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Poso, dunque sono: il narcisismo negli autoritratti di Rembrandt

Nel corso della storia molti sono stati gli artisti che si sono confrontati con se stessi, mettendosi in gioco attraverso l’elaborazione di autoritratti, tra cui, appunto, Rembrandt. Fin dall’inizio della sua carriera il pittore olandese fu un ritrattista molto ricercato; la lunga serie degli autoritratti, parallela a quella altrettanto numerosa dei ritratti dei familiari, documenta le fasi della tormentata vicenda biografica dell’artista e l’evolversi della sua vita interiore.

Introduzione

Se Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606-1669), il pittore olandese celebre per i suoi ritratti, fosse vissuto nel XXI secolo, avrebbe probabilmente avuto un’ossessione per i selfies ed avrebbe pensato: “Poso, dunque sono”, analogamente a tanti di noi che, al giorno d’oggi, immortalano in continuazione la loro immagine per poi postarla su facebook. Rembrandt ci ha lasciato circa ottanta autoritratti, perché desiderava immortalare la sua immagine ed essere ricordato.

Quando ci scattiamo un selfie stiamo facendo la stessa dichiarazione, ovvero stiamo dicendo: “guardami”! Il selfie è una realtà che affonda le sue radici nell’autoritratto pittorico e nell’autoritratto fotografico e, secondo alcuni, è il riflesso della nostra autostima e del nostro narcisismo. Un gruppo di ricercatori dell’Università dell’Ohio, in uno studio pubblicato sulla rivista “Personality and Individuality Differences”, afferma che le persone che pubblicano molti selfies non sono necessariamente narcisisti o psicopatici, ma che certamente hanno livelli medi di questi atteggiamenti antisociali piuttosto alti.

Gli autoritratti come rappresentazione della biografia di Rembrandt

Nel corso della storia molti sono stati gli artisti che si sono confrontati con se stessi, mettendosi in gioco attraverso l’elaborazione di autoritratti, tra cui, appunto, Rembrandt. Fin dall’inizio della sua carriera il pittore olandese fu un ritrattista molto ricercato; la lunga serie degli autoritratti, parallela a quella altrettanto numerosa dei ritratti dei familiari, documenta le fasi della tormentata vicenda biografica dell’artista e l’evolversi della sua vita interiore.

Rembrandt dette forma a ciò che caratterizza ciascun individuo, facendo ampio uso dei chiaroscuri, usò la luce per rendere visibile l’essenziale, ma essendo altrettanto importante l’invisibile, lasciò in ombra alcune parti, proponendo una rappresentazione non solo fisica, ma anche spirituale e psicologica dei personaggi.

I ritratti e gli autoritratti dell’artista olandese sono opere di marcata indagine psicologica, volta a rappresentare ed interpretare il carattere e lo stato d’animo dei personaggi, senza fermarsi all’aspetto esteriore. Rembrandt è l’artista che, forse più di ogni altro, ha ritratto se stesso, circa ottanta volte lungo la sua attività, dipingendosi a volte come borghese, altre volte come artista avvolto in abiti stravaganti o addirittura in quelli dell’apostolo Paolo.

Ovunque nei suoi lavori ritroviamo il suo volto decorato dagli scuri capelli ricci, talora pensoso e riservato, talora cupo e malinconico, altre volte raggiante ed elegante con il collo di pelliccia e la sciarpa di seta. Prima della fotografia e fino ai primi dell’Ottocento, l’autoritratto era praticato solo ed esclusivamente dai pittori, che si autodipingevano per lasciare traccia di sé ai posteri. Per Rembrandt l’autoritratto era uno strumento per indagare le emozioni.

Il narcisismo di Rembrandt: l’associazione tra gli autoritratti e i selfie

L’aver dipinto molti autoritratti fa pensare a Rembrandt come ad un maniaco del controllo della propria immagine e ad un narcisista. A seconda delle opinioni, infatti, l’autoritratto è simbolo ispiratore di libertà artistica, o sintomo di narcisismo, egocentrismo, desiderio di apparire. Oggi lo chiamiamo selfie. Il ritratto pittorico prima, l’autoscatto poi, il selfie oggi sono tutte forme del processo di conoscenza del proprio sé e di costruzione della propria identità individuale e sociale.

La lettura prediletta dai media per spiegare l’esplosione del fenomeno dei selfies è quella del narcisismo. Si tratta, certamente, di un fenomeno antropologico profondo. Tuttavia, io ritengo che la cifra antropologica del selfie non sia il narcisismo.

Nella mitologia greca, infatti, Narciso trascura la seducente Eco per perdersi nella propria immagine, accessibile solo ed esclusivamente a lui, mentre il selfie esiste per essere condiviso, per essere caricato in rete. Il selfista del XXI secolo chiama tutto il mondo a raccolta, non solo gli amici, ma anche quelli che non conosce, mostra loro tutti i suoi ritratti, chiede conferme e, tremebondo, attende numerosi “like: si tratta di una mania che rischia di sfociare in una patologia, nota col nome di sindrome da selfie. L’Associazione Psichiatrica Americana ha infatti riconosciuto la dipendenza da autofotoritratto mediante cellulare come disturbo mentale. E’ stata definita “Selfie Syndrome”, un insieme di disagi e comportamenti alterati, che derivano da un utilizzo smodato dello smartphone o del tablet per autoritrarsi ed esistono tre livelli di disturbo: saltuario (quando la persona si fotografa almeno tre volte al giorno, ma non pubblica le foto sui social network), acuto (quando l’individuo si fotografa non meno di tre volte al giorno e posta le foto sui social network), cronico (quando la persona è ossessionata, si autofotografa in continuazione e pubblica le immagini in internet almeno sei volte al giorno). Il selfista compulsivo è alla ricerca di “like”, di approvazione, di complimenti che possano confermare l’immagine e l’idea che vuole dare di sé. Narciso, invece, no, lui non aspettava “like”. Lo avrebbero distratto dalla propria immagine.

Cancro: gli effetti benefici dell’attività motoria

Cancro: L’attività motoria ha un ruolo importante nell’ ambito delle patologie tumorali, sia durante i trattamenti terapeutici (chemioterapia, radioterapia, ecc.) che nel periodo successivo.

Abstract

L’azione positiva che l’attività fisica regolare esercita è ascrivibile a più fattori. Fra di essi, si possono citare: il miglioramento della qualità della vita; il lenire la stanchezza legata alla patologia tumorale; il miglioramento della forma fisica, provata da terapie estremamente aggressive; l’attenuazione della sintomatologia depressiva che, sovente, accompagna il paziente affetto da neoplasia; l’incremento della forza muscolare. In virtù di questi benefici, agli ammalati di cancro è consigliata un’attività motoria moderata di almeno 150 minuti alla settimana. Malgrado le sollecitazioni ricevute, solo un esiguo numero di pazienti oncologici cambia stile di vita. Ciò è causato dalla scarsa autoefficacia e dai fattori emozionali, che inficiano il desiderio di dedicarsi ad un’attività motoria.

Keywords: cancro, attività motoria, autoefficacia, fattori emozionali.

L’azione positiva dell’attività motoria sui pazienti affetti dal cancro

L’attività motoria ha un ruolo importante nell’ambito delle patologie tumorali, sia durante i trattamenti terapeutici (chemioterapia, radioterapia, ecc.) che nel periodo successivo, come rivela la ricerca di Fong e coll. (2012).

L’azione positiva che l’attività fisica regolare esercita è ascrivibile a più fattori. Fra di essi, si possono citare il miglioramento della qualità della vita (Mishra e coll., 2012); il lenire la stanchezza legata alla patologia tumorale (Cramp e Byron – Daniel, 2012); il miglioramento della forma fisica, provata da terapie estremamente aggressive (Jones e coll., 2011); l’attenuazione della sintomatologia depressiva che, sovente, accompagna il paziente affetto da neoplasia (Craft e coll., 2012); l’incremento della forza muscolare (Stene e coll., 2013).

In virtù di questi benefici, agli ammalati di cancro è consigliata un’attività motoria moderata di almeno 150 minuti alla settimana (Schmitz e coll, 2010). Malgrado le sollecitazioni ricevute, solo un esiguo numero di pazienti oncologici cambia stile di vita, incrementando l’attività motoria settimanale (Blanchard e coll., 2008).

La psicologia di derivazione cognitivista ha cercato di capire le ragioni per le quali gli individui hanno difficoltà a cambiare i propri comportamenti più nocivi per sostituirli con altri più salutari. Un posto di rilievo nell’ambito delle teorie cognitive lo occupano i costrutti social – cognitivi, elaborati da Bandura (1986). All’interno di tali teorizzazioni, un paradigma importante è rappresentato dall’autoefficacia, intendendo con essa la convinzione relativa alle proprie capacità di portare a compimento una certa prestazione, perché si è in grado di eseguire tutte le azioni necessarie per raggiungere l’obiettivo prefissato (Bandura,1986). Alla luce di questa teoria, è stato ipotizzato che gli ammalati di cancro abbiano una scarsa autoefficacia, che inficia la loro capacità di seguire un programma regolare di attività motoria. È stato ipotizzato, inoltre, che alla base di questa scarsa propensione verso l’attività fisica potrebbe esserci la debolezza che questi pazienti avvertono e che è uno dei sintomi principali del cancro (Blaney e coll., 2013).

Un ruolo importante nel mantenimento di uno stile di vita attivo lo rivestono i fattori emozionali, come dimostra una recente ricerca di Lewis e coll. (2015).

Uno studio (Ungar, Wiskemann e Sieverding, 2016) compiuto dai ricercatori dell’Università di Heidelberg e del Centro Nazionale per le Malattie Tumorali di Heidelberg, in Germania, ha voluto capire per quale ragione i pazienti oncologici non seguono un programma di attività fisica regolare, malgrado siano a conoscenza dei benefici dell’attività motoria per la loro condizione. Per indagare questo aspetto sono stati reclutati 72 pazienti, fra le persone che erano in cura presso la Divisione di Oncologia Medica del Centro Nazionale per le Malattie Tumorali di Heidelberg. Essi erano per il 52% donne, con un’età media di 55 anni, per lo più ammalati di cancro al seno, al colon – retto e alla prostata. Il 33% aveva metastasi e il 37% al momento della ricerca era sottoposto a chemioterapia. I pazienti sono stati scelti perché presentavano un’attività fisica settimanale inferiore a 150 minuti. Nel conteggio delle ore di attività motoria sono stati considerati il pendolarismo, i lavori domestici, l’attività motorio – sportiva fatta nel tempo libero e l’attività fisica svolta nell’ambito del proprio lavoro.

Con i pazienti, nell’ambito del progetto MOTIVACTION (intervento motivazionale per incrementare l’attività fisica nei pazienti oncologici), sono stati programmati due incontri. Nel primo si sono utilizzate delle tecniche di counseling, che avevano lo scopo di convincerli a cambiare stile di vita. Nel corso dell’incontro è stato dato un opuscolo da leggere a casa, nel quale erano illustrate tutte le tecniche per cambiare i propri comportamenti. Inoltre, erano suggeriti degli esercizi di ginnastica da fare in ambiente domestico ed erano forniti dei piccoli attrezzi ginnici. Ogni paziente era tenuto a compilare un diario relativo all’attività fisica intrapresa.

Nel secondo incontro si insegnavano le tecniche utili per rilassarsi (respirazione addominale, rilassamento muscolare frazionato) e per fronteggiare lo stress. A casa, in più, i pazienti dovevano leggere un opuscolo, dove erano illustrate le tecniche per gestire al meglio lo stress, un CD per rilassarsi e un diario per registrare i progressi nella gestione dello stress.

Sono state fatte due valutazioni degli effetti degli interventi a distanza di 4 settimane e 10 settimane. La ricerca ha stabilito che nel cambiamento dello stile di vita, ovvero nell’intraprendere un’attività fisica regolare, un ruolo chiave lo rivestono sia l’autoefficacia che i fattori emozionali, come il piacere di dedicarsi ad un’attività motoria.

Solitudine e adolescenza: il benessere nel comportamento solitario dell’adolescente

Solitudine e adolescenza: il semplice trascorrere molto tempo insieme ad altre persone fa stare bene i ragazzi e, nel contempo, il passare del tempo da soli aiuta il ragazzo a gestire più adattivamente i propri contrasti interpersonali.

Valentina Retto – OPEN SCHOOL Studi cognitivi Modena

 

 

Un uomo deve mantenere un piccolo recesso dove può essere se stesso senza riserve. Solo nella solitudine egli può conoscere la vera libertà.

(Michel de Montaigne)

 

La solitudine non si presenta affatto come un concetto unitario. Già analizzando i termini esistenti nella lingua inglese, ad esempio, si nota come vengano utilizzati tre vocaboli per definire le sfumature del termine solitudine. Aloneness è usato per definire lo stare da soli, Solitude, similmente, indica lo stato oggettivo di essere soli lontano da tutte le altre persone, Loneliness, invece, ha un’accezione soggettiva e peggiorativa, che indica il sentimento personale di sentirsi soli, nonché la percezione di uno stato di abbandono (Zingarelli, 2016).

 

Solitudine e adolescenza: l’importanza del tempo per se stessi

Sebbene esistano dei vissuti indubbiamente negativi legati ai momenti in cui le persone stanno da sole, le ricerche documentano anche gli aspetti funzionalmente positivi, dimostrando che, alla solitudine vissuta negativamente, si differenzia il naturale bisogno di trascorrere del tempo con se stessi.

Winnicott (1968), ad esempio, sostiene che usare il tempo di solitudine in modo proficuo rappresenta indubbiamente uno dei traguardi dello sviluppo individuale. A tale proposito, è stato studiato come questo comportamento aumenti di frequenza e di importanza nel periodo adolescenziale, e come la capacità di utilizzare il tempo per se stessi in maniera costruttiva sia un’abilità che si stabilisce proprio in questa fase. L’adolescenza è il momento della vita in cui si trascorre maggior tempo da soli, la solitudine è “fisiologica” in particolare in questo periodo della vita. Lo sviluppo delle funzioni cognitive, psicologiche e sociali permette di usare il tempo trascorso in solitudine costruttivamente (Johnson, Lavoie, & Mahoney, 2001).

E’ stato evidenziato un ruolo significativo della solitudine nel delicato processo di separazione-individuazione dalle figure genitoriali, in quanto, essa crea quello spazio fisico e mentale nel quale l’individuo che cresce può ritagliarsi un’autonomia di pensiero e di azione propria. È stato dimostrato che, durante questi momenti di intimità, l’adolescente riflette, rielabora le proprie emozioni, si rilassa e si rinnova (Corsano, 2003).

Lo stare da soli è perciò un bisogno fondamentale per la crescita della persona, al pari del bisogno di attaccamento.

Suefeld scrive: 

La solitudine può ferire, ma lo stare con se stessi può curare

La chiave di lettura è custodita nella motivazione al comportamento di solitudine (Suefeld; in Peplau & Perlman, 1982, pag. 65). Mentre recentemente Zygmunt Bauman dice:

Quando si evita a ogni costo di ritrovarsi soli, si rinuncia all’opportunità di provare la solitudine: quel sublime stato in cui è possibile raccogliere le proprie idee, meditare, riflettere, creare e, in ultima analisi, dare senso e sostanza alla comunicazione.

Per parlare di negatività o positività del concetto di solitudine, dunque, occorre indagare le motivazioni sottostanti al comportamento solitario.

 

La Motivazione al comportamento solitario

Il comportamento delle persone è mirato al soddisfacimento dei bisogni e al perseguimento degli obiettivi; entrambi possono essere biologicamente o culturalmente determinati. I bisogni sono mediati a livello cognitivo da un sistema gerarchico di valori e di obiettivi che monitora le azioni volte al raggiungimento degli stessi, questo è il sistema delle motivazioni (Moderato, P., Presti, G., Chase, P.N., 2002).

La motivazione, dunque, viene considerata come un costrutto eterogeneo, una sua prima differenziazione, per esempio, è stata espressa in relazione ai tipi di bisogni che la muovono. Prendendo come riferimento la Teoria dei Bisogni di Maslow (1954), ampiamente riconosciuta, sono state distinte le motivazioni Primarie da quelle Secondarie. Le prime nascono dai bisogni fisiologici: nutrirsi, dormire, ripararsi dal freddo, ecc…, le seconde, invece, vengono apprese dall’individuo nel corso della propria vita e sono mediate dalla cultura di appartenenza.

Una seconda distinzione fa riferimento alla motivazione intrinseca o autonoma ed estrinseca o controllata. Nel primo caso essa rappresenta la volontà di intraprendere una data attività in quanto relativamente soddisfacente di per sé; l’individuo, cioè, agisce senza aspettarsi conseguenze future premianti, esterne all’attività stessa. Sono quelle attività intraprese spontaneamente, durante le quali la persona si sente libera di seguire i propri personali interessi. La motivazione Estrinseca, invece, dipende dal voler ottenere qualcosa d’altro rispetto al comportamento che si sta direttamente mettendo in atto, ad esempio riconoscimenti, vantaggi, denaro, oppure, dall’evitare conseguenze sgradevoli (Deci & Ryan, 2000).

La percezione di autonomia nel proprio comportamento è un aspetto fondamentale per preservare la motivazione intrinseca; dare la facoltà di scegliere e riconoscere l’esperienza personale del soggetto stimola un locus of control interno, una motivazione intrinseca e una maggiore confidenza nella propria performance (Deci & Ryan, 2000; Gagné & Deci, 2005; Hodgins, H. S., Brown, A. B., & Carver, B., 2007).

 

La motivazione autonoma o controllata

Una differenza pregnante all’interno dello spettro motivazionale, dunque, fa riferimento al livello di autonomia o di controllo che gli agenti esterni esercitano sullo stile di regolazione dell’individuo.

Varie ricerche hanno confrontato gli effetti psichici e comportamentali inerenti alle due tipologie di motivazione (Cameron, J., 2001; Deci & Ryan, 2000; Gagné & Deci, 2005; Ryan & Deci, 2006; Soenens & Vansteenkiste, 2005).

È stato riscontrato ad esempio che, gli studenti che presentano una motivazione allo studio relativamente controllata, possono apparire tanto motivati quanto quegli alunni che possiedono un orientamento autonomo. Tuttavia, i primi ottengono performance inferiori e un grado più modesto di benessere, mentre, i ragazzi con una motivazione di tipo intrinseco esibiscono alti livelli di competenza scolastica e di benessere (Ryan & Connell, 1989).

Inoltre, gli individui con uno stile di regolazione autonoma presentano anche una buona integrazione tra i tratti di personalità, le attitudini e i comportamenti agiti, ovvero, esibiscono un funzionamento ottimale della personalità. Ciò non accade, invece, per le persone caratterizzate da uno stile controllato, in questo caso viene rilevata una relazione debole, nonché negativa, tra i vari aspetti della personalità (Williams, Gagné, Ryan, & Deci, 2000; in Deci & Ryan, 2000).

 

L’Autodeterminazione in Adolescenza

Molti ricercatori dell’età evolutiva vedono lo sviluppo dell’autonomia in adolescenza come un processo di Separazione-Individuazione. In accordo con tale prospettiva la definizione dell’autonomia individuale comporta un movimento simultaneo, in cui l’adolescente si distanzia psicologicamente e fisicamente dai genitori (separazione), e assume su di sé maggiori responsabilità, senza più dipendere completamente da loro (individuazione) (Levpušček, M. P., 2006).

L’età adolescenziale è pervasa da una sorta di tensione tra due compiti di sviluppo, quello di conquistare l’autonomia nei confronti dei genitori e dei pari, e quello di conformarsi alle aspettative sociali.

Il raggiungimento del’autonomia implica, perciò, la capacità di basare le azioni sui principi personali e non sulle aspettative altrui; tramite il processo di internalizzazione, dunque, l’individuo giunge a un accrescimento del senso di sé. L’internalizzazione è un processo innato e attivo, grazie al quale le persone trasformano le usanze e le credenze sociali in idee e valori propri, integrandoli nel sé. Trasformando questi precetti da esterni ad interni, l’individuo può sperimentare il senso di autodeterminazione (Deci E. L., & Ryan R. M. (2008). Quando le motivazioni ad agire sono maggiormente internalizzate e quindi autonome, si riscontrano delle elevate capacità di coping, di impegno e serenità nello svolgimento dei compiti scolastici, in aggiunta, si evidenziano delle relazioni più positive tra gli adolescenti e i genitori o gli insegnati (Van Den Broeck, A., Vansteenkiste, M., & De Witte, H., 2008; Zimmer-Gembeck & Collins, 2003).

 

Scegliere quando stare da soli o in compagnia

Una motivazione controllata, sia nel comportamento solitario che in quello interpersonale, si associa ad alti valori d’ansia sociale e depressione, mentre il trascorrere semplicemente molto tempo da soli non è necessariamente indice di depressione. Parallelamente, avere una forte motivazione intrinseca, nel preferire una situazione sociale o nello scegliere di stare da soli, viene associata a bassi livelli d’ansia e di depressione. Dunque, il semplice trascorrere molto tempo insieme ad altre persone fa stare bene i ragazzi e, nel contempo, il passare del tempo da soli aiuta l’adolescente a gestire più adattivamente i propri contrasti interpersonali (Beiswenger, K. L., 2008).

In particolare, è stata trovata una netta differenza tra la motivazione autonoma e quella esternamente controllata dimostrando l’importanza della motivazione intrinseca al comportamento interpersonale e solitario, in funzione dell’adattamento e del benessere (Chirkov, V., & Ryan, R. M., 2001; Chua & Koestner, 2008).

La presenza della motivazione intrinseca nel mettere in atto il comportamento solitario o interpersonale aumenta il grado di benessere percepito dall’individuo.

Gli adolescenti intervistati danno una connotazione valoriale positiva alla solitudine attiva, cioè funzionale a una qualche attività tangibile, mentre valutano più negativamente i momenti solitari passivi, quando si trascorre semplicemente del tempo da soli, senza perseguire un proprio scopo personale (Beiswenger, K. L., 2008). Inoltre, se il comportamento solitario non dipende da una scelta autonoma, ma viene imposto, questo è associato a sentimenti negativi (Chua & Koestner, 2008).

La letteratura mette in evidenza l’importanza di un elevato grado di autodeterminazione nelle scelte quotidiane o di vita, per poter conquistare un reale benessere personale.

Il comportamento interpersonale e quello solitario sono le due gambe su cui avanza la crescita identitaria dell’adolescente. Se i loro passi vengono regolati da una buona dose di motivazione autonoma, e non da imposizioni esterne, sono associati a un buon adattamento e al benessere personale (Beiswenger, K. L., 2008; Corsano, P., Majorano, M., & Champretavy, L., 2006).

Black Mirror: riflessioni sui mutamenti psicologici e relazionali nel futuro della tecnologia

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.

 

Black Mirror: la serie TV

[blockquote style=”1″]The good news is that we move forward with giant steps toward the future. The bad news is that we may not be very prepared to deal with them.[/blockquote]
(Young, Abreu, 2011, p. 267)

Nata nel 2011 e rinnovata per una terza stagione in uscita il prossimo 21 Ottobre, Black Mirror è una serie tv inquieta, disarmante, a metà strada tra il genere sci-fi e la satira. Il titolo stesso introduce intuitivamente la tematica centrale in quanto rimanda allo schermo nero dei dispositivi tecnologici che noi tutti utilizziamo abitualmente. Nei vari episodi, ciascuno con diverse ambientazioni e personaggi, si susseguono scenari e storie governati da una brutale modernità fatta di incredibili invenzioni che rivoluzionano equilibri e sentimenti umani.

Psicologia e serie TV: i messaggi trasmessi da Black Mirror

Guardando nello schermo nero creato da Charlie Brooker, produttore britannico e autore della fortunata serie antologica, si scorgono dettagli che vanno al di là delle ovvie interpretazioni. Sebbene sia possibile, infatti, analizzarne la morale e i significati, non si può sottovalutare l’impatto emotivo e perturbante delle trame proposte.

A volerne dare una lettura meno introspettiva, ma che richiami quello che sembra essere l’intento degli autori, Black Mirror si rivela il ritratto di una società in cui la tecnologia è molto più di uno strumento ideato per facilitare i nostri compiti quotidiani o per mettere a nostra disposizione mezzi di comunicazione istantanea che accorcino le distanze. Al contrario, quello che viene raccontato nel corso degli episodi è una distanza infinita tra esseri umani in un mondo dominato da sistemi che esercitano un potere spersonalizzante, antagonisti di un’autenticità delle relazioni.
È possibile rintracciare in ciascun episodio una tematica che coinvolge (e sconvolge) l’idea tradizionale della natura umana.

Nel mondo creato da Brooker e colleghi, la capacità empatica sembra essere smarrita o, comunque, distorta. Nei racconti della serie i personaggi sono fondamentalmente assorbiti nel narcisismo tipico di chi guarda il mondo attraverso uno schermo, noncuranti dell’altro e del suo sentire. Sono tutti spettatori dell’altrui esistenza e traggono godimento da questa sorta di voyeurismo digitale.

In questo mondo non trova posto l’oblio della memoria che resta perennemente intatta e uguale a se stessa; uomini e donne, provvisti di personali microchip che ne conservano i ricordi, possono proiettare e riguardare gli eventi vissuti nei minimi dettagli. Una memoria privata dei suoi naturali mutamenti e distorsioni, impossibile da elaborare.

È una realtà in cui il progresso ha abolito il concetto di impossibile; persino di fronte all’irreparabilità della morte si può ricorrere a soluzioni “intelligenti”, a surrogati programmati per essere identici all’originale, forse addirittura migliorati. Una perfezione che spiazza perché altro non è che una vuota illusione.
E ancora, solitudine, azioni ripetitive e perdita del senso di identità e di individualità in una società paralizzata, bombardata da incessanti messaggi pubblicitari e in cui l’unica via di fuga è trasformarsi in maschere vuote che occupano tristi palcoscenici.

Questi alcuni dei temi di una serie che genera reazioni viscerali ed emotive prima ancora che animare dibattiti interiori e razionali sullo stato dell’evoluzione tecnologica e sul ruolo della persona all’interno di questo cambiamento. Black Mirror non è quindi solo un prodotto televisivo di intrattenimento, ma un moderno romanzo distopico; un’estremizzazione dell’attuale progresso tecnologico, disturbante al punto giusto da lasciare aperte considerazioni e interrogativi sui mutamenti che il consumo della tecnologia sta operando silenziosamente sulle nostre menti, sui nostri corpi e sui modi di entrare in contatto con l’altro.

La rivoluzione psico-tecnologica del nostro tempo è già iniziata, come testimonia il crescente interesse per le cosiddette nuove dipendenze e, in particolare, per le dipendenze tecnologiche. Alcuni autori, come Block (2008), sostengono l’esistenza di un vero e proprio disturbo (Internet Addiction), una condizione invalidante che implicherebbe importanti modificazioni comportamentali, ritiro sociale e sentimenti negativi di rabbia, depressione e un senso di tensione quando non si ha accesso ai dispositivi e alla rete.
L’intento degli studiosi che si approcciano a questo fenomeno non è, però, quello di demonizzare il progresso, ma di operare una riflessione consapevole sul rischio di un eccessivo ricorso alla tecnologia al fine di appagare i nostri bisogni emotivi, psicologici e sociali (Young, Abreu, 2011).

Con i suoi toni oscuri e profondi, Black Mirror narra questi mutamenti e scatena incertezze su un futuro che forse non è poi tanto lontano: una serie da vedere, o rivedere, in attesa dei nuovi episodi della terza stagione.

Gli effetti di Pokémon Go: una fonte di distrazione per conducenti, passeggeri e pedoni

Un nuovo report pubblicato online da JAMA Internal Medicine parla degli effetti di Pokémon Go e di come il recente e popolarissimo gioco di realtà aumentata porti a una forte distrazione di automobilisti, passeggeri e pedoni.

 

Un nuovo report sugli effetti di Pokémon GO

John W. Ayers della San Diego State University in California, affiancato dai suoi coautori, è andato a caccia di messaggi pubblicati sul social Twitter e di notizie in Google News che trattavano informazioni relative la distrazione dei conducenti alla guida e dei relativi incidenti a causa del gioco Pokémon GO, in quanto impegnati a catturare Pokémon in luoghi del mondo reale.

Un’ analisi fatta al principale target del gioco ha evidenziato come gli incidenti automobilistici siano la principale causa di morte, in particolare nei soggetti con un’età compresa tra i 16 e i 24 anni. I giovani conducenti sono infatti molto suscettibili alla distrazione. L’American Automobile Association riporta inoltre che il 59% degli incidenti che coinvolgono i giovani sono causati da forti distrazioni che nell’arco di 6 secondi portano allo schianto.

Gli autori dello studio hanno raccolto un campione causale di 4000 tweets contenenti i termini Pokémon, driving (guidando), drives (guida), drive (guidare), car (macchina) o queste parole associate tra loro (ad es. Pokémon e guida) per un periodo di 10 giorni durante il mese di luglio.

 

Gli effetti di Pokémon GO: risultati del report

Gli autori, sugli effetti di Pokémon GO, riportano che:

  • Il 33% dei tweets indicano che un conducente, un passeggero o un pedone sono stati distratti dal gioco Pokémon GO, e che questi dati si correlino a 113,993 incidenti segnalati su Twitter.
  • Il 18% dei tweets indicano che una persona stava giocando alla guida (“OMG I’m catching Pokémon and driving”), l’11% che stava giocando un passeggero (“Just made sis drive me around to find Pokémon”), e il 4% riguardava un pedone distratto (“Almost got hit by a car playing Pokémon GO”).
  • Sono stati effettuati 14 arresti la cui causa è stata attribuita a Pokémon GO, tra cui un giocatore che si è schiantato contro un albero.

Ha dichiarato Ayers:

Pokémon GO è una nuova fonte di distrazione per conducenti, pedoni e passeggeri, e i messaggi di sicurezza inseriti nel gioco sono scarsi e poco efficienti

Secondo gli autori queste scoperte potrebbero aiutare a sviluppare nuove strategie per gli sviluppatori del gioco, i legislatori e il pubblico, così da poter limitare i potenziali pericoli e i negativi effetti di Pokémon GO.

Per quanto riguarda gli autori del gioco, alcuni tentativi di miglioramento della sicurezza sono già stati fatti, principale tra tutti la restrizione del gioco a velocità superiori a 10 miglia l’ora (20 km/h), ma questo non è sufficiente.

Secondo Ayers e colleghi occorrerebbe rendere inaccessibile il gioco per un periodo prolungato tutte le volte che i giocatori superano il limite di velocità di marcia, con lo scopo di evitare che i conducenti giochino alla guida. Inoltre il gioco potrebbe essere disattivato nei pressi di strade e parcheggi per proteggere sia i pedoni che i conducenti. Infine il gioco potrebbe includere chiari avvertimenti circa la guida e la sicurezza dei pedoni.

 

 

Lo sport nel bene e nel male: il diffondersi della vigoressia

La vigoressia o bigoressia (dall’aggettivo inglese big) o dismorfia muscolare, una sorta di dipendenza patologica dall’esercizio fisico, si verifica nel momento in cui si pratica sport superando i limiti normalmente posti dallo sforzo, dalla noia e dalla stanchezza (Velea, 2016). Questa dipendenza nasce da una preoccupazione ossessiva per l’aspetto fisico e dal desiderio di modificarlo aspirando alla perfezione.

Paola Bertotti, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI BOLZANO

Nonostante ovunque si legga e si senta di quanto lo sport sia importante per la salute fisica e mentale dell’individuo, obiettivo di questo articolo è illustrare che, come in tutte le cose, anche in questo caso ci può essere l’altro lato della medaglia.

Come primo passo, sembra essenziale definire i termini e fare le dovute distinzioni fra:
– SPORT, definito come attività competitiva svolta all’interno di un sistema di regole e finalizzata alla ricerca di prestazione;
– ESERCIZIO FISICO, con significato di attività fisica strutturata, che mira a benefici per la salute;
– ATTIVITÀ FISICA (O MOTORIA), che comprende qualunque tipo di movimento che determini dispendio energetico;
– EDUCAZIONE FISICA E MOTORIA, che è l’attività svolta in ambito scolastico, con finalità sia specifiche, sia educative trasversali (Biddle & Mutrie, 2008).

Queste definizioni sono utili per capire come, ciò che noi chiamiamo genericamente (e per praticità) “sport”, abbia in realtà varie dimensioni e come il dare più importanza all’una o all’altra di esse dipenda dal tipo di interesse che ciascuno investe e dalle aspettative che ha. Cinque ore di nuoto settimanali per ragioni di salute o quaranta ore di allenamento per partecipare alle Olimpiadi non comportano le stesse aspettative, né gli stessi effetti: una differenza quantitativa, che diventa qualitativa e mette in discussione i “benefici” dell’attività motoria (Queval, 2016).
Lo sport (in tutte le sue dimensioni), infatti, può diventare una vera e propria ossessione e trasformarsi in dipendenza.

 

Vigoressia: definizione e diagnosi

La vigoressia o bigoressia (dall’aggettivo inglese big) o dismorfia muscolare, una sorta di dipendenza patologica dall’esercizio fisico, si verifica nel momento in cui si pratica sport superando i limiti normalmente posti dallo sforzo, dalla noia e dalla stanchezza (Velea, 2016). Questa dipendenza nasce da una preoccupazione ossessiva per l’aspetto fisico e dal desiderio di modificarlo aspirando alla perfezione, tanto che alcuni autori parlano di “complesso di Adone” (Velea, 2016), dalla celebre figura mitologica simbolo della giovanile bellezza maschile. Sembra essere, quindi, una nuova forma di disturbo della percezione della propria immagine corporea.

La vigoressia viene anche definita come anoressia inversa, in quanto, apparentemente, i sintomi sono opposti a quelli dell’anoressia nervosa: la paziente anoressica si vede sempre grassa pur essendo magrissima, mentre il vigoressico (in prevalenza di sesso maschile) si vede sempre magro e non abbastanza muscoloso anche quando ha raggiunto un fisico molto atletico (Ferrari e Ruberto, 2012).

Questa patologia sembra collocarsi a cavallo fra i Disturbi dell’Alimentazione, i Disturbi da Dismorfismo Corporeo e i Disturbi Ossessivo-Compulsivi (Ferrari e Ruberto, 2012), ma recentemente è stata inserita nel Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali (DSM 5) sotto la categoria “Disturbo Evitante/Restrittivo dell’assunzione di cibo” (Vernola, 2016).

La caratteristica principale di questo disturbo è una forte insoddisfazione e preoccupazione nei confronti del proprio fisico, che è visto come asciutto e poco muscoloso e quindi bisognoso di continuo esercizio. Il doversi continuamente esercitare può diventare una vera e propria mania e trasformarsi, di conseguenza, in una dipendenza, la quale comporta, come tutte le addiction, un cambiamento radicale nelle abitudini quotidiane.

Le persone che soffrono di questa patologia cambiano radicalmente la loro visione dello sport, modificando aspettative e tempo dedicato ad esso. L’esercizio diventa una priorità assoluta con conseguenze spesso drastiche nella vita sociale: sia nei rapporti affettivi, sia nella vita lavorativa, che vengono messi in secondo piano o addirittura abbandonati. Qualsiasi altra attività del tempo libero che non sia legata alla disciplina praticata viene trascurata e, solitamente, viene anche adottato un abbigliamento conforme alle esigenze della pratica sportiva (Velea, 2016).

La persona affetta da dismorfia muscolare trasforma inoltre le sue abitudine alimentari, prediligendo una dieta molto rigida e salutista, nella quale sono incluse grandi quantità di alimenti iperproteici, importanti per lo sviluppo muscolare, mentre sono quasi completamente evitati i cibi ricchi di grassi e carboidrati (Amabili, 2013). L’alimentazione risulta quindi limitata ed ossessiva, danneggiata talvolta da uno strappo alla regola, considerato un’eccezione e accompagnato da un gran senso di colpa, che la persona combatterà facendo ore e ore di esercizio fisico (Spinetta e Passoni, 2015). Al tempo stesso però, è molto frequente l’uso (e l’abuso) di integratori e sostanze anabolizzanti che risultano, nella mente del malato, fondamentali per aumentare la massa muscolare, per migliorare le proprie forme fisiche e per poter andare oltre i limiti fisici posti dalla natura umana (Amabili, 2013).

Nonostante tutte queste modificazioni nelle abitudini e nonostante la smisurata quantità di esercizio fisico svolto, il vigoressico vedrà sempre il suo corpo come troppo magro e troppo poco muscoloso (Stagi, 2008). Di conseguenza, cercherà di evitare o si sentirà in imbarazzo in tutte quelle situazioni, anche intime, in cui si troverebbe a dover, in qualche modo, esporre la propria fisicità.

In genere, la vigoressia interessa uomini giovani adulti di età compresa tra i 15 e i 23 anni circa, che praticano quei tipi di sport in cui lo scopo degli allenamenti è proprio quello di aumentare la propria muscolatura e la propria forza, come il football americano, il wrestling e, soprattutto, il body-building. La prevalenza del disturbo è calcolata intorno a 100,000 persone nel mondo e nelle palestre si aggira attorno al 10% dei frequentatori, anche se in realtà, con grande probabilità, la sua presenza è sottostimata, dal momento che non è sempre semplice riconoscere chi ne è affetto (Ferrari e Ruberto, 2012).

Questa difficoltà è dovuta al fatto che spesso queste persone hanno apparentemente un aspetto molto salutare. Alcuni segnali d’allarme o fattori di rischio possono essere: il forte desiderio di voler aumentare la propria massa muscolare, il continuare ad allenarsi anche in presenza di infortuni alle articolazioni o ai muscoli, la partecipazione a gare di bodybuilding, l’eccessivo guardarsi e controllarsi allo specchio, il vivere momenti di vergogna, depressione o senso di colpa quando non è possibile allenarsi o si è obbligati a sgarrare la dieta, l’uso o la dipendenza da steroidi anabolizzanti, una storia di bullismo in età giovanile legata, soprattutto, all’essere gracile o di aspetto debole, precedenti disturbi alimentari (Griffiths et al., 2015).

Rispetto ad altre dipendenze o ad altri tipi di disturbi alimentari, la vigoressia è più difficile da individuare proprio perché, ad un primo sguardo, le persone che ne soffrono sembrano prendersi molta cura di se stessi, svolgendo molta attività fisica e rispettando una dieta salutare. Come si diceva introducendo questo articolo, lo sport è visto indiscriminatamente come uno strumento positivo ai fini del benessere, permettendo di stare in forma fisicamente, di prevenire malattie di vario genere e di scaricare lo stress quotidiano.

 

La vigoressia e l’influenza dei media

Il dilagare di questo tipo di disturbi è sostenuto sempre più spesso dai media, che mostrano ideali di bellezza (per le ragazze) e di forza (per i ragazzi) irraggiungibili e inesistenti, nonché dai social network, luoghi ideali di condivisione, più o meno anonima, delle proprie abitudini sportive e alimentari.

Facebook, per cominciare con il social network più famoso degli ultimi tempi, permette di far parte di gruppi in cui l’attività fisica è vista, negli intenti degli ideatori, come un modo per stare meglio con se stessi, per aumentare la propria autostima e per ridurre l’obesità e il rischio delle malattie connesse ad essa. A tale scopo vengono messi a disposizione diversi programmi di workout per tutte le esigenze, dai principianti ai più “palestrati”. Gli allenamenti si spostano, quindi, dalla palestra al salotto di casa nostra, rendendo l’individuazione di soggetti potenzialmente a rischio ancora più difficile. Infatti, se, da un lato, il mostrare la possibilità di muoversi ed allenarsi anche da casa può essere molto utile per sdoganare l’idea che lo sport vada fatto solo in un determinato contesto, in determinate ore e con determinati attrezzi, dall’altro, si va incontro al rischio di creare una popolazione di “malati di sport” poco individuabile e poco studiabile.

Simile discorso può essere fatto per un altro famosissimo social network, Instagram, nel quale è possibile mostrare, attraverso immagini, i propri progressi dal punto di vista muscolare, nascondendosi dietro fantasiosi pseudonimi. Anche in questo caso il limite fra attività fisica come strumento di benessere e sport come dipendenza non è facilmente delineabile. Così come non è facile intuire dove si colloca la linea di confine fra un’alimentazione sana e variegata e un’alimentazione “malata”, nella quale le proteine vengono assunte (spesso in maniera incontrollata) tramite polveri proteiche inserite nelle ricette più classiche: dai frappè alle torte, dal cappuccino ai pancakes.

Risulta evidente come la vigoressia sia una problematica sempre più attuale e, di conseguenza, da esplorare attraverso studi e ricerche che dovrebbero tenere in considerazione innanzitutto le tre variabili suggerite dalle autrici Dalla Ragione e Scopetta (2009): evitamento sociale, a causa dell’aspetto corporeo di cui la persona vigoressica si vergogna e che non vuole mostrare; tempo dedicato all’attività sportiva; dieta seguita con lo scopo di migliorare l’aspetto fisico, includendo l’uso di integratori.
Inoltre ritengo sia utile indagare anche l’influenza dei mass media e dei social network nell’aumentare e sostenere disturbi di questo genere.

Quando l’output diventa anche input: come funziona il neurofeedback?

Il neurofeedback è una tecnica d’avanguardia che fa interfacciare cervello e computer, usata per il trattamento di vari disordini clinici, come depressione, ansia, dolore cronico, iperattività, schizofrenia ma anche per il potenziamento cognitivo.

 

Si basa sull’autoregolazione dell’attivazione cerebrale e si ispira ai principi dei sistemi di controllo a feedback, sistemi che trovano applicazione in ambito cibernetico, nell’automazione industriale, nei controlli qualità, nell’ottimizzazione dei processi e via dicendo.

Moses Sokunbi, ricercatore della SISSA di Trieste, ha messo in rassegna la letteratura sui sistemi di controllo a feedback, mostrando come dai “mattoni” rappresentati dai principi di base di questi sistemi si costruisce il neurofeedback.

Questo articolo potrà essere particolarmente utile per tutti quelli che si avvicinano a questa tecnica e ne vogliono comprendere gli aspetti basilari.

Chi lavora nel campo delle neuroscienze e si avvicina al neurofeedback, spesso non ha modo di approfondire la tecnica nel quadro più ampio dei sistemi a feedback e dei suoi fondamenti teorici – spiega Moses Sokunbi, ricercatore della Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati (SISSA) di Trieste – Il rischio è quello di lasciarsi sfuggire potenzialità e applicazioni innovative.

 

Il neurofeedback

Prima di comprendere come utilizzare i tracciati (fMRI, EEG, ecc) nel neurofeedback è infatti utile comprendere la logica dietro a questi sistemi di controllo, che sono applicati negli ambiti più vari, dalla cibernetica all’elettronica.

L’idea di base è che l’output del sistema diventa parte dell’input – precisa il ricercatore.

Immaginiamo per esempio un sistema che nel cervello controlli i movimenti delle gambe per camminare. Oltre a mandare segnali motori, per rendere davvero efficace la camminata il sistema ha bisogno anche delle informazioni propriocettive sulla posizione delle gambe, informazioni che cambiano durante il movimento. Queste informazioni sono a loro volta un prodotto del segnale motorio, l’output del sistema stesso. In questo modo si forma un flusso continuo di informazione.

Nel caso del neurofeedback tipicamente i pazienti ricevono informazioni sull’attivazione delle proprie aree cerebrali, che possono per esempio essere collegate a un disturbo clinico, come ansia o depressione. Nella versione più innovativa oggi si usa una combinazione di elettroencefalografia, EEG, e risonanza magnetica funzionale, fMRI, in tempo reale, ma la forma più tradizionale di neurofeedback si basa unicamente sui tracciati elettroencefalografici. Grazie al neurofeedback il soggetto pian piano riesce a controllare i propri segnali cerebrali, alleviando così la condizione patologica.

Nel suo lavoro, Sokunbi prende in esame un gran numero di lavori svolti in ambiti diversi (neurofeedback basato sull’EEG o sulla fMRI), esplorando dei sottosistemi di base (feedbck open-loop e closed-loop) del neurofeedback, la cui comprensione è fondamentale per chi inizia a cimentarsi con questa tecnica.

Quando ho iniziato a studiare il neurofeedback ho pensato che mi sarebbe stato utile avere una visione complessiva sull’argomento in special modo sui principi fondanti, per cui mi auguro che il mio lavoro che diventare uno strumento utile anche per altri.

La rassegna è stata pubblicata sulla rivista Magnetic Resonance Imaging.

Disturbi dello Spettro Autistico: l’intervento ABA in classe – Report dal Congresso Erickson

Carlo Ricci, Presidente dell’Istituto Walden di Roma, apre il workshop delineando le caratteristiche principali del metodo ABA (Applied Behavior Analysis).

 

L’intervento ABA in classe: perché e soprattutto come – Workshop

Relatori: Carlo Ricci (Presidente Istituto Walden, Roma), Chiara Magaudda ed Eleonora Mattei (Istituto Walden)

L’Applied Behavior Analysis è un metodo che fonda la proprie radici nell’analisi sperimentale del comportamento e nella scienza del comportamento. Alla luce della grande quantità di studi evidence-based effettuati negli anni, le Linee Guida sul trattamento dei disturbi dello spettro autistico nei bambini e negli adolescenti redatte dall’Istituto Superiore di Sanità, raccomandano l’ABA come intervento elettivo per i disturbi dello spettro autistico.

Pur non essendo un programma specifico per bambini con disturbi dello spettro autistico, l’ABA è un insieme di metodi e tecniche rigorosamente ancorati ai principi della scienza del comportamento e dimostra la sua efficacia in molti ambiti di applicazione nella clinica, nella riabilitazione e nella promozione della salute. Il metodo ABA permette un apprendimento di tipo formale delle capacità strumentali, sociali e di comunicazione e si ritiene che, applicato in modo rigoroso e con la particolare attenzione alle regole di setting, possa essere valido per intervenire sull’ apprendimento e sull’inclusione degli alunni con DSA nel contesto scolastico.

Chiara Magaudda ed Eleonora Mattei, collaboratrici di Ricci all’Istituto Walden, proseguono considerando l’applicazione del metodo ABA (Applied Behavior Analysis) nel contesto scolastico italiano. Gli studi sull’uso dell’ABA in classe riguardano maggiormente i contesti inglesi in cui esistono classi differenziate e nelle quali è possibile implementare il metodo in modo rigoroso e controllandone gli outcomes.

Per quanto riguarda la scuola italiana, la prima differenza evidente riguarda la composizione delle classi: non esistendo classi speciali, la classe mista può diventare una risorsa. In tal senso il metodo ABA può essere usato dagli insegnanti, formate attraverso un “teacher training”, in modo da poter creare opportunità di apprendimento per gli alunni con disturbi dello spettro autistico e utilizzare strumenti quali, per esempio, l’analisi funzionale per la comprensione e il trattamento dei comportamenti problematici, il modeling, il rinforzo, in modo da fornire aiuto immediato in situazioni in cui l’alunno con un disturbo dello spettro autistico ha mostrato difficoltà, renderlo più autonomo, guidare i compagni nell’interazione e facilitare quindi l’inclusione.

 

Intervento ABA in classe - Congresso Autismi 2016

 

Poiché il metodo ABA è intensivo e può essere applicato con bambini con disturbi dello spettro autistico già nei primi anni di vita, la scuola può e deve essere considerata una risorsa in quanto è il luogo in cui gli insegnanti possono individuare i segnali precoci di disturbi dello spettro autistico ed è il luogo della socializzazione in cui i bambini possono generalizzare le abilità apprese in altri contesti.

Rimangono comunque aperte le riflessioni per quanto riguarda la complessità dell’applicazione del metodo ABA a scuola: da una parte l’ambiente scolastico richiede una strutturazione che faciliti gli apprendimenti per gli alunni con disturbi dello spettro autistico, dall’altra è necessaria una rigorosa applicazione del metodo ABA che non può prescindere da una formazione adeguata.

Ciò che emerge quindi come elemento centrale riguarda il fatto che l’intervento ABA a scuola, per essere efficace e sostenibile ed avere quindi un rapporto costi/benefici adeguato, è necessario che sia co-costruito da insegnanti, compagni di classi e tecnici in un’ottica inclusiva in cui la scuola è luogo di apprendimento e promozione delle competenze socio-emotive di ogni alunno.

Come fa il cervello a decidere se una situazione è emotivamente piacevole o spiacevole?

I ricercatori del Max Planck Institute (Lipsia), guidati da Christiane Rohr, e dell’Università di Haifa (Israele), guidati da Hadas Okon-Singer, hanno identificato i meccanismi neurali che consentono di capire se una situazione sociale complessa sia emotivamente positiva o negativa.

 

[blockquote style=”1″]Se qualcuno ci offende mentre sta sorridendo, il nostro cervello dovrebbe interpretare il comportamento altrui come un sorriso o come una offesa? Il meccanismo evidenziato coinvolge due aree cerebrali che agiscono come due “telecomandi” che insieme determinano quale valore attribuire ad una situazione e quali altre aree cerebrali devono attivarsi o rimanere fuori dal processo[/blockquote] ha spiegato Okon -Singer.

Tutti noi conosciamo l’espressione “non so se ridere o se piangere”, con cui ci riferiamo ad una situazione che include sia elementi positivi che negativi. Ma come funziona il cervello?

Studi precedenti hanno identificato i meccanismi neurali alla base, tuttavia, la maggior parte di essi si è concentrata solo su situazioni dicotomiche – stimoli totalmente positivi (ad esempio, un bambino sorridente) o completamente negativi (un cadavere).

Lo studio

Questo studio, invece, ha esaminato situazioni complesse che implicano stimoli misti, individuando il meccanismo neurale che consente di “scegliere” la positività o la negatività di una situazione emotivamente ambigua. Al tal fine, i ricercatori hanno mostrato ai partecipanti alcune scene tratte dal film “Le iene” (Quentin Tarantino), che include molte situazioni di “conflitto emotivo”: ad esempio in una scena una persona ne tortura un’altra mentre sorride, balla e parla in modo amichevole alla sua vittima. I partecipanti hanno guardato le scene all’interno di un macchinario per risonanza magnetica, riferendo se avvertivano che ciascuna di esse includeva un conflitto. Per ogni spezzone, hanno valutato la misura in cui ritenevano che gli elementi positivi fossero dominanti e quindi la scena era piacevole da guardare, o se fossero gli elementi negativi a prevalere e quindi la scena risultava sgradevole.

Confermando i precedenti studi, i ricercatori hanno identificato due network di attività – uno che opera quando la situazione è percepita in modo positivo ed uno quando è percepita negativamente. Tuttavia, per la prima volta, hanno evidenziato il modo in cui il cervello passa da un network all’altro, ovvero attraverso l’intervento di due aree cerebrali: il solco temporale superiore (STS) e il lobulo parietale inferiore (IPL). Queste aree sono parte integrante dei due network, ma agivano anche quando i partecipanti percepivano un conflitto emotivo all’interno della scena mostrata. Il STS è risultato associato all’interpretazione di situazioni positive, mentre l’IPL all’interpretazione di situazioni negative. Queste due aree agiscono effettivamente come “telecomandi” che si azionano quando il cervello riconosce la presenza di un conflitto emotivo: “parlandosi” l’un l’altra ed interpretando la situazione in modo da decidere quale delle due rimarrà accesa e quale, invece, si spegnerà, determinano quale network cerebrale si debba attivare. Queste aree possono influenzare il valore positivo o negativo che dominerà in un conflitto emotivo attraverso il controllo di altre aree del cervello.

Conclusioni

La scoperta di aree del cervello che consentono di identificare situazioni e conflitti emotivi faciliterà studi futuri che intendono esaminare il motivo per cui tale meccanismo non funziona appropriatamente in alcune persone. [blockquote style=”1″]Noi ci auguriamo che comprendere le basi neurali dell’interpretazione delle situazioni ci aiuterà in futuro a capire il sistema neurale di chi mostra difficoltà emotive. Questo ci permetterà di sviluppare tecniche terapeutiche in grado di migliorare le interpretazioni di carattere emotivo di queste persone[/blockquote] hanno concluso i ricercatori.

E’ in arrivo Tachidino, il dinosauro che vince la dislessia

Ideato dall’ Istituto Scientifico Medea, il software Tachidino aiuta a far evolvere positivamente le difficoltà di lettura e scrittura, direttamente sul PC di casa, con monitoraggio a distanza. La presentazione il 22 settembre 2016 a Milano nell’ambito di BioNike per il Sociale.

Comunicato Stampa IRCCS Medea 

Tachidino, il software per la riabilitazione della dislessia

I ricercatori dell’Istituto Scientifico Medea – La Nostra Famiglia hanno messo a punto un nuovo strumento informatico per migliorare le abilità di lettura e di scrittura del bambino: è un gioco semplice e divertente che diventa strumento terapeutico attraverso l’intervento di un operatore qualificato nella riabilitazione della dislessia.

Tachidino è un software basato su due principi la cui rilevanza ed efficacia per i disturbi dell’apprendimento sono state ampiamente documentate nella letteratura scientifica internazionale, cui ha dato un importante contributo proprio la ricerca italiana. Il primo è il Balance Model di Dirk Bakker, che prevede la stimolazione dell’emicampo visivo destro o sinistro a seconda del tipo di dislessia diagnosticata; il secondo principio è l’allenamento dell’attenzione selettiva visuospaziale, della gestione del movimento rapido e dell’affollamento visivo (crowding), in base alla teoria magnocellulare, che collega le difficoltà di lettura a deficit nella percezione del movimento e nella localizzazione degli oggetti nello spazio.

 

Tachidino: come funziona il software

Il flusso di gioco è molto semplice. Bisogna aiutare Tachidino, l’amico dinosauro, a catturare uno specifico tipo di bon bon colorato che sbuca all’improvviso e percorre traiettorie vivaci e casuali. Solo uno di questi dolcetti è il bon bon a spirale di cui va ghiotto Tachidino, tutti gli altri gli spaccano i dentini. Quando il bambino cattura il bon bon giusto, compare per brevissimo tempo una parola da leggere e da suggerire a Tachidino: se il suggerimento è corretto il dinosauro può mangiare il dolcetto.

Difficoltà delle parole, lunghezza, forma e tipologia, tempo di visualizzazione sullo schermo variano in relazione a specifici parametri che possono essere individualizzati in base alle caratteristiche di lettura del bambino, così da “allenarlo” per potenziare le aree dove mostra difficoltà e migliorare le sue capacità di lettura.

Tachidino è disponibile in una versione base, completamente Free, che consente un allenamento a gioco libero. Il percorso è gestito da un algoritmo predefinito, in grado di adattarsi ad alcune caratteristiche del soggetto rilevate dal sistema in base ai risultati ottenuti al gioco.

Il genitore può scegliere anche di contattare un operatore qualificato, formato all’uso di questo strumento, all’interno del network “operatori Tachidino”. Nella versione Labs lo specialista, sulla base del profilo di lettura del bambino, imposta e personalizza i sofisticati parametri che definiscono il tipo di esercizio, gli ambienti e le caratteristiche dello stimolo e può monitorarli tramite collegamenti via web o in studio. Oltre 8200 parole della lingua italiana suddivise in 370 liste ciascuna con caratteristiche lessicali attentamente controllate, particolarità ortografiche e morfologiche, strategie di lettura specifiche e mirate. Il sistema parametrizza il livello di gioco, la lateralità dello stimolo (a seconda del tipo specifico di dislessia e con il controllo per bambini mancini), la tipologia d’esercizio (con input visivo o uditivo), il tempo di esposizione dello stimolo visivo e le caratteristiche percettive che ne determinano il livello di leggibilità.

[blockquote style=”1″]La nuova piattaforma informatica online nasce dall’applicazione dei dati di ricerca raccolti in più di quindici anni di studi sulla riabilitazione della dislessia, coniugati con le tecnologie più avanzate di gestione a distanza degli utenti e di regolazione delle proposte mediante algoritmi di apprendimento e autoaggiornamento[/blockquote] sottolinea la responsabile del progetto Maria Luisa Lorusso, neuropsicologa presso l’Istituto Scientifico Medea di Bosisio Parini (Lc).

 

Conclusioni

[blockquote style=”1″]E’ un modello di lavoro che trasferisce i risultati della ricerca direttamente nelle case della gente[/blockquote] evidenzia Massimo Molteni, responsabile della clinica e della ricerca in Psicopatologia presso il Medea. [blockquote style=”1″]E’ pensato per essere dalla parte del bambino perché è gioco, da fare in casa, magari assieme a mamma e papà, per conciliare le esigenze organizzative di ogni famiglia, ma è anche lavoro abilitativo importante perché conserva le caratteristiche utili a migliorare le abilità di lettura. E’ disponibile per tutti perché utilizza le enormi potenzialità dei sistemi web. E’ un frammento delle future smart cities che siamo chiamati a costruire: perché siano dalla parte dei più fragili, cioè dalla parte di tutti noi.[/blockquote]

Tachidino è stato presentato a Milano nell’ambito dell’evento BioNike per il sociale il 22 settembre 2016.

Web therapy: realtà o finzione?

In ambito scientifico la web therapy è definita come ogni tipo di interazione terapeutica professionale che usa Internet per connettere professionisti qualificati nella salute mentale e i loro clienti.

Elena Mazzieri, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

Web therapy: introduzione

Forse qualcuno avrà visto Web Therapy, la serie tv con Lisa Kudrow (Phoebe di Friends, per capirci) nei panni di una discutibile psicoterapeuta egocentrica e vanitosa, la Dott.ssa Fiona Wallice, alla ricerca di una svolta nella propria carriera che però non le comporti la fatica di ascoltare i propri pazienti. Da qui la “brillante” idea: invece di interminabili e noiose sedute di 50 minuti, Fiona inventa una terapia di soli tre minuti via video-chat che, a suo dire, vincolando il paziente in così poco tempo, lo costringe ad esprimere più rapidamente i suoi veri problemi; la web-therapy, appunto.
La domanda ora sorge spontanea: funzionerà così anche nella web therapy reale? Esistono terapeuti che utilizzano internet per curare i pazienti? E se sì, si comportano come Fiona?

Nell’era moderna, anche la psicoterapia si è digitalizzata, ma per nostra fortuna non nella maniera ipotizzata da Fiona.
La prima differenza: la definizione. In ambito scientifico non si parla di web therapy; bensì di “Internet Therapy”, definita come “ogni tipo di interazione terapeutica professionale che usa Internet per connettere professionisti qualificati nella salute mentale e i loro clienti” (Rochlen, et al., 2004). Tra i vari modelli di intervento forniti via Internet, quello più studiato è l’ Internet-delivered cognitive behavior therapy (ICBT) (Andersson, 2009). Si tratta di una terapia che combina i vantaggi dell’uso strutturato dei materiali di auto-aiuto con l’importanza del ruolo del terapeuta che, talvolta utilizzando anche tecniche di tipo più direttivo, supporta ed incoraggia il paziente sia via e-mail che tramite chat, con o senza il supporto visivo della webcam.
Cerchiamo di entrare più nel dettaglio per capire come, nei fatti, funziona la ICBT.

 

L’efficacia della web therapy

Il paziente ha accesso per un determinato periodo di tempo ad un sito internet sicuro e certificato dal quale può leggere e scaricare materiali online organizzati in una serie di lezioni o moduli. In seguito riceve dei compiti da svolgere prima che il modulo successivo sia accessibile (homework). Per di più egli deve completare regolarmente dei questionari opportunamente calibrati su di sé e sul suo problema attuale (ad esempio, disturbo d’ansia o depressione), così che il terapeuta possa monitorare i progressi ed il risultato (Andersson & Titov, 2014).

Può sembrare, a questo punto, che il ruolo del terapeuta sia stato oltremodo minimizzato e messo in un angolo. Infatti, se per sentirsi meglio basta seguire le istruzioni di semplici moduli online da scaricare e leggere quando e dove si vuole, il terapeuta a cosa serve? Ancora a molto. Diversi studi dimostrano che i trattamenti via internet in cui il terapeuta è presente e costantemente in contatto con il paziente, sono associati con risultati migliori rispetto ai trattamenti condotti soltanto da programmi automatici senza alcuna interazione umana (Richards & Richardson, 2012; Palmqvist et al, 2007; Andersson & Titov, 2014). Ma c’è di più. Il trattamento online per la depressione con poco, o addirittura nessun contatto con il terapeuta, è correlato con un aumento dei dropout e con una marcata riduzione degli effetti della terapia (Christensen et al., 2006).
Ciò dimostra che anche online, il terapeuta è una presenza essenziale per guidare e sostenere il paziente. Va da sé, quindi, che diventa indispensabile riuscire ad ottenere con esso una buona alleanza terapeutica.

Prima di approfondire questo argomento, però, è necessario fare un piccolo passo indietro. L’intervento del terapeuta nella terapia online, può essere sincrono, cioè in tempo reale attraverso l’uso del telefono, chat o webcam, o asincrono, vale a dire non in contemporanea con la richiesta del paziente, tramite l’uso principalmente di e-mail. Molto spesso i terapeuti, in base al paziente e al momento della terapia, utilizzano entrambi i tipi di comunicazione (Offredi, 2012). Alla luce di ciò, quindi, come è possibile instaurare una buona alleanza terapeutica stando dietro ad uno schermo di un pc, magari a chilometri di distanza?

Anche in questo caso, per rispondere alla domanda dobbiamo fare appello alla ricerca scientifica. È stato infatti dimostrato che nella terapia via Internet l’alleanza terapeutica è equivalente a quella della terapia tradizionale faccia-a-faccia (Andersson, et al., 2012). Lo stesso si può dire riguardo all’efficacia. Il miglioramento dei sintomi, infatti, non solo è significativo, ma viene anche mantenuto nel tempo (Ruwaard et al., 2012). In alcuni casi, addirittura, non si trovano differenze significative in termini di efficacia tra la terapia via Internet e quella tradizionale (de Graaf, et al., 2009; Andersson, 2016).

 

I vantaggi della web therapy

A questo punto non ci resta che esaminare quali sono i vantaggi che la terapia online offre rispetto alla terapia faccia-a-faccia.

Per prima cosa, il fatto di poter usufruire di una terapia psicologica da casa, permette di raggiungere anche coloro che, normalmente, non accederebbero ai servizi di salute mentale. Ad esempio, persone con difficoltà motorie e di spostamento, persone affette da disabilità o anche coloro che li accudiscono; persone con poco tempo a disposizione o, addirittura, persone che abitano in zone remote. Senza contare coloro che lavorano, viaggiano o abitano in paesi stranieri dove l’ostacolo principale diventa la lingua. Per di più, il fatto di poter restare comodamente a casa propria e di potersi nascondere dietro uno schermo, sicuramente spinge a cercare aiuto coloro che, altrimenti, non lo farebbero perché timidi o perché si sentirebbero stigmatizzati dall’iniziare un percorso terapeutico faccia-a-faccia.

In questo modo è possibile raggiungere tutti coloro che, sebbene ne abbiano bisogno, difficilmente accederebbero ad un servizio di tipo psicologico, a vantaggio non soltanto dei clienti ma anche dei terapeuti.

In secondo luogo, il fatto di poter scrivere (e-mail o messaggi via chat) fa sì che la persona si apra prima di quanto non farebbe in una relazione faccia a faccia. Questa “self-disclosure” comporta un’alta intimità e onestà sin dai primi scambi (Rochlen, et al., 2004). Per di più, la parola scritta contiene in sé la possibilità di essere letta e riletta in ogni momento, fatto questo che comporta un rinforzo di quanto appreso durante il percorso terapeutico. Senza contare che il fatto stesso di scrivere dei propri problemi è di per sé terapeutico (Murphy e Mithell, 1998).

Infine il terapeuta ha l’indubbio vantaggio di avere a portata di mano materiali aggiuntivi e di supporto alla terapia da poter inviare istantaneamente al paziente, come documenti, link o vari tipi di strumenti di valutazione (Rochlen, et al., 2004).

Mentre questi tipi di vantaggi si possono riferire a qualunque tipo di terapia via internet, la ICBT ha in più il vantaggio di fornire una maggiore possibilità di accesso per i pazienti a trattamenti basati sull’evidenza e un miglior rapporto costi-benefici rispetto al trattamento faccia a faccia. Per di più, il fatto di poter accedere in ogni momento al programma per avere le informazioni riguardanti il trattamento, facilita non soltanto l’apprendimento ma anche il mantenimento in memoria di quanto appreso. La possibilità che il terapeuta ha di monitorare i progressi ed i risultati del paziente tramite un programma automatico, fa sì che egli possa intervenire preventivamente prima che sorga la crisi; il che significa, per il paziente stesso, poter ricevere supporto da terapeuta molto prima di quanto non accada incontrando faccia-a-faccia il terapeuta una volta a settimana, se non addirittura una volta al mese (Andersson & Titov, 2014).

Purtroppo però trattandosi di un campo relativamente nuovo, non si ha una conoscenza abbastanza ampia e soddisfacente riguardo alle caratteristiche dei pazienti che possono ricevere maggiori benefici dal trattamento ICBT. Sono inoltre necessarie ulteriori ricerche volte ad approfondire quali sono i fattori determinanti gli abbandoni e i non successi della terapia via internet (Andersson & Titov, 2014). Alcuni ipotizzano i potenziali benefici che potrebbero derivare dall’integrare la ICBT con la tradizionale terapia faccia-a-faccia, come ad esempio considerare l’intervento via internet come un primo passo al quale poi, se necessario, seguirà un trattamento faccia-a-faccia più intenso (Bower & Gilbody, 2005). Anche in questo caso, non si può prescindere dall’effettuare ulteriori ricerche.

 

I limiti della web therapy

In generale, la terapia online ha dei limiti imprescindibili. Il fatto di scrivere dietro uno schermo del computer comporta, inevitabilmente, l’impossibilità di accedere al non-verbale, il quale, come è noto, può contribuire enormemente al processo terapeutico. Inoltre ci potrebbero essere fraintendimenti e importanti informazioni che, “restando tra le righe”, finiscono per venire ignorate. Senza contare che il tempo che intercorre tra l’invio del messaggio e la risposta ricevuta può, nel paziente, far aumentare l’ansia e creare fantasie riguardo al ritardo della risposta stessa del terapeuta. La non istantaneità della risposta, inoltre, mette in discussione anche la probabilità che il terapeuta possa intervenire tempestivamente in caso di crisi. Egli, infatti, potrebbe non ricevere o non leggere subito il messaggio.

Dal momento che la terapia si svolge principalmente tramite e-mail o chat, l’esito della stessa è condizionata dall’abilità del paziente e del terapeuta di esprimersi adeguatamente tramite lo scritto, facendo così sorgere il dubbio che questo tipo di terapia non sia adatta a tutti. Senza contare che la possibilità di interagire con pazienti o terapeuti provenienti da ogni parte del mondo può creare, nella relazione terapeutica, fraintendimenti di quelli che sono i reali bisogni del paziente (Rochlen, et al., 2004).

A questo punto non si possono non sollevare questioni etiche implicite in questo tipo di pratica terapeutica. In molti sono preoccupati riguardo alla possibilità che la terapia online possa superare i confini giurisdizionali della professione. Inoltre sono stati sollevati dubbi riguardo a quali possano essere le responsabilità legali in caso di crisi, e all’adeguatezza o meno di preservare l’anonimato del cliente. Per di più non si possono sottovalutare le difficoltà riguardanti la verifica dell’identità sia del paziente che del terapeuta. Siamo davvero certi di star parlando con quella persona? Inoltre, come può il paziente essere sicuro di interagire davvero con un professionista?

Quasi tutti i siti internet hanno un sistema di accesso e di controllo con password e codici identificativi creati su misura per ogni utente. C’è da dire, però, che quando si tratta di sicurezza online, qualche dubbio resta sempre. Non a caso, il Codice Deontologico degli psicologi italiani si è premurato di stilare delle linee guida ben precise per le “prestazioni psicologiche via internet e a distanza”, dedicando una sezione specifica agli aspetti riguardanti la sicurezza.

Lo psicologo ha l’obbligo di rendersi ben riconoscibile così da permettere a chiunque di verificarne l’identità in qualunque momento. Non solo. Deve anche specificare la sua iscrizione all’Ordine professionale e renderla immediatamente individuabile all’interno del sito web che utilizza per fornire le sue prestazioni professionali. Viene inoltra stabilita la necessità di un costante aggiornamento del sistema di sicurezza del sito Internet e degli altri strumenti utilizzati, tenendo ben presente che anche l’altro possa registrare o memorizzare quanto avviene durante l’interazione terapeutica (LINEE GUIDA PER LE PRESTAZIONI PSICOLOGICHE VIA INTERNET E A DISTANZA nelle more di una codificazione deontologica nei termini di cui all’articolo 41 del Codice Deontologico degli psicologi italiani).

Nell’aggiornamento del 2013, il Consiglio Nazionale dell’Ordine degli Psicologi raccomanda quanto segue:

“Nell’ambito delle prestazioni on line, lo psicologo di norma identifica l’utente, acquisisce l’autorizzazione al trattamento dei dati personali e il consenso informato riguardo alle prestazioni offerte.”

“Nell’ambito delle attività cliniche (quali la psicoterapia, la psicodiagnosi…) l’instaurazione di un rapporto diretto, di persona, è condizione indispensabile per un eventuale successivo utilizzo dei dispositivi di comunicazione a distanza.”

Indubbiamente queste precauzioni tutelano psicologi e pazienti, ma trattandosi di un mezzo di comunicazione in continuo mutamento e, per questo, imprevedibile, è d’obbligo essere particolarmente prudenti e costantemente aggiornati.
Di una cosa, almeno, possiamo essere certi: la Internet therapy funziona e, per fortuna, non si tratta della Web Therapy di Fiona!

Autismi 2016: Risposte per il presente, sfide per il futuro – Report dal Congresso Erickson di Rimini

Il 5° Convegno Internazionale di Erickson dedicato agli autismi è inaugurato dalle parole di Giorgio Dossi, presidente Edizioni Centro Studi Erickson. L’obiettivo della giornata è approfondire il tema della ricerca di un modello italiano per la diagnosi e il trattamento dei disturbi dello spettro autistico, sottolineando, da una parte, l’importanza della diagnosi precoce e, dall’altra, la necessità di implementare trattamenti nell’ottica di un progetto di vita per le persone autistiche considerando l’applicabilità e la sostenibilità degli interventi nel contesto italiano.

 

Autismi 2016: la Sessione Plenaria di venerdì 14 ottobre

Giorgio Dossi ci tiene a sottolineare gli importanti passi avanti compiuti dall’ultimo convegno dedicato a questo tema nel 2014 e incoraggia all’ottimismo leggendo anche una lettera di Davide Faraone, indirizzata a tutti partecipanti, in cui il sottosegretario all’Istruzione invita a riflettere sull’importanza che ha avuto l’emanazione della prima legge nazionale sull’autismo (134/2015) e ribadisce il suo impegno rivolto agli obiettivi di inclusione e piena realizzazione della popolazione autistica nella nostra società.

Autismi 2016 Erickson - Plenaria 14 Ottobre

Il primo ospite ad offrire il suo contributo è Antonio Persico del Dipartimento di Patologia Umana dell’adulto e dell’età evolutiva dell’Università di Messina che ci parla del rapporto epigenetico tra ambiente e autismo ribadendo quanto ormai pare assodato: l’autismo è un disturbo del neurosviluppo determinato con buona probabilità da una vulnerabilità genetica a cui si sommano in maniera determinante fattori ambientali diversi. L’importanza di approfondire gli studi di epigenetica è dimostrata anche dall’evidenza che in famiglie con due o più membri autistici, difficilmente si possono rintracciare cause comuni sottostanti al disturbo. Gli studiosi sono sempre più convinti che alla base di questa condizione vi siano cause complesse e diverse che convergono però su meccanismi di funzionamento comuni che sono poi oggetto dell’intervento riabilitativo.

Diana Robins, responsabile di un progetto di prevenzione secondaria per l’identificazione e l’intervento precoce  presso il J. Drexel Autism Institute di Philadelphia, interviene portando l’esempio americano di come la precocità della diagnosi possa facilitare l’accesso ai servizi e al trattamento e quindi porre le basi per promuovere una migliore qualità di vita futura delle persone con disturbi dello spettro autistico; in quest’ottica l’utilizzo della  MCHAT-R è entrato a far parte delle Guidelines dell’American Academy of Pediatrics oltre che essere promosso da molte associazioni governative statunitensi. Si tratta di un questionario con 23 domande rivolte ai genitori di bambini con età compresa tra i 18 e i 24 mesi che ha lo scopo di individuare  quei bambini che rischiano di sviluppare un disturbo dello spettro autistico. Monitorare la crescita di questa popolazione a rischio vuol dire soprattutto poter offrire un intervento tempestivo e mirato.

L’intervento di Giacomo Vivanti, collega della Robins a Philadelphia, si focalizza sull’applicabilità e la sostenibilità dei trattamenti e degli interventi nei reali contesti di vita come la scuola. Dal 2010 sono stati pubblicati molti studi randomizzati che mostrano differenti modelli evidence–based di intervento che hanno caratteristiche comuni quali l’intensità, il monitoraggio e l’efficacia. Partendo dal dato certo che i bambini con autismo sono in grado di imparare, è più efficace chiedersi non qual è l’intervento migliore tra tanti, ma qual è l’intervento migliore per quel bambino e sostenibile per i suoi insegnanti nel contesto socio-educativo in cui sono immersi.

Maria Luisa Scattoni (Dipartimento di Biologia Cellulare e neuroscienze, ISS Roma) riprende il tema della diagnosi precoce nel nostro paese, presentando il progetto NIDA, network italiano per il riconoscimento precoce dei Disturbi dello Spettro Autistico, che coinvolge attualmente alcuni dei più importanti centri clinici e di ricerca italiani che si occupano di diagnosi e trattamento dei disturbi dello spettro autistico e mette in campo un’equipe multidisciplinare. I bambini vengono seguiti dai primi giorni di vita fino ai 36 mesi tramite il monitoraggio del pianto neonatale e della motricità spontanea (general movements), lo studio dell’interazione e della comunicazione sociale e la valutazione dello sviluppo. Lo scopo del progetto è il riconoscimento precoce e la messa a punto di un modello di intervento estendibile a tutto il territorio nazionale e alle popolazioni ad alto rischio.

Maddalena Fabbri Destro (CNR, istituto di neuroscienze, Parma) approfondisce l’importanza del sistema motorio per la comprensione dei disturbi dello spettro autistico, legandolo soprattutto agli aspetti cognitivi e sociali con cui è in stretta relazione. Sono numerosi gli studi che dimostrano maggiori errori spaziali da parte degli autistici rispetto alla popolazione di controllo neurotipica. Questi errori correlano inoltre positivamente con la gravità dei sintomi autistici.

Massimo Molteni, direttore sanitario IRCCS Eugenio Medea di Bosisio Parini si occupa delle novità introdotte dal DSM V prima fra tutte proprio la comparsa della categoria dei DSA che raggruppa disturbi prima distinti tra loro.

In chiusura della plenaria Fabio Comunello, Presidente della bioFattoria sociale Conca d’Oro di Bassano del Grappa, rimette l’accento sull’importanza di implementare risorse per realizzare progetti di vita che dovrebbero svilupparsi durante tutto l’arco della vita e non fermarsi alla transizione tra adolescenza ed età adulta. A questo proposito si parla di un secondo welfare che potrebbe rendere la disabilità una risorsa: immaginare un marketing sociale in cui la disabilità possa prendere coscienza del fatto che può generare risorse e/o contribuire alla riduzione della spesa pubblica. E come si vedrà nel corso del convegno esistono già delle realtà locali che dimostrano che non si tratta di un’utopia.

L’illusione del narcisista: tra Trump e il narcisismo

Il narcisista può migliorare, ma difficilmente “guarisce” del tutto. Può smettere di monitorare ossessivamente ogni evento stilando la classifica del vincitore e può imparare a godersi le gioie più semplici, una passeggiata, un gelato, una chiacchierata rilassata in cui non vi è un dominatore ma uno scambio. Però è più raro che faccia il passo successivo, che sviluppi una vera capacità di relazione con l’altro.

 

Un’affermazione ricorrente è che viviamo un’età narcisistica. La pronunciamo parlando di Trump ma anche della Clinton, di Renzi ma anche di Salvini. È una definizione che ci aiuta a orientarci nel caos dei problemi. Suona plausibile quando la usiamo; eppure lascia un sospetto di vaghezza e di moralismo psicologico.

Narcisismo: che vuol dire? I narcisismi sono tanti. Ci vuole qualcosa che ci aiuti a chiarirci le idee in maniera semplice e vivida, e questo qualcosa potrebbe arrivare leggendo “L’illusione del narcisista”, libro di Giancarlo Dimaggio e appena pubblicato. Dimaggio si occupa da anni dell’argomento con successo non solo come teorico ma anche in maniera molto pratica: è uno psicoterapista specializzato sui problemi della personalità narcisistica.
Il suo saggio, molto leggibile, ci rivela alcune verità nascoste del narcisismo. Al centro non c’è la grandiosità e nemmeno l’egocentrismo, ma un senso di vuoto e di mancanza di vita che lascia senza fiato. Che vuol dire mancanza di vita? Che il narcisista non sa godersi la semplicità di una chiacchierata tra amici, schiavo dell’ansia di dimostrare che è il più intelligente nella stanza. Monitora attentamente ogni frase, sua e degli altri, aggiorna continuamente la classifica delle frasi più efficaci pronunciate fino a quel momento e nervosamente cerca la dichiarazione a effetto che stabilisca una volta per tutte che è lui –o lei- quello che ne sa di più, il più spiritoso e il più brillante della giornata. Il piacere della compagnia non lo prova.

 

Il narcisismo di Trump

Può venirci in mente il Trump di questi giorni, con la sua dichiarazione sessista che sta girando sui media. Forse è una semplificazione, forse Trump stava condividendo solo un momento –volgare- di cameratismo. In questo caso, ci insegna Dimaggio, non sarebbe narcisismo, ma solo un momento inappropriato da osteria che non depone a favore del candidato ma nemmeno è un segnale di narcisismo. Se invece Trump ha parlato per marcare una differenza tra lui e i suoi compagni di male chiacchiere, allora ci siamo. L’incapacità di stare nella relazione con gli altri e la volontà di mostrare la propria superiorità e soprattutto l’inferiorità altrui vanno a comporre il quadro del narcisista.

Il caso Trump ci dice anche che il narcisismo può rivelarsi sia nel campo intellettuale che in quello del machismo più anti-intellettualistico. Di Trump sappiamo anche il bisogno di mostrare al suo fianco donne sempre di indiscutibile bellezza. Sarebbe capace di andare in giro con donne meno appariscenti? L’impressione è che dipenda dal giudizio altrui. Anche il vezzo di essere un intenditore sopraffino colpisce. La frase che riserva ad Angelina Jolie, che non sarebbe una vera bellezza superiore, la garantisce auto-attribuendosi una competenza specifica, vaga quanto indiscutibile: [blockquote style=”1″]I do understand beauty, and she’s not.[/blockquote] In quel “do” intraducibile in italiano -se non aggiungendo un “davvero” che accentui il “io me ne intendo di bellezza”- c’è il narcisista che si pone in una cerchia di eletti indefinibile quanto superiore: gli intenditori di bellezza femminile.

 

L’illusione del narcisista

Illusione del Narcisista - Giancarlo DimaggioNel libro di Dimaggio abbondano gli esempi, sia di vita vissuta che letterari. Accanto a pazienti (rigorosamente camuffati per proteggere la privacy) non ci sono le solite analisi di personaggi di romanzi classici un po’ bolsi. Dimaggio pesca dal mondo di oggi del fumetto, delle serie TV e del cinema più recente. Tony Stark ovvero Iron Man, Tywin Lannister del Trono di Spade, Frank Underwood di House of Cards e Miranda Priestly del Diavolo veste Prada. Scelta interessante e opportuna, non solo perché ormai l’ottocento dei romanzi risale a due secoli fa. Anche perché, a pensarci bene, narcisisti tormentati dall’ansia di riconoscimento sociale come soprattutto Miranda Priestley e Tony Stark –un po’ meno Frank Underwood- non sono frequentissimi in quei romanzi. Ci vuole l’età mediatica per creare il narcisista moderno? Il Trump che -pare- chieda a più non posso pareri lusinghieri sulle sue donne a perfetti sconosciuti lo troviamo nel mondo che precedeva i media di massa? Appena va indietro all’età recente troviamo veri narcisisti? Difficile a dirsi.

La contemporaneità moltiplica quelli che Dimaggio chiama i narcisisti ipersensibili, quelli che tradiscono in maniera perfino patetica la dipendenza del giudizio altrui, mentre diminuiscono i narcisisti machiavellici a pelle spessa, i freddi Tywin Lannister che –non a caso- vivono in un medioevo fantastico. Fosse un tycoon dell’oggi sarebbe già più vulnerabile. Non vi è nulla di freddo nel bullismo di Trump.

Da terapista, Dimaggio da anche la soluzione, sia pure tra mille cautele. Il narcisista può migliorare, ma difficilmente “guarisce” del tutto. Può smettere di monitorare ossessivamente ogni evento stilando la classifica del vincitore e può imparare a godersi le gioie più semplici, una passeggiata, un gelato, una chiacchierata rilassata in cui non vi è un dominatore ma uno scambio. Però è più raro che faccia il passo successivo, che sviluppi una vera capacità di relazione con l’altro.

Per imparare le piccole gioie Dimaggio raccomanda una realizzazione di sé fatta di piccole cose che sfuggano alle valutazioni di rango della vita sociale. Sembra che per il narcisista sia fondamentale imparare a coltivare degli hobby con cui si diverta e impari quello che Dimaggio chiama un industrioso operare senza competere. Un’evasione dalla lotta quotidiana che, a quanto pare, il narcisista prende troppo sul serio.

Questo suggerimento finale dell’autore ci dice qualcosa sul narcisismo nelle età passate e non mediatiche. Questa fuga nel tempo libero, bisogno di tutti noi e necessità per il narcisista che non sa ricavarsela, ci dice anche che nelle società di una volta -senza tempo libero- il narcisista di una volta finiva per essere meno distinguibile dagli altri. In un mondo come quello antico in cui non vi era uno spazio privato e la vita umana si risolveva completamente nell’attività pubblica della politica e della guerra, il narcisismo, la dipendenza totale dalla reputazione e dal giudizio sociale, finivano per essere una condizione in un certo senso comune.

Si pensi al ruolo che ancora oggi ha il rispetto nelle società fondate sull’onore, o all’Iliade in cui le relazioni si guastano continuamente per mancanze di rispetto che vanno lavate nel sangue, come quella che origina l’ira di Achille. Non è un caso come ancora oggi la politica –ultimo luogo in cui non si lavora ma si gioca al gioco della reputazione e dell’onore- attiri soprattutto narcisisti. Il che suggerisce che il narcisista, questa figura così attuale, forse è anche un residuo arcaico di antiche società guerriere fondate sull’onore e sul rispetto e nelle quali non vi era né il lavoro –ovvero il realizzarsi nell’industrioso operare- e nemmeno il tempo libero. Forse il narcisismo inizia a morire con Gesù e Paolo, prime figure della storia non aristocratiche in quanto detentori di un mestiere: il primo falegname, il secondo tessitore di tende. E le piccole emozioni che il narcisista deve imparare iniziano con Odisseo che fa in tempo a vedere il suo cane Argo al ritorno da Troia. Piccola commovente gioia in un mondo troppo eroico.

Il Sogno compassionevole di Jan Fabre

Scultore, pittore, coreografo e regista: una figura poliedrica ed artisticamente molto feconda quella dell’artista Jan Fabre (Anversa, 1958).

 

L’artista belga, nel 2011, durante la Biennale di Venezia, ha proposto una sua personale rilettura della Pietà di Michelangelo con l’opera intitolata Sogno compassionevole (Pietà V), dove Cristo è lo stesso Jan Fabre, riverso in elegante abito da sera con il corpo in evidente stato di decomposizione, ricoperto di vermi, mosche e scarabei, mentre il volto della Madonna è un teschio.

La scultura, tacciata di blasfemia, ha lo scopo, come dichiarato dallo stesso Jan Fabre, di rappresentare le emozioni di una madre che, per compassione, vorrebbe sostituirsi al figlio morto. Viene cioè rappresentato un sentimento di identificazione, che viene messo in gioco dal cervello: infatti Cristo tiene nella mano destra un cervello, da cui parte il sentimento della compassione attivato dai neuroni.

Mentre osserviamo il volto della Madonna osserviamo la morte e veniamo messi nella condizione di poter provare il dolore che lo stesso Jan Fabre ha sentito ed espresso, riproducendo in scala 1:1 la Pietà michelangiolesca.

 

Lettura psicologica di Sogno Compassionevole di Jan Fabre

Partendo dal presupposto che un’opera d’arte altro non è che una manifestazione dell’attività della mente, possiamo affermare che, sottoponendo Sogno compassionevole ad una lettura di tipo psicologico, gli aspetti più interessanti risultano essere l’analisi delle trasformazioni dello stato psichico in seguito ad un grande dolore e l’influenza esercitata dal Buonarroti sugli artisti contemporanei.

Per quanto riguarda il primo aspetto, l’opera riconduce allo stato psichico alterato da un grande dolore, quello che appartiene a tutte le madri del mondo, che si sostituirebbero volentieri al figlio morto. Il dolore, infatti, sebbene assuma connotati e significati specifici per ciascuno di noi e sebbene sia sempre un’esperienza soggettiva, in quanto determinata ed influenzata da fattori individuali, dalla personalità e dalle esperienze passate, è un fenomeno che riguarda tutti e che crea disagio fisico e/o psichico in chi lo prova.

Il Sogno compassionevole di Jan Fabre - Scultura
Sogno Compassionevole di J. Fabre

 

Nella sua scultura, Jan Fabre descrive il dolore nel momento della sua elaborazione, un dolore che comincia con una rottura, o separazione (la morte del figlio), prosegue come trauma e culmina in una reazione (quella di una madre che vorrebbe sostituirsi al figlio). Si tratta della rappresentazione di un dolore psichico, un fenomeno misto, che ha luogo al confine tra corpo e mente, che non permette alla Madre di elaborare fino in fondo il lutto e di svolgere un processo di separazione dal Figlio morto. La Madonna non riesce a padroneggiare il dolore e vorrebbe morire al posto del Figlio.

 

L’influenza i Michelangelo su Jan Fabre

Per quanto riguarda invece il secondo aspetto, ovvero quello dell’influenza esercitata dal Buonarroti sugli artisti contemporanei, occorre far riferimento al concetto di paternità. Non si sta parlando, ovviamente, di paternità biologica, ma di una forma cultural-spirituale di paternità, per cui l’artista belga si è voluto confrontare con Michelangelo, realizzando un’opera molto forte, dopo aver vissuto personalmente l’esperienza del coma. Il coma è stato il suo contatto con la morte e Sogno compassionevole è strettamente legato all’esperienza del coma e al tema della morte, così come il tema della morte venne tradotto in termini di esperienza autobiografica da Michelangelo, nel suo capolavoro giovanile, la Pietà.

La Pietà michelangiolesca (oggi conservata nella Basilica di San Pietro in Vaticano) è databile 1497-1499 e fu realizzata quando il sommo scultore aveva poco più di vent’anni; è anche l’unica opera da lui firmata, sulla fascia a tracolla che regge il manto della Vergine: Michel.A[N]Gelvs Bonarotvs Florent[Invs] Faciebat (Lo fece il fiorentino Michelangelo Buonarroti). La scultura suscitò molte critiche, soprattutto per il fatto che la Madonna appariva assai giovane.

Il Sogno compassionevole di Jan Fabre - pieta michelangelo
La Pietà di M. Buonarroti

 

Per comprendere il volto così giovane della Madonna, occorre ricostruire una breve psico-biografia di Michelangelo. Da fonti storiche si apprende che quando Michelangelo nacque la madre era malata e che, poco dopo la sua nascita, fu affidato ad una balia, una giovane donna di Settignano. La madre di Michelangelo morì quando quest’ultimo aveva soli sei anni. Probabilmente intorno ai dieci anni, quando il padre si risposò, il fanciullo fece ritorno in famiglia.

Da questi dati biografici si evince che Michelangelo ebbe due figure materne nella sua infanzia e due perdite premature. La prima perdita fu quella della madre malata, la seconda fu quella della balia, a cui fu sottratto quando suo padre si risposò. Quello che qui vorrei sottolineare e che risulta essere interessante ai fini del presente lavoro, è che nessuna delle due donne dell’infanzia di Michelangelo è mai invecchiata.

Ritornando alla Pietà, si tratta dunque di una scultura profondamente autobiografica: una rappresentazione della madre ed insieme della balia, entrambe giovani; Michelangelo non aveva conosciuto nessuna delle due come donne anziane, perché le aveva già perse prima che invecchiassero. La Madonna della Pietà michelangiolesca non è disperata, ma, al contrario, molto pacata. Michelangelo, contrariamente a Jan Fabre, non narra il dolore di una madre, non mostra lo strazio della morte, ma ci parla di un desiderio universale, ovvero quello di tornare, alla fine della nostra vita, alla madre dell’infanzia.

Il corpo del Cristo morto, infatti, viene posto da Michelangelo sulle ginocchia della Madonna che lo sostiene con la stessa naturalezza di quando lo teneva in grembo da bambino.

Bullismo e suicidio in adolescenza: quale relazione?

Per quanto riguarda i comportamenti suicidari, le ricerche mostrano che in generale tutti i soggetti coinvolti in episodi di bullismo (vittime, vittime persecutorie e bulli) presentano maggiori rischi di incorrere sia in pensieri suicidari che in tentativi di suicidio veri e propri, con una prevalenza da 3 a 5 volte maggiore degli adolescenti non coinvolti (Espelage, Holt, 2013).

Nagaia Bacchetta, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI MILANO

I primi casi di bullismo: introduzione

Non è come combattere il cancro, ma è come se lo fosse stato per me. E’ come se fosse stato il mio cancro, in un certo senso… Penso che la gente debba prenderlo più seriamente. Penso che molti dirigenti a scuola siano fossilizzati ancora ai vecchi tempi quando il bullismo significava dire agli altri che sei paffuto, che hai quattro occhi o la faccia come quella di una pizza… ma il bullismo deve essere preso molto più seriamente (Seth).

Il caso più famoso nel mondo di bullismo associato a suicidio è stato sicuramente quello dell’adolescente canadese Amanda Todd. La ragazza, di appena 15 anni, si tolse la vita il 10 ottobre 2012 in seguito alla triste vicenda di molestie e soprusi subiti sia da parte dei compagni di scuola che di uno stalker sui social network. Amanda aveva raccontato la sua storia al mondo un mese prima della sua morte caricando un video su Youtube in cui rivelava gli episodi associati al bullismo e la sua sofferenza legata alla depressione e agli attacchi di panico che ne erano seguiti.

Sempre nel 2012, in Italia ha fatto invece scalpore il caso del ragazzo quattordicenne suicidatosi perché omosessuale e stanco delle prese in giro dei compagni di scuola che lo insultavano perché indossava i pantaloni rosa.

Sono parecchi i casi di cronaca relativi ad adolescenti che commettono suicidio in seguito ad episodi di bullismo. Molte ricerche si sono focalizzate sul legame di causalità tra queste due variabili e gli eventuali fattori mediatori che intervengono. Il bullismo è infatti ormai un fenomeno ampiamente riconosciuto a livello sociale e scolastico ed esistono vari programmi di intervento da realizzare nelle classi.

Definizione di bullismo

Il modello più celebre relativo al fenomeno del bullismo è sicuramente quello elaborato da Dan Olweus, il primo scienziato ad avere studiato in maniera sistematica le dinamiche che lo caraterizzano. Nella sua opera più famosa Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono (1993), Olweus definisce “bullismo” il fenomeno che accade quando uno studente è prevaricato e vittimizzato ed esposto ripetutamente nel corso del tempo alle azioni offensive messe in atto da uno o più compagni.

L’azione offensiva può essere esercitata con diverse modalità: attraverso l’uso della parola (offese, prese in giro, minacce), ricorrendo alla forza e al contatto fisico (in questi casi si parla di bullismo diretto) oppure escludendo la vittima dal gruppo e parlando male di lui/lei con gli altri compagni (bullismo indiretto).

In base agli studi da lui stesso condotti, Olweus ha trovato come tra i maschi siano maggiormente diffuse le modalità dirette, mentre le femmine sono più esposte al bullismo indiretto.

I soggetti coinvolti e le cause del bullismo

Olweus ha tracciato dei profili precisi dei soggetti coinvolti in questo fenomeno e dei loro ruoli all’interno della classe. La vittima appare di solito come una persona ansiosa e insicura, che soffre di scarsa autostima e tende ad avere un’opinione negativa di sè. Questi ragazzi a scuola di solito vengono isolati e hanno pochi amici all’interno della classe.

La vittima passiva o sottomessa, in particolare, appare essere incapace e insicura di reagire di fronte agli insulti, ha un modello reattivo di comportamento ansioso, sottomesso e associato alla debolezza fisica. Le interviste con i genitori di questi ragazzi rilevano che fin da piccoli hanno mostrato una scarsa capacità ad affermare se stessi nel gruppo dei coetanei e in genere hanno un rapporto intimo con i genitori, in particolare la madre che gli insegnanti spesso percepiscono come iperprotettiva.

La vittima provocatrice invece presenta un modello comportamentale che è una combinazione del modello ansioso e di quello aggressivo. Questi ragazzi mostrano spesso problemi di concentrazione a scuola, si comportano in modo tale da provocare irritazione negli altri ed alcuni vengono definiti iperattivi. Il loro comportamento spesso provoca reazioni negative da parte dei compagni della classe.

Il bullo si caraterizza di solito per l’uso dell’aggressività, che in alcuni casi non rivolge solo ai compagni ma anche a genitori ed insegnanti. Ha un comportamento impulsivo e scarsa empatia nei confronti delle proprie vittime. Secondo Olweus, alla base del comportamento violento non vi è alcuna tendenza all’ansia o a una scarsa stima di se stessi, al contrario il bullo spesso ha un’immagine positiva di sè.

I bulli passivi sono coloro che partecipano al bullismo senza prendervi parte attivamente e di solito assumono il ruolo di gregari, seguaci o sobillatori. Ogni bullo infatti si circonda di almeno 2-3 coetanei che li sostengono e simpatizzano per loro.

Tra le cause che gli studi hanno rilevato per questo comportamento violento e aggressivo, vi sono il forte bisogno di potere e dominio da cui sembrano affetti i bulli; le condizioni familiari inadeguate in cui sono cresciuti; una componente strumentale, derivata dal fatto che i bulli spesso chiedono alle vittime di procurare loro denaro o oggetti che desiderano. Le ricerche mostrano che sul lungo periodo i bulli sono più inclini a sviluppare comportamenti antisociali e a restare coinvolti in atti criminali contro la legge.

Un altro importante fattore che può favorire l’insorgenza del fenomeno è l’avere assistito a scene di violenza perpetrate da altre persone e questo effetto è tanto più forte quanto più chi la attua è considerato un modello. Ciò riguarda in particolare i bulli passivi, che non godono di alcuna considerazione del gruppo e che desiderano invece affermarsi (effetto del contagio sociale). Ma si può essere spettatori passivi degli episodi di bullismo anche per effetto della diffusione della responsabilità, che riduce il senso di colpa in chi assiste agli abusi perpetrati dai compagni.

A questo punto, Dan Olweus prospetta anche diversi progetti di intervento che permettono la prevenzione del fenomeno sia a livello scolastico, che di classe, che individuale: incontri tra insegnanti e genitori, giornate di dibattito, somministrazione di questionari, supervisione degli adulti nei momenti di ricreazione e mensa; regole di classe relative al fenomeno del bullismo, incontri di classe sistematici, apprendimento cooperativo, attività positive comuni; colloqui individuali con i bulli e le vittime e colloqui con i genitori dei ragazzi coinvolti negli episodi di bullismo.

Il programma di intervento prospettato da Olweus si è rivelato efficace nelle scuole in cui è stato attuato. Si sono evidenziate marcate riduzioni di circa il 50% dei problemi relativi al bullismo durante i 2 anni successivi all’introduzione del programma, un calo dei comportamenti antisociali in genere e un miglioramento del clima scolastico.

Molto è stato fatto grazie al contributo di Dan Olweus nella comprensione e nella prevenzione del fenomeno, ma nella società attuale nuove forme di bullismo si stanno diffondendo sempre più (cyberbullismo) e i soggetti coinvolti sembrano afferire a categorie sociali ben precise (omosessuali, ragazzi affetti da patologie mentali).

Bullismo e suicidio

Per quanto riguarda i comportamenti suicidari, le ricerche mostrano che in generale tutti i soggetti coinvolti in episodi di bullismo (vittime, vittime persecutorie e bulli) presentano maggiori rischi di incorrere sia in pensieri suicidari che in tentativi di suicidio veri e propri, con una prevalenza da 3 a 5 volte maggiore degli adolescenti non coinvolti (Espelage, Holt, 2013). Anche assistere ad episodi di bullismo senza prendervi direttamente parte espone a un maggior rischio, causando nei ragazzi un senso di impotenza e di sensibilità interpersonale che aumenta la probabilità al suicidio (Rivers, Noret, 2013).

Anche per ciò che concerne il cyberbullismo, alcuni fattori sembrano fortemente correlati con l’insorgenza del fenomeno, come la depressione, l’ansia, l’autostima, i problemi di salute, le assenze da scuola e i voti ottenuti, gli stessi fattori che peraltro sono già stati individuati da molte ricerche come quelli maggiormente correlati anche con il bullismo tradizionale (Kowalski, Limber, 2013).

La relazione tra bullismo e comportamenti suicidari risulta tuttavia complessa. Molteplici fattori sembrano intervenire nella relazione: la presenza di comportamenti autolesivi durante l’anno precedente sembra essere il predittore maggiormente rilevante per la successiva comparsa di comportamenti suicidari in tutti i gruppi di soggetti coinvolti in episodi di bullismo (vittime, bulli e vittime persecutrici) (Borowski et al, 2013). Una notevole rilevanza sembrano averla anche l’abuso sessuale, la presenza di una patologia mentale ed essere scappati di casa nell’anno precedente come fattori che possono aumentare la probabilità di pensieri e comportamenti suicidiari nelle vittime e nelle vittime persecutrici, mentre per quanto concerne i bulli i fattori maggiormente correlate risultano essere l’avere assistito ad episodi di violenza in famiglia, l’abuso fisico, l’uso di sostanze come marijuana, il fumo di sigarette, stare assenti da scuola e portare un’arma a scuola (Borowski et al, 2013).

I fattori che invece risultano essere protettivi per l’insorgenza del fenomeno sono una relazione positiva con i genitori e con altri adulti, la percezione di essere tenuti in considerazione dagli insegnanti e dagli amici, risultati positivi a scuola, l’attività fisica, la percezione di sicurezza a scuola e nel vicinato (Borowski et al, 2013).

Queste ricerche ci mostrano chiaramente che c’è una relazione tra bullismo e depressione, ma che tale relazione non ha una direzione ben chiara. I ragazzi che sono vittime di bullismo diventano depressi, o gli adolescenti depressi hanno una maggiore probabilità di essere vittima di bullismo?
Una recente ricerca condotta in 168 scuole di tutta Europa si è focalizzata sullo studio di quello che abbiamo visto essere come il principale predittore di comportamenti suicidari negli adolescenti, ovvero l’autolesionismo (Klomek et al., 2016).

Secondo Plutchik (1989), quando gli adolescenti si sentono minacciati e si arrabbiano a causa di uno stimolo (ad esempio, essendo vittima di episodi di bullismo) possono reagire facendo male a se stessi o agli altri. In particolare, è stato dimostrato come la depressione trasformi gli impulsi aggressivi in violenza rivolta a se stessi, come l’autolesionismo. Non tutti gli adolescenti vittime di bullismo però finiscono per incorrere in comportamenti autolesionistici; alcuni fattori protettivi, come il sostegno di genitori e amici, può ridurre il rischio di depressione e di autolesionismo.

Nella ricerca, che fa parte del progetto SEYLE promosso dall’Unione Europea, viene valutato il rischio suicidiario di 11.110 studenti da tutta Europa attraverso un questionario autosomministrato in cui vengono indagati il loro coinvolgimento in episodi di bullismo, i comportamenti autolesivi, i fattori di rischio (sintomi di depressione e ansia, idee suicidiarie, tentativi di suicidio, solitudine, uso di alcool e droghe) e i fattori protettivi (sostegno dei genitori e dei pari, comportamenti prosociali).

Tutti i tre tipi di bullismo presi in esame (fisico, verbale, relazionale) risultano associati con la comparsa di comportamenti autolesivi, sia occasionali che ripetitivi, e gli effetti di genere non sono risultati significativi.

Per quanto riguarda la depressione, essa è apparsa correlata in particolar modo con il bullismo di tipo verbale e relazionale ed anche con una maggiore probabilità di comparsa di comportamenti autolesionistici, mentre non appare significativa la correlazione con il bullismo fisico. La comparsa di sintomi ansiosi appare invece più probabile solo in presenza di un bullismo di tipo relazionale.
Tra i fattori protettivi, particolarmente significativi sono risultati il supporto dei pari e la presenza di comportamenti prosociali.

I risultati mostrano quindi che le vittime di bullismo, al pari delle vittime di abuso fisico o sessuale, sono a maggior rischio di sviluppare comportamenti autolesionistici e suicidiari e ciò sembra essere valido soprattutto per quelle forme più sottili di bullismo indiretto. L’ansia e la solitudine, in particolare, sono risultati associati soprattutto con l’autolesionismo ripetitivo e l’essere vittima di bullismo ha un effetto più significativo sui comportamenti ripetitivi che su quelli occasionali.

La depressione sembra essere un fattore mediatore significativo nella relazione tra il bullismo e l’autolesionismo, supportando l’ipotesi che le vittime di bullismo tendono ad essere più depresse e ciò le rende più vulnerabili a comportamenti di violenza autodiretta.

Il bullismo omofobico

Una parentesi a parte merita un tema di cui ultimamente si è discusso molto in relazione al bullismo e che riguarda le minoranze sessuali. Si è parlato parecchio sui media di varie notizie di cronaca relative al bullismo perpetrato nei confronti di adolescenti gay o bisessuali e dei maggiori rischi che corrono anche per quanto riguarda i comportamenti suicidiari rispetto ai coetanei eterosessuali.

In particolare, il bullismo omofobico si caraterizza come un insieme di comportamenti finalizzati a far sentire i giovani adolescenti isolati o non accettati a causa del loro orientamento sessuale, della loro identità di genere e del modo di esprimerla. Secondo uno studio del 2013, la maggioranza (74,1%) dei giovani appartenenti alle minoranze sessuali e di genere rivelano di essere stati vittima di molestie nell’ultimo anno a causa del loro orientamento sessuale. Alla luce del clima che trovano a scuola e che percepiscono come ostile, molti di questi adolescenti si sono sentiti poco sicuri sia a causa del loro orientamento che della loro identità di genere (Kosciw et al., 2014).

Durante il periodo dell’adolescenza in particolare, il bullismo perpetrato a scuola è particolarmente rilevante per chi lo subisce a causa della grande quantità di tempo trascorsa in classe, della forte influenza che hanno i pari in questa età e dell’ansia sociale che spesso ne deriva (Storch, 2004).
In aggiunta al contesto scolastico, i giovani appertenenti alle minoranze sessuali possono essere a rischio bullismo anche in altri ambienti. Gli studi riportano che sono più a rischio di essere vittima di cyberbullismo rispetto ai pari eterosessuali e che sono maggiormente esposti all’abuso sessuale e di violenza all’interno del rapporto di coppia (Collier, 2013).

Un recente studio (Bouris et al., 2016) indaga l’influenza di sette fattori (essere minacciati o feriti con un’arma a scuola, essere vittima di bullismo a scuola, subire molestie a scuola, avere saltato scuola, bullismo elettronico, violenza del partner, abuso sessuale) sui pensieri e i comportamenti suicidiari di un campione di adolescenti americani, focalizzandosi in particolare sulle minoranze sessuali.

La ricerca ha utilizzato il Chicago Youth Risk Behavior, un questionario autosomministrato che è stato sottoposto a 1907 studenti di alcune scuole superiori di Chicago. Circa il 13% dei ragazzi sono stati classificati come appartenenti alle minoranze sessuali. Questo sottogruppo ha riportato, rispetto ai pari eterosessuali, più alti tassi di ideazione suicidiaria (27,95% vs 13,64%), di pianificazione del suicidio (22,78% vs 13,64%) e almeno un tentativo di suicidio (29,92% vs 12,43%) nell’anno precedente. Una maggiore percentuale di giovani omosessuali riporta inoltre di essere stato vittima di molestie a scuola e di cyberbullismo, di avere saltato scuola e di avere subito abusi sessuali. I due fattori che sono risultati maggiormente correlati con un maggior rischio di tentativi di suicidio sono l’essere stati minacciati con un’arma ed essere stati vittima di molestie a sfondo omofobico a scuola.

La ricerca mette in luce inoltre anche la scarsa sicurezza percepita a scuola da questi giovani: molti saltano le lezioni a causa del timore per la loro sicurezza personale e per evitare le molestie e il bullismo. Saltare scuola è uno dei maggiori indicatori di disinvestimento scolastico e sul lungo periodo può avere effetti negativi sull’educazione di questi ragazzi, molto più inclini al drop out rispetto ai loro pari.

Si avverte quindi l’esigenza di aumentare gli interventi a scuola volti alla prevenzione del bullismo omofobico, poichè nelle scuole in cui tali programmi sono stati implementati, i risultati si sono mostrati positivi nel ridurre il bullismo e l’abuso verso le minoranze sessuali (Bouris, 2016).

 

Epilessia: nuove prospettive di cura?

Epilessia: l’aumento della concentrazione di grassi nel cervello potrebbe sopprimere le crisi epilettiche. Partendo da questa scoperta, gli scienziati sono stati in grado di sopprimere completamente le crisi epilettiche nei moscerini della frutta. Questo è stato evidenziato dalla ricerca svolta dal Prof. Patrik Verstreken e dal Prof. Wim Versées. I risultati della loro ricerca sono stati resi pubblici sulla rivista Nature Structural & Molecular Biology.

Mariagrazia Zaccaria

 

Il Professor Patrik Verstreken ha concentrato la maggior parte dei suoi studi sulle sinapsi. Quest’ultime son le giunzioni tra due cellule nervose attraverso le quali vengono trasmessi i segnali elettrici. In vari disturbi cerebrali, quali ad esempio il morbo di Parkinson, queste comunicazioni sono alterate.

Il professor Wim Versées esamina i processi che avvengono nelle nostre cellule, fino al livello di singole molecole e atomi. Studia le strutture tridimensionali delle molecole proteiche, per ottenere informazioni sul loro ruolo nella cellula e sui meccanismi alla base di vari disturbi.

 

Il ruolo chiave della proteina TBC1D24

Nelle precedenti ricerche che hanno coinvolto i moscerini della frutta, il Prof. Verstreken aveva già dimostrato che una proteina nota come “Skywalker” giocasse un ruolo cruciale nel mantenere la comunicazione tra le cellule cerebrali.
Una proteina quasi identica opera nel cervello umano con il nome di “TBC1D24”.

Il Prof. Verstreken afferma che le mutazioni genetiche della proteina TBC1D24, causano una deviazione conosciuta come la sindrome di DOOR che causa unghie deformate, ossa fragili, ritardo mentale ecc. Questa malattia genetica è caratterizzata da neuro degenerazione, disturbi del movimento ed epilessia.

 

Analisi con precisione atomica

Nel centro di ricerca VIB per la biologia strutturale, gli scienziati sono stati in grado di capire la struttura tridimensionale della proteina Skywalker, rendendo possibile lo studio di tale proteina nei dettagli microscopici.
Il Prof. Versées afferma che, dopo aver analizzato la proteina Skywalker, è stato in grado di dare delle nuove idee sulla funzione di tale proteina, e quindi anche sulla funzione della proteina umana TBC1D24, scoprendo inoltre che essa si collega con i grassi del cervello. Ancora più importante è che questa connessione è compromessa in oltre il 70% dei pazienti con la mutazione TBC1D24.

 

Una nuova cura per l’epilessia?

Sulla base di questa scoperta, gli scienziati hanno aumentato la concentrazione di grassi nel cervello nei moscerini della frutta con una mutazione Skywalker. Così facendo, le crisi epilettiche nei moscerini malati sono state completamente soppresse.

Il Prof. Verstreken successivamente ha affermato che il loro lavoro mostra che l’aumento dei grassi del cervello nelle sinapsi dei pazienti con mutazione della proteina TBC1D24 è una possibile strategia per prevenire le crisi epilettiche. Ed anche se il loro lavoro si concentra esclusivamente sui soggetti con mutazione della proteina TBC1D24, pensano che i loro risultati potrebbero essere rilevanti per le varie forme di epilessia.

 

Impollinazione scientifica incrociata

Il Prof. Versées ha dichiarato inoltre che i due gruppi di ricerca continueranno a collaborare al fine di cercare la strategia migliore per aumentare la concentrazione di grassi nel cervello in modo tale da prevenire le crisi epilettiche. Questa ricerca nasce dalla impollinazione incrociata di strutture biologiche, biochimiche e genetiche, per cui sarà sicuramente utile continuare su questa strada interdisciplinare.

Il momento del cambiamento è l’unica poesia

Cambiamento: cambiare posizione ci permette di vedere scenari e strade che prima neanche immaginavamo, e forse proprio per questo la nostra capacità previsionale in un dato momento è strettamente limitata, perché osserviamo il futuro e il mondo del possibile da una sola (riduttiva) posizione. Cambiare posizione ci permette di cambiare la visuale, di cambiare in qualche modo la nostra porzione di mondo.

 

Il senso di responsabilità nel cambiamento

Se dovessimo scegliere una costante che accomuna tutte le epoche e che in tutte le epoche è stata in qualche modo oggetto di studio delle diverse discipline, penso che io sceglierei il cambiamento. Eraclito diceva [blockquote style=”1″]non c’è nulla di immutabile, tranne l’esigenza di cambiare.[/blockquote] Allora perché per tutti noi diventa così difficile apportare qualche tipo di novità, provare altro, cambiare strada?

Facciamo un esempio. Qualcosa nella nostra vita non sta funzionando, o almeno non come vorremmo. Questo malfunzionamento è qualcosa di stabile, abbiamo provato ad aggiustarlo ma non ha funzionato, abbiamo cambiato strategia ma ancora nulla. Se parlassimo dello scaldabagno, penso che tutti noi chiameremmo l’idraulico. Allora perché non cercare un rimedio quando si tratta di cambiare partner, lavoro, città, obiettivo di vita? Perché siamo così restii a prendere le redini di qualcosa che nella nostra vita è così importante? Forse proprio per la sua importanza. Se mi aggiustano lo scaldabagno e l’esito non mi soddisfa, innanzi tutto è colpa dell’idraulico, e in secondo luogo posso sempre rivolgermi a un altro professionista che faccia il lavoro meglio. Ma se cambio qualcosa di grosso nella mia vita, mettiamo caso il partner o il lavoro, e alla fine non sono soddisfatto? Non sempre (anzi, quasi mai) posso tornare indietro, e soprattutto non posso dare la colpa a nessun altro se non a me stesso.

Io penso che una parte fondamentale in questa dinamica la giochi proprio la responsabilità. E questo l’abbiamo un pochino visto con il dilemma etico del male minore, in cui solitamente i soggetti preferiscono non interferire con il caso (pur salvando delle vite), ma vedere più gente morire senza prendersene la responsabilità.

 

Lo studio sugli antecedenti e i conseguenti del cambiamento

Per questo, è molto interessante l’esperimento svolto da Steven D. Levitt, economista autore del libro “Freakonomics. Il calcolo dell’incalcolabile”, che ha pubblicato i risultati dello studio su The National Bureau of Economic Research. Levitt ha interpellato migliaia di persone che stavano valutando di apportare un cambiamento importante nella propria vita, e ha chiesto loro di visitare una pagina web in cui la decisione finale sarebbe stata presa dal lancio di una moneta. L’autore ha intervistato poi i partecipanti 2 e 6 mesi dopo la fatidica scelta (o non scelta).

Cosa è successo? Intanto, è successo che una gran parte dei soggetti non aveva scelto sulla base della moneta, e questo era prevedibile. Però attenzione, perché è successo anche che i soggetti che avevano deciso di apportare un grande cambiamento nella propria vita, che fosse dettato dalla moneta o meno, risultavano essere più felici rispetto a quelli che avevano deciso di mantenere lo status quo. Infine, a latere ma fino a un certo punto, c’è anche il dato secondo cui le persone a cui la moneta aveva suggerito il cambiamento in effetti avevano apportato più frequentemente quel cambiamento rispetto a chi era stato consigliato in modo più conservatore. Come a dire, il lancio della moneta sembra essere stato quella spinta in più che ha permesso ad alcuni dei partecipanti di fare il salto.

Cosa ci dicono questi risultati? Che forse il fatto che la causalità si prenda un pezzettino di responsabilità (o che sia possibile da parte nostra fare appello alla complicità del caso a posteriori) incentiva le persone a cambiare. Soprattutto, però, questi dati ci dicono che cambiare sembra davvero convenire in termini di migliore qualità della vita e maggiore soddisfazione personale.

Ora, qualcuno potrebbe anche dire che la felicità millantata nel momento post-decisione da parte dei soggetti potrebbe fare parte di un bias, una sorta di auto-inganno per cui dopo avere corso un rischio come il cambiamento mi sento quasi obbligato a pensarmi più felice di prima, oppure potremmo dire che valutare il cambiamento soli 6 mesi dopo intercetti i partecipanti nella loro “luna di miele” con il nuovo status quo. Certo. Oppure no. Oppure quello che possiamo dedurre è che la paura che c’è prima di fare il salto, quella cosa che ci ferma e ci fa rimettere in discussione quanto in effetti la situazione sia insopportabile, è solo il preludio che fa parte di tutte le esperienze nuove. Possiamo anche dire che fare esperienza di qualcosa di diverso e fare esperienza di noi stessi in una condizione diversa è di per sé qualcosa per cui essere felici. Quando cambiamo un aspetto importante della nostra vita il senso di smarrimento che ci aspettavamo si acquieta quasi subito e si trasforma in una sorta di epifania, in cui diamo a noi stessi la possibilità di vedere altro, di sentire altro, di percepire appunto la “poesia” del cambiamento (riprendendo il titolo dell’articolo, preso in prestito da Adrienne Rich).

Cambiare posizione ci permette di vedere scenari e strade che prima neanche immaginavamo, e forse proprio per questo la nostra capacità previsionale in un dato momento è strettamente limitata, perché osserviamo il futuro e il mondo del possibile da una sola (riduttiva) posizione. Cambiare posizione ci permette di cambiare la visuale, di cambiare in qualche modo la nostra porzione di mondo.
Possiamo davvero dire (con Lao Tzu) che [blockquote style=”1″]Quella che il bruco chiama fine del mondo, il resto del mondo chiama farfalla.[/blockquote]

Psicologia, la google map dell’anima

È uno stato d’animo che conosci bene, si chiama: incertezza. Accompagnato a un brivido, quella sensazione strisciante che nelle vene inizia a formarsi il ghiaccio. La psicologia la incontri lì: previene i cristalli di ghiaccio.

Articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sul Corriere della Sera di 29/09/2016

 

Quante volte ti sei trovato impreparato. Intorno a te assenza di logica, scoppi di nervi, una cronica tendenza all’incapacità di comunicare. Ti fai l’idea che le relazioni umane siano una missione in Kurdistan. Ti ci hanno mandato senza preavviso né addestramento.

Quante decisioni hai dovuto prendere senza una Google Maps dell’animo che ti indicasse la strada giusta e che segnalasse cosa troverai nella mente di chi incontri sul tuo percorso. E ti manca il TripAdvisor che ti dice se lì valga la pena di fermarsi a cena. È uno stato d’animo che conosci bene, si chiama: incertezza. Accompagnato a un brivido, quella sensazione strisciante che nelle vene inizia a formarsi il ghiaccio. La psicologia la incontri lì: previene i cristalli di ghiaccio.

Hai deciso di andare all’estero, hai un’idea, la vuoi sviluppare. Tuo padre si ritira in un silenzio ostile: “La gente ti frega. Io ho costruito tutto da solo. Fuori dalla famiglia troverai solo nemici”. Dubiti. Tua madre ha il mal di testa, si preoccupa: “Mi abbandonerai, l’ho sempre saputo. Ho tua nonna in casa che mi toglie l’anima, vuol dire che l’affronterò da sola”. Ti senti in colpa.

Avevi un piano, sembrava brillante, ora all’improvviso senti l’energia che sale verso il cielo in un vortice spettacolare e dentro di te resta, sì, il ghiaccio.

Nei libri di psicologia se cerchi la soluzione, qualcosa la trovi. Compulsi volumi che ti dicano il da farsi. Apri alla parola diffidenza. Ti rimanda a: rancore. Rimbalzi su: si offende facilmente, non dimentica i torti ed è vendicativo. Ne rivedi ogni azione, ne ripassi i gesti, ripensi agli amici che hai allontanato, ti rendi conto che a casa tua non c’era mai nessuno ospite a cena e i tuoi non accettavano inviti. Trovi le parole che ti illuminano: personalità paranoide. Tuo padre, capisci, non ha semplicemente ragione. È l’incarnazione di un archetipo che esiste dagli albori della tua razza, e appare con regolarità in ogni luogo.

A te questa consapevolezza cambia molto. Sei intelligente, unisci le informazioni e deduci: se è un archetipo non è il portatore della verità, è l’espressione di una visione del mondo. E la visione del mondo, per definizione, è una prospettiva. Se cambi prospettiva vedi uno scorcio di panorama che prima potevi affermare che non esistesse. Continui a compulsare. Assunzione di prospettiva. Egocentrismo cognitivo. Bello. Questo concetto ti piace, suona bene, ti ispira. Egocentrismo cognitivo, la tendenza a credere che il proprio punta di vista sia oggettivo, l’incapacità di capire che gli altri vedono il mondo da una prospettiva diversa dalla loro. Giochi un po’ col suono delle parole, le soppesi – e intanto il vortice che conteneva il tuo animo si è arrestato, pacchetti di energia stanno rientrando nel tuo corpo – le ripeti, egocentrismo, egocentrismo. Come un adesivo appena comprato provi a vedere come sta addosso a tua madre. Aderisce perfettamente. Mamma, pensi, è ferma nel suo punto di vista: è convinta che il mio bene si realizzerebbe se coincidesse col suo bene. Ma non è così.

Però hai una sensazione strana. Il ghiaccio si è sciolto. Ma ti senti incatenato. Il biglietto per Berlino ancora non riesci a farlo. Ti stendi sul letto e pensi: catene, vincolo, legame. Freud una cosa del genere la chiamava libere associazioni. Legame ti convince, è la parola che ti tiene fermo a casa. Riprendi a sfogliare libri di psicologia, legame ti porta a Gregory Bateson. Doppio legame. “Figlio mio fai quello che vuoi”, detto mentre tutti i segnali comunicativi non verbali (ti piace che esista il concetto di comunicazione non verbale) urlano l’opposto. Doppio legame: ti vincolano e non hai neanche la possibilità di protestare. “Mamma, ma tu vuoi che io non parta”. “Che dici figlio mio, tua madre vuole solo che tu stia bene”. Tu lo sai che non è vero. Sei anche disposto a non partire, per un attimo ti basterebbe inchiodarla alla responsabilità delle sue azioni. Non c’è verso. Una roba, dice Bateson, da farti diventare matto.

Apri la finestra. L’aria è frizzante, ti riempi i polmoni, la tua terra oggi, proprio quando ti senti più pronto a salutarla, forse per qualche anno, forse per sempre, ti sembra più bella. Vai al computer, studi i voli. Rileggi la mail del professore di Berlino che è interessato al tuo progetto. Al momento di fare click, prenota, ti fermi. Ti guardi intorno, nervoso. Perché non ci riesci. Frustrazione, rabbia, stavolta ce l’hai con te stesso.
La sera esci con gli amici, due birre, queste lo sai che ti rilassano senza doverne cercare conferma sui libri. Parlate di ragazze, musica, calcio, niente argomenti pesanti. Torni a casa, ti metti a letto. Sogni.

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