgravità – sull’equilibrio e la postura.

Secondo gli sperimentatori la maggiore connettività tra le cortecce motorie e somatosensoriali potrebbe riflettere una risposta adattiva del cervello alle modificazioni dell’ambiente; infatti, solitamente alla ripetizione di atti motori complessi segue una riorganizzazione funzionale della corteccia ad essi associata.

I precedenti studi riguardo la relazione tra HDT e connettività cerebrale, si sono limitati a considerare solo due momenti di rilevazione, il pre-HDT e il post-HDT, tralasciando la dinamica temporale dei cambiamenti nella connettività cerebrale. Anche per questo motivo i risultati del presente studio si caratterizzano come pionieristici nel sottolineare i meccanismi neurali coinvolti nei cambiamenti delle performance sensomotorie degli astronauti.

Studi sull’effetto placebo: riflessioni dal mondo dell’ipnosi

L’inganno non è un ingrediente necessario per sortire l’effetto placebo: sebbene l’idea che l’inganno non sia necessario per l’effetto placebo non sia nuova, Kaptchuk e colleghi (2011) ne forniscono la prima dimostrazione empirica.

Un gruppo di 80 pazienti affetti dalla sindrome dell’intestino irritabile sono stati suddivisi in due sottogruppi. Entrambi i gruppi sapevano di partecipare ad uno studio sull’effetto placebo. Sapevano inoltre che un gruppo avrebbe costituito il controllo, cioè il gruppo che non avrebbe ricevuto alcun trattamento. All’altro gruppo sarebbe stato somministrata una pillola di zucchero, senza alcuna proprietà terapeutica (gruppo placebo senza inganno). Tuttavia veniva messa in luce che la letteratura scientifica aveva dimostrato l’efficacia del placebo non solo nel miglioramento soggettivo dei sintomi, ma anche rispetto ad alcuni parametri fisiologici.

Sorprendentemente, il gruppo che aveva assunto la pillola di zucchero, pur sapendo che si trattava solo di zucchero, riportò un miglioramento dei sintomi e della qualità della vita.

Sebbene l’idea che l’inganno non sia necessario per l’effetto placebo non sia nuova, Kaptchuk e colleghi (2011) ne forniscono la prima dimostrazione empirica.

Secondo la definizione classica di effetto placebo, infatti, l’aspettativa di miglioramento del paziente e del medico quando si assume una sostanza creduta un farmaco, crea il miglioramento stesso.

Per chi, come me, si occupa da anni di ipnosi, la parte più interessante della ricerca è l’analisi qualitativa in cui si discute l’importanza della creazione di un contesto terapeutico e l’instaurarsi di una buona relazione terapeutica e la disseminazione di informazioni sull’efficacia scientifica delle varie forme di placebo. Questi sono elementi consapevolmente sfruttati da chi lavora con l’ipnosi Ericksoniana e che potrebbero essere efficacemente utilizzati nella comunicazione medica al fine di supportare l’efficacia dei trattamenti medici.

Metacognizione nei Disturbi di Personalità: il contributo della Terapia Metacognitiva Interpersonale

Il concetto di “metacognizione” ha conosciuto diverse definizioni a seconda dell’ambito di studio all’interno del quale è stato elaborato. Nell’accezione originaria, metacognizione significava “cognizione della cognizione” (Ganucci, Cancellieri et al., 2013). Per indicare questo nuovo campo di interesse sono stati utilizzati, spesso come sinonimi, i termini “metamemoria” e “metacognizione“. Infatti, le prime ricerche sulla metacognizione furono compiute su bambini di età prescolare, con l’obiettivo di esaminare la capacità di valutare le proprie abilità mnemoniche (Flavell et al., 1970).

Anderlini Matteo, Venturelli Valentina, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MODENA

 

Metacognizione: definizioni

La prima definizione generale di metacognizione venne elaborata da Flavell, che la intese come ogni conoscenza e attività cognitiva che prende come oggetto, o regola, ogni aspetto di qualsiasi impresa cognitiva (Flavell, 1976, 1981; Flavell et al., 1993).

Nella prospettiva della Terapia Metacognitiva Interpersonale -TMI- (Semerari et al., 2003; Semerari et al., 2008; Carcione et al., 2010; Dimaggio e Lisaker, 2010; Dimaggio et al., 2013), la metacognizione può essere definita come un insieme di abilità che consentono all’individuo di:
– identificare e attribuire stati mentali a sè e agli altri, sulla base delle espressioni facciali, degli stati somatici, dei comportamenti e delle azioni;
– pensare, riflettere e ragionare sugli stati mentali propri e altrui;
– utilizzare le conoscenze e le riflessioni sui propri ed altrui stati mentali per prendere decisioni, risolvere problemi o conflitti psicologici e interpersonali e, infine, padroneggiare la sofferenza soggettiva.

In linea con i lavori di Carcione et al. (1997), è opportuno sottolineare la distinzione tra contenuti metacognitivi e funzioni metacognitive. Per contenuti metacognitivi intendiamo le idee e le convinzioni con cui vengono interpretati e valutati i contenuti e i processi mentali. Per funzioni metacognitive intendiamo quell’insieme di abilità che ci consentono di comprendere i fenomeni mentali, di operare su di essi per la risoluzione di compiti e per padroneggiarli (Carcione e Falcone, 1999).

Questo modo di intendere la metacognizione coincide in gran parte con le funzioni analizzate da diversi autori: per esempio negli studi sulla Teoria della Mente (Baron-Cohen, Leslie e Frith, 1985; Premack e Woodroof, 1978), sulla Cognizione Sociale (Brüne et al. 2007), sull’Alessitimia, ossia la mancanza di consapevolezza emozionale (Taylor, Bagby e Parker, 1997; Vanheule, Verhaege e Desmet, 2011) e sulla Mentalizzazione (Allen, Fonagy e Bateman, 2008; Fonagy, Gergely, Jurist et al., 2002).

Nonostante sia presente una parziale sovrapposizione, esistono diversi aspetti che permettono di distinguere la metacognizione da questi costrutti (Dimaggio et al., 2013; Semerari et al., 2012).
Ad oggi, molti autori sono concordi nel definire la metacognizione come un sistema complesso composto da diversi sottosistemi in interazione tra loro (Semerari et al., 2003). Studi che giungono dal campo delle neuroscienze sembrano portare evidenze a favore di questa concezione, mettendo in luce aspetti specifici della metacognizione -autoriflessività e comprensione degli stati mentali altrui- relativamente indipendenti l’uno dall’altro, ma tra loro collegati in network funzionali (Ganucci Cancellieri et al., 2013; Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006).
La definizione di metacognizione include un insieme eterogeneo di funzioni e di abilità: ciò risulta utile sia per un fine prettamente diagnostico, sia per la pianificazione del trattamento, che può essere modulato ed orientato a quelle dimensioni che risultano effettivamente compromesse nel paziente.

Le componenti della metacognizione

Dimaggio e colleghi (2013) passano in rassegna queste diverse abilità:

1. Requisiti basici
Sono abilità basilari e trasversali alle diverse capacità metacognitive superiori. Tali requisiti permettono agli individui di essere consapevoli di possedere stati mentali propri ed indipendenti, che nascono all’interno della propria mente. Tali prerequisiti includono, quindi, la capacità di distinguere la nostra mente da quella degli altri, i quali possiedono stati mentali autonomi e il cui comportamento è portato avanti da intenzioni e motivazioni proprie. Comprendono, inoltre, la capacità di considerarsi come attori attivi, orientati alla risoluzione dei problemi e al padroneggiamento della sofferenza emotiva.
Tali requisiti di base risultano carenti in diverse patologie come la schizofrenia (Lysaker et al., 2013).

2. Autoriflessività
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Si riferisce alla capacità di identificare e definire le componenti di uno stato mentale in termini di pensieri, desideri, emozioni (Identificazione) e di comprenderne i nessi causali (Relazione tra Variabili). Possiamo distinguere tra un’identificazione cognitiva (pensieri e desideri) e un’identificazione emotiva (emozioni). La prima si riferisce alla capacità di identificare e attribuire cognizioni e intenzioni: “Io credo che…”, “Ho il desiderio di…”; la seconda fa riferimento alle emozioni: “Mi sento allegro…”, “Provo rabbia…”.
Inoltre, fa riferimento al riconoscimento e al monitoraggio delle proprie funzioni cognitive superiori, come la memoria, l’attenzione e l’apprendimento: “Mi rendo conto che non sono preparato bene per l’esame …Sotto pressione ho difficoltà di concentrazione…”.
Dopo aver identificato un’emozione o un pensiero, la componente Relazione tra Variabili, permette di ragionarvi, compiere inferenze su cosa mette in relazione il comportamento con intenzioni, cognizioni ed emozioni, sul modo in cui le scelte sono guidate da presupposti psicologici e su come gli stati mentali siano influenzati dagli stimoli sociali.
b) Differenziazione, ovvero la capacità di riconoscere la natura rappresentazionale del pensiero, distinguendo tra realtà interna ed esterna, cogliendo la differenza esistente tra diversi tipi di rappresentazioni (sogni, fantasie, credenze e ipotesi), tra rappresentazione e realtà. Inoltre, questa dimensione permette di cogliere la natura ipotetica e soggettiva del proprio pensiero, assumendo una prospettiva dalla quale vedere le proprie idee come ipotesi e non come certezze (Fonagy e Target, 1996; Rachman e Shafran, 1999).
Il concetto di differenziazione, cioè la capacità di assumere distanza critica dalle proprie convinzioni, è simile ad altri costrutti della terapia cognitiva, quali la defusion (Hayes, Strosahl, Wilson, 2013) e l’insight cognitivo (Beck, Baruch, Balter et al. 2004).
c) Integrazione. Si riferisce alla capacità di mantenere una visione unitaria del sé indipendentemente dal fluire e dall’alternarsi nella coscienza di stati mentali diversi (anche contraddittori) e indipendentemente dalla variabilità dei nostri comportamenti in contesti differenti. Integrare significa descriversi in modo completo e coerente all’interno di una narrazione che tenga conto di come tali stati mentali possono evolvere e modificarsi nel tempo.
Significa quindi essere consapevoli di come ci siamo evoluti, descrivere chi siamo oggi rispetto al passato, per esempio, come siamo cambiati durante la terapia o dopo eventi di vita dal profondo significato personale.

3. Comprensione della mente altrui
Comprende le seguenti sottofunzioni:
a) Monitoraggio. Comprende le sottocomponenti dell’Identificazione e della Relazione tra Variabili relativamente alla comprensione della mente altrui. Corrisponde alla capacità di attribuire agli altri intenzioni, motivazioni, desideri ed emozioni (identificazione cognitiva ed emotiva) -“È deciso a …”, “Ha un viso triste…”- e all’abilità di inferire alcuni contenuti mentali dell’altro dal suo comportamento verbale e non verbale. Una volta identificati gli stati mentali altrui, l’individuo può, quindi, ipotizzare nessi causali che spieghino quali processi cognitivo-affettivi portino gli altri ad agire.

b) Decentramento. Corrisponde alla capacità di descrivere il funzionamento mentale dell’altro formulando ipotesi indipendenti dalla propria prospettiva mentale e dal proprio coinvolgimento nella relazione. Significa, quindi, adottare la prospettiva dell’altro mettendosi nei suoi panni. Ad esempio, il paziente che adotta una prospettiva egocentrica, incapace cioè di differenziare il proprio punto di vista da quello altrui, attribuisce costantemente agli altri meccanismi propri del suo stesso funzionamento mentale e delle sue prospettive: esamina cioè i dati dal suo punto di vista scartando ogni possibile alternativa (Dimaggio e Semerari, 2003).

4. Mastery
Consiste nell’utilizzare intenzionalmente le conoscenze psicologiche per prendere decisioni, formulare strategie per fronteggiare la sofferenza soggettiva, risolvere conflitti interpersonali, realizzare i propri desideri, aiutare gli altri e cooperare.
La Mastery è riconducibile a strategie che si differenziano tra loro per livelli crescenti di complessità ed efficacia:

a) Strategie di primo livello. Implicano una modificazione dello stato mentale intervenendo direttamente sull’organismo, facendo ricorso all’ evitamento o al supporto interpersonale.
b) Strategie di secondo livello. Comprendono l’autoinibizione di una condotta o la distrazione volontaria.
c) Strategie di terzo livello. Comprendono la critica razionale a credenze disfunzionali, l’uso delle conoscenze sugli stati mentali altrui per risolvere problemi interpersonali e l’accettazione matura dei limiti personali.

Le strategie di mastery di primo livello sono le più semplici da un punto di vista metacognitivo in quanto richiedono, per lo più, la messa in atto di comportamenti senza rilevante impegno riflessivo. Fanno parte delle strategie di primo livello:

– L’azione diretta sul corpo. La persona cerca di agire direttamente sullo stato problematico modificando lo stato generale dell’organismo attraverso l’assunzione di farmaci, alcol, droga o facendo attività fisica. Un problema che può sorgere è l’uso sregolato di farmaci e sostanze, la sessualità compulsiva per placare l’ansia, o diete e iperattività fisica per calmare la tensione o regolare l’autostima.

– L’evitamento. La persona previene le condizioni di insorgenza dello stato problematico evitando attivamente e consapevolmente la situazione temuta.
– La ricerca di coordinamento interpersonale. La persona si rivolge agli altri per ottenere aiuto e supporto. I problemi, in questo caso, includono la difficoltà a chiedere aiuto agli altri, l’incapacità di capire che gli altri sarebbero disponibili ad aiutarci se lo chiedessimo o la tendenza a non fidarsi di se stessi e chiedere aiuto all’esterno alla minima difficoltà senza avere valutato attentamente se l’altra persona è disposta o in grado di darlo.

Perché queste strategie di primo livello siano considerate metacognitive è essenziale che il soggetto abbia deciso deliberatamente e volontariamente di utilizzarle per gestire lo stato mentale problematico.
Facciamo l’esempio di un ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata. Egli utilizzerà strategie di primo livello se, per far fronte al dispiacere e alla delusione, si prenderà una sbornia, eviterà i luoghi in cui può incontrarla o chiederà al primo amico disponibile di fare una passeggiata insieme per parlare. Per utilizzare queste strategie non è necessario essere particolarmente riflessivi, ma è sufficiente essere consapevoli, anche facendo riferimento all’esperienza passata, che un certo comportamento è in grado di modificarli positivamente, anche solo temporaneamente.

Le strategie di mastery di secondo livello richiedono un maggiore impegno riflessivo e sono finalizzate a ottenere una regolazione autonoma dell’assetto mentale.
Fanno parte delle strategie di secondo livello:

– Imporsi o inibire volontariamente un comportamento. Pazienti con Disturbo di Personalità (DP) fanno fatica a imporsi di concentrarsi, a compiere azioni funzionali o ad astenersi da azioni che riconoscono come dannose. Il paziente in stato di stress può non ricordare che l’attività fisica lo aiuta a ridurlo, e quindi resta chiuso in casa a rimuginare improduttivamente.

– Modificare attivamente l’attenzione e la concentrazione sul problema intrapsichico o interpersonale. Il paziente che rimugina sull’idea di essere abbandonato non riesce, ad esempio, a spostare attivamente l’attenzione dal pensiero disturbante, e non riesce a tenere in considerazione che se lo facesse la portata emotiva del problema si ridurrebbe.

Le strategie di secondo livello non contemplano una conoscenza mentalistica sofisticata dell’altro, si limitano a usare una teoria generale del funzionamento della mente altrui, a volte stereotipata, ma dotata di un certo grado di efficacia. Manca un’analisi attenta e individualizzata di cosa le persone con cui si interagisce sentono e provano. Per poter utilizzare queste strategie il soggetto ha bisogno di identificare i suoi pensieri e le sue emozioni e di avere un’idea chiara dei contenuti dai quali vuole distrarsi, deve, inoltre, essere capace di autoesortarsi o autoimporsi dei comportamenti.
Tornando al ragazzo che ha litigato con la sua fidanzata, mancando di una strategia di secondo livello, il paziente potrebbe dire: “Sono stato tentato più volte di telefonarle e alla fine l’ho fatto. Mi ha attaccato, era rabbiosa e ostile”. Se il paziente si fosse ricordato che in momenti di nervosismo la ragazza non aveva mai dato segni di comprensione, si sarebbe astenuto dal telefonare e quindi non avrebbe sperimentato delusione e rifiuto.

Le strategie di mastery di terzo livello richiedono un elevato impegno e comprendono:

– L’uso di una conoscenza approfondita e critica del proprio stato mentale problematico e del proprio funzionamento ordinario nella gestione della sofferenza psichica e nella soluzione dei problemi. Il paziente con disfunzioni in quest’area non riesce a pensare: “Sono un tipo irritabile e perdo le staffe facilmente quando sono deluso e ferito. Meglio che non la chiami, non sarei in grado di accettare le sue spiegazioni”. Ancor più, il paziente con DP non riesce a dire: “Sento che non mi ama abbastanza e mi trascura, ma il problema è che sono io a essere troppo esigente e non mi accontento mai di quello che gli altri mi danno”.

– L’uso di un’adeguata conoscenza della mente altrui nella soluzione di problemi interpersonali. Il paziente che sta fronteggiando la litigata con la partner non riesce a pensare: “Lei quando si sente ingiustamente attaccata, reagisce in modo impulsivo con insofferenza e rabbiosità. Devo aspettare che le passi per poterle parlare con calma e spiegare quello che è successo”. Al contrario, il paziente tenderà a fronteggiare la rabbia della partner tentando, inutilmente, di spiegare le sue ragioni, pensando di calmarla o sottomettendosi per evitare l’abbandono, dimenticando che nessuna di queste strategie ha mai funzionato con questa persona.

– L’accettazione matura dei propri limiti nel poter influenzare il cambiamento proprio e altrui e influire sugli eventi. Elaborando l’esempio della partner gelosa, il paziente potrebbe avere sollievo se pensasse: “Ho un grosso problema di insicurezza, la mia gelosia nasce da questo e non riesco proprio a controllarla. Purtroppo, per quanto lei si comporti in maniera esemplare e cerchi di farmi capire quanto mi ami, non posso pensare che si chiuda in casa! Però, se le lascio i suoi spazi e non le impedisco di uscire, la mia gelosia non la allontanerà. Se poi riesco a non insospettirmi per ogni cosa, lei non si sentirà controllata e attaccata, sarà più predisposta a comprendere e non si arrabbierà a sua volta”.
Oppure, un altro esempio può riguardare la difficoltà di un paziente di accettare i limiti altrui, capendo che, se l’altro è timido, non è utile criticarlo per non essere un brillante oratore o un animale sociale, ma lo si può stimare per tante altre qualità.

– La capacità di formulare previsioni sull’effetto che le nostre azioni avranno su di noi e sugli altri. Una buona mastery di terzo livello può essere così esemplificata: “Se le telefonassi ora, penserebbe sicuramente che sono in torto e che ho qualcosa da farmi perdonare e assumerebbe un atteggiamento ancora più difensivo. A quel punto io mi innervosirei e la discussione degenererebbe”. Invece, una scarsa mastery mentalistica lascia il paziente preda dell’azione impulsiva: “Mi ha riposto scherzando quando le ho chiesto di dirmi se mi amava. Non le parlo per tre giorni, così impara”. Il paziente da un lato non usa la differenziazione (ovvero non discute l’ipoteticità della propria assunzione), dall’altro dimentica che il proprio comportamento di chiusura avrà un impatto negativo.

Il dominio della mastery è particolarmente importante, carenze in questo ambito sono quelle che di solito creano più problemi ai pazienti con DP, i quali non riescono ad usare la conoscenza mentalistica in modo pragmatico e con finalità di coping e problem solving. La mastery risulta, infatti, compromessa in vario grado in tutti i DP (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

La metacognizione nei pazienti con disturbi di personalità

Le ricerche sulla metacognizione, realizzate utilizzando strumenti specifici come la Scala di Valutazione della Metacognizione (SVaM; Carcione, Dimaggio, Conti et al., 2010; Semerari, Carcione, Dimaggio et al. 2003) e l’Intervista per la Valutazione della Metacognizione (IVaM; Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012), hanno tentato di verificare quattro ipotesi principali:

l) che la metacognizione abbia la struttura ipotizzata e sopra descritta;
2) che pazienti con DP più grave presentino un funzionamento metacognitivo più compromesso;
3) che diversi DP abbiano differenti profili di disfunzione metacognitiva;
4) che la metacognizione migliori nel corso del trattamento e ne predica 1 outcome.

1) In uno studio su un campione non clinico condotto usando la SVaM è emerso che la metacognizione sembra essere composta da due soli fattori distinti: la comprensione dei propri stati mentali e la capacità di comprendere gli stati mentali degli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012). Altre analisi preliminari su campioni clinici sembrano invece confermare una struttura a quattro fattori: monitoraggio, differenziazione, integrazione e comprensione degli altri/decentramento (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Nel campione non clinico, inoltre, è emerso che la capacità di differenziare, ovvero di assumere una distanza critica dalle proprie convinzioni, è correlata più alla comprensione della mente dell’altro che della propria (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., 2012; Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014). Probabilmente questo è dovuto al fatto che, per mettere in discussione le nostre idee, dobbiamo assumere una prospettiva distaccata, mettendoci nei panni degli altri. Assumere distanza critica sembra quindi essere, in un certo grado, un inizio di assunzione del punto di vista dell’altro.

Nel complesso l’idea che emerge da queste prime ricerche è coerente con gli studi di neuroimaging (Mitchell et al., 2006; Saxe et al., 2006) che mostrano come riflettere su di sé o sugli altri coinvolga aree cerebrali specifiche e parzialmente indipendenti pur afferendo allo stesso network.
L’implicazione principale è che sia utile concentrare l’azione clinica sul dominio metacognitivo che appare complesso e tentare di promuoverlo, senza però aspettarsi che il successo si estenda ad altri domini metacognitivi. In altre parole, gli apprendimenti dominio-specifici non verranno generalizzati automaticamente: prendendo l’esempio di una persona che ha difficoltà a descrivere sia gli stati interni (monitoraggio), che a differenziarli, il lavoro sul monitoraggio non apporterà miglioramenti alla differenziazione, ma sarà necessario dedicare un lavoro specifico anche a questo altro dominio.
In altre ricerche, gli studi sulla struttura della metacognizione, mostrano come la mastery abbia a sua volta un certo grado di indipendenza (Lysaker, Erickson, Ringer et al., 2011), supportando l’idea che la comprensione mentalistica non si traduca automaticamente in un coping funzionale, sul quale è necessario lavorare in modo specifico.

2) Riferendoci alla seconda ipotesi (tanto più grave è la patologia di personalità complessiva, tanto più compromessa è la metacognizione), essa sembra essere confermata. Pazienti che soddisfano un numero maggiore di criteri per i vari DP, ovvero che hanno maggiori tratti disfunzionali di personalità, presentano un funzionamento metacognitivo peggiore (Semerari, Colle, Pellecchia et al., 2014).

3) All’inizio degli studi sulla metacognizione (Semerari, 1999) si ipotizzava che ogni DP avesse uno specifico profilo di disfunzioni metacognitive. Ad oggi, la ricerca mostra che le differenze metacognitive tra i singoli disturbi non appaiono così nette. Tutti i DP, a diversi livelli, hanno difficoltà nel distanziarsi in modo critico dalle proprie convinzioni, nell’assumere un punto di vista decentrato rispetto agli altri e nell’usare la conoscenza psicologica per padroneggiare i problemi interpersonali e la sofferenza soggettiva (Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009; Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011).

Se allarghiamo il campo alle ricerche realizzate per studiare costrutti affini alla metacognizione (alessitimia e mentalizzazione), emergono alcune associazioni tra specifici DP e precisi profili metacognitivi. Ad esempio, è emerso che i pazienti con disturbo evitante di personalità hanno difficoltà nel riconoscere e descrivere le proprie emozioni, integrarle nella propria rappresentazine di sé e padroneggiale (Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Honkalampi, Hintikka, Antikainen et al., 2001; Nicolò, Semerari, Lysaker et al, 2011; Gullestad, Johansen, Høglend et al, 2013).

Tali difficoltà sono intrinseche al funzionamento dell’evitante e non sembrano dipendere da uno stato depressivo, al contrario di ciò che accade nel disturbo dipendente, nel quale, in momenti di depressione è possibile che l’appiattimento e l’abbattimento riducano la capacità di esplorare con successo il mondo delle emozioni (Nicolò, Semerari, Lysaker et al., 2012).

Tra i pazienti con doppia diagnosi -DP e abuso di sostanze- che presentano alessitimia, la scarsa mastery correla con tratti preminenti del Cluster C (Lysaker, Olesek, Buck et al., 2014). Nel disturbo narcisistico di personalità sono state ipotizzate, e poi identificate, difficoltà nella comprensione sia della propria mente sia di quella degli altri (Dimaggio, Semerari. Falcone et al., 2002; Given-Wilson, McIlwain e Warburton, 2011). Non solo i pazienti narcisisti presentano la tendenza a descrivere le proprie esperienze in maniera ipergeneralizzata, astratta e teorizzante, ma hanno anche difficoltà ad indagare i propri stati affettivi. In particolare, quando provano un’emozione, manca sistematicamente la comprensione del trigger interpersonale, cioè l’evento attivante che si gioca a livello relazionale. Nella sequenza ABC (antecedent, belief, consequence: situazione, pensiero, conseguenza emotiva e comportamentale), possono descrivere bene il B, discretamente il C, ma l’A manca del tutto.

In una popolazione non clinica l’uso dell’ IVaM ha mostrato che il narcisismo è correlato con difficoltà nella descrizione dei propri stati mentali, coerentemente con l’idea che tali pazienti abbiano soprattutto problemi nella descrizione del proprio mondo interno prima ancora che difficoltà nel comprendere gli altri (Semerari, Cucchi, Dimaggio et al., in preparazione).

Riguardo l’empatia è emerso che, nel narcisismo, la capacità di comprendere i pensieri degli altri è preservata, mentre è la risonanza emotiva ad essere più compromessa. Ritter, Dziobek e colleghi (2011) investigando con l’uso della fMRI le aree cerebrali sottese alle abilità empatiche, mostrano che persone con narcisismo tendono a pensare di essere empatiche, ma di fatto non lo sono.

In una recente ricerca di Semerari e colleghi (2015) sono stati messi a confronto due campioni clinici, il primo di pazienti con diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità, il secondo di pazienti con altri DP. Da tale studio è emerso che i pazienti con disturbo borderline mostrano difficoltà in due aspetti: differenziazione e integrazione. Tali risultati suggerirebbero una compromissione specifica per il disturbo borderline e, inoltre, tale compromissione apparirebbe fortemente connessa alla gravità della psicopatologia.

4) Infine, l’idea che la metacognizione migliori se il trattamento è effìcace sembra essere valida: utilizzando la SVaM nell’analisi di trascritti di seduta, le abilità metacognitive appaiono compromesse all’inizio della terapia, ma è presente una tendenza al miglioramento nel corso di terapie di successo (Carcione, Semerari, Nicolò et al., 2011; Dimaggio, Procacci, Nicolò et al., 2007; Dimaggio, Carcione, Conti et al., 2009).

Riguardo alla metacognizione come predittore di outcome, uno studio preliminare su pazienti con disturbo borderline ha mostrato come la metacognizione fosse associata alla gravità psicopatologica all’inizio del trattamento e lo scarso decentramento predicesse un peggior esito a tre mesi. Si tratta di uno studio su un piccolo campione e mancano dati su altri DP (Maillard, Kramer e Dimaggio, 2013), pertanto la correlazione tra miglioramento metacognitivo e miglioramento clinico è finora poco più che aneddotica.

Conclusioni

Concludendo, riteniamo che il modello proposto dalla Terapia Metacognitiva Interpersonale sia un valido e utile contributo al lavoro psicoterapeutico, in particolar modo per il possibile impiego nella pratica clinica, sia nella procedura di assessment sia nel lavoro in seduta.

Nonostante i dati ottenuti siano molto incoraggianti e sembrino confermare le ipotesi proposte dagli autori, la gran parte della ricerca effettuata finora, al di là dei dati sui disturbi evitante e narcisistico, ha avuto prevalentemente come oggetto il disturbo borderline. Resta alta la necessità di investigare gli altri disturbi di personalità sviluppando ulteriori studi che vadano a indagare le variabili considerate su popolazioni cliniche più numerose, attraverso l’ausilio di strumenti differenti, sia di tipo qualitativo che quantitativo.

Burnout e Mindfulness: un punto d’incontro

Nel seguente articolo si parlerà di burnout e mindfulness, due concetti che ad alcuni possono sembrare distanti o addirittura uno all’opposto dell’altro, ma tra i quali in realtà è possibile identificare un filo conduttore o persino un legame.

Luca Scaramagli – OPEN SCHOOL, Studi Cognitivi Modena

 

Cos’è il burnout

Ma partiamo dal primo dei due concetti, il burnout, parola di origine anglosassone che letteralmente significa esaurimento, crollo o surriscaldamento, che dà chiaramente l’idea di ciò di cui si sta parlando, ovvero una condizione di stress. Stress quindi inserito in un contesto lavorativo e/o derivante da esso, che determina un logorio psicofisico ed emotivo, con vissuti di demotivazione, di delusione e disinteresse con concrete conseguenze nella realtà lavorativa, personale e sociale dell’individuo. La sindrome del burnout venne inizialmente associata alle professioni sanitarie e assistenziali, per poi essere riconosciuta come associata a qualsiasi contesto lavorativo con alte condizioni stressanti e pressanti come ad esempio posizioni di grande responsabilità lavorativa.

Lo stress provoca conseguenze a livello globale del funzionamento dell’organismo, ed è facilmente intuibile a quanti e quali livelli possa manifestarsi il burnout:

  • Livello Cognitivo/Emotivo: distacco emotivo, trascuratezza degli affetti e delle relazioni sociali, importanza eccessiva data al lavoro, demotivazione a lavoro, difficoltà di concentrazione, irritabilità e senso di colpa.
  • Livello Comportamentale: aggressività, abuso di alcool e sostanze, mancanza di iniziativa, assenteismo.
  • Livello Fisico: emicrania, sintomi respiratori, insonnia, inappetenza, disturbi intestinali, senso di debolezza.

Ma cosa causa il burnout? Le cause possono essere individuate sia a livello individuale, come un eccessivo bisogno di affermazione lavorativa a discapito della propria vita privata e personale, che a livello organizzativo, quali ad esempio eccessive richieste a livello lavorativo o lavoro monotono e scarsamente ricompensato nonché conflitti con colleghi e/o superiori.

Ciò che è anche importante considerare è il danno collaterale che il burnout provoca, infatti chi è a contatto con un operatore o lavoratore eccessivamente stressato ne subisce certamente le conseguenze. Basti pensare a chi svolge ruoli assistenziali e di supporto in ambito sanitario ed è a contatto con pazienti con patologie gravi come i malati oncologici, ai quali è richiesta una particolare attenzione e cura. Le conseguenze possono quindi essere molto serie e, se il problema non viene affrontato, è facile che si incorra in soluzioni risolutorie più facilmente accessibili, come l’abuso di sostanze o attività poco salutari come il gioco d’azzardo, che potrebbero aggravare maggiormente la situazione.

 

Burnout e Mindfulness: gestire lo stress lavorativo con la meditazione

Come è quindi possibile affrontare il burnout? È qui che entra in gioco il secondo protagonista di questo articolo, la Mindfulness. Una pratica derivante dal pensiero buddista, è una forma di meditazione non concettuale, universalmente accessibile e non dipende da alcun sistema di credenze. Questa tecnica meditativa si fonda sulla presa di coscienza, cioè sulla consapevolezza, di sensazioni ed emozioni presenti sia positive che negative, con lo scopo di accettarli senza giudizi e valutazioni. Nella pratica, dal punto di vista dei processi mentali, si concretizza nel prestare attenzione nel momento presente ai seguenti elementi:

  • il proprio corpo
  • le proprie percezioni sensoriali fisiologiche, fisiche e psicologiche
  • le formazioni mentali quali, ad esempio, la rabbia o il dolore
  • gli oggetti della mente

L’obiettivo della mindfulness è l’osservazione di questi elementi appartenenti alla propria esperienza soggettiva in uno stato di calma non reattiva, nella quale si accetta quello che si osserva per ciò che è, senza provarlo ad ostacolare o promuovere in un’ottica non giudicante e non resistente.

Lo scopo finale della mindfulness sarà poi quello di riuscire a generalizzare ed estendere questa “modalità attentiva” alle situazioni e ai contesti della vita quotidiana. Si tratterà di coltivare la consapevolezza in ogni momento della propria vita dalle situazioni facili a quelle difficili e dalle azioni semplici a quelle complesse.

La pratica costante della mindfulness ha quindi l’obiettivo di raggiungere un livello maggiore di benessere psicofisico, essa si è dimostrata infatti efficace nella riduzione dello stress e delle patologie ad esso correlate, nella riduzione dei sintomi fisici legati a malattie organiche, e più in generale nel promuovere cambiamenti nella propria percezione, nel comportamento e nell’atteggiamento con il quale si affrontano le situazioni della vita quotidiana.

Come si legano tra loro i concetti di burnout e mindfulness? La mindfulness è risultata infatti efficace nella cura di vari sintomi o disturbi correlati al burnout (Gilbert, 2005) quali cefalee, disturbi del sonno, ansia, depressione, paura del fallimento e dolori muscolari. Un esempio di questa efficacia è riportato da uno studio condotto da Cohen-Katz e colleghi (2005), nel quale è stato applicato il protocollo MBSR, ovvero Mindfulness Based Stress Reduction. Questo protocollo è stato sviluppato dal professor Jon Kabat-Zinn alla fine degli anni ’70 ed è risultato efficace verso una serie di patologie correlate o fonti di stress, trovando applicazione anche nelle problematiche psicologiche.

Ritornando allo studio, l’MBSR è stato utilizzato nell’ospedale di Lehigh Valley Hospital & Health Network coinvolgendo gli infermieri professionisti che vi prestano servizio, confermando l’ipotesi che il programma di intervento può essere considerato una strategia efficace per la riduzione del burnout. Negli infermieri che hanno beneficiato del trattamento si è registrata una riduzione significativa delle dimensioni di esaurimento emotivo e depersonalizzazione e un trend di miglioramento nel senso di realizzazione personale. I risultati hanno inoltre mostrato un significativo miglioramento in attenzione e consapevolezza alla mindfulness. Come sottolineano anche gli autori, è importante notare che questa tipologia di intervento andrebbe visto come solo una parte di una strategia più ampia d’azione. Ma burnout e mindfulness da soli non bastano: i ricercatori (Leiter e Maslach, 1988) hanno infatti notato che il burnout è largamente correlato a fattori interni all’organizzazione piuttosto che individuali, ogni intervento condotto individualmente sul lavoratore andrebbe quindi accompagnato da interventi sull’organizzazione a più ampio spettro.

Tenendo in considerazione questi dati e l’idea che burnout e stress non siano esclusivamente caratteristici di professioni sanitarie, come dimostrano infatti ricerche e studi condotti nell’ultimo decennio (Maslach et al., 2001; Schaufeli e Bakker, 2004; Roeser et al., 2013), potrebbe essere interessante estendere questa connessione tra burnout e mindfulness con l’utilizzo di protocolli a differenti contesti lavorativi cercando di aumentare in un primo momento la consapevolezza di cos’è e come affrontare il burnout, e in seguito proporre un adeguato modello di intervento basato su questa pratica di consapevolezza, con il fine di prevenire situazioni di stress eccessive e di promuovere il benessere sul luogo di lavoro.

Tematiche suicidarie e psicoterapia – Incontro del 22 ottobre presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova

Sabato 22 ottobre 2016 si è svolto il secondo incontro del ciclo “Di sabato, la psicoterapia a Genova” dal titolo “Tematiche suicidarie e psicoterapia” tenuto dal Dr. Francesco Centorame presso il Centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva di Genova.

Dopo aver fornito una breve carrellata dei principali comportamenti associati al suicidio tra cui il suicidio completato (ovvero quando il soggetto ha effettivamente intenzione di morire e riesce a portare a termine il suo piano), i tentativi di suicidio (cioè comportamenti auto-inflitti potenzialmente dannosi che però non conducono a un esito letale) e l’autolesione (ovvero un atto deliberato potenzialmente dannoso), il Dr. Centorame ha inquadrato il rischio suicidario in termini di incidenza e prevalenza osservando ad esempio un maggior rischio suicidario negli uomini rispetto alle donne.

Viene aperto poi un dibattito libero incentrato sui principali fattori che conducono al suicidio quali la comorbilità con disturbi dell’umore, da abuso di sostanze, disturbi della condotta e disturbo borderline di personalità. Rispetto a quest’ultimo aspetto si è osservato come tale disturbo di personalità sia caratterizzato da squilibri affettivi, rabbia intensa e comportamento impulsivo.

L’impulsività condurrebbe non soltanto al comportamento rabbioso ma sosterrebbe anche una bassa tolleranza alla frustrazione e un’assenza di programmazione che sembrerebbe correlare direttamente ad un maggior rischio suicidario. Fattori che paiono essere secondari nei comportamenti a rischio suicidio sono invece la deprivazione di sonno e la tendenza a prendere decisioni rischiose.

Attraverso l’analisi di casi clinici, il Dr. Centorame si è poi soffermato sull’individuazione degli aspetti di prevenzione e di quelli psicologici utili per il trattamento come ad esempio la percezione di non appartenenza senza speranza di cambiamento, la convinzione di essere un peso per gli altri, un ridotto timore della sofferenza fisica e della morte, al fine di fornire esempi pratici di gestione clinica e di trattamento specifico.

Pertanto interventi terapeutici utili e necessari paiono essere non solo incentrati sulla modifica di credenze maladattive ma anche interventi mirati sull’ambiente come ad esempio il potenziamento della rete sociale del soggetto a rischio suicidario o interventi familiari tesi a migliorare i rapporti tra i parenti. A conclusione dell’interessante intervento il Dr. Centorame ha mostrato una carrellata dei principali “falsi miti” ovvero delle convinzioni più diffuse che favoriscono i tabù verso le persone suicidarie e ne ostacolano la guarigione.

 

Si segnala che il terzo incontro organizzato dal centro Psicoterapia e Scienza Cognitiva dal titolo “La ruminazione e l’alcolismo” tenuto dal Dott. Gabriele Caselli si svolgerà sabato 12 Novembre 2016 ore 10-13.

Promiscuità – fluIDsex

Marta

In quali circostanze si parla di promiscuità sessuale e quando una visione della sessualità come non necessariamente vincolata a una relazione affettiva diventa patologica? Spesso viene diffusa l’idea che gli omosessuali siano più promiscui rispetto agli eterosessuali e che tendano a scindere più facilmente sesso e amore. In che modo è possibile rispondere a ciò?

 

Il concetto di promiscuità sessuale si riferisce comunemente alla diversità dei partner e alla frequenza dei rapporti sessuali con essi, eppure non esiste un confine preciso oltre il quale ci si trova nel terreno della promiscuità.

Psicologicamente può diventare importante riflettere sul significato che tali rapporti assumono nella mente della persona in questione. Ciò che potrebbe rendere patologico un certo tipo di rapporti sessuali è come essi vengono dunque vissuti dal soggetto.

Ad esempio, qualcuno può vivere una sessualità che non ritiene essere coerente con l’immagine di sé e vivere in primis un disagio rispetto a ciò, altri possono investire molto tempo ed energie pensando e ripensando al proprio modo di vivere i propri rapporti. Ed un altro aspetto potrebbe riguardare l’impulsività e l’incontrollabilità del proprio desiderio sessuale.

Per quanto riguarda l’ultima domanda, non ci sono studi scientifici a dimostrazione del fatto che l’orientamento sessuale determini una maggiore promiscuità sessuale. La diffusione di questa idea all’interno della popolazione potrebbe essere legata più a ragioni socio-culturali: come l’assente o difficile riconoscimento dell’esistenza della coppia omosessuale.

Greta Riboli

 


 

HAI UNA DOMANDA? 9998 Clicca sul pulsante per scrivere al team di psicologi fluIDsex. Le domande saranno anonime, le risposte pubblicate sulle pagine di State of Mind.

La rubrica fluIDsex è un progetto della Sigmund Freud University Milano.

fluIDsex - Sessualità fluida nuove prospettive di identità sessuale, tra ricerca e riflessione in psicologia - SFU

Autismo, alimentazione selettiva e passaggio all’età adulta – Plenaria del Congresso Erickson

I relatori della plenaria del 15 ottobre 2016 del Congresso Erickson sui disturbi dello spettro autistico sono Filippo Simeoni (Direttore Cooperativa sociale Il Ponte, Rovereto), Luigi Mazzone (Ospedale Pediatrico Bambino Gesù, Roma), Marco Bertelli (Direttore CREA- Centro di Ricerca E Ambulatori, Fondazione San Sebastiano, Firenze; Presidente EAMH-ID- European Association for Mental Health in Intellectual Disability), Marco de Caris (Università de l’Aquila) e Flavia Chiarotti (Dirigente di Ricerca, Istituto Superiore di Sanità).

 

Apre la plenaria Filippo Simeoni, direttore della cooperativa sociale “il Ponte di Rovereto”, che ci regala la visione del cortometraggio “Tramondi. Un viaggio tra autismo e serigrafia”. Il documentario racconta un progetto che ha visto coinvolto un piccolo gruppo di ragazzi con autismo guidati nella realizzazione di magliette, dalla creazione del logo alla stampa sul tessuto.

Segue Luigi Mazzone che tratta il tema della selettività alimentare, una forte rigidità nelle scelte alimentari che riguarda molti autistici. La selettività è spiegata da fattori diversi (consistenza, odore, colore, marca, …) ma non è mai associata alla mancanza di appetito. Tuttavia non esiste una definizione standard operazionalizzata di tale costrutto e l’eziologia della selettività alimentare nella popolazione autistica con buona probabilità differisce dalla causa di questa problematica nella popolazione tipica. L’ipotesi più probabile è che la selettività negli autistici dipenda dalle alterazioni sensoriali che caratterizzano molti di loro.

Sempre in tema di alimentazione, Mazzone denuncia la mancanza di prove di efficacia delle diete prive di glutine e caseina, ritenute per anni capaci di alleviare i sintomi autistici.  Di grande attualità il tema del Gut Microbiota anche se ad oggi mancano dati certi riguardo l’associazione tra assunzione di probiotici e diminuzione dei sintomi di fobia sociale. La ricerca sul tema è tuttavia molto vivace e c’è da aspettarsi che a breve se ne saprà di più.
L’intervento si chiude con la raccomandazione ad un approccio multidisciplinare al trattamento della selettività alimentare che coinvolga dietologo, psicologo cognitivo-comportamentale, educatori e genitori.

Marco Bertelli affronta il tema dell’autismo nella transizione all’età adulta e quindi della comorbilità con disturbi psichiatrici che, nella popolazione autistica risultano essere più presenti e più precoci, benché assumano caratteristiche diverse rispetto alla popolazione tipica. I disturbi d’ansia e di somatizzazione sono i più diffusi. Varie sono le ipotesi che tentano di spiegare questa maggiore vulnerabilità ai disturbi psichiatrici all’interno di un paradigma bio-psico-sociale. Bertelli denuncia infine l’inadeguatezza dei servizi ospedalieri rispetto ai bisogni di salute mentale delle persone con disturbi intellettivi. Una ricerca dimostra come sia nelle università che nei servizi manchino i giusti riferimenti culturali per garantire una presa in carico di questi pazienti.

Flavia Chiarotti, dell’Istituto Superiore della Sanità, ci parla dell’incidenza dei disturbi dello spettro autistico negli ultimi anni (2000-2012): in Italia si stima la presenza di 5 bambini autistici ogni 1000 bambini di età compresa fra i 6 e i 10 anni.
L’osservatorio nazionale per il monitoraggio dei disturbi autistici (2016-2018) che coinvolge tre aree italiane ( Lecco,  Monza Brianza e Palermo) offrirà dati significativi  per approfondire questo tema ma soprattutto per disciplinare l’erogazione dei  servizi di diagnosi e cura specificatamente rivolti all’autismo.

Al di là di fattori attinenti la raccolta di dati, questo incremento è probabilmente giustificato dalla presenza di fattori di rischio genetici e ambientali. Chiarotti ci tiene a precisare che tra questi ultimi vanno esclusi i vaccini poiché non esiste nessuna correlazione dimostrata tra adesione al programma vaccinale e manifestazione di un disturbo dello spettro autistico.

Marco de Caris ci parla di relazioni amicali e amorose, di sessualità e di matrimonio.
Le persone con disabilità intellettiva hanno una qualità di informazione meno articolata riguardo alla sessualità e all’affettività e questo ha ovvie ricadute sul piano comportamentale. Per la costruzione di una vita socio- affettiva soddisfacente è importante sviluppare tutte quelle abilità che sono alla base della reciprocità e del rispetto delle convenzioni sociali. Anche l’autonomia è fondamentale in un progetto di vita e ha ricadute importanti sull’affettività e sulle relazioni. Il modo migliore per promuovere tutte queste competenze è il lavoro in gruppo, nell’ambito di un progetto di vita in cui anche le scelte terapeutiche rivolte ai più piccoli acquisiscono una forte rilevanza nel determinare il più alto grado di indipendenza da adulti.

Chiude il convegno l’intervento di Giovanni Marino (ANGSA-FIA) che ci parla dei diritti delle persone con autismo nei livelli essenziali di assistenza (LEA), introdotti dalla legge 134/2015. I LEA sono l’insieme di tutte le prestazioni, i servizi e le attività che i cittadini hanno diritto di ottenere dal Servizio Sanitario Nazionale in condizioni di uniformità su tutto il territorio nazionale. Questi servizi impattano sull’insieme dei diritti soggettivi della persona che secondo la Costituzione devono in ogni caso essere garantiti in modo universale e a tutti i cittadini. Ora è necessario che le regioni sappiano emanare appropriati documenti in conformità delle leggi per poter rendere esigibili questi servizi. In tal senso, una risorsa importante può essere l’associazionismo; le associazioni possono diventare veri attori nel panorama sociale nazionale per la rivendicazione dei servizi specifici per l’autismo previsto ora per legge.

Non si litiga davanti ai bambini! O forse si?

Se i genitori riescono a esprimere le proprie emozioni e a gestire insieme il conflitto costruttivamente attraverso compromessi, sforzi per comprendere il punto di vista (anche emotivo) dell’altro e abilità di problem solving, i bambini percepiranno l’emotività positiva che accompagna la risoluzione congiunta del conflitto e che spazza via l’impatto negativo del litigio, e apprenderanno modalità sane e funzionali per superare eventuali disaccordi, un’abilità che nella vita sarà loro molto utile.

Una delle regole d’oro dell’essere dei “bravi” genitori pare sia evitare di litigare di fronte ai figli, a maggior ragione se piccoli. Non solo è vietato lanciarsi dietro i piatti e insultarsi, ma anche alzare la voce o infervorarsi sarebbe riprovevole: “NON – DI FRONTE – AI – BAMBINI…”, si scandisce in un sussurro al primo accenno di rabbia del partner, occhi sgranati, inclinando impercettibilmente la testa a indicare la presenza dei pupi.

Infatti, spinti dal desiderio di tutelare i propri bambini, mamma e papà possono cercare di non manifestare il proprio disaccordo, evitando sfuriate e l’uso di un linguaggio ostile per non turbarli; per alcuni genitori portare rancore senza sfociare in un vero e proprio match di combattimento sembra il modo migliore per gestire un conflitto. Tuttavia disaccordo e rabbia, seppur non espressi verbalmente, non per questo passano inosservati: uno sguardo tagliente, un’occhiata di fuoco, abbandonare la discussione (magari anche uscendo più o meno drammaticamente dalla stanza) oppure il classico trattamento del silenzio valgono più di mille parole. Sono come un “NIENTE” sibilato a denti stretti in risposta a “C’è qualcosa che non va?”: non ci crede nessuno.

 

Cosa dice la ricerca

Pensare che covare rancore senza esprimerlo sia una buona strategia è un errore ingenuo: l’ostilità non verbale turba un bambino tanto quanto una litigata ad alta voce. Come sottolineato nell’interessante articolo pubblicato sul The Atlantic “How Passive Aggression Hurts Children”, prolungati conflitti irrisolti tra i genitori minano la sicurezza emotiva dei bambini e aumentano il rischio che sviluppino problemi psicologici, tra cui depressione, ansia, ritiro sociale e aggressività, siano essi conflitti espressi verbalmente o meno; che mostrino sintomi di sofferenza, rabbia e ostilità; che litighino con maggior frequenza con i compagni.

I bambini sono estremamente sensibili all’ambiente che li circonda e sono molto abili nell’analizzare la comunicazione non verbale e la relativa connotazione emotiva, ma spesso gli adulti, ingenuamente, sottostimano questo aspetto (o sovrastimano le proprie doti di recitazione).

Ovviamente il punto non è evitare in assoluto di litigare – non solo perché sarebbe impossibile, ma anche perché litigare è utile per la salute della coppia. Il punto è come i genitori risolvono il conflitto: in maniera distruttiva o costruttiva? Se i genitori riescono a esprimere le proprie emozioni e a gestire insieme il conflitto costruttivamente attraverso compromessi, sforzi per comprendere il punto di vista (anche emotivo) dell’altro e abilità di problem solving, i bambini percepiranno l’emotività positiva che accompagna la risoluzione congiunta del conflitto e che spazza via l’impatto negativo del litigio, e apprenderanno modalità sane e funzionali per superare eventuali disaccordi, un’abilità che nella vita sarà loro molto utile.

 

La risoluzione costruttiva di un conflitto

È evidente quanto sia importante per i genitori lavorare sugli aspetti comunicativi per imparare a risolvere in maniera costruttiva eventuali discordie, pertanto sarebbe interessante che all’interno dei servizi che offrono interventi psicologici rivolti alla famiglia fossero previsti anche programmi educativi sulla gestione dei conflitti. Il miglioramento di queste abilità sembra infatti avere effetti positivi sui comportamenti internalizzanti dei figli (es. ansia, depressione, tendenza all’isolamento) attraverso il rinforzo della loro sicurezza emotiva (Cummings et al., 2015).

Come sostiene Cummings, in realtà non tuteliamo i nostri bambini evitando di dire come ci sentiamo quando invece chiaramente c’è qualcosa che non va, perché i bambini se ne accorgono. La vera soluzione è mostrare loro come si gestisce costruttivamente un litigio: “la risoluzione dei conflitti è una medicina fantastica”.

Gli uomini omofobici sono solitamente meno interessati alla sessualità

Una nuova ricerca pubblicata sul Journal of Sexual Medicine ha stabilito che gli uomini omofobici sono tendenzialmente meno interessati al sesso rispetto agli uomini che concepiscono ed accettano l’omosessualità.

 

Questo risultato è emerso analizzando la risposta di dilatazione della pupilla dei soggetti in risposta alla presentazione di immagini relate al sesso. A tal proposito, il team guidato da Boris Cheval dell’Università di Ginevra in Svizzera aveva precedentemente rilevato un bias inconscio nei soggetti omofobici in favore delle immagini relate alla sfera sessuale, ossia essi tendevano ad osservarle meno, a prescindere dal fatto che ritraessero scene eterosessuali od omosessuali.

Questo risultato potrebbe indicare che gli individui omofobici sono in effetti meno interessati alla sessualità in generale, non solo quella di stampo omosessuale. Un’altra ipotesi concepirebbe la natura delle foto come in conflitto con i valori e le credenze di questi individui (i.e., di tipo religioso, culturale), portando così gli omofobici a distanziarsene nel compito. In altre parole, la differenza nel tempo di osservazione delle immagini a sfondo omosessuale potrebbe rappresentare una forma di self-regulation.

Il team di ricercatori, quindi, ha voluto stabilire se questa reazione fosse conscia o meno. I soggetti omofobici erano davvero meno interessati alle immagini relate al sesso o tentavano volutamente a distogliere l’attenzione poiché il materiale presentato era in conflitto con i loro valori?

Lo studio

Per cercare di stabilire quale ipotesi fosse veritiera, Cheval e i suoi colleghi hanno reclutato 38 uomini eterosessuali e valutato i loro atteggiamenti nei confronti degli omosessuali tramite un questionario.

In seguito i ricercatori hanno istruito i partecipanti a dare un punteggio su una scala a 9 punti, che spaziava da “molto spiacevole” a “molto piacevole”, a 25 immagini. Ogni partecipante osservava 10 immagini che ritraevano coppie omosessuali, 10 immagini di coppie eterosessuali e 5 immagini neutre; quando i partecipanti osservavano le immagini, i ricercatori misuravano le variazioni nella contrazione delle pupille. Infatti, le pupille tendono a dilatarsi alla presentazione di immagini a sfondo sessuale, anche quando una persona consapevolmente tende a sopprimere il proprio desiderio (Hess & Polt, 1960; Hess, Seltzer & Shlien, 1965).

I risultati hanno confermato che i partecipanti in generale esibivano una dilatazione delle pupille maggiore alla presentazione di immagini relate al sesso tra coppie eterosessuali rispetto a quelle di coppie omosessuali o neutre. Tuttavia, i ricercatori hanno rilevano anche come la dilatazione delle pupille degli uomini omofobici fosse significativamente inferiore rispetto a quelle degli uomini non omofobici.

La scoperta suggerisce che la mancanza di interesse nei confronti di stimoli sessuali derivi da una reazione inconscia, spontanea, piuttosto che da una forma consapevole e strategica di autoregolamentazione, dato che la dilatazione della pupilla non è facilmente controllabile. In teoria, quindi, questi risultati rafforzerebbero l’ipotesi che l’omofobia rifletterebbe delle preoccupazioni dell’individuo sulla sessualità in generale.

Un abbraccio d’amore e di passione: Amore e Psiche di Canova

Il mito di “Amore e Psiche” ha affascinato tanti artisti nel corso dei secoli, tra cui lo scultore veneto Antonio Canova (1757-1822), uno dei maggiori protagonisti del Neoclassicismo. Ciò che contraddistinse il suo stile artistico fu l’adesione ai principi dell’arte classica: armonia, equilibrio, compostezza.

Il mito di Amore e Psiche

Quella di Amore e Psiche è, secondo me, una delle più belle storie d’amore mai raccontate: a scriverla fu, nel II secolo d.C., Lucio Apuleio nelle sue “Metamorfosi” (o “L’asino d’oro”).

“Vi erano in una città un re e una regina. Questi avevano tre bellissime figliole. Ma le due più grandi, quantunque di aspetto leggiadrissimo, pure era possibile celebrarle degnamente con parole umane; mentre la splendida bellezza della minore non si poteva descrivere, e non esistevano parole per lodarla adeguatamente”: è così che ha inizio la favola di “Amore e Psiche” che narra la storia del Dio Amore che si innamora perdutamente di una ragazza di rara bellezza e di come entrambi, per raggiungere l’amore eterno, debbano affrontare numerose difficoltà. Psiche, infatti, era talmente bella che suscitò l’invidia di Venere, la quale le inviò Amore con lo scopo di farla innamorare di un uomo brutto ed insignificante. Fu invece lo stesso Dio Amore ad innamorarsi della fanciulla.

Canova: un artista del Neoclassicismo

Il mito di “Amore e Psiche” ha affascinato tanti artisti nel corso dei secoli, tra cui lo scultore veneto Antonio Canova (1757-1822), uno dei maggiori protagonisti del Neoclassicismo. Ciò che contraddistinse il suo stile artistico fu l’adesione ai principi dell’arte classica: armonia, equilibrio, compostezza. Dopo gli eccessi decorativi del barocco e del rococò, si era infatti affermato un nuovo orientamento classicista, che reputava l’antichità greca e romana quale esempio perfetto a cui ispirarsi nel campo dell’arte. Il Canova, meglio di ogni altro artista, seppe recuperare il vagheggiato ideale dell’arte antica, rendendolo vivo ed attuale.

In accordo con il ritorno al “bello ideale” teorizzato dal Winckelmann, Antonio Canova realizzò il bianchissimo gruppo scultoreo di “Amore e Psiche”, la cui versione più nota è quella del 1787-93, conservata al Museo del Louvre a Parigi. La scultura rappresenta il Dio Amore mentre contempla il volto della fanciulla amata, nell’attimo subito precedente al bacio, in un momento carico di tensione emotiva e di raffinato erotismo in cui i due giovani sono uniti in un abbraccio d’amore passionale ed eterno. Il vero protagonista della scena è il bacio, sospeso ed immaginato, ed infatti il Canova rappresenta i due amanti con le labbra schiuse, un attimo prima che si bacino, in un momento di grande dolcezza e sottile sensualità.
Ricca di significati allegorici ed affascinante per l’intensità dei sentimenti che trapelano dal marmo, la scultura “parla” di argomenti che toccano la coscienza, le emozioni e l’inconscio.

Amore e Psiche: il significato del mito

Partiamo dall’etimologia del termine “psiche”, che si riconduce all’idea del soffio, ovvero del respiro vitale; presso i Greci designava l’anima, in quanto originariamente identificata con quel respiro. Dunque Psiche rappresenta l’Anima, mentre il Dio Amore (Cupido) rappresenta il desiderio e la passione. Il Canova, attraverso la sua scultura in marmo bianco, ci accompagna nella coinvolgente esperienza dell’amore, della passione, del desiderio sessuale. Il gruppo scultoreo può essere analizzato da un punto di vista psicoanalitico riguardo a due temi fondamentali: da una parte la nascita e lo sviluppo di un rapporto d’amore ed i suoi effetti sull’animo umano e sulla psiche, dall’altra il rapporto che ogni uomo ha con la propria anima e con la propria psiche.

Amore, ad un certo punto della vita di ciascuno di noi, arriva e allora cosa succede quando l’Amore incontra l’Anima? Abbandonandosi alla passione amorosa, l’Anima si allontana dal suo obiettivo, cioè il conseguimento dell’immortalità. La vicenda di Psiche, infatti, simboleggia il destino dell’anima umana che cade in errore e deve superare numerose prove e sofferenze per essere degna della salvezza, che può arrivare solo con l’intervento del divino. Infatti, dopo l’avventura erotica, Psiche verrà punita per la sua curiosità e dovrà affrontare alcune prove molto dolorose in seguito alle quali otterrà l’immortalità, grazie all’aiuto di Zeus. Eros, l’amore sessuale, ha come scopo quello di psichicizzare la vita nel piacere, nel dolore, nell’incontro, nell’abbandono, nell’affetto e nel rancore. Eros è amore passionale, mentre Venere (colei che invia Amore a Psiche) è amore più consapevole, insieme sessuale e spirituale: sono due forze che agiscono nell’anima umana ed elevano il corpo verso lo spirito. Attraverso le gioie ed i dolori dell’amore, l’essere umano viene psichicizzato e viene dotato di un‘anima, in questo senso la sessualità umana ha una componente spirituale molto forte che ci rende esseri psichici.

Nella scultura del Canova la donna è rappresentata in un momento di trasformazione psichica di grande significato, quando incontra un uomo individualmente, quando riconosce Eros e lo ama. E’ la relazione tra l’uomo e la donna – in termini junghiani tra l’individuo e l’Anima – che rappresenta il Canova e che tanto interessa gli psicologi del profondo: l’Anima viene ammaestrata dallo sbocciare dell’Amore e lo sviluppo psichico procede attraverso le esperienze amorose. Psiche, attraverso l’Amore, giunge ad un “matrimonio spirituale tra un IO ed un TU”, all’interno di un processo di trasformazione e di sviluppo psichico.

Il significato dell’opera alla luce della psicologia analitica junghiana

Il riferimento teorico fondamentale è la psicologia analitica di Jung, che ha saputo comprendere il percorso evolutivo della donna mediante lo studio antropologico dei miti ed ha riconosciuto nell’interiorità della donna una parte maschile (il cosiddetto Animus), così come nell’inconscio dell’uomo la presenza attiva di un principio femminile (l’Anima). L’uomo si sente attratto dal femminile, perché lì incontra la figura dell’Anima, la quale, come figura femminile interiore dell’uomo, spinge il maschile alla trasformazione, ad agire e ad affrontare nuove avventure dello spirito. Analogamente, la figura dell’Animus, come guida della Psiche, esercita l’effetto corrispondente sul femminile. L’Anima (che è cura, protezione, affettività) è la componente femminile presente nell’apparato psichico di ogni uomo, mentre l’Animus (che è controllo, ponderazione, riflessività, razionalità) è l’aspetto maschile presente nell’apparato psichico di ogni donna. L’Animus è la figura che compensa l’energia femminile; l’Anima quella che compensa l’energia maschile.

Ne consegue che, conoscendo bene questo lato della propria psiche, è possibile interagire in modo armonico con l’altro sesso e diviene più facile instaurare una relazione sana e gratificante.

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